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140 anni delle truppe alpine - Sezione di Milano

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140 anni delle truppe alpine - Sezione di Milano
140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE Associazione Nazionale Alpini
Sezione di Milano
a cura della Redazione di “Veci e Bocia”
periodico della Sezione di Milano dell’ANA
Settembre 2012
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE Dal 1872 …
… 140 anni di arduo dovere
Per prepararci al 140° di costituzione delle Truppe Alpine abbiamo pubblicato
nel numero 2 del 2012 di “Veci e Bocia” un inserto speciale tutto dedicato
all’importante ricorrenza.
In quell’inserto abbiamo proposto alcuni testi che ben descrivono noi Alpini, la
nostra ragione di esistere, il nostro modo di essere e i nostri valori. Abbiamo ricordato
l’importante figura di “Papà” Perrucchetti, raccontando alcune curiosità su posti molto
lontani del nostro pianeta nei quali gli Alpini hanno compiuto il proprio dovere e
ricordando i tempi drammatici della guerra di ieri con una testimonianza storica dal
fronte albanese del 1940, e quella di oggi con la lettera di Matteo Miotto.
La storia, la letteratura e la cultura degli Alpini riempiono intere librerie e non si
poteva di certo riuscire a trattare tutti gli aspetti che caratterizzano noi Alpini in poche
pagine. Abbiamo così cercato di raccogliere l’essenziale per dar modo di capire
meglio l’attualità degli Alpini e dei nostri valori in questi “140 anni di arduo dovere”.
Da quel lavoro è venuta l’idea di questa pubblicazione in modo da poter dare ai
nostri Soci e ai nostri quadri (Consiglieri, Capigruppo e Responsabili delle tante realtà
operative dell’ANA) uno strumento agile e pratico che può essere facilmente
stampato e utilizzato nelle tante attività divulgative per far meglio conoscere gli Alpini
e la grande famiglia verde dell’Associazione Nazionale Alpini.
Speriamo di esserci riusciti e buona lettura.
Gianni Papa
Sezione ANA di Milano
Direttore responsabile di “Veci e Bocia”
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE INDICE
1. INTRODUZIONE ..................................................................................................... 4 2. GLI ALPINI NELLA STORIA D’ITALIA .................................................................. 5 2.1) Legati alla storia nazionale ............................................................................ 5 2.2) Il reclutamento territoriale.............................................................................. 6 2.3) Figli della montagna ....................................................................................... 7 3. IL NOSTRO SIMBOLO: IL CAPPELLO ................................................................. 9 4. COS’È L’ALPINITÀ............................................................................................... 11 5. I NOSTRI VALORI OGGI ...................................................................................... 12 6. L’“INVENTORE” DEGLI ALPINI .......................................................................... 13 6.1) Ritratto di Giuseppe Domenico Perrucchetti ............................................. 13 6.2) Il monumento a Perrucchetti ....................................................................... 15 7. GLI ALPINI NEL MONDO ..................................................................................... 16 7.1) Gli Alpini in Cina contro i “boxer” ............................................................... 16 7.2) … e sui ghiacci del Polo Nord ..................................................................... 17 8. ALPINI IERI E OGGI ............................................................................................. 19 8.1) “Il diario nella valigia azzurra”..................................................................... 19 8.2) Alpini di ieri e Alpini di oggi......................................................................... 21 9. E RICORDIAMO I NOSTRI MULI ......................................................................... 22 9.1) Il mulo Idro .................................................................................................... 22 10. 140 ANNI DI STORIA DAI FRANCOBOLLI DEDICATI AGLI ALPINI ............... 24 In prima pagina vedete il logo ideato da Riccardo Talleri che ha accompagnato i numeri di
“Veci e Bocia” del 2012 per i 140 anni di costituzione delle Truppe Alpine.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 1. INTRODUZIONE
R
iassumere tutti questi anni è compito certamente difficile: sono stati anni tutti densi di
pagine di storia scritta con il sangue degli Alpini. Quante migliaia di uomini, di giovani, hanno
indossato il Cappello Alpino in guerra e in pace!
E anche oggi, tutte le volte che può incontrare i propri commilitoni, l’Alpino ne è felice perché
può mostrare il proprio Cappello Alpino.
Siamo nati undici anni dopo l’unità d’Italia e da subito abbiamo ispirato simpatia e
ammirazione per il modo semplice, ma concreto, di affrontare ogni situazione, anche le più
difficili. Pensiamo per un attimo a come gli Alpini nella Prima Guerra mondiale si siano
adattati per affrontare l’impari lotta con la natura, abbarbicati sulle creste e sulle pareti.
Pensiamo ai nostri Alpini che sul Don costruirono vere e proprie cittadelle sotterranee per
resistere al freddo inverno russo.
In ogni dove gli Alpini hanno onorato la propria divisa e la propria bandiera. Il più delle volte
malvestito, con le fasce gambiere o con gli scarponcelli di vacchetta, l’Alpino non si è mai
tirato indietro dal giuramento prestato e dal proprio dovere di soldato d’Italia. Anche quando
le avverse fortune politico-militari o gli errori dei comandi facevano presagire immani disastri
di vite umane, l’uomo Alpino è stato sempre pronto a dare il suo contributo e a trovare la
forza di ripartire ricominciando l’opera di ricostruzione morale e materiale con cocciutaggine e
determinazione. Il valore del singolo lo abbiamo visto su tutti i fronti: dalla nascita del Corpo
nel 1872 ai nostri giorni in Afghanistan. Per questo l’Italia deve molto agli Alpini: sempre i
primi sul fronte della solidarietà, dell’Amor di Patria, del rispetto delle leggi e delle istituzioni.
Sempre rispettosi per essere rispettati.
Dalla originaria idea di Papà Perrucchetti sarebbe poi scaturita questa nostra Associazione
Nazionale Alpini.
Forse Perrucchetti non si immaginava che, dopo centoquaranta anni, i suoi Alpini sarebbero
stati vivi e vegeti come non mai. Sempre pronti a rinnovarsi e a mettersi in gioco nei momenti
di cambiamento delle condizioni politico-militari. Dopo la sospensione della leva obbligatoria
– ultima grande palestra educativa – noi Alpini abbiamo continuato a operare nel solco della
tradizione che si adatta alle novità, ma che mai farà venir meno il contributo delle proprie
Sezioni e dei propri Gruppi nel fare, nell’aiutare, nell’anticipare il futuro. Basta ricordare come
nacque la nostra Protezione Civile dopo la ricostruzione del Friuli e lo sviluppo che la stessa
ha avuto fino ai giorni nostri: i nostri interventi non si contano più e tutti ci cercano perché
conoscono la nostra serietà.
Dopo 140 anni possiamo quindi ancora dire che anche Papà Perrucchetti – a cui va il nostro
grazie postumo - ha di che essere orgoglioso della sua creatura, potendo da lassù verificare,
insieme a tutti i nostri Caduti eroi, quanto ancora possono e devono fare gli Alpini in armi e gli
Alpini in congedo, oggi più che mai uniti nell’affermare la difesa del Corpo degli Alpini con il
celebre motto: “Di qui non si passa”.
Luigi Boffi
Presidente della Sezione di Milano
dell’Associazione Nazionale Alpini
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 2. GLI ALPINI NELLA STORIA D’ITALIA
Vi siete mai chiesti quale sia la ragion d’essere degli Alpini? O quali siano le motivazioni che
stanno alla base del carattere originale degli Alpini e che motivano la nostra compattezza e il
nostro voler stare insieme? Sapete dare sempre una risposta corretta a queste domande che
talvolta ci vengono poste da esterni all’Associazione?
Nel bel testo che qui riportiamo, lo scrittore e storico Gianni Oliva ha ben individuato e
descritto le ragioni storiche e sociali che permettono di comprendere come mai in Italia
questo corpo dell’Esercito abbia avuto sin dal suo esordio un carattere unico, peculiare e
inconfondibile, che ha costituito la base di una solida tradizione e di una vera e propria
cultura.
Il testo che riportiamo comprende le prime parti del lavoro “Gli Alpini nella storia d’Italia” che è
stato pubblicato a puntate sul nostro mensile “L’Alpino”.
2.1) Legati alla storia nazionale
Sono indissolubilmente legati alla storia nazionale, nati dopo che l’Italia era fatta ma
in tempo per fare gli italiani. Quando gli alpini nascono, nel 1872, l’Italia è già fatta. Undici
anni prima, il 17 marzo 1861, è stata proclamata l’unità; due anni prima, il 20 settembre 1870,
è stata conquistata Roma.
Eppure non si riesce a pensare alla storia d’Italia senza pensare agli alpini: anche se non
hanno partecipato direttamente alle guerre di indipendenza, anche se non hanno attraversato
di corsa la breccia di Porta Pia, gli alpini sono indissolubilmente legati alla storia nazionale, di
cui rappresentano parte integrante e costitutiva.
Che cosa, dunque, hanno fatto gli alpini per penetrare tanto profondamente nell’immaginario
collettivo e per permeare così a fondo la “memoria” nazionale?
La risposta non è difficile: se sono nati quando l’Italia era ormai fatta, gli alpini sono però nati
in tempo per “fare gli Italiani”. È celebre la frase con cui Massimo D’Azeglio fotografava il
primo problema che la classe dirigente del nuovo stato si trovava di fronte: “Fatta l’Italia,
bisogna fare gli italiani”. Era il ritratto di un Paese che proveniva da storie diverse, che
parlava lingue diverse, che aveva economie diverse, un Paese che era diventato “stato”
prima di diventare “nazione”. Ecco, gli alpini hanno dato un contributo importante in questa
direzione: sono stati uno degli strumenti attraverso cui è stata veicolata l’idea di Italia.
Per capire “come” e “perché” questo è avvenuto bisogna ripercorre la storia del Corpo a
partire dalla sua costituzione. All’origine di tutto vi è l’intuizione di un brillante ufficiale di Stato
Maggiore, il capitano di fanteria Giuseppe Domenico Perrucchetti, che sulla “Rivista Militare”
del maggio 1872 scrive un saggio intitolato “Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini
e proposta di un ordinamento militare territoriale della zona alpina”. Perrucchetti è un
esponente di quella classe dirigente nazionale che negli anni del Risorgimento guarda a
Torino come guida della nazione: lombardo, originario di Cassano d’Adda (e come tale
cittadino austriaco), egli nel 1859 lascia ventenne la Lombardia e si arruola volontario nelle
truppe del regno di Sardegna: nel 1861 diventa sottotenente di fanteria, nel 1866 partecipa
alla terza guerra di indipendenza e ottiene la promozione a capitano.
Pur non essendo cresciuto in montagna, Perrucchetti coglie bene le esigenze poste dai nuovi
confini nazionali, che corrono in gran parte sul crinale alpino.
In caso di attacco nemico, la mobilitazione prevede che le truppe si concentrino nei depositi
di pianura, si inquadrino nei diversi reggimenti e poi vengano mandate verso i passi alpini per
fermare l’aggressione: la complessità della mobilitazione è però tale che, con un attacco di
sorpresa ben congegnato, i nemici possono arrivare all’imbocco della pianura prima che il
Regio Esercito abbia il tempo materiale di inquadrarsi e di raggiungere i passi.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE Dunque, scrive il Perrucchetti, occorre disporre di truppe specializzate nella difesa alpina,
abitualmente dislocate nelle alte valli di collegamento, pronte a contrastare il nemico
respingendolo o, quanto meno, rallentandone l’azione.
Stabilito il principio della difesa in quota, si tratta però di individuare i soldati più idonei.
La montagna della seconda metà dell’Ottocento non è un paesaggio abituale come oggi,
percorso da strade comode e disseminato di centri turistici: all’opposto, è una montagna
severa, in parte ancora inviolata, coperta da ghiacciai, attraversata solo da sentieri o da
mulattiere. Mandare in quell’ambiente giovani cresciuti in pianura sarebbe militarmente
fallimentare: in quota servono soldati abituati a muoversi sui terreni accidentati, a resistere
alle temperature rigide, ad arrampicarsi su pendii impervi.
Di qui la proposta di Perrucchetti (che oggi sembra logica e banale, ma che al tempo risultò
rivoluzionaria): affidare la difesa alpina a soldati nati e cresciuti in montagna, pratici dei luoghi
sin dalla giovinezza, e sicuramente motivati nel caso in cui dovessero difendere da
un’aggressione nemica i propri cari e i propri beni.
Il ministro della guerra in carica, il generale Cesare Ricotti Magnani, legge con interesse il
saggio del Perrucchetti. Egli è un piemontese appassionato di montagna (nel 1864, insieme a
Quintino Sella, ha fondato il Club Alpino Italiano), sa che i nuovi confini richiedono un
aggiornamento del modello di difesa e sa che in materia militare le decisioni devono essere
tempestive. Senza frapporre indugi, il ministro inserisce la costituzione di 15 nuove
compagnie distrettuali permanenti (per un totale di duemila uomini) negli allegati del Regio
Decreto n. 1056 del 15 ottobre 1872, che prevede l’aumento dei Distretti Militari: una
proposta avanzata in primavera trova così realizzazione già nell’autunno successivo.
I nuovi reparti vengono chiamati “compagnie alpine” ed hanno due “padri fondatori”: un
politico efficiente come il generale Ricotti, uno studioso intuitivo come il capitano Perrucchetti.
2.2) Il reclutamento territoriale
Reclutamento territoriale, una splendida eccezione. Per fare l’alpino bisogna essere
montanari. L’indicazione di Perrucchetti era chiara e condivisa da tutti: non si potevano
mandare sulle Alpi giovani cresciuti in città o in pianura, disabituati all’altitudine, al clima e al
terreno. Questo significava però introdurre un principio “rivoluzionario” nell’ordinamento
militare italiano, perché si faceva un’eccezione al principio del “reclutamento nazionale” e si
ricorreva al “reclutamento territoriale”.
Per capire la portata di questa innovazione, bisogna tener conto che nell’Ottocento gli eserciti
non servivano soltanto per fare la guerra: servivano anche (e forse ancor più) per mantenere
l’ordine pubblico. In caso di manifestazioni di piazza, occupazione di latifondi, proteste
popolari non c’erano carabinieri o poliziotti in numero sufficiente per intervenire a ripristinare
l’ordine: bisognava ricorrere ai reparti del Regio Esercito.
La prima grande emergenza dell’Italia unita, il cosiddetto “brigantaggio meridionale”, aveva
infatti visto la mobilitazione dell’esercito, con i reggimenti di bersaglieri e di fanteria impegnati
nella repressione. Da questa esigenza operativa era derivata la decisione degli Stati Maggiori
di ricorrere al reclutamento nazionale. Come sarebbe stato possibile chiedere ad una giovane
recluta siciliana di intervenire contro i braccianti di Catania o di Palermo che occupavano le
grandi proprietà lasciate incolte? O chiedere ad una giovane recluta ligure di reprimere gli
scioperi dei lavoratori portuali genovesi? Anziché usare manganello o fucile, ognuno di loro
avrebbe solidarizzato con i manifestanti, perché appartenevano al suo stesso mondo, alla
sua stessa cultura, alla sua stessa comunità. I reggimenti vennero così formati con coscritti
che provenivano da due regioni diverse e prestavano servizio in una terza regione.
Se pensiamo alle condizioni del tempo, ai tassi di analfabetismo, all’uso pressoché esclusivo
dei dialetti, alle differenze tra un territorio e l’altro, è facile comprendere come un soldato
piemontese o veneto di stanza in Puglia non avesse nessun rapporto con la popolazione
civile, così come un calabrese non aveva nessun rapporto quando veniva mandato in servizio
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE in Toscana o nelle Marche. Questa impermeabilità alle influenze esterne, rendeva possibile
l’impiego dei reparti in ordine pubblico: non avendo nessuna relazione fuori della caserma,
spesso non riuscendo neppure a comprendere il linguaggio, il coscritto aveva la sensazione
di reprimere degli estranei, non dei cittadini della sua stessa “gente”.
La proposta di reclutamento territoriale per le truppe alpine faceva venire meno questo
principio. Che cosa sarebbe accaduto se fosse stato necessario chiedere ad una compagnia
di alpini del Cuneese di intervenire con le armi per riportare l’ordine in Val Varaita o in Val
Maira? Come sarebbe stato possibile “fidarsi” di coscritti nati e cresciuti nelle stesse vallate in
cui prestavano servizio? La risposta degli Stati Maggiori fu tempestiva e perspicace.
Gli abitanti delle Alpi – questo fu il ragionamento – non pongono problemi di ordine pubblico:
si tratta di una popolazione socialmente tranquilla, fedelmente monarchica, cattolica,
conservatrice, basata sulla piccola proprietà terriera, priva di contrasti di classe; una
popolazione che non ha mai dato problemi e verso la quale non sarà mai necessario
impiegare la forza. Dunque, si possono ben creare reparti reclutati nelle stesse vallate dove
operano, prendere i giovani montanari e vestirli con la divisa da alpino: tanto, non dovranno
mai alzare il fucile contro i propri compaesani! Da questa scelta strategica sono derivate
conseguenze che nel 1872 nessuno (né il ministro Ricotti, né il capitano Perrucchetti) aveva
immaginato. Il reclutamento territoriale ha infatti garantito l’originalità delle Truppe alpine, ha
determinato una solidarietà tra soldati e popolazione che nessun altro Corpo ha conosciuto,
ha inciso sui rapporti tra soldati e ufficiali all’interno dei reparti, ha dato compattezza alle
compagnie: in altre parole, ha garantito agli Alpini, sin dai loro esordi, un’anima e un tratto
peculiari ed inconfondibili.
2.3) Figli della montagna
Figli della montagna e delle vallate alpine. Le conseguenze del reclutamento territoriale
sono numerosissime e spaziano dai legami interni ai reparti, al rapporto tra alpini e
popolazione civile, alla relazione tra istituzione militare e territorio.
In primo luogo, i reparti: quando un coscritto viene arruolato in una compagnia alpina, in
caserma non trova dei “commilitoni” ma dei “compaesani”. Molti di loro li conosce già, li ha
incontrati da bambino a scuola, li ha rivisti nella piazza del paese, la domenica dopo la
Messa, al ballo a palchetto; altri li incontra ora per la prima volta, ma sono ragazzi che
parlano il suo stesso dialetto, conoscono gli stessi campanili e gli stessi orizzonti, sono
cresciuti nella stessa vallata. Questa comunanza di tradizioni e di cultura stabilisce fra gli
alpini un legame molto più forte rispetto ad altri Corpi: è un legame tra “uomini” prima che tra
“soldati”, un vincolo preesistente alla vita militare.
La compattezza delle compagnie alpine, riconosciuta e sottolineata da tutti gli esperti militari,
nasce da qui, da una solidarietà istintiva tra figli delle stesse montagne e delle stesse vallate.
L’esempio più evidente e drammatico è la ritirata di Russia dell’inverno 1942/43: le Divisioni
di alpini hanno migliaia di vittime (come i fanti, come le armate ungherese e romena) ma
sono le sole che conservano l’unità dei reparti e a Nikolajewka giungono con compagnie e
plotoni decimati, eppure ancora uniti.
La ragione è insieme semplice e profonda: nel compagno che cade a terra stremato dalla
fame e dal freddo, l’alpino non vede un commilitone conosciuto qualche mese prima in
caserma, ma un compaesano con cui è cresciuto, uno di cui conosce i genitori, le sorelle, la
casa. Aiutarlo a rimettersi in piedi, mantenersi stretti l’un l’altro, incoraggiarsi pensando a
quando “ariverem a baita”, è un modo per difendere la propria comunità e, insieme, la propria
identità.
In secondo luogo, il reclutamento territoriale incide sul rapporto con la popolazione civile. Per
gli abitanti delle vallate gli alpini non sono “soldati”, giovani in divisa che parlano dialetti
incomprensibili e vivono chiusi nei recinti delle piazze d’armi: gli alpini sono i “bocia”, i figli
della comunità, i coscritti partiti ancora “ragazzi” per la leva e destinati a tornare già “adulti”.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE E la caserma non è percepita come un luogo lontano e straniero, ma come l’edificio dove ieri
hanno indossato la divisa i nonni, poi i padri, oggi i figli, domani i nipoti e i pronipoti; un luogo
dove molti, dopo il congedo, torneranno come volontari, chi per una manutenzione elettrica,
chi per un lavoro di carpenteria, chi per un intervento idraulico.
In questo modo, il periodo del servizio di leva alpina diventa una proiezione della vita civile,
una delle esperienze che scandiscono l’esistenza della comunità: e la caserma è un
patrimonio del territorio, come il municipio, la scuola, l’ufficio postale.
In terzo luogo, l’immagine del Corpo. L’alpino si caratterizza da subito come un montanaro,
che nell’attività militare propone le stesse virtù e le stesse attitudini della gente di montagna:
la pazienza, la tenacia, la rassegnazione, la resistenza, la pacatezza.
Come scriverà nel 1920 Piero Jahier in “Con me e con gli alpini”, il soldato alpino è prima di
tutto un uomo della montagna: “Perché gli alpini curano tanto le robe, mentre spreca il
soldato cittadino? Perché il montanaro che deve creare ogni cosa ha rispetto alla cosa
creata: sa che è fatica creare: e dunque conserva la cosa creata, la spende lentamente, la
ripara, l’ama. Perché gli alpini sono tanto disciplinati? Perché loro padrone è la montagna che
è autorità assoluta. Dall’alto viene, indiscutibile, il tuo bene e il tuo male. Perché gli alpini
combattono così bene? Perché credono alla forza del montanaro e il loro lavoro è un
combattimento con la natura. Perché sono così rassegnati? Perché considerano i mali della
società come i mali della natura: sono mali eterni e imprevedibili i mali della natura, e nulla
vale la ribellione. Tu non ti ribellerai perché le rupi cancellano in un attimo il campetto tentato.
Tu non distruggerai perché la valanga distrugge. A te tocca riparare e conservare. Tu non
offenderai perché l’ingiustizia ha offeso. A te tocca patire e riparare”.
Gianni Oliva – “L’Alpino”
Paolo Caccia Dominioni vedeva così l’evoluzione delle nostre divise
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 3. IL NOSTRO SIMBOLO: IL CAPPELLO
Dopo aver descritto la ragion d’essere e le caratteristiche degli Alpini, proseguiamo il
percorso introduttivo al 140° della fondazione delle Truppe Alpine passando a parlare del
simbolo principale di noi Alpini: il nostro cappello.
Crediamo che non ci sia miglior testo sul cappello alpino di questo, scritto da Giulio Bedeschi
in “Centomila gavette di ghiaccio”.
=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o=o
E
rano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della “Julia”; solamente, come tutti gli Alpini,
portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all’indietro sollevata e in avanti ricadente,
ornato di una penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d’aquila; ma in effetto gli
alpini, ignari d’ogni complicazione e spregiatori di ogni retorica, collocavano sopra l’ala penne
di corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio li facesse
imbattere lungo le vie della guerra, nere o d’altro colore purché fossero penne lunghe e diritte
e stessero ad indicare da lontano che s’avanzava un alpino.
In pratica la penna sul cappello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si
riduceva a un mozzicone malconcio; e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano
la guerra: perché, a osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini
potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse;
anzi!
È un tutt’uno con l’uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il
cappello resta al posto d’onore nelle baite alpestri come nelle case di città, distaccato dal
chiodo o levato dal cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio per
ritrovarsi tra alpini o per imporlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o
addirittura dell’ultimo nipote, per vedere quanto gli manca da crescere e se sarà un
bell’alpino; bello poi, a questo punto, significa somigliante al padre o al nonno, che è il
padrone del cappello.
C’è una ragione, naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte.
La prima è che dal momento in cui il magazziniere lo sbatte in testa al “bocia” giunto dalla
sua valle alla caserma, il cappello fa la vita dell’alpino; sembra una cosa da niente, a dirlo,
ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede
allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro d’Africa, l’alpino non conosce caschi
di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo bravo cappello di feltro bollente,
rivoltandolo tutt’al più all’indietro affinché l’ala ripari la nuca, e l’ampia tesa dinnanzi agli occhi
non dia l’impressione di soffocare; e con la pioggia serve da ombrello e da grondaia; con la
neve, da tetto unico e solo per l’alpino che va sui monti.
Posto in bilico tra naso e fronte quando l’alpino è sdraiato a dormire al sole e all’aria ed ha
per letto le pietre o il fango, con la piccola striscia d’ombra che fa schermo sugli occhi è
quanto resta dei ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col
raccolto tepore fa chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza
riparata e delle imposte serrate a far più fondo il sonno.
E se l’alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per
attingere acqua quando c’è ressa attorno al pozzo o si balza un istante fuori dai ranghi,
durante le marce, verso il vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che
vogliono il capitano e il medico, la pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo – non si
scandalizzi nessuno, succede, succede! - nei casi in cui l’ultima latta finisce i suoi servigi
sotto una raffica di mitraglia.
È tanto amico e compagno il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l’elmetto, in
trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l’acciaio, siamo d’accordo, ma
è proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più alpini, e pare che il
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE fischio rabbioso debba passare sempre due dita più in là, per non bucarlo; è così che
dall’altra parte il nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal
ridotta che, a vederla riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra
che venga a fare il solletico sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l’inferno e
farla finita una buona volta, ma fa anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai, questi
maledetti alpini!
È tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma
di alpini e di cappelli come il loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai
monti d’Italia. Ci vuole pazienza, bisogna prenderli come sono, come il buon Dio li ha voluti,
l’uno e l’altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po’ troppe arie per via di quella
penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa
usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di
terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un
mucchio di bende e non calza più perché la testa del padrone, sotto, s’è mezza sfasciata per
fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della
vita, e a calarselo di nuovo un po’ di traverso tra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli
anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla
testa, vuol dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro
che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo,
un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuore così; sta a dire che morto il
padrone vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non
riesce neppure lui a ridestare l’alpino disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino
alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di
meno sulla terra. A non voler contare il figlio che, polpacciuto e tracagnotto, brontolone e
testardo com’è, vien su tal quale il suo padre buonanima; e già al passo si vede che sta
crescendo giorno per giorno “penna nera” senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei conti; tutti
alpini spaccati, figli della montagna dura e selvosa che dà la vita e la toglie a suo piacimento,
o la regala al piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta
quindi i suoi uomini di durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le “penne nere”; che per la loro
terra e l’intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d’Italia.
Giulio Bedeschi
Ago, filo, colla... e l’ala del cappello regge ancora, a dispetto del feltro ormai disfatto!
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 4. COS’È L’ALPINITÀ
In questa piccola rassegna di testi preparatori al 140° delle Truppe Alpine parliamo di un
tema a noi molto caro: l’alpinità.
È una parola che troviamo spesso nella nostra stampa e sulla quale crediamo che ci siano
troppe interpretazioni soggettive.
Ma cos’è allora l’alpinità? La risposta la possiamo trovare in questo bel testo che Vitaliano
Peduzzi scrisse sul numero 2 del 1992 di “Veci e Bocia” come commiato dai lettori del
giornale e nel quale egli ci descrive bene il senso di quella parola introdotta proprio da lui nel
vocabolario degli Alpini.
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In questo anno 1992 ho la fortuna di festeggiare i sessanta anni di iscrizione all’ ANA, oltre
che i 62 di penna. Il che implica evidentemente che la mia età è così avanzata da suggerire
imperiosamente di cedere spazio e soprattutto lavoro a forze fresche. Mi sembra una
motivazione, questa, così valida da dispensare dal cercarne altre.
Lascio quindi la direzione di “Veci e Bocia”, dopo parecchi anni di servizio (è un servizio
verso la nostra Associazione, non una vanità personale) e nell’occasione desidero esprimere
un affettuoso ringraziamento a quanti hanno lealmente e proficuamente collaborato in questi
anni nella redazione del nostro giornale: in prima fila Romano Brunello e con lui Gabriele
Rognoni, Iginio Basso, Daniele Pellizzoni, Gigi Bressan.
In una lunghissima vita, è normale imparare. E chi ha imparato, credo abbia il dovere di
coscienza di mettere a disposizione degli altri la sua esperienza.
Eccovi qualche considerazione: viviamo in tempi burrascosi sotto molti aspetti.
Ma non facciamo la solita lagna: ogni generazione ha avuto i suoi aspetti burrascosi, in modo
relativo ai tempi.
Proprio l’esperienza mi ha insegnato che - burrasca o bonaccia - ci sono dei valori che
contano più di tutto, più dell’utilità, più della convenienza, più del successo momentaneo:
sono la lealtà, la fedeltà nell’amicizia, il rispetto della legge morale e del dovere, lo spirito di
servizio.
Virtù che non abbiamo certo in esclusiva noi alpini, ma che per noi costituiscono l’alpinità,
che non è un modo di avere fatto la naja, ma è una virtù, un atteggiamento dell’animo.
È una virtù che aiuta anche ad accettare e superare dispiaceri e amarezze, che
inevitabilmente ci sono. Come ci sono i rospi: e quella virtù insegna a sputarli, invece di
mandarli giù. Sono indigeribili. Ad ognuno di noi è capitato almeno una volta di pensare che
fosse conveniente essere o fare il “furbo” mettendo a tacere lealtà, amicizia, morale. Ebbene,
nei tempi lunghi quella furberia ti ritorna come un cibo indigesto, ti infastidisce nella memoria.
In nessun altro settore della mia vita pur così intensa, ho dedicato entusiasmo e tenacia,
mente e cuore, come li ho dedicati all’essere alpino, al vivere in alpinità totale le mie vicende
umane e nessun settore mi ha gratificato in modo così personale e intimo; anche al di là dei
fatti. Nella vita di un uomo - soggetto a tanti e tanti interventi esterni - è di primaria
importanza sapersi giudicare e quindi comportarsi in modo da poter essere soddisfatti di sé,
anche nei dettagli, anche nelle cose umili e semplici, anche e forse soprattutto in quelle cose
(pensieri e comportamenti) che soltanto il protagonista conosce.
L’alpinità è la pratica di tutti i giorni: come tutte le cose essenziali, è semplice. Ma va
rispettata e vissuta tutta, proprio perché è un valore autonomo, che ricompensa con il solo
fatto di viverla.
Non sono parole, cari amici alpini: riflettete un poco e vedrete che tutti Voi avete vissuto e
vivete questo stato d’animo, che in fin dei conti è quello che ci consente, in linea di principio,
di trovarci bene fra di noi. Non perché siamo “diversi” dagli altri, ma perché una certa nostra
positiva uguaglianza di fondo, uguaglianza fra di noi, ci fa star bene insieme.
Nel salutarVi prendendo commiato, sento di doverVi offrire questa testimonianza.
Vitaliano Peduzzi
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 5. I NOSTRI VALORI OGGI
Spesso parliamo dei nostri valori: vi riproponiamo un testo del nostro direttore che li aveva
elencati e descritti in un editoriale pubblicato su “Veci e Bocia” nel 2008.
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Uno degli aspetti che più caratterizza noi Alpini è il forte senso di appartenenza all’Associazione e al proprio Gruppo. Ci troviamo bene tra noi perché pur nelle nostre tante singolarità
sentiamo di avere qualcosa di comune. In un mondo dominato dalla diffidenza a noi viene
facile stare insieme, lavorare, cantare e i nostri raduni e le adunate sono per tutti un esempio
di pacifica convivenza
Noi siamo uniti perché abbiamo dei valori comuni: amiamo la nostra terra e la nostra gente,
cantiamo senza pudori l’inno nazionale e abbiamo il senso del dovere che per noi è l’impegno
morale a dare in ogni occasione il nostro ordinato e generoso contributo senza tirarci indietro.
Per noi sono importanti l’amicizia, l’onestà, la serietà e la lealtà nel mantenere la parola data.
Siamo coraggiosi e diamo solidarietà perché andando per le nostre montagne abbiamo
imparato che per arrivare in vetta non si deve avere paura, bisogna essere generosi di se
stessi e solidali con i compagni di cordata.
Noi riconosciamo che l’avere fatto il servizio militare ci ha formati e aiutato a diventare buoni
cittadini, e che il patrimonio di esperienza dei nostri anziani è un capitale da cui abbiamo ogni
giorno qualcosa da imparare.
Noi ci sentiamo galantuomini perché abbiamo la dignità che viene dalla coscienza di avere
sempre compiuto con serenità il nostro dovere, e perché abbiamo anche la forza e la
determinazione per perseguire i nostri ideali rispettando le “regole del gioco” della società
civile.
Questa che sembra una descrizione a forti tinte romantiche di un modello umano
ottocentesco è invece quanto noi oggi veramente proviamo. È l’orgoglio dell’appartenenza
alla nostra stupenda Associazione: grande e magnifica famiglia, solido pilastro morale della
società italiana.
Gianni Papa
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 6. L’“INVENTORE” DEGLI ALPINI
6.1) Ritratto di Giuseppe Domenico Perrucchetti
N
el 1989 gli Alpini del Gruppo di Cassano d’Adda fecero pubblicare un volume per far
conoscere la vita e l’attività di questo brillante ufficiale di Stato Maggiore, loro concittadino:
l’autore del volume è Gino Ascani, già Capogruppo di Cassano d’Adda e vero stimatore del
Generale Perrucchetti.
A questa pubblicazione Vi rimandiamo per avere tutte le notizie storiche e più dettagliate su
colui che fu definito “generale di armi e di scienza” e ritenuto l’ideatore delle Truppe Alpine.
Il testo dell’articolo è tratto dal sito del Gruppo, www.anacassanodadda.it.
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Giuseppe Domenico Perrucchetti, nacque a Cassano d’Adda il 13 luglio 1839 da famiglia
benestante cassanese. I genitori avrebbero voluto farne un architetto, ma non fu così: il
padre, Giuseppe, (1779-1847) era uno stimato ingegnere e, tre le varie opere, aveva
realizzato la ricostruzione del ponte di Cassano sull’Adda. La madre Margherita Manzoni
(1800-1877) era cugina del poeta Alessandro Manzoni.
Egli aveva due fratelli Carlo (1826-1862) ed Emanuele (1832-1903) che parteciparono a tutte
le lotte del Risorgimento, combattendo come ufficiali di Stato Maggiore anche agli ordini di
Garibaldi.
Il giovane Giuseppe frequentò il ginnasio nel collegio di Cassano d’Adda, collegio che gli fu
da scuola anche di acceso amor patrio (basti ricordare che nel 1848, la prima bandiera
Tricolore che sventolò a Cassano, mentre gli Austriaci erano ancora a Milano, fu quella issata
dai convittori del collegio-ginnasio sul campanile della Chiesa di Sant’Antonio).
Nel 1857 Perrucchetti conseguì la maturità liceale all’Imperial Regio Collegio Sant’Alessandro
di Bergamo e successivamente si iscrisse alla facoltà di ingegneria all’Università di Pavia.
Nel 1859, a vent’anni, abbandonò la vita tranquilla dello studio e scappò dalla Lombardia,
allora sotto il dominio austriaco, e si rifugiò nel Piemonte dei Savoia.
Arruolatosi volontario combatté nel 1859 nelle truppe del Regno di Sardegna nella Seconda
guerra d’Indipendenza. Nel 1861 divenne sottotenente presso la Regia Militare Accademia di
Ivrea prestando servizio al XXIV Reggimento di Fanteria e nel 1866 si guadagnò la medaglia
d’argento al Valor Militare alla Battaglia di Custoza e la promozione al grado di Capitano.
Durante la Battaglia incontrò molti cassanesi: Branca, Berva, Villa, Cernuschi e Carlo Bazzi
padre di Giulio uno dei futuri cofondatori dell’ANA.
Successivamente passò alla Scuola di guerra di Torino dove rimase fino al 1885. In questi
anni, sfruttando la sua competenza in lavori di topografia, cominciò le sue continue, segrete e
pericolose escursioni oltre confine allo scopo di studiare il terreno, gli usi ed i costumi di
quelle popolazioni con noi confinanti: tutte le cognizioni che egli acquisì risulteranno poi molto
utili durante la Prima Guerra Mondiale.
Nel 1871, col grado di Capitano dello Stato Maggiore pubblicò il volume Tirolo nel quale
riportò “…alcune considerazioni sull’ordinamento territoriale della Zona Alpina …vaticinando
la costituzione di Compagnie Alpine autonome ed autosufficienti, capaci di difendere ognuna
la propria vallata.”
Il Generale Cesare Francesco Ricotti Magnani, allora Ministro della Guerra, si appassionò
alle teorie di Perrucchetti e gli fece sviluppare il progetto, in unione ai Generali Parola e
Mariola dello Stato Maggiore ed il 15 ottobre 1872 fu promulgato il Decreto Reale che istituiva
le “Compagnie Distrettuali Alpine”.
Nacquero così, non senza polemiche, i primi reparti alpini.
Diventato uno stimato ufficiale presso i Reali, fu nominato “maestro - governatore” dei principi
reali ed il 27 maggio 1884 divenne precettore di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE Nel 1877 fu promosso al grado di Maggiore, nel 1890 a quello di Colonnello. Nel 1895
diventò Generale di Brigata e nel 1900 Tenente Generale. Il 13 luglio 1904, con suo enorme
disappunto, fu posto in “posizione ausiliaria” (congedo) per raggiunti limiti di età.
Il 17 marzo 1912 per “motu proprio” il Re lo nominò Senatore del Regno.
Fu insignito di diverse onorificenze: da Cavaliere a Grand’Ufficiale della Corona d’Italia e da
Cavaliere a Grand’Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Rifiutò sempre le varie proposte di onorificenze straniere.
È interessante e curioso notare che Perrucchetti non fu mai Alpino, cioè non mise mai il
cappello con la penna e che il Corpo degli Alpini, istituito per difendere il confine montuoso
delle Alpi, ebbe invece il suo battesimo del fuoco in terra africana, nella Battaglia di Dogali
(1887) presso il presidio militare italiano di Saati nella 1° campagna d’Africa orientale (Eritrea
- Etiopia).
Il Generale Perrucchetti divise gli ultimi anni della sua vita fra la casa di Cassano d’Adda
(Casa Somalia) e la piccola villa che aveva acquistato a Cuorgné, per essere vicino a Torino
dove insegnava alla Scuola di guerra.
Egli non temeva la morte, ma non l’aspettava: si spense improvvisamente il 5 ottobre 1916
all’età di 77 anni nella sua casa di Cuorgné: fu colpito da aneurisma. L’Italia perdeva, in quel
momento, uno dei suoi figli migliori.
Le esequie ebbero luogo a Cassano d’Adda, dove tutt’ora riposa, l’8 ottobre; gli recò
l’estremo saluto, oltre ai più alti gradi dell’Esercito, anche una Compagnia di Alpini costituita
da rappresentanti dei reparti combattenti al fronte giunti a Cassano per il rito funebre.
Giuseppe Domenico Perrucchetti
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 6.2) Il monumento a Perrucchetti
Voluto dall’Associazione Nazionale Alpini, progettato ed eseguito dallo scultore alpino Prof.
Timo Bortolotti, il monumento risponde perfettamente agli intendimenti che l’hanno suggerito.
Infatti nella sua creazione, l’artista ha inteso esaltare una delle opere che maggiormente
hanno messo in evidenza l’ingegno, la fede patriottica e lo spirito divinatore del Gen. G. D.
Perrucchetti: l’ideazione, cioè, delle Milizie Alpine Italiane, per la formazione delle quali il
Gen. Perrucchetti dedicò la parte migliore del suo grande intelletto e del suo fiero
temperamento di Soldato Italiano.
E lo scopo è stato pienamente raggiunto. Nel sessantesimo annuale della fondazione degli
Alpini e nel quattordicesimo della Vittoria, il monumento costituisce infatti la più degna
esaltazione tanto dell’Apostolo come delle gloriose Milizie Alpine il cui valore ha nell’ultima
guerra raggiunto i più alti vertici dell’ardimento e del sacrificio.
Oggi, ben possono gli Alpini custodire fieramente la memoria di Giuseppe Perrucchetti, e
Cassano d’Adda ospitare orgogliosa il ricordo marmoreo del suo nobile Figlio!
“Sulla parte frontale del masso cubico, ove è incastonato il busto in bronzo del Gen.
Perrucchetti, è incisa la seguente dedica:
A
GIUSEPPE DOMENICO PERRUCCHETTI
GENERALE DI ARMI E DI SCIENZA
CHE NEL SOLCO DELLA ROMANA TRADIZIONE
IDEO’ LE MILIZIE ALPINE
L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
10° REGGIMENTO
NEL LX ANNUALE DELLA FONDAZIONE DEL CORPO
– 2 ottobre 1932 –
L’inaugurazione del Monumento avvenne il 2 ottobre 1932, con la partecipazione di tanti
Alpini, dei Comandanti di tutti i Reggimenti e la viva partecipazione della popolazione
cassanese che cominciava a nutrire grandi sentimenti di amore per i suoi Alpini.
CARATTERISTICHE: Il complesso monumentale consiste in tre gradini (rappresentanti i 3
Reggimenti d’Artiglieria da Montagna), sormontati da un pianerottolo sul quale posano nove
colonne (quanti erano cioè i Reggimenti Alpini) cilindriche, alte un metro e del peso di circa
10 quintali l’una; un masso, squadrato appena, di 8 metri cubi e del peso di 240 quintali, si
eleva dall’alto delle colonne e si richiama al X Reggimento Alpini, che raccoglie nei suoi
ranghi quanti hanno militato, in guerra e in pace, nelle quadrate milizie Alpine. Nel lato
principale del blocco è raffigurata, in un riuscitissimo busto, la figura del Gen. G. D.
Perrucchetti, e nelle parti laterali è scolpito lo stemma dell’ANA; a tergo, figurano, in rilievo, i
fregi del Reggimento Alpini e di Artiglieria da Montagna. Complessivamente il monumento è
di m. 7 di lato alla base, per altrettanti d’altezza, e pesa oltre 600 quintali.”
(Tratto dal numero unico “Verdi Fiamme di Fede e di Gloria” stampato in occasione dell’inaugurazione del
Monumento)
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 7. GLI ALPINI NEL MONDO
E
rano nati per difendere le nostre vallate, ma gli Alpini già dal loro battesimo del fuoco
(avvenuto in Etiopia nel 1896 con la battaglia di Adua) sono stati impegnati un po’ dovunque
nel mondo. Attualmente operano in Afghanistan, pochi anni fa furono in Libano e in
Mozambico: ma lo sapete che furono mandati anche in Cina?
7.1) Gli Alpini in Cina contro i “boxer”
L’imbarco per la Cina, a Napoli
Nel 1900 gli Alpini vennero mandati a far la guerra in Cina. Non sono mai andati né in futuro
andranno forse mai a combattere in posti così lontani dalla patria. Quella volta le penne nere
vennero mobilitate per sedare la rivolta dei “boxer”. Non sono molti gli italiani a sapere di
cosa si tratta.
In Cina un agguerrito e fanatico gruppo di nazionalisti (chiamato dagli europei “boxer” e dai
cinesi “I-hoch’uan”, “I pugni patriottici”) contrastava le mire espansionistiche di carattere
politico-economico dei bianchi. In particolare, si volevano togliere alcune vantaggiose
concessioni ferroviarie e minerarie a ditte britanniche, francesi, tedesche, russe e
statunitensi. I “boxer” si proponevano di scacciare dal loro paese tutti gli stranieri e di
distruggere i cristiani, considerati come venduti agli stranieri.
La rivolta ebbe il suo epicentro a Pechino e culminò, il 21 giugno 1900, con l’assedio delle
legazioni diplomatiche e della cattedrale cattolica, con lo sterminio di centinaia di cristiani,
con l’uccisione dell’ambasciatore tedesco e del cancelliere della legazione giapponese.
Le cosiddette Grandi Potenze, minacciate nei loro interessi, decisero allora di ristabilire
l’ordine e si accordarono per inviare un corpo di spedizione alleato al comando del
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE maresciallo tedesco Waldersee. All’iniziativa aderì anche l’Italia. Lo decretò con megalomane
disinvoltura re Umberto I, dopo aver ascoltato il parere positivo del Consiglio dei ministri,
presieduto da Giuseppe Saracco.
Le truppe italiane dirette in Cina partirono da Napoli, a bordo di tre piroscafi, il 19 luglio 1900.
Complessivamente vennero imbarcati duemila uomini, un centinaio dei quali portavano la
penna nera sul cappello. Si trattava, per l’esattezza, di artiglieri alpini (114 uomini di truppa e
4 ufficiali) provenienti dal reggimento artiglieria da montagna di Torino, dalla 3a brigata
artiglieria da fortezza e dal 12° reggimento artiglieria di Capua. Della spedizione, al comando
di un battaglione di fanteria, fece parte anche il tenente colonnello degli alpini Tomaso Salsa.
Il corpo di spedizione italiano, comandato dal colonnello Vincenzo Garioni, giunse il 29
agosto nella rada di Taku, alla foce del fiume Pei-ho, nel mar Giallo.
Durante il viaggio, soldati e ufficiali appresero con sbigottimento del regicidio di Monza. Il
sovrano che aveva loro ordinato di partire era morto e sedeva sul trono suo figlio, il giovane
Vittorio Emanuele III.
Appena sbarcati, i reparti vennero avviati per ferrovia a Tien-Tsin per alcune operazioni di
polizia. Ai primi di novembre gli artiglieri alpini, con il grosso della nostra spedizione,
raggiunsero Pechino e rimasero qui di guarnigione e di presidio fino al maggio del 1902.
(da “Alpini storia e leggenda”)
7.2) … e sui ghiacci del Polo Nord
La pattuglia di sciatori del capitano Sora, al seguito della spedizione polare del gen. Nobile,
nei dintorni della base a Baia del Re, oltre l’80° parallelo
L’avventura degli Alpini a 81 gradi di latitudine nord sui ghiacci dell’Artico gode di una
maggiore notorietà rispetto alla spedizione in Cina.
Grazie al generoso contributo degli Alpini bergamaschi, il Museo Nazionale Storico degli
Alpini ha recentemente pubblicato un volumetto con la “Relazione sull’impiego del Drappello
Alpini della spedizione Polare Italiana” che il capitano Gennaro Sora inviò al suo ritorno all’Ispettore delle Truppe Alpine, il generale Ottavio Zoppi, grande Alpino ed eroe nella 1a Guerra
Mondiale.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE Tutto iniziò nel 1928, quando il generale Umberto Nobile si apprestava a partire con una
spedizione da lui ideata e organizzata per sorvolare in dirigibile il Polo Nord.
Fu il giornalista Cesco Tomaselli, valoroso ufficiale degli alpini, a proporre che fosse
mobilitato un gruppo di penne nere per eventuali operazioni di soccorso in caso di un forzato
atterraggio del dirigibile “Italia” sui ghiacci, come purtroppo avvenne.
La pattuglia di alpini del 4°, 5° e 6° Reggimento, comandata dal capitano Gennaro Sora del
Btg. “Edolo”, tutti montanari assuefatti ai ghiacci, alle nevi e alle basse temperature,
raggiunse la Baia del Re dopo quaranta giorni di navigazione con la nave “Città di Milano”,
partecipò alla costruzione della base dei voli e percorse poi centinaia di chilometri sui ghiacci
del Polo Nord alla ricerca dei superstiti del dirigibile “Italia”.
Più volte gli alpini si spinsero sul “pack” che si spezzava e andava alla deriva, annullando
ogni volta i progressi di un giorno di cammino.
Come è noto, i naufraghi del dirigibile “Italia” vennero poi salvati dal rompighiaccio russo
“Krassin”, ma quella impresa degli Alpini al polo Nord è diventata memorabile e leggendaria.
Una bella descrizione di questa impresa, a cura di Tullio Vidulich, è pubblicata nel sito
internet dell’Associazione Nazionale Alpini www.ana.it.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 8. ALPINI IERI E OGGI
8.1) “Il diario nella valigia azzurra”
Nei 140 anni di vita delle Truppe alpine sono stati innumerevoli i sacrifici compiuti dagli
Alpini per adempiere il proprio dovere. E sono state tante le testimonianze che sono state
pubblicate nella ricchissima letteratura alpina. Tra queste Gianni Longo propone alla nostra
attenzione la lettera scritta da un Alpino al fronte greco-albanese.
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“Il diario nella valigia azzurra” è il titolo di un libro stampato in tiratura limitata, non disponibile nelle librerie. L’autore, Paolo Bergamaschi, ne ha concepito l’idea quando sua zia Carla
gli ha consegnato una valigia azzurra dicendogli: “Qui dentro troverai tutto quello che rimane
di mio fratello”. La valigia conteneva una raccolta di lettere di Raniero Nebbia, di famiglia
milanese, scritte durante la seconda guerra mondiale. Paolo, più che autore e curatore del
libro, è un mio amico. Lui non è un alpino, ma è orgogliosissimo di questo zio che non ha
conosciuto ma del quale ha spesso sentito parlare in famiglia. Quando ha ricevuto quella
valigia azzurra contenente tutte le lettere che lo zio Raniero aveva scritto, la curiosità da un
lato e il mito dello zio dall’altro lo hanno indotto a digitalizzare tutte le lettere, ordinandole per
data in modo di dare un senso logico alla vicenda. Si è così appassionato e ha pensato di
raccogliere il tutto in un libro che non è mai entrato in libreria e forse mai ci entrerà.
Le prime lettere sono state scritte dal fronte albanese, dove Raniero Nebbia venne
gravemente ferito militando come sottotenente nella 51ma Compagnia del Battaglione
“Edolo” del 5° Reggimento Alpini. Le altre sono state scritte dal fronte russo sul quale giunse
volontario con il grado di tenente della 264a Compagnia del Battaglione “Val Cismon” del 9°
Reggimento Alpini. Perse la vita in combattimento a 24 anni ed è stato insignito con Medaglia
di Bronzo al Valor Militare. Nelle sue lettere c’è il resoconto della quotidianità, della realtà
vissuta senza limiti imposti o pretese romanzesche. Mi hanno colpito in particolare le ultime
lettere dal fronte sul Don, quelle prima del Natale 1943, quando nulla faceva presagire
l’imminente offensiva russa. Presento una di queste lettere scritte dall’Albania e mi auguro
che presto questo libro “Il diario nella valigia azzurra” possa essere reperibile in libreria,
contribuendo cosi a collocare altri tasselli mancanti in quell’immenso mosaico di umanità che
è stata l’epopea alpina.
Gianni Longo
Fronte albanese, 14 dicembre 1940
A
rriva la mattina. Facciamo colazione piuttosto abbondantemente, cosa strana. Viene la
luce e pare che non ci si debba muovere, in ogni modo le armi sono pronte e le facciamo
sgelare vicino al fuoco. E infatti improvvisamente arriva l’ordine di prendere posizione. Ci
incamminiamo verso il dosso che è sopra di noi. Il mio plotone è composto di dieci uomini.
Mentre arriviamo sulla linea già cominciano le prime fucilate dei greci. Poi entrano in azione
le mitragliatrici.
Una grandine di proiettili si scatena su di noi. Ci buttiamo per terra… magari, sulla neve e
cerchiamo con le nostre armi di controbattere il fuoco. I Greci suonano la loro diabolica
tromba e urlano come dannati. Le nostre armi non funzionano. Io aiuto il tiratore vicino a me
a riempire i caricatori e a disinceppare l’arma. Poi finiscono le cartucce.
Spariamo col fucile. A un tratto sento un rumore metallico alla mia sinistra, mi volto e vedo
che il capitano Castellanelli si è beccato una pallottola in testa che gli ha bucato l’elmetto e
che è morto. Pace a lui.
Dopo pochi minuti sento un altro rumore metallico alla mia destra, mi volto e vedo che anche
l’alpino Colombo si è beccato una pallottola nella testa come Castellanelli. Lui non muore
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE subito, comincia ad urlare e dimenarsi carponi sulla neve, ma poi casca. Il terzo componente
del mio gruppo è fermo da un pezzo e non so cosa gli sia successo.
Io prendo il mio sacco e in quattro salti sono da Mangialaio che era dietro a me di cinque o
sei metri. Lo trovo già ferito ad un braccio ma sembra che non si possa muovere. Gli dico
quello che succede sulla linea e lui mi dice di andare al comando Battaglione per dire che
non c’è nulla da fare. Io raccomando l’anima a Dio e parto.
Non faccio nemmeno dieci passi che mi sento come un pugno violentissimo alla schiena. Ci
siamo, dico e continuo a camminare. Ma l’affanno che avevo prima e quello venuto dopo per
la ferita mi costringono a sedermi per terra.
Mi siedo e per la seconda volta raccomando l’anima a Dio, stavolta però convinto di dover
partire per l’altro mondo.
Mi vien voglia di scrivere qualcosa ma non riesco a prendere nemmeno la matita. Le mani
non funzionano più. E allora aspetto un altro poco poi mi domando se vale la pena di crepare
così come un fesso senza nemmeno tentare di tirarmi un po’ indietro. Le palle fischiavano
intorno a me che era una bellezza. Mi alzo o quasi e faccio altri tre o quattro passi indietro.
Ma vedo che non c’è nulla da fare e mi fermo di nuovo. Ma ecco che verso di me vedo venire
due alpini: è la salvezza, ameno per il momento. Mi afferrano sotto le ascelle e mi tirano su e
cominciamo, barcollando, la via del ritorno. La neve è alta un fregaccio e io non ne posso più.
Dopo lungo penare arriviamo al posto di medicazione.
Mi frizionano subito le mani e così quelle sono a posto. Poi mi stracciano tutto addosso,
giubba, camicia, maglia e mi medicano la ferita che è trasfossa. La pallottola mi ha passato
l’emitorace destro da parte a parte.
Poi mi mettono su una barella improvvisata con un telo tenda e due bastoni e via. Quattro
alpini mi portano giù per la valle, in mezzo alla neve. Qualche pallottola fischietta ancora
attorno, ma la linea è ormai lontana.
Troppo lungo sarebbe raccontare le peripezie della prima tappa, posso solo dire che è stata
una cosa bestiale. Sono arrivato alla quinta sezione sanità che non ne potevo più. Era già
buio. Io non potevo quasi più respirare. Lì volevano imbarcarmi subito per l’altra sezione ma
mi sono rifiutato e mi hanno lasciato in pace per qualche ora. C’era un sacco di feriti e congelati e un casino fenomenale. Però a mezzanotte mi hanno fatto sgomberare. Su una barella
vera stavolta. Dopo altre tre o quattro ore di cammino per strade che non esistevano sono
arrivato ad un’altra sezione sanità. Saranno state le quattro di mattina del 15/12.
Naturalmente nessuno dei medici mi guardava. Dopo qualche ora mi hanno imbarcato di
nuovo con altri quattro portatori che erano mezzi “sfessati” e la sera sono arrivato alla 32ª
sezione sanità. Lì ho passato la notte. Mi ricordo che c’era un tempo orribile, un vento che
pareva volesse tirare giù la casa con tutti i suoi occupanti. Lì ho potuto riposare un po’ e
mangiare un pezzettino di galletta con un boccone di cioccolata.
La mattina dopo via di nuovo, sempre in barella, con quattro portatori e quattro di riserva per
il cambio, per fortuna.
Stavolta la meta era un ospedaletto da campo. Ci arriviamo verso sera. Vedo la strada,
un’autoambulanza, un po’ di civiltà. Mi sembra di rinascere. Sto un paio d’ore dentro
all’ospedaletto e poi mi tirano fuori e mi caricano in un’autoambulanza. Partenza. È già buio e
fuori non si vede nulla. La strada è tutta una buca e non vi dico che divertimento. Una scossa
più forte delle altre mi dice che siamo arrivati.
È l’ospedaletto da campo 622. Credo di essere arrivato alla fine dei miei patimenti. La mia
barella è presa e portata dentro alla tenda n° 3, per ufficiali che è piena per metà. Mi
spogliano, mi puliscono, mi levano tutta quella roba sporca che avevo addosso e mi mettono
a letto. Finalmente.
Il giorno dopo mi medicano, mi danno da mangiare eccetera. Comincia una nuova vita di
pace e tranquillità.
Posso finalmente scrivere a casa, lavarmi, pettinarmi, mettere a posto un po’ le mie cose.
Raniero Nebbia
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 8.2) Alpini di ieri e Alpini di oggi
Questi 140 anni sono stati caratterizzati dalla continuità nel modo di essere tra gli Alpini di
ieri e gli Alpini di oggi. Pensiamo che la migliore testimonianza sia questo estratto dalla
lettera che Matteo Miotto, caduto in Afghanistan il 31 dicembre 2010, scrisse ai suoi
concittadini di Thiene in occasione del 4 novembre, Giornata delle Forze armate e dell’Unità
nazionale.
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Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di
uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce...
Nel mezzo blindato, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili
“insurgents” avvistati, su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria...
Consapevoli che il suolo afgano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al
passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.
Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La
testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle
porte del villaggio.
Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano
una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame. Li guardi: sono scalzi, con
addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella... Dei
loro padri e delle loro madri neanche l’ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di
bambini che hanno tutta l’aria di non essere lì per giocare.
Non sono lì a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un
mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c’è un asinello, stracarico, porta
con sé il raccolto, stanno lavorando... e i fratelli maggiori, si intenda non più che
quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di
capre e pecore ne sa qualcosa. Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci
guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni, poi scopri che ne ha massimo trenta...
Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al
villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all’ombra. Quel poco che
abbiamo con noi lo lasciamo qui.
Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il
mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi...
Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati.
Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “Brutta cosa bocia, beato ti che non te
la vedaré mai...”
Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con
la penna che per noi alpini è sacro.
Se potessi ascoltarmi, ti direi “Visto, nonno, che te te si sbaià.. ”
Matteo Miotto
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 9. E RICORDIAMO I NOSTRI MULI
Non si poteva trascurare almeno un pensiero per i muli.
Nell’inserto su carta era rimasto per loro solo un piccolo spazio in una pagina con minore
risalto, ma questo non esula dalla normalità: da sempre i muli hanno pazientemente ricevuto
molto meno di quanto hanno saputo dare agli Alpini.
9.1) Il mulo Idro
Dal numero 9-10 del 1966 di “Veci e Bocia” abbiamo tratto e Vi proponiamo questo bel
racconto di Gian Maria Bonaldi, “La Ecia”, che ci fa ben comprendere l’importanza che hanno
avuto i muli nella storia degli Alpini.
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Un Bocia mi ha chiesto, un po’ dubitoso: «ma quel mulo che lei fa ragionare e parlare come
se fosse un mulo di due gambe, col cervello da uomo, lo ha inventato lei, o è davvero
esistito?»
Qui, oltre a soddisfare la legittima curiosità del Bocia, è bene mettere le cose a posto, perché
molti credono che la Ecia e il mulo Idro siano una bestia sola e va bene che il mulo Idro era il
re delle bestie a quattro gambe del battaglione Edolo, ma, adesso, che ho 73 anni e come
Ecia lo sono di diritto, è necessario fare le dovute distinzioni.
II mulo Idro è veramente esistito ed era il mulo port’arma della Ia sezione mitraglia Maxim
dell’Edolo, nel ’15/18, anzi il mio fedele amico; sempre coll’Edolo, aveva fatta anche la Libia e
fu qui che incominciò a diventare un mulo famoso. Ando a finire che una notte che gli sconci
dell’Edolo raggiungevano il battaglione in linea, i beduini attaccarono la colonna e ci fu un po’
di casino, sia perché gli sconci erano ben lontani dall’aspettarselo, sia perché, per rispondere
a moschettate, dovettero mollare i mussi e il casino divenne ancora più grosso.
Perché parecchi muli si sbandarono e qualcuno rimase persino in mana dei beduini
attaccanti, fra cui il povero Idro che era carico di munizioni.
Quando venne chiaro e si poterono tirare le somme, tre muli erano morti, sei feriti e due
mancanti: prigionieri dei seguaci di Allah.
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE Ma i negus avevano fatto male i conti, perché, ad un tratto, si vide il mulo Idro al gran trotto
che rientrava fiero e trionfante nelle linee, col suo carico intatto ed una bella fucilata in quei
dintorni nei quali i muli, a differenza dei muli di due gambe, hanno la coda.
Venne accolto con gran festa e lo annegarono nella biada, per fargli passare lo spavento: io
lo trovai alle salmerie dell’Edolo, nel 1917, quando, a Temù, mi promossero capo di tutti gli
sconci. Una salmeria di quei tempi era un imponente reparto di uomini e di muli: tra
sottufficiali, caporali, maniscalchi, magazzinieri, un falegname per aggiustare le carrette e
fare, quando occorreva, casse da morto; circa 200 uomini e 150 muli, tutti affidati ad uno
solo, che passava per l’imboscato del battaglione.
II mulo Idro era, coll’altro mulo Avio della II sezione, un magnifico esemplare di mulo
savoiardo: erano delle mezze locomotive, alti e grossi una volta e mezzo i soliti muli e per di
più, candidi come neve, disperazione del conducente, perché doveva lavare il mulo una volta
al giorno, per tenerlo pulito.
È una razza scomparsa ed anche allora erano molto rari: un quintale era niente per simili
bestioni e inoltre erano dei paciocconi, pacifici e sicuri, tanto che, nelle colonne, si mettevano
sempre in testa, col loro passo sempre eguale, mai che mettessero un piede in fallo.
Ogni mulo aveva naturalmente il suo nome, sempre di località, valli, fiumi, montagne della
zona del battaglione e portava, sul paraocchi di sinistra, la sua brava nappina verde del
battaglione: Idro no: lui aveva un fiocco azzurro, perché dicevano gli sconci che, per il suo
comportamento in Libia era decorato al valore e infatti qualcosa doveva essere, perché, per
lui, con un buono speciale, si prelevava un chilo di più di biada; e se a qualche Alpino di mia
conoscenza fosse stato posto il quesito: una pagnotta di più al giorno o una medaglia di
bronzo... ecco io non so come avrebbe risposto, perché ce n’erano di quelli con le budelle
lunghe come le rotaie del tram in via Torino. Tutto al più. avrebbe chiesto una razione di vino
supplementare per la buona digestione.
Pelamatti, che era stato suo conducente in Libia, al suo giungere a Edolo, richiamato nella
fine del 1914, lo vide subito attaccato al filare e gli fece un verso che solo loro due
conoscevano: il mulo ruppe la catena e gli corse incontro: così Pelamatti se lo riprese e
fecero tutta la guerra insieme. E come lo teneva! mai viste due bestie andare cosi d’accordo!
Lo lavava e lo tirava lindo come una sposa: gli sedeva accanto all’ora del rancio e di pagnotta
facevano un boccone tu ed uno io e si parlavano, come si usa fra cristiani, col gran vantaggio
che, con le bestie e più facile intendersi e andare d’accordo...
Vecchi tempi, quando la val d’Avio era una coda sola di muli, perché ci stavano le salmerie di
tutti i battaglioni del IV raggruppamento Alpino di Ronchi Quintino ed anche quelli dei gruppi
da montagna: quasi mille muli!
Non vi dico quel che succedeva con tanti sconci in giro: galline non si sapeva più nemmeno
come fossero: don Faustino, il prete di Vezza d’Oglio, si sgolava dal pulpito, ogni domenica:
era come pretendere di portare un secchio d’acqua col buco in fondo.
Quando venni via dall’Edolo, su a Malles, assegnato al Comando del IV raggruppamento adesso stavo con le bestie di stato maggiore! - andai a salutare i miei mussi fedeli, destinati,
ahimè! a finire nelle sgrinfie dei salumai, con un destino ben più gramo del nostro, perché,
per i muli, la borghesia viene soltanto quando son vecchi e allora li vendono e finiscono in
tante filze di mortadelle di cotechini.
Sic transit gloria... con quel che segue: ma adesso che il latino lo hanno tolto dalle scuole ed
anche la messa la dicono in italiano, è inutile tirar fuori vecchi proverbi... non li capirebbe più
nessuno!
Gianmaria Bonaldi – “La Ecia”
Borghesia
Imboscato
Musso
Sconci
Piccolo glossario della naja alpina
– stato civile di chi non era sotto le armi (prima e dopo il servizio militare)
– chi aveva un incarico che lo teneva al sicuro dai rischi della prima linea
– altro nome per il mulo
– altro nome dato ai conducenti dei muli
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140 ANNI DELLE TRUPPE ALPINE 10. 140 ANNI DI STORIA DAI FRANCOBOLLI DEDICATI AGLI ALPINI
Riproduzione del quadro con francobolli originali realizzato dal Gruppo Alpini di Legnano
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Fly UP