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Syllabus Proprietà
0 1 SYLLABUS Materiali per una genealogia della proprietà INDICE p. 1 PREMESSE METODOLOGICHE a) M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, 2001 p. 7 b) I processi di globalizzazione del diritto e la proprietà p. 15 IL RETROTERRA GIURIDICO P. Grossi, La proprietà e le proprietà, oggi, in G. Collura (cur.) Coordinamento dei dottorati di ricerca in diritto privato, Giuffrè, 2009, pp. 1-19 p. 23 PARTE I LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE La genealogia della proprietà nello stato liberale. a) La filosofia politica 1. J. Locke, Capitolo V. Della proprietà, in Due trattati sul governo. Secondo Trattato, 1690; p. 31 2. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789); p. 42 2 3. K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848; p. 43 4. Leone XIII, Enciclica Rerum Novarum, 1891; p. 64 b) L’elaborazione dei giuristi 5. G. R. Pothier, Traite du droit de domaine de propriété, 1699; p. 85 6. Art. 544 code civil p. 95 7. G. W. F. Hegel, La proprietà, in Lineamenti di filosofia del diritto, 1821, ed. it. cur. G. Marini, Laterza 1999, pp. 51-72; p. 95 8. M. Prospero, Proprietà, mercato e imposte in Hegel, in Scuola superiore dell'economia e delle finanze - Rivista on line, n. 2, 2010; p. 117 9. F. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, tr. it. V. Scialoja, 1886, pp. 36-37, 335-347, 367-383; p. 132 10. B. Windscheid, Capitolo IV, La proprietà, in Diritto delle pandette, ed. originale del 1862, trad. ita. di Fadda e Bensa, Utet, 1930 pp. 589-603; p. 150 c) La disciplina 11. Il numero chiuso dei diritti reali: indicazioni bibliografiche p. 153 12. Modi d’acquisto: indicazioni bibliografiche p. 153 PARTE II LA PROPRIETÀ NELLA SECONDA GLOBALIZZAZIONE La struttura della proprietà 1. W.N. Hohfeld, Alcuni concetti giuridici fondamentali nella loro applicazione al ragionamento giudiziario, in Concetti giuridici fondamentali, a cura di M. Losano, Einaudi 1969. p. 154 2. La Costituzione di Weimar – 11 agosto 1919; p. 158 3 3. Art. 832 c.c.: Riferimenti bibliografici; p. 159 La funzione sociale 4. Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 21 aprile 1927; p. 160 5. B. Mussolini, Discorso al Senato per lo Stato Corporativo, 13 gennaio 1934, in Opera Omnia di Benito Mussolini, XXVI, La Fenice, Firenze, pp. 146-151; p. 164 6. F. Ferrara, La proprietà come “dovere sociale”, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp. 279-287; p. 169 7. G. Chiarelli, Il fondamento pubblicistico della proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp.145-159; p. 175 8. L. Mossa, Trasformazione dogmatica e positiva della proprietà privata, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp.251-275; p. 178 9. S. Panunzio, Prime osservazioni giuridiche sul concetto di proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp.111-123; p. 184 10. F. Vassalli, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp. 99-108; p. 188 11. Costituzione tedesca (1949), artt. 14 e 15, in Codice delle Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp. 129; p. 194 12. Preambolo cost. francese 1946 p. 195 13. S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà (con riguardo alla proprietà terriera), in Id., La proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffré 1954, 145 ss.; p. 197 14. S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà , in Riv. trim. dir. e proc. civ, 1960, 1252 ss.; p. 245 4 15. M.S. Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, da Pol. Dir., 1971, n. 4/5, pp. 443-501; p. 267 La funzione sociale nella giurisprudenza costituzionale 16. Corte costituzionale, sent. N. 6/1966; p. 295 17. Corte costituzionale, sent. N. 55/1968; p. 305 18. A.M. Sandulli, Profili costituzionali della proprietà privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 465 ss.; p. 323 19. Corte costituzionale, sent. N. 5/1980; p. 346 20. S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, da S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, 1981, §9. p. 354 PARTE III LA PROPRIETÀ NELLA TERZA GLOBALIZZAZIONE Alla ricerca di una nuova legittimazione 1. G. Hardin, La tragedia dei beni comuni, trad. it. di Lorenzo Coccoli, tratta dal bollettino telematico di filosofia politica (http://bfp.sp.unipi.it/hj05b/249); p. 362 2. H. Demsetz, Verso una teoria dei diritti di proprietà, in E. Colombato (a cura di), Tutti proprietari. La nuova scuola dei property rights, Le Monnier 1980, pagg. 61-81; p. 384 Linee di tendenza 3. A. Gambaro, Ontologia dei beni e jus excludendi, in http://www.comparazionedirittocivile.it; p. 397 4. Art. 1, Protocollo addizionale 1 alla CEDU; p. 425 5. Art. 17 della Carta di Nizza; p. 426 5 6. Costituzione spagnola (1978), art. 33, e Costituzione svizzera (2000), art. 26, in Codice delle Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp. 238-239 e 286; p. 426 7. Draft Costitution/Basic Law of Hungary (2011), Art. XII; p. 426 8. Accordo TRIPs-Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, adottato a Marrakech 15 aprile 1994 – “Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio” ratificato dall’Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 747; p. 427 9. 2011 Report on the Application of the EU Charter of Fundamental Rights. p. 438 La proprietà europea tra conformazione e limiti esterni 10. Corte di Giustizia - caso Nold (1974) p. 439 11. caso Hauer (1979) p. 445 12. caso Staebelow (2006) p. 459 13. caso Kadi (2008) p. 465 14. caso ERG (2010) p. 473 La misura dell’indennizzo da espropriazione nella dialettica fra le corti 15. O. T. Scozzafava, Procedimenti ablativi e determinazione dell’indennizzo, in I rapporti civilistici nell’interpretazione costituzionale, ESI, 2007, pp. 49-51; p. 478 16. Corte EDU, Caso Scordino c. Italia – 6/03/2007; p. 480 17. Corte costituzionale, sentenze n. 348 e 349 del 2007; p. 496 18. Art. 42 bis, d. P. R. 8 giugno 2001, n. 327, introdotto dall’art. 34, D. L 6 luglio 2011, n. 98, convertito con la Legge 15 luglio 2011, n. 111 (“occupazione acquisitiva”); p. 567 6 19. Corte costituzionale, sentenza n. 338/2011 p. 568 La proprietà privata fra funzione sociale e diritti umani 20. C. Salvi, Libertà economiche, funzione sociale e diritti personali e sociali tra diritto europeo e diritti nazionali, in http://principi-ue.unipg.it/; p. 586 21. L. Nivarra, La proprietà europea tra controriforma e “rivoluzione passiva”, in http://principi-ue.unipg.it/; p. 608 22. G. Ramaccioni, La tutela multilivello del diritto di proprietà: il caso della acquisizione sanante. Da Locke a Renner … e ritorno!, in http://principi-ue.unipg.it/; p. 625 23. Corte EDU, Caso Loizidou c. Turchia – 18/12/1996; p. 630 24. Corte EDU, Caso Ecomostro p. 638 L’altra faccia della terza globalizzazione 25. M.R. Marella, Il diritto dei beni comuni oltre il pubblico e il privato, in G. Allegri, M. R. Allegri, A. Guerra, P. Marsocci (a cura di), DEMOCRAZIA E CONTROLLO PUBBLICO DALLA PRIMA MODERNITÀ AL WEB, Editoriale Scientifica, 2012; p. 662 7 Premesse metodologiche a) M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, 2001 Il materiale raccolto in questo Syllabus intende contribuire alla costruzione di una genealogia del diritto di proprietà. Analizzare la proprietà attraverso questo metodo di indagine permette, infatti, di discostarsi da un approccio prettamente storicistico, volto alla ricerca dell’origine del concetto; l’obiettivo è, invece, quello di comporre in un quadro complesso, e non necessariamente coerente, le varie idee, le differenti narrazioni e filosofie che insieme contribuiscono a definire la fisionomia del diritto di proprietà e le tensioni che lo attraversano. 1. La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate, raschiate, più volte riscritte. Paul Ree ha torto, come gli inglesi, a descrivere delle genesi lineari - a ordinare per esempio alla sola preoccupazione dell'utile tutta la storia della morale: come se le parole avessero conservato il loro senso, i desideri la loro direzione, le idee la loro logica; come se questo mondo di cose dette e volute non avesse conosciuto invasioni, lotte, rapine, simulazioni, astuzie. Di qui, per la genealogia, un'indispensabile cautela: reperire la singolarità degli eventi al di fuori di ogni finalità monotona; spiarli dove meno li si aspetta e in ciò che passa per non aver storia - i sentimenti, l'amore, la coscienza, gl'istinti; cogliere il loro ritorno, non per tracciare la curva lenta d'un'evoluzione, ma per ritrovare le diverse scene dove hanno giocato ruoli diversi; definire anche l'istante della loro assenza, il momento in cui non hanno avuto luogo (Platone a Siracusa non è diventato Maometto...) La genealogia esige dunque la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza. Le 8 sue «costruzioni ciclopiche» 1, non deve edificarle a colpi di «errori letificanti», ma di «verità piccole e non appariscenti, che furono trovate con metodo severo» 2. In breve, un certo accanimento nell’erudizione. La genealogia non si oppone alla storia come la vista altera e profonda del filosofo allo sguardo di talpa del dotto; s’oppone al contrario al dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie. S’oppone alla ricerca dell’«origine». […] Perché Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l'essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale origine, e tentare di ritrovare «quel che era già», lo «stesso» d'un'immagine esattamente adeguata a sé; è considerare avventizie tutte le peripezie che hanno potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte le maschere, per svelare infine un’identità originaria. Ora, se il genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestar fede alla metafisica, cosa apprende? Che dietro le cose c'è «tutt’altra cosa»: non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee. La ragione? Ma è nata in modo del tutto «ragionevole», dal caso 3 . L’attaccamento alla verità e il rigore dei metodi scientifici? Dalla passione dei dotti, dal loro odio reciproco, dalle loro discussioni fanatiche e sempre riprese, dal bisogno di prevalere, - armi lentamente torgiate nel corso di lotte personali 4. E la libertà, sarebbe forse, alla radice dell’uomo, quel che lo lega all'essere e alla verità? Nei fatti, non e che una 1 2 3 4 La gaia scienza, paragrafo 7. Umano, troppo umano, 3. Aurora, 123. Umano, troppo umano, 34. 9 «invenzione delle classi dirigenti» 5 . Là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l'identità ancora preservata della loro origine, ma la discordia delle altre cose, il disparato. La storia insegna anche a sorridere delle solennità dell’origine. L’alta origine è il «germoglio metafisico che rispunta nella considerazione della storia e che fa ogni volta credere che al principio di tutte le cose si trovi il più perfetto e il più essenziale» 6 : piace credere che all'inizio le cose erano nella loro perfezione; che uscirono scintillanti dalle mani del creatore, o nella luce senz'ombra del primo mattino. L’origine è sempre prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del tempo; è dal lato degli dèi, e a raccontarla si canta sempre una teogonia. Ma l’inizio storico è basso. Non nel senso di modesto, o di discreto come il passo della colomba, ma derisono, ironico, atto a distruggere tutte le infatuazioni: «Si cercava di pervenire al sentimento della sovranità dell'uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c'è la scimmia» 7. L’uomo ha cominciato colla smorfia di quel che sarebbe diventato; anche Zaratustra avrà la sua scimmia che salterà dietro di lui e tirerà il lembo della sua veste. Infine, ultimo postulato dell’origine, legato ai primi due: essa sarebbe il luogo della verità. Punto assolutamente remoto, ed anteriore ad ogni conoscenza positiva, renderebbe possibile un sapere che pure la ricopre, e non cessa di disconoscerla fra le sue chiacchiere; sarebbe in quell'articolazione inevitabilmente perduta dove la verità delle cose si lega ad una verità del discorso che subito l’offusca e la perde. Nuova crudeltà della storia che costringe ad invertire il rapporto e ad abbandonare la ricerca «adolescente»: dietro la verità, sempre recente, avara e misurata, c'è la proliferazione millenaria degli errori. Non crediamo più «che la verità resti ancora verità quando le si tolgono di dosso i veli; abbiamo vissuto abbastanza per credere in questo» 8 . La verità, sorta 5 6 7 8 Il viandante e la sua ombra, 9. Ibid., 3. Aurora, 49. Nietzsche contro Wagner. 10 d'errore che ha il vantaggio di non poter essere confutato, probabilmente perché la lunga cottura della storia l’ha resa inalterabile 9. E d'altronde la questione stessa della verità, il diritto che si dà di confutare l'errore o di opporsi all'apparenza, il modo in cui di volta in volta fu accessibile ai dotti, poi riservata ai soli uomini di pietà, in seguito ritirata in un mondo al sicuro, dove svolse il ruolo insieme della consolazione e dell'imperativo, infine respinta come idea inutile, superflua, dovunque contraddetta, tutto ciò non è una storia, la storia d'un errore che ha nome verità La verità e il suo regno originario hanno avuto la loro storia nella storia. Ne usciamo appena «all’ora dell’ombra più corta», quando la luce non sembra più venire dal fondo del cielo e dai primi momenti del giorno 10 . Fare la genealogia dei valori, della morale, dell'ascetismo, della conoscenza, non sarà dunque mai partire alla ricerca della loro «origine», trascurando come inaccessibili tutti gli episodi della storia; sarà al contrario attardarsi sulle meticolosità e sui casi degl'inizi; prestare un'attenzione scrupolosa alla loro risibile cattiveria; aspettarsi di vederli sorgere, maschere finalmente cadute, col volto dell’altro; andare a cercarli senza pudore là dove sono - «frugando i bassifondi»; lasciar loro il tempo di risalire dal labirinto dove nessuna verità li ha mai tenuti sotto la sua guardia. Il genealogista ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell'origine, un po' come il buon filosofo ha bisogno del medico per scongiurare l'ombra dell’anima. Bisogna saper riconoscere gli eventi della storia, le sue scosse, le sue sorprese, le vacillanti vittorie, le sconfitte mal digerite, che rendono conto degl'inizi, degli atavismi e delle eredità; come bisogna saper diagnosticare le malattie del corpo, gli stati di debolezza e d’energia, le incrinature e le resistenze per giudicare un discorso filosofico. La storia, colle sue intensità, cedimenti, furori segreti, le sue grandi agitazioni febbrili come le sue sincopi, è il corpo stesso del divenire. Bisogna essere metafisico per cercarle un'anima nell'idealità lontana dell’origine. La gaia scienza, 265 e 110. Il crepuscolo degli idoli. Come il «mondo vero» fini per diventa re favola. 9 10 11 […] 3. Termini come Entstehung o Herkunft designano meglio di Ursprung l’oggetto specifico della genealogia. Li si traduce di solito con «origine», ma bisogna cercare di restituire il loro uso esatto. Herkunft: è la stirpe, la provenienza-, è la vecchia appartenenza ad un gruppo – quello del sangue, quello della tradizione, quello che si crea fra persone della stessa altezza o della stessa bassezza. […] La provenienza permette anche di ritrovare sotto l’aspetto unico d’un carattere o d’un concetto la proliferazione degli eventi attraverso i quali (grazie ai quali, contro i quali) si sono formati. La genealogia non pretende di risalire il tempo per ristabilire una grande continuità al di là della dispersione dell’oblio; il suo compito non è di mostrare che il passato è ancor lì, ben vivo nel presente, animandolo ancora in segreto, dopo aver imposto a tutte le traversie del percorso una forma disegnata sin dall’inizio. Nulla che somiglierebbe all’evoluzione d’una specie, al destino d’un popolo. Seguire la trafila complessa della provenienza, è al contrario mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è propria: è ritenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è propria: è ritrovare gli accidenti, le minime deviazioni – o al contrario i rovesciamenti completi – gli errori, gli apprezzamenti sbagliati, i cattivi calcoli che hanno generato ciò che esiste e vale per noi; è scoprire che alla radice di quel che conosciamo e di quel che siamo none è la verità e l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente 11. […] La ricerca della provenienza non fonda, al contrario: inquieta quel che sì percepiva immobile, frammenta quel che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel che s’immaginava conforme a se stesso. Quale convinzione vi resisterebbe? Ancor più, quale sapere? Facciamo un po’ l’analisi genealogica dei dotti – di colui 11 Al di là del bene e del male, 244. 12 che colleziona i fatti e ne tiene accuratamente il registro o di colui che dimostra e confuta; la loro Herkunft svelerà presto le scartoffie del cancelliere, o le arringhe dell’avvocato – loro padre 12 nella loro attenzione apparentemente disinteressata, nel loro «puro» attaccamento all’obiettività. […] L’umanità non progredisce lentamente di lotta in lotta fino ad una reciprocità universale, dove le regole si sostituiranno per sempre alla guerra; essa insedia ciascuna delle sue violenze in un sistema di regole, ed avanza cosi di dominazione in dominazione. E’ la regola appunto che permette che violenza sia fatta alla violenza, e che un’altra dominazione possa piegare quelli stessi che dominano. In se stesse le regole sono vuote, violente, non finalizzate; sono fatte per servire a questo o a quello; possono essere piegate al volere di tale o tal’altro. Il grande gioco della storia, sta in chi s’impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di quelli chele utilizzano, chi si travestirà per pervertirle, le utilizzerà a controsenso e le rivolgerà contro quelli che le avevano imposte; chi, introducendosi nel complesso apparato lo farà funzionare in modo tale che i dominatori si troveranno dominati dalle loro stesse regole. Le diverse emergenze che si possono individuare non sono le figure successive d’uno stesso significato; sono altrettanti effetti di sostituzioni, scambi e spostamenti, conquiste simulate, rovesciamenti sistematici. Se interpretare, fosse mettere lentamente in luce un significato nascosto nell’origine, solo la metafisica potrebbe interpretare il divenire dell’umanità. Ma se interpretare è impadronirsi, attraverso violenza o surrezione, di un sistema di regole che non ha un significato essenziale in sé, ed imporgli una direzione, piegarlo ad una volontà nuova, farlo entrare in un altro gioco e sottometterlo ad altre regole, allora il divenire dell’umanità è una serie d’interpretazioni. E la genealogia deve esserne la storia: storia delle morali, degl’ideali, dei concetti metafisici, storia del concetto di 12 Aurora, 247. 13 libertà o della vita ascetica, come emergenze d’interpretazioni diverse. Sì tratta di farle apparire come eventi sul teatro delle procedure. […] Questa storia degli storici si dà un punto d’appoggio fuori del tempo; pretende di giudicare tutto secondo un’obiettività da apocalisse; in realtà ha supposto una verità eterna, un’anima che non muore, una coscienza sempre identica a se stessa. Se il senso storico si lascia conquistare dal punto di vista sovrastorico, allora la metafisica può riassumerselo e, fissandolo sotto le specie di una scienza oggettiva, imporgli il suo «egitticismo». Al contrario, il senso storico sfuggirà alla metafisica per diventare lo strumento privilegiato della genealogia se non si orienta su nessun assoluto. Non deve essere altro che l’acutezza d’uno sguardo che distingue, distribuisce, disperde, lascia giocare le differenze ed i margini – una specie di sguardo dissodante capace di dissociarsi lui stesso e di eliminare l’unità di quest’essere umano che è supposto portarlo sovranamente verso il suo passato. Il senso storico, ed è in questo che pratica la «wirkliche Historie», reintroduce nel divenire tutto ciò che si era creduto immortale nell’uomo. Noi crediamo alla perennità dei sentimenti? Ma tutti, e quelli soprattutto che ci sembrano i più nobili ed i più disinteressati, hanno una storia. Crediamo alla sorda costanza degl’istinti, ed immaginiamo che siano sempre all’opera, qui e là, ora come un tempo. Ma il sapere storico non ha difficoltà a smontarli, - a mostrare le loro trasformazioni, ad individuare i loro momenti di forza e di debolezza, ad identificare i loro regni alterni, a coglierne la lenta elaborazione ed i movimenti attraverso i quali, rivoltandosi contro se stessi, possono accanirsi nella propria distruzione 13. Noi pensiamo in ogni caso che il corpo almeno non ha altre leggi che quelle della fisiologia e che sfugge alla storia. Errore di nuovo; esso è preso in una serie di regimi che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di riposo e di festa: è intossicato da veleni – cibo o valori, 13 La gaia scienza, 7. 14 abitudini alimentari e leggi morali insieme; “si costruisce delle resistenze”. La storia «effettiva» si distingue da quella degli storici per il fatto che non si fonda su nessuna costante: nulla nell’uomo – nemmeno il suo corpo – è abbastanza saldo per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi. Tutto ciò a cui ci si appoggia per rivolgersi verso la storia e coglierla nella sua totalità, tutto ciò che permette di descriverla come un paziente movimento continuo, - è tutto questo che si tratta di spezzare sistematicamente. Bisogna fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti. Sapere, anche nell’ordine storico, non significa «ritrovare», e ancor meno ritrovarci. La Storia sarà «effettiva» nella misura in cui introdurrà il discontinuo nel nostro stesso essere; dividerà i nostri sentimenti; drammatizzerà i nostri istinti; moltiplicherà il nostro corpo e l’opporrà a se stesso. Non lascerà nulla al di sotto di sé che abbia la stabilità rassicurante della vita o della natura; non si lascerà trascinare da nessuna sorda caparbietà, verso un fine millenario. Scaverà ciò su cui si ama farla riposare, e si accanirà contro la sua pretesa continuità. Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione. […] La storia, genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno; essa si occupa di far apparire tutte le discontinuità che ci attraversano. Questa funzione è opposta a quella che voleva esercitare, secondo le Inattuali, «la storia antiquaria». Si trattava lì di riconoscere le continuità nelle quali si radica il nostro presente: continuità del suolo, della lingua, della città; si trattava «coltivando con mano attenta ciò che dura fin dall’antichità», di «preservare le condizioni nelle quali si è nati per coloro che verranno dopo di noi» 14 . Ad una tale storia, le Inattuali obiettavano che rischia di prevenire ogni 14 Considerazioni inattuali, II, 3. 15 creazione in nome della legge della fedeltà. Un po’ più tardi – e già in Umano, troppo umano – Nietzsche riprende il compito antiquario, ma nella direzione completamente opposta. Se la genealogia pone a sua |volta la questione del suolo che ci ha visti nascere, della lingua che parliamo o delle leggi che ci governano, è per mettere in luce i sistemi eterogenei che, sotto la maschera del nostro io, ci interdicono ogni identità. b) I processi di globalizzazione del diritto e la proprietà La presente raccolta di materiali intende contribuire allo studio del diritto di proprietà avvalendosi inoltre dell’approccio indicato da Duncan Kennedy 15 , finalizzato ad indagare il complesso rapporto tra lo spazio del diritto e quello della politica nell’era del capitalismo e, in particolare, in quest’ultima fase del capitalismo globalizzato. Si tratta di una selezione di brani di dottrina, di pezzi di legislazione, di documenti politici e di decisioni di corti supreme organizzata sulla base dello studio delle “tre globalizzazioni del diritto” e volta a far emergere le linee di politica del diritto che hanno attraversato e attraversano la disciplina della proprietà privata dalle sue prime ‘apparizioni’ da rintracciarsi principalmente in talune elaborazioni teoriche e testi normativi del XVII e XVIII secolo – alla posizione egemonica dei nostri giorni. Con ciò non si intende appiattire lo studio della proprietà sulla logica del capitalismo, sebbene il primo sia strettamente connesso alla seconda. La discussione delle diverse tendenze di politica del diritto manifestatesi in questo lasso di tempo non si risolve nella riduzione del diritto alla politica. Del resto, come osserva Kennedy, tanto i progetti politici sia di destra che di sinistra, quanto gli strumenti giuridici prescelti per attuarli tendono a Cfr. Du. Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thought: 1850-2000, in D. M. Trubek and A. Santos (eds.), The New Law and Economic Development. A Critical Appraisal, Massachusetts, Cambridge University Press, 2006, 19-73. 15 16 porsi su un orizzonte di ‘indecidibilità assiologica’: i primi perché sono privi di coerenza interna, i secondi perché appaiono “indeterminati” (nel senso fatto proprio dai Critical Legal Studies). La storia dei limiti al diritto di proprietà e della sua funzione sociale bene esemplifica tanto l’indeterminatezza intrinseca dello strumento giuridico, quanto le molteplici coloriture ideologiche che esso può assumere all’interno di un medesimo progetto politico. Ciò non toglie peraltro che l’essere attore all’interno in una data coscienza giuridica condizioni la visione politica. Vale ovviamente anche l’opposto: la politica plasma la coscienza giuridica. Si potrebbe allora dire con von Clausewitz che il diritto è politica, ma politica “con altri mezzi”. Dunque non semplicemente politica perché il diritto non è riducibile alla politica, e molto ci sarebbe da dire su quegli “altri mezzi”. Ma per Kennedy è vera anche la reciproca: in analogia con Carl Schmitt può dirsi che la politica è diritto “con altri mezzi”, nel senso che la politica scaturisce tanto dall’inattingibile esigenza di razionalità etica, quanto dagli interessi economici o dalla pura sete di potere cui è tanto spesso associata. Lo scenario complesso che emerge avvolge e condiziona l’osservatore stesso, e viene indagato da Kennedy attraverso una narrativa che legge il fenomeno giuridico mediante le dinamiche della globalizzazione. Con questa espressione si indica quell’articolato processo che porta alla formazione di una coscienza giuridica (legal consciousness) globale, la quale rappresenta un modo di ragionare, una struttura del pensiero, un vocabolario di concetti, in definitiva, un linguaggio, da cui i giuristi, tanto del centro quanto delle periferie e semiperiferie del globo, traggono le argomentazioni tipiche che poi utilizzano. Tre sono le fasi storiche nelle quali emerge una coscienza giuridica globale: il pensiero giuridico classico (dalla metà del XIX all’inizio XX secolo), il sociale (i primi 70 anni del XX secolo) e il pensiero giuridico contemporaneo (dalla metà del XX secolo ai giorni nostri). Le tre globalizzazioni si pongono come accadimenti all’interno della trama dello sviluppo militare, del potere economico e delle ideologie 17 egemoniche che connota il periodo capitalista della storia del mondo. 1. I confini temporali del pensiero giuridico classico (la prima globalizzazione) vanno dalla metà del XIX secolo all’inizio del XX. Figura centrale in questa fase è quella del giurista, autore di trattati o autorevole ispiratore di codici. Ciò che si globalizza è un modo di concepire il diritto come un sistema di sfere d’autonomia costruito per attori pubblici e privati. I confini tra tali sfere sono delineati dalla scienza giuridica, il cui postulato base si identifica nel dogma della volontà: il diritto è l’insieme di quegli strumenti di cui lo Stato si serve per proteggere le prerogative dei singoli e aiutarli a realizzare il loro volere finché ciò non si scontri con il volere degli altri. Applicato al contratto, questo dogma si configura come autonomia contrattuale (freedom of contract) e consiste in due idee-guida: i contratti sono il frutto dell’incontro di volontà, cioè dell’accordo; la stipula di un contratto è il risultato di una libera scelta, non ostacolata all’esterno dallo Stato. Partendo dal dogma della volontà, i giuristi ricavano le regole per la soluzione dei casi e la costruzione del sistema attraverso un metodo deduttivo e formalista; tutto ciò risponde ad un’ideologia marcatamente individualista. Il formalismo giuridico si manifesta, in Francia, con il positivismo della Scuola dell’Esegesi, in Germania, con la Giurisprudenza dei Concetti. Entrambi questi movimenti di pensiero postulano la riduzione del fenomeno giuridico alla legge posta dallo Stato e contenuta nei codici. Entrambi gli orientamenti escludono il riferimento a valori ulteriori rispetto alla lettera del codice. In questa fase, grande è il rilievo accordato alla proprietà, vista come la proiezione della volontà del soggetto nel mondo esterno. Il diritto di proprietà – formulato in termini assoluti nell’art. 544 del codice civile francese – è il calco del diritto soggettivo, categoria astratta, ma funzionale agli interessi della classe borghese. Queste idee guida espresse dal pensiero giuridico classico si diffondono e si connotano diversamente nelle varie aree che toccano, ma, in ogni caso, la 18 concezione assoluta del diritto di proprietà si radica profondamente nella cultura giuridica globale di questa epoca. 2. I primi settant’anni del secolo XX vedono delinearsi una seconda tradizione giuridica. Nella nuova fase, la parola d’ordine è il sociale (The Social) e il protagonista non è più il professore di diritto, ma il legislatore, che limita e corregge il diritto astratto dei codici con la legislazione speciale, volta a tutelare e proteggere soggetti deboli (es. lavoratori subordinati e locatari). L’essenza di questa nuova coscienza giuridica è, prima di tutto, una critica al pensiero giuridico classico, accusato di non rispondere più alle nuove esigenze sociali e di abusare del metodo deduttivo, nel senso che gli esponenti del pensiero giuridico classico affermavano di dedurre in via interpretativa le regole dai principi, mentre, in realtà, cercavano di adattare il diritto ad uno scenario ormai mutato, scandito da fenomeni di industrializzazione, urbanizzazione, globalizzazione dei mercati. Questi processi producevano tensioni crescenti tra forza lavoro e capitale, tra grandi e piccole imprese, che non potevano più essere governate soltanto dal diritto dei codici, ma richiedevano ampi progetti di riforme. La coscienza giuridica che si diffonde in questa fase sostituisce al dogma della volontà e ai suoi corollari una concezione del diritto quale mezzo per raggiungere scopi di carattere sociale. Le clausole generali sono gli strumenti ideali per cogliere questo rapporto di interdipendenza tra la dinamica giuridica e il contesto in cui la regola opera. Ne deriva la loro fioritura e il loro utilizzo per la tutela delle classi più deboli. Ora, è proprio la formula elastica della “funzione sociale” a segnare le vicende della proprietà in questa fase. Il diritto di proprietà perde la sua aura sacrale e viene degradato ad interesse economico, suscettibile di subire limitazioni da parte del legislatore. In Italia, il principio della proprietà conformata qualifica il diritto di proprietà come creazione della legge, che, nel configurarlo e definirlo, risponde ad esigenze di carattere generale. Lo strumento per realizzare e legittimare quest’opera di 19 conformazione legislativa della proprietà è la formula elastica della funzione sociale di cui all’art. 42, comma 2° Cost., che, saldandosi alla riserva di legge prevista nella stessa norma costituzionale, plasma la proprietà in modo tale da renderla accessibile a tutti e da realizzare così l’interesse generale. Nel disegno dell’Assemblea costituente, questo meccanismo deve fare in modo che, nei contrasti tra interesse proprietario e interesse sociale, sia data prevalenza a quest’ultimo. La funzione sociale viene quindi concepita, non come un criterio di bilanciamento, ma di selezione tra interessi contrapposti 16 , legittimando politiche di riequilibrio e sostegno dello Stato a favore di classi deboli. In realtà, nell’esperienza successiva, il potenziale redistributivo insito nella funzione sociale risulterà notevolmente affievolito. Questo esito è imputabile principalmente alla condotta della Corte costituzionale, la quale ha operato come un fattore frenante rispetto alla conformazione delle situazioni proprietarie realizzata dal legislatore ordinario 17 . L’attivismo della Corte attua una vera e propria cancellazione della funzione sociale e ricorre invece al principio di uguaglianza formale per rafforzare le posizioni proprietarie. 3. Il pensiero giuridico contemporaneo copre un arco di tempo che va dalla metà del XX secolo ai giorni nostri. Non esiste un’idea base destinata a diffondersi a livello globale, né il Contemporary Legal Thought è immaginabile come la sintesi delle due tradizioni giuridiche passate. Esso, invece, si presenta come la problematica unione di tratti che provengono dalle fasi precedenti, ma che sono ormai trasfigurati; è compito dei giudici, protagonisti assoluti in questa fase, gestire i conflitti e le controversie che uno scenario del genere continuamente produce. S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, in Il terribile diritto, Bologna, Il Mulino, II ed. 1990, 273, 321; Id., Note critiche in tema di proprietà, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, 1252, 1279. 17 S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, cit., 370. 16 20 Gli elementi delle globalizzazioni passate che si ripresentano in altra forma sono sostanzialmente due: il neoformalismo e il ricorso alla policy analysis. Il primo carattere proviene dal pensiero giuridico classico, nel cui contesto dominava il ricorso alla logica deduttiva all’interno di un sistema di diritto positivo che si voleva coerente. Il formalismo oggi viene impiegato non più nel settore del diritto privato, come nel XIX secolo, ma nell’interpretazione dei trattati internazionali, quindi nel diritto pubblico, costituzionale, nel diritto penale, ecc. La policy analysis consiste in una tecnica di argomentazione giuridica che porta in esponente gli interessi sottesi alle norme che si applicano e alle decisioni prese. Si tratta di un approccio utilizzato dalle corti di tutto il mondo, cui sono dati nomi diversi: i giudici di common law ricorrono all’opera di bilanciamento degli interessi contrapposti (balancing of conflicting considerations), mentre quelli di civil law utilizzano il giudizio di proporzionalità. L’esito di tutto ciò è la produzione di regole compromissorie, che non esprimono un chiaro intento sociale, come accadeva invece nei primi 70 anni del secolo scorso. Come si vede, il neoformalismo è la versione trasfigurata di un tratto tipico del pensiero giuridico classico, mentre la policy analysis è una ‘evoluzione’ del Sociale. Per quanto entrambi abbiano diffusione e rilevanza mondiali, sembra possibile individuare per essi una genealogia statunitense: mentre il neoformalismo ricorda la pratica delle corti americane nel tardo XIX secolo, volta a tradurre nel settore del diritto costituzionale le costruzioni proprie del diritto privato classico, la policy analysis e l’opera di bilanciamento degli interessi sono sviluppi statunitensi dell’epoca successiva a quella del realismo giuridico18. Sul punto cfr. M. Lasser, Judicial Deliberations: A Comparative Analysis of Judicial Transparency and Legitimacy, Oxford, Oxford University Press 2004; Du. Kennedy, A Transnational Genealogy of Proportionality in Private Law, in R. Brownsword, H. W. Micklitz, L. Niglia, S. Weatherhill (eds.), The Foundation of European Private Law, Oxford and Portland, Oregon, Hart Publishing 2011, 185; Cfr. Id., Three Globalizations of Law and Legal Thought: 18502000, cit., 69. L’A. avverte però che la matrice statunitense di queste tecniche non va enfatizzata e che, soprattutto per la policy 18 21 Manca oggi una nuova coscienza giuridica dal carattere globale, come era stato per la teoria della volontà durante il pensiero giuridico classico e la nozione di interdipendenza propria del pensiero sociale. è presente invece una netta critica al sociale, sviluppatasi già a partire dagli anni 1930 e perlopiù indirizzata all’antiformalismo proprio dei programmi di riforma. Questa critica, proveniente tanto dalle correnti di sinistra quanto da quelle di destra – sotto questo profilo alleate, così come lo erano state le versioni socialdemocratica e fascista del sociale – mette sotto accusa le istituzioni burocratiche nate all’insegna del sociale in quasi tutti i settori del diritto e il loro modo “autoritario” di amministrare la giustizia, riaccreditando, invece, la tutela formale dei diritti, questa volta “umani” e non più “individuali”, come nel pensiero giuridico classico o “sociali”, come nella seconda globalizzazione. Si spiega in tal modo l’enfasi odierna sul ruolo dei giudici, depositari del compito di riconosce e proteggere i diritti umani solennemente proclamati nelle carte e nei documenti internazionali varati dal secondo dopoguerra in poi. Le corti operano, però, in un contesto ormai mutato, ove il linguaggio dei diritti non si associa più ad obiettivi perequativi tipici dell’epoca precedente, ma è molto spesso strumentale alle esigenze del mercato e si trova inserito in un mondo sociale estremamente frazionato, caratterizzato dalla proliferazione di diverse identità, al quale non si adatta più l’idea di un’unica risposta giuridica. Anche in ordine al diritto di proprietà, l’epoca presente segna un ritorno all’individualismo, dopo che, con il ritrarsi del welfare state, si è assistito al fallimento ed alla degenerazione delle politiche riconducibili alla funzione sociale. In questa chiave si può leggere la vicenda italiana dell’occupazione acquisitiva: un abuso della pubblica amministrazione, giustificato dal vago riferimento alla funzione sociale. In generale, nei documenti sovranazionali, la proprietà riguadagna il rango di diritto fondamentale, dotato del analysis e per il bilanciamento degli interessi, esistono chiari referenti europei nel pensiero di Rene Demogue e Philip Heck prima del secondo dopoguerra e, in ordine al bilanciamento degli interessi, nelle prime decisioni della Corte costituzionale tedesca. 22 crisma dell’assolutezza e dell’inviolabilità: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea colloca la norma in materia di proprietà (art. 17) nel capo dedicato al valore della Libertà, riproponendo in modo esplicito il binomio ottocentesco libertà-proprietà. Il rafforzamento attuale del paradigma dominicale opera anche e soprattutto nei confronti dell’immateriale e si esprime nella tendenza a concettualizzare in termini di “proprietà intellettuale” i diritti di privativa e di esclusiva (cfr. l’art. 17 comma 2, Carta dei diritti fondamentali UE: “La proprietà intellettuale è protetta”): essi non solo estendono il loro oggetto, fino a ricomprendere i geni umani, ma sono costruiti dalle corti in modo sempre più assoluto, senza limiti, con la conseguente netta riduzione della sfera del public domain. 23 Il retroterra giuridico P. Grossi, La proprietà e le proprietà, oggi, in G. Collura (cur.) Coordinamento dei dottorati di ricerca in diritto privato, Giuffrè, 2009, pp. 1-19. [...] 2. Storicità della proprietà; e qualche cautela metodologica. Per avviarci in modo culturalmente provveduto, sarà bene cominciare facendo nostro l’ammonimento di un grande storico, Marc Bloch, penetrante indagatore sulla storia dei rapporti di appartenenza: “Propriété, propriétaire: que voilà appliqués au Moyen Age des mots lourds d’équivoques” (M. BLOCH, Village et seigneurie: quelques observations de méthode à propos d’une étude sur la Bourgogne, in Annales d’histoire économique et sociale, IX (1937), p. 497). E accogliamo subito come prezioso accorgimento metodologico l’invito a non fidarsi di un vocabolario che, apparentemente fisso, sembra segnalare una assoluta immobilità, mentre, al contrario, sotto quella corteccia illusoria v’è una cangiantissima mobilità di contenuti. E la prima cautela per lo storico del diritto è affondare nelle diverse identità che ogni esperienza giuridica dà al problema del rapporto supremo fra uomo e terra, fra uomo e cose, ossia alla proprietà. Storicità della proprietà: se ogni invenzione giuridica ha necessariamente una sua espressività storica, ed esprime cioè fedelmente il contesto che la genera, ciò si esalta al massimo grado nell’istituto che vogliamo indagare; che non si risolve mai in determinate scelte tecniche ma che riflette scelte fondamentali d’una civiltà storica. E la proprietà è stata (ed è) ben spesso l’incarnarsi di una filosofia, di una ideologia, arrivando a concretarsi in principii che hanno origine nelle vette alte della morale e della religione. 24 È grazie a queste elementari cautele che potremo tentar di sciogliere nodi storico-giuridici intricatissimi e veder più chiaro nel complesso itinerario storico. 3. Le proprietà dei medievali. Nella civiltà medievale tutto discende da quello che mi è sempre parso il suo carattere essenziale e tipizzante: la assenza di un soggetto politico munito di psicologia totalizzante, e perciò teso a controllare l’intiera dimensione economico-sociale. E proprio perché non c’è il grande burattinaio che vuole maneggiare tutti i fili, il diritto – se si eccettua quella porzione che serve al Principe per l’esercizio dei suoi poteri –non viene confezionato in alto né è la voce dell’autorità. Lo plasmano – in specie il diritto privato – le grandi forze plurali circolanti nella società, con un moto che viene dal basso, con un processo spontaneo che non ha nulla di artificioso. Se è vero che il diritto non è mai una nuvola che galleggia sulla storia, qui non è un potere politico a segnarlo con il suo marchio riduttivo, ma una miriade di fatti – geologici, climatici, agronomici, economici, sociali. Il diritto è soltanto il risultato preteso da questi fatti ed espresso dalla più terragnola tra le fonti giuridiche, la consuetudine, i mille usi che consolidano in regole e invenzioni elementari la voce proveniente dalla bassa dimensione fattuale. Qui, insomma, il diritto è unicamente lettura di un ordine che non l’autorità crea e non creano i giuristi, ma che va constatato tra le pieghe della natura cosmica e della società. È solo presupponendo questo atteggiamento d’una intiera civiltà che ci si può accostare correttamente al suo tipicissimo modo di risolvere il problema della appartenenza giuridica d’un bene. Si capirà, cioè, qualcosa (anzi, molto), se si assumerà come nostro l’angolo di osservazione che fu proprio dei medievali: guardando al rapporto uomo/cose non dall’alto della testa del soggetto e della sua volontà, ma dal basso, dalle cose stesse. Infatti, in una civiltà giuridica fattuale, non è centrale il soggetto, bensì la piattaforma oggettiva dove i fatti si originano e prosperano. Io non ho mai avuto esitazione nell’identificare in un intenso reicentrismo – centralità 25 della res, della cosa – la cifra essenziale del medioevo giuridico. Ed è sulla cosa, sulla sua struttura complessa, che si cerca di modellare gli istituti della appartenenza, cercando di cogliere e di rispettare le sue regole intime e soprattutto le sue esigenze reali, quelle esigenze cui era legato il risultato prezioso della sua massima produttività. È ovvio che, in una società totalmente agraria nei primi secoli medievali e prevalentemente agraria nei più tardi, la cosa che riceva 1’attenzione principale dei giuristi sia la res frugifera, la cosa produttiva, soprattutto il fondo rustico; ed è altrettanto ovvio che ricevano attenzione i fatti connessi alla sua produttività. Se, in una civiltà giuridica rigidamente proprietaria ma anche rigidamente individualistica come la romana, ciò che conta è il potere del soggetto sul bene, qui si dà – al contrario – il massimo rilievo a fatti puramente economici come utilizzazione, godimento, gestione del bene resi ancora più imperativi dalla lunga durata. Non c’è spazio per istanze formalistiche; quel che conta - più che la vita del soggetto - è la vita della cosa, che si manifesta in fatti che solo un soggettivismo formalista può relegare nel limbo della irrilevanza. È proprio su questa base che si premia non la titolarità formale ma la posizione di effettività su un bene. Il proprietario, il cui diritto risulta dalla iscrizione nei libri fondiarii, non viene espropriato; viene, invece, devitalizzato consentendo la gigantizzazione giuridica accanto a lui di chi proprietario non è. È in questa visione progettuale che, nel medioevo sapienziale, nei secoli XII e XIII, una sensibilissima scienza giuridica costruisce la teoria del dominio diviso, del doppio dominio. La cosa viene disegnata come realtà complessa composta da una substantia interna e da una utilitas esterna, la prima che compete in ogni caso al proprietario formale, all’intestatario del bene, la seconda valorizzata da quel soggetto che il proprietario ha immesso sulla cosa per raggiungere la maggiore utilizzazione economica. Il diritto romano aveva ben conosciuto questa divisione di funzioni, ma aveva ridotto la funzione utilizzatrice entro il rigido schema della locazione, dove al 26 cosiddetto conduttore veniva riconosciuta la fragilissima condizione di una intutelata detentatio. Glossatori e commentatori, che pur lavorano sui testi romani ma che sono personaggi ben inseriti nella società medievale e nei suoi valori circolanti, avvertono che protagonista economico è il concessionario del bene quando la concessione si distenda per una durata non effimera, e non esitano a promuoverlo giuridicamente. In rapporto alle due autonome dimensioni della cosa - o pretese tali: substantia e utilitas - si costruiscono due situazioni proprietarie, il dominio diretto e il dominio utile, perfettamente autonome l’una rispetto all’altra e circolabili autonomamente l’una indipendentemente dall’altra. Se vogliamo, si ha una pluralizzazione e, conseguentemente, una profonda relativizzazione della nozione di proprietà. Su una stessa cosa ci possono essere più proprietà, una delle quali non nasce da compravendita o da eredità ma piuttosto dai fatti grezzi dell’uso, del godimento, della gestione, dell’impegno nella valorizzazione della cosa. Queste proprietà sono scritte nella cosa, ed è lì dove i grandi interpreti medievali pretendono di leggerle. Non diceva forse un acuto giurista abruzzese del Trecento, Luca da Penne, che il dominio utile “potius accedat rei potius quam personae” (LUCA DA PENNE, In tres posteriores libros Codicis Justiniani, Lugduni, 1582, ad 1. Praedia, C. de lo catione praediorum civilium vel fiscalium (lib. XI), n. 51), è più una dimensione della cosa che della persona? 4. Il ritorno a la proprietà: genesi e sviluppo della proprietà moderna. Ma in quel Trecento quando si poteva affermare con sicurezza la frase appena ricordata, cominciano anche le prime incrinature nell’ edificio medioevale e, insieme, i primi fermenti di un’età nuova. Il Trecento è, infatti, per lo storico del diritto l’avvio del processo lentissimo e faticoso che porterà alla costruzione di un nuovo edificio socio-economico-politico. Stanti i limiti di questa lezione, basti qui segnare il senso e le motivazioni delle nuove direzioni di marcia. 27 Con un moto crescente, si mandano in soffitta il reicentrismo e il comunitarismo dei medievali improntando a ogni livello pensiero e azione verso un fine unitario: l’affrancazione dell’individuo, di ogni individualità, dai passati condizionamenti, la sua nuova posizione di pilastro portante al centro della società. Sul piano pubblicistico campeggerà l’individuo/Stato, che si toglie di dosso il mantello ingombrante del decrepito universalismo politico, e sul piano privatistico un soggetto singolo identificato soprattutto nella più indipendente delle dimensioni psicologiche, la volontà, vocato a dominare il mondo senza esserne dominato. Al civilista preme sottolineare l’abbandono del vecchio reicentrismo per un deciso antropocentrismo. Si aggiunga, sul piano socio-economico, un altro sostanzioso mutamento: il ceto mercantile, già rilevante nel secondo medioevo, assume un ruolo sempre più determinante siglando una alleanza non scritta ma solidissima con il potere statuale e trasformandosi in una classe decisa alla conquista del potere supremo. Il che avverrà - lo sappiamo bene - solo a fine Settecento con la grande rivoluzione, ma quale èsito e traguardo di un processo plurisecolare; dal Trecento in poi ci si sta incamminando verso un’età e una civiltà che può correttamente essere qualificata come borghese, quando il protagonismo della nuova classe virulenta si congiunge armonicamente con un assetto sempre più capitalistico delle strutture economiche. In questo contesto segnato su ogni piano da una profonda rinnovazione continuano a stagnare per tutto l’antico regime le vecchie proprietà medievali, come continua a stagnare in seno a una inerzia sonnolenta il cadavere di una organizzazione postfeudale della società. Ma, dapprima sul piano teologico e filosofico, poi su quello politologico, e poi anche su quello filosofico-giuridico, si comincia a incidere a fondo sulla nozione di proprietà. Al riuscito tentativo medievale di valorizzarne la dimensione oggettiva arrivando a leggerla nella cosa e a esemplarla sulla complessità della cosa fino a operare lo sdoppiamento fra un dominio diretto e un dominio utile, si contrappone un altro tentativo di segno 28 perfettamente contrario, che tarderà a riuscire a livello giuridico realizzandosi soltanto con il decreto rivoluzionario del 15 marzo 1790 demolitivo della intelaiatura feudale della società francese. Si ricomincia a guardarvi dal punto di osservazione del soggetto; si sottrae la proprietà dall’ esilio mortificante nella bassa corte delle cose, si condanna come una aberrazione la sua pluralizzazione; si torna a vincolarla all’individuo singolo coglièndola quale sua inseparabile dimensione e se ne recupera in modo inflessibile l’unitarietà. La proprietà, ombra del soggetto sulle cose e orma tangibile della sua assoluta sovranità sulle cose, non può che essere una. I nuovi atteggiamenti individualistici non mancano di vedere in essa l’arma più appuntita da fornire al nuovo individuo liberato, presidio e garanzia della sua libertà dalle e sulle cose, della sua libertà dagli inammissibili impacci comunitarii. Insomma, la proprietà - fondèndosi con la libertà del soggetto - diviene una sua irrinunciabile dimensione. Si fa, addirittura, qualcosa di più: se ne fa una sua dimensione interiore. La proprietà non ha la sua origine nella realtà esterna quale opportuna organizzazione della appartenenza dei beni; è, invece, come nella grande teorizzazione lockiana di fine Seicento, una qualità intima impressa nello interior homo da, una benefica divinità e basata sull’istinto di conservazione individuale. Infatti, solo se io sono padrone delle mie membra, dei miei talenti, dei miei istinti arriverò al risultato di una perfetta conservazione. Il dominium sui, la proprietà che io ho di me stesso, è visto come un interno meccanismo proprietario destinato a proiettarsi verso l’esterno ed essere l’origine e il fondamento di ogni proprietà visibile di ogni cosa corporale, anche del più vasto latifondo. Non sono, queste, esercitazioni retoriche meritevoli di ridicolizzazione da parte della nostra affinata coscienza critica. Si trattava, invece, di una provetta operazione strategica, che permetteva il perfetto raggiungimento di un risultato ritenuto imprescindibile dalla nuova civiltà in costruzione: la assolutizzazione dell’istituto proprietario, giacché, sorpresa nel fondo dell’animo 29 umano quale suo meccanismo interiore, la proprietà non poteva che caratterizzarsi della stessa assolutezza dei valori morali e religiosi gelosamente custoditi nello interior homo. Essa saltava di piano, e, da strumento regolatore inventato dagli uomini nella loro vicenda storica, trovava un posto d’onore in seno al diritto naturale, diveniva qualcosa di meta-storico, qualcosa di inestricabilmente connesso alla umana natura, qualcosa di sacro, qualcosa che le vicende storiche non potevano toccare e che i poteri politici transeunti erano chiamati a rispettare integralmente. I fisiocrati - questi primi disegnatori a metà Settecento di una nuova scienza, l’economia - non mancano di martellare su questa indiscutibile sacralità, e la stessa Rivoluzione nel suo primo atto solennissimo, la Déclaration des droits dell’agosto 1789, lo fisserà càrdine dell’ordine nuovo proc1amàndolo nell’ articolo 17 “droit inviolable et sacré”. Quando legislatori e giuristi, tra Settecento e Ottocento, ossia al fondo dell’imbuto storico or ora sommariamente descritto, tradurranno in termini giuridici il precedente lavorìo filosofico e politologico, ci disegneranno un istituto totalmente di nuovo conio. Dapprima, si possono constatare ancora alcune incertezze concettuali (per esempio, all’interno dello stesso Code Civil e dello stuolo di esegeti chiamati a commentarlo), ma è chiara la tecnica costruttiva: l’istituto viene modellato sul soggetto perché si tratta di una dimensione del soggetto anche se resa carnale e vistosa nella concretezza di una massa patrimoniale. Ed ecco i suoi caratteri essenziali e tipizzanti: e una e semplice, come uno e unilineare è il soggetto; ed è astratta perché acontenutistica, perché non chiede di essere tipizzata da un determinato contenuto, perché è l’opposto di una realtà fattuale. Uso, godimento, gestione, che avevano dato corpo a una proprietà - il dominio utile - nella visione fattualistica dei dottori del diritto comune, sono ormai soltanto degli accidenti. La proprietà è, a questo punto, unicamente il supremo potere dell’individuo protagonista nella società, in prima posizione all’interno di quella categoria che la 30 filosofia giuridica moderna ha elaborato per lui, il cosiddetto diritto soggettivo. L’acme di questo processo costruttivo e anche di questa scarnificante purificazione si ha nella matura riflessione pandettistica, dove il modello moderno di proprietà giunge alla sua più coerente definizione teoretica e tecnica. Basta aprire il testo eloquentissimo del Pandektenrecht di Bernardo Windscheid per averne la riprova: nessuna considerazione per la cosa, “ein Stück der vernunftloser Natur” (Lehrbuch des Pandektenrechts, B.I., Frankfurt am Main, 19069, § 137), semplice oggetto passivo di voglie e poteri; e c’è, invece, la spasmodica ricerca di quella Reinigkeit che appare come il marchio costruttivo ma ariéhèilcontrassegno di perfezione di uno abstrakte Zivilrecht. E mentre glossatori e commentatori si erano affannati nell’enumerare i diritti del proprietario in coerenza con la loro idea ferma di una proprietà quale fascio di poteri, realtà composita ma anche scomponibile, Windscheid e i suoi ridicolizzano un siffatto zelo ritenèndolo sterile e insensato. Mai, in questa elevata e conclusiva visione moderna, il volto della proprietà è affidato a contenuti, facoltà, poteri, diritti. È piuttosto una totalità, una sintesi; essa è un prius logico e storico rispetto a contenuti, facoltà, poteri, diritti che ne sono la semplice manifestazione nella bassa corte della vicenda sociale del soggetto proprietario. Con la visione e costruzione pandettistica la civiltà borghese, bene espressa nel maturo capitalismo tedesco di metà Ottocento, muniva il suo protagonista – l’individuo abbiente - di un agguerrito strumento di dominanza sulla realtà sociale e di difesa contro l’ingerenze del potere politico. […] 31 PARTE PRIMA La prima globalizzazione La genealogia della proprietà nello stato liberale. a) La filosofia politica 1) J. Locke, Capitolo V. Della proprietà, in Due trattati sul governo. Secondo Trattato, 1690. 25. Sia che si ascolti la legge naturale, la quale ci dice che gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda e a tutto ciò che natura offre per la loro sussistenza; sia che si ascolti la rivelazione, la quale ci descrive la donazione che del mondo Dio fece ad Adamo, a Noè e ai suoi figli, è comunque evidente che Dio, come dice re Davide (Salmi, CXIII, 16), «ha dato la terra ai figli degli uomini», l’ha data in comune a tutta l’umanità. Ciò posto, ad alcuni sembra difficilissimo spiegare come si sia venuti, ad avere singolarmente proprietà di qualcosa. Non mi contenterò di rispondere che, se è difficile spiegare la proprietà supponendo che Dio abbia dato il mondo ad Adamo e ai suoi discendenti in comune, è addirittura impossibile affermare che qualcuno abbia proprietà di qualcosa, tranne un solo monarca universale, se si suppone che Dio abbia dato il mondo ad Adamo e ai suoi eredi in successione diretta, escludendo tutto il resto della sua discendenza. Cercherò invece di mostrare come gli uomini poterono giungere ad avere in proprietà singole parti di ciò che Dio aveva dato in comune al genere umano, e ciò senza alcun patto esplicito di tutti i membri della comunità. 32 26. Dio, che ha dato la terra in comune agli uomini, ha dato loro anche la ragione, onde se ne servissero nel modo più vantaggioso per la vita e il benessere loro. La terra, e tutto ciò che essa contiene, viene data agli uomini per la sussistenza e il piacere di vivere. E per quanto tutti i frutti che essa naturalmente produce e gli animali che sostenta appartengano in comune all’umanità, essendo prodotti dalla spontanea mano della natura, senza che nessuno ne abbia originariamente un privato dominio a esclusione del resto degli uomini, essendo tutti nello stato di natura, pure, dato che tutto ciò è inteso all’utilità degli uomini, dev’esserci di necessità un mezzo di .appropriarselo in un modo o nell’altro, prima che possa essere d’un qualche vantaggio o beneficio a un singolo individuo. Il frutto o la preda di cui si nutre l’indiano che non conosce recinzioni e possiede ancora in comune la terra, se deve in qualche modo giovargli per la sussistenza, deve appartenergli, e appartenergli (essere cioè parte di lui) in modo che nessun altro possa avervi più diritto. 27. Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà del lavoratore, nessun altro che lui può aver diritto a ciò cui esso è stato incorporato, almeno là dove avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti e altrettanto buoni. [...] 33 29. Se fosse necessario il consenso esplicito di ogni membro della comunità perché ci sì possa appropriare una parte di ciò che è dato in comune, i figli o i servi non potrebbero tagliare il cibo che il padre o il padrone ha provveduto loro in comune, senza assegnare a ciascuno la sua parte particolare. Sebbene l’acqua che scorre in una fontana sia di tutti, chi può dubitare tuttavia che quella ch’è in un secchio appartenga esclusivamente a colui che l’ha attinta? Il suo lavoro l’ha presa dalle mani della natura, in cui era comune e apparteneva egualmente a tutti i figli di lei, e con ciò se l’è appropriata. 30. È dunque questa legge di natura ad assegnare il cervo all’indiano che l’ha ucciso: è convenuto che un oggetto appartiene a colui che vi ha dispensato il suo lavoro, per quanto in precedenza fosse diritto comune di tutti. E presso coloro che sono considerati la parte più civile dell’umanità, che hanno creato e moltiplicato le leggi positive per definire la proprietà, vige ancora quest’originaria legge naturale che instaura la proprietà di ciò che era prima in comune. In forza di essa il pesce che uno pesca nel mare (grande superstite possesso comune dell’umanità), l’ambra grigia che uno vi trova, grazie al lavoro che li sottrae alla condizione comune in cui la natura li lascia, diventano proprietà di coloro che vi prodigano la loro fatica. Anche presso di noi, la lepre braccata è ritenuta proprietà di colui che la insegue durante la caccia; essendo infatti un animale che viene ancora considerato comune e non di proprietà privata di nessuno, chiunque ha fatto la fatica di stanarla e inseguirla l’ha con ciò stesso sottratta allo stato di natura, in cui apparteneva in comune a tutti, e ha instaurato una proprietà. 31. I- Al che forse si obietterà che se il raccogliere di ghiande o altri frutti della terra, e così via, crea un diritto su di essi, un uomo può accaparrarsene quanti ne vuole. Al che rispondo di no. La stessa legge di natura che ci conferisce con quel mezzo la proprietà, ce la limita anche. «Dio ci ha dato abbondantemente ogni cosa» (I Tim. VI, 17): questa è la voce della ragione 34 confermata dalla rivelazione. Ma con quale limitazione Dio ce l’ha data? «A godere». Di quanto si può prima che vada perduto far uso a vantaggio della propria vita, di tanto si può col proprio lavoro istituire la proprietà: tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri. Nulla fu creato da Dio per l’uomo onde vada perduto o distrutto. E così, considerata l’abbondanza di scorte naturali che da tanto tempo sono al mondo, e i pochi consumatori, e quanto piccola parte di tali scorte potrebbe l’industria di un uomo raggiungere e accaparrarsi a pregiudizio di altri, specialmente se attinge, entro i limiti stabiliti dalla ragione, da ciò che può servire al suo uso, ben scarsa occasione rimarrebbe per dispute o contese sulla proprietà così stabilita. 32. 2. Ma poiché ora il principale oggetto della proprietà consiste non nei frutti della terra o negli animali che vivono in essa, ma nella terra stessa, come quella che comprende in sé e porta con sé tutto il resto, mi pare evidente che anche la proprietà della terra sia acquisita allo stesso modo che l’altra. Quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla proprietà comune. E non invaliderà questo suo diritto il dire che qualsiasi altro vi ha pari diritto, e perciò egli non può appropriarsela, non può recingerla senza il consenso di tutti gli altri membri della sua comunità, cioè a dire di tutto il genere umano. Dio, quando diede il mondo in comune a tutti gli uomini, comandò all’uomo anche, di lavorare, e l’insufficienza della sua condizione esige ch’egli lavori. Dio e la sua ragione gli hanno comandato di sottomettere la terra, cioè a dire di coltivarla a beneficio della vita, stendendo su di essa qualcosa ch’era suo proprio, cioè a dire il suo lavoro. Colui che, in ottemperanza a questo comando di Dio, ha sottomesso, coltivato e seminato una porzione di terra, vi ha con ciò aggiunto qualcosa ch’era sua proprietà, che un altro non può fare oggetto d’un suo diritto, né potrebbe togliergli senza ingiustizia. 35 33. Né questa appropriazione di una porzione di terra in base alla coltivazione di essa torna a pregiudizio per altri, poiché ne rimane sempre abbastanza e altrettanto buona, e più di quanta possa servire a chi ne è ancora sprovvisto. Così che, in realtà, per un’appropriazione particolare ne rimane tuttavia sempre per gli altri, perché chi ne lascia quanta possa servire ad altri, fa come se non ne avesse punto presa. Colui, a cui rimane un intero fiume a sedare la sua sete, non può ritenersi offeso se un altro beve, sia pure a grandi sorsi della medesima acqua; e il caso della terra e quello dell’acqua, quando dell’una e dell’altra ve ne sia abbastanza, sono perfettamente identici. [...] 39. Così, senza supporre che Adamo avesse alcun privato dominio o proprietà del mondo ad esclusione di tutti gli altri uomini (cosa, questa, che non può essere assolutamente provata, ne può servire a fondare la proprietà di altri), ma supponendo invece che il mondo sia stato dato, come fu dato, in comune ai figli degli uomini, si comprende come il lavoro potesse dare a costoro singolarmente diritto a parti distinte di esso, per i loro usi privati; e in ciò non poteva esservi dubbio quanto al diritto, né luogo a contesa. 40. Neppure è così strano come a prima vista può sembrare che la proprietà del lavoro potesse contare più della comunità della terra. È infatti il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del valore, e basta considerare quale differenza vi sia fra un acro di terra piantato a tabacco o zucchero, seminato a frumento o orzo, e un acro della stessa terra lasciato in comune senza che nessuno lo coltivi, per comprendere che la parte di gran lunga più grande del valore è data dai frutti del lavoro. Credo si possa dire con un calcolo ancora molto modesto che dei prodotti della terra che servono alla sussistenza dell’uomo nove decimi sono effetto del lavoro. Anzi, se vogliamo giustamente valutare le cose come ci giungono fra mano, e calcolare i diversi costi, distinguendo quel che di esse è dovuto esclusivamente alla natura e quello che è dovuto al 36 lavoro, vedremo che nella maggior parte. dei casi il novantanove per cento dev’essere attribuito al lavoro. 41. Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella offerta da diversi popoli d’America, ricchi di terra e poveri di tutti i beni della sussistenza. La natura ha donato loro non meno generosamente che ad altri popoli la materia prima della ricchezza, cioè un suolo fertile, capace di produrre in abbondanza tutto ciò che può servire per il cibo, il vestiario e il piacere; ma, quella terra non essendo messa a frutto dal lavoro, essi non hanno la centesima parte dei beni di cui noi godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese. 42. Per chiarire un po’ meglio questo punto, basterà seguire tappa per tappa il cammino che i più consueti mezzi di sussistenza percorrono prima di arrivare al consumo che noi ne facciamo, e vedere quanto del loro valore essi ricavino dall’industria umana. Pane, vino e stoffa sono cose di uso quotidiano e diffuse ampiamente; ma bacche, acqua, foglie o pelli costituirebbero per noi cibo, bevanda e vestiario, se il lavoro non ci fornisse quei tanto più utili beni. Ora, quel tanto che il pane vale più delle bacche, il vino più dell’acqua, il panno o la seta più delle foglie, delle pelli o del muschio, è interamente dovuto al lavoro e all’industria, questi essendo il cibo e il vestiario che la natura lasciata a se stessa ci offre, quelli i beni che la nostra attività e le nostre fatiche ci procurano. Se si calcola di quanto gli uni superino gli altri in valore, si vede fino a che punto il lavoro costituisca la parte di gran lunga maggiore del valore delle cose di cui fruiamo in questo mondo. Il suolo che produce le materie prime entra a malapena nel conto, o tutt’al più per una minima parte: una parte così piccola che anche fra noi una terra lasciata interamente allo stato di natura, non messa a frutto da pascolo, coltivazione o piantagione, viene detta, ed è, terra di nessuno, e la sua utilità è poco più che nulla. Ciò dimostra quanto la densità della popolazione sia da preferirsi all’estensione territoriale e come la messa a 37 frutto delle terre e il diritto di usarne sia la grande arte del governo. Il principe tanto saggio e divino da assicurare, con salde leggi di libertà protezione e incoraggiamento all’onesto lavoro degli uomini, contro l’oppressione del potere e l’angustia delle fazioni, diverrà presto il più forte fra i suoi vicini. Ma ciò sia detto per inciso. Torniamo al nostro presente argomento. 43. Un acro di terra che produce da noi venti staia di frumento e un acro in America che, coltivato allo stesso modo, produrrebbe altrettanto sono senza dubbio dello stesso valore intrinseco; pure, il beneficio che gli uomini ricavano dall’uno in un anno è pari a cinque sterline, quello che ricavano dall’altro non vale forse neppure un soldo, se tutto il prodotto che un indiano ne trae dovesse essere valutato e venduto qui: in ogni caso si può dire che non vale neppure la millesima parte dell’altro. È dunque il lavoro che conferisce alla terra la maggior parte del suo valore, e senza il lavoro essa varrebbe poco o nulla. Si deve al lavoro la maggior parte dei beni di consumo. Il valore in più che la paglia, la crusca, il pane prodotti da un acro di frumento hanno su quanto nasce da un acro di terra altrettanto buona ma incolta, è effetto del lavoro. Nel valore del pane che mangiamo non bisogna infatti calcolare soltanto la fatica di chi ara, lo sforzo di chi miete e trebbia, o il sudore del fornaio, ma anche il lavoro di chi ha avvezzato i buoi al giogo, di chi ha scavato e lavorato il ferro e le pietre, abbattuto gli alberi e ricavato il legname adoperato per l’aratro, per il mulino, per il forno, o fabbricato tutti gli altri utensili, e sono moltissimi, che quel frumento richiede dal momento in cui viene seminato fino a quello in cui diventa pane: tutto questo dev’essere messo in conto al lavoro e considerato come effetto di esso, mentre la natura e la terra non hanno fornito se non materiali di per se stessi quasi privi di valore. Sarebbe uno strano catalogo, se mai lo potessimo fare, quello degli oggetti che il lavoro produce e impiega per ogni pagnotta che consumiamo: ferro, tronchi, cuoio, sughero, legname, pietra, mattoni, carbone, calce, stoffa, coloranti, droghe, pece, catrame, alberi, funi e tutto il materiale 38 usato sulla nave che ha trasportato una qualsiasi delle merci usate dai lavoratori in una qualsiasi fase del lavoro: tutte cose che sarebbe impossibile, o almeno troppo lungo, enumerare. 44. Da ciò è evidente che, per quanto le cose della natura fossero concesse in comune, l’uomo, essendo padrone di se stesso e proprietario della propria persona e delle azioni e del lavoro di essa, recava già in sé il grande fondamento della proprietà, e ciò che costituiva la maggior parte di quanto egli usò per la propria sussistenza e il proprio benessere, una volta che l’invenzione e le arti ebbero migliorato i mezzi del vivere, era assolutamente suo e non apparteneva in comune ad altri. 45. Il lavoro, così, da principio, assicurava il diritto di proprietà ovunque uno decidesse di esercitarlo sul patrimonio comune, che restò a lungo la parte incomparabilmente più grande ed è tuttora più di quanto l’umanità possa usare. Dapprima gli uomini si accontentarono per lo più di quanto senza alcun ausilio la natura offriva ai loro bisogni. Vero è che, in seguito, in alcune parti del mondo (là dove l’incremento della popolazione e delle scorte, grazie all’uso della moneta, avevano fatto sì che la terra scarseggiasse e acquistasse così un certo valore), le diverse comunità fissarono i confini dei loro distinti territori, e con leggi interne regolamentarono il patrimonio dei privati nella loro società, e fondarono così, per patto e accordo, quella proprietà cui il lavoro e l’attività avevano dato inizio; e vero è che le alleanze concluse fra diversi Stati e regni, che espressamente o tacitamente abdicavano a ogni pretesa e diritto sulla terra degli altrui domini, hanno, per comune consenso, eliminato ogni titolo che, per il diritto naturale comune, essi potevano avere al possesso di quelle terre, e hanno così, con un accordo positivo, fondato fra loro la proprietà di distinte parti e porzioni di terra; ma, ciò nonostante, si trovano ancora ampi spazi che giacciono inutilizzati (non essendosi gli abitanti del luogo associati al resto dell’umanità nel consenso circa l’uso della comune moneta), e sono più estesi di quanto coloro che vi risiedono usino o 39 possano usare, e sono dunque tuttora comuni, benché ciò difficilmente possa accadere fra coloro che si sono accordati sull’uso della moneta. 46. La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell’uomo, tali che la stessa necessità della sussistenza indusse i primi abitanti del mondo a cercarle, come fanno oggi gli americani, sono in generale cose di breve durata; cose che, non consumate, spontaneamente si guastano e perdono, mentre oro, argento, diamanti, sono cose alle quali per arbitrio e convenzione, più che per un’utilità reale e per la necessità della sussistenza, è stato attribuito un valore. Ora, di tutti i beni che la natura aveva dato in comune agli uomini, ciascuno aveva diritto, come s’è detto, a tanto quanto poteva usare, e aveva la proprietà di tutto quel che poteva produrre col proprio lavoro: là dove arrivava la sua attività, mutando le cose dallo stato in cui la natura le aveva poste, ivi arrivava la sua proprietà. Colui che raccoglieva cento staia di bacche o pomi ne era perciò stesso proprietario: erano beni suoi dal momento stesso in cui li raccoglieva. Doveva solo badare a usarli prima che si deteriorassero: in caso contrario significava che aveva preso più della parte che gli spettava, defraudando gli altri. E d’altronde era cosa sciocca, oltre che disonesta, ammucchiare più di quanto non si potesse usare. Se cedeva ad altri una parte di quei beni, evitando che marcissero inutilizzati in suo possesso, anche questo era un modo di usarli. E, se barattava prugne che sarebbero marcite nel giro d’una settimana con noci di cui avrebbe potuto nutrirsi un anno intero, neppure avrebbe commesso alcuna colpa: non aveva danneggiato le scorte comuni, né distrutto parte dell’altrui porzione di beni, dato che nulla si deteriorava inutilizzato in sua mano. Se poi cedeva le sue noci in cambio d’un pezzo di metallo di cui gli piaceva il colore, se barattava pecore per conchiglie, se dava lana in cambio d’un sassolino luccicante, o d’un diamante, e si teneva quegli oggetti per tutta la vita, non usurpava i diritti altrui; poteva ammucchiare questi oggetti non deteriorabili a suo piacimento, dato che non era l’ampiezza del possesso, ma il deteriorarsi di una sua parte rimasta inutilizzata 40 a costituire eccesso rispetto ai limiti della proprietà legittima. 47. Così nacque l’uso del denaro, qualcosa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza. 48. E, come i diversi gradi d’industria erano capaci di dare agli uomini ricchezze in proporzioni diverse, così l’invenzione del denaro diede loro l’opportunità di accrescerle ed estenderle. Supponiamo infatti un’isola tagliata fuori da ogni possibile commercio col resto del mondo, sulla quale abiti solo un centinaio di famiglie, ma vi siano pecore, cavalli e mucche e altri animali utili, buoni frutti e terra sufficiente a produrre grano in quantità centomila volte maggiore del necessario, ma niente di abbastanza raro e indeteriorabile da poter essere usato come moneta: quale interesse potrebbe avere chicchessia ad ampliare i suoi possessi oltre i limiti dell’uso che la sua famiglia può farne e d’una abbondante riserva per il consumo di questa, tanto per i prodotti del suo lavoro quanto per i frutti del baratto con altri analoghi beni di consumo deperibili? Dove non c’è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto pregiato da essere accumulato, gli uomini non possono estendere la loro proprietà della terra, per ricca che questa sia e facile a prendersi: che valore potrebbero avere infatti per un uomo, io mi chiedo, diecimila, o centomila, acri di terra eccellente, bell’e coltivata e ricca di bestiame, nel cuore delle regioni interne dell’America, dove non ci fosse alcuna speranza di commerciare con altre parti del mondo e di guadagnare denaro con la vendita dei prodotti? Non varrebbe neppure la spesa della recinzione, e presto vedremmo quell’uomo restituire alla primitiva comunanza naturale tutto quanto eccedesse le necessità della vita che ivi potessero condurre lui e la sua famiglia. 49. Così dapprincipio tutto il mondo era America, più di quanto sia ora, poiché in nessun luogo si conosceva qualcosa di simile al denaro. Trovate qualcosa che 41 abbia l’uso e il valore del denaro fra i vicini, e vedrete quello stesso uomo cominciare subito ad allargare i suoi possedimenti. 50. Ma, poiché oro e argento, essendo di poca utilità per la vita dell’uomo in confronto a cibo, vestiario e mezzi, acquistano il loro valore soltanto dal consenso degli uomini, e di questo valore il lavoro costituisce in gran parte la misura, è evidente che gli uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il prodotto; ricevendo in cambio del sovrappiù oro e argento che può accumulare senza far torto a nessuno, dato che quei metalli non si deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore. Questa divisione dei beni, nella disuguaglianza della proprietà privata, gli uomini l’hanno resa attuabile al di fuori della società e senza un patto, semplicemente attribuendo un valore all’oro e all’argento e tacitamente accordandosi sull’uso del denaro. Infatti, negli Stati, il diritto di proprietà è regolato invece dalle leggi e il possesso della terra da statuti positivi. 51. Mi pare perciò assai facile comprendere come il lavoro poté originariamente fondare il diritto alla proprietà dei comuni beni di natura, e come il limite di quella fosse fissato dal consumo che possiamo farne per i nostri usi. Non v’era dunque ragione di discutere quel diritto, né v’erano dubbi quanto all’estensione della proprietà che questo conferiva. Diritto e utilità andavano insieme, perché, avendo diritto su tutto ciò su cui poteva esercitare il suo lavoro, un uomo non era mai tentato di lavorare per più di quello che poteva usare. Ciò escludeva ogni contesa circa la legittimità, e ogni usurpazione dei diritti altrui: la porzione che un uomo si tagliava per sé era facilmente visibile, ed era inutile, oltre che disonesto, tagliarsi una porzione troppo grossa o prendere più di quanto poteva servire. 42 2) Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le sole cause delle sfortune pubbliche e delle corruzione dei governi, hanno deciso di esporre, in una solenne Dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa Dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, ricordi ad essi i loro senza posa i loro diritti e i loro doveri; affinché gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo, potendo essere in ogni momento confrontati coi fini di tutte le istituzioni politiche, vengano maggiormente rispettati; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora in poi su princìpi semplici ed incontestabili, siano sempre rivolti al mantenimento della Costituzione ed alla felicità di tutti. In conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, alla presenza e sotto gli auspici dell’Essere supremo, i seguenti Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Articolo 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. Articolo 2. Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza, e la resistenza all’oppressione. Articolo 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Articolo 4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo non ha confini se non quelli che assicurano agli altri membri della società il 43 godimento dei medesimi diritti. Questi confini non possono essere determinati che dalla Legge. […] Articolo 17. Poiché la proprietà è un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, se non quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in modo evidente, e sotto la condizione di una giusta e previa indennità. 3) K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848 Uno spettro s’aggira per l’Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi. Quale partito d’opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari di governo; qual partito d’opposizione non ha rilanciato l’infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari? Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. E` ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso. A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese. I BORGHESI E PROLETARI La storia di tutte le società esistite fino ad oggi non è stata altro che la storia delle lotte tra le classi. 44 Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola, oppressori ed oppressi, in costante contrapposizione, hanno combattuto una guerra ininterrotta, a volte aperta a volte latente; una guerra che finiva sempre, o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, o con la distruzione delle due classi in lotta. Nelle prime epoche della storia, verifichiamo quasi dovunque l’esistenza di una divisione gerarchica della società, di una scala graduata di posizioni sociali. Nell’antica Roma, troviamo patrizi, cavalieri, plebei e schiavi; nel medio-evo signori, servi della gleba; ed all’interno di ciascuna classe troviamo delle posizioni differenziate (gradazioni particolari). La moderna società borghese, elevatasi sulle rovine della società feudale, non ha abolito gli antagonismi tra le classi. Essa non ha fatto altro che sostituire, a quelle vecchie, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. Tuttavia, il carattere che distingue la nostra epoca, l’era della borghesia, è l’aver semplificato gli antagonismi di classe. La società si va sempre più dividendo in due vasti campi opposti, in due classi nemiche: la borghesia ed il proletariato. Dai servi della gleba del medio-evo hanno avuto origine gli abitanti dei primi comuni; da questa popolazione urbana sono derivati gli elementi costitutivi della borghesia. La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa, hanno offerto alla nascente borghesia un nuovo campo di azione. I mercati dell’India e della Cina, la colonizzazione dell’America, il commercio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci, hanno dato un impulso senza precedenti al commercio, alla navigazione, all’industria; e, di conseguenza, hanno garantito un rapido sviluppo al fattore rivoluzionario della società feudale in via di dissoluzione. Il vecchio modo di produzione non era più in grado di soddisfare i bisogni che aumentavano con l’apertura di nuovi mercati. Il mestiere protetto da privilegi feudali fu sostituito dalla manifattura. La piccola borghesia industriale soppiantò le corporazioni artigiane; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve dinanzi alla divisione del lavoro all’interno della singola officina. Ma i mercati continuavano a ingrandirsi senza cessa; la domanda si accresceva sempre di più. A sua volta, la 45 manifattura si rivelò insufficiente; ed allora le macchine ed il vapore rivoluzionarono la produzione industriale. La grande industria moderna soppiantò la manifattura; la piccola borghesia manifatturiera lasciò il posto agli industriali miliardari; capitani di eserciti di lavoratori ; ai moderni borghesi. La grande industria ha creato il mercato mondiale, che era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato una prodigiosa accelerazione allo sviluppo del commercio, della navigazione, di tutti i mezzi di comunicazione. Questo sviluppo si è a sua volta ripercosso sul progresso dell’industria; e mano mano che l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie si andavano sviluppando, la borghesia cresceva, decuplicando i suoi capitali e retrocedendo in secondo piano le classi provenienti dal medio-evo. La borghesia, noi lo vediamo, è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di rivoluzioni nei modi di produzione e di comunicazione. Ogni tappa dell’evoluzione che la borghesia ha fatto era accompagnata da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso dal dispotismo feudale, associazione che si auto-governa nel Comune; ora repubblica municipale ora terzo stato tributario della monarchia: poi, all’epoca della manifattura, contrappeso della nobiltà nelle monarchie a potere limitato o assolute; quindi pietra angolare del potere delle grandi monarchie; la borghesia, da quando si sono affermati la grande industria e il mercato mondiale, si è finalmente impadronita del potere politico nel moderno Stato rappresentativo, escludendone tutte le altre classi. Il governo attuale altro non è che un consiglio d’amministrazione degli affari della classe borghese. La borghesia ha svolto nella storia un ruolo essenzialmente rivoluzionario. Dovunque ha preso il potere, la borghesia ha calpestato i rapporti sociali feudali, patriarcali e idilliaci. Essa ha spezzato senza pietà tutti i variopinti legami che univano l’uomo del feudalesimo ai suoi naturali superiori, non lasciando in vita nessun altro legame tra uomo e uomo che non sia il freddo interesse, il gelido argent comptant. La borghesia ha fatto affogare l’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, il sentimentalismo del piccolo borghese nelle acque ghiacciate del calcolo egoistico. Essa ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; ha sostituito alle numerose libertà, conquistate a caro prezzo, l’unica e spietata libertà del commercio. In una parola; la 46 borghesia ha messo al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche uno sfruttamento aperto, diretto, brutale e spietato. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le professioni fino ad allora considerate venerabili, e venerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, lo scienziato in lavoratori salariati. La borghesia ha strappato il velo di sentimentalismo che ricopriva i rapporti familiari, riducendoli a puri e semplici rapporti monetari. La borghesia ha dimostrato come le brutali manifestazioni di forza dell’epoca medioevale, tanto ammirate dalla reazione, trovano il loro naturale complemento nella pigrizia più crassa. È la borghesia che per prima ha dato la prova di ciò che l’attività umana può compiere: creando ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani o le cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni che le antiche migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali. La conservazione del preesistente modo di produzione era, invece, la condizione basilare di esistenza di tutte le classi produttive dell’industria delle epoche anteriori. Questo continuo rivoluzionamento dei modi di produzione, questo costante scuotimento di tutto il sistema sociale, questa agitazione perpetua e questa permanente mancanza di sicurezza, distinguono l’epoca borghese da tutte quelle che l’hanno preceduta. Tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi si dissolvono; e quelli che li sostituiscono diventano antiquati ancor prima di cristallizzarsi. Tutto ciò che era solido e stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene profanato: costringendo, finalmente, gli uomini a considerare le loro condizioni di esistenza ed i loro rapporti reciproci con occhi disincantati. Spinta dal bisogno di trovare sempre nuovi sbocchi, la borghesia invade il mondo intero. Essa deve penetrare dovunque, stabilirsi dovunque e impiantare ovunque dei mezzi di comunicazione. Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia dà un carattere cosmopolita alla produzione ed ai consumi di tutti i paesi. Facendo disperare i reazionari, ha tolto all’industria la sua base nazionale. Le antiche industrie sono distrutte o stanno per esserlo. Vengono soppiantate da 47 industrie nuove la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni sviluppate, industrie che non utilizzano più materie prime locali, ma quelle importate dalle zone più lontane, ed i cui prodotti vengono consumati in ogni angolo del pianeta, non solamente nel paese. Al posto dei vecchi bisogni, che venivano soddisfatti dalla produzione nazionale, sorgono bisogni nuovi, il cui soddisfacimento richiede prodotti provenienti dai paesi più lontani e dai climi più diversi. Al posto dell’antico isolamento e dell’autosufficienza delle singole nazioni, si sviluppa un commercio universale, una interdipendenza di tutte le nazioni. E ciò che vale per la produzione materiale, viene applicato anche alla produzione intellettuale. Le creazioni intellettuali di un paese diventano proprietà comune di tutti. La ristrettezza e l’esclusivismo nazionali, giorno dopo giorno, si fanno sempre più impossibili; e dalle varie letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Grazie al rapido sviluppo dei mezzi di produzione e di comunicazione, la borghesia trascina nella corrente della civilizzazione perfino le nazioni più barbare. Il basso prezzo delle sue merci è l’artiglieria pesante che abbatte qualsiasi Grande Muraglia e fa capitolare i barbari più ostinatamente ostili agli stranieri. Pena la loro morte, essa costringe tutte le nazioni ad adottare il modo di produzione borghese. In altre parole, la borghesia modella il mondo a sua immagine e somiglianza. La borghesia ha sottomesso la campagna alla città. Ha creato metropoli enormi; ha fatto crescere in modo prodigioso la popolazione urbana a scapito di quella rurale e, così facendo, ha preservato una parte considerevole della popolazione dall’idiotismo della vita dei campi. Così come ha subordinato la campagna alla città, i popoli barbari o semicivilizzati a quelli civilizzati, la borghesia ha assoggettato i paesi agricoli a quelli industriali e l’Oriente all’Occidente. La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato le popolazioni, centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà nelle mani di pochi. La inevitabile conseguenza di questi mutamenti è stata la centralizzazione politica. Delle province indipendenti, tra loro legate da vincoli federali, che però avevano interessi, leggi, governi, dazi differenti, sono state riunite in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, una sola tariffa doganale ed un solo interesse nazionale di classe. Dall’inizio del suo dominio, in poco meno di un secolo, la borghesia ha generato forme produttive più diversificate e 48 poderose di quanto avessero mai fatto tutte insieme le precedenti generazioni. Soggiogamento delle forze della natura, macchine, applicazione della chimica all’industria ed all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, canalizzazione dei fiumi, popoli interi sorti come per incanto dalla terra: quale dei secoli passati avrebbe mai potuto presagire che simili forze produttive giacessero in seno al lavoro sociale? Ecco dunque quanto abbiamo finora considerato: i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si è formata la borghesia sono stati creati nel seno della società feudale. Ad un determinato grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava i suoi prodotti, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola: i rapporti feudali di proprietà, cessano di corrispondere alle nuove forze produttive. Essi intralciavano la produzione invece di favorirne lo sviluppo. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate. Furono spezzate. Al loro posto si innalzò la libera concorrenza con un ordinamento sociale e politico ad essa corrispondente, con il dominio economico e politico della classe borghese. Sotto i nostri occhi, si sta verificando un fenomeno analogo. La moderna società borghese, che ha messo in moto mezzi di produzione e scambio così poderosi, rassomiglia allo stregone che non riesce più a dominare le potenze infernali che egli stesso ha evocato. Da almeno trent’anni, la storia dell’industria e del commercio altra non è che la storia della ribellione delle forze produttive contro i rapporti di proprietà, che sono le condizioni dell’esistenza della borghesia e del suo regno. Basta ricordare le crisi commerciali che, con il loro ciclico ritorno, minacciano sempre di più l’esistenza della società borghese. Ogni crisi distrugge regolarmente non solo una massa di merci già prodotte, ma anche una gran parte delle stesse forze produttive. L’epidemia della sovrapproduzione un’epidemia che in tutte le altre epoche della storia sarebbe parsa un paradosso si abbatte sulla società: che all’improvviso si trova ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; si direbbe che una carestia, una guerra di sterminio l’abbiano privata di tutti i mezzi di sussistenza; mentre l’industria ed il commercio sembrano annichiliti. E tutto questo, perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive a sua disposizione non favoriscono più lo 49 sviluppo dei rapporti di proprietà borghesi; anzi, esse sono diventate troppo potenti per quei rapporti, che si tramutano in intralci; e quando le forze produttive sociali superano questi intralci, gettano l’intera società nel disordine, mettendo in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese è diventato troppo stretto per contenere le ricchezze create nel suo seno. Come può la borghesia superare la crisi? Da un lato, mediante la distruzione forzata di una massa di forze produttive; dall’altro lato, mediante la conquista di nuovi mercati e lo sfruttamento più perfezionato di quelli esistenti: cioè preparando delle crisi più generali e terribili e diminuendo i mezzi per prevenirle. Le armi utilizzate dalla borghesia per abbattere il feudalesimo si rivoltano contro di essa. Ma la borghesia non ha soltanto forgiato le armi che devono darle la morte; ha prodotto anche gli uomini che le impugneranno: i moderni operai, I PROLETARI. Mano mano si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo se trovano lavoro e che lo trovano solo fino a quando il loro lavoro accresce il capitale. Gli operai, costretti a vendersi alla giornata, sono una merce al pari di qualsiasi altro articolo di commercio: di conseguenza essi subiscono tutte le vicissitudini della concorrenza, tutte le oscillazioni del mercato. L’introduzione delle macchine e la divisione del lavoro hanno tolto qualsiasi interesse al lavoro dell’operaio, spogliandolo delle sue caratteristiche individuali. Il produttore è diventato una mera appendice della macchina; da lui si esigono solo le più semplici e monotone operazioni, facilissime da imparare. Ne deriva che il costo di produzione dell’operaio si riduce pressappoco ai mezzi di sussistenza di cui egli abbisogna per vivere e per riprodurre la sua specie. Tuttavia, il prezzo del lavoro, come quello di tutte le altre merci, è pari al suo costo di produzione. Quindi, quanto più il lavoro si fa ripugnante, tanto più si abbassano i salari. Di più ancora: il carico di lavoro aumenta con lo sviluppo del macchinario e della divisione del lavoro, sia mediante il prolungamento della giornata di lavoro, sia mediante l’accelerazione del movimento della macchina. L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono 50 poste, come soldati semplici dell’industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il guadagno. Con il progredire dell’industria moderna, il lavoro richiede sempre meno abilità e forza ed il lavoro degli uomini è sempre più soppiantato da quello delle donne (e dei bambini). La distinzioni di età e di sesso non hanno alcuna validità sociale per la classe operaia. Ci sono soltanto strumenti di lavoro, il cui prezzo differisce a seconda dell’età e del sesso. L’operaio, dopo che ha subito lo sfruttamento da parte del padrone in fabbrica e che ha ricevuto il suo salario in denaro contante, diventa la preda di altri membri della classe borghese, del piccolo proprietario immobiliare, dell’usuraio, ecc. La piccola borghesia, i piccoli industriali, i commercianti, i titolari di piccole rendite, gli artigiani ed i piccoli contadini precipitano nel proletariato: da una parte perché soccombono nella concorrenza con i grandi capitalisti, poiché i loro piccoli capitali non consentono l’utilizzo dei metodi e delle procedure della grande industria; e dall’altra parte perché la loro particolare specializzazione viene svalorizzata dall’introduzione di nuovi metodi di produzione. Di conseguenza, il proletariato viene reclutato in seno a tutte le classi della popolazione. Il proletariato passa attraverso diverse fasi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia ha inizio con la sua nascita. In un primo tempo lottano degli operai isolati, poi gli operai di una fabbrica, infine gli operai di una categoria in una determinata località, contro il capitalista che li sfrutta direttamente. Essi non si limitano ad attaccare il modo di produzione capitalistico, ma attaccano gli stessi strumenti della produzione: distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, spezzano le macchine, bruciano le fabbriche e cercano di riconquistare la condizione, perduta, dell’artigiano medioevale. In questa fase del suo sviluppo, il proletariato costituisce una massa disgregata, disseminata in tutto il paese e disunita dalla concorrenza. Se talvolta accade che gli operai si uniscano per agire come massa compatta, la loro azione non costituisce ancora il risultato della loro propria unione, 51 ma di quella della borghesia, la quale, per raggiungere i suoi obbiettivi politici deve mettere in moto l’intero proletariato, ed ha, ancora, il potere di farlo. Durante questa fase i proletari non combattono ancora i propri nemici, ma i nemici dei loro nemici, cioè i resti della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. In tal modo, tutto il movimento storico si concentra nelle mani della borghesia ed ogni vittoria riportata in queste condizioni è una vittoria della borghesia. Tuttavia lo sviluppo dell’industria non comporta solo un aumento del numero dei proletari, ma li concentra in masse di notevole importanza; i proletari accrescono la propria forza e ne prendono coscienza. Gli interessi, le condizioni di vita dei proletari si fanno sempre più simili, nella misura in cui le macchine cancellano le differenze nel lavoro e riducono, quasi dappertutto, i salari a livelli egualmente bassi. La crescente concorrenza dei capitalisti tra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono ogni volta i salari più insicuri, il perfezionamento permanente delle macchine rende la posizione dell’operaio sempre più precaria; gli scontri individuali tra l’operaio ed il borghese assumono sempre di più il carattere di scontri tra due classi. Gli operai cominciano a coalizzarsi contro i borghesi per la difesa dei loro salari. Essi giungono a fondare associazioni permanenti in previsione di queste lotte puntuali. Qua e là, la resistenza operaia esplode in sommossa. Qualche volta gli operai riescono a vincere; ma si tratta di una vittoria effimera. Il vero risultato delle lotte operaie non consiste tanto nel loro successo immediato quanto nella crescente solidarietà dei lavoratori. Questa unione è facilitata dall’aumento dei mezzi di comunicazione, che consentono agli operai di località diverse di entrare in contatto. E bastano questi rapporti per trasformare le numerose lotte sociali, che hanno dappertutto le medesime caratteristiche, in una lotta nazionale, in lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è una lotta politica. Ed i moderni proletari, grazie alle ferrovie, riescono a costituire in pochi anni, quella unione che i borghesi del medio-evo, attraverso i sentieri vicinali, impiegarono secoli a raggiungere. L’organizzazione del proletariato in classe e quindi in partito politico è incessantemente distrutta dalla concorrenza reciproca tra gli operai stessi; ma essa risorge sempre ed ogni volta più forte, più ferma, più formidabile. Essa sfrutta le divisioni interne alla classe borghese per costringerla a 52 dare una garanzia legale a determinati interessi della classe operaia: ad esempio, la legge sulla giornata lavorativa di dieci ore in Inghilterra. In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa. Per di più, come abbiamo appena veduto, intere frazioni della classe dominante vengono precipitate nel proletariato o vengono per lo meno minacciate nella loro condizione di esistenza. Anche queste frazioni apportano al proletariato numerosi fattori di progresso. Infine, quando la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione della classe dominante, dell’intera società, assume un carattere talmente violento, talmente aspro, che una frazione della classe dominante se ne stacca e si unisce con la classe rivoluzionaria, con la classe che rappresenta l’avvenire. Ed allo stesso modo che nel passato una parte della nobiltà si schierò al fianco della borghesia, così oggi una parte della borghesia fa causa comune con il proletariato, in particolare quegli ideologi borghesi che hanno raggiunto la comprensione teorica del movimento generale della storia. In tutte le classi che al giorno d’oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è la classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi vacillano e periscono con la grande industria; il proletariato, al contrario, ne è il prodotto più specifico. I ceti medi, i piccoli industriali, i piccoli commercianti, gli artigiani, i contadini, combattono la borghesia perché essa minaccia la loro esistenza in quanto classe media. Dunque, non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, perché chiedono che la storia cammini all’indietro. E se questi ceti agiscono in modo rivoluzionario, è perché temono di cadere nel proletariato; essi difendono in tal modo i loro interessi futuri, non quelli attuali; abbandonano il proprio punto di vista per assumere quello del proletariato. Il sottoproletariato delle metropoli, questa putrefazione passiva, questa feccia degli strati più bassi 53 della società, può essere, qua o là, trascinato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma le sue condizioni di vita lo predispongono, piuttosto, a vendersi alla reazione. Le condizioni di esistenza della vecchia società appaiono già distrutte nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletariato è senza proprietà: i suoi rapporti familiari non hanno niente in comune con quelli della famiglia borghese. Il moderno lavoro industriale, che presuppone in Francia come in Inghilterra, in Germania come in America, l’asservimento dell’operaio da parte del capitale, ha spogliato il proletariato di qualsiasi carattere nazionale. Per esso, le leggi, la morale, la religione sono altrettanti pregiudizi borghesi, che mascherano altrettanti interessi borghesi. Fino ad oggi, tutte le classi che hanno preso il potere hanno cercato di consolidare la posizione acquisita, sottomettendo la società al loro modo di appropriazione della ricchezza sociale. I proletari non possono impadronirsi delle forze produttive sociali senza abolire il loro attuale modo di appropriazione e quindi tutte le forme di appropriazione finora esistite. I proletari non hanno nulla di proprio da conservare; anzi, essi devono distruggere ogni garanzia privata e tutte le sicurezze private finora esistite. Tutti i movimenti che si sono succeduti nella storia sono stati, fin qui, movimenti di minoranze a vantaggio di minoranze. Il movimento proletario è il movimento spontaneo dell’immensa maggioranza a vantaggio dell’immensa maggioranza. Il proletariato, che è l’ultimo strato della società attuale, non può sollevarsi, non può raddrizzarsi, senza far saltare tutti gli strati che gli stanno sopra e formano la società ufficiale. La lotta del proletariato contro la borghesia, benché non sia, in sostanza, una lotta nazionale, ne prende tuttavia, all’inizio, la forma. È ovvio che il proletariato di ciascun paese deve farla finita, innanzitutto, con la propria borghesia. Tratteggiando a grandi linee le fasi dello sviluppo del proletariato, abbiamo descritto la storia di una guerra civile, più o meno latente, che travaglia la società fino al momento in cui essa esplode in aperta rivoluzione ed il proletariato stabilisce le basi del suo potere attraverso il rovesciamento violento della borghesia. Come abbiamo visto, tutte le società finora esistite si sono fondate sull’antagonismo tra la classe degli oppressori e quella degli oppressi. 54 Ma per opprimere una classe è necessario quanto meno assicurarle condizioni di esistenza che le consentano di vivere da schiava. Al culmine del feudalesimo, il servo della gleba è riuscito a diventare membro del Comune; ed il borghese in nuce del medio-evo ha raggiunto la posizione di borghese, pur stando sotto il giogo dell’assolutismo feudale. Invece, l’operaio moderno, lungi dall’elevarsi col progresso dell’industria, scende sempre più in basso, perfino al di sotto del livello delle condizioni della sua classe. Il lavoratore precipita nel pauperismo ed il pauperismo cresce ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. È quindi evidente che la borghesia è incapace di ricoprire il ruolo di classe dominante e di imporre alla società, quale legge suprema, quella delle condizioni di esistenza della propria classe. La borghesia non può dominare, perché non è più in grado di assicurare l’esistenza al proprio schiavo, pur nel quadro della sua schiavitù; e perché è costretta a lasciarlo cadere in una situazione tale in cui, invece di farsi mantenere da esso, deve piuttosto mantenerlo. La società non può più esistere sotto il dominio della borghesia, il che equivale a dire che l’esistenza della borghesia è oramai incompatibile con quella della società. Per la classe borghese, la condizione fondamentale di esistenza e di supremazia è l’accumulazione della ricchezza in mani private, la formazione e l’accrescimento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza reciproca degli operai. Il progresso dell’industria, di cui la borghesia è l’agente passivo ed inconsapevole, sostituisce l’isolamento degli operai con la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria scalza da sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa ha stabilito il suo sistema di produzione e di appropriazione della ricchezza prodotta. La borghesia produce innanzi tutto proprio coloro che la seppelliranno. La sua caduta e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili. II PROLETARI E COMUNISTI Quale posizione hanno i comunisti nei confronti dei proletari considerati nel loro insieme? I comunisti non costituiscono un partito differente, opposto agli altri partiti operai. 55 Essi non hanno interessi che li distinguono dal proletariato in generale. Essi non proclamano dei principi settari, intorno ai quali vorrebbero modellare il movimento operaio. I comunisti si distinguono dagli altri partiti operai solamente su due punti: 1. Nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi sollevano e fanno valere gli interessi comuni del proletariato; 2. Nelle varie fasi di sviluppo della lotta tra proletariato e borghesia, essi rappresentano sempre e dovunque gli interessi del movimento complessivo. Sul piano pratico, dunque, i comunisti sono il reparto più risoluto e più avanzato del movimento di ogni paese, il reparto che incoraggia tutti gli altri; sul piano teorico, essi hanno, nei confronti delle altre parti del proletariato, il vantaggio di comprendere lucidamente le condizioni, il corso e gli scopi generali del movimento proletario. Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di quello di tutti i partiti del proletariato: organizzazione dei proletari in partito di classe, distruzione del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. Le tesi politiche dei comunisti non si fondano assolutamente si idee o principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse esprimono solamente, in termini complessivi, le condizioni concrete di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. La soppressione di una determinata forma della proprietà non costituisce il carattere distintivo del comunismo. La proprietà è sempre stata soggetta a costanti cambiamenti e incessanti trasformazioni storiche. Ad esempio, la Rivoluzione francese ha abolito la proprietà feudale a vantaggio della proprietà borghese. Il comunismo si distingue non per l’abolizione della proprietà in generale, ma per l’abolizione della proprietà borghese. Ora, la proprietà privata, la moderna proprietà borghese, è l’ultima e più completa espressione del modo di produzione e di appropriazione dei prodotti che si basa sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri. In questo senso, i comunisti possono riassumere la loro teoria in questa unica frase: abolizione della "proprietà privata". Ci è stato rimproverato, a noi comunisti, di voler sopprimere la proprietà faticosamente acquisita con il lavoro 56 individuale; quella proprietà che si dice essere il fondamento di ogni libertà, attività e indipendenza delle persone. Proprietà personale, frutto del lavoro del singolo! Forse si parla della proprietà del piccolo borghese o di quella del piccolo contadino, forma di proprietà antecedente a quella borghese? Non siamo noi che dobbiamo abolirla, l’ha già abolita, o lo sta facendo, lo sviluppo dell’industria. Ovvero si parla della proprietà privata, della moderna proprietà borghese? Il lavoro salariato crea forse una proprietà per il proletariato? Assolutamente no. Esso crea il capitale, vale a dire la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può accrescersi se non a condizione di produrre nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo nuovamente. Nella sua forma attuale la proprietà si muove tra due poli antagonistici: capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due aspetti di questo antagonismo. Essere un capitalista significa occupare non solo una posizione personale, ma una posizione sociale nel sistema produttivo. Il capitale è un prodotto collettivo, non può essere messo in moto che con gli sforzi combinati di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, con gli sforzi combinati di tutti i membri della società. Il capitale non è quindi una potenza personale: è una potenza sociale. Allora, se il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non significa la trasformazione di una proprietà personale in proprietà sociale. Ciò che viene trasformato è unicamente il carattere sociale della proprietà. Essa perde il suo carattere di proprietà di classe. Veniamo al lavoro salariato. Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, vale a dire la somma dei mezzi di sussistenza di cui l’operaio abbisogna per vivere da operaio. Ne consegue che l’operaio si appropria, tramite il suo lavoro, giusto di quanto gli necessita per condurre una vita stentata, e riprodursi. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro, indispensabile al mantenimento e alla riproduzione della vita umana; appropriazione che non lascia alcun profitto netto, fonte di potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo sopprimere questo miserabile modo di appropriazione, che fa sì che l’operaio vive unicamente per accrescere il capitale e vive solo quel tanto che viene richiesto dagli interessi della classe dominante. 57 Nella società borghese, il lavoro vivo è solo un mezzo per accrescere il lavoro accumulato. Nella società comunista, il lavoro accumulato è solo un mezzo per allargare, arricchire e fare più bella la vita (degli operai). Nella società borghese, il passato domina il presente; nella società comunista è il presente che domina il passato. Nella società borghese, il capitale è indipendente e personale, mentre l’individuo attivo è dipendente ed impersonale. La borghesia bolla come abolizione della individualità e della libertà l’abolizione di un simile stato di cose. Ed ha ragione: perché si tratta effettivamente dell’abolizione dell’individualità, dell’indipendenza e della libertà borghesi. Per libertà, negli attuali rapporti di produzione borghesi, si intende la libertà di commercio, di libero scambio. Ma una volta scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Del resto, tutti i paroloni sul libero scambio, al pari di tutte le vanterie liberali dei nostri borghesi, hanno un senso solo in confronto al commercio intralciato, al borghese asservito del medioevo; non hanno alcun senso quando si tratta dell’abolizione, da parte dei comunisti, del commercio, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia. Voi inorridite perché noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri. Ed esiste per voi, proprio perché essa non esiste per quei nove decimi. Ci rimproverate dunque di voler abolire una forma della proprietà che non può esistere, se non alla condizione di privare di qualsiasi proprietà l’immensa maggioranza della società. Insomma, ci accusate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: la nostra intenzione è proprio quella. Dal momento in cui il lavoro non può più essere convertito in capitale, in danaro, in proprietà fondiaria, insomma in potere sociale monopolizzabile, ossia dal momento in cui la proprietà personale non può più essere trasformata in proprietà borghese, voi dichiarate che l’individualità è stata soppressa. Voi riconoscete, dunque, che quando parlate dell’individuo, non intendete parlare che del borghese. E questo individuo, indubbiamente, va soppresso. Il comunismo non priva nessuno della facoltà di appropriarsi della sua parte dei prodotti sociali; toglie soltanto il potere di asservire il lavoro altrui, avvalendosi di questa appropriazione. 58 È stata fatta anche l’obiezione che con l’abolizione della proprietà privata cesserebbe qualsiasi attività, che una pigrizia generale si impadronirebbe del mondo. Se fosse vero, la società borghese avrebbe già da tempo ceduto alla fannulloneria, poiché chi ci lavora non guadagna e chi ci guadagna non lavora. Tutta l’obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro salariato dove non c’è più capitale. Le accuse rivolte contro il modo comunista di produzione e di appropriazione dei prodotti materiali sono state mosse anche contro la produzione e l’appropriazione intellettuali. Come per il borghese la scomparsa della proprietà di classe equivale alla scomparsa della proprietà stessa, così la scomparsa della cultura intellettuale di classe significa, per lui, la scomparsa della cultura intellettuale in genere. La cultura, della quale il borghese piange la perdita, per l’immensa maggioranza degli uomini altro non è che formazione a diventare macchina. Ma non polemizzate con noi, finché vorrete applicare all’abolizione della proprietà borghese il metro delle vostre nozioni borghesi di libertà, cultura, diritto, ecc. Le vostre idee sono anch’esse il prodotto dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi, così come il vostro diritto altro non è che la volontà della vostra classe eretta a legge, una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di esistenza della vostra classe. Voi condividete con tutte le classi un tempo dominanti ed ormai scomparse l’interessata tesi in base alla quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione i rapporti sociali determinati dal vostro modo di produzione rapporti sociali transitori, che sorgono e spariscono nel corso della produzione. Non potete ammettere riguardo alla proprietà borghese quello che pensate della proprietà antica, quello che concepite sulla proprietà feudale. Abolizione della famiglia! Perfino i più radicali si indignano per questo infame progetto dei comunisti. Su quale basi si fonda la famiglia borghese della nostra epoca? Sul capitale, sul guadagno individuale. La famiglia, nella sua pienezza, esiste soltanto per la borghesia; ma trova il suo complemento nella forzata soppressione di qualsiasi famiglia per i proletari nonché nella prostituzione pubblica. La famiglia borghese svanisce naturalmente con il venir meno del suo necessario complemento, ed entrambe scompariranno con la scomparsa del capitale. 59 Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei bambini da parte dei loro genitori? Noi confessiamo questo delitto. Ci dite anche che, sostituendo l’educazione sociale all’educazione da parte della famiglia, noi spezziamo i legami più sacri. Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società? Dai rapporti sociali all’interno dei quali allevate i vostri figli? Dall’intervento diretto o indiretto della società per mezzo della scuola, ecc.? Non sono i comunisti che inventano questa ingerenza della società nell’educazione, essi vogliono solo cambiarne la caratteristica e strappare l’educazione all’influenza della classe dominante. Le declamazioni borghesi sulla famiglia e l’educazione, sui dolci legami che uniscono il bambino ai genitori, diventano tanto più nauseanti quanto più la grande industria distrugge ogni legame familiare per i proletari e trasforma i bambini in semplici articoli di commercio, in merci strumenti di lavoro. Ma ecco che da tutta la borghesia si leva un grido: voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne! Per il borghese, la moglie è solo uno strumento di produzione. Egli sente dire che i mezzi di produzione devono essere messi in comune ed ovviamente ne trae la conclusione che ci sarà comunanza delle donne. Egli non riesce nemmeno ad immaginare che si tratta per l’appunto di dare alla donna un ruolo diverso da quello di semplice mezzo di produzione. D’altra parte, nulla è più ridicolo dell’ultra-moralistico orrore ispirato ai nostri borghesi dalla pretesa comunanza ufficiale delle donne presso i comunisti. I comunisti non hanno affatto bisogno di introdurre la comunanza delle donne, che è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari, provano un piacere particolare nel farsi reciprocamente le corna. Il matrimonio borghese è in pratica la comunanza delle mogli. Al massimo si potrebbero accusare i comunisti di voler sostituire una comunanza delle donne ipocrita e mascherata con un’altra, franca e ufficiale. Del resto, è evidente che, una volta aboliti gli attuali rapporti di produzione scomparirà la comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale. I comunisti vengono inoltre accusati di voler abolire la patria, la nazionalità. 60 Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Siccome il proletariato di ogni paese deve, prima di tutto, conquistare il potere politico, ergersi a classe dominante della propria nazione, esso rimane ancora, per questa ragione, una classe nazionale, ma assolutamente non nel senso borghese. Le separazioni e gli antagonismi nazionali tra i popoli vanno già scomparendo, sempre di più, con lo sviluppo della borghesia, della libertà di commercio e del mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e le condizioni di vita che ad essa corrispondono. L’avvento del proletariato li faranno scomparire ancora più velocemente. L’unità d’azione dei diversi proletariati, quanto meno nei paesi sviluppati, è una delle prime condizioni della loro emancipazione. Abolite lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, abolirete lo sfruttamento di una nazione su un’altra nazione. Quando sarà scomparso l’antagonismo tra le classi all’interno delle nazioni, scomparirà l’ostilità reciproca tra le nazioni. Non meritano un esame approfondito le accuse mosse ai comunisti in nome della religione, della filosofia e dell’ideologia in generale. Ci vuole forse un’intelligenza molto penetrante per comprendere che i punti di vista, le conoscenze e le concezioni, in una parola la coscienza degli uomini, cambiano se sono mutati i loro rapporti sociali, la loro esistenza sociale? Che cosa dimostra la storia del pensiero, se non che la produzione intellettuale si trasforma con la produzione materiale? Le idee dominanti di un’epoca sono state sempre e soltanto le idee della classe dominante. Quando si parla di idee che rivoluzionano tutta una società, si afferma solo il fatto che gli elementi di una nuova società si sono formati nel seno di quella vecchia e che il dissolvimento delle vecchie idee avanza di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti sociali. Quando il mondo antico ara giunto al tramonto, le vecchie religioni furono vinte dalla religione cristiana; quando, nel diciottesimo secolo, le idee cristiane lasciarono il posto alle idee dell’illuminismo, la società feudale stava combattendo la sua ultima battaglia con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà religiosa e di libertà di coscienza non hanno fatto altro che proclamare il dominio della libera concorrenza nel campo della conoscenza. Ma, si dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee religiose, morali, 61 filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in questi cambiamenti la religione, la morale, al filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati. Esistono, inoltre, delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le condizioni della società. Ora, il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce la religione e la morale, invece di costituirle su un nuovo fondamento, e ciò contraddice con tutto il precedente sviluppo storico. A che cosa si riduce questa obiezione? La storia di qualsiasi società si riassume nello sviluppo degli antagonismi di classe, che hanno assunto forme diverse nelle diverse epoche. Ma qualunque forma abbiano assunto questi antagonismi, lo sfruttamento di una parte della società ad opera dell’altra è un dato comune a tutti i secoli passati. Non c’è dunque da stupirsi del fatto che la coscienza sociale di tutte le epoche, nonostante tutte le divergenze e le diversità sia sempre mutata all’interno di certe forme comuni, forme di coscienza che si dissolveranno completamente solo con la totale scomparsa dell’antagonismo fra le classi. La rivoluzione comunista è la rottura più radicale con i rapporti di proprietà tradizionali; nulla di strano se, nel corso del suo sviluppo, essa rompa nella maniera più radicale con le vecchie idee tradizionali. Ma ora lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Come abbiamo visto sopra, la prima tappa nella rivoluzione operaia è la costituzione del proletariato in classe dominante, la conquista del potere statale da parte della democrazia. Il proletariato si servirà della supremazia politica per strappare a poco a poco tutto il capitale alla borghesia, per centralizzare tutti i mezzi di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato in classe dominante, e per accrescere al più presto la massa delle forze produttive disponibili. Naturalmente, all’inizio tutto ciò potrà essere attuato unicamente violando, in maniera dispotica i diritti di proprietà ed i rapporti di produzione borghesi, vale a dire adottando misure che, dal punto di vista economico, appariranno insufficienti ed insopportabili, ma che nel corso del movimento supereranno se stesse e saranno indispensabili come mezzi per rivoluzionare l’intero modo di produzione. 62 Queste misure, beninteso, saranno differenti a seconda dei diversi paesi. Per i paesi più avanzati, tuttavia, questi sono i provvedimenti che potranno essere, quasi generalmente, applicati: 1°) Espropriazione della proprietà fondiaria e confisca della rendita fondiaria a vantaggio dello Stato. 2°) Imposta fortemente progressiva. 3°) Abolizione del diritto di successione. 4°) Confisca delle proprietà di tutti gli emigrati e ribelli. 5°) Centralizzazione del credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale con capitale dello Stato e con monopolio esclusivo. 6°) Centralizzazione di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello Stato. 7°) Aumento delle manifatture nazionali e dei mezzi di produzione, dissodamento dei terreni incolti e miglioramento delle terre coltivate secondo un sistema collettivo. 8°) Lavoro obbligatorio per tutti, organizzazione di eserciti industriali, soprattutto per l’agricoltura. 9°) Unificazione dell’attività agricola con quella industriale, misure tendenti a far scomparire la differenza tra città e campagna. 10°) Istruzione pubblica e gratuita di tutti i bambini, abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, così come viene attualmente praticato. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale, ecc. Scomparsi gli antagonismi di classe nel corso dello sviluppo e concentrata tutta la produzione nelle mani degli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio del termine, è il potere di una classe organizzata per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella sua lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe; se con la rivoluzione si erge a classe dominante e, come classe dominante, distrugge violentemente gli antichi rapporti di produzione; esso abolisce insieme con quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, sopprime le classi in generale e, quindi, il suo proprio dominio come classe. Al posto della vecchia società borghese, con le sue classi e con i suoi antagonismi di classe, sorge un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti. 63 […] I comunisti rifiutano di nascondere le loro opinioni e i loro fini. Essi proclamano apertamente che i loro scopi non potranno essere raggiunti senza il rovesciamento violento di tutto il presente ordinamento sociale. Che le classi dominanti tremino all’idea di una rivoluzione comunista! I proletari non hanno niente da perderci, se non le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI! 64 4) Leone XIII, Enciclica Rerum Novarum, 1891 19 INTRODUZIONE Motivo dell’enciclica: la questione operaia 1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli. 2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior Tratta dal sito web ufficiale del Vaticano, URL http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/document s/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html. 19 65 parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile. PARTE PRIMA IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO La soluzione socialista inaccettabile dagli operai 3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale. 4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà 66 particolare, investire le speranza di migliorare il condizione. i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la 5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non consuma. La proprietà privata è di diritto naturale 6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi 67 bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso. 7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla. La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine 8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all’uomo l’uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera 68 vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e dall’arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale(1), confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(2). La libertà dell’uomo 9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere seguire il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi (3). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo va applicato all’uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità. Famiglia e Stato 10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura 69 medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona, egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non mediante l’acquisto dei beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare. Lo Stato e il suo intervento nella famiglia 11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del padre... prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori. (4) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la compagine delle famiglie. 70 La soluzione socialista è nociva alla stessa società 12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio. PARTE SECONDA IL VERO RIMEDIO: L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI A) L’opera della Chiesa 13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le 71 forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato. 1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso 14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (5). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali. 2 - Necessità della concordia 15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; 72 quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa. 3 - Relazioni tra le classi sociali a) giustizia 16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso. 73 17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti (6). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio ? b) carità 18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l’intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l’edificio della religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo insieme (7). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l’esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio 74 proposto, ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria (8). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (9); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (10); che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice. c) la vera utilità delle ricchezze 19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto é, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E’ lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni (11). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare facilmente il proprio (12). Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio stato, perché nessuno deve vivere in modo non conveniente (13). Ma soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi. Quello che sopravanza date in elemosina (14). Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e insegna: E’ più bello dare che ricevere (15), e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo 75 faceste (16). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (17). […] B) L’opera dello Stato 25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende. Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato non come è sostituito o come funziona in questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc. Immortale Dei). 1 - Il diritto d’intervento dello Stato 26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò 76 di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai. a) per il bene comune 27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte (26). Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva. b) per il bene degli operai Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del bene comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente con i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo conseguimento un bene 77 perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente abbondanza dei beni corporali, l’uso dei quali è necessario all’esercizio della virtù (27). Ora, a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo. […] 3 - Casi particolari d’intervento a) difesa della proprietà privata 30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento. b) difesa del lavoro 1) contro lo sciopero 31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A 78 questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni. 2) condizioni di lavoro 32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra la terra (28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (29). A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (30) e 79 che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (31). 33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non é ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso. 80 3) la questione del salario 34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (32). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di 81 lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio. c) educazione al risparmio 35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da 82 questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte. C) L’opera delle associazioni 1 - Necessità della collaborazione di tutti 36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro azione. […] CONCLUSIONE La carità, regina delle virtù sociali 45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi 83 provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev’essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto sostiene (40). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l’apostolica benedizione. Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato. LEONE PP. XIII (1) Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4. (2) Deut 5,21. (3) Gen 1,28. (4) S. Th. II-II, q. 10, a. 12. (5) Gen 3,17. (6) Giac 5,4. (7) 2 Tim 2,12. (8) 2Cor 4,17. (9) Cfr. Mat 19,23-24. (10) Cfr. Luc 6,24-25. (11) S. Th. III-II, q. 66, a. 2. (12) Ivi. (13). S. Th. II-II, q. 32, a. 6. (14) Luc 11,41. (15) At 20,35. 84 (16) Mat 25,40. (17) S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7 (18) 2Cor 8,9. (19) Mar 6,3. (20) Cfr. Mat 5,3. (21) Mat 11,28. (22) Rom 8,17. (23) Cfr. 1Tim 6,10. (24) At 4,34. (25) Apolog, 2.39. (26) S. Th. II-II, q. 61, a. 1 ad 2. (27) S. Th., De reg, princ. I,17. (28) Gen 1,28. (29) Rom 10,12. (30) Es 20,8. (31) Gen 2,2. (32) Gen 3,19. (33) Eccl 4,9-10. (34) Prov 18,19. (35) S, Th., Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II. (36) Ivi. (37) Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3. (38) Mat 16,26. (39) Mat 6,32-33. (40) 1 Cor 13,4-7. 85 b) L’elaborazione dei giuristi 5) G. R. Pothier, Traite du droit de domaine de propriété, 1699. 1. Due specie di diritti si considerano relativamente alle cose che sono in commercio; quello che abbiamo nella cosa, che dicesi jus in re; quello che abbiamo rapporto alla cosa, che chiamasi jus ad rem. Il jus in re è il diritto che noi abbiamo in una cosa, in forza del quale essa ci appartiene, almeno per certi riguardi . Il jus ad rem è il diritto che noi abbiamo, non già nella cosa, ma soltanto per rapporto alla cosa, contro la persona, che ha contratto verso di noi l’obbligazione di darcela. Questo diritto nasce dalle obbligazioni, e consiste nell’azione personale che noi abbiamo contro la persona la quale ha contratta l’obbligazione, o che è succeduta in luogo di quella che l’ha contratta, perché essa venga condannata a darci la cosa, ove questa trovisi in suo potere, ovvero a rifarci i danni e interessi risultanti dall’inesecuzione della sua obbligazione. Questo jus ad rem somministrerò la materia al nostro Trattato delle obbligazioni, ed a que’ che lo seguirono sopra le diverse specie di contratti. 2. Vi sono più specie di jus in re, che si chiamano ancora diritti reali. La principale è il diritto di dominio di proprietà. Le altre specie di diritti reali che da questo procedono, e che ne sono come tante frazioni, sono i diritti di dominio di superiorità, come sarebbero il dominio feudale o censuario, il diritto enfiteutico, i diritti di servitù tanto personali che prediali, ed il diritto d’ipoteca. Noi abbiamo già trattato del diritto enfiteutico nel nostro Trattato dell’Enfiteusi; ci faremo a trattare in seguito di queste altre specie di diritti reali in differenti trattati. In questo non tratteremo che del diritto di dominio, che parimenti si chiama diritto di proprietà, e lo divideremo in due parti. Vedremo nella prima cosa sia il diritto di dominio di proprietà; in che esso consista; quali siano i differenti modi di acquistarlo e di perderlo. Nella seconda tratteremo delle azioni che ne nascono. Finalmente aggiungeremo un Trattato del possesso. 86 Capitolo Primo. Cosa sia il diritto di dominio di proprietà, ed in che consista. 3. Non vi è ai nostri giorni, riguardo ai mobili, che una solo specie di dominio, che è quella del dominio di proprietà (a). Dicasi lo stesso dei fondi allodiali. Riguardo ai fondi tenuti in feudo o del censo, distinguendosi due specie di dominio, il dominio diretto, ed il dominio utile. Il dominio diretto, che hanno i proprietarj del feudo o del censo sopra i fondi ch’essi danno a feudo o a censo, è il dominio antico, originario e primitivo del fondo, da cui si e staccato il dominio utile mediante l’alienazione che ne fu fatta; il quale in conseguenza altro più non è che un dominio di superiorità, ed un semplice diritto, che hanno i padroni di farsi riconoscere come tali dai possessori dei fondi da essi tenuti, e di esigere certe retribuzioni tendenti a riconoscere il loro dominio. Questa specie di dominio non e già il dominio di proprietà, che dee formar la materia del presente trattato. Devesi piuttosto chiamarlo dominio di superiorità, noi ne tratteremo in seguito in un Trattato dei Feudi. II dominio utile di un fondo comprende quanto vi ha di utile, come di percepirne i frutti, di disporne a piacere, col peso però di riconoscere per padrone colui che ne ha il dominio diretto. Il dominio utile, riguardo ai fondi stabili, si chiama dominio di proprietà. Quegli, che ha questo dominio utile, si chiama proprietario o padrone utile; quegli che ha il dominio diretto, dicesi semplicemente padrone. Egli è in verità il proprietario del suo diritto di padronanza; ma il proprietario del fondo ne è, propriamente parlando, il padrone utile. 4. Il dominio di proprietà è così chiamato, perchè desso e il diritto pel quale una cosa mi è propria, e mi appartiene privativamente ad ogni altro. Questo diritto di proprietà, considerato rapporto ai suoi effetti, si dee definire il diritto di disporre a suo grado di una cosa, senza però ledere l’altrui diritto, ne contravvenire 87 alle leggi, jus de re libere disponendi, o jus utendi et abutendi. 5. Questo diritto ha molta estensione; esso comprende, 1.° il diritto di avere tutti i frutti che nascono dalla cosa, sia che il proprietario li percipa, sia che vengano percetti da un altro che non ne abbia diritto. 2.° Il diritto di servirsi della cosa, non solo pegli usi a’ quali e essa naturalmente destinata, ma per qualunque uso a lui piacesse di farne. Per esempio, sebbene le stanze di una casa non siano destinate, che ad alloggiare degli uomini, tuttavia il proprietario ha diritto di alloggiarvi bestiami. ove egli trovi conveniente di farlo. 3.° Questo diritto di disporre racchiude quello altresì che ha il proprietario di dare altra forma alla sua cosa, puta, di convertire un pezzo di terra aratoria in un prato o uno stagno, o vice versa. Egli ha diritto non solamente di dare alla sua cosa una forma migliore, ma ove gli piaccia convertirla in peggiore, facendo per esempio di un buon campo aratorio un terreno incolto atto soltanto al pascolo degli animali. 4.° Questo diritto di disporre comprende altresì quello che ha il proprietario di perdere intieramente la sua cosa, se così stima, per esempio il proprietario di un bel quadro ha diritto di cancellarlo, il proprietario di un libro ha diritto di gettarlo alle fiamme. 5.° Il diritto d’impedire qualunque altro di servirsene, tranne coloro che avessero questo diritto in virtù di qualche titolo di servitù, o a’ quali ei ne avesse in forza di convenzione conceduto un uso determinato, 6.° Il diritto di disporre comprende quello che ha il proprietario di alienar la sua cosa, ed anche di accordare ad altri que’ tali diritti nella sua cosa, che ad esso più aggrada o di permetterne solamente quell’uso che stimerà di concedere. 6. Tuttochè il diritto di proprietà in sè contenga tutti questi diritti, ciò nulla ostante il proprietario non può sempre esercitarli: può esserne impedito, o per un difetto della sua persona, o per qualche imperfezione del suo diritto di proprietà. 7. I difetti della persona del proprietario sono l’età minore, la demenza, l’interdizione, la soggezione della moglie alla podestà del marito. 88 Distinguesi nel diritto di proprietà, egualmente che in tutti gli altri diritti, la sostanza dall’esercizio del diritto. Un minore proprietario ha bensì la sostanza di tutti i diritti, che il suo diritto di proprietà in sè racchiude; ma non ne ha l’esercizio, finchè non sia divenuto usante, per così dire, de’ suoi diritti, in forza della maggiore età o di una parte de’ medesimi in forza del matrimonio, o in virtù di rescritti sovrani che gli accordino per privilegio il benefizio di età. Frattanto il tutore di questo minore è quello che ha l’esercizio dei diritti compresi nel diritto di proprietà delle cose appartenenti al minore; pelo conseguenza egli ha il diritto di percepire i frutti de’ fondi di detto minore per impiegarli a profitto di questo, di vendere i mobili per impiegarne il prezzo o in pagamento dei debiti di questo minore o in acquisti di fondi o rendite. A lui compete il diritto di dare ad affitto i campi e le case appartenenti al minore; ma non ha il diritto di venderli, senonchè per giusti ed urgenti motivi, in virtù di un decreto del giudice, ed osservando le formalità prescritte per l’ alienazione dei beni dei minori. La ragione si è, che il tutore non ha questo esercizio dei diritti, che racchiude la proprietà dei beni del suo minore, sennonchè pel vantaggio e l’interesse dello stesso minore, e non già l’esercizio di quelli che vi fossero contrarj. Quanto abbiamo detto finora l’apporto al proprietario minore, si applica egualmente al proprietario in demenza, o interdetto per prodigalilà. Questi ha nella sua persona la sostanza dei dritti compresi nella proprietà de’ suoi beni; ma la sua demenza o la sua interdizione lo priva della facoltà di esercitarli : tocca al curatore dell’interdetto l’esercitarli pel vantaggio e l’interesse dell’interdetto. Allorchè una donna, maritandosi, passa sotto la podestà del marito ella conserva il diritto di proprietà de’ suoi beni, e ritiene in conseguenza il fondo o sia la sostanza dei diritti che racchiude il diritto di proprietà; ma la podestà maritale cui essa soggiace la priva della facoltà di esercitarli a sua voglia, non potendo alienare nè disporre di cosa alcuna senza l’autorizzazione di suo marito, come lo abbiam veduto nel nostro Trattato della Podestà Maritale. 89 8. L’imperfezione del diritto di proprietà può egualmente privare il proprietario di una parte dei diritti che abbiamo detto contenersi nel diritto di proprietà, i quali però non vi si contengono che quando la proprietà è piena e perfetta. Una proprietà è piena e perfetta quando è perpetua, e quando la cosa non è gravata di diritti e pesi reali a favore di persone diverse dal proprietario. All’opposto è imperfetta quando essa dee finire al termine di un certo tempo, o per l’adempimento di una qualche condizione. La proprietà di un fondo è altresì imperfetta, quando il fondo è gravato di diritti reali a favore di qualche persona diversa dal proprietario, imperocchè questi diritti reali sono altrettanti diritti che furono staccati dalla proprietà. La proprietà poi è imperfettissima allora quando è gravata di un diritto di usufrutto; essa viene in tal caso chiamata proprietà nuda, nuda proprietas. 9. Quegli che non ha che un diritto di proprietà risolubile di un fondo, è privato di una parte dei diritti che la proprietà in se racchiude quand’essa è perfetta. Quantunque la proprietà, allorchè è perfetta, comprenda il diritto ancor di abusare e di perdere la cosa, tuttavia non è lecito a quello, che ha soltanto una proprietà risolubile di un fondo, di deteriorarlo a danno di colui, al quale esso dee ritornare per diritto di riversione o appartenere a titolo di sostituzione; né gli è permesso di cangiarne la forma; e quando il tempo della riversione o della sostituzione è arrivato, egli o i suoi eredi sono tenuti a rifare i danni e interessi risultanti da tutti i deterioramenti che vi si ritrovassero. 10. Parimenti colui che ha una proprietà risolubile di un fondo, non può alienarlo nè concedere de’ diritti sovr’esso ad altre persone, senonchè pel tempo che dee durare il suo diritto di proprietà. Appena arrivato il tempo in cui deve risolversi questo diritto, la proprietà da lui alienata, in qualunque mano sia essa passata e rinvengasi, si risolve, come pure risolvonsi tutti i diritti che sovra essa egli avesse ad altri concessi. Questo è il caso di applicare la nota regola di diritto: soluto jure dantis, solvitur jus accipientis. 90 11. Osservisi, che se colui che ha di buona fede acquistato un fondo da quello, che ne aveva soltanto una proprietà risolubile, l’ha posseduto durante tutto il tempo richiesto per la prescrizione colla medesima buona fede ignorando sempre che il venditore del fondo ne aveva soltanto una proprietà risolubile, egli acquista per diritto di prescrizione ciò che mancava alla proprietà in lui trasferita, la quale, di risolubile ch’essa era, diviene una proprietà piena e perfetta. La prescrizione può dare il diritto di proprietà a quello, che ha acquistato in buona fede un fondo da chi non ne era proprietario, nè poteva in conseguenza trasferirgli il diritto di proprietà; essa può dunque per la stessa ragione dare ciò che mancava alla perfezione della proprietà di colui, che ha acquistato di buona fede un fondo da quello ch’ei credeva averne la proprietà perfetta, ma che avendola risolubile, non gliel’aveva trasferita che come tale. Parimenti, allorchè quelli che hanno acquistato qualche diritto reale nel fondo di colui elle ne aveva soltanto una proprietà risolubile, hanno posseduto questo diritto di buona fede durante il tempo richiesto per la prescrizione, nella supposizione che quegli da cui l’hanno acquistato avesse la proprietà perpetua del fondo, essi acquistano mediante la prescrizione ciò che mancava alla perfezione del diritto che hanno acquistato, il quale, di diritto risolubile che era, diviene un diritto perpetuo. Vedi sul diritto di usucapione e di prescrizione, e sopra i casi nei quali questo diritto ha luogo, ciò che diremo infra nel nostro Trattato delle Prescrizioni par. 2. 12. Quegli che ha una proprietà imperfetta di un fondo, relativamente ai diritti reali che altre persone vi hanno, è del pari privato di molti diritti che si trovano compresi in quello di proprietà, quand’essa è perfetta. Per esempio, il proprietario di un fondo gravato di usufrutto non ha alcun diritto su i frulli che nascono nel Sila fondo per tutto quel tempo che dee durare l’usufrutto, mentre essi appartengono all’usufruttuario. Anzi egli non può, senza il consenso dell’usufruttuario, nè cagionar la forma del fondo, nè alcuna cosa distruggervi o costruirvi, nè imporvi alcuna servitù, nè farvi in generale veruna cosa che possa pregiudicar l’usufrutto. Similmente il proprietario di un 91 fondo gravato di qualsivoglia diritto reale nulla può fare nel suo fondo che possa nuocere a così fatto diritto. Per esempio, se il fondo di cui io ho la proprietà, è gravato a favor del vicino di un diritto di passaggio, non mi è permesso di fare veruna cosa nel luogo del mio fondo, ove detto vicino ha questo diritto di passaggio, che nuocer possa al medesimo. Similmente se il fondo, di cui ho la proprietà, è gravato di un diritto di rendita eufiteutica, io non ho diritto di abusarne e di deteriorarlo, diritto che avrei se la mia proprietà fosse perfetta; ma sono obbligato a conservarlo in buono stato per sicurezza della rendita, che vi è imposta, come lo abbiam veduto nel nostro Trattato dell’ Enfiteusi. 13. Noi abbiamo definito il diritto di proprietà, la facoltà di disporre di una cosa a suo piacere: ed abbiam aggiunto, senza però recar pregiudizio all’altrui diritto, Ciò deesi intendere non solamente del diritto attuale che altri vi hanno, ma altresì del diritto dì quelli, a’ quali la cosa dee un giorno passare: lo che deesi intendere non solo de’ diritti reali che altri hanno nel fondo, a’ quali il proprietario, che ha una proprietà risolubile o imperfetta non può recar nocumento, come lo abbiam finora veduto, ma devesi intendere ancora del diritto de’ proprietarj e possessoii dei fondi vicini, al quale il proprietario di un fondo, per quanto perfetto sia il suo diritto di proprietà, non può recar pregiudizio, nè per conseguenza far nel suo fondo ciò che le obbligazioni, che nascono dalla vicinanza, non gli permetton di fare nel suo fondo a pregiudizio de suoi vicini. Vedi ciò che ne abbiam detto nella seconda appendice, che abbiamo aggiunto in fine del nostro Trattato del contralto di Società. 14. Finalmente nella nostra definizione, dopo quei termini, senza recar pregiudizio agli altrui diritti, abbiamo aggiunto, nè alle leggi, conciossiachè per esteso che sia il diritto che ha un proprietario di fare della propria cosa quell’uso che più: gli piace, non può però farne quello che le leggi gli vietano di fare. Per esempio, sebbene il proprietario di un campo possa piantarvi ciò che gli aggrada tuttavia non gli è permesso di farvi una piantagione di tabacco, essendovi delle leggi che vietano siffatte piantagioni nel regno, perché contrarie all’interesse della finanza. Parimenti, sebbene il 92 diritto di proprietà di una cosa comprenda quello di venderla e di trasportarla ove meglio aggrada, nul1adimeno non è permesso di trasportar le sue biade fuori del regno, ove esista una legge che ne vieti l’esportazione: non è permesso ad un mercante di vendere una quantità considerevole di grani ne’ suoi granaj o magazzini, specialmente in tempo di carestia, a pregiudizio de’ regolamenti di polizia che ordinano di portarli e venderli sul mercato. Similmente, quantunque la proprietà di una cosa contenga il diritto di abusarne e di perderla, un mercante proprietario di una quantità considerevole di grano; il quale differendo lungo tempo a venderlo colla speranza che ne rialzi il prezzo, l’avesse lasciato marcire in tempo di carestia, sarebbe colpevole verso del pubblico di un’ingiustizia notabile, perché la legge naturale non gli permette di lasciar perdere una derrata di prima necessità, qual’è il grano, a pregiudizio del bisogno pubblico. 15. Il dominio di proprietà , al pari di tutti gli altri diritti, tanto in re che ad rem, suppone necessariamente una persona, nella quale questo diritto sussista ed a cui esso appartenga. Non è già necessario che questa persona sia naturale, o sia un individuo fisico esistente, come sono le persone de’ particolari, a cui questo diritto appartenga; questo, come ogni altra specie di diritto, può appartenere alle corporazioni, alle comunità, le quali sono persone morali. Quando un proprietario muore e nessuno vuole accettare la sua eredità questa eredità giacente viene considerata come una persona morale, come una continuazione di quella del defunto; ed in questa persona fittizia sussiste il dominio di proprietà di tutte quelle cose che appartenevano al defunto, al pari di tutti gli altri diritti attivi e passivi del defunto: hereditas jacens personae defuncti locum obtinet. 16. Il diritto di proprietà essendo, come lo abbiam veduta supra, n. 4, quel diritto, per cui una cosa ci appartiene esclusivamente ad ogni altro, egli è dell’essenza di questo diritto, che due persone non possano avere, ciascheduna pel totale, il dominio di proprietà di una medesima cosa: 93 Celsus ait, duorum in solidum dominium esse non posse; l. 5, § 15, ff, commod. Perlochè quand’io ho il diritto di proprietà di una cosa, un altro non può per rerum naturam divenirne proprietario senza che io cessi intieramente di esserlo, ed egli non può averne la proprietà in una parte, senza che io cessi di averla nella parte medesima. La ragione si è che proprio e comune sono termini contraddittorj. Se si suppone che un altro sia proprietario d’una cosa di cui io son proprietario, allora questa cosa è comune tra noi, e se essa è comune, non si può dire che mi sia propria pel totale, e che io ne abbia la proprietà riguardo al totale; avvegnachè proprio e eomune sono due cose contraddittorie. In ciò il jus in re differisce dal jus ad rem, più persone potendo essere, ciascuna per lo totale, creditrici di una medesima cosa, sia in forza di una obbligazione medesima, allorchè questa è stata contratta verso più ereditari solidali, come lo abbiam veduto nel nostro Trattato delle Obbligazioni, part. 2, cap. 3, art. 7, sia in virtù dì differenti obbligazioni o di uno stesso debitore o di diversi debitori. La ragione dì questa differenza è, che non è possibile che ciò che mi appartiene, appartenga nel medesimo tempo ad un altro; ma nulla impedisce che la medesima cosa che mi è dovuta, non sia del pari ad altri dovuta. 17. Più persone non possono in verità avere la proprietà della medesima cosa riguardo al totale; possono bensì avere questa proprietà in comune ciascuna per una determinata parte. Ciò non si oppone a quello che abbia m detto poc’anzi, cioè che la proprietà è un diritto, per cui una cosa ci appartiene esclusivamente ad ogni altro; imperocchè questo diritto di proprietà ch’essi hanno in comune, è quel diritto per cui la cosa loro appartiene in comune privativamente a tutt’altro. E fra di loro la parte che ciascuno vi ha, a lui solo esclusivamente appartiene, poichè la parte che uno ha nella cosa comune, non è la parte dell’altro, ed ognuno di essi non ha diritto che di disporre della rispettiva sua quota. Queste parti che ciascuno di coloro, che hanno il diritto di proprietà di una cosa in comune, ha nella cosa comune, non sono già parti reali, che non si possano formare altrimenti che mediante la divisione della cosa; ma sono parti 94 puramente intellettuali. In questo senso è detto nella legge 66, §2, ff. de lego 2. Plures in uno fundo dominium juris intellectu, non divisione ccrporis obtinent. Più persone possono egualmente esser proprietarj in comune di una cosa che non è suscettibile di parti neppure intellettuali, come è un diritto di servitù che appartiene a più comproprietarj di una casa, a cui la servitù è dovuta. Sebbene in tal caso ciascuno de’ comproprietarj di questo diritto di servitù lo sia per lo totale, questo diritto non essendo suscettibile di parti, tuttavia ciò non contravviene alla massima proposta al n. precedente: duorum in solidum dominium esse non potest; giacchè questa massima s’intende nel senso che più persone non possano essere, ciascuna separatamente, proprietarj per lo totale di una medesima cosa, ma possono essere proprietarj di una medesima cosa in comune. Ora nel nostro caso cadauno de’ comproprietarj non è proprietario separatamente del diritto di servitù, essi non lo sono che in comune, nè lo sono totaliter che tutti insieme. 18. Il dominio di proprietà, egualmente che il jus ad rem suppone una causa, che lo produca nella persona che ha questo diritto. Avvi però questo divario, che il dominio di proprietà di una cosa da me acquistata ad un certo titolo non può appartenermi ad un altro, se non per ciò che mancava alla proprietà che ne aveva acquistata da prima; laddovechè una medesima cosa può essermi per diversi titoli dovuta: non, ut ex pluribus causis idem nobis deberi potest, ita ex pluribus causis idem potest nostrum esse: l. 159 ff. de reg. jur. Dominium non potest nisi ex una causa contingere; l. 3, § 4, de adq. Possess. La ragione della differenza si è, che è impossibile ch’io acquisti ciò che già m’appartiene. Perciò quando una volta ho acquistata la proprietà di una cosa in virtù di un titolo, non potendola più acquistare, essa non può appartenermi che in forza del solo titolo, pel quale l’ho acquistata. Al contrario, nulla impedisce che una cosa che mi è già dovuta in virtù di un titolo, non mi sia ancora dovuta in forza di un altro. Per esempio, io suppongo che Pietro mi abbia venduta una certa cosa; esso fa in seguito il suo testamento, col quale ei me la lega. Codesta cosa mi è dovuta dagli eredi di Pietro per due titoli, primo, in virtù 95 della vendita che Pietro me ne ha fatta, secondo in virtù del legato, Quindi io ho contro di essi due azioni per questa medesima cosa, l’azione cioè ex empio, e l’azione ex testamento, e se questa cosa che mi è stata venduta da Pietro, mi fosse stata altresì legata da Paolo, essa mi sarebbe dovuta dagli eredi dell’uno come da quelli dell’altro. Ad opera della ragione è altrettanto necessario che gli uomini entrino in rapporti contrattuali, - donino, scambino, commercino ecc., quanto che essi possiedano proprietà (§ 45 annotaz.). Se per la loro coscienza è il bisogno in genere, la benevolenza, l’utilità ecc., ciò che li conduce ai contratti, in sé lo è la ragione, cioè l’idea dell’esserci avente realità (cioè di un esserci sussistente soltanto nella volontà), proprio della libera personalità. - Il contratto presuppone che coloro che vi intervengono si riconoscano come persone e proprietari; poiché esso è un rapporto dello spirito oggettivo, il momento del riconoscimento è già in esso contenuto e presupposto (cfr. §§ 35; 57 annotaz.). 6) Art. 544 Code civil La propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue, pourvu qu'on n'en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les règlements. 7) G. W. F. Hegel, La proprietà, in Lineamenti di filosofia del diritto, 1821, ed. it. cur. G. Marini, Laterza 1999, pp. 51-72. Sezione prima LA PROPRIETA’ § 41. La persona deve darsi una esterna sfera della sua libertà, per esser come idea. Poiché la persona è la volontà infinita essente in sé e per sé in questa prima determinazione ancora del tutto astratta, ne segue che questo qualcosa differenziato dalla volontà, il quale può costituire la sfera della sua libertà, è in pari modo determinato come 96 ciò che è immediatamente diverso e separabile dalla volontà. § 42. L’immediatamente diverso dallo spirito libero è per lo spirito e in sé l’esteriore in genere, - una cosa, un qualcosa non-libero, non-personale e privo di diritti. Cosa ha come l’oggettivo gli opposti significati, una volta, quando si dice: questa è la cosa, importala cosa, non la persona, - il significato del sostanziale; l’altra volta, di contro alla persona (cioè non al soggetto particolare), la cosa è l’opposto del sostanziale, ciò che secondo la sua determinazione è soltanto esteriore. - Ciò che per lo spirito libero, il quale deve certo venir distinto dalla mera coscienza, è l’esteriore, lo è in sé e per sé, perciò la determinazione concettuale della natura è questo, esser l’esteriore in lei stessa. § 43. La persona intesa come il concetto immediato e quindi anche come essenzialmente singola ha un’esistenza naturale, per un lato in lei stessa, per un altro lato come un’esistenza tale, a cui essa si riferisce come a un mondo esterno. - Soltanto di queste cose, come quelle che lo sono immediatamente, non di determinazioni che son capaci di divenirlo grazie alla mediazione della volontà, si parla qui a proposito della persona, la quale stessa è ancora nella sua prima immediatezza. Attitudini spirituali, scienze, arti, perfino cose religiose (prediche, messe, preghiere, benedizione di cose sacre), invenzioni ecc. divengono oggetti di contratto, equiparati nel modo del comprare, vendere ecc. a cose riconosciute per tali. Si può chiedere se l’artista, lo studioso, ecc. sia nel possesso giuridico della sua arte, scienza, della sua capacità di tenere una predica, di dir messa ecc., cioè se simili oggetti siano cose. Si esiterà a chiamar cose tali attitudini, conoscenze, capacità ecc.: poiché su simile possesso da un lato si negozia e si contratta come su cose, ma d’altra parte esso è un che d’interno e di spirituale, l’intelletto può esser perplesso sulla qualificazione giuridica del medesimo, poiché gli sta di fronte soltanto il contrasto: che alcunché sia o cosa o non-cosa (come pure: o infinito o finito). Conoscenze, scienze, talenti ecc. sono certamente propri allo spirito libero e un che di interiore al medesimo, 97 non un che di esteriore, ma esso può altrettanto dar loro grazie all’estrinsecazione un esserci esteriore e alienarli (v. oltre 20 ), in grazia di che essi vengon posti sotto la determinazione di cose. Essi quindi non sono da principio un che di immediato, bensì lo divengono soltanto grazie alla mediazione dello spirito, che riduce ciò che gli è interno all’immediatezza ed esteriorità. - Secondo la determinazione non-giusta e non-etica del diritto romano i figli erano cose per il padre e questi era quindi nel possesso giuridico dei suoi figli 21 , eppure egli stava certamente rispetto ad essi nel rapporto etico dell’amore (rapporto che certamente doveva venir molto indebolito da quell’ingiustizia). In ciò aveva luogo quindi una unificazione, peraltro del tutto ingiusta, delle due determinazioni di cosa e non-cosa. Nel diritto astratto, che ha ad oggetto soltanto la persona come tale, quindi anche il particolare, che appartiene all’esserci e alla sfera della di lei libertà, soltanto nella misura in cui esso è un che di separabile e di immediatamente diverso da essa, costituisca ciò la sua determinazione essenziale, ovvero esso possa riceverla soltanto per mezzo della volontà soggettiva, attitudini spirituali, scienze ecc. vengono in considerazione unicamente quanto al loro possesso giuridico; il possesso del corpo e dello spirito, che viene acquistato grazie a cultura, studio, abitudine ecc., ed è come una interna proprietà dello spirito, non è da trattare qui. Ma del passaggio di una tale proprietà spirituale nell’esteriorità, nella quale essa rientra sotto la determinazione di una proprietà giuridica in senso tecnico, è da parlare soltanto in sede di alienazione. § 44. La persona ha il diritto di porre la sua volontà in ogni cosa, la quale grazie a ciò è la mia e riceve la mia volontà a suo fine sostanziale (poiché essa non ha un tal fine entro se stessa), a sua determinazione e anima, - assoluto diritto di appropriazione dell’uomo su tutte le cose. Quella cosiddetta filosofia che alle singole cose immediate, all’impersonale, ascrive realità nel senso di autonomia e di verace essere per sé ed entro di sé, parimenti quella che assevera che lo spirito non possa conoscere la verità e non 20 21 Cfr. §§ 66-68. Gaio, Institutiones, I, 55; Institutiones, I, 9; Digesta, XLIII, 30. 98 possa sapere che cos’è la cosa in sé, viene immediatamente confutata dal comportamento della libera volontà di fronte a queste cose. Se per la coscienza, per l’intuire e rappresentare le cosiddette cose esterne hanno la parvenza di autonomia, la volontà libera dell’idealismo è invece la verità di tale realtà. § 45. Che io abbia qualcosa nel mio stesso potere esterno, costituisce il possesso, cosi come il lato particolare che io renda mio qualcosa per naturale bisogno, impulso e per l’arbitrio, è l’interesse particolare del possesso. Ma il lato per cui io come volontà libera sono a me oggettivo nel possesso e per tal modo anche per la prima volta volontà reale, costituisce il verace e giuridico in quest’ambito, la determinazione della proprietà. Aver proprietà appare come mezzo riguardo al bisogno, se questo vien reso la cosa prima; ma la posizione verace è che dal punto di vista della libertà la proprietà, intesa come il primo esserci della medesima, è fine essenziale per sé. § 46. Poiché nella proprietà la mia volontà diviene a me oggettiva come volontà personale, quindi come volontà dell’individuo, ne segue che la proprietà acquista il carattere di proprietà privata, e la proprietà comune, che secondo la glia natura può venir posseduta separatamente, acquista la determinazione di una comunione in sé risolubile, nella quale lasciar la mia parte è per sé cosa dell’arbitrio. L’utilizzazione degli oggetti elementari non è suscettibile, secondo la loro natura, di venir particolarizzata a possesso priva. to. - Le leggi agrarie in Roma racchiudono una lotta fra sistema comunitario e sistema di proprietà privata del possesso fondiario; l’ultima come momento più razionale doveva ottenere il sopravvento, sebbene a spese di un altro diritto. - La proprietà fide. commissaria di famiglia contiene un momento, al quale sta di contro il diritto della personalità e quindi della proprietà privata. Ma le determinazioni che concernono la proprietà privata possono dover venire subordinate a più alte sfere del 99 diritto, ad una comunità, allo stato, com’è il caso riguardo al sistema di proprietà privata nella proprietà di una cosiddetta persona morale, nella proprietà di manomorta. Tuttavia tali eccezioni possono esser fondate non nel caso, in arbitrio privato, utilità privata, bensì soltanto nell’organismo razionale dello stato. – L’idea dello stato platonico contiene come principio generale l’ingiustizia verso la persona, dell’esser questa incapace della proprietà privata 22. La concezione di una fratellanza pia o amicale e perfino coattiva degli uomini con comunione dei beni e con la messa al bando del principio della proprietà privata può presentarsi facilmente alla disposizione d’animo che misconosce la natura della libertà dello spirito e del diritto e non la afferra nei suoi momenti determinati. Per ciò che concerne l’aspetto morale o religioso, Epicuro trattenne dal loro intento i suoi amici, allorché essi avevano in animo di istituire una tale lega della comunione dei beni, proprio per la ragione che ciò dimostra una diffidenza, e che coloro che diffidano l’uno dell’altro non sono amici (Diog. Laert., 1. X, n. VI 23). § 47. Come persona io stesso sono immediatamente individuo, - nella sua ulteriore determinazione ciò significa in primo luogo: io sono vivente in questo corpo organico che è il mio esserci esterno indiviso universale secondo il contenuto ed è la possibilità (avente realità) di ogni esserci ulteriormente determinato, Ma come persona io ho in pari tempo la mia vita e il mio corpo, come altre cose, soltanto in quanto è tale la mia volontà. Il fatto che io, per il lato pel quale esisto non come il concetto essente per sé, bensì come il concetto immediato, sono vivente ed abbia un corpo organico, riposa sul concetto della vita e su quello dello spirito come anima, su momenti che sono desunti dalla filosofia della natura (Enciclop. delle scienze filos., §§ 259 sgg., cfr. §§ 161, 164 e 298 24) e dall’antropologia (ivi stesso, § 318 25). - Cfr. § 185 Ann. Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, X, 11. Enc. 3, §§ agg., cfr. §§ 213, 216, 376. Enc. 3, § 388. 2222 23 24 25 100 lo ho queste membra, la vita, soltanto in quanto io voglio; l’animale non può da se stesso mutilarsi o uccidersi, ma lo può l’uomo. § 48. Il corpo, in quanto è immediato esserci, non è adeguato allo spirito; per esser docile organo e animato mezzo del medesimo, esso dev’esser preso in possesso soltanto da lui (§ 57). - Ma per altri io sono essenzialmente un che di libero nel mio corpo, come io l’ho immediatamente. Soltanto perché io nel corpo sono vivente come un che di libero, di questo vivente esserci non può abusarsi sino a farne bestia da soma. In quanto io vivo, la mia anima (il concetto e più altamente ciò che è libero) e il corpo non sono separati, questo corpo è l’esserci della libertà ed io sento in esso. È perciò soltanto intelletto privo di idea, sofistico, che può far la distinzione che la cosa in sé, l’anima, non venga toccata o attaccata, se il corpo viene maltrattato e l’esistenza della persona viene assoggettata al potere di un altro. Io posso ritrarmi in me dalla mia esistenza e renderla esteriore, - tener lontano da me la sensazione particolare ed esser libero nelle catene. Ma questo è la mia volontà, per l’altro io sono nel mio corpo; libero per l’altro io sono soltanto siccome libero nell’esserci, è un’identica proposizione (v. la mia Scienza della logica, val. I, pp. 49 sgg.26). La violenza fatta da altri al mio corpo è violenza fatta a me. Il fatto che, poiché io sento, quel che tocca il mio corpo o gli fa violenza mi tocca immediatamente come reale e preseziale, pone la distinzione tra offesa personale e lesione della mia proprietà esterna, come tale che in essa la mia volontà non è in questa immediata presenzialità e realtà. § 49. Nel rapporto a cose esteriori il razionale è che io possegga proprietà; ma il lato del particolare comprende i soggettivi fini, bisogni, l’arbitrio, i talenti, circostanze esterne ecc (§45); da qui dipende il possesso meramente come tale, ma questo lato particolare in questa sfera della personalità astratta non è posto ancora identico con la libertà. Che cosa e quanto io possegga, è perciò un’accidentalità giuridica. 26 Wissenschaft del Logik, GW, XI, 60 sgg. 101 Nella personalità più persone, se si vuol parlare di più persone qui, dove ancora non trova luogo tale distinzione, sono uguali. Ma questa è una vuota proposizione tautologica; poiché la persona come ciò che è astratto è appunto il non ancora particolarizzato né posto in differenza determinata. – Uguaglianza è l’astratta identità dell’intelletto, nella quale va a sbatter subito il pensiero riflettente, e con esso la mediocrità dello spirito in genere, quando gli vien davanti la relazione dell’unità con una differenza. Qui l’uguaglianza sarebbe soltanto uguaglianza delle persone astratte come tali, al di fuori della quale appunto perciò cade questo terreno della disuguaglianza, tutto ciò che concerne il possesso. L’istanza talora avanzata dell’uguaglianza nella spartizione della terra o magari del patrimonio ulteriormente disponibile, è un intellettualismo tanto più vuoto e superficiale, in quanto in questa particolarità rientra non soltanto l’esterna accidentalità della natura, bensì anche l’intera estensione della natura spirituale nella sua infinita particolarità e diversità, così come nella sua ragione sviluppata ad organismo. - Non si può parlare di un’ingiustizia della natura nell’inuguale spartizione del possesso e patrimonio, poiché la natura non è libera, e perciò non è né giusta né ingiusta. Che tutti gli uomini debbano avere il bastante per i loro bisogni, è da un lato un desiderio morale e, espresso in questa indeterminatezza, certamente ben intenzionato, ma, come ciò che è meramente ben intenzionato in genere, un desiderio che non è nulla di oggettivo, dall’altro lato il bastante è qualcos’altro dal possesso e appartiene a un’altra sfera, alla società civile 27. § 50. Che la cosa appartiene a colui che per primo accidentalmente nel tempo la prende in possesso, è una determinazione superflua, che si comprende immediatamente da sé, perché un secondo non può prendere in possesso ciò che è già proprietà di un altro. § 51. Per la proprietà intesa come l’esserci della personalità, non è sufficiente la mia interiore rappresentazione e volontà che qualcosa debba esser mio, bensì si richiede allo scopo l’apprensione del possesso. 27 17 Cfr. §§ 199-200, 237-238, 241-245. 102 L’esserci, che quel volere grazie a ciò riceve, racchiude entro di sé la conoscibilità per altri. - Che la cosa della quale io posso prender possesso sia priva di dominus, è (come al § 50) una condizione negativa la quale si comprende da se stessa, o piuttosto si riferisce all’anticipato rapporto con altri. § 52. L’apprensione del possesso rende mia proprietà la materia della cosa, poiché la materia per sé non si appartiene. La materia mi offre resistenza (ed essa è soltanto questo, offrirmi resistenza), cioè essa mostra a me il suo astratto esser per sé soltanto come a spirito astratto, cioè come a spirito sensibile in guisa rovesciata il rappresentare sensibile tiene l’essere sensibile dello spirito per il concreto e il razionale per l’astratto), ma in relazione alla volontà e proprietà questo esser per sé della materia non ha verità. L’apprensione del possesso intesa come operare esteriore, grazie al quale vien realizzato l’universale diritto di appropriazione delle cose della natura, entra nelle condizioni della forza fisica, dell’astuzia, dell’abilità, della mediazione in genere, in grazia dì che ci si impossessa in guisa corporea di qualcosa. Secondo la diversità qualitativa delle cose della natura l’impadronirsi e la presa di possesso di esse ha un senso infinitamente molteplice ed una parimenti infinita limitazione e accidentalità. A parte ciò il genere e l’elementare come tale non è oggetto dell’individualità personale; per divenir questo e poter venir fatto oggetto d’apprensione, esso deve per prima cosa venir singolarizzato (una boccata d’aria, un sorso d’acqua). Nell’impossibilità d’esser in grado di prender in possesso un genere esteriore come tale e l’elementare, non è da considerare come la cosa ultima l’esteriore impossibilità fisica, bensì che la persona. come volontà. si determina come individualità e come persona è in pari tempo individualità immediata, quindi anche come tale si comporta verso l’esteriore come verso cose singole (§ 13 annotaz. § 43 28 ). - L’impadronirsi e l’esteriore possedere diviene pertanto pure in guisa infinita più o meno indeterminato e incompiuto. La materia però non è mai senza forma essenziale e soltanto grazie a questa essa è 28 Rectius: § 13; annotaz. a § 43. 103 qualcosa. Quanto più io mi approprio di questa forma, tanto più io vengo anche nel possesso reale della cosa. La consumazione degli alimenti è una penetrazione e modificazione della loro natura qualitativa, grazie alla quale essi prima della consumazione sono ciò che sono. L’addestramento del mio corpo organico ad abilità cosi come l’educazione del mio spirito è in pari modo una più o meno compiuta presa di possesso e penetrazione; è lo spirito, che io posso a me render proprio nel modo più compiuto. Ma questa realtà dell’apprensione del possesso è diversa dalla proprietà come tale, la quale è completa in grazia della volontà libera. Di fronte alla volontà libera la cosa non ha trattenuto alcunché di peculiare per sé, pur se nel possesso, come in un rapporto esteriore, rimane ancora un’esteriorità. Il pensiero deve pervenire a dominare sul vuoto astratto di una materia senza peculiarità, il quale astratto dovrebbe restare nella proprietà fuori di me e proprio alla cosa. § 53. La proprietà ha le sue determinazioni più precise nel rapporto della volontà con la cosa; questo è α) immediatamente presa di possesso, in quanto la volontà ha nella cosa, come in un positivo, il suo esserci β) in quanto la cosa è un negativo di fronte alla volontà, questa ha nella cosa come in qualcosa da negare il suo esserci, - uso γ) la riflessione della volontà entro di sé movendo dalla cosa alienazione; giudizio positivo, negativo e infinito della volontà sulla cosa. A) Presa di possesso § 54. La presa di possesso è sia l’immediata apprensione corporea, sia il dar forma, sia la mera apposizione di un segno. § 55. α) Dal lato sensibile l’apprensione corporea, poiché io in questo possedere sono immediatamente presenziale e quindi la mia volontà è parimenti conoscibile, è la guisa più completa; ma in genere soltanto soggettiva, temporanea e quanto all’estensione, cosi come anche a ragione della natura qualitativa degli oggetti sommamente limitata. - Grazie alla connessione nella quale io posso portare qualcosa con cose già altrimenti a me proprie, o nella quale qualcosa viene in altro modo accidentalmente, 104 e grazie ad altre mediazioni, l’estensione di questa presa di possesso viene alquanto allargata. Forze meccaniche, armi, strumenti ampliano l’ambito del mio potere. - Connessioni come quelle del fiume, del mare lambenti il mio fondo, di un fondo adatto alla caccia, al pascolo, e ad altra utilizzazione, il quale confina con la mia proprietà immobiliare, delle pietre e di altri giacimenti di minerali sotto il mio terreno, di tesori entro o sotto la mia proprietà fondiaria ecc., ovvero connessioni che soltanto seguono nel tempo e accidentalmente (come una parte delle cosiddette accessioni naturali, alluvione e simili, anche naufragio) - la foetura è certamente un’accessione al mio patrimonio 29, ma, intesa come un rapporto organico, non è un aggiungersi esteriore ad un’altra cosa da me posseduta e pertanto di tutt’altra specie dalle restanti accessioni, - sono per un lato possibilità più facili, in parte esclusive, di utilizzare o di prender in possesso qualcosa per un possessore di contro a un altro, per un altro lato ciò che si è aggiunto può venir riguardato come un nonautonomo accidente della cosa alla quale esso si è aggiunto. Queste sono in genere congiunzioni esteriori, che non hanno per loro legame il concetto e il vivente. Esse pertanto ricadono nell’intelletto per allegazione e ponderazione dei pro e dei contro e nella legislazione positiva per la decisione, a seconda di un più o meno di essenzialità o inessenzialità delle relazioni. § 56. β) Grazie al dar forma la determinazione che qualcosa è il mio riceve un’esteriorità sussistente per sé e cessa d’esser limitata alla mia presenzialità in questo spazio e in questo tempo e alla presenzialità del mio sapere e volere. Il dar forma in tanto è la presa di possesso più adeguata all’idea, in quanto essa unifica entro di sé il soggettivo e l’oggettivo, d’altronde infinitamente diversa secondo la natura qualitativa degli oggetti e secondo la diversità dei fini soggettivi. Rientra qui anche il dar forma all’organico, nel quale ciò che io opero in esso rimane non come un che di esteriore, bensì viene assimilato; lavorazione della terra, coltura delle piante, addomesticare, nutrire e custodire gli animali; congegni ulteriormente mediatori per 29 Institutiones, II, 1, 37. 105 l’utilizzazione di forze o materiali elementari, la congegnata influenza di un materiale su di un altro ecc. § 57. L’uomo è secondo l’immediata esistenza in lui stesso un che di naturale, di esterno al suo concetto; soltanto grazie all’addestramento del suo proprio corpo e spirito, essenzialmente perché la sua autocoscienza apprende sé come libera, egli si prende in possesso e diventa la proprietà di se stesso e di fronte ad altri. Questo prender possesso è dal lato opposto parimenti questo, porre nella realtà ciò ch’egli è secondo il suo concetto (come una possibilità, facoltà, disposizione), per il qual modo ciò viene altrettanto posto per la prima volta come il suo, quanto anche come oggetto e distinto dalla semplice autocoscienza e grazie a ciò diviene capace di ricevere la forma della cosa (cfr. annotaz. al § 43). L’asserita giustificazione della schiavitù (in tutte le sue fondazioni prossime attraverso la forza fisica, prigionia. di guerra, salvamento e conservazione della vita, sostentamento, educazione, beneficenze, consenso proprio ecc.) così come la giustificazione di un dominio, inteso come. mera signoria in genere, e ogni veduta storica sul diritto della schiavitù e della signoria riposa sul punto di vista del prender l’uomo come entità naturale in genere secondo un’esistenza (di cui fa parte anche l’arbitrio), la quale non è adeguata al suo concetto. L’affermazione dell’assoluta ingiustizia della schiavitù di contro si attiene al concetto dell’uomo inteso come spirito, come ciò che in sé è libero, ed è unilaterale nel fatto ch’essa prende l’uomo come libero per natura, ovvero, ciò ch’è lo stesso, il concetto come tale nella sua immediatezza, non l’idea, come il vero. Questa antinomia riposa, come ogni antinomia, sul pensare formale, il quale tien fermi e asserisce i due momenti di un’idea, separati, ciascuno per sé, quindi non adeguato all’idea e nella sua non-verità. Lo spirito libero è appunto questo (§ 21), di non esser come il mero concetto o in sé, bensì di toglier questo formalismo di se stesso e con ciò l’immediata esistenza naturale e di darsi l’esistenza soltanto come la sua, come libera esistenza. Il lato dell’antinomia, che asserisce il concetto della libertà, ha pertanto il vantaggio di contenere l’assoluto punto di partenza, ma anche soltanto il punto di partenza per la 106 verità, mentre l’altro lato, che rimane fermo all’esistenza priva di concetto, non contiene affatto il punto di vista di razionalità e diritto. Il punto di vista della volontà libera, con cui comincia il diritto e la scienza del diritto, è già al di là del punto di vista non-vero, nel quale l’uomo come entità naturale e soltanto come concetto essente in sé, è pertanto suscettibile di schiavitù. Questa primi era non-vera apparenza concerne lo spirito che è soltanto al punto di vista della sua coscienza; la dialettica del concetto e della coscienza soltanto immediata della volontà ha per effetto lì stesso la lotta per il riconoscimento e il rapporto della signoria e della servitù (v. Fenomenologia dello spirito, pp. 115 sgg. 30 e Enciclop. delle scienze filos., §§ 352 31 sgg. 22). Che però lo spirito oggettivo, il contenuto del diritto, non venga appreso esso stesso di nuovo soltanto nel suo concetto soggettivo, e con ciò che questo, che l’uomo in sé e per sé non sia destinato alla schiavitù, non venga appreso di nuovo come un mero dover essere, questo ha luogo unicamente nella conoscenza che l’idea della libertà è verace soltanto se intesa come lo stato. § 58. γ) La presa di possesso per sé non reale, bensì soltanto rappresentante la mia volontà, è un segno nella cosa, significato del quale dev’esser che io ho posto la mia volontà in essa. Quanto all’estensione oggettiva e al significato questa presa di possesso è molto indeterminata. B) L’uso della cosa § 59. Grazie alla presa di possesso la cosa riceve il predicato d’esser la mia, e la volontà ha una relazione positiva con essa. In questa identità la cosa è altrettanto posta come un che di negativo e la mia volontà in questa determinazione è una volontà particolare, bisogno, libito ecc. Ma il mio bisogno come particolarità di una volontà è il positivo, il quale si appaga, e la cosa, intesa come il negativo in sé, è soltanto per il medesimo e serve ad esso. – L’uso è questa realizzazione del mio bisogno grazie alla modificazione, distruzione, consumazione della cosa, la cui natura priva di sé viene con ciò rivelata e la quale adempie cosi la sua destinazione. 30 31 PhCin., GW, IX, 110 sgg. 352 L Hm I K; 382 Rph. 22. 107 Che l’uso è il lato avente realità ed è la realtà della proprietà, sta di fronte alla rappresentazione, quando essa riguarda per morta e priva di dominus una proprietà della quale non vien fatto alcun uso, e in caso di illegittimo impadronirsi della medesima adduce come ragione il fatto ch’essa non sia stata usata dal proprietario. - Ma la volontà del proprietario, secondo la quale una cosa è la sua, è la prima base sostanziale, della quale l’ulteriore determinazione, l’uso, è soltanto l’apparenza e la particolare guisa che vien dietro a quella base universale. § 60. L’utilizzazione di una cosa in apprensione immediata è per sé una presa di possesso singola. Ma in quanto l’utilizzazione si fonda su di un bisogno perdurante ed è utilizzazione ripetuta di un prodotto rinnovantesi, fors’anche si limita allo scopo della conservazione di questo rinnovamento, ne segue che queste e altre circostanze rendono quella singola apprensione immediata un segno ch’essa deve avere il significato di una presa di possesso universale, quindi della presa di possesso della base elementare od organica o delle restanti condizioni di tali prodotti. § 61. Poiché la sostanza della cosa per sé, che è mia proprietà, è la sua esteriorità, cioè la sua non-sostanzialità - essa di fronte a me non è fine ultimo entro se stessa (§ 42) - e questa esteriorità realizzata è l’uso o l’utilizzazione che io faccio di essa, ne segue che l’intero uso o utilizzazione è la cosa nella sua intera estensione, cosi che, se quello mi compete, io sono il proprietario della cosa, della quale al di là dell’intera estensione dell’uso non resta nulla che possa esser proprietà di un altro. § 62. Soltanto un uso parziale o temporaneo, cosi come un possesso parziale o temporaneo (inteso come la possibilità essa stessa parziale o temporanea di usare la cosa), che mi compete, è perciò distinto dalla proprietà della cosa stessa. Se l’intera estensione dell’uso fosse mia, ma la proprietà astratta dovesse esser di un altro, allora la cosa siccome la mia sarebbe interamente penetrata dalla mia volontà (§ precedo e § 52), e in pari tempo vi sarebbe un che di impenetrabile per me, la volontà, e la volontà vuota, di un altro, - io a me nella cosa come volontà positiva oggettivo e in pari tempo non oggettivo, - il rapporto di una contraddi- 108 zione assoluta. - La proprietà è perciò essenzialmente proprietà libera, piena. La distinzione tra il diritto all’intera estensione dell’uso e la proprietà astratta pertiene al vuoto intelletto, pel quale l’idea, qui come unità della proprietà ovvero anche della volontà personale in genere, e della realità della medesima, non è il vero, pel quale sibbene questi due momenti nella loro separazione l’uno dall’altro passano per qualcosa di diverso. Questa distinzione è pertanto come rapporto reale quello di una vuota signoria, il quale rapporto (se la follia non venisse affermata soltanto nel caso della mera rappresentazione del soggetto e della sua realtà, che sono in una persona in contraddizione immediata) potrebbe venir chiamato una follia della personalità, poiché il mio in un oggetto dovrebbe essere senza mediazione la mia singola volontà esclusiva e un’altra singola volontà esclusiva. Nelle Institut., lib. II, tit. IV è detto: Ususfructus est jus alienis rebus utendi, fruendi salva rerum substantia 32. Più oltre si dice proprio lì stesso: ne tamen in universum inutiles essent proprietates, semper abscedente usufructu: placuit certis modis axtingui usumfructum et ad proprietatem reverti 33. - Placuit - come se soltanto fosse un capriccio o un decreto, il dare un senso attraverso questa determinazione a quella vuota distinzione. Una proprietas semper abscedente usufructu sarebbe non soltanto inutilis, bensì non più proprietas. - Non rientra qui il discutere altre distinzioni della proprietà stessa, come in res mancipi e nec mancipi, il dominium quiritarium e bonitarium e simili, poiché esse non si riferiscono ad alcuna determinazione concettuale della proprietà e sono fio nezze meramente storiche di questo diritto. - Ma i rapporti del dominium directum e del dominium utile, il contratto enfiteutico e gli ulteriori rapporti di beni feudali con i loro canoni ereditari ed altri· canoni, censi, livelli ecc. nelle loro svariate determinazioni, quando tali carichi sono irredimibili, contengono da un lato la distinzione di cui sopra, dall’altro lato anche no, precisamente nella misura in cui al dominium utile sono legati carichi, per cui il dominium directum diviene in pari tempo un dominium utile. Se tali rapporti contenessero null’altro che quella distinzione sol32 33 Institutiones, II, 4. Ibid. 109 tanto, nella sua rigida astrazione, ivi starebbero di fronte l’uno all’altro propriamente non due signori (domini), bensì un proprietario e un vacuo signore. A cagione dei carichi però sono due proprietari, che stanno in rapporto. Tuttavia essi non sono nel rapporto di una proprietà comune. Il passaggio a tale rapporto da quello è il più facile; - un passaggio, che ivi è già cominciato allorquando nel dominium directum la rendita viene calcolata e riguardata come l’essenziale, quindi il non-calcolabile della signoria su una proprietà, signoria che è stata più o meno tenuta per l’elemento nobile, viene posposto all’utile 34, il quale è qui il razionale. E già un migliaio e mezzo d’anni, che la libertà della persona grazie al cristianesimo ha cominciato a fiorire ed è divenuta principio universale in una parte del resto piccola del genere umano. Ma la libertà della proprietà è stata riconosciuta come principio da ieri, si può dire, qua e là. Un esempio dalla storia del mondo sulla lunghezza del tempo che lo spirito adopra, per progredite nella sua autocoscienza - e contro l’impazienza dell’ opinare. § 63. La cosa nell’uso è una cosa singola determinata per qualità e quantità e in relazione a uno specifico bisogno. Ma la sua utillzzabilirà specifica è in pari tempo siccome quantitatiuamente determinata comparabile con altre cose della medesima utilizzabilità, cosi come lo specifico bisogno, al quale essa serve, è in pari tempo bisogno in genere e in ciò secondo la sua particolarità parimenti comparabile con altri bisogni, e quindi anche la cosa è comparabile con cose tali, che sono utilizzabili per altri bisogni. Questa sua universalità, la cui semplice determinatezza vien fuori dalla particolarità della cosa, cosi che in pari tempo si fa astrazione da questa specifica qualità, è il valore della cosa, ove la sua verace sostanzialità è determinata e oggetto della coscienza. Come pieno proprietario della cosa io lo sono del suo valore, altrettanto che dell’uso della medesima. Il feudatario ha nella sua proprietà il tratto distintivo ch’egli dev’esser soltanto il proprietario dell’uso, non del valore della cosa. 34 In latino nel testo. 110 § 64. La forma data al possesso e il segno sono esse. stesse circostanze esteriori, senza la presenzialità soggettiva della volontà, che sola ne costituisce il significato e il valore. Ma questa presenzialità, che è l’uso, l’utilizzazione o altro estrinsecarsi della volontà, cade nel tempo, con riguardo al quale l’oggettività è la continuazione di questo estrinsecarsi. Senza questa continuazione la cosa, come abbandonata dalla realtà della volontà e del possesso, diviene priva di dominus; perciò io perdo o acquisto proprietà per prescrizione. La prescrizione pertanto non è stata introdotta nel diritto meramente sulla base d’un riguardo esteriore, contravveniente al rigido diritto, del riguardo di troncare le dispute e confusioni, che verrebbero ad opera di antiche pretese nella sicurezza della proprietà ecc. Al contrario la prescrizione si fonda sulla determinazione della realità della proprietà, della necessità che la volontà di avere qualcosa si estrinsechi. - I pubblici monumenti sono proprietà nazionale, ovvero propriamente, come le opere d’arte in genere riguardo all’utilizzazione, essi valgono come viventi e autonomi fini mercé l’anima, che vi alberga, della rimembranza e dell’onore; ma abbandonati da quest’anima, essi divengono da questo lato per una nazione privi di dominus e accidentale possesso privato, come per es. le opere d’arte. greche, egizie nella Turchia. Il diritto di proprietà privata della famiglia di uno scrittore sulle produzioni di lui si prescrive per ragione analoga; esse divengono prive di dominus nel senso che esse (in guisa opposta, come quei monumenti) trapassano in proprietà generale e, secondo l’utilizzazione, particolare ad esse, della cosa, in accidentale possesso privato. - La nuda terra, dedicata a tombe o anche per sé in perpetuo al nonuso, contiene un vuoto arbitrio non-presenziale, attraverso la cui lesione nulla di reale vien leso, il cui rispetto pertanto può anche non venir garantito. C) Alienazione della proprietà § 65. Io posso spogliarmi della mia proprietà, poiché essa è la mia soltanto in quanto io pongo in essa la mia volontà, così che io abbandoni la mia cosa in genere (derelinquire) come priva di dominus, o la ceda alla volontà di un altro in 111 possesso, - ma soltanto in quanto la cosa per sua natura è un che di esteriore. § 66. Perciò sono inalienabili quei beni, o piuttosto determinazioni sostanziali (così come imprescrittibile il diritto ad essi), i quali costituiscono la mia persona più propria e l’essenza universale della mia autocoscienza, come la mia personalità in genere, la mia universale libertà della volontà, la mia eticità, la mia religione. Che ciò che lo spirito è secondo il suo concetto ovvero in sé, sia anche nell’esserci e per sé (quindi sia persona , capace di proprietà, abbia eticità, religione), - questa idea è essa stessa il suo concetto (come causa sui, cioè come causa libera, esso è cosa tale, cuius natura non potest concipi nisi existens; Spinoza, Eth., P. I, Def. 1 35). Appunto in questo concetto, di esser ciò ch’esso è, soltanto grazie a se stesso e come infinito ritorno entro di sé dall’immediatezza naturale del suo esserci, risiede la possibilità dell’opposizione fra ciò ch’esso è soltanto in sé e non anche per sé (§ 57), così come inversamente fra ciò ch’esso è soltanto per sé, non in sé (nella volontà il male); e qui la possibilità dell’alienazione della personalità e del suo essere sostanziale - avvenga questa alienazione in una guisa inconscia o espressa. Esempi di alienazione della personalità sono la schiavitù, servitù della gleba, incapacità di possedere proprietà, la non-libertà della medesima ecc.; alienazione della razionalità intelligente, moralità, eticità, religione si presenta nella superstizione, nell’autorità e nel pieno potere concessi ad altri, di determinare e di prescrivere a me quali azioni io debba compiere (quando uno si impegna espressamente alla rapina, all’omicidio ecc. ovvero alla possibilità di delitti), a me, che cosa sia obbligo di coscienza, verità religiosa ecc. Il diritto a tal cosa inalienabile è imprescrittibile, giacché l’atto grazie a cui io prendo possesso della mia personalità ed essenza sostanziale, rendo me capace di diritto e di imputazione, morale, religioso, sottrae queste determinazioni appunto all’esteriorità, che sola dava ad esse la capacità d’esser nel possesso di un altro. Con questo toglier l’esteriorità cadono la determinazione B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, Pars prima, «De Deo»; Definitiones, I. 35 112 temporale e tutte le ragioni che possono venir tratte dal mio precedente consenso o tolleranza. Questo ritorno di me in me stesso, grazie a cui io mi rendo esistente come idea, come persona giuridica e morale, toglie il precedente rapporto e il torto che io e l’altro abbiam fatto al mio concetto e alla mia ragione: di aver trattato e lasciato trattare l’esistenza infinita dell’autocoscienza come un che di esteriore. - Questo ritorno in me scopre la contraddizione d’aver dato in possesso ad altri la mia capacità giuridica, eticità, religiosità, ciò che io stesso non possedevo, e che, appena io lo posseggo, esiste appunto essenzialmente soltanto come il mio e non come un che di esteriore. § 67. Delle mie possibilità dell’attività e attitudini (corporee e spirituali) particolari io posso alienare produzioni singole e un uso limitato nel tempo da parte d’un altro, poiché esse ottengono secondo questa limitazione un rapporto esteriore con la mia totalità e universalità. Attraverso l’alienazione del mio intero tempo, concreto grazie al lavoro, e della totalità della mia produzione io ne renderei proprietà d’un altro il sostanziale, la mia universale attività e realtà, la mia personalità. È il medesimo rapporto che sopra, § 61, tra la sostanza della cosa e la sua utilizzazione; come questa, soltanto in quanto essa è limitata, è diversa da quella, così anche l’uso delle mie forze è diverso da esse stesse e quindi da me, soltanto in quanto esso è quantitativamente limitato; - la totalità delle estrinsecazioni di una forza è la forza stessa, degli accidenti la sostanza, delle particolarizzazioni l’universale. § 68. Il peculiare nella produzione spirituale può grazie alla maniera dell’estrinsecazione rovesciarsi immediatamente in tale esteriorità di una cosa, che può ora venir parimenti prodotta da altri; così che con l’acquisto di essa il nuovo proprietario, oltre al fatto ch’egli con ciò può render propri i pensieri comunicati o l’invenzione tecnica, la quale possibilità talvolta (nelle opere letterarie) costituisce l’unica destinazione e il valore dell’acquisto, in pari tempo viene nel possesso della maniera universale di estrinsecarsi in tal modo e di produrre tali cose molteplicemente. 113 Nelle opere d’arte la forma raffigurante il pensiero in un materiale esteriore è come cosa a tal punto il peculiare dell’individuo producente, che un’imitazione della medesima è essenzialmente il prodotto della propria abilità spirituale e tecnica. In un’opera letteraria la forma, grazie a cui essa è una cosa esteriore, così come nell’invenzione di un apparecchio tecnico, è di tipo meccanico, - là, perché il pensiero viene esposto soltanto in una serie di astratti segni isolati, non in figurazione concreta, qui, perché esso in genere ha un contenuto meccanico, - e la maniera di produrre tali cose come cose appartiene alle comuni abilità. Tra gli estremi dell’opera d’arte e della produzione artigianale ci sono del resto stadi intermedi, che hanno in sé ora più, ora meno dell’uno o dell’altro. § 69. Poiché l’acquirente di un tale prodotto possiede, nell’esemplare come singolo, il pieno uso e valore del medesimo, ne segue ch’egli è completo e libero proprietario del medesimo come di un prodotto singolo, sebbene l’autore dello scritto o l’inventore dell’apparecchio tecnico rimanga proprietario dell’universale maniera di moltiplicare simili prodotti e cose, come di quell’universale maniera che egli non ha alienato immediatamente, bensì può riservare la medesima a sé come estrinsecazione propria. Il sostanziale del diritto dello scrittore e inventore non è da cercare innanzitutto nella circostanza ch’egli nell’alienazione del singolo esemplare renda arbitrariamente condizione il fatto che la possibilità, con ciò entrante nel possesso dell’altro, di produrre ormai in ugual modo tali prodotti come cose, non divenga proprietà dell’altro, bensì rimanga proprietà dell’inventore. La prima questione è se una tale separazione della proprietà della cosa dalla possibilità, data con essa, di produrla in ugual modo, è ammissibile nel concetto e non toglie la piena, libera proprietà (§ 62), _ sulla qual base soltanto viene a dipendere dall’arbitrio del primo produttore spirituale di mantenere, o di alienare come un valore, questa possibilità per sé, o di non porre su di essa alcun valore per sé e con la singola cosa di rinunciare anche ad essa. Questa possibilità cioè ha il carattere peculiare di esser nella cosa il lato per cui questa è non soltanto un possesso, bensì un patrimonio (v. sotto, § § 170 sgg.), così che questo risiede 114 nella particolare maniera dell’uso esterno che vien fatto della cosa e che è diverso e separabile dall’uso al quale la cosa è immediatamente destinata (quest’uso non è, come lo si chiama, una accessio naturalis tal come la foetura). Ora, poiché la differenza rientra in quel che secondo la sua natura è divisibile, nell’uso esteriore, ne segue che la ritenzione dell’una parte al momento dell’alienazione dell’altra parte dell’uso non è la riserva di una signoria senza utile 36 . - Il meramente negativo, ma primissimo promovimento delle scienze e delle arti è di assicurar coloro che in esse lavorano, di contro al furto, e di accordar loro la protezione della loro proprietà; come il primissimo e più importante promovimento del commercio e dell’industria fu di renderle sicure di contro al brigantaggio sulle strade maestre. - Poiché del resto il prodotto dello spirito ha la destinazione di venir appreso da altri individui e di venir reso proprio alla loro rappresentazione, memoria, pensare ecc., ne segue che la loro estrinsecazione 37 , grazie alla quale essi in egual modo rendono una cosa alienabile ciò che hanno imparato (giacché imparare non significa soltanto imparare amente le parole con la memoria - i pensieri di altri possono venir appresi soltanto col pensare, e questo ripensare è anche imparare), ha sempre 38 con facilità una qualsiasi forma peculiare, così che quegli individui possono considerare come loro proprietà il capitale resultantene e affermare per sé sulla base di ciò il diritto a tale produzione. La propagazione delle scienze in genere e il determinato ufficio dell’insegnamento in particolare, conformemente alla sua destinazione e dovere, nel modo più determinato nelle scienze positive, nella dottrina di una chiesa, nella giurisprudenza ecc., è la ripetizione di pensieri stabiliti, in genere già estrinsecati e assunti dal di fuori, quindi anche in scritti che hanno per fine quest’ufficio dell’insegnamento e la propagazione e diffusione delle scienze. Ora fino a qual punto la forma che risulta nella estrinsecazione ripetentesi trasformi il patrimonio scientifico sussistente e in particolare i pensieri di quei tali altri che sono ancora nella proprietà esteriore In latino nel testo. so hat ihre Äusserung Hm; und ihre Äusserung Rph G B L; [[ und ihre Äusserung]] I. 38 [[hat]] immer Hm; so hat ihre Kusserung immer I; hat immer Rph G B L. 36 37 115 dei loro prodotti spirituali, in una speciale proprietà spirituale dell’individuo riproducente, e quindi a lui dia o fino a qual punto non dia il diritto di renderli anche sua proprietà esteriore, - fino a qual punto tale ripetizione in un lavoro letterario divenga un plagio, non si lascia indicare attraverso una esatta determinazione e quindi non si lascia stabilire giuridicamente e legalmente. Il plagio dovrebbe pertanto essere una questione d’onore e venir da questo raflrenato. - Le leggi contro la contraffazione adempiono perciò il loro fine, di assicurare giuridicamente la proprietà degli scrittori e degli editori, invero in un’estensione determinata, ma molto limitata. La facilità con cui intenzionalmente si può cambiar qualcosa nella forma oppure inventare una modificazioncella ad una grande scienza, ad una comprensiva teoria, che è l’opera di un altro, oppure anche l’impossibilità di rimanere alle parole dell’autore nell’esposizione di ciò che s’è appreso, comportan di per sé, prescindendo dai fini particolari per i quali una tale ripetizione divien necessaria, l’infinita molteplicità di variazioni che alla proprietà altrui imprimono lo stampo più o meno superficiale del proprium; come i cento e cento compendi, sunti, raccolte ecc., libri di aritmetica, geometrie, scritti di edificazione ecc. mostrano come ogni trovata di una rivista critica, di almanacco delle muse, di enciclopedia ecc. può sùbito in pari modo venir ripetuta sotto il medesimo o sotto un mutato titolo, ma affermata come qual. cosa di peculiarmente proprio; - per cui allora con facilità allo scrittore o all’imprenditore che inventa, il guadagno che a lui prometteva metteva la sua opera o il suo ritrovato, vien ridotto a niente o reciprocamente abbassato o rovinato a tutti. - Ma per quel che concerne l’efficacia dell’onore contro il plagio, qui é sorprendente questo: che l’espressione plagio o magari furto letterario non vien più udita - sia, o che l’onore ha avuto la sua efficacia per rimuovere il plagio, o che questo ha cessato d’esser contro l’onore, e il sentimento qui d’intorno è dileguato, o che una trovatuccia e un cambiamento d’una forma esterna stima così altamente sé come originalità e come produrre pensante da se stesso, da non lasciar neppur nascere entro di sé il pensiero di un plagio. 116 § 70. La comprensiva totalità dell’attività esteriore, la vita, non è di fronte alla personalità (come tale che essa stessa è questa e immediata) un che di esteriore. L’alienazione o sacrificio della vita medesima è l’opposto piuttosto che l’esserci di questa personalità. Io non ho perciò un diritto a quell’alienazione in genere, e soltanto un’idea etica, come quella in cui questa personalità immediatamente singola in sé è sprofondata, e che ne è la forza reale, ha un diritto ad essa, così che in pari tempo, al modo che la vita come tale è immediata, anche la morte è l’immediata negatività della vita medesima, perciò la morte deve venir ricevuta dal di fuori, come una cosa della natura, o, nel servizio dell’idea, da mano straniera. Passaggio dalla proprietà al contratto § 71. L’esserci, inteso come essere determinato, è essenzialmente essere per altro (vedi sopra, annotaz. a § 48); la proprietà, secondo il lato per cui essa è un esserci (come cosa esteriore), è per altre esteriorità e nella connessione di questa necessità e accidentalità. Ma inteso come esserci della volontà esso è siccome per altro soltanto per la volontà di un’altra persona. Questa relazione di volontà a volontà è il peculiare e verace terreno nel quale la libertà ha esserci. Questa mediazione, di avere proprietà non più soltanto per mezzo di una cosa e della mia volontà soggettiva, bensì parimenti di averla per mezzo di un’altra volontà, e quindi in una volontà comune, costituisce la sfera del contratto. Ad opera della ragione è altrettanto necessario che gli uomini entrino in rapporti contrattuali, - donino, scambino, commercino ecc., quanto che essi possiedano proprietà (§ 45 annotaz.). Se per la loro coscienza è il bisogno in genere, la benevolenza, l’utilità ecc., ciò che li conduce ai contratti, in sé lo è la ragione, cioè l’idea dell’esserci avente realità (cioè di un esserci sussistente soltanto nella volontà), proprio della libera personalità. - Il contratto presuppone che coloro che vi intervengono si riconoscano come persone e proprietari; poiché esso è un rapporto dello spirito oggettivo, il momento del riconoscimento è già in esso contenuto e presupposto (cfr. §§ 35; 57 annotaz.). 117 8) M. Prospero, Proprietà, mercato e imposte in Hegel, in Scuola superiore dell'economia e delle finanze Rivista on line, n. 2, 2010 […] 2.Il rapporto individuo cosa L'individuo singolo non è il presupposto, come per i giusnaturalisti, è il risultato della vita moderna. Hegel ritiene che "la creazione della società civile appartiene al mondo moderno" 39 e quindi solo moderno può essere l'individualismo. Alla sua base c'è la comparsa di una distinzione tra sfera pubblica e ambito privato sconosciuta nella bella eticità antica. La rottura della comunità coesa e la disgregazione dello status sono la condizione per la visibilità trasparente dell'individuo come dimensione privata, sottratto allo sguardo del pubblico. "Il diritto alla particolarità del soggetto, di trovarsi appagato, ovvero, il che è lo stesso, il diritto della libertà soggettiva, costituisce il punto di svolta e centrale nella differenza tra l'antichità e l'età moderna" 40. Hegel però non tratta dell'individuo Hegel, Lineamenti, cit., agg. Par.182. Solari rintraccia nella nozione di società civile di Hegel "l'elemento veramente vitale del suo pensiero giuridico e sociale" (G. Solari, La filosofia politica, Bari, 1974, p. 211). Avverte Solari (p. 254) che "la scoperta della società civile come concetto autonomo fu il grande merito di Hegel, maggiore certamente di quello che solitamente gli si attribuisce di aver rinnovato il sentimento e la dignità dello Stato". Anche per altri interpreti quella di società "è la grande intuizione hegeliana che sarà il cardine di tutta la scienza sociale e politica dei nostri tempi" (G. De Ruggiero, Hegel, Bari, 1972, p. 203). Nella esplorazione della società civile Hegel "coglie i legami profondi tra i vari istituti economici, sociali e giuridici" (G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, Bari, 2001,III, p. 80). 40 Hegel, Lineamenti, cit., par. 124. Per questo Hegel si pone alla conclusione "del movimento moderno del dritto naturale", di questa "scienza laica" che parte "da premesse puramente laiche" per "rendere superflue le verità rivelate" (F. Rosenzweig, Hegel e lo Stato, Bologna, 1976, p.360). In tal senso si esprime anche N. Bobbio, Studi hegeliani, Torino, 1983. Per Bobbio tuttavia la ragione di Hegel non ha nulla a che spartire con quella dei giusnaturalisti (N. Bobbio, M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Milano, 1979, p. 74). Hegel nega che un diritto naturale o razionale possa esistere senza essere reale, storico, positivo ma parte "dal singolo e cerca di conquistare il concetto di comunità da questa premessa". Il suo è uno sforzo di "costruire il divenire della comunità dai singoli svincolati gli uni dagli altri" (Rosenzweig, op. cit.). Un estremo individualismo convive con esigenze comunitarie, con istanze imponderabili come il concetto di destino. De Ruggiero (op cit, p. 190) avverte il rischio per il soggetto di "un conformismo che modella l'individuo nello stampo della collettività". Questo rischio è incancellabile dal momento che lo sforzo 39 118 e della sua astratta capacità giuridica come una conseguenza della società civile, la fonda in maniera atemporale anteponendo la titolarità astratta di diritti all'ingresso nel mondo conflittuale della società moderna. Nel campo del diritto privato o astratto Hegel condivide le stesse asserzioni volontaristiche e atomistiche dei giusnaturalisti. Il particolare mondo delle relazioni civilistiche costruisce un ambito del tutto peculiare che è riparato dalle asfissianti determinazioni pubbliche. Non che Hegel accetti in toto il paradigma giusnaturalista, anzi ricorda spesso la sua avversione per "la riflessione astratta" che fissa il momento del particolare "nella sua distinzione e contrapposizione di contro all'universale" 41 . Ma la sua veduta condivide la presenza di una sfera privata o civile ben distinta dal momento della statualità che, essa sì, non tollera alcun ricorso alle nozioni del contratto. Hegel cerca solo di integrare la condizione moderna della soggettività o particolarità con l'essenziale precisazione che l'individuo è un prodotto storico accertabile, non il punto di partenza. E' solo tramite la storia che l'individuo si separa dalla comunità ed emerge come irriducibile diversità. E tuttavia, malgrado questa acuta consapevolezza del carattere storicamente prodotto dell'individuo, e quindi del suo connotato tutt'altro che originario, Hegel prende le mosse proprio dal diritto astratto e dall'individuo separato. Prima ancora della società civile, con la sua trama dei bisogni che lega i differenti corpi in relazioni continue per l'appagamento, egli fonda la sfera del diritto astratto e della proprietà proiettandola in un mondo sconfinato di io irrelati che vogliono le cose senza disporre di una cornice sociale e istituzionale necessaria ad accordare diritti e a stabilire obblighi. In tal modo, le sfere del diritto astratto e della proprietà si rivelano delle costruzioni solo mentali e non delle storiche istituzioni sociali. Hegel prima definisce gli schemi astratti (persona, contratto) validi ab aeterno e solo dopo li applica alle di Hegel è quello di transitare dalla società civile "a una società integrata" (J. Rohls, Storia dell'etica, Bologna, 1995, p. 384). In generale l'intento di Hegel è "di sostituire al predominio del sociale quello del politico" (C. Cesa, Fichte, i romantici, Hegel, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali,Torino, 1975, IV, p. 841). 41 Hegel, Lineamenti, cit.. Scrive Hegel: "in passato si credeva di dover dedurre dalla natura dell'uomo i principi che andavano sotto il nome di diritto naturale; nello stesso tempo si credeva che il diritto statale non corrispondesse alla natura, fosse qualcosa di non più naturale" (Scritti storici e politici,Bari, 1997, p. 287). Questa scissione tra ragione e istituzioni è inaccettabile: "c'è diritto solo là dove esiste uno Stato". Per Hegel "la storia ha inizio solo con la legge e con lo Stato" (p. 288). Niente autorizza a santificare il dato empirico giacché "non tutto ciò che esiste è reale" (ivi). 119 concrete relazioni sociali che così hanno a disposizione forme già pronte prima di averle espresse nella concretezza dell'esperienza intersoggettiva. Prima vengono definite le forme astratte e poi si introduce la vita di relazione. Le forme compaiono ancor prima delle operative necessità della vita in comune,esse sono storicamente inapprese. La relazione sociale finisce così per essere l'inveramento di tipi giuridici predefiniti. La società è una conseguenza del diritto e gli schemi astratti del diritto sono creazioni arbitrarie di un ordinamento aleatorio che esiste già prima che compaiano le relazioni sociali. Le forme non sono un risultato dello stare insieme con gli altri, ma anticipano l'incontro dei soggetti che hanno una capacità giuridica originaria. Benché avverti con chiarezza che "soltanto dopo che gli uomini si sono scoperti molteplici bisogni e l'acquisizione dei medesimi si intreccia nell'appagamento, possono venir fatte delle leggi" 42 , Hegel fonda il diritto astratto o civile prima ancora dell'esplorazione del sistema dei bisogni e della entrata nella società civile. La trama genetica degli istituti non conta ed è fuorviante rispetto alla identificazione del nesso logico che pretende di costruire un universo giuridico vincolante solo sulla volontà del soggetto come assoluto centro di volontà. Per questo sforzo di cogliere il rapporto logico e non il dato empirico, la proprietà è vista come "fine essenziale per sé" e non "come mezzo riguardo al bisogno" (Lineamenti, par. 45). A giudizio di Hegel, il bisogno può essere visto non come il dato originario ma come un pungolo: "i bisogni sono in generale gl'incentivi all'attività degli uomini" 43.I bisogni sono anche delle costruzioni artificiali e "la razionalità della moda consiste nel fatto che essa esercita sul gusto dell'epoca il diritto di rinnovarlo continuamente" 44. Ma il dato empirico quale sollecitazione immediata è irrilevante: la volontà crea una sfera esterna solo per esercitare la libertà infinita dell'attore. 42 Hegel, Lieamenti, cit., agg. par. 210. Per Hegel "i bisogni uniscono gli uomini in maniera naturale, ma il vincolo dei rapporti giuridici è tutt'altra cosa" (Scritti storici e politici, cit.). 43 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, cit. p. 225. 44 Hegel, Estetica, cit., p. 838. Il moderno lavoro unilaterale e semplificato grazie all'invenzione delle macchine genera la moda come straordinario impulso al nuovo consumo: "il taglio dei vestiti, lo stile dell'arredamento non sono niente di permanente. La loro variazione è essenziale e razionale, molto più razionale che il restar fermi ad una moda, il voler affermare qualcosa di fisso in certe singole forme"( Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 168). La moda non ha a che fare con l'estetica ("il bello non è sottoposto ad alcuna moda") ma con il consumo, con la creazione di un gusto mutevole attraverso "una bellezza eccitante che vuole eccitare l'impulso, il desiderio, la causalità" (ivi). 120 Hegel precisa che la proprietà è una manifestazione dell'idea di libertà e non una risposta a un bisogno legato alla disponibilità di oggetti esterni. La priorità del bisogno lascerebbe la cosa come un che di positivo e di per sé sussistente. Ma la natura non ha questa indipendenza ed è priva della capacità di fondare diritti. Non è un caso che una delle figure più rilevanti nell'analisi hegeliana sia costituita dalla persona, cioè dalla espressione soggettiva della volontà libera capace di compiere atti giuridicamente rilevanti, al riparo da obblighi forzosi o rapporti di dominio ingiustificati. Come scrive Goethe "la nostra volontà vale la tua, / calpestarla non è facile". La volontà libera è il tratto distintivo della nozione di persona provvista di autonoma capacità giuridica. Volontà e persona sono inseparabili. Nella libertà della persona, del "soggetto capace di diritto, di imputazione", Hegel scorge il momento caratteristico della modernità. Nel mondo moderno, con la nascita, ciascun individuo è titolare di diritti inviolabili ("sii persona e rispetta gli altri come persone"). Ogni individuo diventa un soggetto giuridico ("la personalità contiene in generale la capacità giuridica") che può entrare in rapporti con gli altri seguendo comportamenti liberi e privi di violenza. L'affermazione del moderno coincide con la generalizzazione delle relazioni contrattuali. Hegel spiega che "il diritto è il rapporto fra gli uomini nella misura in cui sono persone astratte. È contraria al diritto quell'azione con cui l'uomo non viene rispettato come persona, o la quale invade la sfera della sua libertà" 45 . La fondazione della categoria giuridica della proprietà avviene a questo livello generico della persona che vuole la cosa. E' la volontà unilaterale rivolta alla cosa a fondare il diritto astratto. Trasferire la proprietà da istituzione sociale specifica a manifestazione di una volontà al di fuori del tempo significa obbedire alla non innocente supposizione che anche la proprietà sia forma vuota indifferente ai tipi di organizzazione della vita sociale. Quando la persona agisce suppone che la sua volontà illimitata possa raggiungere qualsiasi cosa. In contatto entrano la volontà della persona giuridica e la cosa disponibile senza che gli altri siano in qualche misura coinvolti. Il rapporto con la natura avviene in assenza del nesso sociale: è una volontà sradicata e priva di contenuto sociale quella che si aggiudica la cosa come un legittimo coronamento della sua inesauribile brama. Eppure anche Hegel si mostra consapevole che il punto cardine della proprietà risieda proprio nella relazionalità, ossia nel riferimento a una norma comune che conduce alla 45 Hegel, Propedeutica filosofica, in Hegel, Il dominio della politica,Roma, 1980. 121 "esclusione di tutti gli altri" 46 . Fissando nel semplice rapporto con la cosa il titolo originario della proprietà egli decide di mettere fuori gioco gli altri e una istituzione pubblica garante degli scambi di volontà. Non occorrono dunque gli altri per fondare una relazione giuridica in quanto la volontà del singolo, con l'elemento di spiritualità che contiene, è in grado di aggiungere qualcosa in più all'oggetto esterno che così perde la sua indifferenza e si presta ad essere preso in proprietà. La volontà è davvero potenziata al di là di ogni limite e ciò consente di vedere il diritto anche dove si scorge soltanto una pretesa di fare propria una cosa. In questa costruzione hegeliana riecheggia una concezione del soggetto come anima che sulla base della volontà razionale azzera la sfera del tutto negativa della corporeità sensibile. Anche il corpo è un che di esteriore su cui si esercita la volontà di possesso del soggetto persona. "Il corpo - scrive Hegel - in quanto è esistenza immediata, non è adeguato allo spirito; per essere organo volitivo e mezzo animato del medesimo, deve anzitutto esser preso in possesso da esso" 47. Il soggetto è pura coscienza e volontà. Il suo corpo è invece un puro involucro naturale che dev'essere controllato e guidato dallo spirito. Riaffiora, in questo modo, l'antico dualismo corpo-anima. Hegel scrive che nella religione cristiana "il soggetto ha in se un valore infinito, perché è oggetto della grazia divina. Ma l'uomo ha questo solo come spirito, e perciò è necessario che esso si separi dalla naturalità" 48. Anche Hegel si incammina verso la tradizione spiritualistica che svaluta il corpo ritenendolo un elemento puramente sensibile privo di autentico valore. La caratteristica essenziale del soggetto risiede nella sua capacità di agire come volontà pura al riparo da ogni determinazione sensibile. Il mondo esterno viene piegato dalle manifestazioni del volere. Tutto ruota attorno al soggetto come centro di volontà che crea il diritto sulla base della semplice decisione di prendere la cosa. Hegel è ben consapevole che l'esistenza "è essenzialmente esser per un altro". Questo riconoscimento del carattere relazionale dell'esistenza non gli impedisce tuttavia di trattare il problema Hegel, Scritti teologici giovanili, Napoli, 1989, p. 561. Hegel, Lineamenti, cit. Osserva Marx: "la schiavitù legale della gleba non era forse una prova reale contro le ubbie razionali secondo le quali il corpo umano non dev'essere oggetto di mercato e di possesso" (Opere, vol. I, Roma, 1976, p. 136). Sul nesso tra nascita di un privato come ambito distinto dal pubblico e cristianesimo insiste R. Finelli, Mito e critica delle forme, Roma, 1996, p. 201. 48 Hegel, Lineamenti, cit. Il possesso naturalistico viene potenziato a proprietà e "la cosa prodotta per soddisfare il bisogno non è soltanto una cosa lavorata, ma una cosa appropriata nelle specifiche forme della proprietà privata" (Cerroni, op. cit., p. 27). 46 47 122 della proprietà sotto l'angolo di osservazione del nesso che si stabilisce tra la volontà del soggetto ("soltanto la volontà è l'infinito. Quindi appropriarsi significa soltanto manifestare l'elevatezza della mia volontà di fronte alla cosa") e la cosa esteriore (che non è mai "in sé e per sé, non è fine autonomo"). Scompare così la relazione sociale tra gli individui e la proprietà viene fondata da Hegel già prima di aver problematizzato la società civile, il sistema dei bisogni e l'ordinamento dello Stato. Restano perciò in campo solo la volontà (costruita in modo del tutto indipendente dal rapporto con gli altri) e la cosa (presentata come un pezzo di natura, un che di "non libero, senza diritto"). Oltre la volontà singola non ci sono elementi di condizionamento (gli altri, le istituzioni) che possano turbare l'epifania del soggetto isolato. E' stato notato che Hegel "ha interpolato surrettiziamente la pienezza dei contenuti della volontà nell'astratta vuotezza formale della persona" 49. Nel suo disegno, la società rappresenta un sistema consapevole di convivenza che compare solo dopo il diritto astratto e le vuote determinazione delle persone giuridiche. La volontà, piena dei contenuti oggettivi che è riuscita a desumere dai reali rapporti esteriori, incontra e vitalizza la persona dapprima costruita come vuoto ambito formale, come astratta capacità giuridica, come generica libertà di agire sugli oggetti. Il mondo è solo un'appendice del volere e la volontà ha gli empirici contenuti desunti senza griglie critiche adeguate dal mondo reale. Per questa leggerezza della volontà capace di lambire ogni dimensione esterna, Hegel non si preoccupa di precisare un limite alla volontà. Qualsiasi cosa cada sotto il suo angolo di osservazione può costituire oggetto di legittima appropriazione. Il volere può abbracciare qualsiasi cosa. Non si capisce come la volontà di prendere tutte le cose incontri dei limiti in questa fase che Hegel caratterizza solo per la vigenza di un diritto astratto concepito in assenza di società civile e Stato. Tra agguerrite volontà che rivendicano le stesse cose, solo un terzo elemento, quello pubblico, riuscirebbe a stabilire obblighi e restrizioni. Non si può, restando solo nell'ambito del diritto astratto, e quindi al riparo della statualità, fondare limiti diversi da quelli che la volontà esclusiva del singolo è in grado di imporre. Il diritto astratto senza Stato non M. Rossi,Il sistema hegeliano dello Stato, Milano, 1976. Infatti "se di fronte alla «natura» si trova la volontà libera in quanto tale, coi suoi bisogni, desideri ecc., la presa di possesso, il darsi un'esistenza sarà qualcosa di comprensibile, ma non di giuridico; se, a trovarsi di fronte alla natura è la persona, essa non potrà incidere sulla natura perché non ha altro contenuto che la possibilità astratta, e non potrà darsi nessuna esistenza". 49 123 può essere definito diritto e non conosce altre restrizioni che quelle provenienti dalla potenza di ciascuna volontà. Il limite non può che corrispondere alla minaccia privata o alla volontaria astensione dal fare proprie cose che anche altri vogliono. Il quanto si possegga, che Hegel fa rientrare nell'ambito della pura accidentalità, è una questione che non può essere risolta con gli strumenti del diritto astratto o della volontà intersoggettiva fissata nella legge positiva. Non è la legge a stabilire la impossibilità di appropriarsi di una cosa. Spiega Hegel: "una cosa che è già di un altro non mi è lecito prenderla in possesso, e non già perché essa è una cosa, ma perché è cosa sua. Se infatti mi impossesso della cosa, io tolgo in lei il predicato di essere la cosa sua, e con ciò nego la di lui volontà. La volontà è qualcosa di assoluto che io non posso mutare in qualcosa di negativo" 50 . La volontà di un individuo ben incorporata nella cosa, e non un obbligo giuridico, è dunque il titolo che impedisce a chiunque altro di entrarvi in possesso. E' sufficiente la volontà di un attore isolato a stabilire diritti e obblighi in merito alla cosa. Il rapporto generico della volontà con il mondo esterno avviene in Hegel già entro le peculiari figure giuridiche della proprietà privata. Hegel suppone, tacitamente, molte altre "cose" che intervengono a strutturare un rapporto, tra la volontà individuale e la cosa, che sia anche giuridicamente protetto. Egli suppone l'esistenza dell'ordinamento giuridico di origine statale senza il quale l'appropriazione resta un mero fatto accidentale e non diventa mai un diritto consolidato. Lo stesso Hegel avverte che "il concetto di diritto come potenza fornita di autorità indipendente dagli impulsi della singolarità, ha realtà effettuale soltanto nella società statuale" 51. Se questo è vero, il rapporto unilaterale della volontà con la cosa non può mai fondare un istituto giuridico. II paradosso della costruzione hegeliana risiede nel fatto che essa, da una parte, riconosce che il mio e il tuo esigono "la difesa della proprietà mediante l'amministrazione della giustizia", dall' altra postula che la proprietà rappresenti un "fine essenziale per sé" che può valere come "assoluto diritto di appropriazione su tutte le cose". La fretta di giustificare la proprietà prima ancora di entrare nella società e nello Stato, sospinge Hegel persino a celebrarne l'assolutezza e il carattere illimitato, connotati che restano estranei però al diritto che in quanto relazione tra persone non può che configurarsi come relativo e limitato. Dal Hegel, Lineamenti, cit. Il possesso naturalistico viene potenziato a proprietà e "la cosa prodotta per soddisfare il bisogno non è soltanto una cosa lavorata, ma una cosa appropriata nelle specifiche forme della proprietà privata" (Cerroni, op. cit., p. 27). 51 Hegel,Propedeutica filosofica, cit. 50 124 mero rapporto con la cosa Hegel ricava inoltre acquisizioni ingiustificate: il carattere privato, nel senso di giuridicamente privato, della proprietà e la esclusione senza tentennamenti di ogni suggestione comunitaria che paventa qualcosa di demoniaco. Il nesso che si stabilisce tra una volontà e la cosa però può designare solo un momento dell'appropriazione e non può certo essere, come Hegel pretende, già inquadrato nell'ambito di un compiuto diritto di proprietà. Una volontà isolata, che proietta il suo desiderio sulla cosa, non può fondare alcun diritto poiché il diritto è sempre una relazione tra soggetti. La volontà astratta di Hegel si rivela ben piena di contenuti empirici come quelli espressi dalle forme storiche della proprietà privata. La volontà astratta ingloba concrete articolazioni sociali e confida sulla protezione degli appositi istituti espressi dal moderno. Senza dirlo esplicitamente Hegel costruisce il momento dell'astratto e della pura forma sul calco costituito dal moderno istituto proprietario. L'appropriazione della cosa, un elemento generico che può esplicarsi in una molteplicità di modi, per Hegel deve avvenire nelle forme specifiche e, in modo del tutto surrettizio assolutizzate, della proprietà privata. Il generico (appropriazione) si appiattisce sulle forme specifiche (proprietà privata) e il congiunturale meccanismo acquisitivo del moderno (proprietà privata) sale a determinazione universale e metatemporale (appropriazione). Diventa così del tutto impensabile una manifestazione diversa del rapporto con la cosa che non sia quello insormontabile espresso nei calchi rigidi della proprietà privata. Il ragionamento di Hegel si avvolge in un circolo: poiché la comunità è inesistente sono presenti persone e poiché si rintracciano solo persone non può esserci comunità. Le forme della libertà del soggetto sono così collegate con gli astratti schemi della proprietà, come accadeva in certe manifestazioni del giusnaturalismo da Hegel sbeffeggiate. Il nemico dell'astrazione, che specula in nome della ricomposizione di un nesso tra la ragione e la realtà storica, accetta così proprio i paradigmi della riflessione, le rigide divisioni dell'intelletto. Anche se non sfugge una accortezza analitica: Hegel svela una sfasatura temporale tra due diverse espressioni della libertà. La libertà della persona precede la libertà della proprietà. E quest'ultima mostra di avere maggior rilevanza ai suoi occhi. C'è stata una fase di libertà della persona che non esprimeva tuttavia le forme della proprietà. Segno evidente questo che occorre qualcos'altro rispetto al mero diritto astratto perché sia disponibile un regime proprietario ben strutturato. Questa ulteriore condizione è qualcosa di peculiare al moderno: la società civile, il sistema dei bisogni, lo Stato. 125 Le acquisizioni storico-sociali di Hegel si imbattono contro il suo assunto gratuito secondo cui la proprietà è legata alla volontà, alla forma e non al bisogno, all'impulso: "aver proprietà appare come mezzo riguardo al bisogno, se questo vien reso la cosa prima; ma la posizione verace è che dal punto di vista della libertà la proprietà, intesa come il primo esserci della medesima, è fine essenziale per sé" 52 . L'artificio hegeliano sgancia la proprietà dal bisogno, dalla accidentalità sensibile, per innalzarla a manifestazione spirituale della libertà del soggetto. Solo abbracciando la sfera della libertà la proprietà trova quella giustificazione assoluta e incondizionata che mai avrebbe potuto trovare finché restava ancorata all'angusto angolo dei bisogni. Precisa Hegel: "l'essenziale della forma è che, ciò che è diritto in sé, anche come tale sia posto. La mia volontà è razionale, ha valore, e questo aver valore deve esser riconosciuto dall'altro. Qui ora deve cader via la mia soggettività e quella degli altri, e la volontà deve ottenere una certezza, stabilità e oggettività, qual è quella che essa può conseguire soltanto ad opera della forma" 53. Hegel avverte la insufficienza della pura volontà singola per fondare una forma comune vincolante e vorrebbe raggiungere disperatamente l'alterità senza di cui esiste una pretesa unilaterale ma non già un diritto. La forma, che esprime l'insufficienza dell'intendersi sulla base di segni e parole scambiati tra soggetti privati, non può scaturire da un immediato rapporto della persona con la cosa. Essendo la forma un che di posto, di pubblico, non è possibile la sua scaturigine da un legame di per sé unilaterale tra la volontà del singolo e la cosa esterna. La forma evoca l'alterità, la costruzione impersonale di un significato pubblico, non può essere confinata nella unilaterale manifestazione di volontà. La persona astratta che entra in relazione con la cosa non può essere confusa con l'individuo naturale che con la cosa soddisfa un bisogno: per questo allora di essa non è possibile parlare prima di aver posto un ordinamento giuridico. 3. Contratto e riconoscimento La categoria del contratto sospinge Hegel a fuoriuscire dalla fondazione volontaristica unilaterale della proprietà e a prendere in più adeguata considerazione il mondo dell'alterità esistenziale. La coesistenza delle persone nel suo disegno è la sommatoria di volontà singole che si riconoscono. Ma egli sa che il semplice possesso della cosa da parte di un io-voglio non è ancora proprietà perché le fa difetto una volontà comune 52 53 Hegel, Lineamenti, cit., par. 45. Hegel, Lineamenti, cit., aggiunta al par. 217. 126 condivisa con altri. Solo il riconoscimento degli altri e la mediazione di una forma giuridica determina il diritto di proprietà. Hegel chiarisce: "Il diritto del possesso immediato concerne il rapporto verso le cose, non il rapporto verso terze persone. L'uomo ha il diritto di impossessarsi di ciò ch' egli può in quanto singolo. Egli ha il diritto; cioè risiede nel suo concetto di essere un Sé; e con ciò egli è il potere su tutte le cose. Ma la sua presa di possesso acquista anche il significato di escludere un terzo. Che cos'è, riguardo a questo significato, l'elemento vincolante per l'altro? Di che cosa mi è lecito impossessarmi senza fare torto al terzo? A tali domande, appunto, non è possibile rispondere. La presa di possesso è l'appropriazione sensibile che l'uomo deve, mediante il riconoscimento, trasformare in giuridica. Non è che l'appropriazione sia giuridica per il semplice fatto ch'essa c'è. A prendere possesso è, in sé, l'uomo immediato. V'è questa contraddizione per cui a costituire il contenuto è l'immediato, il soggetto, il cui predicato deve essere il diritto. Poiché una cosa è riconosciuta dagli altri, essa è mia proprietà. Ma che cosa gli altri riconoscono? Ciò che io ho, ciò di cui sono in possesso" 54. Se nel rapporto individuo-cosa la proprietà viene fondata gratuitamente perché il titolo si presume attribuito a prescindere dalle volontà degli altri soggetti, nella fondazione contrattuale della proprietà diventa indispensabile considerare la volontà di un altro. Non più la immediatezza del prendere, la pura manifestazione del volere che imprime un segno sulla cosa, ma il riconoscimento e il contratto, cioè il carattere specificamente relazionale del diritto ("il diritto è la relazione che la persona nel suo comportamento ha con un' altra persona") vengono posti alla base della proprietà. Nel Sistema dell'eticità Hegel si serve ampiamente della nozione di riconoscimento per fondare il titolo di proprietà: "La proprietà compare nella realtà attraverso la pluralità delle persone che attuano lo scambio e vicendevolmente si riconoscono" 55. La proprietà non è più il mero rapporto dell'individuo con la cosa, chiama ormai in causa la capacità creativa dello scambio, del riconoscimento. Se prima la proprietà è stata da Hegel Hegel,Filosofia dello spirito jenese, cit., pp. 136-7. La relazionalità del diritto è tenuta presente da Hegel in contrasto con il diritto di natura. Egli scrive che "diritto è la relazione della persona nel suo comportarsi verso l'altra persona" (Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 135). Solo entro il puro stato naturale la proprietà si confonde con il possesso immediato e privo di diritti: "il diritto del possesso immediatamente porta sulle cose, non su di un terzo" (ivi, p. 136). L'obbligo verso l'altro costituisce la proprietà che scavalca così la presa di possesso immediata o appropriazione sensibile. All'immediato prendere subentrano le forme del contratto. 55 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit. 54 127 esaurita nella volontà della singola persona che intercetta la cosa facendola sua, ora lo sforzo è quello di far scaturire la proprietà da un accordo reciproco. Ancora resta sullo sfondo l'ordinamento, lo Stato e lo sforzo profuso mira a contenere la proprietà nell'ambito di soggetti che riconoscono le pertinenze reciproche. Non si pone Hegel il problema di chi predispone gli schemi contrattuali, di chi sorveglia l'adempimento, di chi stabilisce le sanzioni. Il tentativo di fondare il diritto di proprietà è davvero disperato. Quando Hegel percepisce che non è possibile fondare la proprietà sul semplice possesso, sulla volontà depositata nella cosa, cerca di tratteggiare un'apertura alla socialità, alla relazionalità mediata dal diritto. Ma anche la nozione di riconoscimento possiede una struttura contraddittoria: ciascuno infatti riconosce all'altro ciò che già possiede. Perché si superi il possesso immediato, e si abbia la proprietà legittima di un bene, occorre il riconoscimento degli altri. Ma gli altri riconoscono a ciascuno solo il possesso che già vantava sulla cosa. Il rapporto uomo-cosa, che avviene in una situazione pregiuridica sprovvista di efficaci regolazioni formali, è dunque il reale contenuto del reciproco riconoscimento attuato tra persone che operano -si suppone- dentro una società retta da un ordinamento giuridico consolidato. Il rapporto del tutto empirico-immediato che la volontà instaura con la cosa, è inadeguato a giustificare la proprietà. E tuttavia il diritto di proprietà, che Hegel fa sorgere dal reciproco riconoscimento, postula, quale sua base empirica reale, proprio l'appropriazione naturalistica avvenuta al riparo da ogni interferenza giuridica. La finzione del reciproco riconoscimento argomenta Kelsen"nasce dall'ideologia giuridica individualistico-borghese" 56 . In base ad essa, ciascuna individualità è disposta a trascendere la contingenza di quanto possiede solo perché il riconoscimento reciproco, che culmina nella creazione di una volontà collettiva giuridicamente rilevante, non fa che garantire i possessi già in precedenza acquisiti. Il reciproco riconoscimento delle parti serve solo a difendere quanto già la loro volontà di possesso era riuscita ad accaparrarsi. L'ordinamento giuridico in quanto tale non gioca un ruolo di particolare rilievo. Neanche il riconoscimento apre dunque alla dimensione della socialità. Esso infatti non arriva a prospettare un ordinamento giuridico poggiante su più solide basi che non siano quelle dell'individualismo possessivo da proteggere. Per Hegel la cosa voluta diventa proprietà stabile solo "mediante la coscienza" che 56 H. Kelsen, La teoria generale del diritto e il materialismo storico, Roma, 1979. 128 consiste nella assunzione della piena consapevolezza che riconoscendo il possesso singolo ciascuno ottiene la rassicurazione sul proprio. In tal modo "la sicurezza del mio possesso è la sicurezza del possesso di tutti; nella mia proprietà tutti hanno la loro proprietà" 57 . La pratica del riconoscimento non può fondare la proprietà perché in essa non vige alcun diritto o dovere reciproco fissato da una norma generale dell'ordinamento. Solo il diritto formale esprime un ambito comune astratto. Proprio Hegel rifiuta di scorgere la genesi della norma nelle sfere del vivente: "la legge è l'esistere della volontà comune di diversi soggetti intorno ad una singola cosa" 58 . La legge esprime una volontà comune che è ben diversa da quella empiricamente espressa da privati che si riconoscono come proprietari. Scrive Hegel: "la proprietà, della quale il lato dell'esistenza o dell'esteriorità non è più soltanto una cosa, ma contiene in sé il momento di una (e quindi di un'altra) volontà, viene a esistere mediante contratto". È soprattutto quando si accosta allo scambio delle volontà, al contratto (in base al quale "ogni cosa singola diviene un elemento sociale") che Hegel va oltre la riconduzione della proprietà al semplice rapporto della volontà con la cosa, o alla appropriazione immediata della cosa necessaria per soddisfare bisogni esistenziali (che avviene già sotto le forme del diritto di proprietà). La diffusione dei canoni contrattuali, nel funzionamento delle relazioni sociali fondamentali, è un prodotto specificamente moderno. L'industria produce uno spiccato senso della soggettività: "l'industria contiene in sé il principio dell'individualità, quella che nell'industria si sviluppa e predomina, è l'intelligenza individuale" 59 . Con la "libertà del possesso e la libertà della persona" - nota Hegel - insieme "ad ogni illibertà del vincolo feudale, decadono tutte le norme derivate da quel diritto, le decime e i canoni. Alla libertà reale appartengono inoltre la libertà dei mestieri, cioè il fatto che sia concesso all'uomo di usare delle sue forze come vuole, e il libero accesso a tutti gli uffici dello Stato". Hegel coglie con chiarezza che, nelle condizioni moderne, il ricambio sociale è azionabile solo attraverso libere alienazioni. A termine di una ricognizione puntuale del lavoro astratto, della Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 100. Secondo Hegel la proprietà esige, oltre al singolo che vuole la cosa, anche "la coscienza universale" che dispone la esclusione degli altri dal mio e dal tuo. Così "nel possesso determinato tutti hanno altrettanto il loro possesso" (ivi). 58 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p.161. 59 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 229. Il lavoro dell'industria non è legato solo al bisogno, è "lavoro astratto", "astratta attività" ma non ancora il "comprensivo, pieno-di-contenuto e lungimirante spirito" (Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 147). 57 129 macchina, del denaro, egli afferma: "Qui la casualità del prendere possesso è tolta: nell'esser riconosciuto, ho tutto mediante il lavoro e lo scambio. Fonte, origine della proprietà è qui il lavoro, il mio stesso fare" 60. Hegel ha messo alle sue spalle il problema della giustificazione della proprietà sulla base della volontà impressa nella cosa e si concentra sull'analisi di un meccanismo sociale che produce grandi quantità di ricchezze, che scavalcano il puro bisogno legato alla sopravvivenza fisica. In questo meccanismo di creazione illimitata di merci, un ruolo centrale occupa il contratto. Rileva Hegel: "posso alienare la mia proprietà a un altro e posso acquistare proprietà estranea. Questo acquisto avviene solo mediante il contratto, cioè il reciproco consenso, da parte di due persone, di alienare una proprietà, di consegnarla al1'altro, e il consenso di riceverla". Hegel va così molto oltre la raffigurazione del lavoro immediato quale titolo di proprietà sulla cosa e segnala una forma di produttività più legata alla divisione sociale delle funzioni e alla creazione di valori di scambio. Anche senza aderire alla formula di Hobbes, che vuole la proprietà una conseguenza dello Stato, Hegel deve evocare lo Stato per fondare gli istituti della proprietà che non possono certo esaurirsi nella capacità evocativa del contratto e del riconoscimento. "Lo Stato è l'esserci, la potenza del diritto, il sostegno del contratto e del permanere della sua proprietàstabile, l'unità esistente della parola, dell'esserci ideale e della realtà, così come l'unità immediatadel possesso e del diritto, la proprietà in quanto sostanza universale" 61 . La proprietà come rapporto mediato dalle forme del contratto ha un rivestimento giuridico costoso che pone come non più sufficienti la fiducia data con semplici parole. Il ricorso a formalità, a ratifiche dell'autorità, simboleggia che tra i soggetti esiste qualche "segno di sfiducia" perché non bastano più relazioni informali. Il contratto (che Hegel confina nell'ambito del diritto privato e del meccanismo economico e respinge con forza quale possibile fonte dell' obbligo politico-statuale) segnala l'avvento di una società nella quale tutte le prestazioni e le relazioni interindividuali avvengono per il tramite del consenso. "Il contratto -egli precisa- è la stessa cosa che lo scambio, ma scambio ideale. È uno scambio di dichiarazioni, non più di cose, ma vale quanto la cosa stessa. Per entrambi la volontà dell'altro vale in quanto tale" 62. Lo schema del contratto permette infatti di superare ogni vincolo giuridico legato a status particolari di 60 61 62 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 149. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 170. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 151. 130 appartenenza, e di fondare il funzionamento della vita economica sulla apparente dialettica del volere. Hegel precisa che il contratto è la manifestazione essenziale della libertà dei moderni, in quanto la fondazione consensuale delle relazioni sociali e produttive esclude discriminazioni giuridiche. Tutto è cedibile attraverso il contratto ma "inalienabile è la mia ragione, la mia libertà, la mia personalità e ciò che in genere contiene essenzialmente in sé l'intera mia libertà" 63 . Hegel scorge il carattere contrattuale delle relazioni sociali moderne che confidano sulla illimitata capacità autoproduttiva dei negozi giuridici. Le principali manifestazioni dell'esistenza (compresa l'attività produttiva di beni privatamente appropriabili) avvengono attraverso le forme del contratto. Quando Hegel sostiene che "il contratto presuppone che coloro i quali contraggono si riconoscano come persone e proprietari" 64 esprime la persistente, insuperabile antinomia della fondazione della proprietà. Lo stesso tentativo di fondare la proprietà sul contratto si avvita in una antinomia irrisolta. Esso infatti postula pur sempre il concetto di proprietà delle cose o del corpo, che dovrebbe invece essere spiegato. Il libero consenso viene invocato quale essenziale titolo che conferisce legittimità alla appropriazione privata della ricchezza. Ma la libera volontà degli agenti dello scambio, che dovrebbe rappresentare il fondamento della attribuzione privata della proprietà, può davvero esplicarsi solo se di fronte al prestatore d'opera, che cede le sue energie per un tempo determinato, esiste già il proprietario degli strumenti necessari per la produzione di cosemerci. Qui risiede l'antinomia della fondazione della proprietà attraverso il contratto tra soggetti eguali: il libero incontro delle volontà (mercato), che dovrebbe legittimare il titolo di proprietà, è possibile solo se prima della relazione contrattuale tra gli agenti dello scambio, si sia già verificata una situazione non contrattuale (ossia l'attribuzione dei mezzi per produrre ai soggetti proprietari). Neanche Hegel sfugge a questa surrettizia Hegel precisa che "intorno al mio onore e alla mia vita non ha luogo alcun contratto" (Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 154). Il contratto può essere solo a tempo determinato. Anche per Marx il contratto prevede un uso limitato nel tempo del corpo che lavora altrimenti "se fosse permesso all'uomo di vendere la sua forza lavoro per un tempo illimitato, la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita. Una tale vendita, se fosse conclusa, per esempio, per tutta la vita, farebbe senz'altro dell'uomo lo schiavo a vita del suo imprenditore" (Opere, vol. XX, Roma, 1980, p. 128). 64 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 135-6. Come chiarisce Solari, "il possesso, i rapporti di forza, tendono a legittimarsi, al riconoscimento universale mediante il diritto. La particolarità cerca nel diritto una norma universale, ma questa è solo formale. Il possesso universalmente riconosciuto diventa proprietà; i rapporti di forza cercano nel consenso la loro giustificazione" (Solari, op. cit., p. 214). 63 131 attribuzione a uno dei soggetti contraenti di una dotazione di strumenti e di potere che appaiono di origine non contrattuale. Egli nota: "Delle mie possibilità dell'attività e attitudini (corporee e spirituali) particolari io posso alienare produzioni singole e un uso limitato nel tempo da parte d'un altro, poiché esse ottengono secondo questa limitazione un rapporto esteriore con la mia totalità e universalità. Attraverso l'alienazione del mio intero tempo, concreto grazie al lavoro, e della totalità della mia produzione io ne renderei proprietà d'un altro il sostanziale, la mia universaleattività e realtà, la mia personalità" 65 . La prospettiva di Hegel è quella di un formale scambio di volontà tra soggetti diseguali: uno cede energia, tempo e l'altro denaro. Al di fuori del libero contratto restano pur sempre la quantità di valore che dalla prestazione di lavoro si ricava e il potere di dirigere complessi di macchine a fini particolaristici. […] Hegel, Lineamenti, cit., par. 67. Secondo Hegel la schiavitù è basata sull'arbitrio e quindi contraddice i principi di uno Stato razionale. Egli non dubita del principio moderno che "la schiavitù è ingiustizia in sé e per sé, perché l'essenza dell'uomo è la libertà". Rifiuta però l'idea che si possa avere una "improvvisa abolizione della schiavitù" e non invece una "graduale eliminazione della schiavitù che è cosa più opportuna e giusta" (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1981, I, 253). Per Hegel dunque "non si può pretendere in modo assoluto che l'uomo, per il solo fatto che è un uomo, sia ritenuto essenzialmente libero". Occorre dare tempo al concetto perché l'assoluto ha una storia da percorrere per ritornare in sé. Per questo bisogna tener conto che "l'africano non è ancor giunto alla distinzione di sé", e che "il negro rappresenta l'uomo naturale nella sua totale barbarie e sfrenatezza" (op. cit., p. 209). 65 132 9) F. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, tr. it. V. Scialoja, 1886, pp. 36-37, 335-347, 367-383. CAPO SECONDO NATURA GENERALE DELLE FONTI DEL DIRITTO §4. Rapporto giuridico. La base del diritto romano attuale deve cercarsi nella determinazione delle fonti giuridiche ad esso pertinenti. Ma per giungere a buoni resultati è necessario premettere una più larga indagine circa la natura delle fonti giuridiche in generale. Se noi consideriamo il diritto, come nella vita reale d’ogni parte ne circonda e ne stringe, ci apparisce in esso prima di tutto il potere, che spetta a ciascuna persona: una sfera, nella quale la volontà di questa regna, e regna col nostro consenso. Siffatto potere noi lo chiamiamo diritto di questa persona, nel significato di facoltà: molti lo chiamano diritto in senso soggettivo. Tale diritto si manifesta in modo più evidente soprattutto, quando è messo in dubbio o contestato, sicché l’ esistenza e l’estensione di esso venga riconosciuta da una sentenza giudiziale. Ma un più attento esame ci persuade che questa forma logica di una sentenza è soltanto il prodotto di un bisogno accidentale, e che essa non contiene tutta l’essenza della cosa, ma anzi ha bisogno d’un fondamento più profondo. Questo si ritrova nel rapporto giuridico, del quale ogni singolo diritto rappresenta soltanto una faccia particolare, separata per astrazione dal tutto; cosicché il giudizio stesso circa il singolo diritto non può essere vero e ragionevole, se non quando si basa sulla comprensione completa del rapporto giuridico. I1 rapporto giuridico però ha una natura organica, e questa si manifesta sia nella correlazione delle sue parti che si bilanciano a vicenda e dipendono l’una dall’altra, sia nel progressivo svolgimento, che in esso si verifica nel modo di una nascita e di una estinzione. Questa viva ricostruzione del rapporto giuridico in ogni singolo caso è l’elemento razionale della pratica giuridica, e distingue la nobile vocazione di essa dal semplice meccanismo, che molti inesperti credono di riscontrarvi. 133 Affinché questo punto importante non solo sia inteso nella sua generalità, ma sia messo in piena luce in tutta la ricchezza del suo contenuto, non sarà forse inutile di chiarirlo con un esempio. La celebre legge Frater a fratre [L. 38. D. De cond. indeb. 12, 6] tratta il caso seguente. Due fratelli sono soggetti alla potestà dello stesso padre. Uno dà a mutuo all’altro una somma. Il mutuatario la restituisce dopo la morte del padre, e si domanda se esso possa ripetere questo danaro pagato, come pagato per errore. Qui il giudice deve soltanto giudicare della quistione, se la condictio indebiti sia o no fondata. Ma per poter far ciò, egli deve tener presente il rapporto giuridico nel suo complesso. I singoli elementi di questo e erano: la patria potestà sui due fratelli, un mutuo fatto dall’uno all’altro, un peculio che il debitore aveva ricevuto dal padre. Questo rapporto giuridico complesso si è venuto svolgendo progressivamente per la morte del padre, la sua successione, la restituzione della somma mutuata. Su tali elementi deve basarsi la speciale sentenza, che si richiede al giudice. […] §18 Il diritto consuetudinario Conviene ora dimostrare, qual posto occupi tra le fonti del diritto romano attuale il diritto popolare o diritto consuetudinario, che fu da noi più sopra studiato in generale (§7.12). Quando Giustiniano ottenne l’impero, l’originario diritto popolare romano già da lungo tempo non esisteva più nella sua forma primitiva. La parte più importante di osso già al tempo della repubblica era passata nella legislazione del popolo o negli editti, e di ciò che rimaneva ancora come libero diritto consuetudinario s’impossessò la letteratura giuridica, sicchè si trasformò in diritto scientifico. Quando la letteratura giuridica venne ad estinguersi, mancò la viva energia nazionale necessaria per la formazione di nuovo diritto; e se pure talvolta. le circostanze esteriori lo richiedevano, bastava quasi sempre la legislazione imperiale per dare forma determinata al nuovo istituto giuridico. Era dunque quasi impossibile che accanto alla compilazione giustinianea avesse ancora perdurato un libero diritto consuetudinario, come diritto comune 134 romano, perchè tutto ciò che di notevole già era sorto in forza, di esso, aveva senza dubbio trovato posto nei Digesti o nel Codice. Al contrario accanto a questa legislazione generale potevano esistere molte disposizioni di diritto consuetudinario particolare, senza, che noi siamo in grado di determinarne nemmeno in linea d’ipotesi il contenuto e I’importanza. - Sotto i successori di Giustiniano doveva, in forza, delle medesime circostanze, perdurare lo stesso stato di cose, tanto più che la legislazione di lui era stata l’ ultimo grande tentativo di tal natura, e dopo di lui la forza di formare il diritto si venne sempre a indebolire. Uno stato di cose affatto diverso si produsse, allorchè nella rinnovata Europa il diritto romano fu accolto presso nazioni, presso le quali esso non era nato. Eran queste allora già in tal condizione da render difficile il sorgere di un diritto consuetudinario generale, specialmente di un diritto tale, per cui si potesse completare e svolgere ulteriormente il diritto romano ad esse estraneo. Tuttavia esistevano anche dello circostanze favorevoli a tale diritto consuetudinario generale. L’adozione della legislazione straniera aveva prodotto in esse una condizione artificiale e complicata nel diritto, che non poteva essere appianata se non con nuove norme giuridiche sussidiarie. Questo bisogno poteva essere soddisfatto mediante una saggia ed attiva legislazione, se questa fosse stata possibile per il carattere di quegli Stati. Poichè questa mancava, non si poteva ricorrere che al diritto consuetudinario, la cui produzione era favorita dalla fresca e giovanile energia di quelle nazioni. Ma il modo speciale com’era sorto quel bisogno, doveva dare anche a questo diritto consuetudinario un carattere particolare. Esso non fu, come l’altro diritto popolare, patrimonio comune dell’ intera nazione; ma fin da principio assunse una natura scientifica, come tra breve più precisamente dimostreremo (§ 19). L’atto più grande e notevole di diritto consuetudinario generale, al principio dei tempi moderni, era stato appunto la recezione del diritto romano in quei limiti speciali, che già più sopra abbiamo stabiliti (§ 17). Questa recezione però ebbe una diversa importanza presso i differenti Stati della moderna Europa; cosicchè le innovazioni, ch’ essa portò nel dominio del diritto, si dovettero risentire in gradi assai diversi. In Italia il diritto giustinianeo non era mai 135 scomparso del tutto; di nuovo vi fu dunque soltanto il suo risorgimento e la particolare e determinata limitazione delle leggi, che d’allora in poi ebbero vigore. In Francia pure il diritto romano non era mai scomparso del tutto; ma la forma speciale da esso assunta nella compilazione giustineanea era ivi completamente nuova. Molto più sensibile però dovette essere quella recezione in Germania, dove il diritto romano stesso ero un elemento giuridico interamente nuovo e fino allora sconosciuto; sebbene fosse adatto ai rapporti della vita pratica nella nuova civiltà, poiché solo in tal modo esso poteva essere accolto. Quivi appunto una lunga e vivace lotta precedette la recezione completa, e così si ebbe la preparazione e la constatazione dell’efficacia del diritto consuetudinario. Ma non solo la recezione del diritto romano per sé stessa deve, come prodotto certo del diritto consuetudinario, attrarre tutta la nostra attenzione; ma altrettanto, e forse più, la maniera particolare ed i limiti, entro i quali ebbe luogo questa recezione (§17); perché ne risulta che esse fu accompagnata da una chiara coscienza, né può quindi riguardarsi come opera di un caso inconsapevole. E nemmeno può questa recezione, compiutasi in tal modo, considerarsi come istantanea e subito pienamente terminata; che anzi essa giunse soltanto gradatamente al suo pieno sviluppo. Ciò vale specialmente riguardo alla sostanziale limitazione, per la quale fu esclusa dalla recezione una parte considerevole del contenuto del diritto romano. – In questo grande fenomeno di un diritto consuetudinario generale, che sorge egualmente (quantunque non nel medesimo tempo) in molti Stati si manifesta pure la particolar natura dell’epoca moderna. Questi Stati adottarono in complesso un diritto, che non era nato presso di loro, ma presso un popolo straniero, presso un popolo, col quale alcuni di loro non avevano neppure affinità di stirpe. Da ciò risulta che le nazioni moderne non eran destinate in grado uguale alle antiche a formare nazionalità esclusive , e che anzi la comune religione cristiana le aveva riunite tutte con invisibile legame, senza però cancellare il loro carattere nazionale. Su ciò è basata la grande legge di sviluppo dei nuovi tempi, il cui ultimo fine è agli occhi nostri ancora, nascosto. 136 Accanto al diritto consuetudinario generale se ne venne formando uno particolare anche nei tempi moderni, ed il formarsi di esso in cerchia più ristretta incontrò, come già era avvenuto nello Stato romano, ostacoli molto minori. Esso poteva, formarsi in questa cerchia più ristretta in forza di una coscienza giuridica veramente comune a tutti, e perciò in modo prettamente popolare, senza esser preparato ed ajutato dalla scienza. In questo diritto consuetudinario particolare si sono conservati e svolti nel modo più esteso specialmente gli originari rapporti giuridici germanici relativi alla proprietà territoriale (feudi, beni di famiglia, beni dei contadini) oltre il diritto di successione con questi connesso; rapporti, che son destinati a durare oltre la vita di un uomo, e che sogliano essere collegati con i costumi, e le occupazioni continue e conformi di numerose classi di persone. In simil modo si vede nelle città che la comunione dei rapporti d’affari e di mestieri ha da per tutto generato speciali diritti consuetudinari, che modificarono in particolar modo la successione ereditaria (in forza della comunione dei beni sotto forme diverse). Tuttavia vi rimase sempre un campo libero per l’applicazione del diritto romano. Al contrario l’influenza delle consuetudini particolari si trova essere molto più limitata, negli istituti giuridici già esistenti nel diritto, tra i quali pochi soltanto in forza dei bisogni quotidiani ricevettero nuove modificazioni mediante la consuetudine, come p. es. il diritto di fabbricare in rapporto agli edifici vicini e il diritto della locazione delle case e dei servi salariati. Così dunque il diritto consuetudinario particolare restò sempre molto importante per il diritto d’origine germanico, assai meno per il progresso del diritto romano. E questo duplice diritto consuetudinario, generale e particolare, non deve soltanto riconoscersi per il passato, carne fonte del dritto romano attuale oltre le leggi, ma può, come elemento di progresso, ritrovarsi anche per il futuro. Anche in questa, speciale applicazione noi dobbiamo riconoscere nel diritto consuetudinario la medesima natura, che sopra abbiamo attribuito al diritto consuetudinario in genere. Esso nasce perciò dalla comunione delle convinzioni e non giù dalla volontà degl’ individui, i sentimenti e gli atti dei quali debbono considerarsi soltanto come Indizi di quella comunione. Il 137 costume o la usanza, che noi propriamente chiamiamo consuetudine, è perciò per noi principalmente un mezzo di riconoscimento, non giù il fondamento e la causa originaria eli quel diritto. Se finalmente paragoniamo l’autorità di questo con quella delle leggi, dobbiamo attribuire a queste due fonti giuridiche identico valore. […] LIBRO SECONDO I RAPPORTI GIURIDICI CAPO PRIMO ESSENZA E SPECIE DEI RAPPORTI GIURIDIGI §52. Essenza dei rapporti giuridici. Già di sopra abbiamo esposto la natura generale dei rapporti giuridici e come questi si dividano in rapporti di diritto pubblico e rapporti di diritto privato (§ 4. 9). È la essenza di quelli appartenenti al diritto privato, che noi dobbiamo ora studiare più ampiamente; essi soli rientrano nel nostro tema, e verranno perciò da noi indicati sin da ora col nome di’ rapporti giuridici senz’altro, senza aggiunte che ne restringano il senso. L’uomo si trova circondato dal mondo esteriore, e l’elemento più importante di questo suo ambiente è per lui costituito dai rapporti con coloro, che hanno con lui comuni la natura ed i fini. Che pertanto esseri liberi convivano in questi reciproci rapporti, aiutandosi gli uni gli altri, senza essere reciprocamente di impaccio nel loro sviluppo, è possibile solamente mediante il riconoscimento di una invisibile linea di confine, entro la quale la esistenza e la attività di ciascuno possa godere di uno spazio libero e sicuro. La regola, che fissa quel confine e determina questo spazio libero, è il diritto. In ciò sta al tempo stesso la affinità e la differenza che corre tra diritto e morale. Il diritto serve alla morale, ma non in quanto ne soddisfi tutte le esigenze, ma in quanto assicura il libero sviluppo della forza di essa, che risiede nella volontà di ogni individuo. Il diritto però ha una esistenza per sé stante, e non è quindi una contraddizione, se si afferma la possibilità nel 138 caso concreto dell’immorale esercizio di un vero e proprio diritto. Il bisogno e la esistenza del diritto è una conseguenza della imperfezione del nostro stato, ma non di una imperfezione casuale, storica, ma di una imperfezione che è inseparabilmente connessa col grado attuale della nostra esistenza. Molti, nella ricerca del concetto del diritto, partono dal punto di vista opposto, dal concetto del non diritto. Non diritto è secondo essi violazione della libertà per parte di una libertà altrui, che è d’impedimento allo sviluppo dell’uomo, e deve quindi essere remosso come un male. La remozione di questo male è secondo essi il diritto. Questo, secondo alcuni, sarebbe sorto per un intelligente accordo, rinunziando ogni individuo a, parte della sua libertà per assicurarsene il resto; o secondo altri, per una coazione esterna, la quale sola potrebbe esser di ostacolo alla naturale tendenza degli uomini a distruggersi a vicenda. Costoro, prendendo in tal modo a base il momento negativo, fanno precisamente come se noi, per conoscere le leggi della vita, prendessimo a punto di partenza lo stato di malattia, Lo Stato è agli occhi loro una necessità, che si impone e che, data una generale rettitudine di sentimenti, dovrebbe scomparire come superflua; mentre invece esso, data tale ipotesi, secondo il nostro modo di vedere, non potrebbe che crescere tanto più in forza e dignità. Sotto il punto di vista, nel quale ci siamo posti, ogni singolo rapporto giuridico ci apparisce come una relazione tra più persone determinata da una regola di diritto. Questa determinazione consiste poi in questo. che alla volontà individuale è assegnato un campo, nel quale essa domina indipendente da ogni volontà altrui. In ogni rapporto giuridico possono quindi distinguersi due elementi: in primo luogo una materia, vale a dire quel rapporto in sè stesso, ed in secondo luogo la determinazione giuridica di questa materia. Il primo elemento può essere designato come l’elemento materiale del rapporto giuridico, o come il semplice fatto, il secondo come l’elemento formale, vale a dire come quello. per cui il rapporto di fatto assume carattere, forma giuridica. Ma non tutti i rapporti dell’uomo coll’uomo appartengono al campo del diritto, in quanto non tutti sono suscettibili od hanno bisogno di essere così determinati da una regola 139 di diritto. A questo riguardo possono distinguersi tre casi differenti. Rapporti umani che appartengono al campo del diritto o sono dominati da, regole di diritto in modo completo, altri che non lo sono in nessun modo, altri finalmente che lo sono solo parzialmente. Possono valere come esempi per la prima classe la proprietà, per la seconda l’amicizia, per la terza il matrimonio, poichè esso in parte appartiene al campo del diritto e in parte ne sta fuori. §53. Delle differenti specie di rapporti giuridici. La essenza del rapporto giuridico fu definita come una sfera di dominio indipendente della volontà individuale (§ 52). Noi dobbiamo perciò innanzi tutto ricercare gli oggetti, sui quali la volontà può operare ed estendere così il suo dominio; ciò porterà di per sè a una rassegna delle differenti specie possibili di rapporti giuridici. La volontà può agire innanzi tutto sulla propria persona, in secondo luogo sul di fuori, ossia, su ciò che noi dobbiamo chiamare, rispetto al volente, mondo esteriore; tale è la divisione più generale di tutto ciò che può formare oggetto di quella azione della volontà. A comporre però il mondo esteriore concorrono in parte la natura non libera, in parte gli esseri liberi simili al volente, ossia le altre persone. E così, dalla semplice considerazione logica della questione proposta, ci si fanno manifesti tre oggetti principali del dominio della volontà: la propria persona, la natura non libera, le altre persone; per conseguenza, come pare, dovrebbero ammettersi tre specie principali di rapporti giuridici. Noi abbiamo ora da esaminare ad uno ad uno quegli oggetti, ed in primo luogo la persona propria, come oggetto di uno speciale rapporto giuridico. Su questo punto è molto divulgata la seguente dottrina. L’uomo, si dice, ha sopra sè stesso un diritto, che comincia necessariamente con la sua nascita e non può estinguersi mai, finchè egli vive, ed appunto perciò viene chiamato diritto innato; in opposizione a tutti gli altri diritti, i quali solo più tardi ed in modo contingente possono accedere all’ uomo, e sono di natura transitoria, e perciò vengono chiamati diritti acquisiti. Alcuni in questa dottrina sono giunti tanto oltre da attribuire all’uomo un diritto di proprietà sulle sue facoltà intellettuali, e da derivarne ciò 140 che chiamasi libertà di pensiero; ma non è assolutamente possibile di concepire, come un uomo possa impedire ad un altro di pensare, o viceversa possa pensare in lui ed esercitare in questo modo od in quello una turbativa di quel dato diritto di proprietà. Se poi si trasporta la questione sopra un terreno più facile, limitando cioè quel diritto di proprietà dell’uomo al suo essere visibile, al corpo umano e alle sue singole membra, ciò ha certamente un significato, quello di escludere ogni offesa qui certamente possibile; ma non per questo il concetto di tal proprietà è meno inutile, anzi da rigettarsi, in quanto che fra le altre sue conseguenze logiche porta a riconoscere un diritto al suicidio. Quello però, che si contiene di vero in questa erronea idea di un diritto innato avente per oggetto la propria persona è ciò che stiamo per dire. In primo luogo può e deve essere senz’altro messo fuori di dubbio, che 1’uomo ha il diritto di disporre di sè e delle proprie forze; che inoltre questa sua facoltà è appunto la base e il presupposto di tutti gli altri diritti veri e propri, in quanto per esempio proprietà ed obbligazioni hanno per noi valore ,e significato solamente come estensione artificiale delle nostre proprie forze personali, come nuovi organi, che vengono aggiunti artificialmente alla nostra essenza naturale. Ma quella potenza su noi stessi non ha bisogno di essere riconosciuta e determinata dal diritto positivo; e l’errore della suesposta dottrina sta nel fatto, che quel potere naturale dovrebbe, altrettanto inutilmente, quanto erroneamente, essere posto sulla stessa linea con quella sua artificiale estensione ed esser trattato nella stessa maniera. - In secondo luogo, di molti tra i singoli instituti giuridici è da ricercare certamente 1’origine nella difesa di quel potere naturale dell’uomo sopra sè stesso dalle aggressioni altrui. Tale è una gran parte del diritto criminale; tale, nel diritto civile, il considerevole numero dei diritti, che hanno per iscopo la protezione contro le offese all’onore, contro il dolo e contro la violenza, e tra gli altri perciò anche i rimedi possessorii. La ragione ultima di tutti questi diritti è certamente la inviolabilità della persona; tuttavia essi non devono essere considerati solo come semplici conseguenze di questo principio della inviolabilità, essi formano anzi degli istituti di diritto positivo, il particolare contenuto dei quali è pienamente distinto da quella inviolabilità. Se tuttavia si vogliono 141 considerare come diritti sulla propria persona, non si fa altro, con tale designazione, che renderne oscura la vera natura. Non può dirsi neppure, che il riunire insieme quegli istituti di diritto, che hanno a comune questo punto di partenza, sia cosa avente una utilità pratica o didattica: basta riconoscere la loro affinità in generale. Se noi dunque rigettiamo assolutamente i così detti diritti innati, e riconosciamo i diritti acquisiti come i -soli, ai quali dovranno dirigersi le nostre ulteriori ricerche , avremo che gli oggetti sottoposti al dominio della volontà rimangono soltanto due: la natura non libera, e le altre persone. La natura non libera può da noi essere dominata non già nel suo complesso, ma solamente entro determinati limiti di spazio; la porzione di essa così limitata si chiama cosa, ed a questa si riferisce dunque la prima specie possibile dei diritti: il diritto sopra una cosa che nella sua forma più pura e più completa si chiama proprietà. Non così semplici sono quei rapporti di diritto, che hanno per oggetto persone, imperocchè noi possiamo trovarci con queste in due differenti relazioni. - La prima relazione, in che possiamo trovarci con una persona, si è quella in cui essa è sottoposta, in modo simile alle cose, alla nostra volontà, ed è quindi soggetta al nostro dominio. Se questo dominio, fosse assoluto, non sarebbe più concepibile in colui, che vi soggiace, la esistenza della libertà e della personalità; questo nostro dominio non cadrebbe più sopra una persona, ma sopra una cosa, il nostro diritto sarebbe proprietà sopra un uomo, tale quale era in realtà il rapporto di schiavitù nel diritto romano. Ma se così non deve essere, se anzi noi vogliamo che si tratti di un rapporto giuridico particolare, che consista nel dominio sopra una persona senza che ne rimanga annientata la sua libertà, sicchè esso sia simile alla proprietà e tuttavia differente; questo dominio non potrà necessariamente estendersi alla totalità della persona, ma sarà limitato solamente ad un singolo atto della medesima; questo atto viene allora ad essere come sottratto alla libertà dello agente, e considerato come sottoposto alla nostra volontà. Un tale rapporto di dominio sopra un singolo atto di una persona vien chiamato Obbligazione. Questa ha natura simile a quella della proprietà, non solamente perché entrambe costituiscono una estensione del dominio della nostra volontà sopra una porzione del mondo esteriore, ma 142 anche per altri più speciali riguardi: in primo luogo in quanto l’obbligazione può. estimarsi in una somma di danaro, il che non è altro che un cambiamento della obbligazione in proprietà del danaro; in secondo luogo in quanto la maggior parte delle obbligazioni, e le più importanti tra di esse, non hanno altro scopo, che di condurre allo acquisto della proprietà o al godimento temporaneo di essa. - Mediante queste due specie di diritti dunque, proprietà ed obbligazioni, viene ad essere esteso oltre i limiti naturali del proprio essere il potere della persona, che ne è investita. Ora lo insieme dei rapporti, che estendono in siffatto modo il potere di un individuo, viene chiamato patrimonio di esso, e lo insieme degli istituti giuridici, che vi si riferiscono, diritto patrimoniale. Nel rapporto della persona con un’altra persona, da noi esaminato sin qui, ognuna di queste vi compariva come un tutto per sè stante, che nella sua astratta personalità stava di fronte all’altra, come ad un ente completamente estraneo (benché simile). Assolutamente diverso da questo è il secondo rapporto, che può aversi con le altre persone, e che ora si tratta appunto di spiegare. In questo noi consideriamo ciascun uomo non come un ente isolato, ma come membro del tutto organico costituito dalla intera umanità. Ora poiché la sua unione a questo gran tutto è stabilita sempre mediante determinati individui, così la relazione, che corre tra esso e questi individui, costituisce la base di una nuova specie del tutto particolare di rapporti giuridici. In questi l’individuo non ci apparisce, come nelle obbligazioni, come un’unità per sè stante, ma come un essere incompleto, che ha bisogno di trovare il suo complemento in un grande insieme di rapporti naturali. Questa incompletezza dell’individuo, come pure il relativo suo complemento, si mostra in due diverse maniere. In primo luogo nella divisione dei sessi, ciascuno dei quali, preso isolatamente, non rappresenta che imperfettamente la natura umana; a ciò si riferisce il completamento degli individui mediante il matrimonio. – In secondo luogo nell’essere la esistenza dei singoli uomini limitata nel tempo, il che conduce a sua volta, per una diversa via al bisogno ed al riconoscimento di rapporti, che vi suppliscano: primieramente e nel modo più diretto a causa della vita passaggera dell’individuo; a ciò supplisce la 143 generazione, per la quale si ha la perpetuazione non solo della specie, ma in modo più limitato anche dell’individuo; secondariamente a causa della qualità della natura umana, per cui l’individuo al cominciare della vita è privo di ogni potere sopra sè stesso, e non lo acquista che a grado a grado; a ciò supplisce la educazione. Lo istituto del diritto romano, in cui questo duplice completamento della natura umana trova il suo riconoscimento generale ed il suo sviluppo, è la patria potestà; a questa poi si rannoda, in parte come ulteriore sviluppo, in parte per analogia puramente naturale o meno giuridica, la parentela. – L’insieme di tutti questi rapporti complementari matrimonio, patria potestà, parentela - chiamasi famiglia, e gli istituti giuridici, che vi si riferiscono, diritti di famiglia. Poichè il rapporto di famiglia, appunto come l’obbligazione, è un rapporto tra determinati individui, nasce facilmente l’idea di identificare questi due rapporti, di porre cioè la famiglia tra le obbligazioni, o per lo meno di contrapporli, come tra di loro più affini, alla proprietà, la quale non contiene un tale rapporto speciale. Questo modo di considerar la cosa si trova perciò anche in molti autori, sebbene spesso non in tutta la sua estensione, o senza chiara coscienza. Esso però è assolutamente da rigettarsi, ed importa anzi che ne venga dimostrata la erroneità, se si vuole avere il giusto concetto della essenza della famiglia. Occorre perciò che noi qui subito esponiamo quelle essenziali differenze, che al punto, a cui siamo arrivati sino ad ora, possono essere intese chiaramente; riserbandoci di esaminare in appresso (§ 54) più precisamente la vera essenza e tutti i caratteri discretivi della famiglia. La obbligazione ha per oggetto un singolo atto; il rapporto di famiglia si estende a tutta la persona dell’individuo, in quanto esso è un membro dell’ insieme organico di tutta la umanità. La materia della obbligazione è di natura arbitraria, poiché ora questo ed ora quell’atto può costituire il contenuto di una obbligazione; la materia dei rapporti di famiglia, è determinata dalla natura organica dell’uomo, ha perciò il carattere della necessità. L’obbligazione, per regola, è di natura transitoria; il rapporto di famiglia è destinato ad esistere continuamente. Perciò i singoli rapporti di famiglia, quando appariscono in modo completo, si formano nel seno di certe società, che portano appunto il nome collettivo di famiglia. Nella 144 famiglia si ha il germe dello Stato, e lo Stato, una volta formato, ha per elemento immediato le famiglie, non gli individui. Per conseguenza la obbligazione ha veramente maggiore affinità colla proprietà, poiché il patrimonio, che abbraccia queste due specie di rapporti, costituisce una estensione del potere dell’individuo oltre i suoi limiti naturali, mentre invece il rapporto di famiglia è destinato al completamento dell’ individuo per sé stesso incompleto. Il diritto di famiglia si avvicina quindi, più del diritto patrimoniale, ai così detti diritti innati: e, come questi sono stati di sopra affatto esclusi dal campo del diritto positivo, della famiglia deve dirsi che è sottoposta solo in parte al dominio del diritto, mentre invece il patrimonio vi soggiace in modo completo ed esclusivo. Ritornando ora al punto di partenza di questa nostra indagine, troviamo che tre sono gli oggetti, sui quali è possibile un dominio della nostra volontà, ed a questi corrispondono tre sfere concentriche, entro le quali la nostra volontà può esercitare quel dominio. 1) La propria persona originaria. Ad essa corrisponde il cosiddetto diritto innato, che noi non consideriamo affatto come diritto vero e proprio. 2) La propria persona ampliata nella famiglia. Qui l’impero della nostra volontà rientra solo in parte nel campo del diritto , e forma il diritto di famiglia. 3) Il mondo esteriore. L’impero della volontà, che ad esso si riferisce, rientra tutto nel campo del diritto e forma il diritto patrimoniale, il quale a sua volta si suddivide in diritti reali e in diritti di obbligazione. Si hanno quindi tre classi principali di diritti, che noi dobbiamo accettare, al punto in cui sono pervenute le nostre indagini: Diritti di famiglia, Diritti reali, Diritti di obbligazione. Ma queste classi dei diritti esistono così distinte solamente in astratto, in realtà al contrario esse si presentano tra di loro connesse nel modo più variato, e da tale continuo contatto nascono necessariamente influenze reciproche e modificazioni. Avendo dunque noi da esaminare più da vicino i singoli istituti giuridici. delle tre classi proposte, ci è necessario di tener conto al tempo stesso di queste 145 modificazioni, come, in generale, del particolare svolgimento, che quegli istituti hanno avuto nel nostro diritto positivo. […] § 56. Diritti patrimoniali. Due, secondo ciò che già è stato dichiaralo di sopra (§ 53), sono gli oggetti del diritto patrimoniale, cose ed atti dell’uomo. Di qui la divisione principale di esso in: diritto sulle cose e diritto di obbligazione. Il primo prende corpo nel possesso, o nel potere di fatto sulle cose. Come diritto esso si presenta, secondo il suo concetto semplice e completo, sotto la forma della proprietà, ossia dello illimitato ed esclusivo dominio di una persona sopra una cosa. Per renderci chiaro il concetto della essenza della proprietà, fa d’uopo partirsi dalle seguenti considerazioni generali. Ogni uomo è chiamato a dominare sulla natura non libera; egli però deve riconoscere, che a ciò son pure chiamati ugualmente tutti gli altri uomini, e da tale riconoscimento reciproco nasce il bisogno di un accomodamento, pei contatti, nei quali trovansi gli individui nello spazio, bisogno, che dapprima si rivela come qualche cosa di indeterminato e che può essere soddisfatto solo con una esatta determinazione dei limiti di spazio da assegnarsi a ciascuno. Ora tale soddisfazione si ottiene, mediante la comunione nello Stato, in forza del diritto positivo. Se si attribuisce così allo Stato un dominio su tutta la natura non libera compresa entro i suoi confini, i singoli individui ci appariscono come compartecipanti a questo potere collettivo, e la questione si riduce a trovare una regola determinata, secondo la quale si eseguisca la divisione tra i singoli individui. Vi sono per tale divisione tre sistemi diversi, i quali non solo non devono essere considerati come escludentisi 1’un l’altro, ma anzi in certo modo possono venire applicati contemporaneamente. Questi tre sistemi possono riassumersi nel seguente modo: 1) Proprietà comune e godimento comune. In tale condizione si trova tutto il patrimonio dello Stato, consista esso nel reddito delle imposte, nelle regalìe o nei demanii; imperocchè ogni individuo si serve e gode (sebbene spesso 146 in diverso grado) degli istituti pubblici mantenuti con queste rendite. 2) Proprietà comune e godimento privato. Di questo sistema di partizione (il più raro) si ha un esempio nello ager publicus romano dei primi tempi; come pure, nelle odierne corporazioni, in ciò che noi chiamiamo demanio soggetto agli usi civici (Bürgervermögen ), 3) Proprietà privata e godimento privato, dipendenti dalle libere contrattazioni o da eventi naturali riconosciuti dal diritto positivo. Questa forma, predominante dappertutto, è la sola con cui noi abbiam che fare nel diritto privato. Su di ciò riposa il concetto della proprietà, il pieno riconoscimento della quale ha per effetto la possibilità della ricchezza e della povertà, entrambe senza limiti. Un potere dei singoli uomini sulla natura non libera, che vada al di là della proprietà, è impossibile; ben può però immaginarsi un potere in vario modo circoscritto entro i limiti della proprietà; onde, secondo le disposizioni di ciascun diritto positivo, possono formarsi come altrettanti speciali istituti giuridici, molti iura in re. Tutti i diritti, che possono aversi sulle cose – proprietà e iura in re – vengono da noi compresi sotto la denominazione generale di diritti reali. Il diritto d’obbligazione consiste nel dominio parziale su atti altrui, pel quale diviene possibile e si attua tutto quello insieme di rapporti, che noi chiamiamo commercio. Tuttavia non tutti gli atti dell’uomo sono idonei a formare oggetto di obbligazioni, ma solamente quelli, che per la loro natura materiale possono essere considerati come staccati dalla persona, che li compie, e possono essere trattati come simili alle cose. Riassumendo tutto ciò, si trova che qui dominano principj completamente opposti a quelli del diritto di famiglia. In entrambe le parti del diritto patrimoniale la materia non è data, come nel diritto di famiglia, da un rapporto naturalemorale; esse perciò non hanno una natura mista, ma sono anzi costituite da rapporti puramente e semplicemente giuridici; esse non appartengono in alcun modo al ius naturale, ed il riconoscimento della loro esistenza apparisce meno necessario, più arbitrario e positivo, che negli istituti del diritto di famiglia. D’altra parte per esse non può presentarsi alcun dubbio circa la determinazione del loro vero elemento giuridico. Infatti dal momento che esse devono costituire una estensione della libertà individuale (§ 53), è 147 appunto questo potere, questa facoltà, che ci procurano, che forma il contenuto loro, come istituti giuridici. Contro il nostro asserto, che il diritto patrimoniale non contenga, come il diritto di famiglia, un elemento morale, potrebbe obbiettarsi che la legge morale deve governare ogni specie di atti dell’uomo, e che per conseguenza anche i rapporti patrimoniali debbono avere una base morale. Ed essi certamente l’hanno, in quanto il ricco deve considerare la sua ricchezza solamente come un bene affidato alla sua amministrazione; ma questo principio è affatto estraneo all’ordine giuridico. La differenza sta dunque in ciò, che i rapporti di famiglia cadono solo in parte sotto l’impero del diritto, sicché gran parte di essi è dominata esclusivamente dalla morale; e che al contrario nei rapporti patrimoniali la legge giuridica impera esclusivamente, ed anzi senza riguardo alla moralità o immoralità dell’esercizio di un diritto. Quindi è che il ricco può lasciar perire il povero o negandogli ogni soccorso o esercitando senza pietà il suo diritto di creditore, e i rimedi a ciò sono da ricercarsi non già nel campo del diritto privato, ma in quello del diritto pubblico; essi consistono negli istituti di carità, ai quali può certamente esser costretto a contribuire il ricco, sebbene il suo contributo possa essere non direttamente apparente. Resta dunque inconcusso il principio, che al diritto patrimoniale, come istituto di diritto privato, non può attribuirsi alcun elemento morale, senza che con ciò si venga né a disconoscere l’assoluto impero delle leggi morali, né a presentare sotto una luce ambigua la natura del diritto privato (confr. § 52). A primo aspetto il rapporto, che corre tra le due parti del diritto patrimoniale sopra distinte, sembra determinato dal loro oggetto in modo così invariabile, da ritenere che esso debba trovarsi lo stesso in ogni tempo e luogo. Un più accurato esame però mostra anzi che le disposizioni su questa materia nel diritto positivo dei diversi popoli possono variare entro limiti molto larghi. Si trovano di tali differenze in parte riguardo alla linea di confine tra diritti reali e diritti di obbligazione, in parte riguardo al rapporto, in che devono essere considerate tra di loro queste due parti del diritto patrimoniale. – Per ciò che concerne la delimitazione dei loro rispettivi confini, si hanno certamente alcuni punti estremi, nei quali la natura particolare di queste due specie di diritti non può in alcun 148 modo disconoscersi: così da una parte la proprietà assoluta con illimitato diritto di rivendicare, dall’altra la locazione e conduzione delle opere e il mandato. Però tra questi due punti estremi esiste una zona intermedia, un passaggio graduale, in quanto che la maggior parte delle obbligazioni, e le più importanti di esse, tendono appunto al conseguimento, per mezzo di altre persone, di diritti reali o dell’esercizio e del godimento di essi. A questo riguardo, nel diritto romano è posta in rilievo in modo caratteristico e spiccato la proprietà, il che in parte si rivela nell’efficacia illimitata della rivendica, in parte nella molto limitata possibilità di una restrizione della proprietà in forza, iura in re. Tutto dunque sta nel vedere, se la cosa è già di per sé stessa oggetto del nostro diritto, indipendentemente dal fatto di altri, o se il nostro diritto è diretto immediatamente solo ad un fatto altrui, come oggetto sottoposto al nostro potere, anche se quest’atto abbia lo scopo di procurarci il diritto su di una cosa o il godimento della medesima. Serve di criterio discretivo per determinare quei confini la esistenza di una actio in rem o di una actio in personam; la quale distinzione coincide certamente il più delle volte, ma però non sempre, con quella delle azioni rivolte contro una persona determinata o contro una persona indeterminata. – Anche il rapporto tra quelle due parti del diritto patrimoniale può facilmente divenire oscuro e incerto, per quella indeterminatezza di confini. Il diritto romano le distingue rigorosamente l’una dall’altra e considera ciascuna di esse per sé stessa, come completamente indipendente dall’altra entro la cerchia dei propri confini. Così esso tratta la proprietà, come un dominio per sé stante sopra una cosa, senza aver riguardo alle obbligazioni, che servivano a procurarla; e le obbligazioni, come l’impero per sé stante sopra un atto altrui, senza riguardo ai diritti reali, che per mezzo di tale atto si voglion forse ottenere. Da questo modo di trattare tali diritti pienamente conforme alla loro respettiva natura ci si può allontanare per un duplice errore: o in quanto non si badi ad altro, che alle obbligazioni, in modo da non ravvisare nei diritti reali se non una conseguenza o un ulteriore sviluppo di quelle: o in quanto, al contrario, si ritengono i soli diritti reali come il vero oggetto delle disposizioni del diritto, venendo così le obbligazioni ad essere considerate 149 solamente come modi di acquistare diritti reali. Ognuno di questi modi di trattare questa materia, come forzato ed esclusivo, impedisce il giusto apprezzamento della vera natura dei rapporti giuridici: né v’è bisogno di rammentare, come essi non siano menomamente applicabili ad alcuni rapporti di diritto, i quali perciò, secondo le conseguenze logiche di quei criteri, dovrebbero essere lasciati affatto in disparte. 150 10) B. Windscheid, Capitolo IV, La proprietà, in Diritto delle pandette, ed. originale del 1862, trad. it. di Fadda e Bensa, Utet, 1930 pp. 589603; CAPITOLO IV. La proprietà I. Concetto, contenuto, oggetto. §167. Proprietà indica, che una cosa (materiale) è propria di alcuno, e per fermo propria a termini di diritto; quindi invece di proprietà più esattamente diritto di proprietà. Ma che una cosa sia propria d’alcuno a termini del diritto vuol dire, che rispetto ad essa la volontà di lui è decisiva nella totalità dei suoi rapporti. Ciò s’appalesa in duplice senso: 1) il proprietario può disporre della cosa come vuole; 2) un altro non può senza la volontà di lui disporre della cosa. Si possono inoltre indicare singole facoltà, che al proprietario competono in forza del concetto di proprietà, p. es. la facoltà di usare della cosa e di servirsene, la facoltà d’escludere qualunque terzo da ogni ingerenza in ordine alla stessa, la facoltà di richiederla da ogni terzo possessore, la facoltà di determinarne il destino giuridico (facoltà d’alienazione). Ma non si può dire che la proprietà consti d’una somma di singole facoltà, che sia una riunione di singole facoltà. La proprietà è la pienezza del diritto sulla cosa, e le singole facoltà, che in essa vanno distinte, non sono che estrinsecazioni e manifestazioni di questa pienezza. La proprietà come tale è illimitata; ma ammette restrizioni. Dalla totalità dei rapporti, nei quali in forza della proprietà la cosa è sottoposta al volere del titolare, può essere, mediante uno speciale fatto giuridico, tolto l’uno l’altro rapporto e sottratto alla volontà del proprietario. Egli non cessa perciò d’essere proprietario; poiché è pur sempre vero, che egli ha un diritto, che come tale rende la sua volontà decisiva rispetto alla cosa nella totalità dei suoi rapporti, e che lo esime da ogni speciale giustificazione per qualsiasi escogitabile facoltà sulla cosa. Se la restrizione vien meno, tosto la proprietà esplica di nuovo tutta la sua pienezza. Le restrizioni della proprietà 151 sono di due specie. 0 si fondano sopra una regola giuridica generale, o sopra il diritto acquisito di un terzo. Di quelle della prima specie si tratterà tosto più minutamente (§ 169); l’esposizione di quelle della seconda specie rientra nell’esposizione dei diritti, sui quali esse si fondano (cap. 57). § 168 Come oggetto della proprietà è stata da noi indicata una cosa materiale. Ciò soffre una deviazione solo in quanto può formare oggetto della proprietà un complesso di cose materiali. Invece non può farsi parola di una proprietà su quanto il diritto romano tecnicamente designa coll’espressione res incorporales. Res incorporales in questo senso sono diritti (§ 42); se ad alcuno si attribuisce proprietà sui diritti, ciò può significare soltanto, che questi diritti si vogliono designare come a lui competenti. Quindi si deve dire: gli compete questo diritto, non: egli ha la proprietà di questo diritto. Col designare la pertinenza giuridica di un diritto come proprietà sopra un diritto, si porge occasione che i principii vigenti per la proprietà si trasportino e si applichino a diritti, che sono governati da principii diversi. Nello stesso senso è da porre in guardia circa alla espressione proprietà intellettuale; i prodotti della intelligenza sono cose di specie affatto diversa dalle cose materiali, e non possono quindi in una a queste essere sottoposte alle stesse regole (§ 137 nota 10). Il diritto di proprietà sui fondi si estende allo spazio e si trova sopra e sotto il fondo, come pure ai fossili che si trovano sotto la superficie terrestre. II. Limitazioni legali della proprietà. § 169 La esplicazione senza temperamenti e a fil di logica del concetto di proprietà non è possibile senza notevoli inconvenienti; nessun diritto positivo potrà fare a meno di sottrarre alcunché a tale rigore di logica per questo o per quel verso, di modo che il proprietario non possa disporre della sua cosa sotto questo o quel rapporto, debba sotto questo o quel rapporto tollerare la disposizione d’un altro. Il rapporto giuridico, che ha luogo in una tale restrizione della proprietà, può, ancora in concreto, essere di varia guisa. Può essere che di fronte alla restrizione della 152 proprietà stia il diritto di un privato; ma ciò non è necessario, come p. es. se una legge prescriva d’attenersi ad una data altezza nella costruzione delle case. Se le sta di fronte il diritto di un privato, questo può essere o di obbligazione o reale. Le limitazioni legali della proprietà, che occorrono nel diritto romano oggigiorno non sono più tutte pratiche; quelle tuttora pratiche saranno menzionate in seguito. Fra esse formano un gruppo specialmente importante quelle che furono introdotte nell’interesse del rapporto di vicinanza (c. d. diritto di vicinato); qui si comincierà da queste. 1. . Il proprietario di un fondo deve tollerare da parte del vicino una moderata azione sul fondo stesso o sullo spazio sovrastante, p. es. mediante fumo, vapore, polvere, in quanto sono la conseguenza dello sfruttamento ordinario del fondo vicino in conformità alla sua natura. 2. Similmente egli deve tollerare la convessità del muro del vicino, se questa convessità è inferiore al mezzo piede. 3. Egli deve ad ogni terzo giorno (un giorno sì e l’altro no) permettere al vicino il passaggio pel suo fondo allo scopo di raccogliervi i frutti cadutivi dai propri alberi. 4. Se un albero si protenda sulla casa del vicino, il proprietario deve tagliarlo; se non lo fa, deve permettere al vicino di farlo, e questi può allora tenere per sé la legna. Se l’albero si protende sopra un campo altrui il proprietario deve tagliare i rami fino all’altezza di 15 piedi, in caso contrario si fa luogo alla stessa conseguenza. 5. Il proprietario non deve fare nel suo campo opere, per le quali venga mutato a danno del vicino il corso naturale delle acque piovane; se lo fa, può esigersi da lui il ripristinamento. Se il mutamento nel corso delle acque non fu opera sua, egli è obbligato a permettere questo ripristinamento al vicino. – Prescrizioni, che, nell’interesse dei proprietari dei fondi attigui, restringano il proprietario di un fondo nello sfruttamento d’un’acqua privata che in esso si trovi, non ve ne sono nel diritto romano; esse appartengono soltanto alle legislazioni particolari moderne. 6. Il proprietario non può sul suo fondo costrurre alcun edifizio, mediante il quale l’aia del vicino resti privata della corrente d’aria. 7. Il proprietario non può rimuovere da sé quanto dal fondo del vicino si protende nel o sopra il suo, ma deve invece procedere giudiziariamente. 153 8. Il proprietario è obbligato al risarcimento dei danni, se opera nel suo fondo in una maniera, che, sebbene non implichi una azione sul fondo del vicino o sullo spazio che sovrasta ad esso, è però positivamente dannoso del vicino – però solamente sotto la doppia condizione, che il vicino prima dell’opera abbia ottenuta da lui una promessa di risarcimento di danni, e che il proprietario con tali opere ecceda i limiti dello sfruttamento ordinario, portato dalla natura del fondo. Non si fondano sul rapporto di vicinanza le seguenti restrizioni della proprietà. 9. Come il proprietario è obbligato a concedere l’ingresso nel suo fondo al vicino allo scopo di raccogliere frutti cadutivi dai proprii alberi, così egli ha lo stesso obbligo in genere, verso ciascuno le cui cose si trovino nel suo fondo. 10. Egli è obbligato a tollerare nel suo fondo scavi per trovare fossili contro la retribuzione d’un decimo del ricavo (un secondo decimo deve essere corrisposto al fisco). 11. Il proprietario di un fondo, che costeggia un fiume pubblico, deve tollerare quanto l’interesse del traffico sul fiume richiede. 12. Il proprietario di materiali da costruzione e pali da vite, che furono impiegati in un fondo altrui, non può richiederli; ha invece una ragione d’indennità al doppio. Sulle restrizioni legali del diritto d’alienazione v. § 172 a (λ). c) La disciplina 10) Il numero chiuso dei diritti reali: rinvio bibliografico. Lettura consigliata: U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in A. Gambaro – U. Morello, Trattato dei diritti reali, Giuffrè 2011. 11) Modi d’acquisto: rinvio bibliografico. Lettura consigliata: A. Gambaro, La proprietà, in Trattato Iudica – Zatti, Giuffrè 1990, Capitolo V. 154 PARTE II La proprietà nella seconda globalizzazione La struttura della proprietà 1) W.N. Hohfeld, Alcuni concetti giuridici fondamentali nella loro applicazione al ragionamento giudiziario, in Concetti giuridici fondamentali, a cura di M. Losano, Einaudi 1969 Raffronto fra concetti giuridici fondamentali. Uno degli ostacoli più grandi alla chiara comprensione, all' esposi-zione incisiva ed alla giusta soluzione di problemi giuridici sorge spesso dalla supposizione, espressa o tacita, che tutti i rapporti giuridici possano essere ridotti a 'diritti' e 'doveri', e che queste categorie siano perciò adeguate allo scopo di analizzare anche gli interessi giuridici più complessi, come trusts, opzioni, escrows, interessi 'futuri', interessi sociali, ecc. Anche se la difficoltà riguardasse semplicemente l'inadeguatezza e l'ambiguità della terminologia, sarebbe così seria da meritare un chiaro riconoscimento ed un costante sforzo di perfezionamento linguistico; infatti, in ogni problema giuridico o non giuridico, purché attentamente argomentato, i vocaboli camaleontici sono un pericolo per la chiarezza di pensiero e per la perspicuità dell' espressione 66 . Di fatto, tuttavia, A questo proposito, sono significative le parole di uno dei grandi maestri del common law. Nel suo importante Preliminary Treatise on Evidence, 1898, James Bradley Thayer scrive, a p. 190: «A mano a mano che il nostro diritto si sviluppa, diviene sempre più importante precisarne la terminologia; le distinzioni si moltiplicano, sorgono nuove situazioni e complicazioni di fatto, ed il vecchio corredo di idee, distinzioni e frasi dev'essere accuratamente rivisto. La chiarezza di idee e di grande aiuto perla comprensione tanto del diritto, 66 155 l'inadeguatezza e l'ambiguità terminologica di cui prima si è parlato riflettono, disgraziatamente troppo spesso, una corrispondente carenza e confusione per quanto riguarda gli attuali concetti giuridici. Che le cose stiano a questo modo apparirà in certa misura dalla trattazione che segue. I rapporti giuridici fondamentali in senso stretto sono, dopo tutto, sui generis; e così accade che i tentativi di definizione formale siano sempre insoddisfatti, se non completamente inutili. Di conseguenza, il tipo di procedimento più promettente sembra consistere nell’ esporre tutti quanti i diversi rapporti in uno schema di 'opposti' e 'correlativi', passando poi ad esemplificare la loro individuale portata e la loro applicazione in casi concreti. Cercheremo di seguire questo metodo: Opposti giuridici diritto privilegio potere immunità non-diritto dovere incapacità soggezione Correlativi giuridici diritto privilegio potere immunità dovere non-diritto soggezione incapacità Diritti e doveri. Come si è appena accennato, il termine 'diritti' tende ad essere usato indiscriminatamente per coprire ciò che in un dato caso può essere un privilegio, un potere o un'immunità, piuttosto che un diritto nel senso più rigoroso; e le autorità in materia riconoscono occasionalmente la trascuratezza di quest'uso. Come dice il giudice Strong in People v. Dikeman 67: «II vocabolo 'diritto' è definito dai lessicografi come denotante, fra le altre cose, la proprietà, l'interesse, il potere, la prerogativa, l'immunità, il privilegio (Dizionario Wa1ker, voce 'Diritto'). Nel linguaggio giuridico, esso viene quanto di ogni altro campo di studio dell'uomo. Se ne/llnguaggio giuridico corrente i termini vengono usati esattamente, e bene saperlo; se vengono usati inesattamente, e bene saperlo e notare in che cosa consiste l'inesattezza». L'aspetto forse più caratteristico del grande contributo costruttivo di quest'autore allo studio delle disposizioni sulle prove è la sua costante insistenza sulla necessità di chiarire la nostra terminologia giuridica e di operare accurate 'distinzioni' fra concetti e termini che vengono costantemente trattati come se fossero identici, Cfr., per es., pp. VII, 183, 189-90, 278, 306, 351, 355, 390-93. Tutti gli studiosi delle norme sulle prove sanno bene quanto sia stata importante l'influenza di queste distinzioni. […] 67 1852, 7, How. Pr., 124, 130. 156 applicato nella maggior parte dei casi alla proprietà in senso stretto, ma viene spesso usato anche per designare il potere, la prerogativa, il privilegio [...]». Il riconoscimento di quest'ambiguità si ritrova anche nelle parole del giudice Jackson, in United States v. Patrick 68: «Il vocabolo 'diritto' o 'privilegio' hanno, naturalmente, vari significati, secondo il contesto in cui vengono usati. La definizione che ne dànno in genere i lessicografi include “ciò che si può pretendere di fare in base al diritto”, il “potere giuridico”, “l'autorità”, “l'immunità garantita dall’autorità”, “l’essere investiti di diritti speciali o particolari”». E analogamente, nelle parole del giudice Sneed, in Lonas v. State 69 : «Il singolo stato non può dunque emanare ed applicare una legge che diminuisca i privilegi e le immunità di cittadini degli Stati Uniti. Diciamo che le parole diritti, privilegi e immunità vengono usate arbitrariamente, come se fossero sinonimi. La parola diritti è generica, comune, ed abbraccia tutto ciò che può essere preteso in base al diritto» 70. È anche interessante osservare come una tendenza verso la distinzione si ritrovi in un certo numero di importanti disposizioni costituzionali e della legge scritta. Naturalmente, è impossibile dire con sicurezza quanto queste distinzioni siano state precise nella mente del legislatore 71. Riconoscendo, come dobbiamo, che l'uso del termine 'diritto', è stato finora troppo ampio ed indiscriminato, quali indizi nel linguaggio giuridico ordinario possono farci pervenire ad un significato definito ed appropriato del vocabolo in questione? L'indizio sta nel correlativo 'dovere', poiché è certo che anche coloro che usano la parola ed il concetto di 'diritto' nel modo più ampio possibile sono abituati a pensare il ‘dovere’ come suo invariabile correlativo. Com'è detto nella causa Lake Shore & M. S. R. Co. V. Kurtz 72: 68 69 70 71 72 1893, 54 Fed. Rep., 338, 348. 1871, 3 Heisk. (Tenn.), 287, 306-7. […] […] 1894, 10 Ind. App., 60; 37 N. E., 303, 304. 157 « Un dovere od obbligo giuridico è ciò che si deve o non si deve fare. 'Dovere' e 'diritto' sono termini correlativi. Quando si viola un diritto, si trasgredisce un dovere» 73. In altre parole, se X ha il diritto che Y stia fuori dalla sua terra) il correlativo (ed equivalente) è che Y è soggetto ad un dovere verso X di starne fuori. Se, come sembra auspicabile, cercassimo un sinonimo del termine ‘diritto’ in questo significato limitato ed appropriato, forse il vocabolo inglese 'claim' (pretesa) risulterebbe il migliore; esso ha il vantaggio di essere un monosillabo. In questo contesto, è istruttivo il linguaggio di Lord Watson in Studd v. Cook 74: «Le parole che in una transazione relativa a beni mobili sarebbero riconosciute dal diritto scozzese come sufficienti a creare un diritto o pretesa in favore di un esecutore […] devono essere efficaci se usate in riferimento a terreni scozzesi». Privilegi e “non-diritti”. Com'è stato sopra indicato nello schema dei rapporti giuridici, un privilegio è l’opposto di un dovere, ed il correlativo di un ‘non-diritto’. Nell’ultimo esempio fatto, X ha un diritto o pretesa che Y stia fuori dalla sua terra, mentre egli ha il privilegio di accedervi, ovvero, in altri termini, non ha un dovere di starne fuori. Il privilegio di entrare è la negazione del dovere di star fuori. Quest'esempio mostra come sia necessario procedere con cautela: infatti, quando si dice che un dato privilegio è la semplice negazione di un dovere, si intende sempre parlare di un dovere il cui contenuto è precisamente l’opposto di quello del privilegio in questione. Così, se per qualche speciale motivo X ha stipulato con Y un contratto per cui deve andare sulla sua terra, è ovvio che X ha, per quanto riguarda Y, sia il privilegio di entrare sia il dovere di entrare. Il privilegio è perfettamente compatibile con questo tipo di dovere (poiché quest'ultimo ha lo stesso contenuto del privilegio); ma resta ancora valido che, per quanto riguarda Y, il privilegio di entrare è la precisa negazione di un dovere di star fuori. Analogamente, se A non ha stipulato con B un contratto per cui deve compiere per lui un certo lavoro, il privilegio di A di non farlo è proprio la negazione di un dovere di farlo. Qui di nuovo il dovere che 73 74 […] 1883, 8, App. Cas., 597. 158 si oppone è di contenuto esattamente opposto a quello del privilegio. Passando ora alla questione dei 'correlativi', si ricorderà che un dovere è, 1'invariabile correlativo di quel rapporto giuridico correttamente definito come diritto o pretesa. Così stando le cose, se c'è bisogno di un'altra prova dell'importante e fondamentale differenza fra un diritto ( o pretesa) ed un privilegio, la si trova certamente nel fatto che il correlativo di quest'ultimo rapporto è un 'non-diritto', non essendovi altro termine per esprimere quest'ultimo concetto. Così, il correlativo del diritto di X che Y non entri nella sua terra è il dovere di Y di non entrarvi; ma il correlativo del privilegio dello stesso X di entrare è chiaramente il 'non-diritto' di Y che X non entri. Sulla base delle osservazioni fin qui svolte, appare evidente l'importanza di tenere completamente distinti l'uno dall'altro il concetto di diritto (o pretesa) ed il concetto di privilegio; ed è inoltre egualmente chiaro che dovrebbe esservi un termine specifico per designare quest'ultimo rapporto. Senza dubbio, come si è già indicato, l'uso in· discriminato del termine 'diritto' è molto comune, anche quando il rapporto designato è in realtà quello di privilegio l; e troppo spesso quest'identità di termini ha comportato confusione od oscurità di idee in chi ne ha parlato o scritto. […] 2) La Costituzione di Weimar – 11 agosto 1919 Il popolo tedesco, unito nelle sue stirpi, ed animato dalla volontà di rinnovare e rafforzare, in libertà e giustizia, il suo Reich, di servire la causa della pace interna ed internazionale e di promuovere il progresso sociale, si è data questa costituzione. […] CAPO V LA VITA ECONOMICA Art. 153 – La proprietà è garantita dalla costituzione. Il suo contenuto ed i suoi limiti sono fissati dalla legge. L’espropriazione può avvenire solo se consentita dalla legge e nell’interesse collettivo. Salvo che la legge del Reich non 159 disponga altrimenti, deve essere corrisposto all’espropriato un congruo indennizzo. Le controversie sorte circa l’ammontare del medesimo devono essere sottoposte al giudice ordinario, a meno che la legge del Reich non disponga altrimenti. Le espropriazioni da parte del Reich di beni dei Länder, dei Comuni e delle associazioni di pubblica utilità sono possibili solo dietro indennità. La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune. 3) Art. 832 c.c.: Riferimenti bibliografici. C. Salvi, da Il contenuto del diritto di proprietà, Artt. 832-833 c.c. in Comm. Schlesinger, Giuffrè 1994, Capitoli II e IV. O in alternativa A. Gambaro, La proprietà, in Trattato Iudica – Zatti, Giuffrè 1990, Capitolo III. 160 La funzione sociale 4) Carta del Lavoro, approvata dal Consiglio del Fascismo il 21 aprile 1927 Gran I - La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita e mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica che si realizza integralmente nello Stato fascista. II - Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali, è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale. III - L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato, ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori, per cui è costituito: di tutelare di fronte allo Stato e alle altre associazioni professionali gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria; di imporre loro contributi e di esercitare, rispetto ad essi, funzioni delegate di interesse pubblico IV - Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione V - La Magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie del lavoro sia che vertano sull’osservanza dei patti e delle altre norme esistenti, sia che vertano sulla determinazione di nuove condizioni di lavoro VI - Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano l’uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono la disciplina della produzione e del lavoro e ne promuovono il perfezionamento. Le corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi. In virtù di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi della produzione interessi nazionali, le corporazioni sono dalla legge riconosciute come organi di Stato. Quali rappresentanti degli interessi unitari della produzione, le corporazioni possono dettare norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e anche sul coordinamento della produzione tutte le volte che ne abbiano avuto i necessari poteri dalle associazioni collegate. 161 VII - Lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo sfruttamento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione. L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzazione della impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Dalla collaborazione delle forze produttive deriva fra esse reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d’opera, tecnico, impiegato, od operaio, è un collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità. VIII - Le associazioni professionali di datori di lavoro hanno l’obbligo di promuovere in tutti i modi l’aumento, il perfezionamento della produzione e la riduzione dei costi. Le rappresentanze di coloro che esercitano una libera professione o un’arte e le associazioni di pubblici dipendenti concorrono alla tutela degli interessi dell’arte, della scienza e delle lettere, al perfezionamento della produzione e al conseguimento dei fini morali dell’ordinamento corporativo IX - L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente la iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta. X - Nelle controversie collettive del lavoro l’azione giudiziaria non può essere intentata se l’organo corporativo non ha prima esperito il tentativo di conciliazione. Nelle controversie individuali concernenti l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro, le associazioni professionali hanno facoltà di interporre i loro uffici per la conciliazione. La competenza per tali controversie è devoluta alla magistratura ordinaria, con l’aggiunta di assessori designati dalle associazioni professionali interessate XI - Le associazioni professionali hanno l’obbligo di regolare, mediante contratti collettivi, i rapporti di lavoro fra le categorie di datori di lavoro e di lavoratori che rappresentano. Il contratto collettivo di lavoro si stipula fra associazioni di primo grado, sotto la guida e il controllo delle organizzazioni centrali, salva la facoltà di sostituzione da parte dell’associazione di grado superiore, nei casi previsti dalla legge e dagli statuti. Ogni contratto collettivo di lavoro, sotto pena di nullità, deve contenere norme precise sui rapporti disciplinari, sul periodo di prova, sulla misura e sul pagamento della retribuzione, sull’orario di lavoro. XII - L’azione del sindacato, l’opera conciliativa degli organi corporativi e la sentenza della Magistratura del lavoro garantiscono la corrispondenza del salario alle esigenze normali di vita, alle possibilità dalla produzione e al rendimento del lavoro. La determinazione del salario è sottratta a qualsiasi norma generale e affidata all’accordo delle parti nei contratti collettivi. XIII - I dati rilevati dalle pubbliche Amministrazioni, dall’Istituto centrale di Statistica e dalle associazioni professionali legalmente riconosciute, circa le condizioni della produzione e del lavoro e la 162 situazione del mercato monetario, e le variazioni del tenore di vita dei prestatori d’opera, coordinati ed elaborati dal Ministero delle corporazioni, daranno il criterio per contemperare gli interessi delle varie categorie e delle classi fra di loro e di queste coll’interesse superiore della produzione. XIV - La retribuzione deve essere corrisposta nella forma più consentanea alle esigenze del lavoratore e dell’impresa. Quando la retribuzione sia stabilita a cottimo, e la liquidazione dei cottimi sia fatta a periodi superiori alla quindicina, sono dovuti adeguati acconti quindicinali o settimanali. Il lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici, viene retribuito con una percentuale in più, rispetto al lavoro diurno. Quando il lavoro sia retribuito a cottimo, le tariffe di cottimo debbono essere determinate in modo che all’operaio laborioso, di normale capacità lavorativa, sia consentito di conseguire un guadagno minimo oltre la paga base. XV - Il prestatore di lavoro ha diritto al riposo settimanale in coincidenza con le domeniche. I contratti collettivi applicheranno il principio tenendo conto delle norme di legge esistenti, delle esigenze tecniche delle imprese, e nei limiti di tali esigenze procureranno altresì che siano rispettate le festività civili e religiose secondo le tradizioni locali. L’orario di lavoro dovrà essere scrupolosamente e intensamente osservato dal prestatore d’opera. XVI - Dopo un anno di interrotto servizio il prestatore d’opera, nelle imprese a lavoro continuo, ha il diritto ad un periodo annuo di riposo feriale retribuito. XVII - Nelle imprese a lavoro continuo, il lavoratore ha diritto, in caso di cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza sua colpa, ad un’indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è dovuta anche in caso di morte del lavoratore XVIII - Nelle imprese a lavoro continuo, il trapasso della azienda non risolve il contratto di lavoro, e il personale ad essa addetto conserva i suoi diritti nei confronti del nuovo titolare. Egualmente la malattia del lavoratore, che non ecceda una determinata durata, non risolve il contratto di lavoro. Il richiamo alle armi o in servizio della M.V.S.N. non è causa di licenziamento XIX - Le infrazioni alla disciplina e gli atti che perturbino il normale andamento dell’azienda, commessi dai prenditori di lavoro, sono puniti, secondo la gravità della mancanza, con la multa, con la sospensione dal lavoro e, per i casi più gravi, col licenziamento immediato senza indennità. Saranno specificati i casi in cui l’imprenditore può infliggere la multa o la sospensione o il licenziamento immediato senza indennità XX - Il prestatore di opera di nuova assunzione è soggetto ad un periodo di prova, durante il quale è reciproco il diritto alla risoluzione del contratto, col solo pagamento della retribuzione per il tempo in cui il lavoro è stato effettivamente prestato 163 XXI - Il contratto collettivo di lavoro estende i suoi benefici e la sua disciplina anche ai lavoratori a domicilio. Speciali norme saranno dettate dallo Stato per assicurare la polizia e l’igiene del lavoro a domicilio XXII - Lo Stato accerta e controlla il fenomeno della occupazione e della disoccupazione dei lavoratori, indice complessivo delle condizioni della produzione e del lavoro XXIII - Gli Uffici di collocamento sono costituiti a base paritetica sotto il controllo degli organi corporativi dello Stato I datori di lavoro hanno l’obbligo di assumere i prestatori d’opera pel tramite di detti Uffici. Ad essi è data facoltà di scelta nell’ambito degli iscritti negli elenchi con preferenza a coloro che appartengono al Partito e ai Sindacati fascisti, secondo l’anzianità di iscrizione XXIV - Le associazioni professionali di lavoro hanno l’obbligo di esercitare un’azione selettiva fra i lavoratori, diretta ad elevarne sempre più la capacità tecnica e il valore morale XXV - Gli organi corporativi sorvegliano perché siano osservate le leggi sulla prevenzione degli infortuni e sulla polizia del lavoro da parte dei singoli soggetti alle associazioni collegate XXVI - La previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione. Il datore di lavoro e il prestatore d’opera devono concorrere proporzionalmente agli oneri di essa. Lo Stato, mediante gli organi corporativi e le associazioni professionali, procurerà di coordinare e di unificare, quanto è più possibile, il sistema e gli istituti della previdenza XXVII - Lo Stato fascista si propone: 1° il perfezionamento dell’assicurazione infortuni; 2° il miglioramento e l’estensione dell’assicurazione maternità; 3° l’assicurazione delle malattie professionali e della tubercolosi come avviamento all’assicurazione generale contro tutte le malattie; 4° il perfezionamento dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria; 5° l’adozione di forme speciali assicurative dotalizie pei giovani lavoratori XXVIII - È compito delle associazioni di lavoratori la tutela dei loro rappresentanti nelle pratiche amministrative e giudiziarie, relative all’assicurazione infortuni e alle assicurazioni sociali. Nei contratti collettivi di lavoro sarà stabilita, quando sia tecnicamente possibile, la costituzione di casse mutue per malattia col contributo dei datori di lavoro e dei prestatori di opera, da amministrarsi da rappresentanti degli uni e degli altri, sotto la vigilanza degli organi corporativi XXIX – L’assistenza ai propri rappresentanti, soci e non soci, è un diritto e un dovere delle associazioni professionali. Queste debbono esercitare direttamente le loro funzioni di assistenza, nè possono delegarle ad altri enti od istituti, se non per obiettivi d’indole generale, eccedenti gli interessi delle singole categorie 164 XXX – L’educazione e l’istruzione professionale dei loro rappresentanti, soci e non soci, è uno dei principali doveri delle associazioni professionali. Esse devono affiancare l’azione delle Opere nazionali relative al dopolavoro e alle altre iniziative di educazione. 5) B. Mussolini, Discorso al Senato per lo Stato Corporativo, 13 gennaio 1934, Opera Omnia di Benito Mussolini, XXVI, La Fenice, Firenze, pp. 146-151 Onorevoli senatori! Se effettivamente la materia non fosse inesauribile, io avrei rinunciato volentieri alla parola, anche perché la legge che è sottoposta ai vostri suffragi ha avuto una elaborazione lenta e profonda: non nasce d’improvviso. I suoi precedenti possono essere ritrovati in quella che si potrebbe chiamare la protostoria del regime: la prima adunata dei Fasci di Combattimento, tenutasi a Milano quindici anni or sono. Dopo la marcia su Roma, i primi tentativi corporativi furono l’incontro di palazzo Chigi ed il Patto di palazzo Vidoni. Viene poi la legge 3 aprile 1926, seguila dal regolamento del V luglio1926. La Carta del lavoro del 21 aprile 1927. La prima legge sulle corpo-razioni è del marzo 1930. Questa legge primieramente e stata esaminata dal Comitato corporativo centrale, poi è stata discussa nel Consiglio nazionale delle corporazioni, ha avuto il suo crisma in lunghe e dettagliate discussioni del Gran Consiglio, è stata riveduta dal Consiglio dei ministri, è stata presentata a voi con una relazione del ministero delle Corporazioni. […] Quali sono le premesse di questa legge? Le premesse fondamentali sono le seguenti: non esiste il fatto economico di interesse esclusivamente privato e individuale; dal giorno in cui l’uomo si rassegnò o si adattò a vivere nella comunità dei suoi simili, da quel giorno nessun atto che egli compia, comincia, si sviluppa o si conclude in lui, ma ha delle ripercussioni che vanno oltre la sua persona. 165 Bisogna anche situare nella storia il fenomeno che si chiama capitalismo, quella forma determinante nell’economia che si chiama l’economia capitalistica. L’economia capitalistica è un fatto del secolo scorso e dell’attuale. L’antichità non l’ha conosciuto. Il libro del Salvioli è esauriente, definitivo in materia. Nemmeno nel medioevo! Siamo sempre in una fase di artigianato più o meno vasta. Chi dice capitalismo dice macchina, chi dice macchina dice fabbrica. II capitalismo è quindi legato al sorgere della macchina; si sviluppa soprattutto quando è possibile trasportare l’energia a distanza e quando, in condizioni tutt’affatto diverse da quelle nelle quali viviamo, è possibile una divisione del lavoro razionale ed universale. È questa stessa divisione del lavoro che nella seconda metà del secolo scorso faceva dire ad un economista inglese, Stanley Jevens, che: «Le pianure dell’America del Nord e della Russia sono i nostri campi di grano; Chicago ed Odessa i nostri granai; il Canada ed i paesi sono le nostre foreste; l’Australia alleva per noi i suoi armenti; l’America i suoi buoi; il Perù ci manda il suo argento; la California e l’Australia il loro oro; i cinesi coltivano il tè per noi e gli indiani il caffè; zucchero e spezie arrivano ai nostri porti; in Francia e in Spagna sono i nostri vini; il Mediterraneo il nostro orto». Tutto questo naturalmente aveva la contropartita del carbone, delle cotonate, delle macchine, ecc. Si può pensare che in questa prima fase del Capitalismo (io altrove la ho definita dinamica ed anche eroica) il fatto economico fosse di natura prevalentemente individuale e privata. I teorici in quel momento escludevano nella maniera più assoluta l’intervento dello Stato nelle faccende dell’economia e chiedevano allo Stato soltanto di essere assente e di dare alla nazione la sicurezza e l’ordine generale. È anche in questo periodo che il fenomeno capitalista industriale ha nei suoi dirigenti un aspetto familiare che là dove si è conservato è stato di utilità somma; ci sono le dinastie dei grandi industriali che si trasmettono da padre in figlio non soltanto la fabbrica, ma anche un senso di orgoglio, anche un punto di onore. Senso di orgoglio, anche un punto di onore. Ma già il Fried, nel suo libro La fine del capitalismo, pur limitando le sue osservazioni al campo tedesco, è condotto a constatare che fra il ‘70 e il ‘90 queste grandi dinastie di 166 industriali decadono, si frantumano, si disperdono, diventano insufficienti. È in questo periodo che appare la società anonima. Non bisogna credere che la società anonima sia una invenzione diabolica o un prodotto della malvagità umana. (Si ride). Non bisogna introdurre troppo di frequente gli iddii ed i diavoli nelle nostre vicende. La società anonima nasce quando il capitalismo, per le sue proporzioni aumentate, non può più contare sulla ricchezza familiare o di piccoli gruppi, ma deve fare appello attraverso emissioni di azioni e di obbligazioni al capitale anonimo, indifferenziato, colloidale. […] In questo periodo, quando l’industria non può collocare, giovandosi del suo prestigio o della sua forza, il suo capitale, ricorre alla banca. Quando una impresa fa appello al capitale di tutti il suo carattere privato cessa, diventa un fatto pubblico o, se più vi piace, sociale. […] L’intervento dello Stato non è più scongiurato, è sollecitato. Lo Stato deve intervenire? Non vi è dubbio. Ma come? Ora le forme dell’intervento dello Stato in questi ultimi tempi sono state diverse, varie, contrastanti. C’è l’intervento disorganico, empirico, caso per caso. Questo è stato applicato in tutti i paesi, anche in quelli che fino a questi ultimi tempi tenevano issata la bandiera del liberalismo economico. Vi è una forma di intervento, quello comunistico, verso la quale io non ho nessunissima simpatia, nemmeno in ordine allo spazio, senatore Corbino! Escludo per mio conto che il comunismo applicato in Germania avrebbe dato risultati diversi da quelli che ha nato in Russia. Comunque è evidente che il popolo germanico non ne ha voluto sapere. Questo comunismo, così come ne ci appare in talune sue manifestazioni di esasperato americanismo (gli estremi si toccano), non è che una forma di socialismo di Stato, non è che la burocratizzazione dell’economia. Io credo che nessuno di voi vuole burocratizzare, cioè congelare, quella che è la realtà della vita economica della nazione, realtà 167 complicata, mutevole, legata a quello che succede nel mondo (approvazioni) e soprattutto tale che quando induca a commettere degli errori, tali errori hanno conseguenze imprevedibili. (Applausi). L’esperienza americana va seguita con molta attenzione. Anche negli Stati Uniti l’intervento dello Stato nelle faccende dell’economia è diretto; qualche volta assume forme perentorie. Questi codici non sono che dei contratti collettivi, che il Presidente costringe gli uni e gli altri a subire. Prima di dare un giudizio su questo esperimento bisogna attendere. Vorrei soltanto anticipare la mia opinione, ed è questa: che le manovre monetarie non possono condurre ad un rialzo effettivo e duraturo dei prezzi. (Applausi). Se noi vogliamo illudere il genere umano, si può ricorrere a quella che una volta si chiamava la tosatura della moneta. Ma la opinione di tutti quelli che non ubbidiscono ad un empirismo di ordine economico e sodale è nettissima. L’inflazione è la via che conduce alla catastrofe. (Vivissimi applausi). Ma chi può pensare effettivamente che la moltiplicazione dei segni monetari aumenti la ricchezza di un popolo? Qualcuno ha già fatto il paragone: sarebbe lo stesso che riproducendo un milione di volte la stessa negativa dello stesso individuo si ritenesse che la popolazione è aumentata di milioni di uomini. (Approvazioni). Ma non ci sono dunque le esperienze? Dagli «assegnati» di Francia al marco del dopoguerra germanico? Quarta esperienza: la fascista. Se l’economia liberale è l’economia degli individui in stato di libertà più o meno assoluta, l’economia corporativa fascista è 1’economia degli individui, ma anche dei gruppi associati ed anche dello Stato. E quali sono i suoi caratteri? Quali sono i caratteri dell’economia corporativa? L’economia corporativa rispetta il principio della proprietà privata. La proprietà privata completa la personalità umana: è un diritto e se è un diritto è anche un dovere. Tanto che noi pensiamo che la proprietà deve essere intesa in funzione sociale; non quindi la proprietà passiva, ma la proprietà attiva; che non si limita a godere i frutti della ricchezza, ma li sviluppa, li aumenta, li moltiplica. L’economia corporativa rispetta l’iniziativa individuale. 168 Nella Carta del lavoro è detto espressamente che soltanto quando l’economia individuale è deficiente, inesistente o insufficiente, allora interviene lo Stato. Ne è evidente esempio che solo lo Stato, coi suoi mezzi potenti, può bonificare l’Agro Pontino. L’economia corporativa introduce l’ordine anche nell’economia. Se c’è un fenomeno che deve essere ordinato, che deve essere indirizzato a certi determinati fini, questo è precisamente il fenomeno economico, che interessa la totalità dei cittadini. Non solo l’economia industriale deve essere disciplinata ma anche l’economia agricola (nei momenti facili anche taluni agricoltori hanno deragliato), l’economia commerciale, la bancaria e anche l’artigianato. Come deve tradursi nei fatti questa disciplina? Attraverso l’autodisciplina delle categorie interessate. Solo in un secondo tempo, quando le categorie non abbiano trovato la via dell’accordo e dell’equilibrio, lo Stato potrà intervenire e ne avrà il sovrano diritto anche in questo campo, poiché lo Stato rappresenta l’altro termine del binomio: il consumatore. La massa anonima, la qua non essendo inquadrata nella sua qualità di consumatrice in apposite organizzazioni, deve essere tutelata dall’organo che rappresenta la collettività dei cittadini. […] Questa legge, onorevoli senatori, è entrata ormai nella coscienza del popolo italiano. Il popolo italiano lo ha dimostrato in questi giorni. Questo ammirevole popolo italiano, laborioso, infaticabile risparmiatore, ha dato a questa legge otto miliardi di voti, che valgono una lira l’uno. […] 169 6) F. Ferrara, La proprietà come “dovere sociale”, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp. 279-287 I. Il concetto tradizionale della proprietà, secondo l’economia liberale. — II. Le nuove idee sulle funzioni dello Stato e la restrizione del diritto di proprietà in estensione e contenuto. — III. Il Regime fascista e la trasformazione della proprietà da diritto in dovere. I. – Se noi consideriamo l’istituto della proprietà, quale era concepito tradizionalmente secondo i criteri della economia liberale individualistica, e quale si è venuto trasformando in regime fascista per un effetto sempre più penetrante della legislazione e dell’indirizzo del sistema corporativo, noi assistiamo ad una profonda trasformazione di esso, che arriva sino al limite estremo di convertire il diritto in un dovere. Il nostro Codice Civile infatti definisce la proprietà come il diritto di godere e di disporre della cosa nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalla legge dai regolamenti (art. 436), definizione ricopiata dal Codice Francese (art. 544) e che riproduce la tradizione romana del diritto comune che concepisce la proprietà come l’ius utendi fruendi aut perfecte disponendi. II diritto di proprietà si considera come un complesso di poteri di godimento e di dispo-sizione della cosa» come l’ius plenum in re corporali, come la sovranità dell’individuo sui beni, nella forma più piena ed assoluta. La proprietà è l’espressione della libertà, è il campo di attuazione dell’autonomia individuale, è l’oggetto del signoreggiamento della persona umana. Nella sfera del domi-nio, il proprietario è signore assoluto, è suae rei moderator et arbiter, e domina con la sua volontà sulla cosa, in tutte le sue multiformi manifestazioni. Gli scrittori che vogliono definire la proprietà mettono in luce i suoi caratteri di astrattezza, di universalità, di perpetuità, concependola come il diritto di generale signoria dell’uomo sui beni della natura esteriore. Il diritto di proprietà si manifesta nell’uso o nel non uso della cosa: poiché il bene è assoggettato all’esclusivo potere del titolare, e nessuno è legittimato, a penetrare in questa sfera chiusa, od a censurare il comportamento del proprietario, questi può agire o non 170 agire, può godere o non godere, perché anche il non uso è esercizio del diritto. Il proprietario di una terra esercita egualmente la sua proprietà, sia se col lavoro la trasforma in un campo fiorente e ricco di messi, sia se la lascia abbandonata ai rovi e alle ortiche. Questo concetto di dominio solitario, riceve bensì delle limitazioni od oneri dalla legge, nell’interesse pubblico e privato, ma queste restrizioni sono semplici attenuazioni di questa sovranità, ma non osano intaccare il potere del proprietario, considerandosi come attentati alla sua libertà. Il diritto del proprietario si estende su tutti i beni capaci di utilizzazione, diretta o indiretta, senza riguardo all’interesse che certe cose possono presentare per la generalità. Limitandoci alla proprietà fondiaria, vige il principio che la proprietà si estende al di sopra e al di sotto del suolo, e colpisce tutti i beni che nel fondo si trovano, se anche un limite naturale a questa estensione del diritto in altezza e profondità è dato dalla possibilità di utilizzazione. Ma la proprietà comprende le acque sotterranee dei fondi, le cave e miniere, gli oggetti artistici ed antichità che in essi si trovano sotterrati. Se da questa estensione del diritto di proprietà su questi beni, l’interesse pubblico risulta sacrificato, tutti devono rassegnarsi a questo male necessario, per non attentare alla libertà dell’individuo. Secondo questa concezione l’individuo era il centro del mondo, mentre tutte le altre istituzioni erano a servizio suo, umili cooperatrici al suo benessere. Lo Stato viveva bensì in una posizione di alta sovranità, ma i compiti ad esso assegnati e che esso si assegnava erano di un altro ordine, di carattere politico. Individuo e Stato marciavano ciascuno, per la propria strada, ognuno perseguendo fini propri, ma non v’erano incroci od interferenze. Si può dire che lo Stato ignorava gli individui, si estraniava dai loro interessi, si isolava in una sfera ideale, abbandonando gli individui a se stessi. Lo Stato aveva la sovranità, l’uomo, la proprietà: ognuno aveva un dominio proprio, e queste sfere erano indipendenti e intangibili. II. – Ma, in quest’ultimi tempi, specialmente sotto il regime fascista, le idee e concezioni sullo Stato, e sui suoi rapporti con la società, si sono venute essenzialmente trasformando, col venire a trionfare l’idea, che lo Stato non è altro che la stessa società giuridicamente organizzata, e 171 che non vi può essere antitesi o separazione tra interessi statuali ed interessi individuali, da poiché la forza e potenza dello Stato, sia politica che economica, non può dipendere che dalle forze ed interessi degli stessi consociati. Vi è un’intima compenetrazione fra Stato e individui, perché gli individui non sono altro che cellule di questa grande organizzazione politica che si chiama Stato. Questo rinnovamento di idee ha necessariamente reagito sul regime e sulla stessa concezione della proprietà. In primo luogo assistiamo ad una accentuazione dello interesse pubblico sull’interesse privato, per cui il concetto di proprietà si va restringendo nel suo ambito, in quanto al proprietario vengono successivamente sottratti dei beni, che prima si consideravano di suo esclusivo dominio, e che invece ora passano nel campo del diritto pubblico. Quelli che prima erano limiti alla proprietà privata, finiscono per assorbire la proprietà privata, convertendola in proprietà di diritto pubblico. Questo è avvenuto specialmente in materia di acque e di miniere. Il Codice Civile, ed anche le successive leggi speciali parlano bensì di acque private, ma in realtà le acque private si sono ridotte alle acque chiuse od a piccoli ruscelli di importanza trascurabile, ma tutte le acque, sorgenti, fluviali, lacuali sono diventate acque pubbliche, patrimonio demaniale dello Stato, oggetto di concessione ai privati. Lo stesso si dica per le miniere, con la legge 29 luglio 1927 n. 1443. La legislazione mineraria nelle varie parti d’Italia era diversa ma in molte regioni, come in Toscana, vigeva il sistema fondiario, per cui il dominus soli era anche proprietario del sottosuolo, e quindi delle miniere. Fu in principio per le esigenze belliche che si cominciò a colpire l’inerzia dei proprietari, per intensificare lo sfruttamento delle miniere, specialmente dei combustibili fossili, ma il movimento una volta cominciato, non si arrestò, e finì per far trionfare il principio industriale, per cui le miniere si considerano avulse dai fondi, separate dal diritto del proprietario, e come cose a sè, beni a disposizione dello Stato, e quindi capaci di concessione a privati per il loro sfruttamento industriale. Principio del lavoro, della capacità tecnica, della attrezzatura economica, che devono indirizzare l’utilizzazione delle nostre ricchezze minerarie, che sono ricchezze della Na-zione. Naturalmente, sia in materia di acque che di miniere, sono stati salvati con opportune disposizioni transitorie, certi 172 interessi o diritti acquisiti di singoli utenti, ma questa conservazione di privilegi è avvenuta, inquadrandola nel nuovo regime pubblicistico, e quindi cancellandone l’originaria marca privatistica, che è definitivamente scomparsa. Ma un’analoga restrizione del diritto di proprietà fondiaria si è avuta anche in materia di oggetti di antichità e di belle arti, per quanto il regime qui si presenti ancora un po’ arretrato. Nessun privato può intraprendere degli scavi nel proprio fondo, se non ne ottiene espressa licenza, e le ricerche avvengono sotto la sorveglianza di funzionari governativi. Egualmente, lo Stato può fare scavi sui fondi privati. È disposto però, che delle cose scoperte una parte viene rilasciata al proprietario, sui cui fondo sono state trovate. Questo reliquato di omaggio al dominio può essere discutibile. Se infatti le cose aventi interesse storico, artistico, archeologico non sono tecnicamente un tesoro, ma sono retaggi di una civiltà passata, si può prescindere dal diritto del proprietario del fondo, in cui gli oggetti sono materialmente ritrovati, riconoscendo che essi appartengono per intero al Demanio artistico e archeologico dello Stato. Secondo un altro lato, l’interesse pubblico si è imposto al privato, restringendo la sfera del dominio, sia in estensione che in durata. Così il diritto di proprietà sulle opere dell’ingegno e sulle invenzioni non è perpetuo, ma assicura solo per un certo tempo il monopolio di utilizzazione, all’autore od inventore, ma dopo l’opera cade in dominio pubblico, diventa patrimonio universale della civiltà. Inoltre, oggi non è più sostenibile la tesi della liceità degli atti di emulazione. Nella scuola e nella giurisprudenza si è lungamente discusso, se al proprietario fosse lecito di usare a del suo diritto, proprio, ed in odio altrui, solo per far dispetto al vicino. E, secondo la teoria più rigorosa, si riteneva che l’atto di emulazione non fosse antigiuridico, perché ognuno è sovrano nella cosa propria, e non deve rendere conto ad alcuno delle sue intenzioni e dei suoi atti. Ma questa tesi oggi ha un sapore arcaico, perché muove dal paradosso liberale della sovranità assoluta dell’individuo sulla cosa. Ma, se la proprietà è uno strumento d’ attività nell’interesse pubblico, deve essere adoperata solo ai fini sociali, e perciò l’uso a scopi frivoli e maliziosi deve ritenersi anomalo, e l’abuso del diritto, antigiuridico. 173 III. .- Ma la concezione fascista ha agito in modo più penetrante nel sistema della proprietà fondiaria, specialmente in materia di agricoltura. Un relitto classico della sovranità del dominio era l’ius abutendi, il quale poteva manifestarsi nel potere di assenteismo e di disinteressamento dei proprietari dei loro fondi. Quindi, terreni incolti o in condizioni di arretrata coltura o paludosi o deficienti di viabilità, e per conseguenza improduttivi, restavano abbandonati all’iniziativa o meglio alla mancanza di iniziativa dei proprietari. Questa condizione in gran parte del territorio nazionale era intollerabile, ed esiziale alla privata, nonché alla pubblica economia. Lo Stato è intervenuto, imponendo il bonificamento obbligatorio di intere regioni (cosi dell’Agro romano) o le trasformazioni fondiarie di pubblico interesse (R. D. 18 maggio 1924 n. 753 ed altre leggi successive fino a quelle recenti sulla bonifica integrale). In forza di queste disposizioni le varie parti del territorio da bonificare sono state classificate in comprensori ed i vari proprietari costituiti in consorzi forzosi per trasformazione e bonifica delle terre da loro possedute. Il sistema del consorzio è un’arma amministrativa, di cui oggi lo Stato si serve, per attuare fini di interesse generale. I proprietari inerti o nolenti sono riuniti forzatamente in un fascio, nel cui nome ed interesse si costituisce un’amministrazione che esegue i lavori di trasformazione e bonifica, e ne impone la spesa ai proprietari consorziati, sotto forma di contributi, che gravano come le imposte. La proprietà diventa suo malgrado attiva e si trasforma e si migliora nell’interesse generale. D’altra parte, l’azione degli agricoltori è eccitata, incoraggiata e coattivamente assoggettata a certe direttive, che sono imposte dai Governo nel pubblico interesse. Così, certi obblighi in ordine alla cerealicoltura, specialmente, coltivazione di frumento, per vincere la battaglia del grano, obbligatorietà di costruzioni di concimaie e di altre opere di interesse agricolo. Ma, una più potente propulsione viene attivata per forze interne con l’inquadramento corporativo. Oggi i proprietari non rimangono più isolati e indipendenti, ma sono organizzati in categorie pubblicistiche. Così la Confederazione Fascista degli Agricoltori comprende le federazioni dei proprietari affittuari conduttori, dei proprietari coltivatori diretti, quelli di beni affittati dei 174 dirigenti di aziende agricole, a cui si contrappone la Confederazione Fascista dei lavoratori dell’agricoltura. Ora, nel seno di queste organizzazioni sindacali si elaborano e s’impongono norme d’azione per i singoli appartenenti, per cui la condotta del proprietario è guidata, diretta, potenziata, dagli organi sindacali, e ciò nell’interesse generale. Dato questo ambiente spirituale, è impossibile più concepire la proprietà, come un dominio solitario e sovrano, ma la proprietà non è che un elemento economico in funzione del lavoro, ed un elemento economico che deve cooperare nello svolgimento dell’attività generale. La proprietà non è solo un diritto, ma un dovere, non è solo il mezzo per il proprietario per procurarsi delle utilità a suo vantaggio, ma è uno strumento di cooperazione sociale, perché serve a realizzare interessi che riguardano l’intera società. Il proprietario è investito di un mezzo economico, che egli deve saper adoperare, anzi che è obbligato ad usare nell’interesse pubblico. La proprietà è diventate un dovere sociale, una funzione sociale. Ecco qual è il nuovo orientamento della proprietà. Nella Carta del Lavoro al n. VII troviamo il principio fondamentale: «Lo Stato corporativo considera la iniziativa privata nel campo della produzione, come lo strumento più efficace e più utile, nell’interesse della Nazione». Ora, se sostituiamo alle parole «iniziativa privata» quelle di proprietà privata, abbiamo la formulazione classica del concetto nuovo di proprietà in regime fascista. «Lo Stato considera la proprietà privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione». E perciò l’organizzazione privata della produzione, e una funzione di interesse sociale. Data questa premessa, si applica pure il principio programmatico dell’art. IX della Carta del Lavoro: «L’intervento dello Stato nel regime della proprietà ha luogo, quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta». Ecco il programma della proprietà futura. Il proprietario deve sentire non solo il diritto, ma anche il dovere di proprietario, rendendo la sua proprietà utile all’interesse sociale. Finché la sua iniziativa corrisponde agli interessi generali, e si svolge in armonia di essi, la proprietà è tutelata e sarà tutelata dallo Stato, ma se il 175 proprietario dimentica questo dovere, o per inerzia o per incomprensione delle esigenze pubbliche, interviene lo Stato, come rappresentante degli interessi politici, controllando l’azione del proprietario, e dove questa rimanga inerte od esiziale, spogliando il proprietario della gestione della cosa sua, come di uno strumento che egli non ha saputo adoperare, ma che deve però essere servibile incondizionatamente agli interessi della Nazione. Certo la proprietà è un diritto degno del massimo rispetto, e che deve costituire il saldo fondamento d’ogni ben costituita società, perché la proprietà rappresenta il frutto del lavoro accumulato, se non dell’attuale investito, di coloro da cui egli l’ha ricevuta, ma il rispetto di questo bene non deve far dimenticare che la proprietà non è semplicemente un valore morto suscettibile di solo godimento, da parte di chi l’ha, ma una fonte sempre viva e perenne d’ulteriore produzione, e perciò deve perpetuare questa sua destinazione nell’interesse di tutti. 7) G. Chiarelli, Il fondamento pubblicistico della proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp.145159; I. Premesse. - II. I limiti di diritto pubblico della proprietà. – III. Proprietà e libertà; proprietà e sovranità. IV. Proprietà e ordinamento giuridico. - V. Proprietà e Stato. - VI. La proprietà nello Stato Corporativo. I. – Il fondamento pubblicistico dell’istituto della proprietà è testimoniato, da un punto di vista puramente formale, dalla presenza, nelle principali costituzioni moderne, di qualche articolo ad essa dedicato. È noto che i caratteri fondamentali della disciplina della proprietà nello Stato costituzionale liberale furono fissati nell’art. 17 dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’89 e nelle Dichiarazioni successive, dalle quali derivò l’art. 29 del nostro Statuto 75. Sarebbe certo semplicistico affermare che l’ubicazione di una norma fondamentale sulla proprietà nelle carte costituzionali sia dovuta 75 Il rapporto tra il diritto di proprietà e la Costituzione era esplicitamente dichiarato nella Costituzione di Weimar, art. 154: «Das Eigentum wird von der Verfassung waehrleistet». 176 esclusivamente alla importanza del diritto di proprietà nei confronti degli altri diritti individuali. Le ragioni invece per le quali la disciplina della proprietà è rilevante dal punto di vista costituzionale sono essenzialmente di ordine pubblicistico e si riassumono, da una parte, nel fatto che il diritto di proprietà, oltre a consistere in diritti soggettivi di natura patrimoniale, dà anche luogo a diritti soggettivi pubblici; dall’altra, nel fatto che il regime giuridico della proprietà è connesso allo stesso ordinamento dello Stato considerato nei suoi principii generali e nella sua organizzazione. […] Ma questi particolari profili sotto cui appare la tutela della proprietà nel campo del diritto pubblico non sono che un aspetto derivato della disciplina giuridica di essa. L’aspetto invece in cui immediatamente si manifesta la sua rilevanza pubblicistica sta nel collegamento, che per lo meno in epoca storica si ha costantemente, tra il regime della proprietà e l’ordinamento dello Stato. Si può infatti affermare che in corrispondenza del concetto in un dato tempo dominante della proprietà, della funzione sociale a cui essa adempie e della forma che giuridicamente assume, si ha un particolare atteggiamento della Sovranità dello Stato nel suo vario esplicarsi, mentre la stessa organizzazione di questo — l’organizzazione, cioè, delle persone fisiche preposte all’esercizio dei suoi poteri — risente, nella sua struttura fondamentale, di quella disciplina. Sarebbe facile dare una documentazione storica di questa constatazione; basta però che ciascuno rifletta su la realtà con-temporanea, e su gli eventi che l’hanno determinata, per riconoscere il collegamento che esiste fra le trasformazioni politiche avvenute in questa prima parte del secolo e le modifiche nei regime della proprietà (rivoluzione russa e proprietà collettiva, rivoluzione fascista e economia corporativa, ecc.). […] II. – Nella dommatica comune, il rapporto tra proprietà e sovranità vien preso m considerazione dal punto di vista dei limiti di diritto pubblico della proprietà. Se non che questa è solo un aspetto secondario del problema. Il punto 177 fondamentale, di solito trascurato» sta invece nel fatto che la sovranità è la fonte della proprietà, in quanto è la fonte dell’ordinamento giuridico positivo, e in quanto la proprietà non è altro che un istituto giuridico, un diritto, anzi, un rapporto giuridico. Comunemente si cade invece nell’errore di considerare là proprietà come qualche cosa di preesistente al diritto, allo stesso modo che, nella teoria del diritto pubblico, si è per lungo tempo attribuita allo Stato una realtà anteriore alla sua realtà giuridica, dando luogo a illogiche e contraddittorie sovrapposizioni di punti di vista differenti 76. L’errore di considerare la proprietà come preesistente al diritto appare storicamente nella teoria del diritto naturale, prima, (si sa che nel diritto romano non si ha una definizione della proprietà, la quale è, in quel diritto, quella che risulta dalle singole norme che si riferiscono al dominio su la cosa o alla pertinenza della medesima); nella moderna dommatica giuridica, poi. Che nel Giusnaturalismo si ammettesse un diritto naturale di proprietà, esistente indipendentemente dal positivo riconoscimento, come si ammettevano altri diritti inalienabili e imprescrittibili della personalità umana, corrispondeva al sistema generale della dottrina. Di tale sistema furono rilevate tutte le illogicità, come furono poste in luce tutte le influenze su una storia politica secolare, giacché, se da un punto di vista logico, i proclamati diritti della personalità non erano che nullità concettuali, da un punto di vista storico furono espressioni di condizioni sociali in atto e furono efficaci motivi di azione 77. 76 È noto come sia stato il KELSEN a precisare la formazione puramente giuridica dello Stato, depurandola da quegli elementi sociologici, che però la maggior parte dei giuristi, quanto meno inconsciamente, mantengono ancora nelle loro definizioni. Per una applicazione della dottrina del Kelsen alla proprietà, con particolare riferimento alla proprietà pubblica, cfr. Maunz, Hauptprobleme des oeffentlichen Sachenrechts, Berlino. 1933. 77 Si può ricordare che come diritto naturale trovasi proclamato il diritto di proprietà nelle famose Carte dei diritti delle Repubbliche Americane, Sez. I del Bill of Rights della Virginia (1776): That all men… have certain inherent rights…; namely, the enjoyment of life and liberty, with means of acquiring and possessing property…; Costituzione della Pensylvania (1776), I: «That all men… have certain natural, inherent and unalienable rights, amongst which are,… acquiring, possessing and protecting property »; Costituz. del Massachussetts (1780), art. 1; Costituz. del New Hampshire (1784), art. 2, ecc. 178 Si comprende meno invece come la dommatica moderna, dopo aver ripudiato il diritto naturale, cada in una nuova forma logica di giusnaturalismo, quando pretende dare, di un istituto giuridico, un concetto generale che valga al di fuori e al di sopra dei singoli ordinamenti positivi. E’ quanto avviene per la proprietà, giungendosi a una nozione di essa non solo vuota, ma estranea alla logica giuridica. A prescindere infatti dalla ovvia considerazione che è impossibile dare un concetto di proprietà che sia valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi, la definizione della proprietà cui non di meno la dommatica perviene è del tutto negativa: negativa nella determinazione del contenuto del diritto di proprietà, in quanto non si può dire tutto quello che il proprietario può fare della cosa e su la cosa; e negativa nella considerazione delle norme di legge che alla proprietà si riferiscono, in quanto si considerano queste norme come limitatrici, e quindi come negatrici della proprietà, mentre sono proprio esse che, determinando la sfera entro la quale il proprietario può agire, determinano e definiscono il diritto stesso di proprietà. Si potrebbe infatti affermare, in forma solo apparentemente paradossale, che la definizione della proprietà è nei cosiddetti limiti legali di essa. È invero la legge che pone il diritto di proprietà e ne determina i limiti in un unico momento logico, in quanto nessuna creazione di diritto può aversi che non sia contemporaneamente posizione di limiti. Può dunque dirsi che quelli che la dommatica considera come limiti legali della proprietà non sono effettivamente qualche cosa di estrinseco ad essa, ma sono la proprietà stessa, nella sua configurazione giuridica. […] 8) L. Mossa, Trasformazione dogmatica e positiva della proprietà privata, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp.251-275; […] La definizione del diritto soggettivo come «potere di volontà» o «interesse protetto», appare dovuta a generazione abituata a correre in borsa od ai proventi di fronte ai quali 179 gli obblighi o le responsabilità sono considerati poste passive del bilancio 78 . Antitesi che fu dunque nel capitalismo. Lo scopo del diritto soggettivo sembra una garanzia contro lo stato. Il diritto soggettivo, per queste nozioni, si allontana sempre più dai vincoli e legami sociali. In realtà è l’allontanamento del diritto dalla morale, soprattutto l’impressione nel diritto di una «morale economica» che si inalbera. Come il diritto soggettivo si mostra in antinomia con la vita sociale, così si mostra, per questa tendenza, contrario allo spirito del popolo, che non ha bisogno di affermare una proprietà, ma semplicemente il suo dominio, ciò che non è se non uno scambio di parole, non essendoci più geloso assertore del diritto che il popolo. Un puro ordine giuridico di doveri, anche se ideale sublime e cristiano, non può vivere. È, invece, il diritto che deve intrecciarsi col dovere; ed in questo intreccio c’è in verità un ritorno all’umanità ed allo stesso tempo un progresso del diritto. I difetti delle definizioni del diritto soggettivo sono nelle formulazioni astratte. La limitazione del «potere del proprietario» non fu perciò bene avvertita da una dottrina che studiava il diritto soggettivo come una figura geometrica, invece nel pulsare della vita popolare. L’impressione di limiti e Di ordini sociali nel diritto di proprietà non elimina la questione di sapere se l’interesse sociale deve dettare limitazioni, non espresse in leggi od ordini positivi. Si tratta di vedere se la nozione dogmatica della proprietà si presta, in linea generale, a ricevere questa modificazione, ovvero se è indispensabile congegnare, a seconda degli istituti una «proprietà socialmente vincolata», separata cioè dalla proprietà generale. Questione di metodo legislativo e dogmatico che si è risolta, poi, con il trionfo della trasformazione del dogma generale, per qualunque tipo di proprietà, non solamente per la «proprietà contadina» (Erbhof). Una trasformazione del diritto soggettivo sul tipo di una «situazione», «posizione sociale», «autorizzazione», non ha trovato rispondenza neppure nella dogmatica del nuovo regime. Le forti nozioni di «comunità di diritto» e di «comunità popolare» non hanno bisogno, per trionfare, di demolire il diritto soggettivo, per sostituirlo con nozioni 78 ECKARDT: Deusche Rechtswissenschaft, collezione. 180 diverse nell’espressione, non diverse nella sostanza. Gli attacchi contro l’astrattismo individualista del diritto soggettivo non ne colpiscono il midollo, ma unicamente la corteccia sociale del tempo nel quale esso fu venerato. Il diritto soggettivo, per se stesso, si spiega e si lega ad un tessuto nel quale si afferma effettivamente una morale ed una solidarietà umana. Si propongono espressioni nuove come «diritto di appartenenza alla società od al popolo», che non segnano un punto in più per la marcia dell’interesse nazionale del diritto privato. La nomenclatura non ha significato ed appesantisce, invece che rendere agevole, il movimento di trasformazione voluto. Non invano si è ricordato che la grande dogmatica, considerando il senso sociale del popolo, non ha mai affermato l’esistenza di diritti, anche di diritti assoluti, senza esprimere l’esistenza di obblighi in rapporto a quei diritti. La libertà si armonizza, per essa, con le limitazioni e gli impulsi che vengono dalla coscienza comune. Il carattere sociale del moderno diritto privato, del resto, è stato più volte affermato, già prima del nostro tempo, ed ha inciso nella dommatica italiana 79 , non meno che in quella degli altri popoli, idee fondamentali, che oggi salgono alle ardue vette della realizzazione. Le affermazioni della dogmatica, per quanto autorevoli e risonanti, non hanno avuto seguito nelle generazioni giuridiche che ci hanno preceduto. La nuova dogmatica ha da operare in attualità ed in applicazione; i principi eccezionalmente affermati devono diventare principi comuni e generali. Che nella storia dogmatica questi principi abbiano precursori e motivi prossimi o lontani 80 , è certo, ma questo non altera la necessità di affermazioni le quali contribuiscono al radicarsi di una dogmatica nella quale diritto e dovere si uniscono strettamente, come sempre devono essere 81. Si uniscono, perché la società e lo Stato abbiano una vita consona ai fini immortali, perché la solidarietà nel popolo si affermi di più, in ogni strato, da una categoria ad altra. L’esempio della nuova dogmatica del diritto di proprietà lo abbiamo in atto in quella dottrina tedesca che parlava di diritti assoluti del proprietario, al tempo della repubblica di Weimar, ed oggi in regime nazional-socialista, insegna nei CIMBALl: Fase sociale del diritto civile. HIS: Zeitschrift. f. Schweiz. Recht, 55. 81 CICU: Dovere e Diritto, discorso inaugurale, 79 80 Bologna. 181 suoi trattati e nei suoi compendi che il principio del dovere è il fondamento dell’ordine giuridico della proprietà 82. Si dichiara, per quanto non vi siano leggi espresse, che esistono delicati doveri verso la comunità, che i doveri sono adempimento del compito affidato dalla società al titolare della proprietà, che più importante è il bene che si ha in potere, più importante è il dovere. I beni indifferenti alla comunità non sono soggetti a questi doveri. Sono i beni utili, preziosi, e rari, indispensabili alla comunità, nel più largo senso della espressione, che vincolano il proprietario al loro esercizio. I beni devono conservarsi per il popolo (arte) o impiegarsi nella maniera più utile (campo, fabbrica, miniera). Si afferma, però, che gli obblighi non danno vita che a pretese od azioni della generalità e si negano pretese ed azioni del singolo. Ma la comunità come può esercitare le sue azioni, se non per il tramite dello Stato, in un paese nel quale non è organizzata in corporazioni? Ma a quali organi si affida il riconoscimento dei diritti della comunità, non solo, ma altresì l’adempimento delle sanzioni? La dogmatica ha fatto grandi passi nella curva ideale disegnata, ma forma ancora una premessa di sentimenti e di giudizi che deve venire alla costruzione dell’ordine giuridico auspicato. Al lume della nuova dogmatica si consideri il Progetto del Codice Civile, secondo libro. Esso premette (R., I) di ispirarsi alla dottrina fascista, riassunta nelle dichiarazioni della Carta del Lavoro, per cui l’iniziativa privata è lo strumento efficace dell’interesse della nazione, il lavoro dovere sociale. Il concetto della funzione sociale, insinuato nella definizione, appare al Progetto quale accentuato ardimento. In realtà, il Progetto ha inciso nella nozione della proprietà le limitazioni che vengono dall’esterno, ed ha consacrato, in più di una disposizione, principi ed evoluzioni della proprietà che ricadono su di essa per la collisione dei diritti e dell’interesse sociale. È altrettanto certo, però, che il dogma della proprietà privata non è quello ispirato dalle idee sociali del Regime Fascista e dalla Carta del Lavoro. Prima di tutto, la funzione sociale della proprietà appare una pura dichiarazione programmatica, per la quale si ripeterebbe domani quella ridda di interpretazioni stupefacenti e paralizzanti che ha 82 LANGE: Bodén, 1938. 182 accompagnato per un decennio la Carta del Lavoro, la quale pure, col principio della responsabilità dell’imprenditore di fronte allo Stato, e del «dovere sociale» aveva rivoluzionato il nostro mondo giuridico. A seguire il Progetto, la clausola generale della «funzione sociale » che ha i suoi addentellati nella costituzione di Weimar, non avrebbe un forte autonomo valore. Essa costituirebbe un principio regolatore che sarebbe, a sua volta, incarnato e persino esaurito nel regolamento positivo della proprietà, così come esso è posto nel Progetto. La clausola generale, la moderazione dell’interesse generale non si avvererebbe, in realtà, sul diritto di proprietà, generalmente ed astrattamente considerato, in modo da imbevere qualunque diritto di proprietà nel seno dell’ordine giuridico. Essa formerebbe semplicemente un aspetto della proprietà, così come è già effettivamente e positivamente regolata. Da questo punto di vista, il diritto di proprietà diverrebbe «socialmente freddo» alla ennesima potenza, ed il progresso del diritto civile sarebbe assai povera cosa in confronto ad altri diritti civili, che devono ad una rivoluzione nazionale ed attuale la loro propulsione; è invece il diritto civile francese che il Progetto considera più da vicino di altri diritti in trasformazione. La Relazione (p. 17) non dissimula, d’altra parte, l’attaccamento alla formula del Codice attuale, figlio del Code Civil, e intonato tutto alle sue concezioni individualistiche e di profondo egoismo sociale, in assoluto contrasto con lo spirito fascista. Il progetto, (A. 18), si occupa essenzialmente di giustificare il «modo esclusivo» di disporre della cosa, tendendo ancora un lato della proprietà della passata dogmatica, che ha ceduto il passo, si è visto, alle esigenze dettate dai nuovi ideali. Invece che l’esclusività del diritto, la quale minaccia di portare in onore le dizioni del diritto assoluto e sovrano, quasi il diritto di proprietà fosse un diritto superiore e schiacciante sugli altri, specialmente sugli altri diritti di proprietà, con i quali vive in aggregato sociale, si deve mettere in luce «la elasticità» del diritto di proprietà, alla pari con ogni altro diritto che trova sorgente e alveo nella convivenza sociale. L’ «interesse sociale» si attacca assai malamente al «diritto esclusivo», perché sembra stridere in contrasto con esso, ciò che non giova, sia pure, alla esclusività del diritto, ma assai meno giova alla «funzione 183 sociale» della proprietà, la quale può meglio affermarsi senza ribadire nella stessa definizione quella esclusività del diritto che non forma più, ormai, l’arca santa del diritto di proprietà. La nozione puramente negativa e perciò rigidamente conservativa del dogma liberale ed individualista della proprietà, è apertissima nella Relazione al Progetto. Essa non accenna neppure lontanamente ad un senso sociale all’interno della proprietà, a doveri o responsabilità del proprietario o titolare del diritto soggettivo in confronto allo Stato ed alla Società. La concezione è ancora, per i redattori del Progetto, quella di un diritto che deve sottostare alle «limitazioni che derivano dalla convivenza sociale». Si mantiene in efficienza una definizione della proprietà, così come è respinta dalla nuova dogmatica. L’interesse sociale sta al di fuori della proprietà e non si presenta, come nelle concezioni sorpassate, se non sotto la forma di limitazioni positive, di estrinsecazioni attuali dell’ordine giuridico, in concrete norme di diritto, od in atti del potere dello Stato che, in ogni tempo, il proprietario qual cittadino ha dovuto sopportare, in maniera più o meno profonda, al prezzo o meno di un riscatto od espropriazione. La Relazione (17-18) identifica, infatti, con la funzione sociale, le restrizioni all’esercizio del diritto, da una parte, le limitazioni imposte dalle leggi e regolamenti, dall’altra. […] 184 9) S. Panunzio, Prime osservazioni giuridiche sul concetto di proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp. 111-123; […] III. - Si può dire però che già fin da ora sulla base dei dati dell’esperienza in nostro possesso, nulla si possa concludere sulla determinazione del concetto di proprietà nel Regime fascista? Innanzi tutto, ritengo che si dica poco o nulla quando ci si limita a dire che la proprietà è una «funzione sociale». Senza dire — l’osservazione se non mi sbaglio è del Pareto 83 – che dire che la proprietà è una funzione sociale è mettere in essere un’ antitesi logica. Se funzione è uguale dovere, dire che il diritto di proprietà non è che il dovere di proprietà, è denunciare una proposizione contraddittoria, che merita per lo meno di essere chiarita. Già uno dei nostri più grandi giuristi e romanisti, il Perozzi 84, seguito dal Petrone 85 , trasformando con profonda intuizione ed analisi del concetto del diritto reale, la dogmatica del diritto di proprietà, diceva che questo non è un diritto nudo del suo titolare sulla cosa, ma è, anch’esso, un diritto di credito erga omnes, non verso un determinato debitore, verso tutti i membri del consorzio sociale, tutti egualmente impediti dalla legge di impedire l’esercizio del diritto sulla cosa di quel titolare. La natura «relazionale», ossia sociale, non reale, fisica ed unilaterale o meglio irrelativa del diritto di proprietà è qui ben evidente. Si può fare un passo innanzi e dire che la proprietà invece che un credito è un obbligo del suo titolare verso tutti. Ma, la verità è, come nota il De Ruggiero 86 , che, sulla proprietà, e nelle fonti romane, e nel Codice civile vigente, e nelle più autorevoli Vedi V. Pareto, Trasformazione della Democrazia, Milano, Corbaccio, 1921. 84 Vedi S. Perozzi, Il possesso in diritto romano (Teoria sociale del possesso), Parma, 1901 pag. 24 ss. 85 Vedi I. Petrone, II diritto nel mondo dello spirito, Milano, 1910, pag. 78 e ss. 86 Vedi il De Ruggiero, Istituzioni di diritto privato, ultima edizione e riduzione a cura del Maroi, Messina - Milano, Editrice Principato, 1937, pag. 367 e ss. 83 185 definizioni scientifiche, più che definizioni in senso logico, non abbiamo che «descrizioni» degli elementi più caratteristici e salienti di essa. Ciò anche se prendiamo le definizioni più rinomate, quali quelle del Filomusi 87 e dello Scialoja 88. Di queste due, la prima fa perno sul concetto di «potestà », ossia di «dominio» sulla cosa; la seconda, molto più esattamente, sul concetto di «appartenenza» della cosa al suo titolare. Comunemente, si scambiano fra di loro, credendole sinonimi, le parole «proprietà» (proprietas» e «dominio» (dominium). Ma sono cose diverse. La proprietà non è che l’appartenenza ossia l’assoggettamento pieno o totalitario della cosa alla persona, e per cosa deve intendersi qualunque oggetto assimilato, appunto per virtù, come insegnò il Rosmini 89 , del principio, della categoria di proprietà, o meglio del «giudizio di appropriazione», di riferimento, di imputazione, o di appartenenza dell’oggetto al soggetto, assimilato allo spirito, ossia al soggetto, non solo le cose del mondo esterno o fisico, le cosidette cose corporali, ma anche il proprio corpo, ma anche i propri pensieri, ma anche le prestazioni altrui. Il dominio invece è la potestà dell’uomo sulla cosa. Se essenziale e costitutivo della proprietà è il concetto della cosa alla persona il primo compito logico è quello di «sbloccare» il concetto descrittivo della proprietà che mette insieme la facoltà di godimento e di disposizione della cosa. L’appartenenza è il prius, il costitutivum della proprietà; l’uso e la disposizione della «La proprietà è la signoria generale ed indipendente della persona sulla cosa pel fini dal diritto (legge) riconosciuti, ed entro i limiti dal diritto stabiliti», Diritti reali, pag. 131. 88 «Un rapporto di diritto privato, per il quale una cosa, come pertinenza di una persona, è completamente soggetta alla volontà di questa in tutto ciò che sia vietato dal diritto pubblico o dalla concorrenza dell’altrui diritto», Teoria della proprietà nel diritto romano, Roma, 1928, pag. 134. 89 Vedi sulla luminosa concezione della proprietà, sulla sua essenza o come «schema» o come principio di «derivazione» dei diritti, tutti riducibili e risolvibili nel diritto di proprietà, ANTONIO ROSMINI, Filosofia del diritto. Vedi inoltre l’illustrazione del concetto del Rosmini in IGINO PETRONE, Il diritto nel mondo dello spirito, cit. cap. IV, II principio di determinazione del diritto e l’aspetto personale dell’autocoscienza. La proprietà è il tramite, ossia lo «schema», in termini kantiani, per cui l’oggetto è assimilato dal soggetto e si fa soggetto anch’esso. Sull’unità tra il concetto di persona o di attività e quello di proprietà o di patrimonio, in conformità alla concezione del Rosmini ed in parte a quella dello Schopenhauer, vedi il mio Il diritto e l’autorità; e Il Socialismo, la Filosofia del diritto e lo Stato, cit. 87 186 cosa rispetto ai quali l’appartenenza funziona come presupposto non sono che il posterius, il consecutivum della proprietà. Se la cosa non è mia, come posso usare e disporre di essa? Non credo poi che si debba differenziare ad oltranza il concetto di uso e di godimento, da quello di disposizione. L’uso è una disposizione indebolita; come la disposizione è un uso rafforzato. La disposizione della cosa può andare, portando le cose agli estremi fino alla «distruzione» della cosa stessa, e fino al «non uso» della cosa senza utile proprio, ma solo con il danno altrui, secondo il concetto degli atti emulativi, che il nuovo progetto al Codice vieta e reprime. Ma, trattandosi per esempio di beni di consumo, l’inchiostro di cui mi servo per scrivere, un pezzo di pane per sfamarmi, l’uso di questi due beni non è anche disposizione di essi? Non si deve ritenere pertanto che si dica tutto quando si afferma che nel nuovo sistema della proprietà rimane il diritto di godimento, sempre secondo un fine sociale e secondo le leggi e i regolamenti, e deve cadere invece il diritto di disposizione. In modo assoluto, ciò non è e non può essere. Il diritto di disposizione, conseguente dalla proprietà, ma non costitutivo della proprietà, e per esempio massimamente rilevante nel testamento, ed è noto, che per certi gruppi di beni, il diritto di disporre per testamento è ammesso anche nei codici comunistici, sia in quelli teorici ed utopistici, sia in quelli reali, come per esempio in quello sovietico. Presupposto invece del godimento e della disposizione è la proprietà, cioè l’ appartenenza della cosa al soggetto. Se l’inchiostro non è mio, non appartiene a me, io non posso ne usarne ne disporne. Perché io usi o disponga di un determinato bene, prima di tutto debbo avere questo bene, esso mi deve appartenere. Quando io ho il bene, posso usarne, non usarne e disporne. Ma se io non l’ho, io non posso fare nulla, salvo che in modo limitato e parziale, non pieno e totalitario, io non mi serva della cosa altrui. Il dominio è una conseguenza possibile della proprietà, ma non è la proprietà. Prima si è proprietari 90, Volgarmente per proprietà s’intende solo quella immobiliare anzi quella fondiaria, e per proprietari, in certi paesi specie nel Mezzogiorno d’Italia, s’intendono solo i proprietari di campagna, nemmeno quelli di case e fondi urbani. Anzi, negli stessi paesi, quando si dice senz’altro «i proprietari» non ci si riferisce che ai proprietari di fondi rustici, 90 187 poi domini. Ed e logica ancora la «trasmissibilità», nei limiti della legge, dell’ appartenenza della cosa, ossia della proprietà. Premesso questo sbloccamento del concetto descrittivo della proprietà, e la riduzione logica di questa al concetto di appartenenza, secondo l’idea dello Scialoja fatta propria dal De Ruggiero, è possibile capire molti atteggiamenti pratici ed istituzionali della proprietà, e delle svariate sue speci, non dimenticando e non trascurando soprattutto la distinzione dei beni in: a) beni di consumo; b) beni di uso; e) beni di lavoro; d) beni di produzione. Non cade dubbio sulla appartenibilità dei beni di consumo di uso e di lavoro con le conseguenze, secondo la legge, del godimento e della disponibilità. Qui il concetto di funzione sociale non agisce, anche nel sistema fascista, come un concetto nuovo. Il problema sorge invece per i beni di produzione, la cui appartenibilità ai soggetti privati può dipendere, nel Regime fascista, secondo gli atteggiamenti pratici che si vanno sempre più delineando, dal giudizio politico sovrano dello Stato e dalla forza della legge. Basti pensare che la legge fascistissima della Bonifica integrale arriva fino alla «revoca» della proprietà ai proprietari neghittosi ed inattivi, non in regola con la Dichiarazione VII della Carta del Lavoro. Non sembra assurdo ed improbabile allora che per alcuni beni di Produzione la figura del proprietario si trasformi in quella di un «concessionario», anche se – caratteristico in agricoltura il ritorno aggiornato all’enfiteusi e ai lunghi affitti – le concessioni sono suscettibili di trasmissione ereditaria per la continuità e la progressività della produzione nazionale. Ed il concessionario altro non riproduce che la figura, ben nota al Diritto amministrativo dell’esercente privato di un pubblico servizio e di una pubblica funzione. Dal che segue ad ogni modo, che la trasformazione non cade sull’elemento estrinseco dello scopo o della funzione sociale, ma proprio sull’elemento intrinseco dell’appartenenza, e che la rivoluzione giuridica in questa escludendo anche i proprietari di case, di capitali, di titoli, di rendite ecc. Filosoficamente, le cose, come si dice nel testo, stanno in modo del tutto diverso. Ogni uomo è proprietario almeno…. del proprio corpo e di tutto ciò che produce col suo lavoro. Non bisogna però confondere l’elemento intrinseco e costitutivo della proprietà, l’appartenenza, né con quello dello scopo, né con quello della giustificazione della proprietà stessa, che è data, specie nel Regime fascista, dal lavoro. Sono problemi diversi. 188 materia non possa consistere soltanto nel divieto da parte della legge del non uso e dell’uso immorale e vessatorio della cosa. 10) F. Vassalli, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp. 99-108; I. Premessa delta definizione – II. La determinazione dei beni suscettivi di appropriazione individuale – III. La disciplina legate della appropriazione individuale – IV. Diversi statuti della proprietà – V. Regimi dei beni ai quali si riconnette più direttamente e immediatamente l’interesse pubblico. Beni immobili – VI. Beni destinati a servizi di pubblica utilità o ad industrie di più generale interesse – VII. Beni d’uso prevalentemente individuale. Artt. 499 e 500 e. p. Politica dei consumi – VIII. Elementi per una definizione legislativa della proprietà – IX. La risoluzione del Comitato di giuristi italotedesco, in materia. 1. – La nuova codificazione del diritto civile ch’è in preparazione in Italia rende necessario di rivedere la definizione legale del diritto di proprietà, per adeguarla allo stato presente della legislazione e agli orientamenti politici e dottrinali de-terminatisi in materia. Trattasi di tradurre in una formula legale il risultato di procedimenti di politica economica e di concezioni etiche, che non sembrano poter essenzialmente divergere in un medesimo ciclo storico com’è confermato dalla generalità del moto con cui si è andato trasformando il diritto di proprietà nei paesi che hanno questo diritto alla base dei loro ordinamenti giuridici. Una definizione legale del diritto di proprietà, mentre dovrebbe rispecchiare le trasformazioni avvenute rispetto alle concezioni e agli ordinamenti che hanno ispirato la definizione dei vecchi codici, dovrebbe costituire il solido fondamento del diritto che, conservandosi sotto il nome di proprietà, ne assicurerebbe la funzione necessaria, la quale si ricollega non solo ai fondamenti della economia pubblica e del diritto delle obbligazioni, ma anche al fondamento e allo sviluppo dell’istituto famigliare e al connesso istituto della eredità. 189 Per potere formulare una definizione legale del diritto di proprietà (senza voler pregiudicare la questione circa l’opportunità stessa di comprendere tale definizione nei codice) devono porsi le seguenti premesse: L’ordinamento giuridico della proprietà risulta di due momenti: a) la determinazione degli oggetti suscettivi di appropriazione individuale, b) la determinazione della disciplina legale di codesta appropriazione individuale. II. – Per quanto concerne il punto a), la relativa determinazione non è da comprendere necessariamente in un codice di diritto privato. 1 vecchi codici, in generale, indicavano una serie di beni di spettanza esclusiva dello Stato o di altri enti pubblici, sottratti alla disciplina del diritto privato (beni di demanio pubblico, beni di uso pubblico). Il catalogo dei beni di spettanza esclusiva dello Stato si è accresciuto con leggi più recenti (acque pubbliche, miniere, alcune foreste). Per i beni costituenti mezzi di produzione resta, come regola, la proprietà individuale; con una serie di limitazioni» tuttavia le quali attengono al punto b). III. – La disciplina legale della appropriazione individuale dei beni (punto b) dà luogo a diversi istituti o rapporti giuridici: proprietà, possesso, enfiteusi, superficie, anticresi, usufrutto, servitù prediali, oltre ai rapporti nascenti da talune concessioni amministrative. La proprietà è la forma di appropriazione che comporta maggior numero di facoltà, poteri più intensi, protezione più piena. Donde sorge, anzitutto, la esigenza tecnicogiuridica di descrivere un tale diritto con caratteri che valgano a differenziarlo da altre forme di appropriazione individuale dei beni. Da avvertire, in proposito, che, essendo modificati od obliterati alcuni dei caratteri tradizionali del diritto di proprietà, avviene che la nozione di proprietà si estenda con minor difficoltà a rapporti di diversa struttura, quali il diritto d’autore e il diritto di privativa industriale. IV. – I poteri attribuiti al proprietario, e in generale la disciplina giuridica della proprietà, sono diversi a seconda dei beni che formano oggetto del diritto. Sembra 190 corrispondente allo stato attuale delle leggi, le quali hanno disciplinato in vario modo i poteri del proprietario, riconoscere che non vi è una sola proprietà, che vi sono piuttosto delle proprietà, in quanto l’interesse pubblico è che l’appropriazione dei beni comporti statuti diversi in armonia con gli scopi perseguiti, i quali variano assai (Josserand, Schlegelberger). Diversi statuti della proprietà si hanno, difatti, in corrispondenza dei diversi beni (rispettivamente, della diversa destinazione di una a medesima cosa). V. – Stando sempre alla contemplazione del diritto costituito o delle tendenze legislative più sicuramente riconoscibili, sembra che dal punto di vista della disciplina giuridica siano da distinguere, anzitutto, beni ai quali si riconnette più direttamente e immediatamente l’interesse pubblico e beni rispetto all’impiego dei quali l’interesse pubblico è solo mediato e indiretto. È da osservare che simile distinzione ha dominato sempre nel regime giuridico dei beni, nei diversi tempi e nei diversi luoghi (Bonfante). Nel codice civile la distinzione segue in base alla natura immobiliare o mobiliare dei beni. Oggi questo criterio di distinzione non è più decisivo. Rimane che la proprietà della terra, sia la proprietà rustica sia l’urbana, richiama gran somma di norme particolari, per l’innegabile interesse pubblico che vi è riconnesso. Una serie di provvedimenti per la produzione agraria (fra l’altro, determinazione delle colture e anche del quantitativo di date colture), per il patrimonio zootecnico, per gli strumenti di lavoro agricolo, le leggi sulla bonifica sanitaria e le leggi sulla bonifica integrale, le leggi sulla trasformazione fondiaria, le leggi sulle foreste e sui bacini montani, provvedimenti contingenti, ma sempre più coordinati per il regime degli affitti, non sono che taluni cospicui esempi di un regime giuridico della proprietà in cui sono variamente modificati, corretti o eliminati i poteri del proprietario: e più particolarmente il potere per cui la volontà del titolare è decisiva per la cosa nella totalità delle sue relazioni (Windscheid). Parimenti la proprietà immobiliare è toccata per ciò che riguarda l’ambito spaziale, a cui estendosi i poteri del proprietario: la forza di attrazione che, col diritto di accessione, era caratteristica della proprietà del suolo, è 191 ridotta da una serie di leggi le quali pongono come regola una separata considerazione della superficie e del sottosuolo (T.U. 30 dic. 1923 n. 3256 sulle bonifiche, art. 8; d.l. 30 dic. 1923 n. 3267 sui boschi e terreni montani, art. 113 cpv. 2 e 3; reg. 30 genn. 1913, n. 363 sulle antichità e belle arti, art. 85; legge mineraria 29 luglio 1927, n. 1443; progetto di legge sulle espropriazioni, art. 115). È toccata altresì dalle norme che limitano la libertà di procedere alla divisione dei fondi (d.l. 7 genn. 1917 n. 35 e d.l. 24 genn. 1918, n. 284 sui combustibili fossili; d.l. 30 nov. 1919, n. 2318 sulle case economiche e popolari; legge 16 giugno 1927 n. 1766 sugli usi civici, art. 21, ult. cpv.). E orientamenti giurisprudenziali recenti allargano i 1imiti della liceità della immissio nei rapporti di vicinato, ricorrendo al criterio della necessità e della solidarietà sociale e negando il risarcimento quando la immissione derivi da necessità assoluta determinata da condizioni imprescindibili di coesistenza sociale. VI. – Ma limiti alla sfera dei poteri del proprietario intervengono oggi non meno energicamente per ciò che riguarda altri beni. Così riguardo ai beni i quali sono destinati ad attuare servizi di pubblica utilità (trasporti, banche, trasmissioni tele-foniche, illuminazioni) ovvero ad industrie che si presenta nodi più generale interesse a una dato momento (tessili, manifatturiere, editoriali, siderurgiche, meccaniche, alimentari, chimiche, agricole, edilizie). In generale codesti servizi e codeste industrie sono in mano di concentrazioni capitalistiche. E qui fenomeno ha un duplice aspetto: da un lato, per affetto della polverizzazione stessa del capitale azionario e della odierna organizzazione delle concentrazioni capitalistiche, si verifica la perdita, nei sottoscrittori del capitale, dei poteri di governo del medesimo (e questo è un aspetto generale del1’ anonimato, non limitato alle società commerciali esercenti le industrie ora menzionate, e che presenta anche intima rispondenza con quanto avviene pei capitali investiti in fondi pubblici); d’altro lato, si verifica, nell’uso e nella disposizione dei beni da parte delle società proprietarie, un intervento statuale sotto forma di provvidenze legislative e di ingerenze amministrative (le direttive generali nei punti VII e XI della Carta del lavoro; una significativa e larga 192 applicazione nella legge12 gennaio 1933, n. 141, importante delega al governo dei poteri per sottoporre ad autorizzazione i nuovi impianti industriali; rr. Decreti 15 maggio 1933, n. 141 e 12 aprile 1937, n. 841). Così riguardo a beni che realizzano esigenze culturali e di prestigio del Paese: quali gli oggetti di antichità e belle arti e in genere d’interesse storico (legge 20 giugno 1909 n. 364,1. 23 giugno 1912, n. 698,1. 11 giugno 1922 n. 778, artt. 733 e 734 codice penale: dove si hanno limitazioni o addirittura soppressioni tanto della facoltà di usare quanto della facoltà di disporre delle cose proprie). L’intervento dei pubblici poteri nella determinazione dei prezzi (esempi nei ripetuti provvedimenti relativi agli affitti di case d’abitazione e di negozi; nel r.d.l. 5 ottobre 1936 n. 1746 contenente disposizioni intese a combattere perturbamenti del mercato nazionale e ingiustificati inasprimenti del costo della vita) importa tutto un altro ordine di limiti alla proprietà di determinate cose («merci di qualsiasi natura», art. I del decreto ultimamente citato, forniture di acqua, energia elettrica, gas, servizi pubblici di trasporto di persone e cose, art. 4 stesso decreto, prezzi di alberghi, pensioni e locande, art. 5, stesso decreto). E così il potere di non fare trova limiti nella necessità di non lasciare terre incolte, la quale si è fatta valere nei provvedimenti contro proprietari neghittosi, adottati più di una volta dai prefetti in applicazione della generale podestà prevista dall’art. 19 cpv. 4° della legge comunale e provinciale, t. u. 13 marzo 1934, n. 383. La stessa espropriazione per pubblica utilità non si pone più come istituto eccezionale, contrastante con la inviolabilità del diritto di proprietà, ma riceve applicazioni sempre più larghe così rispetto agli immobili, come rispetto a beni mobili. VII. – Il diritto dominicale nella sua antica ampiezza e pienezza non può ritrovarsi dunque che rispetto a beni d’uso prevalentemente individuale, il cui novero peraltro si restringe sempre più per la crescente considerazione dei fini pubblici che alla conservazione o al buon uso dei beni stessi possono riconnettersi. Significative in questo senso sono le disposizioni degli artt. 499 e 500 cod. penale. Devono anche essere ricordate, a questo punto, la tendenza politica che cerca di dirigere i consumi verso 193 determinati prodotti e l’altra, ancora, che si traduce nelle norme e nelle provvidenze contro lo spreco e per la utilizzazione dei rifiuti (ENIOS). VIII. – Una definizione legislativa della proprietà non può che menzionare il potere generale e indipendente della persona sulle cose nei limiti stabiliti dalle leggi. Codesto potere dovrà distinguersi dai poteri particolari e dipendenti di altri soggetti sulla cosa medesima 91 , e sarà nel suo contenuto, nella sua durata, nella sua difesa diverso secondo le diverse cose, in conformità delle leggi che concernono le cose stesse. Superflua la menzione, nella definizione, della «funzione sociale» della proprietà. Una funzione sociale o, meglio, l’attuazione di un pubblico interesse, è propria di ogni potere riconosciuto dal diritto obiettivo; e quindi, sicuramente, del diritto di proprietà. Ma soltanto la legge può determinare in concreto l’attuazione della cosiddetta funzione sociale: il che fa appunto con la disciplina positiva di ciascun rapporto. Aggiungere alla disciplina legale l’invocazione della «funzione sociale» sarebbe forse togliere sicurezza e stabilità ad un rapporto giuridico d’importanza fondamentale. IX. – La commissione dei giuristi italiani e tedeschi, nella sua prima riunione dì Roma (23 giugno 1938), adottava – com’è noto – sul tema che forma oggetto delle presenti osservazioni una risoluzione in questi termini: «Il proprietario può usare pienamente della cosa e disporne 91 Il «diritto di godere e di disporre della cosa in modo esclusivo», assunto nella definizione dei progetto della Commissione Reale, non sembra criterio rispondente per più d’una ragione: a) le facoltà di potere e di disporre, com’è vecchia osservazione, non costituiscono determinazione necessaria e sufficiente; b) l’esclusività, in un certo senso, si trova in tutti i diritti reali e, riferita alla facoltà di godimento, è anche dell’usufrutto e dell’enfiteusi; c) la facoltà di godimento esclusivo, in altro senso, manca nel proprietario, quando sulla cosa siano costituiti altri diritti reali, e manca nella comproprietà, la quale tuttavia, nel progetto, art. 312, è compresa nella nozione di proprietà. Altri preferisce una forma del tutto negativa, che rilevi il diritto di escludere ogni ingerenza d’altri sulla cosa, salvi i limiti derivanti da diritti altrui: è uno dei due criteri adottati dal § 903 del c. civ. germanico. Ma, forse, è meglio far emergere la nozione della disciplina positiva della proprietà, distinta secondo i diversi oggetti, e dal confronto con la definizione dei singoli diritti reali limitati. 194 sotto la sua responsabilità, in armonia con gli interessi della comunità, quali risultano dall’ordinamento nazionale dell’economia e del lavoro». Opportunamente dal piano di una definizione della proprietà ci si è portati su quello di una determinazione dei poteri del proprietario e dell’esercizio dei medesimi. La pienezza del potere è un criterio tecnicamente non improprio per discriminare la proprietà dagli altri diritti reali. Il richiamo alla responsabilità del proprietario nell’uso dei suoi poteri rende vivacemente un’esigenza etica e politica (cfr. punto VII Carta del lavoro), mentre, sul terreno più strettamente giuridico, può valere a stabilire l’indipendenza della signoria. L’interesse pubblico, che costituisce il limite esteriore del di-ritto e, insieme, la sua intima giustificazione, è espresso in termini concreti e definiti col richiamo dell’ordinamento giuridico positivo: in cui assumono particolare rilievo presso di noi i principii dell’ordinamento corporativo. 11) Costituzione tedesca (1949), artt. 14 e 15, in Codice delle Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp. 129; Art. 14 La proprietà e il diritto di successione sono garantiti. Le leggi ne determinano i contenuti e i limiti. La proprietà impone obblighi. Il suo utilizzo deve servire anche al bene della collettività. L’espropriazione è ammessa solo per il bene della collettività. Essa può avvenire solo per legge o in base a una legge che disciplini le modalità e l’entità dell’indennizzo. L’indennizzo deve essere determinato in base ad un equo bilanciamento fra gli interessi della collettività e quelli delle parti. Per le controversie relative all’entità dell’indennizzo è ammesso il ricorso di fronte ai tribunali ordinari. Art. 15 Fondi e suoli, risorse naturali e mezzi di produzione possono, a scopo di socializzazione, essere trasferiti in proprietà collettiva o essere sottoposti ad altre forme di economia collettiva, mediante una legge che stabilisca 195 l’entità e le modalità dell’indennizzo. Per l’indennizzo si applica per analogia quanto disposto dall’art. 14, co. 3, periodi terzo e quarto. 12) Preambolo Cost. francese 1946 1. All’indomani della vittoria riportata dai popoli liberi sui regimi che hanno tentato di asservire e degradare la persona umana, il popolo francese proclama ancora una volta che tutti gli esseri umani, senza distinzione di razza, di religione e di credo, possiedono dei diritti inalienabili e sacri. Esso riafferma solennemente i diritti e le libertà dell’uomo e del cittadino consacrati nella Dichiarazione dei diritti del 1789 ed i principi fondamentali riconosciuti dalle leggi della Repubblica. 2. Proclama, inoltre, particolarmente necessari nell’epoca attuale i seguenti principi politici, economici e sociali: 3. La legge garantisce alla donna, in tutti i campi, diritti uguali a quelli dell’uomo. 4. Qualsiasi persona perseguitata a causa della sua azione a favore della libertà ha diritto d’asilo sui territori della Repubblica. 5. Tutti hanno il dovere di lavorare ed il diritto di ottenere un lavoro. Nessuno può essere danneggiato, nel suo lavoro o nel suo impiego, a causa delle proprie origini, opinioni o credenze. 6. Qualsiasi persona può difendere i propri diritti ed i propri interessi tramite l’azione sindacale ed aderire ad un sindacato di sua scelta. 7. Il diritto di sciopero si esercita nel quadro delle leggi che lo regolano. 8. Tutti i lavoratori partecipano, tramite i loro delegati, alla determinazione collettiva delle condizioni di lavoro ed alla gestione delle aziende. 9. Qualunque bene, qualunque impresa, la cui utilizzazione ha o acquisisce i caratteri di un servizio pubblico nazionale o di un monopolio di fatto, deve diventare proprietà della collettività. 10. La Nazione assicura all’individuo ed alla famiglia le condizioni necessarie per il loro sviluppo. 196 11. Essa garantisce a tutti ed in particolare ai bambini, alle madri ed agli anziani lavoratori, la tutela della salute, la sicurezza materiale, il riposo ed il tempo libero. Tutti gli esseri umani che a causa dell’età, dello stato fisico o mentale, della situazione economica si trovino nell’incapacità di lavorare, hanno il diritto di ottenere dalla collettività adeguati mezzi di sussistenza. 12. La Nazione proclama la solidarietà e l’uguaglianza di tutti i Francesi innanzi agli oneri che derivano dalle calamità nazionali. 13. La Nazione garantisce al bambino e all’adulto all’istruzione, alla formazione professionale ed alla cultura. L’organizzazione dell’istruzione pubblica, gratuita e laica in tutti i gradi, è un dovere dello Stato. 14. La Repubblica Francese, fedele alle proprie tradizioni, si conforma alle regole del diritto pubblico internazionale. Essa non intraprenderà in nessuna guerra per scopi di conquista e non utilizzerà mai le sue forze contro la libertà di nessun altro popolo. 15. Con riserva di reciprocità, la Francia acconsente alle limitazioni di sovranità necessarie all’organizzazione ed alla difesa della pace. 16. La Francia forma con i popoli d’oltremare un’Unione fondata sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri, senza distinzione di razza e di religione. 17. L’Unione francese è composta da nazioni e da popoli che accomunano o coordinano le proprie risorse ed i propri sforzi per lo sviluppo delle rispettive civiltà, per l’accrescimento del benessere e per la propria sicurezza. 18. Fedele alla sua tradizionale missione, la Francia intende condurre i popoli dei quali ha assunto la cura alla libertà di autoamministrarsi e di gestire democraticamente le proprie attività; scartando qualsiasi sistema di colonizzazione fondato sull’arbitrio, garantisce a tutti uguale accesso alle funzioni pubbliche e l’esercizio individuale o collettivo dei diritti e delle libertà qui sopra proclamate o ribadite. 197 13) S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà (con riguardo alla proprietà terriera), in Id., La proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffré 1954, 145 ss. PREMESSE 1. Accettiamo come direttiva metodologica, aderente alla concezione storicistica del diritto, la dichiarazione del filosofo, secondo la quale «il problema della proprietà in termini generali ed astratti non esiste» 92 . Soprattutto come richiamo alla concretezza 93, che giova in modo particolare ai giuristi, i quali hanno la tendenza a concentrare l’interesse del loro studio sugli schemi astratti, a volte addirittura sulle formule verbali. E proprio in tema, si può ricordare il caratteristico fenomeno del secolare affaccendarsi dei giuristi medievali (almeno dai postglossatori, cominciando da Bartolo, fino alla seconda metà del secolo XVIII) 94 attorno alla definizione della proprietà, con assoluto distacco dalla realtà e dalla storia, che nel moto del suo perenne fluire, per lente mutazioni o brusche fratture, aveva portato l’umanità dalla servitù della gleba e dal feudalesimo alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. E la proprietà, naturalmente, aveva subito le medesime trasformazioni che il corpo sociale aveva subito. Più di ogni altro istituto, infatti, essa riflette nelle sue strutture e nelle sue articolazioni le strutture sociali dell’ambiente e del momento storico che si vuole studiare. Sicché, in ognitempo chi vuole intendere quali siano i termini di quella che può dirsi la «questione della proprietà», deve riportarla e ricollegarla alla situazione generale della realtà contemporanea» 95; e se ha bisogno della prospettiva storica, deve Nota 1: Capograssi, Agricoltura, diritto, proprietà, in Rivista di diritto agrario, XXXI (1952), I, p. 271. 93 Nota 2: La dottrina ne ha avvertito l’esigenza : « è certo che oggi, di fronte alla dogmatica astratta ed alle categorie sempre più generali, assume, per naturale ripercussione e contrasto, un più diretto risalto la visione del concreto, nella mutevole varietà della materia regolata» (Grosso, Per i trentanni della rivista di diritto agrario, in Riv. di dir. agr., XXXI, I, p. 243). 94 Nota 3: Piccinelli, Studi e ricerche intorno alla definizione « dominium est jus utendi et abutendi », Firenze, 1886; Bruci, Della poprietà, I, rist., Napoli-Torino, 1923, nn. 7 e ss., pp. 20 e ss.; Nicolini, La proprietà, il Principe e l’espropriazione per pubblica utilità, Milano 1940, nn. 11 e ss., pp. 43 e ss. Non si vuoi dire, però, che il fenomeno non abbia una sua giustificazionee un suo significato; e neppure che non sia derivata da quella fatica secolarenessuna utilità. Si vuole soltanto sottolineare la singolarità del fatto. 95 Nota 4: Capograssi, op. e loc. citt. 92 198 adattarsi a collocare e integrare la storia della proprietà nella storia generale della società. Il giurista, però, non può fare a meno di schemi e di astrazioni. Ha bisogno di concetti, che gli consentano di ordinare i dati della sua peculiare esperienza; e non può assolvere il suo compito, traducendo l’additata esigenza di concretezza, in un canone metodologico che ponga sugli altari un assoluto empirismo 96. La scienza giuridica si trova nella necessità di operare con criteri di quantità, e proprio qui è la radice della sua ambivalenza: la quantità fa spesso le veci della qualità. E qui pure il limite, il punto di equilibrio: il procedimento astrattivo, che tende alla costruzione del concetto, non deve oltrepassare quel segno oltre il quale il concetto perde ogni contatto colla realtà. Questa presenta persino una zona irrazionale (o non razionalizzabile) 97, in relazione alla quale si valorizza sul piano speculativo la sensibilità del giurista, anche rispetto a quell’attività che si può dire di natura teorica, la quale tuttavia non è separata dall’attività pratica di formazione ed applicazione del diritto 98. Tra i due poli dell’esigenza sistematica, legata al concetto, e dell’esigenza di certezza, legata all’esperienza, la dottrina recente oscilla: in relazione alla proprietà, anzi, si va mostrando più sensibile a quest’ultima, e tende a valorizzare le innovazioni particolari del diritto positivo, non trascurando la legislazione speciale, anziché insistere nella riaffermazione di formule tradizionali. La tendenza appare feconda e va seguita. 2. Si è cominciato col mettere in circolazione una formula suggestiva, che conferisce un rilievo particolarmente accentuato alla proprietà: «Sembra corrispondente allo stato attuale delle leggi, le quali hanno disciplinato in vario modo i poteri del proprietario, riconoscere che non vi è una sola proprietà, che vi sono piuttosto delle proprietà» 99. 96 Nota 5: Si tenta già di trasferire una tendenza, che è facilmente identificabile nel pensiero moderno, a partire da Hume, dal campo filosofico a quello della scienza giuridica. E non ci si accorge della situazione paradossale della negazione del concetto, sulla base del ragionamento, che procede esso medesimo per concetti. Già la negazione del concetto, se fosse reale e non apparente, condotta alle sue conseguenze estreme, non consentirebbe neppure il discorso comune su un qualsiasi argomento. 97 Nota 6: Leoni, Il problema della scienza giuridica, Torino 1940, spec. Pp. 17e ss., pp. 102 e ss., pp. 172 e ss.; Per una teoria dell’irrazionale nel diritto, I, Torino s.a. 98 Nota 7: Da ultimo Pugliatti, La scienza giuridica come scienza praticica, in Riv. ital. per le scienze giuridiche, 1950, nn. 8 e ss., pp. 59 e ss.; n. 21, pp. 81 e ss.; Ascarelli, Studi di diritto comparato etc., Milano 1952, Prefazione, nn. 10 e ss., pp. XIX e ss. 99 Nota 8: Vassalli, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, nel volume: La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, 199 La formula così congegnata mantiene, tuttavia, l’equilibrio fra l’unità del concetto 100 e la varietà di aspetti specifici che esso assume. Ma codesto equilibrio comincia ad essere scosso e rischia di essere compromesso, dalla interpretazione autentica che di quella formula ci viene offerta: «l’interesse pubblico è che l’appropriazione dei beni comporti statuti diversi in armonia con gli scopi perseguiti, i quali variano assai» 101. Se prima si poteva pensare: le proprietà sono sempre (rami di quel tronco che si dice) la proprietà; quando si parla di statuti diversi dell’appropriazione dei beni, è lecito dubitare almeno della possibilità che alcuni di tali statuti siano così differenti tra loro, da rendere non solo illegittimo, ma addirittura inopportuno qualsiasi accostamento, anche soltanto terminologico: specie se i detti statuti possono variare assai, poiché la differenza può raggiungere e superare il limite oltre il quale si realizza una trasformazione qualitativa. Il problema permane, anzi si pone più decisamente, quando si afferma che, allo stato delle attuali concezioni e discipline positive dell’istituto, non si può parlare di un solo tipo, ma si deve parlare di tipi diversi di proprietà, ciascuno dei quali assume un suo aspetto caratteristico 102. Si è affermato, però, in seguito ad analisi più o meno compiute ed approfondite del nostro diritto positivo, che codesta molteplicità di aspetti non compromette l’unità concettuale 103. E coerentemente, le più caute elaborazioni dottrinali hanno suggerito formule estremamente dosate, come questa: «la proprietà è una sola ma è anche molteplice» 104. Si mira, così, a salvare l’unità del concetto di proprietà, pur nella notevole p. 103(traduce da Josserand, Cours de droit civìl positif français, I, 3* ed., Paris 1938,n. 1517, p. 839, ma non riporta per intero. Lo scrittore francese aggiunge: «le droit de propriété est un des plus souples et des plus nuancés qui figurent dans les différents catégories juridiques; sa plasticité est infinie». Egli, dunque, mostra la preoccupazione di non compromettere l’unità concettuale dell’istituto. Ma tale atteggiamento può pesare come un apriorismo su tutta l’indagine. 100 Nota 9: Ma codesta unità non si può assumere come dato assolutamente certo e stabile. […]. 101Nota 10: Vassalli, ivi; Grechi, Proprietà e contratto nella evoluzione sociale del diritto del lavoro, Firenze 1935, p. 82. 102 Nota 11: Grechi, ivi; Mazzoni, L’esercizio dell’impresa nell’ordinamento corporativo in Atti del Primo Congresso Nazionale di diritto agrario, Firenze1935, n. 2, p. 332. 103 Nota 12: Pugliatti, Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di pròprietà, in Atti del Primo Congr. Naz. Di dir. agr., nn. 22 e ss., pp. 227 e ss.; Chiapppelli, Proprietà dello Stato e proprietà del privato etc., in Atti del Secondo Congresso Nazionale di diritto agrario, Roma 1939, p. 260. 104 Nota 13: Maiorca, Premesse alta teoria della proprietà, in Jus 1941, n. VI. 200 complessità delle sue articolazioni; e tale fine è chiaramente indicato, quando si dice che « il concetto di proprietà è comprensivo di molteplici diversi ambiti di disciplina giuridica di un godimento a titolo generale» 105. Ma si rimane nei termini delle generiche descrizioni, e forse dei compromessi verbali. 3. Per uscire dal chiuso, si rende necessaria una nuova impostazione del problema, in base alla valutazione precisa dei dati positivi: si potrà quindi vedere se la molteplicità degli aspetti consente di mantenere l’unità del concetto; e sopra tutto quale valore, teorico e pratico insieme, possa avere in concreto il problema medesimo dell’unità e della varietà che si prospetta e si tenta di risolvere. L’indagine sarà condotta per grandi linee: non si prenderanno quindi in esame (e sarebbe del resto poco fruttuoso), tutte le determinazioni normative attinenti alla proprietà. Sarà utile, piuttosto, prendere in considerazione soltanto quei dati che presentano apprezzabili peculiarità, staccandosi dallo sfondo tradizionale, e recano il senso di particolari esigenze, che il legislatore abbia inteso di soddisfare. D’altra parte conviene, dal punto di vista tecnico, utilizzare come criteri direttivi e linee ordinatrici dell’esperienza, i risultati conseguiti dalla dottrina e la comune sistematica, scegliendo gli angoli visuali che consentono di dominare meglio la vasta materia che si aduna attorno all’istituto della proprietà. Cominceremo, quindi, facendo riferimento al presupposto ineliminabile di ogni situazione giuridica — il soggetto — e al suo termine correlativo — l’oggetto 106 — e distingueremo un profilo soggettivo ed un profilo oggettivo. Il profilo soggettivo, a sua volta, può essere qualitativo e quantitativo. Il primo si può dire influente sulla natura della situazione di proprietà; il secondo piuttosto sulla struttura: s’intende, nei limiti entro i quali è possibile mantenere legittimamente codesta distinzione, della cui utilità, in tesi astratta, non è da dubitare, almeno per l’ impiego che se ne fa comunemente. […] II. – Profilo oggettivo a) Struttura del diritto Nota 14: Maiorca, Proprietà e antigiuridicità, in Riv. di dir. civ., XXX (1941), n. I, p. 4. Si è pure tentato di proporre schemi e qualificazioni degli atteggiamenti tipici della proprietà: Pugliatti, Istituzioni di diritto civile, V, Milano 1938, pp. 16 e ss. 106 Nota 15: Sul senso di tale correlazione si veda Pugliatti, Gli istituti del diritto civile, Milano 1943, p. 289. 105 201 33. Il profilo soggettivo, polarizzandosi verso la nozione formale della proprietà, la assottiglia e riduce alla semplice titolarità; correlativamente si ha occasione di notare che la relazione economica, la possibilità di godimento effettivo, di utilizzazione, di sfruttamento della cosa, munita di tutela giuridica, raccoglie la sostanza dell’istituto. Si possono così individuare situazioni di proprietà formale e situazioni di proprietà sostanziale, nelle quali il legame che tiene normalmente uniti i due elementi della sintesi in cui consiste la proprietà, tende ad allentarsi notevolmente anche se non si scioglie del tutto. La struttura dell’istituto ne risulta, in entrambi gli schemi, notevolmente alterata, ma ciascuno di essi adempie alla funzione di tutela di determinati interessi. Anzi, proprio perché determinate esigenze pratiche inducono alla esaltazione del profilo soggettivo, nasce come correttivo la proprietà sostanziale, che gravita verso il profilo oggettivo. 34. Il fenomeno è tutt’altro che nuovo, anzi può dirsi ricorrente. Uno sguardo ad alcuni aspetti e momenti del panorama del diritto romano, può servire a chiarire le idee, poiché la proprietà fondiaria romana, per lungo tratto della sua evoluzione, è stata caratterizzata da un simile dualismo, in varie incarnazioni 107. Termine fisso di codesta secolare e plurima dialettica è quel domimum ex iure Quiritium, che esattamente si qualifica proprietà romana da ogni punto di vista: da quello statico (soggetto ed oggetto), come da quello dinamico (modo di acquisto) 108. a) Soggetto di codesto diritto può essere unicamente il civis romanus poiché ne è essenziale presupposto lo ius commercii, che spetta (almeno in origine) esclusivamente ai cittadini romani. b) Solo dopo varie vicende, la proprietà immobiliare quiritaria, si estese ai fondi in italico solo; mentre ne rimasero escluse le terre provinciali. c) II dominio quiritario si trasmette ed acquista unicamente per mezzo dei procedimenti dello ius civile, cioè dello ius ipsius proprium civitatis (Inst. I, 2, I). Così, trattandosi di res mancipi, mediante la mancipatio e, in prosieguo, la in iure cessio. Nota 261: « Lo svolgimento storico del dominio romano ha per suo elemento principale la concorrenza di più dominii » (V. Scialoja, Teoria della proprietà nel ddiritto romano, I, Roma 1933, pp. 245-246). 108 Nota 262: Fadda, Teoria della proprietà, 1907, § 31 pp. 45 e ss.; Girard, Manuel élémentaire du droit romain, 7* ed., Paris 1924, p. 274. 107 202 Ora, codesto diritto, che rispecchia i caratteri della sovranità territoriale, più che quelli della proprietà privata 109, si tiene in vita per secoli, quasi immutato nei suoi tratti fisionomici essenziali, sopra tutto mai espressamente disconosciuto o direttamente attaccato. L’evoluzione giuridico-sociale, si compie fuori e attorno ad esso, e pullulano diverse specie di signoria, che possono considerarsi come altrettante figure di proprietà (sostanziale). a) Già sotto il profilo soggettivo va considerato il dominuim dei peregrini (Gai Inst. Il, 40), i quali, mancando dello status civitatis sono privi anche dello ius commercii. Per distinguerlo più nettamente dalla proprietà quiritaria, i commentatori lo hanno chiamato dominium ex iure gentium. Esso non godeva del riconoscimento, e quindi della tutela spettante alla proprietà romana: tuttavia in prosieguo ottenne una certa difesa, con mezzi diversi da quelli propri del dominio quiritario, e che non sono ben conosciuti 110. b) Più ricco ed interessante è l’aspetto oggettivo. I) A cominciare dall’ager publicus, che lo Stato acquista e accresce con le conquiste. Una parte di esso viene alienata dallo Stato medesimo, e diviene oggetto di proprietà privata quiritaria 111 ; mentre la maggior parte diviene oggetto di una specie di signoria, che non si può confondere col dominium ex iure Quiritium. È una delle tante possessiones, che assicurano il godimento e la coltivazione della terra, al di fuori della proprietà quiritaria. Il regime di tali possessiones, «ha una preponderante importanza economica e storica nell’antica Italia » 112 . Esse si fondano su di una concessione personale, fatta, a quanto sembra, dal Senato 113 , che è da ritenere revocabile 114 , e forse esente da tributo 115. Lo Stato rimane, formalmente, proprietario del terreno concesso, ma il privato acquista indubbiamente un Nota 263: Scialoja, op. oit., p. 245; Bonfante, Corso cit., I, p. 2°6; Longo, Corso di diritto romano, Milano 1938, p. 134; Brasiello, Corso di diritto romano, Milano 1941, p. 60. 110 Nota 264: Girard, op. cit., p. 274. 111 Nota 265: In origine rassegnazione ha luogo mediante la cerimonia solenne della limitatio: Brasiello, Corso di diritto romano, cit., p. 41. 112 Nota 266: Bonfante, Corso cit., I, p. 235 : « L’economia romana antica si basa in prevalenza sull’ager publicus anziché sull’ager privatus: il regime della possessio soverchia il dominium ex iure Quiritium » (ivi, nota I). Via via che si compie l’espansione territoriale di Roma, «si formano quelle vaste possessiones, al cui confronto il dominium è ben poca cosa e per cui la possessio diventa il fulcro dell’economia agraria » (Bozza, La possessio dell’ager publicus, I, Milano 1939, pp. 166-167). Conf. sostanzialmente Zancan, Ager publicus, Padova 1935, p. 33. 113 Nota 267 […]. 114 Nota 268 […]. 115 Nota 269 […]. 109 203 potere, una signoria 116 . È stato detto che si tratta di una signoria di mero fatto 117, come il possesso in senso tecnico 118; ma non si può attribuire troppo peso a codesta tesi, anche se può avere, a stretto rigore formale, qualche fondamento 119 . Bisogna tener presente che il suo contenuto sostanziale 120 gli ha consentito di reggere al peso di tanta storia e di così aspri conflitti, che ne segnarono di sangue il cammino. Tanto meno la possessio dell'ager occupatorius poteva ritenersi la risultante di un abuso e quindi una situazione illegittimo 121, e proprio perchè codeste possessiones «si protrassero per secoli, in tempi in cui i patrizi avevano nelle mani l'intera direzione dello Stato». 122. Nella prima epoca repubblicana, la possessio «è l'espressione tipica del dominio politico del patriziato, poichè rappresenta il retaggio del dominio degli antenati e la forma di sfruttamento del suolo propria del patriziato» 123; quando, col pareggiamento dei patrizi e dei plebei, seguito all'ammissione di questi ultimi al Consolato e al Senato (IV sec. a.C.), perde il vigore politico e il carattere di signoria del patriziato, «non cessa di essere privilegio di quella parte dei cittadini che ha il dominio politico, la classe senatoria, e diventa l'espressione tipica del capitalismo terriero » 124. Tanta forza di resistenza, tanta vitalità difficilmente si ammetterebbe in un semplice rapporto di fatto. D'altra parte, di fronte a simili fenomeni, il cui peso economico e sociale non può sfuggire a nessuno, non si capisce bene che cosa possa significare e quanto sia utile mantenere la distinzione troppo schematica ed astratta fra rapporto di fatto e di diritto, già per sé piuttosto equivoca e non molto precisa. A noi sembra metodologicamente più corretto il tentativo di determinare il contenuto e l'indole del fenomeno nella sua tipica e originale consistenza, superando le strettoie e gli equivoci di codeste formule. In tal modo non si può sfuggire alla conclusione secondo la quale la possessio, anche se non rientrava tra gli istituti del ius civile, era certamente un «potere pieno di godimento, ad esclusione dei terzi, della terra legittimamente occupata, riconosciuto dalla civitas col pre stare il proprio apparato di coercizione alla garanzia» 125. Un potere di godimento di ampiezza massima, poiché ai possessori «doveva essere riconosciuta la facoltà di usufruire in qualsivoglia maniera delle 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota 270[…]. 271[…]. 272[…]. 273[…]. 274[…]. 275[…]. 276: Burdese, op. cit., p. 21. 277: Bozza, op. cit., p. 165. 278: Bozza, op. cit., p. 174. 279: Burdese, op. cit., p.26-27. 204 terre» 126. Sicché possiamo considerare l'istituto come proprietà, sia pure qualificandola proprietà sostanziale, per accentuare di più l'isolamento della proprietà in senso formale. E dato appunto questo isolamento, sempre più visibile nel corso dell'evoluzione storica del diritto romano, non si può avere difficoltà ad ammettere che quella che si è denominata proprietà sostanziale avesse piena rilevanza di diritto, e non si esaurisse in rapporti di mero fatto. Del resto su questo aspetto della questione non si saprebbe insistere: si sa bene che la proprietà si suole definire sotto due differenti profili, come istituto e come diritto (in senso soggettivo) 127 . Il quesito ultimo orienterebbe la ricerca verso il secondo dei due poli, ed è pure molto noto che, particolar mente in relazione alla proprietà, è stato contestato che i Romani fossero giunti a considerarla come un diritto soggettivo, nel senso che oggi si potrebbe conferire all'espressione, e che renderebbe netta l'antitesi fra la proprietà sostanziale e quella formale 128. 2) Una figura analoga si ha in relazione all'ager vectigalis. «Il nome di ager vectigalis è dato a terreni di comunità dipendenti da Roma (coloniae e municipia), che vengono dalle comunità medesime concessi a privati, con l'obbligo di pagare un canone annuo (vectigal) e con la clausola che, fino a quando sia puntualmente pagato il canone, non possa essere spossessato nè il concessionario nè i suoi eredi nè coloro cui essi abbiano trasmesso la terra a titolo particolare» 129. La concessione dell'ager vectigalis 130, dà luogo ad una situazione giuridica complessa, che produce perplessità costruttive. Il pagamento del canone ed il correlativo riconoscimento della proprietà (quiritaria) nel concedente, suggeriscono il riferimento alla locazione; la durata indeterminata e in sostanza perpetua della concessione, la pienezza del godimento nel concessionario, che poteva persino tra sferire il diritto ad altri, richiamano il contratto di compravendita131. Da altro punto di vista si è potuto asserire che dalla detta concessione nasceva una proprietà sostanzialmente privata, ma formalmente pubblica, per la presenza del vectigal 132. Nota 280: Burdese, ivi, p. 29. Nota 281: Nei termini del testo si può, con maggior rigore, caratterizzare l'antitesi tra le due tendenze, quella che pone la caratteristica distintiva della proprietà nella signoria (e quindi gravita verso il contenuto), e quella che pone tale caratteristica nell'appartenenza, cioè nel titolo formale. La distinzione, nei termini meno rigorosi, si rinviene in Filomusi-Guelfi, op. cit., § 41 pp. 130 e ss. 128 Nota 282[…]. 129 Nota 283: Arangio-Ruiz, op. cit., p. 231. 130 Nota 284 […]. 131 Nota 285 […]. 132 Nota 286 […]. 126 127 205 Una figura di proprietà, sostanzialmente si profila quando, sorta nella pratica la necessità di una protezione reale per il concessionario, a costui viene accordata un'azione analoga alla rei vindicatio 133 . Essa trovò posto, nell'Editto, dopo la publiciana 134 la quale, come si vedrà, proteggeva il dominio bonitario. 3)Nelle provincie, non si ha proprietà terriera: «in provinciali solo... dominium populi romani est vel Caesaris» (Gai Inst., II, 7). Le terre, tuttavia, vengono date in concessione contro il pagamento di un canone periodico, che si dice stipendium o tributum, a seconda dei casi, e perciò i fondi medesimi si distinguono in praedia stipendiaria e tributaria: «stipendiaria sunt ea, quae in his provinciis sunt ea, quae propriae populi Romani esse intelleguntur; tributaria sunt ea, quae in his provinciis sunt, quae propriae Caesaris esse creduntur» (Gai Inst., II, 21). Il godimento dei concessionari non si inquadra certo nello schema del dominium ex iure Quiritium; tuttavia si può affermare che si tratti di «un istituto del tutto affine alla proprietà, quantunque non ne abbia il nome» 135. La difesa attiva è affidata ad una vindicatio, non ben precisata, che si dice fondata sull'equità136. È stato rilevato, che nell'Editto pretorio la rubrica: «de rei vindicatione» era immediatamente seguita dall'altra: «si ager stipendiarius vel tributarius petatur», e fondatamente si è congetturato che sotto quest'ultima «doveva esser data una formula del tutto analoga a quella della rei vindicatio medesima, sopprimendosi l'inciso ex iure Quiritium » 137. 4) Correndo parallelamente ai due ordinamenti, la cui dinamica caratterizzò lo svolgimento del diritto di Roma (ius civile e ius praetorium), alla proprietà quiritaria si contrappone la proprietà pretoria, che sorge quasi inavvertita e lentamente si afferma e consolida, mediante la protezione accordata dal pretore. Tipiche sono due figure, che presentano strette analogie, ed hanno una importanza pari a quella del vero e proprio dominio ex iure Quiritium. Una si indica colla formula «in bonis habere» o «bonis esse», l'altra è la «bonae fidei possessio» ed entrambe possono raccogliersi «nel concetto della possessio ex iusta causa» 138 . Esse godono di una difesa attiva, concessa dal pretore. Non si tratta di semplice difesa possessoria, contro lo 133 134 135 136 137 138 Nota Nota Nota Nota Nota Nota 287[…]. 288 […]. 289 : Arangio-Ruiz, op. cit., p. 168. […]. 290 […]. 291 : Arangio-Ruiz, op. cit., p.168. 292 : Bonfante, Corso cit., II, p. 314. 206 spoglio violento o clandestino, bensì di una difesa specifica: più intensa, rispetto al dominio bonitario, che è protetto anche nei confronti del proprietario ex iure Quiritium, meno intensa rispetto alla bonae fìdei possessio, che cede di fronte alle ragioni della proprietà 139. ) Assai significativo e il fatto che nelle fonti si parli di due specie di dominio, nate dalla scissione dell’unico dominio originario. Che si pongano sullo stesso piano — il dominio quiritario e l’in bonis «Sequitur, ut admoneamus, apud peregrinos quidem unum esse dominium; nam aut dominus quisque est, aut dominus non intelligitur. Quo iure etiam populus romanus olim utebatur: aut enim ex iure Quiritium unusquisque dominus erat, aut non intellegebatur dominus; sed, postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure Quiritium dominus, alius in bonis habere». L’ipotesi più caratteristica è quella della res mancipi alienata, non già secondo le forme ex iure civili, bensì con la semplice traditio (Gai Inst., II, 41). Tuttavia questa ipotesi diviene problematica: lo stesso testo, infatti, dice che la cosa trasmessa nel modo indicato, rimane nel dominio ex iure Quiritium dell’alienante, finché l’acquirente non la usucapisca; così che l’ in bonis assume il significato di una possessio ad usucapionem, e rischia di confondersi con la bonae fidei possessio. Ma il dominio bonitario comprende altre situazioni, con le quali la confusione non è possibile, e specialmente quelle caratterizzate dal fatto che l’immissione in bonis ha luogo per decreto del pretore, che poi le garantisce, proprio come un’azione ex decreto 140 : ipotesi tipica e comune, la bonorum possessio. L’in bonis può considerarsi come vera proprietà (in senso sostanziale), in primo luogo per il suo contenuto, poiché «conferisce il godimento assoluto della cosa» 141; ma soprattutto per la difesa di cui gode: una difesa passiva ed una difesa attiva erga omnes, non escluso lo stesso proprietario ex iure Quiritium. Dal lato passivo, il dominio bonitario è difeso da una eccezione, opponibile anche al proprietario rivendicante, e capace di neutralizzare la sua azione di rivendica. «Questa eccezione poteva essere varia nei casi in cui l’in bonis era accordato dal Pretore : ma nel caso tipico della res mancipi alienata senza far uso delle forme solenni della mancipatio e della in iure cessio, essa era senza dubbio la exceptio rei venditae et traditae» 142 . Nota 293 : Bonfante, ivi, p. 315. Nota 294 : Bonfante, ivi, p. 317-318. 141 Nota 295 : Bonfante, ivi, p. 316. Lo Scialoja, op. cit., p. 248 lo qualifica «un rapporto di natura prettamente economica». Senonchè egli aggiunge (p. 249): «ma a poco a poco si sente da tutti che esso non è altro che una vera proprietà». 142 Nota 296 : Bonfante, ivi, p. 325. […]. 139 140 207 Quanto alla difesa attiva, tendente a fare riacquistare il godimento della cosa, è certo che un mezzo era concesso al domino bonitario. Alcuni supposero l’attribuzione di una rei vindicatio ficticia, basata sulla finzione della mancipatio; altri di una rei vindicatio utilis. La dottrina prevalente ritiene che all’in bonis fosse estesa l’actio publiciana, posta a tutela della bonae fidei possessio, dato che i presupposti sui quali si fonda questa azione concorrono indubbiamente nel dominio bonitario 143. β) Anche se i legami tra dominio bonitario e bonae fidei possessio sono innegabilmente assai stretti, non si può tuttavia aderire alla tendenza dottrinale che vorrebbe assorbita questa figura in quella. La differenza tra di esse sussiste: «l’ in bonis habere esprime un diritto assoluto, veramente erga omnes, significa ciò che noi godiamo con piena sicurezza e perpetuità; la bonae fidei possessio indica invece un diritto più limitato e fragile » 144. Non si tratta, ben s’intende del semplice possesso di buona fede. Avente i requisiti per l’usucapione, ma privo della iusta causa. Quest’ultima possessio non dà luogo ad un diritto analogo alla proprietà. Perché gode unicamente della difesa possessoria, la pretesa all’acquisto dei frutti, al rimborso delle spese etc. Mentre quella fondata sulla iusta causa, dà luogo ad un diritto analogo alla proprietà, tutelato mediante azione reale, contro qualsiasi possessore, eccetto il proprietario. Tale azione è la publiciana, che si fonda sulla fictio della compiuta usucapione. Si tratta di un’azione « di importanza quasi eguale alla rei vindicatio » 145 . Essa può essere paralizzata dalla exceptio iusti dominii, quando è proposta contro il proprietario ex iure Quiritium (Papinianus, fr. I6 Dig. VI, 2: «Exceptio iusti dominii Publicianae obicienda est). Non può sfuggire, dopo il nostro breve excursus, l’importanza della distinzione tra proprietà formale e proprietà sostanziale nel diritto romano. La proprietà quiritaria, che mantiene le linee strutturali con le quali l’ha configurata lo ius civile, quasi simbolo della stabilità di codesto ordinamento; le possessiones che si piegano alla tutela degli interessi pratici, senza compromettere l’edificio quiritario. Queste non rappresentano una condizione anormale: il regime che in esse si incarna «nelle infinite forme è invece lo stato normale in ordine ai fondi, che sovrasta di gran lunga l’angusta sfera del dominium ex iure Quiritium. È questo che appare quasi come l’eccezione. Nella vita economica, non altrimenti che nell’ordinamento giuridico. La nostra proprietà corrisponde più alla possessio romana che non 143 144 145 Nota 297 : Bonfante, op. cit., p. 326. […]. Nota 298: Bonfante, op. cit., p. 323. […]. Nota 299: Bonfante, op. cit., p. 328. 208 al dominium ex iure Quiritium » 146 . D’altra parte, le varie possessiones, nel lento e alterno gioco delle esigenze pratiche e delle forze politiche, si andarono evolvendo, per vie diverse, in unica direzione. Finché, quale prima quale poi, conseguirono il pieno riconoscimento e il crisma della proprietà. Ma da quel punto di vista giuridico che non trascura la terza dimensione delle istanze economico-sociali, i rilievi che precedono acquistano una importanza ed un significato assai notevoli, sia per quanto attiene alla storia della proprietà romana, sia per quanto con cerne l’evoluzione dell’istituto nel medio evo e nell’età moderna. Per il primo aspetto, già si è visto come il complesso di rapporti giuridici che gravita attorno al godimento delle terre fosse del tutto svincolato dagli impacci di quello schema rigido che si esprimeva nella formula del dominium ex iure Quiritium; e si articolasse in atteggiamenti più aderenti alla realtà e alla concrete esigenze pratiche. Per il secondo aspetto, non potrà sfuggire a chi consideri attentamente il fenomeno, come i predetti atteggiamenti di quella che abbiamo chiamata proprietà sostanziale, pur nella conseguita uniformità al termine dell’evoluzione delineata, mantennero l’interna agilità e duttilità, sicché la proprietà medesima, nella sua unità concettuale, appare arricchita di svariati contenuti, mobile, articolata e massimamente elastica. La distinzione netta tra proprietà romana e proprietà germanica — quella chiusa in una formula che la fissava come unità astratta, questa rifrangentesi in una serie di figure differenti, risultanti dalla somma di varie facoltà; la prima indivisibile nella sua essenza, come unità qualitativa, la seconda decomponibile nei suoi elementi costitutivi 147 — è distinzione intellettualistica, tra due concetti, il primo dei quali dedotto persino da quella situazione che è la proprietà quiritaria, che dal punto di vista economico sociale costituì una situazione ristretta, di scarsa risonanza, rispetto alla proprietà sostanziale. E proprio per il fatto che il godimento della terra era, presso i Romani, disciplinato nei modi che si sono accennati, fu possibile, nell’età di mezzo, quell’amalgama tra diritto romano e diritto germanico in rapporto alla proprietà terriera, che diede all’istituto le strutture convenienti ai tempi nuovi e alle nuove esigenze , e le cui linee si possono ancora riscontrare nel diritto vigente, anzi di tanto in tanto si rendono più manifestamente visibili. Nota 300: Bonfante, Il punta di partenza etc, loco cit., p. 533. Nota 301: Così, all’incirca, formulata dal Ranelletti, Concetto, natura e li miti del demanio pubblico, periodico cit. XXVI, n. 31, pp. 64-65. E dire che codesto scrittore ha intuito (ivi, p. 66 nota 218) che le costruzioni degli scrittori tedeschi in tema di proprietà collettiva non possono essere legittimamente confutate, dal punto di vista del diritto romano, poiché vi si riscontra l’influenza del diritto germanico. 146 147 209 […] 37. b) A rilievi di notevole interesse si presta l'enfiteusi, sopra tutto per il fatto che, non solo la dottrina non è riuscita a proporre una costruzione soddisfacente, ma la stessa varietà delle tesi proposte, mette in evidenza la molteplicità di aspetti dell'istituto. D'altra parte, ciascuna di tali tesi fa capo ad uno dei caratteri, che viene considerato come preminente e decisivo, per la risoluzione del problema fondamentale che l’istituto propone, ma naturalmente non può cancellare gli altri caratteri e togliere ad essi ogni valore. Il quesito che la dottrina si prospetta tradizionalmente, e che a noi interessa ai fini della presente indagine, consiste nel determinare se, in seguito alla concessione enfiteutica, la proprietà permanga nel concedente o si costituisca in capo all’enfiteuta. La dottrina prevalente ritiene che la proprietà rimane al concedente, e che in capo all’enfiteuta si costituisce un diritto reale particolare (ius in re aliena) 148 . Tuttavia, per quanto poco si voglia concedere, non si può fare a meno, quando si neghi che l’enfiteuta acquista la proprietà, di ammettere che il diritto da lui acquistato sia « il più ampio dei iura in re aliena » e nel contempo e correlativamente « il più vicino al diritto di proprietà » 149. Più ampio, quindi, dello stesso usufrutto, che attribuisce al titolare il diritto di godere della cosa traendone ogni utilità che essa può dare (art. 981); e più di esso vicino alla proprietà150. È facile intendere che, in realtà, si tratta di espressioni poco precise, con le quali si vuole accentuare l’analogia tra la proprietà e il diritto dell’enfiteuta. E infatti codesta spiccata analogia sussiste, e si caratterizza non già in virtù di gradazioni quantitative rispetto agli (altri) iura in re aliena, bensì con riferimento ad elementi intrinseci che definiscono la struttura e mettono in rilievo la funzione dell’istituto. Codesti elementi sono tali e talmente significativi, che con riferimento ad essi, autorevoli scrittori hanno potuto argomentare a sostegno della tesi opposta, che attribuisce all’enfiteuta la proprietà negandola al concedente. È certo, ad ogni modo, che il diritto del concedente, anche se si voglia denominare proprietà, si riduce a ben poco: quasi ad una semplice titolarità (o proprietà formale) a cui si aggiunge il diritto di credito al canone. Il diritto di godimento spetta integralmente Nota 328: Tra gli scrittori più recenti cfr. Germani, Enfiteusi, in Nuovo Digesto Ital., V, Torino 1938, n. 2, pp. 400 e s.; V. Simoncelli, Libro della proprietà del Commento D’Amelio-Finzi, Firenze 1942, p. 561; Cariota-Ferrara, L’enfiteusi, Torino 1950, nn. 139 e ss., pp. 166 e ss.; Orlando-Cascio, L’enfiteusi, Palermo s.a. (1952), pp. 121 e ss. 149 Nota 329: Cariota-Ferrara, op. cit., n. 143, p. 193. 150 Nota 330 […]. 148 210 all’enfiteuta. Si può pensare, è vero, che tale situazione sia analoga a quella che si produce in seguito alla costituzione dell’usufrutto, ma non deve sfuggire la sostanziale differenza: l’usufrutto è essenzialniente temporaneo, mentre l’enfiteusi può essere perpetua (art. 958). Si può, dunque, in relazione all’usufrutto, valorizzare la semplice titolarità attuale, in vista della immancabile ricostituzione futura del diritto nella sua piena integrità: fenomeno che si riconduce all’elasticita del dominio. Ma l’elasticità, in rapporto all’enfiteusi perpetua non ha modo di operare, e quindi si ha qui una ipotesi di proprietà non soltanto in atto svuotata del suo contenuto, bensì priva di quel carattere, ritenuto essenziale, che è quasi una extrema ratio alla quale i tecnici si affidano per proiettare nel futuro la plena in re potestas, che nel presente si riduce a pura forma. Non si dica che il concedente può riacquistare la proprietà piena, per non uso ventennale (art. 970), o in virtù della devoluzione (art. 972), poiché tale riacquisto è conseguenza di eventualità che escono dai binari del normale svolgimento del rapporto. Anche il venditore può riacquistare la proprietà della cosa venduta, se il contratto di vendita si risolve per l’inadempimento del compratore; e il proprietario in genere, ammesso che non esista nel nostro diritto l’usucapio libertatis 151 , può perdere la proprietà, se altri acquisti per usucapione. Ma si potrebbe parlare di elasticità in relazione all’enfiteusi temporanea. Senonché, a parte il fatto che l’istituto va definito con riferimento a tutti i suoi aspetti, e particolarmente a quelli caratteristici, è da considerare qui il diritto di affrancazione, che vulnera gravemente la situazione del concedente. L’esercizio di esso da parte dell’enfiteuta, non solo paralizza la possibilità di reintegrazione del diritto nel concedente, ma polarizza in via definitiva il diritto stesso. Nella sua integrità, nella direzione dell’enfiteuta. Senza dubbio si può sottilizzare, in difesa dell’opinione dominante. Si può ritenere che la facoltà di affrancazione presenti analogie con la facoltà di riscatto 152, ma più delle analogie sono significative le differenze. Infatti, il riscatto è un’accidentalità che poggia sulla volontà delle parti; mentre il diritto di affranco nasce dalla legge e come elemento essenziale del rapporto 153. La legge interviene, relativamente al riscatto, per limitarne la durata massima (art. 1501), mentre il diritto di affrancazione dura quanto l’enfiteusi. Inoltre, la facoltà di riscatto è accompagnata da quella di godimento, mentre nel 151 152 ss. Nota 331 […]. Nota 332: De Pirro, Della enfiteusi, Lanciano 1893, n. 40, pp. 142 e 153 Nota 333: Coviello, Della trascrizione, 2^ ed., II, Napoli-Torino 1915, n. 309, p. 285. 211 rapporto di infiteusi l'una e l 'altra competono al medesimo soggetto. Si può ancora affermare che l'affrancazione è soltanto eventuale, poiché l’enfiteuta può non esercitare il diritto relativo 154 , ma nell'enfiteusi perpetua l'interesse ad esercitare tale diritto ha senza dubbio natura accessoria e subordinata, e in quella temporanea resta sempre il fatto che, a differenza del diritto di riscatto, il diritto di affrancazione non è limitato ad un termine massimo. Insomma è veramente peculiare la situazione che si crea nell’enfiteusi, nella quale il diritto di godimento integrale può essere in perpetuo accompagnato dalla proprietà (formale), e per giunta rafforzato da un diritto, il cui esercizio, in un qualunque momento, può cancellare tutte le vestigia di quella proprietà. Questa è la sostanza, e i sostenitori della tesi opposta possono invocare soltanto argomenti formali. Tra questi, quello che appare a tutti decisivo: l'obbligo, nel l'enfiteusi, di migliorare il fondo (art. 960). Non si spiegherebbe l'esistenza di tale obbligo, se proprietario fosse lo stesso enfiteuta, perché sarebbe un obbligo verso se medesimo. Il ragionamento è poco rigoroso: esso riproduce lo schema di quello con cui si è tentato di negare la possibilità di costituzione valida e di permanenza in vita di un rapporto unisoggettivo 155. Noi riteniamo che non vi siano ostacoli insormontabili alla costituzione di tale rapporto, e quindi possiamo facilmente superare l'obbiezione. Nella specie, poi, è da chiarire l'ambiguità del termine «proprietario», a causa, appunto, della pluralità di significati che acquista l'originario termine «proprietà»; e in particolare, per il fatto che nella specie l'attribuzione della qualifica ad uno dei soggetti, concedente od enfiteuta, non esclude l'esistenza di diritti dell'altro, e sopra tutto non esclude l'evoluzione del rapporto in modo tale che l'altro soggetto divenga, in definitiva, proprietario pleno iure. Si può, dunque, ritenere che l'obbligo di migliorare sia assunto solo eventualmente nell'interesse del concedente, che potrebbe riacquistare la proprietà. Senza dire, che allo stato attuale del nostro diritto positivo, l'obbligo di miglioramento corrisponde al pubblico interesse che, in relazione alla proprietà terriera, si traduce nell'onere di buona coltivazione. Elemento o indice formale è quello che si ricava dalla possibilità di estinzione del diritto dell'enfiteusi per non uso, poiché la proprietà parrebbe ripugnante a tale estinzione: la proprietà come forma (ammesso che non esista l'usucapio libertatis). Nota 334: Cariota-Ferrara, op. cit., p. 175. Nota 335: Per maggiori chiarimenti rimandiamo al nostro studio: Il rapporto unisoggettivo, in Diritto civile cit., pp. 395 e ss. 154 155 212 Degli altri argomenti non occorre trattare. Piuttosto, consideriamo, sotto il profilo formale e sotto il profilo sostanziale, i rapporti tra l'enfiteusi perpetua e la rendita fondiaria perpetua. Il contratto di rendita trasferisce la proprietà, contro la costituzione di un credito periodico (art. 1861). Sostanzialmente, dal punto di vista economico, esistono innegabili e stringenti analogie con l'enfiteusi. Anche la rendita è redimibile (art. I865), come l'enfiteusi è affrancabile, e non si vede quale serio fondamento possa avere la costruzione di quest'ultima, in modo radicalmente differente dalla prima, specie di fronte a certe conseguenze, che appaiono assurde: chi riscatta la rendita, si libera di un peso; chi affranca il fondo, se proprietario è il concedente, compie una sorta di espropriazione privata in proprio favore 156. Un'altra considerazione: non può sfuggire a nessuno il fatto che la dottrina, anche quando tace il testo legislativo, tenda ad applicare all'enfiteuta tutte le norme applicabili al proprietario. Tuttavia non si vogliono trascurare le differenze: anche se non appaiono decisive, cioè idonee a spostare verso il concedente il fulcro del rapporto, esse valgono a vulnerare il diritto e la situazione dell'enfiteuta, così come taluni elementi, già messi in evidenza vulnerano il diritto e la situazione del concedente. Ciò spiega i tentativi della dottrina di porre sul medesimo piano i due soggetti. Certo il meno felice è quello, ormai superato, di considerare l’enfiteusi alla stregua del condominio, e il concedente e l’enfiteuta come condomini. Non pare destinata ad avere successo quella tendenza che, analogamente alla dottrina intermedia della proprietà divisa, attribuirebbe al concedente e all’enfiteuta una proprietà attenuata 157 . Ma è indubbio che al concedente o all’enfiteuta non si può riconoscere, finché duri l’enfiteusi, una proprietà piena. Ai fini che ci siamo proposti col presente studio, più che la risoluzione corriva del problema dottrinale, giova il rapido esame condotto, e la conclusione per cui la proprietà che diremo enfiteutica, sia che si debba attribuire al concedente, all’enfiteuta o ad entrambi, è certamente una proprietà minus plena. E tale conclusione giova perché riassume i risultati dell’analisi e mantiene viva la necessita di codesta analisi per la piena intelligenza del fenomeno. In sostanza, risulta così esplicito il sottinteso innegabile, che non può sfuggire alla sensibilità dei giuristi delle varie tendenze, per cui, risolto il problema dell’attribuzione della qualifica a questa o a quella situazione giuridica (proprietà al concedente e diritto reale su cosa altrui all’enfiteuta, o viceversa; oppure proprietà ad entrambi), restano da determinare in 156 157 Nota 336 […]. Nota 337 […]. 213 concreto la fisionomia e la struttura, il contenuto e la portata specifica del diritto dell’uno e dell’altro soggetto, comunque qualificato. E la qualifica di proprietà, di seguito alla rigorosa analisi che si impone, non può e non deve trarre in inganno; non può e non deve suggerire facili e comode identificazioni. b) Peculiarità dell’oggetto. 38. È noto che la considerazione della proprietà dal punto di vista dell’oggetto, venne assunta come canone metodologico per la migliore caratterizzazione dell’istituto in relazione alla disciplina positiva moderna. Tale punto di vista venne adottato sul presupposto della insufficienza o inadeguatezza del profilo subbiettivo, e la scelta venne giustificata come segue : « Non più dominante appare lo scopo di disciplinare la libertà dei cittadini per l’armonia della vita sociale, non più i beni sono considerati soltanto come oggetto dell’attività del singolo, in quanto questi possa usarne, goderne, disporne; bensì, invece, affermandosi come base dell’organizzazione sociale il dato economico, sono i beni che si mettono in primo piano: e la loro Utilizzazione, la loro destinazione, la loro organizzazione che appare immediato oggetto della disciplina giuridica, talché essi si pongono logicamente come un prius rispetto al cittadino, cui spettano » 158. Considerato come criterio metodologico, anziché come comodo punto di vista, il canone suggerito sarebbe inaccettabile, per la sua evidente unilateralità, la quale mutila l’istituto della proprietà dell’elemento che, logicamente, costituisce e costituirà sempre il termine fondamentale di ogni fenomeno giuridico : il soggetto. La disciplina giuridica avrà sempre come fulcro gli uomini e la loro attività, e al più potrà orientarsi immediatamente verso i beni, per considerazioni di ordine pratico, le quali sono sempre legate alle necessità e alle attività degli uomini, isolati o aggruppati. Anzi, proprio in vista di codeste necessità e attività le « cose » appaiono come «beni», assunte già in ambito di valori e qualificate in base a idonei criteri. Allora diremo legittimo 159 il punto di vista oggettivo, a condizione che rimanga legato e tacitamente riferito al reciproco punto di vista soggettivo, e lo integri, lasciandosi integrare da esso 160. Questo rilievo ne suggerisce un altro: quello di non superare, nella considerazione oggettiva, il limite oltre il quale essa 158 Nota 338: Finzi, Diritto di proprietà e disciplina della produzione, in Atti del Primo Congresso Nazionale di diritto agrario, cit., pp. 159-160. 159 Nota 339: Finzi, ivi, p. 159. 160 Nota 340 […]. 214 condurrebbe, anziché ad una nuova visione, ad una deformazione della proprietà, trasformandosi da utile strumento di indagine in dannosa fonte di equivoci. Si tratta di superare viete concezioni che irrigidiscono la proprietà di una forma astratta e immutabile, e di considerarla come «un rapporto concreto, il quale varia ed assume una diversa fisionomia ed un atteggiamento diverso, secondo la natura speciale degli obbiettivi che cadono sotto il suo potere».161. 39. La prima distinzione relativa all’oggetto, che può avere influenza sulla determinazione del concetto e dell’ambito del diritto di proprietà, è quella fra cose corporali e cose incorporali. Sono note le difficoltà concernenti la teoria delle cose in senso giuridico 162 nell’ambito della teoria dell’oggetto dei diritti (soggettivi). Soltanto la dottrina più recente ha avvertito la necessità di porre in chiaro codesta distinzione, e di procedere alla determinazione del concetto di « beni » in senso giuridico 163. Oggetto di diritti soggettivi, e quindi beni giuridici, possono essere cose materiali e cose immateriali (naturalmente sono entità ideali tanto i beni quanto i diritti, anche se abbiano per nucleo costitutivo una cosa materiale). In ordine alla proprietà, si dubita ancora se tale diritto si limiti alle cose materiali (o corporali), o possa estendersi anche alle cose immateriali (o incorporali). La questione originariamente si poneva in termini alquanto diversi, poiché alcuni affermavano (ed altri contestavano) che il diritto su cosa incorporale dovesse designarsi come proprietà. Naturalmente non si trattava soltanto di una questione terminologica, poiché questa presentava un perfetto parallelismo col tentativo di una identificazione concettuale, abbastanza spinta, anche se rispettosa delle differenze specifiche. Infatti, pur ammettendosi che i diritti su cose incorporali non fossero da considerare come proprietà nel senso ristretto del termine, si chiariva che la differenza saliente stava unicamente nella natura del rispettivo oggetto, che non è decisiva per la caratterizzazione del diritto. E si asseriva, per di più, che le due categorie hanno in comune l’essenza, e precisamente il contenuto e la tutela giuridica: il primo, in quanto è identica la posizione del titolare, che gode di un diritto primario e pieno; la seconda, in quanto può farsi valere erga omnes 164. La successiva elaborazione dottrinale mise in luce, anzitutto talune radicali differenze tra i diritti su cose incorporali, alcuni 161 162 163 164 Nota Nota Nota Nota 341: Cimbali, La proprietà e i suoi limiti, nel vol. cit., p. 162. 342: Maiorca, La cosa in senso giuridico, Torino 1937. 343 […]. 344 […]. 215 dei quali vennero assegnati alla categoria dei diritti della personalità 165. E certo ha esclusivamente carattere personale il diritto all’inedito, che si risolve in una protezione dell’«autodeterminazione dell’autore riguardo la pubblicazione dell’opera» 166 . Ma il diritto allo sfruttamento dell’opera, considerata compiuta dall’autore e destinata alla pubblicazione o già pubblicata, è certamente un diritto di carattere anche patrimoniale 167 . Non si fa fatica ad ammettere che si tratti di diritti assoluti, ma se si ritiene che il loro contenuto si esaurisca nella facoltà di pubblicazione e riproduzione dell’opera ci si può contentare della loro classificazione tra i diritti di monopolio 168. Ovviamente l’interesse protetto dal diritto è quello relativo allo sfruttamento integrale ed esclusivo dell’opera a beneficio dell’autore, sì che appare legittimo l’accostamento ai diritti reali. Ma agli scrittori la differenza specifica dipendente dalla natura dell’oggetto, è parsa di rilievo assai maggiore rispetto agli elementi di identità. I diritti reali, appunto per la materialità della cosa che ne costituisce l'oggetto, anche quando sono diritti reali su cosa (materiale) altrui, presentano pratiche possibilità di utitizzazionc e di sfruttamento (della cosa), nelle quali si traduce il godimento (che forma il contenuto) di essi diritti; e tali utilità reclamano una peculiarissima tutela, la quale si sostanzia di quelle esigenze pratiche e su di esse si modella. Si pensi alla tipica azione a tutela della proprietà (su cose materiali), la rivendica; essa, a sua volta, presuppone la relazione possessoria, che non si saprebbe come individuare e fermare in ordine alle cose incorporali. Analoghe peculiarità presenta l'actio negatoria. Davanti a questo scoglio si fermarono gli scrittori attratti dal miraggio delle analogie. e spinti verso il tentativo delle identificazioni 169. Approfondita l’analisi, risaltarono meglio le differenze, le quali però furono svalutate. Si vide infatti, che era da escludere il carattere di assolutezza della c.d. proprietà incorporale, e si ritenne di poterlo eliminare rispetto alla proprietà in genere, il cui concetto veniva così modellato su quello della proprietà incorporale 170. Senonché, a parte i dubbi sollevati da simile costruzione, la differenza veniva ad accentuarsi, proprio perché, mentre la proprietà corporale è sostenuta dalla specifica tutela tradizionale, che si attacca al corpus e alla situazione possessoria; la pretesa proprietà 165 166 167 168 169 170 Nota Nota Nota Nota Nota Nota 345 […]. 346 […]. 347 […]. 348 […]. 349[…]. 350 […]. 216 incorporale può contare solo su una tutela generica, che tende a collocarsi nell'ambito delle regole generali sull'illecito civile 171. Il colpo più grave veniva dal rilevato difetto di un altro carattere nella c.d. proprietà incorporale. «La proprietà del nome e quella in genere delle cose immateriali o incorporali manca necessariamente in linea di fatto di un carattere che nella proprietà corporale è anche in linea di fatto essenziale, l'esclusività. La legge può ben sancire il diritto esclusivo di alcuno ad un dato nome: questo diritto significa nè più nè meno che la facoltà del titolare di proibire a chiunque altro di portare quel nome; in linea di fatto però non è impossibile che altri lo porti, pur non togliendolo a lui; anzi è impossibile che altri glielo tolga; il che è proprio il rovescio di quello che avviene per la proprietà corporale, dove l'usurpazione totale della cosa non può avvenire che mediante spossessamento del proprietario: è una legge fisica della materia, che ciò impone, e non soltanto una regola del vecchio Diritto come quella che duorum in solidum dominium vel possessio esse non potest » 172. Insistiamo su questo, che è veramente un nodo assai importante per lo studio della proprietà. Qui l'esigenza pratica e quella sistematica trovano il punto di innesto e il fulcro sul quale devono equilibrarsi. La formula astratta del diritto soggettivo, rispetto alla quale la natura peculiare dell'oggetto è indifferente 173 , ha bisogno di essere temperata con la considerazione della natura dell'oggetto del diritto di proprietà, e la scelta del punto di vista oggettivo è feconda. Le peculiarità sulle quali si modellano le fondamentali caratteristiche strutturali della proprietà, sono legate alla materialità della cosa, da cui nasce il carattere di assolutezza, per l'immediatezza del rapporto, e il carattere di esclusività, per la fisica incompatibilità di due rapporti immediati in solido. Sulla relazione materiale si modellano gli istituti della proprietà e del possesso, considerati nei loro rapporti reciproci, o come istituti autonomi. Se si prescinde da codesta relazione, e se ne deve necessariamente prescindere quando si ipotizza l'immaterialità dell'oggetto, non si può più parlare di proprietà, se non per via di traslati e di indebite generalizzazioni 174. Torniamo ad avvertire che non si tratta di semplice questione terminologica, ma di una questione sistematica, che trova i suoi presupposti in dati oggettivi, e cioè in profili strutturali che corrispondono ad atteggiamenti funzionali. Se anche si prescinde dai rilievi precedenti, resta un dato assai importante Nota 351 […]. Nota 352: Ascoli, Sul diritto al nome commerciale, in Riv. del dir. comm., III (1905), II, p. 148. 173 Nota 353 […]. 174 Nota 354 […]. 171 172 217 da prendere in considerazione: la proprietà delle cose materiali si risolve in una tutela generica di estensione massima, in corrispondenza agli interessi che il diritto prende in considerazione. Si foggia, cioè, una signoria giuridica generale, non specificamente delimitata e tendenzialmente perpetua, in corrispondenza dell'interesse privato di utilizzazione e sfruttamento della cosa stessa in tutte le sue possibilità presenti e future. Viceversa la c.d. proprietà dei beni immateriali costituisce una generalizzazione verbale colla quale si designano diverse forme specifiche di tutela che hanno come basi particolari interessi 175 . Si tratta, perciò, di diritti di vario contenuto, relativi ad interessi che presentano soltanto generiche analogie, e non si inquadrano in uno schema unico. Si deve, dunque, evitare l'identificazione concettuale, anche generica; di costruire cioè un concetto mancante di basi obbiettive, dietro lo stimolo di un processo di semplificazione linguistica. E se si bada a ciò, non vi è ragione di bandire affrettatamente la terminologia in uso. In relazione ai diritti sui beni immateriali, la proprietà riaffiora, quando essi danno luogo a situazioni nelle quali il termine oggettivo è una cosa corporale. Ad es. in quel gruppo di situazioni soggettive che si designa complessivamente come «diritto di autore» si può parlare di proprietà per certi aspetti: l'autore di un romanzo è proprietario delle copie inviategli dall'editore. Ma in tale senso, è proprietario chi ne ha acquistato una copia in libreria; e il diritto (personale) di autore, diritto su bene immateriale, cioè sull'opera d'arte come creazione ideale, non ha nulla da vedere con codesto diritto di proprietà 176. In conclusione, l'analogia tra proprietà (su cosa) materiale e proprietà (su bene) 177 immateriale, si limita al profilo assai generico per il quale possono le due figure collocarsi nella categoria dei diritti assoluti. Profilo che, pur in termini generici, può avere una certa utilità, solo se si mantenga l'angolo visuale soggettivo; poiché se si considera dall'angolo visuale oggettivo, si impone la differenza, anche in termini generici, tra diritti (assoluti) reali e diritti (assoluti) personali, che costituisce il primo gradino verso quelle differenze specifiche che aprono un solco incolmabile tra le due categorie 178. 40. Nella categoria delle cose corporali ha assunto in passato e mantiene tuttavia una grande importanza la summa rerum divisio tra cose mobili e cose immobili. Essa acquista rilievo in 175 176 177 178 Nota Nota Nota Nota 355[…]. 356[…]. 357[…]. 358[…]. 218 tutto il diritto patrimoniale, e in particolare rispetto alla proprietà179, al punto che si parla di proprietà immobiliare e di proprietà mobiliare 180. In realtà, raccogliendo sistematicamente le norme che disciplinano il godimento e il trasferimento delle cose mobili e quelle che disciplinano il godimento e il trasferimento delle cose immobili, specie in relazione ai terzi, si delineano due diversi regimi giuridici, con peculiarità così diverse da costituire due tipi di disciplina giuridica, coerenti e armonici ciascuno per sé, e differenti l’uno dall’altro 181. «Eppure non tutta appare a prima vista l’importanza della distinzione nel sistema del nostro diritto civile. È necessario combinare con la dottrina della proprietà un principio fondamentale di quella del possesso e chiederci poi se nel nostro sistema legislativo la tutela della proprietà degli immobili sia eguale alla tutela della proprietà dei mobili » 182. Si allude al principio fondamentale di cui agli artt. 707 e ss. C.C. 1865 e 1154 C.C. vigente. Non occorre sottolineare l’importanza di codesto principio e la posizione che esso occupa nel nostro sistema. Piuttosto le riflessioni che andiamo esponendo, ci offrono un’altra occasione per mettere in rilievo il significato profondo che nella nostra tradizione e nel nostro diritto positivo ha il legame tra la proprietà e il possesso. Qui si vede come la differenza di regime nella tutela possessoria delle cose mobili e delle cose immobili, costituisce una delle ragioni a causa delle quali si differenzia notevolmente il regime della proprietà mobiliare da quella proprietà immobiliare. E ciò in armonia con l’intrinseca organizzazione strutturale e la correlatività funzionale dell’istituto del possesso che, mediante l’usucapione, può tradursi in (acquisto della) proprietà (da parte di un soggetto, con la perdita del precedente proprietario): e la condizione dell’usucapione sta proprio nella tutela del possessore (contro il proprietario). Il fulcro della proprietà immobiliare è il suolo: primo immobile, e base della immobilizzazione. Ed ecco che, passando dalla categoria più vasta, a quella più ristretta, in virtù del particolare regime giuridico specifico ad essa riservato, si parla di proprietà terriera (o fondiaria in lato senso). Non è il caso di scendere in particolari, e non ci vuol molto a rilevare le peculiari disposizioni che si riferiscono alla proprietà del suolo. Assai più significativo sarà rilevare che il Codice dedica addirittura un complesso di disposizioni alla cosa immobile fondamentale, considerata nel 179 180 181 182 Nota Nota Nota Nota 359[…]. 360[…]. 360 bis […]. 361: Così incisivamente il Bruci, op. cit., n. 36, p. 445. 219 suo particolare genus, proprio sotto la rubrica : della proprietà fondiaria (artt. 840 e ss.), con disposizioni generali, concernenti più che i vari aspetti di essa, tutto il genus (sez. I). E il nuovo Codice non ha fatto che perfezionare la sistematica esterna, poiché si tratta di norme e princìpi tradizionali, adeguati, si direbbe alla particolare natura delle cose. Abbiamo detto che la proprietà terriera costituisce, pur nella sua peculiarità, un genus. Ed anche ciò si può facilmente comprendere, in base a rapide ricognizioni del nostro diritto positivo. La sistematica del Codice ci consente addirittura di procedere per le vie spicce. Infatti due sezioni del Capo dedicato alla proprietà fondiaria si occupano: la V della proprietà edilizia, la II della proprietà rurale. Quest’ultima è la più specifica e caratteristica: la più importante e ricca di note particolari, staremmo per dire; ricca di esperienze passate e di presentimenti dell’avvenire. Ad essa, intanto, si collegano e si riferiscono anche le disposizioni di cui alle sezioni III e IV, relative, rispettivamente, alla bonifica integrale e ai vincoli idrogeologici e alle difese fluviali. Le tre sezioni, e specialmente la prima, che si intitola al «riordinamento» della proprietà rurale, toccano soltanto i punti di intersezione di una serie di istituti, che sono disciplinati dalla legislazione speciale, e quasi costituiscono una specie di bilancio di codesta legislazione, alla quale spesso rinviano: così che, con l’enunciazione di princìpi o di regole generali completati da norme di rinvio, il Codice ha predisposto l’intelaiatura o la cornice entro la quale vengono ad adagiarsi e a comporsi i vari gruppi di norme speciali che disciplinano i singoli istituti riferentisi alla proprietà rurale. Il legislatore ha voluto in tal modo dichiarare che quei gruppi di norme, anche se occasionalmente ispirati ad esigenze particolari, non sono privi di legami tra loro, hanno anzi comuni centri di gravitazione, presentano nessi, in base ai quali è possibile costruire una superiore unità organica. Da codesta unificazione sistematica, risulta determinata la fisionomia di quella che si può dire, come si dice, proprietà rurale, o proprietà fondiaria (avente per oggetto fondi rustici) in senso ristretto. Dal profilo oggettivo specifico tale proprietà è caratterizzata, appunto, dal fondo (rustico), il quale, come può dedursi dalle disposizioni indicate, è preso in particolare considerazione e sottoposto ad una disciplina particolare, per il fatto che è suscettibile di coltura, cioè come possibile oggetto di quella particolare attività produttiva che, perciò appunto si dice agricoltura. Proprietà fondiaria (in senso stretto) è dunque lo Stesso che proprietà agricola, cioè proprietà (del suolo in quanto suscettibile di coltura e quindi in quanto base) dell’azienda agricola. Si intuisce, dunque, la peculiare fisionomia che la 220 proprietà della cosa può assumere in virtù della combinazione della sua destinazione e del legame con gli strumenti e le attività a mezzo dei quali quella destinazione si attualizza e si realizza in produzione agricola. E si coglie, nel tempo stesso, l’analogia con quella che si dice proprietà commerciale o proprietà industriale, cioè con quei concetti ugualmente complessi 183 nei quali si insinua il riferimento oggettivo dell’azienda, col tacito e immancabile riferimento (soggettivo) all’attività dell’imprenditore. Sorgono, così, i concetti di azienda e di impresa, accanto a quelli di proprietà : e il profilo oggettivo raggiunge il suo massimo campo di visuale. Ma nel tempo stesso, proprio in virtù di questi intrecci, il profilo soggettivo diviene nuovamente operante, ancor più operante, anzi, e costituisce il centro di propulsione dinamica che anima tutto il complesso: si impone la figura, la posizione e l’attività del proprietario, del titolare dell’azienda, dell’imprenditore. […] III. Dal profilo statico al profilo dinamico 43. Altri aspetti caratteristici della proprietà si possono cogliere distinguendo nello studio di tale istituto un profilo statico ed un dinamico 184 . La distinzione assume vari atteggiamenti, che saranno brevemente lumeggiati. Anzitutto va considerata la proprietà, per se sola, come titolo di acquisto di (altra) proprietà: cioè come condizione necessaria e sufficiente per l’espansione o l’incremento, o, se si vuole, per nuovo acquisto di proprietà. Tipica è l’ipotesi normale dell’acquisto dei frutti naturali prove provenienti dalla cosa, indipendentemente dal concorso dell’opera dell’ uomo (art. 820), i quali, di regola, appartengono al proprietario della cosa che li produce (art. 821). In questa ipotesi unico presupposto e titolo per l’acquisto della proprietà (dei frutti) è la qualità di proprietario, cioè la proprietà (della cosa produttiva) 185 . La regola assume tutto il suo significato, quando si tiene presente che la legge ammette la possibilità dell’acquisto dei frutti a favore di persona diversa dal proprietario (art. 821): per es. del possessore di buona fede (art. Nota 362 […]. Nota 372: Le considerazioni che svolgeremo dimostrano, se non ci inganniamo, la legittimità e l’utilità della scelta di un angolo visuale dal quale la distinzione proposta comprende la proprietà e la disciplina dei beni. Più ristretto è l’angolo visuale prescelto dal Finzi, Diritto di proprietà etc., in Atti cit., N. 15, p. 169. 185 Nota 372 bis: Il significato del fenomeno non sfugge al Durkheim, op. cit., pp. 175–176. 183 184 221 1148). Altre tipiche ipotesi si riscontrano in alcuni aspetti del fenomeno dell’accessione, specie nell’alluvione (art. 941), dove sì realizza un’espansione automatica della proprietà, in relazione al materiale incremento della cosa. Si tratta, però, di situazioni eccezionali. Di solito la cosa produce frutti o incrementi per l’opera umana. La più produttiva tra le cose è la terra, la quale dà suoi frutti e prodotti spontaneamente, ma di essa, della terra, l’uomo civile vive, non già soltanto raccogliendo i prodotti spontanei, ma fecondandola colla sua opera. La naturale potenzialità produttiva della terra diviene attuale produzione, per il lavoro dell’uomo. Col lavoro la terra si umanizza, diviene spirituale possesso e proprietà dell’uomo 186, non cosa, non natura, dominata dal caso o dalla causalità, ma nutrice dell’uomo che la cura, la coltiva; entra nella cerchia non solo degli interessi umani e dei motivi di azione dell’uomo, bensì in quella dei fini e dei valori, diviene base del consorzio umano, sede e culla della società degli uomini, regolata dalle leggi del vivere sociale, dal diritto 187. La proprietà della terra come cosa naturale produce, per impulso meccanico, la proprietà del prodotto naturale o dell’incremento casuale. Ma la proprietà della terra come cosa produttiva, impegna l’attività dell’uomo e la sua responsabilità, e il fenomeno supera non solo il dato naturale o l’evento accidentale, ma addirittura i confini dell’individuo e interessa direttamente la società. I titoli si moltiplicano: non è solo la proprietà, nel suo aspetto statico e nel suo profilo formale, che fa acquistare i frutti bensì, con essa, ed anche senza di essa, il lavoro. Il proprietario che dà il fondo in affitto, avrà diritto al canone, ma non ai prodotti del suolo: la proprietà sarà per lui titolo per l’acquisto di frutti civili, come corrispettivo del godimento altrui (art. 820 ult. cpv.), consistente nella possibilità di fecondare il fondo col lavoro, e di acquistare (il diritto di proprietà su) i prodotti di esso. Non solo il proprietario, dunque, ma anche l’affittuario ha diritto ai prodotti del fondo; cioè ha la possibilità garantita e protetta dal diritto di lavorare il fondo, per trarne i prodotti, dei quali diverrà proprietario. Il tema dell’acquisto dei frutti, dunque, ha messo in evidenza l’eccezionalità del profilo statico e la normalità di quello dinamico. In codesta normalità si può e si deve riscontrare un Nota 373: Capograssi, Agricoltura, diritto, proprietà, loc cit., pp. 250 e ss., pp. 274 e ss., passim. 187 Nota 374: La differenza di atteggiamento si può cogliere nell’opposizione kelseniana tra «natura» e« società » (Kelsen, Society and nature, Chicago 1943, passim). 186 222 impulso etico-sociale, una doverosità 188 per cui il profilo statico diviene addirittura anormale in quanto rende vano quell’impulso. La libertà di azione, qui, è in un certo senso impegnata, almeno finché si tien conto, come si deve, delle radici concrete del fenomeno, a cominciare da quella elementare esigenza economica, che si può anche confinare nella sfera individuale. La libertà del proprietario si può, in astratto, concepire come assoluta; ma in concreto, anche se non esistessero giuridiche, non mancano quelle economiche. Ma quando si tratta della terra, l’interesse (economico) del singolo si trova ad essere sollecitato da quello della società, e gli impulsi, dunque, divengono etici e sociali, al punto che finiscono coll’improntare di sé le norme giuridiche. 44. Il trapasso dal profilo statico, che appare compatibile colla inerzia del proprietario, a quello dinamico, che reclama l’attività e il lavoro, si coglie dunque in modo particolare in rapporto alla terra. La proprietà terriera, la proprietà rustica, la proprietà del suolo produttivo, si associa al lavoro. Il connubio è spontaneo, si direbbe naturale 189 (meglio si dirà umano): pur se al tecnico del diritto offre difficoltà costruttive. Tanto più intima è la sintesi, infatti, tanto più difficile è l’analisi. Comunque, codeste difficoltà non eliminano il dato obbiettivo, che l’esperienza ha acquisito e preso nella dovuta considerazione. E il problema è sorto quasi inavvertitamente, da quando si è cominciato a parlare (ed ormai comunemente si parla) di proprietà produttrice 190 , e si pone la proprietà a contatto con l’impresa e in primo piano si colloca la figura dell’imprenditore, che diviene assorbente rispetto alla qualità di proprietario. Ben s’intende gli accostamenti verbali non sono vere sintesi concettuali, ma alla soluzione del problema non basta codesto rilievo negativo, poiché non si tratta di avvicinamenti casuali né arbitrari, e si richiede un’accurata analisi, per la piena comprensione del fenomeno. Intanto il fenomeno produttivo, con l’impresa che lo organizza l’imprenditore che lo anima, si impone all’attenzione dello studioso, e non si lascia, solo per il fatto che si presenta prevalentemente come problema (« economico», porre Nota 375: «L’esercizio del diritto trova il suo titolo e le sue condizioni nell’adempimento dei doveri, che ad esso si collegano»: così scriveva già, molti anni or sono, il Cimbali, La nuova fase del diritto civile, III ed., Torino 1985, n. 147, p. 190. 189 Nota 376 : «il lavoro, com’è la causa costitutrice del diritto di proprietà … ne è pure la misura» (Cimbali, op. ult. cit., n. 146, p. 190). 190 Nota 377: Spostando la sua mira dall’oggetto al soggetto, il Finzi, op. e loco ultt. citt., n. 17, p. 171 addita come peculiare argomento di studio «la figura del proprietario-produttore». 188 223 ai margini del diritto 191 . Tale problema ha i suoi innegabili riflessi sul piano giuridico e, specie in rapporto alla proprietà terriera, l’esperienza giuridica concreta gravita verso la combinazione del profilo statico (proprietà) con quello dinamico (produzione). Acquista, nel diritto positivo, valore giuridico l’organizzazione e l’attività che la muove, e «il riferimento normativo si opera verso una serie di enti la cui ragion d’essere finalità è collegata: dall’individuo alle aziende di produzione, alle cooperative, ai consorzi, agli ammassi, alle organizzazioni sindacali e così via» 192. L’unità del fenomeno produttivo si profila nettamente e rivela il suo significato giuridico. Al diritto non è indifferente il fenomeno organizzativo, che vincola, se non assorbe, la proprietà e l’attività del proprietario. «Penetrando l’organizzazione giuridica nell’ambito in precedenza riservato all’individuo, avviene che il riferimento normativo si porta anche sugli organi in una guisa che la vecchia dogmatica non può ritenere » 193. Eppure codesta dogmatica ha posto sulla bilancia tutto il suo peso, impiegando strenuamente lo schema tradizionale della proprietà. Altro è la proprietà — si è detto — altro la produzione, anche se il ciclo produttivo incide la proprietà delle materie prime e degli strumenti. A titolo di proprietà o di altro diritto vengono tutelati «gli interessi di coloro che immettono nel processo produttivo dati beni materiali di cui mantengono la titolarità sia come strumenti della produzione sia come materie prime da trasformare» 194. La produzione come fenomeno economico e l’impresa come organismo produttivo, involgono la proprietà, ma — si dice — questa non perde la sua individualità. Nel contempo si afferma che, durante il processo produttivo, la proprietà sulla cosa in via di trasformazione diviene virtuale 195 . E si passa così dall’uno all’altro eccesso, poiché l’interesse proprietario della materia in trasformazione è sempre ed in atto protetto a titolo di proprietà196. Piuttosto bisogna mettere in giusta luce il fenomeno della trasformazione in prodotto finito della materia altrui, nel quale l’attività produttiva, per virtù propria e del suo svolgimento, diviene modo di acquisto della proprietà (art. 940). Nota 378: Maiorca, Premesse cit. in Jus, II (1941), p. 82. Nota 379: 379 Maiorca, La terra, in Atti del Secondo Congresso Naz. Di Dir. Agr., Roma 1939, p.185. 193 Nota 380: Maiorca, La terra, ivi, p. 185. Sull’importanza e sul particolare valore giuridico dell’organizzazione come fattore determinante del concetto di impresa in generale e di impresa agricola in particolare, Cfr. Cesarini – Sforza, Sui caratteri differenziali dell’impresa agricola, in Riv. di dir. agrario, 1944 – 47, pp. 29 e ss. 191 192 194 195 196 Nota 381: Maiorca, Premesse, loco cit., p. 83. Nota 382: Ceratini-Sforza, Proprietà e impresa, loco cit., p. 373. Nota 383: Maiorca, ivi, pp. 83 – 84. 224 E qui veramente si può affermare che, da un punto di vista tecnico giuridico, «la posizione dell’imprenditore viene a soppiantare quella del proprietario» 197. 45. Ma il fenomeno presenta altri e più imponenti aspetti. L’attività produttiva del proprietario (specie di fondi rustici) acquista rilevanza, a preferenza del semplice titolo formale, nelle ipotesi considerate dall’art. 838 c.c., quando, cioè, il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa. La legge prevede, come sanzione, l’espropriazione. E non è l’unico caso in cui l’espropriazione funge da stimolo dell’attività del proprietario e da sanzione, se il proprietario rimane inerte: insomma, da elemento rafforzativo di un obbligo di agire imposto al privato proprietario (si vedano, in tal senso, l’art. 79 del R.D. 13 febbraio 1933 n. 215) 385. L’espropriazione in questa ipotesi non è il risultato del concreto esercizio di un potere generale dello Stato, subordinato all’accertamento della specifica utilità (o necessità) pubblica, ma piuttosto la realizzazione di una condizione risolutiva della proprietà, la cui fattispecie complessa comprende l’atto espropriativo, col relativo trasferimento (coattivo) ad altro soggetto. Sotto questo profilo, pur con le dovute cautele, si può parlare di proprietà risolubile. […] 48. Indubbiamente il segno delle trasformazioni della proprietà in atto e di quelle in via di prevedibile attuazione, del difficile ed instabile equilibrio tra le idee tradizionali e gli impulsi evolutivi, della crisi, insomma, dell’istituto, è costituito dalla formula descrittiva, al massimo grado generica e non poco ambigua, con la quale si dice che la proprietà ha (o è) una funzione sociale 198. Essa acquista valore di emblema, senza perdere nessuna delle caratteristiche additate, quando si condensa, si stilizza e si presenta quasi come una definizione abbreviata di un atteggiamento dell’istituto che non è additato come particolare, e meno ancora come eccezionale, ma anzi come l’atteggiamento tipico della situazione più importante di proprietà: la proprietà fondiaria. Con duplice sottinteso: che la proprietà fondiaria rappresenta la proprietà per eccellenza; e che essa presenta Nota 384: Maiorca, p. 84. Nota 396: Già nella seconda versione, che è indubbiamente più progredita, la formula veniva adoperata, da qualche scrittore nostro, alla fine del secolo scorso. Così Cimbali, op. ult. cit., n. 46, p. 189: «La proprietà, oltreché diritto e più che semplice diritto individuale, è altissima funzione sociale ». 197 198 225 quella particolare fisionomia che la formula « proprietà-funzione» avrebbe la pretesa di definire, sintetizzando l’esperienza economica sociale e giuridica del nostro tempo, e preparandone l’evoluzione avvenire. Insomma si vuol dire che l’istituto della proprietà trova oggi la sua incarnazione essenziale nella proprietà fondiaria, essenzialmente proprietà di beni produttivi (e non di semplici beni di consumo), e la proprietà fondiaria si caratterizza come proprietà-funzione. Senza dubbio la formula descrive prevalentemente l’aspetto economico-sociale dell’istituto, e spesso chi l’adopera non si preoccupa di determinarne la portata giuridica 199. D’altra parte, non si soddisfano le concrete istanze di una realtà che si impone al sociologo, all’economista, al legislatore, e davanti alla quale, quindi, il giurista non può rimanere indifferente, ove ci si limiti ad osservare che la formula in esame, mescolando insieme interesse pubblico e interesse privato, rappresenta un regresso tecnico nel campo dei concetti scientifici 200 . È troppo ovvia la risposta, che può venire dal campo della politica sociale : il progresso non può fermarsi di fronte alle preoccupazioni della tecnica giuridica, la quale, piuttosto, deve provvedere ad adattare gli schemi concettuali agli istituti positivi 201. La tecnica giuridica, però, ha il diritto e il dovere di procedere con ogni cautela e di mettere in moto tutti i suoi strumenti di controllo dell’uso di codesta formula, e i limiti entro i quali tale uso possa ritenersi opportuno. Vigente il Codice Civile del 1865, era abbastanza facile proscrivere la formula «proprietà-funzione» dal linguaggio tecnico. Ma durante l’elaborazione dei progetti del Libro della Proprietà del Codice nuovo, si prospettò la possibilità di inserire la formula stessa in seno alla definizione legale della proprietà. Furono sollevate non poche obbiezioni, nelle quali si rispecchiavano non soltanto i diversi punti di vista, ma anche le preoccupazioni degli interlocutori, e la discussione fu piuttosto vivace e poco ordinata. Non molti la mantennero sul piano tecnico; tuttavia si pervenne a fare rilevare che l’innesto di quella formula in seno alla definizione legale della proprietà, se la formula doveva assumere un significato preciso e specifico e la definizione doveva avere funzione normativa, poteva produrre come conseguenza la più radicale trasformazione della natura della proprietà: da diritto soggettivo a interesse legittimo 202. La formula, però, non fu inserita nel testo legislativo. E poiché continuava a circolare, potè essere adoperata a designare un 199 200 201 202 Nota Nota Nota Nota 397 […]. 398 […]. 399 […]. 400: Pugliatti, Istituzioni, V, pp. 172 e ss. 226 aspetto particolare della proprietà fondiaria: la proprietà onerata da obblighi. Mentre veniva designata come «proprietà funzionale», la proprietà di beni adibiti all’adempimento di una funzione pubblica (beni demaniali) 203. I due aspetti dell’istituto venivano distinti in modo da non rompere l’equilibrio tra idee ricevute ed esigenze moderne e da evitare che il concetto tradizionale di proprietà entrasse decisamente in crisi. Si attribuiva alla «funzione» una operatività in seno allo stesso diritto, rispetto a quella proprietà che veniva denominata perciò funzionale, e cioè ad un aspetto tradizionale e di comune esperienza: la proprietà demaniale; mentre quanto all’aspetto più moderno, si faceva operare la funzione dall’esterno: al proprietario spetta sempre la signoria sulla cosa, ma egli, in quanto tale, assume obblighi verso lo Stato, sicché alla situazione soggettiva reale, si lega, in un determinato punto, un rapporto di natura personale 204. Restava, però in ombra la viva e palpitante fenomenologia che l’uso comune di quella formula voleva designare, e cioè quel complesso di esigenze che richiedono soddisfazione e quella serie di disposizioni speciali nelle quali esse, sia pure parzialmente, erano state soddisfatte. Era, dunque, facile rilevare che l’attribuzione di un significato del tutto particolare alla detta formula era quanto meno discutibile 205. Intanto essa ha trovato la sua consacrazione in un testo di legge fondamentale: l’art. 42 della Costituzione. Si afferma qui il riconoscimento e la garanzia della « proprietà privata » ad opera della legge, cioè si affida alla legge il compito (e si riconosce il potere) « di stabilire le norme generali sul riconoscimento e sulle garanzie dell’istituto»; sicché la Costituzione riserva alle leggi ordinarie la funzione « di regolare la materia stabilendo fin dove, fin quando e in quali limiti vi debba essere, e in che modo debba esistere, la proprietà» 206. Correlativamente è riservata alle leggi ordinarie la determinazione dei modi di acquisto e di godimento, nonché dei limiti della proprietà privata. E a questo punto si enuncia un duplice fine : « di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Anche la seconda è una finalità di ordine sociale: la generalizzazione o diffusione della proprietà, non già come astratta possibilità giuridica, bensì come concreta attuazione economica, tende, per un aspetto di rilevante portata, ad attuare il principio della «pari dignità sociale» dei cittadini, posto dall’art. 3 della Costituzione. Questa finalità, per quanto generica, è univoca. Viceversa la prima è poliedrica e si direbbe Nota 401 […]. Nota 402 […]. 205 Nota 403: Barassi, Proprietà cit., p. 454, nota 218. 206 Nota 404: Esposito, Note esegetiche sull’art. 44 della Costituzione, in Riv. di dir. agr., XXVIII (1949), I, p. 158. 203 204 227 addirittura indeterminata: tanti sono gli aspetti sotto i quali può concretarsi una funzione sociale, la quale avrà non solo varia rilevanza specifica, ma potrà avere rilevanza in funzione dell’importanza che l’elemento sociale acquista in un determinato momento agli occhi del legislatore (ordinario). Non si può dire, tuttavia, che ciò che si indica con l’espressione «funzione sociale» resta, pel momento, privo di portata pratica, sostenendo che la norma costituzionale sia di natura programmatica. Il principio della massima attuazione della Costituzione 207 , impone che si attribuisca anche a codesta norma una efficacia normativa in atto, e non è difficile identificare la portata normativa della regola citata, proprio in base alla concreta esperienza del diritto vigente. Essa, intanto, costituisce il cemento, l’idea unificatrice, il principio sistematico organizzatore che come tale supera l’episodio, scioglie i limiti della disposizione eccezionale, pone i nessi tra le disposizioni particolari e colma lacune, rispetto a tutte le norme nelle quali si può vedere una concreta e specifica attuazione di esigenze di carattere sociale a mezzo del diritto di proprietà. Correlativamente, costituisce non solo un’attribuzione di poteri al legislatore ordinario, in base alla quale si potranno ritenere conformi alla Costituzione tutte le norme che tendano all’attuazione della funzione sociale, bensì l’imposizione di un obbligo di produrre leggi, per il conseguimento di quello scopo. Di modo che di funzione sociale della proprietà si può ora parlare, sia in relazione alle norme speciali che la realizzano sotto aspetti particolari, che vanno coordinati in un quadro generale; sia in relazione alla tendenza, non più in fatto, bensì in diritto, del nostro ordinamento giuridico, a polarizzare la proprietà verso la realizzazione di finalità sociali. Sotto il primo profilo si può dire che la proprietà ha non soltanto specifiche e particolari funzioni sociali, bensì, in complesso, una funzione sociale, che comprende tutti codesti aspetti particolari ed è capace di accogliere quegli altri che in concreto verranno realizzati. Sotto il secondo, si può dire che la proprietà (se già non è tuttavia) si avvia ad essere (strumento di realizzazione di una complessa e poliedrica) funzione sociale, e che l’impulso a tale radicale trasformazione della sua struttura e della sua natura, opera già dal cuore del nostro ordinamento giuridico e come forza giuridica in atto 208 . E ben comprensibile che la Nota 405: Pugliatti, La retribuzione sufficiente e le norme della Costituzione, in Riv. giur. del lavoro, I (1949-50), pp. 189-190. 208 Nota 406: Il Finzi, op. e loco citt., n. 16, p. 170 (ma in relazione ad uno stadio meno evoluto del diritto positivo), attribuiva alla « pressione politica » esclusivamente, la tendenza ad « indurre i proprietari a farsi o a restare imprenditori, produttori ». A noi pare di aver dimostrato che 207 228 trasformazione si realizzerà in virtù delle leggi che saranno emanate, ma la crisi è in via di svolgimento. E in relazione ad essa acquistano importanza e significato le trasformazioni particolari, così che il primo aspetto finisce coll’abbinarsi al secondo. 49. La tradizione conosceva e tramandava un problema di «limiti» della proprietà terriera, che poneva il dualismo tra un contenuto dato a priori nella sua organica compattezza e particolari riduzioni di codesto contenuto. Quando si parla di contenuto «normale» della proprietà 209, da un lato si supera lo scoglio della determinazione aprioristica, e dall’altro si dà adito al riferimento ad una « regola ». Tale regola non può promanare se non dall’ordinamento giuridico, e allora persiste il dualismo tra codesta regola determinatrice del contenuto, come prius, e le norme particolari dalle quali derivano, come posterius, le singole limitazioni. Queste, per posizione logica, assunsero originariamente carattere negativo, e potevano mantenere tale carattere finché si prospettò il problema in termini oggettivi 210: la proprietà, come istituto, e i limiti (alla proprietà); ma quando, in relazione a certe determinazioni del diritto positivo, non fu sufficiente la considerazione obbiettiva, che lasciava in ombra la posizione del soggetto proprietario, e consentiva di non preoccuparsi eccessivamente del soggetto o dei soggetti, a beneficio dei quali operava il limite; quando cioè si dovette prendere in esame la sfera di libertà del proprietario, ci si avvide dell’insufficienza della precedente elaborazione dottrinale. Bastava che fossero individuati, nel diritto positivo, vincoli attinenti all’attività del proprietario, perché tale insufficienza risultasse immediatamente. Ed anche se, da prima, si potè affermare che codesti vincoli non erano incondizionati, che avevano carattere strumentale, che insomma, appartenevano alla categoria degli oneri, la prospettiva era già cambiata. Il mutamento di visuale si impose più decisamente, quando si lasciarono scoprire nel diritto positivo obblighi veri e propri gravanti sul proprietario. Gli espedienti tecnici non eliminavano, e forse complicavano il problema : così, quando si diceva che l’obbligo si collocava nella cornice di un rapporto personale, connesso alla situazione soggettiva reale 211; o quando si diceva che l’obbligo concerneva l’impresa e non la proprietà 212 . Rimaneva sempre un dato tale tendenza si rende visibile ormai nel campo delle realizzazioni giuridiche. 209 Nota 407: Barassi, Proprietà cit., spec. nn. 104 e ss., pp. 461 e ss. 210 Nota 408 […]. 211 Nota 409 […]. 212 Nota 410 […]. 229 obbiettivo, ineliminabile: il proprietario stava al centro delle due situazioni soggettive, cioè rivestiva la qualità d’imprenditore. Diritto ed obbligo del proprietario, o del proprietarioimprenditore venivano a contatto, si influenzavano reciprocamente. Ne nasceva una entità (non più semplice, ma) complessa, che voleva essere definita proprio in funzione di codesta struttura, la quale non poteva essere scissa nei suoi componenti, se non per via di astrazione intellettualistica, che mai avrebbe consentito un’elaborazione concettuale adeguata al dato obbiettivo e reale. Si guardi, ora, sotto questa luce particolare l’art. 44 della Costituzione, che si riferisce specificamente alla proprietà terriera: vi si parla di «limiti», ma anche e prima di «obblighi» e di «vincoli» ; e dunque il dato già acquisito da esperienze particolari, è assunto in un ambito normativo generale, è posto su un piano sistematico. Anche qui la sistematica è vivificata dal termine teleologico: alla legge (ordinaria) la Costituzione riserva il compito e attribuisce il potere di imporre (l’uso di codesta voce verbale è particolarmente significativo) obblighi e vincoli alla proprietà terriera e di fissarne i limiti di estensione, sotto il segno di determinate finalità sociali : «conseguire il razionale sfruttamento del suolo» e «stabilire equi rapporti sociali». Certo non si tratta di formule a contenuto determinato e specifico, ma anche se esse hanno contenuto generico, o persino indeterminato, costituiscono linee di orientamento, che manifestano tutto il loro valore quando si riaffermi la necessità di assegnare alla norma costituzionale il duplice carattere di norma costitutiva di princìpi sistematici 213, e norma che impone al legislatore ordinario di legiferare per l’attuazione dei fini da essa prefissati. Non può esservi difficoltà ad applicare alla proprietà terriera, sotto il segno di codesta norma, la formula «proprietà-funzione» : l’art. 44 e l’art. 42 della Costituzione sono strettamente legati tra loro. 50. Il nucleo interno del diritto di proprietà è ormai aperto alle influenze trasformatrici. La struttura stessa del diritto viene ad es seme intaccata, e muta la natura di esso. Gli esempi particolari si potrebbero moltiplicare agevolmente: ma conviene limitarsi soltanto alle situazioni tipiche. Può ancora rendere qualche utile servizio la formula «proprietà-funzione», proprio per il fatto che in essa vengono a gravitare le resistenze dei prudentissimi. Questi ultimi hanno accolto la formula, ma come Nota 411: Non è necessario neppure insistere troppo per mettere in rilievo il valore sistematico dei riferimenti contenuti in codesta norma alla bonifica, alla trasformazione del latifondo, alla ricostituzione delle unità produttive, alla piccola e media proprietà. Si è compiuto un altro passo, rispetto a quello già compiuto dagli artt. 840 e ss. del Codice Civ. vigente, in relazione al Codice del 1865. 213 230 ragione di compromesso, quasi potesse essa medesima porsi, ad un certo punto, come ostacolo insormontabile. Si è parlato di funzione sociale impulsiva, in un senso piuttosto paradossale, poiché l’aggettivo appare carico di energie evolutive capaci di porre in crisi l’istituto della proprietà, e invece viene adoperato per esprimere la subordinazione del momento sociale, e quindi della funzione sociale, al momento individuale, alla iniziativa privata 214 , che dovrebbe costituire sempre il baluardo insuperabile e l’invincibile roccaforte in cui l’istituto della proprietà si è rinserrato, ponendosi al coperto da qualsiasi attacco. La posizione prescelta consente di acquietare due preoccupazioni : che la proprietà possa dirsi, essa medesima. Una funzione (essa — si dice — ha una funzione sociale, e persino generica e indeterminata) 215 ; e che la proprietà possa definirsi un diritto-dovere 216 (essa, al massimo subisce dall’esterno l’impulso di particolari doveri). Ma si parla, correlativamente, anche di funzione sociale-limite 217 , con una formula che indica chiaramente l’operatività esterna della funzione rispetto alla struttura dell’istituto. Inoltre, suddivisa in due rami, codesta funzione perde gran parte del suo mordente. Del resto, si è visto a che cosa si riduce la funzione impulsiva; la funzione-limite, poi, si può fare rientrare, almeno concettualmente, nella tradizione, che conosce la teoria dei limiti della proprietà, ed ha persino approntata da tempo immemorabile la riserva della indeterminatezza di tali limiti, sia nella loro quantità, che in astratto può crescere indefinitamente, sia per il loro contenuto specifico, che in astratto può essere il più svariato. Così, con un procedimento tipico della tecnica giuridica, la quale elabora concetti a contenuto variabile, perché ha da fare con una realtà che non può essere guardata solo dal punto di vista statico 218 , la valvola sistematica è pronta, e il tecnico, di fronte ad una realtà sociale del tutto nuova e ad una legislazione intesa a soddisfare nuovissime esigenze, può (fingere di) ritenere che il suo quadro concettuale è rimasto, può rimanere immutato, senza il minimo ritocco. Tuttavia vi sono mete e svolte che non consentono tale distaccata sicurezza: e ciò, sia che si faccia riferimento alla funzione sociale impulsiva, sia che si faccia riferimento alla funzione sociale limite. 214 ss. 215 216 217 218 Nota 412: È la nota tesi del Barassi, op. cit., nn. 74 e ss., pp. 265 e Nota Nota Nota Nota 413 414 415 416 […]. […]. […]. […]. 231 51. Quanto alla cd. funzione impulsiva, conviene prendere in considerazione la legislazione sulle terre incolte 219 . Sarà facile prospettare la situazione della proprietà terriera come risultante dalla rilevanza specifica che la legge attribuisce a codesta funzione impulsiva; e altrettanto facile appigliarsi alla descrizione, che diremo conservatrice, di essa. Al centro sta l’istituto della proprietà, animato dall’iniziativa privata, garantita e libera (art. 41 Cost.). Dall’esterno preme non già un dovere, bensì un onere di coltivazione. L’equilibrio, cosi, è mantenuto, e non ci si allontana molto dagli schemi tradizionali. Ma il fenomeno è visto in superficie, poiché non si tiene conto della interferenza dei poteri che competono alla pubblica Amministrazione, per la realizzazione di un pubblico interesse specifico, poteri che possono sovrapporsi al diritto del proprietario e prevalere sull’iniziativa privata. Il diritto di proprietà, così viene a trovarsi di fronte al potere discrezionale della P.A., al quale la legge assicura la prevalenza; la libertà si trova di fronte all’autorità incombente. E in questa particolare situazione, che praticamente ha una portata di carattere generale, il diritto (soggettivo) del proprietario (il diritto reale fondamentale, indipendente, assoluto della tradizione) degrada a interesse legittimo o diritto affievolito 220. Una trasformazione più radicale, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico e della nostra tradizione anche dottrinale, non si potrebbe immaginare. Ed è vano cercare di velare la realtà o addirittura di svisarla. Il tentativo più spinto ed acuto di difesa dell’integrità del diritto di proprietà, fa leva sul fulcro della nozione di discrezionalità. Discrezionalità «nel significato dato oggi al termine dalla dottrina», si ha quando « i dati tecnici siano da valutare in relazione ai pubblici bisogni ». Ma la valutazione dello stato delle colture ha come termine di riferimento la possibilità di praticare « colture e metodi colturali pili attivi ed intensivi, in relazione anche alle necessità della produzione agricola nazionale » (art. i D.L.C.P.S. 6 settembre 1946, n. 89 che modifica l’art, 1 del D.L.L. 19 ottobre 1944, n. 279). Quindi si può ritenere che l’atto amministrativo «non si propone di provvedere alla pubblica economia agricola, ma solo di attuare la norma di legge che impone l’adeguato sfruttamento dei terreni » 221. Nota 417 […]. Nota 418: Landi, Diritti ed interessi nella concessione di terre incolte ai contadini, in Riv. di diritto agrario, 1944-47, pp. 139 e s.; Rassegna di giurisprudenza agraria etc., in Riv. di dir. agr., XXIX (1951), II, n. 38, pp. 165 e s.; Vitta, Principi fondamentali sulla concessione di terre incolte ai contadini, in Riv. Di dir. agr., XXX (1952), I, n. 6, pp. 19 e s. 221 Nota 419: U. Miele, Sulle Commissioni per l’assegnazione delle terre incolte ai contadini, in Giur. Compl., della Corte Sup. di Cass., 1948, III, p. 970. 219 220 232 Potrebbe a prima vista apparire strano che la P.A. avendo i compito di attuare la norma legale che propone l’adeguato sfruttamento dei terreni, quando adempia a questo compito, non provveda alla pubblica economia agraria. L’adeguato sfruttamento dei terreni, dunque, non rientra nell’ambito della pubblica economia agraria. Ma si tratta di altro. Qui si vuol dire che la P.A. non compie un atto che possa dirsi discrezionale 222, perché esso non trae la sua legittimità da un potere di valutazione immediata del dato e dell’esigenza economica; bensì un atto vincolato, perché trae la sua legittimità dall’attuazione della norma legale che impone l’adeguato sfruttamento dei terreni. Ma codesta costruzione che vuole essere puramente tecnica, non è fedele alle esigenze di un rigore tecnico adeguato. Non discutiamo — e potremmo farlo — la formula definitoria della discrezionalità. Dobbiamo, però, rilevare che, qualunque sia la formula adottata, nello stato di diritto, la discrezionalità non è libera da qualsiasi contatto colla legge. La stessa concessione del potere discrezionale deve discendere dalla legge, la quale dovrà delimitare la sfera nella quale il potere si eserciterà legittimamente. L’attività dell’amministrazione sarà vincolata, quando in essa la norma potrà dirsi immediatamente attuata, quando l’atto sarà libero nella decisione, ma non nella valutazione di quella medesima esigenza che la legge vuole realizzata. Ora nella situazione di cui ci occupiamo l’amministrazione ha il potere di valutare le necessità della produzione agricola nazionale, e di subordinare al risultato di tale valutazione l’atto (amministrativo) di concessione. Tra l’attuazione della legge, dunque, e l’emanazione dell’atto, si interpone la valutazione dell’amministrazione, che non si può davvero considerare come vincolata. Basterebbe l’ampiezza della sfera valutativa, in relazione all’indeterminazione della norma legale 223 , per offrire un indice abbastanza attendibile della discrezionalità di detto potere. Ma anche se lo schermo formale potesse valere, anche se, in tesi puramente teorica, si potesse considerare l’attività dell’amministrazione come vincolata, anziché discrezionale, si avrebbe soltanto la soddisfazione, piuttosto modesta, di poter continuare ad affermare che, pure sotto il profilo considerato, la proprietà dà luogo ad un diritto soggettivo. Senonché codesto diritto soggettivo, non avrebbe la possibilità che esso ha normalmente di sottrarsi al potere della pubblica amministrazione: cioè si comporterebbe come un interesse 222 223 Nota 420 […]. Nota 421 […]. 233 legittimo. Tutto quello che si può, in extremis, salvare è… una formula ficta! Dobbiamo ancora chiarire un punto sull’argomento di cui ci stiamo occupando. È stato ritenuto che, in virtù delle norme in esame, il diritto di proprietà degrada a interesse legittimo, quando viene emesso l’atto di concessione 224 . La tesi non ci sembra del tutto corretta. Noi riteniamo che la trasformazione si operi nel momento in cui si concretano le condizioni obbiettive dalle quali si può desumere che il terreno è incolto o mal coltivato. In quel momento diviene virtualmente operativo il potere discrezionale della P.A., che si esercita in atto, appena venga proposta l’istanza di assegnazione. I terreni incolti o mal coltivati sono cose rispetto ai quali il diritto di proprietà vive nell’orbita del potere discrezionale della P.A.; si può dire quindi che la proprietà dei terreni incolti o mal coltivati sia (non già un diritto soggettivo, ma) un interesse legittimo. 52. I limiti che si sono venuti accumulando, specie relativamente alla proprietà terriera, rappresentano, singolarmente e nel loro complesso, le istanze più vive ed immediate dell’interesse collettivo rispetto alla terra. Anzi proprio l’interferenza di codesto interesse con quello (individuale) del proprietario, che tanto viene sacrificato quanto l’interesse collettivo è protetto, ha suggerito il concetto di «limite», come espediente tecnico che, esprimendo le idee accessorie di esteriorità, eccezionalità e specificità, poteva consentire di mantenere in vita il concetto individualistico della proprietà, nel suo «contenuto normale» 225. E a ben guardare, qualunque fosse la natura, l’estensione e il modo di protezione degli atteggiamenti specifici dell’interesse collettivo, vi era sempre la possibilità di utilizzazione del docile strumento : il concetto stesso di limite, per la sua struttura, che ne consente facilmente lo spostamento, e per la sua peculiare funzione, sostanzialmente negativa, era suscettibile di estensione quasi…illimitata. Vi era, inoltre, la possibilità di considerare isolatamente ognuna di codeste limitazioni. Così dalla cooperazione armonica di un procedimento atomistico e di uno strumento docile, pieghevole ed estensibile, nasceva un criterio sistematico applicabile quasi meccanicamente ad ogni nuovo episodio di inserzione degli interessi collettivi nell’ambito della proprietà. Naturalmente alle sistemazioni che ne derivano sfuggiva tutta la ricchezza e l’attualità di ogni riforma, di ogni svolgimento, di ogni nuova funzione dell’istituto: e ad un certo punto ci si dovette accorgere che, sotto la mole enorme di limitazioni, il nucleo originario della proprietà, intesa in senso 224 225 Nota 422[…]. Nota 423 […]. 234 tradizionale, era scomparso, e rischiava di rimanere soffocato; che la quantità di codeste limitazioni, di contenuto svariatissimo, era tale da impedire che si scorgessero le linee che ne caratterizzavano la tradizionale fisionomia. La proprietà, secondo il modello che ci si ostinava a mantenere in vita, coll’apparente protezione dello schermo del limite, era morta ed era stata sepolta, senza cerimonie e senza onori. Per il fatto semplicissimo che il preteso schermo protettivo, ad un certo punto, aveva spiegato soltanto la funzione di impedire che si avesse gradualmente la precisa visione delle trasformazioni che si operavano nell’interno dell’istituto. Se ci si fosse abituati in tempo a considerare tali trasformazioni, non ci sarebbero state sorprese; e infine non ci sarebbe stato il troppo brusco risveglio di fronte ad una realtà che, apparendo completamente diversa da quella alla quale si era rimasti attaccati, doveva necessariamente far pensare al tramonto della proprietà, alla morte, e non già alla sua persistente vitalità, reale nell’unico modo in cui può esserlo, e cioè al passo colla realtà storicosociale nel suo divenire perenne. A tempo, sopra tutto, ci si sarebbe accorti che le riserve del concetto di limite si andavano esaurendo, e il tentativo di utilizzare tale concetto oltre l’ambito di codeste risorse, non poteva non dare luogo ad illusioni, ad equivoci, a deformazioni. Questo capitolo di storia della evoluzione dei concetti giuridici non richiede, e specialmente ai fini del presente lavoro, uno svolgimento particolareggiato; ma neppure si poteva fare a meno di un semplice accenno. […] IV. – Considerazioni finali 57. Il nostro giro di orizzonte ci ha consentito di constatare che entro la cornice di quell’istituto (o complesso di istituti) che si indica col termine proprietà, si raccolgono situazioni assai differenti, sotto diversi punti di vista. Dal profilo soggettivo si è visto che la proprietà solitaria di tipo romanistico, alla quale si accompagnava il condominio del medesimo tipo, ha ceduto parte del suo territorio non solo alla comunione di tipo germanico, ma addirittura alla proprietà collettiva. Dal profilo oggettivo si è visto che la proprietà dei beni di maggiore importanza sociale: immobili e mobili registrati, suolo, terra coltivabile, ha segnato la progressiva e crescente invasione della sfera privatistica da parte di quella pubblicistica. Si è pure registrata la progressiva prevalenza del profilo dinamico su 235 quello statico, nella disciplina della proprietà passando dai beni di consumo personale a quelli destinati alla produzione, e specialmente al suolo coltivabile. E si è avuto agio di registrare i contatti e le reciproche reazioni tra proprietà e impresa, proprietà e lavoro, proprietà e contratto. L’esame di codesti profili ci ha permesso di censire particolari situazioni alle quali si adattano formule particolari: proprietà funzionale, proprietà funzione, proprietà risolubile, proprietà formale. Proprietà condizionata, proprietà fiduciaria, e così via dicendo. Si è persino riscontrata qualche ipotesi in cui la proprietà degrada a interesse legittimo. Tutte queste situazioni sono caratteristiche per sé, ma ancora più per la fisionomia che la loro presenza imprime al panorama generale della proprietà. Così, alla fine del nostro giro, ci domandiamo, come al principio: si può parlare della proprietà come istituto unico, con svariatissimi aspetti, o l’unica etichetta costituita dal sostantivo tradizionale, indica istituti autonomi, più o meno affini? In altra occasione, anni or sono, parlavamo di « gradi » (o aspetti) della proprietà226; oggi non ci sentiamo di adagiarci su di una troppo sicura e facile affermazione, e richiamiamo su questo tema l’attenzione degli studiosi. Riteniamo che non si tratti soltanto di una questione terminologica, e neppure di una questione di pura sistematica concettuale. Anzi, se non ci inganniamo, si tratta della questione fondamentale che il giurista oggi deve affrontare, occupandosi della proprietà. La risoluzione di codesta questione, affrontata senza pregiudizi né preconcetti, potrà chiarire molte confusioni, eliminare scorie e residui di nessuna utilità, aiutare a identificare le tendenze legislative e la portata delle norme positive, preparare la via alla legislazione futura e il terreno alle riforme in via di studio o di attuazione. Insomma, proprio in questo campo, e proprio in questo punto, il teorico del diritto e il pratico, lo studioso e il legislatore devono non solo augurarsi, ma cercare di attuare concretamente, quella collaborazione nella quale la funzione dell’uno e quella dell’altro ritrovano la comune radice da cui devono trarre l’alimento. Senza pretendere di risolvere il grave problema, non sarà inutile il tentativo di precisarne i termini e di offrire qualche indicazione. 58. L’autonomia di un determinato istituto giuridico riflette. Con maggiore intensità e concretezza, la fondamentale esigenza pratico-sistematica che sta a base della distinzione dei vari rami del diritto o delle varie sfere dell’ordinamento giuridico: specialmente della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato. Ora proprio con riferimento a codesta fondamentale 226 Nota 428: Pugliatti, Istituzioni, V, cit., p. 21. 236 distinzione, qualunque sia il criterio tecnico che si voglia adottare (criterio soggettivo od oggettivo; formale o sostanziale; concettuale od empirico), e persino anche se si voglia negare la base razionale della distinzione, non si può eliminare un dato obbiettivo di esperienza: la particolare rilevanza dell’elemento teleologico o funzionale, che si può indicare col termine «interesse». Si fa presto a considerare l’elemento teleologico estraneo ai concetti giuridici, intesi come concetti puri e formali, ma non si riuscirà mai a staccare codeste proiezioni bidimensionali nel piano dei fenomeni che hanno una terza dimensione, che è appunto costituita dal nucleo teleologico, al quale questi schemi rimangono sempre legati. Si parlerà di momenti economici dei fenomeni giuridici, per poterne affermare, attraverso la distinzione apoditticamente data, l’irrilevanza 227 , ma non si riuscirà a vanificarli. Il momento economico, infatti, costituirà la materia che la norma giuridica plasmerà nello schema protettivo o tipo di tutela predisposto; sì che se codesto momento si vorrà considerare come episodio di preistoria giuridica, sotto il profilo genetico, si dovrà sempre considerare come fulcro di una evoluzione dal grezzo fenomeno economico allo schietto fenomeno giuridico: e dall’uno all’altro vi è trasfigurazione, dunque processo continuo, e non già taglio reciso. Se la tutela giuridica è forma che plasma una materia economica. Non è dubbio che essa medesima in codesta materia trova il suo contenuto, magari purificato o decantato nella sintesi con quella forma. Sicché non si può tracciare il profilo di un istituto, se non si proceda alla identificazione degli interessi che il legislatore ha inteso tutelare. La struttura è legata alla funzione, e reciprocamente: lo studio separato dell’una o dell’altra, giustificato per ragioni pratiche, non si può spingere oltre un certo segno, ed ha sempre bisogno di integrazione. Quando si voglia porre la questione dell’autonomia di un istituto. non solo appare evidente, in astratto, l’insufficienza della considerazione strutturale, che è certamente unilaterale, ma non ci vuole molto ad intendere che la considerazione funzionale si colloca spontaneamente in primissimo piano 228 . Non soltanto la struttura per sé conduce inevitabilmente al tipo che si può descrivere, ma non individuare, bensì inoltre la funzione esclusivamente è idonea a fungere da criterio d’individuazione : essa, infatti, dà la ragione genetica dello strumento, e la ragione permanente del suo impiego, cioè la ragione d’essere (oltre a quella di essere stato). 227 Nota 429: Sul tema cfr. Ascarelli, Studi di diritto comparato etc, Milano 1952, p. XXVIII, in nota. 228 Nota 430 […]. 237 59. La base verso cui gravita e alla quale si collegano le linee strutturali di un dato istituto, è costituita dall’interesse al quale è consacrata la tutela. L’interesse tutelato è il centro di unificazione rispetto al quale si compongono gli elementi strutturali dell’Istituto: esso, dunque, funge da principio d’individuazione 229. La più semplice applicazione di codesto criterio condurrebbe alla seguente formulazione della regola per la determinazione dell’autonomia di un dato istituto: l’identificazione di uno specifico interesse garentisce l’autonomia dell’istituto nato dalla protezione giuridica accordata a tale interesse. La regola potrebbe essere ulteriormente chiarita, in base alla specificazione seguente: l’autonomia resiste entro i confini della tutela accordata all’interesse identificato. Difficilmente, però, si riscontrano situazioni pratiche semplici e facilmente schematizzabili. È normale la combinazione di vari interessi, anche di vari ordini (interessi pubblici e privati) e di diversa rilevanza (principali e accessori). Allora, pur sul piedistallo dell’interesse fondamentale oggetto della tutela, si collocano diversi centri o piani d’interessi, ai quali viene accordata idonea tutela. L’istituto acquista una struttura complessa e si presenta sotto una pluralità più o meno ricca di atteggiamenti. La questione dell’autonomia, quindi, si complica: non si tratta più di autonomia esterna, cioè di individuazione rispetto ad altri istituti, già individuati, ma di autonomia interna, cioè di determinazione delle relazioni tra i vari atteggiamenti di un istituto già individuato. Si tratta di stabilire fino a che punto il vincolo che tiene avvinti codesti aspetti particolari resiste, e l’originaria struttura dell’istituto mantenga, quindi, il suo equilibrio. Anche per codesto aspetto della questione, più che la struttura. Bisogna interrogare la funzione: determinare cioè il tipo e il grado di relazione tra i diversi interessi oggetto della tutela giuridica. È ovvio che la tutela di interessi che appaiono secondari o accessori, o comunque subordinati e legati a quello principale, in modo che esso mantenga (e fino a che mantenga) la sua forza attrattiva o potere di gravitazione, determina soltanto varietà fisionomiche o diversità di atteggiamenti di un istituto che conserva la sua unità. La tutela di interessi concorrenti, aventi la medesima importanza, ma praticamente solidali, può dar luogo ad una ambivalenza o plurivalenza Nota 431: Il Betti, Falsa impostazione della questione storica etc, in Riv. ital. Per le scienze giur., 1951, p. 101 riconosce che « la differenza del contenuto sociale o economico, cioè del tipo di interesse tutelato dal diritto, possa determinare una digerente struttura del rapporto giuridico (e c^uindi dd diritto soggettivo ». 229 238 dell’istituto, che tuttavia non ne compromette l’unità. Vi è poi una ulteriore situazione tipica: quella in cui il legame tra gli interessi protetti si allenta progressivamente e infine si scioglie. In questo caso si ha una scissione dell’originario istituto, e non si può parlare di unità. Può soltanto, e fino ad un certo punto, essere opportuno mantenere le due nuove unità entro la medesima cornice, perché la genesi comune, se non è sufficiente a tenere legati i due istituti come fratelli siamesi, non esclude il legame di parentela, che può avere il suo peso. E, per continuare ad utilizzare l’immagine, a mano a mano che l’evoluzione si fa più decisa e si accresce l’autonomia dell’istituto derivato, si attenua, degradando, il legame di parentela, finché esso perderà ogni valore, a causa del grado ormai troppo remoto. Alla prudenza e alla sensibilità del giurista è affidato l’apprezzamento concreto dei limiti entro i quali la comune genesi di due istituti, ormai autonomi, possa essere presa in considerazione ai fini della loro sistemazione. 60. Rimanendo sul piano delle semplici indicazioni, possiamo tuttavia venire a considerazioni più particolari. La proprietà privata individuale, nel suo schema classico, che si realizza unicamente in relazione ai beni di consumo (ed entro una cerchia alquanto ristretta), si può considerare come la cellula dell’istituto. O piuttosto come organismo monocellulare. Il centro di gravitazione della tutela giuridica da cui nasce, è costituito dall’interesse alla totalità delle utilizzazioni della cosa, rispetto al quale si esclude la concorrenza di ogni altro interesse. La tutela di codesto interesse, massimamente esteso e interamente isolato, assicura al soggetto che ne è portatore un potere indeterminato e tendenzialmente totalitario, nonché correlativamente esclusivo sulla cosa. Il modo della tutela garantisce l’autonomia del soggetto circa l’utilizzazione e i modi di essa. Tosto che si profila la presenza e la possibilità di coesistenza di altro, uguale interesse individuale, degno ugualmente di protezione, il paradigma si altera profondamente. Le difficoltà costruttive della contitolarità nel condominio, sono il riflesso delle complicazioni di base. La comunione degli interessi, non si può mai ridurre ad unità semplice, poiché risulta dalla concorrenza dei singoli interessi, composta in equilibrio dalla necessità di Coesistenza. L’elasticità, o meglio la capacità espansiva dello schema concettuale elaborato sul modello della proprietà solitaria, comincia ad essere messa a non facile prova. E se ne avvertono immediatamente i riflessi pratici: nel condominio l’iniziativa circa il modo di utilizzazione della cosa, non gode della medesima libertà della quale godeva nella 239 proprietà solitaria. E non si tratta soltanto del limite derivante, quasi per forza di cose, dalla convergenza di più libertà di uguale natura, bensì addirittura della pressione e della spinta che l’interesse comune, realtà pratica giuridicamente riconosciuta, pur se in limiti rigorosi, esercita sui singoli interessi individuali: la volontà della maggioranza, legittimamente deliberante nell’ambito della sua competenza, è espressione dell’interesse comune, che prevale sulle disparate e disgregate tendenze degli interessi dei singoli individui. Nella proprietà collettiva il gruppo costituisce già di per sé un dato oggettivo, rilevante socialmente e giuridicamente, così che dalla pluralità dispersa degli interessi singolari non solo si è pervenuti alla prima manifestazione unitaria dell’interesse comune, ma già si profila e subito fa sentire la sua influenza lo scopo comune, che attrae gli interessi compresenti, e ne assicura la realizzazione secondo una norma che supera l’episodio e tende a garantire la permanenza nel tempo. L’impulso dinamico aggiunge un’altra variabile all’equazione della proprietà. L’affermarsi dello scopo comune, rispetto al quale le utilizzazioni della cosa degradano a mezzo, e nel tempo stesso si coordinano e polarizzano, per assicurarne il conseguimento, inserisce nello schema della proprietà l’elemento dell’ attività. È questo il primo contatto tra i due termini : proprietà e attività umana, collegati al conseguimento di un fine determinato; la proprietà mossa al fine, e l’attività intelligentemente organizzatrice del processo, cioè lavoro. Il binomio diventerà sempre più stretto e lo schema concettuale più complesso: anzi, composito in principio, e poi in alcune combinazioni, nelle quali i due termini, difficilmente dosabili, non trovano la formula risolutiva della combinazione armonica; ma poi, in altre ipotesi, trasfigurato dal termine attivo, dal lavoro, che è portatore d’interessi e finalità non soltanto di gruppo o genericamente collettivi, bensì di schietta natura sociale. Basta questa semplice e rapida, e necessariamente indeterminata graduazione, a dimostrare come, passando da un gradino all’altro, da una combinazione all’altra di interessi che si intendono tutelare, il paradigma della proprietà subisce modificazioni notevoli nella sua funzione e nella struttura. Specialmente quando viene a contatto con altri istituti di notevole importanza sociale od economica, quali la famiglia, la società, il lavoro, i quali esercitano la loro forza di attrazione e fanno sentire la loro influenza, al punto che, a volte finiscono per ridurla nella propria orbita. La proprietà pubblica gravita addirittura sull’interesse pubblico, o meglio su interessi che sono dell’intera comunità nella coesione sistematica della sua massima organizzazione giuridico 240 politica. Interessi vari in numero e contenuto e variabili, col mutare di tempi e contingenze, assai più di quelli privati, che neppure essi, però, sono immutabili. Da qui la variabilità della consistenza del diritto di proprietà, come fu rilevato in generale pubblica più per qualsiasi diritto 230; e della proprietà sensibilmente, per l’intreccio che in essa si nota degli interessi pubblici, senza escludere la presenza di quelli privati 231. Anche rispetto ai beni demaniali, infatti, si riscontra la tutela degli interessi privati, in varia misura ed intensità: dalla garanzia del comune uso diretto, alla autorizzazione o concessione di usi particolari od eccezionali. E s’intende che assume aspetti diversi, e notevolmente, la proprietà demaniale nella quale si puntualizza e si condensa un preciso interesse pubblico, esclusivo di ogni altro, e correlativo ad una funzione pubblica, anch’essa esclusiva (come la funzione statuale della difesa del territorio nazionale), da quella nella quale la stessa funzione pubblica si realizza unicamente mediante la garanzia del migliore godimento della cosa da parte dei cittadini. Ma su questa linea specifica, si può rinvenire la situazione perfettamente opposta: quella, cioè, nella quale la proprietà privata subisce l’innesto del pubblico interesse, che richiede attuazione. Così che l’autonomia del proprietario si trova ad essere condizionata, e l’attività di godimento sollecitata non solo, ma anche orientata, almeno in relazione a certe finalità di indole generale. E secondo la natura e l’importanza di codesti pubblici interessi, e le svolte alle quali il proprietario si venga a trovare, il suo diritto di proprietà, non ancora spoglio di attributi che ormai hanno per lo più valore di memorie, venga degradato ad interesse legittimo: il peso delle finalità e degli interessi pubblici si definisce mediante la creazione di un potere discrezionale della pubblica amministrazione, che ormai si associa come un’ombra al diritto del proprietario. Aumentando l’intensità, almeno in situazioni tipiche, dell’esigenza che sta a base del pubblico interesse, si giunge all’espropriazione, che diviene strumento stabile per la realizzazione di quelle esigenze, fuori della contingenza episodica. E a volte, strumento succedaneo per assicurare, anche come sanzione, l’attuazione dell’interesse pubblico, quando il proprietario abbia dimostrato inettitudine o resistenza. Si guardi un altro aspetto: la scissione della sintesi, nei due atteggiamenti, con gradazioni varie di autonomia, della proprietà formale e della proprietà sostanziale. E già in due posizioni tipiche: o che la proprietà piena si svuota del suo contenuto, che si rende autonomo; o che la proprietà formale si renda 230 231 Nota 432 […]. Nota 433 […]. 241 necessaria come momento di legittimazione. Attorno ai due poli si raccolgono interessi diversi, che richiedono ed ottengono tutela. Per il secondo aspetto, la linea evolutiva si svolge dalle varie situazioni fiduciarie, nelle quali l’interesse privato che ne suggerisce l’adozione e reclama il riconoscimento, trova una remora in esigenze ben note di carattere collettivo; alle investiture in proprietà di enti pubblici, con carattere di temporaneità e specifica funzionalità, s’intende ispirata ad interessi pubblici, che si nutrono della presenza attiva di interessi privati collettivi, di gruppo, di categoria, di classe: insomma di interessi di natura sociale, che possono addirittura, più o meno direttamente, o soltanto indirettamente, riguardare l’intera comunità nazionale, o comunità più ristrette, ma collegate solidalmente, come quelle regionali (si pensi alle esigenze della produzione, e specialmente di quella agricola : e qui ancora si avverte l’innesto del lavoro sul tronco della proprietà). Come è facile vedere, si registra uno spostamento del centro di equilibrio, dall’uno all’altro polo: dalla proprietà formale, che simula e nasconde la scissione da quella sostanziale, alla proprietà creata dalla legge come puramente formale. Con una sua specifica funzione, alla quale, appunto, si adatta la particolare configurazione. Proprietà manifestamente ed esclusivamente formale, proprietà-legittimazione, quale titolo per l’adempimento di una pubblica funzione, e l’esercizio di pubblici poteri connessi, e il programmato compimento di correlative attività. E da questa situazione, strumentale e transitoria, nascono altre situazioni di proprietà, più o meno piene, nelle quali ovviamente si riscontrano combinazioni e mescolanze in vari dosaggi di interessi pubblici e di interessi privati. Quanto al primo aspetto, è da avvertire l’importanza che va assumendo, e non solo dal profilo pratico, l’idea generale di «appartenenza», definita da qualcuno come «soggezione alla disponibilità» 232, s’intende nel più lato senso, e insieme entro i limiti della tutela giuridica. Si è pure detto che l’appartenenza si guarda in relazione ai vari diritti reali: proprietà, enfiteusi, usufrutto e servitù 233. Codesta graduazione consente di disporre in una serie quantitativa, apparentemente continua, le varie figure: «queste graduazioni non sono altro che i vari tipi di diritti reali di cui la cosa è capace, e questi vari tipi non esprimono che diverse gradazioni di appartenenza» 234 . Senza dubbio, la serie Nota 434: Barbero, Sistema cit., I, n, 464, p. 633. Nota 435: Barbero, ivi, n. 466, p. 653. 234 Nota 436: Barbero, L’usufrutto e i diritti affini, Milano 1952, n. 4, p. 23. 232 233 242 continua che esprime quelle graduazioni, non esclude la determinazione discontinua di singoli tipi. Senonché il fenomeno va esaminato più attentamente e non vanno trascurati dati di esperienza obiettivamente innegabili, e pieni di significato. Forse soltanto la figura estrema — quella di servitù — non offre notevoli appigli. Ma le altre — l’enfiteusi e l’usufrutto — si prestano a considerazioni assai interessanti. Non parliamo dell’enfiteusi, che già in relazione alle sue origini appare legata a quelle concessioni pubbliche, nelle quali si riflette uno degli aspetti della proprietà sostanziale; e nella sua attuale disciplina, richiama motivi fecondi e vitali in passato, e i rapporti tra sovranità e proprietà, e quelli tra il dominio del privato e il dominium eminens del principe, e comunque il concetto della proprietà divisa. Ma anche l’usufrutto offre motivi alla discussione. In quanto diritto reale — si è detto — esso «esprime, come la proprietà, sebbene in grado minore, un’idea di dominio. Il che potrebbe raffigurarsi sottospecie d’una propagazione del concetto di proprietà» 235. La mente corre al c.d. quasi-usufrutto, cioè all’usufrutto delle cose consumabili, che in passato venne accostato al mutuo, cioè ad un negozio traslativo della proprietà. Intendiamoci: non abbiamo voglia di difendere codesta configurazione 236 , che da un punto di vista rigorosamente tecnico, si risolve in una analogia 237 approssimativa . Ma a tale analogia, dal nostro punto di vista, non si può negare ogni significato, e questo viene accentuato notevolmente, quando si dice che la forma giuridica, per mezzo della quale sj realizza la funzione economica dell’usufrutto rispetto alle cose consumabili, « è quella dell’attribuzione della proprietà a chi è chiamato a raccogliere l’usufrutto, coll’obbligo di restituire l’equivalente della cosa a chi è chiamato a raccogliere la proprietà » 238. A parte, dunque, lo schema negoziale del mutuo, la materia o il contenuto dell’usufrutto si riversa e compone nell’alveo, veramente materno, della proprietà : nel seno, insomma, dal quale è stato generato, e nel quale normalmente è assorbito, anche se non con sua forma e indipendenza, come pretendevano gli antichi, distinguendo l’usufrutto causale dentro la stessa Nota 437: Barbero, L’usufrutto cit., n. 6, p. 22. Non importa la ulteriore, esatta riserva, che nulla toglie allo spunto come tale. 236 Nota 438: Per il diritto romano si veda Arangio-Ruiz, Istituzioni cit., p. 219; per il diritto civile Gianturco, Istituzioni di diritto civile italiano, ed. riv., Firenze 1919, p. 124. 237 Nota 439 […]. 238 Nota 440: Venezian, op. cit., I, n.4, p. 9. 235 243 proprietà. L’usufrutto trasmigra nella forma della proprietà 239 : che si vuole di più caratteristico e significativo ? Anche coloro i quali negano che l’usufrutto delle cose consumabili produca il trasferimento della proprietà 240 , non possono negare che il godimento attuato, distruggendo la cosa estingue la proprietà, e la fa risorgere attraverso l’adempimento dell’obbligo di restituire il tantundem. Anziché un doppio trasferimento in senso inverso, si avrà un’estinzione, seguita da un trasferimento 241 : ma in ogni caso si avrà l’incidenza dell’usufrutto sulla proprietà; anzi si registrerà la realizzazione normale dell’uno per mezzo di eventi concernenti l’altra. In diversi settori e da diversi punti di vista si nota, dunque, persino instabilità e trasmutabilità della proprietà: contingenza, in altri termini, dell’istituto, già rivelatasi nella disgregazione che ne ha minato la compagine, e va sostituendo all’unico schema saldo e compatto, una serie di schemi più o meno autonomi l’uno rispetto all’altro. Contingenza che è indice di crisi, e che assume vari altri aspetti, anch’essi significativi, attinenti al carattere della temporaneità, che; si va profilando in ipotesi particolari, al posto di quel carattere di perpetuità, che si riteneva essenziale all’istituto. Prescindendo dal tema della proprietà immateriale, basta ammettere in tesi astratta una proprietà temporanea, perché si alteri sensibilmente lo schema strutturale dell’istituto. Anche se si fa riferimento alla proprietà solitaria, nella sua espressione più tipica, non si ha la tutela di un interesse solo, perché il limite cronologico inserisce la tutela di un altro interesse come avviene, ad esempio, nell’usufrutto. Con la differenza: che l’usufrutto è destinato, estinguendosi, a lasciare in vita la proprietà, che si riespande, mentre qui accade il contrario. Poiché il dies ad quem colpisce a morte la proprietà medesima. Temporanea per sua essenza è, in particolare, anzi transitoria la proprietà degli enti di riforma agraria, come già si è visto: oltre ad essere proprietà semplicemente formale. 239 Nota 441: Il De Martino, Dell’usufrutto, nel Commentario del Codice Civile a cura di Scialoja e Branca, Libro Terzo (art. 957-1099), BolognaRoma 1947, p. 995 considera il quasi-usufrutto come «un diritto reale di godimento, in cui le facoltà del titolare sono ampliate fino a comprendervi un potere di disposizione». 240 Nota 442: Barbero, L’usufrutto cit., nn. 14 e ss., pp. 58 e ss. 241 Nota 443: Il Barbero, Il quasi usufrutto ed il quasi uso, in Riv. di diritto civile, XXXI (1939), n. 7, pp. 218-219 ammette che si produca un acquisto della propnetà da parte del quasi-usufruttuario, negando che ciò abbia luogo a causa e per virtù del quasi usufrutto: questo rapporto, nel momento del trapasso della proprietà, viene meno «e vi subentra un rapporto di proprietà, temperato da un’obbligo, cui fa da corrispettivo un semplice credito, alla restituzione del tantundem» 244 Ma il carattere di contingenza può derivare da altre fonti: la proprietà (sostanziale) nascente dalle concessioni minerarie perpetue, è soggetta a venir meno, per revoca o risoluzione delle concessioni stesse, nei casi previsti dalla legge. Risolubile è la proprietà dei contadini assegnatari delle terre espropriate per l’attuazione delle riforme agrarie. Ovviamente in questi casi non si tratta di fenomeni legati al meccanismo della risoluzione di rapporti basati sul contratto corrispettivo, sopra tutto per il fatto che non si tende a realizzare interessi privati di natura economica, la cui soddisfazione sia legata a fenomeni di scambio, che godono di appropriata tutela giuridica. Viceversa, si ha la prevalente tutela del pubblico interesse, che si realizza con l’integrale esecuzione di quanto dispone la speciale legislazione in materia242. Non ci occorre altro per concludere (e ben altro si potrebbe aggiungere). La risposta al quesito che ci siamo proposti all’inizio sta nell’analisi che abbiamo condotta e potrebbe trovare specifica conferma in quella che altri vorrà condurre. Qui in sintesi e a suggello del lungo discorso, possiamo dichiarare che la parola «proprietà» non ha oggi, se mai ha avuto, un significato univoco. Anzi troppe cose essa designa, perché possa essere adoperata con la pretesa di essere facilmente intesi. In ogni caso l’uso di essa, con le cautele e i chiarimenti necessari, anche se si protrarrà ancora nel prossimo futuro, non può ormai mantenere l’illusione che all’unicità del termine corrisponda la reale unità di un saldo e compatto istituto. Nota 444: Ciò basta a distinguere gli aspetti qui considerati della proprietà da quelle ipotesi che tradizionalmente, con riferimento al diritto romano o al diritto moderno, più e meno appropriatamente si raccolgono sotto gli schemi della proprietà sospesa o della proprietà revocabile (sul tema si veda: Baum, Das schwebende und das widerrufliche Eigentum, Diss. Berlin 1896; spunti in Randa, op. cit., pp. 20-21). 242 245 14) S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà , in Riv. trim. dir. e proc. civ, 1960, 1252 ss.; […] In verità, nei casi finora considerati, la funzione sociale non può intendersi come una qualità immediata del diritto di proprietà, essendo attribuita ad esso per via di conseguenza, attraverso la ricognizione di una generale natura sociale o a mezzo di una disciplina che non muta il titolo dell’attribuzione. In tal modo, di ogni diritto può dirsi che ha una funzione sociale 243: ma questa rimane indifferente per la struttura del diritto e neppure incide sulla sua definizione formale 244, giustificandosi così l’opinione, tante volte espressa, per cui la funzione sociale sarebbe una «formula sonora ma giuridicamente vuota» 245. A nostro modo di vedere, l'uso moderno dell'espressione funzione sociale, nella maggior parte dei casi, non ha con le concezioni ora esposte che una parentela del tutto verbale. In primo luogo, queste ultime rivelano che la loro autentica caratteristica non è quella funzionale, bensì quella finalistica, e si collegano ad una speculazione intesa a ricercare una giustificazione ed un fondamento della proprietà del tutto extragiuridici. Segno, forse, di una ampiezza di orizzonte che la scienza giuridica moderna non ha saputo conservare 246 ; conferma, certamente, del fatto che movente e fine si pongono all’esterno della struttura giuridica 247. Proprio da questa ribadita estraneità della funzione rispetto al diritto, d'altra parte, si Nota 130 nel testo originale (N.d.R.): «Una funzione sociale o, meglio, l'attuazione di un pubblico interesse, è propria di ogni potere riconosciuto dal diritto obiettivo; e quindi, sicuramente, del diritto di proprietà»: così F. VASSALLI, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in Studi, cit., II, p. 334. Cfr. le recenti osservazioni di ARCHI, L'aspetto funzionale del «dominium» romano, in Bull. ist. dir. rom., 1958, pp. 61-79; sul tema, sempre di recente, F. DE VISSCHER, Individualismo e evoluzione della proprietà nella Roma repubblicana, in Studia doc. ist. iur.., 1957, pp. 26-42. 244 Nota 131 nel testo originale (N.d.R.): Su questi problemi le interessanti, anche se per noi non sempre accettabili, considerazioni di DABIN, Le droit subjectif, Parìs, 1952, pp. 219-220. 245 Nota 132: CESARINI SFORZA, Codice civile, cit., p. 99. 246 Nota 133: M.S. GIANNINI, Attualità dogmatica, cit., p. 478. 247 Nota 134: Sulle difficoltà incontrate dalla dottrina nella definizione dei concetti di ratio, fine, scopo, cfr. CAIANI, I giudizi, cit., p. 217, nota 16. Vedi anche PERTICONE, La proprietà, cit. p. 47. 243 246 origina la contraddittoria utilizzazione del concetto di funzione, che – concepito come temperamento dell'assolutezza di una proprietà individualistica – si converte in un formula difensiva del diritto di proprietà tradizionale 248 , affermandosene genericamente una destinazione sociale (alla quale può non accompagnarsi, e spesso non si accompagna, alcuna effettiva misura legislativa), mentre se ne riconosce la sostanziale intangibilità. Era fatale, quindi, che, favorevoli le condizioni culturali, la polemica contro l’idea individualistica nei diritti si convertisse in polemica contro il diritto soggettivo tout court 249. Per intendere l’intera prospettiva nei suoi giusti termini, bisogna riguardare alla distinzione, propria non soltanto del pensiero giuridico 250 , tra fine e funzione di una determinata struttura, intendendosi il primo come destinazione ad un còmpito astrattamente fissato ed immutabile, l’altro come lo storico e concreto atteggiarsi di fronte a situazioni sempre rinnovate e diverse. È quest’ultimo il significato attribuito alla funzione nel più frequente uso giuridico: nella forma di contrapposizione tra una struttura rigida e sempre identica a se stessa a ed una mutevole funzione 251 o nel loro rapporto dialettico 252 , nella necessità di non trascurare mai «la terza dimensione funzionale o teleologica» 253 , e quindi di comprendere nell’attenzione «funzioni economiche ed istituti giuridici» 254; nel porre l’accento sulla law in action piuttosto che sulla law in books 255 : e si potrebbe continuare, fino a quelle più generali ed estreme formulazioni che cercano di individuare la funzione della stessa legge o di costruire quest’ultima come funzione dei fatti sociali 256. Se la sostituzione della considerazione funzionale (nel senso ora indicato) a quella finalistica costituisce un indubbio arricchimento degli strumenti dell’indagine giuridica, l’indicazione metodologica che da essa può ricavarsi non riesce a dare piena ragione del concetto di funzione sociale, quando questo sia impiegato per chiarire la natura particolare di un diritto. Infatti, l’uso del termine funzione in contrapposto a Nota 135: F. VASSALLI, Il diritto di proprietà, in Studi, cit., II, p. 421. 249 Nota 136: […]. 250 Nota 137: […]. 251Nota 138: […]. 252 Nota 139: […]. 253 Nota 140: PUGLIATTI, La giurisprudenza, cit., p. 64. 254 Nota 141: ASCARELLI, Studi, cit., pp. 55-78. 255 Nota 142: POUND, Law in books and law in action, in Amer. Law Rev., 1910, p. 12 ss.; sul problema STONE, The province, cit., pp. 405408, 414-417 (relativamente alle tesi di Pound), 742-749 (come prospettiva per esaminare le dottrine di alcuni pensatori europei). 256 Nota 143: […]. 248 247 struttura serve a definire il concreto modo di operare di un istituto o di un diritto di cui siano note e individuate le caratteristiche morfologiche: mentre, invece, di una funzione sociale della proprietà si parla non tanto per aprire la via ad una indagine di sociologia giuridica, quanto per indicare proprio una di quelle caratteristiche. Così configurata la funzione sociale, è fuori di luogo considerarla dialetticamente nei confronti della struttura, dal momento che essa è ritrovabile soltanto all’interno della proprietà, ponendosi come una componente della sua struttura. Non a caso, le espressioni sintetiche a cui si ricorre sono quelle di diritto-funzione, di proprietà-funzione. 4. – Le considerazioni finora svolte, se non hanno esaurito la caratterizzazione tecnica della funzione, ci hanno, comunque, condotti al nodo dogmatico del problema: che consiste, come è ben noto, nella compatibilità o meno dei concetti di funzione e di diritto soggettivo. Sciogliere interamente questo nodo significherebbe ripensare quasi del tutto i complessi termini della polemica sul diritto soggettivo 257 : compito che non è certamente possibile affidare a queste note, nelle quali si tenterà soltanto di indicare le difficoltà a cui si va incontro nel tentativo, di mantenere la costruzione sistematica della proprietà nello schema classico del diritto soggettivo. La direttrice della nostra ricerca, al punto in cui siamo, dovrebbe più essere oscura. Se, infatti, la funzione deve essere considerata come componente della struttura della proprietà, tutti quei dati che ad essa possono essere ricondotti (obblighi ed oneri gravanti il titolare) non sono rappresentabili all'esterno della situazione, come limitazioni di diritto pubblico o come altrimenti si voglia considerarli. Le conseguenze di questa impostazione non sono di poco conto; in particolare, ci sembra, per tutte quelle costruzioni che ritengono di poter realizzare una più accorta difesa delle ragioni dell’individuo ribadendo la sostanziale indifferenza della struttura della proprietà a tutta una serie di trasformazioni legislative e sociali. Ché questa difesa appare, in realtà, più rispettosa di una nozione scolastica che non del diritto dell’individuo, al quale dalla costruzione sub specie pubblicistica di ogni funzionalizzazione della posizione del proprietario non può derivare che una più immediata e diretta subordinazione ai poteri della pubblica amministrazione: cioè proprio quello che, nell'animo dei tradizionalisti, andrebbe evitato. Potrebbe osservarsi che, se questo modo di procedere finisce con l’essere contraddittorio alla sua stessa ispirazione, almeno è rispettoso delle caratteristiche del diritto soggettivo. L’osservazione si presta a due rilievi: diretto, il primo, a 257 Nota 144: […]. 248 riconoscere la giustezza del pensiero di chi ha visto molti dei nostri concetti giuridici rimanere legati a un superato modo d’intendere la funzione del diritto privato, che si limiterebbe ad attribuire ai singoli dei poteri, rendendosi automatico il raggiungimento dell’equilibrio tra le varie sfere giuridiche 258 ; e l’altro a mettere in guardia contro un procedimento che, per ricondurre ad un determinato prototipo giuridico una situazione concreta, forza i termini di quest’ultima, quando sarebbe logico, invece, ammettere l’impossibilità della sussunzione. Da ciò risulta confermata l’opinione 259 che di certi impoverimenti del diritto privato non sia soltanto responsabile il corso delle cose, ma pure il metodo dei privatisti; ed accertato che ogni ripensamento del concetto di diritto soggettivo debba massimamente tener conto dei dati positivi 260. D’altra parte, se si vuole avere ben chiaro il contesto giuridico ed economico all'interno (ed in ragione) del quale la funzione sociale opera, bisogna tener sgombra la mente dai pregiudizi nascenti da una scarsa riflessione sulla storia e aver per fermo che «Il capitalismo non può caratterizzarsi solo in funzione della proprietà individuale, ma in funzione della struttura e del funzionamento di questa proprietà nel processo produttivo» 261 : così che la funzione sociale della proprietà si palesa, nel tempo presente e nei paesi di democrazia occidentale, come lo strumento attraverso il quale una società, che riconosce la proprietà privata dei beni, tenta di dare a questa un più ampio respiro per trarne vantaggi adeguati. Considerata non già come mera finalizzazione di ogni diritto (quale è intesa in alcuni paesi retti da ordinamenti di tipo socialista 262 ), ma come elemento del diritto di proprietà, la funzione sociale dimostra d’essere caratteristica tipica d’un sistema giuridico capitalista. Veniamo, ad ogni modo, alle opinioni di coloro i quali negano, in via di principio, l’ammissibilità di una funzione a proposito della proprietà. La negazione, anzitutto, si fonda sulla contraddizione terminologica esistente già nel corpo dell'espressione, ché l'idea di funzione (come vincolo) ripugnerebbe a quella di diritto (come libertà). Questa proposizione viene sviluppata in quella, tecnicamente più rigorosa, che ricorda la nozione formale di diritto soggettivo (quale che sia il punto di vista prescelto per la Nota 145: ASCARELLI, Problemi, cit., I, p. 47. Nota 146: […]. 260 Nota 147: Cfr. CESARINI SFORZA, Il diritto soggettivo, cit., p. 184. 261 Nota 148: ASCARELLI, Proprietà e controllo, cit., p. 756. 262 Nota 149: […]. 258 259 249 sua costruzione 263) e sottolinea l’impossibilità di risolvere in essa elementi di carattere obbligatorio, che escluderebbero nel soggetto la libera determinazione del contegno da tenere 264 . Il vincolo funzionale, infine, manifesterebbe tutta la sua incompatibilità con il diritto proprio nel caso della proprietà, ponendosi questa, nella sua essenza, come manifestazione di libertà265. È quest’ultimo argomento che, per la sua portata generale, deve essere esaminato per primo, anche se per semplici cenni. Quali convinzioni filosofiche o quali ideologie lo fondino oggi e quali lo abbiano accompagnato nel corso della sua fortuna, non è difficile scorgere: sì che può immediatamente notarsi che l’antico modo d’intendere la teorica dei diritti soggettivi come teorica dei diritti innati 266 trova in esso formulazione assai conseguente. L’identificazione di proprietà e libertà, non godendo ormai che di scarsi appigli positivi ed essendo largamente oppugnabile sia dal punto di vista filosofico che da quello economico, si risolve in un pregiudizio metodologico, uno dei tanti idola che ostacolano l’indagine scientifica. Le carte costituzionali sempre più raramente danno al diritto di proprietà il posto tradizionalmente assegnatoli dalle dichiarazioni di diritti 267 ; le quali, dal canto loro, cominciano a non far più menzione della proprietà268. Nel campo del diritto privato, a loro volta, i codici non possono più essere intesi come l’equivalente di quel che le costituzioni e le dichiarazioni dei diritti rappresentavano per il diritto pubblico 269 ; e al mutare della loro funzione 270 corrisponde il diverso modo in cui essi fondano la proprietà ed il suo diverso articolarsi della sua definizione, che sempre più si distingue da quella ricalcata sulla definizione della libertà 271 . A queste generiche osservazioni di carattere testuale dà conferma la stessa nostra costituzione, la quale, disciplinando la proprietà tra i rapporti economici, mostra di aver bene inteso i limiti di una posizione che si ostini a fondare le ragioni dell’uomo e del cittadino sull’incondizionata possibilità dell’operare economico. Orientamento, questo, che – a parte ogni consueto rilievo sul compromesso costituzionale – non dev’essere fatto derivare da un atteggiamento che spregia conquiste non transitoriedel Nota 149 bis: Una schematizzazione assai precisa delle varie posizioni dottrinarie sul diritto soggettivo è in R. ORESTANO, Diritti soggettivi, cit., pp. 172-173. 264 Nota 150: […]. 265 Nota 151: […]. 266 Nota 152: […]. 267 Nota 153: […]. 268 Nota 154: […]. 269 Nota 155: SOLARI, Individualismo, cit., p. 57. 270 Nota 156: […]. 271 Nota 157: […]. 263 250 liberalismo, ma da una più moderna e meditata riflessione sui termini vecchi e nuovi dell’individualismo 272, sul presente modo di raggiungere gli equilibri economici e sociali: dal che l’affermazione della libertà dell’individuo, sia pure per vie diverse da quelle alle quali ci avevano abituato alcuni istituti del passato, risulta profondamente inverata 273. Sarebbe assai triste se l’istanza liberale non fosse più intesa come uno dei momenti fondamentali dello spirito umano, in questa luce giudicando delle forme storiche in cui si realizza, ma, mortificata dall’identificazione con interessi particolari e transeunti, venisse considerata alla stregua di una ideologia 274 . Accenneremo più avanti ai problemi che le nuove forme di organizzazione, e di direzione economica pongono al diritto privato ed ai loro riflessi sulla disciplina della proprietà: ma può fin d’ora rilevarsi la mutata rilevanza dell’istituto. L’identificazione di proprietà e libertà, infatti, nasceva pure dalla constatazione dell’importanza determinante dei legami tra potere politico e proprietà (fondiaria, in particolare): ma oggi l’attribuzione del potere politico, da un canto, prescinde in molti casi dalla proprietà, essendo divenute maggiormente importanti alcune forme di accumulazione distinte dal profitto proprietario 275 ed avendo il potere trovato spesso la sua sede più nel controllo che nella titolarità dei beni 276; d’altro canto, sia la scissione tra proprietà e controllo, sia la scissione della proprietà in forme sempre più difficilmente riducibili allo schema classico di quella individuale, fanno sì che la libertà dell’individuo trovi la sua difesa non tanto nella garanzia dell’accesso alla proprietà e dell’indiscriminato sfruttamento dei beni, quanto piuttosto in un intervento statale capace di impedire la trasformazione dell’istituto in uno strumento del privilegio e di evitare distrazioni di ricchezza 277. La giustezza di queste notazioni non dipende unicamente dalla accettazione di determinati presupposti ideologici. Forse più d'ogni altro, il giurista è provveduto per avvertire che simili discorsi possono tutti essere fondati su dati obiettivi, su di un complesso di norme che comincia ad orientarsi secondo direttive costanti e così ricco che non può attribuirglisi carattere di eccezione; e di cui non è il caso di tentare una esemplificazione rappresentativa ed esauriente, ché si tratterrebbe di prendere in esame tutti i settori dell’attività giuridica in qualche modo 272 Nota 158: […]. Nota 159: […]. Nota 160: […]. 275 Nota 161: […]. 276 Nota 162: PUGLIATTI, La proprietà, cit., pp. 224-245, 270; BERLE iunior, Power without property, cit. 277 Nota 163: […]. 273 274 251 collegati all’organizzazione economica 278 . Fenomeno, questo, ordinariamente ricondotto all'aumento delle funzioni dello Stato moderno: e l'osservazione di certo è esatta, se con essa non si vuole indicare una semplice dilatazione dei compiti tradizionali dello Stato, ma un mutamento di qualità del suo operare giuridico. Non a caso, e per mostrare quanto muti il senso delle antiche distinzioni e come le trasformazioni tocchino il cuore degli istituti, ci si comincia a riferire ad una crescente influenza del fattore politico 279; indicandosi, in tal modo, l’inadeguatezza di uno schema logico che tende a risolvere i nuovi problemi con un mero spostamento dei confini tradizionalmente stabiliti tra diritto pubblico e diritto privato. Tenendo fermo il principio, riteniamo che, per maggiore esattezza, debba parlarsi di un profondo mutamento della public philosophy 280, che si riflette in maniera sempre più evidente, che si riflette in maniera sempre più evidente sull’attività legislativa, fino a far assistere ad un radicale mutamento della funzione stessa della legge. Son questi, a nostro avviso, alcuni dei termini a cui far riferimento nella discussione che i giuristi son soliti intraprendere sui rapporti tra proprietà e libertà: e da nessuno di essi si posson trarre argomenti per escludere il profilo funzionale della proprietà. Ciò non vuol dire che il nostro problema sia così risolto, chè, sul piano dogmatico, rimangono aperte questioni diverse ed impegnative, riconducibili nella loro sostanza alle tesi che abbiamo sinteticamente riportato 281. In verità, di fronte al diritto soggettivo è stato posto un concetto di funzione assai nebuloso e troppo semplicemente ricalcato su quello proprio dei pubblicisti 282 : era, quindi, addirittura fatale che si giungesse a costruire il momento funzionale tutto all’esterno del diritto, offrendo una visione della situazione di proprietà assai più prossima a quella del tempo in cui lo Stato liberale non era ancora intervenuto a svincolarla dalla funzione pubblica, e che oggi rischia di condurre a gravi travisamenti. Infatti, anche quando si vogliano vedere riaffioranti i segni dell’antica distinzione tra dominio eminente e dominio utile 283, il paragone dev’essere risolto in una prospettiva storiografìca e non in quella sociologistica del ciclo. 278 Nota 164: Si possono utilmente vedere DI ROBILANT, Direttiva economica e norma giuridica, Torino, 1955; BACHELET, L'attività di coordinamento nell'amministrazione pubblica dell'economia, Milano, 1957; SPAGNUOLO VIGORITA, L'iniziativa, cit.; M. S.GIANNINI, Sull'azione dei pubblici poteri nel campo dell’economia, in Riv. dir. comm., 1959, I, pp. 313-328. 279 Nota 165: […]. 280 Nota 166: […]. 281 Nota 167: […]. 282 Nota 168: […]. 283 Nota 169: […]. 252 Se, però, cerchiamo di ampliare il panorama delle opinioni dottrinarie, si noterà che, diretto o implicito, un riconoscimento della compatibilità del momento funzionale con il diritto soggettivo è tutt’altro che infrequente. E ciò si verifica, in primo luogo, da parte di coloro i quali restringono il rifiuto della funzionalizzazione ai casi in cui essa non è sanzionata da una norma particolare 284 , dando così a vedere di non ammettere l’inconciliabilità logica dei due termini. A questa posizione è possibile avvicinare quei riconoscimenti che, operati in relazione ad altre situazioni giuridiche attive, trovano nella proprietà una analogia esplicita ed immediata 285 : ed è significativo che a queste tesi si faccia luogo piuttosto in occasione di indagini di tipo commercialistico, in un àmbito, cioè, dove meno pesantemente operano certe resistenze tradizionali. Si aggiunga la frequenza con cui ci si riferisce a limitazioni istituzionali 286 o a una finalizzazione istituzionale 287 , e si avranno gli elementi essenziali di questa posizione. Tutte le volte che ci si trova di fronte alla caratterizzazione istituzionale di un limite di una determinata situazione giuridica, infatti, cade la possibilità di escludere ogni trasformazione strutturale di essa. D’altra parte, che la mera contrapposizione di funzione e diritto non sia la via metodologicamente più esatta per adeguare la riflessione sulla proprietà ai dati presenti dell’esperienza giuridica, lo dimostra la maggiore delle indagini di cui disponiamo 288, la quale è esemplare proprio per il modo in cui aderisce ad una multiforme realtà e riflette certi stati di disagio della dottrina contemporanea 289. Ed è il suo carattere aperto a spiegare perché in essa la ammissione del profilo funzionale non sia così perentoria come la negazione presso altri; ché, anzi, l’affermazione non di rado è temperata dal rilievo «che la proprietà (se già non è tuttavia) si 284 Nota 170: MINERVINI, Contro la «funzionalizzazione», cit., pp. 618636. 285 Nota 170: NICOLÒ, Riflessioni, cit., p. 190. 286 Nota 172: SANDULLI, Giurisdizione e amministrazione in materia di edilizia urbanistica, in Dir. econ., 1958, pp. 1428-1429. 287 Nota 173: RABAGLIETTI, Introduzione alla teoria del lavoro nell'impresa, MiIano,1956, pp. 41-42, 94 e passim; ID., Il recesso dell'imprenditore nel rapporto di lavoro, Milano, 1957, passim. E cfr., più avanti, la nota 228. 288 Nota 174: È quella, già tante volte citata, del Pugliatti, il cui valore esemplare va particolarmente sottolineato per quanto riguarda l’analisi della nuova realtà legislativa, considerando la quale si fa palese l’inconsistenza delle vedute tradizionali: si confrontino, soprattutto, le pagine (pp. 276-277) in cui il Pugliatti, con grande probità scientifica, sottopone a critica le tesi da lui stesso esposte prima dei mutamenti legislativi indicati. 289 Nota 175: Cfr. RESCIGNO, Associazione non riconosciuta e capacità di testimoniare, in Studi in onore di Francesco Messineo, I, Milano, 1959, p. 398. 253 avvia ad essere (strumento di realizzazione di una complessa e poliedrica) funzione sociale» 290 . È questa necessità di porre l’accento sul divenire del diritto che colloca l’interprete al difficile bivio tra una elaborazione passata, di cui avverte la limitata utilizzabilità, ed una evoluzione futura dai contorni ancora incerti: da ciò nasce la tendenza ad indicare ciò che la proprietà non è o non può essere, in luogo di ciò che rappresenta realmente 291. Arrestarsi a questa constatazione, però, non è possibile. Non solo perché gli interrogativi che abbiamo posto rimarrebbero senza alcuna risposta, ma per l’evidente lacuna costruttiva che ne risulterebbe (e che già, in più occasioni, comincia ad apparire): bisogna ricercare gli schemi che possono accompagnare la proprietà in questa incerta evoluzione, avendo cura di non irrigidirne i contorni in maniera tale da renderli ben presto strumenti inservibili. L’ammaestramento che possiamo trarre da alcune ricerche è che una costruzione della proprietà del tutto aderente al paradigma del diritto soggettivo è possibile solo a costo dell’integrale sacrificio della funzione 292 : con la conseguenza che una categoria così costruita sarebbe priva di riscontro nella disciplina giuridica positiva. La saldatura con questa normativa, altrimenti negletta, si tenta allora di coglierla ricorrendo ad alcune figure elaborate dal diritto pubblico, per mezzo delle quali sarebbe altresì possibile intendere in pieno il senso della contemporanea evoluzione giuridica della proprietà. A rendere maggiore la suggestione che tali figure riescono ad esercitare, contribuisce non poco l’antica, e sempre ricorrente, affermazione di chi vede in ogni diminuzione dei poteri del proprietario nient’altro che la sua progressiva riduzione a funzionario dello Stato 293 : come in effetti era per quelle ideologie totalitarie teorizzanti una posizione dello Stato o del Volk tutt’affatto particolare nei confronti dell’individuo 294 . Soltanto in quest’ultima prospettiva, o riguardando la disciplina speciale di alcuni beni 295 , è possibile in un ordinamento come il nostro costruire la figura del proprietario come quella di un concessionario di un pubblico servizio. Ma neppure la più Nota 176: PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 278 […]. Nota 177: Può essere indicativa la posizione di DE MARTINO, Della proprietà, cit. p. 122, il quale afferma che «è quindi in certo senso più utile dire che cosa il proprietario non debba fare o debba fare solo in un certo modo, anziché dire che cosa egli possa liberamente fare». 292 Nota 178 […]. 293 Nota 179: Cfr., ad esempio, F. VASSALLI, Le riforme del civile in relazione alla proprietà fondiaria, in Studi, cit., II, p. 320; ID., Il diritto di proprietà, ivi, p. 420. 294 Nota 180 […]. 295 Nota 181: GRISOLIA, La tutela, cit., pp. 223-226. 290 291 254 estrema delle considerazioni del profilo funzionale offre a ciò qualche appiglio. Se, infatti, è vero che il concessionario esercita in nome proprio determinate attività, è altrettanto esatto che titolare del servizio o della funzione svolta è un soggetto diverso dal concessionario 296; ore, di una siffatta titolarità da parte degli organi pubblici non è certamente il caso di parlare a proposito della generalità dei rapporti di proprietà, nulla potendosi addurre, né dal punto di vista formale e neppure da quello della sostanza, per dimostrare un sì profondo mutamento del titolo di attribuzione ai privati. Il concessionario, ad ogni modo, agisce pur sempre in nome proprio: ciò significa che gli argomenti addotti contro l’utilizzazione di questa figura devono a maggior forza valere ad escludere la fondatezza dell'opinione di chi vede nel proprietario, al cui diritto attiene la funzione sociale, un organo dello State, così portando a più rigorose ed estreme conseguenze la premessa della natura pubblicistica della proprietà. La debolezza di questa tesi è evidente; né varrebbe a qualcosa opporre che, considerandosi la posizione del privato, si tratterebbe di un diritto all'esercizio di una competenza: a parte la necessità di tenere distinte la competenza e l'attribuzione di un potere 297 e ammesso pure che al titolare di un ufficio l'esercizio di una competenza possa essere attribuito come diritto, risulta comunque chiara la inesattezza del discorso sulla competenza, «che, concessa ad una persona, diventerebbe diritto proprio di questa e cesserebbe ipso facto di essere competenza di un organo dello Stato» 298 . In un punto, almeno, le vedute tradizionali (anche in queste loro deviazioni pubblicistiche) meritano d'essere tenute ferme: nella necessità, cioè, di considerare attentamente il momento dell'attribuzione del potere, come uno dei più illuminanti le caratteristiche di un sistema giuridico e, quindi, la struttura da questo foggiata per la proprietà. L'inaccettabilità attuale di queste vedute comincia quando esse rifiutano di considerare dal punto di vista privatistico una attribuzione di potere al proprietario che non sia del tutto incondizionata (limiti inerenti alla natura stessa dell’attività giuridica a parte); non riguardandosi di essa gli aspetti caratterizzanti (particolarità del regime della proprietà nell'intero sistema), riesce assai agevole continuare a presumere immutato lo schema formale. Quando, però, non si vogliano tenere ben separati gli occhi di fronte alla realtà, questo procedimento conduce fatalmente a contrapporre una proprietà Nota 182: SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1960, p. 251. 297 Nota 183 […]. 298 Nota 184: ESPOSITO, Organo, ufficio e soggettività dell’ufficio, Padova, 1932, p. 17. 296 255 effettiva ad una giuridica 299, decretandosi al tempo stesso una insensibilità assoluta delle vicende dell'ultima nei confronti dell'altra. L'uso di tale artificio, o di altri simili (considerazione dei nuovi assetti della proprietà soltanto sul piano, assai generico, di una crescente riduzione della autonomia privata, senza alcun esame delle conseguenze strutturali; astratta riaffermazione dell’elasticità del diritto, relativamente ad ipotesi in cui la possibilità di espansione è del tutto esclusa dalla mancata attribuzione istituzionale di determinati poteri al proprietario; e via discorrendo), può certamente far ritenere che il concetto giuridico della proprietà non sia ancora mutato da quello di cent’anni fa 300, ma rende pure la discussione su tale concetto del tutto sterile ed affatto estranea ai vari problemi che siamo andati ricordando. Se l’insistenza polemica su questi momenti estremi fosse di qualche giovamento costruttivo, si potrebbe indugiare mostrando da qual profondo sonno dogmatico sortiscano tali pensamenti; e quale curioso abuso dello spirito di sistema presieda a questa fede nelle categorie pandettistiche, che si risolve nel continuo tentativo di imporle ad una realtà giuridica trasformata nelle esigenze e nei metodi, dando così a vedere che il valore ad esse attribuito è quello di categorie logiche e non già storiche 301. D’altra parte, la distanza che separa tanto questi eccessi tradizionalistici quanto le figure esclusivamente pubblicistiche dalla reale situazione della proprietà, quale si è andata profilando negli ultimi tempi, è sembrata superabile mediante il ricorso al concetto di ufficio, che, già diffuso nel campo del diritto privato, appariva fornito di tutti i caratteri idonei a soddisfare, sul piano dogmatico, alle nuove esigenze. A dire il vero, non si vede come la posizione del proprietario – pur quando si dia agli obblighi integranti il momento funzionale la massima estensione – possa essere parificata a quella del titolare dell’ufficio, per il quale la strumentalità esclusiva dell’attività da svolgere è determinante per l’attribuzione del potere: quale che sia il punto di vista prescelto, fondamento della situazione d’ufficio rimane sempre un interesse alieno 302. Nel nostro caso non si tratta di stabilire di qual natura sia questo interesse o se la sua rilevanza debba considerarsi diretta o indiretta 303 bensì la possibilità di svincolare completamente tale interesse alieno dall’interesse soggettivo del privato 299 300 301 302 303 Nota Nota Nota Nota Nota 185 […]. 186 […]. 187 […]. 188 […]. 189[…]. 256 proprietario 304. Possibilità che, tecnicamente, il nostro sistema non offre, dal momento che contempla la formale coesistenza del carattere privato della proprietà e della sua funzione sociale 305. Si potrà discutere della bontà e della intrinseca coerenza del sistema, sia dal punto di vista ideologico sia per quanto riguarda la sua operatività economica306, ma ciò non sarà mai una buona ragione per mettere da canto i dati legislativi quali esistono. Così dicendo, non si vuol assumere una posizione salomonica o, peggio, tentare una di quelle conciliazioni degli opposti che tanto spesso affliggono le conclusioni di certe indagini: quando, però, si vuol tenere fede alla professione di aderenza alla realtà legislativa e sociale va tenuto ben fermo che, se le affermazioni assolutistiche appartengono al passato, non sono ancora del presente le posizioni che null’altro vedono se non il momento funzionale. Dal punto di vista tecnico, infatti, è di tutta evidenza che la distinzione tra proprietà pubblica e privata e tra beni economici secondo l’appartenenza (art. 42 della costituzione) costituisce un solido aggancio per affermare che l’attribuzione continua ad essere fatta al privato in quanto tale. Quel che è mutato è il fondamento dell’attribuzione, essendo divenuto determinante per la considerazione legislativa il collegamento della posizione del singolo con la sua appartenenza ad un organismo sociale 307. L’attribuzione, in altri termini, non è più incondizionata, secondo un orientamento ormai costante per tutte le situazioni giuridiche a contenuto economico. A questo mutamento ha dato consistenza giuridica la funzione. Essa, concretamente, si manifesta anzitutto come mancata attribuzione al proprietario di determinate facoltà; in secondo luogo, come complesso di condizioni per l’esercizio di facoltà attribuite; infine, come obbligo di esercitare determinate facoltà, in base ad un apprezzamento libero o secondo modalità indicate. In ognuna di queste ipotesi, evidentemente, il parametro a cui riferirsi è quello dell’utilità sociale. Nel primo caso si è di fronte ad una riduzione, ormai frequentissima, del contenuto della proprietà; né vale obiettare l’irrilevanza di ogni considerazione sul contenuto quando sia in questione la considerazione formale di una qualsiasi situazione giuridica 308. Quando, infatti, una o più facoltà non vengano attribuite al proprietario, è possibile continuare ad assegnare alla proprietà tutte le caratteristiche proprie del classico schema del diritto soggettivo solo facendo ricorso a circonlocuzioni del tutto improduttive: si è già detto del non senso di un richiamo alla 304 305 306 307 308 Nota Nota Nota Nota Nota 190 191 192 193 194 […]. […]. […]. […]. […]. 257 elasticità, che in questo caso la possibilità giuridica della riespansione manca; d’altra parte, parlare di un dovere di astenersi dall’esercizio di una facoltà sottratta al proprietario 309 è poco meno di un giuoco di parole, con tanto di contraddizione in termini; e lo stesso vale per tutte quelle infelici formule che cercano di ricondurre casi di esercizio assai circoscritto ad un astratto paradigma di assolutezza. Non ci si avvede che, progressivamente, l’eccezione è divenuta carattere prevalente, non irrilevante per la stessa qualificazione formale. Nella seconda delle ipotesi considerate, l’efficacia degli atti compiuti dal proprietario è subordinata al ricorrere di determinati presupposti. Ora, riguardando dal punto di vista dell’esercizio tanto questa ipotesi che la precedente, è possibile riportare in entrambi i casi la sanzionabilità del comportamento ad un difetto di legittimazione. Allo stesso modo, l’inattività del proprietario, quando siano posti a suo carico obblighi ed oneri, determina una sopravveniente carenza di legittimazione alla titolarità o all’esercizio del diritto di proprietà; che è quanto accade anche nel caso di una proprietà eccedente il limite quantitativo fissato per legge 310 . Questi accenni alla legittimazione, in questa sede, possono ricevere sviluppi soltanto sommari 311. È indubbio che al concetto, così come è stato da noi utilizzato, si può attribuire una portata prevalentemente descrittiva, nemmeno scevra da imprecisioni. Ma la categoria della legittimazione è così ricca di implicazioni di carattere generale da essere possibile, in effetti, una sua utilizzazione in tutta una serie di ipotesi che si risolvono nella posizione di un complesso di presupposti: il ricorso ad essa, nel nostro caso, potrà quindi comportare un ampliamento inconsueto del suo ambito di utilizzazione, ma non apparire del tutto arbitrario. La funzione, di conseguenza, non può essere ulteriormente identificata con la fascia esterna della proprietà, riservata alla collettività: essa si presenta come espressione ellittica, unificatrice dei presupposti della qualificazione giuridica, tale da identificare il contenuto stesso della situazione di 312 appartenenza . […] A tal fine è indispensabile affrontare problemi direttamente inerenti al contenuto della proprietà. Le obiezioni che si è soliti opporre a questo modo di procedere sono note: o si osserva che 309 310 311 312 Nota Nota Nota Nota 195 […]. 196 […]. 196bis […]. 197 […]. 258 le questioni relative al contenuto non possono avere alcuna rilevanza per la definizione formale della situazione soggettiva313, oppure si avverte che le differenze attengono alla diversità di contenuto economico-sociale e non sono mai tali da incidere sulla struttura giuridica della proprietà 314. A ben guardare, l’una e l’altra obiezione non sono affatto decisive: la prima, infatti, sottintende una definizione a priori ed implicitamente fa capo ad un contenuto essenziale della proprietà; e la seconda, ponendo in maniera del tutto unilaterale l’accento sulla capacità propria agli schemi giuridici di comprendere in sé anche situazioni modificatesi rispetto a quella originaria, irrigidisce a tal punto il rapporto tra struttura giuridica e realtà sociale che non si è lontani dal poter affermare la loro incomunicabilità. Non si cede, cosi argomentando, ad alcuna pericolosa suggestione: dell’analisi del contenuto massimamente abbisogna ogni situazione che può essere ascritta alla categoria della realità, che questo è l’unico modo per differenziare le varie situazioni che essa comprende 315 e di dar ragione di ciascuna struttura secondo l’interesse regolato. Ciò è tanto più vero quanto più attentamente si considerano le formule in base alle quali i testi costituzionali hanno introdotto la funzione sociale della proprietà, in particolare quelli che più o meno direttamente si rifanno all’esperienza costituzionale di Weimar (art. 14 della costituzione della Germania occidentale; art. 42 della costituzione italiana); superata la concezione del limite esterno, la determinazione del contenuto della proprietà è divenuta l’unica determinante anche al fine risolvere le questioni in tema di interventi legislativi sul regime di appartenenza dei beni 316 . Son queste le ragioni non secondarie che devono indurre all’indagine del contenuto, dalla quale emergono le molteplici situazioni in cui la proprietà si differenzia 317 : sarebbe, però, erroneo considerare questa indagine alla stregua di una mera ricerca atomizzata, poiché da essa non consegue soltanto il frantumarsi di una situazione in precedenza ritenuta unitaria, ma pure una presa di coscienza in termini nuovi del fenomeno dell’appartenenza dei beni. Evidentemente, ciò non significa che qualsivoglia obbligo o limitazione, imposti al proprietario, possano essere ricondotti alla funzione e, quindi, costruiti all’interno della situazione di proprietà. Nel determinare quali tra gli obblighi siano riferibili alla funzione, va sempre tenuto presente che questa è qualificata in senso sociale e che tale qualificazione non va intesa come un generico riferimento di 313 314 315 316 317 Nota Nota Nota Nota Nota 236 237 238 239 240 […]. […]. […]. […]. […]. 259 ogni interesse rilevante per la generalità dei consociati, ma nel preciso significato che già abbiamo avuto modo di esaminare. D’altra parte, la funzione sociale non è neppure riducibile alle singole disposizioni che ne rappresentano la concreta e storica realizzazione nelle situazioni particolari. Rispetto a tali disposizioni la funzione non si pone certamente come un a priori che tutte le trascenda, ma è il fondamento giuridico da cui esse traggono legittimità: la rilevanza della funzione, conseguentemente, non può essere negata quando, in una determinata situazione, manchi una norma espressa che ne costituisca la realizzazione. In tal caso, anzitutto vi è la possibilità di estendere alla situazione mancante di una disciplina funzionale quella dettata per un’altra situazione, purché sussistano i presupposti dell’analogia (l’ammissibilità della interpretazione analogica sarà discussa più avanti); in secondo luogo, l’operatività immediata della funzione si manifesta proprio nel fatto che ad essa si deve la possibilità di dettare in futuro una particolare disciplina funzionale a quella situazione che attualmente ne sia priva. La funzione, allora, si presenta come un elemento caratterizzante la situazione di proprietà, indipendentemente dall’esistenza attuale di un dato normativo in cui si concreti: se, dunque, essa appare come l’elemento che modifica la struttura tradizionalmente riconosciuta alla proprietà, deve pur essere considerata il Momento attorno al quale può essere costruito in forme unitarie il fenomeno dell’appartenenza, dal momento che non ci troviamo più di fronte ad una indeterminata pluralità di obblighi particolari, ma ad un elemento tipico. La situazione di appartenenza, dal canto suo, non corrisponderà in tutto a quello che era la proprietà, poiché la determinante presenza dell’elemento funzionale esclude tutti quei beni rispetto ai quali esso si palesa incompatibile. È appena il caso di sottolineare, infine, il particolare rilievo che, in questa prospettiva, assume l’attività del giudice, chiamato a determinare quale sia in concreto l’ambito di applicabilità della funzione 318. Si offre, cosi, la possibilità di nuovi criteri sistematici, dalla cui utilizzazione può discendere un nuovo modo di considerare anche altri tra i diritti reali (usufrutto ed enfiteusi, come è ben noto). In questa direzione — la cui fecondità era già implicitamente ammessa da chi, a proposito dei diritti reali, trovava preferibile parlare di «gradazioni dell’appartenenza» 319 — ci sembra debbano svolgersi le ricerche; ed è evidente che il loro orizzonte non può ritenersi concluso dagli schemi reali tradizionalmente accetti, ma deve ampliarsi per considerare la 318 319 Nota 240bis […]. Nota 241 […]. 260 possibilità di comprendere fenomeni come l’impresa o i beni immateriali, o situazioni di confine che vedono sempre più respinto sullo sfondo il momento obbligatorio, per apparire con tutti i tratti peculiari della realtà (si pensi all’assetto convenzionale della proprietà urbana). […] Non vogliamo qui riproporre, nella sua interezza, la questione assai complessa del valore e della legittimità delle definizioni 320 anche se alcuni recenti contributi stimolano a nuove legali meditazioni 321 . La polemica contro le definizioni legali ha ricevuto rinnovato alimento dalla codificazione civile del 1942, caratterizzata da un abuso di definizioni che contribuisce a dare al codice un marcato aspetto manualistico 322 e si è mantenuta particolarmente vivace per la definizione della proprietà, non tanto in ragione delle difficoltà nascenti dall’ampiezza del suo contenuto 323 , bensì perché essa appariva surrettiziamente inserita nel contesto legislativo. In altri termini, provenga dal legislatore o dall’interprete, come una abbreviazione convenzionale, né come la formula riassuntiva di una normativa, ma come un a priori o un dato arbitrariamente sovrapposto alla disciplina positiva, espressione dell’ideologia del suo autore 324 piuttosto che descrizione dell’essenza di un concetto quale risulta dalla normativa 325 o prescrizione dell’uso del termine definito 326. In effetti, se percorriamo la storia della definizione, dalla glossa fino a quelle più recenti 327 avremo modo di notare che il termine proprietà è stato quasi sempre impiegato per indicare strutture giuridiche che non corrispondevano affatto, o corrispondevano soltanto parzialmente, alla definizione che di quel termine veniva data nel medesimo contesto : e ciò per ragioni varie, di carattere politico talvolta 328 , derivanti dallo scarto tra sistematica e realtà in altri casi 329. Di fronte a queste situazioni, di grande utilità può certamente rivelarsi quell’opera di chiarimento e di fissazione di sicure regole per l’uso di un termine, in cui gli analisti fanno consistere il compito della 320 321 322 323 324 325 326 327 328 329 Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota Nota 262[…]. 263[…]. 264[…]. 265[…]. 265 bis[…]. 266[…]. 267[…]. 268[…]. 269[…]. 270[…]. 261 giurisprudenza 330 . Da un chiarimento del genere risulterebbe, però, la possibilità di applicare soltanto ad oggetti di valore economico-sociale relativamente modesto lo schema definitorio tradizionale, che — venga posto l’accento sul contenuto della proprietà o sui poteri del proprietario — può esser così riassunto : la proprietà (o il potere del proprietario) consiste nella possibilità di far dell’oggetto tutto ciò che non è vietato dalla legge. I tratti fondamentali di questa definizione sono rimasti immutati, pur attraverso le infinite variazioni che ne sono state proposte: il paradigma bartoliano 331 è ancora operante, a testimoniare la grandezza d’intuito e la felicità espressiva di quel giurista332. Ancora una volta, però, quel che rimaneva invariato era il nomen, mentre la sostanza era profondamente modificata. Basta riflettere un momento su una qualsiasi di quelle definizioni. Si prenda quella, ancora vigente, del code civil (art. 544) : «la proprietà est le droit de jouir et de disposer des choses de la manière la plus absolue, pourvuqu’on n’en fasse pas un usage prohibé par la hiou par les réglements». Il riferimento più significativo è, senza dubbio alcuno, quello all’uso proibito dalla legge: riferimento che, in un ambiente culturale che negava all’intervento legislativo ogni valore attivo e vedeva nella legge soltanto l’imparziale custode di alcune generali regole del giuoco, assumeva un significato profondo di garanzia del diritto del cittadino. Attribuendosi, come oggi accade, alla legge un valore assai diverso — essendo divenuta strumento attivo del processo economico-sociale 333 — il riferimento ad essa ha perduto ogni significato garantistico, per divenire semplice fissazione delle modalità d’intervento sulle proprietà esistenti. Ciò è tanto più chiaro quando si pone mente alla crescente importanza della legislazione speciale ed alle ragioni che ne giustificano l’ampiezza 334 : legislazione che non può essere «pudicamente considerata come un accidente … permanentemente transitorio », di fronte ad una disciplina civilistica «che assume allora il carattere di un testo venerato» 335 . La considerazione di questi dati positivi conferma l’uso non univoco del termine «proprietà» 336 : dal che risulta l’impossibilità di una definizione rigorosa, se non se ne restringa l’uso ad una soltanto delle situazioni che esso attualmente continua ad indicare. A meno che non si preferisca rimanere nell’equivoco, continuando Nota 271: BOBBIO, Scienza del diritto, cit., pp. 355-359. Nota 272[…]. 332 Nota 273: CALASSO, Medio Evo del diritto, I, Milano, 1954, pp. 573-577. 333 Nota 274[…]. 334 Nota 275[…]. 335 Nota 276: ASCARELLI, Proprietà e controllo, cit., p. 756. 336 Nota 277[…]. 330 331 262 ad inseguire il carattere astratto, e non quello concreto, della proprietà337. Insistendosi con pari tenacia sulla necessità di riconoscere più situazioni al posto di un’unitaria figura di proprietà e di aver per fermo il concetto di funzione sociale, potrebbe aprirsi la via ad una obiezione che rilevasse la contraddittorietà di un pensiero così articolato. In altri termini, si potrebbe dire che, anche quando si fosse riusciti a determinare con sicurezza in che cosa consiste la funzione sociale, questa sarebbe inapplicabile, per l’indeterminatezza o il valore polisenso della proprietà, che è il termine con il quale va messa a rapporto. Per l’interprete, questo non è un problema di difficile soluzione. Siamo, infatti, di fronte ad un tipico caso di formulazione legislativa scientificamente non corretta che il giurista ha il compito di chiarire 338 , non il destino di subire: gli errori del legislatore non devono essere ripetuti dall’interprete, né essere per questi il pretesto di nuovi. Ma il chiarimento non avrà il solo scopo di identificare quale situazione possa a rigore definirsi proprietà, per concludere che a questa soltanto deve applicarsi la funzione sociale: sarebbe, questa, una conclusione che potrebbe manifestarsi in flagrante contrasto con la ratio della normativa, assolutamente non rispettosa dell’interesse tutelato. Proprio quella ratio, invece, deve essere ricostruita, quell’interesse individuato, per stabilire a quali situazioni il legislatore intendesse riferirsi usando una terminologia errata: ed a tutte ritenere applicabile la funzione sociale. Quest’ultima proposizione, però, è sostenibile solo quando si dimostri che la funzione sociale rappresenta, nel nostro ordinamento e relativamente alla proprietà, un principio operante in via generale, e non già un complesso di obblighi speciali sanciti da particolari disposizioni di legge. Come complesso di obblighi speciali la funzione è stata spesso intesa in passato 339 e continua ad esserlo da quanti ammettono il momento funzionale solo in presenza di una espressa prescrizione, contenuta in una norma speciale 340 . Questo atteggiamento poteva, forse, dirsi giustificato prima dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana, che nel nostro sistema mancavano i riferimenti positivi su cui fondare una costruzione generale. A chi aveva creduto di potersi richiamare alle dichiarazioni VII e IX della carta del lavoro 341 si era infatti obiettato che « il fondamento non è solido, poiché le predette dichiarazioni non parlano della proprietà privata, sibbene della 337 338 339 340 341 Nota Nota Nota Nota Nota 278[…]. 279[…]. 280[…]. 281[…]. 282[…]. 263 iniziativa economica nel campo della produzione » 342 . Oggi, di fronte alla chiara lettera del secondo comma dell’art. 42 cost., nessun dubbio ha ragione d’essere; e s’è visto come si preferisca ricorrere all’argomento dell’indeterminatezza della funzione sociale, in verità sorprendente sulla penna di chi s’accontenta d’una vaga definizione della proprietà, adducendo a scusante l’estensione del tutto inconsueta del contenuto di quest’ultima. Né, posta la questione nei termini da noi precisati, è possibile far ricorso alla famigerata distinzione tra norme precettive e norme programmatiche; e neppure ci sembra rispettabile difesa l’introduzione d’una distinzione tra principi generali in materia costituzionale e principi generali del diritto tout court o del diritto privato. Dietro l’apparente rigore di queste distinzioni si cela la violazione d’uno dei fondamentali doveri dell’interprete, che è quello di ricostruire la totalità dell’ordinamento considerato 343; e l’ attentato più largo alle stesse ragioni del privato, esposto ad una indiscriminata serie di interventi particolari, non giustificati e disciplinati da alcun principio generale. Tutto ciò non significa soltanto che la funzione sociale, in quanto principio generale, possa operare anche in quelle situazioni di proprietà per le quali manchi una espressa disposizione che la richiami. Quando, parlandosi dell’operatività immediata della funzione, si dice che « essa … costituisce il cemento, l’idea unificatrice, il principio sistematico organizzatore che come tale supera l’episodio, scioglie i limiti della disposizione eccezionale, pone i nessi tra le disposizioni particolari e colma lacune, rispetto a tutte le norme nelle quali si può vedere una concreta e specifica attuazione di esigenze di carattere sociale a mezzo del diritto di proprietà» 344 — non si fa certamente della apologetica. Logica conseguenza di questa impostazione è il riconoscimento della estensibilità in via analogica di tutte quelle norme di carattere eccezionale il cui contenuto rappresenta una realizzazione del principio della funzione sociale, dal momento che proprio il sopravvenire di un principio di carattere generale ha fatto cadere il divieto dell’analogia 345. Inerendo alla struttura della proprietà, la funzione sociale vede diminuito il margine d’indeterminatezza, che abbiamo visto proprio della sua natura di principio elastico 346, ed acquista più precisi contorni da una ricostruzione che può con piena legittimità tener conto di tutti Nota 283: PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 143 […]. Nota 284: BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, Milano, 1948, pp. 46-50. 344 Nota 285: PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 278. 345Nota 286: RUBINO, Odierne tendenze sui limiti del diritto di proprietà, in Annali Macerata, 1948. pp. 83-84. 346 Nota 287[…]. 342 343 264 gli elementi presenti nel sistema, per determinarne l’operatività anche nelle situazioni più particolari. 8. –Queste ultime riflessioni sulla funzione sociale, che ha costituito un po’ il pretesto ed un po’ il filo conduttore di queste nostre note, possono quasi sembrarne l’apoteosi, visto che ad essa si assegna una operatività tanto ampia. Impressione, forse, non ingiustificata, di fronte alla consuetudine delle interpretazioni limitatrici, per non dire ferocemente avverse: ma che non rispecchia le nostre intenzioni. Ché, anzi, tanto eravamo lontani dall’assegnare alla funzione sociale un ruolo profondamente innovatore delle strutture giuridiche e della realtà effettuale, che non abbiamo mancato di sottolineare 347 come essa non costituisca la risposta offerta da un nuovo modo d’organizzarsi della società ai bisogni presenti, ma la moderna maniera in cui l’attuale sistema sociale cerca di dare più ampio respiro al suo più tradizionale istituto. Per questo, certi asseriti contrasti con le ragioni della libertà e dell’individuo ci son sembrati insussistenti. E com’era lontano ogni intento apologetico, così sfuggiva al nostro svolgimento ogni moralistica condanna, nel tentativo di ricostruire lineamenti giuridici e di riferirli ad un ambiente storico. Fuori da questa preoccupazione, numerosi autori han visto nella funzione sociale nient’altro che una formula difensiva del tradizionale assetto proprietario 348 , una «menzogna convenzionale» 349 . L’aspetto puramente verbale della riforma prospettata da Duguit o da Hedemann è stato l’oggetto degli attacchi diretti da parte marxista, criticandosi il tentativo di occultare il carattere classista della proprietà privata dietro escogitazioni come «le trasformazioni del diritto civile» o etichette come la funzione sociale 350. La storia, invero, sembra dar ragione a questi ultimi: ché, se riflettiamo sull’esperienza legislativa e giurisprudenziale degli ultimi quaranta anni, dobbiamo riconoscere che la funzione sociale della proprietà è stata formulata più operante nelle discussioni degli studiosi, che nelle coscienze dei giudici e dei politici. In essa si alimentarono, ingenue e generose, le illusioni di profondi rinnovamenti sociali, che essa non poteva offrire, destinata com’era a rappresentare non già una rottura del sistema, ma un mutamento di prospettive nel corpo di esso: 347 348 349 350 Nota Nota Nota Nota 288 289 290 291 […]. […]. […]. […]. 265 tornare a parlarne è quasi far la storia di un’utopia. Con essa si esercitarono i retori ed i confusionari 351. E, senza le giustificazioni più o meno nobili di quegli altri, ad essa i più accorti tra quanti perseguirono un disegno conservatore affidarono il compito di rassicurare sulle intenzioni e di non rappresentare un ostacolo alla contrastante pratica che, nelle cose quotidiane, veniva perseguita. Ma non si sarebbe buoni storicisti se alla storia si guardasse soltanto come ad una serie di errori, falsità, violenze, e non come ad un progrediente valore: alle nostre volontà è affidata la possibilità che la vicenda della funzione sociale della proprietà risulti diversa nell’esperienza giuridica che andiamo vivendo. Ed è questo che ci ha indotti a dar qualche cenno di una possibile prospettiva interpretativa. Questo che abbiamo indicato non è, però, il solo limite della funzione sociale; e neppure il maggiore. Esistono fenomeni che invano si cercherebbe di regolare ricorrendo ad essa. Sono, ad esempio, la maggioranza dei casi in cui ricorre una separazione tra la proprietà formale e la proprietà sostanziale 352, nei quali l’attenzione della normativa deve essere indirizzata sui Konnexinstitute 353 piuttosto che sulla proprietà; sono, in particolare, i casi di scissione tra proprietà e controllo, caratteristici del mondo della produzione, ove il concentrare la disciplina esclusivamente sul momento della proprietà significherebbe sancire, nel fatto, l’irresponsabilità assoluta di chi effettivamente opera. Proprio il moderno modo di organizzarsi del mondo della produzione offre gli esempi più cospicui dell’impossibilità di giungere ad un efficiente controllo della proprietà, che costituisce uno dei problemi più alti della società democratica, a mezzo della funzione sociale. Si pensi all’importanza assunta da uno strumento come la società per azioni 354, ai poteri da questa raggiunti in ragione dell’ampiezza, 351 Nota 292: Della confusione e della retorica di quegli anni è buona espressione la carta del Camaro, che data appunto del 1920, la quale si occupa della proprietà all’art. IX: «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della personalità sopra la cosa, ma la considera la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere rinserva alla persona quasi fosse una sua parte: né può essere lecito che tale proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, a esclusione di ogni altro; Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro; Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa massimamente profittevole all’economia generale». 352 Nota 292 bis […]. 353 Nota 293: RENNER, The institutions, cit., p. 105 ss. 354 Nota 294 […]. 266 alle forme di collegamento con cui opera 355 e si vedrà che la risposta ai problemi che la sua esistenza pone può esser costituita dalla disciplina antimonopolistica, dalle leggi sulla tenuta e sulla pubblicità dei bilanci e sulla responsabilità degli amministratori: più ancora, ad evitare l’abuso non è più sufficiente la proibizione di un particolare modo dell’esercizio dei poteri, che sembra stare a fondamento dell’abuso, ma è necessaria una modificazione istituzionale 356. E vogliamo tacere di soluzioni più comprensive, come la nazionalizzazione; e della pianificazione, di cui la vita economica sente il bisogno sempre maggiore e per cui dal diritto si attendono i nuovi strumenti. Affisando il pieno rigoglio di questo mondo nuovo, in cui si scorgono i segni di meravigliosi svolgimenti pur nelle strutture giuridiche, vien fatto di pensare che questi soltanto siano i temi con cui cimentarsi : ma, forse, il filo che conduce ad essi corre lungo antiche discussioni e vecchie incomprensioni della dottrina. Tentare di ripercorrerne qualche tratto, allora, può essere almeno un utile esercizio. Nota 295: si veda, da ultimo, l’esame dedicato a un fenomeno assai importante (la società holding) da LIBONATI, Holding e investment trust, nel volume collettaneo The corporation in modern society, a cura di Mason, Cambridge (Mass.), 1960, p. 38. 356 Nota 296: CHAYES, The Modern Corporation and the Rule of Law, nel volume collettaneo, The Corporation in Modem Society a cura di E. S. Mason, Cambridge (Mass.), 1960, p. 38. 355 267 15) M.S. Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, da Pol. Dir., 1971, n.4/5, pp. 443-501 1. In ogni tempo e in ogni luogo i diritti di proprietà, nelle loro varie specie, hanno avuto ed hanno rilevanza costituzionale. Precisare i modi che questa ha assunto e assume è peraltro difficilissimo, almeno se ci si vuole attenere ad ordini concettuali giuridicamente rigorosi: difatti nessuno sinora vi si è accinto, dovendosi ritenere storico-sociologici più che giuridici i grandi affreschi eseguiti dai maggiori sociologi tedeschi di questo secolo. È opportuno aver presente - anche in relazione al discorso che si va a svolgere - che ovunque il diritto di proprietà privata convive col diritto di proprietà collettiva, e, dal periodo in cui gli ordinamenti generali si sono entificati in enti rappresentativi - comuni, corone, principati, stati -, con i diritti di proprietà pubblica. Né, nel rapporto tra questi diversi diritti, è mai accaduto che il diritto di proprietà privata abbia avuto posizione di primato (contrariamente all’opinione corrente nella dottrina del diritto privato sino al primo quarto di questo secolo). Le forze di cui - come giuristi del nostro tempo – possiamo disporre, ci consentono quindi solo una limitata analisi delle rilevanze costituzionali del diritto di proprietà privata; ci permettono solo un confronto fra la rilevanza che tale diritto ha nelle costituzioni degli Stati borghesi liberali dello scorso secolo e quella che ha nelle costituzioni degli Stati pluriclasse non collettivisti del nostro. Già diverrebbe difficile un’estensione del confronto agli Stati pluriclasse collettivisti del nostro secolo, per lo scarso apporto che riceviamo dalla dottrina di questi paesi. [...] 9. Il rilievo, almeno esterno, delle linee percorse in vigenza dello Statuto del 1848, spiega perché il legislatore costituente del1946 trovò un campo apparentemente vergine, e pertanto pericoloso, come tutte le false verginità. Esso aveva tuttavia l’esperienza delle costituzioni di altri Stati, tra essi — come si diceva — principalmente quella tedesca di Weimar, nelle quali era stato adottato il modello 268 della costituzione rigida, e si erano poste delle norme sulla proprietà; esperienze, in linea di risultanza, positive, alle quali si ispirò. Ne venne fuori il complesso delle norme dell’articolo 42. Come esempio di normativa costituzionale, quella dell’art. 42non è particolarmente perspicua; il legislatore costituente italiano non ebbe capacità di previsione, e anche le norme che non gli posero difficili problemi, come questa, furono codificazione delle istanze già presenti nella collettività generale più che posizione di principi per una collettività in evoluzione. Peraltro come codificazione delle istanze, l’art. 42 ha quantomeno il vantaggio di essere sufficientemente chiaro. 10. Il primo comma dell’art. 42 contiene due enunciazioni. La prima è: «la proprietà è pubblica o privata». La maggior parte degli interpreti ha inteso l’enunciazione secondo la lettera, e si è posta a discettare circa il significato di proprietà pubblica, chiedendosi se è tale quella dei beni demaniali, ovvero anche quella dei beni patrimoniali degli enti pubblici, o ancora se sia tutta la proprietà privata delle figure soggettive pubbliche, e se comprenda le proprietà collettive, oppure le lasci fuori, e in tal caso se queste non siano «riconosciute» o invece esistano indipendentemente dalla Costituzione. E ancora si è chiesta se l’enunciazione costituzionale abbia valore precettivo, o altro diverso valore da identificare. Come pure si è chiesta se la distinzione tra le due proprietà significhi che il legislatore costituente ha inteso differenziare due tipi – più o meno fondamentali – di proprietà. Tutte queste discussioni, si può osservare, hanno un filo comune: sono fatte avendo esclusivo riferimento al diritto positivo vigente al momento dell’entrata in vigore della Costituzione (che è poi ancor il diritto attualmente vigente), cioè ad un diritto positivo in cui «proprietà pubblica» è una espressione non normativa ma dottrinaria, carica di oscurità e di riserve. È noto infatti che essa fu introdotta per spiegare la natura (o la struttura) dei poteri dominicali sui beni demaniali, ma coloro che la introdussero, in ultima istanza, non riuscirono a spiegare proprio nulla; e difatti vi furono altri i quali, pur dicendo di adottare il concetto, rilevarono che il dominus pubblico non aveva potere di disposizione, quasi mai aveva poteri di godimento 269 suoi propri, aveva limitate facoltà di utilizzazione; ossia affermando di adottare il concetto lo caricavano tuttavia di tali riserva sostanziali da dover far ritenere che in realtà adottassero una locuzione, sul cui tessuto era meglio non indagare troppo. Difatti a questa conclusione è giunta parte della dottrina più recente, specie quella che, attraverso l’analisi positiva dei beni pubblici demaniali e di alcuni dei beni patrimoniali indisponibili, ha posto in evidenza come l’ente pubblico in molti casi non è un fruitore del bene ma solo un amministratore di esso, per conto delle collettività o in ordine alla cura di determinati interessi pubblici. Ci si può quindi chiedere se sia plausibile ritenere che il legislatore costituente si sia proprio voluto occupare del demanio o dei beni patrimoniali indisponibili allorché ha adottato l’espressione «proprietà pubblica». Per quante critiche si vogliano fare a tale legislatore, non è tuttavia possibile pensare che esso non fosse a conoscenza delle riserve, se non delle contestazioni, che erano affluite sul concetto di «proprietà pubblica» come diritto sui beni demaniali. Ciò porta a ritenere che l’enunciazione «la proprietà è pubblica o privata » sia da intendere in senso più ampio, come affermazione di una dignità della proprietà pubblica non diversa da quella della proprietà privata. In tal modo l’affermazione avrebbe un valore politico polemico, nei confronti di quelle concezioni secondo le quali proprietà per eccellenza sarebbe la proprietà privata; e nel contempo avrebbe un valore, sempre politico, ma anche precettivo, nel senso che alla proprietà pubblica non si potrebbe attribuire un rango minore o marginale rispetto alla proprietà privata. Quanto al contenuto da dare alla proprietà pubblica, si deve intendere che il legislatore costituente abbia rinviato al legislatore ordinario, il quale potrebbe perciò introdurre o regolare in diversi modi la proprietà pubblica medesima: come proprietà collettiva dell’intera collettività statale o di collettività minori, come proprietà collettiva amministrata dallo Stato o da altri enti pubblici, come proprietà amministrata da un ente pubblico ma destinata ad essere utilizzata da imprenditori controllati, come proprietà di un ente pubblico utilizzata da questo per fini suoi propri (magari manifestazioni dirette della sovranità, se l’ente pubblico è lo Stato). In una parola sarebbero possibili i 270 modi più vari di organizzazione e di regolazione della proprietà pubblica, se e in quanto, secondo l’interpretazione che qui si suggerisce, non la si riduca ai significati marginali di diritto sui beni demaniali o di diritto di proprietà di enti pubblici. 11. La seconda enunciazione del 1° comma dell’art. 42 è: i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. È un’enunciazione che ha ricevuto molte critiche. Si è detto da taluni che è ovvia, epperciò pleonastica: è evidente, si è osservato, che i beni appartengono ad enti (tra cui lo Stato) e a privati; è evidente, si è ancora detto, che potendo gli enti essere pubblici o privati, l’enunciazione è quantomeno impropria, gli enti privati potendo essere – a volontà – collocati o tra gli enti o tra i privati; d’altra parte lo stesso Stato può essere proprietario di beni uti privatus, onde non s’intende che cosa siasi voluto stabilire allorché si è detto che può essere proprietario. Si aggiunge che tutti i beni sono, per definizione, entità economiche, per cui dire che i «beni economici» appartengono a diversi soggetti, è come dire che ogni soggetto giuridico può essere proprietario: enunciazione superflua e inutile anche perché non può distruggere eventuali limitazioni della legittimazione alla titolarità del diritto di proprietà. Ché se poi si volesse, tra i beni, individuare una specifica categoria costituita dai beni «economici», ci si imbatterebbe in altra difficoltà, stante che il bene «economico» non sarebbe diverso – ai fini dell’appartenenza – dal bene non economico: la differenza riguarderebbe semmai il godimento e l’utilizzazione del bene «economico», ma l’enunciazione costituzionale non di questi ma dell’«appartenenza» si occupa. Peraltro, una volta ammesso che esistano «beni economici» distinti da quelli non economici, non è pensabile che una differenziazione di regimi giuridici tra i diversi beni economici debba farsi, da parte del legislatore positivo, solo in base al criterio soggettivo dell’appartenenza: a che fine infatti si dovrebbe usare questo criterio totalmente formale e alogico? E poi che sono questi beni «economici», visto che tutti i beni sono economici? Di critiche di questo genere se ne potrebbero ancora allineare. Né vi è dubbio che l’enunciazione, nella sua scrittura testuale, è sconcertante se la si interpreta secondo i criteri con cui si interpreterebbe una norma civilistica, perché, comunque la si rigiri, sarebbe sbagliata, 271 o, nelle migliori delle ipotesi, incompleta o poco significativa. Se dunque le si vuol attribuire un significato – e non si può non farlo, essendo enunciazione costituzionale – sembra sia da usare lo stesso criterio che si è usato per la prima enunciazione del medesimo comma, e quindi vedere nella preposizione della norma costituzionale la statuizione di un principio politico. Solo così infatti l’enunciazione, che è presentata secondo il modello linguistico di una proposizione meramente descrittiva, da trattato giuridico e non da norma, può acquistare il valore precettivo proprio della norma, soprattutto poi della norma costituzionale; per cui essa viene a significare che l’ordinamento giuridico dello Stato italiano conosce tre specie di appartenenza dei beni economici (allo Stato, ad enti, a privati), onde nella tua formazione queste tre specie dovranno esistere. Esistere come? Questo è il vero problema; perché se la norma costituzionale avesse detto che nella formazione dell’ordinamento devono esistere beni mobili e immobili, oppure materiali e immateriali, sì saprebbe che cosa la norma avrebbe potuto voler dire. Qui invece viene usata un’espressione, quella di beni «economici», che è in assoluto dissueta: nessun testo giuridico la impiega, ed è ignota al linguaggio della scienza giuridica; tant’è vero che la dottrina, anche quella che dopo la Costituzione si è specificamente occupata della proprietà, ne tace, e non esiste alcuna pronuncia della giurisprudenza in cui ci se ne occupi. Nei lavori preparatori della Costituzione qualche idea, utile ai fini interpretativi, in qualche modo emerge. Vi fu in alcuni componenti dell’Assemblea una preoccupazione: che un legislatore futuro, o un legislatore regionale, «riservassero» all’ambito della proprietà pubblica la proprietà dei «mezzi di produzione», restringendo l’ambito della proprietà privata ai beni di godimento personale: in ciò, essi asserivano, seguendosi un modello che ravvisavano proprio dei paesi collettivisti (nei quali tuttavia la formazione non è così elementarmente rozza come verrebbe fuori da queste rappresentazioni); di qui la richiesta che nella costituzione fosse detto chiaramente che i mezzi di produzione potessero essere anche oggetto di proprietà privata. Ma per la poca chiarezza d’idee sul rapporto proprietà dello Stato-proprietà pubblica, senza star troppo a sottilizzare sulla proprietà «agli enti», 272 essendocisi convinti che «proprietà dei mezzi di produzione» è espressione di un linguaggio politico di battaglia, non avente rilevanza scientifica neppur nelle scienze economiche e sociologiche, si escogitò la locuzione «beni economici» con l’intenzione che essa potesse intendersi come beni aventi rilevante importanza nei processi economici di produzione e di scambio. Nessuno dei costituenti ebbe a riflettere che il cardine intorno a cui ruotano questi beni così mal definiti non è, nel mondo contemporaneo e in tutti i regimi politici, il diritto di proprietà, ma l’impresa. Sulla base dell’elemento interpretativo storico è peraltro possibile dare un significato all’enunciazione che si sta esaminando, ma nella determinazione del significato è implicita anche una conclusione negativa; che è inutile cercare di fissare un valore giuridicamente definito di «bene economico»; il valore della norma non sta infatti nel determinare una nuova categoria di beni e nello stabilire dei principi per la disciplina di tale categoria. Mentre nell’enunciazione precedente potrebbe essere implicito il comando volto al legislatore di stabilire una proprietà pubblica (o anche più tipi di proprietà pubblica), in questa vi è solo l’implicazione di un divieto, oggettivamente limitato: non può non esser prevista, nella formazione dell’ordinamento, la proprietà privata di beni aventi rilevante importanza economica. Tale implicazione si potrebbe già ricavar, invero, dalle norme sull’iniziativa economica e sull’impresa contenute nell’art. 41, e la proposizione in cui si esprime è presupposto giuridico delle norma sulle collettivizzazioni (art. 43) e sulla proprietà agricola (art. 44). Tuttavia nell’architettura – non importa se più o meno sapiente – di spinte e controspinte con cui è concepito il nostro edificio costituzionale, l’enunciazione che si sta esaminando può dirsi superflua ma non è inutile. Si può, a conclusione, osservare che le date enunciazioni del 1° comma dell’art. 42 sono ambedue statuizioni di principi politici; per coloro che nel sistema di questi ravvisano la costituzione materiale, si può dire sono esplicitazioni di regole componenti tale costituzione. 12. A differenza delle enunciazioni del 1º comma, quelle del 2º comma dell'art. 42 sono stilate nel linguaggio corrente 273 delle proposizioni precettive. Sicché dottrina e giurisprudenza non ne hanno rifiutata l'interpretazione, come invece, in ultima istanza, hanno fatto per quelle del lº comma. Il secondo comma si compone di tre enunciazioni: a) la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge; b) la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale; c) la legge ne determina i modi di acquisto, ecc., allo scopo di renderla accessibile a tutti. Delle tre enunciazioni la prima soprattutto ha sollevato discussioni, in quanto si è in essa voluto scorgere una sorta di definizione costituzionale del diritto di proprietà privata. È tuttavia indiscutibile che l'interprete, il quale si avvicini ad essa senza prevenzioni, non può non rilevarne la sommarietà; tanto più evidente se si confronti questa enunciazione con tante altre che si incontrano in tutta la prima parte della Costituzione (diritti e doveri dei cittadini), le quali appaiono tutt'altro che sommarie e anzi talora sono particolarmente ricche e dettagliate. Constata zione, questa, che corrisponde del resto ad un noto e preciso elemento storico di ermeneutica della normazione costituzionale: se è vero che le costituzioni attuali, a differenza di quelle dello scorso secolo, tendono ad attribuire alle situazioni giuridiche fondamentali dei cittadini, e anzi di tutte le persone fisiche, carattere di diritti soggettivi nel senso pieno del vocabolo, è logicamente coerente che esse regolino il contenuto del «diritto fondamentale» nel modo più completo possibile, per evitate che fermandosi all'enunciato «la stampa è libera ma una legge ne reprime gli abusi» (art. 28 Statuto albertino), la legge possa qualificare abuso ogni critica al parroco o al maresciallo dei carabinieri - a seconda dei colori politici dominanti. È così che alla libertà personale l'art. 13 Cost. dedica un lungo testo scomponibile in quindici enunciazioni (contro tre dell’art. 26 dello Statuto albertino); che ad una libertà modesta come quella di circolazione l'art. 16 dedica otto enunciazioni (contro zero dello Statuto albertino); che alla salute l'art. 32 dedica cinque enunciazioni; che al diritto elettorale spettino nove enunciazioni (art. 48). E ciò per tacere di testi di articoli stracarichi di enunciazioni, come p. es. quelli dell'art. 21 274 (libertà di manifestazione del pensiero), dell'art. 33 (arte, scienza, istruzione), dell'art. 38 (protezione sociale), e altri. Appetto a tutti questi testi costituzionali, l'enunciazione relativa alla proprietà privata è di aspetto dimesso; si dice solo che essa proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge. Le enuncia zioni che seguono, sia nel medesimo secondo comma che nel comma successivo, a differenza delle enunciazioni che si trovano nella maggior parte dei testi degli articoli concernenti le libertà civili, i rapporti etico-sociali, gli stessi rapporti economici (tra i quali nell'architettura costituzionale, si iscrive il diritto di proprietà) non dispongono ulteriori garanzie del diritto e/o limiti e potestà pubbliche; al contrario dispongono limitazioni al diritto di proprietà, nel senso che di questo circoscrivono il contenuto e in genere la disciplina. Se dunque si fa un confronto tra il riconoscimento e la garanzia del diritto di proprietà privata e il riconoscimento e la garanzia di altri diritti fondamentali, di persone umane o anche di gruppi, ci si avvede che nella scala delle tutele costituzionali al diritto di proprietà si assegna un posto modesto; un po' superiore a quello che si assegna al paesaggio (la Repubblica tutela il paesaggio: art. 92), ma inferiore a quello assegnato a qualsiasi altro dei diritti fondamentali. Se si considera che nello Statuto del 1848 essa era una delle sei situazioni soggettive costituzionalmente garantite, si può ictu oculi misurare la differenza tra le due normative costituzionali. Si potrebbe osservare che la misura della tutela costituzionale di un diritto fondamentale può non essere data dal numero delle parole che impiega il testo costituzionale nel porre le proprie enunciative; si potrebbero ricordare le lapidarie enunciazioni relative alle prestazioni imposte (art. 23) o al diritto di sciopero (art. 40). Peraltro i rilievi che si son fatti sulla prima enunciazione dell'art. 42² non vogliono essere - se così può dirsi - di statistica del linguaggio, ma di valore espressivo del linguaggio. L'art. 23 vale in quanto introduce il concetto di «prestazione imposta»; l'art. 40 vale in quanto qualifica come diritto la situazione soggettiva relativa all'esercizio dello sciopero; l'art. 42² invece si limita a d1re che la proprietà privata è riconosciuta e garantita (dalla legge), ossia usa due aggettivi che nel linguaggio del testo 275 costituzionale non sono particolarmente significati normativi specifici. Il che passiamo ad esaminate. carichi di [...] 15. Facendo allora il punto dell'analisi che si sta conducendo possiamo constatare che sinora non sono emersi concetti normativi specifici; in altre parole all'analisi risulta che la proprietà privata è un istituto o un diritto il quale pertiene alla costituzione materiale, e ciò è riconosciuto dalla norma della costituzione formale; che è diritto fondamentale, a cui si applica il regime della riserva di legge. Non è molto: a parte il riconoscimento, il minimo che si possa statuire per un diritto fondamentale è dargli garanzia; mentre però agli altri diritti fondamentali la normativa costituzionale dedica sempre parecchie enunciazioni precettive specifiche, - ossia fissa essa direttamente il contenuto della garanzia - queste mancano per il diritto di proprietà privata. Ma adesso occorre passare alle ultime due parole che conchiudono l'enunciazione costituzionale in esame: «dalla legge». Dell’enunciazione che si sta esaminando l'elemento di discorso costituito da queste due parole è la parte più nota, anche tra profani, per la discussione a cui ha dato origine. Infatti una tesi autorevolmente proposta e argomentata, osservò che l'enunciato «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge» forma una proposizione passiva perfetta, alla quale nulla si deve aggiungere e dalla quale nulla si può togliere: è la legge che determina il riconoscimento e la garanzia de1la proprietà privata; ma siccome la norma costituzionale nulla dispone circa i principi a cui la legge deve ispirarsi, o i limiti a cui deve attenersi, ne seguirebbe che la legge, ossia il legislatore ordinario, disciplina il riconoscimento o la garanzia come volta per volta reputi più idoneo; e ciò in quasi assoluta libertà, perché la sola cosa che non può fare è di «sopprimere la proprietà privata». Siccome però gli spetta disporre, oltre che della garanzia, anche del riconoscimento, esso è anche il signore della fonte: è arbitro nel rico-noscere in quali casi e come debba esistere in diritto positivo proprietà privata. 276 La parte maggiore dei giuristi non concorda con questa tesi, ma 1a maggior parte di tale maggior parte lo fa in base ad un argomento che non ha alcun valore: quello secondo cui se così fosse l'enunciativa costituzionale «non varrebbe niente». Il che non è proprio vero, perché già l'analisi sinora svolta ha mostrato che la proprietà privata oltre ad essere recepita come principio di costituzione materiale, è diritto fondamentale fruente di riserva di legge. Altro è dire che l'enunciazione costituzionale si è, per ciò che attiene alla garanzia, attestata ad un minimo, altro è dire che non ha disposto niente. Del resto si è anche avvertito che il riconoscimento non è espressione vuota (e ci si tornerà tra poco). Le altre tesi che non concordano adducono argomenti più solidi. Ma siccome sono diverse e con diverse prospettive o varianti, con una certa forzatura che però fa guadagnare in chiarezza, si potrebbero schematizzare come segue. Secondo alcuni la proposizione del testo costituzionale andrebbe letta cosi: «la proprietà privata è riconosciuta; essa è altresì garantita dalla legge». Secondo altri andrebbe letta cosi: «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, la quale ne può determinare solo i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo...». A chi osservasse che con ambedue queste letture si altera la lettera del testo costituzionale, si potrebbe replicare che i testi costituzionali sopportano bene le terapie ortopediche, e che i nuovi testi or riportati sono in fondo un artificio retorico a cui ricorriamo per render più lucido il pensiero spesso involuto dei vari autori. […] 21. La contesa fra le due tesi è però ingiustificata, poiché esse non sono affatto in contrasto. L’enunciato relativo alla funzione sociale ha infatti duplice valore, così come del resto avviene per l’enunciato ‘relativo alla «utilità sociale» dell’art. 41, per quello di «preminente interesse generale» e per gli altri dell’art. 43, e così via; per un aspetto esso è qualificazione del diritto di proprietà privata, in quanto dispone che tale diritto è ordinato ad una funzione (e tuttora ferve la discussione per, stabilire come ciò avvenga: v. oltre § 2.3) ; dall’altra però è anche disciplina costituzionale del riconoscimento e della garanzia del 277 diritto di proprietà privata, ossia è «limite» alla legge ordinaria, come si è detto da taluni, utilizzando un concetto che andrebbe forse approfondito, ma che comunque nel suo significato empirico è sufficientemente adeguato. È da ricordare che in ordine a questo e ad altri enunciati eguali la giurisprudenza delle corti costituzionali è ovunque orientata nel senso che il giudice costituzionale ha il potere di verificarne il nomen bonum nelle leggi in cui essi siano invocati a fondamento di un certo contenuto normativo, C n ciò respingendo quelle tesi secondo le quali la «discrezionalità» del legislatore non sarebbe controllabile da parte dei giudici di legittimità costituzionale. Tesi che, più che respinte, sono state dimensionate, asserendosi che, quando la norma costituzionale stabilisce delle finalizzazioni da osservare nell’adozione di norme legislative, non v’è discrezionalità (usiamo questo vocabolo, pur non essendo del tutto proprio) nella scelta della finalità della normazione e l’esistenza positiva della finalità è verificabile; anche se vi è invece «discrezionalità» nella scelta dei contenuti delle norme medesime. Si ricorda, per quanto ci riguarda, il gruppo di sentenze della Corte costituzionale relative alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, nelle quali la Corte sindacò se si fosse in presenza di servizio pubblico essenziale e/o di fonte di energia, e se l’attività imprenditoriale relativa avesse carattere di preminente interesse generale. Questo in termini generali; in termini concreti, e relativamente al diritto di proprietà privata, occorre aver chiaro che il problema si pone non per un astratto diritto di proprietà privata ma per diritti di proprietà privata relativi a tipi di beni: la funzione sociale del diritto di proprietà costituisce (comunque la si intenda) un elemento essenziale del diritto medesimo, ma non si può determinare come elemento positivamente regolato, ossia nei suoi tratti esistenziali, se non con riferimento a tipi di beni. Questo è constatabile direttamente proprio nei diritti positivi: già nelle leggi civili si conosce la distinzione tra il tipo proprietà mobiliare, il tipo di proprietà immobiliare, e il tipo proprietà mobiliare a circolazione controllabile (automezzi, navi, ecc.); ma ormai la proprietà edilizia, forestale, agraria di terre di bonifica, e così via 278 costituiscono altrettanti tipi nei quali la funzione sociale diversamente si modula nelle sue statuizioni positive. Consegue da ciò che l’’attribuzione di rilevanza costituzionale alla funzione sociale del diritto di proprietà (privata, ma ciò vale anche per la proprietà pubblica) non può avere che contenuti concreti: è in relazione ai diversi tipi di proprietà. Si può dunque intendere come essa dia luogo a proposizioni prescrittive determinative del contenuto di leggi che disciplinino materie «diritti di proprietà», e pertanto costituisca delimitazione di potere normativo. 22. L’analisi non termina qui; tuttavia si può già ora addivenire ad una messa a punto, in ordine al significato dell’enunciazione costituzionale contenuta nell’intero secondo comma dell’art. 42. Può essere sintetizzata come segue: a) l’enunciazione della norma costituzionale, giusta la quale tanto il riconoscimento che la garanzia del diritto di proprietà privata spettano alla legge, non contiene alcuna proposizione precettiva implicita da cui derivi l’esistenza di un qualche tratto necessario sia del riconoscimento che della garanzia a cui la legge dovrebbe attenersi (§§ 16-19); b) l’indicazione della norma costituzionale secondo cui la legge disciplina i modi d’acquisto, di godimento e i limiti del diritto di proprietà privata significa che spetta alla legge disciplinare l’intera materia della proprietà privata sia in ordine al riconoscimento che alla garanzia, onde non vale come prefissione di regole alla normazione legislativa bensì come attribuzione di una potestà legislativa senza né criteri né delimitazioni costituzionali (§ 20); c) l’indicazione della norma costituzionale secondo cui l’attribuzione del legislatore ordinario di potestà normativa illimitata è peraltro ordinata alla funzione sociale della proprietà privata, è invece prefissione di regola alla normativa legislativa e insieme connotazione costituzionale delle proprietà (§ § 20-21); d) l’altra indicazione che finalizza la potestà normativa legislativa alla introduzione di strumenti che rendano accessibile la proprietà a tutti è ìterazione esplicativa del principio di costituzione materiale di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) (§ 20). Sicché nel mentre sono da respingere le tesi che vorrebbero trovare nelle enunciazioni costituzionali delle altre 279 enunciazioni, tali da riempire il riconoscimento e la garanzia di contenuti costituzionalmente prefigurati, è. anche parzialmente da respingere la tesi che vorrebbe la legge arbitra di ogni situazione attinente al diritto di proprietà privata. Invero la normativa costituzionale si è posta su un piano del tutto concreto, perché attraverso il principio della funzione sociale introduce il concetto della pluralità dei tipi (del diritto) di proprietà. Il quadro entro cui opera questa statuizione è tuttavia ancor più ampio, poiché la stessa normativa ne enuncia alcuni, dei quali taluni disciplina con norme proprie. A questo proposito è stata richiamata da parecchi autori l’enunciazione del 1° comma, relativa alle due figure della proprietà pubblica e della proprietà privata; peraltro, giusta quanto esposto al § 10, si potrebbe ribattere che essa ha significato diverso. Però già una enunciazione più pertinente è quella, sempre del 1° comma, relativa alla proprietà dei beni economici, che è, come si vedeva (§ 11), garanzia di una proprietà privata avente un preciso oggetto. Del tutto pertinenti sono infine le enunciazioni concernenti la proprietà agraria (art. 44), la proprietà dell’abitazione, la proprietà diretta coltivatrice, la proprietà azionaria (art. 47). Per la prima le enunciazioni della norma costituzionale sono dettagliate e precise; non è il caso di esaminarle in questa sede, poiché qui interessa solo constatare che è uno dei tipi di proprietà privata che la stessa costituzione codifica. Ciò rende superfluo uno dei suggerimenti avanzati per spie. gare la norma dell’art. 422, ossia che l’enunciazione quivi contenuta sarebbe garanzia della proprietà come istituto anziché come diritto. Invero questa distinzione è piaciuta, e si possono trovare anche sottili discorsi per precisare se è garantito solo il diritto o solo l’istituto o ambedue, e come. In sede teorica la distinzione non è pertinente, perché se un istituto giuridico ha, tra i suoi elementi strutturali, anzi come primo di essi, un diritto soggettivo, non si capisce come la garanzia dell’istituto non sia insieme garanzia del diritto. La nozione di istituto giuridico ha altri ruoli conoscitivi, e non può servire a scindere l’istituto giuridico dalle sue componenti. In sede applicativa e derivativa con la distinzione si voleva solo dire, come si è accennato già indietro, che «un legislatore futuro non potrebbe mai sopprimere la proprietà 280 privata». Discorso che come ipotetica riduzione a soldoni di un precetto normativo è quantomeno banale, e come enunciazione di una pretesa conseguenza di una normativa è errato, perché il legislatore futuro non avrà mai a che fare con. una creatura celata fra i petali di una rosa mistica dal nome proprietà privata, ma avrà sempre a che fare con tipi positivi e ben corposi di proprietà private; di essi almeno quattro sono riconosciuti dalle stesse norme costituzionali, per precise fisionomie, e almeno altri due sono riconosciuti, sempre dalle stesse norme, quantomeno per abbozzo; quelli non espressamente menzionati sono tuttavia identificabili attraverso l’elemento qualificante della funzione sociale. […] 23. Per chiudere l'analisi di questo comma dell'art. 42, ci si dovrebbe soffermare a dire della funzione sociale. Tale argomento è però in certo modo fuori del quadro della rilevanza costituzionale, che ci siamo proposti di analizzare; la nozione di funzione sociale dei diritti di proprietà privata è nata nella scienza del diritto privato, e la norma costituzionale da essa l'ha presa, senza aggiungervi proprie connotazioni, neppure indentali. Se poi nella scienza del diritto privato il dibattito è tuttora aperto, ed anzi ha avuto punte di ripresa negli ultimi tempi, la norma costituzionale non ne condiziona il contenuto. Sopra (al § 21) si era detto che la funzione sociale va intesa come presenza di qualificazioni giuridiche attinenti al diritto di proprietà. Ma con ciò si è aderito ad una prospettiva o concezione che non è mai stata dalla dottrina privatistica dominante sino a che Pugliatti non ebbe formulato le sue tesi: la dottrina privatistica aderiva infatti alla concezione che la funzione sociale fosse un limite o un complesso di limiti «esterni» al diritto di proprietà concezione che, seppure nella sua formulazione meno recente non è scomparsa, o quantomeno non è ricomparsa, in formulazioni più accurate è stata invece riesumata, talora con curiose inversioni di ruoli. Così, giusto per citare due casi, il sottile e per i suoi tempi avanzato suggerimento del Cesarini Sforza, che nella situazione soggettiva del proprietario non potesse ravvisarsi un diritto, ma un congiunto di diritti e di obblighi, è stato ripreso come riesumazione della tesi del limite esterno in chi ha 281 sostituito all'obbligo un «elemento obbligatorio» da intendere come determinativo dell'ampiezza dei poteri del proprietario, e quindi di diversi modi di conformarne la struttura o il contenuto. Così anche il suggerimento, avanzato soprattutto da studiosi di diritto agrario, che la proprietà privata non potesse raffigurarsi come un istituto semplice, limitato ad un rapporto tra un soggetto e un bene, ma come un istituto complesso che comprendesse più rapporti fra più soggetti, è stato ripreso e invertito da chi ha sostenuto che la funzione sociale inerisce all'istituto e non al diritto (discorso su cui v. però al § prec.). La strada su cui si è posta la dottrina privatistica più recente è però certamente – per usare le parole di Nicolò – quella di stabilire in qual modo la funzione sociale da elemento teleologico estrinseco si è trasformato in modi di essere della tutela della situazione di interesse propria del dominus. Le ricerche di maggior rilievo sinora apparse sembrano indirizzate a trovare tale «modo di essere» in un collegamento tra la funzione sociale e il bene, e anzi su questo approccio v’è anche una certa concordanza tra dottrine di diritto privato e di diritto amministrativo. Quando però si passa a maggior profondità, si trova chi ritiene che il bene è, nel suo ambito giuridico, determinato dalla norma in ordine a un interesse che va considerato «prevalente», onde l’ambito giuridico del bene è ambito della tutela del diritto; chi ritiene che dalla disciplina del bene si determinano i modi di utilizzazione, e quindi il contenuto stesso del diritto; vi sono ovviamente tesi intermedie, tra queste due della tutela oggettiva del bene e della determinazione soggettiva dei poteri attribuiti al titolare del diritto. Sinora i risultati non sono proprio appaganti, e i punti sicuri sono solo agli estremi: se si assume «funzione» nel senso che in teoria generale fissò Santi Romano, di attività rilevante per la sua globalità e in ogni suo manifestarsi, deve dirsi che in nessuna normativa positiva vi sono specie di diritti di proprietà privata per i quali possa dirsi sussistente una funzionalizzazione (mentre invece esistono specie di diritto d’impresa funzionalizzante anche radicalmente, per es. le imprese di public utilities negli USA, le imprese agrarie «dirette» in Francia). All’opposto non è però dubbio che la funzione sociale della proprietà non indica un limite esterno: per usare un termine 282 inespressivo ma di uso corrente, esistono varie decine di proprietà private il cui «contenuto» è «confermato» da provvedimenti dell’amministrazione, nel rispetto del principio della riserva di legge, e alcune di esse, come la proprietà edilizia, neppure vengono a esistere se manca il provvedimento conformativo dell’autorità. La funzione sociale si situa quindi in un luogo intermedio tra la funzione in senso giuridico e il c.d. limite esterno (dato e non concesso che tale nozione sia accettabile): la difficoltà dell’euristica sta nel fatto che sono qui necessarie nuove categorie, le vecchie non essendo più adeguate. 24. Si può dunque passare al terzo comma dell'art. 42: la proprietà privata, può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. A differenza del secondo comma, questo contiene una sola enunciazione, e potrebbe apparire di ermeneutica più semplice. Invece così non è stato, in quanto parte della dottrina ha costruito su di esso un'altra gran piramide. Dalle non molte cose rinvenibili nei lavori preparatori della Costituzione si desume che, in fondo, il precetto costituzionale fu posto perché già esisteva nello statuto albertino, e sì volle precisare che l'espropriazione poteva farsi non solo per ragioni di pubblica utilità, ma per qualunque motivo d'interesse generale. Fu dunque un’ enunciazione voluta per ampliare l'ambito della proposizione precettiva che conteneva già lo Statuto del 1848, e per rendere la statuizione costituzionale corrispondente a quella che, nel frattempo, era già la statuizione della norma civile (art. 834): se in un regime di costituzione flessibile era stato possibile ampliare la funzione del procedimento espropriativo, disancorandolo dal motivo della realizzazione dell'opera pubblica - com'era nello Statuto albertino -, ciò non sarebbe più stato possibile se la precedente disposizione fosse rimasta in un regime a costituzione rigida. In sostanza l'Assemblea costituente discusse, di questa proposizione, solo due punti: quello relativo ai motivi d'interesse generale, e quello relativo all'indennità. Quanto al primo, l'Assemblea trovava già nella dottrina elementi decisamente chiari: sin dalla legge per Napoli si era rilevato che occorreva una certa audacia (ma il legislatore può fare 283 tutto!) per ritenere che fosse «opera pubblica» il demolire gruppi di edifici fatiscenti per rivendere poi a privati le aree risultanti dai nuovi tracciati stradali; di fronte alle espropriazioni disposte per insediamenti industriali futuri o, più ancora, per dare ai comuni compendi di aree da servire per pianificare l'espansione urbana e calmierare i prezzi, non si ebbero più dubbi circa la recisione del legame che univa opera di pubblica utilità ed espropriazione. Questa concezione passò quindi senza difficoltà nel precetto costituzionale. Quanto all'indennità, la discussione si puntualizzò sul se dovesse apporsi l'aggettivo «giusto» o altro analogo o altra frase che dicesse qualcosa di più. Prevalse l'opinione negativa, in base alla considerazione che nel concetto stesso di indennizzo, è contenuta una commisurazione al valore della res per cui qualunque ulteriore aggettivo sarebbe stato solo fonte di contenzioso. L'Assemblea costituente non ebbe affatto presenti i moderni problemi che presenta l'indennità di espropriazione, sui quali peraltro qui non ci intratterremo, perché non attinenti alla proprietà, ma alle ablazioni dei diritti e delle utilitates dei beni, ossia ad un tema assai più ampio (cfr. § 28). Dall'analisi della genesi della norma non emerge altro. L'Assemblea costituente non si pose neppure l'interrogativo della portata di questa enunciazione, e la presenza di un'enunciazione identica nel vecchio Statuto fu tacitamente intesa nel senso che se ne imponesse l'adozione nel nuovo, quasi la storicità del fatto passato esigesse dal futuro una ripetizione necessaria. Una prova di questo modo d'intendete la genesi della norma può esser data anche dalla constatazione che a problemi di cui si è parlato al § 4 - cioè l'esistenza, nell'ordinamento, di misure ablatorie più gravi dell'espropriazione, e non elevate alla rilevanza costituzionale -, non giunse alla soglia dell'attenzione del legislatore costituente; come pure esso non pose mente al fatto che l'espropriazione non ha per oggetto solo il diritto di proprietà, ma, in ordinamenti come il nostro, almeno ogni diritto reale, e in altri perfino qualsiasi diritto soggettivo (v. § 28). Sicché la statuizione del legislatore costituente fu il risultato di una concezione che se fosse stata di un uomo di scienza si sarebbe potuta dire errata, in due sensi, per 284 difetto; essendo di un legislatore si può dire solo che fu 1imitata a due aspetti della materia: alle espropriazioni, restando fuori tutti i provvedimenti ablatori che non comportano indennità; alle espropriazioni del diritto di proprietà privata, restando fuori le espropriazioni di altri diritti a cominciare dall'espropriazione dei diritti di proprietà collettiva e di proprietà pubblica (che la giurisprudenza e la dottrina correntemente ammettevano e ammettono). […] 30. […] proviamo a porre la questione in termini astratti: quali potrebbero essere le interpretazioni della norma costituzionale ipoteticamente possibili. a) La prima è che la norma costituzionale abbia inteso limitare l’ambito dei diritti espropriabili al solo diritto di proprietà privata. Di questa possibile interpretazione ci si può sbarazzare subito, essendo immediatamente evidente come essa è senza senso, perché, nel mentre non aumenterebbe la tutela dei diritti dei privati, priverebbe di tutela gli interessi pubblici allorché questi richiederebbero l’estinzione, indennizzata, di un diritto del privato che non sia quello di proprietà. È stato del resto già osservato da parecchi che l’art. 43 successivo contempla un trasferimento« mediante espropriazione e salvo indennizzo » di imprese, ossia ammette che l’espropriazione possa rivolgersi ad un diritto certamente più importante del diritto di proprietà privata, qual è il diritto d’impresa (non interessa sapere se questo provvedimento ablatorio sia vera e propria espropriazione del diritto d’impresa, o altro tipo di ablazione reale). b) Che la norma costituzionale abbia inteso che tutti i provvedimenti ablatori incidenti sul diritto di proprietà privata comportino indennità. È questa l’interpretazione che si trova adombrata, anzi forse accennata, nella seconda delle pronunce della Corte costituzionale, e comunque circola in parte degli operatori giuridici pratici. Presso questi ultimi ne è individuabile l’origine, che è la più volte rilevata generalizzazione spuria della figura dell’espropriazione, fatta coincidere con il provvedimento ablatorio. Non v’è dubbio che tale interpretazione è, almeno in apparenza, semplice, ma neppur è dubbio che essa è 285 assurda, perché in (nessuno dei diritti positivi esistiti ed esistenti è riscontrabile l’esistenza di una categoria giuridica costituita dai provvedimenti ablatori incidenti sul diritto di proprietà, anche se, forse (ma molto forse) essa è riscontrabile nelle scienze economiche. I provvedimenti ablatori, nei diritti positivi storici e vigenti, non si classificano in relazione alla natura del diritto (o di altra situazione soggettiva) inciso, ma in ragione dell’effetto che producono. Riprendendo esempi di provvedimenti ablatori che incidono sul diritto di proprietà (o su quello dell’impresa: ai fini di quanto qui interessa, i due diritti si presentano al medesimo modo, tuttavia, per non complicare, si assumono solo fattispecie relative al primo), fatti nei precedenti paragrafi: l’ordine di distruggere e incenerire il vigneto attaccato dalla peronospora, l’ordine di distruggere cose prodotte con sostanze tossiche, l’ordine di distruggere e interrare una condotta che scarica acque luride in un fosso pubblico, e così via, possono trovare di fronte a sé proprietari nella più perfetta buona fede, ed esenti da responsabilità; pur tuttavia chi fra essi è colpito da uno di questi provvedimenti, vede estinto o gravemente inciso il proprio diritto dominicale, e non ha alcun diritto ad indennità. La ragione è la stessa in tutte le normazioni positive: questi sono provvedimenti ablatori personali, e con essi l’amministrazione non acquista diritti sul bene a cui il provvedimento si rivolge. L’effetto del provvedimento consiste nel costituire obblighi in soggetti che di fronte all’amministrazione sono in situazione di soggezione. Se poi passiamo ai provvedimenti ablatori obbligatori, ossia a quelli che producono effetti consistenti nella nascita di un’obbligazione o nel render certo un credito dell’amministrazione in un’obbligazione ex lege, si trovano tra essi tutte le imposizioni tributarie, e in genere i provvedimenti dei quali nasce a carico del privato un’obbligazione di dare avente natura di prelievo coattivo. Anche questi sono provvedimenti ablatori che, sia pur con lo strumento dell’obbligazione, incidono nel diritto di proprietà, e sarebbe assurdo pensare che comportino indennità. Altre volte vi è un provvedimento ablatorio obbligatorio, il quale però comporta trasferimento di proprietà con corrispettivo: così per le vendite coattive negli ammassi 286 per contingente, per gli acquisti coattivi di prodotti agrari o industriali al fine di costituire scorte pubbliche. L’incidenza nel diritto di proprietà è qui ancor più evidente, e il fatto che l’amministrazione sia debitrice di un prezzo deriva dal modo con cui è strutturata l’ablazione (impiego del modulo privatistico del contratto di un certo tipo). La conclusione è quindi che i provvedimenti ablatori, nelle loro varietà dei provvedimenti personali, reali od obbligatori, possono incidere sul diritto di proprietà privata così come su ogni altro diritto (o altra situazione soggettiva), ma non vi è alcun raccordo necessario tra provvedimento ablatorio e indennità; esistono invece tanti diversi moduli, come quelli del prelievo, dell’imposizione di un contratto, dell’imposizione dell’obbligo, dell’acquisizione coattiva, del trasferimento coattivo, e così via, in taluni dei quali si contempla un corrispettivo, in altri una indennità, in altri nulla. 31. c) Una terza possibile interpretazione della norma è quella giusta la quale quantomeno limitatamente ai provvedimenti ablatori reali si contempli un’indennità. È l’interpretazione che si trova nella sentenza 6/1966, sulle servitù militari, espressa peraltro con ordini concettuali primitivi, ed è anch’essa diffusa nella pratica, con vocabolari spesso elementari, In sé considerata quest’interpretazione è inaccettabile, per alcuni dei rilievi esegetici che già erano emersi ai § § 28 e 29: l’enunciazione della norma costituzionale menziona solo le espropriazioni dei diritti di proprietà privata, lascia fuori le espropriazioni degli altri diritti, diversi da quelli di proprietà privata; inoltre non menziona provvedimenti ablatori reali più gravi di quelli espropriativi, come le requisizioni, le confische, le occupazioni d’urgenza con esito distruttivo del bene del privato: mentre sarebbe relativamente taci1e ritenere che nell’indicazione di un provvedimento più grave sia compreso il provvedimento meno grave (si che, p. es., l’enunciazione costituzionale potrebbe essere intesa come comprensiva delle requisizioni in uso, delle occupazioni preliminari, delle occupazioni strumentali, dei sequestri amministrativi, delle enfiteusi e delle superfici coattive, ecc.), è invece molto difficile ritenere l’opposto, ossia che l’indicazione del 287 provvedimento meno grave comprenda anche quelli più gravi. Se a questi elementi esegetici si aggiungono quelli storici, già indietro analizzati, dovrebbe risultare chiaro che anche questa terza possibile interpretazione è da respingere, e che vale invece quella interpretazione a cui si era giunti già al § 26, ossia che la norma costituzionale esprima solo ciò che significa l’enunciato con cui si manifesta. 32. Tuttavia il problema del fondamento costituzionale dei provvedimenti ablatori reali sussiste. Sussiste non tanto perché sia depistato dall’art. 42², ma perché la normazione costituzionale è tutta preoccupata – se è lecita questa metafora – dei provvedimenti ablatori. Si consideri infatti come alle ablazioni obbligatorie sono dedicate una norma generale, che è nell’art. 23, più due norme speciali, una per le ablazioni obbligatorie militari (art. 52),e una per quelle tributarie (art. 53): sicché tutte le imposizioni di prestazioni pecuniarie e patrimoniali in genere, lavorative e professionali, tutti i contratti coattivi nelle loro numerose varietà, tutte le imposizioni di obblighi di contrattare, le gestioni coattive, ecc., ossia tutta questa vastissima categoria di provvedimenti ablatori, in torte espansione nelle società contemporanee, trova un fondamento costituzionale sicuro. Dei provvedimenti ablatori personali si occupano tutte le norme costituzionali che riconoscono e disciplinano diritti (e altre situazioni giuridiche soggettive) fondamentali: ognuno degli articoli dal 13 in avanti si sforza di precisare quali sono i provvedimenti ablatori che possono incidere sui diritti fondamentali, sino a giungere a punte poco consuete in carte costituzionali, come quella che si trova all’art. 21 per il diritto fondamentale di manifestazione del pensiero a mezzo della stampa. La ragione per cui per le ablazioni personali relative a diritti fondamentali si segue questo diverso criterio, è una ragione storica, ed è nota. Il suggerimento, da alcuni avanzato per spiegare l’enunciazione dell’art. 422, ossia che essendo il diritto di. proprietà l’unico diritto fondamentale avente natura di diritto reale che sia riconosciuto dalla Costituzione, solo per esso occorresse dar fondamento al provvedimento ablatorio che lo riguarda, si basa certamente su quanto le enunciazioni costituzionali fanno per gli altri diritti fondamentali. Però la 288 spiegazione è solo parziale, perché se è valida allorché mette fuori quadro i diritti reali diversi da quelli di proprietà privata (che non sono costituzionalmente garantiti), non copre invece i provvedimenti ablatori reali relativi alla proprietà privata diversi dall’espropriazione, o quantomeno quelli più gravi dell’espropriazione. Per cui il problema del fondamento costituzionale dei provvedimenti ablatori reali tuttavia sussiste; essendo l’enunciazione costituzionale incompleta già per i diritti di proprietà privata, e mancando disposizioni costituzionali per gli altri diritti reali costituzionalmente non riconosciuti. Il fatto, sottolineato dal suggerimento testé detto, che non siano riconosciuti, non ha quel valore che gli autori del suggerimento credono, perché con le norme menzionate per le ablazioni obbligatorie tutti i diritti, anche non riconosciuti costituzionalmente, sono tuttavia garantiti in ordine alle ablazioni obbligatorie medesime, e non s’intende allora perché non dovrebbero esserlo in ordine alle ablazioni reali. L’ipotetica norma relativa alle ablazioni reali dovrebbe avere un’enunciazione come la seguente: «i provvedimenti ablatori reali di natura non sanzionatoria comportano un’indennità». Va chiarito che la norma non potrebbe abbracciare tutti i provvedimenti ablatori reali, ma solo quelli tra essi che non hanno natura sanzionatoria, o, secondo altra terminologia e teoria, repressive - di cui l’esempio tipico è dato dalle confische amministrative di cose -: l’opinione tradizionale dominante è nel senso che questi provvedimenti ablatori comportino estinzione del diritto di proprietà e di altri diritti reali sul bene, ma in quanto sono misure penali o comunque repressive, talora di carattere accessorio (nella normazione penale in senso proprio lo sono sempre), volte, sotto l’aspetto amministrativo, a distruggere o a togliere di circolazione la cosa o in quanto pericolosa oggettivamente o in quanto in vario modo collegata alla commissione di un illecito amministrativo. Per quanto la materia degli illeciti amministrativi si trovi in uno stato di elaborazione poco soddisfacente, sembra si debba convenire nel concetto che la misura penale amministrativa non trova altra regolazione costituzionale che non sia quella che l’art. 272 dispone per le pene del diritto penale criminale. 289 33. L’enunciazione «i provvedimenti ablatori reali non sanzionatori comportano un’indennità» corrisponde ad una norma che, almeno in Italia, ha avuto costante applicazione dall’inizio della vita dello stato, e in altri paesi europei dal sorgere dello stato di diritto. La sola eccezione (ma non del tutto sicura) che si è avuta da noi è stata quella delle servitù militari, che però ha una sua storia, di cui subito si dirà. La dottrina dello scorso secolo, non impastoiata dallo statalismo come quella successiva, si era data una ragione di ciò, allorché aveva inquadrato le espropriazioni e altri provvedimenti ablatori reali nel genus delle «vendite coattive». La dottrina successiva ripudiò tale nozione, in base alla facile osservazione che negli effetti prodotti dalle «espropriazioni e figure affini» difetta qualsiasi struttura di tipo obbligatorio; però non sostituì nulla al genus che sopprimeva, e ciò fino a quando esso non è stato ritrovato nella nozione di provvedimento ablatorio reale. Or se è vero che per i provvedimenti ablatori reali non possono esser richiamati né la vendita né altri tipi contrattuali, nella loro specie autoritativa, perché non è in tal senso la normazione positiva (mentre invece tali tipi hanno piena cittadinanza nei provvedimenti ablatori obbligatori), è però anche vero che la meno recente dottrina, nell’immaginale un genus fondato, diremmo oggi, su un modello contrattuale, aveva intuito bene, e aveva sentito la forza di un principio, che è poi quello dell’onerosità di ogni acquisto volontario di diritti altrui che derivi da atto tra vivi. Allorché da dottrina dello scorso secolo rilevava come le «figure affini» all’espropriazione, come la costituzione coattiva di servitù pubbliche, l’occupazione strumentale, l’occupazione per estrazione di materiali poveri, e così via, comportassero il pagamento di un’indennità, essa aveva presenti moduli negoziali, come la costituzione coattiva di servitù private, la locazione di immobili, l’affitto di cave, e così via, nei quali alla volontà delle parti, essa diceva, si sostituiva l’intervento autoritativo coattivo della autorità che presentava se stessa come acquirente. Anche se il rinvio al modulo privatistico era errato, non era tale il richiamo del principio della necessaria onerosità dell’acquisto. 290 Nella dottrina più recente la materia ha ricevuto più accettabile sistematica, che è stata in parte già ricordata al §28: i procedimenti ablatori reali sono tutti contraddistinti dal contenuto dell’effetto, che dà luogo sempre ad una vicenda che interessa diritti reali. Gli effetti sono sempre due: l’uno estintivo, l’altro acquisitivo; tra essi non v’è necessaria corrispondenza (ossia non è che ciò che si perde dall’uno soggetto si acquista necessariamente dall’altro). L’effetto estintivo può consistere or nell’estinzione di un diritto, or nell’estinzione di una facoltà o di un potere materialmente connotato da una norma pubblicistica, compresi nel diritto secondo la norma di questo conformativa; o infine in una privazione temporanea di una facoltà o di uno dei poteri or detti. L’effetto acquisitivo consiste or nell’acquisto del diritto che si estingue (es. requisizione in proprietà); or nell’acquisto di una facoltà o di uno dei poteri nel senso sempre detto sopra, che, compresi in astratto in una potestà o in un diritto del beneficiario del provvedimento ablatorio, secondo la norma conformativa dell’una o dell’altro, in concreto non lo siano per vicende giuridiche varie (caso correntemente detto del consolidamento, sottinteso: del diritto o della potestà del beneficiario del provvedimento: es., espropriazione della servitù); o infine nell’acquisto, da parte del beneficiario, di un nuovo diritto, ovvero di una nuova potestà di utilizzazione del bene (es., rispettivamente, costituzione di superficie coattiva su beni altrui, occupazione preliminare d’urgenza con acquisto della potestà di costruire nel fondo altrui). In ogni caso il provvedimento ablatorio ,presentando id. duplice effetto, comporta la perdita dell’utilitas di una cosa per l’un soggetto, l’acquisto di quella o di altra utilitas per altro soggetto. Era questo il punto avvertito da coloro che sciattamente generalizzavano o generalizzano l’espropriazione della proprietà a schema rappresentativo di ogni provvedimento ablatorio. Quel che è importante osservate è che costantemente il legislatore ha seguito il concetto che l’acquisto dell’utilitas di una cosa altrui è a titolo oneroso, ossia comporta il pagamento del corrispettivo (sia pur vario essendo il modo per determinare questo). Perché? La sola possibile spiegazione è che il principio faccia parte della costituzione materiale, e a tal titolo se ne consideri vincolante l’osservanza. 291 34. Con questa spiegazione diviene quindi possibile da un lato dare un fondamento costituzionale ai provvedimenti ablatori reali non sanzionatori, dall’altro conservare all’art. 422 l’interpretazione che si era individuata (§§ 27 e 31). L’enunciazione costituzionale è, in sostanza, un’applicazione di specie, espressa, riferita alle espropriazioni dei diritti di proprietà privata, di una regola inespressa della costituzione materiale, relativa a tutti i provvedimenti ablatori reali non sanzionatori. Per saggiare tale spiegazione si possono esaminare i casi presentatisi alla giurisprudenza della Corte costituzionale. La sentenza 6/1966, sulle servitù militari, è esemplare per difettosità di motivazione e per esattezza di decisione. Il caso delle servitù militari era, invero, nella legislazione precedente, dei tutto particolare, poiché costituiva uno dei tanti imbrogli consumati dal patrio legislatore ai danni dei cittadini. Che le servitù militari fossero servitù era tesi di parte della dottrina, non accolta dalla giurisprudenza di cassazione se non in casi episodici, essendo invece questa allineata sulla tesi ufficiale, che si trattasse di «limitazioni» alla proprietà privata per interessi di ordine militare, ossia fossero, come subito appresso vedremo, conformazioni del diritto di proprietà disposte da provvedimento amministrativo, e come tali non comportassero indennità. Invero con una precisa analisi della normazione, che qui ovviamente è fuori luogo, si potrebbe mostrare come la realtà normativa è più articolata di quanto non ritenessero le due opposte tesi, alcune fattispecie consistendo effettivamente in provvedimenti conformativi, altre in vere e proprie servitù pubbliche imposte. Queste ultime non potevano non comportare indennità, in quanto indubbie specie di procedimenti ablatori reali (effetto estintivo: privazione di una facoltà di utilizzazione del fondo privato, servente; effetto acquisitivo: costituzione del diritto di servitù a favore del fondo dominante, pubblico). Era quindi sufficiente riferirsi al principio di costituzione materiale per pervenire a questo risultato. Il fatto che la sentenza della Corte costituzionale vi sia pervenuta attraverso oscuri e involuti argomenti è però, tutto sommato, poco significativo, poiché. anche la dottrina che ha commentato la sentenza ha anch’essa seguito meandri inconcludenti. 292 35. Diverso è il caso della sentenza 55/1968, che è solo un pasticcio. Nei limiti in cui è decifrabile, essa ha ritenuto dovuta l’indennità per i «vincoli d’inedificabilità» imposti da strumenti urbanistici autoritativi aventi carattere singolare. Si deve cominciare ad osservare che la nozione di vincolo d’inedificabilità è, sotto l’aspetto giuridico, del tutto grezza. Il vincolo in questione, così come ogni altra specie di «vincolo» di cui correntemente si parla, è un modo di essere di un bene, ossia non è un effetto giuridico, ma una situazione in cui si trova un bene: è il risultato di rapporti tra situazioni soggettive (effetti giuridici) prodotte da atti o da fatti giuridici, e sono le situazioni soggettive medesime che solo possono individuare ciò che volgarmente si chiama la natura del vincolo, ma che scientificamente dovrebbe dirsi solo ciò che c’è dietro la parola vincolo. Certamente quindi possono esistere vincoli d’inedificabilità, non già, si noti, che come tali comportino indennità, ma conseguenti ad una trama giuridica nella quale vi sia un’obbligazione o un obbligo di pagare un’indennità. Ciò può accadere quando si hanno una vicenda in cui una figura soggettiva pubblica acquisti un diritto reale su cosa altrui, che abbia per contenuto il godimento della non edificazione (p. es. servitù di non edificare imposta su fondo di un privato a favore di un semaforo o faro del demanio marittimo). In altri casi invece il vincolo di non edificare si inserisce in un rapporto di obbligazione, in altri ancora è il risultato di un provvedimento conformativo del diritto di proprietà, e allora non v’è posto per alcuna indennità. Se queste sono le possibili inquadrature del vincolo d’inedificabilità, il problema di specie consiste nello stabilire che cosa è il vincolo d’inedificabilità la cui fonte risieda in strumenti urbanistici. Ma in proposito non sembra siano possibili dei dubbi sul fatto che si è in presenza di un provvedimento conformativo del diritto di proprietà, che è perfino al di fuori del gruppo dei procedimenti ablatori, nel senso che non è provvedimento di procedimento ablatorio né personale, né reale, né obbligatorio. Possono esistere, è vero, procedimenti ablatori aventi anche un contenuto conformativo: ne sono esempio alcuni degli ordini precettivi menzionati indietro (ablazioni 293 personali); ma in essi il contenuto conformativo è parallelo al contenuto ablatorio, nel senso che essi sono precipuamente rivolti a sottrarre un potere imponendo un obbligo di fare o di non fare; accanto a questo effetto principale sta l’effetto conformativo, che si concreta nell’imporre precetti attinenti al contenuto dell’obbligo. Tutto ciò non ricorre negli strumenti urbanistici, che si iscrivono in altra categoria di procedimenti - quelli precettivi -, che non si rivolgono a questo o a quel soggetto, che non costituiscono mai un diritto o altra situazione soggettiva a favore dell’autorità. Essi contengono precetti conformativi puri della proprietà immobiliare, di qualunque specie - edilizia e agraria, urbana e rurale, a destinazione edificativa o industriale o di servizi o agricola, ecc. ecc. - in ordine all’assetto dell’ambiente o del territorio. Come ogni provvedimento conformativo, essi non comportano alcuna indennità: è un problema che neppure si pone. 36. La materia dei provvedimenti conformativi richiede un brevissimo chiarimento, essendo fra quelle su cui dottrina e giurisprudenza sono in atonia. La normazione positiva conosceva già dallo scorso secolo alcune specie di provvedimenti aventi effetto conformativo (oltre agli ordini, si possono ricordare le autorizzazioni prescrittive) o direttamente conformativi (la dichiarazione di pubblico interesse, il bilancio degli enti pubblici, ecc.). In questo secolo ne introdusse un nuovo tipo, con la normazione sulle imprese di produzione di guerra apparsa nel primo conflitto mondiale: essa era strutturata su atti normativi che disciplinavano i diritti d’impresa, prevedevano alcuni tipi di provvedimenti amministrativi di più specifica incidenza nelle situazioni soggettive degli imprenditori; e infine e soprattutto attribuivano a talune autorità delle potestà di regolare, con altri provvedimenti, il contenuto dei diritti degli imprenditori. Questa normazione fu ritenuta eccezionale, e lo fu per la sua estensione quantitativa; non invece per il modulo che aveva introdotto, o almeno perfezionato, del, provvedimento conformativo delle situazioni soggettive, in particolare dei diritti, che rimase e si diffuse rapidamente: alle imprese minerarie, alla proprietà forestale e in genere soggetta alla disciplina idrogeologica, alla proprietà e all’impresa agraria in comprensori di bonifica, alle imprese assicurative, 294 creditizie, di taluni pubblici servizi, alle proprietà cadenti nei perimetri di beni ambientali e archeologici, alla proprietà edilizia e poi per tappe successive a tutta la proprietà immobiliare. Per cui se negli ordinamenti odierni la funzione conformativa delle situazioni soggettive è sempre e in primo luogo propria dei precetti degli atti normativi, vi sono settori, sempre più numerosi, nei quali essa prosegue affidata a provvedimenti amministrativi: il legislatore avverte che oltre un certo punto: non gli è più possibile porre precetti, in ragione della varietà degli interessi da ponderare e da comporre, e allora affida le potestà conformative ad organi amministrativi, e regola i relativi procedimenti in modo che sia osservato il principio di legalità, al quale oggi aggiunge sempre tecniche procedimentali molto elaborate, si da far osservare i principi di contraddittorio, di intervento procedimentale, di pubblicità. Il discorso sui provvedimenti conformativi va fermato a questo punto: in questa sede essi interessano solo per porre in maggior risalto la delimitazione dei provvedimenti ablatori reali: il provvedimento conformativo o ad effetto conformativo non fa acquistare alcun diritto al pubblico potere o ad altre figure soggettive; il provvedimento ablatorio reale sì, in uno dei modi che sono stati spiegati. La materia dell’urbanistica, per ciò che concerne gli effetti degli strumenti urbanistici autoritativi, è strutturata solo su provvedimenti conformativi dei diritti di proprietà (e d’impresa): allorché il precetto di uno di questi strumenti stabilisce destinazioni di spazi, zonizzazioni di superfici, utilizzazioni di aree edificatorie; sedi di servizi, ecc., esso conforma diritti attuali e futuri di proprietari e di imprenditori. Nell’attuale fase del diritto positivo, quantomeno per la proprietà edilizia, dopo la L. 1967 n. 765, la potestà conformativa è totale; nei confronti di altre specie di proprietà e dei diritti d’impresa è invece solo parziale, perché anche quando esiste uno strumento urbanistico autoritativo generale (tipo piano regolatore generale), esso regola solo l’aspetto attinente all’assetto territoriale. Resterebbe da fissare il punto di rilevanza costituzionale della potestà confermativa: ma è un punto già noto, sia attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale che 295 attraverso l’abbondante elaborazione dottrinale che si è formata. Per il diritto d’impresa è l’atto 41, 2° e 3° c.; per i diritti di proprietà è l’art. 42, 2° c., e praticamente coincide con la finalità di assicurare la funzione sociale. Se e in quanto specie di diritti di proprietà siano - come si dice funzionalizzate, il modulo strutturale che presenta la normazione è ormai più o meno stabilizzato: precetti normativi di base, provvedimenti conformativi di attuazione e adattamento, ulteriori - semmai - provvedimenti o altri atti amministrativi di cura di interessi pubblici concreti e realizzazione degli interessi a cui si ordina la funzione sociale. […] La funzione sociale giurisprudenza costituzionale 16) Corte costituzionale, sent. n. 6/1966 SENTENZA N. 6 ANNO 1966 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori Giudici: Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO Prof. Antonino PAPALDO Prof. Nicola JAEGER Prof. Giovanni CASSANDRO Dott. Antonio MANCA Prof. Aldo SANDULLI Prof. Giuseppe BRANCA Prof. Michele FRAGALI Prof. Costantino MORTATI Prof. Giuseppe CHIARELLI nella 296 Dott. Giuseppe VERZÌ Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1964 dalla Corte suprema di cassazione - Sezione I civile - nel procedimento civile vertente tra Cometti Carlo Cesare ed il Ministero della difesa-esercito, iscritta al n. 135 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 212 del 29 agosto 1964. Visti gli atti di costituzione del Cometti e del Ministero della difesa; udita nell’udienza pubblica del 27 ottobre 1965 la relazione del Giudice Antonino Papaldo; uditi l’avv. Giuseppe Trabucchi, per il Cometti, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Ministero della difesa. Ritenuto in fatto Con manifesto in data 12 marzo 1958 il Comando Militare Territoriale della Regione N. E. di Padova - a mente dell’art. 2 della legge 20 dicembre 1932, n. 1849 - sottoponeva una vasta zona di terreno sita nel Comune di Grazzana ad una serie di limitazioni, tutte a contenuto negativo, oltre ad un generico divieto di transito e di sosta a persone, veicoli animali, su vie, spiazzi, mulattiere, sentieri, ecc. da determinarsi in futuro con ordinanza militare. Uno dei proprietari gravati da tali limitazioni, il sig. Carlo Cesare Cometti, ritenendo di avere diritto ad un indennizzo per la soppressione dei pieni diritti di godimento della sua proprietà, con citazione del 9 dicembre 1959, conveniva il Ministero della difesa- esercito innanzi al Tribunale di Venezia, chiedendo la liquidazione di tale indennità, ed invocando a fondamento della domanda l’art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per pubblica utilità, e l’art. 42 della Costituzione, previo eventuale giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma, della citata legge del 1932, n. 1849. Il Tribunale e la Corte d’appello respingevano la domanda. Ma la Corte di cassazione, con ordinanza 27 gennaio 1964, ritenuta la non manifesta infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 42, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 3, secondo comma, della legge 20 297 dicembre 1932, n. 1849, nella parte in cui per implicito é prevista la imposizione di dette servitù senza indennizzo, e giudicatane la rilevanza ai fini della decisione di merito, ha sospeso il giudizio, ordinando la trasmissione degli atti a questa Corte. La Corte di cassazione ha osservato che l’art. 3, secondo comma, della legge del 1932 prevede l’indennizzo soltanto per l’ipotesi che la cosiddetta servitù militare sia positiva, e cioè consista in un facere (modifica dello stato delle cose, demolizione, ecc.), e perciò quando non ricorra tale ipotesi, ma quella diversa di una servitù negativa, ossia di un non facere (non aprire strade, non edificare, ecc.) l’indennizzo, in base alla legge ordinaria, non é dovuto. Posto ciò la Cassazione ritiene che tanto se si attribuisca alle servitù militari il carattere tipico della servitù in senso tecnico, ossia della servitù prediale su fondo privato a profitto di un bene pubblico, quanto se si riconosca ad esse la figura di semplice limite di diritto pubblico al diritto di privata proprietà, in ogni caso sarebbe configurabile un contrasto della norma in esame con l’art. 42, terzo comma, della Costituzione, giacché nel primo caso vi sarebbe una costituzione di servitù (anche temporanea) imposta discrezionalmente dall’Autorità amministrativa senza indennizzo, e se si tratta, invece, di limite, il contrasto sempre sussisterebbe dato che la legge non prevede criteri obiettivi di qualificazione che valgano a differenziare il limite da un’effettiva parziale espropriazione del bene, rimessa all’Amministrazione senza corresponsione dell’indennizzo. L’ordinanza é stata ritualmente notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. In questa sede si é costituito il sig. Cometti la cui difesa ha depositato le deduzioni il 1 agosto 1964. Partendo dall’elencazione delle numerose limitazioni imposte alla sua proprietà dal manifesto dell’Autorità militare, per il Cometti si rileva che della sua proprietà non gli resterebbe altro che un merum nomen. Si osserva come la disciplina delle servitù militari introdotta con la legge del 1932, n. 1849, abbia subito un sostanziale mutamento rispetto a quella contenuta nel T.U. approvato con R.D. 16 maggio 1900. Con detto T.U., infatti, erano state determinate preventivamente, in modo preciso, con misure massime le zone circostanti le fortificazioni militari, ed entro tali zone poligonali erano proibite certe costruzioni o piantagioni da parte dei proprietari dei terreni viciniori. Di qui la teoria che le cosiddette servitù militari non erano delle vere e proprie servitù ma più esattamente dei limiti alla proprietà, giacché la 298 costruzione di una fortificazione o di un complesso di opere importava de jure la compressione del diritto del proprietario di usare della res sua. Con la legge 20 dicembre 1932, n. 1849, invece, la costruzione dell’opera militare, non fa sorgere, di diritto, alcuna servitù, non implica nessun vincolo, ma rappresenta soltanto il presupposto perché l’Autorità amministrativa si avvalga della potestà di imporre la servitù, facoltà che si appalesa di apprezzabile ampiezza. Passando poi ad esaminare il secondo ed il terzo comma dell’art. 42 della Costituzione, si sostiene che il legislatore costituente abbia considerato due ipotesi, quella dei limiti, da imporre con norme universali, e cioè dalla legge, al libero godimento della proprietà per assicurarne la funzione sociale e per renderla accessibile a tutti (secondo comma) e quella dell’espropriazione per motivi di interesse generale, salvo indennizzo (terzo comma). Ora, le servitù militari non pongono limiti destinati ad assicurare la funzione sociale della proprietà o a renderla accessibile a tutti, ma piuttosto si risolvono in parziali espropriazioni, imponendo gravissime limitazioni ai proprietari. Onde ad esse devesi ritenere applicabile il terzo comma dell’art. 42 della Costituzione, e, pertanto, alle servitù imposte ai terreni del deducente deve corrispondere un giusto indennizzo. Si é costituito il Ministero della difesa-esercito, nel cui interesse l’Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni depositate il 29 luglio 1964, ha sostenuto che il contrasto denunziato dalla Cassazione non sussiste. Le servitù militari, disciplinate dalla legge 20 dicembre 1932, n. 1849, e dal regolamento 4 maggio 1936, n. 1388, sono da annoverare, secondo la dottrina più autorevole, tra le "limitazioni poste al diritto di proprietà nel pubblico interesse" e precisamente nell’interesse della difesa militare. I vincoli costituiti dalle servitù militari, che traggono origine, in base alla legge, dal rapporto di vicinanza della proprietà privata con il demanio militare, si concretano normalmente in divieti rivolti al proprietario di far uso di determinate facoltà, peraltro senza che queste si trasferiscano alla pubblica Amministrazione. Le limitazioni sono sancite nella legge e sono concretamente determinate con atto amministrativo soggetto agli ordinari rimedi giurisdizionali ed amministrativi. Il campo delle limitazioni poste nell’interesse pubblico, nel nostro ordinamento, é vastissimo. Si va, infatti, dalle limitazioni che attengono al rapporto di vicinanza della proprietà privata con la proprietà demaniale, come quelle in esame, ai limiti derivanti dai piani regolatori edilizi, a quelli della legge sulla 299 tutela delle cose di interesse storico e artistico, delle leggi sulla tutela delle bellezze naturali. Più particolarmente, si indicano, poi, i numerosi esempi di limitazioni derivanti dal rapporto di vicinanza con la proprietà demaniale: l’Avvocatura ne fa una vasta elencazione. Si mette in rilievo che dette limitazioni concettualmente concorrono a definire, in tutti gli ordinamenti, compreso quello italiano, il contenuto del diritto di proprietà che va esercitato tenuti presenti "i limiti e l’osservanza degli obblighi stabiliti nell’ordinamento giuridico" (art. 832 del Codice civile). Ma tali limitazioni non importano alcun trasferimento di facoltà dal privato proprietario alla pubblica Amministrazione, cosa che, invece, si verifica nelle servitù vere e proprie di diritto pubblico o servitù prediali pubbliche (servitù di via alzaia o di marciapiedi sui beni laterali ai fiumi, servitù di scolo delle acque sui terreni laterali alle strade) le quali costituiscono uno jus in re a favore dell’Amministrazione. E tuttavia ad eccezione degli unici due casi di servitù di acquedotto e di elettrodotto, in rapporto alle quali si costituisce uno speciale jus in re aliena, per le servitù prediali, come per le limitazioni poste nel pubblico interesse, il vincolo non importa alcun indennizzo. Passando poi ad illustrare tale sistema alla luce dell’art. 42 della Costituzione, l’Avvocatura sostiene che la legge può, in base alla norma costituzionale, determinare, oltre i modi di acquisto, anche i "modi di godimento" nonché i "limiti" della proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Detta norma costituzionale concerne direttamente anche i limiti menzionati nella definizione del contenuto della proprietà dell’art. 832 del Codice civile quali restrizioni alla facoltà di godere e di disporre da parte del proprietario, e tali limiti previsti in connessione al raggiungimento dello scopo della funzione sociale della privata proprietà, incidono sui "modi di godimento" della proprietà stessa. Ora, per la determinazione legislativa dei "modi di godimento" della proprietà privata e per la imposizione dei limiti, in funzione gli uni e gli altri dell’interesse sociale, la Costituzione non ha previsto alcun indennizzo; il che é conforme alla natura e all’essenza di tali vincoli che definiscono in concreto la proprietà privata, ed é conforme altresì al sistema della legislazione ordinaria, sopra delineato, secondo cui, tranne qualche eccezione, l’indennizzo é escluso sia nei casi di limitazioni di diritto pubblico vere e proprie che nei casi di servitù di diritto pubblico. L’espropriazione é istituto che non ha alcun rapporto col contenuto e con la definizione del diritto di proprietà, ma incide 300 sulle possibilità che tale diritto continui ad esistere nello stesso proprietario. Correlativamente il terzo comma dell’art. 42 della Costituzione non ha considerato questa o quella restrizione dettata, nel pubblico interesse, al "modo o facoltà di godimento", ma soltanto i casi di "trasferimento coattivo" ed effettivo della proprietà per motivi di interesse generale. L’Avvocatura conclude che non esiste alcun contrasto tra le norme contenute nella legge del 1932, n. 1849 e la norma costituzionale, giacché, in primo luogo, le servitù militari sono da inquadrare tra le limitazioni e non tra le servitù vere e proprie di diritto pubblico e, in secondo luogo, non si attua alcuna espropriazione, cioè alcun trasferimento coattivo né del diritto di proprietà né di alcuna delle facoltà comprese nel diritto stesso, dal proprietario alla pubblica Amministrazione. D’altra parte anche se si trattasse di vere e proprie servitù di diritto pubblico la conclusione sarebbe identica in rapporto alla costituzionalità della mancata previsione dell’indennizzo, giacché si tratterebbe sempre di vincolo a contenuto negativo che non importa, a favore dell’Amministrazione, alcun trapasso coattivo delle facoltà di usare e di godere parzialmente della cosa. Con la memoria depositata il 14 ottobre 1965 l’Avvocatura sviluppa le proprie argomentazioni insistendo in primo luogo sulla qualificazione giuridica delle servitù militari che, nonostante la dizione legislativa, sono da collocare tra le limitazioni al diritto di proprietà privata poste nell’interesse pubblico, e, in secondo luogo, sul problema fondamentale della interpretazione delle norme costituzionali contenute nell’art. 42. Problema che, come già sostenuto nelle deduzioni, viene risolto nel senso che il termine "espropriazione", di cui al terzo comma, ha un solo e preciso significato che é quello tradizionale tecnico giuridico e non può dilatarsi fino a comprendere l’indennizzabilità di qualsiasi diminuzione patrimoniale o di qualsiasi limite e che, pertanto, il Costituente ha inteso garantire l’indennizzo solo nel caso di esproprio e non dei semplici limiti di cui al secondo comma. Considerato in diritto 1. - La norma denunziata é contenuta nel secondo comma dell’art. 3 della legge 20 dicembre 1932, dal cui testo si evince, per omissione, l’esclusione di ogni indennizzo fuori dei casi di modificazione dello stato delle cose ai sensi del primo comma dello stesso articolo. Per giudicare se tale esclusione sia in contrasto con l’art. 42, terzo comma, della Costituzione occorre vedere se le "servitù" indicate nell’art. 1 e specificate nell’art. 2 di tale legge 301 comportino, in tutto o in parte, una espropriazione ai sensi della invocata norma costituzionale. La difesa della parte privata sostiene che le servitù militari non pongono meri limiti al libero godimento della proprietà, ma si risolvono in parziali espropriazioni, alle quali deve corrispondere un giusto indennizzo. Nella specie, le limitazioni sarebbero tali da ridurre il diritto del proprietario ad un merum nomen. L’Avvocatura dello Stato, nel presupposto che non si abbia espropriazione se non nel caso di trasferimento coattivo di un diritto dello espropriato allo espropriante, nega che possa par tarsi di espropriazione e quindi di indennizzabilità rispetto all’imposizione di limitazioni, tranne che ricorra un danno permanente che produca la definitiva soppressione del diritto. 2. - É da premettere che questa Corte non é chiamata a risolvere la questione se spetti o no all’attore nel giudizio a quo un indennizzo a causa delle "servitù" imposte nella sua proprietà: in questa sede si giudica della legittimità delle norme, non dell’applicazione di esse ai casi concreti. É altresì da premettere che per risolvere la questione di legittimità costituzionale non gioverebbe far ricorso ad un’altra questione: quella del carattere delle cosiddette servitù militari. Che trattisi di servitù o di limiti non ha influenza decisiva, come ha messo bene in luce l’ordinanza della Corte di cassazione; tanto più che, non essendo chiarito a sufficienza nella legislazione, nella giurisprudenza e nella dottrina il significato dei due termini "servitù" e "limiti" (assunti come sinonimi ed intercambiabili i due termini "limiti" e "limitazioni", le cui differenze di significato, se pure esistono, non hanno rilievo ai fini della questione in esame), specialmente in rapporto alle servitù militari, il tentativo di una definizione di tale significato in questa sede non partirebbe da una base sicura e difficilmente approderebbe ad una sicura soluzione. Ma anche se fosse possibile giungere ad una appagante discriminazione, rispetto alle predette "servitù", dei due concetti di servitù e di limite, ciò non offrirebbe un criterio valevole per identificare i casi in cui sussista espropriazione e quindi diritto all’indennizzo. Difatti, non sarebbe esatto affermare che si abbia sempre espropriazione nei casi di servitù e non si abbia mai espropriazione nei casi di limiti, giacché possono esserci imposizioni di servitù che non importano espropriazione e imposizioni di limiti che hanno carattere di espropriazione, secondo la natura, l’incidenza, l’entità del sacrificio che deriva dalla imposizione. 302 3. - Giova, anzitutto, affermare che la nozione di espropriazione enunciata nell’art. 42, terzo comma, della Costituzione non può essere ristretta al concetto di trasferimento coattivo nell’obbligo della indennizzabilità può essere ricondotto esclusivamente a tale concetto. Già nel periodo anteriore alla Costituzione vigente era pacifica l’indennizzabilità in alcuni casi nei quali non si aveva trasferimento, fossero o no tali casi classificabili sotto il concetto di espropriazione: si ricordino i casi di requisizione in uso, di occupazioni temporanee, di danno permanente conseguente all’esecuzione di opere pubbliche; la imposizione di talune servitù; la eliminazione di servitù senza il trasferimento della servitù stessa ad altri. Del resto anche nel caso previsto dall’art. 3, primo comma, della legge denunziata la legge stessa prevede il diritto ad indennità anche se non si verificano trasferimenti. Ora, se é vero che il Costituente nel parlare di espropriazione si é riferito a questo istituto quale risultava dalla tradizione in atto, é pure certo, da un canto, che la tradizione conosceva espropriazioni non traslative e, dall’altro, che con l’art. 42, terzo comma, non fu esclusa l’indennizzabilità per i casi in cui il diritto vigente ammetteva - ed ammette - l’indennizzabilità anche se non sussista trasferimento di diritti. Lo Statuto albertino, mentre dichiarava inviolabile la proprietà, permetteva, dato il suo carattere di flessibilità, che la legge ordinaria limitasse o addirittura sottraesse il diritto all’indennizzo. All’opposto, la Costituzione vigente, per un verso, accorda una minore tutela, ma, per l’altro, stante il suo carattere rigido, non ammette la legittimità di una legge ordinaria che disponendo o autorizzando misure espropriative, neghi l’indennizzo. Che cosa debba intendersi per espropriazione ai sensi del terzo comma dell’art. 42 risulta dal confronto di questa norma con i due commi precedenti dello stesso articolo. Con il primo comma e con la prima parte del secondo comma, si afferma, in correlazione con altri articoli, quali precipuamente il 41, il 43 ed il 44, il principio che l’istituto della proprietà privata é garantito; con la seconda parte del secondo comma si enuncia che la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti; nel terzo comma si prevede che la proprietà può essere espropriata, salvo indennizzo. Ciò comporta che la determinazione dei modi di acquisto e di godimento e dei limiti, volta, come deve essere, a regolare l’istituto della proprietà privata, a stabilirne, cioè, la configurazione nell’ordinamento positivo, non può violare la garanzia accordata dalla Costituzione al diritto di proprietà, sopprimendo l’istituto della proprietà privata o negando ovvero comprimendo singoli diritti senza indennizzo. La logica del 303 sistema impone di considerare che la violazione della garanzia si avrebbe non soltanto nei casi in cui fosse posta in essere una traslazione totale o parziale del diritto, ma anche nei casi in cui, pur restando intatta la titolarità, il diritto di proprietà venisse annullato o menomato senza indennizzo. 4. - Trattandosi di materia non regolata, in via generale, dal legislatore e ancora in elaborazione da parte della dottrina e della giurisprudenza, non é possibile fissare criteri sicuri, valevoli a comprendere tutti i casi e a chiarire tutte le situazioni. Tuttavia, si può affermare che la legge può non disporre indennizzi quando i modi ed i limiti che essa segna, nell’ambito della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ovvero quando essa regoli la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica Amministrazione; sempre che, la legge, sia destinata alla generalità dei soggetti i cui beni si trovino nelle accennate situazioni, salva la possibilità di accertare con singoli atti amministrativi l’esistenza di tali situazioni rispetto a singoli soggetti ed a singoli beni. Per questo può anche dirsi che le imposizioni devono avere carattere obbiettivo, nel senso che devono scaturire da disposizioni che imprimano, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche. Se le imposizioni non abbiano questo carattere generale ed obbiettivo, in quanto comportino un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate, allora sorge il problema dell’indennizzabilità. In questi casi può dirsi che si ha espropriazione quando il godimento del bene (nel senso di utilizzazione e di disposizione) sia in tutto o in parte sottratto al titolare del diritto, essendo senza decisiva importanza il fatto che titolare ne resti o no il proprietario. Né ha importanza il fatto che il sacrificio sia imposto direttamente dalla legge o con atto amministrativo in base alla legge, perché non é la forma dell’atto di imposizione quella che dà all’atto stesso la sua caratteristica come atto di espropriazione. É, pertanto, da considerarsi come di carattere espropriativo anche l’atto che, pur non disponendo una traslazione totale o parziale di diritti, imponga limitazioni tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio. É altresì da considerare come di carattere 304 espropriativo l’atto che costituisca servitù o imponga limiti a carico della proprietà, quando gli uni e gli altri siano di entità apprezzabile, anche se non tali da svuotare di contenuto il diritto del proprietario. Non si può negare che nei criteri esposti ha parte notevole un elemento quantitativo, nel senso che il carattere espropriativo é fatto dipendere anche dalla maggiore o minore incidenza che il sacrificio imposto ha sul contenuto del diritto. Ma questo é un elemento insopprimibile del concetto di espropriazione, intesa non soltanto come trasferimento ma anche come sottrazione o menomazione del godimento del diritto: sottrazione o menomazione che deve essere prevista ed accertata anche in rapporto alla concretezza del sacrificio imposto. 5. - Sulla base dei criteri enunciati, occorre ora tornare all’esame dell’art. 2 della legge denunziata. In primo luogo, é da dire che non trattasi di limitazioni (si qualifichino servitù o limiti) aventi carattere generale ed obbiettivo nei sensi sopra indicati. Trattasi di imposizioni da disporsi, in base alla legge, con atti amministrativi, improntati a criteri di larga discrezionalità ed aventi contenuto svariato. É, tuttavia, da notare che nessuna delle previsioni contenute nell’art. 2 rappresenta, isolatamente considerata, un caso di espropriazione. Anche le prescrizioni che appaiono più impegnative - come quella di non impiantare linee elettriche o condotte di acqua o di gas o quella di non tenere fucine o altri impianti provvisti di focolare o quella di non fabbricare muri o edifici o quella, purché temporanea, di non transitare o non sostare - non sono idonee, da sole ed in astratto, a costituire atti di espropriazione: tali sarebbero se, per fare due soli esempi, dalla imposizione di uno o più limiti risultasse impedita la coltivazione della terra e la raccolta dei frutti in un fondo agricolo o la possibilità di abitazione (soggiorno, preparazione e consumazione dei pasti, ecc.) in un edificio a ciò destinato. Ciò posto, mentre non si può dichiarare l’illegittimità della norma denunziata in quanto nega l’indennizzo in relazione all’uno o all’altro dei sacrifici previsti dalla legge, tale dichiarazione si deve emettere in relazione ai casi in cui per effetto di uno o più di tali sacrifici si abbia espropriazione nel senso delineato nella motivazione di questa sentenza. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, sulle servitù militari, in 305 riferimento all’art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto non prevede indennizzo per limitazioni della proprietà privata di natura espropriativa nei sensi di cui in motivazione Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 gennaio 1966. Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO Depositata in cancelleria il 20 gennaio 1966. 17) Corte costituzionale, sent. n. 55/1968 SENTENZA N. 55 ANNO 1968 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori Giudici: Prof. Aldo SANDULLI, Presidente Prof. Biagio PETROCELLI Dott. Antonio MANCA Prof. Giuseppe BRANCA Prof. Michele FRAGALI Prof. Costantino MORTATI Prof. Giuseppe CHIARELLI Dott. Giuseppe VERZÌ Dott. Giovanni Battista BENEDETTI Prof. Francesco Paolo BONIFACIO Dott. Luigi OGGIONI Dott. Angelo DE MARCO Avv. Ercole ROCCHETTI Prof. Enzo CAPALOZZA Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI, ha pronunciato la seguente SENTENZA 306 nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3 e 4, e dell’art. 40 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 27 ottobre 1966 dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana sui ricorsi di Ajroldi Luigi ed altri, Mastrogiovanni Tasca Lucio, Società Raytheon - Elsi ed altri, Caruso Vincenzo ed altri e Pottino Gaetano ed altri contro la Regione siciliana, il Comune di Palermo ed altri, iscritta al n. 240 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967; 2) ordinanza emessa il 2 maggio 1966 dal pretore di Campobasso nel procedimento penale a carico di Riccitelli Francesco, iscritta al n. 111 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 182 del 23 luglio 1966. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Ajroldi Luigi ed altri, di Mastro Giovanni Tasca Lucio, della Società Raytheon - Elsi ed altri della Regione siciliana e del Comune di Palermo; udita nell’udienza pubblica del 14 febbraio 1968 la relazione del Giudice Luigi Oggioni; uditi gli avvocati Guido Aula, Luigi Maniscalco Basile e Salvatore Orlando Cascio, per le parti private, l’avv. Camillo Orlando, per il Comune di Palermo, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per la Regione siciliana. Ritenuto in fatto Con decreto 28 giugno 1962 del Presidente della Regione siciliana veniva approvato il piano regolatore generale della città di Palermo. Il piano contiene l’indicazione del caratteri e dei vincoli di zona da osservare nell’edificazione nonché l’indicazione delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico e di quelle riservate a verde pubblico, a verde privato, a verde agricolo o ad edificazione di interesse pubblico (edilizia scolastica, conservazione di edifici storico - monumentali, eccetera). Il tutto a termine dell’art. 7, nn. 2, 3, 4, della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150. Cinque gruppi di proprietari di zone di terreno comprese nel perimetro del piano regolatore generale predetto e soggette, in vario modo e misura, ai vincoli sopradetti, hanno impugnato davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione 307 siciliana e nei confronti della Regione e del Comune, il decreto del Presidente, chiedendone l’annullamento per illegittimità dell’art. 7 della legge urbanistica in base al quale il piano é stato predisposto, sia per l’indeterminatezza legislativa del vincoli, sia per trattarsi di vincoli imposti senza la garanzia di corrispondere indennità. Con cinque ordinanze emesse in data diversa nel primo semestre 1964, il Consiglio di giustizia adito sollevava questione di legittimità costituzionale del citato art. 7 della legge urbanistica con riferimento all’art. 42, commi secondo e terzo, della Costituzione. Il Consiglio, circa la non manifesta infondatezza ha considerato: a) che, mentre l’art. 42, comma secondo, della Costituzione prescrive che i limiti alla proprietà privata, per assicurarne la funzione sociale, devono essere determinati per legge, viceversa nell’art. 7, n. 2, della legge urbanistica, questa determinazione circa le caratteristiche e l’ampiezza del vincoli, manca: mancanza tanto più rilevante, in quanto l’art. 40 della stessa legge esclude l’indennizzabilità per i vincoli di zona e per gli oneri relativi all’allineamento edilizio delle nuove costruzioni; b) che, mentre l’art. 42, comma terzo, della Costituzione, consente l’espropriazione della proprietà privata, ma fa salvo l’indennizzo, viceversa, nel sistema della legge urbanistica, si ha che con l’approvazione del piano regolatore generale, questo ha vigore immediato ed a tempo indeterminato ed i beni restano assoggettati subito a vincoli e limitazioni che ne sopprimono l’utilizzazione ed il godimento, con effetto uguale a quello del futuro procedimento formale di espropriazione conseguente alla formazione di piani particolareggiati: ciò senza che sia previsto alcun indennizzo per l’immobilizzazione del bene anche nel periodo intermedio. In proposito, il Consiglio di giustizia rilevava anche che, dai precetti dell’art. 42 della Costituzione, emerge implicita l’esigenza in linea generale, che non indennizzabili sono soltanto quelle limitazioni che non incidono radicalmente sul contenuto del diritto di proprietà; c) in particolare, ed in relazione a fattispecie in esame, l’imposizione - sine die - di vincoli a verde pubblico, a verde privato, a verde agricolo su aree di natura pacificamente edificatoria, per effetto del solo piano regolatore generale, in attesa della espropriazione, sembrava dover importare il verificarsi del principio di indennizzabilità. Questa Corte, riunite tutte le cause provenienti dalle cinque ordinanze di rinvio, con sentenza 3 maggio 1966, n. 38, dichiarava non fondata la questione sollevata contro l’art. 7, n. 2, citato, sotto il dedotto profilo della violazione della riserva di legge di cui all’art. 42, secondo comma, della Costituzione, questione comune a tutte le parti interessate, ritenendo che alla 308 garanzia di questa riserva si era, nel caso, ottemperato dal legislatore mediante norme sufficientemente individuatrici del vincoli di zona e di quelli riguardanti la costruzione del fabbricati, la loro natura ed i controlli a tutela della proprietà privata. Per quanto riguarda l’altra questione sollevata contro i nn. 3 e 4 dell’art. 7 stesso, con ordinanza n. 39 emessa in pari data, questa Corte, considerato che non risultava chiara la rilevanza "in relazione all’asserita mancata indennizzabilità del vincoli" previsti dalle norme suddette (nel caso, é detto nell’ordinanza, vincoli di terreni a verde pubblico, verde privato, verde agricolo ed impianti pubblici) e ravvisando conseguentemente necessario "un esame più approfondito, sotto l’aspetto ora indicato, della questione sollevata", ordinava la restituzione degli atti al Consiglio regionale di giustizia amministrativa. Con ordinanza emessa il 27 ottobre 1966 il Consiglio (decidendo su tutti i ricorsi riuniti) ha precisato che, risolta la questione relativa alla violazione dell’art. 42, secondo comma, della Costituzione, di portata generale, sulla riserva di legge, occorreva procedere ad un esame della rilevanza delle altre questioni concernenti la violazione dell’art. 42, terzo comma, della Costituzione da parte dell’art. 7, nn. 2, 3 e 4, della legge urbanistica, in relazione ai singoli ricorsi avanti ad esso Consiglio pendenti, tenendo conto non soltanto della natura della lesione patita da ciascuno dei ricorrenti, ma anche dei motivi di impugnazione. Perciò, il Consiglio ha dapprima effettuato uno stralcio di quei ricorsi nei quali si era proposta unicamente la questione della riserva di legge in relazione a fattispecie riguardanti dimensioni di edificabilità, allineamento di edifici e simili, trattenendo detti ricorsi a sé per l’esame di merito. Ha osservato poi il Consiglio, procedendo all’esame degli altri ricorsi riguardanti destinazioni a verde, ad edificio scolastico, a conservazione di fabbricato monumentale, che l’indennizzabilità dei vincoli di zona alla proprietà privata di cui all’art. 7, n. 2, della legge urbanistica risulta testualmente esclusa dall’art. 40 della stessa legge, mentre l’indennizzabilità espropriativa, nei casi di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 7 sarebbe dovuta soltanto quando la destinazione prevista dal piano regolatore generale venga in seguito di tempo, attraverso piani regolatori particolareggiati, attuata dal Comune, che peraltro non sarebbe vincolato al riguardo a termini di sorta. Onde, anche in questo caso, dall’approvazione del piano regolatore generale deriverebbe immediatamente una compressione del diritto di proprietà, concretantesi nella impossibilità di rilascio di licenze edilizie in contrasto con le destinazioni sancite dal piano generale ai sensi 309 delle dette disposizioni. Il che porterebbe a ritenete non infondatamente che le disposizioni stesse siano in contrasto con il terzo comma dell’art. 42 della Costituzione. Il Consiglio quindi, dopo aver precisato essersi sostenuto dai ricorrenti che il piano regolatore de quo é viziato per avere, conformandosi alla legge urbanistica, imposto forme di sostanziale espropriazione senza indennizzo, ha rinviato gli atti a questa Corte, investendola espressamente della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3, 4, e dell’art. 40 della legge prodotta, in relazione all’art. 42, terzo comma, della Costituzione. L’ordinanza, notificata alle parti private il 6, 7 e 13 dicembre 1966 al Comune di Palermo e alla Regione siciliana lo stesso 6 dicembre, ed il 9 dicembre successivo al Presidente del Consiglio dei Ministri, é stata comunicata ai Presidenti del due rami del Parlamento come per legge e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967. Avanti alla Corte costituzionale, si sono costituiti, delle Società Raytheon - Elsi, Compagnia Italiana Jolly Hotels, già parti private, gli eredi Ajroldi, Lucio Mastrogiovanni Tasca, CIATSA, Banca Commerciale, Cassa di Risparmio V. E., Banco di Sicilia, tutte interessate alla questione riguardante, secondo i casi, sia la destinazione di terreni a verde, pubblico, privato, agricolo, sia la destinazione ad edificio scolastico, sia la conservazione di un edificio di interesse monumentale. Si sono anche costituiti la Regione siciliana, il Comune di Palermo e il Presidente del Consiglio dei Ministri. Le difese delle parti private, facendo proprie le ragioni esposte nell’ordinanza di rinvio, chiedono dichiararsi la illegittimità costituzionale degli articoli denunciati, cioè l’art. 7, nn. 2, 3, 4 e l’art. 10. In particolare, osservano che l’ordinanza ha esattamente dimostrato la rilevanza della questione sollevata, in quanto ogni vincolo alla proprietà privata che ne assorba o riduca sensibilmente il contenuto economico, incidendo sulla facoltà di disposizione e godimento del bene, costituisce, sostanzialmente, espropriazione, obbligatoriamente indennizzabile ai sensi dell’art. 42 della Costituzione, mentre le norme denunziate, su cui si é basato il piano generale urbanistico, nel caso, escludendo l’indennizzo, sarebbero viziate di illegittimità. Dalle parti pubbliche, particolarmente dall’Avvocatura dello Stato, si é dedotto quanto segue. In linea preliminare, si é eccepito che il Consiglio di giustizia amministrativa non ha compiuto quell’approfondito esame delle questioni di legittimità, richiesto da questa Corte con la precedente ordinanza, in quanto non solo non ha precisato, in 310 relazione ai singoli ricorsi giurisdizionali vertenti, di quali vincoli si tratti né in che consista, in relazione a ciascun tipo di vincolo, l’asserita soppressione del diritto di proprietà, ma per di più non ha dato ragione della rilevanza della questione nei ricorsi pendenti, oggetto dei quali é soltanto la tutela dell’interesse dei ricorrenti alla legittimità del decreto di approvazione del piano regolatore generale e non già la tutela di un diritto soggettivo alla percezione della indennità di espropriazione. In base a questa argomentazione si prospetta la necessità che la Corte rimetta di nuovo gli atti al Consiglio di giustizia amministrativa per un riesame della rilevanza della questione. In secondo luogo, e sempre in via preliminare, l’Avvocatura sottopone alla Corte la valutazione dell’ammissibilità in questa fase di giudizio dell’estensione della censura di illegittimità al n. 2 dell’art. 7 in relazione all’art. 40 della legge urbanistica, sul quale n. 2 dell’art. 7 questa Corte si é già pronunciata con la precedente sentenza, negandone l’incostituzionalità. Nel merito, l’Avvocatura, insistendo nella tesi già svolta, rileva che i limiti allo ius aedificandi, predeterminati come categorie e come tipi, sono stabiliti con carattere di generalità, e definiscono la proprietà urbana al fine di soddisfare il pubblico interesse alla disciplina dell’assetto del centri abitati. I piani regolatori rappresenterebbero una regolamentazione preventiva e generale dell’attività edilizia, dettata in via concreta dalla Pubblica Amministrazione in attuazione delle norme legislative in materia. Pertanto, come ritenuto per il passato anche dal Consiglio di Stato in armonia col principio dottrinario della diversità del regime di appartenenza dei beni in funzione dei pubblici interessi, dovrebbe escludersi l’indennizzabilità del vincoli in esame, perché inerenti al contenuto del diritto di proprietà delle aree urbane, e tale esclusione non sarebbe in contrasto con la garanzia costituzionale dell’indennizzo, trattandosi appunto di limiti rientranti nelle previsioni del secondo comma dell’art. 42 della Costituzione, e non di espropriazioni. Tali concetti del resto sarebbero stati anche accolti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 6 del 1966, la quale avrebbe precisato in via generale che il problema della indennizzabilità sorgerebbe soltanto in relazione a quei limiti che non sono connaturati alla particolare categoria dei beni, ma sono imposti come sacrificio particolare a carico di singoli soggetti o gruppi di soggetti. In subordine, l’Avvocatura sostiene poi che i vincoli di cui all’art. 7 n. 2 della legge urbanistica non importerebbero, di per sé, un’espropriazione intesa nel senso delineato dalla ripetuta sentenza n. 6 del 1966 della Corte, cioè non importerebbero 311 alcuna limitazione apprezzabile del contenuto della proprietà privata, poiché la loro attuazione attraverso il piano regolatore, non farebbe che specificare un limite connaturato allo status giuridico del bene. E ciò sarebbe confermato dalle disposizioni dell’art. 11 della legge urbanistica, che prevede l’efficacia immediata delle "linee e prescrizioni di zona" e solo per queste e non per altri vincoli di destinazione e dell’art. 40 impugnato, ne esclude l’indennizzabilità. D’altra parte l’imposizione in sede di piano regolatore generale dei vincoli di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 7 (spazi di uso pubblico, aree riservate a edifici e impianti di interesse pubblico generale), avrebbe la funzione di non disporre ma di "preannunciare" l’espropriazione, che si concreterebbe solo in un secondo tempo, con l’adozione del piano particolareggiato. Né il fatto che, in realtà, l’esproprio, con la conseguente corresponsione dell’indennità, venga fatto in concreto a notevole distanza di tempo dall’approvazione del piano, potrebbe indurre, secondo l’Avvocatura, a ravvisare, relativamente al detto periodo intermedio, una forma di esproprio sostanziale senza indennizzo. Invero, anzitutto l’indeterminatezza temporale sarebbe di natura non assoluta, giacché ben potrebbe il privato avvalersi delle normali garanzie giurisdizionali in caso di ingiustificata inerzia dell’Amministrazione; e, d’altra parte, il lamentato nocumento collegato alla inutilizzabilità dell’area nel periodo intercorrente fra l’approvazione del piano regolatore generale e l’esproprio effettivo, dovrebbe essere considerato in relazione alla possibile utilizzazione edilizia del bene nel periodo medesimo, che sarebbe peraltro sempre condizionata dal rilascio della licenza, concessa di regola non in presenza della semplice inclusione dell’area nel perimetro urbano, ma subordinatamente alla esistenza quanto meno di un sufficiente grado di urbanizzazione e del servizi pubblici essenziali. L’Avvocatura conclude pertanto che la Corte, ove non ritenga di rimettere nuovamente gli atti al giudice a quo, dichiari infondata la questione sollevata. Per le parti private costituite, é stata presentata in termini una memoria illustrativa congiunta. In essa si ribadiscono le deduzioni già svolte e, in particolare, si precisa che secondo quanto stabilito con la sentenza n. 6 del 1966 della Corte, l’obbligo di indennizzo sussisterebbe tutte le volte che l’imposizione del vincoli urbanistici non abbia carattere generale ed obbiettivo, comportando un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti, e concreti d’altra parte una compressione del contenuto economico del diritto di proprietà. Pertanto, mentre potrebbe anche escludersi l’obbligo di indennizzo per quei vincoli che stabiliscono, ad esempio, in 312 determinate zone, limiti di altezza, di cubatura ecc. nella costruzione, in quanto diretti ad una generalità di soggetti, lo stesso obbligo dovrebbe invece riconoscersi in relazione ai vincoli a verde pubblico o privato, che colpirebbero i singoli proprietari del terreni contemplati nei provvedimenti, creando una precisa differenza fra loro e la generalità degli altri proprietari limitrofi. Osserva inoltre la difesa che i vincoli urbanistici a verde pubblico o privato o agricolo porrebbero in essere una espropriazione non soltanto sostanziale, ma anche formale, giacché, attraverso la loro imposizione, si concreterebbe una situazione giuridica che, attraverso la costituzione di un diritto di godimento pubblico, incide sul diritto privato di proprietà e lo limita anche sul piano formale. Tale fattispecie, verificandosi d’imperio della pubblica autorità, assumerebbe il valore formale di una espropriazione, ed anche sotto questo profilo pertanto, la questione sollevata sarebbe fondata. Anche la difesa degli eredi Ajroldi ha presentato una memoria con cui ribadisce, spiega e illustra le considerazioni già esposte a sostegno della rilevanza della questione. L’Avvocatura dello Stato ha pure depositato una memoria illustrativa, svolgendo le tesi difensive pregiudiziali e di merito già proposte ed insistendo quindi nel chiedere che la Corte voglia dichiarare infondate le questioni proposte, ove non ritenga di rimettere nuovamente gli atti al giudice a quo. Anche la difesa del Comune di Palermo ha depositato una memoria con cui nega la rilevanza della questione con argomenti analoghi a quelli svolti dall’Avvocatura dello Stato e, nel merito, illustra i motivi che sosterrebbero il riconoscimento della legittimità delle norme impugnate. Nel corso del procedimento penale a carico dell’imprenditore edile Riccitelli Francesco imputato della contravvenzione di cui all’art. 41, lett. b, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, per avere proseguito i lavori nonostante gli ordini di sospensione intimatigli dal sindaco a causa della violazione da parte di esso Riccitelli delle prescrizioni dettate nella licenza edilizia in conformità del piano regolatore generale comunale (lavori consistenti in costruzione di edificio con piani in più del quattro previsti nel progetto approvato con licenza edilizia, il pretore di Campobasso ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3 e 4, della legge urbanistica sotto il profilo della violazione della riserva di legge di cui all’art. 42, secondo comma, della Costituzione e della violazione della garanzia all’indennizzo di cui al terzo comma dello stesso art. 42 in termini analoghi a quelli già svolti nelle ordinanze di rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa sopra menzionate. 313 Il pretore ha altresì rilevato che le disposizioni di cui ai nn. 3 e 4 del ripetuto art. 7 pongono limiti che, pur essendo immediatamente efficaci, non sono soggetti ad un termine finale di operatività, onde la proprietà privata verrebbe sottoposta a vincoli per un periodo di tempo la cui durata sarebbe rimessa alla incensurabile discrezionalità della Pubblica Amministrazione, il che concreterebbe una violazione della garanzia costituzionale del rispetto della proprietà privata di cui all’art. 42, secondo comma, della Costituzione. Quanto alla rilevanza, il pretore afferma che dalla eventuale illegittimità delle norme impugnate discenderebbe la illegittimità delle disposizioni amministrative violate dall’imputato, il che inciderebbe sulla configurabilità del reato ascrittogli. Il giudice a quo pertanto ha sospeso il giudizio principale, e rimesso gli atti a questa Corte per la decisione delle questioni sollevate. L’ordinanza, emessa in udienza alla presenza dell’imputato, é stata notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 6 maggio 1966, comunicata ai Presidenti del due rami del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 182 del 23 luglio 1966. Non vi é stata costituzione di parti avanti questa Corte. Considerato in diritto Le due cause, che derivano rispettivamente dalle ordinanze di rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana e del pretore di Campobasso, riguardando le stesse questioni di principio, possono essere riunite e decise con unica sentenza. 1. - L’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta per il Presidente del Consiglio dei Ministri nella causa conseguente alla ordinanza di rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa, eccepisce in linea preliminare che il giudizio di rilevanza, nuovamente espresso dal Consiglio, non risponde né alla esigenza di approfondimento già sollecitata da questa Corte nella precedente fase in relazione alla presunta illegittimità di ciascun tipo di vincolo in concreto: né, soprattutto, risponde alla esigenza primaria di dimostrare la rilevanza del giudizio di legittimità costituzionale ai fini concreti della risoluzione delle questioni di merito: rilevanza che qui sarebbe senz’altro da escludersi, discutendosi davanti al Consiglio soltanto della legittimità degli atti amministrativi di imposizione dei vincoli in sé considerati, a tutela degli interessi dei singoli e non già della 314 corresponsione di indennizzi a soddisfacimento di pretesi diritti soggettivi. L’eccezione non é fondata. L’ordinanza di rinvio ha, nel caso, sufficientemente posto in evidenza il contenuto ed i limiti del giudizio di rilevanza, così come dedotto. Pur senza scendere a dettagli, l’ordinanza non ha trascurato di rapportare gli effetti di questo giudizio a quanto forma oggetto del singoli giudizi di impugnazione pendenti davanti al Consiglio, per dedurne la pregiudizialità; ed ha, poi, chiaramente delineato la questione di legittimità costituzionale che si é inteso proporre, in relazione a quelle norme della legge urbanistica sui piani regolatori generali comportanti compressioni del diritto di proprietà senza corrispondente indennizzo. Nell’ambito del giudizio volto ad impugnare un piano regolatore generale (quello di Palermo) formato sulla base della legge urbanistica e con espresso richiamo alla stessa, si é, pertanto, ritenuto di inserire la proposizione della questione di legittimità costituzionale di quelle norme dalle quali il piano deriva e sulle quali si regge. Di conseguenza, la Corte, riscontrato che un giudizio di rilevanza, di pertinenza del giudice a quo é stato compiuto ed in modo sufficientemente motivato, deve ritenere ammissibile, sotto il profilo in esame, il giudizio qui instaurato. La stessa Avvocatura generale dello Stato, sempre in linea preliminare, ma senza farne oggetto di formale eccezione, sottopone alla Corte il quesito se sia ammissibile la rimessione, operata con l’ordinanza di rinvio, del giudizio di legittimità costituzionale sull’art. 7, n. 2, della legge urbanistica in relazione all’art. 40 stessa legge, dopo che sulla legittimità di detto numero dell’articolo, questa Corte si é pronunciata con la precedente sentenza. Si aggiunge che il giudizio dovrebbe ora mantenersi circoscritto ai numeri 3 e 4 dell’art. 7, in ordine ai quali la precedente ordinanza ha indirizzato il riesame della rilevanza. La Corte osserva che, in questa seconda fase, la prospettazione, da parte del Consiglio di giustizia amministrativa, della legittimità costituzionale dell’art. 7, n. 2, é stata compiuta in base a motivi che sono essenzialmente nuovi e diversi da quelli già in precedenza dedotti e decisi e riguardano ora il sistema organico sul punto, della legge nelle sue varie articolazioni, l’una all’altra connesse. Ed in caso di restituzione degli atti al giudice a quo, questi ha potestà piena di riesaminare tutte le questioni non decise (sentenza n. 56 del 1960). 315 Non sussiste, quindi, la lamentata preclusione. D’altra parte, anche con l’ordinanza del pretore di Campobasso, che ha dato luogo alla riunione delle cause, si é denunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 in ordine a tutti i tre numeri suindicati. Il contenuto e l’ampiezza del giudizi restano, pertanto, chiaramente definiti. 2. - L’ordinanza del pretore di Campobasso prospetta, come primo motivo di incostituzionalità, l’indeterminatezza dei criteri e delle modalità della disciplina urbanistica di cui all’art. 7, per cui non potrebbe ritenersi osservato l’art. 42, commi secondo e terzo, della Costituzione, che riserva alla legge di regolare compiutamente l’esercizio di detto potere di disciplina. La stessa questione, già proposta negli stessi termini con la prima ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa, é stata esaminata da questa Corte con la sentenza n. 38 del 1966 e dichiarata non fondata, in base a molteplici argomenti che dimostrano la sufficiente individuazione, da parte del legislatore, dei vincoli posti sulla proprietà privata a fini urbanistici e dei relativi controlli posti a garanzia della proprietà stessa. L’ordinanza non contiene alcun nuovo argomento, valido a condurre, sul punto, a decisione della questione, diversa da quella della già riconosciuta infondatezza, che qui va, conseguentemente, confermata. 3. - Entrambe le ordinanze devolvono alla Corte altra questione così puntualizzata: se la mancanza di previsione nella legge urbanistica, di un termine finale di effettiva operatività del vincoli riconducibili nell’ambito delle disposizioni di un piano regolatore generale e, nello stesso tempo, l’operatività immediata, senza il riconoscimento di alcun compenso, dei vincoli imposti dal piano stesso - taluni ordinati al mantenimento obbligatorio dell’attuale utilizzazione privata o alla realizzazione obbligatoria di una diversa utilizzazione privata, altri ordinati a future destinazioni concrete, da realizzare attraverso interventi pubblici incerti an e quando siano conformi all’art. 42, terzo comma, della Costituzione che condiziona l’assoggettamento a espropriazione della proprietà privata, per motivi d’interesse generale, all’attribuzione di un corrispondente indennizzo. Così delineata la questione, la Corte rileva anzitutto che il sistema, sul punto, della legge n. 1150 del 1942 corrisponde a quanto accennato nelle ordinanze di rinvio. 316 Una volta approvato il piano regolatore generale, questo ha vigore a tempo indeterminato (art. 11). E la giurisprudenza ha costantemente affermato che non soltanto i vincoli indicati nel n. 2 dell’art. 7 (come si può ricavare dagli artt. 11 e 17) ma altresì quelli indicati nei nn. 3 e 4 dell’art. 7 sono immediatamente operativi e validi a tempo indeterminato. In questo sistema (che la recente legge di modifica e integrazioni n. 765 del 1967 ha conservato, ribadendo anche l’intervento di misure di salvaguardia nelle more di approvazione del piano e dichiarandole anzi obbligatorie - art. 3, ultimo comma - ) viene a determinarsi - salvo per quanto riguarda quei vincoli che sono ordinati al mantenimento di destinazioni attuali della proprietà un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale. Quest’ultimo, quando presupponga trasferimenti di proprietà (e quindi per la generalità delle aree da destinare a opere e usi pubblici), e inoltre quando presupponga trasformazioni ad opera del proprietari, é infatti dilazionato a data incerta e imprevista e imprevedibile nel suo verificarsi (quella in cui potranno essere eventualmente approvati e attuati i piani particolareggiati). Orbene, per nessuno dei riferiti vincoli in relazione alla descritta situazione viene, nel sistema della legge, ipotizzato un indennizzo. Vero che, in questo sistema, rientrano talune previsioni di indennizzo. Ma, a parte i casi di trasferimento di proprietà, un indennizzo non é previsto, fuorché, a titolo di assoluta eccezione, nell’ipotesi considerata dall’art. 25. Quanto poi ai casi di trasferimenti coattivi, la legge, mentre pel trasferimento non fissa alcun termine decorrente dall’entrata in vigore del piano generale, non contempla alcun indennizzo per il vincolo di immodificabilità cui il proprietario é tenuto a sottostare per il tempo, illimitato, durante il quale rimarrà in attesa del trasferimento. Per contro, quando il trasferimento coattivo abbia poi luogo, la proprietà verrà indennizzata "allo stato", e cioè con riferimento ai valori del momento (ciò pel richiamo che l’art. 37 della legge fa alla legge generale sulle espropriazioni). L’ordinanza del pretore di Campobasso, quale argomento di rincalzo per dimostrare la carenza del sistema, indica anche l’art. 30 della legge, dove non é previsto per l’attuazione del piano generale alcun corredo di piano finanziario, se non per l’ipotesi delle zone di espansione di cui all’art. 18, destinate a essere espropriate prima della formazione dei piani particolareggiati. Il rilievo é esatto. Anzi il citato art. 30 é ora sostituito dall’art. 9 della legge di modifica n. 765 del 1967 dove l’esigenza del piano 317 finanziario, già prevista per i soli piani particolareggiati e per le zone di espansione, é sostituita con quella di una semplice "relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per l’acquisizione delle aree". Tutto questo però nulla aggiunge di decisivo al già detto; e anzi si inquadra perfettamente in esso. 4. - Per escludere il dubbio di illegittimità della legge urbanistica nella parte dianzi descritta, prospettata dall’ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa, in relazione all’art. 42, comma terzo, della Costituzione, la difesa delle parti pubbliche sostiene che detto articolo e comma si riferiscono esclusivamente all’ipotesi di una espropriazione immediatamente traslativa, cui soltanto corrisponderebbe la garanzia di un indennizzo. Questa tesi ha già formato oggetto di esame della Corte con la sentenza n. 6 del 1966. Premesso che l’istituto della proprietà privata é garantito dalla Costituzione e regolato dalla legge nei modi di acquisto, di godimento e nei limiti, la Corte ha osservato che tale garanzia é menomata qualcosa singoli diritti, che all’istituto si ricollegano (naturalmente secondo il regime di appartenenza dei beni configurato dalle norme in vigore), vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l’appartenenza del diritto e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprietà fondiaria. Anche tali atti vanno considerati di natura espropriativa. La Corte ha, peraltro ritenuto che il principio della necessità dell’indennizzo non opera nel caso di disposizioni le quali si riferiscano a intere categorie di beni (e perciò interessino la generalità dei soggetti), sottoponendo in tal modo tutti i beni della categoria senza distinzione ad un particolare regime di appartenenza. Successivamente alla citata sentenza e conformandosi ai principi ivi affermati e direttamente o indirettamente richiamati, questa Corte ha deciso altre particolari questioni con le sentenze n. 20 e n. 119 del 1967. Questi motivati concetti di base vanno tenuti presenti e considerati operanti per decidere sulla questione ora proposta. Per superare la conseguenzialità derivante dalla interpretazione come sopra data dalla Corte al comma terzo dell’art. 42 della Costituzione, si vorrebbe ricondurre l’esame al comma precedente, sul punto in cui é proclamata ed assicurata la 318 funzione sociale della proprietà, mediante limitazioni disposte per legge. Senza dubbio la garanzia della proprietà privata é condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto é stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti "dall’ordinamento giuridico" e le regole particolari per scopi di pubblico interesse. Ma, per tutto ciò ammesso e riconosciuto, la questione in esame non si risolve, circoscrivendola nell’ambito del secondo i comma dell’art. 42. Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime, il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che é connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico. Al di là di tale confine, essa assume carattere espropriativo. I commi secondo e terzo dell’art. 42 (e quest’ultimo come già interpretato dalla Corte) vanno insieme considerati e coordinati, per ricavarne, - alla stregua di quello che, in base all’ordinamento giuridico attuale, rappresenta il vigente, concreto regime di appartenenza dei beni (art. 42, secondo comma) - l’identificazione del casi, nei quali, incidendo essi negativamente, a titolo individuale, sulla proprietà riconosciuta secondo il regime stesso, occorre far luogo all’indennizzo (art. 42, terzo comma). 5. - Secondo il regime di appartenenza, quale risulta dalla vigente legislazione, e dalla stessa legislazione urbanistica, i beni immobili che ricadono nella sfera d’applicazione di quest’ultima, continuano ad essere considerati, in via di principio ed in 319 conformità della tradizione, di pertinenza del proprietario, con gli attributi inerenti alla loro possibilità di utilizzazione. Come é stato posto in evidenza al n. 3, é la stessa vigente legge urbanistica a considerare inerente esclusivamente alla proprietà ogni attributo dell’immobile: non altrimenti dai proprietari non assoggettati da quella legge ad un vincolo, anche i proprietari che vengono a subire un trasferimento coattivo conseguono il valore venale attuale dei beni (art. 37). Per evitare lo sconfinato arbitrio del singolo e disciplinarne l’esercizio del diritto, e per dare un ordine e un’armonia allo sviluppo dei centri abitati, la proprietà in questione é tuttavia sottoposta ad alcuni limiti, in relazione alla funzione sociale propria di essa. Tra questi limiti vanno senz’altro ritenuti legittimi, prima di tutto, perché compatibili con l’anzidetto sistema, quelli che possono esser considerati connessi e connaturali a detta proprietà, in quanto hanno per scopo una disciplina dell’edilizia urbana nei suoi molteplici aspetti (inerenti all’intensità estensiva e volumetrica, alla localizzazione, al decoro e simili), quali questa Corte ha già avuto occasione di indicare con la sentenza n. 38 del 1966 emessa nella prima fase di questo giudizio. In questo senso e con questo significato, la Corte, fin dalla sentenza n. 64 del 1963, con riferimento alla legge urbanistica ed all’art. 42, secondo comma, della Costituzione, ha, appunto perciò, riconosciuta legittima costituzionalmente l’imposizione di siffatti limiti. Tra i limiti legittimi, in quanto connaturali alle anzidette esigenze (e storicamente tramandati), deve farsi rientrare anche l’assoggettamento a vincolo di immodificabilità per la limitata durata (purché ragionevole) del piani particolareggiati, di quelle aree che i piani stessi destinano al trasferimento in vista delle programmate trasformazioni o diverse utilizzazioni. E ciò in considerazione della particolare natura e funzione del piani stessi. Peraltro, la questione che ora la Corte é chiamata a decidere é di diversa portata: cioè, se sia costituzionalmente legittimo sottrarre ad indennizzo, fin dal momento in cui intervenga, l’imposizione, in sede di piano regolatore generale, di vincoli urbanistici immediatamente operanti, quando, ben più che disciplinare (come quei vincoli di cui or ora si é parlato) le modalità di utilizzazione della proprietà, o limitarne l’impiego per il tempo normalmente necessario a una prossima diversa utilizzazione previo passaggio ad altre mani (come é proprio del piani particolareggiati), comprimano a titolo particolare la proprietà in modo rilevante. In altre parole, é da accertare se il sottrarre senza un indennizzo gli immobili, quando essi siano da considerarsi edificabili in base all’ordinamento vigente nel 320 momento in cui il vincolo intervenga, alla possibilità di utilizzazione rappresentata dalla destinazione (che peraltro, a seconda del casi, può essere intensiva o meno intensiva, od ‘ estensiva, o addirittura rada) a nuove costruzioni o comunque ad altri proficui impieghi di ordine urbanistico, sia o meno costituzionalmente legittimo. Tale questione presenta due aspetti, l’uno all’altro connesso. L’uno riguarda l’indennizzabilità, l’altro il tempo dell’indennizzo. Sotto il primo aspetto, la questione, in via di principio, non può essere risolta che in conformità della già richiamata giurisprudenza di questa Corte, in base alla quale ogni incisione operata a titolo individuale sul godimento del singolo bene, la quale penetri al di là di quei limiti che la legislazione stessa abbia configurato in via generale (ai sensi dell’art. 42, secondo comma, Costituzione) come propri di tale godimento in relazione alla categoria dei beni di cui trattisi, e annulli o diminuisca notevolmente il valore di scambio, deve essere indennizzato. L’interesse del privato é subordinato all’interesse generale della collettività per quanto riguarda la sottoposizione a siffatti vincoli: non per quanto riguarda le più gravi conseguenze economiche che ne derivano sul patrimonio, non di tutti in egual modo e misura, ma di alcuni soltanto dei componenti la collettività destinataria della legge. Se, come si é più sopra ricordato, la legge urbanistica prevede l’indennizzo secondo il valore venale per gli immobili dei quali viene imposto il trasferimento per finalità urbanistica - con ciò stesso dando una certa configurazione alla proprietà urbana del singoli - , é evidente il contrasto di ciò col mancato indennizzo delle diminuzioni imposte per la medesima finalità alla proprietà privata senza operare un trasferimento, ovvero in attesa di operare un trasferimento incerto nel "se" e nel "quando". Sotto il secondo aspetto, la risoluzione della questione si collega alla prima e ne dipende, nel senso che, una volta riconosciuto il diritto ad un indennizzo, questo dev’essere razionalmente riferito a punti cronologici di operatività, senza creare vuoti che disgiungano illimitatamente la sottomissione immediata del bene dal compenso per la sua perdita, effettiva o virtuale, dilazionando, solo per ciò che riguarda l’onere cui l’Amministrazione é tenuta, l’efficacia dell’atto impositivo. Questa Corte, con sentenza n. 90 del 1966, con riferimento alla legge regionale siciliana n. 20 del 1951 autorizzativa di espropriazione di atee per consentire la costruzione del palazzo della Regione, ne ha ravvisato l’illegittimità, appunto per non essersi fissato alcun termine per il compimento della procedura espropriativa, mentre (ha osservato testualmente la sentenza) i 321 tempi delle espropriazioni e realizzazioni rappresentano, nel sistema, una garanzia essenziale. 6. - A questi principi di base va rapportato l’esame di costituzionalità delle norme denunciate. É, anzitutto, da rilevare, per trarne una prima conseguenza, che, mentre i numeri 3, 4 dell’art. 7 contengono un riferimento a ben determinate indicazioni essenziali che debbono essere contenute in un piano regolatore generale, il numero 2, pur integrandosi nel sistema, mantiene una certa latitudine di contorni per quanto riguarda l’ambito della categoria del "vincoli di zona da osservare nell’edificazione", specie se confrontato con l’art. 25 che parla di "destinazione di zona" e con l’art. 40 che parla genericamente di "vincoli di zona" distinguendoli dalle limitazioni relative all’allineamento edilizio. Ai fini del giudizio di costituzionalità, non spetta, tuttavia, alla Corte, in via interpretativa della norma dell’art. 7, n. 2, verificarne, col contenuto, i precisi confini di operatività. Rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall’art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l’altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell’edilizia di cui si é detto. A parte l’anzidetto punto fermo, spetta però agli organi di giurisdizione ordinaria desumere dalla casistica delle imposizioni, riferite a fattispecie variabili con la variabilità dei casi concreti, la rispettiva inserzione nella categoria del vincoli di zona contemplati nell’anzidetto n. 2 ovvero in una delle altre categorie, indicate nelle diverse numerazioni di cui l’art. 7 si compone. Quello che é invece necessario e sufficiente qui rilevare é che l’art. 7 contempla, nella sua articolata formulazione, un complesso di imposizioni, immediatamente operative, tutte collegate dal fine della legge (art. 1) di dare assetto ai centri abitati: tra le quali imposizioni sono sicuramente comprese, sia ipotesi di vincoli temporanei (ma di durata illimitata), preordinati al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale, sia ipotesi di vincoli che, pur consentendo la 322 conservazione della titolarità del bene, sono tuttavia destinati a operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di là del limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento dell’imposizione. Tutto ciò senza la previsione di indennizzo, ed anzi, nel senso che si é detto, con una previsione del contrario (art. 40), tanto nel caso di vincoli di durata, predisposti in correlazione a trasferimenti di proprietà differiti (ma incerti an e quando), quanto nel caso di vincoli immediatamente definitivi inerenti a proprietà non destinate a esser trasferite. E, una volta riconosciuta la carenza della previsione legislativa, nemmeno spetta alla Corte procedere in questa sede all’esame delle modalità con cui all’indennizzo dovrebbe e potrebbe in simili casi provvedersi, in special modo con riguardo all’ipotesi di vincoli temporanei preordinati a successivi trasferimenti di proprietà. É certo però che la legislazione già conosce in materia appropriati strumenti. Da tutto ciò consegue la dichiarazione di illegittimità, per contraddizione con l’art. 42, comma terzo, della Costituzione, delle norme denunciate, limitatamente alla parte in cui consentono, senza indennizzo, limitazioni temporanee o definitive a diritti reali, di contenuto espropriativo e immediatamente operative. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale del numeri 2, 3, 4 dell’art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e dell’art. 40 stessa legge, nella parte in cui non prevedono un indennizzo per l’imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti del diritti reali, quando le limitazioni stesse abbiano contenuto espropriativo nei sensi indicati in motivazione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 1968. Aldo SANDULLI - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI Depositata in cancelleria il 29 maggio 1968. 323 18) A.M. Sandulli, Profili costituzionali della proprietà privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 465 ss. Sommario: 1. Stato sociale, rapporti economici e proprietà nella normativa costituzionale. – 2. Carattere «non inviolabile» del diritto di proprietà. – 3. Significato del 1° comma dell’art. 42 Cost. – 4. Proprietà privata e garanzia costituzionale. – 5. La proprietà privata e la legge. – 6. Proprietà privata e riserva di legge. – 7. Funzione e limiti della potestà legislativa in materia. – 8. Proprietà privata e potestà amministrativa. – 9. Il concetto costituzionale di espropriazione. – 10. L’indennità di espropriazione nella costituzione. – 11. Espropriazioni non traslative e diritto all’indennizzo. – 12. Segue. – 13. La proprietà terriera e l’art. 44 cost. 1. – Il problema costituzionale della proprietà privata va, naturalmente, considerato nel quadro complesso configurato dalla costituzione repubblicana con l’ordine pluralistico e solidaristico che essa ha inteso imprimere alla comunità nazionale. Un ordine, il quale, ammettendo la presenza, la coesistenza e la coordinazione, nel campo economico, del pubblico e del privato, presuppone il superamento degli schemi dell’economia liberale. Un ordine che, bandendo il totalitarismo, ha voluto anch’esso collocare – in ciò, dappresso all’ordine liberale – l’uomo al centro del sistema; ma tale collocazione ha voluto, movendo dalla premessa della pari dignità sociale e giuridica di tutti gli essere umani e nell’aspirazione al concreto raggiungimento di un’eguaglianza non meramente formale, bensì autentica ed effettiva. La quale sia in grado di rendere reale per tutti – attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale (e perciò aprendo a tutti la strada all’apprendimento e allo svolgimento di un’attività produttiva) – la possibilità della piena espansione della personalità e della partecipazione di tutti (appunto in correlazione e in riconoscimento della posizione attiva da ciascuno assunta in tal modo nella società: art. 4) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3). Un ordine, nel quale – senza rinunciare alle conquiste dello Stato di diritto (artt. 13-28, 101-113), e anzi portandole ad allineamenti più avanzati (artt. 134-137) – si ha di mira il consolidamento e il perfezionamento dello Stato sociale, cioè di uno Stato, il quale, basandosi sulla solidarietà politica, economica e sociale della comunità e di ciascuno in favore di tutti – e anzi imponendola come «dovere inderogabile» ( e perciò da considerare presente e operante nell’intero sistema normativo) – (art. 2), si faccia strumento di benessere, di progresso civile, di giustizia (vale a dire di equi rapporti e di 324 congrue posizioni per tutti, in seno alla società). Uno Stato, quindi, attivo, propulsivo, impegnato nel suscitare occasioni di produzione e lavoro, sì da favorire anche per tale via la liberazione e l’elevazione dell’uomo, l’uguaglianza, la giustizia, il progresso materiale e spirituale della società (art. 4). In seno alla società nazionale assume spicco la posizione civile e sociale di chi lavora, in immediata correlazione col fatto che la Repubblica italiana identifica nel lavoro – inteso come attività «che concorra la progresso materiale e spirituale della società» (art. 4) – la fonte della dignità dell’uomo e la base della società civile e dell’ordine democratico (art. 1). Del resto, senza operosità le fonti del benessere si inaridirebbero, e con esse le stesse fonti di una valida solidarietà. E’ in questa cornice che va collocata e intesa la normativa costituzionale relativa ai rapporti economici (artt. 35-47), e va spiegata la tutela privilegiata, la posizione particolarmente garantita, in essa fatta ai lavoratori dipendenti e alle categorie meno dotate dei lavoratori autonomi (artigiani, coltivatori diretti) (artt. 35-40 e 43-47), cioè a quelli, tra gli elementi impegnati nella produzione, che storicamente sono apparsi più bisognevoli di protezione, essendo, generalmente, la loro posizione economica e sociale e quella della famiglia, condizionata indissolubilmente dalla quotidiana attività lavorativa. Per converso – e proprio in correlazione con l’esigenza di salvaguardare gli interessi dell’intera comunità, e, in seno ad essa, quelli di chi trae soltanto dal lavoro i mezzi di vita (e specialmente dei lavoratori economicamente meno favoriti) – la costituzione, pur riconoscendo e garantendo il diritto d’intrapresa economica e la proprietà privata – vale a dire i diritti economici di chi è presente nel campo dell’economia non in qualità di lavoratore (o non soltanto in qualità di lavoratore) – si preoccupa della delimitazione dei diritti stessi (artt. 41-42), perché vengono esercitati in modo da non urtare con gli interessi sociali, e anzi (quando ne ricorrano le condizioni) vengano esercitati in modo «funzionale», vale a dire in modo considerato utile (anche) ai fini del benessere collettivo. Sempre nello stesso quadro generale essa, mentre fa oggetto di favore la proprietà di certi beni economici più strettamente «personali» (la proprietà della casa), o più legati a un impegno produttivo «individuale» (la proprietà coltivatrice, la piccola e media proprietà agricola) – e anzi si preoccupa dell’ «accessibilità a tutti» della proprietà privata - , e mentre considera con favore altresì quelle modeste forme di impresa che sono collegate a un’attività lavorativa (impresa artigiana, proprietà coltivatrice) o al risparmio «popolare» - e quindi, ancora una volta, dei ceti meno abbienti – (l’azionariato popolare), guarda con un certo 325 disfavore le proprietà e le imprese maggiori (prevedendo la possibilità di limiti quantitativi alla proprietà, e in particolare a quella terriera privata, e consentendo la espropriazione, tra l’altro, delle imprese monopolistiche: artt. 42, 43 e 44). 2. – Già dalle notazioni che precedono è dato ricavare che, nel sistema costituzionale, le posizioni soggettive dell’imprenditore e del proprietario si collocano a un livello diverso e meno protetto rispetto alla posizione giuridica del lavoratore. È tramontata ormai da un pezzo l’era liberale, caratterizzata dalla pari dignità, sul piano costituzionale, dei due elementi del binomio «libertà e proprietà», propria del tempo della preminenza politica della borghesia, quando (secondo una concezione di nota derivazione calvinista) la proprietà veniva considerata quasi come un’integrazione o addirittura come una proiezione e un attributo della personalità, come estrinsecazione e a un tempo base della libertà individuale (era il tempo in cui la dignità sociale e la partecipazione al potere politico erano esse stesse condizionate dal censo). Diversamente da quanto è stato fatto per altre libertà e diritti (artt. 13, 14, 15, 24), la proprietà non viene definita dalla costituzione italiana come un diritto «inviolabile». Inoltre essa non rientra tra quei «diritti dell’uomo» che globalmente la costituzione definisce, nell’art. 2, «inviolabili», volendo in tal modo significare che (pur senza che ne sia intangibile – come per le libertà e i diritti fondamentali di cui si è fatto cenno – il contenuto e la disciplina) ne viene garantita la preservazione nei confronti della stessa potestà di revisione costituzionale, sul presupposto dell'esigenza della loro simultanea e complessiva presenza nel sistema, a caratterizzarne le democraticità. I diritti «dell'uomo», cui il ricordato precetto della costituzione si riferisce, sono infatti quelli, strettamente inerenti alla persona umana, attinenti a manifestazioni dirette, a modi di essere e di operare dell'uomo come tale, mentre già nell'ordine sociale e giuridico preesistente alla costituzione repubblicana la proprietà (il riconoscimento dottrinale della cui «funzione sociale» risaliva agli anni trenta) aveva perduto quel carattere di stretta inerenza alla persona, di attributo della stessa, che gli era stato annesso artificiosamente in passato (del resto è da molto che la proprietà dei beni economici sempre meno frequentemente si presenta in forma «individuale»). Ecco perché, mentre, dei diritti considerati nel titolo della costituzione dedicato ai «rapporti economici» (artt. 35-47), sicuramente rientra tra quelli «inviolabili», di cui è cenno nell'art. 2, il diritto al lavoro (il che dimostra l'inesattezza della tesi che, per dimostrare la non inviolabilità della proprietà, si appella 326 appunto alla collocazione dell'art. 42 nell'anzidetto titolo), non vi rientra del pari il di ritto di proprietà. Non è un caso, dunque, che nell'art. 42 della costituzione manchi una formula del genere di quella contenuta nell'art. 29 dello statuto albertino, secondo la quale «tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili » (si tenga peraltro presente che, in regime di costituzione flessibile, l'inviolabilità non poteva allora significare altro, che inattentabilità da parte dei pubblici poteri, se non in base alla legge). 3. – Quanto si è detto non vuol significare che la proprietà non sia garantita dalla costituzione. A questo punto occorre passare all'analisi dell'art. 42 della carta costituzionale, che è dedicato precisamente alla proprietà. La prima affermazione contenuta nell'articolo è che «la proprietà è pubblica o privata». La formula è oscura e ambigua. Essa potrebbe essere intesa tanto nel senso che al legislatore è consentito di prevedere (eventualmente) un diverso regime di proprietà (proprietà pubblica), quando i beni appartengano a un ente di diritto pubblico, come nel senso che i beni possono appartenere in proprietà sia a soggetti privati, che ad enti di diritto pubblico. Poiché nei successivi commi dello stesso articolo si continua a parlare di «proprietà privata» sicuramente nel senso di proprietà di soggetti privati (e così pure nell'art. 44, il quale si riferisce alla «proprietà terriera privata»), e poiché nei medesimi sensi (e non con riferimento a una diversità di regime), nel comma 3° dell'art. 41 la costituzione contrappone l'«attività economica pubblica» a quella «privata» (e analogamente parla di «iniziativa economica privata» nel comma 1°), appare la seconda la soluzione da preferire. E a ciò cospira anche il fatto che nella proposizione in esame l'espressione «proprietà pubblica» fu introdotta in un secondo tempo, in sostituzione dell'altra «proprietà collettiva», adottata in un primo momento. Rimane poi aperta al legislatore la scelta del regime (non necessariamente uniforme e non necessariamente differenziato dalla proprietà dei soggetti privati) della proprietà degli enti pubblici, in relazione alla quale la costituzione null'altro aggiunge. Né, rispetto alla formula, intesa in tali sensi, appare tautologica la proposizione - sicuramente non molto felice - del secondo periodo dello stesso comma dell'art. 42, dove si dice che «i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati ». Essa infatti (diversamente da quella del primo periodo) si riferisce soltanto ai «beni economici», e sta a significare che la legislazione deve ammettere che beni di tale categoria possano, in concreto, appartenere non soltanto ai soggetti di una o due delle tre specie (Stato, enti, privati) in essa elencati, ma anche a 327 quelli delle altre specie del trinomio, ed ha essenzialmente la funzione di assicurare la conservazione nel sistema (anche) della proprietà privata di «beni economici». Quanto poi all'espressione «beni economici», poiché sarebbe troppo semplicistico (e contrasterebbe del resto con quanto risulta dagli atti dell'Assemblea costituente) ritenere che l'aggettivo (apparentemente tautologico rispetto al sostantivo cui si accompagna) sia stato apposto superfluamente, e poiché, d'altra parte, può escludersi che con esso la carta si sia voluta riferire unicamente a quei beni che sono strumento di produzione (altrimenti ne rimarrebbero stranamente fuori gran parte degli immobili e delle merci), essa va intesa nel senso di beni (eventualmente anche di consumo), i quali rivestano (per qualità o quantità) notevole interesse economico. È dai beni di questo tipo che la disposizione in esame ha voluto che i privati non fossero del tutto esclusi. Essa però non dice affatto che tutti i «beni economici» debbono poter appartenere così allo Stato, come a enti e a persone fisiche, e non esclude affatto che l'appartenenza di questa o di quella categoria di tali beni sia riservata allo Stato o ad altri particolari soggetti (specialmente ad enti pubblici). Quest’ultima affermazione risulta confermata dal comma successivo, il quale, nel disporre che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge», affida, tra l’altro, appunto alla legge, di ammettere o escludere la possibilità che questa o quella categoria di beni appartenga a soggetti privati (enti o individui), e cioè possa formare oggetto di proprietà privata. 328 329 330 331 332 333 mente manifesto, la Corte costituzionale ben potrebbe dichiarare l'illegittimità delle disposizioni stesse (un controllo del genere è stato, p.es., esercitato dalle sentenze nn. 59 del 1960 e 14 del 1964 della Corte costituzionale in riferimento ai concetti di «utilità generale » e di « servizio pubblico essenziale» espressi nell'art. 43 cost.). In sostanza la costituzione ha voluto che ogni proprietà (ogni tipo di proprietà, in connessione col tipo di bene che ne formi 334 oggetto e con le utilità di cui questo sia suscettibile) assolva immancabilmente a una «funzione» (finalità) «sociale», e, cioè, a una funzione che sia considerata - anche se l'utilizzazione giovi direttamente al solo proprietario - di interesse comunitario, in quanto il regime cosi instaurato risponda a un'esigenza della coscienza comune, e soddisfi un'istanza generalmente sentita. Ha voluto dunque che ogni regime di appartenenza di beni realizzi l'obbiettivo di contribuire in qualche modo al conseguimento del benessere materiale e/o spirituale della società (e, in essa, dei singoli). Benessere che, tuttavia, in molti casi (specialmente per ciò che si riferisce ai beni più strettamente inerenti alla persona) ben può realizzarsi proprio attraverso l'utilizzazione esclusiva da parte del proprietario. È in vista di tale obbiettivo, e solo in correlazione con esso, che la legge può operare sul regime giuridico della proprietà privata (o, meglio, dei singoli tipi di proprietà). 8. – Il carattere relativo, e non assoluto, della riserva di legge enunciata nel comma 2° dell'art. 42 cost. comporta, come già si è accennato, che la legge ben può rimettere ad autorità amministrative la definizione, in concreto, dei contenuti delle singole proprietà, e cioè la definizione la delimitazione delle facoltà di utilizzazione dei beni e dei doveri che si accompagnano alla proprietà. Peraltro - come in ogni caso di riserva di legge relativa - è indispensabile che la legge sia sufficientemente specifica nella delimitazione dei poteri in tal modo conferiti, sì da evitare che la materia possa esser ritenuta completamente abbandonata alla discrezionalità amministrativa. La Corte costituzionale ha ritenuto sufficientemente specifiche, al riguardo, le disposizioni dell'art. 7 della legge urbanistica del 1942 (poi modificato con la l. n. 1187 del 1968) che indicano i contenuti dei piani regolatori generali e perciò i tipi dell'utilizzazione privata nelle diverse zone (la zonizzazione) e le destinazioni di aree a opere, servizi e usi pubblici, che l'amministrazione comunale, sotto il controllo dell'amministrazione statale (e da ora in poi di quella regionale) dei lavori pubblici, può stabilire in sede di: formazione dei piani. Trattandosi peraltro di disposizioni le quali non enunciano alcun criterio in ordine alla determinazione di quei contenuti (e altrettanto può dirsi a proposito dei «limiti inderogabili» stabiliti con decreto ministeriale, di cui si occupano, in vista della forma zione dei piani, gli ultimi due commi dell'art. 41-quinquies della legge urbanistica, così come modificata con la l. n. 765 del 1967), in tanto hanno potuto esser ritenute non contrastanti con la riserva i legge, in quanto la Corte si è mostrata convinta dell'esigenza che siffatti strumenti urbanistici si basino (anche 335 se non sempre in concreto si basano) su criteri rigorosamente tecnici (i quali però sono tutt'altro che inopinabili, anche perché l'urbanistica è ai confini tra la scienza e l'arte). Criteri da applicare prendendo le mosse da dati abbastanza certi (consistenza della popolazione, tassi di incremento della stessa, previsioni della programmazione economica, ecc.). Ha ritenuto la Corte che in ciò stesso fosse ravvisabile quella sufficiente delimitazione dei poteri amministrativi discrezionali, che sempre è stata richiesta nelle materie di riserva di legge. Ma è chiaro quale preziosa risorsa siano in grado di rappresentare certe «scelte urbanistiche» per le sempre esauste casse dei partiti al potere nei comuni. Suscita, quanto meno, un senso di inappagamento la riflessione che, siccome, di regola, il nostro ordinamento non ammette alcun sindacato giurisdizionale sulle determinazioni amministrative che si basino su scelte tecniche o discrezionali, un campo pullulante di diritti soggettivi di così elevato rilievo patrimoniale, ed esposto a tante possibilità di arbitrio, venga sostanzialmente a rimanere sguarnito di ogni protezione giustiziale. Può costituire eloquente riprova della diversità di opinioni possibile in materia, e della loro forza, un esempio recentissimo riguardante una delle nostre maggiori città, il cui piano regolatore, nel quale il comune aveva recepito il vigente piano di ricostruzione, non fu condiviso dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, che ebbe a suggerire di configurare come «centro antico» l'intera parte della città compresa nel piano di ricostruzione ed altre ancora, lasciatene fuori dal comune, il quale aveva invece adottato un diverso criterio in ordine alla determinazione della «parte antica» della città da fare oggetto di «conservazione»; avendo però il comune resistito, per la parte relativa al vecchio piano di ricostruzione, alla modificazione suggerita, il piano è stato poi approvato dal ministero, per la parte anzidetta, così come adottato dal comune. D'altro canto non si può non riconoscere che appare quasi impensabile un giudizio successivo di merito in una materia simile. Per cui una soluzione in qualche modo soddisfacente non può essere cercata se non ispirandosi a due direttive: quella di determinare (attraverso sistemi perequativi o attraverso altri sistemi, che possono giungere fino all'avocazione totale ai pubblici poteri dello ius aedificandi) l'indifferenza dei proprietari in ordine alla utilizzazione del territorio, e quella di consentire più largo spazio e maggiori garanzie (a livello giurisdizionale o quasi) alla voce dei singoli interessati nella fase preparatoria degli strumenti urbanistici pubblici, dando in tal modo soddisfazione a quel precetto dell'art. 97 cost., il quale esige che 336 l'organizzazione amministrativa sia tale da assicurare «il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione». Perplessità ancora maggiori di quelle della legge urbanistica suscita poi, allo stesso proposito, il combinato disposto degli artt. 3 e 10 della legge sulle aree da destinare all'edilizia economica e popolare (l. n. 167 del 1962), modificati con gli artt. 29, 32, 33 e 35 della c.d. legge sulla casa (l. n. 865 del 1971): disposizioni che ,collegano a scelte amministrative, le quali non possono non esser considerate latamente discrezionali (e non sono in nessun modo delimitate) - come quelle volte a determinare quali delle aree residenziali comprese in uno strumento urbanistico debbano essere destinate all'edilizia popolare la grave conseguenza patrimoniale dell'assoggettamento delle aree prescelte a un'espropriazione a prezzo fortemente sperequato in minus rispetto al generale valore delle altre aree residenziali, destinate, sì, a diverse (e generalmente meno intensive) tipologie edilizie, ma non caratterizzate da elementi differenziali di essenziale (e soprattutto immediatamente evidente) rilievo, specialmente laddove prevalga il criterio moderno di intercalare l'edilizia residenziale popolare a quella comune. Con quanto si è detto non si vuole negare che la zonizzazione del territorio rientri nel quadro della determinazione autoritativa dei «modi di godimento» della proprietà che il comma 2° dell'art. 42 cost. espressamente prevede (e lo ha affermato espressamente la Corte costituzionale con la nota sentenza n. 55 del 1968 riflettente l'indennizzabilità di certi vincoli urbanistici). Se la costituzione ha statuito però in proposito una riserva di legge, il legislatore non può attribuire la materia all’autorità amministrativa senza indicazione di criteri e limiti. 9. – Il comma 3° dell’art. 42 cost. statuisce che «la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale». Anch'esso contiene dunque una riserva di legge, quando dispone che le espropriazioni possono essere effettuate soltanto «nei casi preveduti dalla legge». E anche stavolta si tratta di una riserva di legge «relativa». La disposizione riguarda la sola «proprietà privata». La Corte costituzionale ha avuto occasione di precisare in proposito che la ripartizione della proprietà pubblica tra i diversi pubblici poteri attiene all'organizzazione di questi e che il passaggio autoritativo di beni da un soggetto a un altro non concreta perciò in simili casi un'espropriazione (sent. n. 68 del 1959). Inoltre la disposizione precisa – con espressione estremamente lata – che le espropriazioni nei confronti di privati possono avere 337 luogo per qualsiasi motivo di «interesse generale». Dunque essa non riguarda soltanto le espropriazioni ai fini della realizzazione di opere di pubblica utilità, di cui alla l. n. 2359 del 1865, considerata come la legge fondamentale della materia espropriativa. Nulla disponendo in ordine ai beni che possono essere espropriati, la costituzione lascia poi aperta la possibilità di espropriare qualsiasi tipo di bene (immobili, mobili, immateriali). E difatti già la legislazione precedente era orientata in questi sensi (v., p.es., gli artt. 54 ss. l. n. 1089 del 1939, gli artt. 60 ss. r.d. n. 1127 del 1940, gli artt. 112 ss. l. n. 633 del 1940). Anche per le ragioni or ora dette, e, in aggiunta, per il riconosciuto fenomeno dell’usuale impiego, nei testi costituzionali, di formule sintetiche e pluricomprensive (e talvolta improprie), e, ancora, per la considerazione di portata universale che il fenomeno espropriativo è ben più vasto rispetto di quello a proposito del quale nella nostra tradizione legislativa si usa impiegare il nome di «espropriazione» (hanno natura espropriativa – in quanto, occasione a parte, dell’espropriazione presentano tutti i connotati -, ad es., le requisizioni in proprietà, le prelazioni di cose d’arte da parte dell’autorità, e simili, e inoltre anche quei provvedimenti – come le requisizioni in uso e le occupazioni temporanee – che assegnano temporaneamente l’uso del bene a un soggetto diverso dal proprietario, mentre non hanno la medesima natura – data la loro connotazione sanzionatoria, o parasanzionatoria – le confische, alcuni sequestri, e simili, e neppure quegli ordini di distribuzioni dei beni, che sono dettati al fine di scongiurare pericoli per la sanità, l’agricoltura, la sicurezza, ecc., quali gli ordini di abbattimento di animali, piante, edifici, e simili), per tutte le anzidette ragioni e considerazioni, dicevo, appare poi ingiustificato intendere – secondo un inaccettabile nominalismo – l’ «espropriazione» di cui si occupa l’art. 42 come se si riferisse soltanto a quegli istituti ablatori che la tradizione legislativa ha designato con tale nome (sicchè sarebbe espropriazione, ad. es., quella dei diritti d’autore e dei marchi – nonostante la grande diversità dei relativi procedimenti rispetto a quello previsto dalla legge del 1865 sulle espropriazioni per la realizzazione di opere di pubblica utilità -, e non anche una requisizione o una prelazione autoritativa di un bene artistico ai sensi degli artt. 31 e 39 della l. n. 1089 del 1939). 338 339 11. – Un problema estremamente controverso è se le espropriazioni per cui il comma 3° dell’art. 42 prescive un indennizzo siano soltanto quelle che comportano un trasferimento di proprietà o anche le altre. Le sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968 della Corte costituzionale si sono espresse nel secondo senso. I critici di esse le hanno perciò severamente condannate, fermandosi, ancora una volta, alla lettera dell’art. 42, il quale predica l’espropriabilità della «proprietà». Da questo solo fatto essi hanno ritenuto di poter trarre, innanzi tutto, la conseguenza che la disposizione non riguarderebbe anche le espropriazioni «diminutive» (ma non «estintive») della proprietà (espropriazioni volte a costituire servitù, limitazioni, diritti d’uso, a carico di una proprietà), come pure le espropriazioni ordinate a operare l’estinzione, in favore di una proprietà, di servitù o di limitazioni gravanti su di essa. Espropriazioni ben note alla legislazione anteriore alla costituzione (art. 1 l.n. 2359 del 1865; v. pure, p. es., l’art. 1 r.d. n. 1473 del 1938), la quale anche per esse prevedeva un’indennità. 340 Quella legislazione contemplava, inoltre, di regola, un’indennità per ogni genere di «perdita» o di «diminuzione» permanente di diritti reali derivanti dalla realizzazione di opere di pubblica utilità (art. 46 l. n. 2359 cit.). E, se pure molte leggi speciali non si uniformavano allo stesso criterio (e ciò era previsto nello stesso art. 46 della l.n. 2359, al comma 3°) nondimeno rimaneva il principio. Come si può, in presenza dell’anzidetta normativa, remota e meno remota, negare – come è diventato di moda secondo certe ispirazioni di «politica del diritto» - che la legislazione anteriore alla costituzione non conosceva espropriazioni che non 341 comportassero, oltre all’ammissione, anche l’acquisizione di un diritto? Si tratta di negazioni finalizzate all’obiettivo di escludere che l’art. 42, comma 3°, contempli un indennizzo anche per le espropriazioni non accompagnate da un fenomeno acquisitivo. Quando però non si tratti di prescrizioni di carattere generale, bensì di prescrizioni in deroga a quelle generali – quando, ad es., nel contesto di una zona residenziale (nella quale perciò alla generalità dei proprietari viene consentita una opima utilizzazione edilizia), una singolare area (la quale non risulti già vincolata per altre ragioni inerenti alla propria particolare natura, quali quelle inerenti alla difesa del paesaggio, del patrimonio archeologico, storico-artistico, ecc.) venga – definitivamente, oppure temporaneamente (in attesa di una espropriazione, incerta nell’an e nel quando) – sottoposta isolatamente a vincolo di immodificabilità (venga, p. es., vincolata immediatamente a verde privato, oppure predestinata a strada, a parco pubblico, a chiesa, a impianto sportivo, a sede di uffici) allora, essendo palese che il sacrificio della posizione proprietaria – un sacrificio spinto fino al punto di svuotare quest’ultima (attraverso l’impossibilità di adibire il bene all’uso proprio degli altri beni della «zona», e quindi all’uso tipico e «proprio» della categoria) del suo «contenuto essenziale» –, allora, dicevo, non può negarsi il carattere espropriativo del provvedimento. Infatti, secondo la ricordata tradizione giuridica (che va ricostruita la di sopra dei nominalismi), rivestono carattere espropriativo tutti quei provvedimenti, non aventi funzione sanzionatoria o parasanzionatoria, i quali siano destinati a fare venir meno o a diminuire in modo rilevante una posizione proprietaria, o un altro diritto reale, a titolo particolare, e cioè non per categoria ( e non vale certo opporre che non sempre è facile stabilire se l’imposizione di certi 342 caratteri e vincoli abbia avuto luogo «per categoria», o «a titolo singolare»). Né può essere trascurato che la tradizione collima con la logica e la giustizia (e ha perciò una validissima base razionale assai bene colta nella giurisprudenza della Germania di Weimar e di Bonn, come pure in quella svizzera e in quella nordamericana), essendo palese l’iniquità e l’irragionevolezza (e perciò il contrasto con l’art. 3 della nostra costituzione, così come viene costantemente inteso dalla Corte costituzionale) del diniego di ogni indennità a colui che, proprietario di un immobile sito in una zona residenziale, i suoli della quale abbiano valore di mercato elevati, subisca l’annientamento del valore di quel bene in conseguenza dell’imposizione di un vincolo di inutilizzabilità a fini edilizi imposto nell’interesse pubblico, a titolo individuale. La sperequazione risulta tanto più evidente in relazione al fatto che, laddove l’amministrazione proceda, nella zona, a espropriazioni traslative (p. es., per realizzare un parco pubblico), non manca di corrispondere la dovuta indennità, a prezzo fino a ieri commisurato ai valori di mercato (art. 37-39 l. urbanistica; v. però ora art. 16 l. sulla casa). Quando poi il vincolo comportasse addirittura un onere di cura (o, peggio, di adattamento: ad es., a parco), verrebbe in questione, oltre e insieme all’art. 3 cost., anche l’art. 23. 13. - Brevi cenni vanno dedicati infine alla proprietà terriera privata, della quale si occupa espressamente l'art. 44 cost. Svolgendo, in riferimento a questo particolare tipo di propr-ietà, i criteri ispiratori dell'art. 42 relativi alla funzione sociale della proprietà, l'art. 44 li esplicita, demandando alla legge (siamo ancor una volta in presenza di una riserva di legge, a garanzia della proprietà) il compito di imporre «obblighi e vincoli» alla proprietà terriera privata, «al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali». Rispetto a tali obiettivi si presentano poi come parziali e strumentali quelli di promuovere e imporre «la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive». D'altro canto l'art. 44 prevede la possibilità di imporre limiti quantitativi alla proprietà terriera privata: ciò da un lato per favorire l'accesso di nuovi proprietari alla terra (in connessione col già enunciato precetto dell'art. 42), dall'altro per dare alla proprietà dimensioni «funzionali». Cogliamo nell'art. 44, ancora una volta, gli intenti egualitari e solidaristici che pervadono - secondo l'ispirazione degli artt. 2, 3 e 4 - tutto il titolo III della parte prima della costituzione, dedicata ai «rapporti economici». 343 L'art. 44 ha di mira il risultato che chi vive sulla terra goda di « equi rapporti sociali» nei confronti di chi dispone della proprietà, e perciò di condizioni tali, nel rapporto giuridico, che ne risulti assicurata una congrua remunerazione dell'attività lavorativa del coltivatore e - per usare l'espressione dell'art. 36 «un'esistenza libera e dignitosa» anche per la sua famiglia. In sostanza, l'obbiettivo ultimo deve essere quello di consentire a chi lavora sulla terra uno standard di retribuzione e di condizioni di vita non inferiore a quello di chi lavori, a pari livello, in altri settori produttivi. Un'attività lavorativa, dunque, così per il coltivatore dipendente come per quello autonomo, la quale si svolga in condizioni di sicurezza sociale, di libertà dal bisogno, di personale decoro, di appropriato compenso. A tal fine la costituzione consente alla legge l'imposizione di «obblighi e vincoli» alla proprietà. Legittime, quindi, le disposizioni legislative che impongano al proprietario la realizzazione e la manutenzione dei « comodi » occorrenti per una decorosa esistenza di chi lavora la terra; come pure che regolino, in virtù dei fini anzidetti, le modalità dei rapporti giuridici, le prestazioni reciproche del coltivatore e del proprietario, la partecipazione del proprietario agli oneri di sicurezza sociale. Occorre però non perder di vista l'altro, indissociabile, obbiet tivo da perseguire, anch'esso inerente alla «funzione sociale» della proprietà terriera: il conseguimento del «razionale sfruttamento del suolo». Obbiettivo al servizio del quale sono posti anche, come si è visto, «la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive». La costituzione cioè si propone la realizzazione di un'agricoltura economicamente valida, risanata, perfezionata, competitiva, organizzata su dimensioni aziendali (le «unità produttive») funzionali. Non un'agricoltura frantumata e sminuzzata in unità antieconomiche. Anche l'agricoltura deve essere strumento di quell'incremento produttivo che è condizione del progresso economico e dell'elevazione sociale di una comunità e dei suoi componenti. È in questa direzione che, secondo la costituzione, dovrebbero esser mobilitati gli sforzi . concordi della società e della proprietà, sforzi che la legge dovrebbe «promuovere e imporre». Legittime dunque le leggi volte alla composizione di «unità produttive» ottimali e ad evitare lo smembramento di quelle esistenti. A tal fine peraltro non è indispensabile operare a livello proprietario, essendo sufficiente farlo, eventualmente, a livello di gestione aziendale. È questa la condizione perché la stessa proprietà coltivatrice goda di un' «esistenza libera e dignitosa». 344 È in questo stesso quadro che l'art. 44 contempla non solo la difesa, ma addirittura l'appoggio, l'« aiuto» (evidentemente econo mico e giuridico) alla piccola e media proprietà, tanto coltivatrice, come non coltivatrice (quando ha voluto riferirsi soltanto alla proprietà coltivatrice la costituzione infatti lo ha detto espressamente: art. 47). Al legislatore non è consentito, dunque, dalla costituzione, di preoccuparsi, nell'affrontare i temi dell'agricoltura, unicamente della condizione contadina. Ancor meno la costituzione consente di realizzare il giusto obbiettivo dell'elevazione di questa a scapito del'economia agricola, e perciò a scapito dell'economia generale del paese. Essa vuole che lo strumento per l'elevazione della condizione contadina sia il progresso dell'economia agricola, il «razionale sfruttamento del suolo», da realizzare attraverso unità produttive di dimensioni tecnicamente appropriate, le quali si trovino nella situazione ottimale per sfruttare le tecniche culturali e mercantili, per essere competitive in campo internazionale, per essere una forza attiva e non un peso morto nella vita economica e sociale del paese. Che in vista di codesti obbiettivi la proprietà terriera privata abbia tuttora un proprio ruolo da svolgere, l'art. 44 lo afferma categoricamente, proprio laddove dice che essa può essere assoggettata a tal fine ad «obblighi e vincoli» (e perciò all'«imposizione» della bonifica, della trasformazione del latifondo, della ricostituzione delle unità produttive), e laddove prevede «aiuti» per la piccola e media proprietà. Né contrasta con gli obbiettivi stessi quella disposizione dell'art. 47, la quale vuole che sia «favorito» l'accesso del risparmio popolare alla «proprietà diretta coltivatrice». Il particolare buon occhio con cui la costituzione guarda a quest'ultimo tipo di proprietà - la quale peraltro non sta affatto ad indicare qualsiasi dimensione proprietaria, e quindi anche le aziende di dimensioni minuscole e antieconomiche - non esclude assolutamente che anche la «proprietà diretta coltivatrice» debba esser considerata nel quadro generale configurato dall'art. 44, e perciò nel quadro di un'economia agricola valida e competitiva. Orbene, se tutto questo è vero, è chiaro - e la Corte costitu zionale lo ha affermato (sent. n. 40 del 1964) - che la costituzione ha voluto che fosse mantenuto vivo l'interesse economico dei proprietari non coltivatori alla terra, e che perciò i loro rapporti giuridici con le categorie coltivatrici fossero regolati in modo tale da non «disamorarli» alla proprietà. In queste stesse prospettive si muovono, del resto, le altre legislazioni europee e si sono mossi il memorandum «agricoltura '80» della Cee del 1968 - il quale fa leva sull'accorpamento dei terreni dati in fitto per lunga durata, in vista della realizzazione, 345 a livello locatizio, di aziende produttivamente efficienti -, nonché gli stessi emendamenti che per quel piano sono stati suggeriti. Per contro viene a collocarsi in manifesta antitesi coi precetti costituzionali ogni legislazione, la quale, pensosa unicamente del l'ora presente, delle presenti difficoltà della situazione contadina, ritenga di risolvere quest'ultimo problema, ed esso soltanto, addossandone il carico alla proprietà, e non prenda alcuna cura al problema delle dimensioni ottimali dell'azienda agricola, né a quello 346 19) Corte costituzionale, sent. n. 5/1980 SENTENZA N.5 ANNO 1980 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori giudici Avv. Leonetto AMADEI Presidente Prof. Edoardo VOLTERRA Prof. Guido ASTUTI Dott. Michele ROSSANO Prof. Leopoldo ELIA Prof. Guglielmo ROEHRSSEN Avv. Oronzo REALE Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI Avv. Alberto MALAGUGINI Prof. Livio PALADIN Dott. Arnaldo MACCARONE Prof. Antonio LA PERGOLA Prof. Virgilio ANDRIOLI ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 16 e 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 e succ. modif. di cui agli artt. 14 e 19 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme sui programmi e sul coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica, Modalità di determinazione della indennità di espropriazione e di occupazione), promosso con ordinanze emesse il 18 marzo 1977 dalla Corte d’Appello di Bologna, il 29 giugno 1977 e il 4 aprile 1978 dalla Corte d’Appello di Potenza, il 19 maggio 1978 dalla Corte d’Appello di Firenze, il 2 giugno 1978 dalla Corte d’Appello di Lecce, il 20 dicembre 1977 dal Tribunale Amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, il 26 maggio 1978 dalla Corte d’Appello di Firenze, il 30 giugno 1978 dalla Corte d’Appello di Trieste (n. 8 ordinanze), il 30 giugno e il 5 maggio 1978 dalla Corte d’Appello di Torino, il 13 ottobre 1978 dalla Corte d’Appello di Trieste, il 2 giugno 1978 dalla Corte d’Appello di Palermo e il 27 ottobre 1978 dalla Corte di Appello di Torino, iscritte ai nn. 232 e 495 del registro ordinanze 1977; 358, 489, 501, 515, 562, 555, 556, 563, 580, 581, 582, 583, 584, 619, 632, 635 e 688 del registro ordinanze 1978, e 14 del registro ordinanze 1979, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 169 e 347 rispettivamente del 22 giugno e del 21 dicembre 1977; 285 dell’11 ottobre 1978; 10, 17, 31, 38, 347 45, 52, 66 e 80, rispettivamente del 10, 17 e 31 gennaio 1979, del 7, 14 e 21 febbraio 1979 e del 7 e 21 marzo 1979. Visti gli atti di costituzione della Regione Emilia-Romagna, della Società Mineraria Senna, di Francescina Bruno ed altri, di Komjanc Giuseppe ed altra, di Micheletto Sacerdote Amalia e del Ministero dei LL.PP., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri. Udito nell’udienza pubblica del 13 giugno 1979 il Giudice relatore Arnaldo Maccarone; uditi gli avvocati Paolo Barile per la Società Mineraria Senna, Gaetano Guerra per Micheletto Sacerdote Amalia, e Alberto Predieri per la Regione Emilia-Romagna e il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1.- Le ordinanze innanzi indicate denunciano la illegittimità costituzionale delle stesse disposizioni di legge, in base ad argomentazioni sostanzialmente analoghe; i relativi procedimenti vanno pertanto riuniti per essere definiti con unica decisione. 2. - In relazione alla questione proposta dal T.A.R. dell’Emilia-Romagna con ordinanza 20 dicembre 1977 (Reg. ord. n. 515 del 1979), la Regione interessata ha eccepito preliminarmente la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione stessa, in quanto esulerebbe dalla competenza del giudice amministrativo la controversia concernente la misura dell’indennità di espropriazione. L’eccezione è fondata. L’ordinanza ha precisato che nei motivi di impugnazione del provvedimento di espropriazione era stata dedotta < la illegittimità dovuta alla insufficienza del criterio legislativo di determinazione dell’indennizzo >. E, pur dando atto che i ricorrenti avevano impugnato davanti al giudice ordinario la misura dell’indennità di espropriazione, ha tuttavia ritenuto la rilevanza della questione, in quanto < il Tribunale non può decidere su questo motivo di ricorso se prima non sia risolta la questione della legittimità della norma di legge >. L’inconsistenza di tale assunto appare manifesta, ove si consideri che il giudice amministrativo difetta di giurisdizione in ordine alle controversie riguardanti la misura dell’indennità di espropriazione, essendo tale materia devoluta alla competenza del giudice ordinario (art. 19 legge 865 del 1971 non modificato per questa parte dalla legge n. 10 del 1977). Di conseguenza l’applicazione delle norme di cui è contestata la legittimità non poteva venire in considerazione in quella sede e pertanto era del tutto irrilevante verificarne la conformità ai precetti costituzionali. 348 3.- Le ordinanze prospettano il dubbio di costituzionalità dell’art. 16 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, come modificato dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (che dettano i criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione e occupazione), sotto un duplice profilo: a) rilevano che l’adozione del valore agricolo medio dei beni da espropriare, come criterio per la determinazione dell’indennità, confliggerebbe con l’art. 42, terzo comma, Cost., in quanto il riferimento ad una caratteristica estranea a beni che abbiano una chiara destinazione edificatoria, per i quali sarebbe da escludere ogni relazione con i tipi di coltura praticati nella regione agraria e con la fertilità del suolo, potrebbe portare alla liquidazione di indennizzi irrisori e, comunque, gravemente sperequati rispetto al valore di mercato dei suoli. Inoltre, la mancata considerazione del carattere edificatorio dell’area espropriata , pure se posta all’esterno dei centri edificati, porterebbe all’attribuzione di un indennizzo non conforme al principio enunciato nell’art. 42, comma terzo, Cost., il quale esigerebbe che esso costituisca un sostitutivo, sia pure non equivalente, della perdita del bene, al cui valore effettivo dovrebbe essere riferito; b) rilevano ancora le ordinanze che le norme anzidette sarebbero in contrasto con l’art. 3, comma primo, Cost., in quanto il criterio adottato determinerebbe, per terreni in situazione eguale, indennizzi diversi a seconda delle zone agrarie in cui sono posti; inoltre, la previsione di maggiorazioni, per le aree comprese nei centri edificati rapportate al dato numerico della popolazione, determinerebbe, irrazionalmente, indennizzi diversi per terreni di pari valore in relazione ai prezzi di mercato. Altra irrazionale disparità viene ravvisata nel trattamento dei proprietari di aree edificabili colpiti da provvedimenti di espropriazione rispetto a quelli di aree aventi le stesse caratteristiche e site nella stessa zona, i quali possono disporne in regime di libera contrattazione. Tutte le anzidette censure vengono estese agli artt. 19 della legge n. 10 del 1977, il quale prevede l’applicazione delle norme denunziate ai procedimenti in corso, ove la indennità liquidata non sia divenuta definitiva e 20 della legge 865 del 1971 (come modificato dall’art. 14 legge n. 10 del 1977), che adotta gli stessi criteri per la determinazione della indennità di occupazione. Infine, l’ordinanza della Corte di Appello di Palermo (Reg. ord. n. 688 del 1978) denuncia anche la violazione dell’art. 53 Cost., in quanto la mancata rispondenza dell’indennizzo al valore del bene espropriato determinerebbe una irragionevole ripartizione nel costo della iniziativa assunta nell’interesse pubblico, facendone gravare il peso con una sorta di imposizione tributaria straordinaria, non ragguagliata alla capacità 349 contributiva del soggetto su di un cittadino determinato e non su tutta la comunità interessata. La stessa ordinanza estende la denuncia di incostituzionalità all’articolo unico della legge 27 giugno 1974, n. 247, che rese applicabili i criteri dell’art. 16 legge n. 865 del 1971 a tutte le espropriazioni preordinate a qualsiasi tipo di opere o di interventi da parte dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico anche non territoriali. 4.- In relazione al primo aspetto delle censure di incostituzionalità (n. 3 sub a) giova ricordare la giurisprudenza di questa Corte, costante nell’affermare che l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro. Perchè ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene. E per le aree destinate all’edificazione, in quanto poste in zone già interessate dallo sviluppo edilizio, deve ritenersi essenziale tale destinazione e di essa occorre tenere conto nella determinazione della misura dell’indennità di espropriazione, da rapportare al valore del bene. Per contrastare tale conclusione si è opposto che, in base alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato la edificabilità dei suoli, nei casi in cui essa è prevista dagli strumenti urbanistici, al rilascio di una concessione, deve ritenersi che l’ius aedificandi non inerisca più al diritto di proprietà, potendo la edificabilità delle aree essere stabilita solo con provvedimento dell’autorità, sicché sarebbe venuta meno la rilevanza, anche ai fini della determinazione della misura dell’indennità di espropriazione, della destinazione edilizia dei suoli. Tale assunto non può essere condiviso. E’ indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l’edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando (mediante i programmi pluriennali di attuazione previsti dall’art. 13 della legge n. 10 del 1977) della edificazione, ma la 350 rigidità del sistema non è tale da legittimare le conseguenze che se ne vorrebbero trarre. Invero, relativamente ai suoli destinati dagli strumenti urbanistici alla edilizia residenziale privata, la edificazione avviene ad opera del proprietario dell’area, il quale, concorrendo ogni altra condizione, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell’area ed è irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza previsti dalla legge (art. 4 legge n. 10 del 1977). Da ciò deriva che il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può solo costruire entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici. Sussistendo le condizioni richieste, solo il proprietario o il titolare di altro diritto reale che legittimi a costruire può edificare, non essendo consentito dal sistema che altri possa, autoritativamente, essere a lui sostituito per la realizzazione dell’opera. Ne consegue altresì che la concessione a edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza. Va peraltro notato che la rilevanza, ai fini della indennità di esproprio, della destinazione edilizia dei suoli è implicitamente riconosciuta dal sistema attuato con la legge n. 865 del 1971 e successive modifiche, in quanto i coefficienti di maggiorazione dell’indennità per le aree comprese nei centri edificati (artt. 16 legge n. 865 del 1971 e 14 legge n. 10 del 1977) non possono avere razionale giustificazione se non ritenendo che si sia voluto attribuire all’espropriato un maggiore compenso in relazione alla destinazione edilizia delle aree stesse. Va inoltre ricordato che la rilevanza della destinazione edilizia delle aree, quale indice di un maggior valore, è operante nel nostro ordinamento anche dopo l’attuazione delle nuove norme per la edificabilità dei suoli, come è dimostrato dalle disposizioni tributarie che legittimano la tassazione del valore edificatorio delle aree, desunto dalla loro collocazione in un insediamento edilizio. 5.- Poste tali premesse, occorre verificare se l’adozione del valore agricolo medio come criterio per la determinazione della misura dell’indennità di esproprio sia o meno conforme al precetto dell’art. 42, comma terzo, Cost. 351 E la risposta a tale quesito non può essere che negativa. Come è stato sopra rilevato, perchè l’indennità di espropriazione possa ritenersi conforme al precetto costituzionale, è necessario che la misura di essa sia riferita al valore del bene, determinato dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione economica perchè solo in tal modo l’indennità stessa può costituire un serio ristoro per l’espropriato. E’ palese la violazione di tale principio ove, per la determinazione dell’indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso. E proprio quanto avviene nella materia in disamina perchè il criterio del valore agricolo medio dei terreni secondo i tipi di coltura praticati nella regione agraria interessata, adottato per la determinazione dell’indennità di esproprio dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 come modificato dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, non facendo specifico riferimento al bene da espropriare ed al valore di esso secondo la sua destinazione economica, introduce un elemento di valutazione del tutto astratto, che porta inevitabilmente, per i terreni destinati ad insediamenti edilizi che non hanno alcuna relazione con le colture praticate nella zona, alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore dell’area da espropriare, con palese violazione del diritto a quell’adeguato ristoro che la norma costituzionale assicura all’espropriato . É appena il caso di rilevare che le anzidette conclusioni non contrastano con la sentenza n. 58 del 1974 di questa Corte, la quale ha ritenuto la legittimità costituzionale della legge 4 febbraio 1958, n. 158, che ragguaglia al valore venale del terreno considerato come agricolo, indipendentemente dalla sua eventuale edificazione, la indennità di esproprio per le aree necessarie all’attuazione di opere nella zona industriale e nel porto fluviale di Padova. La Corte ritenne infatti che la indennità stabilita da tale legge riguardava terreni agricoli, secondo la loro attuale destinazione, prescindendo dal maggior valore derivante dalla loro eventuale edificabilità; pertanto, la indennità di espropriazione veniva ragguagliata al valore del bene, desumibile dalle caratteristiche di esso e dalla sua destinazione economica attuale e non appariva in contrasto con il precetto dell’articolo 42 Cost. Né appaiono meno fondate le censure riferite all’art. 3, comma primo, Cost. (n. 3 sub b). Invero, l’astrattezza del criterio adottato e la mancata considerazione delle caratteristiche del singolo bene da espropriare possono portare a irragionevoli trattamenti differenziati di situazioni sostanzialmente omogenee, in quanto, per terreni in eguale situazione per la loro 352 destinazione edilizia, potrebbero essere attribuiti indennizzi diversi in relazione al maggiore o minore pregio delle zone agricole nelle quali sono posti. Egualmente palese è la disparità di trattamento che viene a determinarsi tra gli espropriati per effetto dell’attribuzione del coefficiente di maggiorazione dell’indennità, relativamente ad aree situate all’interno dei centri edificati (artt. 16 legge n. 865 del 1971 e 14 legge n. 10 del 1977). Un primo rilievo di incogruità, che genera anche esso disparità di trattamento, va fatto in relazione al criterio che regola il potere dei comuni di determinare il perimetro del centro edificato (art. 18 legge n. 865 del 1971). In questo, invero, non possono essere compresi suoli esterni al perimetro continuo delle aree edificate, anche se interessati dal processo di urbanizzazione; viene pertanto ad essere sacrificato senza adeguata ragione il diritto del proprietario delle aree immediatamente adiacenti al perimetro urbano, le quali hanno caratteristiche identiche a quelle incluse nel perimetro stesso, essendo interessate dal processo di urbanizzazione. La sperequazione e la conseguente irrazionalità del diverso trattamento appaiono manifeste quando, dalla incongruità del criterio per la determinazione del perimetro urbano, si fa derivare l’attribuzione del coefficiente di maggiorazione alle sole aree interne al perimetro. Non può opporsi al riguardo la incensurabilità del criterio, di natura discrezionale, adottato dal legislatore ordinario, in quanto essa trova un limite nel rispetto delle norme costituzionali dettate a garanzia dei diritti del cittadino. E nella specie sussiste la violazione dell’art. 3, comma primo, Cost., in quanto in situazioni sostanzialmente omogenee, stante la contiguità e la identità della destinazione delle aree, vengono disposti trattamenti differenziati, attribuendo, senza adeguata ragione, la maggiorazione dell’indennità di esproprio solo ai suoli posti all’interno del perimetro urbano, riconoscendo cosi per questi la rilevanza della loro destinazione edilizia e negandola per gli altri, in identità di situazioni. Meritevole di considerazione è pure un altro aspetto di incongruità del sistema (v. ord. n. 688 del 1978)* fonte pure esso di disparità di trattamento. L’art. 15 della legge n. 865 del 1971, come sostituito dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, prevede che per i terreni agricoli l’indennità di esproprio sia fissata, sia pure a seguito di opposizione dell’interessato alla liquidazione dell’indennità in base al valore agricolo medio, con specifico riferimento alle colture effettivamente praticate nel fondo espropriato ed anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola. 353 Si stabilisce così l’esatto criterio che l’indennità va liquidata in base al valore effettivo del bene espropriato, determinato in relazione alle sue caratteristiche e alla sua destinazione economica; l’aver pretermesso tali riferimenti per le aree con destinazione edilizia e adottato per queste criteri astratti e irrazionali, determina una ulteriore disparità di trattamento tra gli espropriati. Egualmente fondata appare, infine, la censura di irrazionale disparità di trattamento tra proprietari di aree edificabili colpiti da provvedimento di espropriazione e proprietari di aree aventi identiche caratteristiche e poste nella stessa zona, i quali possono disporne in regime di libera contrattazione. La disparità di trattamento non può essere ragionevolmente giustificata con riferimento agli oneri che accompagnano la concessione di edificare (art. 3 legge n. 10 del 1977), i quali dovrebbero servire a perequare le due situazioni. Come è stato già osservato in dottrina, è quanto mai difficile che il sistema adottato riesca ad impedire la traslazione degli oneri stessi a carico degli acquirenti delle unità immobiliari costruite, affrancandone così il costruttore. Le esposte considerazioni assorbono ogni altra censura. La dichiarazione di illegittimità va estesa all’art. 19, comma primo, della legge n. 10 del 1977 (che estende le nuove norme in materia di indennità di esproprio e di occupazione ai procedimenti in corso se la liquidazione dell’indennità non sia divenuta definitiva) e all’art. 20, comma terzo, della legge n. 865 del 1971, come modificato dall’art. 14 legge n. 10 del 1977 (che prevede l’applicazione delle stesse norme per la determinazione dell’indennità di occupazione di urgenza) nonché all’articolo unico della legge 27 giugno 1974, n. 247, nella parte in cui, convertendo in legge con modificazioni il d.l. 2 maggio 1974, n. 115, ne modifica l’art. 4, estendendo l’applicazione delle disposizioni dell’art. 16 della legge n. 865 del 1971 a tutte le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o di interventi da parte dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la illegittimità costituzionale: a) dell’art. 16, commi cinque, sei e sette della legge 22 ottobre 1971, n. 865, come modificati dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10; 354 b) dell’art. 19, comma primo, della legge 28 gennaio 1977, n. 10 e dell’art. 20, comma terzo, della legge 92 ottobre 1971, n. 865, come modificato dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10; c) dell’articolo unico della legge 27 giugno 1974, n. 247 nella parte in cui, convertendo in legge, con modificazioni, il d.l. 2 maggio 1974, n. 115, ne modifica l’art. 4, estendendo l’applicazione delle disposizioni dell’art. 16, commi cinque, sei e sette della legge n. 865 del 1971 a tutte le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o di interventi da parte dello stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni o di altri enti Pubblici o di diritto pubblico anche non territoriali. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/01/80. Leonetto AMADEI – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI – Michele ROSSANO – Oronzo REALE – Leopoldo ELIA – Guglielmo ROEHRSSEN - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI – Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE – Antonio LA PERGOLA – Virgilio ANDRIOLI Giovanni VITALE - Cancelliere Depositata in cancelleria il 30/01/80. [...] 20) S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, da S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, 1981, pp. 273-421 [...] 9. Il modello della Corte costituzionale In definitiva, attraverso la serie di operazioni che si è cercato di descrivere, la Corte è approdata ad una posizione che va oltre le stesse tesi, peraltro assai controverse, di chi sosteneva che non «sarebbe consentito in nome della funzione sociale introdurre tali e tante restrizioni (Eingriffe) da far scomparire sostanzialmente — pur lasciando inalterata l’appartenenza formale — l’essenza della proprietà privata (Wesengehalt), raggiungendo così, sul piano dell’effetto pratico, un 355 risultato sostanzialmente analogo a quello conseguito con il procedimento di avocazione» 357 . La Corte ha così insistito caparbiamente sulla strada scelta già al tempo della sua prima rilevante decisione in materia 358 senza curarsi affatto delle diverse obiezioni che le venivano opposte e, anzi, rinsecchendo sempre più le proprie argomentazioni, fino a renderle poco più che affermazioni apodittiche, incontrollate e incontrollabili 359. Dall’iniziale manipolazione delle norme costituzionali (già ricordata a proposito della particolarissima lettura «sistematica» del secondo e terzo comma dell’art. 42. che serve ad espungere il riferimento alla funzione sociale) si è passati ad una loro integrale riscrittura, interpolando formule rinvenibili nel testo costituzionale (come quelle riguardanti il riconoscimento e la garanzia o l’aiuto alla piccola e media proprietà) con frasi del tipo «senza incidere eccessivamente sulla sostanza del diritto di proprietà», al fine di introdurre un tipo di garanzia che il costituente non aveva affatto previsto e che, quindi, avrebbe dovuto costituire un preciso limite per le operazioni ricostruttive della Corte costituzionale 360. Da ciò è scaturita una conseguenza ulteriore. La teoria «sostanziale», con il suo riferimento ad un contenuto essenziale del diritto di proprietà, ha sopravvanzato e messo da parte quella dell' «atto singolare», rafforzando il riferimento giusnaturalista (nel senso, precisato da ultimo di aggancio «naturale» alla logica del mercato) e facendo perdere ulteriormente di significato al riferimento all'art. 3 361 . E questo vuol dire che l'originaria sfiducia per il pluralismo istituzionale e il sistema delle autonomi 362 si è trasformata in più generale sfiducia nei confronti dello stesso legislatore, ritenendosi non più accettabile neppure una disciplina in chiave di «categoria di beni», e dunque garantita dai valori della generalità e dell'uniformità 363. G. Palma, Beni di interesse pubblico, cit., pp. 160-161. Corte costituzionale, 20 gennaio, n. 6, cit., in particolare p. 89. 359 […] 360 Si veda, ad esempio, Corte costituzionale, 22 dicembre 1977, n. 153, cit., p. 1480. 361 In senso contrario G. Rolla, Significato e limiti del precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di indennizzabilità dei vincoli: alcune note critiche, in «Giur. costituz.», 1976, p. 2086. 362 […] 363 […] 357 358 356 Questo atteggiamento di sfiducia nei confronti di un legislatore «interventista» si spiega senza grandi difficoltà se, ricostruendo nel suo insieme la politica del diritto della Corte costituzionale, si attribuisce il giusto rilievo alla vena liberale rinvenibile in momenti significativi della sua giurisprudenza 364 . Da ciò consegue appunto una lettura dell'art. 42 in chiave esclusivamente garantista, di cui già sono stati messi in evidenza i limiti e dalla quale traspare la volontà di colpire quello che viene considerato un procedimento frodatorio, posto in essere da un legislatore che adopera lo strumento della funzionalizzazione per raggiungere risultati «sostanzialmente» espropriativi. In questo giudizio di sostanziale equivalenza di procedimenti formalmente diversi consiste il concreto ruolo che la Corte costituzionale ha finito con l'assegnarsi in relazione agli interventi conformativi del diritto di proprietà, con una trasformazione ulteriore non solo del sistema quale risulta dalla formulazione delle diverse norme, ma pure del progetto d'insieme che a queste era stato affidato. Si è già ricordato, infatti, come la strumentazione prevista dall'art. 42 sottenda un rinvio al legislatore futuro, operato dalle maggiori forze presenti all' Assemblea costituente 365: la garanzia offerta alle posizioni proprietarie (e il relativo riconoscimento) risulta in tal modo, da una parte, tutta procedimentale; e, dall'altra, politica, nel senso che si individua nel Parlamento il luogo della scelta e della mediazione tra gli interessi (con un unico riferimento obbligato, quello all'utilità sociale). La funzione di controllo della Corte costituzionale, di conseguenza, deve essere commisurata a questo schema, senza che sia ammissibile la sostituzione di un giudizio politico (della Corte) all'altro (del Parlamento), che implicherebbe, come di fatto è avvenuto, l'imposizione da parte della Corte di criteri di selezione tra interessi divergenti da quelli che stavano alla base delle scelte legislative. Ho sviluppato questa teoria in La svolta «politica», cit., in particolare p. 43. Sul punto è tornato criticamente G. Tarello, Storiografia giuspolitica e interventi della Corte costituzionale in materia di proprietà, in Materiali per una storia della cultura giuridica, VI (Dottrine storiche del diritto privato), Bologna, 1976, pp. 593-613. […] 365 […] 364 357 In sostanza, la Corte ha giudicato inadeguata la garanzia procedimentale e, in presenza di una disciplina costituzionale che assegna alla proprietà un ruolo modesto - «un po' superiore a quello che si assegna al paesaggio ( ... ), ma inferiore a quello assegnato a qualsiasi altro diritto fondamentale» 366 - ha ritenuto di dover offrire al proprietario anche una sua diretta garanzia politica. Potrà dirsi che a questo risultato la Corte è potuta giungere proprio perché i costituenti si erano rifugiate in una normativa dai tratti generici o inafferrabili; perché lo stesso strumento tecnico a cui s'era fatto ricorso, la riserva di legge, aveva perduto il suo spessore garantista via via che s’evidenziava la crisi della legge come strumento espressivo dell'uniformità e della generalità della disciplina; e, infine, perché la storia politica della Repubblica mostra con chiarezza che gli interessi complessivamente privilegiati sono stati proprio quelli a cui la Corte ha offerto il proprio sostegno con le sentenze in tema di proprietà. Alle prime due obiezioni si può rispondere richiamando proprio il senso dell'operazione condotta dai costituenti 367. L'ultima obiezione, che riecheggia la ben nota tesi dell'allineamento delle Corti costituzionali sulla law making majority 368, risulta peraltro smentita dalla situazione che di fatto, si è venuta determinando. La Corte, infatti, non ha dato il suo sostegno ad un corso legislativo costituzionalmente sospetto, tuttavia espressivo dell'indirizzo politico di maggioranza: ha, invece, invalidato norme in cui esprimeva un intento legislativo di modifica dei criteri di selezione tra gli interessi fino a quel momento prevalenti negli atti normativi e nelle prassi amministrative, di favore netto per le posizioni proprietarie. Essa, quindi, ha operato come fattore frenante rispetto a quella nuova conformazione delle situazioni proprietarie che, elusa al momento della scrittura della Costituzione, emergeva nella legislazione ordinaria, secondo una linea che ben può essere considerata attuativa del complessivo M. S. Giannini, Basi costituzionali, cit., p. 457. […] 368 La formulazione più nota di questa tesi si deve a R. Dahl, Decision Making in a Democracy: the Supreme Court as a National Policy Maker, in «Journal of Public Law », 1957, pp. 279-295 (su cui cfr. J. D. Casper, The Supreme Court and National Policy Making, in « Amer. Politicai Science Rev. », 1976, pp. 50-63). 366 367 358 progetto costituzionale (o di uno dei progetti riconducibili alla Costituzione). Considerando in quest’ottica l'opera della Corte, ci si può avvedere del modo in cui, per effetto di essa, viene ad essere alterata, più che la fisionomia di questa o quella norma, la stessa convenzione costituzionale che sta alla base del sistema dei rapporti proprietari. Né vale obiettare che, se si ammette la possibilità di più progetti tutti riconducibili allo stesso schema normativo, bisogna poi riconoscere piena legittimità alla scelta che la Corte costituzionale faccia di questo piuttosto che di quell'altro. Se, infatti, la ricostruzione precedente è corretta, si può dire che la Costituzione ha fissato le condizioni in presenza delle quali è possibile la realizzazione di un progetto piuttosto che di un altro: alla Corte spetta il controllo del rispetto di quelle condizioni, non la scelta diretta tra un possibile progetto e l'altro, scelta che rimane affidata alla competenza esclusiva del Parlamento. Rispetto all'art. 42, in conclusione, ha finito con il determinarsi una situazione diversa da quella riscontrata a proposito dell'art. 41, la cui vicenda è stata intesa come un esempio tipico di incapacità (o impossibilità) di rendere operante un frammento della costituzione economica. Nel caso della disciplina della proprietà dobbiamo constatare piuttosto il fatto che i tentativi, peraltro modesti, di innovazione si sono sovente scontrati con la resistenza netta della Corte costituzionale, che, per realizzare i propri obiettivi, non ha esitato di fronte a manipolazioni delle norme che, per ampiezza e consistenza trovano ben pochi riscontri in una giurisprudenza che pure non ha certo esitato di fronte ad operazioni manipolative. Sì che, nella materia della proprietà, più che di inattuazione, sarebbe il caso di parlare di modifica costituzionale. A parte ogni altra considerazione, questa modifica viene pagata con una non trascurabile e pericolosa crescita di incertezza sul funzionamento del sistema legislativo. L'esperienza, non solo italiana, ci dice quanto sia difficile la definizione di quel che è «categoria di beni», « sostanza» del diritto di proprietà o «annullamento sostanziale» di esso, incidenza «eccessiva», e così via. Si può, in sostanza, generalizzare l'obiezione che Massimo Severo Giannini faceva a proposito del significato della teoria del «sacrificio singolare»: volendo rispondere a tutti gli interrogativi che 359 teorie del genere propongono, si va oltre «un discorso a dodici variabili, cioè a 150 e rotti esiti », che certo « non è facile da dipanare, e difatti nessuno c'è riuscito, e chi crede di esser riuscito lo ha fatto scegliendo per libera elezione alcune combinazioni» 369. La Corte, e i teorici che variamente ne hanno preparato o sostenuto l'opera, si è dunque attribuita un potere di scelta che non è azzardato definire arbitrario, per la mancanza di sicuri criteri di riferimento che non siano quelli di una aprioristica scelta per una determinata nozione di proprietà, da salvaguardare ad ogni costo. Che, poi, è la conferma della decisione della Corte di sostituire la propria garanzia politica a quella costituzionalmente prevista 370. Dal modello della Costituzione si approda cosi al modello della Corte costituzionale 371 , compatto nella scelta di un ampliamento della tutela proprietaria in tutte le direzioni possibili, ma al tempo stesso inafferrabile nei suoi precisi contorni, per i margini amplissimi di apprezzamento discrezionale che i giudici costituzionali si sono riservati. Il cuore di questa nuova disciplina costituzionale della proprietà privata può essere ritrovato nella nitida volontà di difesa del valore di scambio 372, che condiziona la stessa nozione di intangibilità della «sostanza» proprietaria e pone al centro della ricostruzione il rapporto con un istituto dell'espropriazione anch'esso integralmente riplasmato. Ciò comporta una notevole alterazione dello stesso meccanismo garantista previsto dall'art. 42, nella duplice direzione che questo assume di garanzia dell'istituto proprietario e di garanzia offerta ai singoli proprietari 211. La garanzia dell'istituto proprietario, che nel complessivo disegno dei costituenti riguarda piuttosto l'insopprimibilità totale del regime della proprietà privata e quindi si presenta come una condizione di base per la permanenza Così M. S. Giannini, Basi costituzionali, cit., p. 481. Tra le decisioni della Corte assumono particolare rilevanza le già citate sentenze n. 55 del 1968, n. 155 del 1972, n. 107 del 1974, nn. 3 e 4 del 1976, n. 153 del 1977, n. 5 del 1980. 371 II caso della proprietà dimostra come, pur essendo corretto in via di principio affermare che « l'attività della Corte è di natura non costruttiva» (cosi G. Tarello, Storiografia giuspolitica, cit., p. 602), lo stratificarsi di molteplici decisioni sulla medesima materia possa condurre a risultati equivalenti a quelli di una deliberata operazione costruttiva. 372 Si veda ancora ad esempio, Corte costituzionale, 29 maggio 1968, n. 55, cit. 369 370 360 di un'economia mista, viene trasferita all'interno delle proprietà esistenti, divenendo puramente e semplicemente il tramite per la tutela di un loro contenuto essenziale. La garanzia per i singoli proprietari riflette questa impostazione più generale e, da una parte, si ripropone come strumento di difesa di un diritto soggetto assoluto ancora visto in un'ottica paleocivilistica, che si rifiuta di prender atto della definitiva relativizzazione del diritto di proprietà, portata a compimento e formalizzata proprio dal testo costituzionale 373; e, dall'altra, la garanzia puramente procedimentale viene trasformata in un ulteriore vincolo strutturale per l'intervento del legislatore. Non può dirsi, ad ogni modo, che la nozione di proprietà cosi delineata finisce con l'essere una pura e semplice amplificazione della nozione civilistica 374. Dall'insieme degli interventi della Corte costituzionale, infatti, si può ricavare la progressiva messa a punto di una nozione di proprietà costituzionale che la espande al di là della nozione civilistica in senso stretto e il cui punto d'incidenza non è più rappresentato dalla proprietà qual è definita dall'art. 832 c.c., ma dalle «possibilità di utilizzazione di un bene» 375 . La garanzia costituzionale può cosi essere adoperata per offrire tutela ad istituti diversi dalla proprietà, come l'impresa o il contratto: e, infatti, lo schema messo a punto per la proprietà è stato adoperato per «illegittimare discipline legali di rapporti contrattuali»376 e per salvaguardare l'iniziativa economica privata 377. Viene cosi messo a punto un modello (o «dottrina», come altri preferisce chiamarlo) 378 dotato di una valenza generale, messo a punto attraverso successive astrazioni, che sostanzialmente definisce come proprietà ogni situazione privata patrimonialmente rilevante e riferibile […] Pure nella prima fase della giurisprudenza costituzionale tedesca di questo dopoguerra, che più tendeva a tener ferma quella nozione, si affermava che oggetto della tutela era la proprietà «qual era stata conformata dal codice civile e dalle concezioni sociali»: cosi BVerGE 1, pp. 264, 268; 2, pp. 380, 402; 11, pp. 64, 70; 26, pp. 119, 142, dove tuttavia è chiaro che lo stratificarsi del sapere sociale preso in considerazione è solo quello che conferma l'opinione che fa della proprietà una pietra angolare dell'ordine costituito. 375 Cfr. da ultimo Corte costituzionale 30 gennaio 1980. n. 5, cit., p. 279. 376 Cosi G. Tarello, Storiografia giuspolitica, cit., p. 608. 377 […] 378 G. Tarello, Storiogra]ia gius polit u:a, cit., pp. 605, 607. 373 374 361 alla disponibilità di un bene. La tecnica ricostruttiva adoperata e gli interessi presi in considerazione (salvaguardia delle posizioni di mercato, intese anche come il metro di valutazione della parità di trattamento tra i soggetti presi in considerazione) non consentono, però, di escludere che il medesimo modello possa essere adoperato anche per garantire situazioni profondamente diverse secondo una linea che muove dai Konnexinstituten 379 e giunge alle «nuove proprietà» 219 - lasciandosi alle spalle la realità come requisito necessario per la tutela e concentrando la garanzia su qualsiasi situazione di vantaggio patrimonialmente rilevante. La tutela «forte», di derivazione proprietaria, è così potenzialmente disponibile per qualsiasi interesse che la indeterminatezza del modello consente di prendere in considerazione. 379 Die Recbtsinstit ute des Priuatrecbts und ihre soziale Funktion, Tübingen. 1929 (rist. Stuttgart , 1965). 362 PARTE III La proprietà nella terza globalizzazione Alla ricerca di una nuova legittimazione 1) G. Hardin, La tragedia dei beni comuni, trad. it. di Lorenzo Coccoli, tratta dal bollettino telematico di filosofia politica (http://bfp.sp.unipi.it/hj05b/249); Questo articolo è basato su una relazione presentata al convegno della Pacific Division of the American Association for the Advancement of Science presso l’Università di Stato dello Utah, a Logan, il 25 giugno 1968. Alla fine di un attento articolo su una possibile futura guerra nucleare, Wiesner e York (1) concludevano che: “Entrambe le parti nella corsa agli armamenti si trovano…di fronte al dilemma di un potere militare continuamente crescente a fronte di una sicurezza nazionale continuamente decrescente. Il nostro meditato parere professionale è che questo dilemma non abbia soluzioni tecniche. Se le grandi potenze continuano a cercare soluzioni solo nel campo della scienza e della tecnologia, il risultato sarà quello di peggiorare la situazione.” Vorrei attirare la vostra attenzione non sull’oggetto dell’articolo (la sicurezza nazionale in un mondo nuclearizzato), ma sul tipo di conclusione raggiunta dagli autori, e cioè che non ci sono soluzioni tecniche al problema. Un implicito e quasi universale assunto delle discussioni pubblicate nelle riviste scientifiche specialistiche e semi-popolari è che il problema discusso ha una soluzione tecnica. Una soluzione tecnica può essere 363 definita come quella soluzione che richiede un cambiamento solo nelle tecniche derivate dalle scienze naturali, senza bisogno, o quasi, di un cambiamento dei valori umani o delle idee morali. Ai giorni nostri (anche se non in passato) le soluzioni tecniche sono sempre le benvenute. Dato il mancato avverarsi delle precedenti profezie, ci vuole coraggio per sostenere che una soluzione tecnica, pur desiderata, non è possibile. Wiesner e York davano prova di questo coraggio; scrivendo per una rivista scientifica, insistevano sul fatto che la soluzione del problema non era da ricercare nelle scienze naturali. Hanno circoscritto cautamente la loro asserzione con la frase “È nostro meditato parere professionale…”. Lo scopo del presente articolo non è stabilire se avessero ragione o meno. Piuttosto, l’interesse qui verte sull’importante concetto di una classe di problemi umani che possiamo chiamare “problemi senza soluzione tecnica”, e, più precisamente, sulla identificazione e discussione di uno di essi. È facile dimostrare che tale classe non è una classe vuota. Pensate al gioco del tris. Considerate il seguente problema: “Come posso vincere al gioco del tris?”. È ben noto che non ho speranze di vincere, se assumo (in accordo con le convenzioni della teoria dei giochi) che il mio avversario conosca il gioco alla perfezione. Detto in un altro modo, non c’è “soluzione tecnica” al problema. Posso vincere solo dando un significato radicale alla parola “vincere”. Posso colpire il mio avversario alla testa; oppure posso drogarlo; o posso falsificare lo schemino. Tutti modi in cui “vincere” implica, in qualche senso, un abbandono del gioco, così come lo comprendiamo intuitivamente (ovviamente, posso anche abbandonare esplicitamente il gioco – rifiutare di giocarlo. È quello che fanno la maggior parte degli adulti). La classe dei “problemi senza soluzione tecnica” ha dei membri. La mia tesi è che il “problema della popolazione”, come viene concepito solitamente, sia un membro di questa classe. Il modo in cui è concepito solitamente richiede qualche commento. È corretto dire che la maggior parte di coloro che si danno angosciosamente da fare attorno al problema della popolazione stanno cercando di 364 trovare un modo per evitare i mali della sovrappopolazione senza rinunciare ad alcuno dei privilegi di cui attualmente godono. Costoro pensano che coltivare i mari o sviluppare un nuovo tipo di frumento risolverà il problema – con la tecnologia. Proverò qui a mostrare che la soluzione che cercano non può essere trovata. Il problema della popolazione non può essere risolto con la tecnica, non più di quanto col ricorso alla tecnica si possa vincere al gioco del tris. Cosa dobbiamo massimizzare? La popolazione, come diceva Malthus, tende naturalmente a crescere “geometricamente”, o, come diremmo oggi, esponenzialmente. In un mondo finito questo significa che la quota pro capite di risorse deve continuamente diminuire. È il nostro un mondo finito? Può essere avanzato qualche buon argomento a difesa dell’idea che il mondo sia infinito; o che non sappiamo che non lo è. Tuttavia, nei termini dei problemi pratici che dovremo affrontare nel giro di qualche generazione col livello di tecnologia che possiamo prevedere, è chiaro che finiremo con l’incrementare di parecchio la miseria dell’umanità se non assumiamo che, nell’immediato futuro, il mondo disponibile alla popolazione umana terrestre sia finito. Lo Spazio non è una via di fuga (2). Un mondo finito può sostenere unicamente una popolazione finita; perciò, in conclusione la crescita della popolazione deve essere eguale a zero (il caso di ampie fluttuazioni perpetue sopra e sotto lo zero è una variante insignificante che non è necessario discutere). Nel caso in cui questa condizione sia soddisfatta, quale sarà la situazione dell’umanità? In particolare, potrà essere realizzato l’obiettivo benthamiano del “massimo benessere per il maggior numero di persone”? No – per due ragioni, ciascuna sufficiente per se stessa. La prima è di ordine teorico. Non è matematicamente possibile massimizzare due (o più) variabili allo stesso tempo. Ciò è stato chiaramente stabilito da von Neumann e Morgenstern (3), ma il principio è implicito nella teoria delle equazioni 365 differenziali parziali, risalente almeno a D’Alembert (17171783). La seconda ragione deriva direttamente dai dati biologici. Per vivere, ogni organismo ha bisogno di una fonte di energia (il cibo, per esempio). Questa energia è utilizzata per due scopi: il semplice sostentamento e il lavoro. Per l’essere umano, il sostentamento della vita richiede all’incirca 1600 kilocalorie al giorno (“calorie di sostentamento”). Qualsiasi cosa egli faccia al di sopra e al di là del semplice mantenersi in vita sarà definito come lavoro, supportato dalle “calorie di lavoro” che vengono impiegate in esso. Le calorie di lavoro sono utilizzate non solo per ciò che chiamiamo lavoro nel discorso comune; esse sono richieste per tutte le forme di divertimento, dal nuotare e dal partecipare a corse automobilistiche fino al suonare e al comporre poesie. Se il nostro obiettivo è massimizzare la popolazione quel che dobbiamo fare è ovvio: dobbiamo far sì che il ricorso alle calorie di lavoro pro capite sia il più vicino possibile allo zero. Niente pasti da buongustai, niente vacanze, niente sport, niente musica, niente letteratura, niente arte…Penso che chiunque riconoscerà, anche senza argomentazioni o prove, che massimizzare la popolazione non massimizza il benessere. L’obiettivo di Bentham è irrealizzabile. Nell’arrivare a questa conclusione sono partito dall’usuale presupposto che il problema risieda nel reperimento dell’energia. L’avvento dell’energia atomica ha portato qualcuno a mettere in questione tale presupposto. Comunque sia, anche ammessa una fonte infinita di energia, la crescita della popolazione presenta ancora un problema inaggirabile. Il problema del reperimento dell’energia è sostituito dal problema della sua dissipazione, come J. H. Fremlin (4) ha così argutamente mostrato. I segni aritmetici sono, per così dire, invertiti nell’analisi; ma l’obiettivo di Bentham resta irraggiungibile. Il livello ottimale di popolazione è, dunque, inferiore al suo livello massimo. La difficoltà di definire il livello ottimale è enorme; per quanto ne sappia, nessuno ha affrontato seriamente il problema. Raggiungere una soluzione 366 accettabile e solida richiederà sicuramente più di una generazione di duro lavoro analitico – e molta convinzione. Vogliamo il massimo bene per ciascuno; ma cos’è il bene? Per uno è una landa solitaria, per un altro sono impianti sciistici da migliaia di persone. Per uno sono gli estuari dei fiumi dove trovare anatre da cacciare, per un altro è un terreno edificabile. Di solito diciamo che è impossibile confrontare il bene di uno con quello di un altro poiché i beni sono incommensurabili. Ciò che è incommensurabile non può essere confrontato. Questo può essere vero in teoria; ma nella vita reale ciò che è incommensurabile è commensurabile. C’è solo bisogno di un criterio di giudizio e di un sistema di ponderazione. In natura il criterio è la sopravvivenza. È meglio per una specie essere piccola e mimetizzabile, o grande e potente? La selezione naturale commisura l’incommensurabile. Il compromesso raggiunto dipende da una ponderazione naturale del valore delle variabili. L’uomo deve imitare questo processo. Non c’è dubbio che di fatto egli già lo faccia, ma inconsciamente. È quando le decisioni latenti sono rese esplicite che comincia la discussione razionale. Il problema per gli anni a venire è quello di elaborare un’accettabile teoria della ponderazione. Effetti sinergici, variazioni non-lineari, e le difficoltà nel prevedere il futuro rendono il compito intellettuale difficile, ma non (in linea di principio) insolubile. Esiste un qualche gruppo culturale che ad oggi abbia risolto questo problema pratico, anche solo ad un livello intuitivo? Un semplice fatto dimostra che nessuno è riuscito nell’impresa: non c’è oggi al mondo una sola popolazione che sia insieme prospera e che abbia, e abbia avuto per qualche tempo, un tasso di crescita pari a zero. Un popolo che avesse identificato intuitivamente il suo punto ottimale l’avrebbe presto raggiunto, dopodiché il suo tasso di crescita sarebbe diventato e rimasto pari a zero. Certo, un tasso di crescita positivo potrebbe essere preso come prova del fatto che una popolazione è al di sotto del suo ottimo. Tuttavia, qualsiasi ragionevole standard si 367 voglia adoperare, è evidente come oggi le popolazioni della terra col più alto tasso di crescita siano (in generale) le più povere. Questa connessione (che non deve necessariamente essere invariabile) solleva dubbi sull’ipotesi ottimistica che il tasso di crescita positivo di una popolazione sia prova del fatto che deve ancora raggiungere il suo livello ottimale. Potremo fare pochi progressi nella ricerca della dimensione ottimale di una popolazione finché non avremo esplicitamente esorcizzato lo spirito di Adam Smith dal campo della demografia pratica. In ambito economico, La ricchezza delle Nazioni (1776) ha divulgato il principio della “mano invisibile”, l’idea cioè che un individuo che “abbia di mira solo il suo interesse”, è, per così dire, “portato da una mano invisibile a promuovere…l’interesse pubblico” (5). Adam Smith non affermò mai che questo fosse invariabilmente vero, e forse non lo fecero nemmeno i suoi discepoli. Ma egli contribuì a creare una tendenza dominante di pensiero che sin da allora ha interferito con l’azione positiva basata sull’analisi razionale, e cioè la tendenza ad assumere che le decisioni prese individualmente saranno, di fatto, quelle migliori per un’intera società. Se questo assunto è corretto, ciò giustifica la prosecuzione della nostra attuale politica di laissez-faire nel campo della riproduzione. Se è corretto possiamo assumere che gli uomini controlleranno la loro fecondità individuale in modo tale da raggiungere il livello ottimale di popolazione. Se l’assunto non è corretto, dobbiamo riesaminare le nostre libertà individuali per vedere quali di esse sono giustificabili. La tragedia della libera iniziativa nella gestione di un bene comune La confutazione del principio della mano invisibile nel controllo della popolazione va ricercata nello scenario tratteggiato per la prima volta in un pamphlet poco noto (6) del 1833 da un matematico dilettante di nome William Forster Lloyd (1794-1852). Possiamo a ragione chiamare tale scenario “la tragedia dei beni comuni”, utilizzando la parola “tragedia” nel senso in cui l’ha usata il filosofo Whitehead (7): “L’essenza della tragedia drammatica non è l’infelicità. Essa risiede nella solennità dello spietato 368 andamento delle cose”. E prosegue: “Questa ineluttabilità del destino può essere illustrata, in termini di vita umana, solo da avvenimenti che di fatto implicano infelicità. Poiché è solo per mezzo loro che la futilità della fuga può essere resa evidente nel dramma”. La tragedia dei beni comuni si svolge nel seguente modo. Immaginate un pascolo aperto a tutti. C’è da presumere che ciascun pastore cercherà di far stare quanto più bestiame possibile su questo bene comune. Una simile sistemazione può funzionare in modo ragionevolmente soddisfacente per secoli, perché guerre tra tribù, cacciatori di frodo e malattie mantengono il numero sia di uomini che di animali ben al di sotto della capacità di carico del terreno. Alla fine, tuttavia, arriva il giorno della resa dei conti, il giorno cioè in cui l’obiettivo della stabilità sociale, a lungo ricercato, diventa realtà. A questo punto, la logica intrinseca ai beni comuni sfocia spietatamente in tragedia. In quanto essere razionale, ciascun pastore cercherà di massimizzare il proprio profitto. Esplicitamente o implicitamente, più o meno inconsciamente, egli si domanda: “Che utilità mi viene dall’aggiungere un altro animale al mio gregge?”. Questa utilità ha una componente negativa e una positiva. 1) La componente positiva è funzione dell’incremento del gregge di un animale. Poiché il pastore tiene per sé tutto il ricavo della vendita dell’animale aggiuntivo, l’utilità positiva è all’incirca +1. 2) La componente negativa è funzione dell’eccessivo carico aggiuntivo che viene a gravare sul pascolo a causa dell’animale in più. Tuttavia, poiché gli effetti del carico aggiuntivo sono condivisi da tutti i pastori, l’utilità negativa per ogni singolo pastore che decida di aggiungere un capo di bestiame al suo gregge è solo una frazione di -1. Sommando le due componenti parziali, il pastore razionale concluderà che per lui l’unico comportamento sensato da seguire sarà quello di aggiungere un altro animale al suo gregge. E poi un altro; e un altro ancora…Ma alla medesima conclusione giungono ciascuno e tutti i pastori 369 razionali che condividono un bene comune. In ciò sta la tragedia. Ogni uomo è rinchiuso in un sistema che lo costringe ad aumentare senza limiti il proprio gregge – in un mondo che è limitato. La rovina è il destino verso cui si precipitano tutti gli uomini, ciascuno perseguendo il suo massimo interesse in una società che crede nel lasciare i beni comuni alla libera iniziativa. La libera iniziativa nella gestione di un bene comune porta rovina a tutti. Qualcuno dirà che questa è un’ovvietà. Magari lo fosse! In un certo senso, questa lezione fu appresa migliaia di anni fa, ma la selezione naturale favorisce le forze della rimozione psicologica (8). L’individuo trae benefici in quanto individuo dalla sua capacità di negare la verità anche se la società nella sua interezza, di cui egli fa parte, ne soffre. L’educazione può contrastare la tendenza naturale a fare la cosa sbagliata, ma l’inesorabile succedersi delle generazioni richiede che le basi di questa consapevolezza vengano costantemente rinfrescate. Un semplice caso accaduto qualche anno fa a Leominster, nel Massachusetts, dimostra quanto sia effimera questa consapevolezza. Durante la stagione dello shopping natalizio i parchimetri del centro furono coperti con buste di plastica che portavano la scritta: “Da non aprire fino a dopo Natale. Parcheggio gratuito omaggio del sindaco e del consiglio comunale”. In altre parole, a fronte di un aumento della domanda per uno spazio già scarso, gli amministratori della città reintrodussero il sistema dei beni comuni (cinicamente, noi sospettiamo che con questo provvedimento regressivo guadagnarono più voti di quanti non ne persero). In modo approssimativo, la logica dei beni comuni è stata compresa da lungo tempo, forse sin dalla scoperta dell’agricoltura o dall’invenzione della proprietà privata di beni immobili. Ma è stata compresa per lo più in casi particolari che non sono stati sufficientemente generalizzati. Persino in un’epoca tarda come la nostra, i proprietari di bestiame che prendono in affitto dallo Stato le terre per il pascolo nelle praterie occidentali dimostrano al più una comprensione ambigua, con il loro costante far pressione sulle autorità federali affinché incrementino il 370 numero massimo di capi che ognuno può far pascolare su quelle terre, fino a che l’overgrazing produce erosione e invasione di erbacce. Allo stesso modo, gli oceani del pianeta continuano a soffrire a causa della sopravvivenza della filosofia del comune. Le nazioni con sbocco sul mare rispondono ancora in automatico allo shibboleth della “libertà dei mari”. Dichiarando di credere alle “inesauribili risorse degli oceani”, esse conducono specie su specie di pesci e balene più vicino all’estinzione (9). I Parchi Nazionali offrono un altro esempio di come si consumi la tragedia dei beni comuni. Ad oggi, essi sono aperti a tutti, senza limiti. Per se stessi, i parchi sono limitati in estensione – c’è un’unica Yosemite Valley – mentre la popolazione sembra crescere senza limiti. Quelle qualità che i visitatori ricercano nei parchi vanno continuamente scomparendo. È evidente che dobbiamo smettere al più presto di trattare i parchi come beni comuni, o non saranno più di alcun valore per nessuno. Che dobbiamo fare? Abbiamo diverse opzioni. Possiamo venderli a privati. Possiamo farli rimanere di pubblica proprietà, ma assegnando solo ad alcuni il diritto a entrarvi. L’assegnazione può avvenire in base alla ricchezza, utilizzando un sistema d’aste. Può avvenire in base al merito, definito tramite qualche standard condiviso. Può avvenire ad estrazione. O può avvenire sulla base del principio “chi prima arriva, meglio alloggia”, applicato alla gestione delle lunghe code che si verrebbero a formare. Credo che queste siano tutte ipotesi ragionevoli. Sono anche tutte discutibili. Ma dobbiamo scegliere – o rassegnarci alla distruzione di quei beni comuni che chiamiamo Parchi Nazionali. Inquinamento A termini invertiti, la tragedia dei beni comuni riappare nei problemi legati all’inquinamento. Qui non si tratta di sottrarre qualcosa al bene comune, ma di introdurvi qualcosa – nelle acque, scarichi, rifiuti chimici e radioattivi, energia residuale; nell’aria, fumi pericolosi e nocivi, e insegne pubblicitarie sgradevoli e disturbanti nel nostro orizzonte visivo. Il calcolo delle utilità è molto simile al precedente. L’uomo razionale troverà che la sua parte di 371 costo per i rifiuti che scarica nei beni comuni è minore del costo di trattarli prima di rilasciarli nell’ambiente. Poiché questo è vero per ciascuno, siamo bloccati in un sistema che ci porta a “sputare nel piatto in cui mangiamo” 380, fino a quando ci comporteremo come agenti indipendenti, razionali e liberi. La tragedia dei beni comuni considerati come un cesto di cibo da cui ognuno può prendere a piacimento, è evitata grazie alla proprietà privata, o a qualcosa di formalmente simile. Ma l’aria e le acque intorno a noi non possono essere facilmente recintate, ed è per questo che la tragedia dei beni comuni trattati come un pozzo nero in cui gettare quel che si vuole deve essere prevenuta con mezzi differenti, tramite leggi coercitive o espedienti fiscali che rendano più economico per il potenziale inquinatore trattare i propri rifiuti inquinanti piuttosto che scaricarli nell’ambiente senza trattamento. Non siamo andati tanto avanti nella soluzione di quest’ultimo problema quanto abbiamo fatto col primo. In realtà, la nostra particolare concezione della proprietà privata, che ci trattiene dall’esaurire le risorse positive del pianeta, favorisce l’inquinamento. Il proprietario di una fabbrica costruita sulla riva di un fiume – i cui possedimenti si estendono anche al fiume – spesso ha difficoltà a capire come non sia suo diritto naturale quello di inquinare le acque che gli scorrono davanti. La legge, sempre in ritardo rispetto ai tempi, necessita di rattoppi e aggiustamenti accurati per essere adattata a questa nuova percezione degli aspetti relativi ai beni comuni. Il problema dell’inquinamento è una conseguenza dell’aumento della popolazione. Non aveva molta importanza come un solitario pioniere americano disponesse dei suoi rifiuti. “L’acqua corrente si purifica da sola ogni 10 miglia” diceva mio nonno, e il detto era abbastanza vicino al vero quand’era ragazzo, perché non c’era ancora un numero eccessivo di persone. Ma non appena la densità di popolazione cominciò ad aumentare, i processi naturali di riciclo chimico e biologico iniziarono a In inglese, to foul one’s own nest (letteralmente, “sporcare il proprio nido”) è espressione idiomatica per “farsi del male da soli”. Qui però è evidente il doppio senso, che si è cercato di rendere in traduzione. [N.d.T.] 380 372 sovraccaricarsi, invocando una ridefinizione dei diritti di proprietà. Come imporre per legge la moderazione? L’analisi del problema dell’inquinamento come funzione della densità di popolazione rivela un principio di moralità non universalmente riconosciuto, e cioè: la moralità di un’azione è funzione dello stato del sistema al momento in cui viene compiuta (10). Utilizzare i beni comuni come un pozzo nero in una situazione di frontiera non nuoce alla collettività, perché non c’è collettività; lo stesso comportamento è insostenibile in una metropoli. Un secolo e mezzo fa un abitante delle pianure poteva uccidere un bisonte americano, tagliargli soltanto la lingua per mangiarla, e scartare il resto dell’animale. In nessun senso rilevante si sarebbe potuto dire che ne stesse facendo uno spreco. Oggi, con solo poche migliaia di bisonti rimasti, saremmo sconcertati da un comportamento simile. Incidentalmente, vale la pena notare che non si può giudicare la moralità di un’azione da una fotografia. Non si può sapere se un uomo che uccide un elefante o dà fuoco a una prateria stia danneggiando gli altri finché non si conosce il contesto complessivo in cui la sua azione si inserisce. “Un’immagine vale mille parole”, recita un antico detto cinese; ma possono volerci 10.000 parole per contestualizzarla. Gli ecologisti, come in generale i riformatori, possono essere tentati dal cercare di persuadere gli altri attraverso la scorciatoia fotografica. Ma l’essenziale di un argomento non può essere fotografato: deve essere presentato razionalmente – a parole. Che la moralità sia influenzata dal contesto è sfuggito all’attenzione della maggior parte di coloro che in passato hanno codificato le regole dell’etica. “Tu non devi…” è la forma delle prescrizioni etiche tradizionali, che non fanno concessioni a seconda delle circostanze particolari. Le leggi della nostra società seguono il modello degli antichi schemi etici, e perciò sono scarsamente adeguate a governare un mondo complesso, affollato e mutevole. La nostra soluzione epiciclica consiste nell’integrare la legge dello Stato con quella amministrativa. Poiché è praticamente impossibile elencare per filo e per segno tutte le condizioni in cui non è 373 pericoloso bruciare immondizia nel cortile di casa o guidare un’automobile non catalizzata, deleghiamo per legge i dettagli alle agenzie amministrative. Il risultato è la legge amministrativa, che è giustamente temuta per un’antica ragione – Quis custodiet ipsos custodes? – “Chi controllerà i controllori?”. John Adams disse che dobbiamo avere “un governo di leggi, e non di uomini”. I funzionari degli uffici amministrativi, nel tentativo di valutare la moralità delle azioni nel loro contesto complessivo, sono particolarmente esposti a corruzione, dando vita a un governo di uomini, e non di leggi. È facile imporre per legge un divieto (anche se non lo è necessariamente farlo rispettare); ma come possiamo imporre per legge la moderazione? L’esperienza mostra che questo obiettivo può essere raggiunto più agevolmente attraverso la mediazione della legge amministrativa. Limitiamo inutilmente il campo delle nostre possibilità se supponiamo che il punto di vista del Quis custodiet ci impedisce di ricorrere alla legge amministrativa. Dovremmo piuttosto interpretare quella frase come perenne monito dei temibili rischi che non possiamo evitare di correre. La grande sfida che ci troviamo ad affrontare oggi sta nell’inventare i correttivi necessari per preservare l’onestà dei custodi. Dobbiamo trovare dei modi per legittimare la necessaria autorità sia dei custodi che delle misure correttive. La libertà di riprodursi è intollerabile Le questioni legate alla popolazioni implicano anche in un altro modo la tragedia dei beni comuni. In un mondo governato esclusivamente dal principio del “cane mangia cane” – se effettivamente è mai esistito un mondo del genere – il numero di figli che una famiglia decidesse di avere non sarebbe un problema di interesse pubblico. I genitori che si riproducessero con troppa esuberanza lascerebbero meno discendenti, non di più, perché non sarebbero in grado di provvedere adeguatamente ai loro bambini. David Lack e altri hanno scoperto che questo riscontro negativo tiene a freno in modo verificabile la fecondità degli uccelli (11). Ma gli uomini non sono uccelli, e per millenni almeno non si sono comportati come loro. 374 Se ciascuna famiglia umana dipendesse unicamente dalle proprie risorse; se i figli dei genitori imprevidenti morissero di fame; se, perciò, la stessa procreazione eccessiva comportasse una sorta di “punizione” per quella linea genealogica – allora non ci sarebbe alcun interesse pubblico nel controllare la riproduzione delle famiglie. Ma la nostra società è profondamente legata a sistemi di previdenza sociale (12), ed è quindi messa di fronte ad un altro aspetto della tragedia delle risorse comuni. In un sistema di assistenza sociale pubblica, come dobbiamo comportarci con la famiglia, la religione, la razza o la classe (o insomma con qualsiasi gruppo distinguibile e coeso) che adotti un’eccessiva procreazione come metodo per assicurarsi un peso sempre crescente (13)? Associare il concetto di libertà riproduttiva alla convinzione che ogni nato abbia eguale diritto ai beni comuni significa destinare il mondo a una tragica linea di azione. Sfortunatamente, le Nazioni Unite stanno perseguendo proprio questa linea d’azione. Verso la fine del 1967, una trentina di nazioni ha convenuto quanto segue (14): La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani descrive la famiglia come unità naturale e fondamentale della società. Ne segue che ogni scelta e decisione riguardo alle dimensioni della famiglia deve irrevocabilmente rimanere nell’ambito della famiglia stessa, e non può essere presa da nessun altro. È spiacevole dover negare categoricamente la validità di questo diritto; negandola, ci si sente a disagio come un abitante di Salem, nel Massachusetts, che nel XVII secolo negasse l’esistenza delle streghe 381 . Ai nostri giorni, nei quartieri liberali, è all’opera una specie di tabù che inibisce la critica nei confronti delle Nazioni Unite. C’è la sensazione che le Nazioni Unite siano “la nostra ultima e migliore speranza”, che non dovremmo scoprirvi alcun difetto; non dovremmo fare il gioco degli ultraconservatori. Tuttavia, non ci dimentichiamo cosa disse Robert Louis 381 Salem è una cittadina del Massachusetts tristemente nota per la cruenta caccia alle streghe scatenatasi sul finire del XVII secolo. [N.d.T.] 375 Stevenson: “La verità soppressa dagli amici è la prima arma dei nemici” 382. Se amiamo la verità dobbiamo negare apertamente la validità della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, anche se è stata promossa dalle Nazioni Unite. Dovremmo anche unirci a Kingsley Davis (15) nel tentativo di indurre i responsabili della Planned Parenthood-World Population a rendersi conto dell’errore che commettono nell’abbracciare il medesimo tragico ideale. La coscienza si auto-elimina È un errore pensare che si possa controllare la riproduzione umana nel lungo periodo appellandosi alla coscienza. Charles Galton Darwin espresse questa tesi parlando in occasione del centenario della pubblicazione del grande libro di suo nonno. L’argomento è semplice e darwiniano. Le persone non sono tutte uguali. Messe di fronte ad un appello a limitare le nascite, alcune senza dubbio risponderanno all’invito più di altre. Quelle che avranno più figli produrranno una quota maggiore della successiva generazione rispetto a quelle con una coscienza più sensibile. La differenza si accentuerà di generazione in generazione. Con le parole di C. G. Darwin: “Può anche darsi che ci vogliano centinaia di generazioni affinché l’istinto procreativo si sviluppi in questo modo, ma se accadesse, la natura si sarebbe presa la sua rivincita, la specie Homo contracipiens si estinguerebbe e quella Homo progenitivus prenderebbe il suo posto” (16). L’argomento presuppone che la coscienza o il desiderio di avere figli (non importa quale dei due) siano ereditari – ma ereditari solo nel senso formale più generale. Il risultato sarà lo stesso sia che il comportamento venga trasmesso geneticamente, sia che venga tramandato esosomaticamente, per usare un termine di A. J. Lotka (se si nega sia la prima che la seconda possibilità, allora a che 382 R.L. Stevenson, Father Damien: An Open Letter to the Reverend Doctor Hyde of Honolulu from Robert Louis Stevenson, Chatto & Windus, Londra 1890. [N.d.T.] 376 serve l’educazione?). L’argomento qui è stato formulato nel contesto del problema della popolazione, ma si applica egualmente bene ad ogni caso in cui la società faccia appello ad un individuo che sfrutti una risorsa comune, affinché si contenga per il bene di tutti – per mezzo della coscienza. Fare un appello del genere significa metter su un sistema selettivo che si muove verso l’eliminazione della coscienza dalla razza. Gli effetti patogeni della coscienza Il danno a lungo termine causato da un appello alla coscienza dovrebbe essere sufficiente a condannarlo; ma esso produce seri danni anche nel breve periodo. Se chiediamo ad un uomo che sta sfruttando un bene comune di fermarsi “in nome della coscienza”, cosa gli stiamo dicendo? Cosa gli arriva? – non solo sul momento, ma anche nelle ore piccole della notte quando, mezzo addormentato, ricorda non solamente le parole che abbiamo usato, ma anche i messaggi non verbali che gli abbiamo trasmesso senza rendercene conto? Presto o tardi, consciamente o inconsciamente, ha la sensazione di aver ricevuto due comunicazioni, e contraddittorie: (i) (messaggio intenzionale) “Se non fai quello che ti chiediamo, ti disprezzeremo pubblicamente perché non agisci da cittadino responsabile”. (ii) (messaggio non intenzionale) “Se ti comporti come ti chiediamo, ti disprezzeremo in segreto perché sei un sempliciotto che può essere intimidito tanto da essere indotto a farsi da parte mentre il resto di noi sfrutta i beni comuni”. L’uomo medio è preso allora in quel che Bateson ha chiamato un “doppio vincolo”. Bateson e i suoi collaboratori hanno fornito ragioni plausibili per considerare il doppio vincolo come un importante fattore causativo della schizofrenia (17). Il doppio vincolo può non essere sempre così dannoso, ma mette sempre a rischio la salute mentale di chiunque si trovi ad incapparvi. “Una cattiva coscienza”, diceva Nietzsche, “è una specie di malattia”. Suscitare negli altri uno scrupolo di coscienza costituisce una tentazione per chiunque desideri estendere il suo 377 controllo al di là dei limiti legali. I leader ai più alti livelli soccombono a questa tentazione. C’è stato un qualche Presidente nella scorsa generazione che abbia mancato di fare appello ai sindacati affinché moderassero volontariamente la loro richiesta di salari più elevati, o di far animo alle imprese affinché rispettassero le linee guida volontarie sui prezzi? Io non riesco a ricordarne nessuno. La retorica adoperata in tali occasioni è finalizzata a produrre sensi di colpa in coloro che non cooperano. Per secoli si è dato per assodato, senza alcuna prova, che la colpa fosse un ingrediente prezioso, forse anche indispensabile, della vita civile. Ora, nel mondo postfreudiano, ne dubitiamo. Paul Goodman parla da questo moderno punto di vista quando dice: “Nulla di buono è mai venuto dal sentirsi in colpa, né intelligenza, né accortezza, né compassione. Il colpevole non presta attenzione all’oggetto ma solo a se stesso, e neanche ai suoi propri interessi, il che potrebbe avere un senso, ma alle proprie angosce” (18). Non bisogna essere uno psichiatra di professione per capire quali siano le conseguenze dell’angoscia. Noi Occidentali stiamo uscendo appena da un terribile Medio Evo dell’Eros durato due secoli, che certo in parte è stato alimentato da leggi repressive, ma anche, e forse in modo più efficace, da meccanismi educativi tesi a ingenerare angoscia. Alex Comfort ha raccontato bene questa storia in The Anxiety Makers (19); e non è una storia piacevole. Poiché è difficile addurre prove in questo ambito, possiamo anche concedere che gli effetti dell’angoscia possano talvolta, da certi punti di vista, essere desiderabili. La domanda più ampia che dovremmo porre è se, in materia di politica, si debba mai incoraggiare l’uso di una tecnica la cui tendenza (se non intenzione) è psicologicamente patogena. Sentiamo molto parlare in questi giorni di genitorialità responsabile; questa coppia di parole appare nei nomi di alcune organizzazioni dedite al controllo delle nascite. Alcuni hanno proposto massicce campagne di propaganda per instillare il senso di responsabilità nei potenziali genitori di una nazione (o del mondo). Ma che 378 significa in questo contesto la parola “responsabilità”? Non è semplicemente un sinonimo della parola “coscienza”? Quando usiamo il termine “responsabilità” in assenza di sanzioni considerevoli, non stiamo forse cercando di costringere un uomo libero in relazione a un bene comune ad agire contro il suo stesso interesse? “Responsabilità” è una contraffazione verbale per un quid pro quo sostanziale. È un tentativo di ottenere qualcosa in cambio di niente. Se la parola “responsabilità” deve proprio essere usata, suggerisco che la si adoperi nel senso attribuitole da Charles Frankel (20). “La responsabilità”, dice questo filosofo, “è il frutto di accordi sociali definiti”. Si noti che Frankel fa appello ad accordi sociali – non alla propaganda. Coercizione reciproca reciprocamente concordata Gli accordi sociali che producono responsabilità sono accordi che creano un qualche tipo di coercizione. Pensate ad una rapina in banca. L’uomo che ruba i soldi da una banca agisce come se la banca fosse un bene comune. Come possiamo impedire un’azione simile? Di certo non cercando di controllare il suo comportamento solo attraverso un appello verbale al suo senso di responsabilità. Piuttosto che affidarci alla propaganda, seguiamo il suggerimento di Frankel e insistiamo che una banca non è un bene comune; andiamo in cerca di quegli accordi sociali definiti che la difendano dal diventare un bene comune. Che in tal modo si violi la libertà dei potenziali rapinatori, questo non lo neghiamo né ce ne rammarichiamo. La moralità relativa alle rapine in banca è particolarmente facile da maneggiare perché accettiamo la completa proibizione di questa attività. Siamo disposti a dire “Tu non devi rapinare le banche”, senza tener conto di alcuna eccezione. Ma anche la moderazione può essere creata tramite coercizione. La tassazione è un buon mezzo coercitivo. Per far sì che chi va in città a far compere si moderi nell’uso dei parcheggi, facciamo ricorso ai parchimetri per le soste brevi e alle multe per le soste più lunghe. Non abbiamo bisogno di vietare effettivamente a un cittadino di rimanere parcheggiato per tutto il tempo che vuole; dobbiamo solo rendergli progressivamente più 379 costoso il farlo. Ciò che gli offriamo non sono divieti, ma scelte saggiamente guidate. Un pubblicitario di Madison Avenue potrebbe chiamarla “persuasione”; io preferisco il maggior candore della parola “coercizione”. Oggi “coercizione” è una parola sporca per la maggior parte dei liberali, ma non è detto che debba esserlo per sempre. Come per altre parolacce, la sua sporcizia può essere ripulita tramite esposizione alla luce, cioè ripetendola più volte senza scuse né imbarazzi. Per molti, la parola “coercizione” implica decisioni arbitrarie di burocrati distanti e irresponsabili; ma questa non è una componente necessaria del suo significato. L’unica coercizione che raccomando è la coercizione reciproca, reciprocamente concordata dalla maggioranza di coloro che ne sono interessati. Dire che acconsentiamo reciprocamente alla coercizione non significa dire che ci debba piacere, o anche solo che fingiamo che ci piaccia. A chi piace pagare le tasse? Tutti brontoliamo a riguardo. Ma accettiamo la tassazione obbligatoria perché riconosciamo che una tassazione volontaria favorirebbe chi non ha coscienza civica. Istituiamo e (pur brontolando) sopportiamo le tasse e altri espedienti coercitivi per sfuggire all’orrore di un regime di risorse comuni. Un’alternativa alla prospettiva comunitaria non ha bisogno di essere perfetta per essere preferibile. Per quel che riguarda i beni immobili e altri tipi di beni materiali, l’alternativa che abbiamo scelto è l’istituzione della proprietà privata abbinata alla successione legale. È un sistema perfetto? Come biologo esperto di genetica mi sento di negarlo. A me sembra che, se ci devono essere differenze in ciò che individualmente ognuno eredita, il possesso legale dovrebbe essere strettamente correlato all’eredità biologica – coloro che sono biologicamente più adatti a custodire proprietà e potere dovrebbero legalmente ereditare di più. Ma la ricombinazione genica si fa continue beffe della dottrina del “tale padre, tale figlio” implicita nelle nostre leggi sulla successione legale. Un idiota può ereditare milioni, e un fondo fiduciario può mantenere la sua proprietà intatta. Dobbiamo ammettere che il nostro 380 sistema legale di proprietà privata più successione è imperfetto – ma lo sopportiamo perché non siamo convinti, al momento, che qualcuno abbia inventato un sistema migliore. L’alternativa di una gestione comune delle risorse è troppo orribile per essere contemplata. L’ingiustizia è preferibile alla totale rovina. Una delle particolarità del conflitto tra riforma e conservazione dello status quo consiste nel suo essere irriflessivamente governato da un doppio criterio di valutazione. Ogni volta che una misura riformista viene proposta, essa viene affossata non appena i suoi avversari, con tono trionfante, vi scoprono un difetto. Come ha fatto notare Kingsley Davis (21), i sostenitori dello status quo sottintendono a volte che nessuna riforma è possibile senza accordo unanime, un sottinteso contrario ai fatti storici. Per quel poco che riesco a vedere, il rifiuto automatico delle proposte di riforma si basa su uno di questi due assunti inconsci: (i) che lo status quo sia perfetto; oppure (ii) che la scelta che abbiamo davanti sia tra riforma e inazione; se la riforma proposta è imperfetta, presumibilmente non dovremmo intraprendere alcuna azione, in attesa di una proposta perfetta. Ma non possiamo starcene per sempre senza far nulla. Quel che abbiamo fatto per migliaia di anni è stato anche agire. Il che produce pure dei danni. Una volta che ci siamo resi conto che lo status quo è azione, possiamo a quel punto confrontare vantaggi e svantaggi che siamo in grado di scoprirvi con quelli previsti dalla riforma proposta, facendo il più possibile la tara sulla nostra mancanza di esperienza. Sulla base di tale confronto, possiamo prendere una decisione razionale che non contenga l’impraticabile assunto che solo i sistemi perfetti sono accettabili. Riconoscimento della necessità Forse il riassunto più semplice di questa analisi dei problemi della popolazione umana è il seguente: un regime di risorse comuni, se giustificabile, lo è solo in condizioni di bassa densità di popolazione. Non appena la popolazione umana è aumentata, un passo alla volta si è dovuta abbandonare la prassi della gestione comune delle risorse. 381 Dapprima l’abbiamo abbandonata per quanto riguarda la raccolta di cibo, recintando i terreni agricoli e limitando l’accesso ai pascoli e alle aree di caccia e pesca. Queste limitazioni non sono ancora presenti in tutto il mondo. Qualche tempo dopo ci siamo accorti che anche l’idea dei beni comuni come una discarica in cui smaltire i rifiuti avrebbe dovuto essere abbandonata. Vincoli allo smaltimento degli scarichi domestici sono largamente accettati nel mondo occidentale; stiamo ancora lottando per chiudere i beni comuni all’inquinamento di automobili, industrie, spray insetticidi, operazioni di fertilizzazione e centrali atomiche. La nostra consapevolezza dei mali provocati dalla gestione comune delle risorse in materia di piacere è ad uno stato ancor più embrionale. Non c’è quasi alcuna restrizione alla propagazione di onde sonore nei luoghi pubblici. Chi va a fare shopping è assalito da una musica alienante, senza il suo consenso. Il nostro governo sta spendendo miliardi di dollari per creare mezzi di trasporto supersonici che disturberanno 50.000 persone per ognuno di quelli che saranno sbattuti da una costa all’altra impiegando tre ore di viaggio in meno. Le pubblicità infangano le onde radio e la televisione, e inquinano il panorama ai viaggiatori. Siamo ben lontani dal mettere fuori legge l’idea del comune in materia di piacere. È forse perché la nostra eredità puritana ci fa considerare il piacere come una specie di peccato, e la sofferenza (cioè l’inquinamento pubblicitario) come il segno della virtù? Ogni nuova restrizione dei beni comuni comporta la violazione della libertà personale di qualcuno. Le violazioni compiute nel lontano passato sono accettate perché nessuno dei contemporanei lamenta una perdita. È contro la proposta di nuove violazioni che ci opponiamo con vigore; rivendicazioni di “diritti” e “libertà” riempiono l’aria. Ma che significa “libertà”? Quando gli uomini si accordarono reciprocamente per approvare delle leggi contro il furto, l’umanità divenne più libera, non meno. Gli individui chiusi nella logica dei beni comuni sono liberi solo di procurare la rovina universale; una volta compresa la necessità della coercizione reciproca, essi diventano 382 liberi di perseguire altri obiettivi. Credo sia stato Hegel a dire: “La libertà è il riconoscimento della necessità”. L’aspetto più importante della necessità che oggi dobbiamo riconoscere è l’esigenza di abbandonare l’idea del comune nel campo della riproduzione. Nessuna soluzione tecnica può salvarci dalla miseria della sovrappopolazione. La libertà di riprodursi porterà rovina a tutti. Al momento, per evitare decisioni difficili, molti di noi sono tentati di fare propaganda in nome della coscienza e della genitorialità responsabile. Si deve resistere alla tentazione, perché un appello a coscienze che agiscano senza restrizioni porta alla scomparsa di ogni coscienza nel lungo periodo, e ad uno stato accresciuto di angoscia nel breve periodo. L’unico modo in cui possiamo preservare e coltivare altre e più preziose forme di libertà è quello di rinunciare alla libertà riproduttiva, e alla svelta. “La libertà è il riconoscimento della necessità” – ed è compito dell’educazione rivelare a tutti la necessità di abbandonare la libertà di procreare. Solo così possiamo mettere fine a questo aspetto della tragedia dei beni comuni. Note 1. J.B. Wiesner e H.F. York, National Security and the Nuclear-Test Ban, Scientific American 211 (n.4), Ottobre 1964, pp. 27-35. 2. Cfr. G. Hardin, Interstellar Migration and the Population Problem, Journal of Heredity 50 (n.2), 1959, pp. 68-70; S. von Hoerner, The General Limits of Space Travel: We may never visit our neighbors in space, but we should start listening and talking to them, Science 137, Luglio 1962, pp. 18-23. 3. Cfr. J. von Neumann e O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1947, p. 11. 4. Cfr. J.H. Fremlin, How many people can the world support?, New Scientist 415, Ottobre 1964, pp. 285-287. 5. Cfr. A. Smith, The Wealth of Nations, Modern Library, New York 1937, p. 423 [tr. it. La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 2006]. 6. Cfr. W.F. Lloyd, Two Lectures on the Checks to Population, Oxford University Press, Oxford 1833, parzialmente ripubblicato in G. Hardin (a cura di), Population, Evolution, and Birth Control; a collage of controversial readings, Freeman, San Francisco 1964, p. 37. 383 7. A.N. Whitehead, Science and the Modern World, Mentor, New York 1948, p. 17 [tr. it. La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino 1979]. 8. Cfr. G. Hardin, Denial and the Gift of History, in G. Hardin (a cura di), Population, Evolution, and Birth Control, cit., p. 56. 9. Cfr. S. McVay, The last of the great whales, Scientific American 215 (n.2), Agosto 1966, pp. 13-21. 10. Cfr. J. Fletcher, Situation Ethics: The New Morality, Westminster John Knox Press, Philadelphia 1966 [tr. it. Etica della situazione. La nuova morale, Cuecm edizioni, Catania 2004]. 11. Cfr. D. Lack, The Natural Regulation of Animal Numbers, Clarendon Press, Oxford 1954. 12. Cfr. H. Girvetz, From wealth to welfare: the evolution of liberalism, Stanford University Press, Stanford (Calif.) 1950. 13. Cfr. G. Hardin, A second sermon on the mount, Perspectives in Biology and Medicine 6 (n.3), 1963, pp. 366-371. 14. U Thant, International Planned Parenthood News, n.168, Febbraio 1968, p. 3. 15. K. Davis, Population policy: will current programs succeed? Grounds for skepticism concerning the demographic effectiveness of family planning are considered, Science 158, Novembre 1967, pp. 730-739. 16. C.G. Darwin, Can man control his numbers?, in S. Tax (a cura di), Evolution after Darwin, vol.2, University of Chicago Press, Chicago 1960, p. 469. 17. Cfr. G. Bateson, D.D. Jackson, J. Haley e J.H. Weakland, Toward a theory of schizophrenia, Behavioral Science 1 (n.4), 1956, pp. 251-264 [tr. it., Verso una teoria della schizofrenia, in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1988, pp. 244-274]. 18. P. Goodman, Reflections on Racism, Spite, Guilt, and Violence, The New York Review of Books 10 (n.10), 23 Maggio 1968, p. 22. 19. Cfr. A. Comfort, The anxiety makers: some curious preoccupations of the medical profession, Nelson, Londra 1967. 20. C. Frankel, The Case for Modern Man, Harper, New York 1955, p. 203. 21. K. Davis, Sociological Aspect of Genetic Control, in J.D. Roslansky (a cura di), Genetics and the Future of Man; a Discussion, Appleton-Century-Crofts, New York 1966, p. 177. 384 2) H. Demsetz, Verso una teoria dei diritti di proprietà, in E. Colombato (a cura di), Tutti proprietari. La nuova scuola dei property rights, Le Monnier 1980, pagg. 61-81 […] L’EMERGERE DEI DIRITTI DI PROPRIETA’ 385 *In un ordinamento di common law, i tribunali sono tenuti a giudicare una lite in conformità alle precedenti sentenze (precedents) riguardanti i casi di natura uguale o affine. Il tessuto normativo di tale ordinamento è pertanto formato dalle regole sottostanti ai precedenti giurisprudenziali (N.d.C.). 386 * Il «territorio di caccia» dei Montagnes e il commercio delle pelli (N.d.C.). 3 E. Leacock, The Montagnes «Hunting Territory» and the Fur Trade, in «American Anthropologist», LVI, n.5, parte II. 4 Cfr. F. G. Speck, The Basis of American Indian Ownership of Land, in «Old Penn Weekly Review», 16 gennaio 1915m pp. 491-495. 387 affermata. Un indiano affamato poteva uccidere e mangiare il castoro di un altro, purchè lasciasse la pelle e la coda 5. 388 Il passo successivo verso i territori di caccia fu probabilmente un sistema di assegnazioni stagionali. Un resoconto anonimo scritto nel 1723 afferma che Il sistema degli indiani era di delimitare il territorio di caccia da loro scelto incidendo sugli alberi le proprie insegne in modo tale da evitare violazioni territoriali non intenzionali. Alla metà del secolo queste ripartizioni territoriali erano relativamente stabilizzate 6. 5 E. Leacock, op. cit., p. 15. 6 Ibidem. 389 383 7 La tesi non è in contrasto con lo sviluppo di altri tipi di diritti privati. Fra i popoli nomadi primitivi i costi di controllo della proprietà sono relativamente bassi per gli oggetti facilmente trasportabili. Una famiglia puà sorvegliare la sua proprietà durante lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Se tali oggetti sono anche molto utili, i diritti di proprietà appariranno con frequenza, in modo tale da internalizzare i costi e i benefici del loro uso. È generalmente 390 COMPROPRIETÀ E TITOLARITÀ DEI DIRITTI Ho affermato che i diritti di proprietà sorgono quando diventa economico, per chi subisce le esternalità, internalizzare i costi e i benefici. Ma non ho ancora esaminato le forze che regolano le partico ari forme di titolarità del diritto. In primo luogo devono essere distinte diverse forme di titolarità: titolarità collettiva, titolarità privata e titolarità pubblica. Per titolarità collettiva intendo un diritto che può essere esercitato da tutti i membri di una comunità. Il diritto di 1 cacciare su un determinato territorio e quello di lavorare la terra sono stati spesso posseduti collettivamente. Il diritto di camminare su un marciapiede urbano è anch'esso posseduto dalla comunità. Titolarità collettiva significa che la comunità nega allo Stato e ai singoli cittadini il diritto di interferire nell'esercizio dei diritti di cui i membri della collettività sono titolari. Titolarità privata significa quindi che la comunità riconosce al titolare il diritto di escludere altri dall'esercizio dei suoi diritti. Titolarità pubblica significa che lo Stato può escludere altri dall'esercizio dei suoi diritti. Titolarità pubblica significa inoltre che lo Stato può escludere chiunque dal godimento di un diritto nella misura in cui lo Stato discrimina secondo procedure politiche riconosciute. L'oggetto dell'analisi che segue è quello di individuare alcuni dei principi generali che regolano lo sviluppo dei diritti di proprietà in una comunità vero che fra le comunità più primitive gli utensili e le armi, come le terraglie, sono considerati di proprietà privata. Questi beni sono facilmente trasportabili e richiedono investimenti di tempo per essere prodotti. Per quanto riguarda i popoli dediti all’agricoltura, la loro sedentarietà diminuisce l’importanza della trasportabilità nell’ambito della determinazione dei diritti di proprietà. La distinzione appare con maggiore chiarezza se si confronta la proprietà della terra nelle società più primitive – dove la rotazione delle colture e le semplici tecniche di fertilizzazione sono sconosciute o dove le terre occupate sono poco fertili – con la proprietà terriera dei popoli primitivi più avanzati nell’ambito di questi problemi, oppure stabilitisi in territori estremamente più fertili. Dopo essersi inserite in un territorio, le società più primitive sono costrette ad abbandonarlo o a lasciarlo incolto, per un certo numero di anni, al fine di recuperarlo alla produttività. I diritti di proprietà terriera fra questi popoli richiederanno alti costi di controllo per gli anni durante i quali l’attività sarà interrotta. Poiché questi popoli dovranno spostarsi su nuove terre per poter ottenere sostentamento, per essi un diritto di proprietà avrà valore solo se associato ad un oggetto trasferibile: fra questi popoli infatti si osservano spesso diritti di proprietà su prodotti agricoli o facilmente trasportabili, ma non sulla terra. Le società primitive agricole più avanzate sono capaci di rimanere su un particolare territorio per periodi di tempo maggiori; qui generalmente esistono diritti di proprietà sulla terra, oltre che sul raccolto. 391 orientata verso la proprietà privata; pertanto trascureremo molti aspetti relativi alla proprietà pubblica. Inizieremo con un esempio particolarmente utile nell'ambito della proprietà terriera. Supponiamo che la terra sia posseduta collettivamente. Ogni persona ha il diritto di cacciare, lavorare o estrarre minerali. Secondo questa forma di titolarità l'individuo non è responsabile ei costi associati al suo utilizzo del diritto collettivo. Se una persona ambisce a massimizzare il valore dei propri diritti collettivi, essa tenderà a cacciare o a lavorare la terra in misura eccessiva, perché alcuni dei costi di tale comportamento ricadranno su altri. Ma in tal modo la selvaggina e la ricchezza del suolo diminuiranno troppo rapidamente. I titolari di questi diritti, cioè tutti i membri della comunità, giungeranno probabilmente a un accordo per abbassare l'intensità di sfruttamento delle terre se i costi di negoziazione e di controllo sono nulli: è possibile accordarsi al fine di limitare i diritti di ognuno. È ovvio, però, che i costi per raggiungere un tale accordo non saranno nulli; non è altrettanto ovvio, invece, l'ammontare di questi costi. I costi di negoziazione saranno ingenti poiché è difficile raggiungere un accordo soddisfacente, specialmente quando chi non partecipa alla negoziazione ritiene proprio diritto sfruttare la terra con l'intensità che desidera. Tuttavia, anche se un accordo può essere raggiunto, dobbiamo ancora tener conto dei costi necessari per controllare che l'accordo sia rispettato, e anche questi possono essere ingenti. Dopo che un tale accordo sarà raggiunto, nessuno possiederà il diritto di sfruttare la terra a piacere; tutti potranno trarne profitto, ma in misura minore. I costi di negoziazione aumentano poi ulteriormente se consideriamo che, secondo questo sistema, non possiamo valutare efficacemente anche tutti i benefici e i costi attesi dalle generazioni future. Un possessore di terra tenterà di massimizzare il valore attuale della stessa attraverso l'analisi dei flussi futuri alternativi di costi e benefici e sceglierà quello che egli crede massimizzi il valore attuale dei diritti terrieri di cui è titolare. Tenterà quindi di tener conto delle possibili condizioni di domanda e offerta esistenti dopo la sua morte. È molto difficile immaginare come sia possibile 392 raggiungere nell'ambito di una titolarità collettiva un accordo che tenga conto anche di questi costi. In effetti, il titolare di un diritto privato sulla terra si comporta come un mediatore, la cui ricchezza dipende dalla sua abilità nel tener conto delle esigenze presenti e future in contrasto fra loro. Nell’ambito dei diritti collettivi, invece, non c'è alcun mediatore e le esigenze della generazione attuale riceveranno un peso troppo elevato nelle decisioni sull'intensità con la quale la terra dev'essere sfruttata. Le generazioni future potrebbero essere disposte a pagare quelle attuali in misura sufficiente per diminuire lo sfruttamento attuale. Esse non hanno però alcun agente vivente per difendere le loro esigenze. In un sistema a titolarità collettiva un individuo che pagasse gli altri membri della collettività per limitare lo sfruttamento della terra non raggiungerebbe risultati paragonabili agli sforzi compiuti. Titolarità collettiva significa che le generazioni future devono farsi esse stesse portavoce dei propri diritti e dei propri interessi. Nessuno ha stimato i costi di tale necessità. L'esempio della proprietà terriera ci pone immediatamente a confronto con un grosso svantaggio della titolarità collettiva: le conseguenze dell'attività di una persona sui suoi vicini e sulle generazioni successive non saranno valutate debitamente. La titolarità collettiva si risolve quindi in notevoli esternalità. Chi usufruisce di diritti collettivi non sarà considerato responsabile di tutti i costi delle sue attività, né potrà accorgersene attraverso le somme che gli altri saranno disposti a corrispondergli. La titolarità collettiva esclude un sistema del tipo «paga-per l'uso-del-diritto», mentre gli alti costi di negoziazione e di controllo rendono inefficace un sistema del tipo «pagalo per-farlo-rinunciare-al-diritto». Lo Stato, i tribunali o i capi della comunità possono tentare di internalizzare i costi esterni causati dalla proprietà collettiva concedendo lotti di terreno a piccoli gruppi di persone con interessi simili. I soggetti sociali più vicini al concetto di interessi simili sono ovviamente la famiglia e l'individuo. Ora supponiamo di distribuire i diritti privati sulla terra casualmente e, in un secondo tempo, ipotizziamo che la quantità di terra associata a ogni diritto sia determinata anch'essa casualmente. 393 Lo schema di proprietà privata che ne risulta internalizzerà molti dei costi esterni associati con la proprietà collettiva poiché un proprietario, in virtù del proprio potere di escludere gli altri, potrà generalmente trarre vantaggio dai benefici associati alla protezione della selvaggina e all'incremento della fertilità della propria terra. Questa concentrazione di costi e benefici sul proprietario crea gli incentivi necessari ai fini di un utilizzo più razionale delle risorse. Dobbiamo tuttavia tenere ancora conto di esternalità. Nel sistema a proprietà collettiva, il processo di massimizzazione del valore dei diritti di proprietà avrà luogo indipendentemente da gran parte dei costi, perché il titolare di un diritto collettivo non può escludere gli altri dai frutti dei suoi sforzi e perché i costi di negoziazione sono troppo alti affinché tutti possano concordare un comportamento ottimale. Lo sviluppo della proprietà privata permette al proprietario di economizzare nell'uso delle risorse dalle quali ha il potere di escludere gli altri: è un sistema di internalizzazione molto efficace. Ma il titolare di diritti privati su un lotto non ha diritti su un altro lotto soggetto alla medesima normativa. Dal momento che non può escludere gli altri dal godimento dei loro diritti, egli non avrà alcun incentivo diretto (in assenza di negoziazione) a disciplinare l'uso della propria terra in modo da tener conto degli effetti prodotti sugli appezzamenti altrui. Se egli costruisce una diga nel proprio territorio, non c'è motivo che lo stimoli a tenere conto dell'abbassa mento del livello dell'acqua causato nel territorio dei vicini. Questo è esattamente lo stesso tipo di esternalità che abbiamo incontrato a proposito dei diritti collettivi di proprietà, a parte la gravità del danno causato, che in questo caso è inferiore. Mentre nel sistema a proprietà collettiva nessuno era incentivato alla conservazione delle risorse idriche, ora i proprietari privati possono facilmente valutare i costi e i benefici per la loro terra associati a una tale politica. Gli effetti sulla terra di altri, però non saranno presi direttamente in considerazione. La concentrazione parziale di costi e benefici connessa alla proprietà privata è solo una parte dei vantaggi offerti da questo sistema. Abbiamo trascurato l'altra parte, che è forse più importante: il costo di negoziare le esternalità 394 rimanenti sarà notevolmente ridotto. I diritti di proprietà collettiva rendono la terra disponibile a tutti. In questo sistema è quindi necessario che tutti raggiungano un accordo sull'uso della terra. Le esternalità presenti in un sistema di proprietà privata, invece, non producono effetti su tutti i proprietari e generalmente un accordo fra poche persone sarà sufficiente. Il costo di internalizzare questi effetti è perciò considerevolmente ridotto. È un punto che merita un ulteriore approfondimento. Supponiamo che il titolare di un diritto collettivo sulla terra, mentre ara un appezzamento di terreno, noti un altro titolare dello stesso diritto intento a costruire una diga nel lotto adiacente. Il coltivatore preferisce che il corso dell'acqua rimanga inalterato, perciò richiede all'altro di interrompere la costruzione. Il costruttore dirà: «pagami affinché mi fermi». Il coltivatore replicherà: «ti pagherei volentieri, ma quali garanzie mi offri?». Il costruttore risponderà: «posso garantirti che io non costruirò la diga, ma non posso offrirti garanzie per quanto riguarda gli altri costruttori poiché si tratta di proprietà collettiva; non ho alcun diritto di impedire agli altri di costruire». Quella che in un sistema di proprietà privata sarebbe una semplice contrattazione fra due persone diventa, perciò, una negoziazione piuttosto complessa fra l'agricoltore e tutti gli altri. Ritengo sia questo il motivo principale che ci dovrebbe indurre a preferire la proprietà del singolo alla proprietà della collettività: un incremento nel numero dei titolari del diritto è un incremento nel grado di collettività della proprietà e ciò, in genere, comporta un incremento nei costi di internalizzazione. La riduzione dei costi di negoziazione associata al diritto (privato) di escludere gli altri permette l'internalizzazione della maggior parte delle esternalità a costi piuttosto bassi. Quelle non internalizzate sono legate alle esternalità che coinvolgono molti individui. La fuliggine colpisce molti proprietari di abitazioni, nessuno dei quali è disposto a pagare sufficientemente i proprietari della fabbrica per indurii a ridurne l'emissione. L'insieme dei proprietari di abitazioni potrebbe anche essere disposto a pagare una somma sufficiente, ma i costi per coalizzarsi potrebbero essere troppo alti per incoraggiare una seria trattativa di mercato. Il problema della negoziazione è ancora più complesso se il fumo non proviene da un solo stabilimento, 395 ma da una intera area industriale: in tali casi l'internalizzazione degli effetti tramite meccanismi di mercato può essere troppo costosa. Nel nostro esempio sulla proprietà terriera, la superficie disponibile è distribuita a proprietari scelti casualmente in appezzamenti di dimensioni casuali. Questi proprietari contratteranno fra loro per internalizzare ogni esternalità residua. Essi avranno due possibilità di mercato: la prima è semplicemente quella di tentare di concludere accordi fra proprietari in modo da risolvere direttamente gli effetti esterni in questione; la seconda è, per alcuni proprietari, quella di comprare la terra degli altri, cambiando così le dimensioni dei singoli lotti: la scelta dipenderà dai costi delle due opzioni. Abbiamo qui un problema di dimensioni ottimali di produzione. Se i lotti di terra presentano rendimenti di scala costanti 384*, e se un solo contratto, che può essere fatto rispettare facilmente, è in grado di internalizzare le esternalità, allora una soluzione del problema basato su un accordo contrattuale sarà circa equivalente alla soluzione basata sull'acquisto diretto. Quest'ultimo sarà tuttavia preferibile quando il numero delle esternalità da risolvere è elevato o quando risulti difficile far rispettare gli accordi contrattuali. Maggiori saranno le diseconomie di scala, più frequente sarà il ricorso ad accordi contrattuali volti a compensare tali squilibri. I costi di negoziazione e di controllo saranno raffrontati ai costi che dipendono dalla dimensione della proprietà e i lotti tenderanno ad assumere le dimensioni che minimizzeranno la somma di questi costi 8. 385 […] La tendenza duale della proprietà, di rimanere individuale in forme e ammontare tali da minimizzare tutti i costi, è chiaramente presente nel paradigma della proprietà terriera. L’applicazione di questo paradigma è stata estesa *Si hanno «rendimenti di scala costanti» quando l 'aumento proporzionale dell'output è pari all'aumento proporzionale di tutti gli inputs necessari in quell'attività. (N.d.C.). 8 Si confronti questo con l'analoga spiegazione fornita da R. H. Coase, nell'ambito dell'impresa, in The Nature of the Firm, in «Eco nomica», nuova serie, 1937, pp. 386-405. 396 alla società per azioni; può però non essere ancora chiaro fino a che punto questo paradigma è valido. Consideriamo, ad esempio, il problema dei brevetti e dei diritti d’autore. Se tutti possono far liberamente uso di una nuova idea, se esistono cioè diritti collettivi sulle nuove idee, verranno allora a mancare gli incentivi per sviluppare tali idee. I benefici ottenibili da queste idee non saranno appannaggio di chi le ha originate. Se concediamo invece un qualche diritto di proprietà ai creatori di nuove idee, queste verranno alla luce a un ritmo più elevato. L’esistenza di diritti privati non significa però che i loro effetti sulla proprietà degli altri saranno valutati direttamente: una nuova idea ne rende obsolete alcune e ne valorizza altre; questi effetti non verranno direttamente presi in considerazione, ma possono essere portati all’attenzione del creatore di nuove idee attraverso negoziazioni di mercato. Tutti i problemi relativi a esternalità sono molto simili a quelli menzionati nell’esempio della proprietà terriera: le variabili fondamentali sono le stesse. Quanto ho suggerito in questo saggio non vuole essere solo un approccio ai problemi dei diritti di proprietà, ma anche un modo differente di analizzare i problemi tradizionali. Un’elaborazione di questo approccio potrà, spero, far luce su un gran numero di problemi socio-economici. 397 Linee di tendenza 3) A. Gambaro, Ontologia dei beni e jus excludendi, tratto dalla rivista giuridica http://www.comparazionedirittocivile.it 1. Nella dimensione internazionale del diritto è invalso l’uso di far confluire la molteplicità dei diritti sui beni immateriali entro la categoria unitaria della “proprietà intellettuale”, aderendo così alla concezione angloamericana per la quale la protezione del diritto d’autore non si distingue concettualmente da ogni altro diritto esclusivo in considerazione del fine comune che per tutti consiste nella protezione della creazione intellettuale come tale. Il superamento delle distinzione i vari diritti che sono chiamati a comporre l’intellectual property risulta consacrata dalla sistematica adottata dai più recenti accordi internazionali in materia, conclusi in seno alle Organizzazioni internazionali intergovernative che costituiscono i fori internazionali competenti nel settore: l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI/WIPO) e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC/WTO). L’espressione “proprietà intellettuale”, intesa come comprensiva anche dei diritti tradizionalmente definiti di proprietà industriale, è ad esempio codificata all’art. 1, par. 2 dell’Accordo TRIPS (Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio), concluso a Marrakesh il 15 aprile 1994 come parte integrante (Allegato 1 C) dell’Accordo che ha istituito la nuova Organizzazione mondiale del commercio 386 . Il medesimo senso e portata riveste l’espressione “proprietà intellettuale” utilizzata in tutti gli accordi internazionali gestiti dall’Organizzazione mondiale della proprietà In I.L.M., 1197. L’ordinamento italiano si è adattato all’accordo istitutivo, e conseguentemente alle norme del TRIPs, con l. 29 dicembre 1994, n. 747, in G. U., Suppl. Ord., n. 7 del 10 gennaio 1995. Sui successivi adeguamenti della legislazione interna italiana in materia di proprietà industriale e diritto d’autore e diritti connessi, si rinvia alle indicazioni fornite da UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su Proprietà intellettuale e concorrenza, 4a ed., Padova, 2007, p. 8. 386 398 intellettuale 387. La dottrina internazional privatistica 388 che è quella che rileva in materia, colloca la disciplina di questi diritti nonostante la particolare qualità dei beni protetti, a fianco di quella della proprietà e degli altri diritti reali sulle cose, quale “proprietà immateriale” 389 in ragione dell’assolutezza di tali diritti e del loro valore erga omnes, che li contraddistingue dai diritti d’obbligazione, privi di tale caratteristica. E’ però altrettanto rilevante osservare come l’orientamento che ha prevalso in sede internazionale contrasta con l’impostazione tradizionale seguita dalla prevalente dottrina civilistica italiana la quale non considerava che i diritti reali, ossia i property rights, potessero avere ad oggetto un bene immateriale 390 , o, per meglio dire, escludeva che la disciplina dei diritti reali trovasse applicazione in relazione ai diritti esclusivi garantiti dai classici diritti sulle opere dell’ingegno avevano natura di diritti di monopolio secondo le indicazioni risalenti al Kohler, ed erano quindi meglio disciplinati in seno al diritto della concorrenza e del mercato 391. In sé quindi quella tendenza che oggi è prevalente a livello internazionale, ma anche, come vedremo, almeno superficialmente, a livello comunitario, altro non è che un episodio di circolazione dei modelli giuridici. Si sa che l’analisi della circolazione dei modelli è a sua volta un capitolo della storia delle idee giuridiche colta sotto l’aspetto dinamico che coinvolge lo studio dei diversi formanti che concorrono a tale circolazione. 2. L’accostamento dei diritti di intellectual property alla categoria dei diritti reali, negata dalla civilistica italiana classica fa si che la categoria generale abbia ottriato quasi 387 Cfr. WIPO Intellectual Property Handbook: Policy, Law and Use, WIPO Publication No. 489 (E), consultabile alla pagina http://www.wipo.int/export/sites/www/aboutip/en/iprm/pdf/ch2.pdf. 388 Sul punto rinvio a N. BOSCHIERO, Beni immateriali (diritto internazionale), in Enc. dir. Annali, vol. II. 389 È questa l’espressione utilizzata da BALLADORE PALLIERI, Diritto internazionale privato italiano, Milano, 1974, p. 254. 390 Cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, 9 a ed., rist. Napoli, 2002, p. 80. 391 Cfr. R. FRANCESCHELLI, Diritto industriale, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Milano, 1982, p. 184, in riferimento precipuo all’insegnamento di Ascarelli. 399 insensibilmente alla disciplina dei diritti sui beni immateriali il carattere dell’esclusività, il quale diviene pertanto il tratto essenziale della disciplina relativa 392. In effetti il jus excludendi è stato a lungo quasi unanimemente considerato l’elemento tipico indefettibile che connota l’assetto della proprietà privata ponendolo accanto al non incompatibile aspetto del godimento diretto del bene, senza il quale non sarebbe corretto parlare di diritto di proprietà. Nel caso della IP, tuttavia la evidente labilità dell’aspetto relativo al godimento diretto fa sì che l’esclusività assurga a tratto unico identificativo della posizione proprietaria, tenuto conto della priorità logica del jus excludendi rispetto alla possibilità di selezionare coloro che possono acquistare un diritto di accesso alla risorsa detenuta in esclusiva. Nelle esperienze giuridiche di common law, che hanno assunto, in materia, il ruolo pilota cui si faceva cenno, è impossibile non collegare la proprietà con il jus excludendi in memoria della celeberrima frase di Blackstone posta nella prefazione del secondo libro dei suoi Commentaries on the laws of England, ove si presentano ai lettori gli jura rerum e si ricorda che essi sono: “what the writers on natural law stile as the right of dominion or property” ed aggiunge che “there is nothing which so generally strikes the imagination, and engages the affections of mankind, as the right of property; or that sole and despotic dominion which one man claims and exercises over the external things of world in total exclusion of the right of any other individual in the universe.”. Benché probabilmente si tratti di una delle frasi più fraintese dell’intera storia del diritto, tuttavia la sua celebrità ne assicura la trasposizione a livello di mentalità giuridica. Una delle definizioni di property più popolari tra quelle che si possono incontrare nella letteratura americana dice: “ that is property to which the following label can be attached: to the world keep off unless you have my permission, signed: the private citizen, endorsed: E’ infatti asserzione comunissima quella second cui: Generally speaking, a IP gives its owner the right to exclude others from making using selling, offering to sell, or importing the invention during the term of the patent. 392 400 the State” 393. Tuttavia una trasposizione di concetti giuridici affidata alla libera associazione di idee non sembra testimoniare una sufficiente tematizzazione del problema con particolare riferimento al fatto che gli oggetti della IP sono ontologicamente diversi rispetto ai beni corporali cui si è fatto tradizionalmente riferimento nei discorsi riferiti alla property. Non è infatti sicuro che sia indifferente che un ordinamento regoli la distribuzione delle utilità che fluiscono naturalmente dalle cose o regoli la creazione delle cose in sé, perché nel primo caso coesistono necessariamente situazioni di appartenenza di fatto e situazioni di appartenenza di diritto, mentre nel secondo le situazioni di fatto hanno una diversa rilevanze ed una diversa struttura; nel primo caso la durata dell’utilità in sé è impregiudicata dal diritto, mentre nel secondo è determinata da esso. Non sarebbe convincente l’osservazione che tale trasposizione è innocua perché la parola property ha perso un significato preciso e quindi si tratta di volta in volta di verificare quale fascio di diritti, facoltà, privilegi ed immunità è assegnato dall’ordinamento. Perché quella dello scientific policy maker 394 , non è la mentalità dominante a livello globale e rappresenta anzi, un formante tra i più minuscoli; e perché, inoltre, in riferimento alla garanzia costituzionale della proprietà, la parabola discendente della cosiddetta new property indica bene in riferimento alla esperienza americana, come non sia possibile garantire la stabilità dei diritti all’infuori degli jura in rem; mentre per quanto concerne l’Europa, basti ricordare che la carta dei diritti fondamentali dell’U.E. prevede all’art. 17 sotto la rubrica Right to property, che: 1. Everyone has the right to own, use, dispose of and bequeath his or her lawfully acquired possessions. No one may be deprived of his or her possessions, except in the public interest and in the cases and under the conditions provided for by law, subject to fair compensation being Cfr. F. COHEN, Dialogue on Private Property, in 9 Rutgers L. Rev., 357, 374 ( 1954). 394 Il riferimento è a B. AKERMANN, Private Property and the Constitution, Yale, 1977, ove appunto si contrappone la visione dematerializzata dello scientific policy maker a quella fiscalista dell’ordinary observer. 393 401 paid in good time for their loss. The use of property may be regulated by law insofar as is necessary for the general interest. 2. Intellectual property shall be protected.” Ove le differenze anche stilistiche e lessicali tra il primo ed il secondo comma impongono una evidente diversità di prospettiva. Del resto confondere proprietà con titolarità non è mai stato un buon criterio per condurre analisi intellettualmente sofisticate ed in quanto alla prassi di chiamare proprietà la titolarità di dirtti specifici che, in quanto tali, hanno nomi propri, è da rilevare come si tratti di una ridondanza facilmente eliminabile con il rasoio di Okkam. La non sufficiente chiarificazione teorica si nota osservando come in letteratura pur non difettando argomentazioni impostate sulla base della logica economica, le quali si fondano sulla necessità di protezione degli investimenti, la trattazione del problema della IP appare confinata in due approcci dominanti. Il primo certamente il più corposo adotta lo standard del diritto positivo e quindi si limita alla presa d’atto delle normative vigenti e delle decisioni giurisprudenziali più significative Ovviamente in tal modo si compongono scritti assai utili, ma sarebbe esagerato dire che essi offrono un contributo teorico adeguato, tanto più che molto spesso difetta la consapevolezza della circolazione di modelli sottostante alle discipline commentate, di cui viene trascurata l’origine di common law. In realtà seguendo questo approccio si termina presto nel golfo in cui la tutela dell’IP è posta a confronto con le regole anti trust e ci si imbatte in sottili bilanciamenti di interessi patrocinati dalla giurisprudenza comunitaria 395 ove però è evidente che il tasso di discrezionalità del decisore è elevato e che per In tema sono di grande interesse i cosiddetti MaGill cases (Judgment of the Court of 6 April 1995: Radio Telefis Eireann (RTE) and Independent Television Publications Ltd (ITP) v Commission of the European Communities. (Joined cases C-241/91 P and C-242/91 P.) European Court reports 1995 Page I-0074; anche se la decisione più rilevante è: Court of Justice of 29 April 2004: IMS Health GmbH & Co. OHG vs. NDC Health GmbH & Co. KG$ C-418/01 - European Court reports 2004 Page I-05039; cui fa seguito la celebrata decisione del Tribunale di primo grado in Case T-201/04, Microsoft Corp. Vs. Commission of the European Communities. Sul punto cfr. infra sub § 12. 395 402 conseguenza diviene ancora più evidente il bisogno di un adeguato apporto teorico. Il secondo approccio utilizza un vago storicismo per richiamare una disciplina il più possibile coerente con le grandi idee forza della tradizione giuridica occidentale. E da qui nasce l’inquadramento dei diritti sui beni immateriali tra i property rights. A dire il vero in questo secondo caso rimane problematica proprio la ragione di una trasposizione nel mondo dell’immateriale di una sistematica giuridica formatasi nell’ambito delle cose materiali e ciò suggerisce che l’oscurità del passaggio dipenda da una insufficiente tematizzazione del problema dell’appartenenza. Per offrire un primo tentativo di tematizzazione seguirò anch’io due linee di approccio al tema. La prima tende a porre in luce i diversi sostrati di civilizzazione materiale in cui il problema dell’appropriazione e dell’esclusione si è posto. La seconda tende a porre in luce gli aspetti specifici della costruzione giuridica dell’istituto proprietario, tenendo presente al riguardo come tali costruzioni formali, non solo variano da una tradizione giuridica all’altra, ma sono anche frammentate al loro interno a cagione della ibridazione che è intervenuta tra la componente tecnico giuridica e le sub tradizioni di filosofia morale, come è indicato assai bene dal lessico delle carte costituzionali. 396 3. Il problema dell’appartenenza risale in nuce a situazioni esistenti prima della comparsa dell’uomo, tuttavia proprio perché esiste da sempre esso è stato risolto da tempo assegnando il titolo necessario al primo occupante un certo territorio, o a colui, o coloro, che lo occupavano scacciando definitivamente i precedenti abitanti. Risolto questo problema, in una economia di caccia e raccolta residuano questioni che in riferimento all’appartenenza sono marginali. Infatti la divisione della preda, o del frutto è una questione che attiene alla organizzazione interna del gruppo 397 il quale funge da soggetto giuridico che attua l’appropriazione legittima. Qualche anno fa Herold 396 Sul punto rinvio a CANDIAN, GAMBARO, POZZO, Property, propriété, eigentum, Padova 1992, passim. 397 Cfr. R. SACCO, Antropologia giuridica, Bologna, 2007, p. 263 403 Demsetz 398 in un saggio molto influente, prendendo spunto dalle consuetudini dei native americani nel Labrador e nel Montana ha rintracciato le origini della proprietà nella forma della riserva di caccia. Bisogna allora aggiungere non solo che la caccia in riserva da origine a forme di appartenenza in cui l’esclusività è relativa solo ad alcune selezionate utilità, ma è necessariamente attività di gruppo e non di individui isolati e da ciò la relativa inimportanza dei problemi proprietari rispetto a quelli di partecipazione al gruppo. Come ci informano gli studiosi di antropologia che hanno analizzato il diritto consuetudinario africano, per gli individui ciò che è vitalmente rilevante diviene: la posizione all’interno del gruppo che controlla il diritto di accedere alla riserva; il diritto di appropriarsi di certe utilità; la partecipazione alle decisioni relative alle regole d’uso delle risorse del territorio; il diritto di trasmettere le proprie prerogative. 399 Se usiamo con un minimo di consapevolezza le categorie giuridiche dobbiamo dire che per molti millenni i problemi seri dell’umanità non sono stati problemi di tipo proprietario, ma problemi attinenti alla organizzazione del gruppo. Oggi si direbbe problemi di governance. Tuttavia prendere sul serio le categorie giuridiche non è atteggiamento comune. Nel corso del XX secolo il problema del confronto tra economie socialiste ed economie capitalistiche è stato discusso come un problema proprietario, anzi, come il massimo problema proprietario, anche se i mezzi di produzione erano in entrambi i casi affidati ad enti collettivi e quindi il confronto sensato avrebbe dovuto riguardare le strutture di governance degli enti proprietari e non la proprietà. Codesto aspetto è destinato a perdurare. Per ogni dove la proprietà, più che individuale sarà della famiglia, del clan, del gruppo organizzato. La proprietà individuale troverà piuttosto largo spazio nelle astrazioni, nei paradigmi mediante i quali si cercherà di dar conto della multiforme realtà delle appartenenze, divenendo qualcosa si concreto solo in tempi a noi molto più vicini; ma nel frattempo saranno passati millenni di economia agricola. 398 See H. DEMSETZ , 1967, Toward a Theory of Property Rights, in American Economic Review, pp. 347-359 399 Etienne LE ROY, 2007 L’apport des chercheurs du LAJP à la gestion patrimoniale in http://www.acaj.org/leroy/texte1.htm 404 Il contesto della civiltà materiale muta infatti radicalmente nelle società agricole, intendendo per tali le società che praticano la coltivazione di piante come il frumento in medio oriente, il riso nell’Asia centrale, il mais in America centrale 400. non solo perché l’appartenenza si manifesta in forma di proprietà tendenzialmente esclusiva e non di riserva di alcune utilità selezionate, ma perché è la stessa sopravvivenza della struttura sociale che dipende dal riconoscimento della situazione di appartenenza. Il ciclo agrario infatti impone che colui che ha predisposto il fondo, provveduto alla semina ed alla irrigazione, etc. sia il medesimo soggetto che si appropria del raccolto, mentre durante tale ciclo tutti gli altri debbono essere esclusi, nel senso tipicamente fisico che ad essi è vietato attraversare i confini del fondo salvo ben calibrate eccezioni 401 . Ciò equivale a dire che la scelta a favore dell’ attività agricola è eguale alla scelta a favore di forme di appartenenza tendenzialmente esclusive sui fondi agricoli; ma è proprio l’inevitabilità di tale soluzione che da adito al problema di decidere se il raccolto spetti a colui che ha materialmente coltivato il fondo, o a colui che ha un titolo giuridico su di esso. La seconda soluzione tuttavia si imponeva a causa del bagaglio culturale con cui nel medio oriente si era pervenuti, verso l’8.500 a.c. alla fondazione di società agricole. Quelle popolazioni infatti conoscevano già da tempo tecniche di sacralizzazione del territorio 402 derivate molto probabilmente da evoluzioni della procedura sciamanica del tabù 403. Un tabù che era pericoloso violare come insegna l’episodio di Remo. L’esclusione per virtù di 400 Nella cultura natufiana (14.000- 111.00a.c.) era praticato lo sfruttamento di piante selvatiche come fonte di nutrimento; il passaggio ad una economia interamente agricola naturalmente non fu rapido, ma si verificò in modo graduale nel corso di millenni. Cfr. CAVALLI-SFORZA, MENOZZI, PIAZZA, Storia e geografia dei geni umani, Milano, 1997, p. 403. 401 Ragion per cui le società agricole non possono convivere con società che praticano l’economia di caccia e raccolta, cfr. Cavalli Sforza et alt. ; J. DIAMOND, Armi acciaio e malattie, trad.it. Torino, 1998, p.84 (orig. Guns.Germs, and Steel. The fates of Human Societies, N.York, 1997). 402 Cfr. BOTTÉRO et. S. Noah Kramer, Lorsque les dieux faisaint l’homme. Mithologie mèsopotamienne, Paris, 1989, p. 80, ove si chiarisce la funzione esplicativa e non religiosa della mitologia. 403 Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, trad.it. Milano, 2003, originale: Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions, Harvard Univ. press, 1996, p. 93 405 magia, non poteva condurre ad altro che alla assegnazione del diritto di escludere per via di cerimonia rituale di assegnazione del titolo. Ma a quel punto diveniva quanto meno ambiguo se si possedesse il titolo o la terra, ed era solo il carattere eminentemente rivale dell’uso agricolo del suolo a garantire che il jus excludendi era comunque associato alla appartenenza. 4. L’Europa, terra d’origine della tradizione giuridica occidentale, è stata da Carlo Magno sino al XIX-XX secolo un immenso paese agricolo ad agricoltura intensiva. La terra, bene immobile per eccellenza è stata per secoli il bene economicamente e socialmente più importante. I beni mobili erano considerati secondari. Conviene quindi osservare come il legame tra la terra e le utilità che essa produce è pur sempre un legame identificativo di un diritto nello spazio geografico. Nell’Europa della civiltà medioevale il guado, la parrocchia, il feudo munito di privilegio di bassa giustizia, sono sempre identificati attraverso un toponimo. Però questa ottica poteva avere due svolgimenti diversi a seconda che si considerasse la terra come un fondo potenzialmente fruttifero oppure la si considerasse come un territorio le cui utilità erano mediate dalle attività umane dei suoi abitanti. L’ordine feudale era tutto orientato in questo secondo senso ed invitava a pensare che la parte più significativa della signoria era costituita del diritto di esigere pedaggi, di amministrare la giustizia, di imporre il rispetto di monopoli. Ora, questi diritti riferiti al territorio erano tutti beni immateriali sicché si coglie la ragione per cui quando nei sistemi di common law la signoria divenne proprietà, quest’ultima fu concepita come un fascio di diritti, poteri, facoltà, privilegi. Poiché però era la proprietà immobiliare la parte più rilevante dell’assetto proprietario anche le proprietà mobiliari si potevano orientare il senso immateriale. La proprietà degli uffici ne è stato un esempio, ma in tempi più moderni nei sistemi di common law anche il diritto di autore ed i diritti di monopolio concessi al titolare di un brevetto di invenzione industriale, così come l’avviamento commerciale (goodwill) vennero arruolati tra gli oggetti di proprietà. 406 In direzione opposta si poteva muovere dall’idea per cui la tutela erga omnes garantita dalla proprietà si collega e discende a quell’altra per cui il dominium non può che essere approccio e confronto tra l’uomo ed il cosmo 404 e quindi l’aspetto caratterizzante della categoria si rinviene in un diritto di utilizzare e disporre direttamente di una res corporalis, senza badare troppo alla struttura di governo del territorio. In questa seconda direzione la fisicalità della terra e dei suoi frutti naturali veniva posta al centro della scena. Non però senza dare origine ad un sistema molto complesso, perché in non poche circostanze le forme di godimento della terra erano più d’una e spettanti a soggetti diversi sicché si ammetteva la pluralità dei domina i quali erano spesso dominia juris aventi quindi per oggetto una entità incorporale, collegata solo spazialmente al fondo e proprio tale collegamento dotava i dominia del carattere di jus in rem, redendoli quindi assolutamente non confondibili con gli jura in personam. Nel jus comune europeum queste idee convivono contribuendo ad una visione realistica per cui i godimenti prolungati e stabili delle utilità di un fondo si debbono considerare pars dominii, con ciò rendendo assai ampia la categoria dei dominia che assieme alle servitutes diverranno i diritti reali 405. In definitiva, si deve riconoscere che nell’Europa agricola, l’atteggiamento dell’uomo rispetto alle cose poteva essere pensato talvolta in funzione delle utilità collegate ai diritti di utilizzazione della terra, diritti che sono ontologicamente beni immateriali e talaltra in funzione del fondo stesso che nella dimensione proprietaria è la quintessenza delle res corporales. E codesta ambivalenza poteva essere sciolta solo dalla riflessione giuridica, non essendo nessuna altra branca del sapere umano interessata ad essa. 5. Le società espansive debbono però affrontare l’ulteriore problema delle terre vacanti, ossia quelle sottratte con la forza ad altre popolazioni. Sia la società greca che quella Cfr. P. GROSSI, Domina e Servitutes – Invenzioni sistematiche del diritto comune in tema di servitù, in 18 Quad. Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1989, p. 364 405 Cfr. P. GROSSI, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medioevale – Corso di Storia del diritto, Padova, 1968. 404 407 romana che quelle europee a partire dall’epoca delle “grandi scoperte geografiche” hanno dovuto affrontare il problema della attribuzione delle terre vacanti ed il modo con cui lo hanno razionalizzato concettualmente, ossia giuridicamente, ha avuto non nascosti riflessi sulla razionalizzazione del problema relativo alla distribuzione dei frutti delle proprietà rimaste in patria. Giova anche ricordare come quelle società, poiché avevano alle spalle secoli o millenni di esperienza agricola, concepirono il problema della legittimazione ad appropriarsi delle terre vacanti utilizzando un assunto inespresso, ma decisivo, per cui chi può legittimamente dire “questa terra è mia” implica che quella porzione dello spazio terrestre non solo è interamente sua e di nessun altro, ma che è sua per sempre nel senso che dopo di lui sarà dei suoi figli e dei figli dei suoi figli, i quali eventualmente potranno cederla ad altri volontariamente, o concederla in uso ad altri in cambio di un canone, senza per ciò scalfire la legittimità della proprietà primigenia perché il concetto di proprietà essendosi ibridato con le idee di terra e di famiglia ne ha acquisito il gene della eternità. Infine, si deve premettere che la penultima fase dell’espansione delle popolazioni europee, durante i secoli XVII-XVIII, abbia coinciso con l’apogeo della scuola del diritto naturale e perciò la discussione circa la legittimazione ad appropriarsi delle terre vacanti si svolse secondo i canoni della argomentazione di filosofia morale. Al contrario l’ultima fase del colonialismo europeo, nel secolo XIX, coincide con l’affermazione del positivismo giuridico, grazie al quale ci si poteva limitare a dire: “questa terra è mia perché su di essa ho un titolo riconosciuto dallo Stato”, mettendo così alla porta i filosofi e chiamando gli avvocati per risolvere gli eventuali conflitti di vicinato. Le colonie inglesi che diedero vita agli Stati Uniti si formarono nella penultima fase dell’espansionismo europeo ed hanno perciò incorporato nella loro mentalità giuridica i canoni generali della discussione giusnaturalistica adottando con entusiasmo la soluzione di John Locke che svolse, sempre telegraficamente, il seguente itinerario argomentativo: a) ogni individuo è reso da Dio padrone del proprio corpo e delle proprie energie; b) parimenti ogni 408 individuo è padrone e signore (ergo: proprietario) dei frutti del suo lavoro; c) perciò il colono si appropria legittimamente dei frutti che ha coltivato; d) quanto alla terra in sé poiché essa è stata data da Dio agli uomini perché la coltivino (e perciò non ai nativi che vivono di caccia e raccolta) il colono europeo se ne appropria legittimamente purché ne rimanga altrettanta per gli altri (coloni europei) che sopravvengano. Nelle colonie poste sulla costa atlantica degli attuali Stati Uniti quest’ultima condizione sembrava facilmente soddisfatta (sempre fatta una solenne astrazione per i diritti dei nativi) e perciò non sorprende che questa razionalizzazione del problema della legittimità morale del diritto di proprietà sia divenuta il credo americano, ciò anche perché il suo corollario immediato per cui se ogni individuo ha un diritto naturale alla proprietà esclusiva dei frutti del suo lavoro, solo esso stesso può disporne con atto della sua volontà, è alla base del celebre slogan: no taxation without representation da cui prese le mosse la rivoluzione americana ed in definitiva la fondazione degli Stati Uniti d’America. 6. Richiamato ciò, diviene più semplice comprendere le ragioni per cui quando, nelle seconda metà del XX secolo, si sono aperti gli enormi spazi della cibernetica la discussione sulla appropriabilità del bene essenziale per il controllore tali spazi, ossia il software, si sia stata impostata negli Stati Uniti secondo il paradigma lockhiano. Il punto di riferimento è stato quindi di nuovo un punto di riferimento culturale, anche se, ovviamente, all’interno di una cultura ormai evoluta, esso è stato costituito da costruzioni di filosofia morale. In ogni caso, basterà qui ricordare come coloro che sostengono l’appropriabilità del software fondano la propria argomentazione sul fatto che i programmi per elaboratori sono il frutto di investimenti dedicati alla ricerca e sviluppo dei medesimi e quindi quando un programma utile viene confezionato esso è esattamente come il frutto del lavoro del colono e quindi naturalmente suo ed a titolo di proprietà. Il legislatore americano si è fatto convincere da questo argomento ed è stato generoso nel riconoscere tutela proprietaria all’ideatore di un novo programma e si è fatto promotore, con successo, della loro più intensa tutela 409 sul piano internazionale. Attualmente in base ai ricordati accordi TRIPS la tutela del software è necessaria per i singoli Stati essendo uno dei prerequisiti necessarî per partecipare al WTO ed in definitiva per avere voce in capitolo nella regolazione degli scambi transnazionali. Coloro che sostengono che il regime ottimale sia quello della non appropriabilità individuale, dando vita al movimento cosiddetto open sources, fanno valere il fatto che ogni un software incorpora una grande porzione di lavoro comune, nel senso che rappresenta uno sviluppo di programmi già esistenti frutto di libera ricerca. Si usa cioè l’argomento lockiano inverso per sostenere che quanto è frutto del lavoro di tutti deve rimanere di tutti, come avviene normalmente per le nuove scoperte che sono frutto della libera ricerca scientifica condotta in università ed accademie. In generale occorre sottolineare come i nuovi beni virtuali sono ad uso tendenzialmente non rivale nel senso che la loro fruizione non è necessariamente riservata ad uno solo, o a pochi individui selezionati. Come si ricorderà la terra coltivabile non può essere aperta a tutti, perché altrimenti nessuno la coltiverà. Questo approccio però non vale per i beni virtuali, anche se alcuni, come i domain names sono analoghi ai segni distintivi e quindi non tollerano attività confusorie. Le utilità che essi procurano non sono quindi necessariamente discendenti da un uso esclusivo. Infatti la loro tutela proprietaria, nel senso anzidetto di attribuzione di un jus excludendi prodromico ad un diritto di concedere selezionai permessi di accesso, è sostenuta dalla opportunità di incentivare la loro produzione. In questo senso si argomenta dal fatto che la produzione di nuovi beni immateriali necessita investimenti. E’ vero infatti che il software è un bene ad uso non rivale, ma i programmatori hanno bisogno di hardware che invece è un bene ad uso rivale, così come hanno bisogno di altre attrezzature: scrivanie, locali, denaro che sono necessariamente beni esclusivi. L’argomento in realtà sottintende una preferenza per l’investimento di tipo imprenditoriale rispetto a forme di investimento collettive. Tale preferenza ha certamente ricevuto il collaudo della storia recente. Tuttavia è piuttosto arduo sostenere che la grande produzione di scritti scientifici che vi è stata negli ultimi decenni, la quale eguaglia come mole tutta la 410 produzione scientifica precedente, si pone in un rapporto di causa effetto rispetto alla tutela del diritto di autore accordata ai ricercatori. In realtà l’incentivo connesso all’aspetto economico del diritto di autore ha una influenza minimale sulla produzione scientifica, mentre i suoi risultati sono aperti a tutti, salva la presenza di balzelli irrisori. Da ciò discende che mentre nel caso dei fondi agricoli la necessità di attribuire al coltivatore un jus excludendi a pena di “escludere” la coltivazione, è in re ipsa, posto che tale necessità ha ricevuto un collaudo ultra millenario, nel caso della IP non possiamo sfoggiare una eguale certezza. Nel caso specifico del software l’argomento tecnico che i sostenitori del movimento delle open sources fanno valere è che l’acceso ai codici sorgente consente un continuo miglioramento grazie ad apporti collettivi degli utenti posto che la complessità del lavoro dei programmatori cresce esponenzialmente mentre la elaborazione di nuovi programmi non può essere automatizzata. In sintesi si sostiene che poiché la produzione di software dipende interamente dal cosiddetto capitale umano l’attività cooperativa spontanea ed amatoriale è più promettente ed efficiente della cooperazione organizzata mediante la struttura gerarchica dell’impresa. In effetti agli inizi del XXI secolo esistono già esempi di programmi creati mediante forme di cooperazione spontanea che non hanno nulla da invidiare a ai prodotti imprenditoriali 406. 7. La discussione in corso è cruciale e la sua importanza non può essere sopravalutata. Tuttavia proprio per tale ragione giova osservare come essa venga condotta in relazione agli argomenti di filosofia morale oppure in relazione al ragionamento economico, mentre si ritiene che la tradizione giuridica non abbia alcunché da osservare in materia, limitandosi a recepire ed elaborare le soluzioni introdotte in base alle indicazioni delle altre tradizioni di ricerca che si sono formate nel campo delle scienze umane. Sennonché non solo si riscontra che nel diritto applicato emergono poi significative divergenze tra l’impostazione europea continentale e quella di common law, imputabili 406 Cfr. M. BERRA E A.R. MEO, Libertà di software. Hardware e conoscenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006 411 alle mentalità giuridiche soggiacenti; ma il problema essenziale è che quelle influenti tradizioni di ricerca che orientano le soluzioni moderne, non ci hanno mai detto nulla su come deve essere costruito un sistema di diritti di proprietà. Anche se è vero che la analisi giuridica economica sta rapidamente accumulando modelli sofisticati, tuttavia si tratta di modellizzazioni che sono ancor lontane dalla completezza di quelli messi a punto delle singole tradizioni giuridiche. In effetti in epoca non remota il diritto di proprietà sembrò restituire in una cifra unica l’accumulazione di tutti gli sviluppi del pensiero che erano andati svolgendosi nel mondo occidentale a partire dal XVII secolo. La riflessione sul diritto di proprietà, che peraltro non è mai mancata nella tradizione filosofico – politica, ha quindi coinvolto tutte le scienze umane. Tuttavia, il problema che è stato al centro di tali corale riflessione è stato solo quello della legittimità o meno della proprietà individuale, che veniva assunta nelle forme estreme della proprietas ex jure quiritium, che veniva tramandata nella fonti, perché si riteneva che se si fosse potuto dimostrare che era legittima la proprietà individuale sulla terra l’argomento a fortiori avrebbe consentito di dimostrale la legittimità in riferimento ad ogni altro bene. In questo quadro anche la distinzione introdotta da Pufendorf tra communio positiva e communio negativa 407 era stata abbandonata come una distinzione troppo sottile. Pertanto seguendo la moda della scuola del diritto naturale ci si limita spesso alla alternativa tra appartenenza individuale e non appartenenza, ossia ad una assegnazione di beni alla collettività amorfa, alternativa che non dice nulla circa il modo con cui l’appartenenza debba essere giuridicamente strutturata. Si è ricordata la celebre frase di Blackstone, ma giova ricordare anche come poche pagine dopo presentando il significato della parola fee, dal latino feudus, Blackstone Cfr. S. PUFENDORF, De Jure Naturae et Gentium Libri octo, Lib. IV, cap. IV,2 «Deinde accurate expendendum, quid sit communio, quid proprietatis sive dominium. Communionis vocabulum accipitur vel negative, vel positive.» cui segue la spiegazione che poi riprende al punto IV,5, secondo la quale la comunione negativa corrisponde alla categoria delle res nullius, mentre la communio positiva è la proprietà collettiva. 407 412 ricorda la distinzione tra feudo ed allodio e presenta ai suoi lettori la nozione di allodium dicendo: “this is property in its’s highest degree, and the owner thereof hath absolutum et directum dominium, and therefore is said to seised thereof absolutely in dominio suo”. Ma poche righe dopo è costretta confessare, modestamente: “ this allodial property no subject in England has”. Come dire che quel diritto assoluto di escludere tutti gli altri era un paradigma teorico, che non rifletteva affatto l’effettiva organizzazione dei diritti di proprietà. La medesima radicale divergenza tra il paradigma teorico cui era indispensabile aderire per tenere aperto il canale di comunicazione intellettuale con le altre tradizioni di pensiero che si occupavano della proprietà esclusivamente sotto il profilo della sua fondazione razionale, è presente anche nella letteratura di civil law, anzi, si deve ricordare che nella letteratura del diritto comune era indispensabile il riferimento alle fonti giustinianee e da esse non solo si traeva una nozione di proprietas che richiamava l’assolutezza del dominium ex jure quiritium, benché si trattasse di una forma di proprietà praticamente scomparsa nel diritto romano dell’epoca di Giustiniano, ma si trovava anche la netta scansione dovuta a Gaio che in tema di beni distingueva tra le res corporales e le res incorporales. Scansione da cui discendeva che la proprietà stessa era collocabile tra le res corporales, mentre tutti gli altri diritti, anche quelli reali limitati si collocavano tra le res incorporales, assieme all’hereditas ed alla obligatio 408. In realtà Gaio pensava all’interno di una economica commerciale quale era quella della patria mediterranea in cui visse. Per comprendere il suo pensiero è quindi sufficiente ricordare come si compone il patrimonio di un commerciante alla sua morte, quando è necessario procedere alla delazione ereditaria. La ragione della scansione fondamentale tra res corporales ed incorporales stava nell’idea che la proprietà racchiude in sé ed esaurisce tutte le potenzialità economiche della cosa corporale e quindi quando la cosa sia posseduta a titolo di proprietà il valore del diritto che entra all’attivo del patrimonio è eguale 408 Cfr. G. PUGLIESE, Dalle «res incorporales» del diritto romano ai beni immateriali di alcuni sistemi giuridici odierni, in Riv. trim. dir e proc. civ., 1982, p. 1137 413 al valore della cosa stessa. Naturalmente però il concetto di valore implica, operativamente, quello di stima e le stime sono, da sempre, condotte dagli estimatori in riferimento alle qualità specifiche della cosa (il cavallo corsaiolo vale assi più di quello asmatico) sicché non vi può essere incertezza circa la priorità logica della cosa rispetto al diritto su di esse. Se si svolge questa sequenza, troppo ovvia per essere avvertita, si comprende come assumendo che la proprietà conferisce al suo titolare tutte le utilità che una cosa può generare, divenisse spontaneo elidere il medio del diritto di proprietà e considerare direttamente le cose stesse. Al contrario, quando nel patrimonio entrava un diritto reale limitato, una universalità di beni, e così pure il diritto a ricevere una cosa corporale o una prestazione di servizi, il linguaggio non poteva elidere il riferimento al diritto soggettivo inteso come interesse tutelato dall’ordinamento, perché il valore delle cose era solo il punto di partenza di un calcolo che doveva condurre ad individuare il valore economico del diritto e non della cosa. Ma poiché la prima classe di beni che formava il patrimonio erano i diritti di proprietà e quindi le res (corporales), tutti gli altri diritti patrimoniali che lo componevano vennero denominati per contrappunto res incorporales, la cui caratteristica ontologica era quella di non poter essere oggetto di percezione sensoriale e quindi, per sineddoche, del tatto. 9. Preservata nelle fonti giustinianee, ma abbandonata in realtà dalla dottrina del periodo intermedio, la distinzione gaiana ha contribuito ad orientare la tradizione di civil law in senso fiscalista, quando ha ripreso a porsi in armonia con l’ambiente economico. A ciò contribuì anche un fattore concomitante, rappresentato dal bisogno della sistematica giuridica di fornire una sistemazione coerente all’istituto del possesso. Come sempre lo svolgimento delle mentalità giuridiche è influenza da fattori culturali come da fattori ambientali. Questi ultimi ponevano l’esigenza, avvertita di primi studi economici moderni di ricompattare la gestione dei fondi assegnando tutti i diritti, poteri e facoltà ad un unico soggetto: il proprietario individuale. Ciò però poteva avvenire, come accadde nell’esperienza di common law mediante una riforma incidente 414 sull’assortimento del fascio di diritti, poteri, facoltà, privilegi ed immunità che si riconducevano all’assetto proprietario. Esemplarmente in Inghilterra ciò venne attuato mediante un riforma legislativa dell’assetto degli estates on land. Nei sistemi di civil law il percorso fu più decisamente influenzato da esigenze della sistematica giuridica che come tale doveva riassorbire tutte le svariatissime costruzioni dottrinali in tema di possesso e della sua tutela. Infatti il semplice programma della neonata dottrina economica tendente a ricompattare la gestione delle cose produttive in capo ad un unico soggetto sfuggendo così alla tragedy of the anticommons, richiedeva poi, sul lato del sistema istituzionale, una riforma assai articolata e complessa del sistema delle fonti del diritto nonché un ripensamento profondo dei rapporti tra proprietà e possesso. Circa il primo profilo basterà osservare che proprio perché l’Europa è stata per secoli un continente agricolo, sulle appartenenze agricole si erano stratificate situazioni di diritto provenenti da fonti svariate: leggi, consuetudini, regolamenti locali, regole deducibili dalla giurisprudenza dotta, mentalità giuridiche diffuse. Il programma di ricompattare tutto il fascio di diritti che possono incidere sul godimento e la disposizione delle cose in capo ad un unico soggetto esigeva quindi un passaggio intermedio consistente nella previa ricompattazione delle fonti del diritto. Come è noto le codificazioni illuministiche avevano esattamente questa funzione. La espressione più radicale di simile programma di ingegneria costituzionale si leggeva nell’art. 7 della loi sur la reunion des Lois civile en un seul corps, sur le titre de Code civil des francais 409, poi divenuto Code Napoléon, il quale prevedeva che: “a computer di journ où ces lois sont exécutoires, les lois romaines, les ordonnances, les coutumes générales ou locales, les statuts, le règlements, cessent d’avoir force de loi générale ou particulière dans le matières qui sont l’objet desdites lois composant le présent code”. Più volte è stato evocato il sottile ed enigmatico legame tra proprietà e codice inteso come forma della legislazione e quindi a prescindere dalla 409 Lois 30 ventose an XII, 21 marzo 1804. 415 specifico contenuto precettivo di ciascun codice. In realtà tale rapporto esiste ed è tutto racchiuso in quanto si è appena osservato. Il secondo profilo era ancora più complesso perché in tema di possesso si assommavano tre tipi di difficoltà. In primo luogo il diritto romano aveva lasciato in eredità al diritto comune una serie di ambiguità di cui la maggiore consisteva nel fatto che il possesso rilevava sia come strumento di acquisizione della proprietà - mediante la usucapio e la prescriptio longi temporis -, sia come situazione giuridica degna di tutela mediante gli interdicta. In secondo luogo il diritto canonico era intervenuto in questa seconda area introducendo un rimedio: l’actio spolii, che in realtà tutelava la detenzione e che, inoltre, aveva generato un mostriciattolo detta exceptio spolii, grazie alla quale si potevano paralizzare i rimedi a tutela proprietà rendendone la tutela ostaggio della lunghezza del processo possessorio. Risultato pratico di questa innovazione era stata la corsa dei patrocinanti a travestire la posizione giuridica da essi patrocinata come una situazione possessoria e non come una situazione proprietaria 410 e da qui la consuetudine che si era affermata ad estendere il possesso a qualunque titolarità di qualsiasi diritto. Consuetudine che asserendo il possesso dei diritti integrava la terza difficoltà, che era anche la più notevole tra le tre qui menzionate, perché la abolizione del possesso dei diritti comportava il passaggio da una organizzazione giuridica basata sullo status e la consuetudine ad una organizzazione giuridica basata sul titolo 411. Posto a fronte di questo garbuglio i redattori del code Napoléon, privi in materia della guida di Pothier, 412 usarono il cesareo gladio tagliando il nodo gordiano con la spada del legislatore. In altre parole espunsero dal codice civile l’istituto del La medesima inversione tra proprietà e godimento possessorio si registrò nell’esperienza giuridica inglese. 411 Elemento questo che sfuggirà al nostro Finzi quando in una opera, pur finissima, tenterà di rinverdire la nozione di possesso dei diritti. 412 Nel Traité de la possession, POTHIER, Chp. III, § 37, infatti assume in conformità alle fonti giustinianee che il possesso è ammesso solo sulle cose corporali (Lib.3 ad adq poss.: possideri possunt quae sunt corporalia); ma poi fa ampio spazio alla quasi possessio: cfr § 38 Les choses incoporelles, c’est à dire, celles quae in jure coinsistunt, ne sont pas suceptibles, à la verité, d’une possession véritables et prroprrement dite; mais elles sont suceptibles d’une quasipossession.”. 410 416 possesso immobiliare. La soluzione peccava di eccessiva confidenza nel mito della onnipotenza del legislatore. In effetti la tutela del possesso immobiliare fu reintrodotta quasi subito ad opera della giurisprudenza 413. Toccò in realtà a Savigny sistematizzare e modernizzare la materia del possesso. Casa che fece in tre mosse. In primo luogo collegò strettamente gli effetti giuridici del possesso al meccanismo della usucapione svalutando la tutela interdettale. Per conseguenza poté assumere, nel secondo passaggio che il possesso è, giuridicamente solo un fatto, però produttivo di effetti giuridici, in quanto consente l’accesso alla proprietà. In terzo luogo espunse dall’orizzonte della serietà giuridica sia l’actio spolii, che, soprattutto, l’exceptio spolii 414 , riconducendole strettamente all’ambito di applicazione dell’interdetto, il quale è sostanzialmente eguale al writ of trespass. Giova qui rilevare che la sistemazione data da Savigny al problema del possesso ha segnato il passaggio da una teoria giuridica adatta ad una società agricola ad una teoria giuridica adatta una società industriale e ciò spiega la ragione per cui, con qualche attenuazione relativamente ai diritti reali immobiliari, essa sia stata accolta in tutta Europa. Pertanto le sue implicazioni meritano qualche riflessione aggiuntiva. Lo stretto collegamento tra la rilevanza giuridica del possesso (possessio civilis) e l’asserzione per cui tale possesso fosse pensabile solo in riferimento alle cose corporali si fondava indubbiamente sul tenore letterale delle fonti giustinianee. Lo stesso Pothier era costretto a dire che, a rigore, non poteva concepirsi il possesso di diritti, ma da buon giurista positivo aggiungeva che tali forme di possesso erano da ammettersi 415. Più rigido nella scoperta delle verità storica del diritto romano, Savigny, propugnò la tesi opposta, che accidentalmente coincideva con la modernità. Ma Cfr. A. GAMBARO, La legittimazione passiva alle azioni possessorie. Studio di diritto comparato, Milano, 1979. 414 Cfr. Cfr. F.v.SAVIGNY, DA BESITZ, VI, ed. § 50 che è una delle parti più significative della celebre opera. 415 In realtà nella società francese del XVIII secolo il possesso di status era importantissimo in riferimento al possesso di status di figlio legittimo, ma più in generale in riferimento al possesso di un qualunque status di membro di un gruppo cui si associano da sempre le prerogative che gli antropologi scoprono nel diritto consuetudinario africano, ma che naturalmente erano presenti, anzi costituivano il tessuto delle relazioni giuridiche delle società dell’Europa agricola. 413 417 l’invocazione delle pure fonti giustinianee non sarebbe stata sufficiente ad acquisire il maggioritario consenso dei giuristi europei, se non si tenesse conto del nesso che la tesi di Savigny presentava con la cultura della sua epoca. Dall’assunto, indubitabile, per cui il possesso è una situazione di fatto, la quale produce effetti giuridici deriva infatti che la situazione di fatto deve essere percepibile oggettivamente dalla comunità sociale. Al tempo di Savigny, Immanuel Kant aveva chiarito che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza e che la nostra facoltà di conoscere è messa in moto da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi 416 . Posto che in Kant, come in tutta la filosofia antica e moderna gli oggetti che colpiscono i nostri sensi sono solo gli oggetti naturale, ovvero corporali, mentre gli oggetti sociali non hanno ricevuto che scarsa attenzione, la conclusione che si impone è che l’atmosfera culturale della epoca era del tutto consona con l’idea per cui la vicenda che poteva conferire ad una situazione di fatto come il possesso effetti giuridici acquisitivi della proprietà poteva riferirsi solo alle cose corporali. Ma poiché la vicenda della trasformazione del possesso in proprietà mediante l’usucapione era essenziale alla disciplina proprietaria, da ciò conseguiva che anche la proprietà poteva essere concepita solo in riferimento alle cose corporali. Il BGB confermerà questo principio, consacrandolo al § 90, anche se non accolse la rigida sistematica di Savigny che negava il possesso dell’usufrutto e delle servitù. 10. Se le idee giuridiche dovessero rappresentare il diritto positivo vigente si dovrebbe osservare come l’immagine della proprietà individuale compatta ed assoluta che diviene sinonimo della cosa corporale che ne costituisce l’oggetto non ha mai fatto troppo senso; ciascuna proprietà è sempre stata definita da un insieme, variabile, di limiti. Sicché se si adotta l’idea che esiste una pluralità di situazioni proprietarie, la confusione tra il diritto e le cose diviene una semplificazione poco sensata perché tutte le stime economiche debbono riferirsi al valore del diritto che entra nel patrimonio del soggetto e non soltanto alle 416 Citazioni dalla Introduzione alla seconda edizione della Critica della ragion pura. 418 caratteristiche fisiche della cosa in sé. Naturalmente si deve tener conto anche delle condotte strategiche ed in questo senso è da ricordare come quella immagine, consentendo una particolare sottolineatura dell’elemento della assolutezza si prestò assai bene ad una esaltazione del diritto di proprietà, visto come cardine del nuovo ordine economico e sociale uscito trionfante dalla rivoluzioni borghesi. Esaltazione non poco diffusa nella letteratura giuridica ottocentesca, la quale non si dava troppo carico del fatto che tale ordine vigeva da più tempo in Inghilterra dove simili visioni non potevano avere corso. Tuttavia si deve osservare come non mancassero connessioni con il tipo di civiltà materiale che stava prevalendo. Infatti durante la prima rivoluzione industriale l’impostazione fiscalista dell’oggetto della proprietà sembrò ricevere conferma della sua modernità. La società industriale è la società del macchinario e del manufatto. Il prodotto dell’industria sia esso un bene finale sia esso un bene strumentale, è dotato di una fisicalità talvolta massiccia. Grandi navi e grandi aeroplani segnano l’apogeo della tecnica industriale. In generale è da osservare che queste conferme provenienti dalla civiltà materiale che si radicò nei paesi europei occidentali nel XIX secolo andavano di pari passo con l’affermarsi di regole del traffico giuridico che facevano leva sul possesso, ossia sul controllo fisico di un bene materiale, e sembravano confermare la modernità della soluzione espressa nei codici civile europei. I prodotti della civiltà industriale infatti sono in gran parte beni mobili ad uso rivale, rispetto ai quali la compattezza del domino nel senso di attribuzione ed un solo soggetto di tutte le utilità che la cosa può generare appare la soluzione più razionale. Non è un caso che nello stesso periodo nasce e si sviluppa in Inghilterra la nozione di ownership, la quale fu in larga misura una creazione dei giuristi teorici che occupavano le cattedre di jurisprudence, e che fu pensata in funzione della proprietà mobiliare di beni corporali 417 e che riproduce la nozione di proprietà individuale e compatta che si era affermata in Europa continentale. 417 Cfr. T. HONERÉ, Ownership, in Guest ( ed.) Oxford Essays in Jurisprudence, 1961, p. 108. 419 11. Naturalmente è noto come il secolo breve abbia sottoposto a critica serrata le idee ottocentesche pervenendo in sintesi a due esiti principali. In primo luogo le situazioni proprietarie sono variamente conformate dall’ordinamento giuridico in funzione della natura delle cose. In secondo luogo e per diretta derivazione dalla osservazione precedente, sarebbe opportuno parlare di più proprietà che non di una unica forma di proprietà. Entrambe queste asserzioni meritano approfondimento. Sul primo profilo si deve infatti osservare come se si vuole evitare che la teoria giuridica diventi il pappagallo del legislatore è opportuno analizzare meglio che cosa significa natura delle cose e quali criteri di conformazione debbono essere seguiti per poter superare il test rappresentato dalla garanzia costituzionale verso le proprietà private. Sul secondo profilo ci si deve chiedere se la pluralità di situazioni dominicali non si colleghi al solo aspetto del contenuto del diritto trascurando i caratteri più unitari delle regole che concernono la circolazione e la tutela del diritto di proprietà. Riprendendo il profilo della conformazione della proprietà occorre quindi ricordare che la conformazione dei diritti dominicali da parte dell’ordinamento muove certamente nella direzione di massimizzare l’interesse generale, ma tale impegno presuppone una razionalità delle scelte pubbliche che può realizzarsi solo coniugando l’analisi delle utilità che i beni, materiali o immateriali, possono generare, con il ventaglio di interessi che appaiono degni di tutela secondo una scala di valori, la quale, a sua volta, non può altro che essere tratta dalla carta costituzionale. La sequenza di vincoli logici appena accennata richiede una chiarificazione attorno al nesso tra il concetto di utilità e quello di interesse. E’ nota l’impostazione teorica che risolve il diritto di proprietà in un fascio di rapporti. Questa impostazione nata in Germania con Bierling, ha poi ricevuto definitiva sistemazione da parte di Hohfeld ed essa è risultata talmente consonante con la tradizione tecnica di common law da essere stata entusiasticamente adottata negli Stati Uniti. Tradotta in termini di teoria dei beni la medesima linea di pensiero giunge alla radicale conclusione per cui non senso riferirsi ai beni ed allo varia ontologia, poiché nel mondo del diritto si possono contemplare solo le 420 posizioni giuridiche soggettive, ovvero gli interessi. Tuttavia ciò implica che non sia possibile un controllo di razionalità circa la scelta relativa agli interessi tutelabili. Non è naturalmente in questione la discrezionalità politica del legislatore; ma la possibilità che essa incontri dei limiti. Il problema venne discusso in Italia a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso sotto il profilo della ammissibilità di un sindacato di legittimità costituzionale delle leggi che imponevano limiti alle proprietà private. Con il senno acquisito nel frattempo non si farà fatica quindi ad ammettere che l’idea di escludere dal sindacato di legittimità costituzionale le leggi conformative della proprietà appare piuttosto bizzarra. Se un sindacato di legittimità costituzionale deve sussistere, rimane il problema di sapere a che cosa ancorarlo. La risposta a questo quesito non può non partire dal riconoscimento i beni in sé generano un fascio di utilità: il fiume è utile a tanti fini, a fini di irrigazione, a fini di navigazione, a fini di quello che si chiama uso edonistico cioè possibilità di nuotare nel fiume, di guardare il fiume, di goderne le bellezze. Anche senza voler ricordare la eloquente dissenting opinion di J. Douglas 418 in Sierra Club vs. Morton 419 le utilità che un fiume offre sono tante. È proprio questa caratteristica che consente ad un unico bene di soddisfare un ventaglio di interessi soggettivamente diversificati. I beni culturali possono essere indicati ad esempio poiché su essi si appuntano i bisogni di tutela di almeno quattro diverse posizioni soggettive. Vi è indubbiamente l’interesse del proprietario dei beni culturali, il quale può essere un soggetto pubblico o privato, ma che è sicuramente degno di tutela perché è attraverso la sua posizione che si incentiva la committenza di beni culturali i quali ovviamente debbono essere non solo preservati, ma anche prodotti. Vi è l’interesse della generalità dei cittadini all’accesso ai beni culturali in vista della loro fruizione che è appunto denotata come culturale dalla natura stessa dell’oggetto. “The river, for example, is the living symbol of all the life it sustains or nourishes - fish, aquatic insects, water ouzels, otter, fisher, deer, elk, bear, and all other animals, including man, who are dependent on it or who enjoy it for its sight, its sound, or its life. The river as plaintiff speaks for the ecological unit of life that is part of it”. 419 405 U.S. 727 (1972). 418 421 Vi è l’interesse delle generazioni future al medesimo tipo di fruizione che si qualifica come degno di tutela per il carattere di testimonianza di civiltà che gli oggetti culturali svolgono e che si radica nel concetto di tradizione culturale il quale ha evidentemente valenze transgenerazionali. Vi è infine l’interesse degli autori di beni culturali che è degno di tutela per la stessa, anche se speculare, ragione per cui ne è degna la committenza. Interesse che si estrinseca in taluni casi in quel droit de suite che consente all’autore di beneficiare dell’aumento di valore della sua opera. Se quanto si è sin qui detto è persuasivo, allora è évidente che la critica novecentesca alla tradizione proprietaria comporta che una rinnovata teoria della proprietà può partire solo da una solida ontologia dei beni e che rispetto a questa fondazione i discorsi relativi alla pluralità di situazioni proprietarie non hanno una vera autonomia, poiché implicano la medesima necessità senza però andare alla radice del tema. 12. Possiamo saggiare quanto si è sino a qui argomentato in riferimento al problema delle licenze obbligatorie che la Commissione europea impone ai titolari di una IP quando il rifiuto di concedere una licenza a soggetti concorrenti sembra entrare in contrasto con la esigenza di dar vita ad un mercato concorrenziale. Questo esperimento è suggerito dalla seguente considerazione. Come si è ricordato da millenni la tradizione giuridica occidentale si è misurata con il tema della proprietà agraria, più recentemente si è misurata con i problemi dei prodotti delle attività manifatturiere. In realtà il ventaglio dei beni e delle relative “proprietà” è sempre stato assai più ampio: i boschi, le acque, i beni culturali, i beni pericolosi o nocivi, hanno dato vita alle cosiddette proprietà speciali, le quali avevano una disciplina loro propria, così come una disciplina loro propria hanno ricevuto i beni pubblici; ma queste discipline speciali nulla toglievano alla centralità delle forme di proprietà sui beni più rilevanti ed a lungo nulla hanno aggiunto alla teoria delle proprietà. Se però si assume come è agevole assumere che al giorno d’oggi l’attività agricola ha una rilevanza residuale e che la varietà dei nuovi beni immateriali è al centro della scena, non si potrà evitare di considerare che l’esempio prescelto 422 coincide con una tematica centrale della nostra convivenza civile. In secondo luogo si deve ricordare come i nuovi beni immateriali che compongono la cosiddetta IP sono beni ad uso non rivale e perciò rispetto ad essi ha poco senso invocare l’aspetto del godimento diretto, mentre il jus escludendi ha rilievo centrale e poiché le licenze obbligatorie sono la contraddizione del jus excludendi, ecco che l’esempio che ci si accinge ad analizzare, impinge al cuore del tema di cui sino a qui si è discorso. Nella decisione più interessante al riguardo 420 la Corte di Giustizia ha statuito che occorre procedere la bilanciamento tra l’interesse del titolare dell’IP e quello dei consumatori allo sviluppo della libera concorrenza. Pertanto quando una impresa si trova in posizione dominante su un certo mercato e gode di un diritto di privativa diviene un abuso il rifiuto di concedere licenza ad un concorrente purché costui non si limiti a riprodurre i beni o i servizi offerti dall’impresa dominante ma intenda sviluppare servizi aggiuntivi per i quali si stima possa esistere una domanda potenziale dei consumatori. In termini più generali la Corte ha stabilito che benché il rifiuto di concedere un licenza da parte di una impresa in posizione dominante non costituisce di per sé un abuso del diritto 421 , “néanmoins, l’exercice du droit exclusif par le titulaire peut, dans des circonstances exceptionnelles, donner lieu à un comportement abusif” 422. Naturalmente si può osservare che il riferimento alla teoria dell’abuso del diritto può facilmente sconfinare nell’arbitrio del decisore e che tale rischio è ancora più grave in quanto 420 Si tratta del già citato caso IMS Health GmbH & Co. OHG, affaire C418/01, ove si trattava di un sistema di rilevazione dei consumi farmaceutici che era divenuto lo standard di riferimento degli operatori tedeschi del settore. Il sistema era pacificamente oggetto di diritto di autore secondo l’ 4 de l’Urheberrechtsgesetz. Un ex dipendente del titolare del diritto di autore aveva iniziato una propria attività in concorrenza con il suo datore precedente. Inizialmente aveva adottato un altro sistema modulare, ma gli operatori avevano dimostrato di essere troppo affezionati a quello fondato su 1816 moduli che era già in uso. Pertanto aveva adottato anch’esso una struttura modulare assai simile a quella standard. Il plagio era piuttosto evidente. Il plagiario aveva anche cercato di ottenere un licenza dal titolare del diritto di autore, ma la licenza gli era stata rifiutata. 421 Caso Volvo, C. 238/87 422 Così si legge nella citata decisione IMS Health GmbH & Co. OHG, che cito dal testo francese corrispondente alla lingua di lavoro (quella effettiva) 423 nel settore in cui si incrociano la tutela della IP e delle disciplina antitrust, il soggetto decisore è, in prima battuta, un organo amministrativo e non giurisdizionale, mentre è noto come la CEDU esiga che in tema di proprietà sia garantita la possibilità di ottenere il giudizio di un organo giurisdizionale, come è stato ribadito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel caso British-American Tobacco Company Ltd v. the Netherlands 423. In effetti la corte di giustizia si è fatta carico di questo aspetto ed ha indicato come debbano ricorrere alcune specifiche circostanze di mercato affinché si possa limitare il jus exludendi del titolare di un diritto facente parte dell’IP. Ma ciò che impressione è che se si confrontano i fatti di causa che hanno dato origine ai leading cases decisi dalla Corte di Giustizia ci si avvede che essa ha deciso in modo uniforme situazioni che sotto il profilo del bene protetto erano molto diverse tra loro. Sommamente istruttivo può essere il confronto tra i fatti dei cosiddetti Magill cases 424 ed il caso Briks number structure 425. In entrambi i casi si trattava di un copyright su una banca dati. Ma in un caso si trattava di una banca dati raccolta occasionalmente nel senso che si trattava delle informazioni sui programmi televisivi in possesso delle stazioni emittenti; nel secondo caso di trattava di una banca dati costruita in anni di studio e di perfezionamenti che comportava la elaborazione di dati complessi e la individuazione del miglior sistema della loro trasformazione in informazioni utili per il mercato. In termini spicci potremmo dire che la differenza tra i due casi richiama da vicino la differenza tra la raccolta dei frutti selvatici e la raccolta di frutti coltivati. Solo una solenne astrazione verso la storia ha potuto indurre la Corte di Giustizia ad applicare alla due situazioni i medesimi criteri per giustificare la elisione del jus excludendi. La realtà è che i giudici europei accettano di parlare di IP, perché questa è la moda che si è imposta, ma non pensano le questioni che debbono decidere in questo settore in termini di proprietà, ma di diritti di monopolio. La facilità 423 424 425 Numerato 46/1994/493/575 Cfr. supra nota E questo il nick name del caso IMS Health GmbH & Co. OHG 424 con cui il Tribunale di primo grado si è disfatto degli argomenti addotti dalla Microsoft che le avevano assicurato la semivittoria finale nei paralleli procedimenti americani indicativa al riguardo. Si tratta allora di verificare se i problemi posti dai nuovi beni sono più opportunamente affrontabili se pensati nel contesto della tradizione del diritto dei beni, o nel contesto della più recente tradizione che riflette sul diritto della concorrenza e del mercato. Tale verifica non può essere tentata in questa sede; si tratta piuttosto di indicare un terreno di indagini, confronti e riflessioni. Temo che agli amici carissimi Gabriella e Pasquale l’affetto abbia fatto velo alla realtà quando mi hanno invitato a tenere una lectio magistralis, ma se per un istante potessi ardire a considerarmi “sesto tra cotanto senno” 426 , ricorderei che la funzione dei maestri non può essere, oggi, lo scodellare sistemi e modelli, ma l’additare a coloro che hanno energie intellettuali problemi non risolti che pure urgono alla società in cui viviamo e spiegare il retroterra da cui insorgono ed, ancora, tracciare il quadro generale all’interno del quale si possano collocare le soluzioni significative. In quest’ultima direzione ricorderei che sia il modo di pensare che è dominante all’interno del common law americano, sia quello che, sotterraneamente, è dominante, all’interno della trazione di civil law, alla fine possono coincidere perché entrambi hanno perduto l’ancoraggio alla categoria degli jura in rem, sicché le differenze risultano essere limitate alla maggior propensione del primo a proteggere gli investimenti sulla base di una vaga connessione con la tutela costituzionale dei property rights. Ricorderei anche che i modi di pensare dei giuristi non possono divergere troppo, ossia nelle loro impostazioni basilari, dai modi di pensare radicati nella società in cui operano, per la semplice ma decisiva ragione che i giuristi possono sopravvivere solo se nel medio e lungo periodo ( non mai nell’immediato) ottengono il consenso di quest’ultima; ed è solo il caso di aggiungere che dopo decine e decine di secoli durante i quali si è pensato in termini di proprietà, è un poco ingenuo immaginare di 426 Commedia, Inf. C.IV. 425 ottenere il consenso proponendo soluzioni basate sull’approccio del sofisticato policy maker. Vi è sempre il rischio che quando qualcosa va storto l’incomprensibilità dell’itinerario seguito conduca ad una totale perdita di fiducia. Ma ciò che mi premerebbe maggiormente ricordare è un dato oggi un poco offuscato. Sia nella tradizione di common law che in quella di civil law la parte da sempre considerata la più tecnicamente sofisticata e difficile è quella che riguarda la ripartizione tra le persone delle utilità generate dai beni, sia materiali che immateriali, ossia è il settore del diritto dei beni detto anche degli jura in rem, o diritti reali. E’, infatti, in questo settore del diritto civile che – e ciò è significativo- entrambe le due gradi tradizioni del diritto occidentale sono riuscite a conciliare la complessità estrema che proviene dalla enorme varietà dei beni la cui utilità sono necessarie alla vita sociale, moltiplicata dalla varietà delle forme soggettive dell’appartenenza: individuale, familiare, clanica, societaria ed istituzionale, con la semplicità dell’approccio che si ottiene focalizzando l’attenzione sul bene, sulla res, di volta in volta implicato nel discorso o nel ragionamento, sì che si possa iniziare a dipanare la complessa trama di diritti che su di esso insistono avendo posto un piede per terra. Grazie. 4) Art. 1, Protocollo addizionale 1 alla CEDU Protezione della proprietà Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende. 426 5) Art. 17 della Carta di Nizza Diritto di proprietà 1. Ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale. 2. La proprietà intellettuale è protetta. 6) Costituzione spagnola (1978), art. 33, e Costituzione svizzera (2000), art. 26, in Codice delle Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp. 238-239 e 286 Articolo 33 [Costituzione spagnola] 1. Si riconosce il diritto alla proprietà privata e alla successione ereditaria. 2. La funzione sociale di questi diritti delimiterà il loro contenuto conformemente alle leggi. 3. Nessuno potrà essere privato dei propri beni e diritti se non per causa giustificata di pubblica utilità o nell’interesse sociale, mediante corrispondente indennizzo, e conformemente a quanto disposto dalle leggi. Articolo 26 [Costituzione elvetica] 1. La proprietà è garantita. 2. In caso di espropriazione o di restrizione equivalente della proprietà è dovuta piena indennità. 7) Draft Costitution/Basic Law of Hungary (2011), Art. XII (1) Everyone has the right to property and to inheritance. Owning property carries a social responsibility. (2) Property may only be expropriated in exceptional cases and in the public interest and in cases and under the conditions provided for by law, subject to full, unconditional and immediate compensation for the loss. 427 8) Accordo TRIPs-Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, adottato a Marrakech 15 aprile 1994 – “Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio” ratificato dall’Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 747 I Membri, Desiderosi di ridurre le distorsioni e gli impedimenti nel commercio internazionale e tenendo conto della necessità di promuovere una protezione sufficiente ed efficace dei diritti di proprietà intellettuale nonché di fare in modo che le misure e le procedure intese a tutelare i diritti di proprietà intellettuale non diventino esse stesse ostacoli ai legittimi scambi; Riconoscendo, a tal fine, la necessità di nuove regole e normative riguardanti: a) l’applicabilità dei principi fondamentali del GATT 1994 e dei pertinenti accordi o convenzioni internazionali in materia di intellettuale; proprietà b) la predisposizione di norme e principi adeguati in materia di esistenza, ambito ed esercizio dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio; c) la predisposizione di mezzi appropriati ed efficaci per tutelare i diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio, tenuto conto delle differenze tra i sistemi giuridici nazionali; d) la predisposizione di procedure rapide ed efficaci per la prevenzione e la risoluzione multilaterale delle controversie tra e governi; e) disposizioni transitorie intese a favorire la più completa partecipazione ai risultati dei negoziati; Riconoscendo la necessità di un quadro multilaterale di principi, regole e norme attinenti al commercio internazionale delle merci contraffatte; Riconoscendo che i diritti di proprietà intellettuale sono diritti privati; Riconoscendo i fondamentali obiettivi di carattere pubblico dei regimi nazionali di protezione della proprietà intellettuale, ivi compresi gli obiettivi in materia di tecnologia e sviluppo; Riconoscendo inoltre le speciali esigenze dei paesi meno avanzati Membri, cui occorre accordare la massima flessibilità nell’attuazione interna di leggi e regolamenti onde consentir loro di crearsi una base tecnologica solida ed efficiente; Sottolineando l’importanza di ridurre le tensioni mediante un rafforzato impegno a risolvere le controversie sulle questioni di proprietà intellettuale attinenti al commercio attraverso procedure multilaterali; Desiderosi di instaurare una relazione di reciproco sostegno tra l’OMC e l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale 428 (in appresso denominata OMPI) e altre competenti organizzazioni internazionali; Hanno convenuto quanto segue: PARTE I DISPOSIZIONI GENERALI E PRINCIPI FONDAMENTALI Art. 1 (Natura e ambito degli obblighi) 1. I Membri danno esecuzione alle disposizioni del presente Accordo. Essi hanno la facoltà, ma non l’obbligo, di attuare nelle loro legislazioni una protezione più ampia di quanto richiesto dal presente Accordo, purché tale protezione non contravvenga alle disposizioni dello stesso. Essi inoltre hanno la facoltà di determinare le appropriate modalità di attuazione delle disposizioni del presente Accordo nel quadro delle rispettive legislazioni e procedure. 2. Ai fini del presente Accordo, l’espressione “proprietà intellettuale” comprende tutte le categorie di proprietà intellettuale di cui alla parte II, sezioni da 1 a 7. 3. Ciascun Membro accorda il trattamento previsto dal presente Accordo ai cittadini degli altri Membri. Per quanto riguarda il relativo diritto di proprietà intellettuale, si considerano cittadini degli altri Membri le persone fisiche o giuridiche che soddisfano i criteri di ammissibilità alla protezione di cui alla Convenzione di Parigi (1967), alla Convenzione di Berna (1971), alla Convenzione di Roma e al Trattato sulla proprietà intellettuale in materia di semiconduttori, sempreché tutti i Membri dell’OMC fossero Membri di tali convenzioni. I Membri che si avvalgono delle possibilità di cui all’art. 5, paragrafo 3 o all’art. 6, paragrafo 2 della Convenzione di Roma ne danno notifica conformemente a dette disposizioni al consiglio per gli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (“Consiglio TRIPs”). Art. 2 (Convenzioni in materia di proprietà intellettuale) 1. In relazione alle parti II, III e IV del presente Accordo, i Membri si conformano agli articoli da 1 a 12 e all’art. 19 della Convenzione di Parigi (1967) 2. Nessuna disposizione delle parti da I a IV del presente Accordo pregiudica gli eventuali obblighi reciproci incombenti ai Membri in forza della Convenzione di Parigi, della Convenzione di Berna, della Convenzione di Roma e del Trattato sulla proprietà intellettuale in materia di semiconduttori. Art. 3 (Trattamento nazionale) 1. Ciascun Membro accorda ai cittadini degli altri Membri un trattamento non meno favorevole di quello da esso accordato ai propri cittadini in materia di protezione della proprietà intellettuale, fatte salve le deroghe già previste, rispettivamente, nella Convenzione di Parigi (1967), nella Convenzione di Berna (1971), nella Convenzione di Roma o nel Trattato sulla proprietà intellettuale in materia di semiconduttori. Per quanto riguarda gli artisti interpreti o esecutori, i produttori 429 di fonogrammi e gli organismi di radiodiffusione, l’obbligo in questione si applica soltanto in relazione ai diritti contemplati dal presente Accordo. I Membri che facciano uso delle facoltà di cui all’art. 6 della Convenzione di Berna (1971) o all’art. 16, paragrafo 1, lettera b) della Convenzione di Roma ne informano conformemente a dette disposizioni il consiglio TRIPs. 2. I Membri possono avvalersi delle deroghe di cui al paragrafo 1 in relazione a procedure giudiziarie e amministrative, ivi comprese l’elezione del domicilio o la nomina di un rappresentante nell’ambito di un Membro, soltanto se tali deroghe sono necessarie per garantire il rispetto di leggi e regolamenti non incompatibili con le disposizioni del presente Accordo e se le procedure in questione non sono applicate in modo tale da costituire una restrizione dissimulata del commercio. Art. 4 (Trattamento della nazione più favorita) Per quanto riguarda la protezione della proprietà intellettuale, tutti i vantaggi, benefici, privilegi o immunità accordati da un Membro ai cittadini di qualsiasi altro paese sono imme diatamente e senza condizioni estesi ai cittadini di tutti gli altri Membri. Sono esenti da questo obbligo tutti i vantaggi, benefici, privilegi o immunità accordati da un Membro: a) derivanti da accordi internazionali in materia di assistenza giudiziaria o applicazione della legge di carattere generale e non particolarmente limitati alla protezione della proprietà intellettuale; b) concessi in conformità alle disposizioni della Convenzione di Berna (1971) o della Convenzione di Roma in virtù delle quali il trattamento accordato può essere funzione non del trattamento nazionale bensì del trattamento concesso in un altro paese; c) relativi ai diritti degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione non contemplati dal presente Accordo; d) derivanti da accordi internazionali relativi alla protezione della proprietà intellettuale entrati in vigore prima dell’entrata in vigore dell’Accordo OMC, purché tali accordi siano notificati al consiglio TRIPs e non costituiscano una discriminazione arbitraria o ingiustificata contro i cittadini degli altri Membri. Art. 5 (Accordi multilaterali in materia di acquisizione o mantenimento della protezione) Gli obblighi di cui agli articoli 3 e 4 non si applicano alle procedure previste negli accordi multilaterali conclusi sotto gli auspici dell’OMPI in materia di acquisizione o mantenimento dei diritti di proprietà intellettuale. Art. 6 (Esaurimento) Ai fini della risoluzione delle controversie nel quadro del presente Accordo, fatte salve le disposizioni degli articoli 3 e 4 nessuna disposizione del presente Accordo può essere utilizzata in relazione alla questione dell’esaurimento dei diritti di proprietà intellettuale. 430 Art. 7 (Obiettivi) La protezione e il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale dovrebbero contribuire alla promozione dell’innovazione tecnologica nonché al trasferimento e alla diffusione di tecnologia, a reciproco vantaggio dei produttori e degli utilizzatori di conoscenze tecnologiche e in modo da favorire il benessere sociale ed economico, nonché l’equilibrio tra diritti e obblighi. Art. 8 (Principi) 1. In sede di elaborazione o modifica delle loro disposizioni legislative e regolamentari i Membri possono adottare misure necessarie ad assicurare la tutela dell’alimentazione e della salute pubblica e a promuovere il pubblico interesse in settori d’importanza fondamentale per il loro sviluppo socioeconomico e tecnologico, purché tali misure siano compatibili con le disposizioni del presente Accordo. 2. Misure appropriate, purché siano compatibili con le disposizioni del presente Accordo, possono essere necessarie per impedire l’abuso dei diritti di proprietà intellettuale da parte dei titolari o il ricorso a pratiche che comportino un’ingiustificata restrizione del commercio o pregiudichino il trasferimento internazionale di tecnologia. PARTE II NORME RELATIVE ALL’ESISTENZA, ALL’AMBITO E ALL’ESERCIZIO DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE Sezione 1 Diritto d’autore e diritti connessi Art. 9 (Rapporto con la Convenzione di Berna) 1. I Membri si conformano agli articoli da 1 a 21 della Convenzione di Berna (1971) e al suo annesso. Tuttavia essi non hanno diritti né obblighi in virtù del presente Accordo in relazione ai diritti conferiti dall’art. 6-bis della medesima Convenzione o ai diritti da esso derivanti. 2. La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali. Art. 10 (Programmi per elaboratore e compilazioni di dati) 1. I programmi per elaboratore, in codice sorgente o in codice oggetto, sono protetti come opere letterarie ai sensi della Convenzione di Berna (1971). 2. Le compilazioni di dati o altro materiale, in forma leggibile da una macchina o in altra forma, che a causa della selezione o della disposizione del loro contenuto costituiscono creazioni intellettuali sono protette come tali. La protezione, che non copre i dati o il materiale stesso, non pregiudica diritti d’autore eventualmente esistenti sui dati o sul materiale. Art. 11 (Diritti di noleggio) Almeno in relazione ai programmi per elaboratore e alle opere cinematografiche i Membri 431 accordano agli autori e agli aventi causa il diritto di autorizzare o vietare il noleggio al pubblico di originali o copie delle opere protette. Un Membro è esonerato da questo obbligo in relazione alle opere cinematografiche, a meno che il noleggio non abbia dato luogo ad una diffusa riproduzione di tali opere che comprometta sostanzialmente il diritto esclusivo di riproduzione conferito nello stesso Membro agli autori e ai loro aventi causa. Per quanto riguarda i programmi per elaboratore, questo obbligo non si applica ai casi in cui il programma medesimo non costituisca l’oggetto essenziale del noleggio. Art. 12 (Durata della protezione) Ogni qualvolta la durata della protezione di un opera, eccettuate le opere fotografiche o le opere delle arti applicate, sia computata su una base diversa dalla vita di una persona fisica, tale durata non può essere inferiore a 50 anni dalla fine dell’anno civile di pubblicazione autorizzata dell’opera, oppure, qualora tale pubblicazione non intervenga nei 50 anni successivi alla realizzazione dell’opera, a 50 anni dalla fine dell’anno civile di realizzazione. Art. 13 (Limitazioni ed eccezioni) I Membri possono imporre limitazioni o eccezioni ai diritti esclusivi soltanto in taluni casi speciali che non siano in conflitto con un normale sfruttamento dell’opera e non comportino un ingiustificato pregiudizio ai legittimi interessi del titolare. Art. 14 (Protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi (registrazioni sonore) e degli organismi di radiodiffusione) 1. Per quanto riguarda la fissazione della loro esecuzione su un fonogramma, gli artisti interpreti o esecutori hanno la facoltà di impedire, salvo proprio consenso, la fissazione della loro esecuzione non fissata e la riproduzione di tale fissazione, nonché la radiodiffusione e la comunicazione al pubblico della loro esecuzione dal vivo. 2. I produttori di fonogrammi godono del diritto di autorizzare o di vietare la riproduzione diretta o indiretta dei loro fonogrammi. 3. Gli organismi di radiodiffusione hanno il diritto di vietare, salvo proprio consenso, le seguenti azioni: la fissazione, la riproduzione di fissazioni e la riemissione delle loro emissioni, nonché la comunicazione al pubblico delle loro emissioni televisive. Se i Membri non accordano tali diritti agli organismi di radiodiffusione, danno ai titolari del diritto d’autore sull’oggetto delle emissioni la possibilità di impedire le azioni suddette, fatte salve le disposizioni della Convenzione di Berna (1971). 4. Le disposizioni dell’art. 11 in relazione ai programmi per elaboratore si applicano, mutatis mutandis, ai produttori di fonogrammi e a qualsiasi altro titolare di diritti sui fonogrammi ai sensi delle legislazioni dei Membri. Se al 15 aprile 1994 in un Membro vige un sistema di equo compenso dei titolari di diritti per il noleggio di fonogrammi, tale sistema può essere 432 mantenuto purché il noleggio di fonogrammi non comprometta in modo sostanziale i diritti esclusivi di riproduzione dei titolari. 5. La durata della protezione concessa dal presente Accordo agli artisti interpreti o esecutori e ai produttori di fonogrammi si estende almeno fino alla fine di un periodo di 50 anni computati dalla fine dell’anno civile in cui è stata fatta la fissazione o ha avuto luogo l’esecuzione. La durata della protezione concessa ai sensi del paragrafo 3 si estende per almeno 20 anni dalla fine dell’anno civile in cui l’emissione ha avuto luogo. 6. Qualsiasi Membro può, in relazione ai diritti di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 prevedere condizioni, limitazioni, deroghe e riserve entro i limiti consentiti dalla Convenzione di Roma. Tuttavia le disposizioni dell’art. 18 della Convenzione di Berna (1971) si applicano, mutatis mutandis, anche ai diritti degli artisti interpreti o esecutori e dei produttori di fonogrammi sui fonogrammi. […] Sezione 5 Brevetti Art. 27 (Oggetto del brevetto) 1. Fatte salve le disposizioni dei paragrafi 2 e 3, possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto o di procedimento, in tutti i campi della tecnologia, che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale. Fatti salvi l’art. 65, paragrafo 4, l’art. 70, paragrafo 8 e il paragrafo 3 del presente articolo, il conseguimento dei brevetti e il godimento dei relativi diritti non sono soggetti a discriminazioni in base al luogo d’invenzione, al settore tecnologico e al fatto che i prodotti siano d’importazione o di fabbricazione locale. 2. I Membri possono escludere dalla brevettabilità le invenzioni il cui sfruttamento commerciale nel loro territorio deve essere impedito per motivi di ordine pubblico o di moralità pubblica, nonché per proteggere la vita o la salute dell’uomo, degli animali o dei vegetali o per evitare gravi danni ambientali, purché l’esclusione non sia dettata unicamente dal fatto che lo sfruttamento è vietato dalle loro legislazioni. 3. I Membri possono inoltre escludere dalla brevettabilità: a) i metodi diagnostici, terapeutici e chirurgici per la cura dell’uomo o degli animali; b) i vegetali e gli animali, tranne i microorganismi, e i processi essenzialmente biologici per la produzione di vegetali o animali, tranne i processi non biologici e microbiologici. Tuttavia i Membri prevedono la protezione delle varietà di vegetali mediante brevetti o mediante un efficace sistema sui generis o una combinazione dei due. Le disposizioni della presente lettera sono sottoposte ad esame quattro anni dopo la data di entrata in vigore dell’Accordo OMC. 433 Art. 28 (Diritti conferiti) 1. Il brevetto conferisce al titolare i seguenti diritti esclusivi: a) se oggetto del brevetto è un prodotto, il diritto di vietare ai terzi, salvo suo consenso, di produrre, utilizzare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto in questione; b) se oggetto del brevetto è un procedimento, il diritto di vietare ai terzi, salvo suo consenso, di usare il procedimento, nonché di usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini almeno il prodotto direttamente ottenuto con il processo in questione. 2. Il titolare ha inoltre il diritto di cedere, o di trasmettere agli eredi, il brevetto e di concedere licenze. Art. 29 (Condizioni relative ai richiedenti) 1. I Membri possono disporre che il richiedente di un brevetto descriva l’invenzione in un modo sufficientemente chiaro e completo perché una persona esperta del ramo possa attuarla e possono altresì prescrivere che il richiedente indichi il miglior modo di attuare l’invenzione noto all’inventore alla data di presentazione o, qualora si rivendichi la priorità, alla data di priorità della domanda. 2. I Membri possono disporre che il richiedente di un brevetto fornisca informazioni circa le corrispondenti domande da lui presentate all’estero e i corrispondenti brevetti conseguiti all’estero. Art. 30 (Eccezioni ai diritti conferiti) I Membri possono prevedere limitate eccezioni ai diritti esclusivi conferiti da un brevetto, purché tali eccezioni non siano indebitamente in contrasto con un normale sfruttamento del brevetto e non pregiudichino in modo ingiustificato i legittimi interessi del titolare, tenuto conto dei legittimi interessi dei terzi. Art. 31 (Altri usi senza il consenso del titolare) Qualora la legislazione di un Membro consenta altri usi dell’oggetto di un brevetto senza il consenso del titolare, ivi compreso l’uso da parte della pubblica amministrazione o di terzi da questa autorizzati si applicano le seguenti disposizioni: a) l’autorizzazione dell’uso in questione si considera nei suoi aspetti peculiari; b) l’uso in questione può essere consentito soltanto se precedentemente l’aspirante utilizzatore ha cercato di ottenere l’autorizzazione del titolare secondo eque condizioni e modalità commerciali e se le sue iniziative non hanno avuto esito positivo entro un ragionevole periodo di tempo. Un Membro può derogare a questo requisito nel caso di un’emergenza nazionale o di altre circostanze di estrema urgenza oppure in caso di uso pubblico non commerciale. In situazioni d’emergenza nazionale o in altre circostanze d’estrema urgenza il titolare viene tuttavia informato quanto prima possibile. Nel caso di uso pubblico non commerciale, quando la pubblica amministrazione o l’impresa, senza fare una ricerca di brevetto, sanno o hanno evidenti motivi per sapere che un brevetto valido è o sarà utilizzato da o per la 434 pubblica amministrazione, il titolare ne viene informato immediatamente; c) l’ambito e la durata dell’uso in questione sono limitati allo scopo per il quale esso è stato autorizzato; nel caso della tecnologia dei semiconduttori lo scopo è unicamente l’uso pubblico non commerciale oppure quello di correggere un comportamento, risultato in seguito a procedimento giudiziario o amministrativo, anticoncorrenziale; d) l’uso in questione non è esclusivo; e) l’uso non è alienabile, fuorché con la parte dell’impresa o dell’avviamento che ne ha il godimento; f) l’uso in questione è autorizzato prevalentemente per l’approvvigionamento del mercato interno del Membro che lo autorizza; g) l’autorizzazione dell’uso in questione può, fatta salva un’adeguata protezione dei legittimi interessi delle persone autorizzate, essere revocata se e quando le circostanze che l’hanno motivata cessano di esistere ed è improbabile che tornino a verificarsi. L’autorità competente ha il potete di esaminare, su richiesta motivata, il permanere di tali circostanze; h) in ciascun caso il titolare riceve un equo compenso, tenuto conto del valore economico dell’autorizzazione; i) la legittimità di qualsiasi decisione relativa all’autorizzazione dell’uso in oggetto è sottoposta a controllo giurisdizionale o ad altro controllo esterno da parte di un’autorità superiore distinta del Membro in questione; j) qualsiasi decisione relativa al compenso previsto per l’uso in oggetto è sottoposta a controllo giurisdizionale o altro controllo esterno da parte di una distinta autorità superiore del Membro in questione; k) i Membri non sono tenuti ad applicare le condizioni di cui alle lettere b) e f) qualora l’uso in oggetto sia autorizzato per correggere un comportamento risultato, in seguito a procedimento giudiziario o amministrativo, anticoncorrenziale. La necessità di correggere pratiche anticoncorrenziali può essere presa in considerazione nel determinare l’importo del compenso in tali casi. Le autorità competenti hanno il potere di rifiutare la revoca di un’autorizzazione se e quando le condizioni che l’hanno motivata hanno probabilità di ripresentarsi; l) qualora l’uso in questione sia autorizzato per consentire lo sfruttamento di un brevetto (“il secondo brevetto”) che non si possa sfruttare senza contraffazione di un altro brevetto (“il primo brevetto”), si applicano le seguenti condizioni supplementari: i) l’invenzione rivendicata nel secondo brevetto deve implicare un importante avanzamento tecnico di considerevole rilevanza economica in relazione all’invenzione rivendicata nel primo brevetto; ii) il titolare del primo brevetto ha diritto ad una controlicenza a condizioni ragionevoli per l’uso dell’invenzione rivendicata nel secondo brevetto; e iii) l’uso autorizzato in relazione al primo 435 brevetto non è alienabile fuorché con la cessione del secondo brevetto. Art. 32 (Revoca/Decadenza) Qualsiasi decisione di revoca o decadenza di un brevetto può essere sottoposta a controllo giurisdizionale. Art. 33 (Durata della protezione) La durata della protezione concessa non può terminare prima della scadenza di un periodo di 20 anni computati dalla data del deposito. Art. 34 (Brevetti di procedimento: obbligo della prova) 1. Ai fini dei procedimenti civili in ordine alla violazione dei diritti del titolare di cui all’art. 28, paragrafo 1, lettera b), se oggetto di un brevetto è un procedimento che consente di ottenere un prodotto, le autorità giudiziarie hanno la facoltà di imporre al convenuto di provare che il procedimento per ottenere un prodotto identico è diverso dal procedimento brevettato. Pertanto i Membri dispongono, almeno in uno dei casi sottoindicati, che un prodotto identico, fabbricato senza il consenso del titolare del brevetto, si considera, salvo prova contraria, ottenuto mediante il procedimento brevettato: a) se il prodotto ottenuto mediante il procedimento brevettato è nuovo; b) se esiste una sostanziale probabilità che il prodotto identico sia stato fabbricato mediante il procedimento e se il titolare del brevetto non ha potuto determinare con mezzi ragionevoli il procedimento effettivamente usato. 2. Ciascun Membro ha facoltà di stabilire che l’obbligo della prova di cui al paragrafo 1 incombe al presunto contraffattore soltanto se sussiste la condizione di cui alla lettera a) o soltanto se sussiste la condizione di cui alla lettera b). 3. Nell’espletamento della prova contraria, si deve prendere in considerazione il legittimo interesse del convenuto alla protezione dei suoi segreti di fabbricazione e commerciali. […] Sezione 7 Protezione di informazioni segrete Art. 39 1. Nell’assicurare un’efficace protezione contro la concorrenza sleale ai sensi dell’art. 10-bis della Convenzione di Parigi (1967), i Membri assicurano la protezione delle informazioni segrete conformemente al paragrafo 2 e quella dei dati forniti alle autorità pubbliche o agli organismi pubblici conformemente al paragrafo 3. 2. Le persone fisiche e giuridiche hanno la facoltà di vietare che, salvo proprio consenso, le informazioni sottoposte al loro legittimo controllo siano rivelate a terzi oppure acquisite o utilizzate da parte di terzi in un modo contrario a leali pratiche commerciali nella misura in cui tali informazioni: 436 a) siano segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione; b) abbiano valore commerciale in quanto segrete; e c) siano state sottoposte, da parte della persona al cui legittimo controllo sono soggette, a misure adeguate nel caso in questione intesa a mantenerle segrete. 3. I Membri, qualora subordinino l’autorizzazione della commercializzazione di prodotti chimici farmaceutici o agricoli implicanti l’uso di nuove sostanze chimiche alla presentazione di dati relativi a prove o di altri dati segreti, la cui elaborazione comporti un considerevole impegno, assicurano la tutela di tali dati da sleali usi commerciali. Essi inoltre proteggono detti dati dalla divulgazione, salvo nei casi in cui risulti necessaria per proteggere il pubblico o a meno che non vengano prese misure atte a garantire la protezione dei dati contro sleali usi commerciali. Sezione 8 Controllo delle pratiche anticoncorrenziali nel campo delle licenze contrattuali Art. 40 1. I Membri convengono che alcune modalità o condizioni per la concessione di licenze sui diritti di proprietà intellettuale che limitano la concorrenza possono avere effetti negativi sul commercio e impedire il trasferimento e la diffusione di tecnologia. 2. Nessuna disposizione del presente Accordo impedisce ai Membri di specificare nelle loro legislazioni le pratiche o condizioni che potrebbero in determinati casi costituire un abuso dei diritti di proprietà intellettuale con effetto negativo sulla concorrenza nel mercato corrispondente. Come previsto sopra, un Membro può adottare, compatibilmente con le altre disposizioni del presente Accordo, opportune misure intese ad impedire o controllare tali pratiche, tra cui ad esempio concessioni esclusive al licenziante, condizioni che impediscono contestazioni della validità e imposizione di licenze globali, alla luce delle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Membro in questione. 3. Ciascun Membro avvia, su richiesta, consultazioni con qualsiasi altro Membro che abbia motivo di ritenere che il titolare di un diritto di proprietà intellettuale, cittadino del Membro al quale è stata rivolta la richiesta di consultazioni o ivi residente, stia attuando pratiche contrarie alle disposizioni legislative e regolamentari del Membro richiedente sull’oggetto della presente sezione e desideri garantire l’osservanza di dette disposizioni, fatte salve qualsiasi azione ai sensi di legge e la piena libertà di una decisione definitiva per ciascuno dei due Membri. Il Membro al quale viene rivolta la richiesta di consultazioni mostra di buon grado la massima disponibilità e offre adeguate opportunità per le consultazioni con il Membro 437 richiedente; collabora inoltre fornendo informazioni non riservate pubblicamente disponibili pertinenti al problema in questione e altre informazioni a sua disposizione, fatte salve le normative nazionali e la conclusione di accordi reciprocamente soddisfacenti in ordine alla tutela del loro carattere riservato da parte del Membro richiedente. 4. Qualora cittadini di un Membro o residenti nel suo territorio siano soggetti in un altro Membro a procedimenti per presunta violazione delle disposizioni legislative e regolamentari di quest’ultimo relative all’oggetto della presente sezione, al primo Membro viene concessa, su richiesta, dall’altro Membro la possibilità di consultazioni alle condizioni di cui al paragrafo 3. PARTE III TUTELA DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE Sezione 1 Obblighi generali Art. 41 1. I Membri fanno in modo che le loro legislazioni prevedano le procedure di tutela di cui alla presente parte in modo da consentire un’azione efficace contro qualsiasi violazione dei diritti di proprietà intellettuale contemplati dal presente Accordo, ivi compresi rapidi mezzi per impedire violazioni e mezzi che costituiscano un deterrente contro ulteriori violazioni. Le procedure in questione si applicano in modo da evitare la creazione di ostacoli ai legittimi scambi e fornire salvaguardie contro il loro abuso. 2. Le procedure atte ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale sono leali ed eque. Esse non sono indebitamente complicate o costose né comportano termini irragionevoli o ritardi ingiustificati. 3. Le decisioni sul merito di una controversia sono preferibilmente formulate per iscritto e motivate. Esse sono rese accessibili almeno alle parti del procedimento senza indebito indugio. Le decisioni sul merito di una controversia sono basate soltanto sugli elementi di prova in relazione ai quali è stata concessa alle parti la possibilità di essere sentite. 4. Le parti di un procedimento hanno la possibilità di promuovere un riesame da parte di un’autorità giudiziaria delle decisioni amministrative definitive e, fatte salve le disposizioni giurisdizionali della legislazione di un Membro relative all’importanza di un procedimento, almeno degli aspetti giuridici delle decisioni giudiziarie iniziali sul merito della controversia. Tuttavia non vi è alcun obbligo di prevedere un’opportunità di riesame delle assoluzioni nelle cause penali. 5. È inteso che la presente parte non crea alcun obbligo di predisporre un sistema giudiziario per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale distinto da quello per l’applicazione della legge in generale, né influisce sulla capacità dei Membri di applicare le rispettive leggi in generale. Nessuna disposizione della presente parte crea alcun obbligo riguardo alla 438 distribuzione delle risorse tra i mezzi per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale e i mezzi per l’applicazione della legge in generale. […] 9) 2011 Report on the Application of the EU Charter of Fundamental Rights […] In several initiatives, the Commission paid particular attention to the right to property (Articlev 17 of the Charter) which provides that intellectual property shall be protected. The Commission presented a Communication on 'A Single Market for Intellectual Property Rights'63, where it announced a number of initiatives, including a possible review of EU legislation on the enforcement of intellectual property rights in particular in the light of piracy over the internet. The Commission announced that such a review will require conducting an impact assessment, not only on the right to property, but also on the rights to private life, the protection of personal data, freedom of expression and information and the right to an effective remedy. As explained in the Charter Strategy, highlighting potential fundamental rights aspects upstream of the preparation of proposals encourage contributions that will feed into the impact assessment of the review. […] 439 La proprietà europea conformazione e limiti esterni tra 10) caso Nold (1974) I) SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CE DEL 14 MAGGIO 1974. - J. NOLD, KOHLEN- UND BAUSTOFFGROSSHANDLUNG CONTRO COMMISSIONE DELLE COMUNITA'EUROPEE. - CAUSA 4/73. Massima 1. LA COMMISSIONE HA FACOLTA DI AUTORIZZARE UNA DISCIPLINA COMMERCIALE LIMITATIVA DELL' AMMISSIONE ALL'ACQUISTO DIRETTO DI COMBUSTIBILI, GIUSTIFICATA DALLA NECESSITA DI RAZIONALIZZARE LA DISTRIBUZIONE, A CONDIZIONE CHE ESSA VENGA APPLICATA ALLA STESSA STREGUA PER TUTTE LE IMPRESE INTERESSATE. 2. I DIRITTI FONDAMENTALI FANNO PARTE INTEGRANTE DEI PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO, DI CUI LA CORTE DI GIUSTIZIA GARANTISCE L'OSSERVANZA. NEL GARANTIRE LA TUTELA DI TALI DIRITTI, LA CORTE E TENUTA AD ISPIRARSI ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E NON POTREBBE AMMETTERE PROVVEDIMENTI INCOMPATIBILI CON I DIRITTI FONDAMENTALI RICONOSCIUTI E GARANTITI DALLA COSTITUZIONE DI TALI STATI. I TRATTATI INTERNAZIONALI RELATIVI ALLA TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO, CUI GLI STATI MEMBRI HANNO COOPERATO O ADERITO, POSSONO DEL PARI FORNIRE ELEMENTI DI CUI OCCORRE TENERE CONTO NELL' AMBITO DEL DIRITTO COMUNITARIO. 3. BENCHE L'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI TUTTI GLI STATI MEMBRI TUTELI IL DIRITTO DI PROPRIETA’ E DI ANALOGA TUTELA FRUISCANO IL LIBERO ESERCIZIO DEL COMMERCIO, DEL LAVORO E DI ALTRE ATTIVITA ECONOMICHE, I DIRITTI COSI' GARANTITI, LUNGI DAL COSTITUIRE PREROGATIVE ASSOLUTE, VANNO CONSIDERATI ALLA LUCE DELLA FUNZIONE SOCIALE DEI BENI E DELLE ATTIVITA, OGGETTO DELLA TUTELA. PER QUESTA RAGIONE, LA GARANZIA CONCESSA AI DIRITTI DI TAL SORTA, FA GENERALMENTE SALVE LE LIMITAZIONI POSTE IN VISTA DELL'INTERESSE PUBBLICO. NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, APPARE TALVOLTA LEGITTIMO SOTTOPORRE DETTI DIRITTI A LIMITI GIUSTIFICATI DAGLI OBIETTIVI DI INTERESSE GENERALE PERSEGUITI DALLA COMUNITA, PERCHE NON RESTI LESA LA SOSTANZA DEI DIRITTI STESSI. NON SI POSSONO COMUNQUE ESTENDERE LE GARANZIE SUMMENZIONATE ALLA PROTEZIONE DI SEMPLICI INTERESSI O POSSIBILITA D'INDOLE 440 COMMERCIALE, LA CUI NATURA ALEATORIA NELL'ESSENZA STESSA DELL'ATTIVITA ECONOMICA. E INSITA Parti NELLA CAUSA 4-73, J. NOLD, KOHLEN-UND BAUSTOFFGROSSHANDLUNG, SOCIETA IN ACCOMANDITA SEMPLICE, CON SEDE IN DARMSTADT, CON L'AVV. MANFRED LUETKEHAUS, DEL FORO DI ESSEN, E CON DOMICILIO ELETTO IN LUSSEMBURGO, PRESSO L'AVV. ANDRE ELVINGER, 84, GRAND-RUE, RICORRENTE, CONTRO COMMISSIONE DELLE COMUNITA' EUROPEE, RAPPRESENTATA DAL SUO CONSIGLIERE GIURIDICO SIG. DIETER OLDEKOP, IN QUALITA D'AGENTE, E CON DOMICILIO ELETTO IN LUSSEMBURGO, PRESSO IL PROPRIO CONSIGLIERE GIURIDICO, SIG. PIERRE LAMOUREUX, 4, BOULEVARD ROYAL, CONVENUTA, E RUHRKOHLE AKTIENGESELLSCHAFT, SOCIETA PER AZIONI, CON SEDE IN ESSEN, NONCHE RUHRKOHLE VERKAUFS-GESELLSCHAFT MBH, RESPONSABILITA LIMITATA, CON SEDE IN ESSEN, SOCIETA A RAPPRESENTATA DALL'AVV. OTFRIED LIEBERKNECHT, DEL FORO DI DUESSELDORF, E CON DOMICILIO ELETTO IN LUSSEMBURGO, PRESSO L'AVV. ALEX BONN, 22, COTE D'EICH, INTERVENIENTI A SOSTEGNO DELLA CONVENUTA, Oggetto della causa CAUSA AVENTE AD OGGETTO L'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE DELLA COMMISSIONE 21 DICEMBRE 1972, RELATIVA ALL'AUTORIZZAZIONE DI NUOVE NORME DI VENDITA DELLA RUHRKOHLE AG, Motivazione della sentenza 1 CON RICORSO DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 31 GENNAIO 1973, LA DITTA J. NOLD, SOCIETA IN ACCOMANDITA SEMPLICE, CON SEDE IN DARMSTADT, CHE ESERCITA IL COMMERCIO ALL' INGROSSO DI CARBONE E DI MATERIALE EDILIZIO, HA CHIESTO NELL'ULTIMA VERSIONE DELLE SUE CONCLUSIONI L'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE DELLA COMMISSIONE 21 DICEMBRE 1972, RELATIVA ALL' AUTORIZZAZIONE DI NUOVE NORME DI VENDITA DELLA RUHRKOHLE AG (GU 1973, N. L 120, PAG. 14) E, IN SUBORDINE, CHE SI DICHIARI DETTA DECISIONE NULLA E PRIVA DI EFFETTI NEI CONFRONTI DELLA RICORRENTE NELLA PARTE AD ESSA RELATIVA. LA RICORRENTE FA IN SOSTANZA CARICO ALLA DECISIONE DI AVER AUTORIZZATO GLI 441 UFFICI DI VENDITA DELLE IMPRESE MINERARIE DEL BACINO DELLA RUHR A SUBORDINARE L'ACQUISTO DIRETTO DI CARBONE ALLA STIPULAZIONE DI CONTRATTI FERMI BIENNALI, AVENTI AD OGGETTO L'ACQUISTO ANNUO DI UN MINIMO DI 6 000 TONNELLATE PER IL RIFORNIMENTO DEI SETTORI DOMESTICI E DELLA PICCOLA INDUSTRIA, QUANTITATIVO CHE SUPERA DI GRAN LUNGA LE PROPRIE VENDITE ANNUALI IN DETTO SETTORE, E DI AVERLA QUINDI ESCLUSA DALLA SUA POSIZIONE DI GROSSISTA DI PRIMA MANO. SULLA RICEVIBILITA 2 LA COMMISSIONE NON HA CONTESTATO LA RICEVIBILITA DELLA DOMANDA INTRODUTTIVA. LA RUHRKOHLE AG E LA RUHRKOHLEVERKAUFS GMBH, INTERVENIENTI, HANNO ECCEPITO L'IRRICEVIBILITA DEL RICORSO PER MANCANZA D'INTERESSE AD AGIRE DA PARTE DELLA RICORRENTE. ESSE SOSTENGONO IN EFFETTI CHE, DATO E NON CONCESSO CHE QUEST' ULTIMA RIUSCISSE AD OTTENERE L'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE 21 DICEMBRE 1972, LA SENTENZA DELLA CORTE PRODURREBBE L'EFFETTO DI RIPRISTINARE LA DISCIPLINA COMMERCIALE PRECEDENTE A QUELLA CHE COSTITUISCE OGGETTO DELLA DECISIONE IN QUESTIONE. LA RICORRENTE NON POSSEDEVA NEMMENO I REQUISITI CONTEMPLATI DALLA PRECEDENTE DISCIPLINA, DI GUISA CHE ESSA PERDEREBBE COMUNQUE LA SUA QUALITA DI GROSSISTA DI PRIMA MANO. 3 QUESTA ECCEZIONE VA DISATTESA. INFATTI, NEL CASO IN CUI LA DECISIONE IMPUGNATA VENISSE ANNULLATA, E PREVEDIBILE CHE LA COMMISSIONE PROCEDEREBBE NEL SENSO CHE LA DISCIPLINA COMMERCIALE AUTORIZZATA VENGA SOSTITUITA DA NUOVE DISPOSIZIONI, PIU CONSONE ALLA CONDIZIONE DELLA RICORRENTE. NON SI PUO' QUINDI NEGARE CHE QUESTA ABBIA INTERESSE ALL'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE DI CUI TRATTASI. NEL MERITO 4 LA RICORRENTE, IN MERITO AI MOTIVI D' ANNULLAMENTO CONTEMPLATI DALL'ART. 33 DEL TRATTATO CECA, NON HA PRECISATO QUALI MEZZI ABBIA DEDOTTO AVVERSO LA DECISIONE IMPUGNATA. 5 COMUNQUE, UNA PARTE CONSIDEREVOLE DELLA SUA ARGOMENTAZIONE VA DI PRIMO ACCHITO DISATTESA, NELLA MISURA IN CUI ESSA SI RIFERISCE ALLE CENSURE AVENTI AD OGGETTO, NON GIA LE DISPOSIZIONI DELLA DECISIONE IMPUGNATA DELLA COMMISSIONE, BENSI' LE SUE RELAZIONI CON LE INTERVENIENTI. 6 NEI LIMITI IN CUI LE CENSURE RIGUARDANO LA DECISIONE DELLA COMMISSIONE, LE DEDUZIONI SCRITTE E ORALI DELLA 442 RICORRENTE RIENTRANO ANCORA, IN SOSTANZA, NEI MEZZI DI VIOLAZIONE DI FORME ESSENZIALI E DI VIOLAZIONE DEL TRATTATO O DELLE NORME GIURIDICHE RELATIVE ALLA SUA APPLICAZIONE. TALI MEZZI VERTONO, PIU PARTICOLARMENTE, PER QUANTO RIGUARDA LE NUOVE CONDIZIONI STABILITE PER IL RIFORNIMENTO DIRETTO DA PARTE DELLE MINIERE DI CARBONE, SULL'INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE IMPUGNATA, SULLA DISCRIMINAZIONE NEI CONFRONTI DELLA RICORRENTE, NONCHE SULLA PRETESA VIOLAZIONE DEI SUOI DIRITTI FONDAMENTALI. 1 . SULLE CENSURE DI INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE E DI DISCRIMINAZIONE 7 CON DECISIONE 27 NOVEMBRE 1969 LA COMMISSIONE, A NORMA DELL' ART. 66, N . 1 E N . 2 DEL TRATTATO CECA, AUTORIZZAVA LA FUSIONE DELLA QUASI TOTALITA DELLE IMPRESE MINERARIE DEL BACINO DELLA RUHR IN UN' UNICA SOCIETA, LA RUHRKOHLE AG, CUI L' ART . 2, N . 1, DI TALE DECISIONE HA FATTO OBBLIGO DI SOTTOPORRE ALL'AUTORIZZAZIONE DELLA STESSA COMMISSIONE QUALSIASI MODIFICA DELLE PROPRIE NORME DI VENDITA. IN DATA 30 GIUGNO 1972, LA RUHRKOHLE AG RIVOLGEVA ALLA COMMISSIONE UNA DOMANDA IN TAL SENSO. L'AUTORIZZAZIONE DELLA COMMISSIONE VENIVA CONCESSA CON DECISIONE 21 DICEMBRE 1972, OGGETTO DELLA PRESENTE CONTROVERSIA. CON LA DISCIPLINA COSI' OMOLOGATA, SONO STATE STABILITE NUOVE CONDIZIONI IN MERITO AI QUANTITATIVI MINIMI CHE I GROSSISTI DEVONO IMPEGNARSI AD ACQUISTARE PER POTER FRUIRE DELL' APPROVVIGIONAMENTO DIRETTO DA PARTE DEL PRODUTTORE. GLI ACQUISTI DIRETTI, IN ISPECIE, SONO SUBORDINATI ALLA STIPULAZIONE DA PARTE DEL GROSSISTA DI CONTRATTI BIENNALI AVENTI AD OGGETTO L'ACQUISTO DI UN QUANTITATIVO MINIMO DI 6 000 TONNELLATE ANNUE, DESTINATE ALL' APPROVVIGIONAMENTO DEL SETTORE DOMESTICO E DELLA PICCOLA INDUSTRIA. 8 SI FA CARICO ALLA COMMISSIONE DI AVER CONSENTITO ALLA RUHRKOHLE AG DI STABILIRE ARBITRARIAMENTE QUESTA CLAUSOLA DI GUISA CHE, IN CONSIDERAZIONE DELL' AMMONTARE E DELLA NATURA DELLE SUE VENDITE ANNUALI, LA RICORRENTE SI TROVA AD ESSERE TAGLIATA FUORI DAL RIFORNIMENTO DIRETTO E RIDOTTA ALLA CONDIZIONE DI GROSSISTA DI SECONDA MANO, CON GLI INCONVENIENTI COMMERCIALI CHE NE CONSEGUONO. DA UN CANTO, LA RICORRENTE CONSIDERA COME DISCRIMINATORIO IL FATTO CHE, A DIFFERENZA DELLE ALTRE IMPRESE, ESSA E STATA ESCLUSA DAL RIFORNIMENTO DIRETTO DA PARTE DEL PRODUTTORE E VIENE COSI' A TROVARSI IN UNA SITUAZIONE PIU SFAVOREVOLE RISPETTO A QUELLA DEI GROSSISTI CHE CONTINUANO A FRUIRE 443 DI TALE VANTAGGIO. D'ALTRO CANTO, ESSA INVOCA L'ART. 65, N. 2, CHE, IN UNA SITUAZIONE ANALOGA A QUELLA CONTEMPLATA DALL' ART. 66, AUTORIZZEREBBE ACCORDI DI VENDITA IN COMUNE ALLA SOLA CONDIZIONE CHE ESSI CONTRIBUISCANO "AL MIGLIORAMENTO NOTEVOLE DELLA PRODUZIONE O DELLA DISTRIBUZIONE DEI PRODOTTI CONSIDERATI". 9 LA COMMISSIONE, NELLA MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE, HA EVIDENZIATO DI RENDERSI CONTO DEL FATTO CHE L'INTRODUZIONE DI NUOVE NORME DI VENDITA AVREBBE COMPORTATO IL VENIR MENO, PER UN CERTO NUMERO DI GROSSISTI, DELLA POSSIBILITA D' ACQUISTARE DIRETTAMENTE PRESSO IL PRODUTTORE, NON POTENDO ESSI ASSUMERE GLI IMPEGNI SOPRA INDICATI. ESSA GIUSTIFICA TALE PROVVEDIMENTO CON IL FATTO CHE LA RUHRKOHLE AG, DI FRONTE AL FORTE CALO DELLE VENDITE DI CARBONE, E STATA COSTRETTA A RAZIONALIZZARE LA PROPRIA DISTRIBUZIONE, LIMITANDO I RAPPORTI DIRETTI AI GROSSISTI CHE SONO IN GRADO DI GARANTIRLE UN GIRO DI VENDITE ADEGUATO. LA NECESSITA DI UN IMPEGNO CONTRATTUALE VERTENTE SU UN TONNELLAGGIO ANNUO MINIMO, DEVE, IN EFFETTI, ASSICURARE ALLE MINIERE DI CARBONE UNO SMERCIO REGOLARE, IN QUANTITA ADEGUATA AL RITMO DELLA LORO PRODUZIONE. 10 DALLE DELUCIDAZIONI FORNITE DALLA COMMISSIONE E DALLE INTERVENIENTI SI DESUME CHE LA DETERMINAZIONE DEI CRITERI SUINDICATI PUO' ESSERE GIUSTIFICATA NON SOLTANTO DALLE TECNICHE USATE NELLO SFRUTTAMENTO DELLE MINIERE DI CARBONE, MA ANCHE DALLE DIFFICOLTA ECONOMICHE SPECIFICHE DETERMINATESI A SEGUITO DELLA DIMINUZIONE DELLA PRODUZIONE CARBONIFERA. TALI CRITERI, PERCIO', STABILITI CON UN ATTO AVENTE EFFETTO ERGA OMNES, NON POSSONO VENIR CONSIDERATI COME DISCRIMINATORI E APPAIONO ADEGUATAMENTE MOTIVATI NELLA DECISIONE 21 DICEMBRE 1972. PER QUANTO RIGUARDA L'APPLICAZIONE DI TALI CRITERI, NON E STATO SOSTENUTO CHE LA RICORRENTE SIA STATA TRATTATA IN MODO DIVERSO RISPETTO ALLE ALTRE IMPRESE CHE, NON POSSEDENDO I REQUISITI POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA, HANNO COME ESSA PERDUTO IL VANTAGGIO DELL'AMMISSIONE ALL'ACQUISTO DIRETTO PRESSO IL PRODUTTORE. 11 I MEZZI IN ESAME VANNO QUINDI DISATTESI. 2. SULLA CENSURA DI VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI 12 LA RICORRENTE INFINE DEDUCE LA VIOLAZIONE DI TALUNI DIRITTI FONDAMENTALI PER IL FATTO CHE LE LIMITAZIONI APPORTATE DALLA NUOVA DISCIPLINA COMMERCIALE AUTORIZZATA DALLA COMMISSIONE, ESCLUDENDOLA DAL RIFORNIMENTO DIRETTO, MENOMEREBBERO LA REDDITIVITA DELLA SUA AZIENDA E IL LIBERO ESPLETAMENTO DELL' ATTIVITA 444 COMMERCIALE DI QUESTA, FINO A COMPROMETTERNE L'ESISTENZA. IN TAL MODO, SAREBBERO STATI LESI NELLA SUA PERSONA UN DIRITTO ASSIMILABILE AL DIRITTO DI PROPRIETA, NONCHE IL DIRITTO ALLA LIBERA ESPLICAZIONE DELLE ATTIVITA ECONOMICHE, DIRITTI TUTELATI DALLA LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA, COME PURE DALLE COSTITUZIONI DI ALTRI STATI MEMBRI, E DA DIVERSI TRATTATI INTERNAZIONALI, IN PARTICOLARE LA CONVENZIONE EUROPEA A TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO, DEL 4 NOVEMBRE 1950, IVI COMPRESO IL PROTOCOLLO AGGIUNTIVO 20 MARZO 1952. 13 COME QUESTA CORTE HA GIA AVUTO OCCASIONE DI AFFERMARE, I DIRITTI FONDAMENTALI FANNO PARTE INTEGRANTE DEI PRINCIPI, GENERALI DEL DIRITTO, DI CUI ESSA GARANTISCE L'OSSERVANZA. LA CORTE, GARANTENDO LA TUTELA DI TALI DIRITTI, E TENUTA AD INSPIRARSI ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E NON POTREBBE, QUINDI, AMMETTERE PROVVEDIMENTI INCOMPATIBILI CON I DIRITTI FONDAMENTALI RICONOSCIUTI E GARANTITI DALLE COSTITUZIONI DI TALI STATI. I TRATTATI INTERNAZIONALI RELATIVI ALLA TUTELA DEI DIRITTI DELL' UOMO, CUI GLI STATI MEMBRI HANNO COOPERATO O ADERITO POSSONO DEL PARI FORNIRE ELEMENTI DI CUI OCCORRE TENERE CONTO NELL'AMBITO DEL DIRITTO COMUNITARIO. E' ALLA LUCE DI TALI PRINCIPI CHE VANNO ESAMINATE LE CENSURE ADDOTTE DALLA RICORRENTE. 14 BENCHE L'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI TUTTI GLI STATI MEMBRI TUTELI IL DIRITTO DI PROPRIETA’ E DI ANALOGA TUTELA FRUISCA IL LIBERO ESERCIZIO DEL COMMERCIO, DEL LAVORO E DI ALTRE ATTIVITA ECONOMICHE, I DIRITTI COSI' GARANTITI, LUNGI DAL COSTITUIRE PREROGATIVE ASSOLUTE, VANNO CONSIDERATI ALLA LUCE DELLA FUNZIONE SOCIALE DEI BENI E DELLE ATTIVITA OGGETTO DELLA TUTELA. PER QUESTA RAGIONE, LA GARANZIA CONCESSA AI DIRITTI DI TAL SORTA FA GENERALMENTE SALVE LE LIMITAZIONI POSTE IN VISTA DELL'INTERESSE PUBBLICO. NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, APPARE LEGITTIMO SOTTOPORRE TALI DIRITTI A TALUNI LIMITI GIUSTIFICATI DAGLI OBIETTIVI D' INTERESSE GENERALE PERSEGUITI DALLA COMUNITA’, PURCHE NON RESTI LESA LA SOSTANZA DEI DIRITTI STESSI. PER QUANTO RIGUARDA IN PARTICOLARE LA TUTELA DELL’IMPRESA, NON LA SI PUO' COMUNQUE ESTENDERE ALLA PROTEZIONE DEI SEMPLICI INTERESSI O POSSIBILITA D'INDOLE COMMERCIALE, LA CUI NATURA ALEATORIA E INSITA NELL'ESSENZA STESSA DELL'ATTIVITA ECONOMICA. 15 GLI SVANTAGGI POSTI IN EVIDENZA DALLA RICORRENTE SONO IN REALTA LA CONSEGUENZA DELL' ANDAMENTO ECONOMICO, NON GIA DELLA DECISIONE IMPUGNATA. ESSA DOVEVA, DI FRONTE AI MUTAMENTI ECONOMICI IMPOSTI DALLA REGRESSIONE DELLA PRODUZIONE CARBONIERA, ADEGUARSI ALLA NUOVA SITUAZIONE E PROCEDERE ALLE NECESSARIE RICONVERSIONI. 445 16 PER TUTTI QUESTI MOTIVI, IL MEZZO IN ESAME VA DISATTESO. 17 IL RICORSO VA PERCIO' RESPINTO. Decisione relativa alle spese 18/20 A NORMA DELL' ART. 69, PAR 2, DEL REGOLAMENTO DI PROCEDURA, LA PARTE SOCCOMBENTE E CONDANNATA ALLE SPESE. LA RICORRENTE E RIMASTA SOCCOMBENTE. L'ORDINANZA DEL PRESIDENTE 14 MARZO 1973 E L'ORDINANZA DELLA CORTE 21 NOVEMBRE 1973 HANNO RISERVATO LA DECISIONE SULLE SPESE RELATIVE, RISPETTIVAMENTE, ALLA DOMANDA DI SOSPENSIONE DELL'ESECUZIONE DELLA DECISIONE IMPUGNATA E ALLA DOMANDA D'INTERVENTO. CON ORDINANZA 21 GIUGNO 1973, LA CORTE HA CONDANNATO LA RICORRENTE ALLE SPESE SOSTENUTE, A TALE DATA, DALLE SOCIETA RUHRKOHLE AG E RUHRKOHLE-VERKAUFS GMBH, NELLA CAUSA PRINCIPALE E NEL PROCEDIMENTO SOMMARIO. Dispositivo PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, RESPINTA OGNI ALTRA CONCLUSIONE PIU AMPIA O CONTRARIA, DICHIARA E STATUISCE: 1 ) IL RICORSO E RESPINTO . 2 ) LE SPESE SONO POSTE A CARICO DELLA RICORRENTE, IVI COMPRESE LE SPESE DI CUI E STATA FATTA RISERVA CON LE ORDINANZE 14 MARZO E 21 NOVEMBRE 1973 E QUELLE CHE HANNO COSTITUITO OGGETTO DELL' ORDINANZA 21 GIUGNO 1973. 11) caso Hauer (1979) SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CE DEL 13 DICEMBRE 1979. - LISELOTTE HAUER CONTRO LAND RHEINLAND-PFALZ. (DOMANDA DI PRONUNZIA PREGIUDIZIALE, PROPOSTA DAL VERWALTUNGSGERICHT DI NEUSTADT). - DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI DI VIGNETI. - CAUSA 44/79. Massima 1 . COL DISPORRE CHE GLI STATI MEMBRI NON CONCEDANO PIU AUTORIZZAZIONI PER NUOVI IMPIANTI ' DALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL PRESENTE REGOLAMENTO ' , L ' ART . 2 , N . 1 , 2* COMMA , DEL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO N . 1162/76 , RECANTE PROVVEDIMENTI INTESI AD ADEGUARE IL POTENZIALE VITICOLO ALLE ESIGENZE DEL MERCATO , EMENDATO DAL REGOLAMENTO N . 2776/78 , ESCLUDE LA PRESA IN 446 CONSIDERAZIONE DAL MOMENTO IN CUI LA DOMANDA E STATA PRESENTATA E MANIFESTA L ' INTENZIONE DI GARANTIRE AL REGOLAMENTO EFFETTO IMMEDIATO . IL REGOLAMENTO N . 1162/76 VA QUINDI INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL SUO ART . 2 , N . 1 , SI APPLICA ANCHE ALLE DOMANDE DI AUTORIZZAZIONE DI NUOVI IMPIANTI DI VIGNETI PRESENTATE PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE . 2 . L'ART. 2, N. 1, DEL SUDDETTO REGOLAMENTO VA INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO DI CONCEDERE AUTORIZZAZIONI DI NUOVI IMPIANTI, IVI SANCITO, VALE - A PRESCINDERE DALLE ECCEZIONI CONTEMPLATE DALL ' ART. 2 , N. 2, DEL REGOLAMENTO - IN ASSOLUTO, CIOE’, IN PARTICOLARE, INDIPENDENTEMENTE DALLA QUESTIONE DELL'IDONEITA DEL TERRENO, DISCIPLINATA DAL PAR 1, 1* COMMA, 2 FRASE , E 2* COMMA, DELLA LEGGE TEDESCA RECANTE PROVVEDIMENTI PER IL SETTORE VITIVINICOLO ( WEINWIRTSCHAFTSGESETZ). 3. LA QUESTIONE DELL'EVENTUALE LESIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI DA PARTE DI UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE COMUNITA PUO ESSERE VALUTATA UNICAMENTE NELL'AMBITO DELLO STESSO DIRITTO COMUNITARIO. IL RICHIAMO AL CRITERIO DI VALUTAZIONE SPECIALE, PROPRIO DELLA LEGISLAZIONE O DELL'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI UNO STATO MEMBRO DETERMINATO, DATO CHE MENOMEREBBE L'UNITA’ SOSTANZIALE E L' EFFICACIA DEL DIRITTO COMUNITARIO, INCRINEREBBE INEVITABILMENTE L'UNITA DEL MERCATO COMUNE E COMPROMETTEREBBE LA COESIONE DELLA COMUNITA’. I DIRITTI FONDAMENTALI COSTITUISCONO PARTE INTEGRANTE DEI PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DI CUI LA CORTE GARANTISCE L'OSSERVANZA. NEL GARANTIRE LA TUTELA DI TALI DIRITTI, ESSA E TENUTA AD INFORMARSI ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI, DI GUISA CHE NON POSSONO ESSERE AMMESSI NELLA COMUNITA PROVVEDIMENTI INCOMPATIBILI COI DIRITTI FONDAMENTALI RICONOSCIUTI DALLE COSTITUZIONI DI DETTI STATI. GLI STRUMENTI INTERNAZIONALI CONCERNENTI LA TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO, CUI GLI STATI MEMBRI HANNO COLLABORATO O ADERITO, POSSONO DEL PARI FORNIRE INDICAZIONI DI CUI SI DEVE TENER CONTO NELL'AMBITO DEL DIRITTO COMUNITARIO. STANDO COSI LE COSE, I DUBBI MANIFESTATI DA UN GIUDICE NAZIONALE CIRCA LA COMPATIBILITA DI UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE COMUNITA CON LE NORME RELATIVE ALLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI, DUBBI FORMULATI CON RIFERIMENTO AL DIRITTO COSTITUZIONALE NAZIONALE, VANNO INTESI COME 447 VERTENTI SULLA VALIDITA DI TALE ATTO ALLA LUCE DEL DIRITTO COMUNITARIO. 4. NELL'ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, IL DIRITTO DI PROPRIETA’ E TUTELATO IN MODO CONFORME AI PRINCIPI COMUNI ALLE COSTITUZIONI DEGLI STATI MEMBRI, PRINCIPI CHE SI RITROVANO DEL PARI NEL PRIMO PROTOCOLLO ALLEGATO ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO. 5 . TENUTO CONTO DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI, DELLE PRATICHE LEGISLATIVE COSTANTI E DELL'ART. 1 DEL PRIMO PROTOCOLLO ALLEGATO ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO, IL FATTO CHE UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE COMUNITA RECHI RESTRIZIONI PER L'IMPIANTO DI NUOVI VIGNETI NON PUO ESSERE CONSIDERATO INCOMPATIBILE, IN LINEA DI PRINCIPIO, COL RISPETTO DOVUTO AL DIRITTO DI PROPRIETA’. OCCORRE TUTTAVIA CHE TALI RESTRIZIONI PERSEGUANO EFFETTIVAMENTE SCOPI DI INTERESSE GENERALE PROPRI DELLA COMUNITA E NON COSTITUISCANO, RISPETTO ALLO SCOPO PERSEGUITO, UN INTERVENTO SPROPORZIONATO E INACCETTABILE NELLE PREROGATIVE DEL PROPRIETARIO, TALI DA LEDERE LA SOSTANZA STESSA DEL DIRITTO DI PROPRIETA’. 6 . IL DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI DI VITI , DIVIETO STABILITO , PER UN PERIODO LIMITATO , DAL REGOLAMENTO N . 1162/76 , E GIUSTIFICATO DAGLI SCOPI DI INTERESSE GENERALE PERSEGUITI DALLA COMUNITA E CHE CONSISTONO NELLA RIDUZIONE , A BREVE TERMINE , DELLE ECCEDENZE PRODUTTIVE E NELLA PREPARAZIONE , A SCADENZA PIU LONTANA , DELLA RIORGANIZZAZIONE DELLA VITICOLTURA EUROPEA. ESSA NON LEDE QUINDI LA SOSTANZA DEL DIRITTO DI PROPRIETA’. 7. AL PARI DEL DIRITTO DI PROPRIETA’, IL DIRITTO AL LIBERO ESERCIZIO DELLE ATTIVITA PROFESSIONALI , BEN LUNGI DAL COSTITUIRE UNA PREROGATIVA ASSOLUTA , VA CONSIDERATO ALLA LUCE DELLA FUNZIONE SOCIALE DELLE ATTIVITA TUTELATE. IN PARTICOLARE, QUANDO SI TRATTA DEL DIVIETO, AD OPERA DI UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE COMUNITA’, DELL'IMPIANTO DI NUOVI VIGNETI, VA RILEVATO CHE UN PROVVEDIMENTO DEL GENERE NON INCIDE IN ALCUN MODO SULL'ACCESSO ALLA PROFESSIONE DI VITICOLTORE NE SUL LIBERO ESERCIZIO DI TALE PROFESSIONE SUI TERRENI GIA DESTINATI ALLA VITICOLTURA. PER QUANTO RIGUARDA I NUOVI IMPIANTI, L'EVENTUALE RESTRIZIONE DEL LIBERO ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI VITICOLTORE COINCIDEREBBE CON LA RESTRIZIONE STABILITA PER L'ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETA’. Parti 448 NEL PROCEDIMENTO 44/79, AVENTE AD OGGETTO LA DOMANDA DI PRONUNZIA PREGIUDIZIALE PROPOSTA ALLA CORTE, A NORMA DELL' ART. 177 DEL TRATTATO CEE, DAL VERWALTUNGSGERICHT (TRIBUNALE AMMINISTRATIVO) DI NEUSTADT AN DER WEINSTRASSE, NELLA CAUSA DINANZI AD ESSO PENDENTE FRA LISELOTTE HAUER, RESIDENTE IN BAD DURKHEIM, E LAND RHEINLAND-PFALZ ( LAND RENANIA-PALATINATO ), Oggetto della causa DOMANDA VERTENTE SULL'INTERPRETAZIONE DELL'ART. 2 DEL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976, N. 1162, 'RECANTE MISURE INTESE AD ADEGUARE IL POTENZIALE VITICOLO ALLE ESIGENZE DEL MERCATO', NELLA VERSIONE DI CUI AL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 23 NOVEMBRE 1978 , N . 2776 , IN RELAZIONE ALL'ART. 1 DEL 'GESETZ UBER MASSNAHMEN AUF DEM GEBIETE DER WEINWIRTSCHAFT WEINWIRTSCHAFTSGESETZ' (LEGGE TEDESCA RECANTE PROVVEDIMENTI PER IL SETTORE VITIVINICOLO), Motivazione della sentenza 1 CON ORDINANZA 14 DICEMBRE 1978, PERVENUTA IN CANCELLERIA IL 20 MARZO 1979, IL VERWALTUNGSGERICHT DI NEUSTADT AN DER WEINSTRASSE HA SOTTOPOSTO A QUESTA CORTE, A NORMA DELL'ART. 177 DEL TRATTATO CEE, DUE QUESTIONI PREGIUDIZIALI VERTENTI SULL' INTERPRETAZIONE DEL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976, N. 1162, RECANTE PROVVEDIMENTI INTESI AD ADEGUARE IL POTENZIALE VITICOLO ALLE ESIGENZE DEL MERCATO ( GU N. L 135, PAG. 32 ), MODIFICATO DAL REGOLAMENTO 23 NOVEMBRE 1978, N. 2776 (GU N. L 133 , PAG. 1 ). 2 RISULTA DAGLI ATTI CHE , IL 6 GIUGNO 1975 , LA SIG.RA HAUER AVEVA CHIESTO ALL ' AUTORITA COMPETENTE DEL LAND RHEINLAND-PFALZ L ' AUTORIZZAZIONE PER UN NUOVO IMPIANTO DI VITI SU UN FONDO DI SUA PROPRIETA’ NELLA ZONA DI BAD DURKHEIM . LA DOMANDA VENIVA RESPINTA CON LA MOTIVAZIONE CHE IL FONDO ERA INIDONEO ALLA VITICOLTURA AI SENSI DELLA NORMATIVA TEDESCA IN MATERIA , E CIOE LA LEGGE TEDESCA 10 MARZO 1977 , RECANTE PROVVEDIMENTI PER IL SETTORE VITIVINICOLO ( WEINWIRTSCHAFTSGESETZ ). LA SIG.RA HAUER FACEVA OPPOSIZIONE CONTRO QUESTO PROVVEDIMENTO IL 22 GENNAIO 1976 . MENTRE ERA PENDENTE QUESTA OPPOSIZIONE , VENIVA ADOTTATO IL REGOLAMENTO 17 MAGGIO 1976 , N . 1162 , CHE ALL ' ART . 2 VIETAVA , PER UN PERIODO DI TRE ANNI , QUALSIASI NUOVO IMPIANTO DI VITI . L ' 449 OPPOSIZIONE VENIVA RESPINTA DALL ' AMMINISTRAZIONE CON PROVVEDIMENTO 21 OTTOBRE 1976 , PER IL DUPLICE MOTIVO CHE IL FONDO ERA INIDONEO ALLA VITICOLTURA E CHE I NUOVI IMPIANTI DI VITI ERANO VIETATI DAL REGOLAMENTO COMUNITARIO SUMMENZIONATO . 3 DOPO CHE L'INTERESSATA AVEVA PROPOSTO RICORSO CONTRO QUESTO PROVVEDIMENTO DINANZI AL VERWALTUNGSGERICHT, L'AMMINISTRAZIONE AMMETTEVA, IN SEGUITO AI RISULTATI DI PERIZIE EFFETTUATE SULLE UVE RACCOLTE NELLA PARCELLA CATASTALE IN QUESTIONE E AD UNA TRANSAZIONE CON VARI ALTRI PROPRIETARI DI FONDI LIMITROFI , CHE IL FONDO DELLA RICORRENTE POSSEDEVA I REQUISITI MINIMI PER POTERSI CONSIDERARE, AI SENSI DELLA NORMATIVA NAZIONALE, IDONEO ALLA VITICOLTURA, E SI DICHIARAVA DISPOSTA A CONCEDERE LA RICHIESTA AUTORIZZAZIONE DOPO LA SCADENZA DEL DIVIETO DI EFFETTUARE NUOVI IMPIANTI , STABILITO DAL REGOLAMENTO COMUNITARIO . RISULTA PERTANTO CHIARO CHE ATTUALMENTE LA CONTROVERSIA FRA LE PARTI VERTE ESCLUSIVAMENTE SU QUESTIONI DI DIRITTO COMUNITARIO. 4 LA RICORRENTE NELLA CAUSA PRINCIPALE SOSTIENE CHE IL REGOLAMENTO N . 1162/76 NON PUO APPLICARSI AD UNA DOMANDA DI AUTORIZZAZIONE PRESENTATA MOLTO PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE SICCHE L ' AUTORIZZAZIONE DOVREBBE VENIRE CONCESSA ; QUAND ' ANCHE IL REGOLAMENTO SI APPLICASSE A DOMANDE PRESENTATE PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE , ESSO SAREBBE COMUNQUE INOPPONIBILE ALLA RICORRENTE IN QUANTO E INCOMPATIBILE COL SUO DIRITTO DI PROPRIETA’ E COL SUO DIRITTO AL LIBERO ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE , TUTELATI DAGLI ARTT. 12 E 14 DELLA LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA. 5 AI FINI DELLA DECISIONE DELLA CONTROVERSIA, IL VERWALTUNGSGERICHT HA RITENUTO OPPORTUNO SOLLEVARE LE DUE SEGUENTI QUESTIONI PREGIUDIZIALI: 1. SE IL REGOLAMENTO (CEE) DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976, N. 1162, NELLA VERSIONE DI CUI AL REGOLAMENTO (CEE) DEL CONSIGLIO 23 NOVEMBRE 1978, N. 2776, VADA INTERPRETATO NEL SENSO CHE L ' ART. 2, N. 1, SI APPLICA ANCHE ALLE DOMANDE DI AUTORIZZAZIONE PER I NUOVI IMPIANTI DI VITI GIA PRESENTATE PRIMA DELL'ENTRATA IN VIGORE DEL SUDDETTO REGOLAMENTO. 2. PER IL CASO DI SOLUZIONE AFFERMATIVA DELLA QUESTIONE SUB 1 ): SE L'ART. 2 , N. 1, DEL SUDDETTO REGOLAMENTO VADA INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO DI CONCEDERE AUTORIZZAZIONI DI NUOVI IMPIANTI, IVI SANCITO , VALE - A PRESCINDERE DALLE ECCEZIONI CONTEMPLATE DALL'ART. 2, N. 2, DEL REGOLAMENTO - IN ASSOLUTO, VALE A DIRE, IN 450 PARTICOLARE, INDIPENDENTEMENTE DALLA QUESTIONE DELL'IDONEITA DEL TERRENO , DISCIPLINATA DAL PAR 1 , 1* COMMA , 2A FRASE, E 2* COMMA, DELLA LEGGE TEDESCA RECANTE PROVVEDIMENTI PER IL SETTORE VITIVINICOLO (WEINWIRTSCHAFTSGESETZ). SULLA PRIMA QUESTIONE ( APPLICAZIONE NEL TEMPO DEL REGOLAMENTO N . 1162/76 ). 6 A QUESTO PROPOSITO, LA RICORRENTE NELLA CAUSA PRINCIPALE SOSTIENE CHE SE IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO SI FOSSE SVOLTO REGOLARMENTE E L ' AMMINISTRAZIONE AVESSE RICONOSCIUTO SENZA INDUGIO CHE IL FONDO DI SUA PROPRIETA’ POSSEDEVA I REQUISITI RICHIESTI DALLA LEGGE NAZIONALE PER L ' IDONEITA ALLA VITICOLTURA , L ' AUTORITA COMPETENTE AVREBBE DOVUTO NORMALMENTE ACCOGLIERE LA SUA DOMANDA , PRESENTATA FIN DAL 6 GIUGNO 1975 , GIA PRIMA DELL'ENTRATA IN VIGORE DEL REGOLAMENTO COMUNITARIO. DI QUESTO FATTO OCCORREREBBE TENER CONTO AI FINI DELL'APPLICAZIONE NEL TEMPO DEL REGOLAMENTO STESSO , TANTO PIU CHE LA PRODUZIONE DEL VIGNETO IN QUESTIONE NON AVREBBE INCISO SENSIBILMENTE SULLE CONDIZIONI DEL MERCATO, POICHE FRA L'IMPIANTO DI UN VIGNETO E L'INIZIO DELLA PRODUZIONE INTERCORRE UN CERTO LASSO DI TEMPO . 7 LA TESI SOSTENUTA DALLA RICORRENTE NON PUO VENIRE ACCOLTA . L ' ART . 2 , N . 1 , 2* COMMA , DEL REGOLAMENTO N . 1162/76 , STABILISCE INFATTI ESPRESSAMENTE CHE ' DALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL PRESENTE REGOLAMENTO ' , GLI STATI MEMBRI NON ACCORDANO PIU AUTORIZZAZIONI PER EFFETTUARE NUOVI IMPIANTI. LA MENZIONE , IVI CONTENUTA , DELL ' ATTO DI AUTORIZZAZIONE , ESCLUDE CHE POSSA AVERE RILIEVO IL MOMENTO DELLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA E RIVELA CHIARAMENTE L'INTENTO DI ATTRIBUIRE AL REGOLAMENTO EFFICACIA IMMEDIATA, TANTO PIU CHE L' ART . 4 STABILISCE CHE PERFINO I DIRITTI DI IMPIANTO O DI REIMPIANTO ACQUISITI ANTERIORMENTE ALL' ENTRATA IN VIGORE DEL REGOLAMENTO SONO SOSPESI PER LA DURATA DEL DIVIETO. 8 COME AFFERMATO AL SESTO PUNTO DEL PREAMBOLO, IL DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI E IMPOSTO DA UN' INTERESSE PUBBLICO PERENTORIO 'VALE A DIRE L' ESIGENZA DI PORRE UN FRENO ALLA SOVRAPPRODUZIONE DI VINO NELLA COMUNITA’, DI RISTABILIRE L'EQUILIBRIO DEL MERCATO E DI PREVENIRE LA FORMAZIONE DI ECCEDENZE STRUTTURALI. RISULTA PERTANTO CHE IL REGOLAMENTO N. 1162/76 HA LO SCOPO DI BLOCCARE, CON EFFETTO IMMEDIATO, L'INCREMENTO DELLA SUPERFICIE VITICOLA ESISTENTE, SICCHE NON SI GIUSTIFICHEREBBE UN'ECCEZIONE A FAVORE DELLE DOMANDE PRESENTATE PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE. 451 9 LA PRIMA QUESTIONE VA DUNQUE RISOLTA COME SEGUE: IL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976 , N. 1162, MODIFICATO DAL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 23 NOVEMBRE 1978, N. 2776, VA INTERPRETATO NEL SENSO CHE L'ART. 2 , N . 1, DI ESSO SI APPLICA ANCHE ALLE DOMANDE DI AUTORIZZAZIONE DI NUOVI IMPIANTI DI VIGNETI PRESENTATE ANTERIORMENTE ALL'ENTRATA IN VIGORE DEL PRIMO REGOLAMENTO. SULLA SECONDA QUESTIONE REGOLAMENTO N . 1162/76) (PORTATA MATERIALE DEL 10 CON LA SECONDA QUESTIOINE, IL VERWALTUNGSGERICHT CHIEDE ALLA CORTE SE IL DIVIETO DI CONCEDERE AUTORIZZAZIONI PER I NUOVI IMPIANTI, SANCITO DALL'ART. 2 , N. 1, DEL REGOLAMENTO N. 1162/76, SI APPLICHI IN ASSOLUTO, SE CIOE CONCERNA ANCHE TERRENI RICONOSCIUTI IDONEI ALLA VITICOLTURA SECONDO I CRITERI DELLA LEGGE NAZIONALE. 11 LA LETTERA DEL REGOLAMENTO E ESPLICITA A QUESTO PROPOSITO, IN QUANTO L'ART. 2 VIETA ‘QUALSIASI NUOVO IMPIANTO’ , PRESCINDENDO DALLE CARATTERISTICHE DEI FONDI. SIA DALLA LETTERA CHE DAGLI SCOPI DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 RISULTA CHE IL DIVIETO DEVE APPLICARSI A TUTTI I NUOVI IMPIANTI, INDIPENDENTEMENTE DALLE CARATTERISTICHE DEI TERRENI E DALLA CLASSIFICAZIONE DEI MEDESIMI SECONDO LA LEGGE NAZIONALE. INFATTI, IL REGOLAMENTO E VOLTO, COME RISULTA IN PARTICOLARE DAL SECONDO PUNTO DEL PREAMBOLO, A POR FINE ALLA SOVRAPPRODUZIONE DELLA VITICOL TURA IN EUROPA E A RISTABILIRE, SIA A BREVE CHE A LUNGO TERMINE, L'EQUILIBRIO DEL MERCATO. UNICHE ECCEZIONI ALLA PORTATA GENERALE DEL DIVIETO SANCITO DALL'ART. 2, N.1, SONO QUELLE CONTEMPLATE AL N. 2 DELLO STESSO ARTICOLO , MA E PACIFICO CHE NESSUNA DI ESSE RICORRE NEL CASO DI SPECIE. 12 PERTANTO, LA SECONDA QUESTIONE DEV'ESSERE COSI RISOLTA: L'ART. 2, N . 1 , DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 , VA INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO DI CONCEDERE AUTORIZZAZIONI PER NUOVI IMPIANTI IVI SANCITO, VALE - A PRESCINDERE DALLE ECCEZIONI CONTEMPLATE DALL ' ART . 2, N . 2 , DEL REGOLAMENTO - IN ASSOLUTO, CIOE’, IN PARTICOLARE, INDIPENDENTEMENTE DAL FATTO CHE IL TERRENO SIA O NO ADATTO ALLA COLTURA DELLA VITE IN BASE AI CRITERI STABILITI DAL DIRITTO NAZIONALE. SULLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO 13 NELL'ORDINANZA DI RINVIO, IL VERWALTUNGSGERICHT AGGIUNGE CHE , PER IL CASO IN CUI IL REGOLAMENTO N. 1162/76 ANDASSE INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO IVI SANCITO HA PORTATA GENERALE, VALE A DIRE SI APPLICA ANCHE AI TERRENI IDONEI ALLA VITICOLTURA , LA RELATIVA DISPOSIZIONE ANDREBBE PROBABILMENTE CONSIDERATA 452 INAPPLICABILE NELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA, POICHE’ SAREBBE DUBBIA LA SUA COMPATIBILITA CON LA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI, GARANTITA DAGLI ARTT. 12 E 14 DELLA LEGGE FONDAMENTALE, IN MATERIA DI DIRITTO DI PROPRIETA’ E, RISPETTIVAMENTE, DI LIBERO ESERCIZIO DELL'ATTIVITA’ PROFESSIONALE. 14 COME AFFERMATO DALLA CORTE NELLA SENTENZA 17 DICEMBRE 1970 (INTERNATIONALE HANDELSGESELLSCHAFT, RACC. PAG. 1125), EVENTUALI QUESTIONI RELATIVE ALLA VIOLAZIONE DI DIRITTI FONDAMENTALI MEDIANTE ATTI EMANANTI DALLE ISTITUZIONI DELLA COMUNITA POSSONO ESSERE VALUTATE UNICAMENTE ALLA STREGUA DEL DIRITTO COMUNITARIO. IL RICHIAMO A CRITERI DI VALUTAZIONE SPECIALI, PROPRI DELLA LEGISLAZIONE O DEL SISTEMA COSTITUZIONALE DI UNO STATO MEMBRO, INCRINEREBBE INEVITABILMENTE L’UNITA’ DEL MERCATO COMUNE E COMPROMETTEREBBE LA COESIONE DELLA COMUNITA’, GIACCHE’ MENOMEREBBE L ' UNITA E L ' EFFICACIA DEL DIRITTO COMUNITARIO. 15 LA CORTE HA ALTRESI DICHIARATO , NELLA SENTENZA SUMMENZIONATA E , IN SEGUITO , NELLA SENTENZA 14 MAGGIO 1974 ( NOLD , RACC . PAG . 491 ) CHE I DIRITTI FONDAMEN TALI COSTITUISCONO PARTE INTEGRANTE DEI PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO , DI CUI ESSA GARANTISCE L'OSSERVANZA; NEL GARANTIRE LA TUTELA DI TALI DIRITTI, ESSA E TENUTA AD ISPIRARSI ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E NON POTREBBE, QUINDI, AMMETTERE PROVVEDIMENTI INCOMPATIBILI CON I DIRITTI FONDAMENTALI RIONOSCIUTI E GARANTITI DALLE COSTITUZIONI DI TALI STATI ; I TRATTATI INTERNAZIONALI IN MATERIA DI TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO, CUI GLI STATI MEMBRI HANNO COOPERATO O ADERITO, POSSONO DEL PARI FORNIRE ELEMENTI DI CUI OCCORRE TENERE CONTO NELL' AMBITO DEL DIRITTO COMUNITARIO. QUESTO ORIENTAMENTO E STATO RIAFFERMATO DALLA DICHIARAZIONE COMUNE DELL'ASSEMBLEA, DEL CONSIGLIO E DELLA COMMISSIONE, DEL 5 APRILE 1977, LA QUALE, DOPO AVERE RICORDATO LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE, FA RIFERIMENTO TANTO AI DIRITTI GARANTITI DALLE COSTITUZIONI DEGLI STATI MEMBRI, QUANTO ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI, DEL 4 NOVEMBRE 1950 ( GU 1977, N. C 103 , PAG. 1 ). 16 ALLA LUCE DI QUANTO ESPOSTO , SI DEVE RITENERE CHE I DUBBI SOLLEVATI DAL VERWALTUNGSGERICHT IN MERITO ALLA COMPATIBILITA DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 CON LE NORME VOLTE ALLE TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI CONCERNANO LA LEGITTIMITA DEL REGOLAMENTO SOTTO IL PROFILO DEL DIRITTO COMUNITARIO; A QUESTO PROPOSITO, OCCORRE VALUTARE SEPARATAMENTE L ' EVENTUALE LESIONE DEL DIRITTO DI 453 PROPRIETA’ E LE EVENTUALI LIMITAZIONI DEL DIRITTO AL LIBERO ESERCIZIO DELL'ATTIVITA PROFESSIONALE. SUL DIRITTO DI PROPRIETA’ 17 NELL'ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, IL DIRITTO DI PROPRIETA’ E TUTELATO ALLA STREGUA DEI PRINCIPI COMUNI ALLE COSTITUZIONI DEGLI STATI MEMBRI, RECEPITI NEL PROTOCOLLO ADDIZIONALE ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO. 18 L ' ART . 1 DI DETTO PROTOCOLLO RECITA : 'OGNI PERSONA FISICA E MORALE HA DIRITTO AL RISPETTO DEI SUOI BENI. NESSUNO PUO ESSERE PRIVATO DELLA SUA PROPRIETA’ SALVO CHE PER CAUSA DI UTILITA PUBBLICA E NELLE CONDIZIONI PREVISTE DALLA LEGGE E DAI PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE. LE DISPOSIZIONI PRECEDENTI NON PORTANO PREGIUDIZIO AL DIRITTO DEGLI STATI DI METTERE IN VIGORE LE LEGGI DA ESSI GIUDICATE NECESSARIE PER REGOLARE L'USO DEI BENI IN MODO CONFORME ALL' INTERESSE GENERALE E PER ASSICURARE IL PAGAMENTO DELLE IMPOSTE E DI ALTRE CONTRIBUZIONI O DELLE AMMENDE'. 19 QUESTA NORMA , DOPO AVER AFFERMATO IL PRINCIPIO DEL RISPETTO DELLA PROPRIETA, CONTEMPLA DUE FORME DI POSSIBILI LESIONI DEI DIRITTI DEL PROPRIETARIO , VALE A DIRE QUELLE CONSISTENTI NEL PRIVARE IL PROPRIETARIO DEL SUO DIRITTO E QUELLE CONSISTENTI NEL LIMITARE L'ESERCIZIO DI QUESTO . NEL CASO DI SPECIE , E INCONTESTABILE CHE IL DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI NON PUO CONSIDERARSI COME UN ATTO COMPORTANTE LA PRIVAZIONE DELLA PROPRIETA’ , ATTESO CHE IL PROPRIETARIO RIMANE LIBERO DI DISPORRE DEI PROPRI BENI E DI DESTINARLI A QUALSIASI ALTRO USO NON VIETATO. PER CONTRO, NON V'E DUBBIO CHE DETTO DIVIETO LIMITI L'ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETA’. L'ART . 1 , 2* COMMA, DEL PROTOCOLLO, CHE SANCISCE IL DIRITTO DEGLI STATI 'DI METTERE IN VIGORE LE LEGGI DA ESSI GIUDICATE NECESSARIE PER REGOLARE L'USO DEI BENI IN MODO CONFORME ALL'INTERESSE GENERALE' , FORNISCE UN'INDICAZIONE IMPORTANTE IN PROPOSITO IN QUANTO AMMETTE IN LINEA DI PRINCIPIO LA LICEITA DELLE RESTRIZIONI ALL'ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETA, A CONDIZIONE CHE QUESTE RESTINO NEL LIMITE DI QUANTO GIUDICATO DAGLI STATI 'NECESSARIO' AI FINI DELLA TUTELA DELL'INTERESSE GENERALE'. QUESTA NORMA NON PERMETTE TUTTAVIA DI FORNIRE UNA SOLUZIONE SUFFICIENTEMENTE PRECISA ALLA QUESTIONE SOLLEVATA DAL VERWALTUNGSGERICHT. 454 20 PER LA SOLUZIONE DI DETTA QUESTIONE OCCORRE PERTANTO TENER CONTO ALTRESI DELLE INDICAZIONI FORNITE DALLE NORME E DALLE PRASSI COSTITUZIONALI DEI NOVE STATI MEMBRI . A QUESTO PROPOSITO VA ANZITUTTO CONSTATATO CHE TALI NORME E PRASSI CONSENTONO AL LEGISLATORE DI DISCIPLINARE L'USO DELLA PROPRIETA’ PRIVATA NELL'INTERESSE GENERALE. TALUNE COSTITUZIONI FANNO RIFERIMENTO, A QUESTO PROPOSITO, AGLI OBBLIGHI INERENTI ALLA PROPRIETA’ ( LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBLICA FEDERALE DI GERMANIA, ART. 14 , 2* COMMA, 1A FRASE), ALLA FUNZIONE SOCIALE DELLA STESSA ( COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA , ART . 42 , 2* COMMA ), AL PRINCIPIO CHE L ' USO DI ESSA VA SUBORDINATO ALLE ESIGENZE DEL BENE COMUNE ( LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA , ART. 14 , 2* COMMA, 2A FRASE, E COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA IRLANDESE, ART. 43 , 2* COMMA , N. 2 ), O A QUELLE DELLA GIUSTIZIA SOCIALE ( COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA IRLANDESE , ART . 43 , 2* COMMA , N. 1 ). IN TUTTI GLI STATI MEMBRI , VARI TESTI LEGISLATIVI HANNO DATO CONCRETA ESPRESSIONE A QUESTA FUNZIONE SOCIALE DEL DIRITTO DI PROPRIETA; IN CIASCUNO DI ESSI, VIGONO NORME IN MATERIA DI ECONOMIA AGRICOLA E FORESTALE, DI REGIME DELLE ACQUE, DI PROTEZIONE DELL'AMBIENTE NATURALE, DI PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE E DI URBANISTICA, CHE LIMITANO, TALVOLTA NOTEVOLMENTE, L'USO DELLA PROPRIETA’ FONDIARIA. 21 IN PARTICOLARE , IN TUTTI I PAESI DELLA COMUNITA IN CUI SI COLTIVA LA VITE VIGONO NORME IMPERATIVE, ANCHE SE NON TUTTE DELLA STESSA SEVERITA, IN MATERIA DI IMPIANTO DELLE VITI, DI SELEZIONE DELLE VARIETA E DI METODI DI COLTURA. IN NESSUNO DI ESSI QUESTE NORME SONO CONSIDERATE INCOMPATIBILI, IN LINEA DI PRINCIPIO, COLLA TUTELA DEL DIRITTO DI PROPRIETA. 22 E PERTANTO LECITO AFFERMARE , ALLA LUCE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E DELLE PRASSI LEGISLATIVE COSTANTI NELLE PIU VARIE MATERIE, CHE NESSUNA RAGIONE DI PRINCIPIO IMPEDIVA DI ASSOGGETTARE A LIMITAZIONI, CON IL REGOLAMENTO N. 1162/76 , L'IMPIANTO DI NUOVI VIGNETI. SI TRATTA DI LIMITAZIONI NOTE, IN FORME IDENTICHE O ANALOGHE, ALL'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI TUTTI GLI STATI MEMBRI, E DA QUESTO RICONOSCIUTE LEGITTIME. 23 QUESTA CONSTATAZIONE NON ESAURISCE TUTTAVIA LA QUESTIONE SOLLEVATA DAL VERWALTUNGSGERICHT: ANCHE SE NON SI PUO CONTESTARE, IN LINEA DI PRINCIPIO, LA FACOLTA DELLA COMUNITA DI STABILIRE LIMITI ALL'ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETA’ NELL' AMBITO DI UN'ORGANIZZAZIONE COMUNE DI MERCATO E AI FINI DI UNA POLITICA STRUTTURALE, OCCORRE ALTRESI ESAMINARE SE LE LIMITAZIONI IMPOSTE 455 DALLA NORMATIVA CONTROVERSA SIANO REALMENTE GIUSTIFICATE DA OBIETTIVI DI INTERESSE GENERALE DELLA COMUNITA E NON COSTITUISCANO UN' INTERVENTO INACCETTABILE E SPROPORZIONATO RISPETTO AI FINI PERSEGUITI, NELLE PREROGATIVE DEL PROPRIETARIO, TALE DA LEDERE ADDIRITTURA LA SOSTANZA DEL DIRITTO DI PROPRIETA. QUESTA E INFATTI LA CENSURA FORMULATA DALLA RICORRENTE NELLA CAUSA PRINCIPALE, LA QUALE SOSTIENE CHE SOLAMENTE NELL'AMBITO DI UNA POLITICA VOLTA AL MIGLIORAMENTO QUALITATIVO IL LEGISLATORE PUO PORRE LIMITI ALLA DISPONIBILITA DELLA PROPRIETA’ DEI FONDI DESTINATI ALLE VITICOLTURA , SICCHE’, ESSENDO IL SUO FONDO IDONEO ALLA VITICOLTURA, IL SUO DIRITTO SAREBBE INTANGIBILE. OCCORRE PERTANTO INDIVIDUARE GLI OBIETTIVI PERSEGUITI COL REGOLAMENTO CONTROVERSO, ONDE VALUTARE SE ESISTA UN RAPPORTO RAGIONEVOLE FRA I PROVVEDIMENTI DISPOSTI CON DETTO REGOLAMENTO E GLI OBIETTIVI PERSEGUITI DALLA COMUNITA. 24 LE NORME DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 VANNO CONSIDERATE NELL'AMBITO DELL'ORGANIZZAZIONE COMUNE DEL MERCATO VITIVINICOLO, LA QUALE E STRETTAMENTE CONNESSA ALLE POLITICA STRUTTURALE DELLA COMUNITA NEL SETTORE DI CUI TRATTASI . GLI SCOPI DI QUESTA SONO ENUNZIATI NEL REGOLAMENTO 28 APRILE 1970, N. 816, RELATIVO A DISPOSIZIONI COMPLEMENTARI IN MATERIA DI ORGANIZZAZIONE COMUNE DEL MERCATO VITIVINICOLO ( GU N. L 99, PAG. 1) - SUL QUALE SI FONDA IL REGOLAMENTO CONTROVERSO - E NEL REGOLAMENTO 5 FEBBRAIO 1979, N. 337, RELATIVO ALL'ORGANIZZAZIONE COMUNE DEL MERCATO VITIVINICOLO (GU N. L 54, PAG. 1), CHE HA DATO ORGANICA SISTEMAZIONE AL COMPLESSO DELLE NORME CHE REGGONO L'ORGANIZZAZIONE COMUNE DI QUESTO MERCATO. IL TITOLO III DI DETTO REGOLAMENTO, INTITOLATO “NORME RELATIVE ALLA PRODUZIONE E AL CONTROLLO DELLO SVILUPPO DEGLI IMPIANTI”, CONTIENE ATTUALMENTE LA DISCIPLINA GIURIDICA DI BASE IN MATERIA. UN ALTRO ELEMENTO CHE CONSENTE DI INDIVIDUARE LA POLITICA SEGUITA DALLA COMUNITA IN MATERIA E LA RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO DEL 21 APRILE 1975 , CONCERNENTE I NUOVI ORIENTAMENTI INTESI AD EQUILIBRARE IL MERCATO DEI VINI DA PASTO ( GU N . C 90 , PAG . 1 ). 25 DALL'INSIEME DI QUESTE NORME RISULTA CHE QUESTA POLITICA, INAUGURATA E PARZIALMENTE ATTUATA DALLA COMUNITA, CONSISTE NELL' ORGANIZZAZIONE COMUNE DEI MERCATI LEGATA AL MIGLIORAMENTO DELLE STRUTTURE DEL SETTORE VITIVINICOLO. TALE AZIONE MIRA, NELL'AMBITO DEGLI ORIENTAMENTI ENUNZIATI DALL ' ART . 39 DEL TRATTATO CEE, A UN DUPLICE OBIETTIVO: STABILIZZARE DUREVOLMENTE IL MERCATO VINICOLO AD UN LIVELLO DI PREZZI REMUNERATIVO PER I PRODUTTORI ED EQUO PER I CONSUMATORI, E MIGLIORARE LA QUALITA DEI VINI MESSI IN COMMERCIO. PER IL 456 CONSEGUIMENTO DI QUESTI DUE OBIETTIVI, L'EQUILIBRIO QUANTITATIVO E IL MIGLIORAMENTO QUALITATIVO, LA NORMATIVA COMUNITARIA SUL MERCATO VITIVINICOLO HA PREVISTO UN'AMPIA GAMMA DI INTERVENTI TANTO NELLA FASE DELLA PRODUZIONE CHE IN QUELLA DELLA DISTRIBUZIONE DEI VINI. 26 A QUESTO PROPOSITO, OCCORRE ANZITUTTO RICORDARE LE DISPOSIZIONI DELL'ART. 17 DEL REGOLAMENTO N. 816/70, RIPRESE IN FORMA PIU ELABORATA DALL'ART. 31 DEL REGOLAMENTO N. 337/79, SECONDO CUI GLI STATI MEMBRI REDIGONO PIANI DI PREVISIONE RELATIVI ALL'IMPIANTO DELLE VITI ED ALLA PRODUZIONE, DA COORDINARSI NELL'AMBITO DEL PIANO COMUNITARIO OBBLIGATORIO. PER L'ATTUAZIONE DI QUESTO PIANO POSSONO ESSERE ADOTTATI PROVVEDIMENTI RELATIVI ALL'IMPIANTO, AL REIMPIANTO, ALL'ESTIRPAZIONE O ALL'ABBANDONO DI VIGNETI. 27 E IN TALE AMBITO CHE SI INSERISCE IL REGOLAMENTO N. 1162/76. DAL SUO PREAMBOLO E DALLA SITUAZIONE ECONOMICA NELLA QUALE ESSO E STATO ADOTTATO, CARATTERIZZATA DAL FORMARSI, A PARTIRE DALLA VENDEMMIA DEL 1974, DI ECCEDENZE DI PRODUZIONE AVENTI CARATTERE PERMANENTE, RISULTA CHE QUESTO REGOLAMENTO MIRA A DUE OBIETTIVI: FAR FRONTE SUL MOMENTO AL CONTINUO AUMENTO DELLE ECCEDENZE E PERMETTERE ALLE ISTITUZIONI DI ATTUARE, IN UN PERIODO DI TEMPO ADEGUATO, UNA POLITICA STRUTTURALE VOLTA A FAVORIRE LE PRODUZIONI DI ALTA QUALITA, NEL RISPETTO DELLE PECULIARITA E DELLE ESIGENZE DELLE VARIE REGIONI VINICOLE DELLA COMUNITA, CON UN'ADEGUATA SCELTA DEI TERRENI E DELLE VARIETA, OLTRE CHE CON LA DISCIPLINA DEI METODI DI PRODUZIONE. 28 ONDE VENIRE INCONTRO A QUESTA DUPLICE ESIGENZA, IL CONSIGLIO HA SANCITO, CON IL REGOLAMENTO N. 1162/76, IL DIVIETO GENERALE DI NUOVI IMPIANTI, SENZA OPERARE, SALVO CHE PER ALCUNE IPOTESI BEN INDIVIDUATE DI CARATTERE ECCEZIONALE, ALCUNA DISTINZIONE IN RELAZIONE ALLA NATURA DEI TERRENI. VA RILEVATO CHE IL PROVVEDIMENTO DEL CONSIGLIO, NELLA SUA STRUTTURA GENERALE, HA CARATTERE TEMPORANEO, IN QUANTO VOLTO A FAR FRONTE SUL MOMENTO AD UNA ECCEDENZA CONGIUNTURALE, ED A CONSENTIRE AL TEMPO STESSO L'ELABORAZIONE DI PROVVEDIMENTI DEFINITIVI DI CARATTERE STRUTTURALE. 29 COSI INTESO, IL PROVVEDIMENTO CONTROVERSO NON STABILISCE ALCUNA ILLECITA LIMITAZIONE DELL' ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETA. INFATTI LO SFRUTTAMENTO DEI NUOVI VIGNETI, IN UNA SITUAZIONE CARATTERIZZATA DA UNA SOVRAPPRODUZIONE DUREVOLE, AVREBBE, SOTTO IL PROFILO ECONOMICO, L'UNICO EFFETTO DI AUMENTARE LE ECCEDENZE; INOLTRE, L'ESTENSIONE DELLE AREE COLTIVATE 457 COMPORTEREBBE, IN QUESTA FASE, IL RISCHIO DI RENDERE PIU DIFFICILE L'ATTUAZIONE DELLA POLITICA STRUTTURALE A LIVELLO COMUNITARIO, QUALORA QUESTA FOSSE FONDATA SU CRI