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Raccolta e segnalazione del sospetto di abuso
Raccolta e segnalazione del sospetto di abuso Arturo Xibilia1 - Ivana Distefano2 Focus sul problema Consultori familiari e Servizi di Neuropsichiatria infantile del Servizio Sanitario Nazionale, Servizi psicologici dei Comuni e delle Province ove ve ne siano, psicologi di Centri convenzionati e studi privati sono i luoghi nei quali più frequentemente giungono le segnalazioni di violenza e di abuso sessuale sui bambini. Giungono da familiari o conoscenti dei bambini, insegnanti, operatori sociali e di comunità, ed hanno oggetto diverso secondo il grado di certezza che chi segnala crede di avere raggiunto: nella maggior parte dei casi viene chiesta conferma o disconferma di un sospetto, talvolta viene chiesto consiglio sulla immediata protezione da dare al bambino, ma non mancano i casi nei quali, in modo più o meno esplicito, viene chiesto qualcosa di simile alla “certificazione” di quella che è o viene prospettata come una certezza. L’esperienza ha dimostrato che nell’insieme delle segnalazioni confluiscono le preoccupazioni più o meno fondate ma veritiere, quelle fantasiose generate da un clima allarmistico sempre più diffuso, o da particolari stati emozionali soggettivi, e quelle false, fatte da chi mira ad ottenere vantaggi secondari. In ogni caso, il professionista contattato deve “rispondere” in qualche modo alla segnalazione. La questione che si pone, e che è l’oggetto di questa riflessione, è quale sia la risposta più opportuna che lo psicologo possa dare, tenendo conto di alcune variabili della situazione. Le norme in materia Nel diritto italiano esistono reati perseguibili solo se la parte che si ritiene offesa ne fa denuncia all’autorità giudiziaria (per esempio, il reato di calunnia) e reati perseguibili d’ufficio, cioè ad iniziativa dello Stato attraverso gli organi preposti alla Giustizia. Quello che nel linguaggio comune è chiamato “abuso sessuale” è descritto dal codice penale in questo modo (art. 609 bis): “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito…”; il presupposto è che la gestione della propria sessualità appartiene all’esercizio delle libertà personali (infatti, i delitti di cui ci stiamo occupando sono compresi nel Capo III del codice penale, intestato ai “Delitti contro la libertà individuale”), e i delitti che limitano la libera gestione della propria sessualità sono punibili a querela della persona offesa. 1 2 Professore a contratto di Diagnostica Giuridico-Forense, Università di Catania. Psicologa Il fatto, però, diviene punibile d’ufficio se (art. 609 septies cp): - è commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni quattordici; - è commesso dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore, ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia; - è commesso da pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni; - è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio; - e da chiunque sia stato commesso se (art. 609 quater cp) la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci. Come si vede, grandissima parte della casistica che noi includiamo nella voce “abuso sessuale” rientra nelle ipotesi di cui sopra e, pertanto, è materia nella quale si procede d’ufficio. Gli obblighi dello psicologo “pubblico” A questo punto è necessario distinguere tra psicologi “pubblici” e “privati” perché sono diversi gli obblighi di legge. Lo psicologo che lavora a qualsiasi titolo (di ruolo, per incarico, part-time, “a progetto”, come consulente) per un ente pubblico o per un servizio privato convenzionato con l’ente pubblico è pubblico ufficiale o persona incaricata di pubblica funzione; lo è anche quando da privato esegue una consulenza d’ufficio, o una perizia, o altro incarico affidatogli da una pubblica autorità; non lo è quando è fuori dall’obbligo di prestare servizio, quando lavora in uno studio privato, o anche in locali pubblici ma in regime di intra moenia. Il pubblico ufficiale (art. 361 cp) e l’incaricato di pubblico servizio (art. 362 cp) sono obbligati a fare denunzia scritta alla Procura della repubblica o alla polizia giudiziaria dei fatti che costituiscono reato perseguibile d’ufficio appresi nell’esercizio o a causa della propria funzione. La denuncia deve essere fatta “anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito” e “senza ritardo”. Chi “omette o ritarda” di fare la denuncia compie un delitto contro l’attività giudiziaria. Ci sarebbe ben poco da commentare: poiché la denuncia deve essere fatta sempre e subito, dovrebbe accadere sempre e soltanto che quando allo psicologo “pubblico” giunge una segnalazione di abuso o di sospetto abuso egli non dovrebbe fare altro che raccogliere i dati identificativi delle persone che lo contattano e della sospetta vittima, e recarsi a sporgere denuncia, astenendosi accuratamente dal fare qualsiasi ulteriore accertamento, essendo compito esclusivo dell’autorità giudiziaria l’accertamento della verità. 2 I termini del problema In realtà, quasi tutti gli psicologi hanno resistenza a comportarsi nel modo semplice disposto dalla legge penale, e invece svolgono accertamenti - che spesso durano anche parecchio tempo - sul minore presunta vittima a mezzo di colloqui, osservazione, test e quant’altro, e quando ritengono di avere acquisito una sufficiente documentazione clinica dell’avvenuto abuso, stilano un rapporto che inviano all’autorità giudiziaria. Questo comportamento è ritenuto normale ed anzi è incoraggiato e, direi, ufficializzato, con la costituzione da parte di vari Enti (le ASL, la Scuola, i Comuni) di Centri appositamente destinati a ricevere ed a gestire la segnalazione di abuso. Nulla da dire, naturalmente, sulla mission di tale Centri di agevolare l’emergere della violenza privata e sommersa sui bambini; sorgono problemi, invece, per quell’altra mission che li vede agire come servizi particolarmente competenti a capire se l’abuso c’è stato o non, ed a “trattarlo”. La ragione addotta a sostegno della necessità che questo screening venga fatto – dai Centri specializzati o dai singoli professionisti, non importa – è che la segnalazione potrebbe essere frutto di equivoci, di errori di interpretazione, e che il disagio del bambino potrebbe derivare da cause diverse dall’abuso sessuale, cause di interesse esclusivamente medico o psicologico: trasformare passivamente tutte le segnalazioni di abuso in denuncie produrrebbe un danno all’autorità giudiziaria stessa, che si vedrebbe investita da una molteplicità di denuncie infondate, ma, soprattutto, produrrebbe un danno a tutte quelle persone che per avere chiesto un aiuto si troverebbero esposte ad una azione investigativa. Non c’è dubbio sul fatto che si tratta di due ottimi argomenti, il secondo soprattutto, perché sappiamo bene quanto possa essere dura per le persone, minore compreso, l’esperienza giudiziaria. Tuttavia, non possiamo ignorare alcuni aspetti della questione. Uno è costituito dal fatto che qualsiasi accertamento richiede tempo, e che il ritardo della denuncia è equiparato dal codice alla omissione di denuncia. L’altro sta nel fatto che nei casi in questione qualsiasi accertamento clinico, essendo rivolto ad appurare se i segni o i sintomi constatati siano ascrivibili o no ad una causa che configura una azione criminosa, ha in re ipsa il carattere di un accertamento peritale; ancorché l’accertamento non giunga al punto di indicare la persona responsabile dell’abuso (ma talvolta, confermando il fatto, giunge implicitamente anche a questo punto), ed ancorché gli psicologi più accorti usino formule linguistiche probabilistiche (“compatibilità dei segni”, “elementi di attendibilità del racconto”, “presenza di indicatori” ecc.), si tratterà pur sempre di una indebita anticipazione dell’azione 3 dell’autorità giudiziaria, la sola cui competa decidere se disporre l’intervento di un esperto, la scelta dell’esperto, la definizione del compito da affidargli, il tutto con le garanzie che la legge offre alle diverse parti implicate. Esiste, infine, un terzo motivo che sconsiglia qualsiasi intervento diagnostico sul minore, dettato sia dalla esperienza processuale che dalle conoscenze scientifiche. Quando la presunta vittima è un bambino piccolo (ed è il caso più frequente) e mancano su di esso riscontri anatomici o prove biologiche certe, la prova “principe” del procedimento giudiziario, sia nella fase delle indagini che nell’eventuale fase dibattimentale, è il bambino stesso, e cioè il suo comportamento e il suo racconto degli eventi; assai spesso questa prova è anche la sola prova, integrabile al più con gli eventuali indizi che gli esami psicologici possono fornire. Nessuno psicologo può ignorare ciò che le neuroscienze hanno ormai reso patrimonio comune di conoscenza in fatto di testimonianza: la rievocazione di un evento è un processo “ricostruttivo” e non già meramente “riproduttivo”, è un procedimento complesso ed esposto alla influenza di fattori idonei a produrre memorie diverse dai fatti sottostanti. Alcuni di questi fattori sono stati individuati nella stessa relazione di esame, per quanto cauta e discreta essa possa essere; ciò per un verso ha indotto il mondo scientifico ad elaborare metodi di esame quanto più obiettivi e quanto meno inducenti sia possibile, e per altro verso ha indotto il mondo giudiziario sia a ridurre al minimo – possibilmente ad una sola volta – il numero di audizioni del minore, sia a “fissarle” con mezzi di audio-videoregistrazione, in modo che successivamente si possa lavorare su materiale quanto più genuino e spontaneo possibile. “Lavorare” sul bambino, dunque, sia pure con le migliori intenzioni, può significare manipolare la prova principe del presunto reato, con elevata probabilità di renderla inutilizzabile e di vanificare la funzione del processo di ricerca della verità. Una soluzione praticabile Quanto detto non significa che lo psicologo debba soltanto raccogliere i dati anagrafici di tutte le persone che lo contattano per prospettargli una ipotesi di abuso, e riferire quanto gli è stato esposto all’autorità giudiziaria, nella forma di denuncia. Assodato che il bambino deve restare fuori da ogni esame, ci sono alcune aree a disposizione dello psicologo nelle quali egli può tempestivamente raccogliere informazioni utili senza il rischio di precorrere e di pregiudicare l’attività giudiziaria. Una è quella della richiesta di intervento in sé. Lo psicologo possiede uno strumento tecnico che va sotto il nome di “analisi della 4 domanda”, che consiste nell’andare oltre la richiesta espressa dalla persona, fino a potere formulare ragionevoli ipotesi a) sulla esistenza nella persona di attese diverse da quelle espresse, e b) sulla consapevolezza o non della persona in ordine a queste diverse attese. In ambiente clinico, l’analisi della domanda è il primo atto che lo psicologo compie quando un paziente gli si presenta per la prima volta: non c’è motivo che non venga compiuta, con le varianti e le estensioni del caso, quando la segnalazione ha per oggetto l’abuso sessuale su un minore. In questa sede non posso dilungarmi nella descrizione di questa tecnica che, d'altronde, dovrebbe essere nota ad ogni psicologo; voglio solo ricordare che essa presuppone una esplorazione del contesto e del momento esistenziale della persona che si ha dinanzi, da fare con la duplice lettura che è tipica del colloquio psicologico: la lettura del dato in sé e la lettura del rapporto emozionale del soggetto col dato. Un’altra area disponibile è quella comunemente chiamata dello svelamento dell’abuso. Se questo momento topico c’è stato, è molto importante raccogliere dalla persona che fa la segnalazione il resoconto di come è avvenuto: luogo, circostanza e persone presenti allo svelamento; casualità o intenzionalità delle espressioni del bambino; quali mezzi espressivi ha usato, o quali segni ha dato che hanno destato attenzione e allarme; quali le circostanze immediatamente antecedenti lo svelamento (comportamenti del bambino, condizioni di salute, situazione di gioco, di studio, di conflitto, di opposizione, ecc.) e quali quelle immediatamente successive; le reazioni ed i comportamenti dell’adulto che ha raccolto lo svelamento (manifestazioni di ansia, di interesse, di indifferenza, comportamenti esplorativi), ecc. Se, invece, non c’è stato uno svelamento da parte del bambino, ma è stato un adulto che è giunto al sospetto di abuso a partire da alcuni fenomeni osservati, è sicuramente utile raccogliere con accuratezza la descrizione di tali fenomeni, e cioè la tipologia, l’epoca e la gradualità di comparsa, le circostanze, la frequenza, il comportamento adottato dall’adulto narrante o da altri adulti del contesto dinanzi ai fenomeni, nonché le eventuali risposte del bambino a quel comportamento; dinanzi a fenomeni non molto specifici, è importante capire perché l’adulto li ha vissuti come anomali e perché li ha collegati, subito o dopo qualche tempo, a una ipotesi di abuso e non ad altre possibili cause; è importante anche capire quale è la posizione del segnalante rispetto al contesto familiare: chi altri sa della segnalazione e cosa ne pensa; perché alcuni non sanno; se costoro possono sapere o chi segnala preferisce che non sappiano. Alla fine, lo psicologo deve assumersi la responsabilità di una decisione: se ha raggiunto la ragionevole convinzione che non si tratta di abuso egli deve comunicarla al suo interlocutore e deve dirgli che, se ve ne è motivo, è disponibile ad occuparsi del caso ma al di fuori da 5 questa ipotesi; naturalmente, a propria tutela, scriverà la stessa cosa nella cartella clinica. Se, invece, ha qualche dubbio che possa esserci stato abuso, ne fa subito denuncia e si astiene da qualsiasi altro intervento sul caso. Crediamo che non esistano alternative diverse. L’obbligo di referto Una questione a parte è se lo psicologo abbia, come chi esercita una professione sanitaria, l’obbligo di referto previsto dall’art. 365 del codice penale. Questo obbligo grava su “Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d’ufficio…” e perciò comprende i professionisti privati. Per stabilire se l’obbligo di referto riguardi anche gli psicologi, l’attenzione si è generalmente soffermata sul chiedersi se, ovvero quando, la professione di psicologo debba essere considerata facente parte delle professioni sanitarie. Le variabili da prendere in considerazioni sono parecchie e non tutte conducono a certezze: si intuiscono, ad esempio, posizioni diverse tra lo psicologo psicoterapeuta e colui che non lo è; tra il laureato in Scienze e tecniche psicologiche (laurea triennale) e lo psicologo con laurea magistrale; tra il privato e chi lavora nel pubblico; all’interno del pubblico si può riscontrare diversità tra chi lavora in un Servizio scolastico, ad esempio, e chi è organico in un servizio ambulatoriale, o territoriale, o ospedaliero, ecc. Per gli psicologi che a qualsiasi titolo operano in rapporto con le Aziende Sanitarie Locali l’appartenenza al ruolo sanitario è dettata dall’art.2 del DPR 761 del 1979; per altre situazioni la questione è incerta. Personalmente ritengo che quella dello psicologo sia comunque una professione sanitaria, per il solo fatto che il suo terreno di azione è una componente della persona, però, in quanto alla questione dell’obbligo di referto sono propenso a guardare non tanto ai criteri soggettivi quanto alla natura stessa dell’obbligo. Leggendo il secondo comma dell’art. 334 del codice di procedura penale si percepisce che quella pensata dalla norma è specificamente una azione di natura medica prestata da chi – medico o paramedico - si trova nella condizione di intervenire in situazione che richiede una immediata prestazione, e che può sottintendere una azione delittuosa perseguibile d’ufficio, avvenuta o che potrebbe avvenire. Si è propensi a dire, in sostanza, che lo psicologo, ancorché gli si riconosca la qualifica di sanitario, sicuramente non svolge compiti di natura medica, e che, pertanto, non abbia obbligo di referto, ma solo obbligo di denuncia. 6 Riferimenti bibliografici Agnoli, F., Ghetti, S. (1995), Testimonianza infantile e abuso sessuale, in Età Evolutiva, 52, 66 - 75. Antolisei F. (1994), Manuale di diritto penale, Pt. sp., 1, Milano. Aprile A. (2000), La segnalazione dei casi di abuso sessuale sui minori: una riflessione su alcuni aspetti problematici, in Maltrattamento, abuso e infanzia, fascicolo 1. Carli R. Paniccia R. (2003), Analisi della domanda. Teoria e intervento in psicologia clinica, il mulino, Bologna. Casciano M., Mazzoni G., De Leo G. (2004), Falsi ricordi indotti da informazioni fuorvianti e da interviste ripetute sulla memoria di eventi non accaduti, in Maltrattamento e abuso all'infanzia, 6, 37 - 57. 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