...

Syllabus Proprietà

by user

on
Category: Documents
245

views

Report

Comments

Transcript

Syllabus Proprietà
0
1
SYLLABUS
Materiali per una genealogia
della proprietà
INDICE
p. 1
PREMESSE METODOLOGICHE
a) M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in
Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, 2001
p. 7
b) I processi di globalizzazione del diritto e la
proprietà
p. 15
IL RETROTERRA GIURIDICO
P. Grossi, La proprietà e le proprietà, oggi, in G.
Collura (cur.) Coordinamento dei dottorati di
ricerca in diritto privato, Giuffrè, 2009, pp. 1-19
p. 23
PARTE I
LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE
La genealogia della proprietà nello stato
liberale.
a) La filosofia politica
1. J. Locke, Capitolo V. Della proprietà, in Due trattati sul
governo. Secondo Trattato, 1690;
p. 31
2. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789);
p. 42
2
3. K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848;
p. 43
4. Leone XIII, Enciclica Rerum Novarum, 1891;
p. 64
b) L’elaborazione dei giuristi
5. G. R. Pothier, Traite du droit de domaine de propriété, 1699;
p. 85
6. Art. 544 code civil
p. 95
7. G. W. F. Hegel, La proprietà, in Lineamenti di filosofia del
diritto, 1821, ed. it. cur. G. Marini, Laterza 1999, pp. 51-72;
p. 95
8. M. Prospero, Proprietà, mercato e imposte in Hegel, in
Scuola superiore dell'economia e delle finanze - Rivista on
line, n. 2, 2010;
p. 117
9. F. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, tr. it. V.
Scialoja, 1886, pp. 36-37, 335-347, 367-383;
p. 132
10. B. Windscheid, Capitolo IV, La proprietà, in Diritto delle
pandette, ed. originale del 1862, trad. ita. di Fadda e Bensa,
Utet, 1930 pp. 589-603;
p. 150
c) La disciplina
11. Il numero chiuso dei diritti reali: indicazioni bibliografiche
p. 153
12. Modi d’acquisto: indicazioni bibliografiche
p. 153
PARTE II
LA PROPRIETÀ NELLA SECONDA
GLOBALIZZAZIONE
La struttura della proprietà
1. W.N. Hohfeld, Alcuni concetti giuridici fondamentali nella
loro applicazione al ragionamento giudiziario, in Concetti
giuridici fondamentali, a cura di M. Losano, Einaudi 1969.
p. 154
2. La Costituzione di Weimar – 11 agosto 1919;
p. 158
3
3. Art. 832 c.c.: Riferimenti bibliografici;
p. 159
La funzione sociale
4. Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del Fascismo
il 21 aprile 1927;
p. 160
5. B. Mussolini, Discorso al Senato per lo Stato Corporativo, 13
gennaio 1934, in Opera Omnia di Benito Mussolini, XXVI, La
Fenice, Firenze, pp. 146-151;
p. 164
6. F. Ferrara, La proprietà come “dovere sociale”, in La
concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939, pp.
279-287;
p. 169
7. G. Chiarelli, Il fondamento pubblicistico della proprietà, in La
concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939,
pp.145-159;
p. 175
8. L. Mossa, Trasformazione dogmatica e positiva della
proprietà privata, in La concezione fascista della proprietà
privata, Roma 1939, pp.251-275;
p. 178
9. S. Panunzio, Prime osservazioni giuridiche sul concetto di
proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata,
Roma 1939, pp.111-123;
p. 184
10. F. Vassalli, Per una definizione legislativa del diritto di
proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata,
Roma 1939, pp. 99-108;
p. 188
11. Costituzione tedesca (1949), artt. 14 e 15, in Codice delle
Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp. 129;
p. 194
12. Preambolo cost. francese 1946
p. 195
13. S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà (con riguardo alla
proprietà terriera), in Id., La proprietà nel nuovo diritto,
Milano, Giuffré 1954, 145 ss.;
p. 197
14. S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà , in Riv. trim.
dir. e proc. civ, 1960, 1252 ss.;
p. 245
4
15. M.S. Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, da
Pol. Dir., 1971, n. 4/5, pp. 443-501;
p. 267
La funzione sociale nella giurisprudenza
costituzionale
16. Corte costituzionale, sent. N. 6/1966;
p. 295
17. Corte costituzionale, sent. N. 55/1968;
p. 305
18. A.M. Sandulli, Profili costituzionali della proprietà privata, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 465 ss.;
p. 323
19. Corte costituzionale, sent. N. 5/1980;
p. 346
20. S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, da S.
Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Il
Mulino, 1981, §9.
p. 354
PARTE III
LA PROPRIETÀ NELLA TERZA GLOBALIZZAZIONE
Alla ricerca di una nuova legittimazione
1. G. Hardin, La tragedia dei beni comuni, trad. it. di Lorenzo
Coccoli, tratta dal bollettino telematico di filosofia politica
(http://bfp.sp.unipi.it/hj05b/249);
p. 362
2. H. Demsetz, Verso una teoria dei diritti di proprietà, in E.
Colombato (a cura di), Tutti proprietari. La nuova scuola dei
property rights, Le Monnier 1980, pagg. 61-81;
p. 384
Linee di tendenza
3. A. Gambaro, Ontologia dei beni e jus excludendi, in
http://www.comparazionedirittocivile.it;
p. 397
4. Art. 1, Protocollo addizionale 1 alla CEDU;
p. 425
5. Art. 17 della Carta di Nizza;
p. 426
5
6. Costituzione spagnola (1978), art. 33, e Costituzione svizzera
(2000), art. 26, in Codice delle Costituzioni, Giappicchelli,
2009, pp. 238-239 e 286;
p. 426
7. Draft Costitution/Basic Law of Hungary (2011), Art. XII;
p. 426
8. Accordo TRIPs-Trade Related Aspects of Intellectual
Property Rights, adottato a Marrakech 15 aprile 1994 –
“Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà
intellettuale attinenti al commercio” ratificato dall’Italia con
legge 29 dicembre 1994, n. 747;
p. 427
9. 2011 Report on the Application of the EU Charter of
Fundamental Rights.
p. 438
La proprietà europea tra conformazione e
limiti esterni
10. Corte di Giustizia - caso Nold (1974)
p. 439
11. caso Hauer (1979)
p. 445
12. caso Staebelow (2006)
p. 459
13. caso Kadi (2008)
p. 465
14. caso ERG (2010)
p. 473
La misura dell’indennizzo da espropriazione
nella dialettica fra le corti
15. O. T. Scozzafava, Procedimenti ablativi e determinazione
dell’indennizzo, in I rapporti civilistici nell’interpretazione
costituzionale, ESI, 2007, pp. 49-51;
p. 478
16. Corte EDU, Caso Scordino c. Italia – 6/03/2007;
p. 480
17. Corte costituzionale, sentenze n. 348 e 349 del 2007;
p. 496
18. Art. 42 bis, d. P. R. 8 giugno 2001, n. 327, introdotto dall’art.
34, D. L 6 luglio 2011, n. 98, convertito con la Legge 15 luglio
2011, n. 111 (“occupazione acquisitiva”);
p. 567
6
19. Corte costituzionale, sentenza n. 338/2011
p. 568
La proprietà privata fra funzione sociale e
diritti umani
20. C. Salvi, Libertà economiche, funzione sociale e diritti
personali e sociali tra diritto europeo e diritti nazionali, in
http://principi-ue.unipg.it/;
p. 586
21. L. Nivarra, La proprietà europea tra controriforma e
“rivoluzione passiva”, in http://principi-ue.unipg.it/;
p. 608
22. G. Ramaccioni, La tutela multilivello del diritto di proprietà: il
caso della acquisizione sanante. Da Locke a Renner … e
ritorno!, in http://principi-ue.unipg.it/;
p. 625
23. Corte EDU, Caso Loizidou c. Turchia – 18/12/1996;
p. 630
24. Corte EDU, Caso Ecomostro
p. 638
L’altra faccia della terza globalizzazione
25. M.R. Marella, Il diritto dei beni comuni oltre il pubblico e il
privato, in G. Allegri, M. R. Allegri, A. Guerra, P. Marsocci (a
cura di), DEMOCRAZIA E CONTROLLO PUBBLICO DALLA
PRIMA MODERNITÀ AL WEB, Editoriale Scientifica, 2012;
p. 662
7
Premesse metodologiche
a) M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la
storia, in Il discorso, la storia, la verità,
Einaudi, 2001
Il materiale raccolto in questo Syllabus intende
contribuire alla costruzione di una genealogia del
diritto di proprietà. Analizzare la proprietà attraverso
questo metodo di indagine permette, infatti, di
discostarsi da un approccio prettamente storicistico,
volto alla ricerca dell’origine del concetto; l’obiettivo è,
invece, quello di comporre in un quadro complesso, e
non necessariamente coerente, le varie idee, le
differenti
narrazioni
e
filosofie
che
insieme
contribuiscono a definire la fisionomia del diritto di
proprietà e le tensioni che lo attraversano.
1. La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente
documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate,
raschiate, più volte riscritte.
Paul Ree ha torto, come gli inglesi, a descrivere delle
genesi lineari - a ordinare per esempio alla sola
preoccupazione dell'utile tutta la storia della morale:
come se le parole avessero conservato il loro senso, i
desideri la loro direzione, le idee la loro logica; come se
questo mondo di cose dette e volute non avesse
conosciuto invasioni, lotte, rapine, simulazioni,
astuzie. Di qui, per la genealogia, un'indispensabile
cautela: reperire la singolarità degli eventi al di fuori di
ogni finalità monotona; spiarli dove meno li si aspetta e
in ciò che passa per non aver storia - i sentimenti,
l'amore, la coscienza, gl'istinti; cogliere il loro ritorno,
non per tracciare la curva lenta d'un'evoluzione, ma
per ritrovare le diverse scene dove hanno giocato ruoli
diversi; definire anche l'istante della loro assenza, il
momento in cui non hanno avuto luogo (Platone a
Siracusa non è diventato Maometto...)
La genealogia esige dunque la minuzia del sapere, un
gran numero di materiali accumulati e pazienza. Le
8
sue «costruzioni ciclopiche» 1, non deve edificarle a colpi
di «errori letificanti», ma di «verità piccole e non
appariscenti, che furono trovate con metodo severo» 2.
In breve, un certo accanimento nell’erudizione. La
genealogia non si oppone alla storia come la vista
altera e profonda del filosofo allo sguardo di talpa del
dotto; s’oppone al contrario al dispiegamento
metastorico dei significati ideali e delle indefinite
teleologie. S’oppone alla ricerca dell’«origine».
[…]
Perché Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe
occasioni,
la
ricerca
dell’origine
(Ursprung)?
Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere
l'essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura,
la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la
sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è
esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale
origine, e tentare di ritrovare «quel che era già», lo
«stesso» d'un'immagine esattamente adeguata a sé; è
considerare avventizie tutte le peripezie che hanno
potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte le maschere, per
svelare infine un’identità originaria. Ora, se il
genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto
che prestar fede alla metafisica, cosa apprende? Che
dietro le cose c'è «tutt’altra cosa»: non il loro segreto
essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza
essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per
pezzo a partire da figure che le erano estranee. La
ragione? Ma è nata in modo del tutto «ragionevole», dal caso 3 . L’attaccamento alla verità e il rigore dei
metodi scientifici? Dalla passione dei dotti, dal loro
odio reciproco, dalle loro discussioni fanatiche e
sempre riprese, dal bisogno di prevalere, - armi
lentamente torgiate nel corso di lotte personali 4. E la
libertà, sarebbe forse, alla radice dell’uomo, quel che lo
lega all'essere e alla verità? Nei fatti, non e che una
1
2
3
4
La gaia scienza, paragrafo 7.
Umano, troppo umano, 3.
Aurora, 123.
Umano, troppo umano, 34.
9
«invenzione delle classi dirigenti» 5 . Là dove le cose
iniziano la loro storia, quel che si trova non è l'identità
ancora preservata della loro origine, ma la discordia
delle altre cose, il disparato.
La storia insegna anche a sorridere delle solennità
dell’origine. L’alta origine è il «germoglio metafisico che
rispunta nella considerazione della storia e che fa ogni
volta credere che al principio di tutte le cose si trovi il
più perfetto e il più essenziale» 6 : piace credere che
all'inizio le cose erano nella loro perfezione; che
uscirono scintillanti dalle mani del creatore, o nella
luce senz'ombra del primo mattino. L’origine è sempre
prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del
tempo; è dal lato degli dèi, e a raccontarla si canta
sempre una teogonia. Ma l’inizio storico è basso. Non
nel senso di modesto, o di discreto come il passo della
colomba, ma derisono, ironico, atto a distruggere tutte
le infatuazioni: «Si cercava di pervenire al sentimento
della sovranità dell'uomo, indicando la sua origine
divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché
alla sua porta c'è la scimmia» 7. L’uomo ha cominciato
colla smorfia di quel che sarebbe diventato; anche
Zaratustra avrà la sua scimmia che salterà dietro di lui
e tirerà il lembo della sua veste.
Infine, ultimo postulato dell’origine, legato ai primi
due: essa sarebbe il luogo della verità. Punto
assolutamente remoto, ed anteriore ad ogni conoscenza
positiva, renderebbe possibile un sapere che pure la
ricopre, e non cessa di disconoscerla fra le sue
chiacchiere;
sarebbe
in
quell'articolazione
inevitabilmente perduta dove la verità delle cose si lega
ad una verità del discorso che subito l’offusca e la
perde. Nuova crudeltà della storia che costringe ad
invertire il rapporto e ad abbandonare la ricerca «adolescente»: dietro la verità, sempre recente, avara e
misurata, c'è la proliferazione millenaria degli errori.
Non crediamo più «che la verità resti ancora verità
quando le si tolgono di dosso i veli; abbiamo vissuto
abbastanza per credere in questo» 8 . La verità, sorta
5
6
7
8
Il viandante e la sua ombra, 9.
Ibid., 3.
Aurora, 49.
Nietzsche contro Wagner.
10
d'errore che ha il vantaggio di non poter essere
confutato, probabilmente perché la lunga cottura della
storia l’ha resa inalterabile 9. E d'altronde la questione
stessa della verità, il diritto che si dà di confutare
l'errore o di opporsi all'apparenza, il modo in cui di
volta in volta fu accessibile ai dotti, poi riservata ai soli
uomini di pietà, in seguito ritirata in un mondo al
sicuro, dove svolse il ruolo insieme della consolazione e
dell'imperativo, infine respinta come idea inutile,
superflua, dovunque contraddetta, tutto ciò non è una
storia, la storia d'un errore che ha nome verità La
verità e il suo regno originario hanno avuto la loro
storia nella storia. Ne usciamo appena «all’ora
dell’ombra più corta», quando la luce non sembra più
venire dal fondo del cielo e dai primi momenti del
giorno 10 . Fare la genealogia dei valori, della morale,
dell'ascetismo, della conoscenza, non sarà dunque mai
partire alla ricerca della loro «origine», trascurando
come inaccessibili tutti gli episodi della storia; sarà al
contrario attardarsi sulle meticolosità e sui casi
degl'inizi; prestare un'attenzione scrupolosa alla loro
risibile cattiveria; aspettarsi di vederli sorgere,
maschere finalmente cadute, col volto dell’altro; andare
a cercarli senza pudore là dove sono - «frugando i
bassifondi»; lasciar loro il tempo di risalire dal labirinto
dove nessuna verità li ha mai tenuti sotto la sua
guardia. Il genealogista ha bisogno della storia per
scongiurare la chimera dell'origine, un po' come il buon
filosofo ha bisogno del medico per scongiurare l'ombra
dell’anima. Bisogna saper riconoscere gli eventi della
storia, le sue scosse, le sue sorprese, le vacillanti
vittorie, le sconfitte mal digerite, che rendono conto
degl'inizi, degli atavismi e delle eredità; come bisogna
saper diagnosticare le malattie del corpo, gli stati di
debolezza e d’energia, le incrinature e le resistenze per
giudicare un discorso filosofico. La storia, colle sue intensità, cedimenti, furori segreti, le sue grandi
agitazioni febbrili come le sue sincopi, è il corpo stesso
del divenire. Bisogna essere metafisico per cercarle
un'anima nell'idealità lontana dell’origine.
La gaia scienza, 265 e 110.
Il crepuscolo degli idoli. Come il «mondo vero» fini per diventa re
favola.
9
10
11
[…]
3. Termini come Entstehung o Herkunft designano
meglio di Ursprung l’oggetto specifico della genealogia.
Li si traduce di solito
con «origine», ma bisogna
cercare di restituire il loro uso esatto. Herkunft: è la
stirpe, la provenienza-, è la vecchia appartenenza ad
un gruppo – quello del sangue, quello della tradizione,
quello che si crea fra persone della stessa altezza o
della stessa bassezza.
[…]
La provenienza permette anche di ritrovare sotto
l’aspetto unico d’un carattere o d’un concetto la
proliferazione degli eventi attraverso i quali (grazie ai
quali, contro i quali) si sono formati. La genealogia non
pretende di risalire il tempo per ristabilire una grande
continuità al di là della dispersione dell’oblio; il suo
compito non è di mostrare che il passato è ancor lì, ben
vivo nel presente, animandolo ancora in segreto, dopo
aver imposto a tutte le traversie del percorso una forma
disegnata sin dall’inizio. Nulla che somiglierebbe
all’evoluzione d’una specie, al destino d’un popolo.
Seguire la trafila complessa della provenienza, è al
contrario mantenere ciò che è accaduto nella
dispersione che gli è propria: è ritenere ciò che è
accaduto nella dispersione che gli è propria: è ritrovare
gli accidenti, le minime deviazioni – o al contrario i
rovesciamenti completi – gli errori, gli apprezzamenti
sbagliati, i cattivi calcoli che hanno generato ciò che
esiste e vale per noi; è scoprire che alla radice di quel
che conosciamo e di quel che siamo none è la verità e
l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente 11.
[…]
La ricerca della provenienza non fonda, al contrario:
inquieta quel che sì percepiva immobile, frammenta
quel che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel
che s’immaginava conforme a se stesso. Quale
convinzione vi resisterebbe? Ancor più, quale sapere?
Facciamo un po’ l’analisi genealogica dei dotti – di colui
11
Al di là del bene e del male, 244.
12
che colleziona i fatti e ne tiene accuratamente il
registro o di colui che dimostra e confuta; la loro
Herkunft svelerà presto le scartoffie del cancelliere, o le
arringhe dell’avvocato – loro padre 12 nella loro
attenzione apparentemente disinteressata, nel loro
«puro» attaccamento all’obiettività.
[…]
L’umanità non progredisce lentamente di lotta in lotta
fino ad una
reciprocità universale, dove le regole
si sostituiranno per sempre alla guerra; essa insedia
ciascuna delle sue violenze in un sistema di regole, ed
avanza cosi di dominazione in dominazione. E’ la
regola appunto che permette che violenza sia fatta alla
violenza, e che un’altra dominazione possa piegare
quelli stessi che dominano. In se stesse le regole sono
vuote, violente, non finalizzate; sono fatte per servire a
questo o a quello; possono essere piegate al volere di
tale o tal’altro. Il grande gioco della storia, sta in chi
s’impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di
quelli chele utilizzano, chi si travestirà per pervertirle,
le utilizzerà a controsenso e le rivolgerà contro quelli
che le avevano imposte; chi, introducendosi nel
complesso apparato lo farà funzionare in modo tale che
i dominatori si troveranno dominati dalle loro stesse
regole. Le diverse emergenze che si possono
individuare non sono le figure successive d’uno stesso
significato; sono altrettanti effetti di sostituzioni,
scambi
e
spostamenti,
conquiste
simulate,
rovesciamenti sistematici. Se interpretare, fosse
mettere lentamente in luce un significato nascosto
nell’origine, solo la metafisica potrebbe interpretare il
divenire
dell’umanità.
Ma
se
interpretare
è
impadronirsi, attraverso violenza o surrezione, di un
sistema di regole che non ha un significato essenziale
in sé, ed imporgli una direzione, piegarlo ad una
volontà nuova, farlo entrare in un altro gioco e
sottometterlo ad altre regole, allora il divenire
dell’umanità è una serie d’interpretazioni. E la
genealogia deve esserne la storia: storia delle morali,
degl’ideali, dei concetti metafisici, storia del concetto di
12
Aurora, 247.
13
libertà o della vita ascetica, come emergenze
d’interpretazioni diverse. Sì tratta di farle apparire
come eventi sul teatro delle procedure.
[…]
Questa storia degli storici si dà un punto d’appoggio
fuori del tempo; pretende di giudicare tutto secondo
un’obiettività da apocalisse; in realtà ha supposto una
verità eterna, un’anima che non muore, una coscienza
sempre identica a se stessa. Se il senso storico si lascia
conquistare dal punto di vista sovrastorico, allora la
metafisica può riassumerselo e, fissandolo sotto le
specie di una scienza oggettiva, imporgli il suo
«egitticismo». Al contrario, il senso storico sfuggirà alla
metafisica per diventare lo strumento privilegiato della
genealogia se non si orienta su nessun assoluto. Non
deve essere altro che l’acutezza d’uno sguardo che
distingue, distribuisce, disperde, lascia giocare le
differenze ed i margini – una specie di sguardo
dissodante capace di dissociarsi lui stesso e di
eliminare l’unità di quest’essere umano che è supposto
portarlo sovranamente verso il suo passato.
Il senso storico, ed è in questo che pratica la «wirkliche
Historie», reintroduce nel divenire tutto ciò che si era
creduto immortale nell’uomo. Noi crediamo alla
perennità dei sentimenti? Ma tutti, e quelli soprattutto
che ci sembrano i più nobili ed i più disinteressati,
hanno una storia. Crediamo alla sorda costanza
degl’istinti, ed immaginiamo che siano sempre
all’opera, qui e là, ora come un tempo. Ma il sapere
storico non ha difficoltà a smontarli, - a mostrare le
loro trasformazioni, ad individuare i loro momenti di
forza e di debolezza, ad identificare i loro regni alterni,
a coglierne la lenta elaborazione ed i movimenti
attraverso i quali, rivoltandosi contro se stessi,
possono accanirsi nella propria distruzione 13.
Noi pensiamo in ogni caso che il corpo almeno non ha
altre leggi che quelle della fisiologia e che sfugge alla
storia. Errore di nuovo; esso è preso in una serie di
regimi che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di
riposo e di festa: è intossicato da veleni – cibo o valori,
13
La gaia scienza, 7.
14
abitudini alimentari e leggi morali insieme; “si
costruisce delle resistenze”. La storia «effettiva» si
distingue da quella degli storici per il fatto che non si
fonda su nessuna costante: nulla nell’uomo –
nemmeno il suo corpo – è abbastanza saldo per
comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi.
Tutto ciò a cui ci si appoggia per rivolgersi verso la
storia e coglierla nella sua totalità, tutto ciò che
permette di descriverla come un paziente movimento
continuo, - è tutto questo che si tratta di spezzare
sistematicamente. Bisogna fare a pezzi ciò che
permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti.
Sapere, anche nell’ordine storico, non significa
«ritrovare», e ancor meno ritrovarci. La Storia sarà
«effettiva» nella misura in cui introdurrà il discontinuo
nel nostro stesso essere; dividerà i nostri sentimenti;
drammatizzerà i nostri istinti; moltiplicherà il nostro
corpo e l’opporrà a se stesso. Non lascerà nulla al di
sotto di sé che abbia la stabilità rassicurante della vita
o della natura; non si lascerà trascinare da nessuna
sorda caparbietà, verso un fine millenario. Scaverà ciò
su cui si ama farla riposare, e si accanirà contro la sua
pretesa continuità. Il sapere non è fatto per
comprendere, è fatto per prendere posizione.
[…]
La storia, genealogicamente diretta, non ha per fine di
ritrovare le radici della nostra identità, ma d’accanirsi
al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo
unico da dove veniamo, questa prima patria dove i
metafisici ci promettono che faremo ritorno; essa si
occupa di far apparire tutte le discontinuità che ci
attraversano. Questa funzione è opposta a quella che
voleva esercitare, secondo le Inattuali, «la storia
antiquaria». Si trattava lì di riconoscere le continuità
nelle quali si radica il nostro presente: continuità del
suolo, della lingua, della città; si trattava «coltivando
con mano attenta ciò che dura fin dall’antichità», di
«preservare le condizioni nelle quali si è nati per coloro
che verranno dopo di noi» 14 . Ad una tale storia, le
Inattuali obiettavano che rischia di prevenire ogni
14
Considerazioni inattuali, II, 3.
15
creazione in nome della legge della fedeltà. Un po’ più
tardi – e già in Umano, troppo umano – Nietzsche
riprende il compito antiquario, ma nella direzione
completamente opposta. Se la genealogia pone a sua
|volta la questione del suolo che ci ha visti nascere,
della lingua che parliamo o delle leggi che ci
governano, è per mettere in luce i sistemi eterogenei
che, sotto la maschera del nostro io, ci interdicono ogni
identità.
b) I processi di globalizzazione del diritto e
la proprietà
La presente raccolta di materiali intende contribuire
allo studio del diritto di proprietà avvalendosi inoltre
dell’approccio indicato da Duncan Kennedy 15 ,
finalizzato ad indagare il complesso rapporto tra lo
spazio del diritto e quello della politica nell’era del
capitalismo e, in particolare, in quest’ultima fase del
capitalismo globalizzato.
Si tratta di una selezione di brani di dottrina, di pezzi
di legislazione, di documenti politici e di decisioni di
corti supreme organizzata sulla base dello studio delle
“tre globalizzazioni del diritto” e volta a far emergere le
linee di politica del diritto che hanno attraversato e
attraversano la disciplina della proprietà privata dalle
sue
prime
‘apparizioni’
da
rintracciarsi
principalmente in talune elaborazioni teoriche e testi
normativi del XVII e XVIII secolo – alla posizione
egemonica dei nostri giorni. Con ciò non si intende
appiattire lo studio della proprietà sulla logica del
capitalismo, sebbene il primo sia strettamente
connesso alla seconda. La discussione delle diverse
tendenze di politica del diritto manifestatesi in questo
lasso di tempo non si risolve nella riduzione del diritto
alla politica. Del resto, come osserva Kennedy, tanto i
progetti politici sia di destra che di sinistra, quanto gli
strumenti giuridici prescelti per attuarli tendono a
Cfr. Du. Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal
Thought: 1850-2000, in D. M. Trubek and A. Santos (eds.), The
New Law and Economic Development. A Critical Appraisal,
Massachusetts, Cambridge University Press, 2006, 19-73.
15
16
porsi su un orizzonte di ‘indecidibilità assiologica’: i
primi perché sono privi di coerenza interna, i secondi
perché appaiono “indeterminati” (nel senso fatto
proprio dai Critical Legal Studies). La storia dei limiti al
diritto di proprietà e della sua funzione sociale bene
esemplifica tanto l’indeterminatezza intrinseca dello
strumento giuridico, quanto le molteplici coloriture
ideologiche che esso può assumere all’interno di un
medesimo progetto politico.
Ciò non toglie peraltro che l’essere attore all’interno in
una data coscienza giuridica condizioni la visione
politica. Vale ovviamente anche l’opposto: la politica
plasma la coscienza giuridica. Si potrebbe allora dire
con von Clausewitz che il diritto è politica, ma politica
“con altri mezzi”. Dunque non semplicemente politica
perché il diritto non è riducibile alla politica, e molto ci
sarebbe da dire su quegli “altri mezzi”. Ma per Kennedy
è vera anche la reciproca: in analogia con Carl Schmitt
può dirsi che la politica è diritto “con altri mezzi”, nel
senso che la politica scaturisce tanto dall’inattingibile
esigenza di razionalità etica, quanto dagli interessi
economici o dalla pura sete di potere cui è tanto spesso
associata.
Lo scenario complesso che emerge avvolge e condiziona
l’osservatore stesso, e viene indagato da Kennedy
attraverso una narrativa che legge il fenomeno
giuridico mediante le dinamiche della globalizzazione.
Con questa espressione si indica quell’articolato
processo che porta alla formazione di una coscienza
giuridica (legal consciousness) globale, la quale
rappresenta un modo di ragionare, una struttura del
pensiero, un vocabolario di concetti, in definitiva, un
linguaggio, da cui i giuristi, tanto del centro quanto
delle periferie e semiperiferie del globo, traggono le
argomentazioni tipiche che poi utilizzano.
Tre sono le fasi storiche nelle quali emerge una
coscienza giuridica globale: il pensiero giuridico
classico (dalla metà del XIX all’inizio XX secolo), il
sociale (i primi 70 anni del XX secolo) e il pensiero
giuridico contemporaneo (dalla metà del XX secolo ai
giorni nostri). Le tre globalizzazioni si pongono come
accadimenti all’interno della trama dello sviluppo
militare, del potere economico e delle ideologie
17
egemoniche che connota il periodo capitalista della
storia del mondo.
1. I confini temporali del pensiero giuridico classico (la
prima globalizzazione) vanno dalla metà del XIX secolo
all’inizio del XX. Figura centrale in questa fase è quella
del giurista, autore di trattati o autorevole ispiratore di
codici. Ciò che si globalizza è un modo di concepire il
diritto come un sistema di sfere d’autonomia costruito
per attori pubblici e privati. I confini tra tali sfere sono
delineati dalla scienza giuridica, il cui postulato base si
identifica nel dogma della volontà: il diritto è l’insieme
di quegli strumenti di cui lo Stato si serve per
proteggere le prerogative dei singoli e aiutarli a
realizzare il loro volere finché ciò non si scontri con il
volere degli altri.
Applicato al contratto, questo dogma si configura come
autonomia contrattuale (freedom of contract) e consiste
in due idee-guida: i contratti sono il frutto dell’incontro
di volontà, cioè dell’accordo; la stipula di un contratto è
il risultato di una libera scelta, non ostacolata
all’esterno dallo Stato.
Partendo dal dogma della volontà, i giuristi ricavano le
regole per la soluzione dei casi e la costruzione del
sistema attraverso un metodo deduttivo e formalista;
tutto ciò risponde ad un’ideologia marcatamente
individualista. Il formalismo giuridico si manifesta, in
Francia, con il positivismo della Scuola dell’Esegesi, in
Germania, con la Giurisprudenza dei Concetti.
Entrambi questi movimenti di pensiero postulano la
riduzione del fenomeno giuridico alla legge posta dallo
Stato e contenuta nei codici. Entrambi gli orientamenti
escludono il riferimento a valori ulteriori rispetto alla
lettera del codice. In questa fase, grande è il rilievo
accordato alla proprietà, vista come la proiezione della
volontà del soggetto nel mondo esterno. Il diritto di
proprietà – formulato in termini assoluti nell’art. 544
del codice civile francese – è il calco del diritto
soggettivo, categoria astratta, ma funzionale agli
interessi della classe borghese.
Queste idee guida espresse dal pensiero giuridico
classico si diffondono e si connotano diversamente
nelle varie aree che toccano, ma, in ogni caso, la
18
concezione assoluta del diritto di proprietà si radica
profondamente nella cultura giuridica globale di questa
epoca.
2. I primi settant’anni del secolo XX vedono delinearsi
una seconda tradizione giuridica. Nella nuova fase, la
parola d’ordine è il sociale (The Social) e il protagonista
non è più il professore di diritto, ma il legislatore, che
limita e corregge il diritto astratto dei codici con la
legislazione speciale, volta a tutelare e proteggere
soggetti deboli (es. lavoratori subordinati e locatari).
L’essenza di questa nuova coscienza giuridica è, prima
di tutto, una critica al pensiero giuridico classico,
accusato di non rispondere più alle nuove esigenze
sociali e di abusare del metodo deduttivo, nel senso
che gli esponenti del pensiero giuridico classico
affermavano di dedurre in via interpretativa le regole
dai principi, mentre, in realtà, cercavano di adattare il
diritto ad uno scenario ormai mutato, scandito da
fenomeni
di
industrializzazione,
urbanizzazione,
globalizzazione
dei
mercati.
Questi
processi
producevano tensioni crescenti tra forza lavoro e
capitale, tra grandi e piccole imprese, che non
potevano più essere governate soltanto dal diritto dei
codici, ma richiedevano ampi progetti di riforme.
La coscienza giuridica che si diffonde in questa fase
sostituisce al dogma della volontà e ai suoi corollari
una concezione del diritto quale mezzo per raggiungere
scopi di carattere sociale.
Le clausole generali sono gli strumenti ideali per
cogliere questo rapporto di interdipendenza tra la
dinamica giuridica e il contesto in cui la regola opera.
Ne deriva la loro fioritura e il loro utilizzo per la tutela
delle classi più deboli. Ora, è proprio la formula
elastica della “funzione sociale” a segnare le vicende
della proprietà in questa fase. Il diritto di proprietà
perde la sua aura sacrale e viene degradato ad
interesse economico, suscettibile di subire limitazioni
da parte del legislatore. In Italia, il principio della
proprietà conformata qualifica il diritto di proprietà
come creazione della legge, che, nel configurarlo e
definirlo, risponde ad esigenze di carattere generale. Lo
strumento per realizzare e legittimare quest’opera di
19
conformazione legislativa della proprietà è la formula
elastica della funzione sociale di cui all’art. 42, comma
2° Cost., che, saldandosi alla riserva di legge prevista
nella stessa norma costituzionale, plasma la proprietà
in modo tale da renderla accessibile a tutti e da
realizzare così l’interesse generale. Nel disegno
dell’Assemblea costituente, questo meccanismo deve
fare in modo che, nei contrasti tra interesse
proprietario e interesse sociale, sia data prevalenza a
quest’ultimo. La funzione sociale viene quindi
concepita, non come un criterio di bilanciamento, ma
di selezione tra interessi contrapposti 16 , legittimando
politiche di riequilibrio e sostegno dello Stato a favore
di classi deboli.
In realtà, nell’esperienza successiva, il potenziale
redistributivo insito nella funzione sociale risulterà
notevolmente affievolito. Questo esito è imputabile
principalmente alla condotta della Corte costituzionale,
la quale ha operato come un fattore frenante rispetto
alla conformazione delle situazioni proprietarie
realizzata dal legislatore ordinario 17 . L’attivismo della
Corte attua una vera e propria cancellazione della
funzione sociale e ricorre invece al principio di
uguaglianza formale per rafforzare le posizioni
proprietarie.
3. Il pensiero giuridico contemporaneo copre un arco di
tempo che va dalla metà del XX secolo ai giorni nostri.
Non esiste un’idea base destinata a diffondersi a livello
globale, né il Contemporary Legal Thought è
immaginabile come la sintesi delle due tradizioni
giuridiche passate. Esso, invece, si presenta come la
problematica unione di tratti che provengono dalle fasi
precedenti, ma che sono ormai trasfigurati; è compito
dei giudici, protagonisti assoluti in questa fase, gestire
i conflitti e le controversie che uno scenario del genere
continuamente produce.
S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, in Il terribile
diritto, Bologna, Il Mulino, II ed. 1990, 273, 321; Id., Note critiche
in tema di proprietà, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, 1252,
1279.
17 S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, cit., 370.
16
20
Gli elementi delle globalizzazioni passate che si
ripresentano in altra forma sono sostanzialmente due:
il neoformalismo e il ricorso alla policy analysis. Il
primo carattere proviene dal pensiero giuridico
classico, nel cui contesto dominava il ricorso alla logica
deduttiva all’interno di un sistema di diritto positivo
che si voleva coerente. Il formalismo oggi viene
impiegato non più nel settore del diritto privato, come
nel XIX secolo, ma nell’interpretazione dei trattati
internazionali,
quindi
nel
diritto
pubblico,
costituzionale, nel diritto penale, ecc.
La policy analysis consiste in una tecnica di
argomentazione giuridica che porta in esponente gli
interessi sottesi alle norme che si applicano e alle
decisioni prese. Si tratta di un approccio utilizzato
dalle corti di tutto il mondo, cui sono dati nomi diversi:
i giudici di common law ricorrono all’opera di
bilanciamento degli interessi contrapposti (balancing of
conflicting considerations), mentre quelli di civil law
utilizzano il giudizio di proporzionalità. L’esito di tutto
ciò è la produzione di regole compromissorie, che non
esprimono un chiaro intento sociale, come accadeva
invece nei primi 70 anni del secolo scorso.
Come si vede, il neoformalismo è la versione
trasfigurata di un tratto tipico del pensiero giuridico
classico, mentre la policy analysis è una ‘evoluzione’
del Sociale. Per quanto entrambi abbiano diffusione e
rilevanza mondiali, sembra possibile individuare per
essi
una
genealogia
statunitense:
mentre
il
neoformalismo ricorda la pratica delle corti americane
nel tardo XIX secolo, volta a tradurre nel settore del
diritto costituzionale le costruzioni proprie del diritto
privato classico, la policy analysis e l’opera di
bilanciamento degli interessi sono sviluppi statunitensi
dell’epoca successiva a quella del realismo giuridico18.
Sul punto cfr. M. Lasser, Judicial Deliberations: A Comparative
Analysis of Judicial Transparency and Legitimacy, Oxford, Oxford
University Press 2004; Du. Kennedy, A Transnational Genealogy of
Proportionality in Private Law, in R. Brownsword, H. W. Micklitz,
L. Niglia, S. Weatherhill (eds.), The Foundation of European Private
Law, Oxford and Portland, Oregon, Hart Publishing 2011, 185;
Cfr. Id., Three Globalizations of Law and Legal Thought: 18502000, cit., 69. L’A. avverte però che la matrice statunitense di
queste tecniche non va enfatizzata e che, soprattutto per la policy
18
21
Manca oggi una nuova coscienza giuridica dal carattere
globale, come era stato per la teoria della volontà
durante il pensiero giuridico classico e la nozione di
interdipendenza propria del pensiero sociale. è
presente invece una netta critica al sociale,
sviluppatasi già a partire dagli anni 1930 e perlopiù
indirizzata all’antiformalismo proprio dei programmi di
riforma. Questa critica, proveniente tanto dalle correnti
di sinistra quanto da quelle di destra – sotto questo
profilo alleate, così come lo erano state le versioni
socialdemocratica e fascista del sociale – mette sotto
accusa le istituzioni burocratiche nate all’insegna del
sociale in quasi tutti i settori del diritto e il loro modo
“autoritario”
di
amministrare
la
giustizia,
riaccreditando, invece, la tutela formale dei diritti,
questa volta “umani” e non più “individuali”, come nel
pensiero giuridico classico o “sociali”, come nella
seconda globalizzazione. Si spiega in tal modo l’enfasi
odierna sul ruolo dei giudici, depositari del compito di
riconosce e proteggere i diritti umani solennemente
proclamati nelle carte e nei documenti internazionali
varati dal secondo dopoguerra in poi. Le corti operano,
però, in un contesto ormai mutato, ove il linguaggio dei
diritti non si associa più ad obiettivi perequativi tipici
dell’epoca precedente, ma è molto spesso strumentale
alle esigenze del mercato e si trova inserito in un
mondo sociale estremamente frazionato, caratterizzato
dalla proliferazione di diverse identità, al quale non si
adatta più l’idea di un’unica risposta giuridica.
Anche in ordine al diritto di proprietà, l’epoca presente
segna un ritorno all’individualismo, dopo che, con il
ritrarsi del welfare state, si è assistito al fallimento ed
alla degenerazione delle politiche riconducibili alla
funzione sociale. In questa chiave si può leggere la
vicenda italiana dell’occupazione acquisitiva: un abuso
della pubblica amministrazione, giustificato dal vago
riferimento alla funzione sociale.
In generale, nei documenti sovranazionali, la proprietà
riguadagna il rango di diritto fondamentale, dotato del
analysis e per il bilanciamento degli interessi, esistono chiari
referenti europei nel pensiero di Rene Demogue e Philip Heck
prima del secondo dopoguerra e, in ordine al bilanciamento degli
interessi, nelle prime decisioni della Corte costituzionale tedesca.
22
crisma dell’assolutezza e dell’inviolabilità: la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea colloca la
norma in materia di proprietà (art. 17) nel capo
dedicato al valore della Libertà, riproponendo in modo
esplicito il binomio ottocentesco libertà-proprietà. Il
rafforzamento attuale del paradigma dominicale opera
anche e soprattutto nei confronti dell’immateriale e si
esprime nella tendenza a concettualizzare in termini di
“proprietà intellettuale” i diritti di privativa e di
esclusiva (cfr. l’art. 17 comma 2, Carta dei diritti
fondamentali UE: “La proprietà intellettuale è
protetta”): essi non solo estendono il loro oggetto, fino a
ricomprendere i geni umani, ma sono costruiti dalle
corti in modo sempre più assoluto, senza limiti, con la
conseguente netta riduzione della sfera del public
domain.
23
Il retroterra giuridico
P. Grossi, La proprietà e le proprietà, oggi,
in G. Collura (cur.) Coordinamento dei
dottorati di ricerca in diritto privato,
Giuffrè, 2009, pp. 1-19.
[...]
2.
Storicità della proprietà; e qualche cautela
metodologica.
Per avviarci in modo culturalmente provveduto, sarà
bene cominciare facendo nostro l’ammonimento di un
grande storico, Marc Bloch, penetrante indagatore
sulla storia dei rapporti di appartenenza: “Propriété,
propriétaire: que voilà appliqués au Moyen Age des
mots lourds d’équivoques” (M. BLOCH, Village et
seigneurie: quelques observations de méthode à propos
d’une étude sur la Bourgogne, in Annales d’histoire
économique et sociale, IX (1937), p. 497). E accogliamo
subito come prezioso accorgimento metodologico
l’invito a non fidarsi di un vocabolario che,
apparentemente fisso, sembra segnalare una assoluta
immobilità, mentre, al contrario, sotto quella corteccia
illusoria v’è una cangiantissima mobilità di contenuti.
E la prima cautela per lo storico del diritto è affondare
nelle diverse identità che ogni esperienza giuridica dà
al problema del rapporto supremo fra uomo e terra, fra
uomo e cose, ossia alla proprietà.
Storicità della proprietà: se ogni invenzione giuridica
ha necessariamente una sua espressività storica, ed
esprime cioè fedelmente il contesto che la genera, ciò si
esalta al massimo grado nell’istituto che vogliamo
indagare; che non si risolve mai in determinate scelte
tecniche ma che riflette scelte fondamentali d’una
civiltà storica. E la proprietà è stata (ed è) ben spesso
l’incarnarsi di una filosofia, di una ideologia, arrivando
a concretarsi in principii che hanno origine nelle vette
alte della morale e della religione.
24
È grazie a queste elementari cautele che potremo
tentar di sciogliere nodi storico-giuridici intricatissimi e
veder più chiaro nel complesso itinerario storico.
3. Le proprietà dei medievali.
Nella civiltà medievale tutto discende da quello che mi
è sempre parso il suo carattere essenziale e tipizzante:
la assenza di un soggetto politico munito di psicologia
totalizzante, e perciò teso a controllare l’intiera
dimensione economico-sociale. E proprio perché non
c’è il grande burattinaio che vuole maneggiare tutti i
fili, il diritto – se si eccettua quella porzione che serve
al Principe per l’esercizio dei suoi poteri –non viene
confezionato in alto né è la voce dell’autorità.
Lo plasmano – in specie il diritto privato – le grandi
forze plurali circolanti nella società, con un moto che
viene dal basso, con un processo spontaneo che non
ha nulla di artificioso. Se è vero che il diritto non è mai
una nuvola che galleggia sulla storia, qui non è un
potere politico a segnarlo con il suo marchio riduttivo,
ma una miriade di fatti – geologici, climatici,
agronomici, economici, sociali. Il diritto è soltanto il
risultato preteso da questi fatti ed espresso dalla più
terragnola tra le fonti giuridiche, la consuetudine, i
mille usi che consolidano in regole e invenzioni
elementari la voce proveniente dalla bassa dimensione
fattuale. Qui, insomma, il diritto è unicamente lettura
di un ordine che non l’autorità crea e non creano i
giuristi, ma che va constatato tra le pieghe della natura
cosmica e della società.
È solo presupponendo questo atteggiamento d’una
intiera civiltà che ci si può accostare correttamente al
suo tipicissimo modo di risolvere il problema della
appartenenza giuridica d’un bene. Si capirà, cioè,
qualcosa (anzi, molto), se si assumerà come nostro
l’angolo di osservazione che fu proprio dei medievali:
guardando al rapporto uomo/cose non dall’alto della
testa del soggetto e della sua volontà, ma dal basso,
dalle cose stesse.
Infatti, in una civiltà giuridica fattuale, non è centrale
il soggetto, bensì la piattaforma oggettiva dove i fatti si
originano e prosperano. Io non ho mai avuto esitazione
nell’identificare in un intenso reicentrismo – centralità
25
della res, della cosa – la cifra essenziale del medioevo
giuridico. Ed è sulla cosa, sulla sua struttura
complessa, che si cerca di modellare gli istituti della
appartenenza, cercando di cogliere e di rispettare le
sue regole intime e soprattutto le sue esigenze reali,
quelle esigenze cui era legato il risultato prezioso della
sua massima produttività.
È ovvio che, in una società totalmente agraria nei primi
secoli medievali e prevalentemente agraria nei più
tardi, la cosa che riceva 1’attenzione principale dei
giuristi sia la res frugifera, la cosa produttiva,
soprattutto il fondo rustico; ed è altrettanto ovvio che
ricevano attenzione i fatti connessi alla sua
produttività. Se, in una civiltà giuridica rigidamente
proprietaria ma anche rigidamente individualistica
come la romana, ciò che conta è il potere del soggetto
sul bene, qui si dà – al contrario – il massimo rilievo a
fatti
puramente
economici
come
utilizzazione,
godimento, gestione del bene resi ancora più imperativi
dalla lunga durata. Non c’è spazio per istanze
formalistiche; quel che conta - più che la vita del
soggetto - è la vita della cosa, che si manifesta in fatti
che solo un soggettivismo formalista può relegare nel
limbo della irrilevanza.
È proprio su questa base che si premia non la titolarità
formale ma la posizione di effettività su un bene. Il
proprietario, il cui diritto risulta dalla iscrizione nei
libri fondiarii, non viene espropriato; viene, invece,
devitalizzato consentendo la gigantizzazione giuridica
accanto a lui di chi proprietario non è.
È in questa visione progettuale che, nel medioevo
sapienziale, nei secoli XII e XIII, una sensibilissima
scienza giuridica costruisce la teoria del dominio
diviso, del doppio dominio. La cosa viene disegnata
come realtà complessa composta da una substantia
interna e da una utilitas esterna, la prima che compete
in ogni caso al proprietario formale, all’intestatario del
bene, la seconda valorizzata da quel soggetto che il
proprietario ha immesso sulla cosa per raggiungere la
maggiore utilizzazione economica.
Il diritto romano aveva ben conosciuto questa divisione
di funzioni, ma aveva ridotto la funzione utilizzatrice
entro il rigido schema della locazione, dove al
26
cosiddetto
conduttore
veniva
riconosciuta
la
fragilissima condizione di una intutelata detentatio.
Glossatori e commentatori, che pur lavorano sui testi
romani ma che sono personaggi ben inseriti nella
società medievale e nei suoi valori circolanti, avvertono
che protagonista economico è il concessionario del
bene quando la concessione si distenda per una durata
non effimera, e non esitano a promuoverlo
giuridicamente. In rapporto alle due autonome
dimensioni della cosa - o pretese tali: substantia e
utilitas - si costruiscono due situazioni proprietarie, il
dominio diretto e il dominio utile, perfettamente
autonome l’una rispetto all’altra e circolabili
autonomamente l’una indipendentemente dall’altra.
Se
vogliamo,
si
ha
una
pluralizzazione
e,
conseguentemente, una profonda relativizzazione della
nozione di proprietà. Su una stessa cosa ci possono
essere più proprietà, una delle quali non nasce da
compravendita o da eredità ma piuttosto dai fatti grezzi
dell’uso, del godimento, della gestione, dell’impegno
nella valorizzazione della cosa.
Queste proprietà sono scritte nella cosa, ed è lì dove i
grandi interpreti medievali pretendono di leggerle. Non
diceva forse un acuto giurista abruzzese del Trecento,
Luca da Penne, che il dominio utile “potius accedat rei
potius quam personae” (LUCA DA PENNE, In tres
posteriores libros Codicis Justiniani, Lugduni, 1582, ad
1. Praedia, C. de lo catione praediorum civilium vel
fiscalium (lib. XI), n. 51), è più una dimensione della
cosa che della persona?
4. Il ritorno a la proprietà: genesi e sviluppo della
proprietà moderna.
Ma in quel Trecento quando si poteva affermare con
sicurezza la frase appena ricordata, cominciano anche
le prime incrinature nell’ edificio medioevale e, insieme,
i primi fermenti di un’età nuova. Il Trecento è, infatti,
per lo storico del diritto l’avvio del processo lentissimo
e faticoso che porterà alla costruzione di un nuovo
edificio socio-economico-politico. Stanti i limiti di
questa lezione, basti qui segnare il senso e le
motivazioni delle nuove direzioni di marcia.
27
Con un moto crescente, si mandano in soffitta il
reicentrismo e il comunitarismo dei medievali
improntando a ogni livello pensiero e azione verso un
fine unitario: l’affrancazione dell’individuo, di ogni
individualità, dai passati condizionamenti, la sua
nuova posizione di pilastro portante al centro della società.
Sul
piano
pubblicistico
campeggerà
l’individuo/Stato, che si toglie di dosso il mantello
ingombrante del decrepito universalismo politico, e sul
piano privatistico un soggetto singolo identificato
soprattutto nella più indipendente delle dimensioni
psicologiche, la volontà, vocato a dominare il mondo
senza esserne dominato. Al civilista preme sottolineare
l’abbandono del vecchio reicentrismo per un deciso
antropocentrismo.
Si aggiunga, sul piano socio-economico, un altro
sostanzioso mutamento: il ceto mercantile, già
rilevante nel secondo medioevo, assume un ruolo
sempre più determinante siglando una alleanza non
scritta ma solidissima con il potere statuale e trasformandosi in una classe decisa alla conquista del potere
supremo. Il che avverrà - lo sappiamo bene - solo a fine
Settecento con la grande rivoluzione, ma quale èsito e
traguardo di un processo plurisecolare; dal Trecento in
poi ci si sta incamminando verso un’età e una civiltà
che può correttamente essere qualificata come
borghese, quando il protagonismo della nuova classe
virulenta si congiunge armonicamente con un assetto
sempre più capitalistico delle strutture economiche.
In questo contesto segnato su ogni piano da una
profonda rinnovazione continuano a stagnare per tutto
l’antico regime le vecchie proprietà medievali, come
continua a stagnare in seno a una inerzia sonnolenta il
cadavere di una organizzazione postfeudale della
società. Ma, dapprima sul piano teologico e filosofico,
poi su quello politologico, e poi anche su quello
filosofico-giuridico, si comincia a incidere a fondo sulla
nozione di proprietà.
Al riuscito tentativo medievale di valorizzarne la
dimensione oggettiva arrivando a leggerla nella cosa e a
esemplarla sulla complessità della cosa fino a operare
lo sdoppiamento fra un dominio diretto e un dominio
utile, si contrappone un altro tentativo di segno
28
perfettamente contrario, che tarderà a riuscire a livello
giuridico realizzandosi soltanto con il decreto
rivoluzionario del 15 marzo 1790 demolitivo della
intelaiatura feudale della società francese.
Si ricomincia a guardarvi dal punto di osservazione del
soggetto; si sottrae la proprietà dall’ esilio mortificante
nella bassa corte delle cose, si condanna come una
aberrazione la sua pluralizzazione; si torna a vincolarla
all’individuo singolo coglièndola quale sua inseparabile
dimensione e se ne recupera in modo inflessibile
l’unitarietà. La proprietà, ombra del soggetto sulle cose
e orma tangibile della sua assoluta sovranità sulle
cose, non può che essere una. I nuovi atteggiamenti
individualistici non mancano di vedere in essa l’arma
più appuntita da fornire al nuovo individuo liberato,
presidio e garanzia della sua libertà dalle e sulle cose,
della sua libertà dagli inammissibili impacci comunitarii. Insomma, la proprietà - fondèndosi con la libertà
del soggetto - diviene una sua irrinunciabile
dimensione.
Si fa, addirittura, qualcosa di più: se ne fa una sua
dimensione interiore. La proprietà non ha la sua
origine nella realtà esterna quale opportuna
organizzazione della appartenenza dei beni; è, invece,
come nella grande teorizzazione lockiana di fine
Seicento, una qualità intima impressa nello interior
homo da, una benefica divinità e basata sull’istinto di
conservazione individuale. Infatti, solo se io sono
padrone delle mie membra, dei miei talenti, dei miei
istinti arriverò al risultato di una perfetta
conservazione. Il dominium sui, la proprietà che io ho
di me stesso, è visto come un interno meccanismo
proprietario destinato a proiettarsi verso l’esterno ed
essere l’origine e il fondamento di ogni proprietà
visibile di ogni cosa corporale, anche del più vasto
latifondo.
Non sono, queste, esercitazioni retoriche meritevoli di
ridicolizzazione da parte della nostra affinata coscienza
critica. Si trattava, invece, di una provetta operazione
strategica, che permetteva il perfetto raggiungimento di
un risultato ritenuto imprescindibile dalla nuova civiltà
in
costruzione:
la
assolutizzazione
dell’istituto
proprietario, giacché, sorpresa nel fondo dell’animo
29
umano quale suo meccanismo interiore, la proprietà
non poteva che caratterizzarsi della stessa assolutezza
dei valori morali e religiosi gelosamente custoditi nello
interior homo.
Essa saltava di piano, e, da strumento regolatore
inventato dagli uomini nella loro vicenda storica,
trovava un posto d’onore in seno al diritto naturale,
diveniva qualcosa di meta-storico, qualcosa di
inestricabilmente connesso alla umana natura,
qualcosa di sacro, qualcosa che le vicende storiche non
potevano toccare e che i poteri politici transeunti erano
chiamati a rispettare integralmente. I fisiocrati - questi
primi disegnatori a metà Settecento di una nuova
scienza, l’economia - non mancano di martellare su
questa indiscutibile sacralità, e la stessa Rivoluzione
nel suo primo atto solennissimo, la Déclaration des
droits dell’agosto 1789, lo fisserà càrdine dell’ordine
nuovo proc1amàndolo nell’ articolo 17 “droit inviolable
et sacré”.
Quando legislatori e giuristi, tra Settecento e
Ottocento, ossia al fondo dell’imbuto storico or ora
sommariamente descritto, tradurranno in termini
giuridici il precedente lavorìo filosofico e politologico, ci
disegneranno un istituto totalmente di nuovo conio.
Dapprima, si possono constatare ancora alcune
incertezze concettuali (per esempio, all’interno dello
stesso Code Civil e dello stuolo di esegeti chiamati a
commentarlo), ma è chiara la tecnica costruttiva:
l’istituto viene modellato sul soggetto perché si tratta di
una dimensione del soggetto anche se resa carnale e
vistosa nella concretezza di una massa patrimoniale.
Ed ecco i suoi caratteri essenziali e tipizzanti: e una e
semplice, come uno e unilineare è il soggetto; ed è
astratta perché acontenutistica, perché non chiede di
essere tipizzata da un determinato contenuto, perché è
l’opposto di una realtà fattuale. Uso, godimento,
gestione, che avevano dato corpo a una proprietà - il
dominio utile - nella visione fattualistica dei dottori del
diritto comune, sono ormai soltanto degli accidenti. La
proprietà è, a questo punto, unicamente il supremo
potere dell’individuo protagonista nella società, in
prima posizione all’interno di quella categoria che la
30
filosofia giuridica moderna ha elaborato per lui, il
cosiddetto diritto soggettivo.
L’acme di questo processo costruttivo e anche di
questa scarnificante purificazione si ha nella matura
riflessione pandettistica, dove il modello moderno di
proprietà giunge alla sua più coerente definizione
teoretica e tecnica. Basta aprire il testo eloquentissimo
del Pandektenrecht di Bernardo Windscheid per averne
la riprova: nessuna considerazione per la cosa, “ein
Stück der vernunftloser Natur” (Lehrbuch des Pandektenrechts, B.I., Frankfurt am Main, 19069, § 137),
semplice oggetto passivo di voglie e poteri; e c’è, invece,
la spasmodica ricerca di quella Reinigkeit che appare
come il marchio costruttivo ma ariéhèilcontrassegno di
perfezione di uno abstrakte Zivilrecht.
E mentre glossatori e commentatori si erano affannati
nell’enumerare i diritti del proprietario in coerenza con
la loro idea ferma di una proprietà quale fascio di
poteri, realtà composita ma anche scomponibile,
Windscheid e i suoi ridicolizzano un siffatto zelo
ritenèndolo sterile e insensato. Mai, in questa elevata e
conclusiva visione moderna, il volto della proprietà è
affidato a contenuti, facoltà, poteri, diritti. È piuttosto
una totalità, una sintesi; essa è un prius logico e
storico rispetto a contenuti, facoltà, poteri, diritti che
ne sono la semplice manifestazione nella bassa corte
della vicenda sociale del soggetto proprietario.
Con la visione e costruzione pandettistica la civiltà borghese, bene espressa nel maturo capitalismo tedesco di
metà Ottocento, muniva il suo protagonista –
l’individuo abbiente - di un agguerrito strumento di
dominanza sulla realtà sociale e di difesa contro
l’ingerenze del potere politico.
[…]
31
PARTE PRIMA
La prima globalizzazione
La genealogia della proprietà
nello stato liberale.
a) La filosofia politica
1) J. Locke, Capitolo V. Della proprietà, in
Due trattati sul governo. Secondo Trattato,
1690.
25. Sia che si ascolti la legge naturale, la quale ci dice
che gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla
sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda e a tutto ciò
che natura offre per la loro sussistenza; sia che si
ascolti la rivelazione, la quale ci descrive la donazione
che del mondo Dio fece ad Adamo, a Noè e ai suoi figli,
è comunque evidente che Dio, come dice re Davide
(Salmi, CXIII, 16), «ha dato la terra ai figli degli
uomini», l’ha data in comune a tutta l’umanità. Ciò
posto, ad alcuni sembra difficilissimo spiegare come si
sia venuti, ad avere singolarmente proprietà di
qualcosa. Non mi contenterò di rispondere che, se è
difficile spiegare la proprietà supponendo che Dio
abbia dato il mondo ad Adamo e ai suoi discendenti in
comune, è addirittura impossibile affermare che
qualcuno abbia proprietà di qualcosa, tranne un solo
monarca universale, se si suppone che Dio abbia dato
il mondo ad Adamo e ai suoi eredi in successione
diretta, escludendo tutto il resto della sua discendenza.
Cercherò invece di mostrare come gli uomini poterono
giungere ad avere in proprietà singole parti di ciò che
Dio aveva dato in comune al genere umano, e ciò senza
alcun patto esplicito di tutti i membri della comunità.
32
26. Dio, che ha dato la terra in comune agli uomini, ha
dato loro anche la ragione, onde se ne servissero nel
modo più vantaggioso per la vita e il benessere loro. La
terra, e tutto ciò che essa contiene, viene data agli
uomini per la sussistenza e il piacere di vivere. E per
quanto tutti i frutti che essa naturalmente produce e
gli animali che sostenta appartengano in comune
all’umanità, essendo prodotti dalla spontanea mano
della natura, senza che nessuno ne abbia
originariamente un privato dominio a esclusione del
resto degli uomini, essendo tutti nello stato di natura,
pure, dato che tutto ciò è inteso all’utilità degli uomini,
dev’esserci di necessità un mezzo di .appropriarselo in
un modo o nell’altro, prima che possa essere d’un
qualche vantaggio o beneficio a un singolo individuo. Il
frutto o la preda di cui si nutre l’indiano che non
conosce recinzioni e possiede ancora in comune la
terra, se deve in qualche modo giovargli per la
sussistenza, deve appartenergli, e appartenergli (essere
cioè parte di lui) in modo che nessun altro possa avervi
più diritto.
27. Benché la terra e tutte le creature inferiori siano
comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la
proprietà della sua persona: su questa nessuno ha
diritto alcuno all’infuori di lui. Il lavoro del suo corpo e
l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono
propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga
dallo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa
incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli
appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo
quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura
lo ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che
esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale lavoro
essendo infatti indiscutibile proprietà del lavoratore,
nessun altro che lui può aver diritto a ciò cui esso è
stato incorporato, almeno là dove avanzano, per la
comune proprietà degli altri, beni sufficienti e
altrettanto buoni.
[...]
33
29. Se fosse necessario il consenso esplicito di ogni
membro della comunità perché ci sì possa appropriare
una parte di ciò che è dato in comune, i figli o i servi
non potrebbero tagliare il cibo che il padre o il padrone
ha provveduto loro in comune, senza assegnare a
ciascuno la sua parte particolare. Sebbene l’acqua che
scorre in una fontana sia di tutti, chi può dubitare
tuttavia che quella ch’è in un secchio appartenga
esclusivamente a colui che l’ha attinta? Il suo lavoro
l’ha presa dalle mani della natura, in cui era comune e
apparteneva egualmente a tutti i figli di lei, e con ciò se
l’è appropriata.
30. È dunque questa legge di natura ad assegnare il
cervo all’indiano che l’ha ucciso: è convenuto che un
oggetto appartiene a colui che vi ha dispensato il suo
lavoro, per quanto in precedenza fosse diritto comune
di tutti. E presso coloro che sono considerati la parte
più civile dell’umanità, che hanno creato e moltiplicato
le leggi positive per definire la proprietà, vige ancora
quest’originaria legge naturale che instaura la
proprietà di ciò che era prima in comune. In forza di
essa il pesce che uno pesca nel mare (grande
superstite possesso comune dell’umanità), l’ambra
grigia che uno vi trova, grazie al lavoro che li sottrae
alla condizione comune in cui la natura li lascia,
diventano proprietà di coloro che vi prodigano la loro
fatica. Anche presso di noi, la lepre braccata è ritenuta
proprietà di colui che la insegue durante la caccia;
essendo infatti un animale che viene ancora
considerato comune e non di proprietà privata di
nessuno, chiunque ha fatto la fatica di stanarla e
inseguirla l’ha con ciò stesso sottratta allo stato di
natura, in cui apparteneva in comune a tutti, e ha
instaurato una proprietà.
31. I- Al che forse si obietterà che se il raccogliere di
ghiande o altri frutti della terra, e così via, crea un
diritto su di essi, un uomo può accaparrarsene quanti
ne vuole. Al che rispondo di no. La stessa legge di
natura che ci conferisce con quel mezzo la proprietà, ce
la limita anche. «Dio ci ha dato abbondantemente ogni
cosa» (I Tim. VI, 17): questa è la voce della ragione
34
confermata dalla rivelazione. Ma con quale limitazione
Dio ce l’ha data? «A godere». Di quanto si può prima
che vada perduto far uso a vantaggio della propria vita,
di tanto si può col proprio lavoro istituire la proprietà:
tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte
di ciascuno e spetta ad altri. Nulla fu creato da Dio per
l’uomo onde vada perduto o distrutto. E così,
considerata l’abbondanza di scorte naturali che da
tanto tempo sono al mondo, e i pochi consumatori, e
quanto piccola parte di tali scorte potrebbe l’industria
di un uomo raggiungere e accaparrarsi a pregiudizio di
altri, specialmente se attinge, entro i limiti stabiliti
dalla ragione, da ciò che può servire al suo uso, ben
scarsa occasione rimarrebbe per dispute o contese
sulla proprietà così stabilita.
32. 2. Ma poiché ora il principale oggetto della
proprietà consiste non nei frutti della terra o negli
animali che vivono in essa, ma nella terra stessa, come
quella che comprende in sé e porta con sé tutto il
resto, mi pare evidente che anche la proprietà della
terra sia acquisita allo stesso modo che l’altra. Quanta
terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi,
usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col
suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla
proprietà comune. E non invaliderà questo suo diritto
il dire che qualsiasi altro vi ha pari diritto, e perciò egli
non può appropriarsela, non può recingerla senza il
consenso di tutti gli altri membri della sua comunità,
cioè a dire di tutto il genere umano. Dio, quando diede
il mondo in comune a tutti gli uomini, comandò
all’uomo anche, di lavorare, e l’insufficienza della sua
condizione esige ch’egli lavori. Dio e la sua ragione gli
hanno comandato di sottomettere la terra, cioè a dire
di coltivarla a beneficio della vita, stendendo su di essa
qualcosa ch’era suo proprio, cioè a dire il suo lavoro.
Colui che, in ottemperanza a questo comando di Dio,
ha sottomesso, coltivato e seminato una porzione di
terra, vi ha con ciò aggiunto qualcosa ch’era sua
proprietà, che un altro non può fare oggetto d’un suo
diritto, né potrebbe togliergli senza ingiustizia.
35
33. Né questa appropriazione di una porzione di terra
in base alla coltivazione di essa torna a pregiudizio per
altri, poiché ne rimane sempre abbastanza e
altrettanto buona, e più di quanta possa servire a chi
ne è ancora sprovvisto. Così che, in realtà, per
un’appropriazione particolare ne rimane tuttavia
sempre per gli altri, perché chi ne lascia quanta possa
servire ad altri, fa come se non ne avesse punto presa.
Colui, a cui rimane un intero fiume a sedare la sua
sete, non può ritenersi offeso se un altro beve, sia pure
a grandi sorsi della medesima acqua; e il caso della
terra e quello dell’acqua, quando dell’una e dell’altra ve
ne sia abbastanza, sono perfettamente identici.
[...]
39. Così, senza supporre che Adamo avesse alcun
privato dominio o proprietà del mondo ad esclusione di
tutti gli altri uomini (cosa, questa, che non può essere
assolutamente provata, ne può servire a fondare la
proprietà di altri), ma supponendo invece che il mondo
sia stato dato, come fu dato, in comune ai figli degli
uomini, si comprende come il lavoro potesse dare a
costoro singolarmente diritto a parti distinte di esso,
per i loro usi privati; e in ciò non poteva esservi dubbio
quanto al diritto, né luogo a contesa.
40. Neppure è così strano come a prima vista può
sembrare che la proprietà del lavoro potesse contare
più della comunità della terra. È infatti il lavoro che
crea in ogni cosa la differenza del valore, e basta
considerare quale differenza vi sia fra un acro di terra
piantato a tabacco o zucchero, seminato a frumento o
orzo, e un acro della stessa terra lasciato in comune
senza che nessuno lo coltivi, per comprendere che la
parte di gran lunga più grande del valore è data dai
frutti del lavoro. Credo si possa dire con un calcolo
ancora molto modesto che dei prodotti della terra che
servono alla sussistenza dell’uomo nove decimi sono
effetto del lavoro. Anzi, se vogliamo giustamente
valutare le cose come ci giungono fra mano, e calcolare
i diversi costi, distinguendo quel che di esse è dovuto
esclusivamente alla natura e quello che è dovuto al
36
lavoro, vedremo che nella maggior parte. dei casi il
novantanove per cento dev’essere attribuito al lavoro.
41. Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella
offerta da diversi popoli d’America, ricchi di terra e
poveri di tutti i beni della sussistenza. La natura ha
donato loro non meno generosamente che ad altri
popoli la materia prima della ricchezza, cioè un suolo
fertile, capace di produrre in abbondanza tutto ciò che
può servire per il cibo, il vestiario e il piacere; ma,
quella terra non essendo messa a frutto dal lavoro, essi
non hanno la centesima parte dei beni di cui noi
godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio
mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese.
42. Per chiarire un po’ meglio questo punto, basterà
seguire tappa per tappa il cammino che i più consueti
mezzi di sussistenza percorrono prima di arrivare al
consumo che noi ne facciamo, e vedere quanto del loro
valore essi ricavino dall’industria umana. Pane, vino e
stoffa sono cose di uso quotidiano e diffuse
ampiamente; ma bacche, acqua, foglie o pelli
costituirebbero per noi cibo, bevanda e vestiario, se il
lavoro non ci fornisse quei tanto più utili beni. Ora,
quel tanto che il pane vale più delle bacche, il vino più
dell’acqua, il panno o la seta più delle foglie, delle pelli
o del muschio, è interamente dovuto al lavoro e
all’industria, questi essendo il cibo e il vestiario che la
natura lasciata a se stessa ci offre, quelli i beni che la
nostra attività e le nostre fatiche ci procurano. Se si
calcola di quanto gli uni superino gli altri in valore, si
vede fino a che punto il lavoro costituisca la parte di
gran lunga maggiore del valore delle cose di cui
fruiamo in questo mondo. Il suolo che produce le
materie prime entra a malapena nel conto, o tutt’al più
per una minima parte: una parte così piccola che
anche fra noi una terra lasciata interamente allo stato
di natura, non messa a frutto da pascolo, coltivazione o
piantagione, viene detta, ed è, terra di nessuno, e la
sua
utilità
è
poco
più
che
nulla.
Ciò dimostra quanto la densità della popolazione sia da
preferirsi all’estensione territoriale e come la messa a
37
frutto delle terre e il diritto di usarne sia la grande arte
del governo.
Il principe tanto saggio e divino da assicurare, con
salde leggi di libertà protezione e incoraggiamento
all’onesto lavoro degli uomini, contro l’oppressione del
potere e l’angustia delle fazioni, diverrà presto il più
forte fra i suoi vicini. Ma ciò sia detto per inciso.
Torniamo al nostro presente argomento.
43. Un acro di terra che produce da noi venti staia di
frumento e un acro in America che, coltivato allo stesso
modo, produrrebbe altrettanto sono senza dubbio dello
stesso valore intrinseco; pure, il beneficio che gli
uomini ricavano dall’uno in un anno è pari a cinque
sterline, quello che ricavano dall’altro non vale forse
neppure un soldo, se tutto il prodotto che un indiano
ne trae dovesse essere valutato e venduto qui: in ogni
caso si può dire che non vale neppure la millesima
parte dell’altro. È dunque il lavoro che conferisce alla
terra la maggior parte del suo valore, e senza il lavoro
essa varrebbe poco o nulla. Si deve al lavoro la maggior
parte dei beni di consumo. Il valore in più che la
paglia, la crusca, il pane prodotti da un acro di
frumento hanno su quanto nasce da un acro di terra
altrettanto buona ma incolta, è effetto del lavoro. Nel
valore del pane che mangiamo non bisogna infatti
calcolare soltanto la fatica di chi ara, lo sforzo di chi
miete e trebbia, o il sudore del fornaio, ma anche il
lavoro di chi ha avvezzato i buoi al giogo, di chi ha
scavato e lavorato il ferro e le pietre, abbattuto gli
alberi e ricavato il legname adoperato per l’aratro, per il
mulino, per il forno, o fabbricato tutti gli altri utensili,
e sono moltissimi, che quel frumento richiede dal
momento in cui viene seminato fino a quello in cui
diventa pane: tutto questo dev’essere messo in conto al
lavoro e considerato come effetto di esso, mentre la
natura e la terra non hanno fornito se non materiali di
per se stessi quasi privi di valore. Sarebbe uno strano
catalogo, se mai lo potessimo fare, quello degli oggetti
che il lavoro produce e impiega per ogni pagnotta che
consumiamo: ferro, tronchi, cuoio, sughero, legname,
pietra, mattoni, carbone, calce, stoffa, coloranti,
droghe, pece, catrame, alberi, funi e tutto il materiale
38
usato sulla nave che ha trasportato una qualsiasi delle
merci usate dai lavoratori in una qualsiasi fase del
lavoro: tutte cose che sarebbe impossibile, o almeno
troppo lungo, enumerare.
44. Da ciò è evidente che, per quanto le cose della
natura fossero concesse in comune, l’uomo, essendo
padrone di se stesso e proprietario della propria
persona e delle azioni e del lavoro di essa, recava già in
sé il grande fondamento della proprietà, e ciò che
costituiva la maggior parte di quanto egli usò per la
propria sussistenza e il proprio benessere, una volta
che l’invenzione e le arti ebbero migliorato i mezzi del
vivere, era assolutamente suo e non apparteneva in
comune ad altri.
45. Il lavoro, così, da principio, assicurava il diritto di
proprietà ovunque uno decidesse di esercitarlo sul
patrimonio comune, che restò a lungo la parte
incomparabilmente più grande ed è tuttora più di
quanto l’umanità possa usare. Dapprima gli uomini si
accontentarono per lo più di quanto senza alcun
ausilio la natura offriva ai loro bisogni. Vero è che, in
seguito, in alcune parti del mondo (là dove l’incremento
della popolazione e delle scorte, grazie all’uso della
moneta, avevano fatto sì che la terra scarseggiasse e
acquistasse così un certo valore), le diverse comunità
fissarono i confini dei loro distinti territori, e con leggi
interne regolamentarono il patrimonio dei privati nella
loro società, e fondarono così, per patto e accordo,
quella proprietà cui il lavoro e l’attività avevano dato
inizio; e vero è che le alleanze concluse fra diversi Stati
e regni, che espressamente o tacitamente abdicavano a
ogni pretesa e diritto sulla terra degli altrui domini,
hanno, per comune consenso, eliminato ogni titolo che,
per il diritto naturale comune, essi potevano avere al
possesso di quelle terre, e hanno così, con un accordo
positivo, fondato fra loro la proprietà di distinte parti e
porzioni di terra; ma, ciò nonostante, si trovano ancora
ampi spazi che giacciono inutilizzati (non essendosi gli
abitanti del luogo associati al resto dell’umanità nel
consenso circa l’uso della comune moneta), e sono più
estesi di quanto coloro che vi risiedono usino o
39
possano usare, e sono dunque tuttora comuni, benché
ciò difficilmente possa accadere fra coloro che si sono
accordati sull’uso della moneta.
46. La maggior parte delle cose realmente utili alla vita
dell’uomo, tali che la stessa necessità della sussistenza
indusse i primi abitanti del mondo a cercarle, come
fanno oggi gli americani, sono in generale cose di breve
durata; cose che, non consumate, spontaneamente si
guastano e perdono, mentre oro, argento, diamanti,
sono cose alle quali per arbitrio e convenzione, più che
per un’utilità reale e per la necessità della sussistenza,
è stato attribuito un valore. Ora, di tutti i beni che la
natura aveva dato in comune agli uomini, ciascuno
aveva diritto, come s’è detto, a tanto quanto poteva
usare, e aveva la proprietà di tutto quel che poteva
produrre col proprio lavoro: là dove arrivava la sua
attività, mutando le cose dallo stato in cui la natura le
aveva poste, ivi arrivava la sua proprietà. Colui che
raccoglieva cento staia di bacche o pomi ne era perciò
stesso proprietario: erano beni suoi dal momento
stesso in cui li raccoglieva. Doveva solo badare a usarli
prima che si deteriorassero: in caso contrario
significava che aveva preso più della parte che gli
spettava, defraudando gli altri. E d’altronde era cosa
sciocca, oltre che disonesta, ammucchiare più di
quanto non si potesse usare. Se cedeva ad altri una
parte di quei beni, evitando che marcissero inutilizzati
in suo possesso, anche questo era un modo di usarli.
E, se barattava prugne che sarebbero marcite nel giro
d’una settimana con noci di cui avrebbe potuto nutrirsi
un anno intero, neppure avrebbe commesso alcuna
colpa: non aveva danneggiato le scorte comuni, né
distrutto parte dell’altrui porzione di beni, dato che
nulla si deteriorava inutilizzato in sua mano. Se poi
cedeva le sue noci in cambio d’un pezzo di metallo di
cui gli piaceva il colore, se barattava pecore per
conchiglie, se dava lana in cambio d’un sassolino
luccicante, o d’un diamante, e si teneva quegli oggetti
per tutta la vita, non usurpava i diritti altrui; poteva
ammucchiare questi oggetti non deteriorabili a suo
piacimento, dato che non era l’ampiezza del possesso,
ma il deteriorarsi di una sua parte rimasta inutilizzata
40
a costituire eccesso rispetto ai limiti della proprietà
legittima.
47. Così nacque l’uso del denaro, qualcosa di durevole
che gli uomini potevano conservare senza che si
deteriorasse, e che per comune consenso poteva essere
preso in cambio dei veri e propri, ma deteriorabili, beni
di sussistenza.
48. E, come i diversi gradi d’industria erano capaci di
dare agli uomini ricchezze in proporzioni diverse, così
l’invenzione del denaro diede loro l’opportunità di
accrescerle ed estenderle. Supponiamo infatti un’isola
tagliata fuori da ogni possibile commercio col resto del
mondo, sulla quale abiti solo un centinaio di famiglie,
ma vi siano pecore, cavalli e mucche e altri animali
utili, buoni frutti e terra sufficiente a produrre grano in
quantità centomila volte maggiore del necessario, ma
niente di abbastanza raro e indeteriorabile da poter
essere usato come moneta: quale interesse potrebbe
avere chicchessia ad ampliare i suoi possessi oltre i
limiti dell’uso che la sua famiglia può farne e d’una
abbondante riserva per il consumo di questa, tanto per
i prodotti del suo lavoro quanto per i frutti del baratto
con altri analoghi beni di consumo deperibili? Dove
non c’è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto
pregiato da essere accumulato, gli uomini non possono
estendere la loro proprietà della terra, per ricca che
questa sia e facile a prendersi: che valore potrebbero
avere infatti per un uomo, io mi chiedo, diecimila, o
centomila, acri di terra eccellente, bell’e coltivata e
ricca di bestiame, nel cuore delle regioni interne
dell’America, dove non ci fosse alcuna speranza di
commerciare con altre parti del mondo e di guadagnare
denaro con la vendita dei prodotti? Non varrebbe
neppure la spesa della recinzione, e presto vedremmo
quell’uomo restituire alla primitiva comunanza
naturale tutto quanto eccedesse le necessità della vita
che ivi potessero condurre lui e la sua famiglia.
49. Così dapprincipio tutto il mondo era America, più
di quanto sia ora, poiché in nessun luogo si conosceva
qualcosa di simile al denaro. Trovate qualcosa che
41
abbia l’uso e il valore del denaro fra i vicini, e vedrete
quello stesso uomo cominciare subito ad allargare i
suoi possedimenti.
50. Ma, poiché oro e argento, essendo di poca utilità
per la vita dell’uomo in confronto a cibo, vestiario e
mezzi, acquistano il loro valore soltanto dal consenso
degli uomini, e di questo valore il lavoro costituisce in
gran parte la misura, è evidente che gli uomini hanno
concordemente accettato che la terra fosse posseduta
in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un
tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui
uno può legittimamente possedere più terra di quella
di cui può usare il prodotto; ricevendo in cambio del
sovrappiù oro e argento che può accumulare senza far
torto a nessuno, dato che quei metalli non si
deteriorano né vanno perduti nelle mani del
possessore.
Questa
divisione
dei
beni,
nella
disuguaglianza della proprietà privata, gli uomini
l’hanno resa attuabile al di fuori della società e senza
un patto, semplicemente attribuendo un valore all’oro e
all’argento e tacitamente accordandosi sull’uso del
denaro. Infatti, negli Stati, il diritto di proprietà è
regolato invece dalle leggi e il possesso della terra da
statuti positivi.
51. Mi pare perciò assai facile comprendere come il
lavoro poté originariamente fondare il diritto alla
proprietà dei comuni beni di natura, e come il limite di
quella fosse fissato dal consumo che possiamo farne
per i nostri usi. Non v’era dunque ragione di discutere
quel diritto, né v’erano dubbi quanto all’estensione
della proprietà che questo conferiva. Diritto e utilità
andavano insieme, perché, avendo diritto su tutto ciò
su cui poteva esercitare il suo lavoro, un uomo non era
mai tentato di lavorare per più di quello che poteva
usare. Ciò escludeva ogni contesa circa la legittimità, e
ogni usurpazione dei diritti altrui: la porzione che un
uomo si tagliava per sé era facilmente visibile, ed era
inutile, oltre che disonesto, tagliarsi una porzione
troppo grossa o prendere più di quanto poteva servire.
42
2) Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in
Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza,
l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le sole
cause delle sfortune pubbliche e delle corruzione dei
governi, hanno deciso di esporre, in una solenne
Dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri
dell’uomo,
affinché
questa
Dichiarazione,
costantemente presente a tutti i membri del corpo
sociale, ricordi ad essi i loro senza posa i loro diritti e i
loro doveri; affinché gli atti del Potere legislativo e
quelli del Potere esecutivo, potendo essere in ogni
momento confrontati coi fini di tutte le istituzioni
politiche, vengano maggiormente rispettati; affinché i
reclami dei cittadini, fondati d’ora in poi su princìpi
semplici ed incontestabili, siano sempre rivolti al
mantenimento della Costituzione ed alla felicità di
tutti.
In conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e
dichiara, alla presenza e sotto gli auspici dell’Essere
supremo, i seguenti Diritti dell’Uomo e del Cittadino.
Articolo 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi ed
eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono
essere fondate che sull’utilità comune.
Articolo 2. Il fine di ogni associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili
dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la
sicurezza, e la resistenza all’oppressione.
Articolo 3. Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun
individuo può esercitare un’autorità che non emani
espressamente da essa.
Articolo 4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò
che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti
naturali di ciascun uomo non ha confini se non quelli
che assicurano agli altri membri della società il
43
godimento dei medesimi diritti. Questi confini non
possono essere determinati che dalla Legge.
[…]
Articolo 17. Poiché la proprietà è un diritto inviolabile
e sacro, nessuno può esserne privato, se non quando
la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga
in modo evidente, e sotto la condizione di una giusta e
previa indennità.
3) K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito
Comunista, 1848
Uno spettro s’aggira per l’Europa - lo spettro del
comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si
sono alleate in una santa battuta di caccia contro
questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot,
radicali francesi e poliziotti tedeschi.
Quale partito d’opposizione non è stato tacciato di
comunismo dai suoi avversari di governo; qual partito
d’opposizione non ha rilanciato l’infamante accusa di
comunismo tanto sugli uomini più progrediti
dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari
reazionari?
Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni.
Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da
tutte le potenze europee.
E` ormai tempo che i comunisti espongano
apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di
vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che
contrappongano alla favola dello spettro del
comunismo un manifesto del partito stesso.
A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle
nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente
manifesto che viene pubblicato in inglese, francese,
tedesco, italiano, fiammingo e danese.
I
BORGHESI E PROLETARI
La storia di tutte le società esistite fino ad oggi non è stata
altro che la storia delle lotte tra le classi.
44
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba,
membri delle corporazioni e garzoni, in una parola,
oppressori ed oppressi, in costante contrapposizione, hanno
combattuto una guerra ininterrotta, a volte aperta a volte
latente; una guerra che finiva sempre, o con una
trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, o con la
distruzione delle due classi in lotta.
Nelle prime epoche della storia, verifichiamo quasi
dovunque l’esistenza di una divisione gerarchica della
società, di una scala graduata di posizioni sociali.
Nell’antica Roma, troviamo patrizi, cavalieri, plebei e
schiavi; nel medio-evo signori, servi della gleba; ed
all’interno di ciascuna classe troviamo delle posizioni
differenziate (gradazioni particolari).
La moderna società borghese, elevatasi sulle rovine della
società feudale, non ha abolito gli antagonismi tra le classi.
Essa non ha fatto altro che sostituire, a quelle vecchie,
nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme
di lotta.
Tuttavia, il carattere che distingue la nostra epoca, l’era
della borghesia, è l’aver semplificato gli antagonismi di
classe. La società si va sempre più dividendo in due vasti
campi opposti, in due classi nemiche: la borghesia ed il
proletariato.
Dai servi della gleba del medio-evo hanno avuto origine gli
abitanti dei primi comuni; da questa popolazione urbana
sono derivati gli elementi costitutivi della borghesia.
La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa,
hanno offerto alla nascente borghesia un nuovo campo di
azione. I mercati dell’India e della Cina, la colonizzazione
dell’America, il commercio con le colonie, l’aumento dei
mezzi di scambio e delle merci, hanno dato un impulso
senza precedenti al commercio, alla navigazione,
all’industria; e, di conseguenza, hanno garantito un rapido
sviluppo al fattore rivoluzionario della società feudale in via
di dissoluzione.
Il vecchio modo di produzione non era più in grado di
soddisfare i bisogni che aumentavano con l’apertura di
nuovi mercati. Il mestiere protetto da privilegi feudali fu
sostituito dalla manifattura. La piccola borghesia
industriale soppiantò le corporazioni artigiane; la divisione
del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve dinanzi alla
divisione del lavoro all’interno della singola officina.
Ma i mercati continuavano a ingrandirsi senza cessa; la
domanda si accresceva sempre di più. A sua volta, la
45
manifattura si rivelò insufficiente; ed allora le macchine ed
il vapore rivoluzionarono la produzione industriale. La
grande industria moderna soppiantò la manifattura; la
piccola borghesia manifatturiera lasciò il posto agli
industriali miliardari; capitani di eserciti di lavoratori ; ai
moderni borghesi.
La grande industria ha creato il mercato mondiale, che era
stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato
mondiale ha dato una prodigiosa accelerazione allo sviluppo
del commercio, della navigazione, di tutti i mezzi di
comunicazione. Questo sviluppo si è a sua volta ripercosso
sul progresso dell’industria; e mano mano che l’industria, il
commercio, la navigazione, le ferrovie si andavano
sviluppando, la borghesia cresceva, decuplicando i suoi
capitali e retrocedendo in secondo piano le classi
provenienti dal medio-evo.
La borghesia, noi lo vediamo, è essa stessa il prodotto di un
lungo processo di sviluppo, di una serie di rivoluzioni nei
modi di produzione e di comunicazione.
Ogni tappa dell’evoluzione che la borghesia ha fatto era
accompagnata da un corrispondente progresso politico.
Ceto oppresso dal dispotismo feudale, associazione che si
auto-governa nel Comune; ora repubblica municipale ora
terzo stato tributario della monarchia: poi, all’epoca della
manifattura, contrappeso della nobiltà nelle monarchie a
potere limitato o assolute; quindi pietra angolare del potere
delle grandi monarchie; la borghesia, da quando si sono
affermati la grande industria e il mercato mondiale, si è
finalmente impadronita del potere politico nel moderno
Stato rappresentativo, escludendone tutte le altre classi. Il
governo attuale
altro non è che un consiglio
d’amministrazione degli affari della classe borghese. La
borghesia ha svolto nella storia un ruolo essenzialmente
rivoluzionario. Dovunque ha preso il potere, la borghesia ha
calpestato i rapporti sociali feudali, patriarcali e idilliaci.
Essa ha spezzato senza pietà tutti i variopinti legami che
univano l’uomo del feudalesimo ai suoi naturali superiori,
non lasciando in vita nessun altro legame tra uomo e uomo
che non sia il freddo interesse, il gelido argent comptant. La
borghesia ha fatto affogare l’estasi religiosa, l’entusiasmo
cavalleresco, il sentimentalismo del piccolo borghese nelle
acque ghiacciate del calcolo egoistico. Essa ha fatto della
dignità personale un semplice valore di scambio; ha
sostituito alle numerose libertà, conquistate a caro prezzo,
l’unica e spietata libertà del commercio. In una parola; la
46
borghesia ha messo al posto dello sfruttamento velato da
illusioni religiose e politiche uno sfruttamento aperto,
diretto, brutale e spietato.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le
professioni fino ad allora considerate venerabili, e venerate.
Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, lo scienziato in
lavoratori salariati.
La borghesia ha strappato il velo di sentimentalismo che
ricopriva i rapporti familiari, riducendoli a puri e semplici
rapporti monetari.
La borghesia ha dimostrato come le brutali manifestazioni
di forza dell’epoca medioevale, tanto ammirate dalla
reazione, trovano il loro naturale complemento nella pigrizia
più crassa. È la borghesia che per prima ha dato la prova di
ciò che l’attività umana può compiere: creando ben altre
meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani o le
cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni che le
antiche migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere se non a patto di
rivoluzionare incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a
dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali.
La conservazione del preesistente modo di produzione era,
invece, la condizione basilare di esistenza di tutte le classi
produttive dell’industria delle epoche anteriori. Questo
continuo rivoluzionamento dei modi di produzione, questo
costante scuotimento di tutto il sistema sociale, questa
agitazione perpetua e questa permanente mancanza di
sicurezza, distinguono l’epoca borghese da tutte quelle che
l’hanno preceduta. Tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti
sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi
si dissolvono; e quelli che li sostituiscono diventano
antiquati ancor prima di cristallizzarsi. Tutto ciò che era
solido e stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene
profanato: costringendo, finalmente, gli uomini a
considerare le loro condizioni di esistenza ed i loro rapporti
reciproci con occhi disincantati.
Spinta dal bisogno di trovare sempre nuovi sbocchi, la
borghesia invade il mondo intero. Essa deve penetrare
dovunque, stabilirsi dovunque e impiantare ovunque dei
mezzi di comunicazione.
Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia
dà un carattere cosmopolita alla produzione ed ai consumi
di tutti i paesi. Facendo disperare i reazionari, ha tolto
all’industria la sua base nazionale. Le antiche industrie
sono distrutte o stanno per esserlo. Vengono soppiantate da
47
industrie nuove la cui introduzione diventa questione di vita
o di morte per tutte le nazioni sviluppate, industrie che non
utilizzano più materie prime locali, ma quelle importate
dalle zone più lontane, ed i cui prodotti vengono consumati
in ogni angolo del pianeta, non solamente nel paese.
Al posto dei vecchi bisogni, che venivano soddisfatti dalla
produzione nazionale, sorgono bisogni nuovi, il cui
soddisfacimento richiede prodotti provenienti dai paesi più
lontani e dai climi più diversi. Al posto dell’antico
isolamento e dell’autosufficienza delle singole nazioni, si
sviluppa un commercio universale, una interdipendenza di
tutte le nazioni. E ciò che vale per la produzione materiale,
viene applicato anche alla produzione intellettuale. Le
creazioni intellettuali di un paese diventano proprietà
comune di tutti. La ristrettezza e l’esclusivismo nazionali,
giorno dopo giorno, si fanno sempre più impossibili; e dalle
varie letterature nazionali e locali si forma una letteratura
mondiale. Grazie al rapido sviluppo dei mezzi di produzione
e di comunicazione, la borghesia trascina nella corrente
della civilizzazione perfino le nazioni più barbare. Il basso
prezzo delle sue merci è l’artiglieria pesante che abbatte
qualsiasi Grande Muraglia e fa capitolare i barbari più
ostinatamente ostili agli stranieri. Pena la loro morte, essa
costringe tutte le nazioni ad adottare il modo di produzione
borghese. In altre parole, la borghesia modella il mondo a
sua immagine e somiglianza.
La borghesia ha sottomesso la campagna alla città. Ha
creato metropoli enormi; ha fatto crescere in modo
prodigioso la popolazione urbana a scapito di quella rurale
e, così facendo, ha preservato una parte considerevole della
popolazione dall’idiotismo della vita dei campi. Così come ha
subordinato la campagna alla città, i popoli barbari o semicivilizzati a quelli civilizzati, la borghesia ha assoggettato i
paesi agricoli a quelli industriali e l’Oriente all’Occidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di
produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha
agglomerato le popolazioni, centralizzato i mezzi di
produzione e concentrato la proprietà nelle mani di pochi.
La inevitabile conseguenza di questi mutamenti è stata la
centralizzazione politica. Delle province indipendenti, tra
loro legate da vincoli federali, che però avevano interessi,
leggi, governi, dazi differenti, sono state riunite in una sola
nazione, con un solo governo, una sola legge, una sola
tariffa doganale ed un solo interesse nazionale di classe.
Dall’inizio del suo dominio, in poco meno di un secolo, la
borghesia ha generato forme produttive più diversificate e
48
poderose di quanto avessero mai fatto tutte insieme le
precedenti generazioni. Soggiogamento delle forze della
natura, macchine, applicazione della chimica all’industria
ed all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi
elettrici, dissodamento di interi continenti, canalizzazione
dei fiumi, popoli interi sorti come per incanto dalla terra:
quale dei secoli passati avrebbe mai potuto presagire che
simili forze produttive giacessero in seno al lavoro sociale?
Ecco dunque quanto abbiamo finora considerato: i mezzi di
produzione e di scambio sulla cui base si è formata la
borghesia sono stati creati nel seno della società feudale. Ad
un determinato grado dello sviluppo di questi mezzi di
produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società
feudale produceva e scambiava i suoi prodotti,
l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura,
in una parola: i rapporti feudali di proprietà, cessano di
corrispondere alle nuove forze produttive. Essi intralciavano
la produzione invece di favorirne lo sviluppo. Si
trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere
spezzate. Furono spezzate. Al loro posto si innalzò la libera
concorrenza con un ordinamento sociale e politico ad essa
corrispondente, con il dominio economico e politico della
classe borghese.
Sotto i nostri occhi, si sta verificando un fenomeno analogo.
La moderna società borghese, che ha messo in moto mezzi
di produzione e scambio così poderosi, rassomiglia allo
stregone che non riesce più a dominare le potenze infernali
che egli stesso ha evocato. Da almeno trent’anni, la storia
dell’industria e del commercio altra non è che la storia della
ribellione delle forze produttive contro i rapporti di
proprietà, che sono le condizioni dell’esistenza della
borghesia e del suo regno. Basta ricordare le crisi
commerciali che, con il loro ciclico ritorno, minacciano
sempre di più l’esistenza della società borghese. Ogni crisi
distrugge regolarmente non solo una massa di merci già
prodotte, ma anche una gran parte delle stesse forze
produttive. L’epidemia della sovrapproduzione un’epidemia
che in tutte le altre epoche della storia sarebbe parsa un
paradosso si abbatte sulla società: che all’improvviso si
trova ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; si
direbbe che una carestia, una guerra di sterminio l’abbiano
privata di tutti i mezzi di sussistenza; mentre l’industria ed
il commercio sembrano annichiliti. E tutto questo, perché?
Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di
sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze
produttive a sua disposizione non favoriscono più lo
49
sviluppo dei rapporti di proprietà borghesi; anzi, esse sono
diventate troppo potenti per quei rapporti, che si tramutano
in intralci; e quando le forze produttive sociali superano
questi intralci, gettano l’intera società nel disordine,
mettendo in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. Il
sistema borghese è diventato troppo stretto per contenere le
ricchezze create nel suo seno.
Come può la borghesia superare la crisi? Da un lato,
mediante la distruzione forzata di una massa di forze
produttive; dall’altro lato, mediante la conquista di nuovi
mercati e lo sfruttamento più perfezionato di quelli esistenti:
cioè preparando delle crisi più generali e terribili e
diminuendo i mezzi per prevenirle.
Le armi utilizzate dalla borghesia per abbattere il
feudalesimo si rivoltano contro di essa. Ma la borghesia non
ha soltanto forgiato le armi che devono darle la morte; ha
prodotto anche gli uomini che le impugneranno: i moderni
operai, I PROLETARI.
Mano mano si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale,
si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che
vivono solo se trovano lavoro e che lo trovano solo fino a
quando il loro lavoro accresce il capitale. Gli operai, costretti
a vendersi alla giornata, sono una merce al pari di qualsiasi
altro articolo di commercio: di conseguenza essi subiscono
tutte le vicissitudini della concorrenza, tutte le oscillazioni
del mercato.
L’introduzione delle macchine e la divisione del lavoro
hanno tolto qualsiasi interesse al lavoro dell’operaio,
spogliandolo delle sue caratteristiche individuali. Il
produttore è diventato una mera appendice della macchina;
da lui si esigono solo le più semplici e monotone operazioni,
facilissime da imparare. Ne deriva che il costo di produzione
dell’operaio si riduce pressappoco ai mezzi di sussistenza di
cui egli abbisogna per vivere e per riprodurre la sua specie.
Tuttavia, il prezzo del lavoro, come quello di tutte le altre
merci, è pari al suo costo di produzione. Quindi, quanto più
il lavoro si fa ripugnante, tanto più si abbassano i salari. Di
più ancora: il carico di lavoro aumenta con lo sviluppo del
macchinario e della divisione del lavoro, sia mediante il
prolungamento della giornata di lavoro, sia mediante
l’accelerazione del movimento della macchina.
L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del
maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del
capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle
fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono
50
poste, come soldati semplici dell’industria, sotto la
sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e
ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei
borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per
ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal
singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo
è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più
apertamente esso proclama come fine ultimo il guadagno.
Con il progredire dell’industria moderna, il lavoro richiede
sempre meno abilità e forza ed il lavoro degli uomini è
sempre più soppiantato da quello delle donne (e dei
bambini). La distinzioni di età e di sesso non hanno alcuna
validità sociale per la classe operaia. Ci sono soltanto
strumenti di lavoro, il cui prezzo differisce a seconda dell’età
e del sesso.
L’operaio, dopo che ha subito lo sfruttamento da parte del
padrone in fabbrica e che ha ricevuto il suo salario in
denaro contante, diventa la preda di altri membri della
classe borghese, del piccolo proprietario immobiliare,
dell’usuraio, ecc.
La piccola borghesia, i piccoli industriali, i commercianti, i
titolari di piccole rendite, gli artigiani ed i piccoli contadini
precipitano nel proletariato: da una parte perché
soccombono nella concorrenza con i grandi capitalisti,
poiché i loro piccoli capitali non consentono l’utilizzo dei
metodi e delle procedure della grande industria; e dall’altra
parte perché la loro particolare specializzazione viene
svalorizzata dall’introduzione di nuovi metodi di produzione.
Di conseguenza, il proletariato viene reclutato in seno a
tutte le classi della popolazione.
Il proletariato passa attraverso diverse fasi di sviluppo. La
sua lotta contro la borghesia ha inizio con la sua nascita. In
un primo tempo lottano degli operai isolati, poi gli operai di
una fabbrica, infine gli operai di una categoria in una
determinata località, contro il capitalista che li sfrutta
direttamente. Essi non si limitano ad attaccare il modo di
produzione capitalistico, ma attaccano gli stessi strumenti
della produzione: distruggono le merci straniere che fanno
loro concorrenza, spezzano le macchine, bruciano le
fabbriche e cercano di riconquistare la condizione, perduta,
dell’artigiano medioevale.
In questa fase del suo sviluppo, il proletariato costituisce
una massa disgregata, disseminata in tutto il paese e
disunita dalla concorrenza. Se talvolta accade che gli operai
si uniscano per agire come massa compatta, la loro azione
non costituisce ancora il risultato della loro propria unione,
51
ma di quella della borghesia, la quale, per raggiungere i suoi
obbiettivi politici deve mettere in moto l’intero proletariato,
ed ha, ancora, il potere di farlo. Durante questa fase i
proletari non combattono ancora i propri nemici, ma i
nemici dei loro nemici, cioè i resti della monarchia assoluta,
i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli
borghesi. In tal modo, tutto il movimento storico si
concentra nelle mani della borghesia ed ogni vittoria
riportata in queste condizioni è una vittoria della borghesia.
Tuttavia lo sviluppo dell’industria non comporta solo un
aumento del numero dei proletari, ma li concentra in masse
di notevole importanza; i proletari accrescono la propria
forza e ne prendono coscienza. Gli interessi, le condizioni di
vita dei proletari si fanno sempre più simili, nella misura in
cui le macchine cancellano le differenze nel lavoro e
riducono, quasi dappertutto, i salari a livelli egualmente
bassi.
La crescente concorrenza dei capitalisti tra di loro e le crisi
commerciali che ne derivano rendono ogni volta i salari più
insicuri, il perfezionamento permanente delle macchine
rende la posizione dell’operaio sempre più precaria; gli
scontri individuali tra l’operaio ed il borghese assumono
sempre di più il carattere di scontri tra due classi. Gli operai
cominciano a coalizzarsi contro i borghesi per la difesa dei
loro salari. Essi giungono a fondare associazioni permanenti
in previsione di queste lotte puntuali. Qua e là, la resistenza
operaia esplode in sommossa.
Qualche volta gli operai riescono a vincere; ma si tratta di
una vittoria effimera. Il vero risultato delle lotte operaie non
consiste tanto nel loro successo immediato quanto nella
crescente solidarietà dei lavoratori.
Questa unione è facilitata dall’aumento dei mezzi di
comunicazione, che consentono agli operai di località
diverse di entrare in contatto. E bastano questi rapporti per
trasformare le numerose lotte sociali, che hanno
dappertutto le medesime caratteristiche, in una lotta
nazionale, in lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è una
lotta politica. Ed i moderni proletari, grazie alle ferrovie,
riescono a costituire in pochi anni, quella unione che i
borghesi del medio-evo, attraverso i sentieri vicinali,
impiegarono secoli a raggiungere.
L’organizzazione del proletariato in classe e quindi in partito
politico è incessantemente distrutta dalla concorrenza
reciproca tra gli operai stessi; ma essa risorge sempre ed
ogni volta più forte, più ferma, più formidabile. Essa sfrutta
le divisioni interne alla classe borghese per costringerla a
52
dare una garanzia legale a determinati interessi della classe
operaia: ad esempio, la legge sulla giornata lavorativa di
dieci ore in Inghilterra.
In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono
in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La
borghesia è sempre in lotta; da principio contro
l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia
i cui interessi vengono a contrasto con il progresso
dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi
stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare
appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a
trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa
dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione,
cioè armi contro se stessa.
Per di più, come abbiamo appena veduto, intere frazioni
della classe dominante vengono precipitate nel proletariato o
vengono per lo meno minacciate nella loro condizione di
esistenza. Anche queste frazioni apportano al proletariato
numerosi fattori di progresso.
Infine, quando la lotta delle classi si avvicina al momento
decisivo, il processo di disgregazione della classe dominante,
dell’intera società, assume un carattere talmente violento,
talmente aspro, che una frazione della classe dominante se
ne stacca e si unisce con la classe rivoluzionaria, con la
classe che rappresenta l’avvenire. Ed allo stesso modo che
nel passato una parte della nobiltà si schierò al fianco della
borghesia, così oggi una parte della borghesia fa causa
comune con il proletariato, in particolare quegli ideologi
borghesi che hanno raggiunto la comprensione teorica del
movimento generale della storia.
In tutte le classi che al giorno d’oggi stanno di fronte alla
borghesia, solo il proletariato è la classe realmente
rivoluzionaria. Le altre classi vacillano e periscono con la
grande industria; il proletariato, al contrario, ne è il
prodotto più specifico.
I ceti medi, i piccoli industriali, i piccoli commercianti, gli
artigiani, i contadini, combattono la borghesia perché essa
minaccia la loro esistenza in quanto classe media. Dunque,
non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono
reazionari, perché chiedono che la storia cammini
all’indietro. E se questi ceti agiscono in modo rivoluzionario,
è perché temono di cadere nel proletariato; essi difendono in
tal modo i loro interessi futuri, non quelli attuali;
abbandonano il proprio punto di vista per assumere quello
del proletariato. Il sottoproletariato delle metropoli, questa
putrefazione passiva, questa feccia degli strati più bassi
53
della società, può essere, qua o là, trascinato nel movimento
da una rivoluzione proletaria; ma le sue condizioni di vita lo
predispongono, piuttosto, a vendersi alla reazione.
Le condizioni di esistenza della vecchia società appaiono già
distrutte nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il
proletariato è senza proprietà: i suoi rapporti familiari non
hanno niente in comune con quelli della famiglia borghese.
Il moderno lavoro industriale, che presuppone in Francia
come in Inghilterra, in Germania come in America,
l’asservimento dell’operaio da parte del capitale, ha
spogliato il proletariato di qualsiasi carattere nazionale. Per
esso, le leggi, la morale, la religione sono altrettanti
pregiudizi borghesi, che mascherano altrettanti interessi
borghesi.
Fino ad oggi, tutte le classi che hanno preso il potere hanno
cercato di consolidare la posizione acquisita, sottomettendo
la società al loro modo di appropriazione della ricchezza
sociale. I proletari non possono impadronirsi delle forze
produttive sociali senza abolire il loro attuale modo di
appropriazione e quindi tutte le forme di appropriazione
finora esistite. I proletari non hanno nulla di proprio da
conservare; anzi, essi devono distruggere ogni garanzia
privata e tutte le sicurezze private finora esistite.
Tutti i movimenti che si sono succeduti nella storia sono
stati, fin qui, movimenti di minoranze a vantaggio di
minoranze. Il movimento proletario è il movimento
spontaneo
dell’immensa
maggioranza
a
vantaggio
dell’immensa maggioranza. Il proletariato, che è l’ultimo
strato della società attuale, non può sollevarsi, non può
raddrizzarsi, senza far saltare tutti gli strati che gli stanno
sopra e formano la società ufficiale.
La lotta del proletariato contro la borghesia, benché non sia,
in sostanza, una lotta nazionale, ne prende tuttavia,
all’inizio, la forma. È ovvio che il proletariato di ciascun
paese deve farla finita, innanzitutto, con la propria
borghesia.
Tratteggiando a grandi linee le fasi dello sviluppo del
proletariato, abbiamo descritto la storia di una guerra civile,
più o meno latente, che travaglia la società fino al momento
in cui essa esplode in aperta rivoluzione ed il proletariato
stabilisce le basi del suo potere attraverso il rovesciamento
violento della borghesia.
Come abbiamo visto, tutte le società finora esistite si sono
fondate sull’antagonismo tra la classe degli oppressori e
quella degli oppressi.
54
Ma per opprimere una classe è necessario quanto meno
assicurarle condizioni di esistenza che le consentano di
vivere da schiava. Al culmine del feudalesimo, il servo della
gleba è riuscito a diventare membro del Comune; ed il
borghese in nuce del medio-evo ha raggiunto la posizione di
borghese, pur stando sotto il giogo dell’assolutismo feudale.
Invece, l’operaio moderno, lungi dall’elevarsi col progresso
dell’industria, scende sempre più in basso, perfino al di
sotto del livello delle condizioni della sua classe. Il lavoratore
precipita nel pauperismo ed il pauperismo cresce ancora più
rapidamente della popolazione e della ricchezza. È quindi
evidente che la borghesia è incapace di ricoprire il ruolo di
classe dominante e di imporre alla società, quale legge
suprema, quella delle condizioni di esistenza della propria
classe.
La borghesia non può dominare, perché non è più in grado
di assicurare l’esistenza al proprio schiavo, pur nel quadro
della sua schiavitù; e perché è costretta a lasciarlo cadere in
una situazione tale in cui, invece di farsi mantenere da esso,
deve piuttosto mantenerlo. La società non può più esistere
sotto il dominio della borghesia, il che equivale a dire che
l’esistenza della borghesia è oramai incompatibile con quella
della società.
Per la classe borghese, la condizione fondamentale di
esistenza e di supremazia è l’accumulazione della ricchezza
in mani private, la formazione e l’accrescimento del capitale;
condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro
salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza reciproca
degli operai. Il progresso dell’industria, di cui la borghesia è
l’agente passivo ed inconsapevole, sostituisce l’isolamento
degli operai con la loro unione rivoluzionaria mediante
l’associazione. Lo sviluppo della grande industria scalza da
sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa
ha stabilito il suo sistema di produzione e di appropriazione
della ricchezza prodotta.
La borghesia produce innanzi tutto proprio coloro che la
seppelliranno. La sua caduta e la vittoria del proletariato
sono ugualmente inevitabili.
II
PROLETARI E COMUNISTI
Quale posizione hanno i comunisti nei confronti dei
proletari considerati nel loro insieme?
I comunisti non costituiscono un partito differente, opposto
agli altri partiti operai.
55
Essi non hanno interessi che li distinguono dal proletariato
in generale.
Essi non proclamano dei principi settari, intorno ai quali
vorrebbero modellare il movimento operaio.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti operai
solamente su due punti:
1. Nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi sollevano e
fanno valere gli interessi comuni del proletariato;
2. Nelle varie fasi di sviluppo della lotta tra proletariato e
borghesia, essi rappresentano sempre e dovunque gli
interessi del movimento complessivo.
Sul piano pratico, dunque, i comunisti sono il reparto più
risoluto e più avanzato del movimento di ogni paese, il
reparto che incoraggia tutti gli altri; sul piano teorico, essi
hanno, nei confronti delle altre parti del proletariato, il
vantaggio di comprendere lucidamente le condizioni, il corso
e gli scopi generali del movimento proletario.
Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di quello di
tutti i partiti del proletariato: organizzazione dei proletari in
partito di classe, distruzione del dominio borghese,
conquista del potere politico da parte del proletariato.
Le tesi politiche dei comunisti non si fondano
assolutamente si idee o principi inventati o scoperti da
questo o quel riformatore del mondo.
Esse esprimono solamente, in termini complessivi, le
condizioni concrete di una lotta di classe che già esiste, di
un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. La
soppressione di una determinata forma della proprietà non
costituisce il carattere distintivo del comunismo.
La proprietà è sempre stata soggetta a costanti cambiamenti
e incessanti trasformazioni storiche.
Ad esempio, la Rivoluzione francese ha abolito la proprietà
feudale a vantaggio della proprietà borghese.
Il comunismo si distingue non per l’abolizione della
proprietà in generale, ma per l’abolizione della proprietà
borghese.
Ora, la proprietà privata, la moderna proprietà borghese, è
l’ultima e più completa espressione del modo di produzione
e di appropriazione dei prodotti che si basa sugli
antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte
degli altri.
In questo senso, i comunisti possono riassumere la loro
teoria in questa unica frase: abolizione della "proprietà
privata".
Ci è stato rimproverato, a noi comunisti, di voler sopprimere
la proprietà faticosamente acquisita con il lavoro
56
individuale; quella proprietà che si dice essere il fondamento
di ogni libertà, attività e indipendenza delle persone.
Proprietà personale, frutto del lavoro del singolo! Forse si
parla della proprietà del piccolo borghese o di quella del
piccolo contadino, forma di proprietà antecedente a quella
borghese? Non siamo noi che dobbiamo abolirla, l’ha già
abolita, o lo sta facendo, lo sviluppo dell’industria.
Ovvero si parla della proprietà privata, della moderna
proprietà borghese?
Il lavoro salariato crea forse una proprietà per il
proletariato? Assolutamente no. Esso crea il capitale, vale a
dire la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può
accrescersi se non a condizione di produrre nuovo lavoro
salariato, per sfruttarlo nuovamente. Nella sua forma
attuale la proprietà si muove tra due poli antagonistici:
capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due aspetti di
questo antagonismo.
Essere un capitalista significa occupare non solo una
posizione personale, ma una posizione sociale nel sistema
produttivo. Il capitale è un prodotto collettivo, non può
essere messo in moto che con gli sforzi combinati di molti
membri della società, anzi, in ultima istanza, con gli sforzi
combinati di tutti i membri della società.
Il capitale non è quindi una potenza personale: è una
potenza sociale.
Allora, se il capitale viene trasformato in proprietà comune,
appartenente a tutti i membri della società, ciò non significa
la trasformazione di una proprietà personale in proprietà
sociale. Ciò che viene trasformato è unicamente il carattere
sociale della proprietà. Essa perde il suo carattere di
proprietà di classe.
Veniamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario,
vale a dire la somma dei mezzi di sussistenza di cui l’operaio
abbisogna per vivere da operaio. Ne consegue che l’operaio
si appropria, tramite il suo lavoro, giusto di quanto gli
necessita per condurre una vita stentata, e riprodursi.
Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione
personale dei prodotti del lavoro, indispensabile al
mantenimento e alla riproduzione della vita umana;
appropriazione che non lascia alcun profitto netto, fonte di
potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo sopprimere questo
miserabile modo di appropriazione, che fa sì che l’operaio
vive unicamente per accrescere il capitale e vive solo quel
tanto che viene richiesto dagli interessi della classe
dominante.
57
Nella società borghese, il lavoro vivo è solo un mezzo per
accrescere il lavoro accumulato. Nella società comunista, il
lavoro accumulato è solo un mezzo per allargare, arricchire
e fare più bella la vita (degli operai).
Nella società borghese, il passato domina il presente; nella
società comunista è il presente che domina il passato. Nella
società borghese, il capitale è indipendente e personale,
mentre l’individuo attivo è dipendente ed impersonale.
La borghesia bolla come abolizione della individualità e della
libertà l’abolizione di un simile stato di cose. Ed ha ragione:
perché
si
tratta
effettivamente
dell’abolizione
dell’individualità, dell’indipendenza e della libertà borghesi.
Per libertà, negli attuali rapporti di produzione borghesi, si
intende la libertà di commercio, di libero scambio.
Ma una volta scomparso il traffico, scompare anche il libero
traffico. Del resto, tutti i paroloni sul libero scambio, al pari
di tutte le vanterie liberali dei nostri borghesi, hanno un
senso solo in confronto al commercio intralciato, al
borghese asservito del medioevo; non hanno alcun senso
quando si tratta dell’abolizione, da parte dei comunisti, del
commercio, dei rapporti borghesi di produzione e della
stessa borghesia.
Voi inorridite perché noi vogliamo abolire la proprietà
privata. Ma nella vostra società la proprietà privata è abolita
per nove decimi dei suoi membri. Ed esiste per voi, proprio
perché essa non esiste per quei nove decimi. Ci
rimproverate dunque di voler abolire una forma della
proprietà che non può esistere, se non alla condizione di
privare di qualsiasi proprietà l’immensa maggioranza della
società.
Insomma, ci accusate di voler abolire la vostra proprietà. È
vero: la nostra intenzione è proprio quella.
Dal momento in cui il lavoro non può più essere convertito
in capitale, in danaro, in proprietà fondiaria, insomma in
potere sociale monopolizzabile, ossia dal momento in cui la
proprietà personale non può più essere trasformata in
proprietà borghese, voi dichiarate che l’individualità è stata
soppressa.
Voi riconoscete, dunque, che quando parlate dell’individuo,
non intendete parlare che del borghese. E questo individuo,
indubbiamente, va soppresso.
Il comunismo non priva nessuno della facoltà di
appropriarsi della sua parte dei prodotti sociali; toglie
soltanto il potere di asservire il lavoro altrui, avvalendosi di
questa appropriazione.
58
È stata fatta anche l’obiezione che con l’abolizione della
proprietà privata cesserebbe qualsiasi attività, che una
pigrizia generale si impadronirebbe del mondo.
Se fosse vero, la società borghese avrebbe già da tempo
ceduto alla fannulloneria, poiché chi ci lavora non guadagna
e chi ci guadagna non lavora.
Tutta l’obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più
lavoro salariato dove non c’è più capitale.
Le accuse rivolte contro il modo comunista di produzione e
di appropriazione dei prodotti materiali sono state mosse
anche contro la produzione e l’appropriazione intellettuali.
Come per il borghese la scomparsa della proprietà di classe
equivale alla scomparsa della proprietà stessa, così la
scomparsa della cultura intellettuale di classe significa, per
lui, la scomparsa della cultura intellettuale in genere.
La cultura, della quale il borghese piange la perdita, per
l’immensa maggioranza degli uomini altro non è che
formazione a diventare macchina.
Ma non polemizzate con noi, finché vorrete applicare
all’abolizione della proprietà borghese il metro delle vostre
nozioni borghesi di libertà, cultura, diritto, ecc. Le vostre
idee sono anch’esse il prodotto dei rapporti di produzione e
di proprietà borghesi, così come il vostro diritto altro non è
che la volontà della vostra classe eretta a legge, una volontà
il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di
esistenza della vostra classe.
Voi condividete con tutte le classi un tempo dominanti ed
ormai scomparse l’interessata tesi in base alla quale
trasformate in eterne leggi della natura e della ragione i
rapporti sociali determinati dal vostro modo di produzione
rapporti sociali transitori, che sorgono e spariscono nel
corso della produzione. Non potete ammettere riguardo alla
proprietà borghese quello che pensate della proprietà antica,
quello che concepite sulla proprietà feudale.
Abolizione della famiglia! Perfino i più radicali si indignano
per questo infame progetto dei comunisti.
Su quale basi si fonda la famiglia borghese della nostra
epoca? Sul capitale, sul guadagno individuale. La famiglia,
nella sua pienezza, esiste soltanto per la borghesia; ma
trova il suo complemento nella forzata soppressione di
qualsiasi famiglia per i proletari nonché nella prostituzione
pubblica.
La famiglia borghese svanisce naturalmente con il venir
meno del suo necessario complemento, ed entrambe
scompariranno con la scomparsa del capitale.
59
Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei bambini
da parte dei loro genitori? Noi confessiamo questo delitto.
Ci dite anche che, sostituendo l’educazione sociale
all’educazione da parte della famiglia, noi spezziamo i legami
più sacri.
Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla
società? Dai rapporti sociali all’interno dei quali allevate i
vostri figli? Dall’intervento diretto o indiretto della società
per mezzo della scuola, ecc.? Non sono i comunisti che
inventano questa ingerenza della società nell’educazione,
essi vogliono solo cambiarne la caratteristica e strappare
l’educazione all’influenza della classe dominante.
Le declamazioni borghesi sulla famiglia e l’educazione, sui
dolci legami che uniscono il bambino ai genitori, diventano
tanto più nauseanti quanto più la grande industria
distrugge ogni legame familiare per i proletari e trasforma i
bambini in semplici articoli di commercio, in merci
strumenti di lavoro.
Ma ecco che da tutta la borghesia si leva un grido: voi
comunisti volete introdurre la comunanza delle donne!
Per il borghese, la moglie è solo uno strumento di
produzione. Egli sente dire che i mezzi di produzione devono
essere messi in comune ed ovviamente ne trae la
conclusione che ci sarà comunanza delle donne.
Egli non riesce nemmeno ad immaginare che si tratta per
l’appunto di dare alla donna un ruolo diverso da quello di
semplice mezzo di produzione.
D’altra parte, nulla è più ridicolo dell’ultra-moralistico
orrore ispirato ai nostri borghesi dalla pretesa comunanza
ufficiale delle donne presso i comunisti. I comunisti non
hanno affatto bisogno di introdurre la comunanza delle
donne, che è quasi sempre esistita.
I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le
mogli e le figlie dei loro proletari, provano un piacere
particolare nel farsi reciprocamente le corna.
Il matrimonio borghese è in pratica la comunanza delle
mogli.
Al massimo si potrebbero accusare i comunisti di voler
sostituire una comunanza delle donne ipocrita e mascherata
con un’altra, franca e ufficiale. Del resto, è evidente che,
una volta aboliti gli attuali rapporti di produzione
scomparirà la comunanza delle donne che ne deriva, cioè la
prostituzione ufficiale e non ufficiale.
I comunisti vengono inoltre accusati di voler abolire la
patria, la nazionalità.
60
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che
non hanno. Siccome il proletariato di ogni paese deve, prima
di tutto, conquistare il potere politico, ergersi a classe
dominante della propria nazione, esso rimane ancora, per
questa ragione, una classe nazionale, ma assolutamente
non nel senso borghese.
Le separazioni e gli antagonismi nazionali tra i popoli vanno
già scomparendo, sempre di più, con lo sviluppo della
borghesia, della libertà di commercio e del mercato
mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e le
condizioni di vita che ad essa corrispondono.
L’avvento del proletariato li faranno scomparire ancora più
velocemente. L’unità d’azione dei diversi proletariati, quanto
meno nei paesi sviluppati, è una delle prime condizioni della
loro emancipazione.
Abolite lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, abolirete lo
sfruttamento di una nazione su un’altra nazione.
Quando sarà scomparso l’antagonismo tra le classi
all’interno delle nazioni, scomparirà l’ostilità reciproca tra le
nazioni.
Non meritano un esame approfondito le accuse mosse ai
comunisti in nome della religione, della filosofia e
dell’ideologia in generale.
Ci vuole forse un’intelligenza molto penetrante per
comprendere che i punti di vista, le conoscenze e le
concezioni, in una parola la coscienza degli uomini,
cambiano se sono mutati i loro rapporti sociali, la loro
esistenza sociale? Che cosa dimostra la storia del pensiero,
se non che la produzione intellettuale si trasforma con la
produzione materiale? Le idee dominanti di un’epoca sono
state sempre e soltanto le idee della classe dominante.
Quando si parla di idee che rivoluzionano tutta una società,
si afferma solo il fatto che gli elementi di una nuova società
si sono formati nel seno di quella vecchia e che il
dissolvimento delle vecchie idee avanza di pari passo con la
dissoluzione dei vecchi rapporti sociali.
Quando il mondo antico ara giunto al tramonto, le vecchie
religioni furono vinte dalla religione cristiana; quando, nel
diciottesimo secolo, le idee cristiane lasciarono il posto alle
idee dell’illuminismo, la società feudale stava combattendo
la sua ultima battaglia con la borghesia, allora
rivoluzionaria. Le idee di libertà religiosa e di libertà di
coscienza non hanno fatto altro che proclamare il dominio
della libera concorrenza nel campo della conoscenza. Ma, si
dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee
religiose, morali,
61
filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in
questi cambiamenti la religione, la morale, al filosofia, la
politica, il diritto si sono sempre conservati.
Esistono, inoltre, delle verità eterne, come la libertà, la
giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le condizioni della
società. Ora, il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce
la religione e la morale, invece di costituirle su un nuovo
fondamento, e ciò contraddice con tutto il precedente
sviluppo storico.
A che cosa si riduce questa obiezione? La storia di qualsiasi
società si riassume nello sviluppo degli antagonismi di
classe, che hanno assunto forme diverse nelle diverse
epoche. Ma qualunque forma abbiano assunto questi
antagonismi, lo sfruttamento di una parte della società ad
opera dell’altra è un dato comune a tutti i secoli passati.
Non c’è dunque da stupirsi del fatto che la coscienza sociale
di tutte le epoche, nonostante tutte le divergenze e le
diversità sia sempre mutata all’interno di certe forme
comuni, forme di coscienza che si dissolveranno
completamente
solo
con
la
totale
scomparsa
dell’antagonismo fra le classi.
La rivoluzione comunista è la rottura più radicale con i
rapporti di proprietà tradizionali; nulla di strano se, nel
corso del suo sviluppo, essa rompa nella maniera più
radicale con le vecchie idee tradizionali.
Ma ora lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il
comunismo.
Come abbiamo visto sopra, la prima tappa nella rivoluzione
operaia è la costituzione del proletariato in classe
dominante, la conquista del potere statale da parte della
democrazia.
Il proletariato si servirà della supremazia politica per
strappare a poco a poco tutto il capitale alla borghesia, per
centralizzare tutti i mezzi di produzione nelle mani dello
Stato, cioè del proletariato organizzato in classe dominante,
e per accrescere al più presto la massa delle forze produttive
disponibili.
Naturalmente, all’inizio tutto ciò potrà essere attuato
unicamente violando, in maniera dispotica i diritti di
proprietà ed i rapporti di produzione borghesi, vale a dire
adottando misure che, dal punto di vista economico,
appariranno insufficienti ed insopportabili, ma che nel corso
del movimento supereranno se stesse e saranno
indispensabili come mezzi per rivoluzionare l’intero modo di
produzione.
62
Queste misure, beninteso, saranno differenti a seconda dei
diversi paesi.
Per i paesi più avanzati, tuttavia, questi sono i
provvedimenti che potranno essere, quasi generalmente,
applicati:
1°) Espropriazione della proprietà fondiaria e confisca della
rendita fondiaria a vantaggio dello Stato.
2°) Imposta fortemente progressiva.
3°) Abolizione del diritto di successione.
4°) Confisca delle proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.
5°) Centralizzazione del credito nelle mani dello Stato per
mezzo di una banca nazionale con capitale dello Stato e con
monopolio esclusivo.
6°) Centralizzazione di tutti i mezzi di trasporto nelle mani
dello Stato.
7°) Aumento delle manifatture nazionali e dei mezzi di
produzione,
dissodamento
dei
terreni
incolti
e
miglioramento delle terre coltivate secondo un sistema
collettivo.
8°) Lavoro obbligatorio per tutti, organizzazione di eserciti
industriali, soprattutto per l’agricoltura.
9°) Unificazione dell’attività agricola con quella industriale,
misure tendenti a far scomparire la differenza tra città e
campagna.
10°) Istruzione pubblica e gratuita di tutti i bambini,
abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, così come
viene attualmente praticato. Combinazione dell’istruzione
con la produzione materiale, ecc.
Scomparsi gli antagonismi di classe nel corso dello sviluppo
e concentrata tutta la produzione nelle mani degli individui
associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico.
Il potere politico, nel senso proprio del termine, è il potere di
una classe organizzata per l’oppressione di un’altra. Se il
proletariato, nella sua lotta contro la borghesia, si
costituisce necessariamente in classe; se con la rivoluzione
si erge a classe dominante e, come classe dominante,
distrugge violentemente gli antichi rapporti di produzione;
esso abolisce insieme con quei rapporti di produzione le
condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, sopprime
le classi in generale e, quindi, il suo proprio dominio come
classe.
Al posto della vecchia società borghese, con le sue classi e
con i suoi antagonismi di classe, sorge un’associazione nella
quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il
libero sviluppo di tutti.
63
[…]
I comunisti rifiutano di nascondere le loro opinioni e i loro
fini. Essi proclamano apertamente che i loro scopi non
potranno essere raggiunti senza il rovesciamento violento di
tutto il presente ordinamento sociale. Che le classi
dominanti tremino all’idea di una rivoluzione comunista! I
proletari non hanno niente da perderci, se non le loro
catene. Hanno un mondo da guadagnare.
PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI!
64
4) Leone XIII, Enciclica Rerum Novarum,
1891 19
INTRODUZIONE
Motivo dell’enciclica: la questione operaia
1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha
cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente
dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia
sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi
metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed
operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e
largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie
forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra
loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei
peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il
quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in
trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi
dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei
legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è
questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto,
venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della
Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche
sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione
cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero
opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa
crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla
questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce
ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza
dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di
proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi
con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la
questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché
ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra
proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa
perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di
falsare i giudizi e volgere la questione stessa a
perturbamento dei popoli.
2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti,
come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e
con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior
Tratta dal sito web ufficiale del Vaticano, URL
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/document
s/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html.
19
65
parte si trovano in assai misere condizioni, indegne
dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le
corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro
vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano
allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a
poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della
cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza.
Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene
condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso,
sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si
aggiunga il monopolio della produzione e del commercio,
tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno
imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco
meno che servile.
PARTE PRIMA
IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO
La soluzione socialista inaccettabile dagli operai
3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei
poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la
proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio
comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello
stato. Con questa trasformazione della proprietà da
personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili
e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia
radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le
contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è
inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti
dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici
dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.
4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il
fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà
privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria
a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita:
e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto,
non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta
mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei
risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un
terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la
mercede medesima travestita di forma, e conseguente
proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in
questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia
mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà
66
particolare,
investire le
speranza di
migliorare il
condizione.
i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di
proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la
trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di
proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la
5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una
aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di
natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra
l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due
istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne
tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra
terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto
della conservazione propria, e l’istinto della conservazione
della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al
bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé;
né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente
dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura
dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua
pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto
agli altri animali, di usufruire dei beni della natura
materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi
dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga
inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio
dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue
essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E
appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo
qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra,
comune anche agli altri animali: e questo non può essere
altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto
di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di
quelle che l’uso non consuma.
La proprietà privata è di diritto naturale
6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente
nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo
conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche
l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e
la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso.
Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più
propri al mantenimento della sua vita, non solo per il
momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale
quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra,
spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno
fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi
67
bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così
dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi,
rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato
all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla
perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può
somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile
fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello
Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che
si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il
diritto di provvedere a sé stesso.
7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il
genere umano, non si oppone per nulla al diritto della
privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non
perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio,
bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo
determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria
degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per
altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio
e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non
riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce
con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il
mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro,
impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare
un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici
frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa
un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla
natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento
della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma
ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi
e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i
beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e
le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella
parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui
lasciò come impressa una impronta della sua personalità,
sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri
l’obbligo di rispettarla.
La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine
8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come
abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali,
rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all’uomo l’uso
del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha
fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la
proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera
68
vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro.
Giacché il campo dissodato dalla mano e dall’arte del
coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto
fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono
talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi
ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che
un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i
frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto
del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto
il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi
contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova
in questa legge medesima il fondamento della divisione dei
beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente
consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza
sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di
tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste,
derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge
naturale(1), confermano tale diritto e lo assicurano con la
pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la
quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba
altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la
casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino,
non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(2).
La libertà dell’uomo
9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo
consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera
all’uomo è l’elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere
seguire il consiglio evangelico della verginità o legarsi in
matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e
nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne,
comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando
disse: Crescete e moltiplicatevi (3). Ecco pertanto la famiglia,
ossia la società domestica, società piccola ma vera, e
anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e
obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che
dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente
all’individuo va applicato all’uomo come capo di famiglia:
anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e
completa è nel consorzio domestico la sua personalità.
Famiglia e Stato
10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il
mantenimento della prole: e per impulso della natura
69
medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e
quasi una espansione e continuazione della sua persona,
egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso
della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni:
cosa impossibile a ottenersi se non mediante l’acquisto dei
beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità. Come la
convivenza civile così la famiglia, secondo quello che
abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è
quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la
famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari
alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza,
diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo
almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico
logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori
altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri.
Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della
società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa,
non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile
convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.
Lo Stato e il suo intervento nella famiglia
11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo
Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della
famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in
si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile
uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici
poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale.
Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni
scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato
e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i
diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta
giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli
consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato
né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente
stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre,
una espansione, per così dire, della sua personalità e, a
parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile
consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in
cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i
figli naturalmente qualcosa del padre... prima dell’uso della
ragione stanno sotto la cura dei genitori. (4) Ora, i socialisti,
sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato,
vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la
compagine delle famiglie.
70
La soluzione socialista è nociva alla stessa società
12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale
confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini
della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei
cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni,
alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero,
tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la
sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una
condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste
ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei
beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché
nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende
i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e
turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera
di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come
fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata.
Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il
rimedio.
PARTE SECONDA
IL VERO RIMEDIO:
L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
A) L’opera della Chiesa
13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro
pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è
possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere
alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e
la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è
affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al
nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo
problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche
degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei
ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono
direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna
affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa,
tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che
trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a
rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli
insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma
d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran
numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni
medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le
71
forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano
convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia
possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i
debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse
leggi e l’autorità dello Stato.
1 - Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro
faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio,
che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità:
togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo
tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la
natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà
esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo
stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze
in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di
necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a
vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la
vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e
l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali
uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo
nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto
inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente
fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad
espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la
necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la
terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni
della tua vita (5). Similmente il dolore non mancherà mai
sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le
ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no,
accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è
dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si
tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le
sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e
promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di
pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano
per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali.
La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel
medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio
ai mali.
2 - Necessità della concordia
15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo:
supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra;
72
quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per
battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto
contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che,
come nel corpo umano le varie membra si accordano
insieme e formano quell’armonico temperamento che si
chiama simmetria, così la natura volle che nel civile
consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne
risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra:
né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il
capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose,
mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e
barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le
stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza
meravigliosa.
3 - Relazioni tra le classi sociali
a) giustizia
16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è
interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e
mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando
agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello
imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al
proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e
fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu
pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona
dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da
atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non
mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi,
senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite
rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni:
non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità
della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli
occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo,
ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere
onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è
indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di
guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi
e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari
si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È
obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e
tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo
a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non
alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio;
non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal
confacenti con l’età e con il sesso.
73
17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la
giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende
da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i
capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di
opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di
trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la
dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al
cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai... che fu
defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie
del Signore degli eserciti (6). Da ultimo è dovere dei ricchi
non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con
violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste;
questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal
difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza.
L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a
mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio ?
b) carità
18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio
di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile
le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è
possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si
eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale
la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua,
anzi l’intera creazione diventa un mistero inspiegabile.
Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel
cristianesimo è un dogma su cui come principale
fondamento poggia tutto l’edificio della religione: cioè che la
vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Poiché
Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma
per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come
luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in
abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia
privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o
cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente
importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di
quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione
copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e
in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può
giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se
persevereremo,
regneremo
insieme
(7).
Accettando
volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha
mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con
l’esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio
74
proposto, ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che
attualmente è una momentanea e leggera tribolazione
nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura
smisurato peso di gloria (8). I fortunati del secolo sono
dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e
che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono
(9); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce
straordinariamente severe di Gesù Cristo (10); che dell’uso
dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo
conto al Dio giudice.
c) la vera utilità delle ricchezze
19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e
importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta
dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla
Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura
speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il
fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si
suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso.
Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata
proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto é,
specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma
assolutamente necessario. E’ lecito, dice san Tommaso, anzi
necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei
beni (11). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso
di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita
a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve
possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in
modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde
l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e
comunicare facilmente il proprio (12). Nessuno, Certo, é
tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai
suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza
e al decoro del proprio stato, perché nessuno deve vivere in
modo non conveniente (13). Ma soddisfatte le necessità e la
convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi.
Quello che sopravanza date in elemosina (14). Eccetto il
caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi
di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si
può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e
i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il
quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e
insegna: E’ più bello dare che ricevere (15), e terrà per fatta
o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto
faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo
75
faceste (16). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla
munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e
corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di
servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo
tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio
altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha
abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di
mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per
vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (17).
[…]
B) L’opera dello Stato
25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio
che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi
sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua
parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che
governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon
effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le
cause da cui esso dipende. Vediamo dunque quale debba
essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato non
come è sostituito o come funziona in questa o in quella
nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si
desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia
con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo
nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc.
Immortale Dei).
1 - Il diritto d’intervento dello Stato
26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi
in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle
istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in
modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata
prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il
dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle
nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon
assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della
giustizia,
dall’imposizione
moderata
e
dall’equa
distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle
industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da
altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse,
tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via,
può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al
benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò
76
di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite
ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e
competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma
dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza,
tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza
degli operai.
a) per il bene comune
27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più
da vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa
unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I
proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per
diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone,
mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne
sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere
ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere
dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli
operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si
renda a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san
Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo
una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera
della parte (26). Perciò tra i molti e gravi doveri dei
governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di
provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini,
osservando con inviolabile imparzialità la giustizia
cosiddetta distributiva.
b) per il bene degli operai
Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano
cooperare al benessere comune che poi, naturalmente,
ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non
può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si
mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella
varietà e disparità di condizione senza la quale non può
darsi e neanche concepirsi il consorzio umano. Vi saranno
sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma
uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono
in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa
più prossima ed efficace del bene comune, formano la parte
principale della nazione. Non possono allo stesso modo e
con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani;
tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente con i loro
servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale,
dovendo essere nel suo conseguimento un bene
77
perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va
principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni
società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente
abbondanza dei beni corporali, l’uso dei quali è necessario
all’esercizio della virtù (27). Ora, a darci questi beni è di
necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o
si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma,
diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro
degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È
quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo
si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza
che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e
un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al
massimo ciò che può in qualche modo migliorare la
condizione di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché
nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse
universale che non rimangano nella miseria coloro da cui
provengono vantaggi di tanto rilievo.
[…]
3 - Casi particolari d’intervento
a) difesa della proprietà privata
30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari
di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi
devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà
privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate
cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno;
perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a
migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene
consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto
colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo,
la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria
condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia
non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e
smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti
e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque
l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i
buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi
padroni da quello dello spogliamento.
b) difesa del lavoro
1) contro lo sciopero
31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata
scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A
78
questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo
Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai
padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai
comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui
d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la
pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più
efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle
leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da
cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e
padroni.
2) condizioni di lavoro
32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere
nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di
quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui
noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita
dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del
bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine
e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità
in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le
creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte
ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta:
signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli
animali che si muovono sopra la terra (28). In questo tutti
gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e
poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso
è il Signore di tutti (29). A nessuno è lecito violare
impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone
con grande riverenza, né attraversargli la via a quel
perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita
eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe
l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura,
ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di
diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso
Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del
riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in
ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si
desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma
un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il
riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita
ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al
culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la
natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge
speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento,
dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (30) e
79
che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno,
creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò
nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (31).
33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima
di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di
avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna
discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né
umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la
mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua
natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro
confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio
e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando
venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il
lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il
determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del
lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa
complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei
minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e
altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e
nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve.
Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di
rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in
un’altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con
difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e
robusto, non é ragionevole che s’imponga a una donna o a
un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non
ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia
sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e
morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba
in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende
impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe
specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura
per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono
l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza
con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In
generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo
necessario all’operaio deve essere proporzionata alla
quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze
consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In
ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre
la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro
riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo
lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei
doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.
80
3) la questione del salario
34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va
inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti.
La quantità del salario, si dice, la determina il libero
consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede,
ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si
commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga
l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita;
e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è
lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un
giusto estimatore delle cose non può consentire né
facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto
ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande
importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a
provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla
conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte
(32). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri
impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la
forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi
la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere
necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo
per il mantenimento della vita, mantenimento che è un
dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si
guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che
può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto,
poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può,
volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del
tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si
considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma
realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere,
a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come
necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di
sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario
del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure
di comune consenso il patto e nominatamente la quantità
della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia
naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei
contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve
essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si
intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla
necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i
quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore,
volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che
subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta.
Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di
81
lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la
vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca
indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di
luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di
cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino,
secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato
ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed
appoggio.
c) educazione al risparmio
35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a
mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale
agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a
risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura,
farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da
impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché
abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà
è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della
questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo
diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero
dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in
primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza
nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della
società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso.
Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la
quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e
commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza,
ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande
influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole,
dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in
questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza
di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà
avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa
distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a
ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto
maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio,
faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al
campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e
per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza.
Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad
accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della
nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento
al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un
paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai
suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da
82
questa condizione, che la privata proprietà non venga
oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della
proprietà privata deriva non da una legge umana ma da
quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente
temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È
ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere
sotto pretesto di imposte.
C) L’opera delle associazioni
1 - Necessità della collaborazione di tutti
36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono
contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con
istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi
e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le
società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni
private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova,
dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o
di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i
sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo
posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro
complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni.
Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di
tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come
attestano documenti in gran numero, ad onore e
perfezionamento delle arti medesime. I progressi della
cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita
esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni
attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni
di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e
padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di
operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace
ritornarvi sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità,
la forma del loro ordinamento e la loro azione.
[…]
CONCLUSIONE
La carità, regina delle virtù sociali
45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba
concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno
faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo
potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto
grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi
83
provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre
presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente
interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e
poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale
rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano
tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana,
senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si
dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa
non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua, la
quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di
questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il
dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la
forza dell’animo e la generosità dello zelo i ministri del
santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro,
venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le
classi della società le massime del Vangelo; impegnino le
loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino
in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la
carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza
desiderata dev’essere principalmente frutto di una effusione
di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che
compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a
sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro
l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i
lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è
benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto
sostiene (40). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra
benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro
clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore
impartiamo l’apostolica benedizione.
Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891,
anno decimoquarto del nostro pontificato.
LEONE PP. XIII
(1) Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4.
(2) Deut 5,21.
(3) Gen 1,28.
(4) S. Th. II-II, q. 10, a. 12.
(5) Gen 3,17.
(6) Giac 5,4.
(7) 2 Tim 2,12.
(8) 2Cor 4,17.
(9) Cfr. Mat 19,23-24.
(10) Cfr. Luc 6,24-25.
(11) S. Th. III-II, q. 66, a. 2.
(12) Ivi.
(13). S. Th. II-II, q. 32, a. 6.
(14) Luc 11,41.
(15) At 20,35.
84
(16) Mat 25,40.
(17) S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7
(18) 2Cor 8,9.
(19) Mar 6,3.
(20) Cfr. Mat 5,3.
(21) Mat 11,28.
(22) Rom 8,17.
(23) Cfr. 1Tim 6,10.
(24) At 4,34.
(25) Apolog, 2.39.
(26) S. Th. II-II, q. 61, a. 1 ad 2.
(27) S. Th., De reg, princ. I,17.
(28) Gen 1,28.
(29) Rom 10,12.
(30) Es 20,8.
(31) Gen 2,2.
(32) Gen 3,19.
(33) Eccl 4,9-10.
(34) Prov 18,19.
(35) S, Th., Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II.
(36) Ivi.
(37) Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3.
(38) Mat 16,26.
(39) Mat 6,32-33.
(40) 1 Cor 13,4-7.
85
b) L’elaborazione dei giuristi
5) G. R. Pothier, Traite du droit de domaine de
propriété, 1699.
1. Due specie di diritti si considerano relativamente alle
cose che sono in commercio; quello che abbiamo nella
cosa, che dicesi jus in re; quello che abbiamo rapporto alla
cosa, che chiamasi jus ad rem. Il jus in re è il diritto che noi
abbiamo in una cosa, in forza del quale essa ci appartiene,
almeno per certi riguardi . Il jus ad rem è il diritto che noi
abbiamo, non già nella cosa, ma soltanto per rapporto alla
cosa, contro la persona, che ha contratto verso di noi
l’obbligazione di darcela. Questo diritto nasce dalle
obbligazioni, e consiste nell’azione personale che noi
abbiamo contro la persona la quale ha contratta
l’obbligazione, o che è succeduta in luogo di quella che l’ha
contratta, perché essa venga condannata a darci la cosa,
ove questa trovisi in suo potere, ovvero a rifarci i danni e
interessi risultanti dall’inesecuzione della sua obbligazione.
Questo jus ad rem somministrerò la materia al nostro
Trattato delle obbligazioni, ed a que’ che lo seguirono sopra
le diverse specie di contratti.
2. Vi sono più specie di jus in re, che si chiamano ancora
diritti reali. La principale è il diritto di dominio di proprietà.
Le altre specie di diritti reali che da questo procedono, e
che ne sono come tante frazioni, sono i diritti di dominio di
superiorità, come sarebbero il dominio feudale o censuario,
il diritto enfiteutico, i diritti di servitù tanto personali che
prediali, ed il diritto d’ipoteca. Noi abbiamo già trattato del
diritto enfiteutico nel nostro Trattato dell’Enfiteusi; ci
faremo a trattare in seguito di queste altre specie di diritti
reali in differenti trattati. In questo non tratteremo che del
diritto di dominio, che parimenti si chiama diritto di
proprietà, e lo divideremo in due parti. Vedremo nella
prima cosa sia il diritto di dominio di proprietà; in che esso
consista; quali siano i differenti modi di acquistarlo e di
perderlo. Nella seconda tratteremo delle azioni che ne
nascono. Finalmente aggiungeremo un Trattato del
possesso.
86
Capitolo Primo. Cosa sia il diritto di dominio di proprietà,
ed in che consista.
3. Non vi è ai nostri giorni, riguardo ai mobili, che una solo
specie di dominio, che è quella del dominio di proprietà (a).
Dicasi lo stesso dei fondi allodiali. Riguardo ai fondi tenuti
in feudo o del censo, distinguendosi due specie di dominio,
il dominio diretto, ed il dominio utile.
Il dominio diretto, che hanno i proprietarj del feudo o del
censo sopra i fondi ch’essi danno a feudo o a censo, è il
dominio antico, originario e primitivo del fondo, da cui si e
staccato il dominio utile mediante l’alienazione che ne fu
fatta; il quale in conseguenza altro più non è che un
dominio di superiorità, ed un semplice diritto, che hanno i
padroni di farsi riconoscere come tali dai possessori dei
fondi da essi tenuti, e di esigere certe retribuzioni tendenti
a riconoscere il loro dominio.
Questa specie di dominio non e già il dominio di proprietà,
che dee formar la materia del presente trattato. Devesi
piuttosto chiamarlo dominio di superiorità, noi ne
tratteremo in seguito in un Trattato dei Feudi.
II dominio utile di un fondo comprende quanto vi ha di
utile, come di percepirne i frutti, di disporne a piacere, col
peso però di riconoscere per padrone colui che ne ha il
dominio diretto.
Il dominio utile, riguardo ai fondi stabili, si chiama dominio
di proprietà. Quegli, che ha questo dominio utile, si chiama
proprietario o padrone utile; quegli che ha il dominio
diretto, dicesi semplicemente padrone. Egli è in verità il
proprietario del suo diritto di padronanza; ma il proprietario del fondo ne è, propriamente parlando, il padrone
utile.
4. Il dominio di proprietà è così chiamato, perchè desso e il
diritto pel quale una cosa mi è propria, e mi appartiene
privativamente ad ogni altro.
Questo diritto di proprietà, considerato rapporto ai suoi
effetti, si dee definire il diritto di disporre a suo grado di
una cosa, senza però ledere l’altrui diritto, ne contravvenire
87
alle leggi, jus de re libere disponendi, o jus utendi et
abutendi.
5. Questo diritto ha molta estensione; esso comprende, 1.°
il diritto di avere tutti i frutti che nascono dalla cosa, sia
che il proprietario li percipa, sia che vengano percetti da
un altro che non ne abbia diritto. 2.° Il diritto di servirsi
della cosa, non solo pegli usi a’ quali e essa naturalmente
destinata, ma per qualunque uso a lui piacesse di farne.
Per esempio, sebbene le stanze di una casa non siano
destinate, che ad alloggiare degli uomini, tuttavia il
proprietario ha diritto di alloggiarvi bestiami. ove egli trovi
conveniente di farlo. 3.° Questo diritto di disporre
racchiude quello altresì che ha il proprietario di dare altra
forma alla sua cosa, puta, di convertire un pezzo di terra
aratoria in un prato o uno stagno, o vice versa. Egli ha
diritto non solamente di dare alla sua cosa una forma
migliore, ma ove gli piaccia convertirla in peggiore, facendo
per esempio di un buon campo aratorio un terreno incolto
atto soltanto al pascolo degli animali. 4.° Questo diritto di
disporre comprende altresì quello che ha il proprietario di
perdere intieramente la sua cosa, se così stima, per
esempio il proprietario di un bel quadro ha diritto di
cancellarlo, il proprietario di un libro ha diritto di gettarlo
alle fiamme. 5.° Il diritto d’impedire qualunque altro di
servirsene, tranne coloro che avessero questo diritto in
virtù di qualche titolo di servitù, o a’ quali ei ne avesse in
forza di convenzione conceduto un uso determinato, 6.° Il
diritto di disporre comprende quello che ha il proprietario
di alienar la sua cosa, ed anche di accordare ad altri que’
tali diritti nella sua cosa, che ad esso più aggrada o di
permetterne solamente quell’uso che stimerà di concedere.
6. Tuttochè il diritto di proprietà in sè contenga tutti questi
diritti, ciò nulla ostante il proprietario non può sempre
esercitarli: può esserne impedito, o per un difetto della sua
persona, o per qualche imperfezione del suo diritto di
proprietà.
7. I difetti della persona del proprietario sono l’età minore,
la demenza, l’interdizione, la soggezione della moglie alla
podestà del marito.
88
Distinguesi nel diritto di proprietà, egualmente che in tutti
gli altri diritti, la sostanza dall’esercizio del diritto. Un
minore proprietario ha bensì la sostanza di tutti i diritti,
che il suo diritto di proprietà in sè racchiude; ma non ne
ha l’esercizio, finchè non sia divenuto usante, per così dire,
de’ suoi diritti, in forza della maggiore età o di una parte de’
medesimi in forza del matrimonio, o in virtù di rescritti
sovrani che gli accordino per privilegio il benefizio di età.
Frattanto il tutore di questo minore è quello che ha
l’esercizio dei diritti compresi nel diritto di proprietà delle
cose appartenenti al minore; pelo conseguenza egli ha il
diritto di percepire i frutti de’ fondi di detto minore per
impiegarli a profitto di questo, di vendere i mobili per
impiegarne il prezzo o in pagamento dei debiti di questo
minore o in acquisti di fondi o rendite. A lui compete il
diritto di dare ad affitto i campi e le case appartenenti al
minore; ma non ha il diritto di venderli, senonchè per
giusti ed urgenti motivi, in virtù di un decreto del giudice,
ed osservando le formalità prescritte per l’ alienazione dei
beni dei minori. La ragione si è, che il tutore non ha questo
esercizio dei diritti, che racchiude la proprietà dei beni del
suo minore, sennonchè pel vantaggio e l’interesse dello
stesso minore, e non già l’esercizio di quelli che vi fossero
contrarj.
Quanto abbiamo detto finora l’apporto al proprietario
minore, si applica egualmente al proprietario in demenza, o
interdetto per prodigalilà. Questi ha nella sua persona la
sostanza dei dritti compresi nella proprietà de’ suoi beni;
ma la sua demenza o la sua interdizione lo priva della
facoltà di esercitarli : tocca al curatore dell’interdetto
l’esercitarli pel vantaggio e l’interesse dell’interdetto.
Allorchè una donna, maritandosi, passa sotto la podestà
del marito ella conserva il diritto di proprietà de’ suoi beni,
e ritiene in conseguenza il fondo o sia la sostanza dei diritti
che racchiude il diritto di proprietà; ma la podestà maritale
cui essa soggiace la priva della facoltà di esercitarli a sua
voglia, non potendo alienare nè disporre di cosa alcuna
senza l’autorizzazione di suo marito, come lo abbiam
veduto nel nostro Trattato della Podestà Maritale.
89
8. L’imperfezione del diritto di proprietà può egualmente
privare il proprietario di una parte dei diritti che abbiamo
detto contenersi nel diritto di proprietà, i quali però non vi
si contengono che quando la proprietà è piena e perfetta.
Una proprietà è piena e perfetta quando è perpetua, e
quando la cosa non è gravata di diritti e pesi reali a favore
di persone diverse dal proprietario. All’opposto è imperfetta
quando essa dee finire al termine di un certo tempo, o per
l’adempimento di una qualche condizione. La proprietà di
un fondo è altresì imperfetta, quando il fondo è gravato di
diritti reali a favore di qualche persona diversa dal
proprietario, imperocchè questi diritti reali sono altrettanti
diritti che furono staccati dalla proprietà.
La proprietà poi è imperfettissima allora quando è gravata
di un diritto di usufrutto; essa viene in tal caso chiamata
proprietà nuda, nuda proprietas.
9. Quegli che non ha che un diritto di proprietà risolubile
di un fondo, è privato di una parte dei diritti che la
proprietà in se racchiude quand’essa è perfetta.
Quantunque la proprietà, allorchè è perfetta, comprenda il
diritto ancor di abusare e di perdere la cosa, tuttavia non è
lecito a quello, che ha soltanto una proprietà risolubile di
un fondo, di deteriorarlo a danno di colui, al quale esso dee
ritornare per diritto di riversione o appartenere a titolo di
sostituzione; né gli è permesso di cangiarne la forma; e
quando il tempo della riversione o della sostituzione è
arrivato, egli o i suoi eredi sono tenuti a rifare i danni e
interessi risultanti da tutti i deterioramenti che vi si
ritrovassero.
10. Parimenti colui che ha una proprietà risolubile di un
fondo, non può alienarlo nè concedere de’ diritti sovr’esso
ad altre persone, senonchè pel tempo che dee durare il suo
diritto di proprietà. Appena arrivato il tempo in cui deve
risolversi questo diritto, la proprietà da lui alienata, in
qualunque mano sia essa passata e rinvengasi, si risolve,
come pure risolvonsi tutti i diritti che sovra essa egli avesse
ad altri concessi. Questo è il caso di applicare la nota regola di diritto: soluto jure dantis, solvitur jus accipientis.
90
11. Osservisi, che se colui che ha di buona fede acquistato
un fondo da quello, che ne aveva soltanto una proprietà
risolubile, l’ha posseduto durante tutto il tempo richiesto
per la prescrizione colla medesima buona fede ignorando
sempre che il venditore del fondo ne aveva soltanto una
proprietà risolubile, egli acquista per diritto di prescrizione
ciò che mancava alla proprietà in lui trasferita, la quale, di
risolubile ch’essa era, diviene una proprietà piena e
perfetta. La prescrizione può dare il diritto di proprietà a
quello, che ha acquistato in buona fede un fondo da chi
non ne era proprietario, nè poteva in conseguenza
trasferirgli il diritto di proprietà; essa può dunque per la
stessa ragione dare ciò che mancava alla perfezione della
proprietà di colui, che ha acquistato di buona fede un
fondo da quello ch’ei credeva averne la proprietà perfetta,
ma che avendola risolubile, non gliel’aveva trasferita che
come tale.
Parimenti, allorchè quelli che hanno acquistato qualche
diritto reale nel fondo di colui elle ne aveva soltanto una
proprietà risolubile, hanno posseduto questo diritto di
buona fede durante il tempo richiesto per la prescrizione,
nella supposizione che quegli da cui l’hanno acquistato avesse la proprietà perpetua del fondo, essi acquistano
mediante la prescrizione ciò che mancava alla perfezione
del diritto che hanno acquistato, il quale, di diritto
risolubile che era, diviene un diritto perpetuo. Vedi sul
diritto di usucapione e di prescrizione, e sopra i casi nei
quali questo diritto ha luogo, ciò che diremo infra nel
nostro Trattato delle Prescrizioni par. 2.
12. Quegli che ha una proprietà imperfetta di un fondo,
relativamente ai diritti reali che altre persone vi hanno, è
del pari privato di molti diritti che si trovano compresi in
quello di proprietà, quand’essa è perfetta. Per esempio, il
proprietario di un fondo gravato di usufrutto non ha alcun
diritto su i frulli che nascono nel Sila fondo per tutto quel
tempo che dee durare l’usufrutto, mentre essi
appartengono all’usufruttuario. Anzi egli non può, senza il
consenso dell’usufruttuario, nè cagionar la forma del
fondo, nè alcuna cosa distruggervi o costruirvi, nè imporvi
alcuna servitù, nè farvi in generale veruna cosa che possa
pregiudicar l’usufrutto. Similmente il proprietario di un
91
fondo gravato di qualsivoglia diritto reale nulla può fare nel
suo fondo che possa nuocere a così fatto diritto. Per
esempio, se il fondo di cui io ho la proprietà, è gravato a
favor del vicino di un diritto di passaggio, non mi è
permesso di fare veruna cosa nel luogo del mio fondo, ove
detto vicino ha questo diritto di passaggio, che nuocer
possa al medesimo. Similmente se il fondo, di cui ho la
proprietà, è gravato di un diritto di rendita eufiteutica, io
non ho diritto di abusarne e di deteriorarlo, diritto che
avrei se la mia proprietà fosse perfetta; ma sono obbligato
a conservarlo in buono stato per sicurezza della rendita,
che vi è imposta, come lo abbiam veduto nel nostro
Trattato dell’ Enfiteusi.
13. Noi abbiamo definito il diritto di proprietà, la facoltà di
disporre di una cosa a suo piacere: ed abbiam aggiunto,
senza però recar pregiudizio all’altrui diritto, Ciò deesi
intendere non solamente del diritto attuale che altri vi
hanno, ma altresì del diritto dì quelli, a’ quali la cosa dee
un giorno passare: lo che deesi intendere non solo de’
diritti reali che altri hanno nel fondo, a’ quali il
proprietario, che ha una proprietà risolubile o imperfetta
non può recar nocumento, come lo abbiam finora veduto,
ma devesi intendere ancora del diritto de’ proprietarj e
possessoii dei fondi vicini, al quale il proprietario di un
fondo, per quanto perfetto sia il suo diritto di proprietà,
non può recar pregiudizio, nè per conseguenza far nel suo
fondo ciò che le obbligazioni, che nascono dalla vicinanza,
non gli permetton di fare nel suo fondo a pregiudizio de
suoi vicini. Vedi ciò che ne abbiam detto nella seconda
appendice, che abbiamo aggiunto in fine del nostro Trattato del contralto di Società.
14. Finalmente nella nostra definizione, dopo quei termini,
senza recar pregiudizio agli altrui diritti, abbiamo aggiunto,
nè alle leggi, conciossiachè per esteso che sia il diritto che
ha un proprietario di fare della propria cosa quell’uso che
più: gli piace, non può però farne quello che le leggi gli
vietano di fare. Per esempio, sebbene il proprietario di un
campo possa piantarvi ciò che gli aggrada tuttavia non gli è
permesso di farvi una piantagione di tabacco, essendovi
delle leggi che vietano siffatte piantagioni nel regno, perché
contrarie all’interesse della finanza. Parimenti, sebbene il
92
diritto di proprietà di una cosa comprenda quello di
venderla e di trasportarla ove meglio aggrada, nul1adimeno
non è permesso di trasportar le sue biade fuori del regno,
ove esista una legge che ne vieti l’esportazione: non è permesso ad un mercante di vendere una quantità
considerevole di grani ne’ suoi granaj o magazzini,
specialmente in tempo di carestia, a pregiudizio de’
regolamenti di polizia che ordinano di portarli e venderli
sul mercato.
Similmente, quantunque la proprietà di una cosa contenga
il diritto di abusarne e di perderla, un mercante
proprietario di una quantità considerevole di grano; il
quale differendo lungo tempo a venderlo colla speranza che
ne rialzi il prezzo, l’avesse lasciato marcire in tempo di
carestia, sarebbe colpevole verso del pubblico di
un’ingiustizia notabile, perché la legge naturale non gli permette di lasciar perdere una derrata di prima necessità,
qual’è il grano, a pregiudizio del bisogno pubblico.
15. Il dominio di proprietà , al pari di tutti gli altri diritti,
tanto in re che ad rem, suppone necessariamente una
persona, nella quale questo diritto sussista ed a cui esso
appartenga.
Non è già necessario che questa persona sia naturale, o sia
un individuo fisico esistente, come sono le persone de’
particolari, a cui questo diritto appartenga; questo, come
ogni altra specie di diritto, può appartenere alle
corporazioni, alle comunità, le quali sono persone morali.
Quando un proprietario muore e nessuno vuole accettare
la sua eredità questa eredità giacente viene considerata
come una persona morale, come una continuazione di
quella del defunto; ed in questa persona fittizia sussiste il
dominio di proprietà di tutte quelle cose che appartenevano
al defunto, al pari di tutti gli altri diritti attivi e passivi del
defunto: hereditas jacens personae defuncti locum obtinet.
16. Il diritto di proprietà essendo, come lo abbiam veduta
supra, n. 4, quel diritto, per cui una cosa ci appartiene
esclusivamente ad ogni altro, egli è dell’essenza di questo
diritto, che due persone non possano avere, ciascheduna
pel totale, il dominio di proprietà di una medesima cosa:
93
Celsus ait, duorum in solidum dominium esse non posse; l.
5, § 15, ff, commod. Perlochè quand’io ho il diritto di
proprietà di una cosa, un altro non può per rerum naturam
divenirne proprietario senza che io cessi intieramente di
esserlo, ed egli non può averne la proprietà in una parte,
senza che io cessi di averla nella parte medesima. La
ragione si è che proprio e comune sono termini
contraddittorj. Se si suppone che un altro sia proprietario
d’una cosa di cui io son proprietario, allora questa cosa è
comune tra noi, e se essa è comune, non si può dire che mi
sia propria pel totale, e che io ne abbia la proprietà
riguardo al totale; avvegnachè proprio e eomune sono due
cose contraddittorie.
In ciò il jus in re differisce dal jus ad rem, più persone
potendo essere, ciascuna per lo totale, creditrici di una
medesima cosa, sia in forza di una obbligazione medesima,
allorchè questa è stata contratta verso più ereditari
solidali, come lo abbiam veduto nel nostro Trattato delle
Obbligazioni, part. 2, cap. 3, art. 7, sia in virtù dì differenti
obbligazioni o di uno stesso debitore o di diversi debitori.
La ragione dì questa differenza è, che non è possibile che
ciò che mi appartiene, appartenga nel medesimo tempo ad
un altro; ma nulla impedisce che la medesima cosa che mi
è dovuta, non sia del pari ad altri dovuta.
17. Più persone non possono in verità avere la proprietà
della medesima cosa riguardo al totale; possono bensì
avere questa proprietà in comune ciascuna per una
determinata parte. Ciò non si oppone a quello che abbia m
detto poc’anzi, cioè che la proprietà è un diritto, per cui
una cosa ci appartiene esclusivamente ad ogni altro;
imperocchè questo diritto di proprietà ch’essi hanno in
comune, è quel diritto per cui la cosa loro appartiene in
comune privativamente a tutt’altro. E fra di loro la parte
che ciascuno vi ha, a lui solo esclusivamente appartiene,
poichè la parte che uno ha nella cosa comune, non è la
parte dell’altro, ed ognuno di essi non ha diritto che di disporre della rispettiva sua quota.
Queste parti che ciascuno di coloro, che hanno il diritto di
proprietà di una cosa in comune, ha nella cosa comune,
non sono già parti reali, che non si possano formare altrimenti che mediante la divisione della cosa; ma sono parti
94
puramente intellettuali. In questo senso è detto nella legge
66, §2, ff. de lego 2. Plures in uno fundo dominium juris intellectu, non divisione ccrporis obtinent.
Più persone possono egualmente esser proprietarj in
comune di una cosa che non è suscettibile di parti neppure
intellettuali, come è un diritto di servitù che appartiene a
più comproprietarj di una casa, a cui la servitù è dovuta.
Sebbene in tal caso ciascuno de’ comproprietarj di questo
diritto di servitù lo sia per lo totale, questo diritto non
essendo suscettibile di parti, tuttavia ciò non contravviene
alla massima proposta al n. precedente: duorum in solidum
dominium esse non potest; giacchè questa massima
s’intende nel senso che più persone non possano essere,
ciascuna separatamente, proprietarj per lo totale di una
medesima cosa, ma possono essere proprietarj di una medesima cosa in comune. Ora nel nostro caso cadauno de’
comproprietarj non è proprietario separatamente del diritto
di servitù, essi non lo sono che in comune, nè lo sono totaliter che tutti insieme.
18. Il dominio di proprietà, egualmente che il jus ad rem
suppone una causa, che lo produca nella persona che ha
questo diritto. Avvi però questo divario, che il dominio di
proprietà di una cosa da me acquistata ad un certo titolo
non può appartenermi ad un altro, se non per ciò che
mancava alla proprietà che ne aveva acquistata da prima;
laddovechè una medesima cosa può essermi per diversi
titoli dovuta: non, ut ex pluribus causis idem nobis deberi
potest, ita ex pluribus causis idem potest nostrum esse: l.
159 ff. de reg. jur. Dominium non potest nisi ex una causa
contingere; l. 3, § 4, de adq. Possess.
La ragione della differenza si è, che è impossibile ch’io
acquisti ciò che già m’appartiene. Perciò quando una volta
ho acquistata la proprietà di una cosa in virtù di un titolo,
non potendola più acquistare, essa non può appartenermi
che in forza del solo titolo, pel quale l’ho acquistata. Al
contrario, nulla impedisce che una cosa che mi è già
dovuta in virtù di un titolo, non mi sia ancora dovuta in
forza di un altro. Per esempio, io suppongo che Pietro mi
abbia venduta una certa cosa; esso fa in seguito il suo
testamento, col quale ei me la lega. Codesta cosa mi è
dovuta dagli eredi di Pietro per due titoli, primo, in virtù
95
della vendita che Pietro me ne ha fatta, secondo in virtù del
legato, Quindi io ho contro di essi due azioni per questa
medesima cosa, l’azione cioè ex empio, e l’azione ex
testamento, e se questa cosa che mi è stata venduta da
Pietro, mi fosse stata altresì legata da Paolo, essa mi
sarebbe dovuta dagli eredi dell’uno come da quelli
dell’altro.
Ad opera della ragione è altrettanto necessario che gli
uomini entrino in rapporti contrattuali, - donino,
scambino, commercino ecc., quanto che essi possiedano
proprietà (§ 45 annotaz.). Se per la loro coscienza è il
bisogno in genere, la benevolenza, l’utilità ecc., ciò che li
conduce ai contratti, in sé lo è la ragione, cioè l’idea
dell’esserci avente realità (cioè di un esserci sussistente
soltanto nella volontà), proprio della libera personalità. - Il
contratto presuppone che coloro che vi intervengono si
riconoscano come persone e proprietari; poiché esso è un
rapporto dello spirito oggettivo, il momento del
riconoscimento è già in esso contenuto e presupposto (cfr.
§§ 35; 57 annotaz.).
6) Art. 544 Code civil
La propriété est le droit de jouir et disposer des choses de
la manière la plus absolue, pourvu qu'on n'en fasse pas un
usage prohibé par les lois ou par les règlements.
7) G. W. F. Hegel, La proprietà, in Lineamenti di
filosofia del diritto, 1821, ed. it. cur. G. Marini, Laterza
1999, pp. 51-72.
Sezione prima
LA PROPRIETA’
§ 41. La persona deve darsi una esterna sfera della sua
libertà, per esser come idea. Poiché la persona è la volontà
infinita essente in sé e per sé in questa prima determinazione ancora del tutto astratta, ne segue che questo
qualcosa differenziato dalla volontà, il quale può costituire
la sfera della sua libertà, è in pari modo determinato come
96
ciò che è immediatamente diverso e separabile dalla
volontà.
§ 42. L’immediatamente diverso dallo spirito libero è per lo
spirito e in sé l’esteriore in genere, - una cosa, un qualcosa
non-libero, non-personale e privo di diritti.
Cosa ha come l’oggettivo gli opposti significati, una volta,
quando si dice: questa è la cosa, importala cosa, non la
persona, - il significato del sostanziale; l’altra volta, di
contro alla persona (cioè non al soggetto particolare), la
cosa è l’opposto del sostanziale, ciò che secondo la sua
determinazione è soltanto esteriore. - Ciò che per lo spirito
libero, il quale deve certo venir distinto dalla mera
coscienza, è l’esteriore, lo è in sé e per sé, perciò la
determinazione concettuale della natura è questo, esser
l’esteriore in lei stessa.
§ 43. La persona intesa come il concetto immediato e
quindi anche come essenzialmente singola ha un’esistenza
naturale, per un lato in lei stessa, per un altro lato come
un’esistenza tale, a cui essa si riferisce come a un mondo
esterno. - Soltanto di queste cose, come quelle che lo sono
immediatamente, non di determinazioni che son capaci di
divenirlo grazie alla mediazione della volontà, si parla qui a
proposito della persona, la quale stessa è ancora nella sua
prima immediatezza.
Attitudini spirituali, scienze, arti, perfino cose religiose
(prediche, messe, preghiere, benedizione di cose sacre),
invenzioni ecc. divengono oggetti di contratto, equiparati
nel modo del comprare, vendere ecc. a cose riconosciute
per tali. Si può chiedere se l’artista, lo studioso, ecc. sia nel
possesso giuridico della sua arte, scienza, della sua
capacità di tenere una predica, di dir messa ecc., cioè se
simili oggetti siano cose. Si esiterà a chiamar cose tali
attitudini, conoscenze, capacità ecc.: poiché su simile
possesso da un lato si negozia e si contratta come su cose,
ma d’altra parte esso è un che d’interno e di spirituale,
l’intelletto può esser perplesso sulla qualificazione giuridica
del medesimo, poiché gli sta di fronte soltanto il contrasto:
che alcunché sia o cosa o non-cosa (come pure: o infinito o
finito). Conoscenze, scienze, talenti ecc. sono certamente
propri allo spirito libero e un che di interiore al medesimo,
97
non un che di esteriore, ma esso può altrettanto dar loro
grazie all’estrinsecazione un esserci esteriore e alienarli (v.
oltre 20 ), in grazia di che essi vengon posti sotto la
determinazione di cose. Essi quindi non sono da principio
un che di immediato, bensì lo divengono soltanto grazie
alla mediazione dello spirito, che riduce ciò che gli è
interno all’immediatezza ed esteriorità. - Secondo la
determinazione non-giusta e non-etica del diritto romano i
figli erano cose per il padre e questi era quindi nel possesso
giuridico dei suoi figli 21 , eppure egli stava certamente
rispetto ad essi nel rapporto etico dell’amore (rapporto che
certamente
doveva
venir
molto
indebolito
da
quell’ingiustizia). In ciò aveva luogo quindi una
unificazione, peraltro del tutto ingiusta, delle due
determinazioni di cosa e non-cosa. Nel diritto astratto, che
ha ad oggetto soltanto la persona come tale, quindi anche
il particolare, che appartiene all’esserci e alla sfera della di
lei libertà, soltanto nella misura in cui esso è un che di
separabile e di immediatamente diverso da essa,
costituisca ciò la sua determinazione essenziale, ovvero
esso possa riceverla soltanto per mezzo della volontà
soggettiva, attitudini spirituali, scienze ecc. vengono in
considerazione unicamente quanto al loro possesso
giuridico; il possesso del corpo e dello spirito, che viene
acquistato grazie a cultura, studio, abitudine ecc., ed è
come una interna proprietà dello spirito, non è da trattare
qui. Ma del passaggio di una tale proprietà spirituale
nell’esteriorità, nella quale essa rientra sotto la
determinazione di una proprietà giuridica in senso tecnico,
è da parlare soltanto in sede di alienazione.
§ 44. La persona ha il diritto di porre la sua volontà in ogni
cosa, la quale grazie a ciò è la mia e riceve la mia volontà a
suo fine sostanziale (poiché essa non ha un tal fine entro
se stessa), a sua determinazione e anima, - assoluto diritto
di appropriazione dell’uomo su tutte le cose.
Quella cosiddetta filosofia che alle singole cose immediate,
all’impersonale, ascrive realità nel senso di autonomia e di
verace essere per sé ed entro di sé, parimenti quella che
assevera che lo spirito non possa conoscere la verità e non
20
21
Cfr. §§ 66-68.
Gaio, Institutiones, I, 55; Institutiones, I, 9; Digesta, XLIII, 30.
98
possa sapere che cos’è la cosa in sé, viene immediatamente
confutata dal comportamento della libera volontà di fronte
a queste cose. Se per la coscienza, per l’intuire e
rappresentare le cosiddette cose esterne hanno la parvenza
di autonomia, la volontà libera dell’idealismo è invece la
verità di tale realtà.
§ 45. Che io abbia qualcosa nel mio stesso potere esterno,
costituisce il possesso, cosi come il lato particolare che io
renda mio qualcosa per naturale bisogno, impulso e per
l’arbitrio, è l’interesse particolare del possesso. Ma il lato
per cui io come volontà libera sono a me oggettivo nel
possesso e per tal modo anche per la prima volta volontà
reale, costituisce il verace e giuridico in quest’ambito, la
determinazione della proprietà.
Aver proprietà appare come mezzo riguardo al bisogno, se
questo vien reso la cosa prima; ma la posizione verace è
che dal punto di vista della libertà la proprietà, intesa
come il primo esserci della medesima, è fine essenziale per
sé.
§ 46. Poiché nella proprietà la mia volontà diviene a me
oggettiva come volontà personale, quindi come volontà
dell’individuo, ne segue che la proprietà acquista il
carattere di proprietà privata, e la proprietà comune, che
secondo la glia natura può venir posseduta separatamente,
acquista la determinazione di una comunione in sé
risolubile, nella quale lasciar la mia parte è per sé cosa
dell’arbitrio.
L’utilizzazione degli oggetti elementari non è suscettibile,
secondo la loro natura, di venir particolarizzata a possesso
priva.
to. - Le leggi agrarie in Roma racchiudono una lotta fra
sistema comunitario e sistema di proprietà privata del
possesso fondiario; l’ultima come momento più razionale
doveva ottenere il sopravvento, sebbene a spese di un altro
diritto. - La proprietà fide. commissaria di famiglia contiene
un momento, al quale sta di contro il diritto della
personalità e quindi della proprietà privata.
Ma le determinazioni che concernono la proprietà privata
possono dover venire subordinate a più alte sfere del
99
diritto, ad una comunità, allo stato, com’è il caso riguardo
al sistema di proprietà privata nella proprietà di una
cosiddetta persona morale, nella proprietà di manomorta.
Tuttavia tali eccezioni possono esser fondate non nel caso,
in arbitrio privato, utilità privata, bensì soltanto
nell’organismo razionale dello stato. – L’idea dello stato
platonico contiene come principio generale l’ingiustizia
verso la persona, dell’esser questa incapace della proprietà
privata 22. La concezione di una fratellanza pia o amicale e
perfino coattiva degli uomini con comunione dei beni e con
la messa al bando del principio della proprietà privata può
presentarsi facilmente alla disposizione d’animo che
misconosce la natura della libertà dello spirito e del diritto
e non la afferra nei suoi momenti determinati. Per ciò che
concerne l’aspetto morale o religioso, Epicuro trattenne dal
loro intento i suoi amici, allorché essi avevano in animo di
istituire una tale lega della comunione dei beni, proprio per
la ragione che ciò dimostra una diffidenza, e che coloro che
diffidano l’uno dell’altro non sono amici (Diog. Laert., 1. X,
n. VI 23).
§ 47. Come persona io stesso sono immediatamente
individuo, - nella sua ulteriore determinazione ciò significa
in primo luogo: io sono vivente in questo corpo organico che
è il mio esserci esterno indiviso universale secondo il
contenuto ed è la possibilità (avente realità) di ogni esserci
ulteriormente determinato, Ma come persona io ho in pari
tempo la mia vita e il mio corpo, come altre cose, soltanto in
quanto è tale la mia volontà.
Il fatto che io, per il lato pel quale esisto non come il concetto essente per sé, bensì come il concetto immediato,
sono vivente ed abbia un corpo organico, riposa sul
concetto della vita e su quello dello spirito come anima, su momenti che sono desunti dalla filosofia della natura
(Enciclop. delle scienze filos., §§ 259 sgg., cfr. §§ 161, 164 e
298 24) e dall’antropologia (ivi stesso, § 318 25). -
Cfr. § 185 Ann.
Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, X, 11.
Enc. 3, §§ agg., cfr. §§ 213, 216, 376.
Enc. 3, § 388.
2222
23
24
25
100
lo ho queste membra, la vita, soltanto in quanto io voglio;
l’animale non può da se stesso mutilarsi o uccidersi, ma lo
può l’uomo.
§ 48. Il corpo, in quanto è immediato esserci, non è
adeguato allo spirito; per esser docile organo e animato
mezzo del medesimo, esso dev’esser preso in possesso
soltanto da lui (§ 57). - Ma per altri io sono essenzialmente
un che di libero nel mio corpo, come io l’ho
immediatamente.
Soltanto perché io nel corpo sono vivente come un che di
libero, di questo vivente esserci non può abusarsi sino a
farne bestia da soma. In quanto io vivo, la mia anima (il
concetto e più altamente ciò che è libero) e il corpo non
sono separati, questo corpo è l’esserci della libertà ed io
sento in esso. È perciò soltanto intelletto privo di idea,
sofistico, che può far la distinzione che la cosa in sé,
l’anima, non venga toccata o attaccata, se il corpo viene
maltrattato e l’esistenza della persona viene assoggettata al
potere di un altro. Io posso ritrarmi in me dalla mia
esistenza e renderla esteriore, - tener lontano da me la
sensazione particolare ed esser libero nelle catene. Ma
questo è la mia volontà, per l’altro io sono nel mio corpo;
libero per l’altro io sono soltanto siccome libero nell’esserci,
è un’identica proposizione (v. la mia Scienza della logica,
val. I, pp. 49 sgg.26). La violenza fatta da altri al mio corpo è
violenza fatta a me.
Il fatto che, poiché io sento, quel che tocca il mio corpo o
gli fa violenza mi tocca immediatamente come reale e
preseziale, pone la distinzione tra offesa personale e lesione
della mia proprietà esterna, come tale che in essa la mia
volontà non è in questa immediata presenzialità e realtà.
§ 49. Nel rapporto a cose esteriori il razionale è che io
possegga proprietà; ma il lato del particolare comprende i
soggettivi fini, bisogni, l’arbitrio, i talenti, circostanze
esterne ecc (§45); da qui dipende il possesso meramente
come tale, ma questo lato particolare in questa sfera della
personalità astratta non è posto ancora identico con la
libertà. Che cosa e quanto io possegga, è perciò
un’accidentalità giuridica.
26
Wissenschaft del Logik, GW, XI, 60 sgg.
101
Nella personalità più persone, se si vuol parlare di più
persone qui, dove ancora non trova luogo tale distinzione,
sono uguali. Ma questa è una vuota proposizione
tautologica; poiché la persona come ciò che è astratto è
appunto il non ancora particolarizzato né posto in
differenza determinata. – Uguaglianza è l’astratta identità
dell’intelletto, nella quale va a sbatter subito il pensiero
riflettente, e con esso la mediocrità dello spirito in genere,
quando gli vien davanti la relazione dell’unità con una
differenza. Qui l’uguaglianza sarebbe soltanto uguaglianza
delle persone astratte come tali, al di fuori della quale
appunto perciò cade questo terreno della disuguaglianza,
tutto ciò che concerne il possesso. L’istanza talora
avanzata dell’uguaglianza nella spartizione della terra o
magari del patrimonio ulteriormente disponibile, è un
intellettualismo tanto più vuoto e superficiale, in quanto in
questa particolarità rientra non soltanto l’esterna
accidentalità della natura, bensì anche l’intera estensione
della natura spirituale nella sua infinita particolarità e
diversità, così come nella sua ragione sviluppata ad
organismo. - Non si può parlare di un’ingiustizia della
natura nell’inuguale spartizione del possesso e patrimonio,
poiché la natura non è libera, e perciò non è né giusta né
ingiusta. Che tutti gli uomini debbano avere il bastante per
i loro bisogni, è da un lato un desiderio morale e, espresso
in questa indeterminatezza, certamente ben intenzionato,
ma, come ciò che è meramente ben intenzionato in genere,
un desiderio che non è nulla di oggettivo, dall’altro lato il
bastante è qualcos’altro dal possesso e appartiene a
un’altra sfera, alla società civile 27.
§ 50. Che la cosa appartiene a colui che per primo
accidentalmente nel tempo la prende in possesso, è una
determinazione
superflua,
che
si
comprende
immediatamente da sé, perché un secondo non può
prendere in possesso ciò che è già proprietà di un altro.
§ 51. Per la proprietà intesa come l’esserci della
personalità,
non
è
sufficiente
la
mia
interiore
rappresentazione e volontà che qualcosa debba esser mio,
bensì si richiede allo scopo l’apprensione del possesso.
27
17 Cfr. §§ 199-200, 237-238, 241-245.
102
L’esserci, che quel volere grazie a ciò riceve, racchiude
entro di sé la conoscibilità per altri. - Che la cosa della
quale io posso prender possesso sia priva di dominus, è
(come al § 50) una condizione negativa la quale si
comprende da se stessa, o piuttosto si riferisce
all’anticipato rapporto con altri.
§ 52. L’apprensione del possesso rende mia proprietà la
materia della cosa, poiché la materia per sé non si
appartiene.
La materia mi offre resistenza (ed essa è soltanto questo,
offrirmi resistenza), cioè essa mostra a me il suo astratto
esser per sé soltanto come a spirito astratto, cioè come a
spirito sensibile in guisa rovesciata il rappresentare
sensibile tiene l’essere sensibile dello spirito per il concreto
e il razionale per l’astratto), ma in relazione alla volontà e
proprietà questo esser per sé della materia non ha verità.
L’apprensione del possesso intesa come operare esteriore,
grazie al quale vien realizzato l’universale diritto di
appropriazione delle cose della natura, entra nelle
condizioni della forza fisica, dell’astuzia, dell’abilità, della
mediazione in genere, in grazia dì che ci si impossessa in
guisa corporea di qualcosa. Secondo la diversità qualitativa
delle cose della natura l’impadronirsi e la presa di possesso
di esse ha un senso infinitamente molteplice ed una
parimenti infinita limitazione e accidentalità. A parte ciò il
genere e l’elementare come tale non è oggetto
dell’individualità personale; per divenir questo e poter venir
fatto oggetto d’apprensione, esso deve per prima cosa venir
singolarizzato (una boccata d’aria, un sorso d’acqua).
Nell’impossibilità d’esser in grado di prender in possesso
un genere esteriore come tale e l’elementare, non è da
considerare come la cosa ultima l’esteriore impossibilità
fisica, bensì che la persona. come volontà. si determina
come individualità e come persona è in pari tempo
individualità immediata, quindi anche come tale si
comporta verso l’esteriore come verso cose singole (§ 13
annotaz. § 43 28 ). - L’impadronirsi e l’esteriore possedere
diviene pertanto pure in guisa infinita più o meno
indeterminato e incompiuto. La materia però non è mai
senza forma essenziale e soltanto grazie a questa essa è
28
Rectius: § 13; annotaz. a § 43.
103
qualcosa. Quanto più io mi approprio di questa forma,
tanto più io vengo anche nel possesso reale della cosa. La
consumazione degli alimenti è una penetrazione e
modificazione della loro natura qualitativa, grazie alla
quale essi prima della consumazione sono ciò che sono.
L’addestramento del mio corpo organico ad abilità cosi
come l’educazione del mio spirito è in pari modo una più o
meno compiuta presa di possesso e penetrazione; è lo
spirito, che io posso a me render proprio nel modo più
compiuto. Ma questa realtà dell’apprensione del possesso è
diversa dalla proprietà come tale, la quale è completa in
grazia della volontà libera. Di fronte alla volontà libera la
cosa non ha trattenuto alcunché di peculiare per sé, pur se
nel possesso, come in un rapporto esteriore, rimane ancora
un’esteriorità. Il pensiero deve pervenire a dominare sul
vuoto astratto di una materia senza peculiarità, il quale
astratto dovrebbe restare nella proprietà fuori di me e
proprio alla cosa.
§ 53. La proprietà ha le sue determinazioni più precise nel
rapporto della volontà con la cosa; questo è α) immediatamente presa di possesso, in quanto la volontà ha nella
cosa, come in un positivo, il suo esserci β) in quanto la
cosa è un negativo di fronte alla volontà, questa ha nella
cosa come in qualcosa da negare il suo esserci, - uso γ) la
riflessione della volontà entro di sé movendo dalla cosa alienazione; giudizio positivo, negativo e infinito della
volontà sulla cosa.
A) Presa di possesso
§ 54. La presa di possesso è sia l’immediata apprensione
corporea, sia il dar forma, sia la mera apposizione di un
segno.
§ 55. α) Dal lato sensibile l’apprensione corporea, poiché io
in questo possedere sono immediatamente presenziale e
quindi la mia volontà è parimenti conoscibile, è la guisa
più completa; ma in genere soltanto soggettiva,
temporanea e quanto all’estensione, cosi come anche a
ragione della natura qualitativa degli oggetti sommamente
limitata. - Grazie alla connessione nella quale io posso
portare qualcosa con cose già altrimenti a me proprie, o
nella quale qualcosa viene in altro modo accidentalmente,
104
e grazie ad altre mediazioni, l’estensione di questa presa di
possesso viene alquanto allargata.
Forze meccaniche, armi, strumenti ampliano l’ambito del
mio potere. - Connessioni come quelle del fiume, del mare
lambenti il mio fondo, di un fondo adatto alla caccia, al
pascolo, e ad altra utilizzazione, il quale confina con la mia
proprietà immobiliare, delle pietre e di altri giacimenti di
minerali sotto il mio terreno, di tesori entro o sotto la mia
proprietà fondiaria ecc., ovvero connessioni che soltanto
seguono nel tempo e accidentalmente (come una parte
delle cosiddette accessioni naturali, alluvione e simili,
anche naufragio) - la foetura è certamente un’accessione al
mio patrimonio 29, ma, intesa come un rapporto organico,
non è un aggiungersi esteriore ad un’altra cosa da me
posseduta e pertanto di tutt’altra specie dalle restanti
accessioni, - sono per un lato possibilità più facili, in parte
esclusive, di utilizzare o di prender in possesso qualcosa
per un possessore di contro a un altro, per un altro lato ciò
che si è aggiunto può venir riguardato come un nonautonomo accidente della cosa alla quale esso si è
aggiunto. Queste sono in genere congiunzioni esteriori, che
non hanno per loro legame il concetto e il vivente. Esse
pertanto ricadono nell’intelletto per allegazione e
ponderazione dei pro e dei contro e nella legislazione
positiva per la decisione, a seconda di un più o meno di
essenzialità o inessenzialità delle relazioni.
§ 56. β) Grazie al dar forma la determinazione che qualcosa
è il mio riceve un’esteriorità sussistente per sé e cessa
d’esser limitata alla mia presenzialità in questo spazio e in
questo tempo e alla presenzialità del mio sapere e volere.
Il dar forma in tanto è la presa di possesso più adeguata
all’idea, in quanto essa unifica entro di sé il soggettivo e
l’oggettivo, d’altronde infinitamente diversa secondo la
natura qualitativa degli oggetti e secondo la diversità dei
fini soggettivi. Rientra qui anche il dar forma all’organico,
nel quale ciò che io opero in esso rimane non come un che
di esteriore, bensì viene assimilato; lavorazione della terra,
coltura delle piante, addomesticare, nutrire e custodire gli
animali;
congegni
ulteriormente
mediatori
per
29
Institutiones, II, 1, 37.
105
l’utilizzazione di forze o materiali elementari, la congegnata
influenza di un materiale su di un altro ecc.
§ 57. L’uomo è secondo l’immediata esistenza in lui stesso
un che di naturale, di esterno al suo concetto; soltanto
grazie all’addestramento del suo proprio corpo e spirito, essenzialmente perché la sua autocoscienza apprende sé
come libera, egli si prende in possesso e diventa la
proprietà di se stesso e di fronte ad altri. Questo prender
possesso è dal lato opposto parimenti questo, porre nella
realtà ciò ch’egli è secondo il suo concetto (come una
possibilità, facoltà, disposizione), per il qual modo ciò viene
altrettanto posto per la prima volta come il suo, quanto
anche come oggetto e distinto dalla semplice autocoscienza
e grazie a ciò diviene capace di ricevere la forma della cosa
(cfr. annotaz. al § 43).
L’asserita giustificazione della schiavitù (in tutte le sue fondazioni prossime attraverso la forza fisica, prigionia. di
guerra,
salvamento
e
conservazione
della
vita,
sostentamento, educazione, beneficenze, consenso proprio
ecc.) così come la giustificazione di un dominio, inteso
come. mera signoria in genere, e ogni veduta storica sul
diritto della schiavitù e della signoria riposa sul punto di
vista del prender l’uomo come entità naturale in genere
secondo un’esistenza (di cui fa parte anche l’arbitrio), la
quale non è adeguata al suo concetto. L’affermazione
dell’assoluta ingiustizia della schiavitù di contro si attiene
al concetto dell’uomo inteso come spirito, come ciò che in
sé è libero, ed è unilaterale nel fatto ch’essa prende l’uomo
come libero per natura, ovvero, ciò ch’è lo stesso, il
concetto come tale nella sua immediatezza, non l’idea,
come il vero. Questa antinomia riposa, come ogni
antinomia, sul pensare formale, il quale tien fermi e
asserisce i due momenti di un’idea, separati, ciascuno per
sé, quindi non adeguato all’idea e nella sua non-verità. Lo
spirito libero è appunto questo (§ 21), di non esser come il
mero concetto o in sé, bensì di toglier questo formalismo di
se stesso e con ciò l’immediata esistenza naturale e di darsi
l’esistenza soltanto come la sua, come libera esistenza. Il
lato dell’antinomia, che asserisce il concetto della libertà,
ha pertanto il vantaggio di contenere l’assoluto punto di
partenza, ma anche soltanto il punto di partenza per la
106
verità, mentre l’altro lato, che rimane fermo all’esistenza
priva di concetto, non contiene affatto il punto di vista di
razionalità e diritto. Il punto di vista della volontà libera,
con cui comincia il diritto e la scienza del diritto, è già al di
là del punto di vista non-vero, nel quale l’uomo come entità
naturale e soltanto come concetto essente in sé, è pertanto
suscettibile di schiavitù. Questa primi era non-vera
apparenza concerne lo spirito che è soltanto al punto di
vista della sua coscienza; la dialettica del concetto e della
coscienza soltanto immediata della volontà ha per effetto lì
stesso la lotta per il riconoscimento e il rapporto della
signoria e della servitù (v. Fenomenologia dello spirito, pp.
115 sgg. 30 e Enciclop. delle scienze filos., §§ 352 31 sgg. 22).
Che però lo spirito oggettivo, il contenuto del diritto, non
venga appreso esso stesso di nuovo soltanto nel suo
concetto soggettivo, e con ciò che questo, che l’uomo in sé
e per sé non sia destinato alla schiavitù, non venga
appreso di nuovo come un mero dover essere, questo ha
luogo unicamente nella conoscenza che l’idea della libertà è
verace soltanto se intesa come lo stato.
§ 58. γ) La presa di possesso per sé non reale, bensì
soltanto rappresentante la mia volontà, è un segno nella
cosa, significato del quale dev’esser che io ho posto la mia
volontà in essa. Quanto all’estensione oggettiva e al
significato questa presa di possesso è molto indeterminata.
B) L’uso della cosa
§ 59. Grazie alla presa di possesso la cosa riceve il predicato d’esser la mia, e la volontà ha una relazione positiva
con essa. In questa identità la cosa è altrettanto posta
come un che di negativo e la mia volontà in questa
determinazione è una volontà particolare, bisogno, libito
ecc. Ma il mio bisogno come particolarità di una volontà è il
positivo, il quale si appaga, e la cosa, intesa come il
negativo in sé, è soltanto per il medesimo e serve ad esso. –
L’uso è questa realizzazione del mio bisogno grazie alla
modificazione, distruzione, consumazione della cosa, la cui
natura priva di sé viene con ciò rivelata e la quale adempie
cosi la sua destinazione.
30
31
PhCin., GW, IX, 110 sgg.
352 L Hm I K; 382 Rph. 22.
107
Che l’uso è il lato avente realità ed è la realtà della
proprietà, sta di fronte alla rappresentazione, quando essa
riguarda per morta e priva di dominus una proprietà della
quale non vien fatto alcun uso, e in caso di illegittimo
impadronirsi della medesima adduce come ragione il fatto
ch’essa non sia stata usata dal proprietario. - Ma la volontà
del proprietario, secondo la quale una cosa è la sua, è la
prima
base
sostanziale,
della
quale
l’ulteriore
determinazione, l’uso, è soltanto l’apparenza e la
particolare guisa che vien dietro a quella base universale.
§ 60. L’utilizzazione di una cosa in apprensione immediata
è per sé una presa di possesso singola. Ma in quanto
l’utilizzazione si fonda su di un bisogno perdurante ed è
utilizzazione ripetuta di un prodotto rinnovantesi,
fors’anche si limita allo scopo della conservazione di questo
rinnovamento, ne segue che queste e altre circostanze
rendono quella singola apprensione immediata un segno
ch’essa deve avere il significato di una presa di possesso
universale, quindi della presa di possesso della base
elementare od organica o delle restanti condizioni di tali
prodotti.
§ 61. Poiché la sostanza della cosa per sé, che è mia
proprietà, è la sua esteriorità, cioè la sua non-sostanzialità
- essa di fronte a me non è fine ultimo entro se stessa (§
42) - e questa esteriorità realizzata è l’uso o l’utilizzazione
che io faccio di essa, ne segue che l’intero uso o utilizzazione è la cosa nella sua intera estensione, cosi che, se
quello mi compete, io sono il proprietario della cosa, della
quale al di là dell’intera estensione dell’uso non resta nulla
che possa esser proprietà di un altro.
§ 62. Soltanto un uso parziale o temporaneo, cosi come un
possesso parziale o temporaneo (inteso come la possibilità
essa stessa parziale o temporanea di usare la cosa), che mi
compete, è perciò distinto dalla proprietà della cosa stessa.
Se l’intera estensione dell’uso fosse mia, ma la proprietà
astratta dovesse esser di un altro, allora la cosa siccome la
mia sarebbe interamente penetrata dalla mia volontà (§
precedo e § 52), e in pari tempo vi sarebbe un che di
impenetrabile per me, la volontà, e la volontà vuota, di un
altro, - io a me nella cosa come volontà positiva oggettivo e
in pari tempo non oggettivo, - il rapporto di una contraddi-
108
zione assoluta. - La proprietà è perciò essenzialmente proprietà libera, piena.
La distinzione tra il diritto all’intera estensione dell’uso e la
proprietà astratta pertiene al vuoto intelletto, pel quale
l’idea, qui come unità della proprietà ovvero anche della
volontà personale in genere, e della realità della medesima,
non è il vero, pel quale sibbene questi due momenti nella
loro separazione l’uno dall’altro passano per qualcosa di
diverso. Questa distinzione è pertanto come rapporto reale
quello di una vuota signoria, il quale rapporto (se la follia
non venisse affermata soltanto nel caso della mera
rappresentazione del soggetto e della sua realtà, che sono
in una persona in contraddizione immediata) potrebbe
venir chiamato una follia della personalità, poiché il mio in
un oggetto dovrebbe essere senza mediazione la mia singola
volontà esclusiva e un’altra singola volontà esclusiva. Nelle Institut., lib. II, tit. IV è detto: Ususfructus est jus
alienis rebus utendi, fruendi salva rerum substantia 32. Più
oltre si dice proprio lì stesso: ne tamen in universum
inutiles essent proprietates, semper abscedente usufructu:
placuit certis modis axtingui usumfructum et ad
proprietatem reverti 33. - Placuit - come se soltanto fosse un
capriccio o un decreto, il dare un senso attraverso questa
determinazione a quella vuota distinzione. Una proprietas
semper abscedente usufructu sarebbe non soltanto inutilis,
bensì non più proprietas. - Non rientra qui il discutere altre
distinzioni della proprietà stessa, come in res mancipi e nec
mancipi, il dominium quiritarium e bonitarium e simili,
poiché esse non si riferiscono ad alcuna determinazione
concettuale della proprietà e sono fio nezze meramente
storiche di questo diritto. - Ma i rapporti del dominium
directum e del dominium utile, il contratto enfiteutico e gli
ulteriori rapporti di beni feudali con i loro canoni ereditari
ed altri· canoni, censi, livelli ecc. nelle loro svariate
determinazioni, quando tali carichi sono irredimibili,
contengono da un lato la distinzione di cui sopra, dall’altro
lato anche no, precisamente nella misura in cui al
dominium utile sono legati carichi, per cui il dominium
directum diviene in pari tempo un dominium utile. Se tali
rapporti contenessero null’altro che quella distinzione sol32
33
Institutiones, II, 4.
Ibid.
109
tanto, nella sua rigida astrazione, ivi starebbero di fronte
l’uno all’altro propriamente non due signori (domini), bensì
un proprietario e un vacuo signore. A cagione dei carichi
però sono due proprietari, che stanno in rapporto. Tuttavia
essi non sono nel rapporto di una proprietà comune. Il
passaggio a tale rapporto da quello è il più facile; - un
passaggio, che ivi è già cominciato allorquando nel
dominium directum la rendita viene calcolata e riguardata
come l’essenziale, quindi il non-calcolabile della signoria
su una proprietà, signoria che è stata più o meno tenuta
per l’elemento nobile, viene posposto all’utile 34, il quale è
qui il razionale.
E già un migliaio e mezzo d’anni, che la libertà della persona grazie al cristianesimo ha cominciato a fiorire ed è
divenuta principio universale in una parte del resto piccola
del genere umano. Ma la libertà della proprietà è stata
riconosciuta come principio da ieri, si può dire, qua e là. Un esempio dalla storia del mondo sulla lunghezza del
tempo che lo spirito adopra, per progredite nella sua
autocoscienza - e contro l’impazienza dell’ opinare.
§ 63. La cosa nell’uso è una cosa singola determinata per
qualità e quantità e in relazione a uno specifico bisogno.
Ma la sua utillzzabilirà specifica è in pari tempo siccome
quantitatiuamente determinata comparabile con altre cose
della medesima utilizzabilità, cosi come lo specifico
bisogno, al quale essa serve, è in pari tempo bisogno in
genere e in ciò secondo la sua particolarità parimenti
comparabile con altri bisogni, e quindi anche la cosa è
comparabile con cose tali, che sono utilizzabili per altri
bisogni. Questa sua universalità, la cui semplice
determinatezza vien fuori dalla particolarità della cosa, cosi
che in pari tempo si fa astrazione da questa specifica
qualità, è il valore della cosa, ove la sua verace
sostanzialità è determinata e oggetto della coscienza. Come
pieno proprietario della cosa io lo sono del suo valore,
altrettanto che dell’uso della medesima.
Il feudatario ha nella sua proprietà il tratto distintivo
ch’egli dev’esser soltanto il proprietario dell’uso, non del
valore della cosa.
34
In latino nel testo.
110
§ 64. La forma data al possesso e il segno sono esse. stesse
circostanze esteriori, senza la presenzialità soggettiva della
volontà, che sola ne costituisce il significato e il valore. Ma
questa presenzialità, che è l’uso, l’utilizzazione o altro
estrinsecarsi della volontà, cade nel tempo, con riguardo al
quale l’oggettività è la continuazione di questo estrinsecarsi.
Senza questa continuazione la cosa, come abbandonata
dalla realtà della volontà e del possesso, diviene priva di
dominus; perciò io perdo o acquisto proprietà per
prescrizione.
La prescrizione pertanto non è stata introdotta nel diritto
meramente
sulla
base
d’un
riguardo
esteriore,
contravveniente al rigido diritto, del riguardo di troncare le
dispute e confusioni, che verrebbero ad opera di antiche
pretese nella sicurezza della proprietà ecc. Al contrario la
prescrizione si fonda sulla determinazione della realità
della proprietà, della necessità che la volontà di avere
qualcosa si estrinsechi. - I pubblici monumenti sono
proprietà nazionale, ovvero propriamente, come le opere
d’arte in genere riguardo all’utilizzazione, essi valgono
come viventi e autonomi fini mercé l’anima, che vi alberga,
della rimembranza e dell’onore; ma abbandonati da
quest’anima, essi divengono da questo lato per una
nazione privi di dominus e accidentale possesso privato,
come per es. le opere d’arte. greche, egizie nella Turchia. Il diritto di proprietà privata della famiglia di uno scrittore
sulle produzioni di lui si prescrive per ragione analoga;
esse divengono prive di dominus nel senso che esse (in
guisa opposta, come quei monumenti) trapassano in
proprietà generale e, secondo l’utilizzazione, particolare ad
esse, della cosa, in accidentale possesso privato. - La nuda
terra, dedicata a tombe o anche per sé in perpetuo al nonuso, contiene un vuoto arbitrio non-presenziale, attraverso
la cui lesione nulla di reale vien leso, il cui rispetto
pertanto può anche non venir garantito.
C) Alienazione della proprietà
§ 65. Io posso spogliarmi della mia proprietà, poiché essa è
la mia soltanto in quanto io pongo in essa la mia volontà, così che io abbandoni la mia cosa in genere (derelinquire)
come priva di dominus, o la ceda alla volontà di un altro in
111
possesso, - ma soltanto in quanto la cosa per sua natura è
un che di esteriore.
§ 66. Perciò sono inalienabili quei beni, o piuttosto
determinazioni sostanziali (così come imprescrittibile il diritto ad essi), i quali costituiscono la mia persona più
propria e l’essenza universale della mia autocoscienza,
come la mia personalità in genere, la mia universale libertà
della volontà, la mia eticità, la mia religione.
Che ciò che lo spirito è secondo il suo concetto ovvero in
sé, sia anche nell’esserci e per sé (quindi sia persona ,
capace di proprietà, abbia eticità, religione), - questa idea è
essa stessa il suo concetto (come causa sui, cioè come
causa libera, esso è cosa tale, cuius natura non potest
concipi nisi existens; Spinoza, Eth., P. I, Def. 1 35). Appunto
in questo concetto, di esser ciò ch’esso è, soltanto grazie a
se stesso e come infinito ritorno entro di sé
dall’immediatezza naturale del suo esserci, risiede la
possibilità dell’opposizione fra ciò ch’esso è soltanto in sé e
non anche per sé (§ 57), così come inversamente fra ciò
ch’esso è soltanto per sé, non in sé (nella volontà il male); e qui la possibilità dell’alienazione della personalità e del
suo essere sostanziale - avvenga questa alienazione in una
guisa inconscia o espressa. Esempi di alienazione della
personalità sono la schiavitù, servitù della gleba,
incapacità di possedere proprietà, la non-libertà della
medesima ecc.; alienazione della razionalità intelligente,
moralità, eticità, religione si presenta nella superstizione,
nell’autorità e nel pieno potere concessi ad altri, di
determinare e di prescrivere a me quali azioni io debba
compiere (quando uno si impegna espressamente alla
rapina, all’omicidio ecc. ovvero alla possibilità di delitti), a
me, che cosa sia obbligo di coscienza, verità religiosa ecc. Il diritto a tal cosa inalienabile è imprescrittibile, giacché
l’atto grazie a cui io prendo possesso della mia personalità
ed essenza sostanziale, rendo me capace di diritto e di
imputazione,
morale,
religioso,
sottrae
queste
determinazioni appunto all’esteriorità, che sola dava ad
esse la capacità d’esser nel possesso di un altro. Con
questo toglier l’esteriorità cadono la determinazione
B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, Pars prima, «De
Deo»; Definitiones, I.
35
112
temporale e tutte le ragioni che possono venir tratte dal
mio precedente consenso o tolleranza. Questo ritorno di me
in me stesso, grazie a cui io mi rendo esistente come idea,
come persona giuridica e morale, toglie il precedente
rapporto e il torto che io e l’altro abbiam fatto al mio
concetto e alla mia ragione: di aver trattato e lasciato
trattare l’esistenza infinita dell’autocoscienza come un che
di esteriore. - Questo ritorno in me scopre la
contraddizione d’aver dato in possesso ad altri la mia
capacità giuridica, eticità, religiosità, ciò che io stesso non
possedevo, e che, appena io lo posseggo, esiste appunto
essenzialmente soltanto come il mio e non come un che di
esteriore.
§ 67. Delle mie possibilità dell’attività e attitudini (corporee e
spirituali) particolari io posso alienare produzioni singole e
un uso limitato nel tempo da parte d’un altro, poiché esse
ottengono secondo questa limitazione un rapporto esteriore
con la mia totalità e universalità. Attraverso l’alienazione
del mio intero tempo, concreto grazie al lavoro, e della
totalità della mia produzione io ne renderei proprietà d’un
altro il sostanziale, la mia universale attività e realtà, la
mia personalità.
È il medesimo rapporto che sopra, § 61, tra la sostanza
della cosa e la sua utilizzazione; come questa, soltanto in
quanto essa è limitata, è diversa da quella, così anche l’uso
delle mie forze è diverso da esse stesse e quindi da me,
soltanto in quanto esso è quantitativamente limitato; - la
totalità delle estrinsecazioni di una forza è la forza stessa, degli accidenti la sostanza, delle particolarizzazioni
l’universale.
§ 68. Il peculiare nella produzione spirituale può grazie alla
maniera dell’estrinsecazione rovesciarsi immediatamente in
tale esteriorità di una cosa, che può ora venir parimenti
prodotta da altri; così che con l’acquisto di essa il nuovo
proprietario, oltre al fatto ch’egli con ciò può render propri i
pensieri comunicati o l’invenzione tecnica, la quale
possibilità talvolta (nelle opere letterarie) costituisce l’unica
destinazione e il valore dell’acquisto, in pari tempo viene
nel possesso della maniera universale di estrinsecarsi in tal
modo e di produrre tali cose molteplicemente.
113
Nelle opere d’arte la forma raffigurante il pensiero in un
materiale esteriore è come cosa a tal punto il peculiare
dell’individuo
producente,
che
un’imitazione
della
medesima è essenzialmente il prodotto della propria abilità
spirituale e tecnica. In un’opera letteraria la forma, grazie a
cui essa è una cosa esteriore, così come nell’invenzione di
un apparecchio tecnico, è di tipo meccanico, - là, perché il
pensiero viene esposto soltanto in una serie di astratti
segni isolati, non in figurazione concreta, qui, perché esso
in genere ha un contenuto meccanico, - e la maniera di
produrre tali cose come cose appartiene alle comuni
abilità. Tra gli estremi dell’opera d’arte e della produzione
artigianale ci sono del resto stadi intermedi, che hanno in
sé ora più, ora meno dell’uno o dell’altro.
§ 69. Poiché l’acquirente di un tale prodotto possiede,
nell’esemplare come singolo, il pieno uso e valore del medesimo, ne segue ch’egli è completo e libero proprietario del
medesimo come di un prodotto singolo, sebbene l’autore
dello scritto o l’inventore dell’apparecchio tecnico rimanga
proprietario dell’universale maniera di moltiplicare simili
prodotti e cose, come di quell’universale maniera che egli
non ha alienato immediatamente, bensì può riservare la
medesima a sé come estrinsecazione propria.
Il sostanziale del diritto dello scrittore e inventore non è da
cercare
innanzitutto
nella
circostanza
ch’egli
nell’alienazione
del
singolo
esemplare
renda
arbitrariamente condizione il fatto che la possibilità, con ciò
entrante nel possesso dell’altro, di produrre ormai in ugual
modo tali prodotti come cose, non divenga proprietà
dell’altro, bensì rimanga proprietà dell’inventore. La prima
questione è se una tale separazione della proprietà della
cosa dalla possibilità, data con essa, di produrla in ugual
modo, è ammissibile nel concetto e non toglie la piena,
libera proprietà (§ 62), _ sulla qual base soltanto viene a
dipendere dall’arbitrio del primo produttore spirituale di
mantenere, o di alienare come un valore, questa possibilità
per sé, o di non porre su di essa alcun valore per sé e con
la singola cosa di rinunciare anche ad essa. Questa
possibilità cioè ha il carattere peculiare di esser nella cosa
il lato per cui questa è non soltanto un possesso, bensì un
patrimonio (v. sotto, § § 170 sgg.), così che questo risiede
114
nella particolare maniera dell’uso esterno che vien fatto
della cosa e che è diverso e separabile dall’uso al quale la
cosa è immediatamente destinata (quest’uso non è, come lo
si chiama, una accessio naturalis tal come la foetura). Ora,
poiché la differenza rientra in quel che secondo la sua
natura è divisibile, nell’uso esteriore, ne segue che la
ritenzione dell’una parte al momento dell’alienazione dell’altra parte dell’uso non è la riserva di una signoria senza
utile 36 . - Il meramente negativo, ma primissimo
promovimento delle scienze e delle arti è di assicurar coloro
che in esse lavorano, di contro al furto, e di accordar loro la
protezione della loro proprietà; come il primissimo e più
importante promovimento del commercio e dell’industria fu
di renderle sicure di contro al brigantaggio sulle strade
maestre. - Poiché del resto il prodotto dello spirito ha la
destinazione di venir appreso da altri individui e di venir
reso proprio alla loro rappresentazione, memoria, pensare
ecc., ne segue che la loro estrinsecazione 37 , grazie alla
quale essi in egual modo rendono una cosa alienabile ciò
che hanno imparato (giacché imparare non significa
soltanto imparare amente le parole con la memoria - i
pensieri di altri possono venir appresi soltanto col pensare,
e questo ripensare è anche imparare), ha sempre 38 con
facilità una qualsiasi forma peculiare, così che quegli
individui possono considerare come loro proprietà il
capitale resultantene e affermare per sé sulla base di ciò il
diritto a tale produzione. La propagazione delle scienze in
genere e il determinato ufficio dell’insegnamento in
particolare, conformemente alla sua destinazione e dovere,
nel modo più determinato nelle scienze positive, nella
dottrina di una chiesa, nella giurisprudenza ecc., è la
ripetizione di pensieri stabiliti, in genere già estrinsecati e
assunti dal di fuori, quindi anche in scritti che hanno per
fine quest’ufficio dell’insegnamento e la propagazione e
diffusione delle scienze. Ora fino a qual punto la forma che
risulta nella estrinsecazione ripetentesi trasformi il
patrimonio scientifico sussistente e in particolare i pensieri
di quei tali altri che sono ancora nella proprietà esteriore
In latino nel testo.
so hat ihre Äusserung Hm; und ihre Äusserung Rph G B L; [[ und
ihre Äusserung]] I.
38 [[hat]] immer Hm; so hat ihre Kusserung immer I; hat immer Rph G
B L.
36
37
115
dei loro prodotti spirituali, in una speciale proprietà
spirituale dell’individuo riproducente, e quindi a lui dia o
fino a qual punto non dia il diritto di renderli anche sua
proprietà esteriore, - fino a qual punto tale ripetizione in
un lavoro letterario divenga un plagio, non si lascia
indicare attraverso una esatta determinazione e quindi non
si lascia stabilire giuridicamente e legalmente. Il plagio
dovrebbe pertanto essere una questione d’onore e venir da
questo raflrenato. - Le leggi contro la contraffazione
adempiono perciò il loro fine, di assicurare giuridicamente
la proprietà degli scrittori e degli editori, invero in
un’estensione determinata, ma molto limitata. La facilità
con cui intenzionalmente si può cambiar qualcosa nella
forma oppure inventare una modificazioncella ad una
grande scienza, ad una comprensiva teoria, che è l’opera di
un altro, oppure anche l’impossibilità di rimanere alle
parole dell’autore nell’esposizione di ciò che s’è appreso,
comportan di per sé, prescindendo dai fini particolari per i
quali una tale ripetizione divien necessaria, l’infinita
molteplicità di variazioni che alla proprietà altrui
imprimono lo stampo più o meno superficiale del proprium;
come i cento e cento compendi, sunti, raccolte ecc., libri di
aritmetica, geometrie, scritti di edificazione ecc. mostrano
come ogni trovata di una rivista critica, di almanacco delle
muse, di enciclopedia ecc. può sùbito in pari modo venir
ripetuta sotto il medesimo o sotto un mutato titolo, ma
affermata come qual. cosa di peculiarmente proprio; - per
cui allora con facilità allo scrittore o all’imprenditore che
inventa, il guadagno che a lui prometteva metteva la sua
opera o il suo ritrovato, vien ridotto a niente o
reciprocamente abbassato o rovinato a tutti. - Ma per quel
che concerne l’efficacia dell’onore contro il plagio, qui é
sorprendente questo: che l’espressione plagio o magari
furto letterario non vien più udita - sia, o che l’onore ha
avuto la sua efficacia per rimuovere il plagio, o che questo
ha cessato d’esser contro l’onore, e il sentimento qui
d’intorno è dileguato, o che una trovatuccia e un
cambiamento d’una forma esterna stima così altamente sé
come originalità e come produrre pensante da se stesso, da
non lasciar neppur nascere entro di sé il pensiero di un
plagio.
116
§ 70. La comprensiva totalità dell’attività esteriore, la vita,
non è di fronte alla personalità (come tale che essa stessa è
questa e immediata) un che di esteriore. L’alienazione o
sacrificio della vita medesima è l’opposto piuttosto che
l’esserci di questa personalità. Io non ho perciò un diritto a
quell’alienazione in genere, e soltanto un’idea etica, come
quella in cui questa personalità immediatamente singola in
sé è sprofondata, e che ne è la forza reale, ha un diritto ad
essa, così che in pari tempo, al modo che la vita come tale
è immediata, anche la morte è l’immediata negatività della
vita medesima, perciò la morte deve venir ricevuta dal di
fuori, come una cosa della natura, o, nel servizio dell’idea,
da mano straniera.
Passaggio dalla proprietà al contratto
§ 71. L’esserci, inteso come essere determinato, è essenzialmente essere per altro (vedi sopra, annotaz. a § 48);
la proprietà, secondo il lato per cui essa è un esserci (come
cosa esteriore), è per altre esteriorità e nella connessione di
questa necessità e accidentalità. Ma inteso come esserci
della volontà esso è siccome per altro soltanto per la
volontà di un’altra persona. Questa relazione di volontà a
volontà è il peculiare e verace terreno nel quale la libertà
ha esserci. Questa mediazione, di avere proprietà non più
soltanto per mezzo di una cosa e della mia volontà
soggettiva, bensì parimenti di averla per mezzo di un’altra
volontà, e quindi in una volontà comune, costituisce la
sfera del contratto.
Ad opera della ragione è altrettanto necessario che gli
uomini entrino in rapporti contrattuali, - donino,
scambino, commercino ecc., quanto che essi possiedano
proprietà (§ 45 annotaz.). Se per la loro coscienza è il
bisogno in genere, la benevolenza, l’utilità ecc., ciò che li
conduce ai contratti, in sé lo è la ragione, cioè l’idea
dell’esserci avente realità (cioè di un esserci sussistente
soltanto nella volontà), proprio della libera personalità. - Il
contratto presuppone che coloro che vi intervengono si
riconoscano come persone e proprietari; poiché esso è un
rapporto dello spirito oggettivo, il momento del
riconoscimento è già in esso contenuto e presupposto (cfr.
§§ 35; 57 annotaz.).
117
8) M. Prospero, Proprietà, mercato e imposte in Hegel,
in Scuola superiore dell'economia e delle finanze Rivista on line, n. 2, 2010
[…]
2.Il rapporto individuo cosa
L'individuo singolo non è il presupposto, come per i
giusnaturalisti, è il risultato della vita moderna. Hegel ritiene
che "la creazione della società civile appartiene al mondo
moderno" 39 e quindi solo moderno può essere l'individualismo.
Alla sua base c'è la comparsa di una distinzione tra sfera
pubblica e ambito privato sconosciuta nella bella eticità antica.
La rottura della comunità coesa e la disgregazione dello status
sono la condizione per la visibilità trasparente dell'individuo
come dimensione privata, sottratto allo sguardo del pubblico. "Il
diritto alla particolarità del soggetto, di trovarsi appagato,
ovvero, il che è lo stesso, il diritto della libertà soggettiva,
costituisce il punto di svolta e centrale nella differenza tra
l'antichità e l'età moderna" 40. Hegel però non tratta dell'individuo
Hegel, Lineamenti, cit., agg. Par.182. Solari rintraccia nella nozione
di società civile di Hegel "l'elemento veramente vitale del suo pensiero
giuridico e sociale" (G. Solari, La filosofia politica, Bari, 1974, p. 211).
Avverte Solari (p. 254) che "la scoperta della società civile come
concetto autonomo fu il grande merito di Hegel, maggiore certamente
di quello che solitamente gli si attribuisce di aver rinnovato il
sentimento e la dignità dello Stato". Anche per altri interpreti quella di
società "è la grande intuizione hegeliana che sarà il cardine di tutta la
scienza sociale e politica dei nostri tempi" (G. De Ruggiero, Hegel, Bari,
1972, p. 203). Nella esplorazione della società civile Hegel "coglie i
legami profondi tra i vari istituti economici, sociali e giuridici" (G.
Fassò, Storia della filosofia del diritto, Bari, 2001,III, p. 80).
40 Hegel, Lineamenti, cit., par. 124. Per questo Hegel si pone alla
conclusione "del movimento moderno del dritto naturale", di questa
"scienza laica" che parte "da premesse puramente laiche" per "rendere
superflue le verità rivelate" (F. Rosenzweig, Hegel e lo Stato, Bologna,
1976, p.360). In tal senso si esprime anche N. Bobbio, Studi hegeliani,
Torino, 1983. Per Bobbio tuttavia la ragione di Hegel non ha nulla a
che spartire con quella dei giusnaturalisti (N. Bobbio, M. Bovero,
Società e Stato nella filosofia politica moderna, Milano, 1979, p. 74).
Hegel nega che un diritto naturale o razionale possa esistere senza
essere reale, storico, positivo ma parte "dal singolo e cerca di
conquistare il concetto di comunità da questa premessa". Il suo è uno
sforzo di "costruire il divenire della comunità dai singoli svincolati gli
uni dagli altri" (Rosenzweig, op. cit.). Un estremo individualismo
convive con esigenze comunitarie, con istanze imponderabili come il
concetto di destino. De Ruggiero (op cit, p. 190) avverte il rischio per il
soggetto di "un conformismo che modella l'individuo nello stampo della
collettività". Questo rischio è incancellabile dal momento che lo sforzo
39
118
e della sua astratta capacità giuridica come una conseguenza
della società civile, la fonda in maniera atemporale anteponendo
la titolarità astratta di diritti all'ingresso nel mondo conflittuale
della società moderna. Nel campo del diritto privato o astratto
Hegel condivide le stesse asserzioni volontaristiche e atomistiche
dei giusnaturalisti. Il particolare mondo delle relazioni
civilistiche costruisce un ambito del tutto peculiare che è
riparato dalle asfissianti determinazioni pubbliche. Non che
Hegel accetti in toto il paradigma giusnaturalista, anzi ricorda
spesso la sua avversione per "la riflessione astratta" che fissa il
momento
del
particolare
"nella
sua
distinzione
e
contrapposizione di contro all'universale" 41 . Ma la sua veduta
condivide la presenza di una sfera privata o civile ben distinta
dal momento della statualità che, essa sì, non tollera alcun
ricorso alle nozioni del contratto. Hegel cerca solo di integrare la
condizione moderna della soggettività o particolarità con
l'essenziale precisazione che l'individuo è un prodotto storico
accertabile, non il punto di partenza. E' solo tramite la storia che
l'individuo si separa dalla comunità ed emerge come irriducibile
diversità. E tuttavia, malgrado questa acuta consapevolezza del
carattere storicamente prodotto dell'individuo, e quindi del suo
connotato tutt'altro che originario, Hegel prende le mosse
proprio dal diritto astratto e dall'individuo separato.
Prima ancora della società civile, con la sua trama dei bisogni
che lega i differenti corpi in relazioni continue per
l'appagamento, egli fonda la sfera del diritto astratto e della
proprietà proiettandola in un mondo sconfinato di io irrelati che
vogliono le cose senza disporre di una cornice sociale e
istituzionale necessaria ad accordare diritti e a stabilire obblighi.
In tal modo, le sfere del diritto astratto e della proprietà si
rivelano delle costruzioni solo mentali e non delle storiche
istituzioni sociali. Hegel prima definisce gli schemi astratti
(persona, contratto) validi ab aeterno e solo dopo li applica alle
di Hegel è quello di transitare dalla società civile "a una società
integrata" (J. Rohls, Storia dell'etica, Bologna, 1995, p. 384). In
generale l'intento di Hegel è "di sostituire al predominio del sociale
quello del politico" (C. Cesa, Fichte, i romantici, Hegel, in L. Firpo (a
cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali,Torino, 1975,
IV, p. 841).
41 Hegel, Lineamenti, cit.. Scrive Hegel: "in passato si credeva di dover
dedurre dalla natura dell'uomo i principi che andavano sotto il nome di
diritto naturale; nello stesso tempo si credeva che il diritto statale non
corrispondesse alla natura, fosse qualcosa di non più naturale" (Scritti
storici e politici,Bari, 1997, p. 287). Questa scissione tra ragione e
istituzioni è inaccettabile: "c'è diritto solo là dove esiste uno Stato". Per
Hegel "la storia ha inizio solo con la legge e con lo Stato" (p. 288).
Niente autorizza a santificare il dato empirico giacché "non tutto ciò
che esiste è reale" (ivi).
119
concrete relazioni sociali che così hanno a disposizione forme già
pronte prima di averle espresse nella concretezza dell'esperienza
intersoggettiva. Prima vengono definite le forme astratte e poi si
introduce la vita di relazione. Le forme compaiono ancor prima
delle operative necessità della vita in comune,esse sono
storicamente inapprese. La relazione sociale finisce così per
essere l'inveramento di tipi giuridici predefiniti. La società è una
conseguenza del diritto e gli schemi astratti del diritto sono
creazioni arbitrarie di un ordinamento aleatorio che esiste già
prima che compaiano le relazioni sociali. Le forme non sono un
risultato dello stare insieme con gli altri, ma anticipano
l'incontro dei soggetti che hanno una capacità giuridica
originaria. Benché avverti con chiarezza che "soltanto dopo che
gli uomini si sono scoperti molteplici bisogni e l'acquisizione dei
medesimi si intreccia nell'appagamento, possono venir fatte delle
leggi" 42 , Hegel fonda il diritto astratto o civile prima ancora
dell'esplorazione del sistema dei bisogni e della entrata nella
società civile. La trama genetica degli istituti non conta ed è
fuorviante rispetto alla identificazione del nesso logico che
pretende di costruire un universo giuridico vincolante solo sulla
volontà del soggetto come assoluto centro di volontà. Per questo
sforzo di cogliere il rapporto logico e non il dato empirico, la
proprietà è vista come "fine essenziale per sé" e non "come mezzo
riguardo al bisogno" (Lineamenti, par. 45). A giudizio di Hegel, il
bisogno può essere visto non come il dato originario ma come un
pungolo: "i bisogni sono in generale gl'incentivi all'attività degli
uomini" 43.I bisogni sono anche delle costruzioni artificiali e "la
razionalità della moda consiste nel fatto che essa esercita sul
gusto dell'epoca il diritto di rinnovarlo continuamente" 44. Ma il
dato empirico quale sollecitazione immediata è irrilevante: la
volontà crea una sfera esterna solo per esercitare la libertà
infinita dell'attore.
42 Hegel, Lieamenti, cit., agg. par. 210. Per Hegel "i bisogni uniscono gli
uomini in maniera naturale, ma il vincolo dei rapporti giuridici è
tutt'altra cosa" (Scritti storici e politici, cit.).
43 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, cit. p. 225.
44 Hegel, Estetica, cit., p. 838. Il moderno lavoro unilaterale e
semplificato grazie all'invenzione delle macchine genera la moda come
straordinario impulso al nuovo consumo: "il taglio dei vestiti, lo stile
dell'arredamento non sono niente di permanente. La loro variazione è
essenziale e razionale, molto più razionale che il restar fermi ad una
moda, il voler affermare qualcosa di fisso in certe singole forme"( Hegel,
Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 168). La moda non ha a che fare
con l'estetica ("il bello non è sottoposto ad alcuna moda") ma con il
consumo, con la creazione di un gusto mutevole attraverso "una
bellezza eccitante che vuole eccitare l'impulso, il desiderio, la causalità"
(ivi).
120
Hegel precisa che la proprietà è una manifestazione dell'idea di
libertà e non una risposta a un bisogno legato alla disponibilità
di oggetti esterni. La priorità del bisogno lascerebbe la cosa come
un che di positivo e di per sé sussistente. Ma la natura non ha
questa indipendenza ed è priva della capacità di fondare diritti.
Non è un caso che una delle figure più rilevanti nell'analisi
hegeliana sia costituita dalla persona, cioè dalla espressione
soggettiva della volontà libera capace di compiere atti
giuridicamente rilevanti, al riparo da obblighi forzosi o rapporti
di dominio ingiustificati. Come scrive Goethe "la nostra volontà
vale la tua, / calpestarla non è facile". La volontà libera è il
tratto distintivo della nozione di persona provvista di autonoma
capacità giuridica. Volontà e persona sono inseparabili. Nella
libertà della persona, del "soggetto capace di diritto, di
imputazione", Hegel scorge il momento caratteristico della
modernità. Nel mondo moderno, con la nascita, ciascun
individuo è titolare di diritti inviolabili ("sii persona e rispetta gli
altri come persone"). Ogni individuo diventa un soggetto
giuridico ("la personalità contiene in generale la capacità
giuridica") che può entrare in rapporti con gli altri seguendo
comportamenti liberi e privi di violenza. L'affermazione del
moderno coincide con la generalizzazione delle relazioni
contrattuali. Hegel spiega che "il diritto è il rapporto fra gli
uomini nella misura in cui sono persone astratte. È contraria al
diritto quell'azione con cui l'uomo non viene rispettato come
persona, o la quale invade la sfera della sua libertà" 45 . La
fondazione della categoria giuridica della proprietà avviene a
questo livello generico della persona che vuole la cosa. E' la
volontà unilaterale rivolta alla cosa a fondare il diritto astratto.
Trasferire la proprietà da istituzione sociale specifica a
manifestazione di una volontà al di fuori del tempo significa
obbedire alla non innocente supposizione che anche la proprietà
sia forma vuota indifferente ai tipi di organizzazione della vita
sociale. Quando la persona agisce suppone che la sua volontà
illimitata possa raggiungere qualsiasi cosa. In contatto entrano
la volontà della persona giuridica e la cosa disponibile senza che
gli altri siano in qualche misura coinvolti. Il rapporto con la
natura avviene in assenza del nesso sociale: è una volontà
sradicata e priva di contenuto sociale quella che si aggiudica la
cosa come un legittimo coronamento della sua inesauribile
brama. Eppure anche Hegel si mostra consapevole che il punto
cardine della proprietà risieda proprio nella relazionalità, ossia
nel riferimento a una norma comune che conduce alla
45 Hegel, Propedeutica filosofica, in Hegel, Il dominio della politica,Roma,
1980.
121
"esclusione di tutti gli altri" 46 . Fissando nel semplice rapporto
con la cosa il titolo originario della proprietà egli decide di
mettere fuori gioco gli altri e una istituzione pubblica garante
degli scambi di volontà. Non occorrono dunque gli altri per
fondare una relazione giuridica in quanto la volontà del singolo,
con l'elemento di spiritualità che contiene, è in grado di
aggiungere qualcosa in più all'oggetto esterno che così perde la
sua indifferenza e si presta ad essere preso in proprietà. La
volontà è davvero potenziata al di là di ogni limite e ciò consente
di vedere il diritto anche dove si scorge soltanto una pretesa di
fare propria una cosa.
In questa costruzione hegeliana riecheggia una concezione del
soggetto come anima che sulla base della volontà razionale
azzera la sfera del tutto negativa della corporeità sensibile.
Anche il corpo è un che di esteriore su cui si esercita la volontà
di possesso del soggetto persona. "Il corpo - scrive Hegel - in
quanto è esistenza immediata, non è adeguato allo spirito; per
essere organo volitivo e mezzo animato del medesimo, deve
anzitutto esser preso in possesso da esso" 47. Il soggetto è pura
coscienza e volontà. Il suo corpo è invece un puro involucro
naturale che dev'essere controllato e guidato dallo spirito.
Riaffiora, in questo modo, l'antico dualismo corpo-anima. Hegel
scrive che nella religione cristiana "il soggetto ha in se un valore
infinito, perché è oggetto della grazia divina. Ma l'uomo ha
questo solo come spirito, e perciò è necessario che esso si separi
dalla naturalità" 48. Anche Hegel si incammina verso la tradizione
spiritualistica che svaluta il corpo ritenendolo un elemento
puramente sensibile privo di autentico valore. La caratteristica
essenziale del soggetto risiede nella sua capacità di agire come
volontà pura al riparo da ogni determinazione sensibile. Il
mondo esterno viene piegato dalle manifestazioni del volere.
Tutto ruota attorno al soggetto come centro di volontà che crea il
diritto sulla base della semplice decisione di prendere la cosa.
Hegel è ben consapevole che l'esistenza "è essenzialmente esser
per un altro". Questo riconoscimento del carattere relazionale
dell'esistenza non gli impedisce tuttavia di trattare il problema
Hegel, Scritti teologici giovanili, Napoli, 1989, p. 561.
Hegel, Lineamenti, cit. Osserva Marx: "la schiavitù legale della gleba
non era forse una prova reale contro le ubbie razionali secondo le quali
il corpo umano non dev'essere oggetto di mercato e di possesso"
(Opere, vol. I, Roma, 1976, p. 136). Sul nesso tra nascita di un privato
come ambito distinto dal pubblico e cristianesimo insiste R. Finelli,
Mito e critica delle forme, Roma, 1996, p. 201.
48 Hegel, Lineamenti, cit. Il possesso naturalistico viene potenziato a
proprietà e "la cosa prodotta per soddisfare il bisogno non è soltanto
una cosa lavorata, ma una cosa appropriata nelle specifiche forme
della proprietà privata" (Cerroni, op. cit., p. 27).
46
47
122
della proprietà sotto l'angolo di osservazione del nesso che si
stabilisce tra la volontà del soggetto ("soltanto la volontà è
l'infinito. Quindi appropriarsi significa soltanto manifestare
l'elevatezza della mia volontà di fronte alla cosa") e la cosa
esteriore (che non è mai "in sé e per sé, non è fine autonomo").
Scompare così la relazione sociale tra gli individui e la proprietà
viene fondata da Hegel già prima di aver problematizzato la
società civile, il sistema dei bisogni e l'ordinamento dello Stato.
Restano perciò in campo solo la volontà (costruita in modo del
tutto indipendente dal rapporto con gli altri) e la cosa
(presentata come un pezzo di natura, un che di "non libero,
senza diritto"). Oltre la volontà singola non ci sono elementi di
condizionamento (gli altri, le istituzioni) che possano turbare
l'epifania del soggetto isolato.
E' stato notato che Hegel "ha interpolato surrettiziamente la
pienezza dei contenuti della volontà nell'astratta vuotezza
formale della persona" 49. Nel suo disegno, la società rappresenta
un sistema consapevole di convivenza che compare solo dopo il
diritto astratto e le vuote determinazione delle persone
giuridiche. La volontà, piena dei contenuti oggettivi che è
riuscita a desumere dai reali rapporti esteriori, incontra e
vitalizza la persona dapprima costruita come vuoto ambito
formale, come astratta capacità giuridica, come generica libertà
di agire sugli oggetti. Il mondo è solo un'appendice del volere e la
volontà ha gli empirici contenuti desunti senza griglie critiche
adeguate dal mondo reale. Per questa leggerezza della volontà
capace di lambire ogni dimensione esterna, Hegel non si
preoccupa di precisare un limite alla volontà. Qualsiasi cosa
cada sotto il suo angolo di osservazione può costituire oggetto di
legittima appropriazione. Il volere può abbracciare qualsiasi
cosa. Non si capisce come la volontà di prendere tutte le cose
incontri dei limiti in questa fase che Hegel caratterizza solo per
la vigenza di un diritto astratto concepito in assenza di società
civile e Stato. Tra agguerrite volontà che rivendicano le stesse
cose, solo un terzo elemento, quello pubblico, riuscirebbe a
stabilire obblighi e restrizioni. Non si può, restando solo
nell'ambito del diritto astratto, e quindi al riparo della statualità,
fondare limiti diversi da quelli che la volontà esclusiva del
singolo è in grado di imporre. Il diritto astratto senza Stato non
M. Rossi,Il sistema hegeliano dello Stato, Milano, 1976. Infatti "se di
fronte alla «natura» si trova la volontà libera in quanto tale, coi suoi
bisogni, desideri ecc., la presa di possesso, il darsi un'esistenza sarà
qualcosa di comprensibile, ma non di giuridico; se, a trovarsi di fronte
alla natura è la persona, essa non potrà incidere sulla natura perché
non ha altro contenuto che la possibilità astratta, e non potrà darsi
nessuna esistenza".
49
123
può essere definito diritto e non conosce altre restrizioni che
quelle provenienti dalla potenza di ciascuna volontà. Il limite
non può che corrispondere alla minaccia privata o alla
volontaria astensione dal fare proprie cose che anche altri
vogliono. Il quanto si possegga, che Hegel fa rientrare nell'ambito
della pura accidentalità, è una questione che non può essere
risolta con gli strumenti del diritto astratto o della volontà
intersoggettiva fissata nella legge positiva. Non è la legge a
stabilire la impossibilità di appropriarsi di una cosa.
Spiega Hegel: "una cosa che è già di un altro non mi è lecito
prenderla in possesso, e non già perché essa è una cosa, ma
perché è cosa sua. Se infatti mi impossesso della cosa, io tolgo
in lei il predicato di essere la cosa sua, e con ciò nego la di lui
volontà. La volontà è qualcosa di assoluto che io non posso
mutare in qualcosa di negativo" 50 . La volontà di un individuo
ben incorporata nella cosa, e non un obbligo giuridico, è dunque
il titolo che impedisce a chiunque altro di entrarvi in possesso.
E' sufficiente la volontà di un attore isolato a stabilire diritti e
obblighi in merito alla cosa. Il rapporto generico della volontà
con il mondo esterno avviene in Hegel già entro le peculiari
figure giuridiche della proprietà privata. Hegel suppone,
tacitamente, molte altre "cose" che intervengono a strutturare
un rapporto, tra la volontà individuale e la cosa, che sia anche
giuridicamente
protetto.
Egli
suppone
l'esistenza
dell'ordinamento giuridico di origine statale senza il quale
l'appropriazione resta un mero fatto accidentale e non diventa
mai un diritto consolidato. Lo stesso Hegel avverte che "il
concetto di diritto come potenza fornita di autorità indipendente
dagli impulsi della singolarità, ha realtà effettuale soltanto nella
società statuale" 51. Se questo è vero, il rapporto unilaterale della
volontà con la cosa non può mai fondare un istituto giuridico. II
paradosso della costruzione hegeliana risiede nel fatto che essa,
da una parte, riconosce che il mio e il tuo esigono "la difesa della
proprietà mediante l'amministrazione della giustizia", dall' altra
postula che la proprietà rappresenti un "fine essenziale per sé"
che può valere come "assoluto diritto di appropriazione su tutte
le cose". La fretta di giustificare la proprietà prima ancora di
entrare nella società e nello Stato, sospinge Hegel persino a
celebrarne l'assolutezza e il carattere illimitato, connotati che
restano estranei però al diritto che in quanto relazione tra
persone non può che configurarsi come relativo e limitato. Dal
Hegel, Lineamenti, cit. Il possesso naturalistico viene potenziato a
proprietà e "la cosa prodotta per soddisfare il bisogno non è soltanto
una cosa lavorata, ma una cosa appropriata nelle specifiche forme
della proprietà privata" (Cerroni, op. cit., p. 27).
51 Hegel,Propedeutica filosofica, cit.
50
124
mero rapporto con la cosa Hegel ricava inoltre acquisizioni
ingiustificate: il carattere privato, nel senso di giuridicamente
privato, della proprietà e la esclusione senza tentennamenti di
ogni suggestione comunitaria che paventa qualcosa di
demoniaco.
Il nesso che si stabilisce tra una volontà e la cosa però può
designare solo un momento dell'appropriazione e non può certo
essere, come Hegel pretende, già inquadrato nell'ambito di un
compiuto diritto di proprietà. Una volontà isolata, che proietta il
suo desiderio sulla cosa, non può fondare alcun diritto poiché il
diritto è sempre una relazione tra soggetti. La volontà astratta di
Hegel si rivela ben piena di contenuti empirici come quelli
espressi dalle forme storiche della proprietà privata. La volontà
astratta ingloba concrete articolazioni sociali e confida sulla
protezione degli appositi istituti espressi dal moderno. Senza
dirlo esplicitamente Hegel costruisce il momento dell'astratto e
della pura forma sul calco costituito dal moderno istituto
proprietario. L'appropriazione della cosa, un elemento generico
che può esplicarsi in una molteplicità di modi, per Hegel deve
avvenire nelle forme specifiche e, in modo del tutto surrettizio
assolutizzate, della proprietà privata. Il generico (appropriazione)
si appiattisce sulle forme specifiche (proprietà privata) e il
congiunturale meccanismo acquisitivo del moderno (proprietà
privata) sale a determinazione universale e metatemporale
(appropriazione). Diventa così del tutto impensabile una
manifestazione diversa del rapporto con la cosa che non sia
quello insormontabile espresso nei calchi rigidi della proprietà
privata. Il ragionamento di Hegel si avvolge in un circolo: poiché
la comunità è inesistente sono presenti persone e poiché si
rintracciano solo persone non può esserci comunità. Le forme
della libertà del soggetto sono così collegate con gli astratti
schemi della proprietà, come accadeva in certe manifestazioni
del giusnaturalismo da Hegel sbeffeggiate. Il nemico
dell'astrazione, che specula in nome della ricomposizione di un
nesso tra la ragione e la realtà storica, accetta così proprio i
paradigmi della riflessione, le rigide divisioni dell'intelletto.
Anche se non sfugge una accortezza analitica: Hegel svela una
sfasatura temporale tra due diverse espressioni della libertà. La
libertà della persona precede la libertà della proprietà. E
quest'ultima mostra di avere maggior rilevanza ai suoi occhi. C'è
stata una fase di libertà della persona che non esprimeva
tuttavia le forme della proprietà. Segno evidente questo che
occorre qualcos'altro rispetto al mero diritto astratto perché sia
disponibile un regime proprietario ben strutturato. Questa
ulteriore condizione è qualcosa di peculiare al moderno: la
società civile, il sistema dei bisogni, lo Stato.
125
Le acquisizioni storico-sociali di Hegel si imbattono contro il suo
assunto gratuito secondo cui la proprietà è legata alla volontà,
alla forma e non al bisogno, all'impulso: "aver proprietà appare
come mezzo riguardo al bisogno, se questo vien reso la cosa
prima; ma la posizione verace è che dal punto di vista della
libertà la proprietà, intesa come il primo esserci della medesima,
è fine essenziale per sé" 52 . L'artificio hegeliano sgancia la
proprietà dal bisogno, dalla accidentalità sensibile, per
innalzarla a manifestazione spirituale della libertà del soggetto.
Solo abbracciando la sfera della libertà la proprietà trova quella
giustificazione assoluta e incondizionata che mai avrebbe potuto
trovare finché restava ancorata all'angusto angolo dei bisogni.
Precisa Hegel: "l'essenziale della forma è che, ciò che è diritto in
sé, anche come tale sia posto. La mia volontà è razionale, ha
valore, e questo aver valore deve esser riconosciuto dall'altro.
Qui ora deve cader via la mia soggettività e quella degli altri, e la
volontà deve ottenere una certezza, stabilità e oggettività, qual è
quella che essa può conseguire soltanto ad opera della forma" 53.
Hegel avverte la insufficienza della pura volontà singola per
fondare una forma comune vincolante e vorrebbe raggiungere
disperatamente l'alterità senza di cui esiste una pretesa
unilaterale ma non già un diritto. La forma, che esprime
l'insufficienza dell'intendersi sulla base di segni e parole
scambiati tra soggetti privati, non può scaturire da un
immediato rapporto della persona con la cosa. Essendo la forma
un che di posto, di pubblico, non è possibile la sua scaturigine
da un legame di per sé unilaterale tra la volontà del singolo e la
cosa esterna. La forma evoca l'alterità, la costruzione
impersonale di un significato pubblico, non può essere confinata
nella unilaterale manifestazione di volontà. La persona astratta
che entra in relazione con la cosa non può essere confusa con
l'individuo naturale che con la cosa soddisfa un bisogno: per
questo allora di essa non è possibile parlare prima di aver posto
un ordinamento giuridico.
3. Contratto e riconoscimento
La categoria del contratto sospinge Hegel a fuoriuscire dalla
fondazione volontaristica unilaterale della proprietà e a prendere
in più adeguata considerazione il mondo dell'alterità
esistenziale. La coesistenza delle persone nel suo disegno è la
sommatoria di volontà singole che si riconoscono. Ma egli sa che
il semplice possesso della cosa da parte di un io-voglio non è
ancora proprietà perché le fa difetto una volontà comune
52
53
Hegel, Lineamenti, cit., par. 45.
Hegel, Lineamenti, cit., aggiunta al par. 217.
126
condivisa con altri. Solo il riconoscimento degli altri e la
mediazione di una forma giuridica determina il diritto di
proprietà. Hegel chiarisce: "Il diritto del possesso immediato
concerne il rapporto verso le cose, non il rapporto verso terze
persone. L'uomo ha il diritto di impossessarsi di ciò ch' egli può
in quanto singolo. Egli ha il diritto; cioè risiede nel suo concetto
di essere un Sé; e con ciò egli è il potere su tutte le cose. Ma la
sua presa di possesso acquista anche il significato di escludere
un terzo. Che cos'è, riguardo a questo significato, l'elemento
vincolante per l'altro? Di che cosa mi è lecito impossessarmi
senza fare torto al terzo? A tali domande, appunto, non è
possibile rispondere. La presa di possesso è l'appropriazione
sensibile che l'uomo deve, mediante il riconoscimento,
trasformare in giuridica. Non è che l'appropriazione sia giuridica
per il semplice fatto ch'essa c'è. A prendere possesso è, in sé,
l'uomo immediato. V'è questa contraddizione per cui a costituire
il contenuto è l'immediato, il soggetto, il cui predicato deve
essere il diritto. Poiché una cosa è riconosciuta dagli altri, essa è
mia proprietà. Ma che cosa gli altri riconoscono? Ciò che io ho,
ciò di cui sono in possesso" 54. Se nel rapporto individuo-cosa la
proprietà viene fondata gratuitamente perché il titolo si presume
attribuito a prescindere dalle volontà degli altri soggetti, nella
fondazione contrattuale della proprietà diventa indispensabile
considerare la volontà di un altro. Non più la immediatezza del
prendere, la pura manifestazione del volere che imprime un
segno sulla cosa, ma il riconoscimento e il contratto, cioè il
carattere specificamente relazionale del diritto ("il diritto è la
relazione che la persona nel suo comportamento ha con un' altra
persona") vengono posti alla base della proprietà. Nel Sistema
dell'eticità Hegel si serve ampiamente della nozione di
riconoscimento per fondare il titolo di proprietà: "La proprietà
compare nella realtà attraverso la pluralità delle persone che
attuano lo scambio e vicendevolmente si riconoscono" 55.
La proprietà non è più il mero rapporto dell'individuo con la
cosa, chiama ormai in causa la capacità creativa dello scambio,
del riconoscimento. Se prima la proprietà è stata da Hegel
Hegel,Filosofia dello spirito jenese, cit., pp. 136-7. La relazionalità del
diritto è tenuta presente da Hegel in contrasto con il diritto di natura.
Egli scrive che "diritto è la relazione della persona nel suo comportarsi
verso l'altra persona" (Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 135). Solo
entro il puro stato naturale la proprietà si confonde con il possesso
immediato e privo di diritti: "il diritto del possesso immediatamente
porta sulle cose, non su di un terzo" (ivi, p. 136). L'obbligo verso l'altro
costituisce la proprietà che scavalca così la presa di possesso
immediata o appropriazione sensibile. All'immediato prendere
subentrano le forme del contratto.
55 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit.
54
127
esaurita nella volontà della singola persona che intercetta la
cosa facendola sua, ora lo sforzo è quello di far scaturire la
proprietà da un accordo reciproco. Ancora resta sullo sfondo
l'ordinamento, lo Stato e lo sforzo profuso mira a contenere la
proprietà nell'ambito di soggetti che riconoscono le pertinenze
reciproche. Non si pone Hegel il problema di chi predispone gli
schemi contrattuali, di chi sorveglia l'adempimento, di chi
stabilisce le sanzioni. Il tentativo di fondare il diritto di proprietà
è davvero disperato. Quando Hegel percepisce che non è
possibile fondare la proprietà sul semplice possesso, sulla
volontà depositata nella cosa, cerca di tratteggiare un'apertura
alla socialità, alla relazionalità mediata dal diritto. Ma anche la
nozione
di
riconoscimento
possiede
una
struttura
contraddittoria: ciascuno infatti riconosce all'altro ciò che già
possiede. Perché si superi il possesso immediato, e si abbia la
proprietà legittima di un bene, occorre il riconoscimento degli
altri. Ma gli altri riconoscono a ciascuno solo il possesso che già
vantava sulla cosa. Il rapporto uomo-cosa, che avviene in una
situazione pregiuridica sprovvista di efficaci regolazioni formali,
è dunque il reale contenuto del reciproco riconoscimento attuato
tra persone che operano -si suppone- dentro una società retta
da un ordinamento giuridico consolidato. Il rapporto del tutto
empirico-immediato che la volontà instaura con la cosa, è
inadeguato a giustificare la proprietà. E tuttavia il diritto di
proprietà,
che
Hegel
fa
sorgere
dal
reciproco
riconoscimento, postula, quale sua base empirica reale, proprio
l'appropriazione naturalistica avvenuta al riparo da ogni
interferenza giuridica. La finzione del reciproco riconoscimento argomenta
Kelsen"nasce
dall'ideologia
giuridica
individualistico-borghese" 56 . In base ad essa, ciascuna
individualità è disposta a trascendere la contingenza di quanto
possiede solo perché il riconoscimento reciproco, che culmina
nella creazione di una volontà collettiva giuridicamente rilevante,
non fa che garantire i possessi già in precedenza acquisiti. Il
reciproco riconoscimento delle parti serve solo a difendere
quanto già la loro volontà di possesso era riuscita ad
accaparrarsi. L'ordinamento giuridico in quanto tale non gioca
un ruolo di particolare rilievo.
Neanche il riconoscimento apre dunque alla dimensione della
socialità. Esso infatti non arriva a prospettare un ordinamento
giuridico poggiante su più solide basi che non siano quelle
dell'individualismo possessivo da proteggere. Per Hegel la cosa
voluta diventa proprietà stabile solo "mediante la coscienza" che
56 H. Kelsen, La teoria generale del diritto e il materialismo storico,
Roma, 1979.
128
consiste nella assunzione della piena consapevolezza che
riconoscendo il possesso singolo ciascuno ottiene la
rassicurazione sul proprio. In tal modo "la sicurezza del mio
possesso è la sicurezza del possesso di tutti; nella mia proprietà
tutti hanno la loro proprietà" 57 . La pratica del riconoscimento
non può fondare la proprietà perché in essa non vige alcun
diritto o dovere reciproco fissato da una norma generale
dell'ordinamento. Solo il diritto formale esprime un ambito
comune astratto. Proprio Hegel rifiuta di scorgere la genesi della
norma nelle sfere del vivente: "la legge è l'esistere della volontà
comune di diversi soggetti intorno ad una singola cosa" 58 . La
legge esprime una volontà comune che è ben diversa da quella
empiricamente espressa da privati che si riconoscono come
proprietari. Scrive Hegel: "la proprietà, della quale il lato
dell'esistenza o dell'esteriorità non è più soltanto una cosa, ma
contiene in sé il momento di una (e quindi di un'altra) volontà,
viene a esistere mediante contratto". È soprattutto quando si
accosta allo scambio delle volontà, al contratto (in base al quale
"ogni cosa singola diviene un elemento sociale") che Hegel va
oltre la riconduzione della proprietà al semplice rapporto della
volontà con la cosa, o alla appropriazione immediata della cosa
necessaria per soddisfare bisogni esistenziali (che avviene già
sotto le forme del diritto di proprietà). La diffusione dei canoni
contrattuali, nel funzionamento delle relazioni sociali
fondamentali, è un prodotto specificamente moderno. L'industria
produce uno spiccato senso della soggettività: "l'industria
contiene in sé il principio dell'individualità, quella che
nell'industria si sviluppa e predomina, è l'intelligenza
individuale" 59 . Con la "libertà del possesso e la libertà della
persona" - nota Hegel - insieme "ad ogni illibertà del vincolo
feudale, decadono tutte le norme derivate da quel diritto, le
decime e i canoni. Alla libertà reale appartengono inoltre la
libertà dei mestieri, cioè il fatto che sia concesso all'uomo di
usare delle sue forze come vuole, e il libero accesso a tutti gli
uffici dello Stato".
Hegel coglie con chiarezza che, nelle condizioni moderne, il
ricambio sociale è azionabile solo attraverso libere alienazioni. A
termine di una ricognizione puntuale del lavoro astratto, della
Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 100. Secondo Hegel la
proprietà esige, oltre al singolo che vuole la cosa, anche "la coscienza
universale" che dispone la esclusione degli altri dal mio e dal tuo. Così
"nel possesso determinato tutti hanno altrettanto il loro possesso" (ivi).
58 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p.161.
59 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 229. Il lavoro
dell'industria non è legato solo al bisogno, è "lavoro astratto", "astratta
attività" ma non ancora il "comprensivo, pieno-di-contenuto e
lungimirante spirito" (Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 147).
57
129
macchina, del denaro, egli afferma: "Qui la casualità del
prendere possesso è tolta: nell'esser riconosciuto, ho tutto
mediante il lavoro e lo scambio. Fonte, origine della proprietà è
qui il lavoro, il mio stesso fare" 60. Hegel ha messo alle sue spalle
il problema della giustificazione della proprietà sulla base della
volontà impressa nella cosa e si concentra sull'analisi di un
meccanismo sociale che produce grandi quantità di ricchezze,
che scavalcano il puro bisogno legato alla sopravvivenza fisica.
In questo meccanismo di creazione illimitata di merci, un ruolo
centrale occupa il contratto. Rileva Hegel: "posso alienare la mia
proprietà a un altro e posso acquistare proprietà estranea.
Questo acquisto avviene solo mediante il contratto, cioè il
reciproco consenso, da parte di due persone, di alienare una
proprietà, di consegnarla al1'altro, e il consenso di riceverla".
Hegel va così molto oltre la raffigurazione del lavoro immediato
quale titolo di proprietà sulla cosa e segnala una forma di
produttività più legata alla divisione sociale delle funzioni e alla
creazione di valori di scambio. Anche senza aderire alla formula
di Hobbes, che vuole la proprietà una conseguenza dello Stato,
Hegel deve evocare lo Stato per fondare gli istituti della proprietà
che non possono certo esaurirsi nella capacità evocativa del
contratto e del riconoscimento. "Lo Stato è l'esserci,
la potenza del diritto, il sostegno del contratto e del permanere
della
sua proprietàstabile, l'unità esistente della
parola,
dell'esserci ideale
e
della realtà,
così
come
l'unità immediatadel possesso e del diritto, la proprietà in
quanto sostanza universale" 61 . La proprietà come rapporto
mediato dalle forme del contratto ha un rivestimento giuridico
costoso che pone come non più sufficienti la fiducia data con
semplici parole. Il ricorso a formalità, a ratifiche dell'autorità,
simboleggia che tra i soggetti esiste qualche "segno di sfiducia"
perché non bastano più relazioni informali.
Il contratto (che Hegel confina nell'ambito del diritto privato e del
meccanismo economico e respinge con forza quale possibile
fonte dell' obbligo politico-statuale) segnala l'avvento di una
società nella quale tutte le prestazioni e le relazioni
interindividuali avvengono per il tramite del consenso. "Il
contratto -egli precisa- è la stessa cosa che lo scambio, ma
scambio ideale. È uno scambio di dichiarazioni, non più di cose,
ma vale quanto la cosa stessa. Per entrambi la volontà dell'altro
vale in quanto tale" 62. Lo schema del contratto permette infatti
di superare ogni vincolo giuridico legato a status particolari di
60
61
62
Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 149.
Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 170.
Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 151.
130
appartenenza, e di fondare il funzionamento della vita
economica sulla apparente dialettica del volere. Hegel precisa
che il contratto è la manifestazione essenziale della libertà dei
moderni, in quanto la fondazione consensuale delle relazioni
sociali e produttive esclude discriminazioni giuridiche. Tutto è
cedibile attraverso il contratto ma "inalienabile è la mia ragione,
la mia libertà, la mia personalità e ciò che in genere contiene
essenzialmente in sé l'intera mia libertà" 63 . Hegel scorge il
carattere contrattuale delle relazioni sociali moderne che
confidano sulla illimitata capacità autoproduttiva dei negozi
giuridici. Le principali manifestazioni dell'esistenza (compresa
l'attività produttiva di beni privatamente appropriabili)
avvengono attraverso le forme del contratto. Quando Hegel
sostiene che "il contratto presuppone che coloro i quali
contraggono si riconoscano come persone e proprietari" 64
esprime la persistente, insuperabile antinomia della fondazione
della proprietà. Lo stesso tentativo di fondare la proprietà sul
contratto si avvita in una antinomia irrisolta. Esso infatti
postula pur sempre il concetto di proprietà delle cose o del
corpo, che dovrebbe invece essere spiegato. Il libero consenso
viene invocato quale essenziale titolo che conferisce legittimità
alla appropriazione privata della ricchezza. Ma la libera volontà
degli agenti dello scambio, che dovrebbe rappresentare il
fondamento della attribuzione privata della proprietà, può
davvero esplicarsi solo se di fronte al prestatore d'opera, che
cede le sue energie per un tempo determinato, esiste già il
proprietario degli strumenti necessari per la produzione di cosemerci. Qui risiede l'antinomia della fondazione della proprietà
attraverso il contratto tra soggetti eguali: il libero incontro delle
volontà (mercato), che dovrebbe legittimare il titolo di proprietà,
è possibile solo se prima della relazione contrattuale tra gli
agenti dello scambio, si sia già verificata una situazione non
contrattuale (ossia l'attribuzione dei mezzi per produrre ai
soggetti proprietari). Neanche Hegel sfugge a questa surrettizia
Hegel precisa che "intorno al mio onore e alla mia vita non ha luogo
alcun contratto" (Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 154). Il contratto
può essere solo a tempo determinato. Anche per Marx il contratto
prevede un uso limitato nel tempo del corpo che lavora altrimenti "se
fosse permesso all'uomo di vendere la sua forza lavoro per un tempo
illimitato, la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita. Una tale vendita, se
fosse conclusa, per esempio, per tutta la vita, farebbe senz'altro
dell'uomo lo schiavo a vita del suo imprenditore" (Opere, vol. XX,
Roma, 1980, p. 128).
64 Hegel, Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 135-6. Come chiarisce
Solari, "il possesso, i rapporti di forza, tendono a legittimarsi, al
riconoscimento universale mediante il diritto. La particolarità cerca nel
diritto una norma universale, ma questa è solo formale. Il possesso
universalmente riconosciuto diventa proprietà; i rapporti di forza
cercano nel consenso la loro giustificazione" (Solari, op. cit., p. 214).
63
131
attribuzione a uno dei soggetti contraenti di una dotazione di
strumenti e di potere che appaiono di origine non contrattuale.
Egli nota: "Delle mie possibilità dell'attività e attitudini (corporee
e spirituali) particolari io posso alienare produzioni singole e un
uso limitato nel tempo da parte d'un altro, poiché esse ottengono
secondo questa limitazione un rapporto esteriore con la
mia totalità e universalità. Attraverso l'alienazione del
mio intero tempo, concreto grazie al lavoro, e della totalità della
mia produzione io ne renderei proprietà d'un altro il sostanziale,
la mia universaleattività e realtà, la mia personalità" 65 . La
prospettiva di Hegel è quella di un formale scambio di volontà
tra soggetti diseguali: uno cede energia, tempo e l'altro denaro.
Al di fuori del libero contratto restano pur sempre la quantità di
valore che dalla prestazione di lavoro si ricava e il potere di
dirigere complessi di macchine a fini particolaristici.
[…]
Hegel, Lineamenti, cit., par. 67. Secondo Hegel la schiavitù è basata
sull'arbitrio e quindi contraddice i principi di uno Stato razionale. Egli
non dubita del principio moderno che "la schiavitù è ingiustizia in sé e
per sé, perché l'essenza dell'uomo è la libertà". Rifiuta però l'idea che si
possa avere una "improvvisa abolizione della schiavitù" e non invece
una "graduale eliminazione della schiavitù che è cosa più opportuna e
giusta" (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1981, I, 253).
Per Hegel dunque "non si può pretendere in modo assoluto che l'uomo,
per il solo fatto che è un uomo, sia ritenuto essenzialmente libero".
Occorre dare tempo al concetto perché l'assoluto ha una storia da
percorrere per ritornare in sé. Per questo bisogna tener conto che
"l'africano non è ancor giunto alla distinzione di sé", e che "il negro
rappresenta l'uomo naturale nella sua totale barbarie e sfrenatezza"
(op. cit., p. 209).
65
132
9) F. Savigny, Sistema del diritto romano
attuale, tr. it. V. Scialoja, 1886, pp. 36-37,
335-347, 367-383.
CAPO SECONDO
NATURA GENERALE DELLE FONTI DEL DIRITTO
§4.
Rapporto giuridico.
La base del diritto romano attuale deve cercarsi nella
determinazione delle fonti giuridiche ad esso pertinenti. Ma
per giungere a buoni resultati è necessario premettere una
più larga indagine circa la natura delle fonti giuridiche in
generale. Se noi consideriamo il diritto, come nella vita
reale d’ogni parte ne circonda e ne stringe, ci apparisce in
esso prima di tutto il potere, che spetta a ciascuna
persona: una sfera, nella quale la volontà di questa regna,
e regna col nostro consenso. Siffatto potere noi lo
chiamiamo diritto di questa persona, nel significato di
facoltà: molti lo chiamano diritto in senso soggettivo. Tale
diritto si manifesta in modo più evidente soprattutto,
quando è messo in dubbio o contestato, sicché l’ esistenza
e l’estensione di esso venga riconosciuta da una sentenza
giudiziale. Ma un più attento esame ci persuade che questa
forma logica di una sentenza è soltanto il prodotto di un
bisogno accidentale, e che essa non contiene tutta
l’essenza della cosa, ma anzi ha bisogno d’un fondamento
più profondo. Questo si ritrova nel rapporto giuridico, del
quale ogni singolo diritto rappresenta soltanto una faccia
particolare, separata per astrazione dal tutto; cosicché il
giudizio stesso circa il singolo diritto non può essere vero e
ragionevole, se non quando si basa sulla comprensione
completa del rapporto giuridico. I1 rapporto giuridico però
ha una natura organica, e questa si manifesta sia nella
correlazione delle sue parti che si bilanciano a vicenda e
dipendono l’una dall’altra, sia nel progressivo svolgimento,
che in esso si verifica nel modo di una nascita e di una
estinzione.
Questa viva ricostruzione del rapporto giuridico in ogni
singolo caso è l’elemento razionale della pratica giuridica, e
distingue la nobile vocazione di essa dal semplice
meccanismo, che molti inesperti credono di riscontrarvi.
133
Affinché questo punto importante non solo sia inteso nella
sua generalità, ma sia messo in piena luce in tutta la
ricchezza del suo contenuto, non sarà forse inutile di
chiarirlo con un esempio. La celebre legge Frater a fratre [L.
38. D. De cond. indeb. 12, 6] tratta il caso seguente. Due
fratelli sono soggetti alla potestà dello stesso padre. Uno dà
a mutuo all’altro una somma. Il mutuatario la restituisce
dopo la morte del padre, e si domanda se esso possa
ripetere questo danaro pagato, come pagato per errore. Qui
il giudice deve soltanto giudicare della quistione, se la
condictio indebiti sia o no fondata. Ma per poter far ciò, egli
deve tener presente il rapporto giuridico nel suo complesso.
I singoli elementi di questo e erano: la patria potestà sui
due fratelli, un mutuo fatto dall’uno all’altro, un peculio
che il debitore aveva ricevuto dal padre. Questo rapporto
giuridico
complesso
si
è
venuto
svolgendo
progressivamente per la morte del padre, la sua
successione, la restituzione della somma mutuata. Su tali
elementi deve basarsi la speciale sentenza, che si richiede
al giudice.
[…]
§18
Il diritto consuetudinario
Conviene ora dimostrare, qual posto occupi tra le fonti del
diritto romano attuale il diritto popolare o diritto
consuetudinario, che fu da noi più sopra studiato in
generale (§7.12).
Quando Giustiniano ottenne l’impero, l’originario diritto
popolare romano già da lungo tempo non esisteva più nella
sua forma primitiva. La parte più importante di osso già al
tempo della repubblica era passata nella legislazione del
popolo o negli editti, e di ciò che rimaneva ancora come
libero diritto consuetudinario s’impossessò la letteratura
giuridica, sicchè si trasformò in diritto scientifico. Quando
la letteratura giuridica venne ad estinguersi, mancò la viva
energia nazionale necessaria per la formazione di nuovo
diritto; e se pure talvolta. le circostanze esteriori lo
richiedevano, bastava quasi sempre la legislazione
imperiale per dare forma determinata al nuovo istituto
giuridico. Era dunque quasi impossibile che accanto alla
compilazione giustinianea avesse ancora perdurato un
libero diritto consuetudinario, come diritto comune
134
romano, perchè tutto ciò che di notevole già era sorto in
forza, di esso, aveva senza dubbio trovato posto nei Digesti
o nel Codice. Al contrario accanto a questa legislazione
generale potevano esistere molte disposizioni di diritto
consuetudinario particolare, senza, che noi siamo in grado
di determinarne nemmeno in linea d’ipotesi il contenuto e
I’importanza. - Sotto i successori di Giustiniano doveva, in
forza, delle medesime circostanze, perdurare lo stesso stato
di cose, tanto più che la legislazione di lui era stata l’
ultimo grande tentativo di tal natura, e dopo di lui la forza
di formare il diritto si venne sempre a indebolire.
Uno stato di cose affatto diverso si produsse, allorchè nella
rinnovata Europa il diritto romano fu accolto presso
nazioni, presso le quali esso non era nato. Eran queste
allora già in tal condizione da render difficile il sorgere di
un diritto consuetudinario generale, specialmente di un
diritto tale, per cui si potesse completare e svolgere
ulteriormente il diritto romano ad esse estraneo. Tuttavia
esistevano anche dello circostanze favorevoli a tale diritto
consuetudinario generale. L’adozione della legislazione
straniera aveva prodotto in esse una condizione artificiale e
complicata nel diritto, che non poteva essere appianata se
non con nuove norme giuridiche sussidiarie. Questo
bisogno poteva essere soddisfatto mediante una saggia ed
attiva legislazione, se questa fosse stata possibile per il
carattere di quegli Stati. Poichè questa mancava, non si
poteva ricorrere che al diritto consuetudinario, la cui
produzione era favorita dalla fresca e giovanile energia di
quelle nazioni. Ma il modo speciale com’era sorto quel
bisogno,
doveva
dare
anche
a
questo
diritto
consuetudinario un carattere particolare. Esso non fu,
come l’altro diritto popolare, patrimonio comune dell’ intera
nazione; ma fin da principio assunse una natura
scientifica, come tra breve più precisamente dimostreremo
(§ 19).
L’atto più grande e notevole di diritto consuetudinario
generale, al principio dei tempi moderni, era stato appunto
la recezione del diritto romano in quei limiti speciali, che
già più sopra abbiamo stabiliti (§ 17). Questa recezione
però ebbe una diversa importanza presso i differenti Stati
della moderna Europa; cosicchè le innovazioni, ch’ essa
portò nel dominio del diritto, si dovettero risentire in gradi
assai diversi. In Italia il diritto giustinianeo non era mai
135
scomparso del tutto; di nuovo vi fu dunque soltanto il suo
risorgimento e la particolare e determinata limitazione delle
leggi, che d’allora in poi ebbero vigore. In Francia pure il
diritto romano non era mai scomparso del tutto; ma la
forma speciale da esso assunta nella compilazione
giustineanea era ivi completamente nuova. Molto più
sensibile però dovette essere quella recezione in Germania,
dove il diritto romano stesso ero un elemento giuridico
interamente nuovo e fino allora sconosciuto; sebbene fosse
adatto ai rapporti della vita pratica nella nuova civiltà,
poiché solo in tal modo esso poteva essere accolto. Quivi
appunto una lunga e vivace lotta precedette la recezione
completa, e così si ebbe la preparazione e la constatazione
dell’efficacia del diritto consuetudinario. Ma non solo la
recezione del diritto romano per sé stessa deve, come
prodotto certo del diritto consuetudinario, attrarre tutta la
nostra attenzione; ma altrettanto, e forse più, la maniera
particolare ed i limiti, entro i quali ebbe luogo questa
recezione (§17);
perché ne risulta che esse fu accompagnata da una chiara
coscienza, né può quindi riguardarsi come opera di un
caso inconsapevole. E nemmeno può questa recezione,
compiutasi in tal modo, considerarsi come istantanea e
subito pienamente terminata; che anzi essa giunse soltanto
gradatamente al suo pieno sviluppo.
Ciò vale specialmente riguardo alla sostanziale limitazione,
per la quale fu esclusa dalla recezione una parte
considerevole del contenuto del diritto romano. – In questo
grande fenomeno di un diritto consuetudinario generale,
che sorge egualmente (quantunque non nel medesimo
tempo) in molti Stati si manifesta pure la particolar natura
dell’epoca moderna. Questi Stati adottarono in complesso
un diritto, che non era nato presso di loro, ma presso un
popolo straniero, presso un popolo, col quale alcuni di loro
non avevano neppure affinità di stirpe. Da ciò risulta che le
nazioni moderne non eran destinate in grado uguale alle
antiche a formare nazionalità esclusive , e che anzi la
comune religione cristiana le aveva riunite tutte con
invisibile legame, senza però cancellare il loro carattere
nazionale. Su ciò è basata la grande legge di sviluppo dei
nuovi tempi, il cui ultimo fine è agli occhi nostri ancora,
nascosto.
136
Accanto al diritto consuetudinario generale se ne venne
formando uno particolare anche nei tempi moderni, ed il
formarsi di esso in cerchia più ristretta incontrò, come già
era avvenuto nello Stato romano, ostacoli molto minori.
Esso poteva, formarsi in questa cerchia più ristretta in
forza di una coscienza giuridica veramente comune a tutti,
e perciò in modo prettamente popolare, senza esser
preparato ed ajutato dalla scienza.
In questo diritto consuetudinario particolare si sono
conservati e svolti nel modo più esteso specialmente gli
originari rapporti giuridici germanici relativi alla proprietà
territoriale (feudi, beni di famiglia, beni dei contadini) oltre
il diritto di successione con questi connesso; rapporti, che
son destinati a durare oltre la vita di un uomo, e che
sogliano essere collegati con i costumi, e le occupazioni
continue e conformi di numerose classi di persone. In simil
modo si vede nelle città che la comunione dei rapporti
d’affari e di mestieri ha da per tutto generato speciali diritti
consuetudinari, che modificarono in particolar modo la
successione ereditaria (in forza della comunione dei beni
sotto forme diverse). Tuttavia vi rimase sempre un campo
libero per l’applicazione del diritto romano. Al contrario
l’influenza delle consuetudini particolari si trova essere
molto più limitata, negli istituti giuridici già esistenti nel
diritto, tra i quali pochi soltanto in forza dei bisogni
quotidiani ricevettero nuove modificazioni mediante la
consuetudine, come p. es. il diritto di fabbricare in
rapporto agli edifici vicini e il diritto della locazione delle
case e dei servi salariati. Così dunque il diritto
consuetudinario particolare restò sempre molto importante
per il diritto d’origine germanico, assai meno per il
progresso del diritto romano.
E questo duplice diritto consuetudinario, generale e
particolare, non deve soltanto riconoscersi per il passato,
carne fonte del dritto romano attuale oltre le leggi, ma può,
come elemento di progresso, ritrovarsi anche per il futuro.
Anche in questa, speciale applicazione noi dobbiamo
riconoscere nel diritto consuetudinario la medesima
natura, che sopra abbiamo attribuito al diritto
consuetudinario in genere. Esso nasce perciò dalla
comunione delle convinzioni e non giù dalla volontà degl’
individui, i sentimenti e gli atti dei quali debbono
considerarsi soltanto come Indizi di quella comunione. Il
137
costume o la usanza, che noi propriamente chiamiamo
consuetudine, è perciò per noi principalmente un mezzo di
riconoscimento, non giù il fondamento e la causa originaria
eli quel diritto. Se finalmente paragoniamo l’autorità di
questo con quella delle leggi, dobbiamo attribuire a queste
due fonti giuridiche identico valore.
[…]
LIBRO SECONDO
I RAPPORTI GIURIDICI
CAPO PRIMO
ESSENZA E SPECIE DEI RAPPORTI GIURIDIGI
§52.
Essenza dei rapporti giuridici.
Già di sopra abbiamo esposto la natura generale dei
rapporti giuridici e come questi si dividano in rapporti di
diritto pubblico e rapporti di diritto privato (§ 4. 9). È la
essenza di quelli appartenenti al diritto privato, che noi
dobbiamo ora studiare più ampiamente; essi soli rientrano
nel nostro tema, e verranno perciò da noi indicati sin da
ora col nome di’ rapporti giuridici senz’altro, senza
aggiunte che ne restringano il senso.
L’uomo si trova circondato dal mondo esteriore, e
l’elemento più importante di questo suo ambiente è per lui
costituito dai rapporti con coloro, che hanno con lui
comuni la natura ed i fini. Che pertanto esseri liberi
convivano in questi reciproci rapporti, aiutandosi gli uni gli
altri, senza essere reciprocamente di impaccio nel loro
sviluppo, è possibile solamente mediante il riconoscimento
di una invisibile linea di confine, entro la quale la esistenza
e la attività di ciascuno possa godere di uno spazio libero e
sicuro. La regola, che fissa quel confine e determina questo
spazio libero, è il diritto. In ciò sta al tempo stesso la
affinità e la differenza che corre tra diritto e morale. Il
diritto serve alla morale, ma non in quanto ne soddisfi
tutte le esigenze, ma in quanto assicura il libero sviluppo
della forza di essa, che risiede nella volontà di ogni individuo. Il diritto però ha una esistenza per sé stante, e non
è quindi una contraddizione, se si afferma la possibilità nel
138
caso concreto dell’immorale esercizio di un vero e proprio
diritto.
Il bisogno e la esistenza del diritto è una conseguenza della
imperfezione del nostro stato, ma non di una imperfezione
casuale, storica, ma di una imperfezione che è
inseparabilmente connessa col grado attuale della nostra
esistenza.
Molti, nella ricerca del concetto del diritto, partono dal
punto di vista opposto, dal concetto del non diritto. Non
diritto è secondo essi violazione della libertà per parte di
una libertà altrui, che è d’impedimento allo sviluppo
dell’uomo, e deve quindi essere remosso come un male. La
remozione di questo male è secondo essi il diritto. Questo,
secondo alcuni, sarebbe sorto per un intelligente accordo,
rinunziando ogni individuo a, parte della sua libertà per
assicurarsene il resto; o secondo altri, per una coazione
esterna, la quale sola potrebbe esser di ostacolo alla
naturale tendenza degli uomini a distruggersi a vicenda.
Costoro, prendendo in tal modo a base il momento
negativo, fanno precisamente come se noi, per conoscere le
leggi della vita, prendessimo a punto di partenza lo stato di
malattia, Lo Stato è agli occhi loro una necessità, che si
impone e che, data una generale rettitudine di sentimenti,
dovrebbe scomparire come superflua; mentre invece esso,
data tale ipotesi, secondo il nostro modo di vedere, non
potrebbe che crescere tanto più in forza e dignità.
Sotto il punto di vista, nel quale ci siamo posti, ogni
singolo rapporto giuridico ci apparisce come una relazione
tra più persone determinata da una regola di diritto.
Questa determinazione consiste poi in questo. che alla
volontà individuale è assegnato un campo, nel quale essa
domina indipendente da ogni volontà altrui.
In ogni rapporto giuridico possono quindi distinguersi due
elementi: in primo luogo una materia, vale a dire quel
rapporto in sè stesso, ed in secondo luogo la determinazione giuridica di questa materia. Il primo elemento
può essere designato come l’elemento materiale del
rapporto giuridico, o come il semplice fatto, il secondo
come l’elemento formale, vale a dire come quello. per cui il
rapporto di fatto assume carattere, forma giuridica.
Ma non tutti i rapporti dell’uomo coll’uomo appartengono
al campo del diritto, in quanto non tutti sono suscettibili
od hanno bisogno di essere così determinati da una regola
139
di diritto. A questo riguardo possono distinguersi tre casi
differenti. Rapporti umani che appartengono al campo del
diritto o sono dominati da, regole di diritto in modo
completo, altri che non lo sono in nessun modo, altri
finalmente che lo sono solo parzialmente. Possono valere
come esempi per la prima classe la proprietà, per la
seconda l’amicizia, per la terza il matrimonio, poichè esso
in parte appartiene al campo del diritto e in parte ne sta
fuori.
§53.
Delle differenti specie di rapporti giuridici.
La essenza del rapporto giuridico fu definita come una
sfera di dominio indipendente della volontà individuale (§
52). Noi dobbiamo perciò innanzi tutto ricercare gli oggetti,
sui quali la volontà può operare ed estendere così il suo
dominio; ciò porterà di per sè a una rassegna delle
differenti specie possibili di rapporti giuridici.
La volontà può agire innanzi tutto sulla propria persona, in
secondo luogo sul di fuori, ossia, su ciò che noi dobbiamo
chiamare, rispetto al volente, mondo esteriore; tale è la
divisione più generale di tutto ciò che può formare oggetto
di quella azione della volontà. A comporre però il mondo
esteriore concorrono in parte la natura non libera, in parte
gli esseri liberi simili al volente, ossia le altre persone. E
così, dalla semplice considerazione logica della questione
proposta, ci si fanno manifesti tre oggetti principali del
dominio della volontà: la propria persona, la natura non
libera, le altre persone; per conseguenza, come pare,
dovrebbero ammettersi tre specie principali di rapporti giuridici. Noi abbiamo ora da esaminare ad uno ad uno quegli
oggetti, ed in primo luogo la persona propria, come oggetto
di uno speciale rapporto giuridico.
Su questo punto è molto divulgata la seguente dottrina.
L’uomo, si dice, ha sopra sè stesso un diritto, che comincia
necessariamente con la sua nascita e non può estinguersi
mai, finchè egli vive, ed appunto perciò viene chiamato
diritto innato; in opposizione a tutti gli altri diritti, i quali
solo più tardi ed in modo contingente possono accedere all’
uomo, e sono di natura transitoria, e perciò vengono
chiamati diritti acquisiti. Alcuni in questa dottrina sono
giunti tanto oltre da attribuire all’uomo un diritto di
proprietà sulle sue facoltà intellettuali, e da derivarne ciò
140
che chiamasi libertà di pensiero; ma non è assolutamente
possibile di concepire, come un uomo possa impedire ad
un altro di pensare, o viceversa possa pensare in lui ed
esercitare in questo modo od in quello una turbativa di
quel dato diritto di proprietà. Se poi si trasporta la
questione sopra un terreno più facile, limitando cioè quel
diritto di proprietà dell’uomo al suo essere visibile, al corpo
umano e alle sue singole membra, ciò ha certamente un
significato, quello di escludere ogni offesa qui certamente
possibile; ma non per questo il concetto di tal proprietà è
meno inutile, anzi da rigettarsi, in quanto che fra le altre
sue conseguenze logiche porta a riconoscere un diritto al
suicidio. Quello però, che si contiene di vero in questa
erronea idea di un diritto innato avente per oggetto la
propria persona è ciò che stiamo per dire. In primo luogo
può e deve essere senz’altro messo fuori di dubbio, che
1’uomo ha il diritto di disporre di sè e delle proprie forze;
che inoltre questa sua facoltà è appunto la base e il
presupposto di tutti gli altri diritti veri e propri, in quanto
per esempio proprietà ed obbligazioni hanno per noi valore
,e significato solamente come estensione artificiale delle
nostre proprie forze personali, come nuovi organi, che
vengono aggiunti artificialmente alla nostra essenza
naturale. Ma quella potenza su noi stessi non ha bisogno
di essere riconosciuta e determinata dal diritto positivo; e
l’errore della suesposta dottrina sta nel fatto, che quel
potere naturale dovrebbe, altrettanto inutilmente, quanto
erroneamente, essere posto sulla stessa linea con quella
sua artificiale estensione ed esser trattato nella stessa
maniera. - In secondo luogo, di molti tra i singoli instituti
giuridici è da ricercare certamente 1’origine nella difesa di
quel potere naturale dell’uomo sopra sè stesso dalle
aggressioni altrui. Tale è una gran parte del diritto
criminale; tale, nel diritto civile, il considerevole numero
dei diritti, che hanno per iscopo la protezione contro le
offese all’onore, contro il dolo e contro la violenza, e tra gli
altri perciò anche i rimedi possessorii. La ragione ultima di
tutti questi diritti è certamente la inviolabilità della
persona; tuttavia essi non devono essere considerati solo
come semplici conseguenze di questo principio della
inviolabilità, essi formano anzi degli istituti di diritto
positivo, il particolare contenuto dei quali è pienamente
distinto da quella inviolabilità. Se tuttavia si vogliono
141
considerare come diritti sulla propria persona, non si fa
altro, con tale designazione, che renderne oscura la vera
natura. Non può dirsi neppure, che il riunire insieme
quegli istituti di diritto, che hanno a comune questo punto
di partenza, sia cosa avente una utilità pratica o didattica:
basta riconoscere la loro affinità in generale. Se noi dunque
rigettiamo assolutamente i così detti diritti innati, e
riconosciamo i diritti acquisiti come i -soli, ai quali
dovranno dirigersi le nostre ulteriori ricerche , avremo che
gli oggetti sottoposti al dominio della volontà rimangono
soltanto due: la natura non libera, e le altre persone.
La natura non libera può da noi essere dominata non già
nel suo complesso, ma solamente entro determinati limiti
di spazio; la porzione di essa così limitata si chiama cosa,
ed a questa si riferisce dunque la prima specie possibile dei
diritti: il diritto sopra una cosa che nella sua forma più
pura e più completa si chiama proprietà.
Non così semplici sono quei rapporti di diritto, che hanno
per oggetto persone, imperocchè noi possiamo trovarci con
queste in due differenti relazioni. - La prima relazione, in
che possiamo trovarci con una persona, si è quella in cui
essa è sottoposta, in modo simile alle cose, alla nostra
volontà, ed è quindi soggetta al nostro dominio. Se questo
dominio, fosse assoluto, non sarebbe più concepibile in
colui, che vi soggiace, la esistenza della libertà e della
personalità; questo nostro dominio non cadrebbe più sopra
una persona, ma sopra una cosa, il nostro diritto sarebbe
proprietà sopra un uomo, tale quale era in realtà il
rapporto di schiavitù nel diritto romano. Ma se così non
deve essere, se anzi noi vogliamo che si tratti di un
rapporto giuridico particolare, che consista nel dominio
sopra una persona senza che ne rimanga annientata la sua
libertà, sicchè esso sia simile alla proprietà e tuttavia
differente; questo dominio non potrà necessariamente
estendersi alla totalità della persona, ma sarà limitato
solamente ad un singolo atto della medesima; questo atto
viene allora ad essere come sottratto alla libertà dello
agente, e considerato come sottoposto alla nostra volontà.
Un tale rapporto di dominio sopra un singolo atto di una
persona vien chiamato Obbligazione. Questa ha natura
simile a quella della proprietà, non solamente perché
entrambe costituiscono una estensione del dominio della
nostra volontà sopra una porzione del mondo esteriore, ma
142
anche per altri più speciali riguardi: in primo luogo in
quanto l’obbligazione può. estimarsi in una somma di
danaro, il che non è altro che un cambiamento della
obbligazione in proprietà del danaro; in secondo luogo in
quanto la maggior parte delle obbligazioni, e le più
importanti tra di esse, non hanno altro scopo, che di
condurre allo acquisto della proprietà o al godimento
temporaneo di essa. - Mediante queste due specie di diritti
dunque, proprietà ed obbligazioni, viene ad essere esteso
oltre i limiti naturali del proprio essere il potere della
persona, che ne è investita. Ora lo insieme dei rapporti,
che estendono in siffatto modo il potere di un individuo,
viene
chiamato patrimonio di esso, e lo insieme degli istituti
giuridici, che vi si riferiscono, diritto patrimoniale.
Nel rapporto della persona con un’altra persona, da noi
esaminato sin qui, ognuna di queste vi compariva come un
tutto per sè stante, che nella sua astratta personalità stava
di fronte all’altra, come ad un ente completamente
estraneo (benché simile). Assolutamente diverso da questo
è il secondo rapporto, che può aversi con le altre persone, e
che ora si tratta appunto di spiegare. In questo noi
consideriamo ciascun uomo non come un ente isolato, ma
come membro del tutto organico costituito dalla intera
umanità. Ora poiché la sua unione a questo gran tutto è
stabilita sempre mediante determinati individui, così la
relazione, che corre tra esso e questi individui, costituisce
la base di una nuova specie del tutto particolare di rapporti
giuridici. In questi l’individuo non ci apparisce, come nelle
obbligazioni, come un’unità per sè stante, ma come un
essere incompleto, che ha bisogno di trovare il suo
complemento in un grande insieme di rapporti naturali.
Questa incompletezza dell’individuo, come pure il relativo
suo complemento, si mostra in due diverse maniere. In
primo luogo nella divisione dei sessi, ciascuno dei quali,
preso isolatamente, non rappresenta che imperfettamente
la natura umana; a ciò si riferisce il completamento degli
individui mediante il matrimonio. – In secondo luogo
nell’essere la esistenza dei singoli uomini limitata nel
tempo, il che conduce a sua volta, per una diversa via al
bisogno ed al riconoscimento di rapporti, che vi
suppliscano: primieramente e nel modo più diretto a causa
della vita passaggera dell’individuo; a ciò supplisce la
143
generazione, per la quale si ha la perpetuazione non solo
della specie, ma in modo più limitato anche dell’individuo;
secondariamente a causa della qualità della natura
umana, per cui l’individuo al cominciare della vita è privo
di ogni potere sopra sè stesso, e non lo acquista che a
grado a grado; a ciò supplisce la educazione. Lo istituto del
diritto romano, in cui questo duplice completamento della
natura umana trova il suo riconoscimento generale ed il
suo sviluppo, è la patria potestà; a questa poi si rannoda,
in parte come ulteriore sviluppo, in parte per analogia
puramente naturale o meno giuridica, la parentela. –
L’insieme di tutti questi rapporti complementari matrimonio, patria potestà, parentela - chiamasi famiglia, e
gli istituti giuridici, che vi si riferiscono, diritti di famiglia.
Poichè il rapporto di famiglia, appunto come l’obbligazione,
è un rapporto tra determinati individui, nasce facilmente
l’idea di identificare questi due rapporti, di porre cioè la
famiglia tra le obbligazioni, o per lo meno di contrapporli,
come tra di loro più affini, alla proprietà, la quale non
contiene un tale rapporto speciale. Questo modo di
considerar la cosa si trova perciò anche in molti autori,
sebbene spesso non in tutta la sua estensione, o senza
chiara coscienza. Esso però è assolutamente da rigettarsi,
ed importa anzi che ne venga dimostrata la erroneità, se si
vuole avere il giusto concetto della essenza della famiglia.
Occorre perciò che noi qui subito esponiamo quelle
essenziali differenze, che al punto, a cui siamo arrivati sino
ad ora, possono essere intese chiaramente; riserbandoci di
esaminare in appresso (§ 54) più precisamente la vera
essenza e tutti i caratteri discretivi della famiglia. La
obbligazione ha per oggetto un singolo atto; il rapporto di
famiglia si estende a tutta la persona dell’individuo, in
quanto esso è un membro dell’ insieme organico di tutta la
umanità. La materia della obbligazione è di natura
arbitraria, poiché ora questo ed ora quell’atto può
costituire il contenuto di una obbligazione; la materia dei
rapporti di famiglia, è determinata dalla natura organica
dell’uomo, ha perciò il carattere della necessità.
L’obbligazione, per regola, è di natura transitoria; il
rapporto di famiglia è destinato ad esistere continuamente.
Perciò i singoli rapporti di famiglia, quando appariscono in
modo completo, si formano nel seno di certe società, che
portano appunto il nome collettivo di famiglia. Nella
144
famiglia si ha il germe dello Stato, e lo Stato, una volta formato, ha per elemento immediato le famiglie, non gli
individui.
Per conseguenza la obbligazione ha veramente maggiore
affinità colla proprietà, poiché il patrimonio, che abbraccia
queste due specie di rapporti, costituisce una estensione
del potere dell’individuo oltre i suoi limiti naturali, mentre
invece il rapporto di famiglia è destinato al completamento
dell’ individuo per sé stesso incompleto. Il diritto di famiglia
si avvicina quindi, più del diritto patrimoniale, ai così detti
diritti innati: e, come questi sono stati di sopra affatto
esclusi dal campo del diritto positivo, della famiglia deve
dirsi che è sottoposta solo in parte al dominio del diritto,
mentre invece il patrimonio vi soggiace in modo completo
ed esclusivo.
Ritornando ora al punto di partenza di questa nostra
indagine, troviamo che tre sono gli oggetti, sui quali è
possibile un dominio della nostra volontà, ed a questi
corrispondono tre sfere concentriche, entro le quali la
nostra volontà può esercitare quel dominio.
1) La propria persona originaria. Ad essa corrisponde il
cosiddetto diritto innato, che noi non consideriamo affatto
come diritto vero e proprio.
2) La propria persona ampliata nella famiglia.
Qui l’impero della nostra volontà rientra solo in parte nel
campo del diritto , e forma il diritto di famiglia.
3) Il mondo esteriore. L’impero della volontà, che ad esso si
riferisce, rientra tutto nel campo del diritto e forma il
diritto patrimoniale, il quale a sua volta si suddivide in
diritti reali e in diritti di obbligazione.
Si hanno quindi tre classi principali di diritti, che noi
dobbiamo accettare, al punto in cui sono pervenute le
nostre indagini:
Diritti di famiglia,
Diritti reali,
Diritti di obbligazione.
Ma queste classi dei diritti esistono così distinte solamente
in astratto, in realtà al contrario esse si presentano tra di
loro connesse nel modo più variato, e da tale continuo
contatto nascono necessariamente influenze reciproche e
modificazioni. Avendo dunque noi da esaminare più da
vicino i singoli istituti giuridici. delle tre classi proposte, ci
è necessario di tener conto al tempo stesso di queste
145
modificazioni,
come,
in
generale,
del
particolare
svolgimento, che quegli istituti hanno avuto nel nostro
diritto positivo.
[…]
§ 56.
Diritti patrimoniali.
Due, secondo ciò che già è stato dichiaralo di sopra (§ 53),
sono gli oggetti del diritto patrimoniale, cose ed atti
dell’uomo. Di qui la divisione principale di esso in: diritto
sulle cose e diritto di obbligazione. Il primo prende corpo nel
possesso, o nel potere di fatto sulle cose. Come diritto esso
si presenta, secondo il suo concetto semplice e completo,
sotto la forma della proprietà, ossia dello illimitato ed
esclusivo dominio di una persona sopra una cosa. Per
renderci chiaro il concetto della essenza della proprietà, fa
d’uopo partirsi dalle seguenti considerazioni generali. Ogni
uomo è chiamato a dominare sulla natura non libera; egli
però deve riconoscere, che a ciò son pure chiamati ugualmente tutti gli altri uomini, e da tale riconoscimento
reciproco nasce il bisogno di un accomodamento, pei
contatti, nei quali trovansi gli individui nello spazio,
bisogno, che dapprima si rivela come qualche cosa di
indeterminato e che può essere soddisfatto solo con una
esatta determinazione dei limiti di spazio da assegnarsi a
ciascuno. Ora tale soddisfazione si ottiene, mediante la
comunione nello Stato, in forza del diritto positivo.
Se si attribuisce così allo Stato un dominio su tutta la
natura non libera compresa entro i suoi confini, i singoli
individui ci appariscono come compartecipanti a questo
potere collettivo, e la questione si riduce a trovare una
regola determinata, secondo la quale si eseguisca la
divisione tra i singoli individui. Vi sono per tale divisione
tre sistemi diversi, i quali non solo non devono essere
considerati come escludentisi 1’un l’altro, ma anzi in certo
modo possono venire applicati contemporaneamente.
Questi tre sistemi possono riassumersi nel seguente modo:
1) Proprietà comune e godimento comune. In tale
condizione si trova tutto il patrimonio dello Stato, consista
esso nel reddito delle imposte, nelle regalìe o nei demanii;
imperocchè ogni individuo si serve e gode (sebbene spesso
146
in diverso grado) degli istituti pubblici mantenuti con
queste rendite.
2) Proprietà comune e godimento privato. Di questo
sistema di partizione (il più raro) si ha un esempio nello
ager publicus romano dei primi tempi; come pure, nelle
odierne corporazioni, in ciò che noi chiamiamo demanio
soggetto agli usi civici (Bürgervermögen ),
3) Proprietà privata e godimento privato, dipendenti dalle
libere contrattazioni o da eventi naturali riconosciuti dal
diritto positivo. Questa forma, predominante dappertutto, è
la sola con cui noi abbiam che fare nel diritto privato. Su di
ciò riposa il concetto della proprietà, il pieno
riconoscimento della quale ha per effetto la possibilità della
ricchezza e della povertà, entrambe senza limiti.
Un potere dei singoli uomini sulla natura non libera, che
vada al di là della proprietà, è impossibile; ben può però
immaginarsi un potere in vario modo circoscritto entro i
limiti della proprietà; onde, secondo le disposizioni di
ciascun diritto positivo, possono formarsi come altrettanti
speciali istituti giuridici, molti iura in re. Tutti i diritti, che
possono aversi sulle cose – proprietà e iura in re – vengono
da noi compresi sotto la denominazione generale di diritti
reali. Il diritto d’obbligazione consiste nel dominio parziale
su atti altrui, pel quale diviene possibile e si attua tutto
quello insieme di rapporti, che noi chiamiamo commercio.
Tuttavia non tutti gli atti dell’uomo sono idonei a formare
oggetto di obbligazioni, ma solamente quelli, che per la loro
natura materiale possono essere considerati come staccati
dalla persona, che li compie, e possono essere trattati come
simili alle cose.
Riassumendo tutto ciò, si trova che qui dominano principj
completamente opposti a quelli del diritto di famiglia. In
entrambe le parti del diritto patrimoniale la materia non è
data, come nel diritto di famiglia, da un rapporto naturalemorale; esse perciò non hanno una natura mista, ma sono
anzi costituite da rapporti puramente e semplicemente
giuridici; esse non appartengono in alcun modo al ius
naturale, ed il riconoscimento della loro esistenza apparisce
meno necessario, più arbitrario e positivo, che negli istituti
del diritto di famiglia. D’altra parte per esse non può presentarsi alcun dubbio circa la determinazione del loro vero
elemento giuridico. Infatti dal momento che esse devono
costituire una estensione della libertà individuale (§ 53), è
147
appunto questo potere, questa facoltà, che ci procurano,
che forma il contenuto loro, come istituti giuridici.
Contro il nostro asserto, che il diritto patrimoniale non
contenga, come il diritto di famiglia, un elemento morale,
potrebbe obbiettarsi che la legge morale deve governare
ogni specie di atti dell’uomo, e che per conseguenza anche i
rapporti patrimoniali debbono avere una base morale. Ed
essi certamente l’hanno, in quanto il ricco deve considerare
la sua ricchezza solamente come un bene affidato alla sua
amministrazione; ma questo principio è affatto estraneo
all’ordine giuridico. La differenza sta dunque in ciò, che i
rapporti di famiglia cadono solo in parte sotto l’impero del
diritto, sicché gran parte di essi è dominata esclusivamente
dalla morale; e che al contrario nei rapporti patrimoniali la
legge giuridica impera esclusivamente, ed anzi senza
riguardo alla moralità o immoralità dell’esercizio di un
diritto. Quindi è che il ricco può lasciar perire il povero o
negandogli ogni soccorso o esercitando senza pietà il suo
diritto di creditore, e i rimedi a ciò sono da ricercarsi non
già nel campo del diritto privato, ma in quello del diritto
pubblico; essi consistono negli istituti di carità, ai quali
può certamente esser costretto a contribuire il ricco,
sebbene il suo contributo possa essere non direttamente
apparente. Resta dunque inconcusso il principio, che al
diritto patrimoniale, come istituto di diritto privato, non
può attribuirsi alcun elemento morale, senza che con ciò si
venga né a disconoscere l’assoluto impero delle leggi
morali, né a presentare sotto una luce ambigua la natura
del diritto privato (confr. § 52).
A primo aspetto il rapporto, che corre tra le due parti del
diritto patrimoniale sopra distinte, sembra determinato dal
loro oggetto in modo così invariabile, da ritenere che esso
debba trovarsi lo stesso in ogni tempo e luogo. Un più
accurato esame però mostra anzi che le disposizioni su
questa materia nel diritto positivo dei diversi popoli
possono variare entro limiti molto larghi. Si trovano di tali
differenze in parte riguardo alla linea di confine tra diritti
reali e diritti di obbligazione, in parte riguardo al rapporto,
in che devono essere considerate tra di loro queste due
parti del diritto patrimoniale. – Per ciò che concerne la
delimitazione dei loro rispettivi confini, si hanno
certamente alcuni punti estremi, nei quali la natura
particolare di queste due specie di diritti non può in alcun
148
modo disconoscersi: così da una parte la proprietà
assoluta con illimitato diritto di rivendicare, dall’altra la
locazione e conduzione delle opere e il mandato. Però tra
questi due punti estremi esiste una zona intermedia, un
passaggio graduale, in quanto che la maggior parte delle
obbligazioni, e le più importanti di esse, tendono appunto
al conseguimento, per mezzo di altre persone, di diritti reali
o dell’esercizio e del godimento di essi. A questo riguardo,
nel diritto romano è posta in rilievo in modo caratteristico e
spiccato la proprietà, il che in parte si rivela nell’efficacia
illimitata della rivendica, in parte nella molto limitata
possibilità di una restrizione della proprietà in forza, iura in
re.
Tutto dunque sta nel vedere, se la cosa è già di per sé
stessa oggetto del nostro diritto, indipendentemente dal
fatto di altri, o se il nostro diritto è diretto immediatamente
solo ad un fatto altrui, come oggetto sottoposto al nostro
potere, anche se quest’atto abbia lo scopo di procurarci il
diritto su di una cosa o il godimento della medesima. Serve
di criterio discretivo per determinare quei confini la
esistenza di una actio in rem o di una actio in personam; la
quale distinzione coincide certamente il più delle volte, ma
però non sempre, con quella delle azioni rivolte contro una
persona determinata o contro una persona indeterminata.
– Anche il rapporto tra quelle due parti del diritto
patrimoniale può facilmente divenire oscuro e incerto, per
quella indeterminatezza di confini. Il diritto romano le
distingue rigorosamente l’una dall’altra e considera
ciascuna di esse per sé stessa, come completamente
indipendente dall’altra entro la cerchia dei propri confini.
Così esso tratta la proprietà, come un dominio per sé
stante sopra una cosa, senza aver riguardo alle
obbligazioni, che servivano a procurarla; e le obbligazioni,
come l’impero per sé stante sopra un atto altrui, senza
riguardo ai diritti reali, che per mezzo di tale atto si voglion
forse ottenere. Da questo modo di trattare tali diritti
pienamente conforme alla loro respettiva natura ci si può
allontanare per un duplice errore: o in quanto non si badi
ad altro, che alle obbligazioni, in modo da non ravvisare
nei diritti reali se non una conseguenza o un ulteriore
sviluppo di quelle: o in quanto, al contrario, si ritengono i
soli diritti reali come il vero oggetto delle disposizioni del
diritto, venendo così le obbligazioni ad essere considerate
149
solamente come modi di acquistare diritti reali. Ognuno di
questi modi di trattare questa materia, come forzato ed
esclusivo, impedisce il giusto apprezzamento della vera
natura dei rapporti giuridici: né v’è bisogno di rammentare,
come essi non siano menomamente applicabili ad alcuni
rapporti di diritto, i quali perciò, secondo le conseguenze
logiche di quei criteri, dovrebbero essere lasciati affatto in
disparte.
150
10) B. Windscheid, Capitolo IV, La proprietà, in
Diritto delle pandette, ed. originale del 1862,
trad. it. di Fadda e Bensa, Utet, 1930 pp. 589603;
CAPITOLO IV. La proprietà
I. Concetto, contenuto, oggetto.
§167.
Proprietà indica, che una cosa (materiale) è propria di
alcuno, e per fermo propria a termini di diritto; quindi
invece di proprietà più esattamente diritto di proprietà. Ma
che una cosa sia propria d’alcuno a termini del diritto vuol
dire, che rispetto ad essa la volontà di lui è decisiva nella
totalità dei suoi rapporti. Ciò s’appalesa in duplice senso:
1) il proprietario può disporre della cosa come vuole; 2) un
altro non può senza la volontà di lui disporre della cosa. Si
possono inoltre indicare singole facoltà, che al proprietario
competono in forza del concetto di proprietà, p. es. la
facoltà di usare della cosa e di servirsene, la facoltà
d’escludere qualunque terzo da ogni ingerenza in ordine
alla stessa, la facoltà di richiederla da ogni terzo
possessore, la facoltà di determinarne il destino giuridico
(facoltà d’alienazione). Ma non si può dire che la proprietà
consti d’una somma di singole facoltà, che sia una
riunione di singole facoltà. La proprietà è la pienezza del
diritto sulla cosa, e le singole facoltà, che in essa vanno
distinte, non sono che estrinsecazioni e manifestazioni di
questa pienezza. La proprietà come tale è illimitata; ma
ammette restrizioni.
Dalla totalità dei rapporti, nei quali
in forza della proprietà la cosa è sottoposta al volere del
titolare, può essere, mediante uno speciale fatto giuridico,
tolto l’uno l’altro rapporto e sottratto alla volontà del
proprietario. Egli non cessa perciò d’essere proprietario;
poiché è pur sempre vero, che egli ha un diritto, che come
tale rende la sua volontà decisiva rispetto alla cosa nella
totalità dei suoi rapporti, e che lo esime da ogni speciale
giustificazione per qualsiasi escogitabile facoltà sulla cosa.
Se la restrizione vien meno, tosto la proprietà esplica di
nuovo tutta la sua pienezza. Le restrizioni della proprietà
151
sono di due specie. 0 si fondano sopra una regola giuridica
generale, o sopra il diritto acquisito di un terzo. Di quelle
della prima specie si tratterà tosto più minutamente (§
169); l’esposizione di quelle della seconda specie rientra
nell’esposizione dei diritti, sui quali esse si fondano (cap. 57).
§ 168
Come oggetto della proprietà è stata da noi indicata una
cosa materiale. Ciò soffre una deviazione solo in quanto
può formare oggetto della proprietà un complesso di cose
materiali. Invece non può farsi parola di una proprietà su
quanto
il
diritto
romano
tecnicamente
designa
coll’espressione res incorporales. Res incorporales in questo
senso sono diritti (§ 42); se ad alcuno si attribuisce
proprietà sui diritti, ciò può significare soltanto, che questi
diritti si vogliono designare come a lui competenti. Quindi
si deve dire: gli compete questo diritto, non: egli ha la
proprietà di questo diritto. Col designare la pertinenza
giuridica di un diritto come proprietà sopra un diritto, si
porge occasione che i principii vigenti per la proprietà si
trasportino e si applichino a diritti, che sono governati da
principii diversi. Nello stesso senso è da porre in guardia
circa alla espressione proprietà intellettuale; i prodotti della
intelligenza sono cose di specie affatto diversa dalle cose
materiali, e non possono quindi in una a queste essere
sottoposte alle stesse regole (§ 137 nota 10). Il diritto di
proprietà sui fondi si estende allo spazio e si trova sopra e
sotto il fondo, come pure ai fossili che si trovano sotto la
superficie terrestre.
II. Limitazioni legali della proprietà.
§ 169
La esplicazione senza temperamenti e a fil di logica del
concetto di proprietà non è possibile senza notevoli
inconvenienti; nessun diritto positivo potrà fare a meno di
sottrarre alcunché a tale rigore di logica per questo o per
quel verso, di modo che il proprietario non possa disporre
della sua cosa sotto questo o quel rapporto, debba sotto
questo o quel rapporto tollerare la disposizione d’un altro.
Il rapporto giuridico, che ha luogo in una tale restrizione
della proprietà, può, ancora in concreto, essere di varia
guisa. Può essere che di fronte alla restrizione della
152
proprietà stia il diritto di un privato; ma ciò non è
necessario, come p. es. se una legge prescriva d’attenersi
ad una data altezza nella costruzione delle case. Se le sta
di fronte il diritto di un privato, questo può essere o di
obbligazione o reale. Le limitazioni legali della proprietà,
che occorrono nel diritto romano oggigiorno non sono più
tutte pratiche; quelle tuttora pratiche saranno menzionate
in seguito. Fra esse formano un gruppo specialmente
importante quelle che furono introdotte nell’interesse del
rapporto di vicinanza (c. d. diritto di vicinato); qui si
comincierà da queste.
1. . Il proprietario di un fondo deve tollerare da parte del
vicino una moderata azione sul fondo stesso o sullo spazio
sovrastante, p. es. mediante fumo, vapore, polvere, in
quanto sono la conseguenza dello sfruttamento ordinario
del fondo vicino in conformità alla sua natura.
2. Similmente egli deve tollerare la convessità del muro del
vicino, se questa convessità è inferiore al mezzo piede.
3. Egli deve ad ogni terzo giorno (un giorno sì e l’altro no)
permettere al vicino il passaggio pel suo fondo allo scopo di
raccogliervi i frutti cadutivi dai propri alberi.
4. Se un albero si protenda sulla casa del vicino, il
proprietario deve tagliarlo; se non lo fa, deve permettere al
vicino di farlo, e questi può allora tenere per sé la legna. Se
l’albero si protende sopra un campo altrui il proprietario
deve tagliare i rami fino all’altezza di 15 piedi, in caso
contrario si fa luogo alla stessa conseguenza.
5. Il proprietario non deve fare nel suo campo opere, per le
quali venga mutato a danno del vicino il corso naturale
delle acque piovane; se lo fa, può esigersi da lui il
ripristinamento. Se il mutamento nel corso delle acque non
fu opera sua, egli è obbligato a permettere questo
ripristinamento al vicino. – Prescrizioni, che, nell’interesse
dei proprietari dei fondi attigui, restringano il proprietario
di un fondo nello sfruttamento d’un’acqua privata che in
esso si trovi, non ve ne sono nel diritto romano; esse
appartengono soltanto alle legislazioni particolari moderne.
6. Il proprietario non può sul suo fondo costrurre alcun
edifizio, mediante il quale l’aia del vicino resti privata della
corrente d’aria.
7. Il proprietario non può rimuovere da sé quanto dal fondo
del vicino si protende nel o sopra il suo, ma deve invece
procedere giudiziariamente.
153
8. Il proprietario è obbligato al risarcimento dei danni, se
opera nel suo fondo in una maniera, che, sebbene non
implichi una azione sul fondo del vicino o sullo spazio che
sovrasta ad esso, è però positivamente dannoso del vicino –
però solamente sotto la doppia condizione, che il vicino
prima dell’opera abbia ottenuta da lui una promessa di
risarcimento di danni, e che il proprietario con tali opere
ecceda i limiti dello sfruttamento ordinario, portato dalla
natura del fondo. Non si fondano sul rapporto di vicinanza
le seguenti restrizioni della proprietà.
9. Come il proprietario è obbligato a concedere l’ingresso
nel suo fondo al vicino allo scopo di raccogliere frutti
cadutivi dai proprii alberi, così egli ha lo stesso obbligo in
genere, verso ciascuno le cui cose si trovino nel suo fondo.
10. Egli è obbligato a tollerare nel suo fondo scavi per
trovare fossili contro la retribuzione d’un decimo del ricavo
(un secondo decimo deve essere corrisposto al fisco).
11. Il proprietario di un fondo, che costeggia un fiume
pubblico, deve tollerare quanto l’interesse del traffico sul
fiume richiede.
12. Il proprietario di materiali da costruzione e pali da vite,
che furono impiegati in un fondo altrui, non può
richiederli; ha invece una ragione d’indennità al doppio.
Sulle restrizioni legali del diritto d’alienazione v. § 172 a (λ).
c) La disciplina
10) Il numero chiuso dei diritti reali: rinvio
bibliografico.
Lettura consigliata: U. Morello, Tipicità e numerus
clausus dei diritti reali, in A. Gambaro – U.
Morello, Trattato dei diritti reali, Giuffrè 2011.
11) Modi d’acquisto: rinvio bibliografico.
Lettura consigliata: A. Gambaro, La proprietà, in
Trattato Iudica – Zatti, Giuffrè 1990, Capitolo V.
154
PARTE II
La proprietà nella seconda
globalizzazione
La struttura della proprietà
1) W.N. Hohfeld, Alcuni concetti giuridici
fondamentali nella loro applicazione al
ragionamento giudiziario, in Concetti giuridici
fondamentali, a cura di M. Losano, Einaudi
1969
Raffronto fra concetti giuridici fondamentali.
Uno degli ostacoli più grandi alla chiara comprensione, all'
esposi-zione incisiva ed alla giusta soluzione di problemi
giuridici sorge spesso dalla supposizione, espressa o tacita,
che tutti i rapporti giuridici possano essere ridotti a 'diritti'
e 'doveri', e che queste categorie siano perciò adeguate allo
scopo di analizzare anche gli interessi giuridici più
complessi, come trusts, opzioni, escrows, interessi 'futuri',
interessi sociali, ecc. Anche se la difficoltà riguardasse
semplicemente
l'inadeguatezza
e
l'ambiguità
della
terminologia, sarebbe così seria da meritare un chiaro
riconoscimento ed un costante sforzo di perfezionamento
linguistico; infatti, in ogni problema giuridico o non
giuridico, purché attentamente argomentato, i vocaboli
camaleontici sono un pericolo per la chiarezza di pensiero e
per la perspicuità dell' espressione 66 . Di fatto, tuttavia,
A questo proposito, sono significative le parole di uno dei grandi
maestri del common law. Nel suo importante Preliminary Treatise on
Evidence, 1898, James Bradley Thayer scrive, a p. 190:
«A mano a mano che il nostro diritto si sviluppa, diviene sempre più
importante precisarne la terminologia; le distinzioni si moltiplicano,
sorgono nuove situazioni e complicazioni di fatto, ed il vecchio corredo
di idee, distinzioni e frasi dev'essere accuratamente rivisto. La
chiarezza di idee e di grande aiuto perla comprensione tanto del diritto,
66
155
l'inadeguatezza e l'ambiguità terminologica di cui prima si
è parlato riflettono, disgraziatamente troppo spesso, una
corrispondente carenza e confusione per quanto riguarda
gli attuali concetti giuridici. Che le cose stiano a questo
modo apparirà in certa misura dalla trattazione che segue.
I rapporti giuridici fondamentali in senso stretto sono,
dopo tutto, sui generis; e così accade che i tentativi di
definizione formale siano sempre insoddisfatti, se non
completamente inutili. Di conseguenza, il tipo di
procedimento più promettente sembra consistere nell’
esporre tutti quanti i diversi rapporti in uno schema di
'opposti' e 'correlativi', passando poi ad esemplificare la
loro individuale portata e la loro applicazione in casi
concreti. Cercheremo di seguire questo metodo:
Opposti giuridici
diritto
privilegio potere
immunità
non-diritto dovere
incapacità soggezione
Correlativi giuridici
diritto privilegio
potere
immunità
dovere non-diritto soggezione incapacità
Diritti e doveri. Come si è appena accennato, il termine
'diritti' tende ad essere usato indiscriminatamente per
coprire ciò che in un dato caso può essere un privilegio, un
potere o un'immunità, piuttosto che un diritto nel senso
più rigoroso; e le autorità in materia riconoscono
occasionalmente la trascuratezza di quest'uso.
Come dice il giudice Strong in People v. Dikeman 67:
«II vocabolo 'diritto' è definito dai lessicografi come
denotante, fra le altre cose, la proprietà, l'interesse, il
potere, la prerogativa, l'immunità, il privilegio (Dizionario
Wa1ker, voce 'Diritto'). Nel linguaggio giuridico, esso viene
quanto di ogni altro campo di studio dell'uomo. Se ne/llnguaggio
giuridico corrente i termini vengono usati esattamente, e bene saperlo;
se vengono usati inesattamente, e bene saperlo e notare in che cosa
consiste l'inesattezza».
L'aspetto forse più caratteristico del grande contributo costruttivo di
quest'autore allo studio delle disposizioni sulle prove è la sua costante
insistenza sulla necessità di chiarire la nostra terminologia giuridica e
di operare accurate 'distinzioni' fra concetti e termini che vengono
costantemente trattati come se fossero identici, Cfr., per es., pp. VII,
183, 189-90, 278, 306, 351, 355, 390-93. Tutti gli studiosi delle norme
sulle prove sanno bene quanto sia stata importante l'influenza di
queste distinzioni. […]
67 1852, 7, How. Pr., 124, 130.
156
applicato nella maggior parte dei casi alla proprietà in
senso stretto, ma viene spesso usato anche per designare il
potere, la prerogativa, il privilegio [...]».
Il riconoscimento di quest'ambiguità si ritrova anche nelle
parole del giudice Jackson, in United States v. Patrick 68:
«Il vocabolo 'diritto' o 'privilegio' hanno, naturalmente, vari
significati, secondo il contesto in cui vengono usati. La
definizione che ne dànno in genere i lessicografi include
“ciò che si può pretendere di fare in base al diritto”, il
“potere giuridico”, “l'autorità”, “l'immunità garantita
dall’autorità”, “l’essere investiti di diritti speciali o
particolari”».
E analogamente, nelle parole del giudice Sneed, in Lonas v.
State 69 : «Il singolo stato non può dunque emanare ed
applicare una legge che diminuisca i privilegi e le immunità
di cittadini degli Stati Uniti. Diciamo che le parole diritti,
privilegi e immunità vengono usate arbitrariamente, come
se fossero sinonimi. La parola diritti è generica, comune, ed
abbraccia tutto ciò che può essere preteso in base al
diritto» 70.
È anche interessante osservare come una tendenza verso
la distinzione si ritrovi in un certo numero di importanti
disposizioni
costituzionali
e
della
legge
scritta.
Naturalmente, è impossibile dire con sicurezza quanto
queste distinzioni siano state precise nella mente del
legislatore 71.
Riconoscendo, come dobbiamo, che l'uso del termine
'diritto', è stato finora troppo ampio ed indiscriminato,
quali indizi nel linguaggio giuridico ordinario possono farci
pervenire ad un significato definito ed appropriato del
vocabolo in questione? L'indizio sta nel correlativo 'dovere',
poiché è certo che anche coloro che usano la parola ed il
concetto di 'diritto' nel modo più ampio possibile sono
abituati a pensare il ‘dovere’ come suo invariabile
correlativo. Com'è detto nella causa Lake Shore & M. S. R.
Co. V. Kurtz 72:
68
69
70
71
72
1893, 54 Fed. Rep., 338, 348.
1871, 3 Heisk. (Tenn.), 287, 306-7.
[…]
[…]
1894, 10 Ind. App., 60; 37 N. E., 303, 304.
157
« Un dovere od obbligo giuridico è ciò che si deve o non si
deve fare. 'Dovere' e 'diritto' sono termini correlativi.
Quando si viola un diritto, si trasgredisce un dovere» 73.
In altre parole, se X ha il diritto che Y stia fuori dalla sua
terra) il correlativo (ed equivalente) è che Y è soggetto ad un
dovere verso X di starne fuori. Se, come sembra
auspicabile, cercassimo un sinonimo del termine ‘diritto’ in
questo significato limitato ed appropriato, forse il vocabolo
inglese 'claim' (pretesa) risulterebbe il migliore; esso ha il
vantaggio di essere un monosillabo. In questo contesto, è
istruttivo il linguaggio di Lord Watson in Studd v. Cook 74:
«Le parole che in una transazione relativa a beni mobili
sarebbero riconosciute dal diritto scozzese come sufficienti
a creare un diritto o pretesa in favore di un esecutore […]
devono essere efficaci se usate in riferimento a terreni
scozzesi».
Privilegi e “non-diritti”. Com'è stato sopra indicato nello
schema dei rapporti giuridici, un privilegio è l’opposto di
un dovere, ed il correlativo di un ‘non-diritto’. Nell’ultimo
esempio fatto, X ha un diritto o pretesa che Y stia fuori
dalla sua terra, mentre egli ha il privilegio di accedervi,
ovvero, in altri termini, non ha un dovere di starne fuori. Il
privilegio di entrare è la negazione del dovere di star fuori.
Quest'esempio mostra come sia necessario procedere con
cautela: infatti, quando si dice che un dato privilegio è la
semplice negazione di un dovere, si intende sempre parlare
di un dovere il cui contenuto è precisamente l’opposto di
quello del privilegio in questione. Così, se per qualche
speciale motivo X ha stipulato con Y un contratto per cui
deve andare sulla sua terra, è ovvio che X ha, per quanto
riguarda Y, sia il privilegio di entrare sia il dovere di
entrare. Il privilegio è perfettamente compatibile con questo
tipo di dovere (poiché quest'ultimo ha lo stesso contenuto
del privilegio); ma resta ancora valido che, per quanto
riguarda Y, il privilegio di entrare è la precisa negazione di
un dovere di star fuori. Analogamente, se A non ha
stipulato con B un contratto per cui deve compiere per lui
un certo lavoro, il privilegio di A di non farlo è proprio la
negazione di un dovere di farlo. Qui di nuovo il dovere che
73
74
[…]
1883, 8, App. Cas., 597.
158
si oppone è di contenuto esattamente opposto a quello del
privilegio.
Passando ora alla questione dei 'correlativi', si ricorderà
che un dovere è, 1'invariabile correlativo di quel rapporto
giuridico correttamente definito come diritto o pretesa. Così
stando le cose, se c'è bisogno di un'altra prova
dell'importante e fondamentale differenza fra un diritto ( o
pretesa) ed un privilegio, la si trova certamente nel fatto
che il correlativo di quest'ultimo rapporto è un 'non-diritto',
non essendovi altro termine per esprimere quest'ultimo
concetto. Così, il correlativo del diritto di X che Y non entri
nella sua terra è il dovere di Y di non entrarvi; ma il
correlativo del privilegio dello stesso X di entrare è
chiaramente il 'non-diritto' di Y che X non entri.
Sulla base delle osservazioni fin qui svolte, appare evidente
l'importanza di tenere completamente distinti l'uno
dall'altro il concetto di diritto (o pretesa) ed il concetto di
privilegio; ed è inoltre egualmente chiaro che dovrebbe
esservi un termine specifico per designare quest'ultimo
rapporto. Senza dubbio, come si è già indicato, l'uso in·
discriminato del termine 'diritto' è molto comune, anche
quando il rapporto designato è in realtà quello di privilegio
l; e troppo spesso quest'identità di termini ha comportato
confusione od oscurità di idee in chi ne ha parlato o
scritto.
[…]
2) La Costituzione di Weimar – 11 agosto 1919
Il popolo tedesco, unito nelle sue stirpi, ed animato dalla
volontà di rinnovare e rafforzare, in libertà e giustizia, il
suo Reich, di servire la causa della pace interna ed
internazionale e di promuovere il progresso sociale, si è
data questa costituzione.
[…]
CAPO V
LA VITA ECONOMICA
Art. 153 – La proprietà è garantita dalla costituzione. Il suo
contenuto ed i suoi limiti sono fissati dalla legge.
L’espropriazione può avvenire solo se consentita dalla legge
e nell’interesse collettivo. Salvo che la legge del Reich non
159
disponga altrimenti, deve essere corrisposto all’espropriato
un congruo indennizzo. Le controversie sorte circa
l’ammontare del medesimo devono essere sottoposte al
giudice ordinario, a meno che la legge del Reich non
disponga altrimenti. Le espropriazioni da parte del Reich di
beni dei Länder, dei Comuni e delle associazioni di
pubblica utilità sono possibili solo dietro indennità. La
proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve
essere rivolto al bene comune.
3) Art. 832 c.c.: Riferimenti bibliografici.
C. Salvi, da Il contenuto del diritto di proprietà,
Artt. 832-833 c.c. in Comm. Schlesinger, Giuffrè
1994, Capitoli II e IV.
O in alternativa
A. Gambaro, La proprietà, in Trattato Iudica –
Zatti, Giuffrè 1990, Capitolo III.
160
La funzione sociale
4) Carta del Lavoro, approvata dal
Consiglio del Fascismo il 21 aprile 1927
Gran
I - La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita e mezzi di
azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o
raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed
economica che si realizza integralmente nello Stato fascista.
II - Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive,
intellettuali, tecniche, manuali, è un dovere sociale. A questo titolo, e
solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della
produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono
unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della
potenza nazionale.
III - L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il
sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato,
ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di
lavoro o di lavoratori, per cui è costituito: di tutelare di fronte allo Stato
e alle altre associazioni professionali gli interessi; di stipulare contratti
collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria; di
imporre loro contributi e di esercitare, rispetto ad essi, funzioni
delegate di interesse pubblico
IV - Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta
la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la
conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori,
e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione
V - La Magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a
regolare le controversie del lavoro sia che vertano sull’osservanza dei
patti e delle altre norme esistenti, sia che vertano sulla determinazione
di nuove condizioni di lavoro
VI - Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano
l’uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono
la disciplina della produzione e del lavoro e ne promuovono il
perfezionamento. Le corporazioni costituiscono l’organizzazione
unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano integralmente
gli interessi. In virtù di questa integrale rappresentanza, essendo gli
interessi della produzione interessi nazionali, le corporazioni sono dalla
legge riconosciute come organi di Stato. Quali rappresentanti degli
interessi unitari della produzione, le corporazioni possono dettare
norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e anche sul
coordinamento della produzione tutte le volte che ne abbiano avuto i
necessari poteri dalle associazioni collegate.
161
VII - Lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della
produzione come lo sfruttamento più efficace e più utile nell’interesse
della Nazione. L’organizzazione privata della produzione essendo una
funzione di interesse nazionale, l’organizzazione della impresa è
responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Dalla
collaborazione delle forze produttive deriva fra esse reciprocità di diritti
e di doveri. Il prestatore d’opera, tecnico, impiegato, od operaio, è un
collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della quale
spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità.
VIII - Le associazioni professionali di datori di lavoro hanno l’obbligo di
promuovere in tutti i modi l’aumento, il perfezionamento della
produzione e la riduzione dei costi. Le rappresentanze di coloro che
esercitano una libera professione o un’arte e le associazioni di pubblici
dipendenti concorrono alla tutela degli interessi dell’arte, della scienza
e delle lettere, al perfezionamento della produzione e al conseguimento
dei fini morali dell’ordinamento corporativo
IX - L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo
soltanto quando manchi o sia insufficiente la iniziativa privata o
quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può
assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione
diretta.
X - Nelle controversie collettive del lavoro l’azione giudiziaria non può
essere intentata se l’organo corporativo non ha prima esperito il
tentativo di conciliazione. Nelle controversie individuali concernenti
l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro, le
associazioni professionali hanno facoltà di interporre i loro uffici per la
conciliazione. La competenza per tali controversie è devoluta alla
magistratura ordinaria, con l’aggiunta di assessori designati dalle
associazioni professionali interessate
XI - Le associazioni professionali hanno l’obbligo di regolare, mediante
contratti collettivi, i rapporti di lavoro fra le categorie di datori di lavoro
e di lavoratori che rappresentano. Il contratto collettivo di lavoro si
stipula fra associazioni di primo grado, sotto la guida e il controllo delle
organizzazioni centrali, salva la facoltà di sostituzione da parte
dell’associazione di grado superiore, nei casi previsti dalla legge e dagli
statuti. Ogni contratto collettivo di lavoro, sotto pena di nullità, deve
contenere norme precise sui rapporti disciplinari, sul periodo di prova,
sulla misura e sul pagamento della retribuzione, sull’orario di lavoro.
XII - L’azione del sindacato, l’opera conciliativa degli organi corporativi
e la sentenza della Magistratura del lavoro garantiscono la
corrispondenza del salario alle esigenze normali di vita, alle possibilità
dalla produzione e al rendimento del lavoro. La determinazione del
salario è sottratta a qualsiasi norma generale e affidata all’accordo
delle parti nei contratti collettivi.
XIII - I dati rilevati dalle pubbliche Amministrazioni, dall’Istituto
centrale di Statistica e dalle associazioni professionali legalmente
riconosciute, circa le condizioni della produzione e del lavoro e la
162
situazione del mercato monetario, e le variazioni del tenore di vita dei
prestatori d’opera, coordinati ed elaborati dal Ministero delle
corporazioni, daranno il criterio per contemperare gli interessi delle
varie categorie e delle classi fra di loro e di queste coll’interesse
superiore della produzione.
XIV - La retribuzione deve essere corrisposta nella forma più
consentanea alle esigenze del lavoratore e dell’impresa. Quando la
retribuzione sia stabilita a cottimo, e la liquidazione dei cottimi sia
fatta a periodi superiori alla quindicina, sono dovuti adeguati acconti
quindicinali o settimanali. Il lavoro notturno, non compreso in regolari
turni periodici, viene retribuito con una percentuale in più, rispetto al
lavoro diurno. Quando il lavoro sia retribuito a cottimo, le tariffe di
cottimo debbono essere determinate in modo che all’operaio laborioso,
di normale capacità lavorativa, sia consentito di conseguire un
guadagno minimo oltre la paga base.
XV - Il prestatore di lavoro ha diritto al riposo settimanale in
coincidenza con le domeniche. I contratti collettivi applicheranno il
principio tenendo conto delle norme di legge esistenti, delle esigenze
tecniche delle imprese, e nei limiti di tali esigenze procureranno altresì
che siano rispettate le festività civili e religiose secondo le tradizioni
locali. L’orario di lavoro dovrà essere scrupolosamente e intensamente
osservato dal prestatore d’opera.
XVI - Dopo un anno di interrotto servizio il prestatore d’opera, nelle
imprese a lavoro continuo, ha il diritto ad un periodo annuo di riposo
feriale retribuito.
XVII - Nelle imprese a lavoro continuo, il lavoratore ha diritto, in caso
di cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza sua colpa,
ad un’indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è
dovuta anche in caso di morte del lavoratore
XVIII - Nelle imprese a lavoro continuo, il trapasso della azienda non
risolve il contratto di lavoro, e il personale ad essa addetto conserva i
suoi diritti nei confronti del nuovo titolare. Egualmente la malattia del
lavoratore, che non ecceda una determinata durata, non risolve il
contratto di lavoro. Il richiamo alle armi o in servizio della M.V.S.N.
non è causa di licenziamento
XIX - Le infrazioni alla disciplina e gli atti che perturbino il normale
andamento dell’azienda, commessi dai prenditori di lavoro, sono
puniti, secondo la gravità della mancanza, con la multa, con la
sospensione dal lavoro e, per i casi più gravi, col licenziamento
immediato senza indennità. Saranno specificati i casi in cui
l’imprenditore può infliggere la multa o la sospensione o il
licenziamento immediato senza indennità
XX - Il prestatore di opera di nuova assunzione è soggetto ad un
periodo di prova, durante il quale è reciproco il diritto alla risoluzione
del contratto, col solo pagamento della retribuzione per il tempo in cui
il lavoro è stato effettivamente prestato
163
XXI - Il contratto collettivo di lavoro estende i suoi benefici e la sua
disciplina anche ai lavoratori a domicilio. Speciali norme saranno
dettate dallo Stato per assicurare la polizia e l’igiene del lavoro a
domicilio
XXII - Lo Stato accerta e controlla il fenomeno della occupazione e della
disoccupazione dei lavoratori, indice complessivo delle condizioni della
produzione e del lavoro
XXIII - Gli Uffici di collocamento sono costituiti a base paritetica sotto
il controllo degli organi corporativi dello Stato I datori di lavoro hanno
l’obbligo di assumere i prestatori d’opera pel tramite di detti Uffici. Ad
essi è data facoltà di scelta nell’ambito degli iscritti negli elenchi con
preferenza a coloro che appartengono al Partito e ai Sindacati fascisti,
secondo l’anzianità di iscrizione
XXIV - Le associazioni professionali di lavoro hanno l’obbligo di
esercitare un’azione selettiva fra i lavoratori, diretta ad elevarne sempre
più la capacità tecnica e il valore morale
XXV - Gli organi corporativi sorvegliano perché siano osservate le leggi
sulla prevenzione degli infortuni e sulla polizia del lavoro da parte dei
singoli soggetti alle associazioni collegate
XXVI - La previdenza è un’alta manifestazione del principio di
collaborazione. Il datore di lavoro e il prestatore d’opera devono
concorrere proporzionalmente agli oneri di essa. Lo Stato, mediante gli
organi corporativi e le associazioni professionali, procurerà di
coordinare e di unificare, quanto è più possibile, il sistema e gli istituti
della previdenza
XXVII - Lo Stato fascista si propone: 1° il perfezionamento
dell’assicurazione infortuni; 2° il miglioramento e l’estensione
dell’assicurazione maternità; 3° l’assicurazione delle malattie
professionali e della tubercolosi come avviamento all’assicurazione
generale
contro
tutte
le
malattie;
4°
il
perfezionamento
dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria; 5° l’adozione
di forme speciali assicurative dotalizie pei giovani lavoratori
XXVIII - È compito delle associazioni di lavoratori la tutela dei loro
rappresentanti nelle pratiche amministrative e giudiziarie, relative
all’assicurazione infortuni e alle assicurazioni sociali. Nei contratti
collettivi di lavoro sarà stabilita, quando sia tecnicamente possibile, la
costituzione di casse mutue per malattia col contributo dei datori di
lavoro e dei prestatori di opera, da amministrarsi da rappresentanti
degli uni e degli altri, sotto la vigilanza degli organi corporativi
XXIX – L’assistenza ai propri rappresentanti, soci e non soci, è un
diritto e un dovere delle associazioni professionali. Queste debbono
esercitare direttamente le loro funzioni di assistenza, nè possono
delegarle ad altri enti od istituti, se non per obiettivi d’indole generale,
eccedenti gli interessi delle singole categorie
164
XXX – L’educazione e l’istruzione professionale dei loro rappresentanti,
soci e non soci, è uno dei principali doveri delle associazioni
professionali. Esse devono affiancare l’azione delle Opere nazionali
relative al dopolavoro e alle altre iniziative di educazione.
5) B. Mussolini, Discorso al Senato per lo Stato
Corporativo, 13 gennaio 1934, Opera Omnia di
Benito Mussolini, XXVI, La Fenice, Firenze, pp.
146-151
Onorevoli senatori!
Se effettivamente la materia non fosse inesauribile, io avrei
rinunciato volentieri alla parola, anche perché la legge che
è sottoposta ai vostri suffragi ha avuto una elaborazione
lenta e profonda: non nasce d’improvviso. I suoi precedenti
possono essere ritrovati in quella che si potrebbe chiamare
la protostoria del regime: la prima adunata dei Fasci di
Combattimento, tenutasi a Milano quindici anni or sono.
Dopo la marcia su Roma, i primi tentativi corporativi
furono l’incontro di palazzo Chigi ed il Patto di palazzo
Vidoni.
Viene poi la legge 3 aprile 1926, seguila dal regolamento
del V luglio1926. La Carta del lavoro del 21 aprile 1927. La
prima legge sulle corpo-razioni è del marzo 1930.
Questa legge primieramente e stata esaminata dal
Comitato corporativo centrale, poi è stata discussa nel
Consiglio nazionale delle corporazioni, ha avuto il suo
crisma in lunghe e dettagliate discussioni del Gran
Consiglio, è stata riveduta dal Consiglio dei ministri, è
stata presentata a voi con una relazione del ministero delle
Corporazioni.
[…]
Quali sono le premesse di questa legge? Le premesse
fondamentali sono le seguenti:
non esiste il fatto economico di interesse esclusivamente
privato e individuale;
dal giorno in cui l’uomo si rassegnò o si adattò a vivere
nella comunità dei suoi simili, da quel giorno nessun atto
che egli compia, comincia, si sviluppa o si conclude in lui,
ma ha delle ripercussioni che vanno oltre la sua persona.
165
Bisogna anche situare nella storia il fenomeno che si
chiama
capitalismo,
quella
forma
determinante
nell’economia che si chiama l’economia capitalistica.
L’economia capitalistica è un fatto del secolo scorso e
dell’attuale. L’antichità non l’ha conosciuto. Il libro del
Salvioli è esauriente, definitivo in materia. Nemmeno nel
medioevo! Siamo sempre in una fase di artigianato più o
meno vasta. Chi dice capitalismo dice macchina, chi dice
macchina dice fabbrica. II capitalismo è quindi legato al
sorgere della macchina; si sviluppa soprattutto quando è
possibile trasportare l’energia a distanza e quando, in
condizioni tutt’affatto diverse da quelle nelle quali viviamo,
è possibile una divisione del lavoro razionale ed universale.
È questa stessa divisione del lavoro che nella seconda metà
del secolo scorso faceva dire ad un economista inglese,
Stanley Jevens, che:
«Le pianure dell’America del Nord e della Russia sono i
nostri campi di grano; Chicago ed Odessa i nostri granai; il
Canada ed i paesi sono le nostre foreste; l’Australia alleva
per noi i suoi armenti; l’America i suoi buoi; il Perù ci manda
il suo argento; la California e l’Australia il loro oro; i cinesi
coltivano il tè per noi e gli indiani il caffè; zucchero e spezie
arrivano ai nostri porti; in Francia e in Spagna sono i nostri
vini; il Mediterraneo il nostro orto».
Tutto questo naturalmente aveva la contropartita del
carbone, delle cotonate, delle macchine, ecc. Si può
pensare che in questa prima fase del Capitalismo (io
altrove la ho definita dinamica ed anche eroica) il fatto
economico fosse di natura prevalentemente individuale e
privata. I teorici in quel momento escludevano nella
maniera più assoluta l’intervento dello Stato nelle faccende
dell’economia e chiedevano allo Stato soltanto di essere
assente e di dare alla nazione la sicurezza e l’ordine
generale. È anche in questo periodo che il fenomeno
capitalista industriale ha nei suoi dirigenti un aspetto
familiare che là dove si è conservato è stato di utilità
somma; ci sono le dinastie dei grandi industriali che si
trasmettono da padre in figlio non soltanto la fabbrica, ma
anche un senso di orgoglio, anche un punto di onore.
Senso di orgoglio, anche un punto di onore.
Ma già il Fried, nel suo libro La fine del capitalismo, pur
limitando le sue osservazioni al campo tedesco, è condotto
a constatare che fra il ‘70 e il ‘90 queste grandi dinastie di
166
industriali decadono, si frantumano, si disperdono,
diventano insufficienti. È in questo periodo che appare la
società anonima.
Non bisogna credere che la società anonima sia una
invenzione diabolica o un prodotto della malvagità umana.
(Si ride). Non bisogna introdurre troppo di frequente gli
iddii ed i diavoli nelle nostre vicende. La società anonima
nasce quando il capitalismo, per le sue proporzioni
aumentate, non può più contare sulla ricchezza familiare o
di piccoli gruppi, ma deve fare appello attraverso emissioni
di azioni e di obbligazioni al capitale anonimo,
indifferenziato, colloidale.
[…]
In questo periodo, quando l’industria non può collocare,
giovandosi del suo prestigio o della sua forza, il suo
capitale, ricorre alla banca. Quando una impresa fa appello
al capitale di tutti il suo carattere privato cessa, diventa un
fatto pubblico o, se più vi piace, sociale.
[…]
L’intervento dello Stato non è più scongiurato, è sollecitato.
Lo Stato deve intervenire? Non vi è dubbio. Ma come? Ora
le forme dell’intervento dello Stato in questi ultimi tempi
sono state diverse, varie, contrastanti. C’è l’intervento
disorganico, empirico, caso per caso. Questo è stato
applicato in tutti i paesi, anche in quelli che fino a questi
ultimi tempi tenevano issata la bandiera del liberalismo
economico. Vi è una forma di intervento, quello
comunistico, verso la quale io non ho nessunissima
simpatia, nemmeno in ordine allo spazio, senatore Corbino!
Escludo per mio conto che il comunismo applicato in
Germania avrebbe dato risultati diversi da quelli che ha
nato in Russia. Comunque è evidente che il popolo
germanico non ne ha voluto sapere.
Questo comunismo, così come ne ci appare in talune sue
manifestazioni di esasperato americanismo (gli estremi si
toccano), non è che una forma di socialismo di Stato, non è
che la burocratizzazione dell’economia. Io credo che
nessuno di voi vuole burocratizzare, cioè congelare, quella
che è la realtà della vita economica della nazione, realtà
167
complicata, mutevole, legata a quello che succede nel
mondo (approvazioni) e soprattutto tale che quando induca
a commettere degli errori, tali errori hanno conseguenze
imprevedibili. (Applausi). L’esperienza americana va seguita
con molta attenzione. Anche negli Stati Uniti l’intervento
dello Stato nelle faccende dell’economia è diretto; qualche
volta assume forme perentorie. Questi codici non sono che
dei contratti collettivi, che il Presidente costringe gli uni e
gli altri a subire.
Prima di dare un giudizio su questo esperimento bisogna
attendere. Vorrei soltanto anticipare la mia opinione, ed è
questa: che le manovre monetarie non possono condurre
ad un rialzo effettivo e duraturo dei prezzi. (Applausi).
Se noi vogliamo illudere il genere umano, si può ricorrere a
quella che una volta si chiamava la tosatura della moneta.
Ma la opinione di tutti quelli che non ubbidiscono ad un
empirismo di ordine economico e sodale è nettissima.
L’inflazione è la via che conduce alla catastrofe. (Vivissimi
applausi).
Ma chi può pensare effettivamente che la moltiplicazione
dei segni monetari aumenti la ricchezza di un popolo?
Qualcuno ha già fatto il paragone: sarebbe lo stesso che
riproducendo un milione di volte la stessa negativa dello
stesso individuo si ritenesse che la popolazione è
aumentata di milioni di uomini. (Approvazioni).
Ma non ci sono dunque le esperienze? Dagli «assegnati» di
Francia al marco del dopoguerra germanico?
Quarta esperienza: la fascista. Se l’economia liberale è
l’economia degli individui in stato di libertà più o meno
assoluta, l’economia corporativa fascista è 1’economia degli
individui, ma anche dei gruppi associati ed anche dello
Stato. E quali sono i suoi caratteri? Quali sono i caratteri
dell’economia corporativa?
L’economia corporativa rispetta il principio della proprietà
privata.
La proprietà privata completa la personalità umana: è un
diritto e se è un diritto è anche un dovere. Tanto che noi
pensiamo che la proprietà deve essere intesa in funzione
sociale; non quindi la proprietà passiva, ma la proprietà
attiva; che non si limita a godere i frutti della ricchezza, ma
li sviluppa, li aumenta, li moltiplica.
L’economia corporativa rispetta l’iniziativa individuale.
168
Nella Carta del lavoro è detto espressamente che soltanto
quando l’economia individuale è deficiente, inesistente o
insufficiente, allora interviene lo Stato. Ne è evidente
esempio che solo lo Stato, coi suoi mezzi potenti, può
bonificare l’Agro Pontino. L’economia corporativa introduce
l’ordine anche nell’economia. Se c’è un fenomeno che deve
essere ordinato, che deve essere indirizzato a certi
determinati fini, questo è precisamente il fenomeno
economico, che interessa la totalità dei cittadini.
Non solo l’economia industriale deve essere disciplinata ma
anche l’economia agricola (nei momenti facili anche taluni
agricoltori hanno deragliato), l’economia commerciale, la
bancaria e anche l’artigianato. Come deve tradursi nei fatti
questa disciplina? Attraverso l’autodisciplina delle
categorie interessate. Solo in un secondo tempo, quando le
categorie non abbiano trovato la via dell’accordo e
dell’equilibrio, lo Stato potrà intervenire e ne avrà il
sovrano diritto anche in questo campo, poiché lo Stato
rappresenta l’altro termine del binomio: il consumatore.
La massa anonima, la qua non essendo inquadrata nella
sua qualità di consumatrice in apposite organizzazioni,
deve essere tutelata dall’organo che rappresenta la
collettività dei cittadini.
[…]
Questa legge, onorevoli senatori, è entrata ormai nella
coscienza del popolo italiano. Il popolo italiano lo ha
dimostrato in questi giorni. Questo ammirevole popolo
italiano, laborioso, infaticabile risparmiatore, ha dato a
questa legge otto miliardi di voti, che valgono una lira
l’uno. […]
169
6) F. Ferrara, La proprietà come “dovere
sociale”, in La concezione fascista della
proprietà privata, Roma 1939, pp. 279-287
I. Il concetto tradizionale della proprietà, secondo l’economia
liberale. — II. Le nuove idee sulle funzioni dello Stato e la
restrizione del diritto di proprietà in estensione e contenuto. —
III. Il Regime fascista e la trasformazione della proprietà da diritto
in dovere.
I. – Se noi consideriamo l’istituto della proprietà, quale era
concepito tradizionalmente secondo i criteri della economia
liberale individualistica, e quale si è venuto trasformando
in regime fascista per un effetto sempre più penetrante
della legislazione e dell’indirizzo del sistema corporativo,
noi assistiamo ad una profonda trasformazione di esso, che
arriva sino al limite estremo di convertire il diritto in un
dovere. Il nostro Codice Civile infatti definisce la proprietà
come il diritto di godere e di disporre della cosa nella
maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso
vietato dalla legge dai regolamenti (art. 436), definizione
ricopiata dal Codice Francese (art. 544) e che riproduce la
tradizione romana del diritto comune che concepisce la
proprietà come l’ius utendi fruendi aut perfecte disponendi.
II diritto di proprietà si considera come un complesso di
poteri di godimento e di dispo-sizione della cosa» come l’ius
plenum in re corporali, come la sovranità dell’individuo sui
beni, nella forma più piena ed assoluta. La proprietà è
l’espressione della libertà, è il campo di attuazione
dell’autonomia individuale, è l’oggetto del signoreggiamento
della persona umana. Nella sfera del domi-nio, il
proprietario è signore assoluto, è suae rei moderator et
arbiter, e domina con la sua volontà sulla cosa, in tutte le
sue multiformi manifestazioni. Gli scrittori che vogliono
definire la proprietà mettono in luce i suoi caratteri di
astrattezza, di universalità, di perpetuità, concependola
come il diritto di generale signoria dell’uomo sui beni della
natura esteriore. Il diritto di proprietà si manifesta nell’uso
o nel non uso della cosa: poiché il bene è assoggettato
all’esclusivo potere del titolare, e nessuno è legittimato, a
penetrare in questa sfera chiusa, od a censurare il
comportamento del proprietario, questi può agire o non
170
agire, può godere o non godere, perché anche il non uso è
esercizio del diritto. Il proprietario di una terra esercita
egualmente la sua proprietà, sia se col lavoro la trasforma
in un campo fiorente e ricco di messi, sia se la lascia
abbandonata ai rovi e alle ortiche. Questo concetto di
dominio solitario, riceve bensì delle limitazioni od oneri
dalla legge, nell’interesse pubblico e privato, ma queste
restrizioni sono semplici attenuazioni di questa sovranità,
ma non osano intaccare il potere del proprietario,
considerandosi come attentati alla sua libertà. Il diritto del
proprietario si estende su tutti i beni capaci di
utilizzazione,
diretta
o
indiretta,
senza
riguardo
all’interesse che certe cose possono presentare per la
generalità. Limitandoci alla proprietà fondiaria, vige il
principio che la proprietà si estende al di sopra e al di sotto
del suolo, e colpisce tutti i beni che nel fondo si trovano, se
anche un limite naturale a questa estensione del diritto in
altezza e profondità è dato dalla possibilità di utilizzazione.
Ma la proprietà comprende le acque sotterranee dei fondi,
le cave e miniere, gli oggetti artistici ed antichità che in essi
si trovano sotterrati. Se da questa estensione del diritto di
proprietà su questi beni, l’interesse pubblico risulta
sacrificato, tutti devono rassegnarsi a questo male
necessario, per non attentare alla libertà dell’individuo.
Secondo questa concezione l’individuo era il centro del
mondo, mentre tutte le altre istituzioni erano a servizio suo,
umili cooperatrici al suo benessere. Lo Stato viveva bensì
in una posizione di alta sovranità, ma i compiti ad esso
assegnati e che esso si assegnava erano di un altro ordine,
di carattere politico. Individuo e Stato marciavano
ciascuno, per la propria strada, ognuno perseguendo fini
propri, ma non v’erano incroci od interferenze. Si può dire
che lo Stato ignorava gli individui, si estraniava dai loro
interessi, si isolava in una sfera ideale, abbandonando gli
individui a se stessi. Lo Stato aveva la sovranità, l’uomo, la
proprietà: ognuno aveva un dominio proprio, e queste sfere
erano indipendenti e intangibili.
II. – Ma, in quest’ultimi tempi, specialmente sotto il regime
fascista, le idee e concezioni sullo Stato, e sui suoi rapporti
con
la
società,
si
sono
venute
essenzialmente
trasformando, col venire a trionfare l’idea, che lo Stato non
è altro che la stessa società giuridicamente organizzata, e
171
che non vi può essere antitesi o separazione tra interessi
statuali ed interessi individuali, da poiché la forza e
potenza dello Stato, sia politica che economica, non può
dipendere che dalle forze ed interessi degli stessi
consociati. Vi è un’intima compenetrazione fra Stato e
individui, perché gli individui non sono altro che cellule di
questa grande organizzazione politica che si chiama Stato.
Questo rinnovamento di idee ha necessariamente reagito
sul regime e sulla stessa concezione della proprietà. In
primo luogo assistiamo ad una accentuazione dello
interesse pubblico sull’interesse privato, per cui il concetto
di proprietà si va restringendo nel suo ambito, in quanto al
proprietario vengono successivamente sottratti dei beni,
che prima si consideravano di suo esclusivo dominio, e che
invece ora passano nel campo del diritto pubblico. Quelli
che prima erano limiti alla proprietà privata, finiscono per
assorbire la proprietà privata, convertendola in proprietà di
diritto pubblico. Questo è avvenuto specialmente in materia
di acque e di miniere. Il Codice Civile, ed anche le
successive leggi speciali parlano bensì di acque private, ma
in realtà le acque private si sono ridotte alle acque chiuse
od a piccoli ruscelli di importanza trascurabile, ma tutte le
acque, sorgenti, fluviali, lacuali sono diventate acque
pubbliche, patrimonio demaniale dello Stato, oggetto di
concessione ai privati. Lo stesso si dica per le miniere, con
la legge 29 luglio 1927 n. 1443. La legislazione mineraria
nelle varie parti d’Italia era diversa ma in molte regioni,
come in Toscana, vigeva il sistema fondiario, per cui il
dominus soli era anche proprietario del sottosuolo, e quindi
delle miniere. Fu in principio per le esigenze belliche che si
cominciò a colpire l’inerzia dei proprietari, per intensificare
lo
sfruttamento
delle
miniere,
specialmente
dei
combustibili fossili, ma il movimento una volta cominciato,
non si arrestò, e finì per far trionfare il principio industriale,
per cui le miniere si considerano avulse dai fondi, separate
dal diritto del proprietario, e come cose a sè, beni a
disposizione dello Stato, e quindi capaci di concessione a
privati per il loro sfruttamento industriale. Principio del
lavoro, della capacità tecnica, della attrezzatura economica,
che devono indirizzare l’utilizzazione delle nostre ricchezze
minerarie,
che
sono
ricchezze
della
Na-zione.
Naturalmente, sia in materia di acque che di miniere, sono
stati salvati con opportune disposizioni transitorie, certi
172
interessi o diritti acquisiti di singoli utenti, ma questa
conservazione di privilegi è avvenuta, inquadrandola nel
nuovo regime pubblicistico, e quindi cancellandone
l’originaria marca privatistica, che è definitivamente
scomparsa.
Ma un’analoga restrizione del diritto di proprietà fondiaria
si è avuta anche in materia di oggetti di antichità e di belle
arti, per quanto il regime qui si presenti ancora un po’
arretrato. Nessun privato può intraprendere degli scavi nel
proprio fondo, se non ne ottiene espressa licenza, e le
ricerche avvengono sotto la sorveglianza di funzionari
governativi. Egualmente, lo Stato può fare scavi sui fondi
privati. È disposto però, che delle cose scoperte una parte
viene rilasciata al proprietario, sui cui fondo sono state
trovate. Questo reliquato di omaggio al dominio può essere
discutibile. Se infatti le cose aventi interesse storico,
artistico, archeologico non sono tecnicamente un tesoro,
ma sono retaggi di una civiltà passata, si può prescindere
dal diritto del proprietario del fondo, in cui gli oggetti sono
materialmente
ritrovati,
riconoscendo
che
essi
appartengono per intero al Demanio artistico e
archeologico dello Stato. Secondo un altro lato, l’interesse
pubblico si è imposto al privato, restringendo la sfera del
dominio, sia in estensione che in durata. Così il diritto di
proprietà sulle opere dell’ingegno e sulle invenzioni non è
perpetuo, ma assicura solo per un certo tempo il
monopolio di utilizzazione, all’autore od inventore, ma dopo
l’opera cade in dominio pubblico, diventa patrimonio
universale della civiltà. Inoltre, oggi non è più sostenibile la
tesi della liceità degli atti di emulazione. Nella scuola e nella
giurisprudenza si è lungamente discusso, se al proprietario
fosse lecito di usare a del suo diritto, proprio, ed in odio
altrui, solo per far dispetto al vicino. E, secondo la teoria
più rigorosa, si riteneva che l’atto di emulazione non fosse
antigiuridico, perché ognuno è sovrano nella cosa propria,
e non deve rendere conto ad alcuno delle sue intenzioni e
dei suoi atti. Ma questa tesi oggi ha un sapore arcaico,
perché muove dal paradosso liberale della sovranità
assoluta dell’individuo sulla cosa. Ma, se la proprietà è uno
strumento d’ attività nell’interesse pubblico, deve essere
adoperata solo ai fini sociali, e perciò l’uso a scopi frivoli e
maliziosi deve ritenersi anomalo, e l’abuso del diritto,
antigiuridico.
173
III. .- Ma la concezione fascista ha agito in modo più
penetrante nel sistema della proprietà fondiaria,
specialmente in materia di agricoltura. Un relitto classico
della sovranità del dominio era l’ius abutendi, il quale
poteva manifestarsi nel potere di assenteismo e di
disinteressamento dei proprietari dei loro fondi. Quindi,
terreni incolti o in condizioni di arretrata coltura o paludosi
o deficienti di viabilità, e per conseguenza improduttivi,
restavano abbandonati all’iniziativa o meglio alla mancanza
di iniziativa dei proprietari. Questa condizione in gran
parte del territorio nazionale era intollerabile, ed esiziale
alla privata, nonché alla pubblica economia. Lo Stato è
intervenuto, imponendo il bonificamento obbligatorio di
intere regioni (cosi dell’Agro romano) o le trasformazioni
fondiarie di pubblico interesse (R. D. 18 maggio 1924 n.
753 ed altre leggi successive fino a quelle recenti sulla
bonifica integrale). In forza di queste disposizioni le varie
parti del territorio da bonificare sono state classificate in
comprensori ed i vari proprietari costituiti in consorzi
forzosi per trasformazione e bonifica delle terre da loro
possedute. Il sistema del consorzio è un’arma
amministrativa, di cui oggi lo Stato si serve, per attuare fini
di interesse generale. I proprietari inerti o nolenti sono
riuniti forzatamente in un fascio, nel cui nome ed interesse
si costituisce un’amministrazione che esegue i lavori di
trasformazione e bonifica, e ne impone la spesa ai
proprietari consorziati, sotto forma di contributi, che
gravano come le imposte. La proprietà diventa suo
malgrado attiva e si trasforma e si migliora nell’interesse
generale. D’altra parte, l’azione degli agricoltori è eccitata,
incoraggiata e coattivamente assoggettata a certe direttive,
che sono imposte dai Governo nel pubblico interesse. Così,
certi obblighi in ordine alla cerealicoltura, specialmente,
coltivazione di frumento, per vincere la battaglia del grano,
obbligatorietà di costruzioni di concimaie e di altre opere di
interesse agricolo. Ma, una più potente propulsione viene
attivata per forze interne con l’inquadramento corporativo.
Oggi i proprietari non rimangono più isolati e indipendenti,
ma sono organizzati in categorie pubblicistiche. Così la
Confederazione Fascista degli Agricoltori comprende le
federazioni dei proprietari affittuari conduttori, dei
proprietari coltivatori diretti, quelli di beni affittati dei
174
dirigenti di aziende agricole, a cui si contrappone la
Confederazione Fascista dei lavoratori dell’agricoltura. Ora,
nel seno di queste organizzazioni sindacali si elaborano e
s’impongono norme d’azione per i singoli appartenenti, per
cui la condotta del proprietario è guidata, diretta,
potenziata, dagli organi sindacali, e ciò nell’interesse
generale. Dato questo ambiente spirituale, è impossibile
più concepire la proprietà, come un dominio solitario e
sovrano, ma la proprietà non è che un elemento economico
in funzione del lavoro, ed un elemento economico che deve
cooperare nello svolgimento dell’attività generale. La
proprietà non è solo un diritto, ma un dovere, non è solo il
mezzo per il proprietario per procurarsi delle utilità a suo
vantaggio, ma è uno strumento di cooperazione sociale,
perché serve a realizzare interessi che riguardano l’intera
società. Il proprietario è investito di un mezzo economico,
che egli deve saper adoperare, anzi che è obbligato ad usare
nell’interesse pubblico. La proprietà è diventate un dovere
sociale, una funzione sociale. Ecco qual è il nuovo
orientamento della proprietà. Nella Carta del Lavoro al n.
VII troviamo il principio fondamentale: «Lo Stato
corporativo considera la iniziativa privata nel campo della
produzione, come lo strumento più efficace e più utile,
nell’interesse della Nazione». Ora, se sostituiamo alle parole
«iniziativa privata» quelle di proprietà privata, abbiamo la
formulazione classica del concetto nuovo di proprietà in
regime fascista. «Lo Stato considera la proprietà privata nel
campo della produzione come lo strumento più efficace e
più utile nell’interesse della Nazione». E perciò
l’organizzazione privata della produzione, e una funzione di
interesse sociale. Data questa premessa, si applica pure il
principio programmatico dell’art. IX della Carta del Lavoro:
«L’intervento dello Stato nel regime della proprietà ha
luogo, quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata
o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale
intervento può assumere la forma del controllo,
dell’incoraggiamento e della gestione diretta».
Ecco il programma della proprietà futura.
Il proprietario deve sentire non solo il diritto, ma anche il
dovere di proprietario, rendendo la sua proprietà utile
all’interesse sociale. Finché la sua iniziativa corrisponde
agli interessi generali, e si svolge in armonia di essi, la
proprietà è tutelata e sarà tutelata dallo Stato, ma se il
175
proprietario dimentica questo dovere, o per inerzia o per
incomprensione delle esigenze pubbliche, interviene lo
Stato, come rappresentante degli interessi politici,
controllando l’azione del proprietario, e dove questa
rimanga inerte od esiziale, spogliando il proprietario della
gestione della cosa sua, come di uno strumento che egli
non ha saputo adoperare, ma che deve però essere servibile
incondizionatamente agli interessi della Nazione. Certo la
proprietà è un diritto degno del massimo rispetto, e che
deve costituire il saldo fondamento d’ogni ben costituita
società, perché la proprietà rappresenta il frutto del lavoro
accumulato, se non dell’attuale investito, di coloro da cui
egli l’ha ricevuta, ma il rispetto di questo bene non deve far
dimenticare che la proprietà non è semplicemente un
valore morto suscettibile di solo godimento, da parte di chi
l’ha, ma una fonte sempre viva e perenne d’ulteriore
produzione, e perciò deve perpetuare questa sua
destinazione nell’interesse di tutti.
7) G. Chiarelli, Il fondamento pubblicistico
della proprietà, in La concezione fascista
della proprietà privata, Roma 1939, pp.145159;
I. Premesse. - II. I limiti di diritto pubblico della proprietà. – III.
Proprietà e libertà; proprietà e sovranità. IV. Proprietà e
ordinamento giuridico. - V. Proprietà e Stato. - VI. La proprietà
nello Stato Corporativo.
I. – Il fondamento pubblicistico dell’istituto della proprietà
è testimoniato, da un punto di vista puramente formale,
dalla presenza, nelle principali costituzioni moderne, di
qualche articolo ad essa dedicato. È noto che i caratteri
fondamentali della disciplina della proprietà nello Stato
costituzionale liberale furono fissati nell’art. 17 dalla
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’89 e
nelle Dichiarazioni successive, dalle quali derivò l’art. 29
del nostro Statuto 75. Sarebbe certo semplicistico affermare
che l’ubicazione di una norma fondamentale sulla
proprietà
nelle
carte
costituzionali
sia
dovuta
75 Il rapporto tra il diritto di proprietà e la Costituzione era
esplicitamente dichiarato nella Costituzione di Weimar, art. 154: «Das
Eigentum wird von der Verfassung waehrleistet».
176
esclusivamente alla importanza del diritto di proprietà nei
confronti degli altri diritti individuali. Le ragioni invece per
le quali la disciplina della proprietà è rilevante dal punto di
vista costituzionale sono essenzialmente di ordine
pubblicistico e si riassumono, da una parte, nel fatto che il
diritto di proprietà, oltre a consistere in diritti soggettivi di
natura patrimoniale, dà anche luogo a diritti soggettivi
pubblici; dall’altra, nel fatto che il regime giuridico della
proprietà è connesso allo stesso ordinamento dello Stato
considerato nei suoi principii generali e nella sua
organizzazione.
[…]
Ma questi particolari profili sotto cui appare la tutela della
proprietà nel campo del diritto pubblico non sono che un
aspetto derivato della disciplina giuridica di essa. L’aspetto
invece in cui immediatamente si manifesta la sua rilevanza
pubblicistica sta nel collegamento, che per lo meno in
epoca storica si ha costantemente, tra il regime della
proprietà e l’ordinamento dello Stato.
Si può infatti affermare che in corrispondenza del concetto
in un dato tempo dominante della proprietà, della funzione
sociale a cui essa adempie e della forma che
giuridicamente assume, si ha un particolare atteggiamento
della Sovranità dello Stato nel suo vario esplicarsi, mentre
la stessa organizzazione di questo — l’organizzazione, cioè,
delle persone fisiche preposte all’esercizio dei suoi poteri —
risente, nella sua struttura fondamentale, di quella
disciplina. Sarebbe facile dare una documentazione storica
di questa constatazione; basta però che ciascuno rifletta su
la realtà con-temporanea, e su gli eventi che l’hanno
determinata, per riconoscere il collegamento che esiste fra
le trasformazioni politiche avvenute in questa prima parte
del secolo e le modifiche nei regime della proprietà
(rivoluzione russa e proprietà collettiva, rivoluzione fascista
e economia corporativa, ecc.).
[…]
II. – Nella dommatica comune, il rapporto tra proprietà e
sovranità vien preso m considerazione dal punto di vista
dei limiti di diritto pubblico della proprietà. Se non che
questa è solo un aspetto secondario del problema. Il punto
177
fondamentale, di solito trascurato» sta invece nel fatto che
la sovranità è la fonte della proprietà, in quanto è la fonte
dell’ordinamento giuridico positivo, e in quanto la proprietà
non è altro che un istituto giuridico, un diritto, anzi, un
rapporto giuridico. Comunemente si cade invece nell’errore
di considerare là proprietà come qualche cosa di
preesistente al diritto, allo stesso modo che, nella teoria del
diritto pubblico, si è per lungo tempo attribuita allo Stato
una realtà anteriore alla sua realtà giuridica, dando luogo
a illogiche e contraddittorie sovrapposizioni di punti di
vista differenti 76. L’errore di considerare la proprietà come
preesistente al diritto appare storicamente nella teoria del
diritto naturale, prima, (si sa che nel diritto romano non si
ha una definizione della proprietà, la quale è, in quel
diritto, quella che risulta dalle singole norme che si
riferiscono al dominio su la cosa o alla pertinenza della
medesima); nella moderna dommatica giuridica, poi.
Che nel Giusnaturalismo si ammettesse un diritto naturale
di proprietà, esistente indipendentemente dal positivo
riconoscimento, come si ammettevano altri diritti
inalienabili e imprescrittibili della personalità umana,
corrispondeva al sistema generale della dottrina. Di tale
sistema furono rilevate tutte le illogicità, come furono poste
in luce tutte le influenze su una storia politica secolare,
giacché, se da un punto di vista logico, i proclamati diritti
della personalità non erano che nullità concettuali, da un
punto di vista storico furono espressioni di condizioni
sociali in atto e furono efficaci motivi di azione 77.
76 È noto come sia stato il KELSEN a precisare la formazione puramente
giuridica dello Stato, depurandola da quegli elementi sociologici, che
però la maggior parte dei giuristi, quanto meno inconsciamente,
mantengono ancora nelle loro definizioni. Per una applicazione della
dottrina del Kelsen alla proprietà, con particolare riferimento alla
proprietà pubblica, cfr. Maunz, Hauptprobleme des oeffentlichen
Sachenrechts, Berlino. 1933.
77 Si può ricordare che come diritto naturale trovasi proclamato il
diritto di proprietà nelle famose Carte dei diritti delle Repubbliche
Americane, Sez. I del Bill of Rights della Virginia (1776): That all men…
have certain inherent rights…; namely, the enjoyment of life and
liberty, with means of acquiring and possessing property…;
Costituzione della Pensylvania (1776), I: «That all men… have certain
natural, inherent and unalienable rights, amongst which are,…
acquiring, possessing and protecting property »; Costituz. del
Massachussetts (1780), art. 1; Costituz. del New Hampshire (1784),
art. 2, ecc.
178
Si comprende meno invece come la dommatica moderna,
dopo aver ripudiato il diritto naturale, cada in una nuova
forma logica di giusnaturalismo, quando pretende dare, di
un istituto giuridico, un concetto generale che valga al di
fuori e al di sopra dei singoli ordinamenti positivi. E’
quanto avviene per la proprietà, giungendosi a una nozione
di essa non solo vuota, ma estranea alla logica giuridica. A
prescindere infatti dalla ovvia considerazione che è
impossibile dare un concetto di proprietà che sia valido per
tutti i tempi e per tutti i luoghi, la definizione della
proprietà cui non di meno la dommatica perviene è del
tutto negativa: negativa nella determinazione del contenuto
del diritto di proprietà, in quanto non si può dire tutto
quello che il proprietario può fare della cosa e su la cosa; e
negativa nella considerazione delle norme di legge che alla
proprietà si riferiscono, in quanto si considerano queste
norme come limitatrici, e quindi come negatrici della
proprietà, mentre sono proprio esse che, determinando la
sfera entro la quale il proprietario può agire, determinano e
definiscono il diritto stesso di proprietà. Si potrebbe infatti
affermare, in forma solo apparentemente paradossale, che
la definizione della proprietà è nei cosiddetti limiti legali di
essa. È invero la legge che pone il diritto di proprietà e ne
determina i limiti in un unico momento logico, in quanto
nessuna creazione di diritto può aversi che non sia
contemporaneamente posizione di limiti. Può dunque dirsi
che quelli che la dommatica considera come limiti legali
della proprietà non sono effettivamente qualche cosa di
estrinseco ad essa, ma sono la proprietà stessa, nella sua
configurazione giuridica.
[…]
8) L. Mossa, Trasformazione dogmatica e
positiva della proprietà privata, in La
concezione fascista della proprietà privata,
Roma 1939, pp.251-275;
[…]
La definizione del diritto soggettivo come «potere di volontà»
o «interesse protetto», appare dovuta a generazione
abituata a correre in borsa od ai proventi di fronte ai quali
179
gli obblighi o le responsabilità sono considerati poste
passive del bilancio 78 . Antitesi che fu dunque nel
capitalismo. Lo scopo del diritto soggettivo sembra una
garanzia contro lo stato. Il diritto soggettivo, per queste
nozioni, si allontana sempre più dai vincoli e legami sociali.
In realtà è l’allontanamento del diritto dalla morale,
soprattutto l’impressione nel diritto di una «morale
economica» che si inalbera. Come il diritto soggettivo si
mostra in antinomia con la vita sociale, così si mostra, per
questa tendenza, contrario allo spirito del popolo, che non
ha bisogno di affermare una proprietà, ma semplicemente
il suo dominio, ciò che non è se non uno scambio di parole,
non essendoci più geloso assertore del diritto che il popolo.
Un puro ordine giuridico di doveri, anche se ideale sublime
e cristiano, non può vivere. È, invece, il diritto che deve
intrecciarsi col dovere; ed in questo intreccio c’è in verità
un ritorno all’umanità ed allo stesso tempo un progresso
del diritto. I difetti delle definizioni del diritto soggettivo
sono nelle formulazioni astratte. La limitazione del «potere
del proprietario» non fu perciò bene avvertita da una
dottrina che studiava il diritto soggettivo come una figura
geometrica, invece nel pulsare della vita popolare.
L’impressione di limiti e
Di ordini sociali nel diritto di proprietà non elimina la
questione di sapere se l’interesse sociale deve dettare
limitazioni, non espresse in leggi od ordini positivi.
Si tratta di vedere se la nozione dogmatica della proprietà
si presta, in linea generale, a ricevere questa modificazione,
ovvero se è indispensabile congegnare, a seconda degli
istituti una «proprietà socialmente vincolata», separata cioè
dalla proprietà generale. Questione di metodo legislativo e
dogmatico che si è risolta, poi, con il trionfo della
trasformazione del dogma generale, per qualunque tipo di
proprietà, non solamente per la «proprietà contadina»
(Erbhof).
Una trasformazione del diritto soggettivo sul tipo di una
«situazione», «posizione sociale», «autorizzazione», non ha
trovato rispondenza neppure nella dogmatica del nuovo
regime. Le forti nozioni di «comunità di diritto» e di
«comunità popolare» non hanno bisogno, per trionfare, di
demolire il diritto soggettivo, per sostituirlo con nozioni
78
ECKARDT:
Deusche Rechtswissenschaft, collezione.
180
diverse nell’espressione, non diverse nella sostanza. Gli
attacchi contro l’astrattismo individualista del diritto
soggettivo non ne colpiscono il midollo, ma unicamente la
corteccia sociale del tempo nel quale esso fu venerato. Il
diritto soggettivo, per se stesso, si spiega e si lega ad un
tessuto nel quale si afferma effettivamente una morale
ed una solidarietà umana. Si propongono espressioni
nuove come «diritto di appartenenza alla società od al
popolo», che non segnano un punto in più per la marcia
dell’interesse nazionale del diritto privato. La nomenclatura
non ha significato ed appesantisce, invece che rendere
agevole, il movimento di trasformazione voluto. Non invano
si è ricordato che la grande dogmatica, considerando il
senso sociale del popolo, non ha mai affermato l’esistenza
di diritti, anche di diritti assoluti, senza esprimere
l’esistenza di obblighi in rapporto a quei diritti. La libertà si
armonizza, per essa, con le limitazioni e gli impulsi che
vengono dalla coscienza comune. Il carattere sociale del
moderno diritto privato, del resto, è stato più volte
affermato, già prima del nostro tempo, ed ha inciso nella
dommatica italiana 79 , non meno che in quella degli altri
popoli, idee fondamentali, che oggi salgono alle ardue vette
della realizzazione. Le affermazioni della dogmatica, per
quanto autorevoli e risonanti, non hanno avuto seguito
nelle generazioni giuridiche che ci hanno preceduto. La
nuova dogmatica ha da operare in attualità ed in
applicazione; i principi eccezionalmente affermati devono
diventare principi comuni e generali. Che nella storia
dogmatica questi principi abbiano precursori e motivi
prossimi o lontani 80 , è certo, ma questo non altera la
necessità di affermazioni le quali contribuiscono al
radicarsi di una dogmatica nella quale diritto e dovere si
uniscono strettamente, come sempre devono essere 81.
Si uniscono, perché la società e lo Stato abbiano una vita
consona ai fini immortali, perché la solidarietà nel popolo
si affermi di più, in ogni strato, da una categoria ad altra.
L’esempio della nuova dogmatica del diritto di proprietà lo
abbiamo in atto in quella dottrina tedesca che parlava di
diritti assoluti del proprietario, al tempo della repubblica di
Weimar, ed oggi in regime nazional-socialista, insegna nei
CIMBALl: Fase sociale del diritto civile.
HIS: Zeitschrift. f. Schweiz. Recht, 55.
81 CICU: Dovere e Diritto, discorso inaugurale,
79
80
Bologna.
181
suoi trattati e nei suoi compendi che il principio del dovere
è il fondamento dell’ordine giuridico della proprietà 82.
Si dichiara, per quanto non vi siano leggi espresse,
che
esistono delicati doveri verso la comunità, che i doveri sono
adempimento del compito affidato dalla società al titolare
della proprietà, che più importante è il bene che si ha in
potere, più importante è il dovere. I beni indifferenti alla
comunità non sono soggetti a questi doveri. Sono i beni
utili, preziosi, e rari, indispensabili alla comunità, nel più
largo senso della espressione, che vincolano il proprietario
al loro esercizio. I beni devono conservarsi per il popolo
(arte) o impiegarsi nella maniera più utile (campo, fabbrica,
miniera). Si afferma, però, che gli obblighi non danno vita
che a pretese od azioni della generalità e si negano pretese
ed azioni del singolo.
Ma la comunità come può esercitare le sue azioni, se non
per il tramite dello Stato, in un paese nel quale non è
organizzata in corporazioni? Ma a quali organi si affida il
riconoscimento dei diritti della comunità, non solo, ma
altresì l’adempimento delle sanzioni? La dogmatica ha fatto
grandi passi nella curva ideale disegnata, ma forma ancora
una premessa di sentimenti e di giudizi che deve venire
alla costruzione dell’ordine giuridico auspicato.
Al lume della nuova dogmatica si consideri il Progetto del
Codice Civile, secondo libro. Esso premette (R., I) di
ispirarsi alla dottrina fascista, riassunta nelle dichiarazioni
della Carta del Lavoro, per cui l’iniziativa privata è lo
strumento efficace dell’interesse della nazione, il lavoro
dovere sociale. Il concetto della funzione sociale, insinuato
nella definizione, appare al Progetto quale accentuato
ardimento. In realtà, il Progetto ha inciso nella nozione
della proprietà le limitazioni che vengono dall’esterno, ed
ha consacrato, in più di una disposizione, principi ed
evoluzioni della proprietà che ricadono su di essa per la
collisione dei diritti e dell’interesse sociale. È altrettanto
certo, però, che il dogma della proprietà privata non è
quello ispirato dalle idee sociali del Regime Fascista e dalla
Carta del Lavoro. Prima di tutto, la funzione sociale della
proprietà appare una pura dichiarazione programmatica,
per la quale si ripeterebbe domani quella ridda di
interpretazioni stupefacenti e paralizzanti che ha
82
LANGE:
Bodén, 1938.
182
accompagnato per un decennio la Carta del Lavoro, la
quale pure, col principio della responsabilità
dell’imprenditore di fronte allo Stato, e del «dovere sociale»
aveva rivoluzionato il nostro mondo giuridico. A seguire il
Progetto, la clausola generale della «funzione sociale » che
ha i suoi addentellati nella costituzione di Weimar, non
avrebbe un forte autonomo valore. Essa costituirebbe un
principio regolatore che sarebbe, a sua volta, incarnato e
persino esaurito nel regolamento positivo della proprietà,
così come esso è posto nel Progetto. La clausola generale,
la moderazione dell’interesse generale non si avvererebbe,
in realtà, sul diritto di proprietà, generalmente ed
astrattamente considerato, in modo da imbevere
qualunque diritto di proprietà nel seno dell’ordine
giuridico. Essa formerebbe semplicemente un aspetto della
proprietà, così come è già effettivamente e positivamente
regolata. Da questo punto di vista, il diritto di proprietà
diverrebbe «socialmente freddo» alla ennesima potenza, ed
il progresso del diritto civile sarebbe assai povera cosa in
confronto ad altri diritti civili, che devono ad una
rivoluzione nazionale ed attuale la loro propulsione; è
invece il diritto civile francese che il Progetto considera più
da vicino di altri diritti in trasformazione.
La Relazione (p. 17) non dissimula, d’altra parte,
l’attaccamento alla formula del Codice attuale, figlio del
Code Civil, e intonato tutto alle sue concezioni
individualistiche e di profondo egoismo sociale, in assoluto
contrasto con lo spirito fascista. Il progetto, (A. 18), si
occupa essenzialmente di giustificare il «modo esclusivo» di
disporre della cosa, tendendo ancora un lato della
proprietà della passata dogmatica, che ha ceduto il passo,
si è visto, alle esigenze dettate dai nuovi ideali.
Invece che l’esclusività del diritto, la quale minaccia di
portare in onore le dizioni del diritto assoluto e sovrano,
quasi il diritto di proprietà fosse un diritto superiore e
schiacciante sugli altri, specialmente sugli altri diritti di
proprietà, con i quali vive in aggregato sociale, si deve
mettere in luce «la elasticità» del diritto di proprietà, alla
pari con ogni altro diritto che trova sorgente e alveo nella
convivenza sociale. L’ «interesse sociale» si attacca assai
malamente al «diritto esclusivo», perché sembra stridere in
contrasto con esso, ciò che non giova, sia pure, alla
esclusività del diritto, ma assai meno giova alla «funzione
183
sociale» della proprietà, la quale può meglio affermarsi
senza ribadire nella stessa definizione quella esclusività del
diritto che non forma più, ormai, l’arca santa del diritto di
proprietà.
La nozione puramente negativa e perciò rigidamente
conservativa del dogma liberale ed individualista della
proprietà, è apertissima nella Relazione al Progetto. Essa
non accenna neppure lontanamente ad un senso sociale
all’interno della proprietà, a doveri o responsabilità del
proprietario o titolare del diritto soggettivo in confronto allo
Stato ed alla Società. La concezione è ancora, per i
redattori del Progetto, quella di un diritto che deve
sottostare alle «limitazioni che derivano dalla convivenza
sociale».
Si mantiene in efficienza una definizione della proprietà,
così come è respinta dalla nuova dogmatica. L’interesse
sociale sta al di fuori della proprietà e non si presenta,
come nelle concezioni sorpassate, se non sotto la forma di
limitazioni positive, di estrinsecazioni attuali dell’ordine
giuridico, in concrete norme di diritto, od in atti del potere
dello Stato che, in ogni tempo, il proprietario qual cittadino
ha dovuto sopportare, in maniera più o meno profonda, al
prezzo o meno di un riscatto od espropriazione.
La Relazione (17-18) identifica, infatti, con la funzione
sociale, le restrizioni all’esercizio del diritto, da una parte,
le limitazioni imposte dalle leggi e regolamenti, dall’altra.
[…]
184
9) S. Panunzio, Prime osservazioni giuridiche
sul concetto di proprietà, in La concezione
fascista della proprietà privata, Roma 1939,
pp. 111-123;
[…]
III. - Si può dire però che già fin da ora sulla base dei dati
dell’esperienza in nostro possesso, nulla si possa
concludere sulla determinazione del concetto di proprietà
nel Regime fascista?
Innanzi tutto, ritengo che si dica poco o nulla quando ci si
limita a dire che la proprietà è una «funzione sociale».
Senza dire — l’osservazione se non mi sbaglio è del
Pareto 83 – che dire che la proprietà è una funzione sociale è
mettere in essere un’ antitesi logica. Se funzione è uguale
dovere, dire che il diritto di proprietà non è che il dovere di
proprietà, è denunciare una proposizione contraddittoria,
che merita per lo meno di essere chiarita. Già uno dei
nostri più grandi giuristi e romanisti, il Perozzi 84, seguito
dal Petrone 85 , trasformando con profonda intuizione ed
analisi del concetto del diritto reale, la dogmatica del diritto
di proprietà, diceva che questo non è un diritto nudo
del
suo titolare sulla cosa, ma è, anch’esso, un diritto di
credito erga omnes, non verso un determinato debitore,
verso tutti i membri del consorzio sociale, tutti egualmente
impediti dalla legge di impedire l’esercizio del diritto sulla
cosa di quel titolare. La natura «relazionale», ossia sociale,
non reale, fisica ed unilaterale o meglio irrelativa del diritto
di proprietà è qui ben evidente. Si può fare un passo
innanzi e dire che la proprietà invece che un credito è un
obbligo del suo titolare verso tutti. Ma, la verità è, come
nota il De Ruggiero 86 , che, sulla proprietà, e nelle fonti
romane, e nel Codice civile vigente, e nelle più autorevoli
Vedi V. Pareto, Trasformazione della Democrazia, Milano, Corbaccio,
1921.
84 Vedi S. Perozzi, Il possesso in diritto romano (Teoria sociale del
possesso), Parma, 1901 pag. 24 ss.
85 Vedi I. Petrone, II diritto nel mondo dello spirito, Milano, 1910, pag.
78 e ss.
86 Vedi il De Ruggiero, Istituzioni di diritto privato, ultima edizione e
riduzione a cura del Maroi, Messina - Milano, Editrice Principato,
1937, pag. 367 e ss.
83
185
definizioni scientifiche, più che definizioni in senso logico,
non abbiamo che «descrizioni» degli elementi più
caratteristici e salienti di essa. Ciò anche se prendiamo le
definizioni più rinomate, quali quelle del Filomusi 87 e dello
Scialoja 88. Di queste due, la prima fa perno sul concetto di
«potestà », ossia di «dominio» sulla cosa; la seconda, molto
più esattamente, sul concetto di «appartenenza» della cosa
al suo titolare.
Comunemente, si scambiano fra di loro, credendole
sinonimi, le parole «proprietà» (proprietas» e «dominio»
(dominium). Ma sono cose diverse. La proprietà non è che
l’appartenenza ossia l’assoggettamento pieno o totalitario
della cosa alla persona, e per cosa deve intendersi
qualunque oggetto assimilato, appunto per virtù, come
insegnò il Rosmini 89 , del principio, della categoria di
proprietà, o meglio del «giudizio di appropriazione», di
riferimento, di imputazione, o di appartenenza dell’oggetto
al soggetto, assimilato allo spirito, ossia al soggetto, non
solo le cose del mondo esterno o fisico, le cosidette cose
corporali, ma anche il proprio corpo, ma anche i propri
pensieri, ma anche le prestazioni altrui. Il dominio invece è
la potestà dell’uomo sulla cosa. Se essenziale e costitutivo
della proprietà è il concetto della cosa alla persona il primo
compito logico è quello di «sbloccare» il concetto descrittivo
della proprietà che mette insieme la facoltà di godimento e
di disposizione della cosa. L’appartenenza è il prius, il
costitutivum della proprietà; l’uso e la disposizione della
«La proprietà è la signoria generale ed indipendente della persona
sulla cosa pel fini dal diritto (legge) riconosciuti, ed entro i limiti dal
diritto stabiliti», Diritti reali, pag. 131.
88 «Un rapporto di diritto privato, per il quale una cosa, come
pertinenza di una persona, è completamente soggetta alla volontà di
questa in tutto ciò che sia vietato dal diritto pubblico o dalla
concorrenza dell’altrui diritto», Teoria della proprietà nel diritto romano,
Roma, 1928, pag. 134.
89 Vedi sulla luminosa concezione della proprietà, sulla sua essenza o
come «schema» o come principio di «derivazione» dei diritti, tutti
riducibili e risolvibili nel diritto di proprietà, ANTONIO ROSMINI, Filosofia
del diritto. Vedi inoltre l’illustrazione del concetto del Rosmini in IGINO
PETRONE, Il diritto nel mondo dello spirito, cit. cap. IV, II principio di
determinazione del diritto e l’aspetto personale dell’autocoscienza. La
proprietà è il tramite, ossia lo «schema», in termini kantiani, per cui
l’oggetto è assimilato dal soggetto e si fa soggetto anch’esso. Sull’unità
tra il concetto di persona o di attività e quello di proprietà o di
patrimonio, in conformità alla concezione del Rosmini ed in parte a
quella dello Schopenhauer, vedi il mio Il diritto e l’autorità; e Il
Socialismo, la Filosofia del diritto e lo Stato, cit.
87
186
cosa rispetto ai quali l’appartenenza funziona come
presupposto non sono che il posterius, il consecutivum
della proprietà. Se la cosa non è mia, come posso usare e
disporre di essa?
Non credo poi che si debba differenziare ad oltranza il
concetto di uso e di godimento, da quello di disposizione.
L’uso è una disposizione indebolita; come la disposizione è
un uso rafforzato. La disposizione della cosa può andare,
portando le cose agli estremi fino alla «distruzione» della
cosa stessa, e fino al «non uso» della cosa senza utile
proprio, ma solo con il danno altrui, secondo il concetto
degli atti emulativi, che il nuovo progetto al Codice vieta e
reprime. Ma, trattandosi per esempio di beni di consumo,
l’inchiostro di cui mi servo per scrivere, un pezzo di pane
per sfamarmi, l’uso di questi due beni non è anche
disposizione di essi?
Non si deve ritenere pertanto che si dica tutto quando si
afferma che nel nuovo sistema della proprietà rimane il
diritto di godimento, sempre secondo un fine sociale e
secondo le leggi e i regolamenti, e deve cadere invece il
diritto di disposizione. In modo assoluto, ciò non è e non
può essere. Il diritto di disposizione, conseguente dalla
proprietà, ma non costitutivo della proprietà, e per esempio
massimamente rilevante nel testamento, ed è noto, che per
certi gruppi di beni, il diritto di disporre per testamento è
ammesso anche nei codici comunistici, sia in quelli teorici
ed utopistici, sia in quelli reali, come per esempio in quello
sovietico. Presupposto invece del godimento e della
disposizione è la proprietà, cioè l’ appartenenza della cosa
al soggetto. Se l’inchiostro non è mio, non appartiene a me,
io non posso ne usarne ne disporne. Perché io usi o
disponga di un determinato bene, prima di tutto debbo
avere questo bene, esso mi deve appartenere. Quando io ho
il bene, posso usarne, non usarne e disporne. Ma se io non
l’ho, io non posso fare nulla, salvo che in modo limitato e
parziale, non pieno e totalitario, io non mi serva della cosa
altrui. Il dominio è una conseguenza possibile della
proprietà, ma non è la proprietà. Prima si è proprietari 90,
Volgarmente per proprietà s’intende solo quella immobiliare anzi
quella fondiaria, e per proprietari, in certi paesi specie nel Mezzogiorno
d’Italia, s’intendono solo i proprietari di campagna, nemmeno quelli di
case e fondi urbani. Anzi, negli stessi paesi, quando si dice senz’altro «i
proprietari» non ci si riferisce che ai proprietari di fondi rustici,
90
187
poi domini. Ed e logica ancora la «trasmissibilità», nei limiti
della legge, dell’ appartenenza della cosa, ossia della
proprietà. Premesso questo sbloccamento del concetto
descrittivo della proprietà, e la riduzione logica di questa al
concetto di appartenenza, secondo l’idea dello Scialoja fatta
propria dal De Ruggiero, è possibile capire molti
atteggiamenti pratici ed istituzionali della proprietà, e delle
svariate sue speci, non dimenticando e non trascurando
soprattutto la distinzione dei beni in: a) beni di consumo; b)
beni di uso; e) beni di lavoro; d) beni di produzione. Non
cade dubbio sulla appartenibilità dei beni di consumo di
uso e di lavoro con le conseguenze, secondo la legge, del
godimento e della disponibilità. Qui il concetto di funzione
sociale non agisce, anche nel sistema fascista, come un
concetto nuovo. Il problema sorge invece per i beni di
produzione, la cui appartenibilità ai soggetti privati può
dipendere, nel Regime fascista, secondo gli atteggiamenti
pratici che si vanno sempre più delineando, dal giudizio
politico sovrano dello Stato e dalla forza della legge. Basti
pensare che la legge fascistissima della Bonifica integrale
arriva fino alla «revoca» della proprietà ai proprietari
neghittosi ed inattivi, non in regola con la Dichiarazione VII
della Carta del Lavoro. Non sembra assurdo ed improbabile
allora che per alcuni beni di Produzione la figura del
proprietario si trasformi in quella di un «concessionario»,
anche se – caratteristico in agricoltura il ritorno aggiornato
all’enfiteusi e ai lunghi affitti – le concessioni sono
suscettibili di trasmissione ereditaria per la continuità e la
progressività
della
produzione
nazionale.
Ed
il
concessionario altro non riproduce che la figura, ben nota
al Diritto amministrativo dell’esercente privato di un
pubblico servizio e di una pubblica funzione. Dal che segue
ad ogni modo, che la trasformazione non cade
sull’elemento estrinseco dello scopo o della funzione
sociale,
ma
proprio
sull’elemento
intrinseco
dell’appartenenza, e che la rivoluzione giuridica in questa
escludendo anche i proprietari di case, di capitali, di titoli, di rendite
ecc. Filosoficamente, le cose, come si dice nel testo, stanno in modo del
tutto diverso. Ogni uomo è proprietario almeno…. del proprio corpo e
di tutto ciò che produce col suo lavoro. Non bisogna però confondere
l’elemento intrinseco e costitutivo della proprietà, l’appartenenza, né
con quello dello scopo, né con quello della giustificazione della
proprietà stessa, che è data, specie nel Regime fascista, dal lavoro.
Sono problemi diversi.
188
materia non possa consistere soltanto nel divieto da parte
della legge del non uso e dell’uso immorale e vessatorio
della cosa.
10) F. Vassalli, Per una definizione legislativa
del diritto di proprietà, in La concezione
fascista della proprietà privata, Roma 1939,
pp. 99-108;
I. Premessa delta definizione – II. La determinazione dei beni
suscettivi di appropriazione individuale – III. La disciplina legate
della appropriazione individuale – IV. Diversi statuti della
proprietà – V. Regimi dei beni ai quali si riconnette più
direttamente e immediatamente l’interesse pubblico. Beni
immobili – VI. Beni destinati a servizi di pubblica utilità o ad
industrie di più generale interesse – VII. Beni d’uso
prevalentemente individuale. Artt. 499 e 500 e. p. Politica dei
consumi – VIII. Elementi per una definizione legislativa della
proprietà – IX. La risoluzione del Comitato di giuristi italotedesco, in materia.
1. – La nuova codificazione del diritto civile ch’è in preparazione in Italia rende necessario di rivedere la
definizione legale del diritto di proprietà, per adeguarla allo
stato presente della legislazione e agli orientamenti politici
e dottrinali de-terminatisi in materia.
Trattasi di tradurre in una formula legale il risultato di
procedimenti di politica economica e di concezioni etiche,
che non sembrano poter essenzialmente divergere in un
medesimo ciclo storico com’è confermato dalla generalità
del moto con cui si è andato trasformando il diritto di
proprietà nei paesi che hanno questo diritto alla base dei
loro ordinamenti giuridici.
Una definizione legale del diritto di proprietà, mentre
dovrebbe rispecchiare le trasformazioni avvenute rispetto
alle concezioni e agli ordinamenti che hanno ispirato la
definizione dei vecchi codici, dovrebbe costituire il solido
fondamento del diritto che, conservandosi sotto il nome di
proprietà, ne assicurerebbe la funzione necessaria, la quale
si ricollega non solo ai fondamenti della economia pubblica
e del diritto delle obbligazioni, ma anche al fondamento e
allo sviluppo dell’istituto famigliare e al connesso istituto
della eredità.
189
Per potere formulare una definizione legale del diritto di
proprietà (senza voler pregiudicare la questione circa l’opportunità stessa di comprendere tale definizione nei codice)
devono porsi le seguenti premesse:
L’ordinamento giuridico della proprietà risulta di due
momenti: a) la determinazione degli oggetti suscettivi di
appropriazione individuale,
b) la determinazione della disciplina legale di codesta
appropriazione individuale.
II. – Per quanto concerne il punto a), la relativa determinazione non è da comprendere necessariamente in un
codice di diritto privato. 1 vecchi codici, in generale,
indicavano una serie di beni di spettanza esclusiva dello
Stato o di altri enti pubblici, sottratti alla disciplina del
diritto privato (beni di demanio pubblico, beni di uso
pubblico). Il catalogo dei beni di spettanza esclusiva dello
Stato si è accresciuto con leggi più recenti (acque
pubbliche, miniere, alcune foreste). Per i beni costituenti
mezzi di produzione resta, come regola, la proprietà
individuale; con una serie di limitazioni» tuttavia le quali
attengono al punto b).
III. – La disciplina legale della appropriazione individuale
dei beni (punto b) dà luogo a diversi istituti o rapporti
giuridici: proprietà, possesso, enfiteusi, superficie,
anticresi, usufrutto, servitù prediali, oltre ai rapporti
nascenti da talune concessioni amministrative. La
proprietà è la forma di appropriazione che comporta
maggior numero di facoltà, poteri più intensi, protezione
più piena. Donde sorge, anzitutto, la esigenza tecnicogiuridica di descrivere un tale diritto con caratteri che
valgano a differenziarlo da altre forme di appropriazione
individuale dei beni. Da avvertire, in proposito, che,
essendo modificati od obliterati alcuni dei caratteri
tradizionali del diritto di proprietà, avviene che la nozione
di proprietà si estenda con minor difficoltà a rapporti di
diversa struttura, quali il diritto d’autore e il diritto di
privativa industriale.
IV. – I poteri attribuiti al proprietario, e in generale la
disciplina giuridica della proprietà, sono diversi a seconda
dei beni che formano oggetto del diritto. Sembra
190
corrispondente allo stato attuale delle leggi, le quali hanno
disciplinato in vario modo i poteri del proprietario,
riconoscere che non vi è una sola proprietà, che vi sono
piuttosto delle proprietà, in quanto l’interesse pubblico è
che l’appropriazione dei beni comporti statuti diversi in
armonia con gli scopi perseguiti, i quali variano assai
(Josserand, Schlegelberger). Diversi statuti della proprietà
si hanno, difatti, in corrispondenza dei diversi beni
(rispettivamente, della diversa destinazione di una a
medesima cosa).
V. – Stando sempre alla contemplazione del diritto
costituito o delle tendenze legislative più sicuramente
riconoscibili, sembra che dal punto di vista della disciplina
giuridica siano da distinguere, anzitutto, beni ai quali si
riconnette più direttamente e immediatamente l’interesse
pubblico e beni rispetto all’impiego dei quali l’interesse
pubblico è solo mediato e indiretto. È da osservare che
simile distinzione ha dominato sempre nel regime giuridico
dei beni, nei diversi tempi e nei diversi luoghi (Bonfante).
Nel codice civile la distinzione segue in base alla natura
immobiliare o mobiliare dei beni. Oggi questo criterio di
distinzione non è più decisivo.
Rimane che la proprietà della terra, sia la proprietà rustica
sia l’urbana, richiama gran somma di norme particolari,
per l’innegabile interesse pubblico che vi è riconnesso. Una
serie di provvedimenti per la produzione agraria (fra l’altro,
determinazione delle colture e anche del quantitativo di
date colture), per il patrimonio zootecnico, per gli strumenti
di lavoro agricolo, le leggi sulla bonifica sanitaria e le leggi
sulla bonifica integrale, le leggi sulla trasformazione
fondiaria, le leggi sulle foreste e sui bacini montani,
provvedimenti contingenti, ma sempre più coordinati per il
regime degli affitti, non sono che taluni cospicui esempi di
un regime giuridico della proprietà in cui sono variamente
modificati, corretti o eliminati i poteri del proprietario: e
più particolarmente il potere per cui la volontà del titolare è
decisiva per la cosa nella totalità delle sue relazioni
(Windscheid).
Parimenti la proprietà immobiliare è toccata per ciò che
riguarda l’ambito spaziale, a cui estendosi i poteri del
proprietario: la forza di attrazione che, col diritto di
accessione, era caratteristica della proprietà del suolo, è
191
ridotta da una serie di leggi le quali pongono come regola
una separata considerazione della superficie e del
sottosuolo (T.U. 30 dic. 1923 n. 3256 sulle bonifiche, art.
8; d.l. 30 dic. 1923 n. 3267 sui boschi e terreni montani,
art. 113 cpv. 2 e 3; reg. 30 genn. 1913, n. 363 sulle
antichità e belle arti, art. 85; legge mineraria 29 luglio
1927, n. 1443; progetto di legge sulle espropriazioni, art.
115).
È toccata altresì dalle norme che limitano la libertà di
procedere alla divisione dei fondi (d.l. 7 genn. 1917 n. 35 e
d.l. 24 genn. 1918, n. 284 sui combustibili fossili; d.l. 30
nov. 1919, n. 2318 sulle case economiche e popolari; legge
16 giugno 1927 n. 1766 sugli usi civici, art. 21, ult. cpv.).
E orientamenti giurisprudenziali recenti allargano i 1imiti
della liceità della immissio nei rapporti di vicinato,
ricorrendo al criterio della necessità e della solidarietà
sociale e negando il risarcimento quando la immissione
derivi da necessità assoluta determinata da condizioni
imprescindibili di coesistenza sociale.
VI. – Ma limiti alla sfera dei poteri del proprietario intervengono oggi non meno energicamente per ciò che
riguarda altri beni. Così riguardo ai beni i quali sono
destinati ad attuare servizi di pubblica utilità (trasporti,
banche, trasmissioni tele-foniche, illuminazioni) ovvero ad
industrie che si presenta nodi più generale interesse a una
dato
momento
(tessili,
manifatturiere,
editoriali,
siderurgiche, meccaniche, alimentari, chimiche, agricole,
edilizie). In generale codesti servizi e codeste industrie sono
in mano di concentrazioni capitalistiche. E qui fenomeno
ha un duplice aspetto: da un lato, per affetto della
polverizzazione stessa del capitale azionario e della odierna
organizzazione delle concentrazioni capitalistiche, si
verifica la perdita, nei sottoscrittori del capitale, dei poteri
di governo del medesimo (e questo è un aspetto generale
del1’ anonimato, non limitato alle società commerciali
esercenti le industrie ora menzionate, e che presenta anche
intima rispondenza con quanto avviene pei capitali investiti
in fondi pubblici); d’altro lato, si verifica, nell’uso e nella
disposizione dei beni da parte delle società proprietarie, un
intervento statuale sotto forma di provvidenze legislative e
di ingerenze amministrative (le direttive generali nei punti
VII e XI della Carta del lavoro; una significativa e larga
192
applicazione nella legge12 gennaio 1933, n. 141,
importante delega al governo dei poteri per sottoporre ad
autorizzazione i nuovi impianti industriali; rr. Decreti 15
maggio 1933, n. 141 e 12 aprile 1937, n. 841).
Così riguardo a beni che realizzano esigenze culturali e di
prestigio del Paese: quali gli oggetti di antichità e belle arti
e in genere d’interesse storico (legge 20 giugno 1909 n.
364,1. 23 giugno 1912, n. 698,1. 11 giugno 1922 n. 778,
artt. 733 e 734 codice penale: dove si hanno limitazioni o
addirittura soppressioni tanto della facoltà di usare quanto
della facoltà di disporre delle cose proprie).
L’intervento dei pubblici poteri nella determinazione dei
prezzi (esempi nei ripetuti provvedimenti relativi agli affitti
di case d’abitazione e di negozi; nel r.d.l. 5 ottobre 1936 n.
1746 contenente disposizioni intese a combattere
perturbamenti del mercato nazionale e ingiustificati
inasprimenti del costo della vita) importa tutto un altro
ordine di limiti alla proprietà di determinate cose («merci di
qualsiasi natura», art. I del decreto ultimamente citato,
forniture di acqua, energia elettrica, gas, servizi pubblici di
trasporto di persone e cose, art. 4 stesso decreto, prezzi di
alberghi, pensioni e locande, art. 5, stesso decreto).
E così il potere di non fare trova limiti nella necessità di
non lasciare terre incolte, la quale si è fatta valere nei provvedimenti contro proprietari neghittosi, adottati più di una
volta dai prefetti in applicazione della generale podestà
prevista dall’art. 19 cpv. 4° della legge comunale e
provinciale, t. u. 13 marzo 1934, n. 383. La stessa
espropriazione per pubblica utilità non si pone più come
istituto eccezionale, contrastante con la inviolabilità del
diritto di proprietà, ma riceve applicazioni sempre più
larghe così rispetto agli immobili, come rispetto a beni
mobili.
VII. – Il diritto dominicale nella sua antica ampiezza e
pienezza non può ritrovarsi dunque che rispetto a beni
d’uso prevalentemente individuale, il cui novero peraltro si
restringe sempre più per la crescente considerazione dei
fini pubblici che alla conservazione o al buon uso dei beni
stessi possono riconnettersi. Significative in questo senso
sono le disposizioni degli artt. 499 e 500 cod. penale.
Devono anche essere ricordate, a questo punto, la
tendenza politica che cerca di dirigere i consumi verso
193
determinati prodotti e l’altra, ancora, che si traduce nelle
norme e nelle provvidenze contro lo spreco e per la
utilizzazione dei rifiuti (ENIOS).
VIII. – Una definizione legislativa della proprietà non può
che menzionare il potere generale e indipendente della
persona sulle cose nei limiti stabiliti dalle leggi. Codesto
potere dovrà distinguersi dai poteri particolari e dipendenti
di altri soggetti sulla cosa medesima 91 , e sarà nel suo
contenuto, nella sua durata, nella sua difesa diverso
secondo le diverse cose, in conformità delle leggi che
concernono le cose stesse.
Superflua la menzione, nella definizione, della «funzione
sociale» della proprietà. Una funzione sociale o, meglio,
l’attuazione di un pubblico interesse, è propria di ogni
potere riconosciuto dal diritto obiettivo; e quindi,
sicuramente, del diritto di proprietà. Ma soltanto la legge
può determinare in concreto l’attuazione della cosiddetta
funzione sociale: il che fa appunto con la disciplina positiva
di ciascun rapporto. Aggiungere alla disciplina legale
l’invocazione della «funzione sociale» sarebbe forse togliere
sicurezza e stabilità ad un rapporto giuridico d’importanza
fondamentale.
IX. – La commissione dei giuristi italiani e tedeschi, nella
sua prima riunione dì Roma (23 giugno 1938), adottava –
com’è noto – sul tema che forma oggetto delle presenti
osservazioni una risoluzione in questi termini: «Il
proprietario può usare pienamente della cosa e disporne
91 Il «diritto di godere e di disporre della cosa in modo esclusivo»,
assunto nella definizione dei progetto della Commissione Reale, non
sembra criterio rispondente per più d’una ragione: a) le facoltà di
potere e di disporre, com’è vecchia osservazione, non costituiscono
determinazione necessaria e sufficiente; b) l’esclusività, in un certo
senso, si trova in tutti i diritti reali e, riferita alla facoltà di godimento,
è anche dell’usufrutto e dell’enfiteusi; c) la facoltà di godimento
esclusivo, in altro senso, manca nel proprietario, quando sulla cosa
siano costituiti altri diritti reali, e manca nella comproprietà, la quale
tuttavia, nel progetto, art. 312, è compresa nella nozione di proprietà.
Altri preferisce una forma del tutto negativa, che rilevi il diritto di
escludere ogni ingerenza d’altri sulla cosa, salvi i limiti derivanti da
diritti altrui: è uno dei due criteri adottati dal § 903 del c. civ.
germanico.
Ma, forse, è meglio far emergere la nozione della disciplina positiva
della proprietà, distinta secondo i diversi oggetti, e dal confronto con la
definizione dei singoli diritti reali limitati.
194
sotto la sua responsabilità, in armonia con gli interessi della
comunità, quali risultano dall’ordinamento nazionale
dell’economia e del lavoro».
Opportunamente dal piano di una definizione della
proprietà ci si è portati su quello di una determinazione dei
poteri del proprietario e dell’esercizio dei medesimi.
La pienezza del potere è un criterio tecnicamente non
improprio per discriminare la proprietà dagli altri diritti
reali. Il richiamo alla responsabilità del proprietario
nell’uso dei suoi poteri rende vivacemente un’esigenza etica
e politica (cfr. punto VII Carta del lavoro), mentre, sul
terreno più strettamente giuridico, può valere a stabilire
l’indipendenza della signoria.
L’interesse pubblico, che costituisce il limite esteriore del
di-ritto e, insieme, la sua intima giustificazione, è espresso
in termini concreti e definiti col richiamo dell’ordinamento
giuridico positivo: in cui assumono particolare rilievo
presso di noi i principii dell’ordinamento corporativo.
11) Costituzione tedesca (1949), artt. 14 e 15, in Codice
delle Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp. 129;
Art. 14
La proprietà e il diritto di successione sono garantiti. Le
leggi ne determinano i contenuti e i limiti.
La proprietà impone obblighi. Il suo utilizzo deve servire
anche al bene della collettività.
L’espropriazione è ammessa solo per il bene della
collettività. Essa può avvenire solo per legge o in base a
una legge che disciplini le modalità e l’entità
dell’indennizzo. L’indennizzo deve essere determinato in
base ad un equo bilanciamento fra gli interessi della
collettività e quelli delle parti. Per le controversie relative
all’entità dell’indennizzo è ammesso il ricorso di fronte ai
tribunali ordinari.
Art. 15
Fondi e suoli, risorse naturali e mezzi di produzione
possono, a scopo di socializzazione, essere trasferiti in
proprietà collettiva o essere sottoposti ad altre forme di
economia collettiva, mediante una legge che stabilisca
195
l’entità e le modalità dell’indennizzo. Per l’indennizzo si
applica per analogia quanto disposto dall’art. 14, co. 3,
periodi terzo e quarto.
12) Preambolo Cost. francese 1946
1. All’indomani della vittoria riportata dai popoli liberi sui regimi
che hanno tentato di asservire e degradare la persona umana, il
popolo francese proclama ancora una volta che tutti gli esseri
umani, senza distinzione di razza, di religione e di credo,
possiedono dei diritti inalienabili e sacri. Esso riafferma
solennemente i diritti e le libertà dell’uomo e del cittadino
consacrati nella Dichiarazione dei diritti del 1789 ed i principi
fondamentali riconosciuti dalle leggi della Repubblica.
2. Proclama, inoltre, particolarmente necessari nell’epoca attuale
i seguenti principi politici, economici e sociali:
3. La legge garantisce alla donna, in tutti i campi, diritti uguali a
quelli dell’uomo.
4. Qualsiasi persona perseguitata a causa della sua azione a
favore della libertà ha diritto d’asilo sui territori della
Repubblica.
5. Tutti hanno il dovere di lavorare ed il diritto di ottenere un
lavoro. Nessuno può essere danneggiato, nel suo lavoro o nel
suo impiego, a causa delle proprie origini, opinioni o credenze.
6. Qualsiasi persona può difendere i propri diritti ed i propri
interessi tramite l’azione sindacale ed aderire ad un sindacato di
sua scelta.
7. Il diritto di sciopero si esercita nel quadro delle leggi che lo
regolano.
8. Tutti i lavoratori partecipano, tramite i loro delegati, alla
determinazione collettiva delle condizioni di lavoro ed alla
gestione delle aziende.
9. Qualunque bene, qualunque impresa, la cui utilizzazione ha o
acquisisce i caratteri di un servizio pubblico nazionale o di un
monopolio di fatto, deve diventare proprietà della collettività.
10. La Nazione assicura all’individuo ed alla famiglia le
condizioni necessarie per il loro sviluppo.
196
11. Essa garantisce a tutti ed in particolare ai bambini, alle
madri ed agli anziani lavoratori, la tutela della salute, la
sicurezza materiale, il riposo ed il tempo libero. Tutti gli esseri
umani che a causa dell’età, dello stato fisico o mentale, della
situazione economica si trovino nell’incapacità di lavorare,
hanno il diritto di ottenere dalla collettività adeguati mezzi di
sussistenza.
12. La Nazione proclama la solidarietà e l’uguaglianza di tutti i
Francesi innanzi agli oneri che derivano dalle calamità nazionali.
13. La Nazione garantisce al bambino e all’adulto all’istruzione,
alla formazione professionale ed alla cultura. L’organizzazione
dell’istruzione pubblica, gratuita e laica in tutti i gradi, è un
dovere dello Stato.
14. La Repubblica Francese, fedele alle proprie tradizioni, si
conforma alle regole del diritto pubblico internazionale. Essa
non intraprenderà in nessuna guerra per scopi di conquista e
non utilizzerà mai le sue forze contro la libertà di nessun altro
popolo.
15. Con riserva di reciprocità, la Francia acconsente alle
limitazioni di sovranità necessarie all’organizzazione ed alla
difesa della pace.
16. La Francia forma con i popoli d’oltremare un’Unione fondata
sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri, senza distinzione di razza
e di religione.
17. L’Unione francese è composta da nazioni e da popoli che
accomunano o coordinano le proprie risorse ed i propri sforzi per
lo sviluppo delle rispettive civiltà, per l’accrescimento del
benessere e per la propria sicurezza.
18. Fedele alla sua tradizionale missione, la Francia intende
condurre i popoli dei quali ha assunto la cura alla libertà di
autoamministrarsi e di gestire democraticamente le proprie
attività; scartando qualsiasi sistema di colonizzazione fondato
sull’arbitrio, garantisce a tutti uguale accesso alle funzioni
pubbliche e l’esercizio individuale o collettivo dei diritti e delle
libertà qui sopra proclamate o ribadite.
197
13) S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà
(con riguardo alla proprietà terriera), in Id., La
proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffré
1954, 145 ss.
PREMESSE
1. Accettiamo come direttiva metodologica, aderente alla
concezione storicistica del diritto, la dichiarazione del filosofo,
secondo la quale «il problema della proprietà in termini generali
ed astratti non esiste» 92 . Soprattutto come richiamo alla
concretezza 93, che giova in modo particolare ai giuristi, i quali
hanno la tendenza a concentrare l’interesse del loro studio sugli
schemi astratti, a volte addirittura sulle formule verbali. E
proprio in tema, si può ricordare il caratteristico fenomeno del
secolare affaccendarsi dei giuristi medievali (almeno dai
postglossatori, cominciando da Bartolo, fino alla seconda metà
del secolo XVIII) 94 attorno alla definizione della proprietà, con
assoluto distacco dalla realtà e dalla storia, che nel moto del suo
perenne fluire, per lente mutazioni o brusche fratture, aveva
portato l’umanità dalla servitù della gleba e dal feudalesimo alla
dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. E la proprietà,
naturalmente, aveva subito le medesime trasformazioni che il
corpo sociale aveva subito. Più di ogni altro istituto, infatti, essa
riflette nelle sue strutture e nelle sue articolazioni le strutture
sociali dell’ambiente e del momento storico che si vuole studiare.
Sicché, in ognitempo chi vuole intendere quali siano i termini di
quella che può dirsi la «questione della proprietà», deve
riportarla e ricollegarla alla situazione generale della realtà
contemporanea» 95; e se ha bisogno della prospettiva storica, deve
Nota 1: Capograssi, Agricoltura, diritto, proprietà, in Rivista di diritto
agrario, XXXI (1952), I, p. 271.
93 Nota 2: La dottrina ne ha avvertito l’esigenza : « è certo che oggi, di
fronte alla dogmatica astratta ed alle categorie sempre più generali,
assume, per naturale ripercussione e contrasto, un più diretto risalto
la visione del concreto, nella mutevole varietà della materia regolata»
(Grosso, Per i trentanni della rivista di diritto agrario, in Riv. di dir. agr.,
XXXI, I, p. 243).
94 Nota 3: Piccinelli, Studi e ricerche intorno alla definizione « dominium
est jus utendi et abutendi », Firenze, 1886; Bruci, Della poprietà, I, rist.,
Napoli-Torino, 1923, nn. 7 e ss., pp. 20 e ss.; Nicolini, La proprietà, il
Principe e l’espropriazione per pubblica utilità, Milano 1940, nn. 11 e ss.,
pp. 43 e ss. Non si vuoi dire, però, che il fenomeno non abbia una sua
giustificazionee un suo significato; e neppure che non sia derivata da
quella fatica secolarenessuna utilità. Si vuole soltanto sottolineare la
singolarità del fatto.
95 Nota 4: Capograssi, op. e loc. citt.
92
198
adattarsi a collocare e integrare la storia della proprietà nella
storia generale della società.
Il giurista, però, non può fare a meno di schemi e di astrazioni.
Ha bisogno di concetti, che gli consentano di ordinare i dati della
sua peculiare esperienza; e non può assolvere il suo compito,
traducendo l’additata esigenza di concretezza, in un canone
metodologico che ponga sugli altari un assoluto empirismo 96. La
scienza giuridica si trova nella necessità di operare con criteri di
quantità, e proprio qui è la radice della sua ambivalenza: la
quantità fa spesso le veci della qualità. E qui pure il limite, il
punto di equilibrio: il procedimento astrattivo, che tende alla
costruzione del concetto, non deve oltrepassare quel segno oltre
il quale il concetto perde ogni contatto colla realtà. Questa
presenta persino una zona irrazionale (o non razionalizzabile) 97,
in relazione alla quale si valorizza sul piano speculativo la
sensibilità del giurista, anche rispetto a quell’attività che si può
dire di natura teorica, la quale tuttavia non è separata
dall’attività pratica di formazione ed applicazione del diritto 98.
Tra i due poli dell’esigenza sistematica, legata al concetto, e
dell’esigenza di certezza, legata all’esperienza, la dottrina recente
oscilla: in relazione alla proprietà, anzi, si va mostrando più
sensibile a quest’ultima, e tende a valorizzare le innovazioni
particolari del diritto positivo, non trascurando la legislazione
speciale, anziché insistere nella riaffermazione di formule
tradizionali. La tendenza appare feconda e va seguita.
2. Si è cominciato col mettere in circolazione una formula
suggestiva, che conferisce un rilievo particolarmente accentuato
alla proprietà: «Sembra corrispondente allo stato attuale delle
leggi, le quali hanno disciplinato in vario modo i poteri del
proprietario, riconoscere che non vi è una sola proprietà, che vi
sono piuttosto delle proprietà» 99.
96 Nota 5: Si tenta già di trasferire una tendenza, che è facilmente
identificabile nel pensiero moderno, a partire da Hume, dal campo
filosofico a quello della scienza giuridica. E non ci si accorge della
situazione paradossale della negazione del concetto, sulla base del
ragionamento, che procede esso medesimo
per concetti. Già la
negazione del concetto, se fosse reale e non apparente, condotta alle
sue conseguenze estreme, non consentirebbe neppure il discorso
comune su un qualsiasi argomento.
97 Nota 6: Leoni, Il problema della scienza giuridica, Torino 1940, spec.
Pp. 17e ss., pp. 102 e ss., pp. 172 e ss.; Per una teoria dell’irrazionale
nel diritto, I, Torino s.a.
98 Nota 7: Da ultimo Pugliatti, La scienza giuridica come scienza
praticica, in Riv. ital. per le scienze giuridiche, 1950, nn. 8 e ss., pp. 59
e ss.; n. 21, pp. 81 e ss.; Ascarelli, Studi di diritto comparato etc.,
Milano 1952, Prefazione, nn. 10 e ss., pp. XIX e ss.
99 Nota 8: Vassalli, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà,
nel volume: La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939,
199
La formula così congegnata mantiene, tuttavia, l’equilibrio fra
l’unità del concetto 100 e la varietà di aspetti specifici che esso
assume.
Ma codesto equilibrio comincia ad essere scosso e rischia di
essere compromesso, dalla interpretazione autentica che di
quella formula ci viene offerta: «l’interesse pubblico è che
l’appropriazione dei beni comporti statuti diversi in armonia con
gli scopi perseguiti, i quali variano assai» 101. Se prima si poteva
pensare: le proprietà sono sempre (rami di quel tronco che si
dice) la proprietà; quando si parla di statuti diversi
dell’appropriazione dei beni, è lecito dubitare almeno della
possibilità che alcuni di tali statuti siano così differenti tra loro,
da rendere non solo illegittimo, ma addirittura inopportuno
qualsiasi accostamento, anche soltanto terminologico: specie se i
detti statuti possono variare assai, poiché la differenza può
raggiungere e superare il limite oltre il quale si realizza una
trasformazione qualitativa.
Il problema permane, anzi si pone più decisamente, quando si
afferma che, allo stato delle attuali concezioni e discipline
positive dell’istituto, non si può parlare di un solo tipo, ma si
deve parlare di tipi diversi di proprietà, ciascuno dei quali
assume un suo aspetto caratteristico 102.
Si è affermato, però, in seguito ad analisi più o meno compiute
ed approfondite del nostro diritto positivo, che codesta
molteplicità di aspetti non compromette l’unità concettuale 103. E
coerentemente, le più caute elaborazioni dottrinali hanno
suggerito formule estremamente dosate, come questa: «la
proprietà è una sola ma è anche molteplice» 104. Si mira, così, a
salvare l’unità del concetto di proprietà, pur nella notevole
p. 103(traduce da Josserand, Cours de droit civìl positif français, I, 3*
ed., Paris 1938,n. 1517, p. 839, ma non riporta per intero. Lo scrittore
francese aggiunge: «le droit de propriété est un des plus souples et des
plus nuancés qui figurent dans les différents catégories juridiques; sa
plasticité est infinie». Egli, dunque, mostra la preoccupazione di non
compromettere l’unità concettuale dell’istituto. Ma tale atteggiamento
può pesare come un apriorismo su tutta l’indagine.
100 Nota 9: Ma codesta unità non si può assumere come dato
assolutamente certo e stabile. […].
101Nota 10: Vassalli, ivi; Grechi, Proprietà e contratto nella evoluzione
sociale del diritto del lavoro, Firenze 1935, p. 82.
102
Nota 11:
Grechi, ivi; Mazzoni, L’esercizio dell’impresa
nell’ordinamento corporativo in Atti del Primo Congresso Nazionale di
diritto agrario, Firenze1935, n. 2, p. 332.
103 Nota 12: Pugliatti, Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di
pròprietà, in Atti del Primo Congr. Naz. Di dir. agr., nn. 22 e ss., pp.
227 e ss.; Chiapppelli, Proprietà dello Stato e proprietà del privato etc.,
in Atti del Secondo Congresso Nazionale di diritto agrario, Roma 1939,
p. 260.
104 Nota 13: Maiorca, Premesse alta teoria della proprietà, in Jus 1941,
n. VI.
200
complessità delle sue articolazioni; e tale
fine è chiaramente
indicato, quando si dice che « il concetto di proprietà è
comprensivo di molteplici diversi ambiti di disciplina giuridica di
un godimento a titolo generale» 105. Ma si rimane nei termini delle
generiche descrizioni, e forse dei compromessi verbali.
3. Per uscire dal chiuso, si rende necessaria una nuova
impostazione del problema, in base alla valutazione precisa dei
dati positivi: si potrà quindi vedere se la molteplicità degli aspetti
consente di mantenere l’unità del concetto; e sopra tutto quale
valore, teorico e pratico insieme, possa avere in concreto il
problema medesimo dell’unità e della varietà che si prospetta e
si tenta di risolvere. L’indagine sarà condotta per grandi linee:
non si prenderanno quindi in esame (e sarebbe del resto poco
fruttuoso), tutte le determinazioni normative attinenti alla
proprietà. Sarà utile, piuttosto, prendere in considerazione
soltanto quei dati che presentano apprezzabili peculiarità,
staccandosi dallo sfondo tradizionale, e recano il senso di
particolari esigenze, che il legislatore abbia inteso di soddisfare.
D’altra parte conviene, dal punto di vista tecnico, utilizzare come
criteri direttivi e linee ordinatrici dell’esperienza, i risultati
conseguiti dalla dottrina e la comune sistematica, scegliendo gli
angoli visuali che consentono di dominare meglio la vasta
materia che si aduna attorno all’istituto della proprietà.
Cominceremo, quindi, facendo riferimento al presupposto
ineliminabile di ogni situazione giuridica — il soggetto — e al
suo termine correlativo — l’oggetto 106 — e distingueremo un
profilo soggettivo ed un profilo oggettivo. Il profilo soggettivo, a
sua volta, può essere qualitativo e quantitativo. Il primo si può
dire influente sulla natura della situazione di proprietà; il
secondo piuttosto sulla struttura: s’intende, nei limiti entro i
quali è possibile mantenere legittimamente codesta distinzione,
della cui utilità, in tesi astratta, non è da dubitare, almeno per l’
impiego che se ne fa comunemente.
[…]
II. – Profilo oggettivo
a) Struttura del diritto
Nota 14: Maiorca, Proprietà e antigiuridicità, in Riv. di dir. civ., XXX
(1941), n. I, p. 4. Si è pure tentato di proporre schemi e qualificazioni
degli atteggiamenti tipici della proprietà: Pugliatti, Istituzioni di diritto
civile, V, Milano 1938, pp. 16 e ss.
106 Nota 15: Sul senso di tale correlazione si veda Pugliatti, Gli istituti
del diritto civile, Milano 1943, p. 289.
105
201
33. Il profilo soggettivo, polarizzandosi verso la nozione formale
della proprietà, la assottiglia e riduce alla semplice titolarità;
correlativamente si ha occasione di notare che la relazione
economica, la possibilità di godimento effettivo, di utilizzazione,
di sfruttamento della cosa, munita di tutela giuridica, raccoglie
la sostanza dell’istituto. Si possono così individuare situazioni di
proprietà formale e situazioni di proprietà sostanziale, nelle
quali il legame che tiene normalmente uniti i due elementi della
sintesi in cui consiste la proprietà, tende ad allentarsi
notevolmente anche se non si scioglie del tutto. La struttura
dell’istituto ne risulta, in entrambi gli schemi, notevolmente
alterata, ma ciascuno di essi adempie alla funzione di tutela di
determinati interessi. Anzi, proprio perché determinate esigenze
pratiche inducono alla esaltazione del profilo soggettivo, nasce
come correttivo la proprietà sostanziale, che gravita verso il
profilo oggettivo.
34. Il fenomeno è tutt’altro che nuovo, anzi può dirsi ricorrente.
Uno sguardo ad alcuni aspetti e momenti del panorama del
diritto romano, può servire a chiarire le idee, poiché la proprietà
fondiaria romana, per lungo tratto della sua evoluzione, è stata
caratterizzata da un simile dualismo, in varie incarnazioni 107.
Termine fisso di codesta secolare e plurima dialettica è quel
domimum ex iure Quiritium, che esattamente si qualifica
proprietà romana da ogni punto di vista: da quello statico
(soggetto ed oggetto), come da quello dinamico (modo di
acquisto) 108.
a) Soggetto di codesto diritto può essere unicamente il
civis romanus poiché ne è essenziale presupposto lo ius
commercii, che spetta (almeno in origine) esclusivamente ai
cittadini romani.
b) Solo dopo varie vicende, la proprietà immobiliare
quiritaria, si estese ai fondi in italico solo; mentre ne rimasero
escluse le terre provinciali.
c) II dominio quiritario si trasmette ed acquista
unicamente per mezzo dei procedimenti dello ius civile, cioè dello
ius ipsius proprium civitatis (Inst. I, 2, I). Così, trattandosi di res
mancipi, mediante la mancipatio e, in prosieguo, la in iure cessio.
Nota 261: « Lo svolgimento storico del dominio romano ha per suo
elemento principale la concorrenza di più dominii » (V. Scialoja, Teoria
della proprietà nel ddiritto romano, I, Roma 1933, pp. 245-246).
108 Nota 262: Fadda, Teoria della proprietà, 1907, § 31 pp. 45 e ss.;
Girard, Manuel élémentaire du droit romain, 7* ed., Paris 1924, p. 274.
107
202
Ora, codesto diritto, che rispecchia i caratteri della sovranità
territoriale, più che quelli della proprietà privata 109, si tiene in
vita per secoli, quasi immutato nei suoi tratti fisionomici
essenziali, sopra tutto mai espressamente disconosciuto o
direttamente attaccato. L’evoluzione giuridico-sociale, si compie
fuori e attorno ad esso, e pullulano diverse specie di signoria,
che possono considerarsi come altrettante figure di proprietà
(sostanziale).
a) Già sotto il profilo soggettivo va considerato il dominuim
dei peregrini (Gai Inst. Il, 40), i quali, mancando dello status
civitatis sono privi anche dello ius commercii. Per distinguerlo
più nettamente dalla proprietà quiritaria, i commentatori lo
hanno chiamato dominium ex iure gentium. Esso non godeva del
riconoscimento, e quindi della tutela spettante alla proprietà
romana: tuttavia in prosieguo ottenne una certa difesa, con
mezzi diversi da quelli propri del dominio quiritario, e che non
sono ben conosciuti 110.
b) Più ricco ed interessante è l’aspetto oggettivo.
I) A cominciare dall’ager publicus, che lo Stato acquista e
accresce con le conquiste. Una parte di esso viene alienata dallo
Stato medesimo, e diviene oggetto di proprietà privata
quiritaria 111 ; mentre la maggior parte diviene oggetto di una
specie di signoria, che non si può confondere col dominium ex
iure Quiritium. È una delle tante possessiones, che assicurano il
godimento e la coltivazione della terra, al di fuori della proprietà
quiritaria. Il regime di tali possessiones, «ha una preponderante
importanza economica e storica nell’antica Italia » 112 . Esse si
fondano su di una concessione personale, fatta, a quanto
sembra, dal Senato 113 , che è da ritenere revocabile 114 , e forse
esente da tributo 115. Lo Stato rimane, formalmente, proprietario
del terreno concesso, ma il privato acquista indubbiamente un
Nota 263: Scialoja, op. oit., p. 245; Bonfante, Corso cit., I, p. 2°6;
Longo, Corso di diritto romano, Milano 1938, p. 134; Brasiello, Corso di
diritto romano, Milano 1941, p. 60.
110 Nota 264: Girard, op. cit., p. 274.
111 Nota 265: In origine rassegnazione ha luogo mediante la cerimonia
solenne della limitatio: Brasiello, Corso di diritto romano, cit., p. 41.
112 Nota 266:
Bonfante, Corso cit., I, p. 235 : « L’economia romana
antica si basa in prevalenza sull’ager publicus anziché sull’ager
privatus: il regime della possessio soverchia il dominium ex iure
Quiritium » (ivi, nota I). Via via che si compie l’espansione territoriale di
Roma, «si formano quelle vaste possessiones, al cui confronto il
dominium è ben poca cosa e per cui la possessio diventa il fulcro
dell’economia agraria » (Bozza, La possessio dell’ager publicus, I,
Milano 1939, pp. 166-167). Conf. sostanzialmente Zancan, Ager
publicus, Padova 1935, p. 33.
113 Nota 267 […].
114 Nota 268 […].
115 Nota 269 […].
109
203
potere, una signoria 116 . È stato detto che si tratta di una
signoria di mero fatto 117, come il possesso in senso tecnico 118;
ma non si può attribuire troppo peso a codesta tesi, anche se
può avere, a stretto rigore formale, qualche fondamento 119 .
Bisogna tener presente che il suo contenuto sostanziale 120 gli
ha consentito di reggere al peso di tanta storia e di così aspri
conflitti, che ne segnarono di sangue il cammino. Tanto meno la
possessio dell'ager occupatorius poteva ritenersi la risultante di
un abuso e quindi una situazione illegittimo 121, e proprio perchè
codeste possessiones «si protrassero per secoli, in tempi in cui i
patrizi avevano nelle mani l'intera direzione dello Stato». 122. Nella
prima epoca repubblicana, la possessio «è l'espressione tipica del
dominio politico del patriziato, poichè rappresenta il retaggio del
dominio degli antenati e la forma di sfruttamento del suolo
propria del patriziato» 123; quando, col pareggiamento dei patrizi e
dei plebei, seguito all'ammissione di questi ultimi al Consolato e
al Senato (IV sec. a.C.), perde il vigore politico e il carattere di
signoria del patriziato, «non cessa di essere privilegio di quella
parte dei cittadini che ha il dominio politico, la classe senatoria,
e diventa l'espressione tipica del capitalismo terriero » 124.
Tanta forza di resistenza, tanta vitalità difficilmente si ammetterebbe in un semplice rapporto di fatto. D'altra parte, di fronte
a simili fenomeni, il cui peso economico e sociale non può
sfuggire a nessuno, non si capisce bene che cosa possa
significare e quanto sia utile mantenere la distinzione troppo
schematica ed astratta fra rapporto di fatto e di diritto, già per
sé piuttosto equivoca e non molto precisa. A noi sembra
metodologicamente più corretto il tentativo di determinare il
contenuto e l'indole del fenomeno nella sua tipica e originale
consistenza, superando le strettoie e gli equivoci di codeste
formule. In tal modo non si può sfuggire alla conclusione
secondo la quale la possessio, anche se non rientrava tra gli
istituti del ius civile, era certamente un «potere pieno di
godimento, ad esclusione dei terzi, della terra legittimamente
occupata, riconosciuto dalla civitas col pre stare il proprio
apparato di coercizione alla garanzia» 125. Un potere di godimento
di ampiezza massima, poiché ai possessori «doveva essere
riconosciuta la facoltà di usufruire in qualsivoglia maniera delle
116
117
118
119
120
121
122
123
124
125
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
270[…].
271[…].
272[…].
273[…].
274[…].
275[…].
276: Burdese, op. cit., p. 21.
277: Bozza, op. cit., p. 165.
278: Bozza, op. cit., p. 174.
279: Burdese, op. cit., p.26-27.
204
terre» 126. Sicché possiamo considerare l'istituto come proprietà,
sia pure qualificandola proprietà sostanziale, per accentuare di
più l'isolamento della proprietà in senso formale. E dato appunto
questo isolamento, sempre più visibile nel corso dell'evoluzione
storica del diritto romano, non si può avere difficoltà ad
ammettere che quella che si è denominata proprietà sostanziale
avesse piena rilevanza di diritto, e non si esaurisse in rapporti di
mero fatto. Del resto su questo aspetto della questione non si
saprebbe insistere: si sa bene che la proprietà si suole definire
sotto due differenti profili, come istituto e come diritto (in senso
soggettivo) 127 . Il quesito ultimo orienterebbe la ricerca verso il
secondo dei due poli, ed è pure molto noto che, particolar mente
in relazione alla proprietà, è stato contestato che i Romani
fossero giunti a considerarla come un diritto soggettivo, nel
senso che oggi si potrebbe conferire all'espressione, e che
renderebbe netta l'antitesi fra la proprietà sostanziale e quella
formale 128.
2) Una figura analoga si ha in relazione all'ager vectigalis.
«Il nome di ager vectigalis è dato a terreni di comunità
dipendenti da Roma (coloniae e municipia), che vengono dalle
comunità medesime concessi a privati, con l'obbligo di pagare
un canone annuo (vectigal) e con la clausola che, fino a quando
sia puntualmente pagato il canone, non possa essere
spossessato nè il concessionario nè i suoi eredi nè coloro cui essi
abbiano trasmesso la terra a titolo particolare» 129.
La concessione dell'ager vectigalis 130, dà luogo ad una situazione giuridica complessa, che produce perplessità costruttive. Il
pagamento del canone ed il correlativo riconoscimento della
proprietà (quiritaria) nel concedente, suggeriscono il riferimento
alla locazione; la durata indeterminata e in sostanza perpetua
della concessione, la pienezza del godimento nel concessionario,
che poteva persino tra sferire il diritto ad altri, richiamano il
contratto di compravendita131. Da altro punto di vista si è potuto
asserire che dalla detta concessione nasceva una proprietà
sostanzialmente privata, ma formalmente pubblica, per la
presenza del vectigal 132.
Nota 280: Burdese, ivi, p. 29.
Nota 281: Nei termini del testo si può, con maggior rigore,
caratterizzare l'antitesi tra le due tendenze, quella che pone la
caratteristica distintiva della proprietà nella signoria (e quindi gravita
verso il contenuto), e quella che pone tale caratteristica
nell'appartenenza, cioè nel titolo formale. La distinzione, nei termini
meno rigorosi, si rinviene in Filomusi-Guelfi, op. cit., § 41 pp. 130 e ss.
128 Nota 282[…].
129 Nota 283: Arangio-Ruiz, op. cit., p. 231.
130 Nota 284 […].
131 Nota 285 […].
132 Nota 286 […].
126
127
205
Una figura di proprietà, sostanzialmente si profila quando, sorta
nella pratica la necessità di una protezione reale per il
concessionario, a costui viene accordata un'azione analoga alla
rei vindicatio 133 . Essa trovò posto, nell'Editto, dopo la
publiciana 134 la quale, come si vedrà, proteggeva il dominio
bonitario.
3)Nelle provincie, non si ha proprietà terriera: «in
provinciali solo... dominium populi romani est vel Caesaris» (Gai
Inst., II, 7). Le terre, tuttavia, vengono date in concessione
contro il pagamento di un canone periodico, che si dice
stipendium o tributum, a seconda dei casi, e perciò i fondi
medesimi si distinguono in praedia stipendiaria e tributaria:
«stipendiaria sunt ea, quae in his provinciis sunt ea, quae
propriae populi Romani esse intelleguntur; tributaria sunt ea,
quae in his provinciis
sunt, quae propriae Caesaris esse
creduntur» (Gai Inst., II, 21).
Il godimento dei concessionari non si inquadra certo nello
schema del dominium ex iure Quiritium; tuttavia si può affermare
che si tratti di «un istituto del tutto affine alla proprietà,
quantunque non ne abbia il nome» 135. La difesa attiva è affidata
ad una vindicatio, non ben precisata, che si dice fondata
sull'equità136. È stato rilevato, che nell'Editto pretorio la rubrica:
«de rei vindicatione» era
immediatamente seguita dall'altra: «si ager stipendiarius vel
tributarius petatur», e fondatamente si è congetturato che sotto
quest'ultima «doveva esser data una formula del tutto analoga a
quella della rei vindicatio medesima, sopprimendosi l'inciso ex
iure Quiritium » 137.
4) Correndo parallelamente ai due ordinamenti, la cui
dinamica caratterizzò lo svolgimento del diritto di Roma (ius
civile e ius praetorium), alla proprietà quiritaria si contrappone
la proprietà pretoria, che sorge quasi inavvertita e lentamente si
afferma e consolida, mediante la protezione accordata dal
pretore.
Tipiche sono due figure, che presentano strette analogie, ed
hanno una importanza pari a quella del vero e proprio dominio
ex iure Quiritium. Una si indica colla formula «in bonis habere» o
«bonis esse», l'altra è la «bonae fidei possessio» ed entrambe
possono raccogliersi «nel concetto della possessio ex iusta
causa» 138 . Esse godono di una difesa attiva, concessa dal
pretore. Non si tratta di semplice difesa possessoria, contro lo
133
134
135
136
137
138
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
287[…].
288 […].
289 : Arangio-Ruiz, op. cit., p. 168. […].
290 […].
291 : Arangio-Ruiz, op. cit., p.168.
292 : Bonfante, Corso cit., II, p. 314.
206
spoglio violento o clandestino, bensì di una difesa specifica: più
intensa, rispetto al dominio bonitario, che è protetto anche nei
confronti del proprietario ex iure Quiritium, meno intensa
rispetto alla bonae fìdei possessio, che cede di fronte alle ragioni
della proprietà 139.
) Assai significativo e il fatto che nelle fonti si parli di due specie
di dominio, nate dalla scissione dell’unico dominio originario.
Che si pongano sullo stesso piano — il dominio quiritario e l’in
bonis «Sequitur, ut admoneamus, apud peregrinos quidem
unum esse dominium; nam aut dominus quisque est, aut
dominus non intelligitur. Quo iure etiam populus romanus olim
utebatur: aut enim ex iure Quiritium unusquisque dominus
erat, aut non intellegebatur dominus; sed, postea divisionem
accepit dominium, ut alius possit esse ex iure Quiritium
dominus, alius in bonis habere».
L’ipotesi più caratteristica è quella della res mancipi alienata,
non già secondo le forme ex iure civili, bensì con la semplice
traditio (Gai Inst., II, 41). Tuttavia questa ipotesi diviene
problematica: lo stesso testo, infatti, dice che la cosa trasmessa
nel modo indicato, rimane nel dominio ex iure Quiritium
dell’alienante, finché l’acquirente non la usucapisca; così che l’
in bonis assume il significato di una possessio ad usucapionem,
e rischia di confondersi con la bonae fidei possessio. Ma il
dominio bonitario comprende altre situazioni, con le quali la
confusione non è possibile, e specialmente quelle caratterizzate
dal fatto che l’immissione in bonis ha luogo per decreto del
pretore, che poi le garantisce, proprio come un’azione ex
decreto 140 : ipotesi tipica e comune, la bonorum possessio. L’in
bonis può considerarsi come vera proprietà (in senso
sostanziale), in primo luogo per il suo contenuto, poiché
«conferisce il godimento assoluto della cosa» 141; ma soprattutto
per la difesa di cui gode: una difesa passiva ed una difesa attiva
erga omnes, non escluso lo stesso proprietario ex iure Quiritium.
Dal lato passivo, il dominio bonitario è difeso da una eccezione,
opponibile anche al proprietario rivendicante, e capace di
neutralizzare la sua azione di rivendica. «Questa eccezione
poteva essere varia nei casi in cui l’in bonis era accordato dal
Pretore : ma nel caso tipico della res mancipi alienata senza far
uso delle forme solenni della mancipatio e della in iure cessio,
essa era senza dubbio la exceptio rei venditae et traditae» 142 .
Nota 293 : Bonfante, ivi, p. 315.
Nota 294 : Bonfante, ivi, p. 317-318.
141 Nota 295 : Bonfante, ivi, p. 316. Lo Scialoja, op. cit., p. 248 lo
qualifica «un rapporto di natura prettamente economica». Senonchè
egli aggiunge (p. 249): «ma a poco a poco si sente da tutti che esso non
è altro che una vera proprietà».
142 Nota 296 : Bonfante, ivi, p. 325. […].
139
140
207
Quanto alla difesa attiva, tendente a fare riacquistare il
godimento della cosa, è certo che un mezzo era concesso al
domino bonitario. Alcuni supposero l’attribuzione di una rei
vindicatio ficticia, basata sulla finzione della mancipatio; altri di
una rei vindicatio utilis. La dottrina prevalente ritiene che all’in
bonis fosse estesa l’actio publiciana, posta a tutela della bonae
fidei possessio, dato che i presupposti sui quali si fonda questa
azione concorrono indubbiamente nel dominio bonitario 143.
β) Anche se i legami tra dominio bonitario e bonae fidei
possessio sono innegabilmente assai stretti, non si può tuttavia
aderire alla tendenza dottrinale che vorrebbe assorbita questa
figura in quella. La differenza tra di esse sussiste: «l’ in bonis
habere esprime un diritto assoluto, veramente erga omnes,
significa ciò che noi godiamo con piena sicurezza e perpetuità; la
bonae fidei possessio indica invece un diritto più limitato e
fragile » 144.
Non si tratta, ben s’intende del semplice possesso di buona fede.
Avente i requisiti per l’usucapione, ma privo della iusta causa.
Quest’ultima possessio non dà luogo ad un diritto analogo alla
proprietà. Perché gode unicamente della difesa possessoria, la
pretesa all’acquisto dei frutti, al rimborso delle spese etc. Mentre
quella fondata sulla iusta causa, dà luogo ad un diritto analogo
alla proprietà, tutelato mediante azione reale, contro qualsiasi
possessore, eccetto il proprietario. Tale azione è la publiciana,
che si fonda sulla fictio della compiuta usucapione. Si tratta di
un’azione « di importanza quasi eguale alla rei vindicatio » 145 .
Essa può essere paralizzata dalla exceptio iusti dominii, quando
è proposta contro il proprietario ex iure Quiritium (Papinianus, fr.
I6 Dig. VI, 2: «Exceptio iusti dominii Publicianae obicienda est).
Non può sfuggire, dopo il nostro breve excursus, l’importanza
della distinzione tra proprietà formale e proprietà sostanziale nel
diritto romano. La proprietà quiritaria, che mantiene le linee
strutturali con le quali l’ha configurata lo ius civile, quasi
simbolo della stabilità di codesto ordinamento; le possessiones
che si piegano alla tutela degli interessi pratici, senza
compromettere l’edificio quiritario. Queste non rappresentano
una condizione anormale: il regime che in esse si incarna «nelle
infinite forme è invece lo stato normale in ordine ai fondi, che
sovrasta di gran lunga l’angusta sfera del dominium ex iure
Quiritium. È questo che appare quasi come l’eccezione. Nella vita
economica, non altrimenti che nell’ordinamento giuridico. La
nostra proprietà corrisponde più alla possessio romana che non
143
144
145
Nota 297 : Bonfante, op. cit., p. 326. […].
Nota 298: Bonfante, op. cit., p. 323. […].
Nota 299: Bonfante, op. cit., p. 328.
208
al dominium ex iure Quiritium » 146 . D’altra parte, le varie
possessiones, nel lento e alterno gioco delle esigenze pratiche e
delle forze politiche, si andarono evolvendo, per vie diverse, in
unica direzione. Finché, quale prima quale poi, conseguirono il
pieno riconoscimento e il crisma della proprietà. Ma da quel
punto di vista giuridico che non trascura la terza dimensione
delle istanze economico-sociali, i rilievi che precedono
acquistano una importanza ed un significato assai notevoli, sia
per quanto attiene alla storia della proprietà romana, sia per
quanto con cerne l’evoluzione dell’istituto nel medio evo e
nell’età moderna. Per il primo aspetto, già si è visto come il
complesso di rapporti giuridici che gravita attorno al godimento
delle terre fosse del tutto svincolato dagli impacci di quello
schema rigido che si esprimeva nella formula del dominium ex
iure Quiritium; e si articolasse in atteggiamenti più aderenti alla
realtà e alla concrete esigenze pratiche. Per il secondo aspetto,
non potrà sfuggire a chi consideri attentamente il fenomeno,
come i predetti atteggiamenti di quella che abbiamo chiamata
proprietà sostanziale, pur nella conseguita uniformità al termine
dell’evoluzione delineata, mantennero l’interna agilità e duttilità,
sicché la proprietà medesima, nella sua unità concettuale,
appare arricchita di svariati contenuti, mobile, articolata e
massimamente elastica. La distinzione netta tra proprietà
romana e proprietà germanica — quella chiusa in una formula
che la fissava come unità astratta, questa rifrangentesi in una
serie di figure differenti, risultanti dalla somma di varie facoltà;
la prima indivisibile nella sua essenza, come unità qualitativa, la
seconda decomponibile nei suoi elementi costitutivi 147 — è
distinzione intellettualistica, tra due concetti, il primo dei quali
dedotto persino da quella situazione che è la proprietà quiritaria,
che dal punto di vista economico sociale costituì una situazione
ristretta, di scarsa risonanza, rispetto alla proprietà sostanziale.
E proprio per il fatto che il godimento della terra era, presso i
Romani, disciplinato nei modi che si sono accennati, fu
possibile, nell’età di mezzo, quell’amalgama tra diritto romano e
diritto germanico in rapporto alla proprietà terriera, che diede
all’istituto le strutture convenienti ai tempi nuovi e alle nuove
esigenze , e le cui linee si possono ancora riscontrare nel diritto
vigente, anzi di tanto in tanto si rendono più manifestamente
visibili.
Nota 300: Bonfante, Il punta di partenza etc, loco cit., p. 533.
Nota 301: Così, all’incirca, formulata dal Ranelletti, Concetto, natura
e li miti del demanio pubblico, periodico cit. XXVI, n. 31, pp. 64-65. E
dire che codesto scrittore ha intuito (ivi, p. 66 nota 218) che le
costruzioni degli scrittori tedeschi in tema di proprietà collettiva non
possono essere legittimamente confutate, dal punto di vista del diritto
romano, poiché vi si riscontra l’influenza del diritto germanico.
146
147
209
[…]
37. b) A rilievi di notevole interesse si presta l'enfiteusi, sopra
tutto per il fatto che, non solo la dottrina non è riuscita a
proporre una costruzione soddisfacente, ma la stessa varietà
delle tesi proposte, mette in evidenza la molteplicità di aspetti
dell'istituto. D'altra parte, ciascuna di tali tesi fa capo ad uno dei
caratteri, che viene considerato come preminente e decisivo,
per la risoluzione del problema fondamentale che l’istituto
propone, ma naturalmente non può cancellare gli altri caratteri
e togliere ad essi ogni valore. Il quesito che la dottrina si
prospetta tradizionalmente, e che a noi interessa ai fini della
presente indagine, consiste nel determinare se, in seguito alla
concessione enfiteutica, la proprietà permanga nel concedente o
si costituisca in capo all’enfiteuta. La dottrina prevalente ritiene
che la proprietà rimane al concedente, e che in capo all’enfiteuta
si costituisce un diritto reale particolare (ius in re aliena) 148 .
Tuttavia, per quanto poco si voglia concedere, non si può fare a
meno, quando si neghi che l’enfiteuta acquista la proprietà, di
ammettere che il diritto da lui acquistato sia « il più ampio dei
iura in re aliena » e nel contempo e correlativamente « il più
vicino al diritto di proprietà » 149. Più ampio, quindi, dello stesso
usufrutto, che attribuisce al titolare il diritto di godere della cosa
traendone ogni utilità che essa può dare (art. 981); e più di esso
vicino alla proprietà150. È facile intendere che, in realtà, si tratta
di espressioni poco precise, con le quali si vuole accentuare
l’analogia tra la proprietà e il diritto dell’enfiteuta. E infatti
codesta spiccata analogia sussiste, e si caratterizza non già in
virtù di gradazioni quantitative rispetto agli (altri) iura in re
aliena, bensì con riferimento ad elementi intrinseci che
definiscono la struttura e mettono in rilievo la funzione
dell’istituto. Codesti elementi sono tali e talmente significativi,
che con riferimento ad essi, autorevoli scrittori hanno potuto
argomentare a sostegno della tesi opposta, che attribuisce
all’enfiteuta la proprietà negandola al concedente. È certo, ad
ogni modo, che il diritto del concedente, anche se si voglia
denominare proprietà, si riduce a ben poco: quasi ad una
semplice titolarità (o proprietà formale) a cui si aggiunge il diritto
di credito al canone. Il diritto di godimento spetta integralmente
Nota 328: Tra gli scrittori più recenti cfr. Germani, Enfiteusi, in
Nuovo Digesto Ital., V, Torino 1938, n. 2, pp. 400 e s.; V. Simoncelli,
Libro della proprietà del Commento D’Amelio-Finzi, Firenze 1942, p.
561; Cariota-Ferrara, L’enfiteusi, Torino 1950, nn. 139 e ss., pp. 166 e
ss.; Orlando-Cascio, L’enfiteusi, Palermo s.a. (1952), pp. 121 e ss.
149 Nota 329: Cariota-Ferrara, op. cit., n. 143, p. 193.
150 Nota 330 […].
148
210
all’enfiteuta. Si può pensare, è vero, che tale situazione sia
analoga a quella che si produce in seguito alla costituzione
dell’usufrutto, ma non deve sfuggire la sostanziale differenza:
l’usufrutto è essenzialniente temporaneo, mentre l’enfiteusi può
essere perpetua (art. 958). Si può, dunque, in relazione
all’usufrutto, valorizzare la semplice titolarità attuale, in vista
della immancabile ricostituzione futura del diritto nella sua
piena integrità: fenomeno che si riconduce all’elasticita del
dominio. Ma l’elasticità, in rapporto all’enfiteusi perpetua non ha
modo di operare, e quindi si ha qui una ipotesi di proprietà non
soltanto in atto svuotata del suo contenuto, bensì priva di quel
carattere, ritenuto essenziale, che è quasi una extrema ratio alla
quale i tecnici si affidano per proiettare nel futuro la plena in re
potestas, che nel presente si riduce a pura forma. Non si dica
che il concedente può riacquistare la proprietà piena, per non
uso ventennale (art. 970), o in virtù della devoluzione (art. 972),
poiché tale riacquisto è conseguenza di eventualità che escono
dai binari del normale svolgimento del rapporto. Anche il
venditore può riacquistare la proprietà della cosa venduta, se il
contratto di vendita si risolve per l’inadempimento del
compratore; e il proprietario in genere, ammesso che non esista
nel nostro diritto l’usucapio libertatis 151 , può perdere la
proprietà, se altri acquisti per usucapione.
Ma si potrebbe parlare di elasticità in relazione all’enfiteusi
temporanea. Senonché, a parte il fatto che l’istituto va definito
con riferimento a tutti i suoi aspetti, e particolarmente a quelli
caratteristici, è da considerare qui il diritto di affrancazione, che
vulnera gravemente la situazione del concedente. L’esercizio di
esso da parte dell’enfiteuta, non solo paralizza la possibilità di
reintegrazione del diritto nel concedente, ma polarizza in via
definitiva il diritto stesso. Nella sua integrità, nella direzione
dell’enfiteuta. Senza dubbio si può sottilizzare, in difesa
dell’opinione dominante. Si può ritenere che la facoltà di
affrancazione presenti analogie con la facoltà di riscatto 152, ma
più delle analogie sono significative le differenze. Infatti, il
riscatto è un’accidentalità che poggia sulla volontà delle parti;
mentre il diritto di affranco nasce dalla legge e come elemento
essenziale del rapporto 153. La legge interviene, relativamente al
riscatto, per limitarne la durata massima (art. 1501), mentre il
diritto di affrancazione dura quanto l’enfiteusi. Inoltre, la facoltà
di riscatto è accompagnata da quella di godimento, mentre nel
151
152
ss.
Nota 331 […].
Nota 332: De Pirro, Della enfiteusi, Lanciano 1893, n. 40, pp. 142 e
153 Nota 333: Coviello, Della trascrizione, 2^ ed., II, Napoli-Torino 1915,
n. 309, p. 285.
211
rapporto di infiteusi l'una e l 'altra competono al medesimo
soggetto.
Si può ancora affermare che l'affrancazione è soltanto eventuale,
poiché l’enfiteuta può non esercitare il diritto relativo 154 , ma
nell'enfiteusi perpetua l'interesse ad esercitare tale diritto ha
senza dubbio natura accessoria e subordinata, e in quella
temporanea resta sempre il fatto che, a differenza del diritto di
riscatto, il diritto di affrancazione non è limitato ad un termine
massimo.
Insomma è veramente peculiare la situazione che si crea
nell’enfiteusi, nella quale il diritto di godimento integrale può
essere in perpetuo accompagnato dalla proprietà (formale), e per
giunta rafforzato da un diritto, il cui esercizio, in un qualunque
momento, può cancellare tutte le vestigia di quella proprietà.
Questa è la sostanza, e i sostenitori della tesi opposta possono
invocare soltanto argomenti formali.
Tra questi, quello che appare a tutti decisivo: l'obbligo, nel­
l'enfiteusi, di migliorare il fondo (art. 960). Non si spiegherebbe
l'esistenza di tale obbligo, se proprietario fosse lo stesso
enfiteuta, perché sarebbe un obbligo verso se medesimo.
Il ragionamento è poco rigoroso: esso riproduce lo schema di
quello con cui si è tentato di negare la possibilità di costituzione
valida e di permanenza in vita di un rapporto unisoggettivo 155.
Noi riteniamo che non vi siano ostacoli insormontabili alla
costituzione di tale rapporto, e quindi possiamo facilmente
superare l'obbiezione. Nella specie, poi, è da chiarire l'ambiguità
del termine «proprietario», a causa, appunto, della pluralità di
significati che acquista l'originario termine «proprietà»; e in
particolare, per il fatto che nella specie l'attribuzione della
qualifica ad uno dei soggetti, concedente od enfiteuta, non
esclude l'esistenza di diritti dell'altro, e sopra tutto non esclude
l'evoluzione del rapporto in modo tale che l'altro soggetto
divenga, in definitiva, proprietario pleno iure. Si può, dunque,
ritenere che l'obbligo di migliorare sia assunto solo
eventualmente nell'interesse del concedente, che potrebbe
riacquistare la proprietà. Senza dire, che allo stato attuale del
nostro diritto positivo, l'obbligo di miglioramento corrisponde al
pubblico interesse che, in relazione alla proprietà terriera, si
traduce nell'onere di buona coltivazione.
Elemento o indice formale è quello che si ricava dalla possibilità
di estinzione del diritto dell'enfiteusi per non uso, poiché la
proprietà parrebbe ripugnante a tale estinzione: la proprietà
come forma (ammesso che non esista l'usucapio libertatis).
Nota 334: Cariota-Ferrara, op. cit., p. 175.
Nota 335: Per maggiori chiarimenti rimandiamo al nostro studio: Il rapporto
unisoggettivo, in Diritto civile cit., pp. 395 e ss.
154
155
212
Degli altri argomenti non occorre trattare. Piuttosto,
consideriamo, sotto il profilo formale e sotto il profilo
sostanziale, i rapporti tra l'enfiteusi perpetua e la rendita
fondiaria perpetua. Il contratto di rendita trasferisce la
proprietà, contro la costituzione di un credito periodico (art.
1861). Sostanzialmente, dal punto di vista economico, esistono
innegabili e stringenti analogie con l'enfiteusi. Anche la rendita è
redimibile (art. I865), come l'enfiteusi è affrancabile, e non si
vede quale serio fondamento possa avere la costruzione di
quest'ultima, in modo radicalmente differente dalla prima,
specie di fronte a certe conseguenze, che appaiono assurde: chi
riscatta la rendita, si libera di un peso; chi affranca il fondo, se
proprietario è il concedente, compie una sorta di espropriazione
privata in proprio favore 156.
Un'altra considerazione: non può sfuggire a nessuno il fatto che
la dottrina, anche quando tace il testo legislativo, tenda ad
applicare all'enfiteuta tutte le norme applicabili al proprietario.
Tuttavia non si vogliono trascurare le differenze: anche se non
appaiono decisive, cioè idonee a spostare verso il concedente il
fulcro del rapporto, esse valgono a vulnerare il diritto e la
situazione dell'enfiteuta, così come taluni elementi, già messi in
evidenza vulnerano il diritto e la situazione del concedente.
Ciò spiega i tentativi della dottrina di porre sul medesimo piano i
due soggetti. Certo il meno felice è quello, ormai superato, di
considerare l’enfiteusi alla stregua del condominio, e il
concedente e l’enfiteuta come condomini. Non pare destinata ad
avere successo quella tendenza che, analogamente alla dottrina
intermedia della proprietà divisa, attribuirebbe al concedente e
all’enfiteuta una proprietà attenuata 157 . Ma è indubbio che al
concedente o all’enfiteuta non si può riconoscere, finché duri
l’enfiteusi, una proprietà piena. Ai fini che ci siamo proposti col
presente studio, più che la risoluzione corriva del problema
dottrinale, giova il rapido esame condotto, e la conclusione per
cui la proprietà che diremo enfiteutica, sia che si debba
attribuire al concedente, all’enfiteuta o ad entrambi, è
certamente una proprietà minus plena. E tale conclusione giova
perché riassume i risultati dell’analisi e mantiene viva la
necessita di codesta analisi per la piena intelligenza del
fenomeno. In sostanza, risulta così esplicito il sottinteso
innegabile, che non può sfuggire alla sensibilità dei giuristi delle
varie tendenze, per cui, risolto il problema dell’attribuzione della
qualifica a questa o a quella situazione giuridica (proprietà al
concedente e diritto reale su cosa altrui all’enfiteuta, o viceversa;
oppure proprietà ad entrambi), restano da determinare in
156
157
Nota 336 […].
Nota 337 […].
213
concreto la fisionomia e la struttura, il contenuto e la portata
specifica del diritto dell’uno e dell’altro soggetto, comunque
qualificato. E la qualifica di proprietà, di seguito alla rigorosa
analisi che si impone, non può e non deve trarre in inganno; non
può e non deve suggerire facili e comode identificazioni.
b) Peculiarità dell’oggetto.
38. È noto che la considerazione della proprietà dal punto di
vista dell’oggetto, venne assunta come canone metodologico per
la migliore caratterizzazione dell’istituto in relazione alla
disciplina positiva moderna. Tale punto di vista venne adottato
sul presupposto della insufficienza o inadeguatezza del profilo
subbiettivo, e la scelta venne giustificata come segue : « Non più
dominante appare lo scopo di disciplinare la libertà dei cittadini
per l’armonia della vita sociale, non più i beni sono considerati
soltanto come oggetto dell’attività del singolo, in quanto questi
possa usarne, goderne, disporne; bensì, invece, affermandosi
come base dell’organizzazione sociale il dato economico, sono i
beni che si mettono in primo piano: e la loro Utilizzazione, la loro
destinazione, la loro organizzazione che appare immediato
oggetto della disciplina giuridica, talché essi si pongono
logicamente come un prius rispetto al cittadino, cui spettano
» 158.
Considerato come criterio metodologico, anziché come comodo
punto di vista, il canone suggerito sarebbe inaccettabile, per la
sua evidente unilateralità, la quale mutila l’istituto della
proprietà dell’elemento che, logicamente, costituisce e costituirà
sempre il termine fondamentale di ogni fenomeno giuridico : il
soggetto. La disciplina giuridica avrà sempre come fulcro gli
uomini e la loro attività, e al più potrà orientarsi
immediatamente verso i beni, per considerazioni di ordine
pratico, le quali sono sempre legate alle necessità e alle attività
degli uomini, isolati o aggruppati. Anzi,
proprio in vista di
codeste necessità e attività le « cose » appaiono
come «beni»,
assunte già in ambito di valori e qualificate in base a idonei
criteri. Allora diremo legittimo 159 il punto di vista oggettivo, a
condizione che rimanga legato e tacitamente riferito al reciproco
punto di vista soggettivo, e lo integri, lasciandosi integrare da
esso 160.
Questo rilievo ne suggerisce un altro: quello di non superare,
nella considerazione oggettiva, il limite oltre il quale essa
158 Nota 338: Finzi, Diritto di proprietà e disciplina della produzione, in
Atti del Primo Congresso Nazionale di diritto agrario, cit., pp. 159-160.
159 Nota 339: Finzi, ivi, p. 159.
160 Nota 340 […].
214
condurrebbe, anziché ad una nuova visione, ad una
deformazione della proprietà, trasformandosi da utile strumento
di indagine in dannosa fonte di equivoci. Si tratta di superare
viete concezioni che irrigidiscono la proprietà di una forma
astratta e immutabile, e di considerarla come
«un rapporto concreto, il quale varia ed assume una diversa
fisionomia ed un atteggiamento diverso, secondo la natura
speciale degli obbiettivi che cadono sotto il suo potere».161.
39. La prima distinzione relativa all’oggetto, che può avere
influenza sulla determinazione del concetto e dell’ambito del
diritto di proprietà, è quella fra cose corporali e cose incorporali.
Sono note le difficoltà concernenti la teoria delle cose in senso
giuridico 162 nell’ambito della teoria dell’oggetto dei diritti
(soggettivi). Soltanto la dottrina più recente ha avvertito la
necessità di porre in chiaro codesta distinzione, e di procedere
alla determinazione del concetto di « beni » in senso giuridico 163.
Oggetto di diritti soggettivi, e quindi beni giuridici, possono
essere cose materiali e cose immateriali (naturalmente sono
entità ideali tanto i beni quanto i diritti, anche se abbiano per
nucleo costitutivo una cosa materiale). In ordine alla proprietà,
si dubita ancora se tale diritto si limiti alle cose materiali (o
corporali), o possa estendersi anche alle cose immateriali (o
incorporali). La questione originariamente si poneva in termini
alquanto diversi, poiché alcuni affermavano (ed altri
contestavano) che il diritto su cosa incorporale dovesse
designarsi come proprietà. Naturalmente non si trattava soltanto
di una questione terminologica, poiché questa presentava un
perfetto parallelismo col tentativo di una identificazione
concettuale, abbastanza spinta, anche se rispettosa delle
differenze specifiche. Infatti, pur ammettendosi
che i diritti
su cose incorporali non fossero da considerare come proprietà
nel senso ristretto del termine, si chiariva che la differenza
saliente stava unicamente nella natura del rispettivo oggetto,
che non è decisiva per la caratterizzazione del diritto. E si
asseriva, per di più, che le due categorie hanno in comune
l’essenza, e precisamente il contenuto e la tutela giuridica: il
primo, in quanto è identica la posizione del titolare, che gode di
un diritto primario e pieno; la seconda, in quanto può farsi valere
erga omnes 164.
La successiva elaborazione dottrinale mise in luce, anzitutto
talune radicali differenze tra i diritti su cose incorporali, alcuni
161
162
163
164
Nota
Nota
Nota
Nota
341: Cimbali, La proprietà e i suoi limiti, nel vol. cit., p. 162.
342: Maiorca, La cosa in senso giuridico, Torino 1937.
343 […].
344 […].
215
dei quali vennero assegnati alla categoria dei diritti della
personalità 165. E certo ha esclusivamente carattere personale il
diritto all’inedito, che si risolve in una protezione
dell’«autodeterminazione dell’autore riguardo la pubblicazione
dell’opera» 166 . Ma il diritto allo sfruttamento dell’opera,
considerata compiuta dall’autore e destinata alla pubblicazione
o già pubblicata, è certamente un diritto di carattere anche
patrimoniale 167 . Non si fa fatica ad ammettere che si tratti di
diritti assoluti, ma se si ritiene che il loro contenuto si esaurisca
nella facoltà di pubblicazione e riproduzione dell’opera ci si può
contentare della loro classificazione tra i diritti di monopolio 168.
Ovviamente l’interesse protetto dal diritto è quello relativo allo
sfruttamento integrale ed esclusivo dell’opera a beneficio
dell’autore, sì che appare legittimo l’accostamento ai diritti reali.
Ma agli scrittori la differenza specifica dipendente dalla natura
dell’oggetto, è parsa di rilievo assai maggiore rispetto agli
elementi di identità. I diritti reali, appunto per la materialità
della cosa che ne costituisce l'oggetto, anche quando sono diritti
reali su cosa (materiale) altrui, presentano pratiche possibilità di
utitizzazionc e di sfruttamento (della cosa), nelle quali si traduce
il godimento (che forma il contenuto) di essi diritti; e tali utilità
reclamano una peculiarissima tutela, la quale si sostanzia di
quelle esigenze pratiche e su di esse si modella. Si pensi alla
tipica azione a tutela della proprietà (su cose materiali), la
rivendica; essa, a
sua
volta, presuppone la relazione
possessoria, che non si saprebbe come individuare e fermare in
ordine alle cose incorporali. Analoghe peculiarità presenta l'actio
negatoria. Davanti a questo scoglio si fermarono gli scrittori
attratti dal miraggio delle analogie. e spinti verso il tentativo
delle identificazioni 169. Approfondita l’analisi, risaltarono meglio
le differenze, le quali però furono svalutate. Si vide infatti, che
era da escludere il carattere di assolutezza della c.d. proprietà
incorporale, e si ritenne di poterlo eliminare rispetto alla
proprietà in genere, il cui concetto veniva così modellato su
quello della proprietà incorporale 170. Senonché, a parte i dubbi
sollevati da simile costruzione, la differenza veniva ad
accentuarsi, proprio perché, mentre la proprietà corporale è
sostenuta dalla specifica tutela tradizionale, che si attacca al
corpus e alla situazione possessoria; la pretesa proprietà
165
166
167
168
169
170
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
345 […].
346 […].
347 […].
348 […].
349[…].
350 […].
216
incorporale può contare solo su una tutela generica, che tende a
collocarsi nell'ambito delle regole generali sull'illecito civile 171.
Il colpo più grave veniva dal rilevato difetto di un altro carattere
nella c.d. proprietà incorporale. «La proprietà del nome e quella
in genere delle cose immateriali o incorporali manca
necessariamente in linea di fatto di un carattere che nella
proprietà corporale è anche in linea di fatto essenziale,
l'esclusività. La legge può ben sancire il diritto esclusivo di
alcuno ad un dato nome: questo diritto significa nè più nè meno
che la facoltà del titolare di proibire a chiunque altro di portare
quel nome; in linea di fatto però non è impossibile che altri lo
porti, pur non togliendolo a lui; anzi è impossibile che altri glielo
tolga; il che è proprio il rovescio di quello che avviene per la
proprietà corporale, dove l'usurpazione totale della cosa non può
avvenire che mediante spossessamento del proprietario: è una
legge fisica della materia, che ciò impone, e non soltanto una
regola del vecchio Diritto come quella che duorum in solidum
dominium vel possessio esse non potest » 172.
Insistiamo su questo, che è veramente un nodo assai importante
per lo studio della proprietà. Qui l'esigenza pratica e quella
sistematica trovano il punto di innesto e il fulcro sul quale
devono equilibrarsi. La formula astratta del diritto soggettivo,
rispetto alla quale la natura peculiare dell'oggetto è
indifferente 173 , ha bisogno di essere temperata con la
considerazione della natura dell'oggetto del diritto di proprietà, e
la scelta del punto di vista oggettivo è feconda. Le peculiarità
sulle quali si modellano le fondamentali caratteristiche
strutturali della proprietà, sono legate alla materialità della cosa,
da cui nasce il carattere di assolutezza, per l'immediatezza del
rapporto, e il carattere di esclusività, per la fisica incompatibilità
di due rapporti immediati in solido. Sulla relazione materiale si
modellano gli istituti della proprietà e del possesso, considerati
nei loro rapporti reciproci, o come istituti autonomi. Se si
prescinde da codesta relazione, e se ne deve necessariamente
prescindere quando si ipotizza l'immaterialità dell'oggetto, non si
può più parlare di proprietà, se non per via di traslati e di
indebite generalizzazioni 174.
Torniamo ad avvertire che non si tratta di semplice questione
terminologica, ma di una questione sistematica, che trova i suoi
presupposti in dati oggettivi, e cioè in profili strutturali che
corrispondono ad atteggiamenti funzionali. Se anche si
prescinde dai rilievi precedenti, resta un dato assai importante
Nota 351 […].
Nota 352: Ascoli, Sul diritto al nome commerciale, in Riv. del dir.
comm., III (1905), II, p. 148.
173 Nota 353 […].
174 Nota 354 […].
171
172
217
da prendere in considerazione: la proprietà delle cose materiali
si risolve in una tutela generica di estensione massima, in
corrispondenza agli interessi che il diritto prende in
considerazione. Si foggia, cioè, una signoria giuridica generale,
non specificamente delimitata e tendenzialmente perpetua, in
corrispondenza dell'interesse privato di utilizzazione e
sfruttamento della cosa stessa in tutte le sue possibilità presenti
e future. Viceversa la c.d. proprietà dei beni immateriali
costituisce una generalizzazione verbale colla quale si designano
diverse forme specifiche di tutela che hanno come basi
particolari interessi 175 . Si tratta, perciò, di diritti di vario
contenuto, relativi ad interessi che presentano soltanto
generiche analogie, e non si inquadrano in uno schema unico.
Si deve, dunque, evitare l'identificazione concettuale, anche
generica; di costruire cioè un concetto mancante di basi
obbiettive, dietro lo stimolo di un processo di semplificazione
linguistica. E se si bada a ciò, non vi è ragione di bandire
affrettatamente la terminologia in uso.
In relazione ai diritti sui beni immateriali, la proprietà riaffiora,
quando essi danno luogo a situazioni nelle quali il termine
oggettivo è una cosa corporale. Ad es. in quel gruppo di
situazioni soggettive che si designa complessivamente come
«diritto di autore» si può parlare di proprietà per certi aspetti:
l'autore di un romanzo è proprietario delle copie inviategli
dall'editore. Ma in tale senso, è proprietario chi ne ha acquistato
una copia in libreria; e il diritto (personale) di autore, diritto su
bene immateriale, cioè sull'opera d'arte come creazione ideale,
non ha nulla da vedere con codesto diritto di proprietà 176.
In conclusione, l'analogia tra proprietà (su cosa) materiale e
proprietà (su bene) 177 immateriale, si limita al profilo assai
generico per il quale possono le due figure collocarsi nella
categoria dei diritti assoluti. Profilo che, pur in termini generici,
può avere una certa utilità, solo se si mantenga l'angolo visuale
soggettivo; poiché se si considera dall'angolo visuale oggettivo,
si impone la differenza, anche in termini generici, tra diritti
(assoluti) reali e diritti (assoluti) personali, che costituisce il
primo gradino verso quelle differenze specifiche che aprono un
solco incolmabile tra le due categorie 178.
40. Nella categoria delle cose corporali ha assunto in passato e
mantiene tuttavia una grande importanza la summa rerum
divisio tra cose mobili e cose immobili. Essa acquista rilievo in
175
176
177
178
Nota
Nota
Nota
Nota
355[…].
356[…].
357[…].
358[…].
218
tutto il diritto patrimoniale, e in particolare rispetto alla
proprietà179, al punto che si parla di proprietà immobiliare e di
proprietà mobiliare 180.
In realtà, raccogliendo sistematicamente le norme che
disciplinano il godimento e il trasferimento delle cose mobili e
quelle che disciplinano il godimento e il trasferimento delle cose
immobili, specie in relazione ai terzi, si delineano due diversi
regimi giuridici, con peculiarità così diverse da costituire due tipi
di disciplina giuridica, coerenti e armonici ciascuno per sé, e
differenti l’uno dall’altro 181. «Eppure non tutta appare a prima
vista l’importanza della distinzione nel sistema del nostro diritto
civile. È necessario combinare con la dottrina
della
proprietà un principio fondamentale di quella del possesso e
chiederci poi se nel nostro sistema legislativo la tutela della
proprietà degli immobili sia eguale alla tutela della proprietà dei
mobili » 182.
Si allude al principio fondamentale di cui agli artt. 707 e ss. C.C.
1865 e 1154 C.C. vigente. Non occorre sottolineare l’importanza
di codesto principio e la posizione che esso occupa nel nostro
sistema. Piuttosto le riflessioni che andiamo esponendo, ci
offrono un’altra occasione per mettere in rilievo il significato
profondo che nella nostra tradizione e nel nostro diritto positivo
ha il legame tra la proprietà e il possesso. Qui si vede come la
differenza di regime nella tutela possessoria delle cose mobili e
delle cose immobili, costituisce una delle ragioni a causa delle
quali si differenzia notevolmente il regime della proprietà
mobiliare da quella proprietà immobiliare. E ciò in armonia con
l’intrinseca organizzazione strutturale e la correlatività
funzionale dell’istituto del possesso che, mediante l’usucapione,
può tradursi in (acquisto della) proprietà (da parte di un
soggetto, con la perdita del precedente proprietario): e la
condizione dell’usucapione sta proprio nella tutela del
possessore (contro il proprietario). Il fulcro della proprietà
immobiliare è il suolo: primo immobile, e base della
immobilizzazione. Ed ecco che, passando dalla categoria più
vasta, a quella più ristretta, in virtù del particolare regime
giuridico specifico ad essa riservato, si parla di proprietà terriera
(o fondiaria in lato senso). Non è il caso di scendere in
particolari, e non ci vuol molto a rilevare le peculiari disposizioni
che si riferiscono alla proprietà del suolo. Assai più significativo
sarà rilevare che il Codice dedica addirittura un complesso di
disposizioni alla cosa immobile fondamentale, considerata nel
179
180
181
182
Nota
Nota
Nota
Nota
359[…].
360[…].
360 bis […].
361: Così incisivamente il Bruci, op. cit., n. 36, p. 445.
219
suo particolare genus, proprio sotto la rubrica : della proprietà
fondiaria (artt. 840 e ss.), con disposizioni generali, concernenti
più che i vari aspetti di essa, tutto il genus (sez. I). E il nuovo
Codice non ha fatto che perfezionare la sistematica esterna,
poiché si tratta di norme e princìpi tradizionali, adeguati, si
direbbe alla particolare natura delle cose.
Abbiamo detto che la proprietà terriera costituisce, pur nella sua
peculiarità, un genus. Ed anche ciò si può facilmente
comprendere, in base a rapide ricognizioni del nostro diritto
positivo. La sistematica del Codice ci consente addirittura di
procedere per le vie spicce. Infatti due sezioni del Capo dedicato
alla proprietà fondiaria si occupano: la V della proprietà edilizia,
la II della proprietà rurale. Quest’ultima è la più specifica e
caratteristica: la più importante e ricca di note particolari,
staremmo per dire; ricca di esperienze passate e di
presentimenti dell’avvenire. Ad essa, intanto, si collegano e si
riferiscono anche le disposizioni di cui alle sezioni III e IV,
relative, rispettivamente, alla bonifica integrale e ai vincoli
idrogeologici e alle difese fluviali. Le tre sezioni, e specialmente
la prima, che si intitola al «riordinamento» della proprietà rurale,
toccano soltanto i punti di intersezione di una serie di istituti,
che sono disciplinati dalla legislazione speciale, e quasi
costituiscono una specie di bilancio di codesta legislazione, alla
quale spesso rinviano: così che, con l’enunciazione di princìpi o
di regole generali completati da norme di rinvio, il Codice ha
predisposto l’intelaiatura o la cornice entro la quale vengono ad
adagiarsi e a comporsi i vari gruppi di norme speciali che
disciplinano i singoli istituti riferentisi alla proprietà rurale. Il
legislatore ha voluto in tal modo dichiarare che quei gruppi di
norme, anche se occasionalmente ispirati ad esigenze
particolari, non sono privi di legami tra loro, hanno anzi comuni
centri di gravitazione, presentano nessi, in base ai quali è
possibile costruire una superiore unità organica. Da codesta
unificazione sistematica, risulta determinata la fisionomia di
quella che si può dire, come si dice, proprietà rurale, o proprietà
fondiaria (avente per oggetto fondi rustici) in senso ristretto. Dal
profilo oggettivo specifico tale proprietà è caratterizzata,
appunto, dal fondo (rustico), il quale, come può dedursi dalle
disposizioni indicate, è preso in particolare considerazione e
sottoposto ad una disciplina particolare, per il fatto che è
suscettibile di coltura, cioè come possibile oggetto di quella
particolare attività produttiva che, perciò appunto si dice
agricoltura. Proprietà fondiaria (in senso stretto) è dunque lo
Stesso che proprietà agricola, cioè proprietà (del suolo in quanto
suscettibile di coltura e quindi in quanto base) dell’azienda
agricola. Si intuisce, dunque, la peculiare fisionomia che la
220
proprietà della cosa può assumere in virtù della combinazione
della sua destinazione e del legame con gli strumenti e le attività
a mezzo dei quali quella destinazione si attualizza e si realizza in
produzione agricola. E si coglie, nel tempo stesso, l’analogia con
quella che si dice proprietà commerciale o proprietà industriale,
cioè con quei concetti ugualmente complessi 183 nei quali si
insinua il riferimento oggettivo dell’azienda, col tacito e
immancabile riferimento (soggettivo) all’attività dell’imprenditore.
Sorgono, così, i concetti di azienda e di impresa, accanto a quelli
di proprietà : e il profilo oggettivo raggiunge il suo massimo
campo di visuale. Ma nel tempo stesso, proprio in virtù di questi
intrecci, il profilo soggettivo diviene nuovamente operante, ancor
più operante, anzi, e costituisce il centro di propulsione
dinamica che anima tutto il complesso: si impone la figura, la
posizione e l’attività del proprietario, del titolare dell’azienda,
dell’imprenditore.
[…]
III. Dal profilo statico al profilo dinamico
43. Altri aspetti caratteristici della proprietà si possono cogliere
distinguendo nello studio di tale istituto un profilo statico ed un
dinamico 184 . La distinzione assume vari atteggiamenti, che
saranno brevemente lumeggiati.
Anzitutto va considerata la proprietà, per se sola, come titolo di
acquisto di (altra) proprietà: cioè come condizione necessaria e
sufficiente per l’espansione o l’incremento, o, se si vuole, per
nuovo acquisto di proprietà.
Tipica è l’ipotesi normale dell’acquisto dei frutti naturali prove
provenienti dalla cosa, indipendentemente dal concorso
dell’opera dell’ uomo (art. 820), i quali, di regola, appartengono
al proprietario della cosa che li produce (art. 821). In questa
ipotesi unico presupposto e titolo per l’acquisto della proprietà
(dei frutti) è la qualità di proprietario, cioè la proprietà (della
cosa produttiva) 185 . La regola assume tutto il suo significato,
quando si tiene presente che la legge ammette la possibilità
dell’acquisto dei frutti a favore di persona diversa dal
proprietario (art. 821): per es. del possessore di buona fede (art.
Nota 362 […].
Nota 372: Le considerazioni che svolgeremo dimostrano, se non ci
inganniamo, la legittimità e l’utilità della scelta di un angolo visuale dal
quale la distinzione proposta comprende la proprietà e la disciplina dei
beni. Più ristretto è l’angolo visuale prescelto dal Finzi, Diritto di
proprietà etc., in Atti cit., N. 15, p. 169.
185 Nota 372 bis: Il significato del fenomeno non sfugge al Durkheim,
op. cit., pp. 175–176.
183
184
221
1148). Altre tipiche ipotesi si riscontrano in alcuni aspetti del
fenomeno dell’accessione, specie nell’alluvione (art. 941), dove sì
realizza un’espansione automatica della proprietà, in relazione al
materiale incremento della cosa.
Si tratta, però, di situazioni eccezionali. Di solito la cosa
produce frutti o incrementi per l’opera umana. La più produttiva
tra le cose è la terra, la quale dà suoi frutti e prodotti
spontaneamente, ma di essa, della terra, l’uomo civile vive, non
già soltanto raccogliendo i prodotti spontanei, ma fecondandola
colla sua opera. La naturale potenzialità produttiva della terra
diviene attuale produzione, per il lavoro dell’uomo. Col lavoro la
terra si umanizza, diviene spirituale possesso e proprietà
dell’uomo 186, non cosa, non natura, dominata dal caso o dalla
causalità, ma nutrice dell’uomo che la cura, la coltiva; entra
nella cerchia non solo degli interessi umani e dei motivi di
azione dell’uomo, bensì in quella dei fini e dei valori, diviene
base del consorzio umano, sede e culla della società degli
uomini, regolata dalle leggi del vivere sociale, dal diritto 187. La
proprietà della terra come cosa naturale produce, per impulso
meccanico, la proprietà del prodotto naturale o dell’incremento
casuale. Ma la proprietà della terra come cosa produttiva,
impegna l’attività dell’uomo e la sua responsabilità, e il
fenomeno supera non solo il dato naturale o l’evento accidentale,
ma addirittura i confini dell’individuo e interessa direttamente la
società.
I titoli si moltiplicano: non è solo la proprietà, nel suo aspetto
statico e nel suo profilo formale, che fa acquistare i frutti bensì,
con essa, ed anche senza di essa, il lavoro. Il proprietario che dà
il fondo in affitto, avrà diritto al canone, ma non ai prodotti del
suolo: la proprietà sarà per lui titolo per l’acquisto di frutti civili,
come corrispettivo del godimento altrui (art. 820 ult. cpv.),
consistente nella possibilità di fecondare il fondo col lavoro, e di
acquistare (il diritto di proprietà su) i prodotti di esso. Non solo il
proprietario, dunque, ma anche l’affittuario ha diritto ai prodotti
del fondo; cioè ha la possibilità garantita e protetta dal diritto di
lavorare il fondo, per trarne i prodotti, dei quali diverrà
proprietario.
Il tema dell’acquisto dei frutti, dunque, ha messo in evidenza
l’eccezionalità del profilo statico e la normalità di quello
dinamico.
In codesta normalità si può e si deve riscontrare un
Nota 373: Capograssi, Agricoltura, diritto, proprietà, loc cit., pp. 250
e ss., pp. 274 e ss., passim.
187 Nota
374: La differenza di atteggiamento si può cogliere
nell’opposizione kelseniana tra «natura» e« società » (Kelsen, Society
and nature, Chicago 1943, passim).
186
222
impulso etico-sociale, una doverosità 188 per cui il profilo statico
diviene addirittura anormale in quanto rende vano
quell’impulso. La libertà di azione, qui, è in un certo senso
impegnata, almeno finché si tien conto, come si deve, delle radici
concrete del fenomeno, a cominciare da quella elementare
esigenza economica, che si può anche confinare nella sfera
individuale. La libertà del proprietario si può, in astratto,
concepire come assoluta; ma in concreto, anche se non
esistessero giuridiche, non mancano quelle economiche. Ma
quando si tratta della terra, l’interesse (economico) del singolo si
trova ad essere sollecitato da quello della società, e gli impulsi,
dunque, divengono etici e sociali, al punto che finiscono
coll’improntare di sé le norme giuridiche.
44. Il trapasso dal profilo statico, che appare compatibile colla
inerzia del proprietario, a quello dinamico, che reclama l’attività
e il
lavoro, si coglie dunque in modo particolare in rapporto
alla terra. La proprietà terriera, la proprietà rustica, la proprietà
del suolo produttivo, si associa al lavoro. Il connubio è
spontaneo, si direbbe naturale 189 (meglio si dirà umano): pur se
al tecnico del diritto offre difficoltà costruttive. Tanto più intima
è la sintesi, infatti, tanto più difficile è l’analisi.
Comunque, codeste difficoltà non eliminano il dato obbiettivo,
che l’esperienza ha acquisito e preso nella dovuta
considerazione. E il problema è sorto quasi inavvertitamente,
da quando si è cominciato a parlare (ed ormai comunemente si
parla) di proprietà produttrice 190 , e si pone la proprietà a
contatto con l’impresa e in primo piano si colloca la figura
dell’imprenditore, che diviene assorbente rispetto alla qualità di
proprietario.
Ben s’intende gli accostamenti verbali non sono vere sintesi
concettuali, ma alla soluzione del problema non basta codesto
rilievo negativo, poiché non si tratta di avvicinamenti casuali né
arbitrari, e si richiede un’accurata analisi, per la piena
comprensione del fenomeno. Intanto il fenomeno produttivo, con
l’impresa che lo organizza l’imprenditore che lo anima, si impone
all’attenzione dello studioso, e non si lascia, solo per il fatto che
si presenta prevalentemente come problema (« economico», porre
Nota 375: «L’esercizio del diritto trova il suo titolo e le sue condizioni
nell’adempimento dei doveri, che ad esso si collegano»: così scriveva
già, molti anni or sono, il Cimbali, La nuova fase del diritto civile, III
ed., Torino 1985, n. 147, p. 190.
189 Nota 376 : «il lavoro, com’è la causa costitutrice del diritto di
proprietà … ne è pure la misura» (Cimbali, op. ult. cit., n. 146, p. 190).
190 Nota 377: Spostando la sua mira dall’oggetto al soggetto, il Finzi,
op. e loco ultt. citt., n. 17, p. 171 addita come peculiare argomento di
studio «la figura del proprietario-produttore».
188
223
ai margini del diritto 191 . Tale problema ha i suoi innegabili
riflessi sul piano giuridico e, specie in rapporto alla proprietà
terriera, l’esperienza giuridica concreta gravita verso la
combinazione del profilo statico (proprietà) con quello dinamico
(produzione). Acquista, nel diritto positivo, valore giuridico
l’organizzazione e l’attività che la muove, e «il riferimento
normativo si opera verso una serie di enti la cui ragion d’essere
finalità è collegata: dall’individuo alle aziende di produzione, alle
cooperative, ai consorzi, agli ammassi, alle organizzazioni
sindacali e così via» 192. L’unità del fenomeno produttivo si profila
nettamente e rivela il suo significato giuridico. Al diritto non è
indifferente il fenomeno organizzativo, che vincola, se non
assorbe, la proprietà e l’attività del proprietario. «Penetrando
l’organizzazione giuridica nell’ambito in precedenza riservato
all’individuo, avviene che il riferimento normativo si porta anche
sugli organi in una guisa che la vecchia dogmatica non può
ritenere » 193. Eppure codesta dogmatica ha posto sulla bilancia
tutto il suo peso, impiegando strenuamente lo schema
tradizionale della proprietà. Altro è la proprietà — si è detto —
altro la produzione, anche se il ciclo produttivo incide la
proprietà delle materie prime e degli strumenti.
A titolo di proprietà o di altro diritto vengono tutelati «gli
interessi di coloro che immettono nel processo produttivo dati
beni materiali di cui mantengono la titolarità sia come strumenti
della produzione sia come materie prime da trasformare» 194. La
produzione come fenomeno economico e l’impresa come
organismo produttivo, involgono la proprietà, ma — si dice —
questa non perde la sua individualità. Nel contempo si afferma
che, durante il processo produttivo, la proprietà sulla cosa in via
di trasformazione diviene virtuale 195 . E si passa così dall’uno
all’altro eccesso, poiché l’interesse proprietario della materia in
trasformazione è sempre ed in atto protetto a titolo di
proprietà196. Piuttosto bisogna mettere in giusta luce il fenomeno
della trasformazione in prodotto finito della materia altrui, nel
quale l’attività produttiva, per virtù propria e del suo
svolgimento, diviene modo di acquisto della proprietà (art. 940).
Nota 378: Maiorca, Premesse cit. in Jus, II (1941), p. 82.
Nota 379: 379 Maiorca, La terra, in Atti del Secondo Congresso Naz.
Di Dir. Agr., Roma 1939, p.185.
193 Nota 380: Maiorca, La terra, ivi, p. 185. Sull’importanza e sul
particolare
valore
giuridico
dell’organizzazione
come
fattore
determinante del concetto di impresa in generale e di impresa agricola
in particolare, Cfr. Cesarini – Sforza, Sui caratteri differenziali
dell’impresa agricola, in Riv. di dir. agrario, 1944 – 47, pp. 29 e ss.
191
192
194
195
196
Nota 381: Maiorca, Premesse, loco cit., p. 83.
Nota 382: Ceratini-Sforza, Proprietà e impresa, loco cit., p. 373.
Nota 383: Maiorca, ivi, pp. 83 – 84.
224
E qui veramente si può affermare che, da un punto di vista
tecnico giuridico, «la posizione dell’imprenditore viene a
soppiantare quella del proprietario» 197.
45. Ma il fenomeno presenta altri e più imponenti aspetti.
L’attività produttiva del proprietario (specie di fondi rustici)
acquista rilevanza, a preferenza del semplice titolo formale, nelle
ipotesi considerate dall’art. 838 c.c., quando, cioè, il proprietario
abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni
che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere
gravemente alle esigenze della produzione stessa. La legge
prevede, come sanzione, l’espropriazione. E non è l’unico caso in
cui l’espropriazione funge da stimolo dell’attività del proprietario
e da sanzione, se il proprietario rimane inerte: insomma, da
elemento rafforzativo di un obbligo di agire imposto al privato
proprietario (si vedano, in tal senso, l’art. 79 del R.D. 13 febbraio
1933 n. 215) 385. L’espropriazione in questa ipotesi non è il
risultato del concreto esercizio di un potere generale dello Stato,
subordinato all’accertamento della specifica utilità (o necessità)
pubblica, ma piuttosto la realizzazione di una condizione
risolutiva della proprietà, la cui fattispecie complessa comprende
l’atto espropriativo, col relativo trasferimento (coattivo) ad altro
soggetto. Sotto questo profilo, pur con le dovute cautele, si può
parlare di proprietà risolubile.
[…]
48. Indubbiamente il segno delle trasformazioni della proprietà
in atto e di quelle in via di prevedibile attuazione, del difficile ed
instabile equilibrio tra le idee tradizionali e gli impulsi evolutivi,
della crisi, insomma, dell’istituto, è costituito dalla formula
descrittiva, al massimo grado generica e non poco ambigua, con
la quale si dice che la proprietà ha (o è) una funzione sociale 198.
Essa acquista valore di emblema, senza perdere nessuna delle
caratteristiche additate, quando si condensa, si stilizza e si
presenta quasi come una definizione abbreviata di un
atteggiamento dell’istituto che non è additato come particolare, e
meno ancora come eccezionale, ma anzi come l’atteggiamento
tipico della situazione più importante di proprietà: la proprietà
fondiaria. Con duplice sottinteso: che la proprietà fondiaria
rappresenta la proprietà per eccellenza; e che essa presenta
Nota 384: Maiorca, p. 84.
Nota 396: Già nella seconda versione, che è indubbiamente più
progredita, la formula veniva adoperata, da qualche scrittore nostro,
alla fine del secolo scorso. Così Cimbali, op. ult. cit., n. 46, p. 189:
«La proprietà, oltreché diritto e più che semplice diritto individuale, è
altissima funzione sociale ».
197
198
225
quella particolare fisionomia che la formula « proprietà-funzione»
avrebbe la pretesa di definire, sintetizzando l’esperienza
economica sociale e giuridica del nostro tempo, e preparandone
l’evoluzione avvenire. Insomma si vuol dire che l’istituto della
proprietà trova oggi la sua incarnazione essenziale nella
proprietà fondiaria, essenzialmente proprietà di beni produttivi
(e non di semplici beni di consumo), e la proprietà fondiaria si
caratterizza come proprietà-funzione.
Senza dubbio la formula descrive prevalentemente l’aspetto
economico-sociale dell’istituto, e spesso chi l’adopera non si
preoccupa di determinarne la portata giuridica 199. D’altra parte,
non si soddisfano le concrete istanze di una realtà che si impone
al sociologo, all’economista, al legislatore, e davanti alla quale,
quindi, il giurista non può rimanere indifferente, ove ci si limiti
ad osservare che la formula in esame, mescolando insieme
interesse pubblico e interesse privato, rappresenta un regresso
tecnico nel campo dei concetti scientifici 200 . È troppo ovvia la
risposta, che può venire dal campo della politica sociale : il
progresso non può fermarsi di fronte alle preoccupazioni della
tecnica giuridica, la quale, piuttosto, deve provvedere ad
adattare gli schemi concettuali agli istituti positivi 201. La tecnica
giuridica, però, ha il diritto e il dovere di procedere con ogni
cautela e di mettere in moto tutti i suoi strumenti di controllo
dell’uso di codesta formula, e i limiti entro i quali tale uso possa
ritenersi opportuno.
Vigente il Codice Civile del 1865, era abbastanza facile
proscrivere la formula «proprietà-funzione» dal linguaggio
tecnico. Ma durante l’elaborazione dei progetti del Libro della
Proprietà del Codice nuovo, si prospettò la possibilità di inserire
la formula stessa in seno alla definizione legale della proprietà.
Furono sollevate non poche obbiezioni, nelle quali si
rispecchiavano non soltanto i diversi punti di vista, ma anche le
preoccupazioni degli interlocutori, e la discussione fu piuttosto
vivace e poco ordinata. Non molti la mantennero sul piano
tecnico; tuttavia si pervenne a fare rilevare che l’innesto di
quella formula in seno alla definizione legale della proprietà, se
la formula doveva assumere un significato preciso e specifico e
la definizione doveva avere funzione normativa, poteva produrre
come conseguenza la più radicale trasformazione della natura
della proprietà: da diritto soggettivo a interesse legittimo 202.
La formula, però, non fu inserita nel testo legislativo. E poiché
continuava a circolare, potè essere adoperata a designare un
199
200
201
202
Nota
Nota
Nota
Nota
397 […].
398 […].
399 […].
400: Pugliatti, Istituzioni, V, pp. 172 e ss.
226
aspetto particolare della proprietà fondiaria: la proprietà onerata
da obblighi. Mentre veniva designata come «proprietà
funzionale», la proprietà di beni adibiti all’adempimento di una
funzione pubblica (beni demaniali) 203. I due aspetti dell’istituto
venivano distinti in modo da non rompere l’equilibrio tra idee
ricevute ed esigenze moderne e da evitare che il concetto
tradizionale di proprietà entrasse decisamente in crisi. Si
attribuiva alla «funzione» una operatività in seno allo stesso
diritto, rispetto a quella proprietà che veniva denominata perciò
funzionale, e cioè ad un aspetto tradizionale e di comune
esperienza: la proprietà demaniale; mentre quanto all’aspetto
più moderno, si faceva operare la funzione dall’esterno: al
proprietario spetta sempre la signoria sulla cosa, ma egli, in
quanto tale, assume obblighi verso lo Stato, sicché alla
situazione soggettiva reale, si lega, in un determinato punto, un
rapporto di natura personale 204.
Restava, però in ombra la viva e palpitante fenomenologia che
l’uso comune di quella formula voleva designare, e cioè quel
complesso di esigenze che richiedono soddisfazione e quella serie
di disposizioni speciali nelle quali esse, sia pure parzialmente,
erano state soddisfatte. Era, dunque, facile rilevare che
l’attribuzione di un significato del tutto particolare alla detta
formula era quanto meno discutibile 205.
Intanto essa ha trovato la sua consacrazione in un testo di legge
fondamentale: l’art. 42 della Costituzione. Si afferma qui il
riconoscimento e la garanzia della « proprietà privata » ad opera
della legge, cioè si affida alla legge il compito (e si riconosce il
potere) « di stabilire le norme generali sul riconoscimento e sulle
garanzie dell’istituto»; sicché la Costituzione riserva alle leggi
ordinarie la funzione « di regolare la materia stabilendo fin dove,
fin quando e in quali limiti vi debba essere, e in che modo debba
esistere, la proprietà» 206. Correlativamente è riservata alle leggi
ordinarie la determinazione dei modi di acquisto e di godimento,
nonché dei limiti della proprietà privata. E a questo punto si
enuncia un duplice fine : « di assicurarne la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti». Anche la seconda è una finalità di
ordine sociale: la generalizzazione o diffusione della proprietà,
non già come astratta possibilità giuridica, bensì come concreta
attuazione economica, tende, per un aspetto di rilevante portata,
ad attuare il principio della «pari dignità sociale» dei cittadini,
posto dall’art. 3 della Costituzione. Questa finalità, per quanto
generica, è univoca. Viceversa la prima è poliedrica e si direbbe
Nota 401 […].
Nota 402 […].
205 Nota 403: Barassi, Proprietà cit., p. 454, nota 218.
206 Nota 404: Esposito, Note esegetiche sull’art. 44 della Costituzione, in
Riv. di dir. agr., XXVIII (1949), I, p. 158.
203
204
227
addirittura indeterminata: tanti sono gli aspetti sotto i quali può
concretarsi una funzione sociale, la quale avrà non solo varia
rilevanza specifica, ma potrà avere rilevanza in funzione
dell’importanza che l’elemento sociale acquista in un
determinato momento agli occhi del legislatore (ordinario).
Non si può dire, tuttavia, che ciò che si indica con l’espressione
«funzione sociale» resta, pel momento, privo di portata pratica,
sostenendo che la norma costituzionale sia di natura
programmatica. Il principio della massima attuazione della
Costituzione 207 , impone che si attribuisca anche a codesta
norma una efficacia normativa in atto, e non è difficile
identificare la portata normativa della regola citata, proprio in
base alla concreta esperienza del diritto vigente. Essa, intanto,
costituisce il cemento, l’idea unificatrice, il principio sistematico
organizzatore che come tale supera l’episodio, scioglie i limiti
della disposizione eccezionale, pone i nessi tra le disposizioni
particolari e colma lacune, rispetto a tutte le norme nelle quali si
può vedere una concreta e specifica attuazione di esigenze di
carattere sociale a mezzo del diritto di proprietà.
Correlativamente, costituisce non solo un’attribuzione di poteri
al legislatore ordinario, in base alla quale si potranno ritenere
conformi alla Costituzione tutte le norme che tendano
all’attuazione della funzione sociale, bensì l’imposizione di un
obbligo di produrre leggi, per il conseguimento di quello scopo.
Di modo che di funzione sociale della proprietà si può ora
parlare, sia in relazione alle norme speciali che la realizzano
sotto aspetti particolari, che vanno coordinati in un quadro
generale; sia in relazione alla tendenza, non più in fatto, bensì in
diritto, del nostro ordinamento giuridico, a polarizzare la
proprietà verso la realizzazione di finalità sociali. Sotto il primo
profilo si può dire che la proprietà ha non soltanto specifiche e
particolari funzioni sociali, bensì, in complesso, una funzione
sociale, che comprende tutti codesti aspetti particolari ed è
capace di accogliere quegli altri che in concreto verranno
realizzati. Sotto il secondo, si può dire che la proprietà (se già
non è tuttavia) si avvia ad essere (strumento di realizzazione di
una complessa e poliedrica) funzione sociale, e che l’impulso a
tale radicale trasformazione della sua struttura e della sua
natura, opera già dal cuore del nostro ordinamento giuridico e
come forza giuridica in atto 208 . E ben comprensibile che la
Nota 405: Pugliatti, La retribuzione sufficiente e le norme della
Costituzione, in Riv. giur. del lavoro, I (1949-50), pp. 189-190.
208 Nota 406: Il Finzi, op. e loco citt., n. 16, p. 170 (ma in relazione ad
uno stadio meno evoluto del diritto positivo), attribuiva alla « pressione
politica » esclusivamente, la tendenza ad « indurre i proprietari a farsi o
a restare imprenditori, produttori ». A noi pare di aver dimostrato che
207
228
trasformazione si realizzerà in virtù delle leggi che saranno
emanate, ma la crisi è in via di svolgimento. E in relazione ad
essa acquistano importanza e significato le trasformazioni
particolari, così che il primo aspetto finisce coll’abbinarsi al
secondo.
49. La tradizione conosceva e tramandava un problema di
«limiti» della proprietà terriera, che poneva il dualismo tra un
contenuto dato a priori nella sua organica compattezza e
particolari riduzioni di codesto contenuto. Quando si parla di
contenuto «normale» della proprietà 209, da un lato si supera lo
scoglio della determinazione aprioristica, e dall’altro si dà adito
al riferimento ad una « regola ». Tale regola non può promanare
se non dall’ordinamento giuridico, e allora persiste il dualismo
tra codesta regola determinatrice del contenuto, come prius, e le
norme particolari dalle quali derivano, come posterius, le singole
limitazioni.
Queste,
per
posizione
logica,
assunsero
originariamente carattere negativo, e potevano mantenere tale
carattere finché si prospettò il problema in termini oggettivi 210:
la proprietà, come istituto, e i limiti (alla proprietà); ma quando,
in relazione a certe determinazioni del diritto positivo, non fu
sufficiente la considerazione obbiettiva, che lasciava in ombra la
posizione del soggetto proprietario, e consentiva di non
preoccuparsi eccessivamente del soggetto o dei soggetti, a
beneficio dei quali operava il limite; quando cioè si dovette
prendere in esame la sfera di libertà del proprietario, ci si avvide
dell’insufficienza della precedente elaborazione dottrinale.
Bastava che fossero individuati, nel diritto positivo, vincoli
attinenti all’attività del proprietario, perché tale insufficienza
risultasse immediatamente. Ed anche se, da prima, si potè
affermare che codesti vincoli non erano incondizionati, che
avevano carattere strumentale, che insomma, appartenevano
alla categoria degli oneri, la prospettiva era già cambiata. Il
mutamento di visuale
si impose più decisamente, quando si
lasciarono scoprire nel diritto positivo obblighi veri e propri
gravanti sul proprietario.
Gli espedienti tecnici non eliminavano, e forse complicavano il
problema : così, quando si diceva che l’obbligo si collocava nella
cornice di un rapporto personale, connesso alla situazione
soggettiva reale 211; o quando si diceva che l’obbligo concerneva
l’impresa e non la proprietà 212 . Rimaneva sempre un dato
tale tendenza si rende visibile ormai nel campo delle realizzazioni
giuridiche.
209 Nota 407: Barassi, Proprietà cit., spec. nn. 104 e ss., pp. 461 e ss.
210 Nota 408 […].
211 Nota 409 […].
212 Nota 410 […].
229
obbiettivo, ineliminabile: il proprietario stava al centro delle due
situazioni soggettive, cioè rivestiva la qualità d’imprenditore.
Diritto ed obbligo del proprietario, o del proprietarioimprenditore
venivano
a
contatto,
si
influenzavano
reciprocamente. Ne nasceva una entità (non più semplice, ma)
complessa, che voleva essere definita proprio in funzione di
codesta struttura, la quale non poteva essere scissa nei suoi
componenti, se non per via di astrazione intellettualistica, che
mai avrebbe consentito un’elaborazione concettuale adeguata al
dato obbiettivo e reale.
Si guardi, ora, sotto questa luce particolare l’art. 44 della
Costituzione, che si riferisce specificamente alla proprietà
terriera: vi si parla di «limiti», ma anche e prima di «obblighi» e di
«vincoli» ; e dunque il dato già acquisito da esperienze
particolari, è assunto in un ambito normativo generale, è posto
su un piano sistematico. Anche qui la sistematica è vivificata dal
termine teleologico: alla legge (ordinaria) la Costituzione riserva
il compito e attribuisce il potere di imporre (l’uso di codesta voce
verbale è particolarmente significativo) obblighi e vincoli alla
proprietà terriera e di fissarne i limiti di estensione, sotto il
segno di determinate finalità sociali : «conseguire il razionale
sfruttamento del suolo» e «stabilire equi rapporti sociali».
Certo non si tratta di formule a contenuto determinato e
specifico, ma anche se esse hanno contenuto generico, o persino
indeterminato, costituiscono linee di orientamento, che
manifestano tutto il loro valore quando si riaffermi la necessità
di assegnare alla norma costituzionale il duplice carattere di
norma costitutiva di princìpi sistematici 213, e norma che impone
al legislatore ordinario di legiferare per l’attuazione dei fini da
essa prefissati. Non può esservi difficoltà ad applicare alla
proprietà terriera, sotto il segno di codesta norma, la formula
«proprietà-funzione» : l’art. 44 e l’art. 42 della Costituzione sono
strettamente legati tra loro.
50. Il nucleo interno del diritto di proprietà è ormai aperto alle
influenze trasformatrici. La struttura stessa del diritto viene ad
es seme intaccata, e muta la natura di esso. Gli esempi
particolari si potrebbero moltiplicare agevolmente: ma conviene
limitarsi soltanto alle situazioni tipiche. Può ancora rendere
qualche utile servizio la formula «proprietà-funzione», proprio
per il fatto che in essa vengono a gravitare le resistenze dei
prudentissimi. Questi ultimi hanno accolto la formula, ma come
Nota 411: Non è necessario neppure insistere troppo per mettere in
rilievo il valore sistematico dei riferimenti contenuti in codesta norma
alla bonifica, alla trasformazione del latifondo, alla ricostituzione delle
unità produttive, alla piccola e media proprietà. Si è compiuto un altro
passo, rispetto a quello già compiuto dagli artt. 840 e ss. del Codice
Civ. vigente, in relazione al Codice del 1865.
213
230
ragione di compromesso, quasi potesse essa medesima porsi, ad
un certo punto, come ostacolo insormontabile. Si è parlato di
funzione sociale impulsiva, in un senso piuttosto paradossale,
poiché l’aggettivo appare carico di energie evolutive capaci di
porre in crisi l’istituto della proprietà, e invece viene adoperato
per esprimere la subordinazione del momento sociale, e quindi
della funzione sociale, al momento individuale, alla iniziativa
privata 214 , che dovrebbe costituire sempre il baluardo
insuperabile e l’invincibile roccaforte in cui l’istituto della
proprietà si è rinserrato, ponendosi al coperto da qualsiasi
attacco. La posizione prescelta consente di acquietare due
preoccupazioni : che la proprietà possa dirsi, essa medesima.
Una funzione (essa — si dice — ha una funzione sociale, e
persino generica e indeterminata) 215 ; e che la proprietà possa
definirsi un diritto-dovere 216 (essa, al massimo subisce
dall’esterno l’impulso
di particolari doveri). Ma si parla,
correlativamente, anche di funzione sociale-limite 217 , con una
formula che indica chiaramente l’operatività esterna della
funzione rispetto alla struttura dell’istituto. Inoltre, suddivisa in
due rami, codesta funzione perde gran parte del suo mordente.
Del resto, si è visto a che cosa si riduce la funzione impulsiva; la
funzione-limite,
poi,
si
può
fare
rientrare,
almeno
concettualmente, nella tradizione, che conosce la teoria dei limiti
della proprietà, ed ha persino approntata da tempo
immemorabile la riserva della indeterminatezza di tali limiti, sia
nella loro quantità, che in astratto può crescere indefinitamente,
sia per il loro contenuto specifico, che in astratto può essere il
più svariato. Così, con un procedimento tipico della tecnica
giuridica, la quale elabora concetti a contenuto variabile, perché
ha da fare con una realtà che non può essere guardata solo dal
punto di vista statico 218 , la valvola sistematica è pronta, e il
tecnico, di fronte ad una realtà sociale del tutto nuova e ad una
legislazione intesa a soddisfare nuovissime esigenze, può (fingere
di) ritenere che il suo quadro concettuale è rimasto, può
rimanere immutato, senza il minimo ritocco.
Tuttavia vi sono mete e svolte che non consentono tale
distaccata sicurezza: e ciò, sia che si faccia riferimento alla
funzione sociale impulsiva, sia che si faccia riferimento alla
funzione sociale limite.
214
ss.
215
216
217
218
Nota 412: È la nota tesi del Barassi, op. cit., nn. 74 e ss., pp. 265 e
Nota
Nota
Nota
Nota
413
414
415
416
[…].
[…].
[…].
[…].
231
51.
Quanto alla cd. funzione impulsiva, conviene prendere in
considerazione la legislazione sulle terre incolte 219 . Sarà facile
prospettare la situazione della proprietà terriera come risultante
dalla rilevanza specifica che la legge attribuisce a codesta
funzione impulsiva; e altrettanto facile appigliarsi alla
descrizione, che diremo conservatrice, di essa. Al centro sta
l’istituto della proprietà, animato dall’iniziativa privata, garantita
e libera (art. 41 Cost.). Dall’esterno preme non già un dovere,
bensì un onere di coltivazione. L’equilibrio, cosi, è mantenuto, e
non ci si allontana molto dagli schemi tradizionali.
Ma il fenomeno è visto in superficie, poiché non si tiene conto
della interferenza dei poteri che competono alla pubblica
Amministrazione, per la realizzazione di un pubblico interesse
specifico, poteri che possono sovrapporsi al diritto del
proprietario e prevalere sull’iniziativa privata. Il diritto di
proprietà, così viene a trovarsi di fronte al potere discrezionale
della P.A., al quale la legge assicura la prevalenza; la libertà si
trova di fronte all’autorità incombente. E in questa particolare
situazione, che praticamente ha una portata di carattere
generale, il diritto (soggettivo) del proprietario (il diritto reale
fondamentale, indipendente, assoluto della tradizione) degrada a
interesse legittimo o diritto affievolito 220. Una trasformazione più
radicale, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico e della
nostra tradizione anche dottrinale, non si potrebbe immaginare.
Ed è vano cercare di velare la realtà o addirittura di svisarla.
Il tentativo più spinto ed acuto di difesa dell’integrità del diritto
di proprietà, fa leva sul fulcro della nozione di discrezionalità.
Discrezionalità «nel significato dato oggi al termine dalla
dottrina», si ha quando « i dati tecnici siano da valutare in
relazione ai pubblici bisogni ». Ma la valutazione dello stato delle
colture ha come termine di riferimento la possibilità di praticare
« colture e metodi colturali pili attivi ed intensivi, in relazione
anche alle necessità della produzione agricola nazionale » (art. i
D.L.C.P.S. 6 settembre 1946, n. 89 che modifica l’art, 1 del
D.L.L. 19 ottobre 1944, n. 279). Quindi si può ritenere che l’atto
amministrativo «non si propone di provvedere alla pubblica
economia agricola, ma solo di attuare la norma di legge che
impone l’adeguato sfruttamento dei terreni » 221.
Nota 417 […].
Nota 418: Landi, Diritti ed interessi nella concessione di terre incolte
ai contadini, in Riv. di diritto agrario, 1944-47, pp. 139 e s.; Rassegna
di giurisprudenza agraria etc., in Riv. di dir. agr., XXIX (1951), II, n. 38,
pp. 165 e s.; Vitta, Principi fondamentali sulla concessione di terre
incolte ai contadini, in Riv. Di dir. agr., XXX (1952), I, n. 6, pp. 19 e s.
221 Nota 419: U. Miele, Sulle Commissioni per l’assegnazione delle terre
incolte ai contadini, in Giur. Compl., della Corte Sup. di Cass., 1948, III,
p. 970.
219
220
232
Potrebbe a prima vista apparire strano che la P.A. avendo i
compito di attuare la norma legale che propone l’adeguato
sfruttamento dei terreni, quando adempia a questo compito, non
provveda
alla
pubblica
economia
agraria.
L’adeguato
sfruttamento dei terreni, dunque, non rientra nell’ambito della
pubblica economia agraria.
Ma si tratta di altro. Qui si vuol dire che la P.A. non compie un
atto che possa dirsi discrezionale 222, perché esso non trae la sua
legittimità da un potere di valutazione immediata del dato e
dell’esigenza economica; bensì un atto vincolato, perché trae la
sua legittimità dall’attuazione della norma legale che impone
l’adeguato sfruttamento dei terreni. Ma codesta costruzione che
vuole essere puramente tecnica, non è fedele alle esigenze di un
rigore tecnico adeguato.
Non discutiamo — e potremmo farlo — la formula definitoria
della discrezionalità. Dobbiamo, però, rilevare che, qualunque
sia la formula adottata, nello stato di diritto, la discrezionalità
non è libera da qualsiasi contatto colla legge. La stessa
concessione del potere discrezionale deve discendere dalla legge,
la quale dovrà delimitare la sfera nella quale il potere si
eserciterà legittimamente. L’attività dell’amministrazione sarà
vincolata, quando in essa la norma potrà dirsi immediatamente
attuata, quando l’atto sarà libero nella decisione, ma non nella
valutazione di quella medesima esigenza che la legge vuole
realizzata. Ora nella situazione di cui ci occupiamo
l’amministrazione ha il potere di valutare le necessità della
produzione agricola nazionale, e di subordinare al risultato di
tale valutazione l’atto (amministrativo) di concessione. Tra
l’attuazione della legge, dunque, e l’emanazione dell’atto, si
interpone la valutazione dell’amministrazione, che non si può
davvero considerare come vincolata. Basterebbe l’ampiezza della
sfera valutativa, in relazione all’indeterminazione della norma
legale 223 , per offrire un indice abbastanza attendibile della
discrezionalità di detto potere.
Ma anche se lo schermo formale potesse valere, anche se, in tesi
puramente
teorica,
si
potesse
considerare
l’attività
dell’amministrazione come vincolata, anziché discrezionale, si
avrebbe soltanto la soddisfazione, piuttosto modesta, di poter
continuare ad affermare che, pure sotto il profilo considerato, la
proprietà dà luogo ad un diritto soggettivo. Senonché codesto
diritto soggettivo, non avrebbe la possibilità che esso ha
normalmente
di
sottrarsi
al
potere
della
pubblica
amministrazione: cioè si comporterebbe come un interesse
222
223
Nota 420 […].
Nota 421 […].
233
legittimo. Tutto quello che si può, in extremis, salvare è… una
formula ficta!
Dobbiamo ancora chiarire un punto sull’argomento di cui ci
stiamo occupando. È stato ritenuto che, in virtù delle norme in
esame, il diritto di proprietà degrada a interesse legittimo,
quando viene emesso l’atto di concessione 224 . La tesi non ci
sembra del tutto corretta. Noi riteniamo che la trasformazione si
operi nel momento in cui si concretano le condizioni obbiettive
dalle quali si può desumere che il terreno è incolto o mal
coltivato. In quel momento diviene virtualmente operativo il
potere discrezionale della P.A., che si esercita in atto, appena
venga proposta l’istanza di assegnazione. I terreni incolti o mal
coltivati sono cose rispetto ai quali il diritto di proprietà vive
nell’orbita del potere discrezionale della P.A.; si può dire quindi
che la proprietà dei terreni incolti o mal coltivati sia (non già un
diritto soggettivo, ma) un interesse legittimo.
52. I limiti che si sono venuti accumulando, specie relativamente
alla proprietà terriera, rappresentano, singolarmente e nel loro
complesso, le istanze più vive ed immediate dell’interesse
collettivo rispetto alla terra. Anzi proprio l’interferenza di codesto
interesse
con quello (individuale) del proprietario, che tanto
viene sacrificato quanto l’interesse collettivo è protetto, ha
suggerito il concetto di «limite», come espediente tecnico che,
esprimendo le idee accessorie di esteriorità, eccezionalità e
specificità, poteva consentire di mantenere in vita il concetto
individualistico della proprietà, nel suo «contenuto normale» 225.
E a ben guardare, qualunque fosse la natura, l’estensione e il
modo di protezione degli atteggiamenti specifici dell’interesse
collettivo, vi era sempre la possibilità di utilizzazione del docile
strumento : il concetto stesso di limite, per la sua struttura, che
ne consente facilmente lo spostamento, e per la sua peculiare
funzione, sostanzialmente negativa, era suscettibile di
estensione quasi…illimitata. Vi era, inoltre, la possibilità di
considerare isolatamente ognuna di codeste limitazioni. Così
dalla cooperazione armonica di un procedimento atomistico e di
uno strumento docile, pieghevole ed estensibile, nasceva un
criterio sistematico applicabile quasi meccanicamente ad ogni
nuovo episodio di inserzione degli interessi collettivi nell’ambito
della proprietà. Naturalmente alle sistemazioni che ne derivano
sfuggiva tutta la ricchezza e l’attualità di ogni riforma, di ogni
svolgimento, di ogni nuova funzione dell’istituto: e ad un certo
punto ci si dovette accorgere che, sotto la mole enorme di
limitazioni, il nucleo originario della proprietà, intesa in senso
224
225
Nota 422[…].
Nota 423 […].
234
tradizionale, era scomparso, e rischiava di rimanere soffocato;
che la quantità di codeste limitazioni, di contenuto
svariatissimo, era tale da impedire che si scorgessero le linee che
ne caratterizzavano la tradizionale fisionomia. La proprietà,
secondo il modello che ci si ostinava a mantenere in vita,
coll’apparente protezione dello schermo del limite, era morta ed
era stata sepolta, senza cerimonie e senza onori. Per il fatto
semplicissimo che il preteso schermo protettivo, ad un certo
punto, aveva spiegato soltanto la funzione di impedire che si
avesse gradualmente la precisa visione delle trasformazioni che
si operavano nell’interno dell’istituto. Se ci si fosse abituati in
tempo a considerare tali trasformazioni, non ci sarebbero state
sorprese; e infine non ci sarebbe stato il troppo brusco risveglio
di fronte ad una realtà che, apparendo completamente diversa
da quella alla quale si era rimasti attaccati, doveva
necessariamente far pensare al tramonto della proprietà, alla
morte, e non già alla sua persistente vitalità, reale nell’unico
modo in cui può esserlo, e cioè al passo colla realtà storicosociale nel suo divenire perenne.
A tempo, sopra tutto, ci si sarebbe accorti che le riserve del
concetto di limite si andavano esaurendo, e il tentativo di
utilizzare tale concetto oltre l’ambito di codeste risorse, non
poteva non dare luogo ad illusioni, ad equivoci, a deformazioni.
Questo capitolo di storia della evoluzione dei concetti giuridici
non richiede, e specialmente ai fini del presente lavoro, uno
svolgimento particolareggiato; ma neppure si poteva fare a meno
di un semplice accenno.
[…]
IV. – Considerazioni finali
57.
Il nostro giro di orizzonte ci ha consentito di constatare
che entro la cornice di quell’istituto (o complesso di istituti) che
si indica col termine proprietà, si raccolgono situazioni assai
differenti, sotto diversi punti di vista.
Dal profilo soggettivo si è visto che la proprietà solitaria di tipo
romanistico, alla quale si accompagnava il condominio del
medesimo tipo, ha ceduto parte del suo territorio non solo alla
comunione di tipo germanico, ma addirittura alla proprietà
collettiva.
Dal profilo oggettivo si è visto che la proprietà dei beni di
maggiore importanza sociale: immobili e mobili registrati, suolo,
terra coltivabile, ha segnato la progressiva e crescente invasione
della sfera privatistica da parte di quella pubblicistica. Si è pure
registrata la progressiva prevalenza del profilo dinamico su
235
quello statico, nella disciplina della proprietà passando dai beni
di consumo personale a quelli destinati alla produzione, e
specialmente al suolo coltivabile.
E si è avuto agio di registrare i contatti e le reciproche reazioni
tra proprietà e impresa, proprietà e lavoro, proprietà e contratto.
L’esame di codesti profili ci ha permesso di censire particolari
situazioni alle quali si adattano formule particolari: proprietà
funzionale, proprietà funzione, proprietà risolubile, proprietà
formale. Proprietà condizionata, proprietà fiduciaria, e così via
dicendo. Si è persino riscontrata qualche ipotesi in cui la
proprietà degrada a interesse legittimo. Tutte queste situazioni
sono caratteristiche per sé, ma ancora più per la fisionomia che
la loro presenza imprime al panorama generale della proprietà.
Così, alla fine del nostro giro, ci domandiamo, come al principio:
si può parlare della proprietà come istituto unico, con
svariatissimi aspetti, o l’unica etichetta costituita dal sostantivo
tradizionale, indica istituti autonomi, più o meno affini?
In altra occasione, anni or sono, parlavamo di « gradi » (o aspetti)
della proprietà226; oggi non ci sentiamo di adagiarci su di una
troppo sicura e facile affermazione, e richiamiamo su questo
tema l’attenzione degli studiosi. Riteniamo che non si tratti
soltanto di una questione terminologica, e neppure di una
questione di pura sistematica concettuale. Anzi, se non ci
inganniamo, si tratta della questione fondamentale che il
giurista oggi deve affrontare, occupandosi della proprietà. La
risoluzione di codesta questione, affrontata senza pregiudizi né
preconcetti, potrà chiarire molte confusioni, eliminare scorie e
residui di nessuna utilità, aiutare a identificare le tendenze
legislative e la portata delle norme positive, preparare la via alla
legislazione futura e il terreno alle riforme in via di studio o di
attuazione. Insomma, proprio in questo campo, e proprio in
questo punto, il teorico del diritto e il pratico, lo studioso e il
legislatore devono non solo augurarsi, ma cercare di attuare
concretamente, quella collaborazione nella quale la funzione
dell’uno e quella dell’altro ritrovano la comune radice da cui
devono trarre l’alimento. Senza pretendere di risolvere il grave
problema, non sarà inutile il tentativo di precisarne i termini e di
offrire qualche indicazione.
58. L’autonomia di un determinato istituto giuridico riflette. Con
maggiore intensità e concretezza, la fondamentale esigenza
pratico-sistematica che sta a base della distinzione dei vari rami
del diritto o delle varie sfere dell’ordinamento giuridico:
specialmente della distinzione tra diritto pubblico e diritto
privato. Ora proprio con riferimento a codesta fondamentale
226
Nota 428: Pugliatti, Istituzioni, V, cit., p. 21.
236
distinzione, qualunque sia il criterio tecnico che si voglia
adottare (criterio soggettivo od oggettivo; formale o sostanziale;
concettuale od empirico), e persino anche se si voglia negare la
base razionale della distinzione, non si può eliminare un dato
obbiettivo di esperienza: la particolare rilevanza dell’elemento
teleologico o funzionale, che si può indicare col termine
«interesse». Si fa presto a considerare l’elemento teleologico
estraneo ai concetti giuridici, intesi come concetti puri e formali,
ma non si riuscirà mai a staccare codeste proiezioni
bidimensionali nel piano dei fenomeni che hanno una terza
dimensione, che è appunto costituita dal nucleo teleologico, al
quale questi schemi rimangono sempre legati. Si parlerà di
momenti economici dei fenomeni giuridici, per poterne
affermare, attraverso la distinzione apoditticamente data,
l’irrilevanza 227 , ma non si riuscirà a vanificarli. Il momento
economico, infatti, costituirà la materia che la norma giuridica
plasmerà
nello schema protettivo o tipo di tutela predisposto;
sì che se codesto momento si vorrà considerare come episodio di
preistoria giuridica, sotto il profilo genetico, si dovrà sempre
considerare come fulcro di una evoluzione dal grezzo fenomeno
economico allo schietto fenomeno giuridico: e dall’uno all’altro vi
è trasfigurazione, dunque processo continuo, e non già taglio
reciso.
Se la tutela giuridica è forma che plasma una materia
economica. Non è dubbio che essa medesima in codesta materia
trova il suo contenuto, magari purificato o decantato nella
sintesi con quella forma. Sicché non si può tracciare il profilo di
un istituto, se non si proceda alla identificazione degli interessi
che il legislatore ha inteso tutelare. La struttura è legata alla
funzione, e reciprocamente: lo studio separato dell’una o
dell’altra, giustificato per ragioni pratiche, non si può spingere
oltre un certo segno, ed ha sempre bisogno di integrazione.
Quando si voglia porre la questione dell’autonomia di un
istituto. non solo appare evidente, in astratto, l’insufficienza
della considerazione strutturale, che è certamente unilaterale,
ma non ci vuole molto ad intendere che la considerazione
funzionale si colloca spontaneamente in primissimo piano 228 .
Non soltanto la struttura per sé conduce inevitabilmente al tipo
che si può descrivere, ma non individuare, bensì inoltre la
funzione esclusivamente è idonea a fungere da criterio
d’individuazione : essa, infatti, dà la ragione genetica dello
strumento, e la ragione permanente del suo impiego, cioè la
ragione d’essere (oltre a quella di essere stato).
227 Nota 429: Sul tema cfr. Ascarelli, Studi di diritto comparato etc,
Milano 1952, p. XXVIII, in nota.
228 Nota 430 […].
237
59. La base verso cui gravita e alla quale si collegano le linee
strutturali di un dato istituto, è costituita dall’interesse al quale
è consacrata la tutela. L’interesse tutelato è il centro di
unificazione rispetto al quale si compongono gli elementi
strutturali dell’Istituto: esso, dunque, funge da principio
d’individuazione 229.
La più semplice applicazione di codesto criterio condurrebbe alla
seguente formulazione della regola per la determinazione
dell’autonomia di un dato istituto: l’identificazione di uno
specifico interesse garentisce l’autonomia dell’istituto nato dalla
protezione giuridica accordata a tale interesse. La regola
potrebbe essere ulteriormente chiarita, in base alla
specificazione seguente: l’autonomia resiste entro i confini della
tutela accordata all’interesse identificato.
Difficilmente, però, si riscontrano situazioni pratiche semplici e
facilmente schematizzabili. È normale la combinazione di vari
interessi, anche di vari ordini (interessi pubblici e privati) e di
diversa rilevanza (principali e accessori). Allora, pur sul
piedistallo dell’interesse fondamentale oggetto della tutela, si
collocano diversi centri o piani d’interessi, ai quali viene
accordata idonea tutela. L’istituto acquista una struttura
complessa e si presenta sotto una pluralità più o meno ricca di
atteggiamenti. La questione dell’autonomia, quindi, si complica:
non si tratta più di autonomia esterna, cioè di individuazione
rispetto ad altri istituti, già individuati, ma di autonomia
interna, cioè di determinazione delle relazioni tra i vari
atteggiamenti di un istituto già individuato. Si tratta di stabilire
fino a che punto il vincolo che tiene avvinti codesti aspetti
particolari resiste, e l’originaria struttura dell’istituto mantenga,
quindi, il suo equilibrio.
Anche per codesto aspetto della questione, più che la struttura.
Bisogna interrogare la funzione: determinare cioè il tipo e il
grado di relazione tra i diversi interessi oggetto della tutela
giuridica. È ovvio che la tutela di interessi che appaiono
secondari o accessori, o comunque subordinati e legati a quello
principale, in modo che esso mantenga (e fino a che mantenga)
la sua forza attrattiva o potere di gravitazione, determina
soltanto varietà fisionomiche o diversità di atteggiamenti di un
istituto che conserva la sua unità. La tutela di interessi
concorrenti, aventi la medesima importanza, ma praticamente
solidali, può dar luogo ad una ambivalenza o plurivalenza
Nota 431: Il Betti, Falsa impostazione della questione storica etc, in
Riv. ital. Per le scienze giur., 1951, p. 101 riconosce che « la differenza
del contenuto sociale o economico, cioè del tipo di interesse tutelato
dal diritto, possa determinare una digerente struttura del rapporto
giuridico (e c^uindi dd diritto soggettivo ».
229
238
dell’istituto, che tuttavia non ne compromette l’unità. Vi è poi
una ulteriore situazione tipica: quella in cui il legame tra gli
interessi protetti si allenta progressivamente e infine si scioglie.
In questo caso si ha una scissione dell’originario istituto, e non
si può parlare di unità. Può soltanto, e fino ad un certo punto,
essere opportuno mantenere le due nuove unità entro la
medesima cornice, perché la genesi comune, se non è sufficiente
a tenere legati i due istituti come fratelli siamesi, non esclude il
legame di parentela, che può avere il suo peso. E, per continuare
ad utilizzare l’immagine, a mano a mano che l’evoluzione si fa
più decisa e si accresce l’autonomia dell’istituto derivato, si
attenua, degradando, il legame di parentela, finché esso perderà
ogni valore, a causa del grado ormai troppo remoto.
Alla prudenza e alla sensibilità del giurista è affidato
l’apprezzamento concreto dei limiti entro i quali la comune
genesi di due istituti, ormai autonomi, possa essere presa in
considerazione ai fini della loro sistemazione.
60.
Rimanendo sul piano delle semplici indicazioni, possiamo
tuttavia venire a considerazioni più particolari.
La proprietà privata individuale, nel suo schema classico, che si
realizza unicamente in relazione ai beni di consumo (ed entro
una cerchia alquanto ristretta), si può considerare come la
cellula dell’istituto. O piuttosto come organismo monocellulare.
Il centro di gravitazione della tutela giuridica da cui nasce, è
costituito dall’interesse alla totalità delle utilizzazioni della cosa,
rispetto al quale si esclude la concorrenza di ogni altro interesse.
La tutela di codesto interesse, massimamente esteso e
interamente isolato, assicura al soggetto che ne è portatore un
potere indeterminato e tendenzialmente totalitario, nonché
correlativamente esclusivo sulla cosa. Il modo della tutela
garantisce l’autonomia del soggetto circa l’utilizzazione e i modi
di essa.
Tosto che si profila la presenza e la possibilità di coesistenza di
altro, uguale interesse individuale, degno ugualmente di
protezione, il paradigma si altera profondamente.
Le difficoltà costruttive della contitolarità nel condominio, sono il
riflesso delle complicazioni di base. La comunione degli interessi,
non si può mai ridurre ad unità semplice, poiché risulta dalla
concorrenza dei singoli interessi, composta in equilibrio dalla
necessità di Coesistenza. L’elasticità, o meglio la capacità
espansiva dello schema concettuale elaborato sul modello della
proprietà solitaria, comincia ad essere messa a non facile prova.
E se ne avvertono immediatamente i riflessi pratici: nel
condominio l’iniziativa circa il modo di utilizzazione della cosa,
non gode della medesima libertà della quale godeva nella
239
proprietà solitaria. E non si tratta soltanto del limite derivante,
quasi per forza di cose, dalla convergenza di più libertà di uguale
natura, bensì addirittura della pressione e della spinta che
l’interesse comune, realtà pratica giuridicamente riconosciuta,
pur se in limiti rigorosi, esercita sui singoli interessi individuali:
la volontà della maggioranza, legittimamente deliberante
nell’ambito della sua competenza, è espressione dell’interesse
comune, che prevale sulle disparate e disgregate tendenze degli
interessi dei singoli individui.
Nella proprietà collettiva il gruppo costituisce già di per sé un
dato oggettivo, rilevante socialmente e giuridicamente, così che
dalla pluralità dispersa degli interessi singolari non solo si è
pervenuti alla prima manifestazione unitaria dell’interesse
comune, ma già si profila e subito fa sentire la sua influenza lo
scopo comune, che attrae gli interessi compresenti, e ne assicura
la realizzazione secondo una norma che supera l’episodio e
tende a garantire la permanenza nel tempo. L’impulso dinamico
aggiunge un’altra variabile all’equazione della proprietà.
L’affermarsi dello scopo comune, rispetto al quale le utilizzazioni
della cosa degradano a mezzo, e nel tempo stesso si coordinano
e polarizzano, per assicurarne il conseguimento, inserisce nello
schema della proprietà l’elemento dell’ attività.
È questo il primo contatto tra i due termini : proprietà e attività
umana, collegati al conseguimento di un fine determinato; la
proprietà mossa al fine, e l’attività intelligentemente
organizzatrice del processo, cioè lavoro. Il binomio diventerà
sempre più stretto e lo schema concettuale più complesso: anzi,
composito in principio, e poi in alcune combinazioni, nelle quali
i due termini, difficilmente dosabili, non trovano la formula
risolutiva della combinazione armonica; ma poi, in altre ipotesi,
trasfigurato dal termine attivo, dal lavoro, che è portatore
d’interessi e finalità non soltanto di gruppo o genericamente
collettivi, bensì di schietta natura sociale. Basta questa semplice
e rapida, e necessariamente indeterminata graduazione, a
dimostrare come, passando da un gradino all’altro, da una
combinazione all’altra di interessi che si intendono tutelare, il
paradigma della proprietà subisce modificazioni notevoli nella
sua funzione e nella struttura. Specialmente quando viene a
contatto con altri istituti di notevole importanza sociale od
economica, quali la famiglia, la società, il lavoro, i quali
esercitano la loro forza di attrazione e fanno sentire la loro
influenza, al punto che, a volte finiscono per ridurla nella
propria orbita.
La proprietà pubblica gravita addirittura sull’interesse pubblico,
o meglio su interessi che sono dell’intera comunità nella
coesione sistematica della sua massima organizzazione giuridico
240
politica. Interessi vari in numero e contenuto e variabili, col
mutare di tempi e contingenze, assai più di quelli privati, che
neppure essi, però, sono immutabili. Da qui la variabilità della
consistenza del diritto di proprietà, come fu rilevato in generale
pubblica
più
per qualsiasi diritto 230; e della proprietà
sensibilmente, per l’intreccio che in essa si nota degli interessi
pubblici, senza escludere la presenza di quelli privati 231. Anche
rispetto ai beni demaniali, infatti, si riscontra la tutela degli
interessi privati, in varia misura ed intensità: dalla garanzia del
comune uso diretto, alla autorizzazione o concessione di usi
particolari od eccezionali. E s’intende che assume aspetti diversi,
e notevolmente, la proprietà demaniale nella quale si
puntualizza e si condensa un preciso interesse pubblico,
esclusivo di ogni altro, e correlativo ad una funzione pubblica,
anch’essa esclusiva (come la funzione statuale della difesa del
territorio nazionale), da quella nella quale la stessa funzione
pubblica si realizza unicamente mediante la garanzia del
migliore godimento della cosa da parte dei cittadini.
Ma su questa linea specifica, si può rinvenire la situazione
perfettamente opposta: quella, cioè, nella quale la proprietà
privata subisce l’innesto del pubblico interesse, che richiede
attuazione. Così che l’autonomia del proprietario si trova ad
essere condizionata, e l’attività di godimento sollecitata non solo,
ma anche orientata, almeno in relazione a certe finalità di indole
generale. E secondo la natura e l’importanza di codesti pubblici
interessi, e le svolte alle quali il proprietario si venga a trovare, il
suo diritto di proprietà, non ancora spoglio di attributi che ormai
hanno per lo più valore di memorie, venga degradato ad
interesse legittimo: il peso delle finalità e degli interessi pubblici
si definisce mediante la creazione di un potere discrezionale
della pubblica amministrazione, che ormai si associa come
un’ombra al diritto del proprietario. Aumentando l’intensità,
almeno in situazioni tipiche, dell’esigenza che sta a base del
pubblico interesse, si giunge all’espropriazione, che diviene
strumento stabile per la realizzazione di quelle esigenze, fuori
della contingenza episodica. E a volte, strumento succedaneo
per assicurare, anche come sanzione, l’attuazione dell’interesse
pubblico, quando il proprietario abbia dimostrato inettitudine o
resistenza.
Si guardi un altro aspetto: la scissione della sintesi, nei due
atteggiamenti, con gradazioni varie di autonomia, della proprietà
formale e della proprietà sostanziale. E già in due posizioni
tipiche: o che la proprietà piena si svuota del suo contenuto, che
si rende autonomo; o che la proprietà formale si renda
230
231
Nota 432 […].
Nota 433 […].
241
necessaria come momento di legittimazione. Attorno ai due poli
si raccolgono interessi diversi, che richiedono ed ottengono
tutela.
Per il secondo aspetto, la linea evolutiva si svolge dalle varie
situazioni fiduciarie, nelle quali l’interesse privato che ne
suggerisce l’adozione e reclama il riconoscimento, trova una
remora in esigenze ben note di carattere collettivo; alle
investiture in proprietà di enti pubblici, con carattere di
temporaneità e specifica funzionalità, s’intende ispirata ad
interessi pubblici, che si nutrono della presenza attiva di
interessi privati collettivi, di gruppo, di categoria, di classe:
insomma di interessi di natura sociale, che possono addirittura,
più o meno direttamente, o soltanto indirettamente, riguardare
l’intera comunità nazionale, o comunità più ristrette, ma
collegate solidalmente, come quelle regionali (si pensi alle
esigenze della produzione, e specialmente di quella agricola : e
qui ancora si avverte l’innesto del lavoro sul tronco della
proprietà). Come è facile vedere, si registra uno spostamento del
centro di equilibrio, dall’uno all’altro polo: dalla proprietà
formale, che simula e nasconde la scissione da quella
sostanziale, alla proprietà creata dalla legge come puramente
formale. Con una sua specifica funzione, alla quale, appunto, si
adatta la particolare configurazione. Proprietà manifestamente
ed esclusivamente formale, proprietà-legittimazione, quale titolo
per l’adempimento di una pubblica funzione, e l’esercizio di
pubblici poteri connessi, e il programmato compimento di
correlative attività. E da questa situazione, strumentale e
transitoria, nascono altre situazioni di proprietà,
più o meno
piene, nelle quali ovviamente si riscontrano combinazioni e
mescolanze in vari dosaggi di interessi pubblici e di interessi
privati.
Quanto al primo aspetto, è da avvertire l’importanza che va
assumendo, e non solo dal profilo pratico, l’idea generale di
«appartenenza», definita da qualcuno come «soggezione alla
disponibilità» 232, s’intende nel più lato senso, e insieme entro i
limiti della tutela giuridica. Si è pure detto che l’appartenenza si
guarda in relazione ai vari diritti reali: proprietà, enfiteusi,
usufrutto e servitù 233. Codesta graduazione consente di disporre
in una serie quantitativa, apparentemente continua, le varie
figure: «queste graduazioni non sono altro che i vari tipi di diritti
reali di cui la cosa è capace, e questi vari tipi non esprimono che
diverse gradazioni di appartenenza» 234 . Senza dubbio, la serie
Nota 434: Barbero, Sistema cit., I, n, 464, p. 633.
Nota 435: Barbero, ivi, n. 466, p. 653.
234 Nota 436: Barbero, L’usufrutto e i diritti affini, Milano 1952, n. 4, p.
23.
232
233
242
continua che esprime quelle graduazioni, non esclude la
determinazione discontinua di singoli tipi. Senonché il fenomeno
va esaminato più attentamente e non vanno trascurati dati di
esperienza obiettivamente innegabili, e pieni di significato.
Forse soltanto la figura estrema — quella di servitù — non offre
notevoli appigli. Ma le altre — l’enfiteusi e l’usufrutto — si
prestano a considerazioni assai interessanti. Non parliamo
dell’enfiteusi, che già in relazione alle sue origini appare legata a
quelle concessioni pubbliche, nelle quali si riflette uno degli
aspetti della proprietà sostanziale; e nella sua attuale disciplina,
richiama motivi fecondi e vitali in passato, e i rapporti tra
sovranità e proprietà, e quelli tra il dominio del privato e il
dominium eminens del principe, e comunque il concetto della
proprietà divisa. Ma anche l’usufrutto offre motivi alla
discussione. In quanto diritto reale — si è detto — esso
«esprime, come la proprietà, sebbene in grado minore, un’idea di
dominio. Il che potrebbe raffigurarsi sottospecie d’una
propagazione del concetto di proprietà» 235. La mente corre al c.d.
quasi-usufrutto, cioè all’usufrutto delle cose consumabili, che in
passato venne accostato al
mutuo, cioè ad un negozio
traslativo della proprietà. Intendiamoci: non abbiamo voglia di
difendere codesta configurazione 236 , che da un punto di vista
rigorosamente
tecnico,
si
risolve
in
una
analogia
237
approssimativa . Ma a tale analogia, dal nostro punto di vista,
non si può negare ogni significato, e questo viene accentuato
notevolmente, quando si dice che la forma giuridica, per mezzo
della quale sj realizza la funzione economica dell’usufrutto
rispetto alle cose consumabili, « è quella dell’attribuzione della
proprietà a chi è chiamato a raccogliere l’usufrutto, coll’obbligo
di restituire l’equivalente della cosa a chi è chiamato a
raccogliere la proprietà » 238.
A parte, dunque, lo schema negoziale del mutuo, la materia o il
contenuto dell’usufrutto si riversa e compone nell’alveo,
veramente materno, della proprietà : nel seno, insomma, dal
quale è stato generato, e nel quale normalmente è assorbito,
anche se non con sua forma e indipendenza, come pretendevano
gli antichi, distinguendo l’usufrutto causale dentro la stessa
Nota 437: Barbero, L’usufrutto cit., n. 6, p. 22. Non importa la
ulteriore, esatta riserva, che nulla toglie allo spunto come tale.
236 Nota 438: Per il diritto romano si veda Arangio-Ruiz, Istituzioni cit.,
p. 219; per il diritto civile Gianturco, Istituzioni di diritto civile italiano,
ed. riv., Firenze 1919, p. 124.
237 Nota 439 […].
238 Nota 440: Venezian, op. cit., I, n.4, p. 9.
235
243
proprietà. L’usufrutto trasmigra nella forma della proprietà 239 :
che si vuole di più caratteristico e significativo ?
Anche coloro i quali negano che l’usufrutto delle cose
consumabili produca il trasferimento della proprietà 240 , non
possono negare che il godimento attuato, distruggendo la cosa
estingue la proprietà, e la fa risorgere attraverso l’adempimento
dell’obbligo di restituire il tantundem. Anziché un doppio
trasferimento in senso inverso, si avrà un’estinzione, seguita da
un trasferimento 241 : ma in ogni caso si avrà l’incidenza
dell’usufrutto sulla proprietà; anzi si registrerà la realizzazione
normale dell’uno per mezzo di eventi concernenti l’altra. In
diversi settori e da diversi punti di vista si nota, dunque, persino
instabilità e trasmutabilità della proprietà: contingenza, in altri
termini, dell’istituto, già rivelatasi nella disgregazione che ne ha
minato la compagine, e va sostituendo all’unico schema saldo e
compatto, una serie di schemi più o meno autonomi l’uno
rispetto all’altro. Contingenza che è indice di crisi, e che assume
vari altri aspetti, anch’essi significativi, attinenti al carattere
della temporaneità, che; si va profilando in ipotesi particolari, al
posto di quel carattere di perpetuità, che si riteneva essenziale
all’istituto.
Prescindendo dal tema della proprietà immateriale, basta
ammettere in tesi astratta una proprietà temporanea, perché si
alteri sensibilmente lo schema strutturale dell’istituto. Anche se
si fa riferimento alla proprietà solitaria, nella sua espressione
più tipica, non si ha la tutela di un interesse solo, perché il
limite cronologico inserisce la tutela di un altro interesse come
avviene, ad esempio, nell’usufrutto.
Con la differenza: che l’usufrutto è destinato, estinguendosi, a
lasciare in vita la proprietà, che si riespande, mentre qui accade
il contrario. Poiché il dies ad quem colpisce a morte la proprietà
medesima.
Temporanea per sua essenza è, in particolare, anzi transitoria la
proprietà degli enti di riforma agraria, come già si è visto: oltre
ad essere proprietà semplicemente formale.
239 Nota 441: Il De Martino, Dell’usufrutto, nel Commentario del Codice
Civile a cura di Scialoja e Branca, Libro Terzo (art. 957-1099), BolognaRoma 1947, p. 995 considera il quasi-usufrutto come «un diritto reale
di godimento, in cui le facoltà del titolare sono ampliate fino a
comprendervi un potere di disposizione».
240 Nota 442: Barbero, L’usufrutto cit., nn. 14 e ss., pp. 58 e ss.
241 Nota 443: Il Barbero, Il quasi usufrutto ed il quasi uso, in Riv. di
diritto civile, XXXI (1939), n. 7, pp. 218-219 ammette che si produca
un acquisto della propnetà da parte del quasi-usufruttuario, negando
che ciò abbia luogo a causa e per virtù del quasi usufrutto: questo
rapporto, nel momento del trapasso della proprietà, viene meno «e vi
subentra un rapporto di proprietà, temperato da un’obbligo, cui fa da
corrispettivo un semplice credito, alla restituzione del tantundem»
244
Ma il carattere di contingenza può derivare da altre fonti: la
proprietà (sostanziale) nascente dalle concessioni minerarie
perpetue, è soggetta a venir meno, per revoca o risoluzione delle
concessioni stesse, nei casi previsti dalla legge. Risolubile è la
proprietà dei contadini assegnatari delle terre espropriate per
l’attuazione delle riforme agrarie. Ovviamente in questi casi non
si tratta di fenomeni legati al meccanismo della risoluzione di
rapporti basati sul contratto corrispettivo, sopra tutto per il fatto
che non si tende a realizzare interessi privati di natura
economica, la cui soddisfazione sia legata a fenomeni di
scambio, che godono di appropriata tutela giuridica. Viceversa,
si ha la prevalente tutela del pubblico interesse, che si realizza
con l’integrale esecuzione di quanto dispone la speciale
legislazione in materia242.
Non ci occorre altro per concludere (e ben altro si potrebbe
aggiungere). La risposta al quesito che ci siamo proposti all’inizio
sta nell’analisi che abbiamo condotta e potrebbe trovare
specifica conferma in quella che altri vorrà condurre. Qui in
sintesi e a suggello del lungo discorso, possiamo dichiarare che
la parola «proprietà» non ha oggi, se mai ha avuto, un significato
univoco. Anzi troppe cose essa designa, perché possa essere
adoperata con la pretesa di essere facilmente intesi. In ogni caso
l’uso di essa, con le cautele e i chiarimenti necessari, anche se si
protrarrà ancora nel prossimo futuro, non può ormai mantenere
l’illusione che all’unicità del termine corrisponda la reale unità
di un saldo e compatto istituto.
Nota 444: Ciò basta a distinguere gli aspetti qui considerati della
proprietà da quelle ipotesi che tradizionalmente, con riferimento al
diritto romano o al diritto moderno, più e meno appropriatamente si
raccolgono sotto gli schemi della proprietà sospesa o della proprietà
revocabile (sul tema si veda: Baum, Das schwebende und das
widerrufliche Eigentum, Diss. Berlin 1896; spunti in Randa, op. cit.,
pp. 20-21).
242
245
14) S. Rodotà, Note critiche in tema di
proprietà , in Riv. trim. dir. e proc. civ, 1960,
1252 ss.;
[…]
In verità, nei casi finora considerati, la funzione sociale non può
intendersi come una qualità immediata del diritto di proprietà,
essendo attribuita ad esso per via di conseguenza, attraverso la
ricognizione di una generale natura sociale o a mezzo di una
disciplina che non muta il titolo dell’attribuzione. In tal modo, di
ogni diritto può dirsi che ha una funzione sociale 243: ma questa
rimane indifferente per la struttura del diritto e neppure incide
sulla sua definizione formale 244, giustificandosi così l’opinione,
tante volte espressa, per cui la funzione sociale sarebbe una
«formula sonora ma giuridicamente vuota» 245.
A nostro modo di vedere, l'uso moderno dell'espressione
funzione sociale, nella maggior parte dei casi, non ha con le
concezioni ora esposte che una parentela del tutto verbale. In
primo luogo, queste ultime rivelano che la loro autentica
caratteristica non è quella funzionale, bensì quella finalistica, e
si collegano ad una speculazione intesa a ricercare una
giustificazione ed un fondamento della proprietà del tutto
extragiuridici. Segno, forse, di una ampiezza di orizzonte che la
scienza giuridica moderna non ha saputo conservare 246 ;
conferma, certamente, del fatto che movente e fine si pongono
all’esterno della struttura giuridica 247. Proprio da questa ribadita
estraneità della funzione rispetto al diritto, d'altra parte, si
Nota 130 nel testo originale (N.d.R.): «Una funzione sociale o,
meglio, l'attuazione di un pubblico interesse, è propria di ogni
potere riconosciuto dal diritto obiettivo; e quindi, sicuramente, del
diritto di proprietà»: così F. VASSALLI, Per una definizione
legislativa del diritto di proprietà, in Studi, cit., II, p. 334. Cfr.
le recenti osservazioni di ARCHI, L'aspetto funzionale del
«dominium» romano, in Bull. ist. dir. rom., 1958, pp. 61-79; sul
tema, sempre di recente, F. DE VISSCHER, Individualismo e
evoluzione della proprietà nella Roma repubblicana, in Studia
doc. ist. iur.., 1957, pp. 26-42.
244 Nota 131 nel testo originale (N.d.R.): Su questi problemi le
interessanti, anche se per noi non sempre accettabili, considerazioni di
DABIN, Le droit subjectif, Parìs, 1952, pp. 219-220.
245 Nota 132: CESARINI SFORZA, Codice civile, cit., p. 99.
246 Nota 133: M.S. GIANNINI, Attualità dogmatica, cit., p. 478.
247 Nota 134: Sulle
difficoltà incontrate dalla dottrina nella
definizione dei concetti di ratio, fine, scopo, cfr. CAIANI, I giudizi,
cit., p. 217, nota 16. Vedi anche PERTICONE, La proprietà, cit. p.
47.
243
246
origina la contraddittoria utilizzazione del concetto di funzione,
che – concepito come temperamento dell'assolutezza di una
proprietà individualistica – si converte in un formula difensiva
del diritto di proprietà tradizionale 248 , affermandosene
genericamente una destinazione sociale (alla quale può non
accompagnarsi, e spesso non si accompagna, alcuna effettiva
misura legislativa), mentre se ne riconosce la sostanziale
intangibilità. Era fatale, quindi, che, favorevoli le condizioni
culturali, la polemica contro l’idea individualistica nei diritti si
convertisse in polemica contro il diritto soggettivo tout court 249.
Per intendere l’intera prospettiva nei suoi giusti termini, bisogna
riguardare alla distinzione, propria non soltanto del pensiero
giuridico 250 , tra fine e funzione di una determinata struttura,
intendendosi il primo come destinazione ad un còmpito
astrattamente fissato ed immutabile, l’altro come lo storico e
concreto atteggiarsi di fronte a situazioni sempre rinnovate e
diverse. È quest’ultimo il significato attribuito alla funzione nel
più frequente uso giuridico: nella forma di contrapposizione tra
una struttura rigida e sempre identica a se stessa a ed una
mutevole funzione 251 o nel loro rapporto dialettico 252 , nella
necessità di non trascurare mai «la terza dimensione funzionale
o teleologica» 253 , e quindi di comprendere nell’attenzione
«funzioni economiche ed istituti giuridici» 254; nel porre l’accento
sulla law in action piuttosto che sulla law in books 255 : e si
potrebbe continuare, fino a quelle più generali ed estreme
formulazioni che cercano di individuare la funzione della stessa
legge o di costruire quest’ultima come funzione dei fatti
sociali 256.
Se la sostituzione della considerazione funzionale (nel senso ora
indicato) a quella finalistica costituisce un indubbio
arricchimento
degli
strumenti
dell’indagine
giuridica,
l’indicazione metodologica che da essa può ricavarsi non riesce a
dare piena ragione del concetto di funzione sociale, quando
questo sia impiegato per chiarire la natura particolare di un
diritto. Infatti, l’uso del termine funzione in contrapposto a
Nota 135: F. VASSALLI, Il diritto di proprietà, in Studi, cit., II, p.
421.
249 Nota 136: […].
250 Nota 137: […].
251Nota 138: […].
252 Nota 139: […].
253 Nota 140: PUGLIATTI, La giurisprudenza, cit., p. 64.
254 Nota 141: ASCARELLI, Studi, cit., pp. 55-78.
255
Nota 142: POUND, Law in books and law in action, in Amer. Law
Rev., 1910, p. 12 ss.; sul problema STONE, The province, cit., pp. 405408, 414-417 (relativamente alle tesi di Pound), 742-749 (come
prospettiva per esaminare le dottrine di alcuni pensatori europei).
256 Nota 143: […].
248
247
struttura serve a definire il concreto modo di operare di un
istituto o di un diritto di cui siano note e individuate le
caratteristiche morfologiche: mentre, invece, di una funzione
sociale della proprietà si parla non tanto per aprire la via ad una
indagine di sociologia giuridica, quanto per indicare proprio una
di quelle caratteristiche. Così configurata la funzione sociale, è
fuori di luogo considerarla dialetticamente nei confronti della
struttura, dal momento che essa è ritrovabile soltanto all’interno
della proprietà, ponendosi come una componente della sua
struttura. Non a caso, le espressioni sintetiche a cui si ricorre
sono quelle di diritto-funzione, di proprietà-funzione.
4. – Le considerazioni finora svolte, se non hanno esaurito la
caratterizzazione tecnica della funzione, ci hanno, comunque,
condotti al nodo dogmatico del problema: che consiste, come è
ben noto, nella compatibilità o meno dei concetti di funzione e di
diritto soggettivo. Sciogliere interamente
questo nodo
significherebbe ripensare quasi del tutto i complessi termini
della polemica sul diritto soggettivo 257 : compito che non è
certamente possibile affidare a queste note, nelle quali si tenterà
soltanto di indicare le difficoltà a cui si va incontro nel tentativo,
di mantenere la costruzione sistematica della proprietà nello
schema classico del diritto soggettivo.
La direttrice della nostra ricerca, al punto in cui siamo, dovrebbe
più essere oscura. Se, infatti, la funzione deve essere
considerata come componente della struttura della proprietà,
tutti quei dati che ad essa possono essere ricondotti (obblighi ed
oneri gravanti il titolare) non sono rappresentabili all'esterno
della situazione, come limitazioni di diritto pubblico o come
altrimenti si voglia considerarli. Le conseguenze di questa
impostazione non sono di poco conto; in particolare, ci sembra,
per tutte quelle costruzioni che ritengono di poter realizzare una
più accorta difesa delle ragioni dell’individuo ribadendo la
sostanziale indifferenza della struttura della proprietà a tutta
una serie di trasformazioni legislative e sociali. Ché questa
difesa appare, in realtà, più rispettosa di una nozione scolastica
che non del diritto dell’individuo, al quale dalla costruzione sub
specie pubblicistica di ogni funzionalizzazione della posizione del
proprietario non può derivare che una più immediata e diretta
subordinazione ai poteri della pubblica amministrazione: cioè
proprio quello che, nell'animo dei tradizionalisti, andrebbe
evitato. Potrebbe osservarsi che, se questo modo di procedere
finisce con l’essere contraddittorio alla sua stessa ispirazione,
almeno è rispettoso delle caratteristiche del diritto soggettivo.
L’osservazione si presta a due rilievi: diretto, il primo, a
257
Nota 144: […].
248
riconoscere la giustezza del pensiero di chi ha visto molti dei
nostri concetti giuridici rimanere legati a un superato modo
d’intendere la funzione del diritto privato, che si limiterebbe ad
attribuire ai singoli dei poteri, rendendosi automatico il
raggiungimento dell’equilibrio tra le varie sfere giuridiche 258 ; e
l’altro a mettere in guardia contro un procedimento che, per
ricondurre ad un determinato prototipo giuridico una situazione
concreta, forza i termini di quest’ultima, quando sarebbe logico,
invece, ammettere l’impossibilità della sussunzione. Da ciò
risulta confermata l’opinione 259 che di certi impoverimenti del
diritto privato non sia soltanto responsabile il corso delle cose,
ma pure il metodo dei privatisti; ed accertato che ogni
ripensamento del concetto di diritto soggettivo debba
massimamente tener conto dei dati positivi 260. D’altra parte, se
si vuole avere ben chiaro il
contesto giuridico ed economico all'interno (ed in ragione) del
quale la funzione sociale opera, bisogna tener sgombra la mente
dai pregiudizi nascenti da una scarsa riflessione sulla storia e
aver per fermo che «Il capitalismo non può caratterizzarsi solo in
funzione della proprietà individuale, ma in funzione della
struttura e del funzionamento di questa proprietà nel processo
produttivo» 261 : così che la funzione sociale della proprietà si
palesa, nel tempo presente e nei paesi di democrazia
occidentale, come lo strumento attraverso il quale una società,
che riconosce la proprietà privata dei beni, tenta di dare a
questa un più ampio respiro per trarne vantaggi adeguati.
Considerata non già come mera finalizzazione di ogni diritto
(quale è intesa in alcuni paesi retti da ordinamenti di tipo
socialista 262 ), ma come elemento del diritto di proprietà, la
funzione sociale dimostra d’essere caratteristica tipica d’un
sistema giuridico capitalista.
Veniamo, ad ogni modo, alle opinioni di coloro i quali negano, in
via di principio, l’ammissibilità di una funzione a proposito della
proprietà. La negazione, anzitutto, si fonda sulla contraddizione
terminologica esistente già nel corpo dell'espressione, ché l'idea
di funzione (come vincolo) ripugnerebbe a quella di diritto (come
libertà). Questa proposizione viene sviluppata in quella,
tecnicamente più rigorosa, che ricorda la nozione formale di
diritto soggettivo (quale che sia il punto di vista prescelto per la
Nota 145: ASCARELLI, Problemi, cit., I, p. 47.
Nota 146: […].
260 Nota 147: Cfr. CESARINI SFORZA, Il diritto soggettivo, cit., p. 184.
261 Nota 148: ASCARELLI, Proprietà e controllo, cit., p. 756.
262 Nota 149: […].
258
259
249
sua costruzione 263) e sottolinea l’impossibilità di risolvere in essa
elementi di carattere obbligatorio, che escluderebbero nel
soggetto la libera determinazione del contegno da tenere 264 . Il
vincolo funzionale, infine, manifesterebbe tutta la sua
incompatibilità con il diritto proprio nel caso della proprietà,
ponendosi questa, nella sua essenza, come manifestazione di
libertà265.
È quest’ultimo argomento che, per la sua portata generale, deve
essere esaminato per primo, anche se per semplici cenni. Quali
convinzioni filosofiche o quali ideologie lo fondino oggi e quali lo
abbiano accompagnato nel corso della sua fortuna, non è
difficile scorgere: sì che può immediatamente notarsi che l’antico
modo d’intendere la teorica dei diritti soggettivi come teorica dei
diritti innati 266 trova in esso formulazione assai conseguente.
L’identificazione di proprietà e libertà, non godendo ormai che di
scarsi appigli positivi ed essendo largamente oppugnabile sia dal
punto di vista filosofico che da quello economico, si risolve in un
pregiudizio metodologico, uno dei tanti idola che ostacolano
l’indagine scientifica. Le carte costituzionali sempre più
raramente danno al diritto di proprietà il posto tradizionalmente
assegnatoli dalle dichiarazioni di diritti 267 ; le quali, dal canto
loro, cominciano a non far più menzione della proprietà268. Nel
campo del diritto privato, a loro volta, i codici non possono più
essere intesi come l’equivalente di quel che le costituzioni e le
dichiarazioni dei diritti rappresentavano per il diritto
pubblico 269 ; e al mutare della loro funzione 270 corrisponde il
diverso modo in cui essi fondano la proprietà ed il suo diverso
articolarsi della sua definizione, che sempre più si distingue da
quella ricalcata sulla definizione della libertà 271 . A queste
generiche osservazioni di carattere testuale dà conferma la
stessa nostra costituzione, la quale, disciplinando la proprietà
tra i rapporti economici, mostra di aver bene inteso i limiti di
una posizione che si ostini a fondare le ragioni dell’uomo e del
cittadino sull’incondizionata possibilità dell’operare economico.
Orientamento, questo, che – a parte ogni consueto rilievo sul
compromesso costituzionale – non dev’essere fatto derivare da
un atteggiamento che spregia conquiste non transitoriedel
Nota 149 bis: Una schematizzazione assai precisa delle varie
posizioni dottrinarie sul diritto soggettivo è in R. ORESTANO, Diritti
soggettivi, cit., pp. 172-173.
264 Nota 150: […].
265 Nota 151: […].
266 Nota 152: […].
267 Nota 153: […].
268 Nota 154: […].
269 Nota 155: SOLARI, Individualismo, cit., p. 57.
270 Nota 156: […].
271 Nota 157: […].
263
250
liberalismo, ma da una più moderna e meditata riflessione sui
termini vecchi e nuovi dell’individualismo 272, sul presente modo
di raggiungere gli equilibri economici e sociali: dal che
l’affermazione della libertà dell’individuo, sia pure per vie diverse
da quelle alle quali ci avevano abituato alcuni istituti del
passato, risulta profondamente inverata 273. Sarebbe assai triste
se l’istanza liberale non fosse più intesa come uno dei momenti
fondamentali dello spirito umano, in questa luce giudicando
delle forme storiche in cui si realizza, ma, mortificata
dall’identificazione con interessi particolari e transeunti, venisse
considerata alla stregua di una ideologia 274 . Accenneremo più
avanti ai problemi che le nuove forme di organizzazione, e di
direzione economica pongono al diritto privato ed ai loro riflessi
sulla disciplina della proprietà: ma può fin d’ora rilevarsi la
mutata rilevanza dell’istituto. L’identificazione di proprietà e
libertà, infatti, nasceva pure dalla constatazione dell’importanza
determinante dei legami tra potere politico e proprietà (fondiaria,
in particolare): ma oggi l’attribuzione del potere politico, da un
canto, prescinde in molti casi dalla proprietà, essendo divenute
maggiormente importanti alcune forme di accumulazione
distinte dal profitto proprietario 275 ed avendo il potere trovato
spesso la sua sede più nel controllo che nella titolarità dei
beni 276; d’altro canto, sia la scissione tra proprietà e controllo,
sia la scissione della proprietà in forme sempre più difficilmente
riducibili allo schema classico di quella individuale, fanno sì che
la libertà dell’individuo trovi la sua difesa non tanto nella
garanzia dell’accesso alla proprietà e dell’indiscriminato
sfruttamento dei beni, quanto piuttosto in un intervento statale
capace di impedire la trasformazione dell’istituto in uno
strumento del privilegio e di evitare distrazioni di ricchezza 277.
La giustezza di queste notazioni non dipende unicamente dalla
accettazione di determinati presupposti ideologici. Forse più
d'ogni altro, il giurista è provveduto per avvertire che simili
discorsi possono tutti essere fondati su dati obiettivi, su di un
complesso di norme che comincia ad orientarsi secondo direttive
costanti e così ricco che non può attribuirglisi carattere di
eccezione; e di cui non è il caso di tentare una esemplificazione
rappresentativa ed esauriente, ché si tratterrebbe di prendere in
esame tutti i settori dell’attività giuridica in qualche modo
272
Nota 158: […].
Nota 159: […].
Nota 160: […].
275 Nota 161: […].
276 Nota 162: PUGLIATTI, La proprietà, cit., pp. 224-245, 270; BERLE
iunior, Power without property, cit.
277 Nota 163: […].
273
274
251
collegati all’organizzazione economica 278 . Fenomeno, questo,
ordinariamente ricondotto all'aumento delle funzioni dello Stato
moderno: e l'osservazione di certo è esatta, se con essa non si
vuole indicare una semplice dilatazione dei compiti tradizionali
dello Stato, ma un mutamento di qualità del suo operare
giuridico. Non a caso, e per mostrare quanto muti il senso delle
antiche distinzioni e come le trasformazioni tocchino il cuore
degli istituti, ci si comincia a riferire ad una crescente influenza
del fattore politico 279; indicandosi, in tal modo, l’inadeguatezza
di uno schema logico che tende a risolvere i nuovi problemi con
un mero spostamento dei confini tradizionalmente stabiliti tra
diritto pubblico e diritto privato. Tenendo fermo il principio,
riteniamo che, per maggiore esattezza, debba parlarsi di un
profondo mutamento della public philosophy 280, che si riflette in
maniera sempre più evidente, che si riflette in maniera sempre
più evidente sull’attività legislativa, fino a far assistere ad un
radicale mutamento della funzione stessa della legge.
Son questi, a nostro avviso, alcuni dei termini a cui far
riferimento nella discussione che i giuristi son soliti
intraprendere sui rapporti tra proprietà e libertà: e da nessuno
di essi si posson trarre argomenti per escludere il profilo
funzionale della proprietà. Ciò non vuol dire che il nostro
problema sia così risolto, chè, sul piano dogmatico, rimangono
aperte questioni diverse ed impegnative, riconducibili nella loro
sostanza alle tesi che abbiamo sinteticamente riportato 281.
In verità, di fronte al diritto soggettivo è stato posto un concetto
di funzione assai nebuloso e troppo semplicemente ricalcato su
quello proprio dei pubblicisti 282 : era, quindi, addirittura fatale
che si giungesse a costruire il momento funzionale tutto
all’esterno del diritto, offrendo una visione della situazione di
proprietà assai più prossima a quella del tempo in cui lo Stato
liberale non era ancora intervenuto a svincolarla dalla funzione
pubblica, e che oggi rischia di condurre a gravi travisamenti.
Infatti, anche quando si vogliano vedere riaffioranti i segni
dell’antica distinzione tra dominio eminente e dominio utile 283, il
paragone dev’essere risolto in una prospettiva storiografìca e
non in quella sociologistica del ciclo.
278
Nota 164: Si possono utilmente vedere DI ROBILANT, Direttiva
economica e norma giuridica, Torino, 1955; BACHELET, L'attività di
coordinamento nell'amministrazione pubblica dell'economia, Milano,
1957; SPAGNUOLO VIGORITA, L'iniziativa, cit.; M. S.GIANNINI,
Sull'azione dei pubblici poteri nel campo dell’economia, in Riv. dir.
comm., 1959, I, pp. 313-328.
279 Nota 165: […].
280 Nota 166: […].
281 Nota 167: […].
282 Nota 168: […].
283 Nota 169: […].
252
Se, però, cerchiamo di ampliare il panorama delle opinioni
dottrinarie, si noterà che, diretto o implicito, un riconoscimento
della compatibilità del momento funzionale con il diritto
soggettivo è tutt’altro che infrequente. E ciò si verifica, in primo
luogo, da parte di coloro i quali restringono il rifiuto della
funzionalizzazione ai casi in cui essa non è sanzionata da una
norma particolare 284 , dando così a vedere di non ammettere
l’inconciliabilità logica dei due termini. A questa posizione è
possibile avvicinare quei riconoscimenti che, operati in relazione
ad altre situazioni giuridiche attive, trovano nella proprietà una
analogia esplicita ed immediata 285 : ed è significativo che a
queste tesi si faccia luogo piuttosto in occasione di indagini di
tipo commercialistico, in un àmbito, cioè, dove meno
pesantemente operano certe resistenze tradizionali. Si aggiunga
la frequenza con cui ci si riferisce a limitazioni istituzionali 286 o a
una finalizzazione istituzionale 287 , e si avranno gli elementi
essenziali di questa posizione. Tutte le volte che ci si trova di
fronte alla caratterizzazione istituzionale di un limite di una
determinata situazione giuridica, infatti, cade la possibilità di
escludere ogni trasformazione strutturale di essa.
D’altra parte, che la mera contrapposizione di funzione e diritto
non sia la via metodologicamente più esatta per adeguare la
riflessione sulla proprietà ai dati presenti dell’esperienza
giuridica, lo dimostra la maggiore delle indagini di cui
disponiamo 288, la quale è esemplare proprio per il modo in cui
aderisce ad una multiforme realtà e riflette certi stati di disagio
della dottrina contemporanea 289.
Ed è il suo carattere aperto a spiegare perché in essa la
ammissione del profilo funzionale non sia così perentoria come
la negazione presso altri; ché, anzi, l’affermazione non di rado è
temperata dal rilievo «che la proprietà (se già non è tuttavia) si
284 Nota 170: MINERVINI, Contro la «funzionalizzazione», cit., pp. 618636.
285 Nota 170: NICOLÒ, Riflessioni, cit., p. 190.
286 Nota 172: SANDULLI, Giurisdizione e amministrazione in materia di
edilizia urbanistica, in Dir. econ., 1958, pp. 1428-1429.
287 Nota 173: RABAGLIETTI, Introduzione alla teoria del lavoro
nell'impresa, MiIano,1956, pp. 41-42, 94 e passim; ID., Il recesso
dell'imprenditore nel rapporto di lavoro, Milano, 1957, passim. E cfr.,
più avanti, la nota 228.
288 Nota 174: È quella, già tante volte citata, del Pugliatti, il cui valore
esemplare va particolarmente sottolineato per quanto riguarda l’analisi
della nuova realtà legislativa, considerando la quale si fa palese
l’inconsistenza delle vedute tradizionali: si confrontino, soprattutto, le
pagine (pp. 276-277) in cui il Pugliatti, con grande probità scientifica,
sottopone a critica le tesi da lui stesso esposte prima dei mutamenti
legislativi indicati.
289 Nota 175: Cfr. RESCIGNO, Associazione non riconosciuta e capacità
di testimoniare, in Studi in onore di Francesco Messineo, I, Milano,
1959, p. 398.
253
avvia ad essere (strumento di realizzazione di una complessa e
poliedrica) funzione sociale» 290 . È questa necessità di porre
l’accento sul divenire del diritto che colloca l’interprete al difficile
bivio tra una elaborazione passata, di cui avverte la limitata
utilizzabilità, ed una evoluzione futura dai contorni ancora
incerti: da ciò nasce la tendenza ad indicare ciò che la proprietà
non è o non può essere, in luogo di ciò che rappresenta
realmente 291.
Arrestarsi a questa constatazione, però, non è possibile. Non
solo perché gli interrogativi che abbiamo posto rimarrebbero
senza alcuna risposta, ma per l’evidente lacuna costruttiva che
ne risulterebbe (e che già, in più occasioni, comincia ad
apparire): bisogna ricercare gli schemi che possono
accompagnare la proprietà in questa incerta evoluzione, avendo
cura di non irrigidirne i contorni in maniera tale da renderli ben
presto strumenti inservibili.
L’ammaestramento che possiamo trarre da alcune ricerche è che
una costruzione della proprietà del tutto aderente al paradigma
del diritto soggettivo è possibile solo a costo dell’integrale
sacrificio della funzione 292 : con la conseguenza che una
categoria così costruita
sarebbe priva di riscontro nella
disciplina giuridica positiva. La saldatura con questa normativa,
altrimenti negletta, si tenta allora di coglierla ricorrendo ad
alcune figure elaborate dal diritto pubblico, per mezzo delle quali
sarebbe altresì possibile intendere in pieno il senso della
contemporanea evoluzione giuridica della proprietà. A rendere
maggiore la suggestione che tali figure riescono ad esercitare,
contribuisce non poco l’antica, e sempre ricorrente, affermazione
di chi vede in ogni diminuzione dei poteri del proprietario
nient’altro che la sua progressiva riduzione a funzionario dello
Stato 293 : come in effetti era per quelle ideologie totalitarie
teorizzanti una posizione dello Stato o del Volk tutt’affatto
particolare nei confronti dell’individuo 294 . Soltanto in
quest’ultima prospettiva, o riguardando la disciplina speciale di
alcuni beni 295 , è possibile in un ordinamento come il nostro
costruire la figura del proprietario come quella di un
concessionario di un pubblico servizio. Ma neppure la più
Nota 176: PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 278 […].
Nota 177: Può essere indicativa la posizione di DE MARTINO, Della
proprietà, cit. p. 122, il quale afferma che «è quindi in certo senso più
utile dire che cosa il proprietario non debba fare o debba fare solo in
un certo modo, anziché dire che cosa egli possa liberamente fare».
292 Nota 178 […].
293 Nota 179: Cfr., ad esempio, F. VASSALLI, Le riforme del civile in
relazione alla proprietà fondiaria, in Studi, cit., II, p. 320; ID., Il diritto
di proprietà, ivi, p. 420.
294 Nota 180 […].
295 Nota 181: GRISOLIA, La tutela, cit., pp. 223-226.
290
291
254
estrema delle considerazioni del profilo funzionale offre a ciò
qualche appiglio. Se, infatti, è vero che il concessionario esercita
in nome proprio determinate attività, è altrettanto esatto che
titolare del servizio o della funzione svolta è un soggetto diverso
dal concessionario 296; ore, di una siffatta titolarità da parte degli
organi pubblici non è certamente il caso di parlare a proposito
della generalità dei rapporti di proprietà, nulla potendosi
addurre, né dal punto di vista formale e neppure da quello della
sostanza, per dimostrare un sì profondo mutamento del titolo di
attribuzione ai privati.
Il concessionario, ad ogni modo, agisce pur sempre in nome
proprio: ciò significa che gli argomenti addotti contro
l’utilizzazione di questa figura devono a maggior forza valere ad
escludere la fondatezza dell'opinione di chi vede nel proprietario,
al cui diritto attiene la funzione sociale, un organo dello State,
così portando a più rigorose ed estreme conseguenze la
premessa della natura pubblicistica della proprietà. La debolezza
di questa tesi è evidente; né varrebbe a qualcosa opporre che,
considerandosi la posizione del privato, si tratterebbe di un
diritto all'esercizio di una competenza: a parte la necessità di
tenere distinte la competenza e l'attribuzione di un potere 297 e
ammesso pure che al titolare di un ufficio l'esercizio di una
competenza possa essere attribuito come diritto, risulta
comunque chiara la inesattezza del discorso sulla competenza,
«che, concessa ad una persona, diventerebbe diritto proprio di
questa e cesserebbe ipso facto di essere competenza di un
organo dello Stato» 298 . In un punto, almeno, le vedute
tradizionali (anche in queste loro deviazioni pubblicistiche)
meritano d'essere tenute ferme: nella necessità, cioè, di
considerare attentamente il momento dell'attribuzione del
potere, come uno dei più illuminanti le caratteristiche di un
sistema giuridico e, quindi, la struttura da questo foggiata per la
proprietà. L'inaccettabilità attuale di queste vedute comincia
quando esse rifiutano di considerare dal punto di vista
privatistico una attribuzione di potere al proprietario che non sia
del tutto incondizionata (limiti inerenti alla natura stessa
dell’attività giuridica a parte); non riguardandosi di essa gli
aspetti caratterizzanti (particolarità del regime della proprietà
nell'intero sistema), riesce assai agevole continuare a presumere
immutato lo schema formale. Quando, però, non si vogliano
tenere ben separati gli occhi di fronte alla realtà, questo
procedimento conduce fatalmente a contrapporre una proprietà
Nota 182: SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli,
1960, p. 251.
297 Nota 183 […].
298 Nota 184: ESPOSITO, Organo, ufficio e soggettività dell’ufficio,
Padova, 1932, p. 17.
296
255
effettiva ad una giuridica 299, decretandosi al tempo stesso una
insensibilità assoluta delle vicende dell'ultima nei confronti
dell'altra. L'uso di tale artificio, o di altri simili (considerazione
dei nuovi assetti della proprietà soltanto sul piano, assai
generico, di una crescente riduzione della autonomia privata,
senza alcun esame delle conseguenze strutturali; astratta
riaffermazione dell’elasticità del diritto, relativamente ad ipotesi
in cui la possibilità di espansione è del tutto esclusa dalla
mancata attribuzione istituzionale di determinati poteri al
proprietario; e via discorrendo), può certamente far ritenere che
il concetto giuridico della proprietà non sia ancora mutato da
quello di cent’anni fa 300, ma rende pure la discussione su tale
concetto del tutto sterile ed affatto estranea ai vari problemi che
siamo andati ricordando.
Se l’insistenza polemica su questi momenti estremi fosse di
qualche giovamento costruttivo, si potrebbe indugiare
mostrando da qual profondo sonno dogmatico sortiscano tali
pensamenti; e quale curioso abuso dello spirito di sistema
presieda a questa fede nelle categorie pandettistiche, che si
risolve nel continuo tentativo di imporle ad una realtà giuridica
trasformata nelle esigenze e nei metodi, dando così a vedere che
il valore ad esse attribuito è quello di categorie logiche e non già
storiche 301.
D’altra parte, la distanza che separa tanto questi eccessi
tradizionalistici quanto le figure esclusivamente pubblicistiche
dalla reale situazione della proprietà, quale si è andata
profilando negli ultimi tempi, è sembrata superabile mediante il
ricorso al concetto di ufficio, che, già diffuso nel campo del
diritto privato, appariva fornito di tutti i caratteri idonei a
soddisfare, sul piano dogmatico, alle nuove esigenze.
A dire il vero, non si vede come la posizione del proprietario –
pur quando si dia agli obblighi integranti il momento funzionale
la massima estensione – possa essere parificata a quella del
titolare dell’ufficio, per il quale la strumentalità esclusiva
dell’attività da svolgere
è determinante per l’attribuzione del
potere: quale che sia il punto di vista prescelto, fondamento
della situazione d’ufficio rimane sempre un interesse alieno 302.
Nel nostro caso non si tratta di stabilire di qual natura sia
questo interesse o se la sua rilevanza debba considerarsi diretta
o indiretta 303 bensì la possibilità di svincolare completamente
tale interesse alieno dall’interesse soggettivo del privato
299
300
301
302
303
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
185 […].
186 […].
187 […].
188 […].
189[…].
256
proprietario 304. Possibilità che, tecnicamente, il nostro sistema
non offre, dal momento che contempla la formale coesistenza del
carattere privato della proprietà e della sua funzione sociale 305.
Si potrà discutere della bontà e della intrinseca coerenza del
sistema, sia dal punto di vista ideologico sia per quanto riguarda
la sua operatività economica306, ma ciò non sarà mai una buona
ragione per mettere da canto i dati legislativi quali esistono.
Così dicendo, non si vuol assumere una posizione salomonica o,
peggio, tentare una di quelle conciliazioni degli opposti che tanto
spesso affliggono le conclusioni di certe indagini: quando, però,
si vuol tenere fede alla professione di aderenza alla realtà
legislativa e sociale va tenuto ben fermo che, se le affermazioni
assolutistiche appartengono al passato, non sono ancora del
presente le posizioni che null’altro vedono se non il momento
funzionale. Dal punto di vista tecnico, infatti, è di tutta evidenza
che la distinzione tra proprietà pubblica e privata e tra beni
economici secondo l’appartenenza (art. 42 della costituzione)
costituisce un solido aggancio per affermare che l’attribuzione
continua ad essere fatta al privato in quanto tale. Quel che è
mutato è il fondamento dell’attribuzione, essendo divenuto
determinante per la considerazione legislativa il collegamento
della posizione del singolo con la sua appartenenza ad un
organismo sociale 307. L’attribuzione, in altri termini, non è più
incondizionata, secondo un orientamento ormai costante per
tutte le situazioni giuridiche a contenuto economico.
A questo mutamento ha dato consistenza giuridica la funzione.
Essa, concretamente, si manifesta anzitutto come mancata
attribuzione al proprietario di determinate facoltà; in secondo
luogo, come complesso di condizioni per l’esercizio di facoltà
attribuite; infine, come obbligo di esercitare determinate facoltà,
in base ad un apprezzamento libero o secondo modalità indicate.
In ognuna di queste ipotesi, evidentemente, il parametro a cui
riferirsi è quello dell’utilità
sociale. Nel primo caso si è di
fronte ad una riduzione, ormai frequentissima, del contenuto
della proprietà; né vale obiettare l’irrilevanza di ogni
considerazione sul contenuto quando sia in questione la
considerazione formale di una qualsiasi situazione giuridica 308.
Quando, infatti, una o più facoltà non vengano attribuite al
proprietario, è possibile continuare ad assegnare alla proprietà
tutte le caratteristiche proprie del classico schema del diritto
soggettivo solo facendo ricorso a circonlocuzioni del tutto
improduttive: si è già detto del non senso di un richiamo alla
304
305
306
307
308
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
190
191
192
193
194
[…].
[…].
[…].
[…].
[…].
257
elasticità, che in questo caso la possibilità giuridica della
riespansione manca; d’altra parte, parlare di un dovere di
astenersi dall’esercizio di una facoltà sottratta al proprietario 309
è poco meno di un giuoco di parole, con tanto di contraddizione
in termini; e lo stesso vale per tutte quelle infelici formule che
cercano di ricondurre casi di esercizio assai circoscritto ad un
astratto paradigma di assolutezza. Non ci si avvede che,
progressivamente, l’eccezione è divenuta carattere prevalente,
non irrilevante per la stessa qualificazione formale.
Nella seconda delle ipotesi considerate, l’efficacia degli atti
compiuti dal proprietario è subordinata al ricorrere di
determinati presupposti. Ora, riguardando dal punto di vista
dell’esercizio tanto questa ipotesi che la precedente, è possibile
riportare in entrambi i casi la sanzionabilità del comportamento
ad un difetto di legittimazione. Allo stesso modo, l’inattività del
proprietario, quando siano posti a suo carico obblighi ed oneri,
determina una sopravveniente carenza di legittimazione alla
titolarità o all’esercizio del diritto di proprietà; che è quanto
accade anche nel caso di una proprietà eccedente il limite
quantitativo fissato per legge 310 . Questi accenni alla
legittimazione, in questa sede, possono ricevere sviluppi soltanto
sommari 311. È indubbio che al concetto, così come è stato da noi
utilizzato, si può attribuire una portata prevalentemente
descrittiva, nemmeno scevra da imprecisioni. Ma la categoria
della legittimazione è così ricca di implicazioni di carattere
generale da essere possibile, in effetti, una sua utilizzazione in
tutta una serie di ipotesi che si risolvono nella posizione di un
complesso di presupposti: il ricorso ad essa, nel nostro caso,
potrà quindi comportare un ampliamento inconsueto del suo
ambito di utilizzazione, ma non apparire del tutto arbitrario. La
funzione, di conseguenza, non può essere ulteriormente
identificata con la fascia esterna della proprietà, riservata alla
collettività: essa si presenta come espressione ellittica,
unificatrice dei presupposti della qualificazione giuridica, tale da
identificare
il
contenuto
stesso
della
situazione
di
312
appartenenza .
[…]
A tal fine è indispensabile affrontare problemi direttamente
inerenti al contenuto della proprietà. Le obiezioni che si è soliti
opporre a questo modo di procedere sono note: o si osserva che
309
310
311
312
Nota
Nota
Nota
Nota
195 […].
196 […].
196bis […].
197 […].
258
le questioni relative al contenuto non possono avere alcuna
rilevanza per la definizione formale della situazione soggettiva313,
oppure si avverte che le differenze attengono alla diversità di
contenuto economico-sociale e non sono mai tali da incidere
sulla struttura giuridica della proprietà 314. A ben guardare, l’una
e l’altra obiezione non sono affatto decisive: la prima, infatti,
sottintende una definizione a priori ed implicitamente fa capo ad
un contenuto essenziale della proprietà; e la seconda, ponendo
in maniera del tutto unilaterale l’accento sulla capacità propria
agli schemi giuridici di comprendere in sé anche situazioni
modificatesi rispetto a quella originaria, irrigidisce a tal punto il
rapporto tra struttura giuridica e realtà sociale che non si è
lontani dal poter affermare la loro incomunicabilità.
Non si cede, cosi argomentando, ad alcuna pericolosa
suggestione: dell’analisi del contenuto massimamente abbisogna
ogni situazione che può essere ascritta alla categoria della
realità, che questo è l’unico modo per differenziare le varie
situazioni che essa comprende 315 e di dar ragione di ciascuna
struttura secondo l’interesse regolato. Ciò è tanto più vero
quanto più attentamente si considerano le formule in base alle
quali i testi costituzionali hanno introdotto la funzione sociale
della proprietà, in particolare quelli che più o meno direttamente
si rifanno all’esperienza costituzionale di Weimar (art. 14 della
costituzione della Germania occidentale; art. 42 della
costituzione italiana); superata la concezione del limite esterno,
la determinazione del contenuto della proprietà è divenuta
l’unica determinante anche al fine risolvere le questioni in tema
di interventi legislativi sul regime di appartenenza dei beni 316 .
Son queste le ragioni non secondarie che devono indurre
all’indagine del contenuto, dalla quale emergono le molteplici
situazioni in cui la proprietà si differenzia 317 : sarebbe, però,
erroneo considerare questa indagine alla stregua di una mera
ricerca atomizzata, poiché da essa non consegue soltanto il
frantumarsi di una situazione in precedenza ritenuta unitaria,
ma pure una presa di coscienza in termini nuovi del fenomeno
dell’appartenenza dei beni. Evidentemente, ciò non significa che
qualsivoglia obbligo o limitazione, imposti al proprietario,
possano essere ricondotti alla funzione e, quindi, costruiti
all’interno della situazione di proprietà. Nel determinare quali
tra gli obblighi siano riferibili alla funzione, va sempre tenuto
presente che questa è qualificata in senso sociale e che tale
qualificazione non va intesa come un generico riferimento di
313
314
315
316
317
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
236
237
238
239
240
[…].
[…].
[…].
[…].
[…].
259
ogni interesse rilevante per la generalità dei consociati, ma nel
preciso significato che già abbiamo avuto modo di esaminare.
D’altra parte, la funzione sociale non è neppure riducibile alle
singole disposizioni che ne rappresentano la concreta e storica
realizzazione nelle situazioni particolari. Rispetto a tali
disposizioni la funzione non si pone certamente come un a priori
che tutte le trascenda, ma è il fondamento giuridico da cui esse
traggono
legittimità:
la
rilevanza
della
funzione,
conseguentemente, non può essere negata quando, in una
determinata situazione, manchi una norma espressa che ne
costituisca la realizzazione. In tal caso, anzitutto vi è la
possibilità di estendere alla situazione mancante di una
disciplina funzionale quella dettata per un’altra situazione,
purché sussistano i presupposti dell’analogia (l’ammissibilità
della interpretazione analogica sarà discussa più avanti); in
secondo luogo, l’operatività immediata della funzione si
manifesta proprio nel fatto che ad essa si deve la possibilità di
dettare in futuro una particolare disciplina funzionale a quella
situazione che attualmente ne sia priva. La funzione, allora, si
presenta come un elemento caratterizzante la situazione di
proprietà, indipendentemente dall’esistenza attuale di un dato
normativo in cui si concreti: se, dunque, essa appare come
l’elemento che modifica la struttura tradizionalmente
riconosciuta alla proprietà, deve pur essere considerata il
Momento attorno al quale può essere costruito in forme unitarie
il fenomeno dell’appartenenza, dal momento che non ci troviamo
più di fronte ad una indeterminata pluralità di obblighi
particolari, ma ad un elemento tipico. La situazione di
appartenenza, dal canto suo, non corrisponderà in tutto a quello
che era la proprietà, poiché la determinante presenza
dell’elemento funzionale esclude tutti quei beni rispetto ai quali
esso si palesa incompatibile. È appena il caso di sottolineare,
infine, il particolare rilievo che, in questa prospettiva, assume
l’attività del giudice, chiamato a determinare quale sia in
concreto l’ambito di applicabilità della funzione 318.
Si offre, cosi, la possibilità di nuovi criteri sistematici, dalla cui
utilizzazione può discendere un nuovo modo di considerare
anche altri tra i diritti reali (usufrutto ed enfiteusi, come è ben
noto). In questa direzione — la cui fecondità era già
implicitamente ammessa da chi, a proposito dei diritti reali,
trovava preferibile parlare di «gradazioni dell’appartenenza» 319 —
ci sembra debbano svolgersi le ricerche; ed è evidente che il loro
orizzonte non può ritenersi concluso dagli schemi reali
tradizionalmente accetti, ma deve ampliarsi per considerare la
318
319
Nota 240bis […].
Nota 241 […].
260
possibilità di comprendere fenomeni come l’impresa o i beni
immateriali, o situazioni di confine che vedono sempre più
respinto sullo sfondo il momento obbligatorio, per apparire con
tutti i tratti peculiari della realtà (si pensi all’assetto
convenzionale della proprietà urbana).
[…]
Non vogliamo qui riproporre, nella sua interezza, la questione
assai complessa del valore e della legittimità delle
definizioni
320
anche se alcuni recenti contributi stimolano a nuove
legali
meditazioni 321 . La polemica contro le definizioni legali ha
ricevuto rinnovato alimento dalla codificazione civile del 1942,
caratterizzata da un abuso di definizioni che contribuisce a dare
al codice un marcato aspetto manualistico 322 e si è mantenuta
particolarmente vivace per la definizione della proprietà, non
tanto in ragione delle difficoltà nascenti dall’ampiezza del suo
contenuto 323 , bensì perché essa appariva surrettiziamente
inserita nel contesto legislativo. In altri termini, provenga dal
legislatore
o
dall’interprete,
come
una
abbreviazione
convenzionale, né come la formula riassuntiva di una normativa,
ma come un a priori o un dato arbitrariamente sovrapposto alla
disciplina positiva, espressione dell’ideologia del suo autore 324
piuttosto che descrizione dell’essenza di un concetto quale
risulta dalla normativa 325 o prescrizione dell’uso del termine
definito 326. In effetti, se percorriamo la storia della definizione,
dalla glossa fino a quelle più recenti 327 avremo modo di notare
che il termine proprietà è stato quasi sempre impiegato per
indicare strutture giuridiche che non corrispondevano affatto, o
corrispondevano soltanto parzialmente, alla definizione che di
quel termine veniva data nel medesimo contesto : e ciò per
ragioni varie, di carattere politico talvolta 328 , derivanti dallo
scarto tra sistematica e realtà in altri casi 329. Di fronte a queste
situazioni, di grande utilità può certamente rivelarsi quell’opera
di chiarimento e di fissazione di sicure regole per l’uso di un
termine, in cui gli analisti fanno consistere il compito della
320
321
322
323
324
325
326
327
328
329
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
262[…].
263[…].
264[…].
265[…].
265 bis[…].
266[…].
267[…].
268[…].
269[…].
270[…].
261
giurisprudenza 330 . Da un chiarimento del genere risulterebbe,
però, la possibilità di applicare soltanto ad oggetti di valore
economico-sociale relativamente modesto lo schema definitorio
tradizionale, che — venga posto l’accento sul contenuto della
proprietà o sui poteri del proprietario — può esser così riassunto
: la proprietà (o il potere del proprietario) consiste nella
possibilità di far dell’oggetto tutto ciò che non è vietato dalla
legge. I tratti fondamentali di questa definizione sono rimasti
immutati, pur attraverso le infinite variazioni che ne sono state
proposte: il paradigma bartoliano 331 è ancora operante, a
testimoniare la grandezza d’intuito e la felicità espressiva di quel
giurista332. Ancora una volta, però, quel che rimaneva invariato
era il nomen, mentre la sostanza era profondamente modificata.
Basta riflettere un momento su una qualsiasi di quelle
definizioni. Si prenda quella, ancora vigente, del code civil (art.
544) : «la proprietà est le droit de jouir et de disposer des choses
de la manière la plus absolue, pourvuqu’on n’en fasse pas un
usage prohibé par la hiou par les réglements». Il riferimento più
significativo è, senza dubbio alcuno, quello all’uso proibito dalla
legge: riferimento che, in un ambiente culturale che negava
all’intervento legislativo ogni valore attivo e vedeva nella legge
soltanto l’imparziale custode di alcune generali regole del giuoco,
assumeva un significato profondo di garanzia del diritto del
cittadino. Attribuendosi, come oggi accade, alla legge un valore
assai diverso — essendo divenuta strumento attivo del processo
economico-sociale 333 — il riferimento ad essa ha perduto ogni
significato garantistico, per divenire semplice fissazione delle
modalità d’intervento sulle proprietà esistenti.
Ciò è tanto
più chiaro quando si pone mente alla crescente importanza della
legislazione speciale ed alle ragioni che ne giustificano
l’ampiezza 334 : legislazione che non può essere «pudicamente
considerata come un accidente … permanentemente transitorio
», di fronte ad una disciplina civilistica «che assume allora il
carattere di un testo venerato» 335 . La considerazione di questi
dati positivi conferma l’uso non univoco del termine
«proprietà» 336 : dal che risulta l’impossibilità di una definizione
rigorosa, se non se ne restringa l’uso ad una soltanto
delle
situazioni che esso attualmente continua ad indicare.
A
meno che non si preferisca rimanere nell’equivoco, continuando
Nota 271: BOBBIO, Scienza del diritto, cit., pp. 355-359.
Nota 272[…].
332 Nota 273: CALASSO, Medio Evo del diritto, I, Milano, 1954, pp.
573-577.
333 Nota 274[…].
334 Nota 275[…].
335 Nota 276: ASCARELLI, Proprietà e controllo, cit., p. 756.
336 Nota 277[…].
330
331
262
ad inseguire il carattere astratto, e non quello concreto, della
proprietà337.
Insistendosi con pari tenacia sulla necessità di riconoscere più
situazioni al posto di un’unitaria figura di proprietà e di aver per
fermo il concetto di funzione sociale, potrebbe aprirsi la via ad
una obiezione che rilevasse la contraddittorietà di un pensiero
così articolato. In altri termini, si potrebbe dire che, anche
quando si fosse riusciti a determinare con sicurezza in che cosa
consiste la funzione sociale, questa sarebbe inapplicabile, per
l’indeterminatezza o il valore polisenso della proprietà, che è il
termine con il quale va messa a rapporto.
Per l’interprete, questo non è un problema di difficile soluzione.
Siamo, infatti, di fronte ad un tipico caso di formulazione
legislativa scientificamente non corretta che il giurista ha il
compito di chiarire 338 , non il destino di subire: gli errori del
legislatore non devono essere ripetuti dall’interprete, né essere
per questi il pretesto di nuovi. Ma il chiarimento non avrà il solo
scopo di identificare quale situazione possa a rigore definirsi
proprietà, per concludere che a questa soltanto deve applicarsi
la funzione sociale: sarebbe, questa, una conclusione che
potrebbe manifestarsi in flagrante contrasto con la ratio della
normativa, assolutamente non rispettosa dell’interesse tutelato.
Proprio quella ratio, invece, deve essere ricostruita,
quell’interesse individuato, per stabilire a quali situazioni il
legislatore intendesse riferirsi usando una terminologia errata:
ed a tutte ritenere applicabile la funzione sociale.
Quest’ultima proposizione, però, è sostenibile solo quando si
dimostri che la funzione sociale rappresenta, nel nostro
ordinamento e relativamente alla proprietà, un principio
operante in via generale, e non già un complesso di obblighi
speciali sanciti da particolari disposizioni di legge. Come
complesso di obblighi speciali la funzione è stata spesso intesa
in passato 339 e continua ad esserlo da quanti ammettono il
momento funzionale solo in presenza di una espressa
prescrizione, contenuta in una norma speciale 340 . Questo
atteggiamento poteva, forse, dirsi giustificato prima dell’entrata
in vigore della costituzione repubblicana, che nel nostro sistema
mancavano i riferimenti positivi su cui fondare una costruzione
generale. A chi aveva creduto di potersi richiamare alle
dichiarazioni VII e IX della carta del lavoro 341 si era infatti
obiettato che « il fondamento non è solido, poiché le predette
dichiarazioni non parlano della proprietà privata, sibbene della
337
338
339
340
341
Nota
Nota
Nota
Nota
Nota
278[…].
279[…].
280[…].
281[…].
282[…].
263
iniziativa economica nel campo della produzione » 342 . Oggi, di
fronte alla chiara lettera del secondo comma dell’art. 42 cost.,
nessun dubbio ha ragione d’essere; e s’è visto come si preferisca
ricorrere all’argomento dell’indeterminatezza della funzione
sociale, in verità sorprendente sulla penna di chi s’accontenta
d’una vaga definizione della proprietà, adducendo a scusante
l’estensione del tutto inconsueta del contenuto di quest’ultima.
Né, posta la questione nei termini da noi precisati, è possibile far
ricorso alla famigerata distinzione tra norme precettive e norme
programmatiche; e neppure ci sembra rispettabile difesa
l’introduzione d’una distinzione tra principi generali in materia
costituzionale e principi generali del diritto tout court o del diritto
privato. Dietro l’apparente rigore di queste distinzioni si cela la
violazione d’uno dei fondamentali doveri dell’interprete, che è
quello di ricostruire la totalità dell’ordinamento considerato 343; e
l’ attentato più largo alle stesse ragioni del privato, esposto ad
una indiscriminata serie di interventi particolari, non giustificati
e disciplinati da alcun principio generale.
Tutto ciò non significa soltanto che la funzione sociale, in
quanto principio generale, possa operare anche in quelle
situazioni di proprietà per le quali manchi una espressa
disposizione che la richiami. Quando, parlandosi dell’operatività
immediata della funzione, si dice che « essa … costituisce il
cemento, l’idea unificatrice, il principio sistematico organizzatore
che come tale supera l’episodio, scioglie i limiti della disposizione
eccezionale, pone i nessi tra le disposizioni particolari e colma
lacune, rispetto a tutte le norme nelle quali si può vedere una
concreta e specifica attuazione di esigenze di carattere sociale a
mezzo del diritto di proprietà» 344 — non si fa certamente della
apologetica. Logica conseguenza di questa impostazione è il
riconoscimento della estensibilità in via analogica di tutte quelle
norme di carattere eccezionale il cui contenuto rappresenta una
realizzazione del principio della funzione sociale, dal momento
che proprio il sopravvenire di un principio di carattere generale
ha fatto cadere il divieto dell’analogia 345. Inerendo alla struttura
della proprietà, la funzione sociale vede diminuito il margine
d’indeterminatezza, che abbiamo visto proprio della sua natura
di principio elastico 346, ed acquista più precisi contorni da una
ricostruzione che può con piena legittimità tener conto di tutti
Nota 283: PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 143 […].
Nota 284: BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione,
Milano, 1948, pp. 46-50.
344 Nota 285: PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 278.
345Nota 286: RUBINO, Odierne tendenze sui limiti del diritto di proprietà,
in Annali Macerata, 1948. pp. 83-84.
346 Nota 287[…].
342
343
264
gli elementi presenti nel sistema, per determinarne l’operatività
anche nelle situazioni più particolari.
8. –Queste ultime riflessioni sulla funzione sociale, che ha
costituito un po’ il pretesto ed un po’ il filo conduttore di queste
nostre note, possono quasi sembrarne l’apoteosi, visto che ad
essa si assegna una operatività tanto ampia. Impressione, forse,
non ingiustificata, di fronte alla consuetudine delle
interpretazioni limitatrici, per non dire ferocemente avverse: ma
che non rispecchia le nostre intenzioni.
Ché, anzi, tanto
eravamo lontani dall’assegnare alla funzione sociale un ruolo
profondamente innovatore delle strutture giuridiche e della
realtà effettuale, che non abbiamo mancato di sottolineare 347
come essa non costituisca la risposta offerta da un nuovo modo
d’organizzarsi della società ai bisogni presenti, ma la moderna
maniera in cui l’attuale sistema sociale cerca di dare più ampio
respiro al suo più tradizionale istituto. Per questo, certi asseriti
contrasti con le ragioni della libertà e dell’individuo ci son
sembrati insussistenti. E com’era lontano ogni intento
apologetico, così sfuggiva al nostro svolgimento ogni moralistica
condanna, nel tentativo di ricostruire lineamenti giuridici e di
riferirli ad un ambiente storico.
Fuori da questa preoccupazione, numerosi autori han visto nella
funzione sociale nient’altro che una formula difensiva del
tradizionale
assetto proprietario 348 , una «menzogna
convenzionale» 349 . L’aspetto puramente verbale della riforma
prospettata da Duguit o da Hedemann è stato l’oggetto degli
attacchi diretti da parte marxista, criticandosi il tentativo di
occultare il carattere classista della proprietà privata dietro
escogitazioni come «le trasformazioni del diritto civile» o etichette
come la funzione sociale 350.
La storia, invero, sembra dar ragione a questi ultimi: ché, se
riflettiamo sull’esperienza legislativa e giurisprudenziale degli
ultimi quaranta anni, dobbiamo riconoscere che la funzione
sociale della proprietà è stata formulata più operante nelle
discussioni degli studiosi, che nelle coscienze dei giudici e dei
politici. In essa si alimentarono, ingenue e generose, le illusioni
di profondi rinnovamenti sociali, che essa non poteva offrire,
destinata com’era a rappresentare non già una rottura del
sistema, ma un mutamento di prospettive nel corpo di esso:
347
348
349
350
Nota
Nota
Nota
Nota
288
289
290
291
[…].
[…].
[…].
[…].
265
tornare a parlarne è quasi far la storia di un’utopia. Con essa si
esercitarono i retori ed i confusionari 351.
E, senza le giustificazioni più o meno nobili di quegli altri, ad
essa i più accorti tra quanti perseguirono un disegno
conservatore affidarono il compito di rassicurare sulle intenzioni
e di non rappresentare un ostacolo alla contrastante pratica che,
nelle cose quotidiane, veniva perseguita. Ma non si sarebbe
buoni storicisti se alla storia si guardasse soltanto come
ad
una serie di errori, falsità, violenze, e non come ad un
progrediente valore: alle nostre volontà è affidata la possibilità
che la vicenda della funzione sociale della proprietà risulti
diversa nell’esperienza giuridica che andiamo vivendo. Ed è
questo che ci ha indotti a dar qualche cenno di una possibile
prospettiva interpretativa.
Questo che abbiamo indicato non è, però, il solo limite della
funzione sociale; e neppure il maggiore. Esistono fenomeni che
invano si cercherebbe di regolare ricorrendo ad essa. Sono, ad
esempio, la maggioranza dei casi in cui ricorre una separazione
tra la proprietà formale e la proprietà sostanziale 352, nei quali
l’attenzione della normativa deve essere indirizzata sui
Konnexinstitute 353 piuttosto che sulla proprietà; sono, in
particolare, i casi di scissione tra proprietà e controllo,
caratteristici del mondo della produzione, ove il concentrare la
disciplina esclusivamente sul momento della proprietà
significherebbe sancire, nel fatto, l’irresponsabilità assoluta di
chi effettivamente opera. Proprio il moderno modo di
organizzarsi del mondo della produzione offre gli esempi più
cospicui dell’impossibilità di giungere ad un efficiente controllo
della proprietà, che costituisce uno dei problemi più alti della
società democratica, a mezzo della funzione sociale. Si pensi
all’importanza assunta da uno strumento come la società per
azioni 354, ai poteri da questa raggiunti in ragione dell’ampiezza,
351 Nota 292: Della confusione e della retorica di quegli anni è buona
espressione la carta del Camaro, che data appunto del 1920, la quale
si occupa della proprietà all’art. IX: «Lo Stato non riconosce la
proprietà come il dominio assoluto della personalità sopra la cosa, ma
la considera la più utile delle funzioni sociali.
Nessuna proprietà può essere rinserva alla persona quasi fosse una
sua parte: né può essere lecito che tale proprietario infingardo la lasci
inerte o ne disponga malamente, a esclusione di ogni altro;
Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di
scambio è il lavoro;
Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa
massimamente profittevole all’economia generale».
352 Nota 292 bis […].
353 Nota 293: RENNER, The institutions, cit., p. 105 ss.
354 Nota 294 […].
266
alle forme di collegamento con cui opera 355 e si vedrà che la
risposta ai problemi che la sua esistenza pone può esser
costituita dalla disciplina antimonopolistica, dalle leggi sulla
tenuta e sulla pubblicità dei bilanci e sulla responsabilità degli
amministratori: più ancora, ad evitare l’abuso non è più
sufficiente la proibizione di un particolare modo dell’esercizio dei
poteri, che sembra stare a fondamento dell’abuso, ma è
necessaria una modificazione istituzionale 356. E vogliamo tacere
di soluzioni più comprensive, come la nazionalizzazione; e della
pianificazione, di cui la vita economica sente il bisogno sempre
maggiore e per cui dal diritto si attendono i nuovi strumenti.
Affisando il pieno rigoglio di questo mondo nuovo, in cui si
scorgono i segni di meravigliosi svolgimenti pur nelle strutture
giuridiche, vien fatto di pensare che questi soltanto siano i temi
con cui cimentarsi : ma, forse, il filo che conduce ad essi corre
lungo antiche discussioni e vecchie incomprensioni della
dottrina. Tentare di ripercorrerne qualche tratto, allora, può
essere almeno un utile esercizio.
Nota 295: si veda, da ultimo, l’esame dedicato a un fenomeno assai
importante (la società holding) da LIBONATI, Holding e investment
trust, nel volume collettaneo The corporation in modern society, a cura
di Mason, Cambridge (Mass.), 1960, p. 38.
356 Nota 296: CHAYES, The Modern Corporation and the Rule of Law,
nel volume collettaneo, The Corporation in Modem Society a cura di E.
S. Mason, Cambridge (Mass.), 1960, p. 38.
355
267
15) M.S. Giannini, Basi costituzionali
della proprietà privata, da Pol. Dir., 1971,
n.4/5, pp. 443-501
1. In ogni tempo e in ogni luogo i diritti di proprietà, nelle
loro varie specie, hanno avuto ed hanno rilevanza
costituzionale. Precisare i modi che questa ha assunto e
assume è peraltro difficilissimo, almeno se ci si vuole
attenere ad ordini concettuali giuridicamente rigorosi:
difatti nessuno sinora vi si è accinto, dovendosi ritenere
storico-sociologici più che giuridici i grandi affreschi
eseguiti dai maggiori sociologi tedeschi di questo secolo.
È opportuno aver presente - anche in relazione al discorso
che si va a svolgere - che ovunque il diritto di proprietà
privata convive col diritto di proprietà collettiva, e, dal
periodo in cui gli ordinamenti generali si sono entificati in
enti rappresentativi - comuni, corone, principati, stati -,
con i diritti di proprietà pubblica. Né, nel rapporto tra
questi diversi diritti, è mai accaduto che il diritto di
proprietà privata abbia avuto posizione di primato
(contrariamente all’opinione corrente nella dottrina del
diritto privato sino al primo quarto di questo secolo).
Le forze di cui - come giuristi del nostro tempo – possiamo
disporre, ci consentono quindi solo una limitata analisi
delle rilevanze costituzionali del diritto di proprietà privata;
ci permettono solo un confronto fra la rilevanza che tale
diritto ha nelle costituzioni degli Stati borghesi liberali dello
scorso secolo e quella che ha nelle costituzioni degli Stati
pluriclasse non collettivisti del nostro. Già diverrebbe
difficile un’estensione del confronto agli Stati pluriclasse
collettivisti del nostro secolo, per lo scarso apporto che
riceviamo dalla dottrina di questi paesi.
[...]
9. Il rilievo, almeno esterno, delle linee percorse in vigenza
dello Statuto del 1848, spiega perché il legislatore
costituente del1946 trovò un campo apparentemente
vergine, e pertanto pericoloso, come tutte le false verginità.
Esso aveva tuttavia l’esperienza delle costituzioni di altri
Stati, tra essi — come si diceva — principalmente quella
tedesca di Weimar, nelle quali era stato adottato il modello
268
della costituzione rigida, e si erano poste delle norme sulla
proprietà; esperienze, in linea di risultanza, positive, alle
quali si ispirò. Ne venne fuori il complesso delle norme
dell’articolo 42.
Come esempio di normativa costituzionale, quella dell’art.
42non è particolarmente perspicua; il legislatore
costituente italiano non ebbe capacità di previsione, e
anche le norme che non gli posero difficili problemi, come
questa, furono codificazione delle istanze già presenti nella
collettività generale più che posizione di principi per una
collettività in evoluzione. Peraltro come codificazione delle
istanze, l’art. 42 ha quantomeno il vantaggio di essere
sufficientemente chiaro.
10. Il primo comma dell’art. 42 contiene due enunciazioni.
La prima è: «la proprietà è pubblica o privata». La maggior
parte degli interpreti ha inteso l’enunciazione secondo la
lettera, e si è posta a discettare circa il significato di
proprietà pubblica, chiedendosi se è tale quella dei beni
demaniali, ovvero anche quella dei beni patrimoniali degli
enti pubblici, o ancora se sia tutta la proprietà privata delle
figure soggettive pubbliche, e se comprenda le proprietà
collettive, oppure le lasci fuori, e in tal caso se queste non
siano «riconosciute» o invece esistano indipendentemente
dalla Costituzione. E ancora si è chiesta se l’enunciazione
costituzionale abbia valore precettivo, o altro diverso valore
da identificare. Come pure si è chiesta se la distinzione tra
le due proprietà significhi che il legislatore costituente ha
inteso differenziare due tipi – più o meno fondamentali – di
proprietà.
Tutte queste discussioni, si può osservare, hanno un filo
comune: sono fatte avendo esclusivo riferimento al diritto
positivo vigente al momento dell’entrata in vigore della
Costituzione (che è poi ancor il diritto attualmente vigente),
cioè ad un diritto positivo in cui «proprietà pubblica» è una
espressione non normativa ma dottrinaria, carica di
oscurità e di riserve. È noto infatti che essa fu introdotta
per spiegare la natura (o la struttura) dei poteri dominicali
sui beni demaniali, ma coloro che la introdussero, in
ultima istanza, non riuscirono a spiegare proprio nulla; e
difatti vi furono altri i quali, pur dicendo di adottare il
concetto, rilevarono che il dominus pubblico non aveva
potere di disposizione, quasi mai aveva poteri di godimento
269
suoi propri, aveva limitate facoltà di utilizzazione; ossia
affermando di adottare il concetto lo caricavano tuttavia di
tali riserva sostanziali da dover far ritenere che in realtà
adottassero una locuzione, sul cui tessuto era meglio non
indagare troppo. Difatti a questa conclusione è giunta
parte della dottrina più recente, specie quella che,
attraverso l’analisi positiva dei beni pubblici demaniali e di
alcuni dei beni patrimoniali indisponibili, ha posto in
evidenza come l’ente pubblico in molti casi non è un
fruitore del bene ma solo un amministratore di esso, per
conto delle collettività o in ordine alla cura di determinati
interessi pubblici.
Ci si può quindi chiedere se sia plausibile ritenere che il
legislatore costituente si sia proprio voluto occupare del
demanio o dei beni patrimoniali indisponibili allorché ha
adottato l’espressione «proprietà pubblica». Per quante
critiche si vogliano fare a tale legislatore, non è tuttavia
possibile pensare che esso non fosse a conoscenza delle
riserve, se non delle contestazioni, che erano affluite sul
concetto di «proprietà pubblica» come diritto sui beni
demaniali. Ciò porta a ritenere che l’enunciazione «la
proprietà è pubblica o privata » sia da intendere in senso
più ampio, come affermazione di una dignità della
proprietà pubblica non diversa da quella della proprietà
privata. In tal modo l’affermazione avrebbe un valore
politico polemico, nei confronti di quelle concezioni
secondo le quali proprietà per eccellenza sarebbe la
proprietà privata; e nel contempo avrebbe un valore,
sempre politico, ma anche precettivo, nel senso che alla
proprietà pubblica non si potrebbe attribuire un rango
minore o marginale rispetto alla proprietà privata.
Quanto al contenuto da dare alla proprietà pubblica, si
deve intendere che il legislatore costituente abbia rinviato
al legislatore ordinario, il quale potrebbe perciò introdurre
o regolare in diversi modi la proprietà pubblica medesima:
come proprietà collettiva dell’intera collettività statale o di
collettività minori, come proprietà collettiva amministrata
dallo Stato o da altri enti pubblici, come proprietà
amministrata da un ente pubblico ma destinata ad essere
utilizzata da imprenditori controllati, come proprietà di un
ente pubblico utilizzata da questo per fini suoi propri
(magari manifestazioni dirette della sovranità, se l’ente
pubblico è lo Stato). In una parola sarebbero possibili i
270
modi più vari di organizzazione e di regolazione della
proprietà
pubblica,
se
e
in
quanto,
secondo
l’interpretazione che qui si suggerisce, non la si riduca ai
significati marginali di diritto sui beni demaniali o di diritto
di proprietà di enti pubblici.
11. La seconda enunciazione del 1° comma dell’art. 42 è: i
beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
È un’enunciazione che ha ricevuto molte critiche. Si è detto
da taluni che è ovvia, epperciò pleonastica: è evidente, si è
osservato, che i beni appartengono ad enti (tra cui lo Stato)
e a privati; è evidente, si è ancora detto, che potendo gli
enti essere pubblici o privati, l’enunciazione è quantomeno
impropria, gli enti privati potendo essere – a volontà –
collocati o tra gli enti o tra i privati; d’altra parte lo stesso
Stato può essere proprietario di beni uti privatus, onde non
s’intende che cosa siasi voluto stabilire allorché si è detto
che può essere proprietario. Si aggiunge che tutti i beni
sono, per definizione, entità economiche, per cui dire che i
«beni economici» appartengono a diversi soggetti, è come
dire che ogni soggetto giuridico può essere proprietario:
enunciazione superflua e inutile anche perché non può
distruggere eventuali limitazioni della legittimazione alla
titolarità del diritto di proprietà. Ché se poi si volesse, tra i
beni, individuare una specifica categoria costituita dai beni
«economici», ci si imbatterebbe in altra difficoltà, stante che
il bene «economico» non sarebbe diverso – ai fini
dell’appartenenza – dal bene non economico: la differenza
riguarderebbe semmai il godimento e l’utilizzazione del
bene «economico», ma l’enunciazione costituzionale non di
questi ma dell’«appartenenza» si occupa. Peraltro, una volta
ammesso che esistano «beni economici» distinti da quelli
non economici, non è pensabile che una differenziazione di
regimi giuridici tra i diversi beni economici debba farsi, da
parte del legislatore positivo, solo in base al criterio
soggettivo dell’appartenenza: a che fine infatti si dovrebbe
usare questo criterio totalmente formale e alogico? E poi
che sono questi beni «economici», visto che tutti i beni sono
economici? Di critiche di questo genere se ne potrebbero
ancora allineare. Né vi è dubbio che l’enunciazione, nella
sua scrittura testuale, è sconcertante se la si interpreta
secondo i criteri con cui si interpreterebbe una norma
civilistica, perché, comunque la si rigiri, sarebbe sbagliata,
271
o, nelle migliori delle ipotesi, incompleta o poco
significativa.
Se dunque le si vuol attribuire un significato – e non si può
non farlo, essendo enunciazione costituzionale – sembra
sia da usare lo stesso criterio che si è usato per la prima
enunciazione del medesimo comma, e quindi vedere nella
preposizione della norma costituzionale la statuizione di un
principio politico. Solo così infatti l’enunciazione, che è
presentata secondo il modello linguistico di una
proposizione meramente descrittiva, da trattato giuridico e
non da norma, può acquistare il valore precettivo proprio
della norma, soprattutto poi della norma costituzionale;
per cui essa viene a significare che l’ordinamento giuridico
dello Stato italiano conosce tre specie di appartenenza dei
beni economici (allo Stato, ad enti, a privati), onde nella
tua formazione queste tre specie dovranno esistere.
Esistere come? Questo è il vero problema; perché se la
norma costituzionale avesse detto che nella formazione
dell’ordinamento devono esistere beni mobili e immobili,
oppure materiali e immateriali, sì saprebbe che cosa la
norma avrebbe potuto voler dire. Qui invece viene usata
un’espressione, quella di beni «economici», che è in
assoluto dissueta: nessun testo giuridico la impiega, ed è
ignota al linguaggio della scienza giuridica; tant’è vero che
la dottrina, anche quella che dopo la Costituzione si è
specificamente occupata della proprietà, ne tace, e non
esiste alcuna pronuncia della giurisprudenza in cui ci se
ne occupi. Nei lavori preparatori della Costituzione qualche
idea, utile ai fini interpretativi, in qualche modo emerge. Vi
fu
in
alcuni
componenti
dell’Assemblea
una
preoccupazione: che un legislatore futuro, o un legislatore
regionale, «riservassero» all’ambito della proprietà pubblica
la proprietà dei «mezzi di produzione», restringendo
l’ambito della proprietà privata ai beni di godimento
personale: in ciò, essi asserivano, seguendosi un modello
che ravvisavano proprio dei paesi collettivisti (nei quali
tuttavia la formazione non è così elementarmente rozza
come verrebbe fuori da queste rappresentazioni); di qui la
richiesta che nella costituzione fosse detto chiaramente che
i mezzi di produzione potessero essere anche oggetto di
proprietà privata. Ma per la poca chiarezza d’idee sul
rapporto proprietà dello Stato-proprietà pubblica, senza
star troppo a sottilizzare sulla proprietà «agli enti»,
272
essendocisi convinti che «proprietà dei mezzi di produzione»
è espressione di un linguaggio politico di battaglia, non
avente rilevanza scientifica neppur nelle scienze
economiche e sociologiche, si escogitò la locuzione «beni
economici» con l’intenzione che essa potesse intendersi
come beni aventi rilevante importanza nei processi
economici di produzione e di scambio. Nessuno dei
costituenti ebbe a riflettere che il cardine intorno a cui
ruotano questi beni così mal definiti non è, nel mondo
contemporaneo e in tutti i regimi politici, il diritto di
proprietà, ma l’impresa.
Sulla base dell’elemento interpretativo storico è peraltro
possibile dare un significato all’enunciazione che si sta
esaminando, ma nella determinazione del significato è
implicita anche una conclusione negativa; che è inutile
cercare di fissare un valore giuridicamente definito di «bene
economico»; il valore della norma non sta infatti nel
determinare una nuova categoria di beni e nello stabilire
dei principi per la disciplina di tale categoria. Mentre
nell’enunciazione precedente potrebbe essere implicito il
comando volto al legislatore di stabilire una proprietà
pubblica (o anche più tipi di proprietà pubblica), in questa
vi è solo l’implicazione di un divieto, oggettivamente
limitato: non può non esser prevista, nella formazione
dell’ordinamento, la proprietà privata di beni aventi
rilevante importanza economica.
Tale implicazione si potrebbe già ricavar, invero, dalle
norme sull’iniziativa economica e sull’impresa contenute
nell’art. 41, e la proposizione in cui si esprime è
presupposto giuridico delle norma sulle collettivizzazioni
(art. 43) e sulla proprietà agricola (art. 44). Tuttavia
nell’architettura – non importa se più o meno sapiente – di
spinte e controspinte con cui è concepito il nostro edificio
costituzionale, l’enunciazione che si sta esaminando può
dirsi superflua ma non è inutile.
Si può, a conclusione, osservare che le date enunciazioni
del 1° comma dell’art. 42 sono ambedue statuizioni di
principi politici; per coloro che nel sistema di questi
ravvisano la costituzione materiale, si può dire sono
esplicitazioni di regole componenti tale costituzione.
12. A differenza delle enunciazioni del 1º comma, quelle del
2º comma dell'art. 42 sono stilate nel linguaggio corrente
273
delle
proposizioni
precettive.
Sicché
dottrina
e
giurisprudenza non ne hanno rifiutata l'interpretazione,
come invece, in ultima istanza, hanno fatto per quelle del lº
comma.
Il secondo comma si compone di tre enunciazioni: a) la
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge; b) la
legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i
limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale; c) la
legge ne determina i modi di acquisto, ecc., allo scopo di
renderla accessibile a tutti.
Delle tre enunciazioni la prima soprattutto ha sollevato
discussioni, in quanto si è in essa voluto scorgere una
sorta di definizione costituzionale del diritto di proprietà
privata.
È tuttavia indiscutibile che l'interprete, il quale si avvicini
ad essa senza prevenzioni, non può non rilevarne la
sommarietà; tanto più evidente se si confronti questa
enunciazione con tante altre che si incontrano in tutta la
prima parte della Costituzione (diritti e doveri dei cittadini),
le quali appaiono tutt'altro che sommarie e anzi talora sono
particolarmente ricche e dettagliate. Constata­ zione,
questa, che corrisponde del resto ad un noto e preciso
elemento storico di ermeneutica della normazione
costituzionale: se è vero che le costituzioni attuali, a
differenza di quelle dello scorso secolo, tendono ad
attribuire alle situazioni giuridiche fondamentali dei
cittadini, e anzi di tutte le persone fisiche, carattere di
diritti soggettivi nel senso pieno del vocabolo, è logicamente
coerente che esse regolino il contenuto del «diritto
fondamentale» nel modo più completo possibile, per evitate
che fermandosi all'enunciato «la stampa è libera ma una
legge ne reprime gli abusi» (art. 28 Statuto albertino), la
legge possa qualificare abuso ogni critica al parroco o al
maresciallo dei carabinieri - a seconda dei colori politici
dominanti. È così che alla libertà personale l'art. 13 Cost.
dedica un lungo testo scomponibile in quindici
enunciazioni (contro tre dell’art. 26 dello Statuto albertino);
che ad una libertà modesta come quella di circolazione
l'art. 16 dedica otto enunciazioni (contro zero dello Statuto
albertino); che alla salute l'art. 32 dedica cinque
enunciazioni; che al diritto elettorale spettino nove
enunciazioni (art. 48). E ciò per tacere di testi di articoli
stracarichi di enunciazioni, come p. es. quelli dell'art. 21
274
(libertà di manifestazione del pensiero), dell'art. 33 (arte,
scienza, istruzione), dell'art. 38 (protezione sociale), e altri.
Appetto a tutti questi testi costituzionali, l'enunciazione
relativa alla proprietà privata è di aspetto dimesso; si dice
solo che essa proprietà è riconosciuta e garantita dalla
legge. Le enuncia­ zioni che seguono, sia nel medesimo
secondo comma che nel comma successivo, a differenza
delle enunciazioni che si trovano nella maggior parte dei
testi degli articoli concernenti le libertà civili, i rapporti
etico-sociali, gli stessi rapporti economici (tra i quali
nell'architettura costituzionale, si iscrive il diritto di
proprietà) non dispongono ulteriori garanzie del diritto e/o
limiti e potestà pubbliche; al contrario dispongono
limitazioni al diritto di proprietà, nel senso che di questo
circoscrivono il contenuto e in genere la disciplina. Se
dunque si fa un confronto tra il riconoscimento e la
garanzia del diritto di proprietà privata e il riconoscimento
e la garanzia di altri diritti fondamentali, di persone umane
o anche di gruppi, ci si avvede che nella scala delle tutele
costituzionali al diritto di proprietà si assegna un posto
modesto; un po' superiore a quello che si assegna al
paesaggio (la Repubblica tutela il paesaggio: art. 92), ma
inferiore a quello assegnato a qualsiasi altro dei diritti
fondamentali. Se si considera che nello Statuto del 1848
essa
era
una
delle
sei
situazioni
soggettive
costituzionalmente garantite, si può ictu oculi misurare la
differenza tra le due normative costituzionali.
Si potrebbe osservare che la misura della tutela
costituzionale di un diritto fondamentale può non essere
data dal numero delle parole che impiega il testo
costituzionale nel porre le proprie enunciative; si
potrebbero ricordare le lapidarie enunciazioni relative alle
prestazioni imposte (art. 23) o al diritto di sciopero (art.
40). Peraltro i rilievi che si son fatti sulla prima
enunciazione dell'art. 42² non vogliono essere - se così può
dirsi - di statistica del linguaggio, ma di valore espressivo
del linguaggio.
L'art. 23 vale in quanto introduce il concetto di
«prestazione imposta»; l'art. 40 vale in quanto qualifica
come diritto la situazione soggettiva relativa all'esercizio
dello sciopero; l'art. 42² invece si limita a d1re che la
proprietà privata è riconosciuta e garantita (dalla legge),
ossia usa due aggettivi che nel linguaggio del testo
275
costituzionale non sono particolarmente
significati normativi specifici.
Il che passiamo ad esaminate.
carichi
di
[...]
15. Facendo allora il punto dell'analisi che si sta
conducendo possiamo constatare che sinora non sono
emersi concetti normativi specifici; in altre parole all'analisi
risulta che la proprietà privata è un istituto o un diritto il
quale pertiene alla costituzione materiale, e ciò è
riconosciuto dalla norma della costituzione formale; che è
diritto fondamentale, a cui si applica il regime della riserva
di legge. Non è molto: a parte il riconoscimento, il minimo
che si possa statuire per un diritto fondamentale è dargli
garanzia; mentre però agli altri diritti fondamentali la
normativa
costituzionale
dedica
sempre
parecchie
enunciazioni precettive specifiche, - ossia fissa essa
direttamente il contenuto della garanzia - queste mancano
per il diritto di proprietà privata.
Ma adesso occorre passare alle ultime due parole che
conchiudono l'enunciazione costituzionale in esame: «dalla
legge».
Dell’enunciazione che si sta esaminando l'elemento di
discorso costituito da queste due parole è la parte più nota,
anche tra profani, per la discussione a cui ha dato origine.
Infatti una tesi autorevolmente proposta e argomentata,
osservò che l'enunciato «la proprietà privata è riconosciuta
e garantita dalla legge» forma una proposizione passiva
perfetta, alla quale nulla si deve aggiungere e dalla quale
nulla si può togliere: è la legge che determina il
riconoscimento e la garanzia de1la proprietà privata; ma
siccome la norma costituzionale nulla dispone circa i
principi a cui la legge deve ispirarsi, o i limiti a cui deve
attenersi, ne seguirebbe che la legge, ossia il legislatore
ordinario, disciplina il riconoscimento o la garanzia come
volta per volta reputi più idoneo; e ciò in quasi assoluta
libertà, perché la sola cosa che non può fare è di
«sopprimere la proprietà privata». Siccome però gli spetta
disporre,
oltre
che
della
garanzia,
anche
del
riconoscimento, esso è anche il signore della fonte: è
arbitro nel rico-noscere in quali casi e come debba esistere
in diritto positivo proprietà privata.
276
La parte maggiore dei giuristi non concorda con questa
tesi, ma 1a maggior parte di tale maggior parte lo fa in base
ad un argomento che non ha alcun valore: quello secondo
cui se così fosse l'enunciativa costituzionale «non varrebbe
niente». Il che non è proprio vero, perché già l'analisi sinora
svolta ha mostrato che la proprietà privata oltre ad essere
recepita come principio di costituzione materiale, è diritto
fondamentale fruente di riserva di legge. Altro è dire che
l'enunciazione costituzionale si è, per ciò che attiene alla
garanzia, attestata ad un minimo, altro è dire che non ha
disposto niente. Del resto si è anche avvertito che il
riconoscimento non è espressione vuota (e ci si tornerà tra
poco). Le altre tesi che non concordano adducono
argomenti più solidi. Ma siccome sono diverse e con
diverse prospettive o varianti, con una certa forzatura che
però fa guadagnare in chiarezza, si potrebbero
schematizzare come segue. Secondo alcuni la proposizione
del testo costituzionale andrebbe letta cosi: «la proprietà
privata è riconosciuta; essa è altresì garantita dalla legge».
Secondo altri andrebbe letta cosi: «la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge, la quale ne può
determinare solo i modi di acquisto, di godimento e i limiti,
allo scopo...». A chi osservasse che con ambedue queste
letture si altera la lettera del testo costituzionale, si
potrebbe replicare che i testi costituzionali sopportano
bene le terapie ortopediche, e che i nuovi testi or riportati
sono in fondo un artificio retorico a cui ricorriamo per
render più lucido il pensiero spesso involuto dei vari
autori.
[…]
21. La contesa fra le due tesi è però ingiustificata, poiché
esse non sono affatto in contrasto. L’enunciato relativo alla
funzione sociale ha infatti duplice valore, così come del
resto avviene per l’enunciato ‘relativo alla «utilità sociale»
dell’art. 41, per quello di «preminente interesse generale» e
per gli altri dell’art. 43, e così via; per un aspetto esso è
qualificazione del diritto di proprietà privata, in quanto
dispone che tale diritto è ordinato ad una funzione (e
tuttora ferve la discussione per, stabilire come ciò avvenga:
v. oltre § 2.3) ; dall’altra però è anche disciplina
costituzionale del riconoscimento e della garanzia del
277
diritto di proprietà privata, ossia è «limite» alla legge
ordinaria, come si è detto da taluni, utilizzando un
concetto che andrebbe forse approfondito, ma che
comunque nel suo significato empirico è sufficientemente
adeguato.
È da ricordare che in ordine a questo e ad altri enunciati
eguali la giurisprudenza delle corti costituzionali è ovunque
orientata nel senso che il giudice costituzionale ha il potere
di verificarne il nomen bonum nelle leggi in cui essi siano
invocati a fondamento di un certo contenuto normativo, C
n ciò respingendo quelle tesi secondo le quali la
«discrezionalità» del legislatore non sarebbe controllabile da
parte dei giudici di legittimità costituzionale. Tesi che, più
che respinte, sono state dimensionate, asserendosi che,
quando
la
norma
costituzionale
stabilisce
delle
finalizzazioni da osservare nell’adozione di norme legislative, non v’è discrezionalità (usiamo questo vocabolo, pur
non essendo del tutto proprio) nella scelta della finalità
della normazione e l’esistenza positiva della finalità è
verificabile; anche se vi è invece «discrezionalità» nella
scelta dei contenuti delle norme medesime. Si ricorda, per
quanto ci riguarda, il gruppo di sentenze della Corte
costituzionale relative alla nazionalizzazione dell’energia
elettrica, nelle quali la Corte sindacò se si fosse in presenza
di servizio pubblico essenziale e/o di fonte di energia, e se
l’attività imprenditoriale relativa avesse carattere di
preminente interesse generale.
Questo in termini generali; in termini concreti, e
relativamente al diritto di proprietà privata, occorre aver
chiaro che il problema si pone non per un astratto diritto
di proprietà privata ma per diritti di proprietà privata
relativi a tipi di beni: la funzione sociale del diritto di
proprietà costituisce (comunque la si intenda) un elemento
essenziale del diritto medesimo, ma non si può
determinare come elemento positivamente regolato, ossia
nei suoi tratti esistenziali, se non con riferimento a tipi
di beni. Questo è constatabile direttamente proprio nei
diritti positivi: già nelle leggi civili si conosce la distinzione
tra il tipo proprietà mobiliare, il tipo di proprietà
immobiliare, e il tipo proprietà mobiliare a circolazione
controllabile (automezzi, navi, ecc.); ma ormai la proprietà
edilizia, forestale, agraria di terre di bonifica, e così via
278
costituiscono altrettanti tipi nei quali la funzione sociale
diversamente si modula nelle sue statuizioni positive.
Consegue da ciò che l’’attribuzione di rilevanza
costituzionale alla funzione sociale del diritto di proprietà
(privata, ma ciò vale anche per la proprietà pubblica) non
può avere che contenuti concreti: è in relazione ai diversi
tipi di proprietà. Si può dunque intendere come essa dia
luogo a proposizioni prescrittive determinative del
contenuto di leggi che disciplinino materie «diritti di
proprietà», e pertanto costituisca delimitazione di potere
normativo.
22. L’analisi non termina qui; tuttavia si può già ora
addivenire ad una messa a punto, in ordine al significato
dell’enunciazione costituzionale contenuta nell’intero
secondo comma dell’art. 42. Può essere sintetizzata come
segue: a) l’enunciazione della norma costituzionale, giusta
la quale tanto il riconoscimento che la garanzia del diritto
di proprietà privata spettano alla legge, non contiene
alcuna proposizione precettiva implicita da cui derivi
l’esistenza di un qualche tratto necessario sia del
riconoscimento che della garanzia a cui la legge dovrebbe
attenersi (§§ 16-19); b) l’indicazione della norma
costituzionale secondo cui la legge disciplina i modi
d’acquisto, di godimento e i limiti del diritto di proprietà
privata significa che spetta alla legge disciplinare l’intera
materia della proprietà privata sia in ordine al
riconoscimento che alla garanzia, onde non vale come
prefissione di regole alla normazione legislativa bensì come
attribuzione di una potestà legislativa senza né criteri né
delimitazioni costituzionali (§ 20); c) l’indicazione della
norma costituzionale secondo cui l’attribuzione del
legislatore ordinario di potestà normativa illimitata è
peraltro ordinata alla funzione sociale della proprietà
privata, è invece prefissione di regola alla normativa
legislativa e insieme connotazione costituzionale delle
proprietà (§ § 20-21); d) l’altra indicazione che finalizza la
potestà normativa legislativa alla introduzione di strumenti
che rendano accessibile la proprietà a tutti è ìterazione
esplicativa del principio di costituzione materiale di
eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) (§ 20).
Sicché nel mentre sono da respingere le tesi che vorrebbero
trovare nelle enunciazioni costituzionali delle altre
279
enunciazioni, tali da riempire il riconoscimento e la
garanzia di contenuti costituzionalmente prefigurati, è.
anche parzialmente da respingere la tesi che vorrebbe la
legge arbitra di ogni situazione attinente al diritto di
proprietà privata.
Invero la normativa costituzionale si è posta su un piano
del tutto concreto, perché attraverso il principio della
funzione sociale introduce il concetto della pluralità dei tipi
(del diritto) di proprietà. Il quadro entro cui opera questa
statuizione è tuttavia ancor più ampio, poiché la stessa
normativa ne enuncia alcuni, dei quali taluni disciplina
con norme proprie. A questo proposito è stata richiamata
da parecchi autori l’enunciazione del 1° comma, relativa
alle due figure della proprietà pubblica e della proprietà
privata; peraltro, giusta quanto esposto al § 10, si potrebbe
ribattere che essa ha significato diverso. Però già una
enunciazione più pertinente è quella, sempre del 1°
comma, relativa alla proprietà dei beni economici, che è,
come si vedeva (§ 11), garanzia di una proprietà privata
avente un preciso oggetto. Del tutto pertinenti sono infine
le enunciazioni concernenti la proprietà agraria (art. 44), la
proprietà dell’abitazione, la proprietà diretta coltivatrice, la
proprietà azionaria (art. 47). Per la prima le enunciazioni
della norma costituzionale sono dettagliate e precise; non è
il caso di esaminarle in questa sede, poiché qui interessa
solo constatare che è uno dei tipi di proprietà privata che
la stessa costituzione codifica.
Ciò rende superfluo uno dei suggerimenti avanzati per
spie. gare la norma dell’art. 422, ossia che l’enunciazione
quivi contenuta sarebbe garanzia della proprietà come
istituto anziché come diritto. Invero questa distinzione è
piaciuta, e si possono trovare anche sottili discorsi per
precisare se è garantito solo il diritto o solo l’istituto o
ambedue, e come. In sede teorica la distinzione non è
pertinente, perché se un istituto giuridico ha, tra i suoi
elementi strutturali, anzi come primo di essi, un diritto
soggettivo, non si capisce come la garanzia dell’istituto non
sia insieme garanzia del diritto. La nozione di istituto
giuridico ha altri ruoli conoscitivi, e non può servire a
scindere l’istituto giuridico dalle sue componenti.
In sede applicativa e derivativa con la distinzione si voleva
solo dire, come si è accennato già indietro, che «un
legislatore futuro non potrebbe mai sopprimere la proprietà
280
privata». Discorso che come ipotetica riduzione a soldoni di
un precetto normativo è quantomeno banale, e come
enunciazione di una pretesa conseguenza di una
normativa è errato, perché il legislatore futuro non avrà
mai a che fare con. una creatura celata fra i petali di una
rosa mistica dal nome proprietà privata, ma avrà sempre a
che fare con tipi positivi e ben corposi di proprietà private;
di essi almeno quattro sono riconosciuti dalle stesse norme
costituzionali, per precise fisionomie, e almeno altri due
sono riconosciuti, sempre dalle stesse norme, quantomeno
per abbozzo; quelli non espressamente menzionati sono
tuttavia identificabili attraverso l’elemento qualificante
della funzione sociale.
[…]
23. Per chiudere l'analisi di questo comma dell'art. 42, ci si
dovrebbe soffermare a dire della funzione sociale. Tale
argomento è però in certo modo fuori del quadro della
rilevanza costituzionale, che ci siamo proposti di
analizzare; la nozione di funzione sociale dei diritti di
proprietà privata è nata nella scienza del diritto privato, e
la norma costituzionale da essa l'ha presa, senza
aggiungervi proprie connotazioni, neppure indentali. Se poi
nella scienza del diritto privato il dibattito è tuttora aperto,
ed anzi ha avuto punte di ripresa negli ultimi tempi, la
norma costituzionale non ne condiziona il contenuto.
Sopra (al § 21) si era detto che la funzione sociale va intesa
come presenza di qualificazioni giuridiche attinenti al
diritto di proprietà. Ma con ciò si è aderito ad una
prospettiva o concezione che non è mai stata dalla dottrina
privatistica dominante sino a che Pugliatti non ebbe
formulato le sue tesi: la dottrina privatistica aderiva infatti
alla concezione che la funzione sociale fosse un limite o un
complesso di limiti «esterni» al diritto di proprietà
concezione che, seppure nella sua formulazione meno
recente non è scomparsa, o quantomeno non è ricomparsa,
in formulazioni più accurate è stata invece riesumata,
talora con curiose inversioni di ruoli. Così, giusto per citare
due casi, il sottile e per i suoi tempi avanzato suggerimento
del Cesarini Sforza, che nella situazione soggettiva del
proprietario non potesse ravvisarsi un diritto, ma un
congiunto di diritti e di obblighi, è stato ripreso come
riesumazione della tesi del limite esterno in chi ha
281
sostituito all'obbligo un «elemento obbligatorio» da
intendere come determinativo dell'ampiezza dei poteri del
proprietario, e quindi di diversi modi di conformarne la
struttura o il contenuto. Così anche il suggerimento,
avanzato soprattutto da studiosi di diritto agrario, che la
proprietà privata non potesse raffigurarsi come un istituto
semplice, limitato ad un rapporto tra un soggetto e un
bene, ma come un istituto complesso che comprendesse
più rapporti fra più soggetti, è stato ripreso e invertito da
chi ha sostenuto che la funzione sociale inerisce all'istituto
e non al diritto (discorso su cui v. però al § prec.).
La strada su cui si è posta la dottrina privatistica più
recente è però certamente – per usare le parole di Nicolò –
quella di stabilire in qual modo la funzione sociale da
elemento teleologico estrinseco si è trasformato in modi di
essere della tutela della situazione di interesse propria del
dominus. Le ricerche di maggior rilievo sinora apparse
sembrano indirizzate a trovare tale «modo di essere» in un
collegamento tra la funzione sociale e il bene, e anzi su
questo approccio v’è anche una certa concordanza tra
dottrine di diritto privato e di diritto amministrativo.
Quando però si passa a maggior profondità, si trova chi
ritiene che il bene è, nel suo ambito giuridico, determinato
dalla norma in ordine a un interesse che va considerato
«prevalente», onde l’ambito giuridico del bene è ambito
della tutela del diritto; chi ritiene che dalla disciplina del
bene si determinano i modi di utilizzazione, e quindi il
contenuto stesso del diritto; vi sono ovviamente tesi
intermedie, tra queste due della tutela oggettiva del bene e
della determinazione soggettiva dei poteri attribuiti al
titolare del diritto.
Sinora i risultati non sono proprio appaganti, e i punti
sicuri sono solo agli estremi: se si assume «funzione» nel
senso che in teoria generale fissò Santi Romano, di attività
rilevante per la sua globalità e in ogni suo manifestarsi,
deve dirsi che in nessuna normativa positiva vi sono specie
di diritti di proprietà privata per i quali possa dirsi
sussistente una funzionalizzazione (mentre invece esistono
specie di diritto d’impresa funzionalizzante anche
radicalmente, per es. le imprese di public utilities negli
USA, le imprese agrarie «dirette» in Francia). All’opposto
non è però dubbio che la funzione sociale della proprietà
non indica un limite esterno: per usare un termine
282
inespressivo ma di uso corrente, esistono varie decine di
proprietà private il cui «contenuto» è «confermato» da
provvedimenti dell’amministrazione, nel rispetto del
principio della riserva di legge, e alcune di esse, come la
proprietà edilizia, neppure vengono a esistere se manca il
provvedimento conformativo dell’autorità.
La funzione sociale si situa quindi in un luogo intermedio
tra la funzione in senso giuridico e il c.d. limite esterno
(dato e non concesso che tale nozione sia accettabile): la
difficoltà dell’euristica sta nel fatto che sono qui necessarie
nuove categorie, le vecchie non essendo più adeguate.
24. Si può dunque passare al terzo comma dell'art. 42: la
proprietà privata, può essere, nei casi preveduti dalla legge,
e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse
generale.
A differenza del secondo comma, questo contiene una sola
enunciazione, e potrebbe apparire di ermeneutica più
semplice. Invece così non è stato, in quanto parte della
dottrina ha costruito su di esso un'altra gran piramide.
Dalle non molte cose rinvenibili nei lavori preparatori della
Costituzione si desume che, in fondo, il precetto
costituzionale fu posto perché già esisteva nello statuto
albertino, e sì volle precisare che l'espropriazione poteva
farsi non solo per ragioni di pubblica utilità, ma per
qualunque motivo d'interesse generale. Fu dunque un’
enunciazione
voluta
per
ampliare
l'ambito
della
proposizione precettiva che conteneva già lo Statuto del
1848, e per rendere la statuizione costituzionale
corrispondente a quella che, nel frattempo, era già la
statuizione della norma civile (art. 834): se in un regime di
costituzione flessibile era stato possibile ampliare la
funzione del procedimento espropriativo, disancorandolo
dal motivo della realizzazione dell'opera pubblica - com'era
nello Statuto albertino -, ciò non sarebbe più stato
possibile se la precedente disposizione fosse rimasta in un
regime a costituzione rigida.
In sostanza l'Assemblea costituente discusse, di questa
proposizione, solo due punti: quello relativo ai motivi
d'interesse generale, e quello relativo all'indennità. Quanto
al primo, l'Assemblea trovava già nella dottrina elementi
decisamente chiari: sin dalla legge per Napoli si era rilevato
che occorreva una certa audacia (ma il legislatore può fare
283
tutto!) per ritenere che fosse «opera pubblica» il demolire
gruppi di edifici fatiscenti per rivendere poi a privati le aree
risultanti dai nuovi tracciati stradali; di fronte alle
espropriazioni disposte per insediamenti industriali futuri
o, più ancora, per dare ai comuni compendi di aree da
servire per pianificare l'espansione urbana e calmierare i
prezzi, non si ebbero più dubbi circa la recisione del
legame che univa opera di pubblica utilità ed
espropriazione. Questa concezione passò quindi senza
difficoltà nel precetto costituzionale.
Quanto all'indennità, la discussione si puntualizzò sul se
dovesse apporsi l'aggettivo «giusto» o altro analogo o altra
frase che dicesse qualcosa di più. Prevalse l'opinione
negativa, in base alla considerazione che nel concetto
stesso di indennizzo, è contenuta una commisurazione al
valore della res per cui qualunque ulteriore aggettivo
sarebbe stato solo fonte di contenzioso. L'Assemblea
costituente non ebbe affatto presenti i moderni problemi
che presenta l'indennità di espropriazione, sui quali
peraltro qui non ci intratterremo, perché non attinenti alla
proprietà, ma alle ablazioni dei diritti e delle utilitates dei
beni, ossia ad un tema assai più ampio (cfr. § 28).
Dall'analisi della genesi della norma non emerge altro.
L'Assemblea costituente non si pose neppure l'interrogativo
della portata di questa enunciazione, e la presenza di
un'enunciazione
identica
nel
vecchio
Statuto
fu
tacitamente intesa nel senso che se ne imponesse
l'adozione nel nuovo, quasi la storicità del fatto passato
esigesse dal futuro una ripetizione necessaria.
Una prova di questo modo d'intendete la genesi della
norma può esser data anche dalla constatazione che a
problemi di cui si è parlato al § 4 - cioè l'esistenza,
nell'ordinamento,
di
misure
ablatorie
più
gravi
dell'espropriazione,
e
non
elevate
alla
rilevanza
costituzionale -, non giunse alla soglia dell'attenzione del
legislatore costituente; come pure esso non pose mente al
fatto che l'espropriazione non ha per oggetto solo il diritto
di proprietà, ma, in ordinamenti come il nostro, almeno
ogni diritto reale, e in altri perfino qualsiasi diritto
soggettivo (v. § 28).
Sicché la statuizione del legislatore costituente fu il
risultato di una concezione che se fosse stata di un uomo
di scienza si sarebbe potuta dire errata, in due sensi, per
284
difetto; essendo di un legislatore si può dire solo che fu
1imitata a due aspetti della materia: alle espropriazioni,
restando fuori tutti i provvedimenti ablatori che non
comportano indennità; alle espropriazioni del diritto di
proprietà privata, restando fuori le espropriazioni di altri
diritti a cominciare dall'espropriazione dei diritti di
proprietà collettiva e di proprietà pubblica (che la
giurisprudenza e la dottrina correntemente ammettevano e
ammettono).
[…]
30. […] proviamo a porre la questione in termini astratti:
quali potrebbero essere le interpretazioni della norma
costituzionale ipoteticamente possibili.
a) La prima è che la norma costituzionale abbia
inteso limitare l’ambito dei diritti espropriabili al solo
diritto di proprietà privata. Di questa possibile
interpretazione ci si può sbarazzare subito, essendo
immediatamente evidente come essa è senza senso, perché,
nel mentre non aumenterebbe la tutela dei diritti dei
privati, priverebbe di tutela gli interessi pubblici allorché
questi richiederebbero l’estinzione, indennizzata, di un
diritto del privato che non sia quello di proprietà. È stato
del resto già osservato da parecchi che l’art. 43 successivo
contempla un trasferimento« mediante espropriazione e
salvo indennizzo » di imprese, ossia ammette che
l’espropriazione possa rivolgersi ad un diritto certamente
più importante del diritto di proprietà privata, qual è il
diritto d’impresa (non interessa sapere se questo
provvedimento ablatorio sia vera e propria espropriazione
del diritto d’impresa, o altro tipo di ablazione reale).
b) Che la norma costituzionale abbia inteso che tutti
i provvedimenti ablatori incidenti sul diritto di proprietà
privata comportino indennità. È questa l’interpretazione
che si trova adombrata, anzi forse accennata, nella
seconda delle pronunce della Corte costituzionale, e
comunque circola in parte degli operatori giuridici pratici.
Presso questi ultimi ne è individuabile l’origine, che è la
più volte rilevata generalizzazione spuria della figura
dell’espropriazione, fatta coincidere con il provvedimento
ablatorio. Non v’è dubbio che tale interpretazione è, almeno
in apparenza, semplice, ma neppur è dubbio che essa è
285
assurda, perché in (nessuno dei diritti positivi esistiti ed
esistenti è riscontrabile l’esistenza di una categoria
giuridica costituita dai provvedimenti ablatori incidenti sul
diritto di proprietà, anche se, forse (ma molto forse) essa è
riscontrabile nelle scienze economiche. I provvedimenti
ablatori, nei diritti positivi storici e vigenti, non si
classificano in relazione alla natura del diritto (o di altra
situazione soggettiva) inciso, ma in ragione dell’effetto che
producono.
Riprendendo esempi di provvedimenti ablatori che incidono
sul diritto di proprietà (o su quello dell’impresa: ai fini di
quanto qui interessa, i due diritti si presentano al
medesimo modo, tuttavia, per non complicare, si
assumono solo fattispecie relative al primo), fatti nei
precedenti paragrafi: l’ordine di distruggere e incenerire il
vigneto attaccato dalla peronospora, l’ordine di distruggere
cose prodotte con sostanze tossiche, l’ordine di distruggere
e interrare una condotta che scarica acque luride in un
fosso pubblico, e così via, possono trovare di fronte a sé
proprietari nella più perfetta buona fede, ed esenti da
responsabilità; pur tuttavia chi fra essi è colpito da uno di
questi provvedimenti, vede estinto o gravemente inciso il
proprio diritto dominicale, e non ha alcun diritto ad
indennità. La ragione è la stessa in tutte le normazioni
positive: questi sono provvedimenti ablatori personali, e
con essi l’amministrazione non acquista diritti sul bene a
cui il provvedimento si rivolge. L’effetto del provvedimento
consiste nel costituire obblighi in soggetti che di fronte
all’amministrazione sono in situazione di soggezione.
Se poi passiamo ai provvedimenti ablatori obbligatori, ossia
a quelli che producono effetti consistenti nella nascita di
un’obbligazione
o
nel
render
certo
un
credito
dell’amministrazione
in un’obbligazione ex lege, si
trovano tra essi tutte le imposizioni tributarie, e in genere i
provvedimenti dei quali nasce a carico del privato
un’obbligazione di dare avente natura di prelievo coattivo.
Anche questi sono provvedimenti ablatori che, sia pur con
lo strumento dell’obbligazione, incidono nel diritto di
proprietà, e sarebbe assurdo pensare che comportino
indennità.
Altre volte vi è un provvedimento ablatorio obbligatorio, il
quale però comporta trasferimento di proprietà con
corrispettivo:
così per le vendite coattive negli ammassi
286
per contingente, per gli acquisti coattivi di prodotti agrari o
industriali al fine di costituire scorte pubbliche. L’incidenza
nel diritto di proprietà è qui ancor più evidente, e il fatto
che l’amministrazione sia debitrice di un prezzo deriva dal
modo con cui è strutturata l’ablazione (impiego del modulo
privatistico del contratto di un certo tipo).
La conclusione è quindi che i provvedimenti ablatori, nelle
loro varietà dei provvedimenti personali, reali od
obbligatori, possono incidere sul diritto di proprietà privata
così come su ogni altro diritto (o altra situazione
soggettiva), ma non vi è alcun raccordo necessario tra
provvedimento ablatorio e indennità; esistono invece tanti
diversi moduli, come quelli del prelievo, dell’imposizione di
un contratto, dell’imposizione dell’obbligo, dell’acquisizione
coattiva, del trasferimento coattivo, e così via, in taluni dei
quali si contempla un corrispettivo, in altri una indennità,
in altri nulla.
31. c) Una terza possibile interpretazione della norma è
quella giusta la quale quantomeno limitatamente ai
provvedimenti ablatori reali si contempli un’indennità. È
l’interpretazione che si trova nella sentenza 6/1966, sulle
servitù militari, espressa peraltro con ordini concettuali
primitivi, ed è anch’essa diffusa nella pratica, con
vocabolari spesso elementari,
In sé considerata quest’interpretazione è inaccettabile, per
alcuni dei rilievi esegetici che già erano emersi ai § § 28 e
29: l’enunciazione della norma costituzionale menziona
solo le espropriazioni dei diritti di proprietà privata, lascia
fuori le espropriazioni degli altri diritti, diversi da quelli di
proprietà privata; inoltre non menziona provvedimenti
ablatori reali più gravi di quelli espropriativi, come le
requisizioni, le confische, le occupazioni d’urgenza con
esito distruttivo del bene del privato: mentre sarebbe
relativamente taci1e ritenere che nell’indicazione di un
provvedimento più grave sia compreso il provvedimento
meno grave (si che, p. es., l’enunciazione costituzionale
potrebbe essere intesa come comprensiva delle requisizioni
in uso, delle occupazioni preliminari, delle occupazioni
strumentali, dei sequestri amministrativi, delle enfiteusi e
delle superfici coattive, ecc.), è invece molto difficile
ritenere
l’opposto,
ossia
che
l’indicazione
del
287
provvedimento meno grave comprenda anche quelli più
gravi.
Se a questi elementi esegetici si aggiungono quelli storici,
già indietro analizzati, dovrebbe risultare chiaro che anche
questa terza possibile interpretazione è da respingere, e
che vale invece quella interpretazione a cui si era giunti già
al § 26, ossia che la norma costituzionale esprima solo ciò
che significa l’enunciato con cui si manifesta.
32. Tuttavia il problema del fondamento costituzionale dei
provvedimenti ablatori reali sussiste. Sussiste non tanto
perché sia depistato dall’art. 42², ma perché la normazione
costituzionale è tutta preoccupata – se è lecita questa
metafora – dei provvedimenti ablatori.
Si consideri infatti come alle ablazioni obbligatorie sono
dedicate una norma generale, che è nell’art. 23, più due
norme speciali, una per le ablazioni obbligatorie militari
(art. 52),e una per quelle tributarie (art. 53): sicché tutte le
imposizioni di prestazioni pecuniarie e patrimoniali in
genere, lavorative e professionali, tutti i contratti coattivi
nelle loro numerose varietà, tutte le imposizioni di obblighi
di contrattare, le gestioni coattive, ecc., ossia tutta questa
vastissima categoria di provvedimenti ablatori, in torte
espansione nelle società contemporanee, trova un
fondamento costituzionale sicuro.
Dei provvedimenti ablatori personali si occupano tutte le
norme costituzionali che riconoscono e disciplinano diritti
(e altre situazioni giuridiche soggettive) fondamentali:
ognuno degli articoli dal 13 in avanti si sforza di precisare
quali sono i provvedimenti ablatori che possono incidere
sui diritti fondamentali, sino a giungere a punte poco
consuete in carte costituzionali, come quella che si trova
all’art. 21 per il diritto fondamentale di manifestazione del
pensiero a mezzo della stampa. La ragione per cui per le
ablazioni personali relative a diritti fondamentali si segue
questo diverso criterio, è una ragione storica, ed è nota.
Il suggerimento, da alcuni avanzato per spiegare l’enunciazione dell’art. 422, ossia che essendo il diritto di. proprietà
l’unico diritto fondamentale avente natura di diritto reale
che sia riconosciuto dalla Costituzione, solo per esso
occorresse dar fondamento al provvedimento ablatorio che
lo riguarda, si basa certamente su quanto le enunciazioni
costituzionali fanno per gli altri diritti fondamentali. Però la
288
spiegazione è solo parziale, perché se è valida allorché
mette fuori quadro i diritti reali diversi da quelli di
proprietà privata (che non sono costituzionalmente
garantiti), non copre invece i provvedimenti ablatori reali
relativi alla proprietà privata diversi dall’espropriazione, o
quantomeno quelli più gravi dell’espropriazione.
Per cui il problema del fondamento costituzionale dei
provvedimenti ablatori reali tuttavia sussiste; essendo
l’enunciazione costituzionale incompleta già per i diritti di
proprietà privata, e mancando disposizioni costituzionali
per gli altri diritti reali costituzionalmente non riconosciuti.
Il fatto, sottolineato dal suggerimento testé detto, che non
siano riconosciuti, non ha quel valore che gli autori del
suggerimento credono, perché con le norme menzionate
per le ablazioni obbligatorie tutti i diritti, anche non
riconosciuti costituzionalmente, sono tuttavia garantiti in
ordine alle ablazioni obbligatorie medesime, e non
s’intende allora perché non dovrebbero esserlo in ordine
alle ablazioni reali.
L’ipotetica norma relativa alle ablazioni reali dovrebbe
avere un’enunciazione come la seguente: «i provvedimenti
ablatori reali di natura non sanzionatoria comportano
un’indennità». Va chiarito che la norma non potrebbe
abbracciare tutti i provvedimenti ablatori reali, ma solo
quelli tra essi che non hanno natura sanzionatoria, o,
secondo altra terminologia e teoria, repressive - di cui
l’esempio tipico è dato dalle confische amministrative di
cose -: l’opinione tradizionale dominante è nel senso che
questi provvedimenti ablatori comportino estinzione del
diritto di proprietà e di altri diritti reali sul bene, ma in
quanto sono misure penali o comunque repressive, talora
di carattere accessorio (nella normazione penale in senso
proprio
lo
sono
sempre),
volte,
sotto
l’aspetto
amministrativo, a distruggere o a togliere di circolazione la
cosa o in quanto pericolosa oggettivamente o in quanto in
vario modo collegata alla commissione di un illecito
amministrativo. Per quanto la materia degli illeciti
amministrativi si trovi in uno stato di elaborazione poco
soddisfacente, sembra si debba convenire nel concetto che
la misura penale amministrativa non trova altra
regolazione costituzionale che non sia quella che l’art. 272
dispone per le pene del diritto penale criminale.
289
33. L’enunciazione «i provvedimenti ablatori reali non
sanzionatori comportano un’indennità» corrisponde ad una
norma che, almeno in Italia, ha avuto costante
applicazione dall’inizio della vita dello stato, e in altri paesi
europei dal sorgere dello stato di diritto. La sola eccezione
(ma non del tutto sicura) che si è avuta da noi è stata
quella delle servitù militari, che però ha una sua storia, di
cui subito si dirà.
La dottrina dello scorso secolo, non impastoiata dallo
statalismo come quella successiva, si era data una ragione
di ciò, allorché aveva inquadrato le espropriazioni e altri
provvedimenti ablatori reali nel genus delle «vendite
coattive».
La dottrina successiva ripudiò tale nozione, in base alla
facile osservazione che negli effetti prodotti dalle
«espropriazioni e figure affini» difetta qualsiasi struttura di
tipo obbligatorio; però non sostituì nulla al genus che
sopprimeva, e ciò fino a quando esso non è stato ritrovato
nella nozione di provvedimento ablatorio reale.
Or se è vero che per i provvedimenti ablatori reali non possono esser richiamati né la vendita né altri tipi
contrattuali, nella loro specie autoritativa, perché non è in
tal senso la normazione positiva (mentre invece tali tipi
hanno piena cittadinanza nei provvedimenti ablatori
obbligatori), è però anche vero che la meno recente
dottrina, nell’immaginale un genus fondato, diremmo oggi,
su un modello contrattuale, aveva intuito bene, e aveva
sentito la forza di un principio, che è poi quello dell’onerosità di ogni acquisto volontario di diritti altrui che derivi
da atto tra vivi. Allorché da dottrina dello scorso secolo
rilevava come le «figure affini» all’espropriazione, come la
costituzione coattiva di servitù pubbliche, l’occupazione
strumentale, l’occupazione per estrazione di materiali
poveri, e così via, comportassero il pagamento di
un’indennità, essa aveva presenti moduli negoziali, come la
costituzione coattiva di servitù private, la locazione di
immobili, l’affitto di cave, e così via, nei quali alla volontà
delle parti, essa diceva, si sostituiva l’intervento
autoritativo coattivo della autorità che presentava se stessa
come acquirente. Anche se il rinvio al modulo privatistico
era errato, non era tale il richiamo del principio della
necessaria onerosità dell’acquisto.
290
Nella dottrina più recente la materia ha ricevuto più accettabile sistematica, che è stata in parte già ricordata al §28:
i procedimenti ablatori reali sono tutti contraddistinti dal
contenuto dell’effetto, che dà luogo sempre ad una vicenda
che interessa diritti reali. Gli effetti sono sempre due: l’uno
estintivo, l’altro acquisitivo; tra essi non v’è necessaria
corrispondenza (ossia non è che ciò che si perde dall’uno
soggetto si acquista necessariamente dall’altro). L’effetto
estintivo può consistere or nell’estinzione di un diritto, or
nell’estinzione di una facoltà o di un potere materialmente
connotato da una norma pubblicistica, compresi nel diritto
secondo la norma di questo conformativa; o infine in una
privazione temporanea di una facoltà o di uno dei poteri or
detti. L’effetto acquisitivo consiste or nell’acquisto del
diritto che si estingue (es. requisizione in proprietà); or
nell’acquisto di una facoltà o di uno dei poteri nel senso
sempre detto sopra, che, compresi in astratto in una
potestà o in un diritto del beneficiario del provvedimento
ablatorio, secondo la norma conformativa dell’una o
dell’altro, in concreto non lo siano per vicende giuridiche
varie (caso correntemente detto del consolidamento, sottinteso: del diritto o della potestà del beneficiario del provvedimento: es., espropriazione della servitù); o infine
nell’acquisto, da parte del beneficiario, di un nuovo diritto,
ovvero di una nuova potestà di utilizzazione del bene (es.,
rispettivamente, costituzione di superficie coattiva su beni
altrui, occupazione preliminare d’urgenza con acquisto
della potestà di costruire nel fondo altrui).
In ogni caso il provvedimento ablatorio ,presentando id.
duplice effetto, comporta la perdita dell’utilitas di una cosa
per l’un soggetto, l’acquisto di quella o di altra utilitas per
altro soggetto. Era questo il punto avvertito da coloro che
sciattamente
generalizzavano
o
generalizzano
l’espropriazione della proprietà a schema rappresentativo
di ogni provvedimento ablatorio. Quel che è importante
osservate è che costantemente il legislatore ha seguito il
concetto che l’acquisto dell’utilitas di una cosa altrui è a
titolo oneroso, ossia comporta il pagamento del
corrispettivo (sia pur vario essendo il modo per
determinare questo). Perché? La sola possibile spiegazione
è che il principio faccia parte della costituzione materiale, e
a tal titolo se ne consideri vincolante l’osservanza.
291
34. Con questa spiegazione diviene quindi possibile da un
lato dare un fondamento costituzionale ai provvedimenti
ablatori reali non sanzionatori, dall’altro conservare all’art.
422 l’interpretazione che si era individuata (§§ 27 e 31).
L’enunciazione
costituzionale
è,
in
sostanza,
un’applicazione
di
specie,
espressa,
riferita
alle
espropriazioni dei diritti di proprietà privata, di una regola
inespressa della costituzione materiale, relativa a tutti i
provvedimenti ablatori reali non sanzionatori.
Per saggiare tale spiegazione si possono esaminare i casi
presentatisi alla giurisprudenza della Corte costituzionale.
La sentenza 6/1966, sulle servitù militari, è esemplare per
difettosità di motivazione e per esattezza di decisione. Il
caso delle servitù militari era, invero, nella legislazione
precedente, dei tutto particolare, poiché costituiva uno dei
tanti imbrogli consumati dal patrio legislatore ai danni dei
cittadini. Che le servitù militari fossero servitù era tesi di
parte della dottrina, non accolta dalla giurisprudenza di
cassazione se non in casi episodici, essendo invece questa
allineata sulla tesi ufficiale, che si trattasse di «limitazioni»
alla proprietà privata per interessi di ordine militare, ossia
fossero, come subito appresso vedremo, conformazioni del
diritto
di
proprietà
disposte
da
provvedimento
amministrativo, e come tali non comportassero indennità.
Invero con una precisa analisi della normazione, che qui
ovviamente è fuori luogo, si potrebbe mostrare come la
realtà normativa è più articolata di quanto non ritenessero
le due opposte tesi, alcune fattispecie consistendo
effettivamente in provvedimenti conformativi, altre in vere e
proprie servitù pubbliche imposte. Queste ultime non
potevano non comportare indennità, in quanto indubbie
specie di procedimenti ablatori reali (effetto estintivo:
privazione di una facoltà di utilizzazione del fondo privato,
servente; effetto acquisitivo: costituzione del diritto di
servitù a favore del fondo dominante, pubblico). Era quindi
sufficiente riferirsi al principio di costituzione materiale per
pervenire a questo risultato.
Il fatto che la sentenza della Corte costituzionale vi sia pervenuta attraverso oscuri e involuti argomenti è però, tutto
sommato, poco significativo, poiché. anche la dottrina che
ha commentato la sentenza ha anch’essa seguito meandri
inconcludenti.
292
35. Diverso è il caso della sentenza 55/1968, che è solo un
pasticcio. Nei limiti in cui è decifrabile, essa ha ritenuto
dovuta l’indennità per i «vincoli d’inedificabilità» imposti da
strumenti
urbanistici
autoritativi
aventi
carattere
singolare.
Si deve cominciare ad osservare che la nozione di vincolo
d’inedificabilità è, sotto l’aspetto giuridico, del tutto grezza.
Il vincolo in questione, così come ogni altra specie di
«vincolo» di cui correntemente si parla, è un modo di essere
di un bene, ossia non è un effetto giuridico, ma una
situazione in cui si trova un bene: è il risultato di rapporti
tra situazioni soggettive (effetti giuridici) prodotte da atti o
da fatti giuridici, e sono le situazioni soggettive medesime
che solo possono individuare ciò che volgarmente si
chiama la natura del vincolo, ma che scientificamente
dovrebbe dirsi solo ciò che c’è dietro la parola vincolo.
Certamente quindi possono esistere vincoli d’inedificabilità,
non già, si noti, che come tali comportino indennità, ma
conseguenti ad una trama giuridica nella quale vi sia
un’obbligazione o un obbligo di pagare un’indennità. Ciò
può accadere quando si hanno una vicenda in cui una
figura soggettiva pubblica acquisti un diritto reale su cosa
altrui, che abbia per contenuto il godimento della non
edificazione (p. es. servitù di non edificare imposta su
fondo di un privato a favore di un semaforo o faro del
demanio marittimo). In altri casi invece il vincolo di non
edificare si inserisce in un rapporto di obbligazione, in altri
ancora è il risultato di un provvedimento conformativo del
diritto di proprietà, e allora non v’è posto per alcuna
indennità.
Se queste sono le possibili inquadrature del vincolo
d’inedificabilità, il problema di specie consiste nello
stabilire che cosa è il vincolo d’inedificabilità la cui fonte
risieda in strumenti urbanistici. Ma in proposito non
sembra siano possibili dei dubbi sul fatto che si è in
presenza di un provvedimento conformativo del diritto di
proprietà, che è perfino al di fuori del gruppo dei procedimenti ablatori, nel senso che non è provvedimento di
procedimento ablatorio né personale, né reale, né
obbligatorio.
Possono esistere, è vero, procedimenti ablatori aventi
anche un contenuto conformativo: ne sono esempio alcuni
degli ordini precettivi menzionati indietro (ablazioni
293
personali); ma in essi il contenuto conformativo è parallelo
al contenuto ablatorio, nel senso che essi sono
precipuamente rivolti a sottrarre un potere imponendo un
obbligo di fare o di non fare; accanto a questo effetto
principale sta l’effetto conformativo, che si concreta nell’imporre precetti attinenti al contenuto dell’obbligo.
Tutto ciò non ricorre negli strumenti urbanistici, che si
iscrivono in altra categoria di procedimenti - quelli
precettivi -, che non si rivolgono a questo o a quel soggetto,
che non costituiscono mai un diritto o altra situazione
soggettiva a favore dell’autorità. Essi contengono precetti
conformativi puri della proprietà immobiliare, di qualunque
specie - edilizia e agraria, urbana e rurale, a destinazione
edificativa o industriale o di servizi o agricola, ecc. ecc. - in
ordine all’assetto dell’ambiente o del territorio. Come ogni
provvedimento conformativo, essi non comportano alcuna
indennità: è un problema che neppure si pone.
36. La materia dei provvedimenti conformativi richiede un
brevissimo chiarimento, essendo fra quelle su cui dottrina
e giurisprudenza sono in atonia.
La normazione positiva conosceva già dallo scorso secolo
alcune specie di provvedimenti aventi effetto conformativo
(oltre agli ordini, si possono ricordare le autorizzazioni
prescrittive) o direttamente conformativi (la dichiarazione
di pubblico interesse, il bilancio degli enti pubblici, ecc.). In
questo secolo ne introdusse un nuovo tipo, con la
normazione sulle imprese di produzione di guerra apparsa
nel primo conflitto mondiale: essa era strutturata su atti
normativi che disciplinavano i diritti d’impresa, prevedevano alcuni tipi di provvedimenti amministrativi di più
specifica incidenza nelle situazioni soggettive degli
imprenditori; e infine e soprattutto attribuivano a talune
autorità delle potestà di regolare, con altri provvedimenti, il
contenuto dei diritti degli imprenditori. Questa normazione
fu ritenuta eccezionale, e lo fu per la sua estensione
quantitativa; non invece per il modulo che aveva
introdotto, o almeno perfezionato, del, provvedimento
conformativo delle situazioni soggettive, in particolare dei
diritti, che rimase e si diffuse rapidamente: alle imprese
minerarie, alla proprietà forestale e in genere soggetta alla
disciplina idrogeologica, alla proprietà e all’impresa agraria
in comprensori di bonifica, alle imprese assicurative,
294
creditizie, di taluni pubblici servizi, alle proprietà cadenti
nei perimetri di beni ambientali e archeologici, alla
proprietà edilizia e poi per tappe successive a tutta la
proprietà immobiliare.
Per cui se negli ordinamenti odierni la funzione
conformativa delle situazioni soggettive è sempre e in
primo luogo propria dei precetti degli atti normativi, vi sono
settori, sempre più numerosi, nei quali essa prosegue
affidata a provvedimenti amministrativi: il legislatore
avverte che oltre un certo punto: non gli è più possibile
porre precetti, in ragione della varietà degli interessi da
ponderare e da comporre, e allora affida le potestà conformative ad organi amministrativi, e regola i relativi
procedimenti in modo che sia osservato il principio di
legalità, al quale oggi aggiunge sempre tecniche
procedimentali molto elaborate, si da far osservare i
principi di contraddittorio, di intervento procedimentale, di
pubblicità.
Il discorso sui provvedimenti conformativi va fermato a
questo punto: in questa sede essi interessano solo per
porre in maggior risalto la delimitazione dei provvedimenti
ablatori reali: il provvedimento conformativo o ad effetto
conformativo non fa acquistare alcun diritto al pubblico
potere o ad altre figure soggettive; il provvedimento
ablatorio reale sì, in uno dei modi che sono stati spiegati.
La materia dell’urbanistica, per ciò che concerne gli effetti
degli strumenti urbanistici autoritativi, è strutturata solo
su provvedimenti conformativi dei diritti di proprietà (e
d’impresa): allorché il precetto di uno di questi strumenti
stabilisce destinazioni di spazi, zonizzazioni di superfici,
utilizzazioni di aree edificatorie; sedi di servizi, ecc., esso
conforma diritti attuali e futuri di proprietari e di
imprenditori. Nell’attuale fase del diritto positivo,
quantomeno per la proprietà edilizia, dopo la L. 1967 n.
765, la potestà conformativa è totale; nei confronti di altre
specie di proprietà e dei diritti d’impresa è invece solo
parziale, perché anche quando esiste uno strumento
urbanistico autoritativo generale (tipo piano regolatore
generale), esso regola solo l’aspetto attinente all’assetto
territoriale.
Resterebbe da fissare il punto di rilevanza costituzionale
della potestà confermativa: ma è un punto già noto, sia
attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale che
295
attraverso l’abbondante elaborazione dottrinale che si è
formata. Per il diritto d’impresa è l’atto 41, 2° e 3° c.; per i
diritti di proprietà è l’art. 42, 2° c., e praticamente coincide
con la finalità di assicurare la funzione sociale. Se e in
quanto specie di diritti di proprietà siano - come si dice funzionalizzate, il modulo strutturale che presenta la
normazione è ormai più o meno stabilizzato: precetti
normativi di base, provvedimenti conformativi di attuazione
e adattamento, ulteriori - semmai - provvedimenti o altri
atti amministrativi di cura di interessi pubblici concreti e
realizzazione degli interessi a cui si ordina la funzione
sociale.
[…]
La
funzione
sociale
giurisprudenza costituzionale
16) Corte costituzionale, sent. n. 6/1966
SENTENZA N. 6
ANNO 1966
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
nella
296
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, secondo
comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, promosso con
ordinanza emessa il 27 gennaio 1964 dalla Corte suprema di
cassazione - Sezione I civile - nel procedimento civile vertente tra
Cometti Carlo Cesare ed il Ministero della difesa-esercito, iscritta
al n. 135 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 212 del 29 agosto 1964.
Visti gli atti di costituzione del Cometti e del Ministero della
difesa;
udita nell’udienza pubblica del 27 ottobre 1965 la relazione del
Giudice Antonino Papaldo;
uditi l’avv. Giuseppe Trabucchi, per il Cometti, ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Ministero
della difesa.
Ritenuto in fatto
Con manifesto in data 12 marzo 1958 il Comando Militare
Territoriale della Regione N. E. di Padova - a mente dell’art. 2
della legge 20 dicembre 1932, n. 1849 - sottoponeva una vasta
zona di terreno sita nel Comune di Grazzana ad una serie di
limitazioni, tutte a contenuto negativo, oltre ad un generico
divieto di transito e di sosta a persone, veicoli animali, su vie,
spiazzi, mulattiere, sentieri, ecc. da determinarsi in futuro con
ordinanza militare.
Uno dei proprietari gravati da tali limitazioni, il sig. Carlo Cesare
Cometti, ritenendo di avere diritto ad un indennizzo per la
soppressione dei pieni diritti di godimento della sua proprietà,
con citazione del 9 dicembre 1959, conveniva il Ministero della
difesa- esercito innanzi al Tribunale di Venezia, chiedendo la
liquidazione di tale indennità, ed invocando a fondamento della
domanda l’art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle
espropriazioni per pubblica utilità, e l’art. 42 della Costituzione,
previo eventuale giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art.
3, secondo comma, della citata legge del 1932, n. 1849.
Il Tribunale e la Corte d’appello respingevano la domanda. Ma la
Corte di cassazione, con ordinanza 27 gennaio 1964, ritenuta la
non manifesta infondatezza della proposta questione di
legittimità costituzionale, in relazione all’art. 42, terzo comma,
della Costituzione, dell’art. 3, secondo comma, della legge 20
297
dicembre 1932, n. 1849, nella parte in cui per implicito é
prevista la imposizione di dette servitù senza indennizzo, e
giudicatane la rilevanza ai fini della decisione di merito, ha
sospeso il giudizio, ordinando la trasmissione degli atti a questa
Corte.
La Corte di cassazione ha osservato che l’art. 3, secondo comma,
della legge del 1932 prevede l’indennizzo soltanto per l’ipotesi
che la cosiddetta servitù militare sia positiva, e cioè consista in
un facere (modifica dello stato delle cose, demolizione, ecc.), e
perciò quando non ricorra tale ipotesi, ma quella diversa di una
servitù negativa, ossia di un non facere (non aprire strade, non
edificare, ecc.) l’indennizzo, in base alla legge ordinaria, non é
dovuto.
Posto ciò la Cassazione ritiene che tanto se si attribuisca alle
servitù militari il carattere tipico della servitù in senso tecnico,
ossia della servitù prediale su fondo privato a profitto di un bene
pubblico, quanto se si riconosca ad esse la figura di semplice
limite di diritto pubblico al diritto di privata proprietà, in ogni
caso sarebbe configurabile un contrasto della norma in esame
con l’art. 42, terzo comma, della Costituzione, giacché nel primo
caso vi sarebbe una costituzione di servitù (anche temporanea)
imposta discrezionalmente dall’Autorità amministrativa senza
indennizzo, e se si tratta, invece, di limite, il contrasto sempre
sussisterebbe dato che la legge non prevede criteri obiettivi di
qualificazione che valgano a differenziare il limite da un’effettiva
parziale espropriazione del bene, rimessa all’Amministrazione
senza corresponsione dell’indennizzo.
L’ordinanza é stata ritualmente notificata al Presidente del
Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
In questa sede si é costituito il sig. Cometti la cui difesa ha
depositato le deduzioni il 1 agosto 1964.
Partendo dall’elencazione delle numerose limitazioni imposte alla
sua proprietà dal manifesto dell’Autorità militare, per il Cometti
si rileva che della sua proprietà non gli resterebbe altro che un
merum nomen.
Si osserva come la disciplina delle servitù militari introdotta con
la legge del 1932, n. 1849, abbia subito un sostanziale
mutamento rispetto a quella contenuta nel T.U. approvato con
R.D. 16 maggio 1900. Con detto T.U., infatti, erano state
determinate preventivamente, in modo preciso, con misure
massime le zone circostanti le fortificazioni militari, ed entro tali
zone poligonali erano proibite certe costruzioni o piantagioni da
parte dei proprietari dei terreni viciniori. Di qui la teoria che le
cosiddette servitù militari non erano delle vere e proprie servitù
ma più esattamente dei limiti alla proprietà, giacché la
298
costruzione di una fortificazione o di un complesso di opere
importava de jure la compressione del diritto del proprietario di
usare della res sua.
Con la legge 20 dicembre 1932, n. 1849, invece, la costruzione
dell’opera militare, non fa sorgere, di diritto, alcuna servitù, non
implica nessun vincolo, ma rappresenta soltanto il presupposto
perché l’Autorità amministrativa si avvalga della potestà di
imporre la servitù, facoltà che si appalesa di apprezzabile
ampiezza.
Passando poi ad esaminare il secondo ed il terzo comma dell’art.
42 della Costituzione, si sostiene che il legislatore costituente
abbia considerato due ipotesi, quella dei limiti, da imporre con
norme universali, e cioè dalla legge, al libero godimento della
proprietà per assicurarne la funzione sociale e per renderla
accessibile a tutti (secondo comma) e quella dell’espropriazione
per motivi di interesse generale, salvo indennizzo (terzo comma).
Ora, le servitù militari non pongono limiti destinati ad
assicurare la funzione sociale della proprietà o a renderla
accessibile a tutti, ma piuttosto si risolvono in parziali
espropriazioni, imponendo gravissime limitazioni ai proprietari.
Onde ad esse devesi ritenere applicabile il terzo comma dell’art.
42 della Costituzione, e, pertanto, alle servitù imposte ai terreni
del deducente deve corrispondere un giusto indennizzo.
Si é costituito il Ministero della difesa-esercito, nel cui interesse
l’Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni depositate il 29
luglio 1964, ha sostenuto che il contrasto denunziato dalla
Cassazione non sussiste.
Le servitù militari, disciplinate dalla legge 20 dicembre 1932, n.
1849, e dal regolamento 4 maggio 1936, n. 1388, sono da
annoverare, secondo la dottrina più autorevole, tra le
"limitazioni poste al diritto di proprietà nel pubblico interesse" e
precisamente nell’interesse della difesa militare. I vincoli
costituiti dalle servitù militari, che traggono origine, in base alla
legge, dal rapporto di vicinanza della proprietà privata con il
demanio militare, si concretano normalmente in divieti rivolti al
proprietario di far uso di determinate facoltà, peraltro senza che
queste si trasferiscano alla pubblica Amministrazione. Le
limitazioni sono sancite nella legge e sono concretamente
determinate con atto amministrativo soggetto agli ordinari
rimedi giurisdizionali ed amministrativi.
Il campo delle limitazioni poste nell’interesse pubblico, nel
nostro ordinamento, é vastissimo. Si va, infatti, dalle limitazioni
che attengono al rapporto di vicinanza della proprietà privata
con la proprietà demaniale, come quelle in esame, ai limiti
derivanti dai piani regolatori edilizi, a quelli della legge sulla
299
tutela delle cose di interesse storico e artistico, delle leggi sulla
tutela delle bellezze naturali.
Più particolarmente, si indicano, poi, i numerosi esempi di
limitazioni derivanti dal rapporto di vicinanza con la proprietà
demaniale: l’Avvocatura ne fa una vasta elencazione.
Si mette in rilievo che dette limitazioni concettualmente
concorrono a definire, in tutti gli ordinamenti, compreso quello
italiano, il contenuto del diritto di proprietà che va esercitato
tenuti presenti "i limiti e l’osservanza degli obblighi stabiliti
nell’ordinamento giuridico" (art. 832 del Codice civile).
Ma tali limitazioni non importano alcun trasferimento di facoltà
dal privato proprietario alla pubblica Amministrazione, cosa che,
invece, si verifica nelle servitù vere e proprie di diritto pubblico o
servitù prediali pubbliche (servitù di via alzaia o di marciapiedi
sui beni laterali ai fiumi, servitù di scolo delle acque sui terreni
laterali alle strade) le quali costituiscono uno jus in re a favore
dell’Amministrazione. E tuttavia ad eccezione degli unici due
casi di servitù di acquedotto e di elettrodotto, in rapporto alle
quali si costituisce uno speciale jus in re aliena, per le servitù
prediali, come per le limitazioni poste nel pubblico interesse, il
vincolo non importa alcun indennizzo.
Passando poi ad illustrare tale sistema alla luce dell’art. 42 della
Costituzione, l’Avvocatura sostiene che la legge può, in base alla
norma costituzionale, determinare, oltre i modi di acquisto,
anche i "modi di godimento" nonché i "limiti" della proprietà
privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti.
Detta norma costituzionale concerne direttamente anche i limiti
menzionati nella definizione del contenuto della proprietà
dell’art. 832 del Codice civile quali restrizioni alla facoltà di
godere e di disporre da parte del proprietario, e tali limiti previsti
in connessione al raggiungimento dello scopo della funzione
sociale della privata proprietà, incidono sui "modi di godimento"
della proprietà stessa.
Ora, per la determinazione legislativa dei "modi di godimento"
della proprietà privata e per la imposizione dei limiti, in funzione
gli uni e gli altri dell’interesse sociale, la Costituzione non ha
previsto alcun indennizzo; il che é conforme alla natura e
all’essenza di tali vincoli che definiscono in concreto la proprietà
privata, ed é conforme altresì al sistema della legislazione
ordinaria, sopra delineato, secondo cui, tranne qualche
eccezione, l’indennizzo é escluso sia nei casi di limitazioni di
diritto pubblico vere e proprie che nei casi di servitù di diritto
pubblico.
L’espropriazione é istituto che non ha alcun rapporto col
contenuto e con la definizione del diritto di proprietà, ma incide
300
sulle possibilità che tale diritto continui ad esistere nello stesso
proprietario. Correlativamente il terzo comma dell’art. 42 della
Costituzione non ha considerato questa o quella restrizione
dettata, nel pubblico interesse, al "modo o facoltà di godimento",
ma soltanto i casi di "trasferimento coattivo" ed effettivo della
proprietà per motivi di interesse generale.
L’Avvocatura conclude che non esiste alcun contrasto tra le
norme contenute nella legge del 1932, n. 1849 e la norma
costituzionale, giacché, in primo luogo, le servitù militari sono
da inquadrare tra le limitazioni e non tra le servitù vere e proprie
di diritto pubblico e, in secondo luogo, non si attua alcuna
espropriazione, cioè alcun trasferimento coattivo né del diritto di
proprietà né di alcuna delle facoltà comprese nel diritto stesso,
dal proprietario alla pubblica Amministrazione.
D’altra parte anche se si trattasse di vere e proprie servitù di
diritto pubblico la conclusione sarebbe identica in rapporto alla
costituzionalità della mancata previsione dell’indennizzo, giacché
si tratterebbe sempre di vincolo a contenuto negativo che non
importa, a favore dell’Amministrazione, alcun trapasso coattivo
delle facoltà di usare e di godere parzialmente della cosa.
Con la memoria depositata il 14 ottobre 1965 l’Avvocatura
sviluppa le proprie argomentazioni insistendo in primo luogo
sulla qualificazione giuridica delle servitù militari che,
nonostante la dizione legislativa, sono da collocare tra le
limitazioni al diritto di proprietà privata poste nell’interesse
pubblico, e, in secondo luogo, sul problema fondamentale della
interpretazione delle norme costituzionali contenute nell’art. 42.
Problema che, come già sostenuto nelle deduzioni, viene risolto
nel senso che il termine "espropriazione", di cui al terzo comma,
ha un solo e preciso significato che é quello tradizionale tecnico
giuridico e non può dilatarsi fino a comprendere
l’indennizzabilità di qualsiasi diminuzione patrimoniale o di
qualsiasi limite e che, pertanto, il Costituente ha inteso
garantire l’indennizzo solo nel caso di esproprio e non dei
semplici limiti di cui al secondo comma.
Considerato in diritto
1. - La norma denunziata é contenuta nel secondo comma
dell’art. 3 della legge 20 dicembre 1932, dal cui testo si evince,
per omissione, l’esclusione di ogni indennizzo fuori dei casi di
modificazione dello stato delle cose ai sensi del primo comma
dello stesso articolo.
Per giudicare se tale esclusione sia in contrasto con l’art. 42,
terzo comma, della Costituzione occorre vedere se le "servitù"
indicate nell’art. 1 e specificate nell’art. 2 di tale legge
301
comportino, in tutto o in parte, una espropriazione ai sensi della
invocata norma costituzionale.
La difesa della parte privata sostiene che le servitù militari non
pongono meri limiti al libero godimento della proprietà, ma si
risolvono in parziali espropriazioni, alle quali deve corrispondere
un giusto indennizzo. Nella specie, le limitazioni sarebbero tali
da ridurre il diritto del proprietario ad un merum nomen.
L’Avvocatura dello Stato, nel presupposto che non si abbia
espropriazione se non nel caso di trasferimento coattivo di un
diritto dello espropriato allo espropriante, nega che possa par
tarsi di espropriazione e quindi di indennizzabilità rispetto
all’imposizione di limitazioni, tranne che ricorra un danno
permanente che produca la definitiva soppressione del diritto.
2. - É da premettere che questa Corte non é chiamata a risolvere
la questione se spetti o no all’attore nel giudizio a quo un
indennizzo a causa delle "servitù" imposte nella sua proprietà: in
questa sede si giudica della legittimità delle norme, non
dell’applicazione di esse ai casi concreti.
É altresì da premettere che per risolvere la questione di
legittimità costituzionale non gioverebbe far ricorso ad un’altra
questione: quella del carattere delle cosiddette servitù militari.
Che trattisi di servitù o di limiti non ha influenza decisiva, come
ha messo bene in luce l’ordinanza della Corte di cassazione;
tanto più che, non essendo chiarito a sufficienza nella
legislazione, nella giurisprudenza e nella dottrina il significato
dei due termini "servitù" e "limiti" (assunti come sinonimi ed
intercambiabili i due termini "limiti" e "limitazioni", le cui
differenze di significato, se pure esistono, non hanno rilievo ai
fini della questione in esame), specialmente in rapporto alle
servitù militari, il tentativo di una definizione di tale significato
in questa sede non partirebbe da una base sicura e difficilmente
approderebbe ad una sicura soluzione.
Ma anche se fosse possibile giungere ad una appagante
discriminazione, rispetto alle predette "servitù", dei due concetti
di servitù e di limite, ciò non offrirebbe un criterio valevole per
identificare i casi in cui sussista espropriazione e quindi diritto
all’indennizzo. Difatti, non sarebbe esatto affermare che si abbia
sempre espropriazione nei casi di servitù e non si abbia mai
espropriazione nei casi di limiti, giacché possono esserci
imposizioni di servitù che non importano espropriazione e
imposizioni di limiti che hanno carattere di espropriazione,
secondo la natura, l’incidenza, l’entità del sacrificio che deriva
dalla imposizione.
302
3. - Giova, anzitutto, affermare che la nozione di espropriazione
enunciata nell’art. 42, terzo comma, della Costituzione non può
essere ristretta al concetto di trasferimento coattivo nell’obbligo
della indennizzabilità può essere ricondotto esclusivamente a
tale concetto.
Già nel periodo anteriore alla Costituzione vigente era pacifica
l’indennizzabilità in alcuni casi nei quali non si aveva
trasferimento, fossero o no tali casi classificabili sotto il concetto
di espropriazione: si ricordino i casi di requisizione in uso, di
occupazioni temporanee, di danno permanente conseguente
all’esecuzione di opere pubbliche; la imposizione di talune
servitù; la eliminazione di servitù senza il trasferimento della
servitù stessa ad altri. Del resto anche nel caso previsto dall’art.
3, primo comma, della legge denunziata la legge stessa prevede il
diritto ad indennità anche se non si verificano trasferimenti.
Ora, se é vero che il Costituente nel parlare di espropriazione si
é riferito a questo istituto quale risultava dalla tradizione in atto,
é pure certo, da un canto, che la tradizione conosceva
espropriazioni non traslative e, dall’altro, che con l’art. 42, terzo
comma, non fu esclusa l’indennizzabilità per i casi in cui il
diritto vigente ammetteva - ed ammette - l’indennizzabilità anche
se non sussista trasferimento di diritti.
Lo Statuto albertino, mentre dichiarava inviolabile la proprietà,
permetteva, dato il suo carattere di flessibilità, che la legge
ordinaria limitasse o addirittura sottraesse il diritto
all’indennizzo. All’opposto, la Costituzione vigente, per un verso,
accorda una minore tutela, ma, per l’altro, stante il suo
carattere rigido, non ammette la legittimità di una legge
ordinaria che disponendo o autorizzando misure espropriative,
neghi l’indennizzo.
Che cosa debba intendersi per espropriazione ai sensi del terzo
comma dell’art. 42 risulta dal confronto di questa norma con i
due commi precedenti dello stesso articolo. Con il primo comma
e con la prima parte del secondo comma, si afferma, in
correlazione con altri articoli, quali precipuamente il 41, il 43 ed
il 44, il principio che l’istituto della proprietà privata é garantito;
con la seconda parte del secondo comma si enuncia che la legge
ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti; nel terzo
comma si prevede che la proprietà può essere espropriata, salvo
indennizzo. Ciò comporta che la determinazione dei modi di
acquisto e di godimento e dei limiti, volta, come deve essere, a
regolare l’istituto della proprietà privata, a stabilirne, cioè, la
configurazione nell’ordinamento positivo, non può violare la
garanzia accordata dalla Costituzione al diritto di proprietà,
sopprimendo l’istituto della proprietà privata o negando ovvero
comprimendo singoli diritti senza indennizzo. La logica del
303
sistema impone di considerare che la violazione della garanzia si
avrebbe non soltanto nei casi in cui fosse posta in essere una
traslazione totale o parziale del diritto, ma anche nei casi in cui,
pur restando intatta la titolarità, il diritto di proprietà venisse
annullato o menomato senza indennizzo.
4. - Trattandosi di materia non regolata, in via generale, dal
legislatore e ancora in elaborazione da parte della dottrina e
della giurisprudenza, non é possibile fissare criteri sicuri,
valevoli a comprendere tutti i casi e a chiarire tutte le situazioni.
Tuttavia, si può affermare che la legge può non disporre
indennizzi quando i modi ed i limiti che essa segna, nell’ambito
della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime
di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di
intere categorie di beni ovvero quando essa regoli la situazione
che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della
pubblica Amministrazione; sempre che, la legge, sia destinata
alla generalità dei soggetti i cui beni si trovino nelle accennate
situazioni, salva la possibilità di accertare con singoli atti
amministrativi l’esistenza di tali situazioni rispetto a singoli
soggetti ed a singoli beni. Per questo può anche dirsi che le
imposizioni devono avere carattere obbiettivo, nel senso che
devono scaturire da disposizioni che imprimano, per così dire,
un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a
priori per caratteristiche intrinseche.
Se le imposizioni non abbiano questo carattere generale ed
obbiettivo, in quanto comportino un sacrificio per singoli soggetti
o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle
condizioni
suindicate,
allora
sorge
il
problema
dell’indennizzabilità. In questi casi può dirsi che si ha
espropriazione quando il godimento del bene (nel senso di
utilizzazione e di disposizione) sia in tutto o in parte sottratto al
titolare del diritto, essendo senza decisiva importanza il fatto che
titolare ne resti o no il proprietario. Né ha importanza il fatto che
il sacrificio sia imposto direttamente dalla legge o con atto
amministrativo in base alla legge, perché non é la forma dell’atto
di imposizione quella che dà all’atto stesso la sua caratteristica
come atto di espropriazione.
É, pertanto, da considerarsi come di carattere espropriativo
anche l’atto che, pur non disponendo una traslazione totale o
parziale di diritti, imponga limitazioni tali da svuotare di
contenuto il diritto di proprietà incidendo sul godimento del
bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto
alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o
determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo
valore di scambio. É altresì da considerare come di carattere
304
espropriativo l’atto che costituisca servitù o imponga limiti a
carico della proprietà, quando gli uni e gli altri siano di entità
apprezzabile, anche se non tali da svuotare di contenuto il
diritto del proprietario.
Non si può negare che nei criteri esposti ha parte notevole un
elemento quantitativo, nel senso che il carattere espropriativo é
fatto dipendere anche dalla maggiore o minore incidenza che il
sacrificio imposto ha sul contenuto del diritto. Ma questo é un
elemento insopprimibile del concetto di espropriazione, intesa
non soltanto come trasferimento ma anche come sottrazione o
menomazione del godimento del diritto: sottrazione o
menomazione che deve essere prevista ed accertata anche in
rapporto alla concretezza del sacrificio imposto.
5. - Sulla base dei criteri enunciati, occorre ora tornare all’esame
dell’art. 2 della legge denunziata.
In primo luogo, é da dire che non trattasi di limitazioni (si
qualifichino servitù o limiti) aventi carattere generale ed
obbiettivo nei sensi sopra indicati. Trattasi di imposizioni da
disporsi, in base alla legge, con atti amministrativi, improntati a
criteri di larga discrezionalità ed aventi contenuto svariato.
É, tuttavia, da notare che nessuna delle previsioni contenute
nell’art. 2 rappresenta, isolatamente considerata, un caso di
espropriazione. Anche le prescrizioni che appaiono più
impegnative - come quella di non impiantare linee elettriche o
condotte di acqua o di gas o quella di non tenere fucine o altri
impianti provvisti di focolare o quella di non fabbricare muri o
edifici o quella, purché temporanea, di non transitare o non
sostare - non sono idonee, da sole ed in astratto, a costituire atti
di espropriazione: tali sarebbero se, per fare due soli esempi,
dalla imposizione di uno o più limiti risultasse impedita la
coltivazione della terra e la raccolta dei frutti in un fondo
agricolo o la possibilità di abitazione (soggiorno, preparazione e
consumazione dei pasti, ecc.) in un edificio a ciò destinato.
Ciò posto, mentre non si può dichiarare l’illegittimità della
norma denunziata in quanto nega l’indennizzo in relazione
all’uno o all’altro dei sacrifici previsti dalla legge, tale
dichiarazione si deve emettere in relazione ai casi in cui per
effetto di uno o più di tali sacrifici si abbia espropriazione nel
senso delineato nella motivazione di questa sentenza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma,
della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, sulle servitù militari, in
305
riferimento all’art. 42, terzo comma, della Costituzione, in
quanto non prevede indennizzo per limitazioni della proprietà
privata di natura espropriativa nei sensi di cui in motivazione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 gennaio 1966.
Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino
PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA
- Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino
MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni
BATTISTA BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO
Depositata in cancelleria il 20 gennaio 1966.
17) Corte costituzionale, sent. n. 55/1968
SENTENZA N. 55
ANNO 1968
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
306
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3
e 4, e dell’art. 40 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n.
1150, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 27 ottobre 1966 dal Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione siciliana sui ricorsi di Ajroldi Luigi
ed altri, Mastrogiovanni Tasca Lucio, Società Raytheon - Elsi ed
altri, Caruso Vincenzo ed altri e Pottino Gaetano ed altri contro
la Regione siciliana, il Comune di Palermo ed altri, iscritta al n.
240 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967;
2) ordinanza emessa il 2 maggio 1966 dal pretore di
Campobasso nel procedimento penale a carico di Riccitelli
Francesco, iscritta al n. 111 del Registro ordinanze 1966 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 182 del
23 luglio 1966.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri
e di costituzione di Ajroldi Luigi ed altri, di Mastro Giovanni
Tasca Lucio, della Società Raytheon - Elsi ed altri della Regione
siciliana e del Comune di Palermo;
udita nell’udienza pubblica del 14 febbraio 1968 la relazione del
Giudice Luigi Oggioni;
uditi gli avvocati Guido Aula, Luigi Maniscalco Basile e Salvatore
Orlando Cascio, per le parti private, l’avv. Camillo Orlando, per il
Comune di Palermo, ed il sostituto avvocato generale dello Stato
Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e
per la Regione siciliana.
Ritenuto in fatto
Con decreto 28 giugno 1962 del Presidente della Regione
siciliana veniva approvato il piano regolatore generale della città
di Palermo. Il piano contiene l’indicazione del caratteri e dei
vincoli di zona da osservare nell’edificazione nonché l’indicazione
delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico e di quelle
riservate a verde pubblico, a verde privato, a verde agricolo o ad
edificazione
di
interesse
pubblico
(edilizia
scolastica,
conservazione di edifici storico - monumentali, eccetera). Il tutto
a termine dell’art. 7, nn. 2, 3, 4, della legge urbanistica 17
agosto 1942, n. 1150.
Cinque gruppi di proprietari di zone di terreno comprese nel
perimetro del piano regolatore generale predetto e soggette, in
vario modo e misura, ai vincoli sopradetti, hanno impugnato
davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione
307
siciliana e nei confronti della Regione e del Comune, il decreto
del Presidente, chiedendone l’annullamento per illegittimità
dell’art. 7 della legge urbanistica in base al quale il piano é stato
predisposto, sia per l’indeterminatezza legislativa del vincoli, sia
per trattarsi di vincoli imposti senza la garanzia di corrispondere
indennità.
Con cinque ordinanze emesse in data diversa nel primo semestre
1964, il Consiglio di giustizia adito sollevava questione di
legittimità costituzionale del citato art. 7 della legge urbanistica
con riferimento all’art. 42, commi secondo e terzo, della
Costituzione.
Il Consiglio, circa la non manifesta infondatezza ha considerato:
a) che, mentre l’art. 42, comma secondo, della Costituzione
prescrive che i limiti alla proprietà privata, per assicurarne la
funzione sociale, devono essere determinati per legge, viceversa
nell’art. 7, n. 2, della legge urbanistica, questa determinazione
circa le caratteristiche e l’ampiezza del vincoli, manca:
mancanza tanto più rilevante, in quanto l’art. 40 della stessa
legge esclude l’indennizzabilità per i vincoli di zona e per gli
oneri relativi all’allineamento edilizio delle nuove costruzioni; b)
che, mentre l’art. 42, comma terzo, della Costituzione, consente
l’espropriazione della proprietà privata, ma fa salvo l’indennizzo,
viceversa, nel sistema della legge urbanistica, si ha che con
l’approvazione del piano regolatore generale, questo ha vigore
immediato ed a tempo indeterminato ed i beni restano
assoggettati subito a vincoli e limitazioni che ne sopprimono
l’utilizzazione ed il godimento, con effetto uguale a quello del
futuro procedimento formale di espropriazione conseguente alla
formazione di piani particolareggiati: ciò senza che sia previsto
alcun indennizzo per l’immobilizzazione del bene anche nel
periodo intermedio. In proposito, il Consiglio di giustizia rilevava
anche che, dai precetti dell’art. 42 della Costituzione, emerge
implicita l’esigenza in linea generale, che non indennizzabili
sono soltanto quelle limitazioni che non incidono radicalmente
sul contenuto del diritto di proprietà; c) in particolare, ed in
relazione a fattispecie in esame, l’imposizione - sine die - di
vincoli a verde pubblico, a verde privato, a verde agricolo su aree
di natura pacificamente edificatoria, per effetto del solo piano
regolatore generale, in attesa della espropriazione, sembrava
dover importare il verificarsi del principio di indennizzabilità.
Questa Corte, riunite tutte le cause provenienti dalle cinque
ordinanze di rinvio, con sentenza 3 maggio 1966, n. 38,
dichiarava non fondata la questione sollevata contro l’art. 7, n.
2, citato, sotto il dedotto profilo della violazione della riserva di
legge di cui all’art. 42, secondo comma, della Costituzione,
questione comune a tutte le parti interessate, ritenendo che alla
308
garanzia di questa riserva si era, nel caso, ottemperato dal
legislatore mediante norme sufficientemente individuatrici del
vincoli di zona e di quelli riguardanti la costruzione del
fabbricati, la loro natura ed i controlli a tutela della proprietà
privata. Per quanto riguarda l’altra questione sollevata contro i
nn. 3 e 4 dell’art. 7 stesso, con ordinanza n. 39 emessa in pari
data, questa Corte, considerato che non risultava chiara la
rilevanza "in relazione all’asserita mancata indennizzabilità del
vincoli" previsti dalle norme suddette (nel caso, é detto
nell’ordinanza, vincoli di terreni a verde pubblico, verde privato,
verde
agricolo
ed
impianti
pubblici)
e
ravvisando
conseguentemente necessario "un esame più approfondito, sotto
l’aspetto ora indicato, della questione sollevata", ordinava la
restituzione degli atti al Consiglio regionale di giustizia
amministrativa.
Con ordinanza emessa il 27 ottobre 1966 il Consiglio (decidendo
su tutti i ricorsi riuniti) ha precisato che, risolta la questione
relativa alla violazione dell’art. 42, secondo comma, della
Costituzione, di portata generale, sulla riserva di legge,
occorreva procedere ad un esame della rilevanza delle altre
questioni concernenti la violazione dell’art. 42, terzo comma,
della Costituzione da parte dell’art. 7, nn. 2, 3 e 4, della legge
urbanistica, in relazione ai singoli ricorsi avanti ad esso
Consiglio pendenti, tenendo conto non soltanto della natura
della lesione patita da ciascuno dei ricorrenti, ma anche dei
motivi di impugnazione. Perciò, il Consiglio ha dapprima
effettuato uno stralcio di quei ricorsi nei quali si era proposta
unicamente la questione della riserva di legge in relazione a
fattispecie riguardanti dimensioni di edificabilità, allineamento
di edifici e simili, trattenendo detti ricorsi a sé per l’esame di
merito.
Ha osservato poi il Consiglio, procedendo all’esame degli altri
ricorsi riguardanti destinazioni a verde, ad edificio scolastico, a
conservazione di fabbricato monumentale, che l’indennizzabilità
dei vincoli di zona alla proprietà privata di cui all’art. 7, n. 2,
della legge urbanistica risulta testualmente esclusa dall’art. 40
della stessa legge, mentre l’indennizzabilità espropriativa, nei
casi di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 7 sarebbe dovuta soltanto
quando la destinazione prevista dal piano regolatore generale
venga in seguito di tempo, attraverso piani regolatori
particolareggiati, attuata dal Comune, che peraltro non sarebbe
vincolato al riguardo a termini di sorta. Onde, anche in questo
caso, dall’approvazione del piano regolatore generale deriverebbe
immediatamente una compressione del diritto di proprietà,
concretantesi nella impossibilità di rilascio di licenze edilizie in
contrasto con le destinazioni sancite dal piano generale ai sensi
309
delle dette disposizioni. Il che porterebbe a ritenete non
infondatamente che le disposizioni stesse siano in contrasto con
il terzo comma dell’art. 42 della Costituzione.
Il Consiglio quindi, dopo aver precisato essersi sostenuto dai
ricorrenti che il piano regolatore de quo é viziato per avere,
conformandosi alla legge urbanistica, imposto forme di
sostanziale espropriazione senza indennizzo, ha rinviato gli atti a
questa Corte, investendola espressamente della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3, 4, e dell’art. 40
della legge prodotta, in relazione all’art. 42, terzo comma, della
Costituzione.
L’ordinanza, notificata alle parti private il 6, 7 e 13 dicembre
1966 al Comune di Palermo e alla Regione siciliana lo stesso 6
dicembre, ed il 9 dicembre successivo al Presidente del Consiglio
dei Ministri, é stata comunicata ai Presidenti del due rami del
Parlamento come per legge e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967.
Avanti alla Corte costituzionale, si sono costituiti, delle Società
Raytheon - Elsi, Compagnia Italiana Jolly Hotels, già parti
private, gli eredi Ajroldi, Lucio Mastrogiovanni Tasca, CIATSA,
Banca Commerciale, Cassa di Risparmio V. E., Banco di Sicilia,
tutte interessate alla questione riguardante, secondo i casi, sia
la destinazione di terreni a verde, pubblico, privato, agricolo, sia
la destinazione ad edificio scolastico, sia la conservazione di un
edificio di interesse monumentale.
Si sono anche costituiti la Regione siciliana, il Comune di
Palermo e il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le difese delle parti private, facendo proprie le ragioni esposte
nell’ordinanza di rinvio, chiedono dichiararsi la illegittimità
costituzionale degli articoli denunciati, cioè l’art. 7, nn. 2, 3, 4 e
l’art. 10. In particolare, osservano che l’ordinanza ha
esattamente dimostrato la rilevanza della questione sollevata, in
quanto ogni vincolo alla proprietà privata che ne assorba o
riduca sensibilmente il contenuto economico, incidendo sulla
facoltà di disposizione e godimento del bene, costituisce,
sostanzialmente,
espropriazione,
obbligatoriamente
indennizzabile ai sensi dell’art. 42 della Costituzione, mentre le
norme denunziate, su cui si é basato il piano generale
urbanistico, nel caso, escludendo l’indennizzo, sarebbero viziate
di illegittimità.
Dalle parti pubbliche, particolarmente dall’Avvocatura dello
Stato, si é dedotto quanto segue.
In linea preliminare, si é eccepito che il Consiglio di giustizia
amministrativa non ha compiuto quell’approfondito esame delle
questioni di legittimità, richiesto da questa Corte con la
precedente ordinanza, in quanto non solo non ha precisato, in
310
relazione ai singoli ricorsi giurisdizionali vertenti, di quali vincoli
si tratti né in che consista, in relazione a ciascun tipo di vincolo,
l’asserita soppressione del diritto di proprietà, ma per di più non
ha dato ragione della rilevanza della questione nei ricorsi
pendenti, oggetto dei quali é soltanto la tutela dell’interesse dei
ricorrenti alla legittimità del decreto di approvazione del piano
regolatore generale e non già la tutela di un diritto soggettivo
alla percezione della indennità di espropriazione. In base a
questa argomentazione si prospetta la necessità che la Corte
rimetta di nuovo gli atti al Consiglio di giustizia amministrativa
per un riesame della rilevanza della questione.
In secondo luogo, e sempre in via preliminare, l’Avvocatura
sottopone alla Corte la valutazione dell’ammissibilità in questa
fase di giudizio dell’estensione della censura di illegittimità al n.
2 dell’art. 7 in relazione all’art. 40 della legge urbanistica, sul
quale n. 2 dell’art. 7 questa Corte si é già pronunciata con la
precedente sentenza, negandone l’incostituzionalità.
Nel merito, l’Avvocatura, insistendo nella tesi già svolta, rileva
che i limiti allo ius aedificandi, predeterminati come categorie e
come tipi, sono stabiliti con carattere di generalità, e definiscono
la proprietà urbana al fine di soddisfare il pubblico interesse alla
disciplina dell’assetto del centri abitati.
I piani regolatori rappresenterebbero una regolamentazione
preventiva e generale dell’attività edilizia, dettata in via concreta
dalla Pubblica Amministrazione in attuazione delle norme
legislative in materia. Pertanto, come ritenuto per il passato
anche dal Consiglio di Stato in armonia col principio dottrinario
della diversità del regime di appartenenza dei beni in funzione
dei pubblici interessi, dovrebbe escludersi l’indennizzabilità del
vincoli in esame, perché inerenti al contenuto del diritto di
proprietà delle aree urbane, e tale esclusione non sarebbe in
contrasto con la garanzia costituzionale dell’indennizzo,
trattandosi appunto di limiti rientranti nelle previsioni del
secondo comma dell’art. 42 della Costituzione, e non di
espropriazioni.
Tali concetti del resto sarebbero stati anche accolti dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 6 del 1966, la quale avrebbe
precisato in via generale che il problema della indennizzabilità
sorgerebbe soltanto in relazione a quei limiti che non sono
connaturati alla particolare categoria dei beni, ma sono imposti
come sacrificio particolare a carico di singoli soggetti o gruppi di
soggetti.
In subordine, l’Avvocatura sostiene poi che i vincoli di cui all’art.
7 n. 2 della legge urbanistica non importerebbero, di per sé,
un’espropriazione intesa nel senso delineato dalla ripetuta
sentenza n. 6 del 1966 della Corte, cioè non importerebbero
311
alcuna limitazione apprezzabile del contenuto della proprietà
privata, poiché la loro attuazione attraverso il piano regolatore,
non farebbe che specificare un limite connaturato allo status
giuridico del bene. E ciò sarebbe confermato dalle disposizioni
dell’art. 11 della legge urbanistica, che prevede l’efficacia
immediata delle "linee e prescrizioni di zona" e solo per queste e
non per altri vincoli di destinazione e dell’art. 40 impugnato, ne
esclude l’indennizzabilità.
D’altra parte l’imposizione in sede di piano regolatore generale
dei vincoli di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 7 (spazi di uso pubblico,
aree riservate a edifici e impianti di interesse pubblico generale),
avrebbe la funzione di non disporre ma di "preannunciare"
l’espropriazione, che si concreterebbe solo in un secondo tempo,
con l’adozione del piano particolareggiato.
Né il fatto che, in realtà, l’esproprio, con la conseguente
corresponsione dell’indennità, venga fatto in concreto a notevole
distanza di tempo dall’approvazione del piano, potrebbe indurre,
secondo l’Avvocatura, a ravvisare, relativamente al detto periodo
intermedio, una forma di esproprio sostanziale senza indennizzo.
Invero, anzitutto l’indeterminatezza temporale sarebbe di natura
non assoluta, giacché ben potrebbe il privato avvalersi delle
normali garanzie giurisdizionali in caso di ingiustificata inerzia
dell’Amministrazione; e, d’altra parte, il lamentato nocumento
collegato alla inutilizzabilità dell’area nel periodo intercorrente
fra l’approvazione del piano regolatore generale e l’esproprio
effettivo, dovrebbe essere considerato in relazione alla possibile
utilizzazione edilizia del bene nel periodo medesimo, che sarebbe
peraltro sempre condizionata dal rilascio della licenza, concessa
di regola non in presenza della semplice inclusione dell’area nel
perimetro urbano, ma subordinatamente alla esistenza quanto
meno di un sufficiente grado di urbanizzazione e del servizi
pubblici essenziali.
L’Avvocatura conclude pertanto che la Corte, ove non ritenga di
rimettere nuovamente gli atti al giudice a quo, dichiari infondata
la questione sollevata.
Per le parti private costituite, é stata presentata in termini una
memoria illustrativa congiunta.
In essa si ribadiscono le deduzioni già svolte e, in particolare, si
precisa che secondo quanto stabilito con la sentenza n. 6 del
1966 della Corte, l’obbligo di indennizzo sussisterebbe tutte le
volte che l’imposizione del vincoli urbanistici non abbia carattere
generale ed obbiettivo, comportando un sacrificio per singoli
soggetti o gruppi di soggetti, e concreti d’altra parte una
compressione del contenuto economico del diritto di proprietà.
Pertanto, mentre potrebbe anche escludersi l’obbligo di
indennizzo per quei vincoli che stabiliscono, ad esempio, in
312
determinate zone, limiti di altezza, di cubatura ecc. nella
costruzione, in quanto diretti ad una generalità di soggetti, lo
stesso obbligo dovrebbe invece riconoscersi in relazione ai vincoli
a verde pubblico o privato, che colpirebbero i singoli proprietari
del terreni contemplati nei provvedimenti, creando una precisa
differenza fra loro e la generalità degli altri proprietari limitrofi.
Osserva inoltre la difesa che i vincoli urbanistici a verde
pubblico o privato o agricolo porrebbero in essere una
espropriazione non soltanto sostanziale, ma anche formale,
giacché, attraverso la loro imposizione, si concreterebbe una
situazione giuridica che, attraverso la costituzione di un diritto
di godimento pubblico, incide sul diritto privato di proprietà e lo
limita anche sul piano formale. Tale fattispecie, verificandosi
d’imperio della pubblica autorità, assumerebbe il valore formale
di una espropriazione, ed anche sotto questo profilo pertanto, la
questione sollevata sarebbe fondata.
Anche la difesa degli eredi Ajroldi ha presentato una memoria
con cui ribadisce, spiega e illustra le considerazioni già esposte a
sostegno della rilevanza della questione.
L’Avvocatura dello Stato ha pure depositato una memoria
illustrativa, svolgendo le tesi difensive pregiudiziali e di merito
già proposte ed insistendo quindi nel chiedere che la Corte voglia
dichiarare infondate le questioni proposte, ove non ritenga di
rimettere nuovamente gli atti al giudice a quo.
Anche la difesa del Comune di Palermo ha depositato una
memoria con cui nega la rilevanza della questione con argomenti
analoghi a quelli svolti dall’Avvocatura dello Stato e, nel merito,
illustra i motivi che sosterrebbero il riconoscimento della
legittimità delle norme impugnate.
Nel corso del procedimento penale a carico dell’imprenditore
edile Riccitelli Francesco imputato della contravvenzione di cui
all’art. 41, lett. b, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, per avere
proseguito i lavori nonostante gli ordini di sospensione
intimatigli dal sindaco a causa della violazione da parte di esso
Riccitelli delle prescrizioni dettate nella licenza edilizia in
conformità del piano regolatore generale comunale (lavori
consistenti in costruzione di edificio con piani in più del quattro
previsti nel progetto approvato con licenza edilizia, il pretore di
Campobasso ha sollevato d’ufficio questione di legittimità
costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3 e 4, della legge urbanistica
sotto il profilo della violazione della riserva di legge di cui all’art.
42, secondo comma, della Costituzione e della violazione della
garanzia all’indennizzo di cui al terzo comma dello stesso art. 42
in termini analoghi a quelli già svolti nelle ordinanze di rinvio del
Consiglio di giustizia amministrativa sopra menzionate.
313
Il pretore ha altresì rilevato che le disposizioni di cui ai nn. 3 e 4
del ripetuto art. 7 pongono limiti che, pur essendo
immediatamente efficaci, non sono soggetti ad un termine finale
di operatività, onde la proprietà privata verrebbe sottoposta a
vincoli per un periodo di tempo la cui durata sarebbe rimessa
alla
incensurabile
discrezionalità
della
Pubblica
Amministrazione, il che concreterebbe una violazione della
garanzia costituzionale del rispetto della proprietà privata di cui
all’art. 42, secondo comma, della Costituzione.
Quanto alla rilevanza, il pretore afferma che dalla eventuale
illegittimità delle norme impugnate discenderebbe la illegittimità
delle disposizioni amministrative violate dall’imputato, il che
inciderebbe sulla configurabilità del reato ascrittogli.
Il giudice a quo pertanto ha sospeso il giudizio principale, e
rimesso gli atti a questa Corte per la decisione delle questioni
sollevate.
L’ordinanza, emessa in udienza alla presenza dell’imputato, é
stata notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 6
maggio 1966, comunicata ai Presidenti del due rami del
Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 182 del 23
luglio 1966.
Non vi é stata costituzione di parti avanti questa Corte.
Considerato in diritto
Le due cause, che derivano rispettivamente dalle ordinanze di
rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione
siciliana e del pretore di Campobasso, riguardando le stesse
questioni di principio, possono essere riunite e decise con unica
sentenza.
1. - L’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta per il
Presidente del Consiglio dei Ministri nella causa conseguente
alla ordinanza di rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa,
eccepisce in linea preliminare che il giudizio di rilevanza,
nuovamente espresso dal Consiglio, non risponde né alla
esigenza di approfondimento già sollecitata da questa Corte nella
precedente fase in relazione alla presunta illegittimità di ciascun
tipo di vincolo in concreto: né, soprattutto, risponde alla
esigenza primaria di dimostrare la rilevanza del giudizio di
legittimità costituzionale ai fini concreti della risoluzione delle
questioni di merito: rilevanza che qui sarebbe senz’altro da
escludersi, discutendosi davanti al Consiglio soltanto della
legittimità degli atti amministrativi di imposizione dei vincoli in
sé considerati, a tutela degli interessi dei singoli e non già della
314
corresponsione di indennizzi a soddisfacimento di pretesi diritti
soggettivi.
L’eccezione non é fondata.
L’ordinanza di rinvio ha, nel caso, sufficientemente posto in
evidenza il contenuto ed i limiti del giudizio di rilevanza, così
come dedotto. Pur senza scendere a dettagli, l’ordinanza non ha
trascurato di rapportare gli effetti di questo giudizio a quanto
forma oggetto del singoli giudizi di impugnazione pendenti
davanti al Consiglio, per dedurne la pregiudizialità; ed ha, poi,
chiaramente delineato la questione di legittimità costituzionale
che si é inteso proporre, in relazione a quelle norme della legge
urbanistica
sui
piani
regolatori
generali
comportanti
compressioni del diritto di proprietà senza corrispondente
indennizzo. Nell’ambito del giudizio volto ad impugnare un piano
regolatore generale (quello di Palermo) formato sulla base della
legge urbanistica e con espresso richiamo alla stessa, si é,
pertanto, ritenuto di inserire la proposizione della questione di
legittimità costituzionale di quelle norme dalle quali il piano
deriva e sulle quali si regge.
Di conseguenza, la Corte, riscontrato che un giudizio di
rilevanza, di pertinenza del giudice a quo é stato compiuto ed in
modo sufficientemente motivato, deve ritenere ammissibile, sotto
il profilo in esame, il giudizio qui instaurato.
La stessa Avvocatura generale dello Stato, sempre in linea
preliminare, ma senza farne oggetto di formale eccezione,
sottopone alla Corte il quesito se sia ammissibile la rimessione,
operata con l’ordinanza di rinvio, del giudizio di legittimità
costituzionale sull’art. 7, n. 2, della legge urbanistica in
relazione all’art. 40 stessa legge, dopo che sulla legittimità di
detto numero dell’articolo, questa Corte si é pronunciata con la
precedente sentenza. Si aggiunge che il giudizio dovrebbe ora
mantenersi circoscritto ai numeri 3 e 4 dell’art. 7, in ordine ai
quali la precedente ordinanza ha indirizzato il riesame della
rilevanza.
La Corte osserva che, in questa seconda fase, la prospettazione,
da parte del Consiglio di giustizia amministrativa, della
legittimità costituzionale dell’art. 7, n. 2, é stata compiuta in
base a motivi che sono essenzialmente nuovi e diversi da quelli
già in precedenza dedotti e decisi e riguardano ora il sistema
organico sul punto, della legge nelle sue varie articolazioni, l’una
all’altra connesse. Ed in caso di restituzione degli atti al giudice
a quo, questi ha potestà piena di riesaminare tutte le questioni
non decise (sentenza n. 56 del 1960).
315
Non sussiste, quindi, la lamentata preclusione.
D’altra parte, anche con l’ordinanza del pretore di Campobasso,
che ha dato luogo alla riunione delle cause, si é denunciata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 in ordine a tutti i tre
numeri suindicati.
Il contenuto e l’ampiezza del giudizi restano, pertanto,
chiaramente definiti.
2. - L’ordinanza del pretore di Campobasso prospetta, come
primo motivo di incostituzionalità, l’indeterminatezza dei criteri e
delle modalità della disciplina urbanistica di cui all’art. 7, per
cui non potrebbe ritenersi osservato l’art. 42, commi secondo e
terzo, della Costituzione, che riserva alla legge di regolare
compiutamente l’esercizio di detto potere di disciplina.
La stessa questione, già proposta negli stessi termini con la
prima ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa, é
stata esaminata da questa Corte con la sentenza n. 38 del 1966
e dichiarata non fondata, in base a molteplici argomenti che
dimostrano la sufficiente individuazione, da parte del legislatore,
dei vincoli posti sulla proprietà privata a fini urbanistici e dei
relativi controlli posti a garanzia della proprietà stessa.
L’ordinanza non contiene alcun nuovo argomento, valido a
condurre, sul punto, a decisione della questione, diversa da
quella della già riconosciuta infondatezza, che qui va,
conseguentemente, confermata.
3. - Entrambe le ordinanze devolvono alla Corte altra questione
così puntualizzata: se la mancanza di previsione nella legge
urbanistica, di un termine finale di effettiva operatività del
vincoli riconducibili nell’ambito delle disposizioni di un piano
regolatore generale e, nello stesso tempo, l’operatività
immediata, senza il riconoscimento di alcun compenso, dei
vincoli imposti dal piano stesso - taluni ordinati al
mantenimento obbligatorio dell’attuale utilizzazione privata o
alla realizzazione obbligatoria di una diversa utilizzazione
privata, altri ordinati a future destinazioni concrete, da
realizzare attraverso interventi pubblici incerti an e quando siano conformi all’art. 42, terzo comma, della Costituzione che
condiziona l’assoggettamento a espropriazione della proprietà
privata, per motivi d’interesse generale, all’attribuzione di un
corrispondente indennizzo.
Così delineata la questione, la Corte rileva anzitutto che il
sistema, sul punto, della legge n. 1150 del 1942 corrisponde a
quanto accennato nelle ordinanze di rinvio.
316
Una volta approvato il piano regolatore generale, questo ha
vigore a tempo indeterminato (art. 11). E la giurisprudenza ha
costantemente affermato che non soltanto i vincoli indicati nel n.
2 dell’art. 7 (come si può ricavare dagli artt. 11 e 17) ma altresì
quelli indicati nei nn. 3 e 4 dell’art. 7 sono immediatamente
operativi e validi a tempo indeterminato.
In questo sistema (che la recente legge di modifica e integrazioni
n. 765 del 1967 ha conservato, ribadendo anche l’intervento di
misure di salvaguardia nelle more di approvazione del piano e
dichiarandole anzi obbligatorie - art. 3, ultimo comma - ) viene a
determinarsi - salvo per quanto riguarda quei vincoli che sono
ordinati al mantenimento di destinazioni attuali della proprietà un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal
piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato
finale. Quest’ultimo, quando presupponga trasferimenti di
proprietà (e quindi per la generalità delle aree da destinare a
opere e usi pubblici), e inoltre quando presupponga
trasformazioni ad opera del proprietari, é infatti dilazionato a
data incerta e imprevista e imprevedibile nel suo verificarsi
(quella in cui potranno essere eventualmente approvati e attuati
i piani particolareggiati).
Orbene, per nessuno dei riferiti vincoli in relazione alla descritta
situazione viene, nel sistema della legge, ipotizzato un
indennizzo. Vero che, in questo sistema, rientrano talune
previsioni di indennizzo. Ma, a parte i casi di trasferimento di
proprietà, un indennizzo non é previsto, fuorché, a titolo di
assoluta eccezione, nell’ipotesi considerata dall’art. 25. Quanto
poi ai casi di trasferimenti coattivi, la legge, mentre pel
trasferimento non fissa alcun termine decorrente dall’entrata in
vigore del piano generale, non contempla alcun indennizzo per il
vincolo di immodificabilità cui il proprietario é tenuto a
sottostare per il tempo, illimitato, durante il quale rimarrà in
attesa del trasferimento. Per contro, quando il trasferimento
coattivo abbia poi luogo, la proprietà verrà indennizzata "allo
stato", e cioè con riferimento ai valori del momento (ciò pel
richiamo che l’art. 37 della legge fa alla legge generale sulle
espropriazioni).
L’ordinanza del pretore di Campobasso, quale argomento di
rincalzo per dimostrare la carenza del sistema, indica anche
l’art. 30 della legge, dove non é previsto per l’attuazione del
piano generale alcun corredo di piano finanziario, se non per
l’ipotesi delle zone di espansione di cui all’art. 18, destinate a
essere espropriate prima della formazione dei piani
particolareggiati.
Il rilievo é esatto. Anzi il citato art. 30 é ora sostituito dall’art. 9
della legge di modifica n. 765 del 1967 dove l’esigenza del piano
317
finanziario, già prevista per i soli piani particolareggiati e per le
zone di espansione, é sostituita con quella di una semplice
"relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per
l’acquisizione delle aree". Tutto questo però nulla aggiunge di
decisivo al già detto; e anzi si inquadra perfettamente in esso.
4. - Per escludere il dubbio di illegittimità della legge urbanistica
nella parte dianzi descritta, prospettata dall’ordinanza del
Consiglio di giustizia amministrativa, in relazione all’art. 42,
comma terzo, della Costituzione, la difesa delle parti pubbliche
sostiene che detto articolo e comma si riferiscono
esclusivamente
all’ipotesi
di
una
espropriazione
immediatamente traslativa, cui soltanto corrisponderebbe la
garanzia di un indennizzo.
Questa tesi ha già formato oggetto di esame della Corte con la
sentenza n. 6 del 1966.
Premesso che l’istituto della proprietà privata é garantito dalla
Costituzione e regolato dalla legge nei modi di acquisto, di
godimento e nei limiti, la Corte ha osservato che tale garanzia é
menomata qualcosa singoli diritti, che all’istituto si ricollegano
(naturalmente secondo il regime di appartenenza dei beni
configurato dalle norme in vigore), vengano compressi o
soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che,
indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una
traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno
svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto,
pur rimanendo intatta l’appartenenza del diritto e la
sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la
proprietà fondiaria. Anche tali atti vanno considerati di natura
espropriativa.
La Corte ha, peraltro ritenuto che il principio della necessità
dell’indennizzo non opera nel caso di disposizioni le quali si
riferiscano a intere categorie di beni (e perciò interessino la
generalità dei soggetti), sottoponendo in tal modo tutti i beni
della categoria senza distinzione ad un particolare regime di
appartenenza.
Successivamente alla citata sentenza e conformandosi ai
principi ivi affermati e direttamente o indirettamente richiamati,
questa Corte ha deciso altre particolari questioni con le sentenze
n. 20 e n. 119 del 1967.
Questi motivati concetti di base vanno tenuti presenti e
considerati operanti per decidere sulla questione ora proposta.
Per superare la conseguenzialità derivante dalla interpretazione
come sopra data dalla Corte al comma terzo dell’art. 42 della
Costituzione, si vorrebbe ricondurre l’esame al comma
precedente, sul punto in cui é proclamata ed assicurata la
318
funzione sociale della proprietà, mediante limitazioni disposte
per legge.
Senza dubbio la garanzia della proprietà privata é condizionata,
nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla
subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di
funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed
utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto é
stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il
contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare,
richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti
"dall’ordinamento giuridico" e le regole particolari per scopi di
pubblico interesse.
Ma, per tutto ciò ammesso e riconosciuto, la questione in esame
non si risolve, circoscrivendola nell’ambito del secondo i comma
dell’art. 42.
Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà
sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire
inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri,
dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere
sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione
lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime,
il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe
categorie di beni, come pure può imporre, sempre per categorie
di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare
imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o
meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di
disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono
mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della
quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che
é connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto
nell’attuale momento storico. Al di là di tale confine, essa
assume carattere espropriativo.
I commi secondo e terzo dell’art. 42 (e quest’ultimo come già
interpretato dalla Corte) vanno insieme considerati e coordinati,
per ricavarne, - alla stregua di quello che, in base
all’ordinamento giuridico attuale, rappresenta il vigente,
concreto regime di appartenenza dei beni (art. 42, secondo
comma) - l’identificazione del casi, nei quali, incidendo essi
negativamente, a titolo individuale, sulla proprietà riconosciuta
secondo il regime stesso, occorre far luogo all’indennizzo (art.
42, terzo comma).
5. - Secondo il regime di appartenenza, quale risulta dalla
vigente legislazione, e dalla stessa legislazione urbanistica, i beni
immobili che ricadono nella sfera d’applicazione di quest’ultima,
continuano ad essere considerati, in via di principio ed in
319
conformità della tradizione, di pertinenza del proprietario, con gli
attributi inerenti alla loro possibilità di utilizzazione. Come é
stato posto in evidenza al n. 3, é la stessa vigente legge
urbanistica a considerare inerente esclusivamente alla proprietà
ogni attributo dell’immobile: non altrimenti dai proprietari non
assoggettati da quella legge ad un vincolo, anche i proprietari
che vengono a subire un trasferimento coattivo conseguono il
valore venale attuale dei beni (art. 37).
Per evitare lo sconfinato arbitrio del singolo e disciplinarne
l’esercizio del diritto, e per dare un ordine e un’armonia allo
sviluppo dei centri abitati, la proprietà in questione é tuttavia
sottoposta ad alcuni limiti, in relazione alla funzione sociale
propria di essa. Tra questi limiti vanno senz’altro ritenuti
legittimi, prima di tutto, perché compatibili con l’anzidetto
sistema, quelli che possono esser considerati connessi e
connaturali a detta proprietà, in quanto hanno per scopo una
disciplina dell’edilizia urbana nei suoi molteplici aspetti (inerenti
all’intensità estensiva e volumetrica, alla localizzazione, al
decoro e simili), quali questa Corte ha già avuto occasione di
indicare con la sentenza n. 38 del 1966 emessa nella prima fase
di questo giudizio. In questo senso e con questo significato, la
Corte, fin dalla sentenza n. 64 del 1963, con riferimento alla
legge urbanistica ed all’art. 42, secondo comma, della
Costituzione, ha, appunto perciò, riconosciuta legittima
costituzionalmente l’imposizione di siffatti limiti.
Tra i limiti legittimi, in quanto connaturali alle anzidette
esigenze (e storicamente tramandati), deve farsi rientrare anche
l’assoggettamento a vincolo di immodificabilità per la limitata
durata (purché ragionevole) del piani particolareggiati, di quelle
aree che i piani stessi destinano al trasferimento in vista delle
programmate trasformazioni o diverse utilizzazioni. E ciò in
considerazione della particolare natura e funzione del piani
stessi.
Peraltro, la questione che ora la Corte é chiamata a decidere é di
diversa portata: cioè, se sia costituzionalmente legittimo
sottrarre ad indennizzo, fin dal momento in cui intervenga,
l’imposizione, in sede di piano regolatore generale, di vincoli
urbanistici immediatamente operanti, quando, ben più che
disciplinare (come quei vincoli di cui or ora si é parlato) le
modalità di utilizzazione della proprietà, o limitarne l’impiego per
il tempo normalmente necessario a una prossima diversa
utilizzazione previo passaggio ad altre mani (come é proprio del
piani particolareggiati), comprimano a titolo particolare la
proprietà in modo rilevante. In altre parole, é da accertare se il
sottrarre senza un indennizzo gli immobili, quando essi siano da
considerarsi edificabili in base all’ordinamento vigente nel
320
momento in cui il vincolo intervenga, alla possibilità di
utilizzazione rappresentata dalla destinazione (che peraltro, a
seconda del casi, può essere intensiva o meno intensiva, od ‘
estensiva, o addirittura rada) a nuove costruzioni o comunque
ad altri proficui impieghi di ordine urbanistico, sia o meno
costituzionalmente legittimo.
Tale questione presenta due aspetti, l’uno all’altro connesso.
L’uno riguarda l’indennizzabilità, l’altro il tempo dell’indennizzo.
Sotto il primo aspetto, la questione, in via di principio, non può
essere risolta che in conformità della già richiamata
giurisprudenza di questa Corte, in base alla quale ogni incisione
operata a titolo individuale sul godimento del singolo bene, la
quale penetri al di là di quei limiti che la legislazione stessa
abbia configurato in via generale (ai sensi dell’art. 42, secondo
comma, Costituzione) come propri di tale godimento in relazione
alla categoria dei beni di cui trattisi, e annulli o diminuisca
notevolmente il valore di scambio, deve essere indennizzato.
L’interesse del privato é subordinato all’interesse generale della
collettività per quanto riguarda la sottoposizione a siffatti vincoli:
non per quanto riguarda le più gravi conseguenze economiche
che ne derivano sul patrimonio, non di tutti in egual modo e
misura, ma di alcuni soltanto dei componenti la collettività
destinataria della legge. Se, come si é più sopra ricordato, la
legge urbanistica prevede l’indennizzo secondo il valore venale
per gli immobili dei quali viene imposto il trasferimento per
finalità urbanistica - con ciò stesso dando una certa
configurazione alla proprietà urbana del singoli - , é evidente il
contrasto di ciò col mancato indennizzo delle diminuzioni
imposte per la medesima finalità alla proprietà privata senza
operare un trasferimento, ovvero in attesa di operare un
trasferimento incerto nel "se" e nel "quando".
Sotto il secondo aspetto, la risoluzione della questione si collega
alla prima e ne dipende, nel senso che, una volta riconosciuto il
diritto ad un indennizzo, questo dev’essere razionalmente riferito
a punti cronologici di operatività, senza creare vuoti che
disgiungano illimitatamente la sottomissione immediata del bene
dal compenso per la sua perdita, effettiva o virtuale,
dilazionando, solo per ciò che riguarda l’onere cui
l’Amministrazione é tenuta, l’efficacia dell’atto impositivo.
Questa Corte, con sentenza n. 90 del 1966, con riferimento alla
legge regionale siciliana n. 20 del 1951 autorizzativa di
espropriazione di atee per consentire la costruzione del palazzo
della Regione, ne ha ravvisato l’illegittimità, appunto per non
essersi fissato alcun termine per il compimento della procedura
espropriativa, mentre (ha osservato testualmente la sentenza) i
321
tempi delle espropriazioni e realizzazioni rappresentano, nel
sistema, una garanzia essenziale.
6. - A questi principi di base va rapportato l’esame di
costituzionalità delle norme denunciate.
É, anzitutto, da rilevare, per trarne una prima conseguenza, che,
mentre i numeri 3, 4 dell’art. 7 contengono un riferimento a ben
determinate indicazioni essenziali che debbono essere contenute
in un piano regolatore generale, il numero 2, pur integrandosi
nel sistema, mantiene una certa latitudine di contorni per
quanto riguarda l’ambito della categoria del "vincoli di zona da
osservare nell’edificazione", specie se confrontato con l’art. 25
che parla di "destinazione di zona" e con l’art. 40 che parla
genericamente di "vincoli di zona" distinguendoli dalle limitazioni
relative all’allineamento edilizio.
Ai fini del giudizio di costituzionalità, non spetta, tuttavia, alla
Corte, in via interpretativa della norma dell’art. 7, n. 2,
verificarne, col contenuto, i precisi confini di operatività.
Rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi
rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere
di quelle ammesse senza indennizzo dall’art. 42, secondo
comma, della Costituzione, e, quindi, tra l’altro, quelle che
fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà
immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori
particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva
e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e
predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di
singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate
sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree
urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia
nell’edilizia di cui si é detto.
A parte l’anzidetto punto fermo, spetta però agli organi di
giurisdizione ordinaria desumere
dalla casistica delle
imposizioni, riferite a fattispecie variabili con la variabilità dei
casi concreti, la rispettiva inserzione nella categoria del vincoli di
zona contemplati nell’anzidetto n. 2 ovvero in una delle altre
categorie, indicate nelle diverse numerazioni di cui l’art. 7 si
compone.
Quello che é invece necessario e sufficiente qui rilevare é che
l’art. 7 contempla, nella sua articolata formulazione, un
complesso di imposizioni, immediatamente operative, tutte
collegate dal fine della legge (art. 1) di dare assetto ai centri
abitati: tra le quali imposizioni sono sicuramente comprese, sia
ipotesi di vincoli temporanei (ma di durata illimitata), preordinati
al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di
interesse generale, sia ipotesi di vincoli che, pur consentendo la
322
conservazione della titolarità del bene, sono tuttavia destinati a
operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di
là del limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti
al momento dell’imposizione. Tutto ciò senza la previsione di
indennizzo, ed anzi, nel senso che si é detto, con una previsione
del contrario (art. 40), tanto nel caso di vincoli di durata,
predisposti in correlazione a trasferimenti di proprietà differiti
(ma incerti an e quando), quanto nel caso di vincoli
immediatamente definitivi inerenti a proprietà non destinate a
esser trasferite. E, una volta riconosciuta la carenza della
previsione legislativa, nemmeno spetta alla Corte procedere in
questa sede all’esame delle modalità con cui all’indennizzo
dovrebbe e potrebbe in simili casi provvedersi, in special modo
con riguardo all’ipotesi di vincoli temporanei preordinati a
successivi trasferimenti di proprietà. É certo però che la
legislazione già conosce in materia appropriati strumenti.
Da tutto ciò consegue la dichiarazione di illegittimità, per
contraddizione con l’art. 42, comma terzo, della Costituzione,
delle norme denunciate, limitatamente alla parte in cui
consentono, senza indennizzo, limitazioni temporanee o
definitive a diritti reali, di contenuto espropriativo e
immediatamente operative.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale del numeri 2, 3, 4 dell’art. 7
della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e dell’art. 40 stessa legge,
nella parte in cui non prevedono un indennizzo per l’imposizione
di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato
nei confronti del diritti reali, quando le limitazioni stesse
abbiano contenuto espropriativo nei sensi indicati in
motivazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 maggio 1968.
Aldo SANDULLI - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Giuseppe
BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe
CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele
TRIMARCHI
Depositata in cancelleria il 29 maggio 1968.
323
18) A.M. Sandulli, Profili costituzionali della
proprietà privata, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1972, 465 ss.
Sommario: 1. Stato sociale, rapporti economici e proprietà nella normativa
costituzionale. – 2. Carattere «non inviolabile» del diritto di proprietà. – 3.
Significato del 1° comma dell’art. 42 Cost. – 4. Proprietà privata e garanzia
costituzionale. – 5. La proprietà privata e la legge. – 6. Proprietà privata e
riserva di legge. – 7. Funzione e limiti della potestà legislativa in materia. – 8.
Proprietà privata e potestà amministrativa. – 9. Il concetto costituzionale di
espropriazione. – 10. L’indennità di espropriazione nella costituzione. – 11.
Espropriazioni non traslative e diritto all’indennizzo. – 12. Segue. – 13. La
proprietà terriera e l’art. 44 cost.
1. – Il problema costituzionale della proprietà privata va,
naturalmente, considerato nel quadro complesso configurato
dalla costituzione repubblicana con l’ordine pluralistico e
solidaristico che essa ha inteso imprimere alla comunità
nazionale. Un ordine, il quale, ammettendo la presenza, la
coesistenza e la coordinazione, nel campo economico, del
pubblico e del privato, presuppone il superamento degli schemi
dell’economia liberale. Un ordine che, bandendo il totalitarismo,
ha voluto anch’esso collocare – in ciò, dappresso all’ordine
liberale – l’uomo al centro del sistema; ma tale collocazione ha
voluto, movendo dalla premessa della pari dignità sociale e
giuridica di tutti gli essere umani e nell’aspirazione al concreto
raggiungimento di un’eguaglianza non meramente formale, bensì
autentica ed effettiva. La quale sia in grado di rendere reale per
tutti – attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico
e sociale (e perciò aprendo a tutti la strada all’apprendimento e
allo svolgimento di un’attività produttiva) – la possibilità della
piena espansione della personalità e della partecipazione di tutti
(appunto in correlazione e in riconoscimento della posizione
attiva da ciascuno assunta in tal modo nella società: art. 4)
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3).
Un ordine, nel quale – senza rinunciare alle conquiste dello
Stato di diritto (artt. 13-28, 101-113), e anzi portandole ad
allineamenti più avanzati (artt. 134-137) – si ha di mira il
consolidamento e il perfezionamento dello Stato sociale, cioè di
uno Stato, il quale, basandosi sulla solidarietà politica,
economica e sociale della comunità e di ciascuno in favore di
tutti – e anzi imponendola come «dovere inderogabile» ( e perciò
da considerare presente e operante nell’intero sistema
normativo) – (art. 2), si faccia strumento di benessere, di
progresso civile, di giustizia (vale a dire di equi rapporti e di
324
congrue posizioni per tutti, in seno alla società). Uno Stato,
quindi, attivo, propulsivo, impegnato nel suscitare occasioni di
produzione e lavoro, sì da favorire anche per tale via la
liberazione e l’elevazione dell’uomo, l’uguaglianza, la giustizia, il
progresso materiale e spirituale della società (art. 4).
In seno alla società nazionale assume spicco la posizione civile e
sociale di chi lavora, in immediata correlazione col fatto che la
Repubblica italiana identifica nel lavoro – inteso come attività
«che concorra la progresso materiale e spirituale della società»
(art. 4) – la fonte della dignità dell’uomo e la base della società
civile e dell’ordine democratico (art. 1). Del resto, senza operosità
le fonti del benessere si inaridirebbero, e con esse le stesse fonti
di una valida solidarietà.
E’ in questa cornice che va collocata e intesa la normativa
costituzionale relativa ai rapporti economici (artt. 35-47), e va
spiegata la tutela privilegiata, la posizione particolarmente
garantita, in essa fatta ai lavoratori dipendenti e alle categorie
meno dotate dei lavoratori autonomi (artigiani, coltivatori diretti)
(artt. 35-40 e 43-47), cioè a quelli, tra gli elementi impegnati
nella produzione, che storicamente sono apparsi più bisognevoli
di protezione, essendo, generalmente, la loro posizione
economica e sociale e quella della famiglia, condizionata
indissolubilmente dalla quotidiana attività lavorativa. Per
converso – e proprio in correlazione con l’esigenza di
salvaguardare gli interessi dell’intera comunità, e, in seno ad
essa, quelli di chi trae soltanto dal lavoro i mezzi di vita (e
specialmente dei lavoratori economicamente meno favoriti) – la
costituzione, pur riconoscendo e garantendo il diritto
d’intrapresa economica e la proprietà privata – vale a dire i diritti
economici di chi è presente nel campo dell’economia non in
qualità di lavoratore (o non soltanto in qualità di lavoratore) – si
preoccupa della delimitazione dei diritti stessi (artt. 41-42),
perché vengono esercitati in modo da non urtare con gli interessi
sociali, e anzi (quando ne ricorrano le condizioni) vengano
esercitati in modo «funzionale», vale a dire in modo considerato
utile (anche) ai fini del benessere collettivo.
Sempre nello stesso quadro generale essa, mentre fa oggetto di
favore la proprietà di certi beni economici più strettamente
«personali» (la proprietà della casa), o più legati a un impegno
produttivo «individuale» (la proprietà coltivatrice, la piccola e
media proprietà agricola) – e anzi si preoccupa dell’ «accessibilità
a tutti» della proprietà privata - , e mentre considera con favore
altresì quelle modeste forme di impresa che sono collegate a
un’attività lavorativa (impresa artigiana, proprietà coltivatrice) o
al risparmio «popolare» - e quindi, ancora una volta, dei ceti
meno abbienti – (l’azionariato popolare), guarda con un certo
325
disfavore le proprietà e le imprese maggiori (prevedendo la
possibilità di limiti quantitativi alla proprietà, e in particolare a
quella terriera privata, e consentendo la espropriazione, tra
l’altro, delle imprese monopolistiche: artt. 42, 43 e 44).
2. – Già dalle notazioni che precedono è dato ricavare che, nel
sistema costituzionale, le posizioni soggettive dell’imprenditore e
del proprietario si collocano a un livello diverso e meno protetto
rispetto alla posizione giuridica del lavoratore. È tramontata
ormai da un pezzo l’era liberale, caratterizzata dalla pari dignità,
sul piano costituzionale, dei due elementi del binomio «libertà e
proprietà», propria del tempo della preminenza politica della
borghesia, quando (secondo una concezione di nota derivazione
calvinista) la proprietà veniva considerata quasi come
un’integrazione o addirittura come una proiezione e un attributo
della personalità, come estrinsecazione e a un tempo base della
libertà individuale (era il tempo in cui la dignità sociale e la
partecipazione al potere politico erano esse stesse condizionate
dal censo).
Diversamente da quanto è stato fatto per altre libertà e diritti
(artt. 13, 14, 15, 24), la proprietà non viene definita dalla
costituzione italiana come un diritto «inviolabile». Inoltre essa
non rientra tra quei «diritti dell’uomo» che globalmente la
costituzione definisce, nell’art. 2, «inviolabili», volendo in tal
modo significare che (pur senza che ne sia intangibile – come per
le libertà e i diritti fondamentali di cui si è fatto cenno – il
contenuto e la disciplina) ne viene garantita la preservazione nei
confronti della stessa potestà di revisione costituzionale, sul
presupposto dell'esigenza della loro simultanea e complessiva
presenza nel sistema, a caratterizzarne le democraticità. I diritti
«dell'uomo», cui il ricordato precetto della costituzione si
riferisce, sono infatti quelli, strettamente inerenti alla persona
umana, attinenti a manifestazioni dirette, a modi di essere e di
operare dell'uomo come tale, mentre già nell'ordine sociale e
giuridico preesistente alla costituzione repubblicana la proprietà
(il riconoscimento dottrinale della cui «funzione sociale» risaliva
agli anni trenta) aveva perduto quel carattere di stretta inerenza
alla persona, di attributo della stessa, che gli era stato annesso
artificiosamente in passato (del resto è da molto che la proprietà
dei beni economici sempre meno frequentemente si presenta in
forma «individuale»).
Ecco perché, mentre, dei diritti considerati nel titolo della
costituzione dedicato ai «rapporti economici» (artt. 35-47),
sicuramente rientra tra quelli «inviolabili», di cui è cenno nell'art.
2, il diritto al lavoro (il che dimostra l'inesattezza della tesi che,
per dimostrare la non inviolabilità della proprietà, si appella
326
appunto alla collocazione dell'art. 42 nell'anzidetto titolo), non vi
rientra del pari il di­ ritto di proprietà. Non è un caso, dunque,
che nell'art. 42 della costituzione manchi una formula del genere
di quella contenuta nell'art. 29 dello statuto albertino, secondo
la quale «tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono
inviolabili » (si tenga peraltro presente che, in regime di
costituzione flessibile, l'inviolabilità non poteva allora significare
altro, che inattentabilità da parte dei pubblici poteri, se non in
base alla legge).
3. – Quanto si è detto non vuol significare che la proprietà non
sia garantita dalla costituzione.
A questo punto occorre passare all'analisi dell'art. 42 della carta
costituzionale, che è dedicato precisamente alla proprietà.
La prima affermazione contenuta nell'articolo è che «la proprietà
è pubblica o privata». La formula è oscura e ambigua. Essa
potrebbe essere intesa tanto nel senso che al legislatore è
consentito di prevedere (eventualmente) un diverso regime di
proprietà (proprietà pubblica), quando i beni appartengano a un
ente di diritto pubblico, come nel senso che i beni possono
appartenere in proprietà sia a soggetti privati, che ad enti di
diritto pubblico. Poiché nei successivi commi dello stesso
articolo si continua a parlare di «proprietà privata» sicuramente
nel senso di proprietà di soggetti privati (e così pure nell'art. 44,
il quale si riferisce alla «proprietà terriera privata»), e poiché nei
medesimi sensi (e non con riferimento a una diversità di regime),
nel comma 3° dell'art. 41 la costituzione contrappone l'«attività
economica pubblica» a quella «privata» (e analogamente parla di
«iniziativa economica privata» nel comma 1°), appare la seconda
la soluzione da preferire. E a ciò cospira anche il fatto che nella
proposizione in esame l'espressione «proprietà pubblica» fu
introdotta in un secondo tempo, in sostituzione dell'altra
«proprietà collettiva», adottata in un primo momento.
Rimane poi aperta al legislatore la scelta del regime (non
necessariamente uniforme e non necessariamente differenziato
dalla proprietà dei soggetti privati) della proprietà degli enti
pubblici, in relazione alla quale la costituzione null'altro
aggiunge. Né, rispetto alla formula, intesa in tali sensi, appare
tautologica la proposizione - sicuramente non molto felice - del
secondo periodo dello stesso comma dell'art. 42, dove si dice che
«i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati ».
Essa infatti (diversamente da quella del primo periodo) si
riferisce soltanto ai «beni economici», e sta a significare che la
legislazione deve ammettere che beni di tale categoria possano,
in concreto, appartenere non soltanto ai soggetti di una o due
delle tre specie (Stato, enti, privati) in essa elencati, ma anche a
327
quelli delle altre specie del trinomio, ed ha essenzialmente la
funzione di assicurare la conservazione nel sistema (anche) della
proprietà privata di «beni economici».
Quanto poi all'espressione «beni economici», poiché sarebbe
troppo semplicistico (e contrasterebbe del resto con quanto
risulta dagli atti dell'Assemblea costituente) ritenere che
l'aggettivo (apparentemente tautologico rispetto al sostantivo cui
si accompagna) sia stato apposto superfluamente, e poiché,
d'altra parte, può escludersi che con esso la carta si sia voluta
riferire unicamente a quei beni che sono strumento di
produzione (altrimenti ne rimarrebbero stranamente fuori gran
parte degli immobili e delle merci), essa va intesa nel senso di
beni (eventualmente anche di consumo), i quali rivestano (per
qualità o quantità) notevole interesse economico. È dai beni di
questo tipo che la disposizione in esame ha voluto che i privati
non fossero del tutto esclusi. Essa però non dice affatto che tutti
i «beni economici» debbono poter appartenere così allo Stato,
come a enti e a persone fisiche, e non esclude affatto che
l'appartenenza di questa o di quella categoria di tali beni sia
riservata allo Stato o ad altri particolari soggetti (specialmente
ad enti pubblici).
Quest’ultima affermazione risulta confermata dal comma
successivo, il quale, nel disporre che «la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge», affida, tra l’altro, appunto
alla legge, di ammettere o escludere la possibilità che questa o
quella categoria di beni appartenga a soggetti privati (enti o
individui), e cioè possa formare oggetto di proprietà privata.
328
329
330
331
332
333
mente manifesto, la Corte costituzionale ben potrebbe dichiarare
l'illegittimità delle disposizioni stesse (un controllo del genere è
stato, p.es., esercitato dalle sentenze nn. 59 del 1960 e 14 del
1964 della Corte costituzionale in riferimento ai concetti di
«utilità generale » e di « servizio pubblico essenziale» espressi
nell'art. 43 cost.).
In sostanza la costituzione ha voluto che ogni proprietà (ogni
tipo di proprietà, in connessione col tipo di bene che ne formi
334
oggetto e con le utilità di cui questo sia suscettibile) assolva
immancabilmente a una «funzione» (finalità) «sociale», e, cioè, a
una funzione che sia considerata - anche se l'utilizzazione giovi
direttamente al solo proprietario - di interesse comunitario, in
quanto il regime cosi instaurato risponda a un'esigenza della
coscienza comune, e soddisfi un'istanza generalmente sentita.
Ha voluto dunque che ogni regime di appartenenza di beni
realizzi l'obbiettivo di contribuire in qualche modo al
conseguimento del benessere materiale e/o spirituale della
società (e, in essa, dei singoli). Benessere che, tuttavia, in molti
casi (specialmente per ciò che si riferisce ai beni più
strettamente inerenti alla persona) ben può realizzarsi proprio
attraverso l'utilizzazione esclusiva da parte del proprietario. È in
vista di tale obbiettivo, e solo in correlazione con esso, che la
legge può operare sul regime giuridico della proprietà privata (o,
meglio, dei singoli tipi di proprietà).
8. – Il carattere relativo, e non assoluto, della riserva di legge
enunciata nel comma 2° dell'art. 42 cost. comporta, come già si
è accennato, che la legge ben può rimettere ad autorità
amministrative la definizione, in concreto, dei contenuti delle
singole proprietà, e cioè la definizione la delimitazione delle
facoltà di utilizzazione
dei beni e dei doveri che si accompagnano alla proprietà.
Peraltro - come in ogni caso di riserva di legge relativa - è
indispensabile che la legge sia sufficientemente specifica nella
delimitazione dei poteri in tal modo conferiti, sì da evitare che la
materia possa esser ritenuta completamente abbandonata alla
discrezionalità amministrativa.
La Corte costituzionale ha ritenuto sufficientemente specifiche,
al riguardo, le disposizioni dell'art. 7 della legge urbanistica del
1942 (poi modificato con la l. n. 1187 del 1968) che indicano i
contenuti dei piani regolatori generali e perciò i tipi
dell'utilizzazione privata nelle diverse zone (la zonizzazione) e le
destinazioni di aree a opere, servizi e usi pubblici, che
l'amministrazione
comunale,
sotto
il
controllo
dell'amministrazione statale (e da ora in poi di quella regionale)
dei lavori pubblici, può stabilire in sede di: formazione dei piani.
Trattandosi peraltro di disposizioni le quali non enunciano alcun
criterio in ordine alla determinazione di quei contenuti (e
altrettanto può dirsi a proposito dei «limiti inderogabili» stabiliti
con decreto ministeriale, di cui si occupano, in vista della forma­
zione dei piani, gli ultimi due commi dell'art. 41-quinquies della
legge urbanistica, così come modificata con la l. n. 765 del
1967), in tanto hanno potuto esser ritenute non contrastanti
con la riserva i legge, in quanto la Corte si è mostrata convinta
dell'esigenza che siffatti strumenti urbanistici si basino (anche
335
se non sempre in concreto si basano) su criteri rigorosamente
tecnici (i quali però sono tutt'altro che inopinabili, anche
perché l'urbanistica è ai confini tra la scienza e l'arte). Criteri da
applicare prendendo le mosse da dati abbastanza certi
(consistenza della popolazione, tassi di incremento della stessa,
previsioni della programmazione economica, ecc.). Ha ritenuto la
Corte che in ciò stesso fosse ravvisabile quella sufficiente
delimitazione dei poteri amministrativi discrezionali, che sempre
è stata richiesta nelle materie di riserva di legge. Ma è chiaro
quale preziosa risorsa siano in grado di rappresentare certe
«scelte urbanistiche» per le sempre esauste casse dei partiti al
potere nei comuni.
Suscita, quanto meno, un senso di inappagamento la riflessione
che, siccome, di regola, il nostro ordinamento non ammette
alcun
sindacato
giurisdizionale
sulle
determinazioni
amministrative che si basino su scelte tecniche o discrezionali,
un campo pullulante di diritti soggettivi di così elevato rilievo
patrimoniale, ed esposto a tante possibilità di arbitrio, venga
sostanzialmente a rimanere sguarnito di ogni protezione
giustiziale. Può costituire eloquente riprova della diversità di
opinioni possibile in materia, e della loro forza, un esempio
recentissimo riguardante una delle nostre maggiori città, il cui
piano regolatore, nel quale il comune aveva recepito il vigente
piano di ricostruzione, non fu condiviso dal Consiglio superiore
dei lavori pubblici, che ebbe a suggerire di configurare come
«centro antico» l'intera parte della città compresa nel piano di
ricostruzione ed altre ancora, lasciatene fuori dal comune, il
quale aveva invece adottato un diverso criterio in ordine alla
determinazione della «parte antica» della città da fare oggetto di
«conservazione»; avendo però il comune resistito, per la parte
relativa al vecchio piano di ricostruzione, alla modificazione
suggerita, il piano è stato poi approvato dal ministero, per la
parte anzidetta, così come adottato dal comune.
D'altro canto non si può non riconoscere che appare quasi
impensabile un giudizio successivo di merito in una materia
simile. Per cui una soluzione in qualche modo soddisfacente non
può essere cercata se non ispirandosi a due direttive: quella di
determinare (attraverso sistemi perequativi o attraverso altri
sistemi, che possono giungere fino all'avocazione totale ai
pubblici poteri dello ius aedificandi) l'indifferenza dei proprietari
in ordine alla utilizzazione del territorio, e quella di consentire
più largo spazio e maggiori garanzie (a livello giurisdizionale o
quasi) alla voce dei singoli interessati nella fase preparatoria
degli strumenti urbanistici pubblici, dando in tal modo
soddisfazione a quel precetto dell'art. 97 cost., il quale esige che
336
l'organizzazione amministrativa sia tale da assicurare «il buon
andamento e l'imparzialità dell'amministrazione».
Perplessità ancora maggiori di quelle della legge urbanistica
suscita poi, allo stesso proposito, il combinato disposto degli
artt. 3 e 10 della legge sulle aree da destinare all'edilizia
economica e popolare (l. n. 167 del 1962), modificati con gli artt.
29, 32, 33 e 35 della c.d. legge sulla casa (l. n. 865 del 1971):
disposizioni che ,collegano a scelte amministrative, le quali non
possono non esser considerate latamente discrezionali (e non
sono in nessun modo delimitate) - come quelle volte a
determinare quali delle aree residenziali comprese in uno
strumento urbanistico debbano essere destinate all'edilizia
popolare
la
grave
conseguenza
patrimoniale
dell'assoggettamento delle aree prescelte a un'espropriazione a
prezzo fortemente sperequato in minus rispetto al generale valore
delle altre aree residenziali, destinate, sì, a diverse (e
generalmente meno intensive) tipologie edilizie, ma non
caratterizzate da elementi differenziali di essenziale (e
soprattutto
immediatamente evidente) rilievo, specialmente
laddove prevalga il criterio moderno di intercalare l'edilizia
residenziale popolare a quella comune.
Con quanto si è detto non si vuole negare che la zonizzazione del
territorio rientri nel quadro della determinazione autoritativa dei
«modi di godimento» della proprietà che il comma 2° dell'art. 42
cost. espressamente prevede (e lo ha affermato espressamente la
Corte costituzionale con la nota sentenza n. 55 del 1968
riflettente l'indennizzabilità di certi vincoli urbanistici). Se la
costituzione ha statuito però in proposito una riserva di legge, il
legislatore non può attribuire la materia all’autorità
amministrativa senza indicazione di criteri e limiti.
9. – Il comma 3° dell’art. 42 cost. statuisce che «la proprietà
privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo
indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale».
Anch'esso contiene dunque una riserva di legge, quando dispone
che le espropriazioni possono essere effettuate soltanto «nei casi
preveduti dalla legge». E anche stavolta si tratta di una riserva di
legge «relativa».
La disposizione riguarda la sola «proprietà privata». La Corte
costituzionale ha avuto occasione di precisare in proposito che
la ripartizione della proprietà pubblica tra i diversi pubblici
poteri attiene all'organizzazione di questi e che il passaggio
autoritativo di beni da un soggetto a un altro non concreta
perciò in simili casi un'espropriazione (sent. n. 68 del 1959).
Inoltre la disposizione precisa – con espressione estremamente
lata – che le espropriazioni nei confronti di privati possono avere
337
luogo per qualsiasi motivo di «interesse generale». Dunque essa
non riguarda soltanto le espropriazioni ai fini della realizzazione
di opere di pubblica utilità, di cui alla l. n. 2359 del 1865,
considerata come la legge fondamentale della materia
espropriativa.
Nulla disponendo in ordine ai beni che possono essere
espropriati, la costituzione lascia poi aperta la possibilità di
espropriare qualsiasi tipo di bene (immobili, mobili, immateriali).
E difatti già la legislazione precedente era orientata in questi
sensi (v., p.es., gli artt. 54 ss. l. n. 1089 del 1939, gli artt. 60 ss.
r.d. n. 1127 del 1940, gli artt. 112 ss. l. n. 633 del 1940).
Anche per le ragioni or ora dette, e, in aggiunta, per il
riconosciuto
fenomeno
dell’usuale
impiego,
nei
testi
costituzionali, di formule sintetiche e pluricomprensive (e
talvolta improprie), e, ancora, per la considerazione di portata
universale che il fenomeno espropriativo è ben più vasto rispetto
di quello a proposito del quale nella nostra tradizione legislativa
si usa impiegare il nome di «espropriazione» (hanno natura
espropriativa – in quanto, occasione a parte, dell’espropriazione
presentano tutti i connotati -, ad es., le requisizioni in proprietà,
le prelazioni di cose d’arte da parte dell’autorità, e simili, e
inoltre anche quei provvedimenti – come le requisizioni in uso e
le occupazioni temporanee – che assegnano temporaneamente
l’uso del bene a un soggetto diverso dal proprietario, mentre non
hanno la medesima natura – data la loro connotazione
sanzionatoria, o parasanzionatoria – le confische, alcuni
sequestri, e simili, e neppure quegli ordini di distribuzioni dei
beni, che sono dettati al fine di scongiurare pericoli per la
sanità, l’agricoltura, la sicurezza, ecc., quali gli ordini di
abbattimento di animali, piante, edifici, e simili), per tutte le
anzidette ragioni e considerazioni, dicevo, appare poi
ingiustificato intendere – secondo un inaccettabile nominalismo
– l’ «espropriazione» di cui si occupa l’art. 42 come se si riferisse
soltanto a quegli istituti ablatori che la tradizione legislativa ha
designato con tale nome (sicchè sarebbe espropriazione, ad. es.,
quella dei diritti d’autore e dei marchi – nonostante la grande
diversità dei relativi procedimenti rispetto a quello previsto dalla
legge del 1865 sulle espropriazioni per la realizzazione di opere
di pubblica utilità -, e non anche una requisizione o una
prelazione autoritativa di un bene artistico ai sensi degli artt. 31
e 39 della l. n. 1089 del 1939).
338
339
11. – Un problema estremamente controverso è se le
espropriazioni per cui il comma 3° dell’art. 42 prescive un
indennizzo siano soltanto quelle che comportano un
trasferimento di proprietà o anche le altre.
Le sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968 della Corte
costituzionale si sono espresse nel secondo senso. I critici di
esse le hanno perciò severamente condannate, fermandosi,
ancora una volta, alla lettera dell’art. 42, il quale predica
l’espropriabilità della «proprietà». Da questo solo fatto essi hanno
ritenuto di poter trarre, innanzi tutto, la conseguenza che la
disposizione non riguarderebbe anche le espropriazioni
«diminutive» (ma non «estintive») della proprietà (espropriazioni
volte a costituire servitù, limitazioni, diritti d’uso, a carico di una
proprietà), come pure le espropriazioni ordinate a operare
l’estinzione, in favore di una proprietà, di servitù o di limitazioni
gravanti su di essa. Espropriazioni ben note alla legislazione
anteriore alla costituzione (art. 1 l.n. 2359 del 1865; v. pure, p.
es., l’art. 1 r.d. n. 1473 del 1938), la quale anche per esse
prevedeva un’indennità.
340
Quella legislazione contemplava, inoltre, di regola, un’indennità
per ogni genere di «perdita» o di «diminuzione» permanente di
diritti reali derivanti dalla realizzazione di opere di pubblica
utilità (art. 46 l. n. 2359 cit.). E, se pure molte leggi speciali non
si uniformavano allo stesso criterio (e ciò era previsto nello
stesso art. 46 della l.n. 2359, al comma 3°) nondimeno rimaneva
il principio.
Come si può, in presenza dell’anzidetta normativa, remota e
meno remota, negare – come è diventato di moda secondo certe
ispirazioni di «politica del diritto» - che la legislazione anteriore
alla costituzione non conosceva espropriazioni che non
341
comportassero, oltre all’ammissione, anche l’acquisizione di un
diritto? Si tratta di negazioni finalizzate all’obiettivo di escludere
che l’art. 42, comma 3°, contempli un indennizzo anche per le
espropriazioni non accompagnate da un fenomeno acquisitivo.
Quando però non si tratti di prescrizioni di carattere generale,
bensì di prescrizioni in deroga a quelle generali – quando, ad es.,
nel contesto di una zona residenziale (nella quale perciò alla
generalità dei proprietari viene consentita una opima
utilizzazione edilizia), una singolare area (la quale non risulti già
vincolata per altre ragioni inerenti alla propria particolare
natura, quali quelle inerenti alla difesa del paesaggio, del
patrimonio archeologico, storico-artistico, ecc.) venga –
definitivamente, oppure temporaneamente (in attesa di una
espropriazione, incerta nell’an e nel quando) – sottoposta
isolatamente a vincolo di immodificabilità (venga, p. es.,
vincolata immediatamente a verde privato, oppure predestinata
a strada, a parco pubblico, a chiesa, a impianto sportivo, a sede
di uffici) allora, essendo palese che il sacrificio della posizione
proprietaria – un sacrificio spinto fino al punto di svuotare
quest’ultima (attraverso l’impossibilità di adibire il bene all’uso
proprio degli altri beni della «zona», e quindi all’uso tipico e
«proprio» della categoria) del suo «contenuto essenziale» –, allora,
dicevo, non può negarsi il carattere espropriativo del
provvedimento. Infatti, secondo la ricordata tradizione giuridica
(che va ricostruita la di sopra dei nominalismi), rivestono
carattere espropriativo tutti quei provvedimenti, non aventi
funzione sanzionatoria o parasanzionatoria, i quali siano
destinati a fare venir meno o a diminuire in modo rilevante una
posizione proprietaria, o un altro diritto reale, a titolo
particolare, e cioè non per categoria ( e non vale certo opporre
che non sempre è facile stabilire se l’imposizione di certi
342
caratteri e vincoli abbia avuto luogo «per categoria», o «a titolo
singolare»).
Né può essere trascurato che la tradizione collima con la logica e
la giustizia (e ha perciò una validissima base razionale assai
bene colta nella giurisprudenza della Germania di Weimar e di
Bonn, come pure in quella svizzera e in quella nordamericana),
essendo palese l’iniquità e l’irragionevolezza (e perciò il contrasto
con l’art. 3 della nostra costituzione, così come viene
costantemente inteso dalla Corte costituzionale) del diniego di
ogni indennità a colui che, proprietario di un immobile sito in
una zona residenziale, i suoli della quale abbiano valore di
mercato elevati, subisca l’annientamento del valore di quel bene
in conseguenza dell’imposizione di un vincolo di inutilizzabilità a
fini edilizi imposto nell’interesse pubblico, a titolo individuale. La
sperequazione risulta tanto più evidente in relazione al fatto che,
laddove l’amministrazione proceda, nella zona, a espropriazioni
traslative (p. es., per realizzare un parco pubblico), non manca
di corrispondere la dovuta indennità, a prezzo fino a ieri
commisurato ai valori di mercato (art. 37-39 l. urbanistica; v.
però ora art. 16 l. sulla casa). Quando poi il vincolo comportasse
addirittura un onere di cura (o, peggio, di adattamento: ad es., a
parco), verrebbe in questione, oltre e insieme all’art. 3 cost.,
anche l’art. 23.
13. - Brevi cenni vanno dedicati infine alla proprietà terriera
privata, della quale si occupa espressamente l'art. 44 cost.
Svolgendo, in riferimento a questo particolare tipo di propr-ietà,
i criteri ispiratori dell'art. 42 relativi alla funzione sociale della
proprietà, l'art. 44 li esplicita, demandando alla legge (siamo
ancor una volta in presenza di una riserva di legge, a garanzia
della proprietà) il compito di imporre «obblighi e vincoli» alla
proprietà terriera privata, «al fine di conseguire il razionale
sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali».
Rispetto a tali obiettivi si presentano poi come parziali e
strumentali quelli di promuovere e imporre «la bonifica delle
terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle
unità produttive».
D'altro canto l'art. 44 prevede la possibilità di imporre limiti
quantitativi alla proprietà terriera privata: ciò da un lato per
favorire l'accesso di nuovi proprietari alla terra (in connessione
col già enunciato precetto dell'art. 42), dall'altro per dare alla
proprietà dimensioni «funzionali».
Cogliamo nell'art. 44, ancora una volta, gli intenti egualitari e
solidaristici che pervadono - secondo l'ispirazione degli artt. 2, 3
e 4 - tutto il titolo III della parte prima della costituzione,
dedicata ai «rapporti economici».
343
L'art. 44 ha di mira il risultato che chi vive sulla terra goda di «
equi rapporti sociali» nei confronti di chi dispone della proprietà,
e perciò di condizioni tali, nel rapporto giuridico, che ne risulti
assicurata una congrua remunerazione dell'attività lavorativa
del coltivatore e - per usare l'espressione dell'art. 36 «un'esistenza libera e dignitosa» anche per la sua famiglia. In
sostanza, l'obbiettivo ultimo deve essere quello di consentire a
chi lavora sulla terra uno standard di retribuzione e di
condizioni di vita non inferiore a quello di chi lavori, a pari
livello, in altri settori produttivi.
Un'attività lavorativa, dunque, così per il coltivatore dipendente
come per quello autonomo, la quale si svolga in condizioni di
sicurezza sociale, di libertà dal bisogno, di personale decoro, di
appropriato compenso.
A tal fine la costituzione consente alla legge l'imposizione di
«obblighi e vincoli» alla proprietà. Legittime, quindi, le
disposizioni legislative che impongano al proprietario la
realizzazione e la manutenzione dei « comodi » occorrenti per
una decorosa esistenza di chi lavora la terra; come pure che
regolino, in virtù dei fini anzidetti, le modalità dei rapporti
giuridici, le prestazioni reciproche del coltivatore e del
proprietario, la partecipazione del proprietario agli oneri di
sicurezza sociale.
Occorre però non perder di vista l'altro, indissociabile, obbiet­
tivo da perseguire, anch'esso inerente alla «funzione sociale»
della proprietà terriera: il conseguimento del «razionale
sfruttamento del suolo». Obbiettivo al servizio del quale sono
posti anche, come si è visto, «la bonifica delle terre, la
trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità
produttive». La costituzione cioè si propone la realizzazione di
un'agricoltura economicamente valida, risanata, perfezionata,
competitiva, organizzata su dimensioni aziendali (le «unità
produttive») funzionali. Non un'agricoltura frantumata e
sminuzzata in unità antieconomiche. Anche l'agricoltura deve
essere strumento di quell'incremento produttivo che è
condizione del progresso economico e dell'elevazione sociale di
una comunità e dei suoi componenti. È in questa direzione che,
secondo la costituzione, dovrebbero esser mobilitati gli sforzi .
concordi della società e della proprietà, sforzi che la legge
dovrebbe «promuovere e imporre». Legittime dunque le leggi volte
alla composizione di «unità produttive» ottimali e ad evitare lo
smembramento di quelle esistenti. A tal fine peraltro non è
indispensabile operare a livello proprietario, essendo sufficiente
farlo, eventualmente, a livello di gestione aziendale.
È questa la condizione perché la stessa proprietà coltivatrice
goda di un' «esistenza libera e dignitosa».
344
È in questo stesso quadro che l'art. 44 contempla non solo la
difesa, ma addirittura l'appoggio, l'« aiuto» (evidentemente econo­
mico e giuridico) alla piccola e media proprietà, tanto
coltivatrice, come non coltivatrice (quando ha voluto riferirsi
soltanto alla proprietà coltivatrice la costituzione infatti lo ha
detto espressamente: art. 47).
Al legislatore non è consentito, dunque, dalla costituzione, di
preoccuparsi, nell'affrontare i temi dell'agricoltura, unicamente
della condizione contadina. Ancor meno la costituzione consente
di realizzare il giusto obbiettivo dell'elevazione di questa a
scapito del'economia agricola, e perciò a scapito dell'economia
generale del paese. Essa vuole che lo strumento per l'elevazione
della condizione contadina sia il progresso dell'economia
agricola, il «razionale sfruttamento del suolo», da realizzare
attraverso unità produttive di dimensioni tecnicamente
appropriate, le quali si trovino nella situazione ottimale per
sfruttare le tecniche culturali e mercantili, per essere
competitive in campo internazionale, per essere una forza attiva
e non un peso morto nella vita economica e sociale del paese.
Che in vista di codesti obbiettivi la proprietà terriera privata
abbia tuttora un proprio ruolo da svolgere, l'art. 44 lo afferma
categoricamente, proprio laddove dice che essa può essere
assoggettata a tal fine ad «obblighi e vincoli»
(e perciò
all'«imposizione» della bonifica, della trasformazione del
latifondo, della ricostituzione delle unità produttive), e laddove
prevede «aiuti» per la piccola e media proprietà. Né contrasta con
gli obbiettivi stessi quella disposizione dell'art. 47, la quale vuole
che sia «favorito» l'accesso del risparmio popolare alla «proprietà
diretta
coltivatrice». Il particolare buon occhio con cui la
costituzione guarda a quest'ultimo tipo di proprietà - la quale
peraltro non sta affatto ad indicare qualsiasi dimensione
proprietaria, e quindi anche le aziende di dimensioni minuscole
e antieconomiche - non esclude assolutamente che anche la
«proprietà diretta coltivatrice» debba esser considerata nel
quadro generale configurato dall'art. 44, e perciò nel quadro di
un'economia agricola valida e competitiva.
Orbene, se tutto questo è vero, è chiaro - e la Corte costitu­
zionale lo ha affermato (sent. n. 40 del 1964) - che la
costituzione ha voluto che fosse mantenuto vivo l'interesse
economico dei proprietari non coltivatori alla terra, e che perciò i
loro rapporti giuridici con le categorie coltivatrici fossero regolati
in modo tale da non «disamorarli» alla proprietà.
In queste stesse prospettive si muovono, del resto, le altre
legislazioni europee e si sono mossi il memorandum «agricoltura
'80» della Cee del 1968 - il quale fa leva sull'accorpamento dei
terreni dati in fitto per lunga durata, in vista della realizzazione,
345
a livello locatizio, di aziende produttivamente efficienti -, nonché
gli stessi emendamenti che per quel piano sono stati suggeriti.
Per contro viene a collocarsi in manifesta antitesi coi precetti
costituzionali ogni legislazione, la quale, pensosa unicamente
del­ l'ora presente, delle presenti difficoltà della situazione
contadina, ritenga di risolvere quest'ultimo problema, ed esso
soltanto, addossandone il carico alla proprietà, e non prenda
alcuna cura al problema delle dimensioni ottimali dell'azienda
agricola, né a quello
346
19) Corte costituzionale, sent. n. 5/1980
SENTENZA N.5
ANNO 1980
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Avv. Leonetto AMADEI Presidente
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 16 e 20
della legge 22 ottobre 1971, n. 865 e succ. modif. di cui agli artt.
14 e 19 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme sui
programmi e sul coordinamento dell’edilizia residenziale
pubblica, Modalità di determinazione della indennità di
espropriazione e di occupazione), promosso con ordinanze
emesse il 18 marzo 1977 dalla Corte d’Appello di Bologna, il 29
giugno 1977 e il 4 aprile 1978 dalla Corte d’Appello di Potenza, il
19 maggio 1978 dalla Corte d’Appello di Firenze, il 2 giugno
1978 dalla Corte d’Appello di Lecce, il 20 dicembre 1977 dal
Tribunale Amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, il 26
maggio 1978 dalla Corte d’Appello di Firenze, il 30 giugno 1978
dalla Corte d’Appello di Trieste (n. 8 ordinanze), il 30 giugno e il
5 maggio 1978 dalla Corte d’Appello di Torino, il 13 ottobre 1978
dalla Corte d’Appello di Trieste, il 2 giugno 1978 dalla Corte
d’Appello di Palermo e il 27 ottobre 1978 dalla Corte di Appello
di Torino, iscritte ai nn. 232 e 495 del registro ordinanze 1977;
358, 489, 501, 515, 562, 555, 556, 563, 580, 581, 582, 583,
584, 619, 632, 635 e 688 del registro ordinanze 1978, e 14 del
registro ordinanze 1979, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 169 e 347 rispettivamente del 22 giugno e
del 21 dicembre 1977; 285 dell’11 ottobre 1978; 10, 17, 31, 38,
347
45, 52, 66 e 80, rispettivamente del 10, 17 e 31 gennaio 1979,
del 7, 14 e 21 febbraio 1979 e del 7 e 21 marzo 1979.
Visti gli atti di costituzione della Regione Emilia-Romagna,
della Società Mineraria Senna, di Francescina Bruno ed altri, di
Komjanc Giuseppe ed altra, di Micheletto Sacerdote Amalia e del
Ministero dei LL.PP., nonché gli atti di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri.
Udito nell’udienza pubblica del 13 giugno 1979 il Giudice
relatore Arnaldo Maccarone;
uditi gli avvocati Paolo Barile per la Società Mineraria
Senna, Gaetano Guerra per Micheletto Sacerdote Amalia, e
Alberto Predieri per la Regione Emilia-Romagna e il sostituto
avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1.- Le ordinanze innanzi indicate denunciano la
illegittimità costituzionale delle stesse disposizioni di legge, in
base ad argomentazioni sostanzialmente analoghe; i relativi
procedimenti vanno pertanto riuniti per essere definiti con unica
decisione.
2. - In relazione alla questione proposta dal T.A.R.
dell’Emilia-Romagna con ordinanza 20 dicembre 1977 (Reg. ord.
n. 515 del 1979), la Regione interessata ha eccepito
preliminarmente la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della
questione stessa, in quanto esulerebbe dalla competenza del
giudice amministrativo la controversia concernente la misura
dell’indennità di espropriazione.
L’eccezione è fondata. L’ordinanza ha precisato che nei
motivi di impugnazione del provvedimento di espropriazione era
stata dedotta < la illegittimità dovuta alla insufficienza del
criterio legislativo di determinazione dell’indennizzo >. E, pur
dando atto che i ricorrenti avevano impugnato davanti al giudice
ordinario la misura dell’indennità di espropriazione, ha tuttavia
ritenuto la rilevanza della questione, in quanto < il Tribunale
non può decidere su questo motivo di ricorso se prima non sia
risolta la questione della legittimità della norma di legge >.
L’inconsistenza di tale assunto appare manifesta, ove si
consideri che il giudice amministrativo difetta di giurisdizione in
ordine alle controversie riguardanti la misura dell’indennità di
espropriazione, essendo tale materia devoluta alla competenza
del giudice ordinario (art. 19 legge 865 del 1971 non modificato
per questa parte dalla legge n. 10 del 1977). Di conseguenza
l’applicazione delle norme di cui è contestata la legittimità non
poteva venire in considerazione in quella sede e pertanto era del
tutto irrilevante verificarne la conformità ai precetti
costituzionali.
348
3.- Le ordinanze prospettano il dubbio di costituzionalità
dell’art. 16 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, come modificato
dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (che dettano i
criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione e
occupazione), sotto un duplice profilo: a) rilevano che l’adozione
del valore agricolo medio dei beni da espropriare, come criterio
per la determinazione dell’indennità, confliggerebbe con l’art. 42,
terzo comma, Cost., in quanto il riferimento ad una
caratteristica estranea a beni che abbiano una chiara
destinazione edificatoria, per i quali sarebbe da escludere ogni
relazione con i tipi di coltura praticati nella regione agraria e con
la fertilità del suolo, potrebbe portare alla liquidazione di
indennizzi irrisori e, comunque, gravemente sperequati rispetto
al valore di mercato dei suoli. Inoltre, la mancata considerazione
del carattere edificatorio dell’area espropriata , pure se posta
all’esterno dei centri edificati, porterebbe all’attribuzione di un
indennizzo non conforme al principio enunciato nell’art. 42,
comma terzo, Cost., il quale esigerebbe che esso costituisca un
sostitutivo, sia pure non equivalente, della perdita del bene, al
cui valore effettivo dovrebbe essere riferito; b) rilevano ancora le
ordinanze che le norme anzidette sarebbero in contrasto con
l’art. 3, comma primo, Cost., in quanto il criterio adottato
determinerebbe, per terreni in situazione eguale, indennizzi
diversi a seconda delle zone agrarie in cui sono posti; inoltre, la
previsione di maggiorazioni, per le aree comprese nei centri
edificati rapportate al dato numerico della popolazione,
determinerebbe, irrazionalmente, indennizzi diversi per terreni
di pari valore in relazione ai prezzi di mercato.
Altra irrazionale disparità viene ravvisata nel trattamento
dei proprietari di aree edificabili colpiti da provvedimenti di
espropriazione rispetto a quelli di aree aventi le stesse
caratteristiche e site nella stessa zona, i quali possono disporne
in regime di libera contrattazione.
Tutte le anzidette censure vengono estese agli artt. 19 della
legge n. 10 del 1977, il quale prevede l’applicazione delle norme
denunziate ai procedimenti in corso, ove la indennità liquidata
non sia divenuta definitiva e 20 della legge 865 del 1971 (come
modificato dall’art. 14 legge n. 10 del 1977), che adotta gli stessi
criteri per la determinazione della indennità di occupazione.
Infine, l’ordinanza della Corte di Appello di Palermo (Reg.
ord. n. 688 del 1978) denuncia anche la violazione dell’art. 53
Cost., in quanto la mancata rispondenza dell’indennizzo al
valore del bene espropriato determinerebbe una irragionevole
ripartizione nel costo della iniziativa assunta nell’interesse
pubblico, facendone gravare il peso con una sorta di imposizione
tributaria straordinaria, non ragguagliata alla capacità
349
contributiva del soggetto su di un cittadino determinato e non
su tutta la comunità interessata. La stessa ordinanza estende la
denuncia di incostituzionalità all’articolo unico della legge 27
giugno 1974, n. 247, che rese applicabili i criteri dell’art. 16
legge n. 865 del 1971 a tutte le espropriazioni preordinate a
qualsiasi tipo di opere o di interventi da parte dello Stato, delle
Regioni, delle Province, dei Comuni o di altri enti pubblici o di
diritto pubblico anche non territoriali.
4.- In relazione al primo aspetto delle censure di
incostituzionalità (n. 3 sub a) giova ricordare la giurisprudenza
di questa Corte, costante nell’affermare che l’indennizzo
assicurato all’espropriato dall’art. 42, comma terzo, Cost., se
non deve costituire una integrale riparazione per la perdita
subita in quanto occorre coordinare il diritto del privato con
l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare non
può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente
simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro.
Perchè ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento, per la
determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione
alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo
può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato
ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto
al valore del bene.
E per le aree destinate all’edificazione, in quanto poste in
zone già interessate dallo sviluppo edilizio, deve ritenersi
essenziale tale destinazione e di essa occorre tenere conto nella
determinazione della misura dell’indennità di espropriazione, da
rapportare al valore del bene.
Per contrastare tale conclusione si è opposto che, in base
alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia del
territorio e condizionato la edificabilità dei suoli, nei casi in cui
essa è prevista dagli strumenti urbanistici, al rilascio di una
concessione, deve ritenersi che l’ius aedificandi non inerisca più
al diritto di proprietà, potendo la edificabilità delle aree essere
stabilita solo con provvedimento dell’autorità, sicché sarebbe
venuta meno la rilevanza, anche ai fini della determinazione
della misura dell’indennità di espropriazione, della destinazione
edilizia dei suoli.
Tale assunto non può essere condiviso.
E’ indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato
per disciplinare l’edificabilità dei suoli demanda alla pubblica
autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul
quando (mediante i programmi pluriennali di attuazione previsti
dall’art. 13 della legge n. 10 del 1977) della edificazione, ma la
350
rigidità del sistema non è tale da legittimare le conseguenze che
se ne vorrebbero trarre.
Invero, relativamente ai suoli destinati dagli strumenti
urbanistici alla edilizia residenziale privata, la edificazione
avviene ad opera del proprietario dell’area, il quale, concorrendo
ogni altra condizione, ha diritto ad ottenere la concessione
edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell’area ed è
irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza previsti dalla legge
(art. 4 legge n. 10 del 1977). Da ciò deriva che il diritto di
edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni
che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso
sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel
senso che l’avente diritto può solo costruire entro i limiti, anche
temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici.
Sussistendo le condizioni richieste, solo il proprietario o il
titolare di altro diritto reale che legittimi a costruire può
edificare, non essendo consentito dal sistema che altri possa,
autoritativamente, essere a lui sostituito per la realizzazione
dell’opera.
Ne consegue altresì che la concessione a edificare non è
attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti,
sicché sotto questo profilo non adempie a funzione
sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza, avendo lo
scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste
dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il
sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza.
Va peraltro notato che la rilevanza, ai fini della indennità di
esproprio, della destinazione edilizia dei suoli è implicitamente
riconosciuta dal sistema attuato con la legge n. 865 del 1971 e
successive modifiche, in quanto i coefficienti di maggiorazione
dell’indennità per le aree comprese nei centri edificati (artt. 16
legge n. 865 del 1971 e 14 legge n. 10 del 1977) non possono
avere razionale giustificazione se non ritenendo che si sia voluto
attribuire all’espropriato un maggiore compenso in relazione alla
destinazione edilizia delle aree stesse.
Va inoltre ricordato che la rilevanza della destinazione
edilizia delle aree, quale indice di un maggior valore, è operante
nel nostro ordinamento anche dopo l’attuazione delle nuove
norme per la edificabilità dei suoli, come è dimostrato dalle
disposizioni tributarie che legittimano la tassazione del valore
edificatorio delle aree, desunto dalla loro collocazione in un
insediamento edilizio.
5.- Poste tali premesse, occorre verificare se l’adozione del
valore agricolo medio come criterio per la determinazione della
misura dell’indennità di esproprio sia o meno conforme al
precetto dell’art. 42, comma terzo, Cost.
351
E la risposta a tale quesito non può essere che negativa.
Come è stato sopra rilevato, perchè l’indennità di espropriazione
possa ritenersi conforme al precetto costituzionale, è necessario
che la misura di essa sia riferita al valore del bene, determinato
dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione
economica perchè solo in tal modo l’indennità stessa può
costituire un serio ristoro per l’espropriato. E’ palese la
violazione di tale principio ove, per la determinazione
dell’indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da
espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal
valore di esso. E proprio quanto avviene nella materia in
disamina perchè il criterio del valore agricolo medio dei terreni
secondo i tipi di coltura praticati nella regione agraria
interessata, adottato per la determinazione dell’indennità di
esproprio dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 come
modificato dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, non facendo
specifico riferimento al bene da espropriare ed al valore di esso
secondo la sua destinazione economica, introduce un elemento
di valutazione del tutto astratto, che porta inevitabilmente, per i
terreni destinati ad insediamenti edilizi che non hanno alcuna
relazione con le colture praticate nella zona, alla liquidazione di
indennizzi sperequati rispetto al valore dell’area da espropriare,
con palese violazione del diritto a quell’adeguato ristoro che la
norma costituzionale assicura all’espropriato .
É appena il caso di rilevare che le anzidette conclusioni
non contrastano con la sentenza n. 58 del 1974 di questa Corte,
la quale ha ritenuto la legittimità costituzionale della legge 4
febbraio 1958, n. 158, che ragguaglia al valore venale del terreno
considerato come agricolo, indipendentemente dalla sua
eventuale edificazione, la indennità di esproprio per le aree
necessarie all’attuazione di opere nella zona industriale e nel
porto fluviale di Padova.
La Corte ritenne infatti che la indennità stabilita da tale
legge riguardava terreni agricoli, secondo la loro attuale
destinazione, prescindendo dal maggior valore derivante dalla
loro eventuale edificabilità; pertanto, la indennità di
espropriazione veniva ragguagliata al valore del bene, desumibile
dalle caratteristiche di esso e dalla sua destinazione economica
attuale e non appariva in contrasto con il precetto dell’articolo
42 Cost.
Né appaiono meno fondate le censure riferite all’art. 3,
comma primo, Cost. (n. 3 sub b). Invero, l’astrattezza del criterio
adottato e la mancata considerazione delle caratteristiche del
singolo bene da espropriare possono portare a irragionevoli
trattamenti differenziati di situazioni sostanzialmente omogenee,
in quanto, per terreni in eguale situazione per la loro
352
destinazione edilizia, potrebbero essere attribuiti indennizzi
diversi in relazione al maggiore o minore pregio delle zone
agricole nelle quali sono posti.
Egualmente palese è la disparità di trattamento che viene a
determinarsi tra gli espropriati per effetto dell’attribuzione del
coefficiente di maggiorazione dell’indennità, relativamente ad
aree situate all’interno dei centri edificati (artt. 16 legge n. 865
del 1971 e 14 legge n. 10 del 1977).
Un primo rilievo di incogruità, che genera anche esso
disparità di trattamento, va fatto in relazione al criterio che
regola il potere dei comuni di determinare il perimetro del centro
edificato (art. 18 legge n. 865 del 1971). In questo, invero, non
possono essere compresi suoli esterni al perimetro continuo
delle aree edificate, anche se interessati dal processo di
urbanizzazione;
viene pertanto ad essere sacrificato senza adeguata ragione
il diritto del proprietario delle aree immediatamente adiacenti al
perimetro urbano, le quali hanno caratteristiche identiche a
quelle incluse nel perimetro stesso, essendo interessate dal
processo di urbanizzazione. La sperequazione e la conseguente
irrazionalità del diverso trattamento appaiono manifeste quando,
dalla incongruità del criterio per la determinazione del perimetro
urbano, si fa derivare l’attribuzione del coefficiente di
maggiorazione alle sole aree interne al perimetro.
Non può opporsi al riguardo la incensurabilità del criterio,
di natura discrezionale, adottato dal legislatore ordinario, in
quanto essa trova un limite nel rispetto delle norme
costituzionali dettate a garanzia dei diritti del cittadino. E nella
specie sussiste la violazione dell’art. 3, comma primo, Cost., in
quanto in situazioni sostanzialmente omogenee, stante la
contiguità e la identità della destinazione delle aree, vengono
disposti trattamenti differenziati, attribuendo, senza adeguata
ragione, la maggiorazione dell’indennità di esproprio solo ai suoli
posti all’interno del perimetro urbano, riconoscendo cosi per
questi la rilevanza della loro destinazione edilizia e negandola
per gli altri, in identità di situazioni.
Meritevole di considerazione è pure un altro aspetto di
incongruità del sistema (v. ord. n. 688 del 1978)* fonte pure esso
di disparità di trattamento. L’art. 15 della legge n. 865 del 1971,
come sostituito dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, prevede che per
i terreni agricoli l’indennità di esproprio sia fissata, sia pure a
seguito di opposizione dell’interessato alla liquidazione
dell’indennità in base al valore agricolo medio, con specifico
riferimento alle colture effettivamente praticate nel fondo
espropriato ed anche in relazione all’esercizio dell’azienda
agricola.
353
Si stabilisce così l’esatto criterio che l’indennità va
liquidata in base al valore effettivo del bene espropriato,
determinato in relazione alle sue caratteristiche e alla sua
destinazione economica; l’aver pretermesso tali riferimenti per le
aree con destinazione edilizia e adottato per queste criteri
astratti e irrazionali, determina una ulteriore disparità di
trattamento tra gli espropriati.
Egualmente fondata appare, infine, la censura di
irrazionale disparità di trattamento tra proprietari di aree
edificabili colpiti da provvedimento di espropriazione e
proprietari di aree aventi identiche caratteristiche e poste nella
stessa zona, i quali possono disporne in regime di libera
contrattazione. La disparità di trattamento non può essere
ragionevolmente giustificata con riferimento agli oneri che
accompagnano la concessione di edificare (art. 3 legge n. 10 del
1977), i quali dovrebbero servire a perequare le due situazioni.
Come è stato già osservato in dottrina, è quanto mai difficile che
il sistema adottato riesca ad impedire la traslazione degli oneri
stessi a carico degli acquirenti delle unità immobiliari costruite,
affrancandone così il costruttore.
Le esposte considerazioni assorbono ogni altra censura.
La dichiarazione di illegittimità va estesa all’art. 19, comma
primo, della legge n. 10 del 1977 (che estende le nuove norme in
materia di indennità di esproprio e di occupazione ai
procedimenti in corso se la liquidazione dell’indennità non sia
divenuta definitiva) e all’art. 20, comma terzo, della legge n. 865
del 1971, come modificato dall’art. 14 legge n. 10 del 1977 (che
prevede l’applicazione delle stesse norme per la determinazione
dell’indennità di occupazione di urgenza) nonché all’articolo
unico della legge 27 giugno 1974, n. 247, nella parte in cui,
convertendo in legge con modificazioni il d.l. 2 maggio 1974, n.
115, ne modifica l’art. 4, estendendo l’applicazione delle
disposizioni dell’art. 16 della legge n. 865 del 1971 a tutte le
espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere
o di interventi da parte dello Stato, delle Regioni, delle Province,
dei Comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche
non territoriali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale:
a) dell’art. 16, commi cinque, sei e sette della legge 22
ottobre 1971, n. 865, come modificati dall’art. 14 della legge 28
gennaio 1977, n. 10;
354
b) dell’art. 19, comma primo, della legge 28 gennaio 1977,
n. 10 e dell’art. 20, comma terzo, della legge 92 ottobre 1971, n.
865, come modificato dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n.
10;
c) dell’articolo unico della legge 27 giugno 1974, n. 247
nella parte in cui, convertendo in legge, con modificazioni, il d.l.
2 maggio 1974, n. 115, ne modifica l’art. 4, estendendo
l’applicazione delle disposizioni dell’art. 16, commi cinque, sei e
sette della legge n. 865 del 1971 a tutte le espropriazioni
comunque preordinate alla realizzazione di opere o di interventi
da parte dello stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni o
di altri enti Pubblici o di diritto pubblico anche non territoriali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25/01/80.
Leonetto AMADEI – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI –
Michele ROSSANO – Oronzo REALE – Leopoldo ELIA – Guglielmo
ROEHRSSEN - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI
– Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE – Antonio LA PERGOLA –
Virgilio ANDRIOLI
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 30/01/80.
[...]
20) S. Rodotà, Il sistema costituzionale della
proprietà, da S. Rodotà, Il terribile diritto.
Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, 1981,
pp. 273-421
[...]
9. Il modello della Corte costituzionale
In definitiva, attraverso la serie di operazioni che si è
cercato di descrivere, la Corte è approdata ad una
posizione che va oltre le stesse tesi, peraltro assai
controverse, di chi sosteneva che non «sarebbe consentito
in nome della funzione sociale introdurre tali e tante
restrizioni (Eingriffe) da far scomparire sostanzialmente —
pur lasciando inalterata l’appartenenza formale —
l’essenza
della
proprietà
privata
(Wesengehalt),
raggiungendo così, sul piano dell’effetto pratico, un
355
risultato sostanzialmente analogo a quello conseguito con
il procedimento di avocazione» 357 . La Corte ha così
insistito caparbiamente sulla strada scelta già al tempo
della sua prima rilevante decisione in materia 358 senza
curarsi affatto delle diverse obiezioni che le venivano
opposte e, anzi, rinsecchendo sempre più le proprie
argomentazioni, fino a renderle poco più che affermazioni
apodittiche, incontrollate e incontrollabili 359.
Dall’iniziale manipolazione delle norme costituzionali (già
ricordata a proposito della particolarissima lettura
«sistematica» del secondo e terzo comma dell’art. 42. che
serve ad espungere il riferimento alla funzione sociale) si è
passati ad una loro integrale riscrittura, interpolando
formule rinvenibili
nel testo costituzionale (come
quelle riguardanti il riconoscimento e la garanzia o l’aiuto
alla piccola e media proprietà) con frasi del tipo «senza
incidere eccessivamente sulla sostanza del diritto di
proprietà», al fine di introdurre un tipo di garanzia che il
costituente non aveva affatto previsto e che, quindi,
avrebbe dovuto costituire un preciso limite per le
operazioni ricostruttive della Corte costituzionale 360.
Da ciò è scaturita una conseguenza ulteriore. La teoria
«sostanziale», con il suo riferimento ad un contenuto
essenziale del diritto di proprietà, ha sopravvanzato e
messo da parte quella dell' «atto singolare», rafforzando il
riferimento giusnaturalista (nel senso, precisato da ultimo
di aggancio «naturale» alla logica del mercato) e facendo
perdere ulteriormente di significato al riferimento all'art.
3 361 . E questo vuol dire che l'originaria sfiducia per il
pluralismo istituzionale e il sistema delle autonomi 362 si è
trasformata in più generale sfiducia nei confronti dello
stesso legislatore, ritenendosi non più accettabile neppure
una disciplina in chiave di «categoria di beni», e dunque
garantita dai valori della generalità e dell'uniformità 363.
G. Palma, Beni di interesse pubblico, cit., pp. 160-161.
Corte costituzionale, 20 gennaio, n. 6, cit., in particolare p. 89.
359 […]
360 Si veda, ad esempio, Corte costituzionale, 22 dicembre 1977, n.
153, cit., p. 1480.
361 In senso contrario G. Rolla, Significato e limiti del precedente nella
giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di indennizzabilità
dei vincoli: alcune note critiche, in «Giur. costituz.», 1976, p. 2086.
362 […]
363 […]
357
358
356
Questo atteggiamento di sfiducia nei confronti di un
legislatore «interventista» si spiega senza grandi difficoltà
se, ricostruendo nel suo insieme la politica del diritto della
Corte costituzionale, si attribuisce il giusto rilievo alla vena
liberale rinvenibile in momenti significativi della sua
giurisprudenza 364 . Da ciò consegue appunto una lettura
dell'art. 42 in chiave esclusivamente garantista, di cui già
sono stati messi in evidenza i limiti e dalla quale traspare
la volontà di colpire quello che viene considerato un
procedimento frodatorio, posto in essere da un legislatore
che adopera lo strumento della funzionalizzazione per
raggiungere risultati «sostanzialmente» espropriativi.
In questo giudizio di sostanziale equivalenza di
procedimenti formalmente diversi consiste il concreto ruolo
che la Corte costituzionale ha finito con l'assegnarsi in
relazione agli interventi conformativi del diritto di
proprietà, con una trasformazione ulteriore non solo del
sistema quale risulta dalla formulazione delle diverse
norme, ma pure del progetto d'insieme che a queste era
stato affidato. Si è già ricordato, infatti, come la
strumentazione prevista dall'art. 42 sottenda un rinvio al
legislatore futuro, operato dalle maggiori forze presenti all'
Assemblea costituente 365: la garanzia offerta alle posizioni
proprietarie (e il relativo riconoscimento) risulta in tal
modo, da una parte, tutta procedimentale; e, dall'altra,
politica, nel senso che si individua nel Parlamento il luogo
della scelta e della mediazione tra gli interessi (con un
unico riferimento obbligato, quello all'utilità sociale). La
funzione di controllo della Corte costituzionale, di
conseguenza, deve essere commisurata a questo schema,
senza che sia ammissibile la sostituzione di un giudizio
politico (della Corte) all'altro (del Parlamento), che
implicherebbe, come di fatto è avvenuto, l'imposizione da
parte della Corte di criteri di selezione tra interessi
divergenti da quelli che stavano alla base delle scelte
legislative.
Ho sviluppato questa teoria in La svolta «politica», cit., in particolare
p. 43. Sul punto è tornato criticamente G. Tarello, Storiografia
giuspolitica e interventi della Corte costituzionale in materia di
proprietà, in Materiali per una storia della cultura giuridica, VI
(Dottrine storiche del diritto privato), Bologna, 1976, pp. 593-613. […]
365 […]
364
357
In sostanza, la Corte ha giudicato inadeguata la garanzia
procedimentale e, in presenza di una disciplina
costituzionale che assegna alla proprietà un ruolo modesto
- «un po' superiore a quello che si assegna al paesaggio ( ...
), ma inferiore a quello assegnato a qualsiasi altro diritto
fondamentale» 366 - ha ritenuto di dover offrire al
proprietario anche una sua diretta garanzia politica. Potrà
dirsi che a questo risultato la Corte è potuta giungere
proprio perché i costituenti si erano rifugiate in una
normativa dai tratti generici o inafferrabili; perché lo stesso
strumento tecnico a cui s'era fatto ricorso, la riserva di
legge, aveva perduto il suo spessore garantista via via che
s’evidenziava la crisi della legge come strumento espressivo
dell'uniformità e della generalità della disciplina; e, infine,
perché la storia politica della Repubblica mostra con
chiarezza che gli interessi complessivamente privilegiati
sono stati proprio quelli a cui la Corte ha offerto il proprio
sostegno con le sentenze in tema di proprietà.
Alle prime due obiezioni si può rispondere richiamando
proprio il senso dell'operazione condotta dai costituenti 367.
L'ultima obiezione, che riecheggia la ben nota tesi
dell'allineamento delle Corti costituzionali sulla law making
majority 368, risulta peraltro smentita dalla situazione che di
fatto, si è venuta determinando. La Corte, infatti, non ha
dato il suo sostegno ad un corso legislativo
costituzionalmente
sospetto,
tuttavia
espressivo
dell'indirizzo politico di maggioranza: ha, invece, invalidato
norme in cui esprimeva un intento legislativo di modifica
dei criteri di selezione tra gli interessi fino a quel momento
prevalenti
negli
atti
normativi
e
nelle
prassi
amministrative, di favore netto per le posizioni proprietarie.
Essa, quindi, ha operato come fattore frenante rispetto a
quella nuova conformazione delle situazioni proprietarie
che, elusa al momento della scrittura della Costituzione,
emergeva nella legislazione ordinaria, secondo una linea
che ben può essere considerata attuativa del complessivo
M. S. Giannini, Basi costituzionali, cit., p. 457.
[…]
368 La formulazione più nota di questa tesi si deve a R. Dahl, Decision
Making in a Democracy: the Supreme Court as a National Policy Maker,
in «Journal of Public Law », 1957, pp. 279-295 (su cui cfr. J. D.
Casper, The Supreme Court and National Policy Making, in « Amer.
Politicai Science Rev. », 1976, pp. 50-63).
366
367
358
progetto costituzionale (o di uno dei progetti riconducibili
alla Costituzione). Considerando in quest’ottica l'opera
della Corte, ci si può avvedere del modo in cui, per effetto
di essa, viene ad essere alterata, più che la fisionomia di
questa
o
quella norma,
la
stessa
convenzione
costituzionale che sta alla base del sistema dei rapporti
proprietari. Né vale obiettare che, se si ammette la
possibilità di più progetti tutti riconducibili allo stesso
schema normativo, bisogna poi riconoscere piena
legittimità alla scelta che la Corte costituzionale faccia di
questo piuttosto che di quell'altro. Se, infatti, la
ricostruzione precedente è corretta, si può dire che la
Costituzione ha fissato le condizioni in presenza delle quali
è possibile la realizzazione di un progetto piuttosto che di
un altro: alla Corte spetta il controllo del rispetto di quelle
condizioni, non la scelta diretta tra un possibile progetto e
l'altro, scelta che rimane affidata alla competenza esclusiva
del Parlamento.
Rispetto all'art. 42, in conclusione, ha finito con il
determinarsi una situazione diversa da quella riscontrata a
proposito dell'art. 41, la cui vicenda è stata intesa come un
esempio tipico di incapacità (o impossibilità) di rendere
operante un frammento della costituzione economica. Nel
caso della disciplina della proprietà dobbiamo constatare
piuttosto il fatto che i tentativi, peraltro modesti, di
innovazione si sono sovente scontrati con la resistenza
netta della Corte costituzionale, che, per realizzare i propri
obiettivi, non ha esitato di fronte a manipolazioni delle
norme che, per ampiezza e consistenza trovano ben pochi
riscontri in una giurisprudenza che pure non ha certo
esitato di fronte ad operazioni manipolative. Sì che, nella
materia della proprietà, più che di inattuazione, sarebbe il
caso di parlare di modifica costituzionale.
A parte ogni altra considerazione, questa modifica viene
pagata con una non trascurabile e pericolosa crescita di
incertezza sul funzionamento del sistema legislativo.
L'esperienza, non solo italiana, ci dice quanto sia difficile la
definizione di quel che è «categoria di beni», « sostanza» del
diritto di proprietà o «annullamento sostanziale» di esso,
incidenza «eccessiva», e così via. Si può, in sostanza,
generalizzare l'obiezione che Massimo Severo Giannini
faceva a proposito del significato della teoria del «sacrificio
singolare»: volendo rispondere a tutti gli interrogativi che
359
teorie del genere propongono, si va oltre «un discorso a
dodici variabili, cioè a 150 e rotti esiti », che certo « non è
facile da dipanare, e difatti nessuno c'è riuscito, e chi crede
di esser riuscito lo ha fatto scegliendo per libera elezione
alcune combinazioni» 369.
La Corte, e i teorici che variamente ne hanno preparato o
sostenuto l'opera, si è dunque attribuita un potere di scelta
che non è azzardato definire arbitrario, per la mancanza di
sicuri criteri di riferimento che non siano quelli di una
aprioristica scelta per una determinata nozione di
proprietà, da salvaguardare ad ogni costo. Che, poi, è la
conferma della decisione della Corte di sostituire la propria
garanzia politica a quella costituzionalmente prevista 370.
Dal modello della Costituzione si approda cosi al modello
della Corte costituzionale 371 , compatto nella scelta di un
ampliamento della tutela proprietaria in tutte le direzioni
possibili, ma al tempo stesso inafferrabile nei suoi precisi
contorni, per i margini amplissimi di apprezzamento
discrezionale che i giudici costituzionali si sono riservati. Il
cuore di questa nuova disciplina costituzionale della
proprietà privata può essere ritrovato nella nitida volontà
di difesa del valore di scambio 372, che condiziona la stessa
nozione di intangibilità della «sostanza» proprietaria e pone
al centro della ricostruzione il rapporto con un istituto
dell'espropriazione anch'esso integralmente riplasmato. Ciò
comporta
una
notevole
alterazione
dello
stesso
meccanismo garantista previsto dall'art. 42, nella duplice
direzione che questo assume di garanzia dell'istituto
proprietario e di garanzia offerta ai singoli proprietari 211.
La garanzia dell'istituto proprietario, che nel complessivo
disegno dei costituenti riguarda piuttosto l'insopprimibilità
totale del regime della proprietà privata e quindi si
presenta come una condizione di base per la permanenza
Così M. S. Giannini, Basi costituzionali, cit., p. 481.
Tra le decisioni della Corte assumono particolare rilevanza le già
citate sentenze n. 55 del 1968, n. 155 del 1972, n. 107 del 1974, nn. 3
e 4 del 1976, n. 153 del 1977, n. 5 del 1980.
371 II caso della proprietà dimostra come, pur essendo corretto in via di
principio affermare che « l'attività della Corte è di natura non
costruttiva» (cosi G. Tarello, Storiografia giuspolitica, cit., p. 602), lo
stratificarsi di molteplici decisioni sulla medesima materia possa
condurre a risultati equivalenti a quelli di una deliberata operazione
costruttiva.
372 Si veda ancora ad esempio, Corte costituzionale, 29 maggio 1968, n.
55, cit.
369
370
360
di un'economia mista, viene trasferita all'interno delle
proprietà esistenti, divenendo puramente e semplicemente
il tramite per la tutela di un loro contenuto essenziale. La
garanzia per i singoli proprietari riflette questa
impostazione più generale e, da una parte, si ripropone
come strumento di difesa di un diritto soggetto assoluto
ancora visto in un'ottica paleocivilistica, che si rifiuta di
prender atto della definitiva relativizzazione del diritto di
proprietà, portata a compimento e formalizzata proprio dal
testo costituzionale 373; e, dall'altra, la garanzia puramente
procedimentale viene trasformata in un ulteriore vincolo
strutturale per l'intervento del legislatore.
Non può dirsi, ad ogni modo, che la nozione di proprietà
cosi delineata finisce con l'essere una pura e semplice
amplificazione della nozione civilistica 374. Dall'insieme degli
interventi della Corte costituzionale, infatti, si può ricavare
la progressiva messa a punto di una nozione di proprietà
costituzionale che la espande al di là della nozione
civilistica in senso stretto e il cui punto d'incidenza non è
più rappresentato dalla proprietà qual è definita dall'art.
832 c.c., ma dalle «possibilità di utilizzazione di un
bene» 375 . La garanzia costituzionale può cosi essere
adoperata per offrire tutela ad istituti diversi dalla
proprietà, come l'impresa o il contratto: e, infatti, lo
schema messo a punto per la proprietà è stato adoperato
per «illegittimare discipline legali di rapporti contrattuali»376
e per salvaguardare l'iniziativa economica privata 377.
Viene cosi messo a punto un modello (o «dottrina», come
altri preferisce chiamarlo) 378 dotato di una valenza
generale, messo a punto attraverso successive astrazioni,
che sostanzialmente definisce come proprietà ogni
situazione privata patrimonialmente rilevante e riferibile
[…]
Pure nella prima fase della giurisprudenza costituzionale tedesca di
questo dopoguerra, che più tendeva a tener ferma quella nozione, si
affermava che oggetto della tutela era la proprietà «qual era stata
conformata dal codice civile e dalle concezioni sociali»: cosi BVerGE 1,
pp. 264, 268; 2, pp. 380, 402; 11, pp. 64, 70; 26, pp. 119, 142, dove
tuttavia è chiaro che lo stratificarsi del sapere sociale preso in
considerazione è solo quello che conferma l'opinione che fa della
proprietà una pietra angolare dell'ordine costituito.
375 Cfr. da ultimo Corte costituzionale 30 gennaio 1980. n. 5, cit., p.
279.
376 Cosi G. Tarello, Storiografia giuspolitica, cit., p. 608.
377 […]
378 G. Tarello, Storiogra]ia gius polit u:a, cit., pp. 605, 607.
373
374
361
alla disponibilità di un bene. La tecnica ricostruttiva
adoperata e gli interessi presi in considerazione
(salvaguardia delle posizioni di mercato, intese anche come
il metro di valutazione della parità di trattamento tra i
soggetti presi in considerazione) non consentono, però, di
escludere che il medesimo modello possa essere adoperato
anche per garantire situazioni profondamente diverse secondo una linea che muove dai Konnexinstituten 379 e
giunge alle «nuove proprietà» 219 - lasciandosi alle spalle la
realità come requisito necessario per la tutela e
concentrando la garanzia su qualsiasi situazione di
vantaggio patrimonialmente rilevante. La tutela «forte», di
derivazione proprietaria, è così potenzialmente disponibile
per qualsiasi interesse che la indeterminatezza del modello
consente di prendere in considerazione.
379 Die Recbtsinstit ute des Priuatrecbts und ihre soziale Funktion,
Tübingen. 1929 (rist. Stuttgart , 1965).
362
PARTE III
La proprietà nella terza
globalizzazione
Alla ricerca di una nuova legittimazione
1) G. Hardin, La tragedia dei beni comuni, trad.
it. di Lorenzo Coccoli, tratta dal bollettino
telematico
di
filosofia
politica
(http://bfp.sp.unipi.it/hj05b/249);
Questo articolo è basato su una relazione presentata al
convegno della Pacific Division of the American Association
for the Advancement of Science presso l’Università di Stato
dello Utah, a Logan, il 25 giugno 1968.
Alla fine di un attento articolo su una possibile futura
guerra nucleare, Wiesner e York (1) concludevano che:
“Entrambe le parti nella corsa agli armamenti si
trovano…di fronte al dilemma di un potere militare
continuamente crescente a fronte di una sicurezza
nazionale continuamente decrescente. Il nostro meditato
parere professionale è che questo dilemma non abbia
soluzioni tecniche. Se le grandi potenze continuano a
cercare soluzioni solo nel campo della scienza e della
tecnologia, il risultato sarà quello di peggiorare la
situazione.”
Vorrei attirare la vostra attenzione non sull’oggetto
dell’articolo (la sicurezza nazionale in un mondo
nuclearizzato), ma sul tipo di conclusione raggiunta dagli
autori, e cioè che non ci sono soluzioni tecniche al
problema. Un implicito e quasi universale assunto delle
discussioni
pubblicate
nelle
riviste
scientifiche
specialistiche e semi-popolari è che il problema discusso
ha una soluzione tecnica. Una soluzione tecnica può essere
363
definita come quella soluzione che richiede un
cambiamento solo nelle tecniche derivate dalle scienze
naturali, senza bisogno, o quasi, di un cambiamento dei
valori umani o delle idee morali.
Ai giorni nostri (anche se non in passato) le soluzioni
tecniche sono sempre le benvenute. Dato il mancato
avverarsi delle precedenti profezie, ci vuole coraggio per
sostenere che una soluzione tecnica, pur desiderata, non è
possibile. Wiesner e York davano prova di questo coraggio;
scrivendo per una rivista scientifica, insistevano sul fatto
che la soluzione del problema non era da ricercare nelle
scienze naturali. Hanno circoscritto cautamente la loro
asserzione con la frase “È nostro meditato parere
professionale…”. Lo scopo del presente articolo non è
stabilire se avessero ragione o meno. Piuttosto, l’interesse
qui verte sull’importante concetto di una classe di problemi
umani che possiamo chiamare “problemi senza soluzione
tecnica”, e, più precisamente, sulla identificazione e
discussione di uno di essi.
È facile dimostrare che tale classe non è una classe vuota.
Pensate al gioco del tris. Considerate il seguente problema:
“Come posso vincere al gioco del tris?”. È ben noto che non
ho speranze di vincere, se assumo (in accordo con le
convenzioni della teoria dei giochi) che il mio avversario
conosca il gioco alla perfezione. Detto in un altro modo,
non c’è “soluzione tecnica” al problema. Posso vincere solo
dando un significato radicale alla parola “vincere”. Posso
colpire il mio avversario alla testa; oppure posso drogarlo; o
posso falsificare lo schemino. Tutti modi in cui “vincere”
implica, in qualche senso, un abbandono del gioco, così
come lo comprendiamo intuitivamente (ovviamente, posso
anche abbandonare esplicitamente il gioco – rifiutare di
giocarlo. È quello che fanno la maggior parte degli adulti).
La classe dei “problemi senza soluzione tecnica” ha dei
membri. La mia tesi è che il “problema della popolazione”,
come viene concepito solitamente, sia un membro di
questa classe. Il modo in cui è concepito solitamente
richiede qualche commento. È corretto dire che la maggior
parte di coloro che si danno angosciosamente da fare
attorno al problema della popolazione stanno cercando di
364
trovare un modo per evitare i mali della sovrappopolazione
senza rinunciare ad alcuno dei privilegi di cui attualmente
godono. Costoro pensano che coltivare i mari o sviluppare
un nuovo tipo di frumento risolverà il problema – con la
tecnologia. Proverò qui a mostrare che la soluzione che
cercano non può essere trovata. Il problema della
popolazione non può essere risolto con la tecnica, non più
di quanto col ricorso alla tecnica si possa vincere al gioco
del tris.
Cosa dobbiamo massimizzare?
La popolazione, come diceva Malthus, tende naturalmente
a crescere “geometricamente”, o, come diremmo oggi,
esponenzialmente. In un mondo finito questo significa che
la quota pro capite di risorse deve continuamente
diminuire. È il nostro un mondo finito?
Può essere avanzato qualche buon argomento a difesa
dell’idea che il mondo sia infinito; o che non sappiamo che
non lo è. Tuttavia, nei termini dei problemi pratici che
dovremo affrontare nel giro di qualche generazione col
livello di tecnologia che possiamo prevedere, è chiaro che
finiremo con l’incrementare di parecchio la miseria
dell’umanità se non assumiamo che, nell’immediato futuro,
il mondo disponibile alla popolazione umana terrestre sia
finito. Lo Spazio non è una via di fuga (2).
Un mondo finito può sostenere unicamente una
popolazione finita; perciò, in conclusione la crescita della
popolazione deve essere eguale a zero (il caso di ampie
fluttuazioni perpetue sopra e sotto lo zero è una variante
insignificante che non è necessario discutere). Nel caso in
cui questa condizione sia soddisfatta, quale sarà la
situazione dell’umanità? In particolare, potrà essere
realizzato l’obiettivo benthamiano del “massimo benessere
per il maggior numero di persone”?
No – per due ragioni, ciascuna sufficiente per se stessa. La
prima è di ordine teorico. Non è matematicamente possibile
massimizzare due (o più) variabili allo stesso tempo. Ciò è
stato chiaramente stabilito da von Neumann e Morgenstern
(3), ma il principio è implicito nella teoria delle equazioni
365
differenziali parziali, risalente almeno a D’Alembert (17171783).
La seconda ragione deriva direttamente dai dati biologici.
Per vivere, ogni organismo ha bisogno di una fonte di
energia (il cibo, per esempio). Questa energia è utilizzata
per due scopi: il semplice sostentamento e il lavoro. Per
l’essere umano, il sostentamento della vita richiede
all’incirca 1600 kilocalorie al giorno (“calorie di
sostentamento”). Qualsiasi cosa egli faccia al di sopra e al
di là del semplice mantenersi in vita sarà definito come
lavoro, supportato dalle “calorie di lavoro” che vengono
impiegate in esso. Le calorie di lavoro sono utilizzate non
solo per ciò che chiamiamo lavoro nel discorso comune;
esse sono richieste per tutte le forme di divertimento, dal
nuotare e dal partecipare a corse automobilistiche fino al
suonare e al comporre poesie. Se il nostro obiettivo è
massimizzare la popolazione quel che dobbiamo fare è
ovvio: dobbiamo far sì che il ricorso alle calorie di lavoro
pro capite sia il più vicino possibile allo zero. Niente pasti
da buongustai, niente vacanze, niente sport, niente
musica, niente letteratura, niente arte…Penso che
chiunque riconoscerà, anche senza argomentazioni o
prove, che massimizzare la popolazione non massimizza il
benessere. L’obiettivo di Bentham è irrealizzabile.
Nell’arrivare a questa conclusione sono partito dall’usuale
presupposto che il problema risieda nel reperimento
dell’energia. L’avvento dell’energia atomica ha portato
qualcuno a mettere in questione tale presupposto.
Comunque sia, anche ammessa una fonte infinita di
energia, la crescita della popolazione presenta ancora un
problema inaggirabile. Il problema del reperimento
dell’energia è sostituito dal problema della sua
dissipazione, come J. H. Fremlin (4) ha così argutamente
mostrato. I segni aritmetici sono, per così dire, invertiti
nell’analisi; ma l’obiettivo di Bentham resta irraggiungibile.
Il livello ottimale di popolazione è, dunque, inferiore al suo
livello massimo. La difficoltà di definire il livello ottimale è
enorme; per quanto ne sappia, nessuno ha affrontato
seriamente il problema. Raggiungere una soluzione
366
accettabile e solida richiederà sicuramente più di una
generazione di duro lavoro analitico – e molta convinzione.
Vogliamo il massimo bene per ciascuno; ma cos’è il bene?
Per uno è una landa solitaria, per un altro sono impianti
sciistici da migliaia di persone. Per uno sono gli estuari dei
fiumi dove trovare anatre da cacciare, per un altro è un
terreno edificabile. Di solito diciamo che è impossibile
confrontare il bene di uno con quello di un altro poiché i
beni sono incommensurabili. Ciò che è incommensurabile
non può essere confrontato.
Questo può essere vero in teoria; ma nella vita reale ciò che
è incommensurabile è commensurabile. C’è solo bisogno di
un criterio di giudizio e di un sistema di ponderazione. In
natura il criterio è la sopravvivenza. È meglio per una
specie essere piccola e mimetizzabile, o grande e potente?
La selezione naturale commisura l’incommensurabile. Il
compromesso raggiunto dipende da una ponderazione
naturale del valore delle variabili.
L’uomo deve imitare questo processo. Non c’è dubbio che
di fatto egli già lo faccia, ma inconsciamente. È quando le
decisioni latenti sono rese esplicite che comincia la
discussione razionale. Il problema per gli anni a venire è
quello di elaborare un’accettabile teoria della ponderazione.
Effetti sinergici, variazioni non-lineari, e le difficoltà nel
prevedere il futuro rendono il compito intellettuale difficile,
ma non (in linea di principio) insolubile.
Esiste un qualche gruppo culturale che ad oggi abbia
risolto questo problema pratico, anche solo ad un livello
intuitivo? Un semplice fatto dimostra che nessuno è
riuscito nell’impresa: non c’è oggi al mondo una sola
popolazione che sia insieme prospera e che abbia, e abbia
avuto per qualche tempo, un tasso di crescita pari a zero.
Un popolo che avesse identificato intuitivamente il suo
punto ottimale l’avrebbe presto raggiunto, dopodiché il suo
tasso di crescita sarebbe diventato e rimasto pari a zero.
Certo, un tasso di crescita positivo potrebbe essere preso
come prova del fatto che una popolazione è al di sotto del
suo ottimo. Tuttavia, qualsiasi ragionevole standard si
367
voglia adoperare, è evidente come oggi le popolazioni della
terra col più alto tasso di crescita siano (in generale) le più
povere.
Questa
connessione
(che
non
deve
necessariamente
essere
invariabile)
solleva
dubbi
sull’ipotesi ottimistica che il tasso di crescita positivo di
una popolazione sia prova del fatto che deve ancora
raggiungere il suo livello ottimale.
Potremo fare pochi progressi nella ricerca della dimensione
ottimale di una popolazione finché non avremo
esplicitamente esorcizzato lo spirito di Adam Smith dal
campo della demografia pratica. In ambito economico, La
ricchezza delle Nazioni (1776) ha divulgato il principio della
“mano invisibile”, l’idea cioè che un individuo che “abbia di
mira solo il suo interesse”, è, per così dire, “portato da una
mano invisibile a promuovere…l’interesse pubblico” (5).
Adam Smith non affermò mai che questo fosse
invariabilmente vero, e forse non lo fecero nemmeno i suoi
discepoli. Ma egli contribuì a creare una tendenza
dominante di pensiero che sin da allora ha interferito con
l’azione positiva basata sull’analisi razionale, e cioè la
tendenza
ad
assumere
che
le
decisioni
prese
individualmente saranno, di fatto, quelle migliori per
un’intera società. Se questo assunto è corretto, ciò
giustifica la prosecuzione della nostra attuale politica di
laissez-faire nel campo della riproduzione. Se è corretto
possiamo assumere che gli uomini controlleranno la loro
fecondità individuale in modo tale da raggiungere il livello
ottimale di popolazione. Se l’assunto non è corretto,
dobbiamo riesaminare le nostre libertà individuali per
vedere quali di esse sono giustificabili.
La tragedia della libera iniziativa nella gestione di un
bene comune
La confutazione del principio della mano invisibile nel
controllo della popolazione va ricercata nello scenario
tratteggiato per la prima volta in un pamphlet poco noto (6)
del 1833 da un matematico dilettante di nome William
Forster Lloyd (1794-1852). Possiamo a ragione chiamare
tale scenario “la tragedia dei beni comuni”, utilizzando la
parola “tragedia” nel senso in cui l’ha usata il filosofo
Whitehead (7): “L’essenza della tragedia drammatica non è
l’infelicità. Essa risiede nella solennità dello spietato
368
andamento delle cose”. E prosegue: “Questa ineluttabilità
del destino può essere illustrata, in termini di vita umana,
solo da avvenimenti che di fatto implicano infelicità. Poiché
è solo per mezzo loro che la futilità della fuga può essere
resa evidente nel dramma”.
La tragedia dei beni comuni si svolge nel seguente modo.
Immaginate un pascolo aperto a tutti. C’è da presumere
che ciascun pastore cercherà di far stare quanto più
bestiame possibile su questo bene comune. Una simile
sistemazione può funzionare in modo ragionevolmente
soddisfacente per secoli, perché guerre tra tribù, cacciatori
di frodo e malattie mantengono il numero sia di uomini che
di animali ben al di sotto della capacità di carico del
terreno. Alla fine, tuttavia, arriva il giorno della resa dei
conti, il giorno cioè in cui l’obiettivo della stabilità sociale, a
lungo ricercato, diventa realtà. A questo punto, la logica
intrinseca ai beni comuni sfocia spietatamente in tragedia.
In quanto essere razionale, ciascun pastore cercherà di
massimizzare il proprio profitto. Esplicitamente o
implicitamente, più o meno inconsciamente, egli si
domanda: “Che utilità mi viene dall’aggiungere un altro
animale al mio gregge?”. Questa utilità ha una componente
negativa e una positiva.
1) La componente positiva è funzione dell’incremento
del gregge di un animale. Poiché il pastore tiene per
sé tutto il ricavo della vendita dell’animale
aggiuntivo, l’utilità positiva è all’incirca +1.
2) La componente negativa è funzione dell’eccessivo
carico aggiuntivo che viene a gravare sul pascolo a
causa dell’animale in più. Tuttavia, poiché gli effetti
del carico aggiuntivo sono condivisi da tutti i pastori,
l’utilità negativa per ogni singolo pastore che decida
di aggiungere un capo di bestiame al suo gregge è
solo una frazione di -1.
Sommando le due componenti parziali, il pastore razionale
concluderà che per lui l’unico comportamento sensato da
seguire sarà quello di aggiungere un altro animale al suo
gregge. E poi un altro; e un altro ancora…Ma alla
medesima conclusione giungono ciascuno e tutti i pastori
369
razionali che condividono un bene comune. In ciò sta la
tragedia. Ogni uomo è rinchiuso in un sistema che lo
costringe ad aumentare senza limiti il proprio gregge – in
un mondo che è limitato. La rovina è il destino verso cui si
precipitano tutti gli uomini, ciascuno perseguendo il suo
massimo interesse in una società che crede nel lasciare i
beni comuni alla libera iniziativa. La libera iniziativa nella
gestione di un bene comune porta rovina a tutti.
Qualcuno dirà che questa è un’ovvietà. Magari lo fosse! In
un certo senso, questa lezione fu appresa migliaia di anni
fa, ma la selezione naturale favorisce le forze della
rimozione psicologica (8). L’individuo trae benefici in
quanto individuo dalla sua capacità di negare la verità
anche se la società nella sua interezza, di cui egli fa parte,
ne soffre. L’educazione può contrastare la tendenza
naturale a fare la cosa sbagliata, ma l’inesorabile
succedersi delle generazioni richiede che le basi di questa
consapevolezza vengano costantemente rinfrescate.
Un semplice caso accaduto qualche anno fa a Leominster,
nel Massachusetts, dimostra quanto sia effimera questa
consapevolezza. Durante la stagione dello shopping
natalizio i parchimetri del centro furono coperti con buste
di plastica che portavano la scritta: “Da non aprire fino a
dopo Natale. Parcheggio gratuito omaggio del sindaco e del
consiglio comunale”. In altre parole, a fronte di un
aumento della domanda per uno spazio già scarso, gli
amministratori della città reintrodussero il sistema dei beni
comuni (cinicamente, noi sospettiamo che con questo
provvedimento regressivo guadagnarono più voti di quanti
non ne persero).
In modo approssimativo, la logica dei beni comuni è stata
compresa da lungo tempo, forse sin dalla scoperta
dell’agricoltura o dall’invenzione della proprietà privata di
beni immobili. Ma è stata compresa per lo più in casi
particolari
che
non
sono
stati
sufficientemente
generalizzati. Persino in un’epoca tarda come la nostra, i
proprietari di bestiame che prendono in affitto dallo Stato
le terre per il pascolo nelle praterie occidentali dimostrano
al più una comprensione ambigua, con il loro costante far
pressione sulle autorità federali affinché incrementino il
370
numero massimo di capi che ognuno può far pascolare su
quelle terre, fino a che l’overgrazing produce erosione e
invasione di erbacce. Allo stesso modo, gli oceani del
pianeta continuano a soffrire a causa della sopravvivenza
della filosofia del comune. Le nazioni con sbocco sul mare
rispondono ancora in automatico allo shibboleth della
“libertà dei mari”. Dichiarando di credere alle “inesauribili
risorse degli oceani”, esse conducono specie su specie di
pesci e balene più vicino all’estinzione (9).
I Parchi Nazionali offrono un altro esempio di come si
consumi la tragedia dei beni comuni. Ad oggi, essi sono
aperti a tutti, senza limiti. Per se stessi, i parchi sono
limitati in estensione – c’è un’unica Yosemite Valley –
mentre la popolazione sembra crescere senza limiti. Quelle
qualità che i visitatori ricercano nei parchi vanno
continuamente scomparendo. È evidente che dobbiamo
smettere al più presto di trattare i parchi come beni
comuni, o non saranno più di alcun valore per nessuno.
Che dobbiamo fare? Abbiamo diverse opzioni. Possiamo
venderli a privati. Possiamo farli rimanere di pubblica
proprietà, ma assegnando solo ad alcuni il diritto a
entrarvi. L’assegnazione può avvenire in base alla
ricchezza, utilizzando un sistema d’aste. Può avvenire in
base al merito, definito tramite qualche standard
condiviso. Può avvenire ad estrazione. O può avvenire sulla
base del principio “chi prima arriva, meglio alloggia”,
applicato alla gestione delle lunghe code che si verrebbero
a formare. Credo che queste siano tutte ipotesi ragionevoli.
Sono anche tutte discutibili. Ma dobbiamo scegliere – o
rassegnarci alla distruzione di quei beni comuni che
chiamiamo Parchi Nazionali.
Inquinamento
A termini invertiti, la tragedia dei beni comuni riappare nei
problemi legati all’inquinamento. Qui non si tratta di
sottrarre qualcosa al bene comune, ma di introdurvi
qualcosa – nelle acque, scarichi, rifiuti chimici e radioattivi,
energia residuale; nell’aria, fumi pericolosi e nocivi, e
insegne pubblicitarie sgradevoli e disturbanti nel nostro
orizzonte visivo. Il calcolo delle utilità è molto simile al
precedente. L’uomo razionale troverà che la sua parte di
371
costo per i rifiuti che scarica nei beni comuni è minore del
costo di trattarli prima di rilasciarli nell’ambiente. Poiché
questo è vero per ciascuno, siamo bloccati in un sistema
che ci porta a “sputare nel piatto in cui mangiamo” 380, fino
a quando ci comporteremo come agenti indipendenti,
razionali e liberi.
La tragedia dei beni comuni considerati come un cesto di
cibo da cui ognuno può prendere a piacimento, è evitata
grazie alla proprietà privata, o a qualcosa di formalmente
simile. Ma l’aria e le acque intorno a noi non possono
essere facilmente recintate, ed è per questo che la tragedia
dei beni comuni trattati come un pozzo nero in cui gettare
quel che si vuole deve essere prevenuta con mezzi
differenti, tramite leggi coercitive o espedienti fiscali che
rendano più economico per il potenziale inquinatore
trattare i propri rifiuti inquinanti piuttosto che scaricarli
nell’ambiente senza trattamento. Non siamo andati tanto
avanti nella soluzione di quest’ultimo problema quanto
abbiamo fatto col primo. In realtà, la nostra particolare
concezione della proprietà privata, che ci trattiene
dall’esaurire le risorse positive del pianeta, favorisce
l’inquinamento. Il proprietario di una fabbrica costruita
sulla riva di un fiume – i cui possedimenti si estendono
anche al fiume – spesso ha difficoltà a capire come non sia
suo diritto naturale quello di inquinare le acque che gli
scorrono davanti. La legge, sempre in ritardo rispetto ai
tempi, necessita di rattoppi e aggiustamenti accurati per
essere adattata a questa nuova percezione degli aspetti
relativi ai beni comuni. Il problema dell’inquinamento è
una conseguenza dell’aumento della popolazione. Non
aveva molta importanza come un solitario pioniere
americano disponesse dei suoi rifiuti. “L’acqua corrente si
purifica da sola ogni 10 miglia” diceva mio nonno, e il detto
era abbastanza vicino al vero quand’era ragazzo, perché
non c’era ancora un numero eccessivo di persone. Ma non
appena la densità di popolazione cominciò ad aumentare, i
processi naturali di riciclo chimico e biologico iniziarono a
In inglese, to foul one’s own nest (letteralmente, “sporcare il proprio
nido”) è espressione idiomatica per “farsi del male da soli”. Qui però è
evidente il doppio senso, che si è cercato di rendere in traduzione.
[N.d.T.]
380
372
sovraccaricarsi, invocando una ridefinizione dei diritti di
proprietà.
Come imporre per legge la moderazione?
L’analisi del problema dell’inquinamento come funzione
della densità di popolazione rivela un principio di moralità
non universalmente riconosciuto, e cioè: la moralità di
un’azione è funzione dello stato del sistema al momento in
cui viene compiuta (10). Utilizzare i beni comuni come un
pozzo nero in una situazione di frontiera non nuoce alla
collettività, perché non c’è collettività; lo stesso
comportamento è insostenibile in una metropoli. Un secolo
e mezzo fa un abitante delle pianure poteva uccidere un
bisonte americano, tagliargli soltanto la lingua per
mangiarla, e scartare il resto dell’animale. In nessun senso
rilevante si sarebbe potuto dire che ne stesse facendo uno
spreco. Oggi, con solo poche migliaia di bisonti rimasti,
saremmo sconcertati da un comportamento simile.
Incidentalmente, vale la pena notare che non si può
giudicare la moralità di un’azione da una fotografia. Non si
può sapere se un uomo che uccide un elefante o dà fuoco a
una prateria stia danneggiando gli altri finché non si
conosce il contesto complessivo in cui la sua azione si
inserisce. “Un’immagine vale mille parole”, recita un antico
detto cinese; ma possono volerci 10.000 parole per
contestualizzarla. Gli ecologisti, come in generale i
riformatori, possono essere tentati dal cercare di
persuadere gli altri attraverso la scorciatoia fotografica. Ma
l’essenziale di un argomento non può essere fotografato:
deve essere presentato razionalmente – a parole.
Che la moralità sia influenzata dal contesto è sfuggito
all’attenzione della maggior parte di coloro che in passato
hanno codificato le regole dell’etica. “Tu non devi…” è la
forma delle prescrizioni etiche tradizionali, che non fanno
concessioni a seconda delle circostanze particolari. Le leggi
della nostra società seguono il modello degli antichi schemi
etici, e perciò sono scarsamente adeguate a governare un
mondo complesso, affollato e mutevole. La nostra soluzione
epiciclica consiste nell’integrare la legge dello Stato con
quella amministrativa. Poiché è praticamente impossibile
elencare per filo e per segno tutte le condizioni in cui non è
373
pericoloso bruciare immondizia nel cortile di casa o guidare
un’automobile non catalizzata, deleghiamo per legge i
dettagli alle agenzie amministrative. Il risultato è la legge
amministrativa, che è giustamente temuta per un’antica
ragione – Quis custodiet ipsos custodes? – “Chi controllerà i
controllori?”. John Adams disse che dobbiamo avere “un
governo di leggi, e non di uomini”. I funzionari degli uffici
amministrativi, nel tentativo di valutare la moralità delle
azioni nel loro contesto complessivo, sono particolarmente
esposti a corruzione, dando vita a un governo di uomini, e
non di leggi.
È facile imporre per legge un divieto (anche se non lo è
necessariamente farlo rispettare); ma come possiamo
imporre per legge la moderazione? L’esperienza mostra che
questo obiettivo può essere raggiunto più agevolmente
attraverso la mediazione della legge amministrativa.
Limitiamo inutilmente il campo delle nostre possibilità se
supponiamo che il punto di vista del Quis custodiet ci
impedisce di ricorrere alla legge amministrativa. Dovremmo
piuttosto interpretare quella frase come perenne monito dei
temibili rischi che non possiamo evitare di correre. La
grande sfida che ci troviamo ad affrontare oggi sta
nell’inventare i correttivi necessari per preservare l’onestà
dei custodi. Dobbiamo trovare dei modi per legittimare la
necessaria autorità sia dei custodi che delle misure
correttive.
La libertà di riprodursi è intollerabile
Le questioni legate alla popolazioni implicano anche in un
altro modo la tragedia dei beni comuni. In un mondo
governato esclusivamente dal principio del “cane mangia
cane” – se effettivamente è mai esistito un mondo del
genere – il numero di figli che una famiglia decidesse di
avere non sarebbe un problema di interesse pubblico. I
genitori che si riproducessero con troppa esuberanza
lascerebbero meno discendenti, non di più, perché non
sarebbero in grado di provvedere adeguatamente ai loro
bambini. David Lack e altri hanno scoperto che questo
riscontro negativo tiene a freno in modo verificabile la
fecondità degli uccelli (11). Ma gli uomini non sono uccelli,
e per millenni almeno non si sono comportati come loro.
374
Se ciascuna famiglia umana dipendesse unicamente dalle
proprie risorse; se i figli dei genitori imprevidenti morissero
di fame; se, perciò, la stessa procreazione eccessiva
comportasse una sorta di “punizione” per quella linea
genealogica – allora non ci sarebbe alcun interesse
pubblico nel controllare la riproduzione delle famiglie. Ma
la nostra società è profondamente legata a sistemi di
previdenza sociale (12), ed è quindi messa di fronte ad un
altro aspetto della tragedia delle risorse comuni.
In un sistema di assistenza sociale pubblica, come
dobbiamo comportarci con la famiglia, la religione, la razza
o la classe (o insomma con qualsiasi gruppo distinguibile e
coeso) che adotti un’eccessiva procreazione come metodo
per assicurarsi un peso sempre crescente (13)? Associare il
concetto di libertà riproduttiva alla convinzione che ogni
nato abbia eguale diritto ai beni comuni significa destinare
il mondo a una tragica linea di azione.
Sfortunatamente, le Nazioni Unite stanno perseguendo
proprio questa linea d’azione. Verso la fine del 1967, una
trentina di nazioni ha convenuto quanto segue (14):
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani descrive la
famiglia come unità naturale e fondamentale della società.
Ne segue che ogni scelta e decisione riguardo alle
dimensioni della famiglia deve irrevocabilmente rimanere
nell’ambito della famiglia stessa, e non può essere presa da
nessun altro.
È spiacevole dover negare categoricamente la validità di
questo diritto; negandola, ci si sente a disagio come un
abitante di Salem, nel Massachusetts, che nel XVII secolo
negasse l’esistenza delle streghe 381 . Ai nostri giorni, nei
quartieri liberali, è all’opera una specie di tabù che inibisce
la critica nei confronti delle Nazioni Unite. C’è la
sensazione che le Nazioni Unite siano “la nostra ultima e
migliore speranza”, che non dovremmo scoprirvi alcun
difetto; non dovremmo fare il gioco degli ultraconservatori.
Tuttavia, non ci dimentichiamo cosa disse Robert Louis
381 Salem è una cittadina del Massachusetts tristemente nota per la
cruenta caccia alle streghe scatenatasi sul finire del XVII secolo.
[N.d.T.]
375
Stevenson: “La verità soppressa dagli amici è la prima
arma dei nemici” 382. Se amiamo la verità dobbiamo negare
apertamente la validità della Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, anche se è stata promossa dalle Nazioni
Unite. Dovremmo anche unirci a Kingsley Davis (15) nel
tentativo di indurre i responsabili della Planned
Parenthood-World Population a rendersi conto dell’errore
che commettono nell’abbracciare il medesimo tragico
ideale.
La coscienza si auto-elimina
È un errore pensare che si possa controllare la
riproduzione umana nel lungo periodo appellandosi alla
coscienza. Charles Galton Darwin espresse questa tesi
parlando in occasione del centenario della pubblicazione
del grande libro di suo nonno. L’argomento è semplice e
darwiniano.
Le persone non sono tutte uguali. Messe di fronte ad un
appello a limitare le nascite, alcune senza dubbio
risponderanno all’invito più di altre. Quelle che avranno
più figli produrranno una quota maggiore della successiva
generazione rispetto a quelle con una coscienza più
sensibile. La differenza si accentuerà di generazione in
generazione.
Con le parole di C. G. Darwin: “Può anche darsi che ci
vogliano centinaia di generazioni affinché l’istinto
procreativo si sviluppi in questo modo, ma se accadesse, la
natura si sarebbe presa la sua rivincita, la specie Homo
contracipiens si estinguerebbe e quella Homo progenitivus
prenderebbe il suo posto” (16).
L’argomento presuppone che la coscienza o il desiderio di
avere figli (non importa quale dei due) siano ereditari – ma
ereditari solo nel senso formale più generale. Il risultato
sarà lo stesso sia che il comportamento venga trasmesso
geneticamente,
sia
che
venga
tramandato
esosomaticamente, per usare un termine di A. J. Lotka (se
si nega sia la prima che la seconda possibilità, allora a che
382 R.L. Stevenson, Father Damien: An Open Letter to the Reverend
Doctor Hyde of Honolulu from Robert Louis Stevenson, Chatto &
Windus, Londra 1890. [N.d.T.]
376
serve l’educazione?). L’argomento qui è stato formulato nel
contesto del problema della popolazione, ma si applica
egualmente bene ad ogni caso in cui la società faccia
appello ad un individuo che sfrutti una risorsa comune,
affinché si contenga per il bene di tutti – per mezzo della
coscienza. Fare un appello del genere significa metter su
un sistema selettivo che si muove verso l’eliminazione della
coscienza dalla razza.
Gli effetti patogeni della coscienza
Il danno a lungo termine causato da un appello alla
coscienza dovrebbe essere sufficiente a condannarlo; ma
esso produce seri danni anche nel breve periodo. Se
chiediamo ad un uomo che sta sfruttando un bene comune
di fermarsi “in nome della coscienza”, cosa gli stiamo
dicendo? Cosa gli arriva? – non solo sul momento, ma
anche nelle ore piccole della notte quando, mezzo
addormentato, ricorda non solamente le parole che
abbiamo usato, ma anche i messaggi non verbali che gli
abbiamo trasmesso senza rendercene conto? Presto o tardi,
consciamente o inconsciamente, ha la sensazione di aver
ricevuto due comunicazioni, e contraddittorie:
(i)
(messaggio intenzionale) “Se non fai quello che ti
chiediamo, ti disprezzeremo pubblicamente
perché non agisci da cittadino responsabile”.
(ii)
(messaggio non intenzionale) “Se ti comporti come
ti chiediamo, ti disprezzeremo in segreto perché
sei un sempliciotto che può essere intimidito
tanto da essere indotto a farsi da parte mentre il
resto di noi sfrutta i beni comuni”.
L’uomo medio è preso allora in quel che Bateson ha
chiamato un “doppio vincolo”. Bateson e i suoi
collaboratori hanno fornito ragioni plausibili per
considerare il doppio vincolo come un importante fattore
causativo della schizofrenia (17). Il doppio vincolo può non
essere sempre così dannoso, ma mette sempre a rischio la
salute mentale di chiunque si trovi ad incapparvi. “Una
cattiva coscienza”, diceva Nietzsche, “è una specie di
malattia”.
Suscitare negli altri uno scrupolo di coscienza costituisce
una tentazione per chiunque desideri estendere il suo
377
controllo al di là dei limiti legali. I leader ai più alti livelli
soccombono a questa tentazione. C’è stato un qualche
Presidente nella scorsa generazione che abbia mancato di
fare
appello
ai
sindacati
affinché
moderassero
volontariamente la loro richiesta di salari più elevati, o di
far animo alle imprese affinché rispettassero le linee guida
volontarie sui prezzi? Io non riesco a ricordarne nessuno.
La retorica adoperata in tali occasioni è finalizzata a
produrre sensi di colpa in coloro che non cooperano.
Per secoli si è dato per assodato, senza alcuna prova, che
la colpa fosse un ingrediente prezioso, forse anche
indispensabile, della vita civile. Ora, nel mondo postfreudiano, ne dubitiamo.
Paul Goodman parla da questo moderno punto di vista
quando dice: “Nulla di buono è mai venuto dal sentirsi in
colpa, né intelligenza, né accortezza, né compassione. Il
colpevole non presta attenzione all’oggetto ma solo a se
stesso, e neanche ai suoi propri interessi, il che potrebbe
avere un senso, ma alle proprie angosce” (18).
Non bisogna essere uno psichiatra di professione per
capire quali siano le conseguenze dell’angoscia. Noi
Occidentali stiamo uscendo appena da un terribile Medio
Evo dell’Eros durato due secoli, che certo in parte è stato
alimentato da leggi repressive, ma anche, e forse in modo
più efficace, da meccanismi educativi tesi a ingenerare
angoscia. Alex Comfort ha raccontato bene questa storia in
The Anxiety Makers (19); e non è una storia piacevole.
Poiché è difficile addurre prove in questo ambito, possiamo
anche concedere che gli effetti dell’angoscia possano
talvolta, da certi punti di vista, essere desiderabili. La
domanda più ampia che dovremmo porre è se, in materia
di politica, si debba mai incoraggiare l’uso di una tecnica la
cui tendenza (se non intenzione) è psicologicamente
patogena. Sentiamo molto parlare in questi giorni di
genitorialità responsabile; questa coppia di parole appare
nei nomi di alcune organizzazioni dedite al controllo delle
nascite. Alcuni hanno proposto massicce campagne di
propaganda per instillare il senso di responsabilità nei
potenziali genitori di una nazione (o del mondo). Ma che
378
significa in questo contesto la parola “responsabilità”? Non
è semplicemente un sinonimo della parola “coscienza”?
Quando usiamo il termine “responsabilità” in assenza di
sanzioni considerevoli, non stiamo forse cercando di
costringere un uomo libero in relazione a un bene comune
ad agire contro il suo stesso interesse? “Responsabilità” è
una contraffazione verbale per un quid pro quo sostanziale.
È un tentativo di ottenere qualcosa in cambio di niente.
Se la parola “responsabilità” deve proprio essere usata,
suggerisco che la si adoperi nel senso attribuitole da
Charles Frankel (20). “La responsabilità”, dice questo
filosofo, “è il frutto di accordi sociali definiti”. Si noti che
Frankel fa appello ad accordi sociali – non alla propaganda.
Coercizione reciproca reciprocamente concordata
Gli accordi sociali che producono responsabilità sono
accordi che creano un qualche tipo di coercizione. Pensate
ad una rapina in banca. L’uomo che ruba i soldi da una
banca agisce come se la banca fosse un bene comune.
Come possiamo impedire un’azione simile? Di certo non
cercando di controllare il suo comportamento solo
attraverso un appello verbale al suo senso di
responsabilità. Piuttosto che affidarci alla propaganda,
seguiamo il suggerimento di Frankel e insistiamo che una
banca non è un bene comune; andiamo in cerca di quegli
accordi sociali definiti che la difendano dal diventare un
bene comune. Che in tal modo si violi la libertà dei
potenziali rapinatori, questo non lo neghiamo né ce ne
rammarichiamo.
La moralità relativa alle rapine in banca è particolarmente
facile da maneggiare perché accettiamo la completa
proibizione di questa attività. Siamo disposti a dire “Tu non
devi rapinare le banche”, senza tener conto di alcuna
eccezione. Ma anche la moderazione può essere creata
tramite coercizione. La tassazione è un buon mezzo
coercitivo. Per far sì che chi va in città a far compere si
moderi nell’uso dei parcheggi, facciamo ricorso ai
parchimetri per le soste brevi e alle multe per le soste più
lunghe. Non abbiamo bisogno di vietare effettivamente a un
cittadino di rimanere parcheggiato per tutto il tempo che
vuole; dobbiamo solo rendergli progressivamente più
379
costoso il farlo. Ciò che gli offriamo non sono divieti, ma
scelte saggiamente guidate. Un pubblicitario di Madison
Avenue potrebbe chiamarla “persuasione”; io preferisco il
maggior candore della parola “coercizione”.
Oggi “coercizione” è una parola sporca per la maggior parte
dei liberali, ma non è detto che debba esserlo per sempre.
Come per altre parolacce, la sua sporcizia può essere
ripulita tramite esposizione alla luce, cioè ripetendola più
volte senza scuse né imbarazzi. Per molti, la parola
“coercizione” implica decisioni arbitrarie di burocrati
distanti e irresponsabili; ma questa non è una componente
necessaria del suo significato. L’unica coercizione che
raccomando è la coercizione reciproca, reciprocamente
concordata dalla maggioranza di coloro che ne sono
interessati.
Dire che acconsentiamo reciprocamente alla coercizione
non significa dire che ci debba piacere, o anche solo che
fingiamo che ci piaccia. A chi piace pagare le tasse? Tutti
brontoliamo a riguardo. Ma accettiamo la tassazione
obbligatoria perché riconosciamo che una tassazione
volontaria favorirebbe chi non ha coscienza civica.
Istituiamo e (pur brontolando) sopportiamo le tasse e altri
espedienti coercitivi per sfuggire all’orrore di un regime di
risorse comuni.
Un’alternativa alla prospettiva comunitaria non ha bisogno
di essere perfetta per essere preferibile. Per quel che
riguarda i beni immobili e altri tipi di beni materiali,
l’alternativa che abbiamo scelto è l’istituzione della
proprietà privata abbinata alla successione legale. È un
sistema perfetto? Come biologo esperto di genetica mi
sento di negarlo. A me sembra che, se ci devono essere
differenze in ciò che individualmente ognuno eredita, il
possesso legale dovrebbe essere strettamente correlato
all’eredità biologica – coloro che sono biologicamente più
adatti a custodire proprietà e potere dovrebbero legalmente
ereditare di più. Ma la ricombinazione genica si fa continue
beffe della dottrina del “tale padre, tale figlio” implicita
nelle nostre leggi sulla successione legale. Un idiota può
ereditare milioni, e un fondo fiduciario può mantenere la
sua proprietà intatta. Dobbiamo ammettere che il nostro
380
sistema legale di proprietà privata più successione è
imperfetto – ma lo sopportiamo perché non siamo convinti,
al momento, che qualcuno abbia inventato un sistema
migliore. L’alternativa di una gestione comune delle risorse
è troppo orribile per essere contemplata. L’ingiustizia è
preferibile alla totale rovina.
Una delle particolarità del conflitto tra riforma e
conservazione dello status quo consiste nel suo essere
irriflessivamente governato da un doppio criterio di
valutazione. Ogni volta che una misura riformista viene
proposta, essa viene affossata non appena i suoi avversari,
con tono trionfante, vi scoprono un difetto. Come ha fatto
notare Kingsley Davis (21), i sostenitori dello status quo
sottintendono a volte che nessuna riforma è possibile
senza accordo unanime, un sottinteso contrario ai fatti
storici. Per quel poco che riesco a vedere, il rifiuto
automatico delle proposte di riforma si basa su uno di
questi due assunti inconsci: (i) che lo status quo sia
perfetto; oppure (ii) che la scelta che abbiamo davanti sia
tra riforma e inazione; se la riforma proposta è imperfetta,
presumibilmente non dovremmo intraprendere alcuna
azione, in attesa di una proposta perfetta.
Ma non possiamo starcene per sempre senza far nulla.
Quel che abbiamo fatto per migliaia di anni è stato anche
agire. Il che produce pure dei danni. Una volta che ci
siamo resi conto che lo status quo è azione, possiamo a
quel punto confrontare vantaggi e svantaggi che siamo in
grado di scoprirvi con quelli previsti dalla riforma proposta,
facendo il più possibile la tara sulla nostra mancanza di
esperienza. Sulla base di tale confronto, possiamo prendere
una decisione razionale che non contenga l’impraticabile
assunto che solo i sistemi perfetti sono accettabili.
Riconoscimento della necessità
Forse il riassunto più semplice di questa analisi dei
problemi della popolazione umana è il seguente: un regime
di risorse comuni, se giustificabile, lo è solo in condizioni di
bassa densità di popolazione. Non appena la popolazione
umana è aumentata, un passo alla volta si è dovuta
abbandonare la prassi della gestione comune delle risorse.
381
Dapprima l’abbiamo abbandonata per quanto riguarda la
raccolta di cibo, recintando i terreni agricoli e limitando
l’accesso ai pascoli e alle aree di caccia e pesca. Queste
limitazioni non sono ancora presenti in tutto il mondo.
Qualche tempo dopo ci siamo accorti che anche l’idea dei
beni comuni come una discarica in cui smaltire i rifiuti
avrebbe dovuto essere abbandonata. Vincoli allo
smaltimento degli scarichi domestici sono largamente
accettati nel mondo occidentale; stiamo ancora lottando
per chiudere i beni comuni all’inquinamento di automobili,
industrie, spray insetticidi, operazioni di fertilizzazione e
centrali atomiche.
La nostra consapevolezza dei mali provocati dalla gestione
comune delle risorse in materia di piacere è ad uno stato
ancor più embrionale. Non c’è quasi alcuna restrizione alla
propagazione di onde sonore nei luoghi pubblici. Chi va a
fare shopping è assalito da una musica alienante, senza il
suo consenso. Il nostro governo sta spendendo miliardi di
dollari per creare mezzi di trasporto supersonici che
disturberanno 50.000 persone per ognuno di quelli che
saranno sbattuti da una costa all’altra impiegando tre ore
di viaggio in meno. Le pubblicità infangano le onde radio e
la televisione, e inquinano il panorama ai viaggiatori.
Siamo ben lontani dal mettere fuori legge l’idea del comune
in materia di piacere. È forse perché la nostra eredità
puritana ci fa considerare il piacere come una specie di
peccato, e la sofferenza (cioè l’inquinamento pubblicitario)
come il segno della virtù?
Ogni nuova restrizione dei beni comuni comporta la
violazione della libertà personale di qualcuno. Le violazioni
compiute nel lontano passato sono accettate perché
nessuno dei contemporanei lamenta una perdita. È contro
la proposta di nuove violazioni che ci opponiamo con
vigore; rivendicazioni di “diritti” e “libertà” riempiono l’aria.
Ma che significa “libertà”? Quando gli uomini si
accordarono reciprocamente per approvare delle leggi
contro il furto, l’umanità divenne più libera, non meno. Gli
individui chiusi nella logica dei beni comuni sono liberi
solo di procurare la rovina universale; una volta compresa
la necessità della coercizione reciproca, essi diventano
382
liberi di perseguire altri obiettivi. Credo sia stato Hegel a
dire: “La libertà è il riconoscimento della necessità”.
L’aspetto più importante della necessità che oggi dobbiamo
riconoscere è l’esigenza di abbandonare l’idea del comune
nel campo della riproduzione. Nessuna soluzione tecnica
può salvarci dalla miseria della sovrappopolazione. La
libertà di riprodursi porterà rovina a tutti. Al momento, per
evitare decisioni difficili, molti di noi sono tentati di fare
propaganda in nome della coscienza e della genitorialità
responsabile. Si deve resistere alla tentazione, perché un
appello a coscienze che agiscano senza restrizioni porta
alla scomparsa di ogni coscienza nel lungo periodo, e ad
uno stato accresciuto di angoscia nel breve periodo.
L’unico modo in cui possiamo preservare e coltivare altre e
più preziose forme di libertà è quello di rinunciare alla
libertà riproduttiva, e alla svelta. “La libertà è il
riconoscimento della necessità” – ed è compito
dell’educazione rivelare a tutti la necessità di abbandonare
la libertà di procreare. Solo così possiamo mettere fine a
questo aspetto della tragedia dei beni comuni.
Note
1. J.B. Wiesner e H.F. York, National Security and the Nuclear-Test
Ban, Scientific American 211 (n.4), Ottobre 1964, pp. 27-35.
2. Cfr. G. Hardin, Interstellar Migration and the Population
Problem, Journal of Heredity 50 (n.2), 1959, pp. 68-70; S. von
Hoerner, The General Limits of Space Travel: We may never visit
our neighbors in space, but we should start listening and talking
to them, Science 137, Luglio 1962, pp. 18-23.
3. Cfr. J. von Neumann e O. Morgenstern, Theory of Games and
Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton (N.J.)
1947, p. 11.
4. Cfr. J.H. Fremlin, How many people can the world support?,
New Scientist 415, Ottobre 1964, pp. 285-287.
5. Cfr. A. Smith, The Wealth of Nations, Modern Library, New York
1937, p. 423 [tr. it. La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino
2006].
6. Cfr. W.F. Lloyd, Two Lectures on the Checks to Population,
Oxford
University
Press,
Oxford
1833,
parzialmente
ripubblicato in G. Hardin (a cura di), Population, Evolution, and
Birth Control; a collage of controversial readings, Freeman, San
Francisco 1964, p. 37.
383
7. A.N. Whitehead, Science and the Modern World, Mentor, New
York 1948, p. 17 [tr. it. La scienza e il mondo moderno, Bollati
Boringhieri, Torino 1979].
8. Cfr. G. Hardin, Denial and the Gift of History, in G. Hardin (a
cura di), Population, Evolution, and Birth Control, cit., p. 56.
9. Cfr. S. McVay, The last of the great whales, Scientific American
215 (n.2), Agosto 1966, pp. 13-21.
10. Cfr. J. Fletcher, Situation Ethics: The New Morality, Westminster
John Knox Press, Philadelphia 1966 [tr. it. Etica della
situazione. La nuova morale, Cuecm edizioni, Catania 2004].
11. Cfr. D. Lack, The Natural Regulation of Animal Numbers,
Clarendon Press, Oxford 1954.
12. Cfr. H. Girvetz, From wealth to welfare: the evolution of
liberalism, Stanford University Press, Stanford (Calif.) 1950.
13. Cfr. G. Hardin, A second sermon on the mount, Perspectives in
Biology and Medicine 6 (n.3), 1963, pp. 366-371.
14. U Thant, International Planned Parenthood News, n.168,
Febbraio 1968, p. 3.
15. K. Davis, Population policy: will current programs succeed?
Grounds for skepticism concerning the demographic effectiveness
of family planning are considered, Science 158, Novembre 1967,
pp. 730-739.
16. C.G. Darwin, Can man control his numbers?, in S. Tax (a cura
di), Evolution after Darwin, vol.2, University of Chicago Press,
Chicago 1960, p. 469.
17. Cfr. G. Bateson, D.D. Jackson, J. Haley e J.H. Weakland,
Toward a theory of schizophrenia, Behavioral Science 1 (n.4),
1956, pp. 251-264 [tr. it., Verso una teoria della schizofrenia, in
G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano
1988, pp. 244-274].
18. P. Goodman, Reflections on Racism, Spite, Guilt, and Violence,
The New York Review of Books 10 (n.10), 23 Maggio 1968, p.
22.
19. Cfr. A. Comfort, The anxiety makers: some curious
preoccupations of the medical profession, Nelson, Londra 1967.
20. C. Frankel, The Case for Modern Man, Harper, New York 1955,
p. 203.
21. K. Davis, Sociological Aspect of Genetic Control, in J.D.
Roslansky (a cura di), Genetics and the Future of Man; a
Discussion, Appleton-Century-Crofts, New York 1966, p. 177.
384
2) H. Demsetz, Verso una teoria dei diritti di
proprietà, in E. Colombato (a cura di), Tutti
proprietari. La nuova scuola dei property
rights, Le Monnier 1980, pagg. 61-81
[…]
L’EMERGERE DEI DIRITTI DI PROPRIETA’
385
*In un ordinamento di common law, i tribunali sono tenuti a giudicare una lite
in conformità alle precedenti sentenze (precedents) riguardanti i casi di natura
uguale o affine. Il tessuto normativo di tale ordinamento è pertanto formato
dalle regole sottostanti ai precedenti giurisprudenziali (N.d.C.).
386
* Il «territorio di caccia» dei Montagnes e il commercio delle pelli (N.d.C.).
3 E. Leacock, The Montagnes «Hunting Territory» and the Fur Trade, in
«American Anthropologist», LVI, n.5, parte II.
4 Cfr. F. G. Speck, The Basis of American Indian Ownership of Land, in «Old
Penn Weekly Review», 16 gennaio 1915m pp. 491-495.
387
affermata. Un indiano affamato poteva uccidere e mangiare il
castoro di un altro, purchè lasciasse la pelle e la coda 5.
388
Il passo successivo verso i territori di caccia fu
probabilmente un sistema di assegnazioni stagionali. Un
resoconto anonimo scritto nel 1723 afferma che
Il sistema degli indiani era di delimitare il territorio di caccia da loro
scelto incidendo sugli alberi le proprie insegne in modo tale da evitare
violazioni territoriali non intenzionali. Alla metà del secolo queste
ripartizioni territoriali erano relativamente stabilizzate 6.
5 E. Leacock, op. cit., p. 15.
6 Ibidem.
389
383
7 La tesi non è in contrasto con lo sviluppo di altri tipi di diritti privati. Fra i
popoli nomadi primitivi i costi di controllo della proprietà sono relativamente
bassi per gli oggetti facilmente trasportabili. Una famiglia puà sorvegliare la
sua proprietà durante lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Se tali
oggetti sono anche molto utili, i diritti di proprietà appariranno con frequenza,
in modo tale da internalizzare i costi e i benefici del loro uso. È generalmente
390
COMPROPRIETÀ E TITOLARITÀ DEI DIRITTI
Ho affermato che i diritti di proprietà sorgono quando
diventa economico, per chi subisce le esternalità,
internalizzare i costi e i benefici. Ma non ho ancora
esaminato le forze che regolano le partico ari forme di
titolarità del diritto. In primo luogo devono essere distinte
diverse forme di titolarità: titolarità collettiva, titolarità
privata e titolarità pubblica.
Per titolarità collettiva intendo un diritto che può essere
esercitato
da tutti i membri di una comunità. Il diritto di
1
cacciare su un determinato territorio e quello di lavorare la
terra sono stati spesso posseduti collettivamente. Il diritto
di camminare su un marciapiede urbano è anch'esso
posseduto dalla comunità. Titolarità collettiva significa che
la comunità nega allo Stato e ai singoli cittadini il diritto di
interferire nell'esercizio dei diritti di cui i membri della
collettività sono titolari. Titolarità privata significa quindi
che la comunità riconosce al titolare il diritto di escludere
altri dall'esercizio dei suoi diritti. Titolarità pubblica
significa che lo Stato può escludere altri dall'esercizio dei
suoi diritti. Titolarità pubblica significa inoltre che lo Stato
può escludere chiunque dal godimento di un diritto nella
misura in cui lo Stato discrimina secondo procedure
politiche riconosciute. L'oggetto dell'analisi che segue è
quello di individuare alcuni dei principi generali che
regolano lo sviluppo dei diritti di proprietà in una comunità
vero che fra le comunità più primitive gli utensili e le armi, come le terraglie,
sono considerati di proprietà privata. Questi beni sono facilmente trasportabili
e richiedono investimenti di tempo per essere prodotti. Per quanto riguarda i
popoli dediti all’agricoltura, la loro sedentarietà diminuisce l’importanza della
trasportabilità nell’ambito della determinazione dei diritti di proprietà. La
distinzione appare con maggiore chiarezza se si confronta la proprietà della
terra nelle società più primitive – dove la rotazione delle colture e le semplici
tecniche di fertilizzazione sono sconosciute o dove le terre occupate sono poco
fertili – con la proprietà terriera dei popoli primitivi più avanzati nell’ambito di
questi problemi, oppure stabilitisi in territori estremamente più fertili. Dopo
essersi inserite in un territorio, le società più primitive sono costrette ad
abbandonarlo o a lasciarlo incolto, per un certo numero di anni, al fine di
recuperarlo alla produttività. I diritti di proprietà terriera fra questi popoli
richiederanno alti costi di controllo per gli anni durante i quali l’attività sarà
interrotta. Poiché questi popoli dovranno spostarsi su nuove terre per poter
ottenere sostentamento, per essi un diritto di proprietà avrà valore solo se
associato ad un oggetto trasferibile: fra questi popoli infatti si osservano spesso
diritti di proprietà su prodotti agricoli o facilmente trasportabili, ma non sulla
terra. Le società primitive agricole più avanzate sono capaci di rimanere su un
particolare territorio per periodi di tempo maggiori; qui generalmente esistono
diritti di proprietà sulla terra, oltre che sul raccolto.
391
orientata verso la proprietà privata; pertanto trascureremo
molti aspetti relativi alla proprietà pubblica.
Inizieremo con un esempio particolarmente utile
nell'ambito della proprietà terriera. Supponiamo che la
terra sia posseduta collettivamente. Ogni persona ha il
diritto di cacciare, lavorare o estrarre minerali. Secondo
questa forma di titolarità l'individuo non è responsabile ei
costi associati al suo utilizzo del diritto collettivo. Se una
persona ambisce a massimizzare il valore dei propri diritti
collettivi, essa tenderà a cacciare o a lavorare la terra in
misura eccessiva, perché alcuni dei costi di tale
comportamento ricadranno su altri. Ma in tal modo la
selvaggina e la ricchezza del suolo diminuiranno troppo
rapidamente.
I titolari di questi diritti, cioè tutti i membri della comunità,
giungeranno probabilmente a un accordo per abbassare
l'intensità di sfruttamento delle terre se i costi di
negoziazione e di controllo sono nulli: è possibile
accordarsi al fine di limitare i diritti di ognuno. È ovvio,
però, che i costi per raggiungere un tale accordo non
saranno nulli; non è altrettanto ovvio, invece, l'ammontare
di questi costi.
I costi di negoziazione saranno ingenti poiché è difficile
raggiungere un accordo soddisfacente, specialmente
quando chi non partecipa alla negoziazione ritiene proprio
diritto sfruttare la terra con l'intensità che desidera.
Tuttavia, anche se un accordo può essere raggiunto,
dobbiamo ancora tener conto dei costi necessari per
controllare che l'accordo sia rispettato, e anche questi
possono essere ingenti. Dopo che un tale accordo sarà
raggiunto, nessuno possiederà il diritto di sfruttare la terra
a piacere; tutti potranno trarne profitto, ma in misura
minore. I costi di negoziazione aumentano poi
ulteriormente se consideriamo che, secondo questo
sistema, non possiamo valutare efficacemente anche tutti i
benefici e i costi attesi dalle generazioni future.
Un possessore di terra tenterà di massimizzare il valore
attuale della stessa attraverso l'analisi dei flussi futuri
alternativi di costi e benefici e sceglierà quello che egli
crede massimizzi il valore attuale dei diritti terrieri di cui è
titolare. Tenterà quindi di tener conto delle possibili
condizioni di domanda e offerta esistenti dopo la sua
morte. È molto difficile immaginare come sia possibile
392
raggiungere nell'ambito di una titolarità collettiva un
accordo che tenga conto anche di questi costi.
In effetti, il titolare di un diritto privato sulla terra si
comporta come un mediatore, la cui ricchezza dipende
dalla sua abilità nel tener conto delle esigenze presenti e
future in contrasto fra loro. Nell’ambito dei diritti collettivi,
invece, non c'è alcun mediatore e le esigenze della
generazione attuale riceveranno un peso troppo elevato
nelle decisioni sull'intensità con la quale la terra dev'essere
sfruttata. Le generazioni future potrebbero essere disposte
a pagare quelle attuali in misura sufficiente per diminuire
lo sfruttamento attuale. Esse non hanno però alcun agente
vivente per difendere le loro esigenze. In un sistema a
titolarità collettiva un individuo che pagasse gli altri
membri della collettività per limitare lo sfruttamento della
terra non raggiungerebbe risultati paragonabili agli sforzi
compiuti. Titolarità collettiva significa che le generazioni
future devono farsi esse stesse portavoce dei propri diritti e
dei propri interessi. Nessuno ha stimato i costi di tale
necessità.
L'esempio della proprietà terriera ci pone immediatamente
a confronto con un grosso svantaggio della titolarità
collettiva: le conseguenze dell'attività di una persona sui
suoi vicini e sulle generazioni successive non saranno
valutate debitamente. La titolarità collettiva si risolve
quindi in notevoli esternalità. Chi usufruisce di diritti
collettivi non sarà considerato responsabile di tutti i costi
delle sue attività, né potrà accorgersene attraverso le
somme che gli altri saranno disposti a corrispondergli. La
titolarità collettiva esclude un sistema del tipo «paga-per­
l'uso-del-diritto», mentre gli alti costi di negoziazione e di
controllo rendono inefficace un sistema del tipo «pagalo­
per-farlo-rinunciare-al-diritto».
Lo Stato, i tribunali o i capi della comunità possono tentare
di internalizzare i costi esterni causati dalla proprietà
collettiva concedendo lotti di terreno a piccoli gruppi di
persone con interessi simili. I soggetti sociali più vicini al
concetto di interessi simili sono ovviamente la famiglia e
l'individuo. Ora supponiamo di distribuire i diritti privati
sulla terra casualmente e, in un secondo tempo,
ipotizziamo che la quantità di terra associata a ogni diritto
sia determinata anch'essa casualmente.
393
Lo schema di proprietà privata che ne risulta internalizzerà
molti dei costi esterni associati con la proprietà collettiva
poiché un proprietario, in virtù del proprio potere di
escludere gli altri, potrà generalmente trarre vantaggio dai
benefici associati alla protezione della selvaggina e
all'incremento della fertilità della propria terra. Questa
concentrazione di costi e benefici sul proprietario crea gli
incentivi necessari ai fini di un utilizzo più razionale delle
risorse.
Dobbiamo tuttavia tenere ancora conto di esternalità. Nel
sistema
a
proprietà
collettiva,
il
processo
di
massimizzazione del valore dei diritti di proprietà avrà
luogo indipendentemente da gran parte dei costi, perché il
titolare di un diritto collettivo non può escludere gli altri
dai frutti dei suoi sforzi e perché i costi di negoziazione
sono troppo alti affinché tutti possano concordare un
comportamento ottimale. Lo sviluppo della proprietà
privata permette al proprietario di economizzare nell'uso
delle risorse dalle quali ha il potere di escludere gli altri: è
un sistema di internalizzazione molto efficace. Ma il titolare
di diritti privati su un lotto non ha diritti su un altro lotto
soggetto alla medesima normativa. Dal momento che non
può escludere gli altri dal godimento dei loro diritti, egli
non avrà alcun incentivo diretto (in assenza di
negoziazione) a disciplinare l'uso della propria terra in
modo da tener conto degli effetti prodotti sugli
appezzamenti altrui. Se egli costruisce una diga nel proprio
territorio, non c'è motivo che lo stimoli a tenere conto
dell'abbassa­ mento del livello dell'acqua causato nel
territorio dei vicini.
Questo è esattamente lo stesso tipo di esternalità che
abbiamo incontrato a proposito dei diritti collettivi di
proprietà, a parte la gravità del danno causato, che in
questo caso è inferiore. Mentre nel sistema a proprietà
collettiva nessuno era incentivato alla conservazione delle
risorse idriche, ora i proprietari privati possono facilmente
valutare i costi e i benefici per la loro terra associati a una
tale politica. Gli effetti sulla terra di altri, però non saranno
presi direttamente in considerazione.
La concentrazione parziale di costi e benefici connessa alla
proprietà privata è solo una parte dei vantaggi offerti da
questo sistema. Abbiamo trascurato l'altra parte, che è
forse più importante: il costo di negoziare le esternalità
394
rimanenti sarà notevolmente ridotto. I diritti di proprietà
collettiva rendono la terra disponibile a tutti. In questo
sistema è quindi necessario che tutti raggiungano un
accordo sull'uso della terra. Le esternalità presenti in un
sistema di proprietà privata, invece, non producono effetti
su tutti i proprietari e generalmente un accordo fra poche
persone sarà sufficiente. Il costo di internalizzare questi
effetti è perciò considerevolmente ridotto. È un punto che
merita un ulteriore approfondimento.
Supponiamo che il titolare di un diritto collettivo sulla
terra, mentre ara un appezzamento di terreno, noti un
altro titolare dello stesso diritto intento a costruire una
diga nel lotto adiacente. Il coltivatore preferisce che il corso
dell'acqua rimanga inalterato, perciò richiede all'altro di
interrompere la costruzione. Il costruttore dirà:
«pagami affinché mi fermi». Il coltivatore replicherà:
«ti pagherei volentieri, ma quali garanzie mi offri?». Il
costruttore risponderà: «posso garantirti che io non
costruirò la diga, ma non posso offrirti garanzie per quanto
riguarda gli altri costruttori poiché si tratta di proprietà
collettiva; non ho alcun diritto di impedire agli altri di
costruire». Quella che in un sistema di proprietà privata
sarebbe una semplice contrattazione fra due persone
diventa, perciò, una negoziazione piuttosto complessa fra
l'agricoltore e tutti gli altri. Ritengo sia questo il motivo
principale che ci dovrebbe indurre a preferire la proprietà
del singolo alla proprietà della collettività: un incremento
nel numero dei titolari del diritto è un incremento nel
grado di collettività della proprietà e ciò, in genere,
comporta un incremento nei costi di internalizzazione.
La riduzione dei costi di negoziazione associata al diritto
(privato) di escludere gli altri permette l'internalizzazione
della maggior parte delle esternalità a costi piuttosto bassi.
Quelle non internalizzate sono legate alle esternalità che
coinvolgono molti individui. La fuliggine colpisce molti
proprietari di abitazioni, nessuno dei quali è disposto a
pagare sufficientemente i proprietari della fabbrica per
indurii a ridurne l'emissione. L'insieme dei proprietari di
abitazioni potrebbe anche essere disposto a pagare una
somma sufficiente, ma i costi per coalizzarsi potrebbero
essere troppo alti per incoraggiare una seria trattativa di
mercato. Il problema della negoziazione è ancora più
complesso se il fumo non proviene da un solo stabilimento,
395
ma da una intera area industriale: in tali casi
l'internalizzazione degli effetti tramite meccanismi di
mercato può essere troppo costosa.
Nel nostro esempio sulla proprietà terriera, la superficie
disponibile è distribuita a proprietari scelti casualmente in
appezzamenti di dimensioni casuali. Questi proprietari
contratteranno fra loro per internalizzare ogni esternalità
residua. Essi avranno due possibilità di mercato: la prima
è semplicemente quella di tentare di concludere accordi fra
proprietari in modo da risolvere direttamente gli effetti
esterni in questione; la seconda è, per alcuni proprietari,
quella di comprare la terra degli altri, cambiando così le
dimensioni dei singoli lotti: la scelta dipenderà dai costi
delle due opzioni. Abbiamo qui un problema di dimensioni
ottimali di produzione. Se i lotti di terra presentano
rendimenti di scala costanti 384*, e se un solo contratto, che
può essere fatto rispettare facilmente, è in grado di
internalizzare le esternalità, allora una soluzione del
problema basato su un accordo contrattuale sarà circa
equivalente alla soluzione basata sull'acquisto diretto.
Quest'ultimo sarà tuttavia preferibile quando il numero
delle esternalità da risolvere è elevato o quando risulti
difficile far rispettare gli accordi contrattuali.
Maggiori saranno le diseconomie di scala, più frequente
sarà il ricorso ad accordi contrattuali volti a compensare
tali squilibri. I costi di negoziazione e di controllo saranno
raffrontati ai costi che dipendono dalla dimensione della
proprietà e i lotti tenderanno ad assumere le dimensioni
che minimizzeranno la somma di questi costi 8. 385
[…]
La tendenza duale della proprietà, di rimanere individuale
in forme e ammontare tali da minimizzare tutti i costi, è
chiaramente presente nel paradigma della proprietà
terriera. L’applicazione di questo paradigma è stata estesa
*Si hanno «rendimenti di scala costanti» quando l 'aumento
proporzionale dell'output è pari all'aumento proporzionale di tutti gli
inputs necessari in quell'attività. (N.d.C.).
8 Si confronti questo con l'analoga spiegazione fornita da R. H. Coase,
nell'ambito dell'impresa, in The Nature of the Firm, in «Eco­ nomica»,
nuova serie, 1937, pp. 386-405.
396
alla società per azioni; può però non essere ancora chiaro
fino a che punto questo paradigma è valido.
Consideriamo, ad esempio, il problema dei brevetti e dei
diritti d’autore. Se tutti possono far liberamente uso di una
nuova idea, se esistono cioè diritti collettivi sulle nuove
idee, verranno allora a mancare gli incentivi per sviluppare
tali idee. I benefici ottenibili da queste idee non saranno
appannaggio di chi le ha originate. Se concediamo invece
un qualche diritto di proprietà ai creatori di nuove idee,
queste verranno alla luce a un ritmo più elevato.
L’esistenza di diritti privati non significa però che i loro
effetti sulla proprietà degli altri saranno valutati
direttamente: una nuova idea ne rende obsolete alcune e
ne valorizza altre; questi effetti non verranno direttamente
presi in considerazione, ma possono essere portati
all’attenzione del creatore di nuove idee attraverso
negoziazioni di mercato. Tutti i problemi relativi a
esternalità sono molto simili a quelli menzionati
nell’esempio
della
proprietà
terriera:
le
variabili
fondamentali sono le stesse.
Quanto ho suggerito in questo saggio non vuole essere solo
un approccio ai problemi dei diritti di proprietà, ma anche
un modo differente di analizzare i problemi tradizionali.
Un’elaborazione di questo approccio potrà, spero, far luce
su un gran numero di problemi socio-economici.
397
Linee di tendenza
3) A. Gambaro, Ontologia dei beni e jus
excludendi, tratto dalla rivista giuridica
http://www.comparazionedirittocivile.it
1. Nella dimensione internazionale del diritto è invalso
l’uso di far confluire la molteplicità dei diritti sui beni
immateriali entro la categoria unitaria della “proprietà
intellettuale”, aderendo così alla concezione angloamericana per la quale la protezione del diritto d’autore
non si distingue concettualmente da ogni altro diritto
esclusivo in considerazione del fine comune che per tutti
consiste nella protezione della creazione intellettuale come
tale. Il superamento delle distinzione i vari diritti che
sono chiamati a comporre l’intellectual property risulta
consacrata dalla sistematica adottata dai più recenti
accordi internazionali in materia, conclusi in seno alle
Organizzazioni
internazionali
intergovernative
che
costituiscono i fori internazionali competenti nel settore:
l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale
(OMPI/WIPO) e l’Organizzazione mondiale del commercio
(OMC/WTO). L’espressione “proprietà intellettuale”, intesa
come comprensiva anche dei diritti tradizionalmente
definiti di proprietà industriale, è ad esempio codificata
all’art. 1, par. 2 dell’Accordo TRIPS (Accordo sugli aspetti
dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio),
concluso a Marrakesh il 15 aprile 1994 come parte
integrante (Allegato 1 C) dell’Accordo che ha istituito la
nuova Organizzazione mondiale del commercio 386 . Il
medesimo senso e portata riveste l’espressione “proprietà
intellettuale” utilizzata in tutti gli accordi internazionali
gestiti dall’Organizzazione mondiale della proprietà
In I.L.M., 1197. L’ordinamento italiano si è adattato all’accordo
istitutivo, e conseguentemente alle norme del TRIPs, con l. 29 dicembre
1994, n. 747, in G. U., Suppl. Ord., n. 7 del 10 gennaio 1995. Sui
successivi adeguamenti della legislazione interna italiana in materia di
proprietà industriale e diritto d’autore e diritti connessi, si rinvia alle
indicazioni fornite da UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su
Proprietà intellettuale e concorrenza, 4a ed., Padova, 2007, p. 8.
386
398
intellettuale 387. La dottrina internazional privatistica 388 che
è quella che rileva in materia, colloca la disciplina di questi
diritti nonostante la particolare qualità dei beni protetti, a
fianco di quella della proprietà e degli altri diritti reali sulle
cose, quale “proprietà immateriale” 389 in ragione
dell’assolutezza di tali diritti e del loro valore erga omnes,
che li contraddistingue dai diritti d’obbligazione, privi di
tale caratteristica.
E’ però altrettanto rilevante osservare come l’orientamento
che ha prevalso in sede internazionale contrasta con
l’impostazione tradizionale seguita dalla prevalente
dottrina civilistica italiana la quale non considerava che i
diritti reali, ossia i property rights, potessero avere ad
oggetto un bene immateriale 390 , o, per meglio dire,
escludeva che la disciplina dei diritti reali trovasse
applicazione in relazione ai diritti esclusivi garantiti dai
classici diritti sulle opere dell’ingegno avevano natura di
diritti di monopolio secondo le indicazioni risalenti al
Kohler, ed erano quindi meglio disciplinati in seno al diritto
della concorrenza e del mercato 391.
In sé quindi quella tendenza che oggi è prevalente a livello
internazionale, ma anche, come vedremo, almeno
superficialmente, a livello comunitario, altro non è che un
episodio di circolazione dei modelli giuridici. Si sa che
l’analisi della circolazione dei modelli è a sua volta un
capitolo della storia delle idee giuridiche colta sotto
l’aspetto dinamico che coinvolge lo studio dei diversi
formanti che concorrono a tale circolazione.
2. L’accostamento dei diritti di intellectual property alla
categoria dei diritti reali, negata dalla civilistica italiana
classica fa si che la categoria generale abbia ottriato quasi
387 Cfr. WIPO Intellectual Property Handbook: Policy, Law and Use,
WIPO
Publication
No.
489
(E),
consultabile
alla
pagina
http://www.wipo.int/export/sites/www/aboutip/en/iprm/pdf/ch2.pdf.
388 Sul punto rinvio a N. BOSCHIERO, Beni immateriali (diritto
internazionale), in Enc. dir. Annali, vol. II.
389 È questa l’espressione utilizzata da BALLADORE PALLIERI, Diritto
internazionale privato italiano, Milano, 1974, p. 254.
390 Cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, 9 a
ed., rist. Napoli, 2002, p. 80.
391 Cfr. R. FRANCESCHELLI, Diritto industriale, in Cinquanta anni di
esperienza giuridica in Italia, Milano, 1982, p. 184, in riferimento
precipuo all’insegnamento di Ascarelli.
399
insensibilmente alla disciplina dei diritti sui beni
immateriali il carattere dell’esclusività, il quale diviene
pertanto il tratto essenziale della disciplina relativa 392.
In effetti il jus excludendi è stato a lungo quasi
unanimemente considerato l’elemento tipico indefettibile
che connota l’assetto della proprietà privata ponendolo
accanto al non incompatibile aspetto del godimento diretto
del bene, senza il quale non sarebbe corretto parlare di
diritto di proprietà. Nel caso della IP, tuttavia la evidente
labilità dell’aspetto relativo al godimento diretto fa sì che
l’esclusività assurga a tratto unico identificativo della
posizione proprietaria, tenuto conto della priorità logica del
jus excludendi rispetto alla possibilità di selezionare coloro
che possono acquistare un diritto di accesso alla risorsa
detenuta in esclusiva.
Nelle esperienze giuridiche di common law, che hanno
assunto, in materia, il ruolo pilota cui si faceva cenno, è
impossibile non collegare la proprietà con il jus excludendi
in memoria della celeberrima frase di Blackstone posta
nella prefazione del secondo libro dei suoi Commentaries on
the laws of England, ove si presentano ai lettori gli jura
rerum e si ricorda che essi sono: “what the writers on
natural law stile as the right of dominion or property” ed
aggiunge che “there is nothing which so generally strikes
the imagination, and engages the affections of mankind, as
the right of property; or that sole and despotic dominion
which one man claims and exercises over the external
things of world in total exclusion of the right of any other
individual in the universe.”.
Benché probabilmente si tratti di una delle frasi più
fraintese dell’intera storia del diritto, tuttavia la sua
celebrità ne assicura la trasposizione a livello di mentalità
giuridica. Una delle definizioni di property più popolari tra
quelle che si possono incontrare nella letteratura
americana dice: “ that is property to which the following
label can be attached: to the world keep off unless you
have my permission, signed: the private citizen, endorsed:
E’ infatti asserzione comunissima quella second cui: Generally
speaking, a IP gives its owner the right to exclude others from making
using selling, offering to sell, or importing the invention during the
term of the patent.
392
400
the State” 393.
Tuttavia una trasposizione di concetti giuridici affidata alla
libera associazione di idee non sembra testimoniare una
sufficiente tematizzazione del problema con particolare
riferimento al fatto che gli oggetti della IP sono
ontologicamente diversi rispetto ai beni corporali cui si è
fatto tradizionalmente riferimento nei discorsi riferiti alla
property. Non è infatti sicuro che sia indifferente che un
ordinamento regoli la distribuzione delle utilità che
fluiscono naturalmente dalle cose o regoli la creazione delle
cose in sé, perché nel primo caso coesistono
necessariamente situazioni di appartenenza di fatto e
situazioni di appartenenza di diritto, mentre nel secondo le
situazioni di fatto hanno una diversa rilevanze ed una
diversa struttura; nel primo caso la durata dell’utilità in sé
è impregiudicata dal diritto, mentre nel secondo è
determinata da esso.
Non sarebbe convincente l’osservazione che tale
trasposizione è innocua perché la parola property ha perso
un significato preciso e quindi si tratta di volta in volta di
verificare quale fascio di diritti, facoltà, privilegi ed
immunità è assegnato dall’ordinamento. Perché quella
dello scientific policy maker 394 , non è la mentalità
dominante a livello globale e rappresenta anzi, un formante
tra i più minuscoli; e perché, inoltre, in riferimento alla
garanzia costituzionale della proprietà, la parabola
discendente della cosiddetta new property indica bene in
riferimento alla esperienza americana, come non sia
possibile garantire la stabilità dei diritti all’infuori degli jura
in rem; mentre per quanto concerne l’Europa, basti
ricordare che la carta dei diritti fondamentali dell’U.E.
prevede all’art. 17 sotto la rubrica Right to property, che: 1.
Everyone has the right to own, use, dispose of and
bequeath his or her lawfully acquired possessions. No one
may be deprived of his or her possessions, except in the
public interest and in the cases and under the conditions
provided for by law, subject to fair compensation being
Cfr. F. COHEN, Dialogue on Private Property, in 9 Rutgers L. Rev.,
357, 374 ( 1954).
394 Il riferimento è a B. AKERMANN, Private Property and the
Constitution, Yale, 1977, ove appunto si contrappone la visione
dematerializzata dello scientific policy maker a quella fiscalista
dell’ordinary observer.
393
401
paid in good time for their loss. The use of property may be
regulated by law insofar as is necessary for the general
interest. 2. Intellectual property shall be protected.” Ove le
differenze anche stilistiche e lessicali tra il primo ed il
secondo comma impongono una evidente diversità di
prospettiva.
Del resto confondere proprietà con titolarità non è mai
stato
un
buon
criterio
per
condurre
analisi
intellettualmente sofisticate ed in quanto alla prassi di
chiamare proprietà la titolarità di dirtti specifici che, in
quanto tali, hanno nomi propri, è da rilevare come si tratti
di una ridondanza facilmente eliminabile con il rasoio di
Okkam.
La non sufficiente chiarificazione teorica si nota
osservando come in letteratura pur non difettando
argomentazioni impostate sulla base della logica
economica, le quali si fondano sulla necessità di protezione
degli investimenti, la trattazione del problema della IP
appare confinata in due approcci dominanti.
Il primo certamente il più corposo adotta lo standard del
diritto positivo e quindi si limita alla presa d’atto delle
normative vigenti e delle decisioni giurisprudenziali più
significative Ovviamente in tal modo si compongono scritti
assai utili, ma sarebbe esagerato dire che essi offrono un
contributo teorico adeguato, tanto più che molto spesso
difetta la consapevolezza della circolazione di modelli
sottostante alle discipline commentate, di cui viene
trascurata l’origine di common law. In realtà seguendo
questo approccio si termina presto nel golfo in cui la tutela
dell’IP è posta a confronto con le regole anti trust e ci si
imbatte in sottili bilanciamenti di interessi patrocinati dalla
giurisprudenza comunitaria 395 ove però è evidente che il
tasso di discrezionalità del decisore è elevato e che per
In tema sono di grande interesse i cosiddetti MaGill cases
(Judgment of the Court of 6 April 1995: Radio Telefis Eireann (RTE)
and Independent Television Publications Ltd (ITP) v Commission of the
European Communities. (Joined cases C-241/91 P and C-242/91 P.)
European Court reports 1995 Page I-0074; anche se la decisione più
rilevante è: Court of Justice of 29 April 2004: IMS Health GmbH & Co.
OHG vs. NDC Health GmbH & Co. KG$ C-418/01 - European Court
reports 2004 Page I-05039; cui fa seguito la celebrata decisione del
Tribunale di primo grado in Case T-201/04, Microsoft Corp. Vs.
Commission of the European Communities. Sul punto cfr. infra sub §
12.
395
402
conseguenza diviene ancora più evidente il bisogno di un
adeguato apporto teorico.
Il secondo approccio utilizza un vago storicismo per
richiamare una disciplina il più possibile coerente con le
grandi idee forza della tradizione giuridica occidentale. E
da qui nasce l’inquadramento dei diritti sui beni
immateriali tra i property rights.
A dire il vero in questo secondo caso rimane problematica
proprio la ragione di una trasposizione nel mondo
dell’immateriale di una sistematica giuridica formatasi
nell’ambito delle cose materiali e ciò suggerisce che
l’oscurità del passaggio dipenda da una insufficiente
tematizzazione del problema dell’appartenenza.
Per offrire un primo tentativo di tematizzazione seguirò
anch’io due linee di approccio al tema.
La prima tende a porre in luce i diversi sostrati di
civilizzazione
materiale
in
cui
il
problema
dell’appropriazione e dell’esclusione si è posto.
La seconda tende a porre in luce gli aspetti specifici della
costruzione giuridica dell’istituto proprietario, tenendo
presente al riguardo come tali costruzioni formali, non solo
variano da una tradizione giuridica all’altra, ma sono
anche frammentate al loro interno a cagione della
ibridazione che è intervenuta tra la componente tecnico
giuridica e le sub tradizioni di filosofia morale, come è
indicato assai bene dal lessico delle carte costituzionali. 396
3. Il problema dell’appartenenza risale in nuce a situazioni
esistenti prima della comparsa dell’uomo, tuttavia proprio
perché esiste da sempre esso è stato risolto da tempo
assegnando il titolo necessario al primo occupante un certo
territorio, o a colui, o coloro, che lo occupavano scacciando
definitivamente i precedenti abitanti. Risolto questo
problema, in una economia di caccia e raccolta residuano
questioni che in riferimento all’appartenenza sono
marginali. Infatti la divisione della preda, o del frutto è una
questione che attiene alla organizzazione interna del
gruppo 397 il quale funge da soggetto giuridico che attua
l’appropriazione legittima. Qualche anno fa Herold
396 Sul punto rinvio a CANDIAN, GAMBARO, POZZO, Property,
propriété, eigentum, Padova 1992, passim.
397 Cfr. R. SACCO, Antropologia giuridica, Bologna, 2007, p. 263
403
Demsetz 398 in un saggio molto influente, prendendo spunto
dalle consuetudini dei native americani nel Labrador e nel
Montana ha rintracciato le origini della proprietà nella
forma della riserva di caccia. Bisogna allora aggiungere
non solo che la caccia in riserva da origine a forme di
appartenenza in cui l’esclusività è relativa solo ad alcune
selezionate utilità, ma è necessariamente attività di gruppo
e non di individui isolati e da ciò la relativa inimportanza
dei problemi proprietari rispetto a quelli di partecipazione
al gruppo. Come ci informano gli studiosi di antropologia
che hanno analizzato il diritto consuetudinario africano,
per gli individui ciò che è vitalmente rilevante diviene: la
posizione all’interno del gruppo che controlla il diritto di
accedere alla riserva; il diritto di appropriarsi di certe
utilità; la partecipazione alle decisioni relative alle regole
d’uso delle risorse del territorio; il diritto di trasmettere le
proprie prerogative. 399
Se usiamo con un minimo di consapevolezza le categorie
giuridiche dobbiamo dire che per molti millenni i problemi
seri dell’umanità non sono stati problemi di tipo
proprietario, ma problemi attinenti alla organizzazione del
gruppo. Oggi si direbbe problemi di governance. Tuttavia
prendere sul serio le categorie giuridiche non è
atteggiamento comune. Nel corso del XX secolo il problema
del confronto tra economie socialiste ed economie
capitalistiche è stato discusso come un problema
proprietario, anzi, come il massimo problema proprietario,
anche se i mezzi di produzione erano in entrambi i casi
affidati ad enti collettivi e quindi il confronto sensato
avrebbe dovuto riguardare le strutture di governance degli
enti proprietari e non la proprietà. Codesto aspetto è
destinato a perdurare. Per ogni dove la proprietà, più che
individuale sarà della famiglia, del clan, del gruppo
organizzato. La proprietà individuale troverà piuttosto largo
spazio nelle astrazioni, nei paradigmi mediante i quali si
cercherà di dar conto della multiforme realtà delle
appartenenze, divenendo qualcosa si concreto solo in tempi
a noi molto più vicini; ma nel frattempo saranno passati
millenni di economia agricola.
398 See H. DEMSETZ , 1967, Toward a Theory of Property Rights, in
American Economic Review, pp. 347-359
399 Etienne LE ROY, 2007 L’apport des chercheurs du LAJP à la
gestion patrimoniale in http://www.acaj.org/leroy/texte1.htm
404
Il contesto della civiltà materiale muta infatti radicalmente
nelle società agricole, intendendo per tali le società che
praticano la coltivazione di piante come il frumento in
medio oriente, il riso nell’Asia centrale, il mais in America
centrale 400. non solo perché l’appartenenza si manifesta in
forma di proprietà tendenzialmente esclusiva e non di
riserva di alcune utilità selezionate, ma perché è la stessa
sopravvivenza della struttura sociale che dipende dal
riconoscimento della situazione di appartenenza. Il ciclo
agrario infatti impone che colui che ha predisposto il
fondo, provveduto alla semina ed alla irrigazione, etc. sia il
medesimo soggetto che si appropria del raccolto, mentre
durante tale ciclo tutti gli altri debbono essere esclusi, nel
senso tipicamente fisico che ad essi è vietato attraversare i
confini del fondo salvo ben calibrate eccezioni 401 . Ciò
equivale a dire che la scelta a favore dell’ attività agricola è
eguale alla scelta a favore di forme di appartenenza
tendenzialmente esclusive sui fondi agricoli; ma è proprio
l’inevitabilità di tale soluzione che da adito al problema di
decidere se il raccolto spetti a colui che ha materialmente
coltivato il fondo, o a colui che ha un titolo giuridico su di
esso.
La seconda soluzione tuttavia si imponeva a causa del
bagaglio culturale con cui nel medio oriente si era
pervenuti, verso l’8.500 a.c. alla fondazione di società
agricole. Quelle popolazioni infatti conoscevano già da
tempo tecniche di sacralizzazione del territorio 402 derivate
molto probabilmente da evoluzioni della procedura
sciamanica del tabù 403. Un tabù che era pericoloso violare
come insegna l’episodio di Remo. L’esclusione per virtù di
400 Nella cultura natufiana (14.000- 111.00a.c.) era praticato lo
sfruttamento di piante selvatiche come fonte di nutrimento; il
passaggio ad una economia interamente agricola naturalmente non fu
rapido, ma si verificò in modo graduale nel corso di millenni. Cfr.
CAVALLI-SFORZA, MENOZZI, PIAZZA, Storia e geografia dei geni
umani, Milano, 1997, p. 403.
401 Ragion per cui le società agricole non possono convivere con società
che praticano l’economia di caccia e raccolta, cfr. Cavalli Sforza et alt. ;
J. DIAMOND, Armi acciaio e malattie, trad.it. Torino, 1998, p.84 (orig.
Guns.Germs, and Steel. The fates of Human Societies, N.York, 1997).
402 Cfr. BOTTÉRO et. S. Noah Kramer, Lorsque les dieux faisaint
l’homme. Mithologie mèsopotamienne, Paris, 1989, p. 80, ove si
chiarisce la funzione esplicativa e non religiosa della mitologia.
403 Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, trad.it. Milano, 2003,
originale: Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions,
Harvard Univ. press, 1996, p. 93
405
magia, non poteva condurre ad altro che alla assegnazione
del diritto di escludere per via di cerimonia rituale di
assegnazione del titolo.
Ma a quel punto diveniva quanto meno ambiguo se si
possedesse il titolo o la terra, ed era solo il carattere
eminentemente rivale dell’uso agricolo del suolo a garantire
che il jus excludendi era comunque associato alla
appartenenza.
4. L’Europa, terra d’origine della tradizione giuridica
occidentale, è stata da Carlo Magno sino al XIX-XX secolo
un immenso paese agricolo ad agricoltura intensiva. La
terra, bene immobile per eccellenza è stata per secoli il
bene economicamente e socialmente più importante. I beni
mobili erano considerati secondari. Conviene quindi
osservare come il legame tra la terra e le utilità che essa
produce è pur sempre un legame identificativo di un diritto
nello spazio geografico. Nell’Europa della civiltà medioevale
il guado, la parrocchia, il feudo munito di privilegio di
bassa giustizia, sono sempre identificati attraverso un
toponimo.
Però questa ottica poteva avere due svolgimenti diversi a
seconda che si considerasse la terra come un fondo
potenzialmente fruttifero oppure la si considerasse come
un territorio le cui utilità erano mediate dalle attività
umane dei suoi abitanti. L’ordine feudale era tutto
orientato in questo secondo senso ed invitava a pensare
che la parte più significativa della signoria era costituita
del diritto di esigere pedaggi, di amministrare la giustizia,
di imporre il rispetto di monopoli. Ora, questi diritti riferiti
al territorio erano tutti beni immateriali sicché si coglie la
ragione per cui quando nei sistemi di common law la
signoria divenne proprietà, quest’ultima fu concepita come
un fascio di diritti, poteri, facoltà, privilegi.
Poiché però era la proprietà immobiliare la parte più
rilevante dell’assetto proprietario anche le proprietà
mobiliari si potevano orientare il senso immateriale. La
proprietà degli uffici ne è stato un esempio, ma in tempi
più moderni nei sistemi di common law anche il diritto di
autore ed i diritti di monopolio concessi al titolare di un
brevetto di invenzione industriale, così come l’avviamento
commerciale (goodwill) vennero arruolati tra gli oggetti di
proprietà.
406
In direzione opposta si poteva muovere dall’idea per cui la
tutela erga omnes garantita dalla proprietà si collega e
discende a quell’altra per cui il dominium non può che
essere approccio e confronto tra l’uomo ed il cosmo 404 e
quindi l’aspetto caratterizzante della categoria si rinviene
in un diritto di utilizzare e disporre direttamente di una res
corporalis, senza badare troppo alla struttura di governo
del territorio.
In questa seconda direzione la fisicalità della terra e dei
suoi frutti naturali veniva posta al centro della scena. Non
però senza dare origine ad un sistema molto complesso,
perché in non poche circostanze le forme di godimento
della terra erano più d’una e spettanti a soggetti diversi
sicché si ammetteva la pluralità dei domina i quali erano
spesso dominia juris aventi quindi per oggetto una entità
incorporale, collegata solo spazialmente al fondo e proprio
tale collegamento dotava i dominia del carattere di jus in
rem, redendoli quindi assolutamente non confondibili con
gli jura in personam.
Nel jus comune europeum queste idee convivono
contribuendo ad una visione realistica per cui i godimenti
prolungati e stabili delle utilità di un fondo si debbono
considerare pars dominii, con ciò rendendo assai ampia la
categoria dei dominia che assieme alle servitutes
diverranno i diritti reali 405. In definitiva, si deve riconoscere
che nell’Europa agricola, l’atteggiamento dell’uomo rispetto
alle cose poteva essere pensato talvolta in funzione delle
utilità collegate ai diritti di utilizzazione della terra, diritti
che sono ontologicamente beni immateriali e talaltra in
funzione del fondo stesso che nella dimensione proprietaria
è la quintessenza delle res corporales. E codesta
ambivalenza poteva essere sciolta solo dalla riflessione
giuridica, non essendo nessuna altra branca del sapere
umano interessata ad essa.
5. Le società espansive debbono però affrontare l’ulteriore
problema delle terre vacanti, ossia quelle sottratte con la
forza ad altre popolazioni. Sia la società greca che quella
Cfr. P. GROSSI, Domina e Servitutes – Invenzioni sistematiche del
diritto comune in tema di servitù, in 18 Quad. Fiorentini per la storia
del pensiero giuridico moderno, 1989, p. 364
405 Cfr. P. GROSSI, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica
medioevale – Corso di Storia del diritto, Padova, 1968.
404
407
romana che quelle europee a partire dall’epoca delle
“grandi scoperte geografiche” hanno dovuto affrontare il
problema della attribuzione delle terre vacanti ed il modo
con cui lo hanno razionalizzato concettualmente, ossia
giuridicamente, ha avuto non nascosti riflessi sulla
razionalizzazione del problema relativo alla distribuzione
dei frutti delle proprietà rimaste in patria.
Giova anche ricordare come quelle società, poiché avevano
alle spalle secoli o millenni di esperienza agricola,
concepirono
il
problema
della
legittimazione
ad
appropriarsi delle terre vacanti utilizzando un assunto
inespresso, ma decisivo, per cui chi può legittimamente
dire “questa terra è mia” implica che quella porzione dello
spazio terrestre non solo è interamente sua e di nessun
altro, ma che è sua per sempre nel senso che dopo di lui
sarà dei suoi figli e dei figli dei suoi figli, i quali
eventualmente potranno cederla ad altri volontariamente, o
concederla in uso ad altri in cambio di un canone, senza
per ciò scalfire la legittimità della proprietà primigenia
perché il concetto di proprietà essendosi ibridato con le
idee di terra e di famiglia ne ha acquisito il gene della
eternità.
Infine, si deve premettere che la penultima fase
dell’espansione delle popolazioni europee, durante i secoli
XVII-XVIII, abbia coinciso con l’apogeo della scuola del
diritto naturale e perciò la discussione circa la
legittimazione ad appropriarsi delle terre vacanti si svolse
secondo i canoni della argomentazione di filosofia morale.
Al contrario l’ultima fase del colonialismo europeo, nel
secolo XIX, coincide con l’affermazione del positivismo
giuridico, grazie al quale ci si poteva limitare a dire:
“questa terra è mia perché su di essa ho un titolo
riconosciuto dallo Stato”, mettendo così alla porta i filosofi
e chiamando gli avvocati per risolvere gli eventuali conflitti
di vicinato.
Le colonie inglesi che diedero vita agli Stati Uniti si
formarono nella penultima fase dell’espansionismo europeo
ed hanno perciò incorporato nella loro mentalità giuridica i
canoni generali della discussione giusnaturalistica
adottando con entusiasmo la soluzione di John Locke che
svolse, sempre telegraficamente, il seguente itinerario
argomentativo: a) ogni individuo è reso da Dio padrone del
proprio corpo e delle proprie energie; b) parimenti ogni
408
individuo è padrone e signore (ergo: proprietario) dei frutti
del suo lavoro; c) perciò il colono si appropria
legittimamente dei frutti che ha coltivato; d) quanto alla
terra in sé poiché essa è stata data da Dio agli uomini
perché la coltivino (e perciò non ai nativi che vivono di
caccia e raccolta) il colono europeo se ne appropria
legittimamente purché ne rimanga altrettanta per gli altri
(coloni europei) che sopravvengano.
Nelle colonie poste sulla costa atlantica degli attuali Stati
Uniti quest’ultima condizione sembrava facilmente
soddisfatta (sempre fatta una solenne astrazione per i
diritti dei nativi) e perciò non sorprende che questa
razionalizzazione del problema della legittimità morale del
diritto di proprietà sia divenuta il credo americano, ciò
anche perché il suo corollario immediato per cui se ogni
individuo ha un diritto naturale alla proprietà esclusiva dei
frutti del suo lavoro, solo esso stesso può disporne con atto
della sua volontà, è alla base del celebre slogan: no taxation
without representation da cui prese le mosse la rivoluzione
americana ed in definitiva la fondazione degli Stati Uniti
d’America.
6. Richiamato ciò, diviene più semplice comprendere le
ragioni per cui quando, nelle seconda metà del XX secolo,
si sono aperti gli enormi spazi della cibernetica la
discussione sulla appropriabilità del bene essenziale per il
controllore tali spazi, ossia il software, si sia stata
impostata negli Stati Uniti secondo il paradigma lockhiano.
Il punto di riferimento è stato quindi di nuovo un punto di
riferimento culturale, anche se, ovviamente, all’interno di
una cultura ormai evoluta, esso è stato costituito da
costruzioni di filosofia morale.
In ogni caso, basterà qui ricordare come coloro che
sostengono l’appropriabilità del software fondano la propria
argomentazione sul fatto che i programmi per elaboratori
sono il frutto di investimenti dedicati alla ricerca e sviluppo
dei medesimi e quindi quando un programma utile viene
confezionato esso è esattamente come il frutto del lavoro
del colono e quindi naturalmente suo ed a titolo di
proprietà. Il legislatore americano si è fatto convincere da
questo argomento ed è stato generoso nel riconoscere
tutela proprietaria all’ideatore di un novo programma e si è
fatto promotore, con successo, della loro più intensa tutela
409
sul piano internazionale. Attualmente in base ai ricordati
accordi TRIPS la tutela del software è necessaria per i
singoli Stati essendo uno dei prerequisiti necessarî per
partecipare al WTO ed in definitiva per avere voce in
capitolo nella regolazione degli scambi transnazionali.
Coloro che sostengono che il regime ottimale sia quello
della non appropriabilità individuale, dando vita al
movimento cosiddetto open sources, fanno valere il fatto
che ogni un software incorpora una grande porzione di
lavoro comune, nel senso che rappresenta uno sviluppo di
programmi già esistenti frutto di libera ricerca. Si usa cioè
l’argomento lockiano inverso per sostenere che quanto è
frutto del lavoro di tutti deve rimanere di tutti, come
avviene normalmente per le nuove scoperte che sono frutto
della libera ricerca scientifica condotta in università ed
accademie.
In generale occorre sottolineare come i nuovi beni virtuali
sono ad uso tendenzialmente non rivale nel senso che la
loro fruizione non è necessariamente riservata ad uno solo,
o a pochi individui selezionati. Come si ricorderà la terra
coltivabile non può essere aperta a tutti, perché altrimenti
nessuno la coltiverà. Questo approccio però non vale per i
beni virtuali, anche se alcuni, come i domain names sono
analoghi ai segni distintivi e quindi non tollerano attività
confusorie. Le utilità che essi procurano non sono quindi
necessariamente discendenti da un uso esclusivo. Infatti la
loro tutela proprietaria, nel senso anzidetto di attribuzione
di un jus excludendi prodromico ad un diritto di concedere
selezionai permessi di accesso, è sostenuta dalla
opportunità di incentivare la loro produzione. In questo
senso si argomenta dal fatto che la produzione di nuovi
beni immateriali necessita investimenti. E’ vero infatti che
il software è un bene ad uso non rivale, ma i
programmatori hanno bisogno di hardware che invece è un
bene ad uso rivale, così come hanno bisogno di altre
attrezzature:
scrivanie,
locali,
denaro
che
sono
necessariamente beni esclusivi. L’argomento in realtà
sottintende una preferenza per l’investimento di tipo
imprenditoriale rispetto a forme di investimento collettive.
Tale preferenza ha certamente ricevuto il collaudo della
storia recente. Tuttavia è piuttosto arduo sostenere che la
grande produzione di scritti scientifici che vi è stata negli
ultimi decenni, la quale eguaglia come mole tutta la
410
produzione scientifica precedente, si pone in un rapporto
di causa effetto rispetto alla tutela del diritto di autore
accordata ai ricercatori. In realtà l’incentivo connesso
all’aspetto economico del diritto di autore ha una influenza
minimale sulla produzione scientifica, mentre i suoi
risultati sono aperti a tutti, salva la presenza di balzelli
irrisori. Da ciò discende che mentre nel caso dei fondi
agricoli la necessità di attribuire al coltivatore un jus
excludendi a pena di “escludere” la coltivazione, è in re
ipsa, posto che tale necessità ha ricevuto un collaudo ultra
millenario, nel caso della IP non possiamo sfoggiare una
eguale certezza.
Nel caso specifico del software l’argomento tecnico che i
sostenitori del movimento delle open sources fanno valere è
che l’acceso ai codici sorgente consente un continuo
miglioramento grazie ad apporti collettivi degli utenti posto
che la complessità del lavoro dei programmatori cresce
esponenzialmente mentre la elaborazione di nuovi
programmi non può essere automatizzata. In sintesi si
sostiene che poiché la produzione di software dipende
interamente dal cosiddetto capitale umano l’attività
cooperativa spontanea ed amatoriale è più promettente ed
efficiente della cooperazione organizzata mediante la
struttura gerarchica dell’impresa. In effetti agli inizi del XXI
secolo esistono già esempi di programmi creati mediante
forme di cooperazione spontanea che non hanno nulla da
invidiare a ai prodotti imprenditoriali 406.
7. La discussione in corso è cruciale e la sua importanza
non può essere sopravalutata. Tuttavia proprio per tale
ragione giova osservare come essa venga condotta in
relazione agli argomenti di filosofia morale oppure in
relazione al ragionamento economico, mentre si ritiene che
la tradizione giuridica non abbia alcunché da osservare in
materia, limitandosi a recepire ed elaborare le soluzioni
introdotte in base alle indicazioni delle altre tradizioni di
ricerca che si sono formate nel campo delle scienze umane.
Sennonché non solo si riscontra che nel diritto applicato
emergono poi significative divergenze tra l’impostazione
europea continentale e quella di common law, imputabili
406 Cfr. M. BERRA E A.R. MEO, Libertà di software. Hardware e
conoscenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006
411
alle mentalità giuridiche soggiacenti; ma il problema
essenziale è che quelle influenti tradizioni di ricerca che
orientano le soluzioni moderne, non ci hanno mai detto
nulla su come deve essere costruito un sistema di diritti di
proprietà. Anche se è vero che la analisi giuridica
economica
sta
rapidamente
accumulando
modelli
sofisticati, tuttavia si tratta di modellizzazioni che sono
ancor lontane dalla completezza di quelli messi a punto
delle singole tradizioni giuridiche.
In effetti in epoca non remota il diritto di proprietà sembrò
restituire in una cifra unica l’accumulazione di tutti gli
sviluppi del pensiero che erano andati svolgendosi nel
mondo occidentale a partire dal XVII secolo. La riflessione
sul diritto di proprietà, che peraltro non è mai mancata
nella tradizione filosofico – politica, ha quindi coinvolto
tutte le scienze umane. Tuttavia, il problema che è stato al
centro di tali corale riflessione è stato solo quello della
legittimità o meno della proprietà individuale, che veniva
assunta nelle forme estreme della proprietas ex jure
quiritium, che veniva tramandata nella fonti, perché si
riteneva che se si fosse potuto dimostrare che era legittima
la proprietà individuale sulla terra l’argomento a fortiori
avrebbe consentito di dimostrale la legittimità in
riferimento ad ogni altro bene. In questo quadro anche la
distinzione introdotta da Pufendorf tra communio positiva e
communio negativa 407 era stata abbandonata come una
distinzione troppo sottile. Pertanto seguendo la moda della
scuola del diritto naturale ci si limita spesso alla
alternativa
tra
appartenenza
individuale
e
non
appartenenza, ossia ad una assegnazione di beni alla
collettività amorfa, alternativa che non dice nulla circa il
modo con cui l’appartenenza debba essere giuridicamente
strutturata.
Si è ricordata la celebre frase di Blackstone, ma giova
ricordare anche come poche pagine dopo presentando il
significato della parola fee, dal latino feudus, Blackstone
Cfr. S. PUFENDORF, De Jure Naturae et Gentium Libri octo, Lib. IV,
cap. IV,2 «Deinde accurate expendendum, quid sit communio, quid
proprietatis sive dominium. Communionis vocabulum accipitur vel
negative, vel positive.» cui segue la spiegazione che poi riprende al
punto IV,5, secondo la quale la comunione negativa corrisponde alla
categoria delle res nullius, mentre la communio positiva è la proprietà
collettiva.
407
412
ricorda la distinzione tra feudo ed allodio e presenta ai suoi
lettori la nozione di allodium dicendo: “this is property in
its’s highest degree, and the owner thereof hath absolutum
et directum dominium, and therefore is said to seised
thereof absolutely in dominio suo”. Ma poche righe dopo è
costretta confessare, modestamente: “ this allodial property
no subject in England has”.
Come dire che quel diritto assoluto di escludere tutti gli
altri era un paradigma teorico, che non rifletteva affatto
l’effettiva organizzazione dei diritti di proprietà.
La medesima radicale divergenza tra il paradigma teorico
cui era indispensabile aderire per tenere aperto il canale di
comunicazione intellettuale con le altre tradizioni di
pensiero che si occupavano della proprietà esclusivamente
sotto il profilo della sua fondazione razionale, è presente
anche nella letteratura di civil law, anzi, si deve ricordare
che nella letteratura del diritto comune era indispensabile
il riferimento alle fonti giustinianee e da esse non solo si
traeva una nozione di proprietas che richiamava
l’assolutezza del dominium ex jure quiritium, benché si
trattasse di una forma di proprietà praticamente
scomparsa nel diritto romano dell’epoca di Giustiniano, ma
si trovava anche la netta scansione dovuta a Gaio che in
tema di beni distingueva tra le res corporales e le res
incorporales. Scansione da cui discendeva che la proprietà
stessa era collocabile tra le res corporales, mentre tutti gli
altri diritti, anche quelli reali limitati si collocavano tra le
res incorporales, assieme all’hereditas ed alla
obligatio 408.
In realtà Gaio pensava all’interno di una economica
commerciale quale era quella della patria mediterranea in
cui visse. Per comprendere il suo pensiero è quindi
sufficiente ricordare come si compone il patrimonio di un
commerciante alla sua morte, quando è necessario
procedere alla delazione ereditaria. La ragione della
scansione fondamentale tra res corporales ed incorporales
stava nell’idea che la proprietà racchiude in sé ed esaurisce
tutte le potenzialità economiche della cosa corporale e
quindi quando la cosa sia posseduta a titolo di proprietà il
valore del diritto che entra all’attivo del patrimonio è eguale
408 Cfr. G. PUGLIESE, Dalle «res incorporales» del diritto romano ai beni
immateriali di alcuni sistemi giuridici odierni, in Riv. trim. dir e proc. civ.,
1982, p. 1137
413
al valore della cosa stessa. Naturalmente però il concetto di
valore implica, operativamente, quello di stima e le stime
sono, da sempre, condotte dagli estimatori in riferimento
alle qualità specifiche della cosa (il cavallo corsaiolo vale
assi più di quello asmatico) sicché non vi può essere
incertezza circa la priorità logica della cosa rispetto al
diritto su di esse. Se si svolge questa sequenza, troppo
ovvia per essere avvertita, si comprende come assumendo
che la proprietà conferisce al suo titolare tutte le utilità che
una cosa può generare, divenisse spontaneo elidere il
medio del diritto di proprietà e considerare direttamente le
cose stesse.
Al contrario, quando nel patrimonio entrava un diritto
reale limitato, una universalità di beni, e così pure il diritto
a ricevere una cosa corporale o una prestazione di servizi,
il linguaggio non poteva elidere il riferimento al diritto
soggettivo inteso come interesse tutelato dall’ordinamento,
perché il valore delle cose era solo il punto di partenza di
un calcolo che doveva condurre ad individuare il valore
economico del diritto e non della cosa. Ma poiché la prima
classe di beni che formava il patrimonio erano i diritti di
proprietà e quindi le res (corporales), tutti gli altri diritti
patrimoniali che lo componevano vennero denominati per
contrappunto res incorporales, la cui caratteristica
ontologica era quella di non poter essere oggetto di
percezione sensoriale e quindi, per sineddoche, del tatto.
9. Preservata nelle fonti giustinianee, ma abbandonata in
realtà dalla dottrina del periodo intermedio, la distinzione
gaiana ha contribuito ad orientare la tradizione di civil law
in senso fiscalista, quando ha ripreso a porsi in armonia
con l’ambiente economico. A ciò contribuì anche un fattore
concomitante, rappresentato dal bisogno della sistematica
giuridica di fornire una sistemazione coerente all’istituto
del possesso.
Come sempre lo svolgimento delle mentalità giuridiche è
influenza da fattori culturali come da fattori ambientali.
Questi ultimi ponevano l’esigenza, avvertita di primi studi
economici moderni di ricompattare la gestione dei fondi
assegnando tutti i diritti, poteri e facoltà ad un unico
soggetto: il proprietario individuale.
Ciò però poteva avvenire, come accadde nell’esperienza di
common
law
mediante
una
riforma
incidente
414
sull’assortimento del fascio di diritti, poteri, facoltà,
privilegi ed immunità che si riconducevano all’assetto
proprietario. Esemplarmente in Inghilterra ciò venne
attuato mediante un riforma legislativa dell’assetto degli
estates on land.
Nei sistemi di civil law il percorso fu più decisamente
influenzato da esigenze della sistematica giuridica che
come tale doveva riassorbire tutte le svariatissime
costruzioni dottrinali in tema di possesso e della sua
tutela. Infatti il semplice programma della neonata dottrina
economica tendente a ricompattare la gestione delle cose
produttive in capo ad un unico soggetto sfuggendo così alla
tragedy of the anticommons, richiedeva poi, sul lato del
sistema istituzionale, una riforma assai articolata e
complessa del sistema delle fonti del diritto nonché un
ripensamento profondo dei rapporti tra proprietà e
possesso.
Circa il primo profilo basterà osservare che proprio perché
l’Europa è stata per secoli un continente agricolo, sulle
appartenenze agricole si erano stratificate situazioni di
diritto provenenti da fonti svariate: leggi, consuetudini,
regolamenti locali, regole deducibili dalla giurisprudenza
dotta, mentalità giuridiche diffuse. Il programma di
ricompattare tutto il fascio di diritti che possono incidere
sul godimento e la disposizione delle cose in capo ad un
unico soggetto esigeva quindi un passaggio intermedio
consistente nella previa ricompattazione delle fonti del
diritto.
Come è noto le codificazioni illuministiche avevano
esattamente questa funzione. La espressione più radicale
di simile programma di ingegneria costituzionale si leggeva
nell’art. 7 della loi sur la reunion des Lois civile en un seul
corps, sur le titre de Code civil des francais 409, poi divenuto
Code Napoléon, il quale prevedeva che: “a computer di
journ où ces lois sont exécutoires, les lois romaines, les
ordonnances, les coutumes générales ou locales, les
statuts, le règlements, cessent d’avoir force de loi générale
ou particulière dans le matières qui sont l’objet desdites
lois composant le présent code”. Più volte è stato evocato il
sottile ed enigmatico legame tra proprietà e codice inteso
come forma della legislazione e quindi a prescindere dalla
409
Lois 30 ventose an XII, 21 marzo 1804.
415
specifico contenuto precettivo di ciascun codice.
In realtà tale rapporto esiste ed è tutto racchiuso in quanto
si è appena osservato.
Il secondo profilo era ancora più complesso perché in tema
di possesso si assommavano tre tipi di difficoltà.
In primo luogo il diritto romano aveva lasciato in eredità al
diritto comune una serie di ambiguità di cui la maggiore
consisteva nel fatto che il possesso rilevava sia come
strumento di acquisizione della proprietà - mediante la
usucapio e la prescriptio longi temporis -, sia come
situazione giuridica degna di tutela mediante gli interdicta.
In secondo luogo il diritto canonico era intervenuto in
questa seconda area introducendo un rimedio: l’actio spolii,
che in realtà tutelava la detenzione e che, inoltre, aveva
generato un mostriciattolo detta exceptio spolii, grazie alla
quale si potevano paralizzare i rimedi a tutela proprietà
rendendone la tutela ostaggio della lunghezza del processo
possessorio. Risultato pratico di questa innovazione era
stata la corsa dei patrocinanti a travestire la posizione
giuridica da essi patrocinata come una situazione
possessoria e non come una situazione proprietaria 410 e da
qui la consuetudine che si era affermata ad estendere il
possesso a qualunque titolarità di qualsiasi diritto.
Consuetudine che asserendo il possesso dei diritti
integrava la terza difficoltà, che era anche la più notevole
tra le tre qui menzionate, perché la abolizione del possesso
dei diritti comportava il passaggio da una organizzazione
giuridica basata sullo status e la consuetudine ad una
organizzazione giuridica basata sul titolo 411. Posto a fronte
di questo garbuglio i redattori del code Napoléon, privi in
materia della guida di Pothier, 412 usarono il cesareo gladio
tagliando il nodo gordiano con la spada del legislatore. In
altre parole espunsero dal codice civile l’istituto del
La medesima inversione tra proprietà e godimento possessorio si
registrò nell’esperienza giuridica inglese.
411 Elemento questo che sfuggirà al nostro Finzi quando in una opera,
pur finissima, tenterà di rinverdire la nozione di possesso dei diritti.
412 Nel Traité de la possession, POTHIER, Chp. III, § 37, infatti assume
in conformità alle fonti giustinianee che il possesso è ammesso solo
sulle cose corporali (Lib.3 ad adq poss.: possideri possunt quae sunt
corporalia); ma poi fa ampio spazio alla quasi possessio: cfr § 38 Les
choses incoporelles, c’est à dire, celles quae in jure coinsistunt, ne sont
pas suceptibles, à la verité, d’une possession véritables et
prroprrement dite; mais elles sont suceptibles d’une quasipossession.”.
410
416
possesso immobiliare. La soluzione peccava di eccessiva
confidenza nel mito della onnipotenza del legislatore. In
effetti la tutela del possesso immobiliare fu reintrodotta
quasi subito ad opera della giurisprudenza 413.
Toccò in realtà a Savigny sistematizzare e modernizzare la
materia del possesso. Casa che fece in tre mosse. In primo
luogo collegò strettamente gli effetti giuridici del possesso
al meccanismo della usucapione svalutando la tutela
interdettale. Per conseguenza poté assumere, nel secondo
passaggio che il possesso è, giuridicamente solo un fatto,
però produttivo di effetti giuridici, in quanto consente
l’accesso alla proprietà. In terzo luogo espunse
dall’orizzonte della serietà giuridica sia l’actio spolii, che,
soprattutto,
l’exceptio
spolii 414 ,
riconducendole
strettamente all’ambito di applicazione dell’interdetto, il
quale è sostanzialmente eguale al writ of trespass.
Giova qui rilevare che la sistemazione data da Savigny al
problema del possesso ha segnato il passaggio da una
teoria giuridica adatta ad una società agricola ad una
teoria giuridica adatta una società industriale e ciò spiega
la ragione per cui, con qualche attenuazione relativamente
ai diritti reali immobiliari, essa sia stata accolta in tutta
Europa. Pertanto le sue implicazioni meritano qualche
riflessione aggiuntiva. Lo stretto collegamento tra la
rilevanza giuridica del possesso (possessio civilis) e
l’asserzione per cui tale possesso fosse pensabile solo in
riferimento alle cose corporali si fondava indubbiamente
sul tenore letterale delle fonti giustinianee. Lo stesso
Pothier era costretto a dire che, a rigore, non poteva
concepirsi il possesso di diritti, ma da buon giurista
positivo aggiungeva che tali forme di possesso erano da
ammettersi 415. Più rigido nella scoperta delle verità storica
del diritto romano, Savigny, propugnò la tesi opposta, che
accidentalmente coincideva con la modernità. Ma
Cfr. A. GAMBARO, La legittimazione passiva alle azioni possessorie.
Studio di diritto comparato, Milano, 1979.
414 Cfr. Cfr. F.v.SAVIGNY, DA BESITZ, VI, ed. § 50 che è una delle parti
più significative della celebre opera.
415 In realtà nella società francese del XVIII secolo il possesso di status
era importantissimo in riferimento al possesso di status di figlio
legittimo, ma più in generale in riferimento al possesso di un
qualunque status di membro di un gruppo cui si associano da sempre
le prerogative che gli antropologi scoprono nel diritto consuetudinario
africano, ma che naturalmente erano presenti, anzi costituivano il
tessuto delle relazioni giuridiche delle società dell’Europa agricola.
413
417
l’invocazione delle pure fonti giustinianee non sarebbe
stata sufficiente ad acquisire il maggioritario consenso dei
giuristi europei, se non si tenesse conto del nesso che la
tesi di Savigny presentava con la cultura della sua epoca.
Dall’assunto, indubitabile, per cui il possesso è una
situazione di fatto, la quale produce effetti giuridici deriva
infatti che la situazione di fatto deve essere percepibile
oggettivamente dalla comunità sociale. Al tempo di
Savigny, Immanuel Kant aveva chiarito che ogni nostra
conoscenza incomincia con l’esperienza e che la nostra
facoltà di conoscere è messa in moto da parte di oggetti che
colpiscono i nostri sensi 416 . Posto che in Kant, come in
tutta la filosofia antica e moderna gli oggetti che colpiscono
i nostri sensi sono solo gli oggetti naturale, ovvero
corporali, mentre gli oggetti sociali non hanno ricevuto che
scarsa attenzione, la conclusione che si impone è che
l’atmosfera culturale della epoca era del tutto consona con
l’idea per cui la vicenda che poteva conferire ad una
situazione di fatto come il possesso effetti giuridici
acquisitivi della proprietà poteva riferirsi solo alle cose
corporali. Ma poiché la vicenda della trasformazione del
possesso in proprietà mediante l’usucapione era essenziale
alla disciplina proprietaria, da ciò conseguiva che anche la
proprietà poteva essere concepita solo in riferimento alle
cose corporali.
Il BGB confermerà questo principio, consacrandolo al § 90,
anche se non accolse la rigida sistematica di Savigny che
negava il possesso dell’usufrutto e delle servitù.
10. Se le idee giuridiche dovessero rappresentare il diritto
positivo vigente si dovrebbe osservare come l’immagine
della proprietà individuale compatta ed assoluta che
diviene sinonimo della cosa corporale che ne costituisce
l’oggetto non ha mai fatto troppo senso; ciascuna proprietà
è sempre stata definita da un insieme, variabile, di limiti.
Sicché se si adotta l’idea che esiste una pluralità di
situazioni proprietarie, la confusione tra il diritto e le cose
diviene una semplificazione poco sensata perché tutte le
stime economiche debbono riferirsi al valore del diritto che
entra nel patrimonio del soggetto e non soltanto alle
416 Citazioni dalla Introduzione alla seconda edizione della Critica della
ragion pura.
418
caratteristiche fisiche della cosa in sé.
Naturalmente si deve tener conto anche delle condotte
strategiche ed in questo senso è da ricordare come quella
immagine, consentendo una particolare sottolineatura
dell’elemento della assolutezza si prestò assai bene ad una
esaltazione del diritto di proprietà, visto come cardine del
nuovo ordine economico e sociale uscito trionfante dalla
rivoluzioni borghesi. Esaltazione non poco diffusa nella
letteratura giuridica ottocentesca, la quale non si dava
troppo carico del fatto che tale ordine vigeva da più tempo
in Inghilterra dove simili visioni non potevano avere corso.
Tuttavia si deve osservare come non mancassero
connessioni con il tipo di civiltà materiale che stava
prevalendo. Infatti durante la prima rivoluzione industriale
l’impostazione fiscalista dell’oggetto della proprietà sembrò
ricevere conferma della sua modernità. La società
industriale è la società del macchinario e del manufatto. Il
prodotto dell’industria sia esso un bene finale sia esso un
bene strumentale, è dotato di una fisicalità talvolta
massiccia. Grandi navi e grandi aeroplani segnano l’apogeo
della tecnica industriale. In generale è da osservare che
queste conferme provenienti dalla civiltà materiale che si
radicò nei paesi europei occidentali nel XIX secolo
andavano di pari passo con l’affermarsi di regole del
traffico giuridico che facevano leva sul possesso, ossia sul
controllo fisico di un bene materiale, e sembravano
confermare la modernità della soluzione espressa nei codici
civile europei. I prodotti della civiltà industriale infatti sono
in gran parte beni mobili ad uso rivale, rispetto ai quali la
compattezza del domino nel senso di attribuzione ed un
solo soggetto di tutte le utilità che la cosa può generare
appare la soluzione più razionale. Non è un caso che nello
stesso periodo nasce e si sviluppa in Inghilterra la nozione
di ownership, la quale fu in larga misura una creazione dei
giuristi teorici che occupavano le cattedre di jurisprudence,
e che fu pensata in funzione della proprietà mobiliare di
beni corporali 417 e che riproduce la nozione di proprietà
individuale e compatta che si era affermata in Europa
continentale.
417 Cfr. T. HONERÉ, Ownership, in Guest ( ed.) Oxford Essays in
Jurisprudence, 1961, p. 108.
419
11. Naturalmente è noto come il secolo breve abbia
sottoposto a critica serrata le idee ottocentesche
pervenendo in sintesi a due esiti principali. In primo luogo
le situazioni proprietarie sono variamente conformate
dall’ordinamento giuridico in funzione della natura delle
cose. In secondo luogo e per diretta derivazione dalla
osservazione precedente, sarebbe opportuno parlare di più
proprietà che non di una unica forma di proprietà.
Entrambe queste asserzioni meritano approfondimento.
Sul primo profilo si deve infatti osservare come se si vuole
evitare che la teoria giuridica diventi il pappagallo del
legislatore è opportuno analizzare meglio che cosa significa
natura delle cose e quali criteri di conformazione debbono
essere seguiti per poter superare il test rappresentato dalla
garanzia costituzionale verso le proprietà private.
Sul secondo profilo ci si deve chiedere se la pluralità di
situazioni dominicali non si colleghi al solo aspetto del
contenuto del diritto trascurando i caratteri più unitari
delle regole che concernono la circolazione e la tutela del
diritto di proprietà.
Riprendendo il profilo della conformazione della proprietà
occorre quindi ricordare che la conformazione dei diritti
dominicali da parte dell’ordinamento muove certamente
nella direzione di massimizzare l’interesse generale, ma tale
impegno presuppone una razionalità delle scelte pubbliche
che può realizzarsi solo coniugando l’analisi delle utilità
che i beni, materiali o immateriali, possono generare, con il
ventaglio di interessi che appaiono degni di tutela secondo
una scala di valori, la quale, a sua volta, non può altro che
essere tratta dalla carta costituzionale.
La sequenza di vincoli logici appena accennata richiede
una chiarificazione attorno al nesso tra il concetto di utilità
e quello di interesse.
E’ nota l’impostazione teorica che risolve il diritto di
proprietà in un fascio di rapporti. Questa impostazione
nata in Germania con Bierling, ha poi ricevuto definitiva
sistemazione da parte di Hohfeld ed essa è risultata
talmente consonante con la tradizione tecnica di common
law da essere stata entusiasticamente adottata negli Stati
Uniti. Tradotta in termini di teoria dei beni la medesima
linea di pensiero giunge alla radicale conclusione per cui
non senso riferirsi ai beni ed allo varia ontologia, poiché
nel mondo del diritto si possono contemplare solo le
420
posizioni giuridiche soggettive, ovvero gli interessi.
Tuttavia ciò implica che non sia possibile un controllo di
razionalità circa la scelta relativa agli interessi tutelabili.
Non è naturalmente in questione la discrezionalità politica
del legislatore; ma la possibilità che essa incontri dei limiti.
Il problema venne discusso in Italia a cavallo tra gli anni
sessanta e settanta del secolo scorso sotto il profilo della
ammissibilità di un sindacato di legittimità costituzionale
delle leggi che imponevano limiti alle proprietà private. Con
il senno acquisito nel frattempo non si farà fatica quindi ad
ammettere che l’idea di escludere dal sindacato di
legittimità costituzionale le leggi conformative della
proprietà appare piuttosto bizzarra. Se un sindacato di
legittimità costituzionale deve sussistere, rimane il
problema di sapere a che cosa ancorarlo.
La risposta a questo quesito non può non partire dal
riconoscimento i beni in sé generano un fascio di utilità: il
fiume è utile a tanti fini, a fini di irrigazione, a fini di
navigazione, a fini di quello che si chiama uso edonistico
cioè possibilità di nuotare nel fiume, di guardare il fiume,
di goderne le bellezze. Anche senza voler ricordare la
eloquente dissenting opinion di J. Douglas 418 in Sierra Club
vs. Morton 419 le utilità che un fiume offre sono tante. È
proprio questa caratteristica che consente ad un unico
bene di soddisfare un ventaglio di interessi soggettivamente
diversificati. I beni culturali possono essere indicati ad
esempio poiché su essi si appuntano i bisogni di tutela di
almeno quattro diverse posizioni soggettive.
Vi è indubbiamente l’interesse del proprietario dei beni
culturali, il quale può essere un soggetto pubblico o
privato, ma che è sicuramente degno di tutela perché è
attraverso la sua posizione che si incentiva la committenza
di beni culturali i quali ovviamente debbono essere non
solo preservati, ma anche prodotti.
Vi è l’interesse della generalità dei cittadini all’accesso ai
beni culturali in vista della loro fruizione che è appunto
denotata come culturale dalla natura stessa dell’oggetto.
“The river, for example, is the living symbol of all the life it sustains
or nourishes - fish, aquatic insects, water ouzels, otter, fisher, deer,
elk, bear, and all other animals, including man, who are dependent on
it or who enjoy it for its sight, its sound, or its life. The river as plaintiff
speaks for the ecological unit of life that is part of it”.
419 405 U.S. 727 (1972).
418
421
Vi è l’interesse delle generazioni future al medesimo tipo di
fruizione che si qualifica come degno di tutela per il
carattere di testimonianza di civiltà che gli oggetti culturali
svolgono e che si radica nel concetto di tradizione culturale
il quale ha evidentemente valenze transgenerazionali.
Vi è infine l’interesse degli autori di beni culturali che è
degno di tutela per la stessa, anche se speculare, ragione
per cui ne è degna la committenza. Interesse che si
estrinseca in taluni casi in quel droit de suite che consente
all’autore di beneficiare dell’aumento di valore della sua
opera.
Se quanto si è sin qui detto è persuasivo, allora è évidente
che la critica novecentesca alla tradizione proprietaria
comporta che una rinnovata teoria della proprietà può
partire solo da una solida ontologia dei beni e che rispetto
a questa fondazione i discorsi relativi alla pluralità di
situazioni proprietarie non hanno una vera autonomia,
poiché implicano la medesima necessità senza però andare
alla radice del tema.
12. Possiamo saggiare quanto si è sino a qui argomentato
in riferimento al problema delle licenze obbligatorie che la
Commissione europea impone ai titolari di una IP quando
il rifiuto di concedere una licenza a soggetti concorrenti
sembra entrare in contrasto con la esigenza di dar vita ad
un mercato concorrenziale. Questo esperimento è suggerito
dalla seguente considerazione.
Come si è ricordato da millenni la tradizione giuridica
occidentale si è misurata con il tema della proprietà
agraria, più recentemente si è misurata con i problemi dei
prodotti delle attività manifatturiere. In realtà il ventaglio
dei beni e delle relative “proprietà” è sempre stato assai più
ampio: i boschi, le acque, i beni culturali, i beni pericolosi
o nocivi, hanno dato vita alle cosiddette proprietà speciali,
le quali avevano una disciplina loro propria, così come una
disciplina loro propria hanno ricevuto i beni pubblici; ma
queste discipline speciali nulla toglievano alla centralità
delle forme di proprietà sui beni più rilevanti ed a lungo
nulla hanno aggiunto alla teoria delle proprietà.
Se però si assume come è agevole assumere che al giorno
d’oggi l’attività agricola ha una rilevanza residuale e che la
varietà dei nuovi beni immateriali è al centro della scena,
non si potrà evitare di considerare che l’esempio prescelto
422
coincide con una tematica centrale della nostra convivenza
civile. In secondo luogo si deve ricordare come i nuovi beni
immateriali che compongono la cosiddetta IP sono beni ad
uso non rivale e perciò rispetto ad essi ha poco senso
invocare l’aspetto del godimento diretto, mentre il jus
escludendi ha rilievo centrale e poiché le licenze
obbligatorie sono la contraddizione del jus excludendi, ecco
che l’esempio che ci si accinge ad analizzare, impinge al
cuore del tema di cui sino a qui si è discorso.
Nella decisione più interessante al riguardo 420 la Corte di
Giustizia ha statuito che occorre procedere la
bilanciamento tra l’interesse del titolare dell’IP e quello dei
consumatori allo sviluppo della libera concorrenza.
Pertanto quando una impresa si trova in posizione
dominante su un certo mercato e gode di un diritto di
privativa diviene un abuso il rifiuto di concedere licenza ad
un concorrente purché costui non si limiti a riprodurre i
beni o i servizi offerti dall’impresa dominante ma intenda
sviluppare servizi aggiuntivi per i quali si stima possa
esistere una domanda potenziale dei consumatori. In
termini più generali la Corte ha stabilito che benché il
rifiuto di concedere un licenza da parte di una impresa in
posizione dominante non costituisce di per sé un abuso del
diritto 421 , “néanmoins, l’exercice du droit exclusif par le
titulaire peut, dans des circonstances exceptionnelles,
donner lieu à un comportement abusif” 422.
Naturalmente si può osservare che il riferimento alla teoria
dell’abuso del diritto può facilmente sconfinare nell’arbitrio
del decisore e che tale rischio è ancora più grave in quanto
420 Si tratta del già citato caso IMS Health GmbH & Co. OHG, affaire C418/01, ove si trattava di un sistema di rilevazione dei consumi
farmaceutici che era divenuto lo standard di riferimento degli operatori
tedeschi del settore. Il sistema era pacificamente oggetto di diritto di
autore secondo l’ 4 de l’Urheberrechtsgesetz. Un ex dipendente del
titolare del diritto di autore aveva iniziato una propria attività in
concorrenza con il suo datore precedente. Inizialmente aveva adottato
un altro sistema modulare, ma gli operatori avevano dimostrato di
essere troppo affezionati a quello fondato su 1816 moduli che era già in
uso. Pertanto aveva adottato anch’esso una struttura modulare assai
simile a quella standard. Il plagio era piuttosto evidente. Il plagiario
aveva anche cercato di ottenere un licenza dal titolare del diritto di
autore, ma la licenza gli era stata rifiutata.
421 Caso Volvo, C. 238/87
422 Così si legge nella citata decisione IMS Health GmbH & Co. OHG,
che cito dal testo francese corrispondente alla lingua di lavoro (quella
effettiva)
423
nel settore in cui si incrociano la tutela della IP e delle
disciplina antitrust, il soggetto decisore è, in prima battuta,
un organo amministrativo e non giurisdizionale, mentre è
noto come la CEDU esiga che in tema di proprietà sia
garantita la possibilità di ottenere il giudizio di un organo
giurisdizionale, come è stato ribadito dalla Corte Europea
dei diritti dell’uomo nel caso British-American Tobacco
Company Ltd v. the Netherlands 423.
In effetti la corte di giustizia si è fatta carico di questo
aspetto ed ha indicato come debbano ricorrere alcune
specifiche circostanze di mercato affinché si possa limitare
il jus exludendi del titolare di un diritto facente parte
dell’IP.
Ma ciò che impressione è che se si confrontano i fatti di
causa che hanno dato origine ai leading cases decisi dalla
Corte di Giustizia ci si avvede che essa ha deciso in modo
uniforme situazioni che sotto il profilo del bene protetto
erano molto diverse tra loro.
Sommamente istruttivo può essere il confronto tra i fatti
dei cosiddetti Magill cases 424 ed il caso Briks number
structure 425. In entrambi i casi si trattava di un copyright
su una banca dati. Ma in un caso si trattava di una banca
dati raccolta occasionalmente nel senso che si trattava
delle informazioni sui programmi televisivi in possesso
delle stazioni emittenti; nel secondo caso di trattava di una
banca dati costruita in anni di studio e di perfezionamenti
che comportava la elaborazione di dati complessi e la
individuazione del miglior sistema della loro trasformazione
in informazioni utili per il mercato. In termini spicci
potremmo dire che la differenza tra i due casi richiama da
vicino la differenza tra la raccolta dei frutti selvatici e la
raccolta di frutti coltivati.
Solo una solenne astrazione verso la storia ha potuto
indurre la Corte di Giustizia ad applicare alla due
situazioni i medesimi criteri per giustificare la elisione del
jus excludendi.
La realtà è che i giudici europei accettano di parlare di IP,
perché questa è la moda che si è imposta, ma non pensano
le questioni che debbono decidere in questo settore in
termini di proprietà, ma di diritti di monopolio. La facilità
423
424
425
Numerato 46/1994/493/575
Cfr. supra nota
E questo il nick name del caso IMS Health GmbH & Co. OHG
424
con cui il Tribunale di primo grado si è disfatto degli
argomenti addotti dalla Microsoft che le avevano assicurato
la semivittoria finale nei paralleli procedimenti americani
indicativa al riguardo.
Si tratta allora di verificare se i problemi posti dai nuovi
beni sono più opportunamente affrontabili se pensati nel
contesto della tradizione del diritto dei beni, o nel contesto
della più recente tradizione che riflette sul diritto della
concorrenza e del mercato.
Tale verifica non può essere tentata in questa sede; si
tratta piuttosto di indicare un terreno di indagini, confronti
e riflessioni.
Temo che agli amici carissimi Gabriella e Pasquale l’affetto
abbia fatto velo alla realtà quando mi hanno invitato a
tenere una lectio magistralis, ma se per un istante potessi
ardire a considerarmi “sesto tra cotanto senno” 426 ,
ricorderei che la funzione dei maestri non può essere, oggi,
lo scodellare sistemi e modelli, ma l’additare a coloro che
hanno energie intellettuali problemi non risolti che pure
urgono alla società in cui viviamo e spiegare il retroterra da
cui insorgono ed, ancora, tracciare il quadro generale
all’interno del quale si possano collocare le soluzioni
significative.
In quest’ultima direzione ricorderei che sia il modo di
pensare che è dominante all’interno del common law
americano, sia quello che, sotterraneamente, è dominante,
all’interno della trazione di civil law, alla fine possono
coincidere perché entrambi hanno perduto l’ancoraggio alla
categoria degli jura in rem, sicché le differenze risultano
essere limitate alla maggior propensione del primo a
proteggere gli investimenti sulla base di una vaga
connessione con la tutela costituzionale dei property rights.
Ricorderei anche che i modi di pensare dei giuristi non
possono divergere troppo, ossia nelle loro impostazioni
basilari, dai modi di pensare radicati nella società in cui
operano, per la semplice ma decisiva ragione che i giuristi
possono sopravvivere solo se nel medio e lungo periodo (
non mai nell’immediato) ottengono il consenso di
quest’ultima; ed è solo il caso di aggiungere che dopo
decine e decine di secoli durante i quali si è pensato in
termini di proprietà, è un poco ingenuo immaginare di
426
Commedia, Inf. C.IV.
425
ottenere il consenso proponendo soluzioni basate
sull’approccio del sofisticato policy maker. Vi è sempre il
rischio che quando qualcosa va storto l’incomprensibilità
dell’itinerario seguito conduca ad una totale perdita di
fiducia.
Ma ciò che mi premerebbe maggiormente ricordare è un
dato oggi un poco offuscato. Sia nella tradizione di common
law che in quella di civil law la parte da sempre
considerata la più tecnicamente sofisticata e difficile è
quella che riguarda la ripartizione tra le persone delle
utilità generate dai beni, sia materiali che immateriali,
ossia è il settore del diritto dei beni detto anche degli jura
in rem, o diritti reali.
E’, infatti, in questo settore del diritto civile che – e ciò è
significativo- entrambe le due gradi tradizioni del diritto
occidentale sono riuscite a conciliare la complessità
estrema che proviene dalla enorme varietà dei beni la cui
utilità sono necessarie alla vita sociale, moltiplicata dalla
varietà
delle
forme
soggettive
dell’appartenenza:
individuale, familiare, clanica, societaria ed istituzionale,
con la semplicità dell’approccio che si ottiene focalizzando
l’attenzione sul bene, sulla res, di volta in volta implicato
nel discorso o nel ragionamento, sì che si possa iniziare a
dipanare la complessa trama di diritti che su di esso
insistono avendo posto un piede per terra.
Grazie.
4) Art. 1, Protocollo addizionale 1 alla CEDU
Protezione della proprietà
Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi
beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per
causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e
dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli
Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per
disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse
generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri
contributi o delle ammende.
426
5) Art. 17 della Carta di Nizza
Diritto di proprietà
1. Ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni
che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli
in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per
causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla
legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta
indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere
regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale.
2. La proprietà intellettuale è protetta.
6) Costituzione spagnola (1978), art. 33, e
Costituzione svizzera (2000), art. 26, in Codice
delle Costituzioni, Giappicchelli, 2009, pp.
238-239 e 286
Articolo 33 [Costituzione spagnola]
1. Si riconosce il diritto alla proprietà privata e alla
successione ereditaria.
2. La funzione sociale di questi diritti delimiterà il loro
contenuto conformemente alle leggi.
3. Nessuno potrà essere privato dei propri beni e diritti se
non per causa giustificata di pubblica utilità o
nell’interesse
sociale,
mediante
corrispondente
indennizzo, e conformemente a quanto disposto dalle
leggi.
Articolo 26 [Costituzione elvetica]
1. La proprietà è garantita.
2. In caso di espropriazione o di restrizione equivalente della
proprietà è dovuta piena indennità.
7) Draft Costitution/Basic Law of Hungary
(2011), Art. XII
(1) Everyone has the right to property and to inheritance.
Owning property carries a social responsibility.
(2) Property may only be expropriated in exceptional cases and
in the public interest and in cases and under the conditions
provided for by law, subject to full, unconditional and immediate
compensation for the loss.
427
8) Accordo TRIPs-Trade Related Aspects of
Intellectual Property Rights, adottato a
Marrakech 15 aprile 1994 – “Accordo relativo
agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale
attinenti al commercio” ratificato dall’Italia
con legge 29 dicembre 1994, n. 747
I Membri,
Desiderosi di ridurre le distorsioni e gli impedimenti nel
commercio internazionale e tenendo conto della necessità di
promuovere una protezione sufficiente ed efficace dei diritti di
proprietà intellettuale nonché di fare in modo che le misure e le
procedure intese a tutelare i diritti di proprietà intellettuale non
diventino
esse
stesse
ostacoli
ai
legittimi
scambi;
Riconoscendo, a tal fine, la necessità di nuove regole e
normative
riguardanti:
a) l’applicabilità dei principi fondamentali del GATT 1994 e dei
pertinenti accordi o convenzioni internazionali in materia di
intellettuale;
proprietà
b) la predisposizione di norme e principi adeguati in materia di
esistenza, ambito ed esercizio dei diritti di proprietà intellettuale
attinenti
al
commercio;
c) la predisposizione di mezzi appropriati ed efficaci per tutelare
i diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio, tenuto
conto delle differenze tra i sistemi giuridici nazionali;
d) la predisposizione di procedure rapide ed efficaci per la
prevenzione e la risoluzione multilaterale delle controversie tra
e
governi;
e) disposizioni transitorie intese a favorire la più completa
partecipazione
ai
risultati
dei
negoziati;
Riconoscendo la necessità di un quadro multilaterale di
principi, regole e norme attinenti al commercio internazionale
delle
merci
contraffatte;
Riconoscendo che i diritti di proprietà intellettuale sono diritti
privati;
Riconoscendo i fondamentali obiettivi di carattere pubblico dei
regimi nazionali di protezione della proprietà intellettuale, ivi
compresi gli obiettivi in materia di tecnologia e sviluppo;
Riconoscendo inoltre le speciali esigenze dei paesi meno
avanzati Membri, cui occorre accordare la massima flessibilità
nell’attuazione interna di leggi e regolamenti onde consentir loro
di crearsi una base tecnologica solida ed efficiente;
Sottolineando l’importanza di ridurre le tensioni mediante un
rafforzato impegno a risolvere le controversie sulle questioni di
proprietà intellettuale attinenti al commercio attraverso
procedure
multilaterali;
Desiderosi di instaurare una relazione di reciproco sostegno tra
l’OMC e l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale
428
(in appresso denominata OMPI) e altre competenti organizzazioni
internazionali;
Hanno convenuto quanto segue:
PARTE I
DISPOSIZIONI GENERALI E PRINCIPI FONDAMENTALI
Art.
1
(Natura
e
ambito
degli
obblighi)
1. I Membri danno esecuzione alle disposizioni del presente
Accordo. Essi hanno la facoltà, ma non l’obbligo, di attuare nelle
loro legislazioni una protezione più ampia di quanto richiesto dal
presente Accordo, purché tale protezione non contravvenga alle
disposizioni dello stesso. Essi inoltre hanno la facoltà di
determinare le appropriate modalità di attuazione delle
disposizioni del presente Accordo nel quadro delle rispettive
legislazioni
e
procedure.
2. Ai fini del presente Accordo, l’espressione “proprietà
intellettuale” comprende tutte le categorie di proprietà
intellettuale di cui alla parte II, sezioni da 1 a 7.
3. Ciascun Membro accorda il trattamento previsto dal presente
Accordo ai cittadini degli altri Membri. Per quanto riguarda il
relativo diritto di proprietà intellettuale, si considerano cittadini
degli altri Membri le persone fisiche o giuridiche che soddisfano i
criteri di ammissibilità alla protezione di cui alla Convenzione di
Parigi (1967), alla Convenzione di Berna (1971), alla
Convenzione di Roma e al Trattato sulla proprietà intellettuale in
materia di semiconduttori, sempreché tutti i Membri dell’OMC
fossero Membri di tali convenzioni. I Membri che si avvalgono
delle possibilità di cui all’art. 5, paragrafo 3 o all’art. 6,
paragrafo 2 della Convenzione di Roma ne danno notifica
conformemente a dette disposizioni al consiglio per gli aspetti dei
diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (“Consiglio
TRIPs”).
Art. 2 (Convenzioni in materia di proprietà intellettuale)
1. In relazione alle parti II, III e IV del presente Accordo, i
Membri si conformano agli articoli da 1 a 12 e all’art. 19 della
Convenzione
di
Parigi
(1967)
2. Nessuna disposizione delle parti da I a IV del presente
Accordo pregiudica gli eventuali obblighi reciproci incombenti ai
Membri in forza della Convenzione di Parigi, della Convenzione
di Berna, della Convenzione di Roma e del Trattato sulla
proprietà intellettuale in materia di semiconduttori.
Art.
3
(Trattamento
nazionale)
1. Ciascun Membro accorda ai cittadini degli altri Membri un
trattamento non meno favorevole di quello da esso accordato ai
propri cittadini in materia di protezione della proprietà
intellettuale, fatte salve le deroghe già previste, rispettivamente,
nella Convenzione di Parigi (1967), nella Convenzione di Berna
(1971), nella Convenzione di Roma o nel Trattato sulla proprietà
intellettuale
in
materia
di
semiconduttori.
Per quanto riguarda gli artisti interpreti o esecutori, i produttori
429
di fonogrammi e gli organismi di radiodiffusione, l’obbligo in
questione si applica soltanto in relazione ai diritti contemplati
dal presente Accordo. I Membri che facciano uso delle facoltà di
cui all’art. 6 della Convenzione di Berna (1971) o all’art. 16,
paragrafo 1, lettera b) della Convenzione di Roma ne informano
conformemente a dette disposizioni il consiglio TRIPs.
2. I Membri possono avvalersi delle deroghe di cui al paragrafo
1 in relazione a procedure giudiziarie e amministrative, ivi
comprese l’elezione del domicilio o la nomina di un
rappresentante nell’ambito di un Membro, soltanto se tali
deroghe sono necessarie per garantire il rispetto di leggi e
regolamenti non incompatibili con le disposizioni del presente
Accordo e se le procedure in questione non sono applicate in
modo tale da costituire una restrizione dissimulata del
commercio.
Art.
4
(Trattamento
della
nazione
più
favorita)
Per quanto riguarda la protezione della proprietà intellettuale,
tutti i vantaggi, benefici, privilegi o immunità accordati da un
Membro ai cittadini di qualsiasi altro paese sono imme
diatamente e senza condizioni estesi ai cittadini di tutti gli altri
Membri. Sono esenti da questo obbligo tutti i vantaggi, benefici,
privilegi
o
immunità
accordati
da
un
Membro:
a) derivanti da accordi internazionali in materia di assistenza
giudiziaria o applicazione della legge di carattere generale e non
particolarmente limitati alla protezione della proprietà
intellettuale;
b) concessi in conformità alle disposizioni della Convenzione di
Berna (1971) o della Convenzione di Roma in virtù delle quali il
trattamento accordato può essere funzione non del trattamento
nazionale bensì del trattamento concesso in un altro paese;
c) relativi ai diritti degli artisti interpreti o esecutori, dei
produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione
non
contemplati
dal
presente
Accordo;
d) derivanti da accordi internazionali relativi alla protezione
della proprietà intellettuale entrati in vigore prima dell’entrata in
vigore dell’Accordo OMC, purché tali accordi siano notificati al
consiglio TRIPs e non costituiscano una discriminazione
arbitraria o ingiustificata contro i cittadini degli altri Membri.
Art. 5 (Accordi multilaterali in materia di acquisizione o
mantenimento
della
protezione)
Gli obblighi di cui agli articoli 3 e 4 non si applicano alle
procedure previste negli accordi multilaterali conclusi sotto gli
auspici dell’OMPI in materia di acquisizione o mantenimento dei
diritti di proprietà intellettuale.
Art. 6 (Esaurimento) Ai fini della risoluzione delle controversie
nel quadro del presente Accordo, fatte salve le disposizioni degli
articoli 3 e 4 nessuna disposizione del presente Accordo può
essere utilizzata in relazione alla questione dell’esaurimento dei
diritti di proprietà intellettuale.
430
Art. 7 (Obiettivi) La protezione e il rispetto dei diritti di
proprietà intellettuale dovrebbero contribuire alla promozione
dell’innovazione tecnologica nonché al trasferimento e alla
diffusione di tecnologia, a reciproco vantaggio dei produttori e
degli utilizzatori di conoscenze tecnologiche e in modo da
favorire il benessere sociale ed economico, nonché l’equilibrio tra
diritti e obblighi.
Art. 8 (Principi) 1. In sede di elaborazione o modifica delle loro
disposizioni legislative e regolamentari i Membri possono
adottare
misure
necessarie
ad
assicurare
la
tutela
dell’alimentazione e della salute pubblica e a promuovere il
pubblico interesse in settori d’importanza fondamentale per il
loro sviluppo socioeconomico e tecnologico, purché tali misure
siano compatibili con le disposizioni del presente Accordo.
2. Misure appropriate, purché siano compatibili con le
disposizioni del presente Accordo, possono essere necessarie per
impedire l’abuso dei diritti di proprietà intellettuale da parte dei
titolari o il ricorso a pratiche che comportino un’ingiustificata
restrizione del commercio o pregiudichino il trasferimento
internazionale di tecnologia.
PARTE II
NORME RELATIVE ALL’ESISTENZA, ALL’AMBITO E
ALL’ESERCIZIO
DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE
Sezione 1
Diritto d’autore e diritti connessi
Art. 9 (Rapporto con la Convenzione di Berna)
1. I Membri si conformano agli articoli da 1 a 21 della
Convenzione di Berna (1971) e al suo annesso. Tuttavia essi non
hanno diritti né obblighi in virtù del presente Accordo in
relazione ai diritti conferiti dall’art. 6-bis della medesima
Convenzione
o
ai
diritti
da
esso
derivanti.
2. La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le
idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti
matematici in quanto tali.
Art. 10 (Programmi per elaboratore e compilazioni di dati)
1. I programmi per elaboratore, in codice sorgente o in codice
oggetto, sono protetti come opere letterarie ai sensi della
Convenzione
di
Berna
(1971).
2. Le compilazioni di dati o altro materiale, in forma leggibile da
una macchina o in altra forma, che a causa della selezione o
della disposizione del loro contenuto costituiscono creazioni
intellettuali sono protette come tali. La protezione, che non copre
i dati o il materiale stesso, non pregiudica diritti d’autore
eventualmente esistenti sui dati o sul materiale.
Art. 11 (Diritti di noleggio) Almeno in relazione ai programmi
per elaboratore e alle opere cinematografiche i Membri
431
accordano agli autori e agli aventi causa il diritto di autorizzare
o vietare il noleggio al pubblico di originali o copie delle opere
protette. Un Membro è esonerato da questo obbligo in relazione
alle opere cinematografiche, a meno che il noleggio non abbia
dato luogo ad una diffusa riproduzione di tali opere che
comprometta sostanzialmente il diritto esclusivo di riproduzione
conferito nello stesso Membro agli autori e ai loro aventi causa.
Per quanto riguarda i programmi per elaboratore, questo obbligo
non si applica ai casi in cui il programma medesimo non
costituisca l’oggetto essenziale del noleggio.
Art. 12 (Durata della protezione) Ogni qualvolta la durata della
protezione di un opera, eccettuate le opere fotografiche o le opere
delle arti applicate, sia computata su una base diversa dalla vita
di una persona fisica, tale durata non può essere inferiore a 50
anni dalla fine dell’anno civile di pubblicazione autorizzata
dell’opera, oppure, qualora tale pubblicazione non intervenga nei
50 anni successivi alla realizzazione dell’opera, a 50 anni dalla
fine dell’anno civile di realizzazione.
Art.
13
(Limitazioni
ed
eccezioni)
I Membri possono imporre limitazioni o eccezioni ai diritti
esclusivi soltanto in taluni casi speciali che non siano in
conflitto con un normale sfruttamento dell’opera e non
comportino un ingiustificato pregiudizio ai legittimi interessi del
titolare.
Art. 14 (Protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei
produttori di fonogrammi (registrazioni sonore) e degli
organismi
di
radiodiffusione)
1. Per quanto riguarda la fissazione della loro esecuzione su un
fonogramma, gli artisti interpreti o esecutori hanno la facoltà di
impedire, salvo proprio consenso, la fissazione della loro
esecuzione non fissata e la riproduzione di tale fissazione,
nonché la radiodiffusione e la comunicazione al pubblico della
loro
esecuzione
dal
vivo.
2. I produttori di fonogrammi godono del diritto di autorizzare o
di vietare la riproduzione diretta o indiretta dei loro fonogrammi.
3. Gli organismi di radiodiffusione hanno il diritto di vietare,
salvo proprio consenso, le seguenti azioni: la fissazione, la
riproduzione di fissazioni e la riemissione delle loro emissioni,
nonché la comunicazione al pubblico delle loro emissioni
televisive. Se i Membri non accordano tali diritti agli organismi
di radiodiffusione, danno ai titolari del diritto d’autore
sull’oggetto delle emissioni la possibilità di impedire le azioni
suddette, fatte salve le disposizioni della Convenzione di Berna
(1971).
4. Le disposizioni dell’art. 11 in relazione ai programmi per
elaboratore si applicano, mutatis mutandis, ai produttori di
fonogrammi e a qualsiasi altro titolare di diritti sui fonogrammi
ai sensi delle legislazioni dei Membri. Se al 15 aprile 1994 in un
Membro vige un sistema di equo compenso dei titolari di diritti
per il noleggio di fonogrammi, tale sistema può essere
432
mantenuto purché il noleggio di fonogrammi non comprometta
in modo sostanziale i diritti esclusivi di riproduzione dei titolari.
5. La durata della protezione concessa dal presente Accordo agli
artisti interpreti o esecutori e ai produttori di fonogrammi si
estende almeno fino alla fine di un periodo di 50 anni computati
dalla fine dell’anno civile in cui è stata fatta la fissazione o ha
avuto luogo l’esecuzione. La durata della protezione concessa ai
sensi del paragrafo 3 si estende per almeno 20 anni dalla fine
dell’anno civile in cui l’emissione ha avuto luogo.
6. Qualsiasi Membro può, in relazione ai diritti di cui ai
paragrafi 1, 2 e 3 prevedere condizioni, limitazioni, deroghe e
riserve entro i limiti consentiti dalla Convenzione di Roma.
Tuttavia le disposizioni dell’art. 18 della Convenzione di Berna
(1971) si applicano, mutatis mutandis, anche ai diritti degli
artisti interpreti o esecutori e dei produttori di fonogrammi sui
fonogrammi.
[…]
Sezione 5
Brevetti
Art.
27
(Oggetto
del
brevetto)
1. Fatte salve le disposizioni dei paragrafi 2 e 3, possono
costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto o di
procedimento, in tutti i campi della tecnologia, che siano nuove,
implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere
un’applicazione industriale. Fatti salvi l’art. 65, paragrafo 4,
l’art. 70, paragrafo 8 e il paragrafo 3 del presente articolo, il
conseguimento dei brevetti e il godimento dei relativi diritti non
sono soggetti a discriminazioni in base al luogo d’invenzione, al
settore tecnologico e al fatto che i prodotti siano d’importazione o
di
fabbricazione
locale.
2. I Membri possono escludere dalla brevettabilità le invenzioni
il cui sfruttamento commerciale nel loro territorio deve essere
impedito per motivi di ordine pubblico o di moralità pubblica,
nonché per proteggere la vita o la salute dell’uomo, degli animali
o dei vegetali o per evitare gravi danni ambientali, purché
l’esclusione non sia dettata unicamente dal fatto che lo
sfruttamento
è
vietato
dalle
loro
legislazioni.
3. I Membri possono inoltre escludere dalla brevettabilità:
a) i metodi diagnostici, terapeutici e chirurgici per la cura
dell’uomo
o
degli
animali;
b) i vegetali e gli animali, tranne i microorganismi, e i processi
essenzialmente biologici per la produzione di vegetali o animali,
tranne i processi non biologici e microbiologici. Tuttavia i
Membri prevedono la protezione delle varietà di vegetali
mediante brevetti o mediante un efficace sistema sui generis o
una combinazione dei due. Le disposizioni della presente lettera
sono sottoposte ad esame quattro anni dopo la data di entrata in
vigore dell’Accordo OMC.
433
Art.
28
(Diritti
conferiti)
1. Il brevetto conferisce al titolare i seguenti diritti esclusivi: a)
se oggetto del brevetto è un prodotto, il diritto di vietare ai terzi,
salvo suo consenso, di produrre, utilizzare, mettere in
commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto in
questione; b) se oggetto del brevetto è un procedimento, il diritto
di vietare ai terzi, salvo suo consenso, di usare il procedimento,
nonché di usare, mettere in commercio, vendere o importare a
tali fini almeno il prodotto direttamente ottenuto con il processo
in
questione.
2. Il titolare ha inoltre il diritto di cedere, o di trasmettere agli
eredi, il brevetto e di concedere licenze.
Art.
29
(Condizioni
relative
ai
richiedenti)
1. I Membri possono disporre che il richiedente di un brevetto
descriva l’invenzione in un modo sufficientemente chiaro e
completo perché una persona esperta del ramo possa attuarla e
possono altresì prescrivere che il richiedente indichi il miglior
modo di attuare l’invenzione noto all’inventore alla data di
presentazione o, qualora si rivendichi la priorità, alla data di
priorità
della
domanda.
2. I Membri possono disporre che il richiedente di un brevetto
fornisca informazioni circa le corrispondenti domande da lui
presentate all’estero e i corrispondenti brevetti conseguiti
all’estero.
Art.
30
(Eccezioni
ai
diritti
conferiti)
I Membri possono prevedere limitate eccezioni ai diritti esclusivi
conferiti da un brevetto, purché tali eccezioni non siano
indebitamente in contrasto con un normale sfruttamento del
brevetto e non pregiudichino in modo ingiustificato i legittimi
interessi del titolare, tenuto conto dei legittimi interessi dei terzi.
Art. 31 (Altri usi senza il consenso del titolare)
Qualora la legislazione di un Membro consenta altri usi
dell’oggetto di un brevetto senza il consenso del titolare, ivi
compreso l’uso da parte della pubblica amministrazione o di
terzi da questa autorizzati si applicano le seguenti disposizioni:
a) l’autorizzazione dell’uso in questione si considera nei suoi
aspetti
peculiari;
b) l’uso in questione può essere consentito soltanto se
precedentemente l’aspirante utilizzatore ha cercato di ottenere
l’autorizzazione del titolare secondo eque condizioni e modalità
commerciali e se le sue iniziative non hanno avuto esito positivo
entro un ragionevole periodo di tempo. Un Membro può derogare
a questo requisito nel caso di un’emergenza nazionale o di altre
circostanze di estrema urgenza oppure in caso di uso pubblico
non commerciale. In situazioni d’emergenza nazionale o in altre
circostanze d’estrema urgenza il titolare viene tuttavia informato
quanto prima possibile. Nel caso di uso pubblico non
commerciale, quando la pubblica amministrazione o l’impresa,
senza fare una ricerca di brevetto, sanno o hanno evidenti motivi
per sapere che un brevetto valido è o sarà utilizzato da o per la
434
pubblica amministrazione, il titolare ne viene informato
immediatamente;
c) l’ambito e la durata dell’uso in questione sono limitati allo
scopo per il quale esso è stato autorizzato; nel caso della
tecnologia dei semiconduttori lo scopo è unicamente l’uso
pubblico non commerciale oppure quello di correggere un
comportamento, risultato in seguito a procedimento giudiziario o
amministrativo,
anticoncorrenziale;
d)
l’uso
in
questione
non
è
esclusivo;
e) l’uso non è alienabile, fuorché con la parte dell’impresa o
dell’avviamento
che
ne
ha
il
godimento;
f) l’uso in questione è autorizzato prevalentemente per
l’approvvigionamento del mercato interno del Membro che lo
autorizza;
g) l’autorizzazione dell’uso in questione può, fatta salva
un’adeguata protezione dei legittimi interessi delle persone
autorizzate, essere revocata se e quando le circostanze che
l’hanno motivata cessano di esistere ed è improbabile che
tornino a verificarsi. L’autorità competente ha il potete di
esaminare, su richiesta motivata, il permanere di tali
circostanze;
h) in ciascun caso il titolare riceve un equo compenso, tenuto
conto
del
valore
economico
dell’autorizzazione;
i) la legittimità di qualsiasi decisione relativa all’autorizzazione
dell’uso in oggetto è sottoposta a controllo giurisdizionale o ad
altro controllo esterno da parte di un’autorità superiore distinta
del
Membro
in
questione;
j) qualsiasi decisione relativa al compenso previsto per l’uso in
oggetto è sottoposta a controllo giurisdizionale o altro controllo
esterno da parte di una distinta autorità superiore del Membro
in
questione;
k) i Membri non sono tenuti ad applicare le condizioni di cui
alle lettere b) e f) qualora l’uso in oggetto sia autorizzato per
correggere un comportamento risultato, in seguito a
procedimento giudiziario o amministrativo, anticoncorrenziale.
La necessità di correggere pratiche anticoncorrenziali può essere
presa in considerazione nel determinare l’importo del compenso
in tali casi. Le autorità competenti hanno il potere di rifiutare la
revoca di un’autorizzazione se e quando le condizioni che
l’hanno
motivata
hanno
probabilità
di
ripresentarsi;
l) qualora l’uso in questione sia autorizzato per consentire lo
sfruttamento di un brevetto (“il secondo brevetto”) che non si
possa sfruttare senza contraffazione di un altro brevetto (“il
primo brevetto”), si applicano le seguenti condizioni
supplementari:
i) l’invenzione rivendicata nel secondo brevetto deve implicare
un importante avanzamento tecnico di considerevole rilevanza
economica in relazione all’invenzione rivendicata nel primo
brevetto;
ii) il titolare del primo brevetto ha diritto ad una controlicenza a
condizioni ragionevoli per l’uso dell’invenzione rivendicata nel
secondo brevetto; e iii) l’uso autorizzato in relazione al primo
435
brevetto non è alienabile fuorché con la cessione del secondo
brevetto.
Art. 32 (Revoca/Decadenza) Qualsiasi decisione di revoca o
decadenza di un brevetto può essere sottoposta a controllo
giurisdizionale.
Art. 33 (Durata della protezione) La durata della protezione
concessa non può terminare prima della scadenza di un periodo
di 20 anni computati dalla data del deposito.
Art. 34 (Brevetti di procedimento: obbligo della prova)
1. Ai fini dei procedimenti civili in ordine alla violazione dei
diritti del titolare di cui all’art. 28, paragrafo 1, lettera b), se
oggetto di un brevetto è un procedimento che consente di
ottenere un prodotto, le autorità giudiziarie hanno la facoltà di
imporre al convenuto di provare che il procedimento per ottenere
un prodotto identico è diverso dal procedimento brevettato.
Pertanto i Membri dispongono, almeno in uno dei casi
sottoindicati, che un prodotto identico, fabbricato senza il
consenso del titolare del brevetto, si considera, salvo prova
contraria, ottenuto mediante il procedimento brevettato:
a) se il prodotto ottenuto mediante il procedimento brevettato è
nuovo;
b) se esiste una sostanziale probabilità che il prodotto identico
sia stato fabbricato mediante il procedimento e se il titolare del
brevetto non ha potuto determinare con mezzi ragionevoli il
procedimento
effettivamente
usato.
2. Ciascun Membro ha facoltà di stabilire che l’obbligo della
prova di cui al paragrafo 1 incombe al presunto contraffattore
soltanto se sussiste la condizione di cui alla lettera a) o soltanto
se
sussiste
la
condizione
di
cui
alla
lettera
b).
3. Nell’espletamento della prova contraria, si deve prendere in
considerazione il legittimo interesse del convenuto alla
protezione dei suoi segreti di fabbricazione e commerciali.
[…]
Sezione 7
Protezione di informazioni segrete
Art. 39
1. Nell’assicurare un’efficace protezione contro la concorrenza
sleale ai sensi dell’art. 10-bis della Convenzione di Parigi (1967),
i Membri assicurano la protezione delle informazioni segrete
conformemente al paragrafo 2 e quella dei dati forniti alle
autorità pubbliche o agli organismi pubblici conformemente al
paragrafo
3.
2. Le persone fisiche e giuridiche hanno la facoltà di vietare che,
salvo proprio consenso, le informazioni sottoposte al loro
legittimo controllo siano rivelate a terzi oppure acquisite o
utilizzate da parte di terzi in un modo contrario a leali pratiche
commerciali
nella
misura
in
cui
tali
informazioni:
436
a) siano segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella
precisa configurazione e combinazione dei loro elementi,
generalmente note o facilmente accessibili a persone che
normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione;
b) abbiano valore commerciale in quanto segrete; e
c) siano state sottoposte, da parte della persona al cui legittimo
controllo sono soggette, a misure adeguate nel caso in questione
intesa
a
mantenerle
segrete.
3. I Membri, qualora subordinino l’autorizzazione della
commercializzazione di prodotti chimici farmaceutici o agricoli
implicanti l’uso di nuove sostanze chimiche alla presentazione di
dati relativi a prove o di altri dati segreti, la cui elaborazione
comporti un considerevole impegno, assicurano la tutela di tali
dati da sleali usi commerciali. Essi inoltre proteggono detti dati
dalla divulgazione, salvo nei casi in cui risulti necessaria per
proteggere il pubblico o a meno che non vengano prese misure
atte a garantire la protezione dei dati contro sleali usi
commerciali.
Sezione 8
Controllo delle pratiche anticoncorrenziali nel campo delle
licenze contrattuali
Art. 40
1. I Membri convengono che alcune modalità o condizioni per la
concessione di licenze sui diritti di proprietà intellettuale che
limitano la concorrenza possono avere effetti negativi sul
commercio e impedire il trasferimento e la diffusione di
tecnologia.
2. Nessuna disposizione del presente Accordo impedisce ai
Membri di specificare nelle loro legislazioni le pratiche o
condizioni che potrebbero in determinati casi costituire un
abuso dei diritti di proprietà intellettuale con effetto negativo
sulla concorrenza nel mercato corrispondente. Come previsto
sopra, un Membro può adottare, compatibilmente con le altre
disposizioni del presente Accordo, opportune misure intese ad
impedire o controllare tali pratiche, tra cui ad esempio
concessioni esclusive al licenziante, condizioni che impediscono
contestazioni della validità e imposizione di licenze globali, alla
luce delle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del
Membro
in
questione.
3. Ciascun Membro avvia, su richiesta, consultazioni con
qualsiasi altro Membro che abbia motivo di ritenere che il
titolare di un diritto di proprietà intellettuale, cittadino del
Membro al quale è stata rivolta la richiesta di consultazioni o ivi
residente, stia attuando pratiche contrarie alle disposizioni
legislative e regolamentari del Membro richiedente sull’oggetto
della presente sezione e desideri garantire l’osservanza di dette
disposizioni, fatte salve qualsiasi azione ai sensi di legge e la
piena libertà di una decisione definitiva per ciascuno dei due
Membri. Il Membro al quale viene rivolta la richiesta di
consultazioni mostra di buon grado la massima disponibilità e
offre adeguate opportunità per le consultazioni con il Membro
437
richiedente; collabora inoltre fornendo informazioni non
riservate pubblicamente disponibili pertinenti al problema in
questione e altre informazioni a sua disposizione, fatte salve le
normative nazionali e la conclusione di accordi reciprocamente
soddisfacenti in ordine alla tutela del loro carattere riservato da
parte
del
Membro
richiedente.
4. Qualora cittadini di un Membro o residenti nel suo territorio
siano soggetti in un altro Membro a procedimenti per presunta
violazione delle disposizioni legislative e regolamentari di
quest’ultimo relative all’oggetto della presente sezione, al primo
Membro viene concessa, su richiesta, dall’altro Membro la
possibilità di consultazioni alle condizioni di cui al paragrafo 3.
PARTE III
TUTELA DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE
Sezione 1
Obblighi generali
Art. 41
1. I Membri fanno in modo che le loro legislazioni prevedano le
procedure di tutela di cui alla presente parte in modo da
consentire un’azione efficace contro qualsiasi violazione dei
diritti di proprietà intellettuale contemplati dal presente
Accordo, ivi compresi rapidi mezzi per impedire violazioni e
mezzi che costituiscano un deterrente contro ulteriori violazioni.
Le procedure in questione si applicano in modo da evitare la
creazione di ostacoli ai legittimi scambi e fornire salvaguardie
contro
il
loro
abuso.
2. Le procedure atte ad assicurare il rispetto dei diritti di
proprietà intellettuale sono leali ed eque. Esse non sono
indebitamente complicate o costose né comportano termini
irragionevoli
o
ritardi
ingiustificati.
3. Le decisioni sul merito di una controversia sono
preferibilmente formulate per iscritto e motivate. Esse sono rese
accessibili almeno alle parti del procedimento senza indebito
indugio. Le decisioni sul merito di una controversia sono basate
soltanto sugli elementi di prova in relazione ai quali è stata
concessa alle parti la possibilità di essere sentite.
4. Le parti di un procedimento hanno la possibilità di
promuovere un riesame da parte di un’autorità giudiziaria delle
decisioni amministrative definitive e, fatte salve le disposizioni
giurisdizionali della legislazione di un Membro relative
all’importanza di un procedimento, almeno degli aspetti giuridici
delle decisioni giudiziarie iniziali sul merito della controversia.
Tuttavia non vi è alcun obbligo di prevedere un’opportunità di
riesame
delle
assoluzioni
nelle
cause
penali.
5. È inteso che la presente parte non crea alcun obbligo di
predisporre un sistema giudiziario per la tutela dei diritti di
proprietà intellettuale distinto da quello per l’applicazione della
legge in generale, né influisce sulla capacità dei Membri di
applicare le rispettive leggi in generale. Nessuna disposizione
della presente parte crea alcun obbligo riguardo alla
438
distribuzione delle risorse tra i mezzi per la tutela dei diritti di
proprietà intellettuale e i mezzi per l’applicazione della legge in
generale.
[…]
9) 2011 Report on the Application of the EU
Charter of Fundamental Rights
[…]
In several initiatives, the Commission paid particular
attention to the right to property (Articlev 17 of the
Charter) which provides that intellectual property shall be
protected. The Commission presented a Communication on
'A Single Market for Intellectual Property Rights'63, where
it announced a number of initiatives, including a possible
review of EU legislation on the enforcement of intellectual
property rights in particular in the light of piracy over the
internet. The Commission announced that such a review
will require conducting an impact assessment, not only on
the right to property, but also on the rights to private life,
the protection of personal data, freedom of expression and
information and the right to an effective remedy. As
explained in the Charter Strategy, highlighting potential
fundamental rights aspects upstream of the preparation of
proposals encourage contributions that will feed into the
impact assessment of the review.
[…]
439
La
proprietà
europea
conformazione e limiti esterni
tra
10) caso Nold (1974)
I) SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CE DEL 14 MAGGIO
1974. - J. NOLD, KOHLEN- UND BAUSTOFFGROSSHANDLUNG
CONTRO COMMISSIONE DELLE COMUNITA'EUROPEE. - CAUSA
4/73.
Massima
1. LA COMMISSIONE HA FACOLTA DI AUTORIZZARE UNA
DISCIPLINA COMMERCIALE LIMITATIVA DELL' AMMISSIONE
ALL'ACQUISTO DIRETTO DI COMBUSTIBILI, GIUSTIFICATA DALLA
NECESSITA
DI
RAZIONALIZZARE
LA
DISTRIBUZIONE,
A
CONDIZIONE CHE ESSA VENGA APPLICATA ALLA STESSA STREGUA
PER TUTTE LE IMPRESE INTERESSATE.
2. I DIRITTI FONDAMENTALI FANNO PARTE INTEGRANTE DEI
PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO, DI CUI LA CORTE DI GIUSTIZIA
GARANTISCE L'OSSERVANZA. NEL GARANTIRE LA TUTELA DI TALI
DIRITTI, LA CORTE E TENUTA AD ISPIRARSI ALLE TRADIZIONI
COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E NON POTREBBE
AMMETTERE PROVVEDIMENTI INCOMPATIBILI CON I DIRITTI
FONDAMENTALI RICONOSCIUTI E GARANTITI DALLA COSTITUZIONE
DI TALI STATI. I TRATTATI INTERNAZIONALI RELATIVI ALLA TUTELA
DEI DIRITTI DELL'UOMO, CUI GLI STATI MEMBRI HANNO
COOPERATO O ADERITO, POSSONO DEL PARI FORNIRE ELEMENTI
DI CUI OCCORRE TENERE CONTO NELL' AMBITO DEL DIRITTO
COMUNITARIO.
3. BENCHE L'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI TUTTI GLI STATI
MEMBRI TUTELI IL DIRITTO DI PROPRIETA’ E DI ANALOGA TUTELA
FRUISCANO IL LIBERO ESERCIZIO DEL COMMERCIO, DEL LAVORO
E DI ALTRE ATTIVITA ECONOMICHE, I DIRITTI COSI' GARANTITI,
LUNGI DAL COSTITUIRE PREROGATIVE ASSOLUTE, VANNO
CONSIDERATI ALLA LUCE DELLA FUNZIONE SOCIALE DEI BENI E
DELLE ATTIVITA, OGGETTO DELLA TUTELA. PER QUESTA RAGIONE,
LA GARANZIA CONCESSA AI DIRITTI DI TAL SORTA, FA
GENERALMENTE SALVE LE LIMITAZIONI POSTE IN VISTA
DELL'INTERESSE PUBBLICO. NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO
COMUNITARIO, APPARE TALVOLTA LEGITTIMO SOTTOPORRE DETTI
DIRITTI A LIMITI GIUSTIFICATI DAGLI OBIETTIVI DI INTERESSE
GENERALE PERSEGUITI DALLA COMUNITA, PERCHE NON RESTI
LESA LA SOSTANZA DEI DIRITTI STESSI. NON SI POSSONO
COMUNQUE ESTENDERE LE GARANZIE SUMMENZIONATE ALLA
PROTEZIONE DI SEMPLICI INTERESSI O POSSIBILITA D'INDOLE
440
COMMERCIALE,
LA
CUI
NATURA
ALEATORIA
NELL'ESSENZA STESSA DELL'ATTIVITA ECONOMICA.
E
INSITA
Parti
NELLA CAUSA 4-73,
J. NOLD, KOHLEN-UND BAUSTOFFGROSSHANDLUNG, SOCIETA IN
ACCOMANDITA SEMPLICE, CON SEDE IN DARMSTADT, CON L'AVV.
MANFRED LUETKEHAUS, DEL FORO DI ESSEN, E CON DOMICILIO
ELETTO IN LUSSEMBURGO, PRESSO L'AVV. ANDRE ELVINGER, 84,
GRAND-RUE, RICORRENTE,
CONTRO
COMMISSIONE DELLE COMUNITA' EUROPEE, RAPPRESENTATA DAL
SUO CONSIGLIERE GIURIDICO SIG. DIETER OLDEKOP, IN QUALITA
D'AGENTE, E CON DOMICILIO ELETTO IN LUSSEMBURGO, PRESSO
IL PROPRIO CONSIGLIERE GIURIDICO, SIG. PIERRE LAMOUREUX, 4,
BOULEVARD ROYAL, CONVENUTA,
E
RUHRKOHLE AKTIENGESELLSCHAFT, SOCIETA PER AZIONI, CON
SEDE IN ESSEN, NONCHE
RUHRKOHLE
VERKAUFS-GESELLSCHAFT
MBH,
RESPONSABILITA LIMITATA, CON SEDE IN ESSEN,
SOCIETA
A
RAPPRESENTATA DALL'AVV. OTFRIED LIEBERKNECHT, DEL FORO
DI DUESSELDORF, E CON DOMICILIO ELETTO IN LUSSEMBURGO,
PRESSO L'AVV. ALEX BONN, 22, COTE D'EICH, INTERVENIENTI A
SOSTEGNO DELLA CONVENUTA,
Oggetto della causa
CAUSA
AVENTE
AD
OGGETTO
L'ANNULLAMENTO
DELLA
DECISIONE DELLA COMMISSIONE 21 DICEMBRE 1972, RELATIVA
ALL'AUTORIZZAZIONE DI NUOVE NORME DI VENDITA DELLA
RUHRKOHLE AG,
Motivazione della sentenza
1 CON RICORSO DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 31 GENNAIO
1973, LA DITTA J. NOLD, SOCIETA IN ACCOMANDITA SEMPLICE,
CON SEDE IN DARMSTADT, CHE ESERCITA IL COMMERCIO ALL'
INGROSSO DI CARBONE E DI MATERIALE EDILIZIO, HA CHIESTO NELL'ULTIMA
VERSIONE
DELLE
SUE
CONCLUSIONI
L'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE DELLA COMMISSIONE 21
DICEMBRE 1972, RELATIVA ALL' AUTORIZZAZIONE DI NUOVE
NORME DI VENDITA DELLA RUHRKOHLE AG (GU 1973, N. L 120,
PAG. 14) E, IN SUBORDINE, CHE SI DICHIARI DETTA DECISIONE
NULLA E PRIVA DI EFFETTI NEI CONFRONTI DELLA RICORRENTE
NELLA PARTE AD ESSA RELATIVA. LA RICORRENTE FA IN
SOSTANZA CARICO ALLA DECISIONE DI AVER AUTORIZZATO GLI
441
UFFICI DI VENDITA DELLE IMPRESE MINERARIE DEL BACINO
DELLA RUHR A SUBORDINARE L'ACQUISTO DIRETTO DI CARBONE
ALLA STIPULAZIONE DI CONTRATTI FERMI BIENNALI, AVENTI AD
OGGETTO L'ACQUISTO ANNUO DI UN MINIMO DI 6 000
TONNELLATE PER IL RIFORNIMENTO DEI SETTORI DOMESTICI E
DELLA PICCOLA INDUSTRIA, QUANTITATIVO CHE SUPERA DI GRAN
LUNGA LE PROPRIE VENDITE ANNUALI IN DETTO SETTORE, E DI
AVERLA QUINDI ESCLUSA DALLA SUA POSIZIONE DI GROSSISTA DI
PRIMA MANO.
SULLA RICEVIBILITA
2 LA COMMISSIONE NON HA CONTESTATO LA RICEVIBILITA DELLA
DOMANDA INTRODUTTIVA. LA RUHRKOHLE AG E LA RUHRKOHLEVERKAUFS
GMBH,
INTERVENIENTI,
HANNO
ECCEPITO
L'IRRICEVIBILITA DEL RICORSO PER MANCANZA D'INTERESSE AD
AGIRE DA PARTE DELLA RICORRENTE. ESSE SOSTENGONO IN
EFFETTI CHE, DATO E NON CONCESSO CHE QUEST' ULTIMA
RIUSCISSE AD OTTENERE L'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE 21
DICEMBRE 1972, LA SENTENZA DELLA CORTE PRODURREBBE
L'EFFETTO DI RIPRISTINARE LA DISCIPLINA COMMERCIALE
PRECEDENTE A QUELLA CHE COSTITUISCE OGGETTO DELLA
DECISIONE IN QUESTIONE. LA RICORRENTE NON POSSEDEVA
NEMMENO I REQUISITI CONTEMPLATI DALLA PRECEDENTE
DISCIPLINA, DI GUISA CHE ESSA PERDEREBBE COMUNQUE LA
SUA QUALITA DI GROSSISTA DI PRIMA MANO.
3 QUESTA ECCEZIONE VA DISATTESA. INFATTI, NEL CASO IN CUI
LA DECISIONE IMPUGNATA VENISSE ANNULLATA, E PREVEDIBILE
CHE LA COMMISSIONE PROCEDEREBBE NEL SENSO CHE LA
DISCIPLINA COMMERCIALE AUTORIZZATA VENGA SOSTITUITA DA
NUOVE DISPOSIZIONI, PIU CONSONE ALLA CONDIZIONE DELLA
RICORRENTE.
NON SI PUO' QUINDI NEGARE CHE QUESTA ABBIA INTERESSE
ALL'ANNULLAMENTO DELLA DECISIONE DI CUI TRATTASI.
NEL MERITO
4 LA RICORRENTE, IN MERITO AI MOTIVI D' ANNULLAMENTO
CONTEMPLATI DALL'ART. 33 DEL TRATTATO CECA, NON HA
PRECISATO QUALI MEZZI ABBIA DEDOTTO AVVERSO LA
DECISIONE IMPUGNATA.
5 COMUNQUE, UNA PARTE CONSIDEREVOLE DELLA SUA
ARGOMENTAZIONE VA DI PRIMO ACCHITO DISATTESA, NELLA
MISURA IN CUI ESSA SI RIFERISCE ALLE CENSURE AVENTI AD
OGGETTO, NON GIA LE DISPOSIZIONI DELLA DECISIONE
IMPUGNATA DELLA COMMISSIONE, BENSI' LE SUE RELAZIONI CON
LE INTERVENIENTI.
6 NEI LIMITI IN CUI LE CENSURE RIGUARDANO LA DECISIONE
DELLA COMMISSIONE, LE DEDUZIONI SCRITTE E ORALI DELLA
442
RICORRENTE RIENTRANO ANCORA, IN SOSTANZA, NEI MEZZI DI
VIOLAZIONE DI FORME ESSENZIALI E DI VIOLAZIONE DEL
TRATTATO O DELLE NORME GIURIDICHE RELATIVE ALLA SUA
APPLICAZIONE.
TALI MEZZI VERTONO, PIU PARTICOLARMENTE, PER QUANTO
RIGUARDA
LE
NUOVE
CONDIZIONI
STABILITE
PER
IL
RIFORNIMENTO DIRETTO DA PARTE DELLE MINIERE DI CARBONE,
SULL'INSUFFICIENTE
MOTIVAZIONE
DELLA
DECISIONE
IMPUGNATA, SULLA DISCRIMINAZIONE NEI CONFRONTI DELLA
RICORRENTE, NONCHE SULLA PRETESA VIOLAZIONE DEI SUOI
DIRITTI FONDAMENTALI.
1 . SULLE CENSURE DI INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE E DI
DISCRIMINAZIONE
7 CON DECISIONE 27 NOVEMBRE 1969 LA COMMISSIONE, A
NORMA DELL' ART. 66, N . 1 E N . 2 DEL TRATTATO CECA,
AUTORIZZAVA LA FUSIONE DELLA QUASI TOTALITA DELLE
IMPRESE MINERARIE DEL BACINO DELLA RUHR IN UN' UNICA
SOCIETA, LA RUHRKOHLE AG, CUI L' ART . 2, N . 1, DI TALE
DECISIONE
HA
FATTO
OBBLIGO
DI
SOTTOPORRE
ALL'AUTORIZZAZIONE DELLA STESSA COMMISSIONE QUALSIASI
MODIFICA DELLE PROPRIE NORME DI VENDITA. IN DATA 30
GIUGNO
1972,
LA
RUHRKOHLE
AG
RIVOLGEVA
ALLA
COMMISSIONE UNA DOMANDA IN TAL SENSO. L'AUTORIZZAZIONE
DELLA COMMISSIONE VENIVA CONCESSA CON DECISIONE 21
DICEMBRE 1972, OGGETTO DELLA PRESENTE CONTROVERSIA.
CON LA DISCIPLINA COSI' OMOLOGATA, SONO STATE STABILITE
NUOVE CONDIZIONI IN MERITO AI QUANTITATIVI MINIMI CHE I
GROSSISTI DEVONO IMPEGNARSI AD ACQUISTARE PER POTER
FRUIRE DELL' APPROVVIGIONAMENTO DIRETTO DA PARTE DEL
PRODUTTORE. GLI ACQUISTI DIRETTI, IN ISPECIE, SONO
SUBORDINATI ALLA STIPULAZIONE DA PARTE DEL GROSSISTA DI
CONTRATTI BIENNALI AVENTI AD OGGETTO L'ACQUISTO DI UN
QUANTITATIVO MINIMO DI 6 000 TONNELLATE ANNUE, DESTINATE
ALL' APPROVVIGIONAMENTO DEL SETTORE DOMESTICO E DELLA
PICCOLA INDUSTRIA.
8 SI FA CARICO ALLA COMMISSIONE DI AVER CONSENTITO ALLA
RUHRKOHLE AG DI STABILIRE ARBITRARIAMENTE QUESTA
CLAUSOLA
DI
GUISA
CHE,
IN
CONSIDERAZIONE
DELL'
AMMONTARE E DELLA NATURA DELLE SUE VENDITE ANNUALI, LA
RICORRENTE SI TROVA AD ESSERE TAGLIATA FUORI DAL
RIFORNIMENTO DIRETTO E RIDOTTA ALLA CONDIZIONE DI
GROSSISTA DI SECONDA MANO, CON GLI INCONVENIENTI
COMMERCIALI CHE NE CONSEGUONO. DA UN CANTO, LA
RICORRENTE CONSIDERA COME DISCRIMINATORIO IL FATTO CHE,
A DIFFERENZA DELLE ALTRE IMPRESE, ESSA E STATA ESCLUSA
DAL RIFORNIMENTO DIRETTO DA PARTE DEL PRODUTTORE E
VIENE COSI' A TROVARSI IN UNA SITUAZIONE PIU SFAVOREVOLE
RISPETTO A QUELLA DEI GROSSISTI CHE CONTINUANO A FRUIRE
443
DI TALE VANTAGGIO. D'ALTRO CANTO, ESSA INVOCA L'ART. 65, N.
2, CHE, IN UNA SITUAZIONE ANALOGA A QUELLA CONTEMPLATA
DALL' ART. 66, AUTORIZZEREBBE ACCORDI DI VENDITA IN
COMUNE ALLA SOLA CONDIZIONE CHE ESSI CONTRIBUISCANO "AL
MIGLIORAMENTO NOTEVOLE DELLA PRODUZIONE O DELLA
DISTRIBUZIONE DEI PRODOTTI CONSIDERATI".
9 LA COMMISSIONE, NELLA MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE, HA
EVIDENZIATO
DI
RENDERSI
CONTO
DEL
FATTO
CHE
L'INTRODUZIONE DI NUOVE NORME DI VENDITA AVREBBE
COMPORTATO IL VENIR MENO, PER UN CERTO NUMERO DI
GROSSISTI, DELLA POSSIBILITA D' ACQUISTARE DIRETTAMENTE
PRESSO IL PRODUTTORE, NON POTENDO ESSI ASSUMERE GLI
IMPEGNI
SOPRA
INDICATI.
ESSA
GIUSTIFICA
TALE
PROVVEDIMENTO CON IL FATTO CHE LA RUHRKOHLE AG, DI
FRONTE AL FORTE CALO DELLE VENDITE DI CARBONE, E STATA
COSTRETTA A RAZIONALIZZARE LA PROPRIA DISTRIBUZIONE,
LIMITANDO I RAPPORTI DIRETTI AI GROSSISTI CHE SONO IN
GRADO DI GARANTIRLE UN GIRO DI VENDITE ADEGUATO. LA
NECESSITA DI UN IMPEGNO CONTRATTUALE VERTENTE SU UN
TONNELLAGGIO ANNUO MINIMO, DEVE, IN EFFETTI, ASSICURARE
ALLE MINIERE DI CARBONE UNO SMERCIO REGOLARE, IN
QUANTITA ADEGUATA AL RITMO DELLA LORO PRODUZIONE.
10 DALLE DELUCIDAZIONI FORNITE DALLA COMMISSIONE E DALLE
INTERVENIENTI SI DESUME CHE LA DETERMINAZIONE DEI
CRITERI SUINDICATI PUO' ESSERE GIUSTIFICATA NON SOLTANTO
DALLE TECNICHE USATE NELLO SFRUTTAMENTO DELLE MINIERE
DI CARBONE, MA ANCHE DALLE DIFFICOLTA ECONOMICHE
SPECIFICHE DETERMINATESI A SEGUITO DELLA DIMINUZIONE
DELLA PRODUZIONE CARBONIFERA. TALI CRITERI, PERCIO',
STABILITI CON UN ATTO AVENTE EFFETTO ERGA OMNES, NON
POSSONO VENIR CONSIDERATI COME DISCRIMINATORI E
APPAIONO ADEGUATAMENTE MOTIVATI NELLA DECISIONE 21
DICEMBRE 1972. PER QUANTO RIGUARDA L'APPLICAZIONE DI TALI
CRITERI, NON E STATO SOSTENUTO CHE LA RICORRENTE SIA
STATA TRATTATA IN MODO DIVERSO RISPETTO ALLE ALTRE
IMPRESE CHE, NON POSSEDENDO I REQUISITI POSTI DALLA
NUOVA DISCIPLINA, HANNO COME ESSA PERDUTO IL VANTAGGIO
DELL'AMMISSIONE
ALL'ACQUISTO
DIRETTO
PRESSO
IL
PRODUTTORE.
11 I MEZZI IN ESAME VANNO QUINDI DISATTESI.
2. SULLA CENSURA DI VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI
12 LA RICORRENTE INFINE DEDUCE LA VIOLAZIONE DI TALUNI
DIRITTI FONDAMENTALI PER IL FATTO CHE LE LIMITAZIONI
APPORTATE
DALLA
NUOVA
DISCIPLINA
COMMERCIALE
AUTORIZZATA DALLA COMMISSIONE, ESCLUDENDOLA DAL
RIFORNIMENTO DIRETTO, MENOMEREBBERO LA REDDITIVITA
DELLA SUA AZIENDA E IL LIBERO ESPLETAMENTO DELL' ATTIVITA
444
COMMERCIALE
DI
QUESTA,
FINO
A
COMPROMETTERNE
L'ESISTENZA. IN TAL MODO, SAREBBERO STATI LESI NELLA SUA
PERSONA UN DIRITTO ASSIMILABILE AL DIRITTO DI PROPRIETA,
NONCHE IL DIRITTO ALLA LIBERA ESPLICAZIONE DELLE ATTIVITA
ECONOMICHE, DIRITTI TUTELATI DALLA LEGGE FONDAMENTALE
DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA, COME PURE DALLE
COSTITUZIONI DI ALTRI STATI MEMBRI, E DA DIVERSI TRATTATI
INTERNAZIONALI, IN PARTICOLARE LA CONVENZIONE EUROPEA A
TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO, DEL 4 NOVEMBRE 1950, IVI
COMPRESO IL PROTOCOLLO AGGIUNTIVO 20 MARZO 1952.
13 COME QUESTA CORTE HA GIA AVUTO OCCASIONE DI
AFFERMARE, I DIRITTI FONDAMENTALI FANNO PARTE INTEGRANTE
DEI PRINCIPI, GENERALI DEL DIRITTO, DI CUI ESSA GARANTISCE
L'OSSERVANZA. LA CORTE, GARANTENDO LA TUTELA DI TALI
DIRITTI,
E
TENUTA
AD
INSPIRARSI
ALLE
TRADIZIONI
COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E NON POTREBBE,
QUINDI, AMMETTERE PROVVEDIMENTI INCOMPATIBILI CON I
DIRITTI FONDAMENTALI RICONOSCIUTI E GARANTITI DALLE
COSTITUZIONI DI TALI STATI. I TRATTATI INTERNAZIONALI RELATIVI
ALLA TUTELA DEI DIRITTI DELL' UOMO, CUI GLI STATI MEMBRI
HANNO COOPERATO O ADERITO POSSONO DEL PARI FORNIRE
ELEMENTI DI CUI OCCORRE TENERE CONTO NELL'AMBITO DEL
DIRITTO COMUNITARIO. E' ALLA LUCE DI TALI PRINCIPI CHE
VANNO ESAMINATE LE CENSURE ADDOTTE DALLA RICORRENTE.
14 BENCHE L'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI TUTTI GLI STATI
MEMBRI TUTELI IL DIRITTO DI PROPRIETA’ E DI ANALOGA TUTELA
FRUISCA IL LIBERO ESERCIZIO DEL COMMERCIO, DEL LAVORO E
DI ALTRE ATTIVITA ECONOMICHE, I DIRITTI COSI' GARANTITI,
LUNGI DAL COSTITUIRE PREROGATIVE ASSOLUTE, VANNO
CONSIDERATI ALLA LUCE DELLA FUNZIONE SOCIALE DEI BENI E
DELLE ATTIVITA OGGETTO DELLA TUTELA. PER QUESTA RAGIONE,
LA GARANZIA CONCESSA AI DIRITTI DI TAL SORTA FA
GENERALMENTE SALVE LE LIMITAZIONI POSTE IN VISTA
DELL'INTERESSE PUBBLICO. NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO
COMUNITARIO, APPARE LEGITTIMO SOTTOPORRE TALI DIRITTI A
TALUNI LIMITI GIUSTIFICATI DAGLI OBIETTIVI D' INTERESSE
GENERALE PERSEGUITI DALLA COMUNITA’, PURCHE NON RESTI
LESA LA SOSTANZA DEI DIRITTI STESSI. PER QUANTO RIGUARDA
IN PARTICOLARE LA TUTELA DELL’IMPRESA, NON LA SI PUO'
COMUNQUE ESTENDERE ALLA PROTEZIONE DEI SEMPLICI
INTERESSI O POSSIBILITA D'INDOLE COMMERCIALE, LA CUI
NATURA
ALEATORIA
E
INSITA
NELL'ESSENZA
STESSA
DELL'ATTIVITA ECONOMICA.
15 GLI SVANTAGGI POSTI IN EVIDENZA DALLA RICORRENTE SONO
IN REALTA LA CONSEGUENZA DELL' ANDAMENTO ECONOMICO,
NON GIA DELLA DECISIONE IMPUGNATA. ESSA DOVEVA, DI
FRONTE AI MUTAMENTI ECONOMICI IMPOSTI DALLA REGRESSIONE
DELLA PRODUZIONE CARBONIERA, ADEGUARSI ALLA NUOVA
SITUAZIONE E PROCEDERE ALLE NECESSARIE RICONVERSIONI.
445
16 PER TUTTI QUESTI MOTIVI, IL MEZZO IN ESAME VA DISATTESO.
17 IL RICORSO VA PERCIO' RESPINTO.
Decisione relativa alle spese
18/20 A NORMA DELL' ART. 69, PAR 2, DEL REGOLAMENTO DI
PROCEDURA, LA PARTE SOCCOMBENTE E CONDANNATA ALLE
SPESE. LA RICORRENTE E RIMASTA SOCCOMBENTE. L'ORDINANZA
DEL PRESIDENTE 14 MARZO 1973 E L'ORDINANZA DELLA CORTE
21 NOVEMBRE 1973 HANNO RISERVATO LA DECISIONE SULLE
SPESE RELATIVE, RISPETTIVAMENTE, ALLA DOMANDA DI
SOSPENSIONE DELL'ESECUZIONE DELLA DECISIONE IMPUGNATA
E ALLA DOMANDA D'INTERVENTO. CON ORDINANZA 21 GIUGNO
1973, LA CORTE HA CONDANNATO LA RICORRENTE ALLE SPESE
SOSTENUTE, A TALE DATA, DALLE SOCIETA RUHRKOHLE AG E
RUHRKOHLE-VERKAUFS GMBH, NELLA CAUSA PRINCIPALE E NEL
PROCEDIMENTO SOMMARIO.
Dispositivo
PER QUESTI MOTIVI,
LA CORTE,
RESPINTA OGNI ALTRA CONCLUSIONE PIU AMPIA O CONTRARIA,
DICHIARA E STATUISCE:
1 ) IL RICORSO E RESPINTO .
2 ) LE SPESE SONO POSTE A CARICO DELLA RICORRENTE, IVI
COMPRESE LE SPESE DI CUI E STATA FATTA RISERVA CON LE
ORDINANZE 14 MARZO E 21 NOVEMBRE 1973 E QUELLE CHE
HANNO COSTITUITO OGGETTO DELL' ORDINANZA 21 GIUGNO 1973.
11) caso Hauer (1979)
SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CE DEL 13 DICEMBRE
1979. - LISELOTTE HAUER CONTRO LAND RHEINLAND-PFALZ. (DOMANDA DI PRONUNZIA PREGIUDIZIALE, PROPOSTA DAL
VERWALTUNGSGERICHT DI NEUSTADT). - DIVIETO DI NUOVI
IMPIANTI DI VIGNETI. - CAUSA 44/79.
Massima
1 . COL DISPORRE CHE GLI STATI MEMBRI NON CONCEDANO PIU
AUTORIZZAZIONI PER NUOVI IMPIANTI ' DALLA DATA DI ENTRATA
IN VIGORE DEL PRESENTE REGOLAMENTO ' , L ' ART . 2 , N . 1 , 2*
COMMA , DEL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO N . 1162/76 ,
RECANTE PROVVEDIMENTI INTESI AD ADEGUARE IL POTENZIALE
VITICOLO ALLE ESIGENZE DEL MERCATO , EMENDATO DAL
REGOLAMENTO N . 2776/78 , ESCLUDE LA PRESA IN
446
CONSIDERAZIONE DAL MOMENTO IN CUI LA DOMANDA E STATA
PRESENTATA E MANIFESTA L ' INTENZIONE DI GARANTIRE AL
REGOLAMENTO EFFETTO IMMEDIATO .
IL REGOLAMENTO N . 1162/76 VA QUINDI INTERPRETATO NEL
SENSO CHE IL SUO ART . 2 , N . 1 , SI APPLICA ANCHE ALLE
DOMANDE DI AUTORIZZAZIONE DI NUOVI IMPIANTI DI VIGNETI
PRESENTATE PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE .
2 . L'ART. 2, N. 1, DEL SUDDETTO REGOLAMENTO VA
INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO DI CONCEDERE
AUTORIZZAZIONI DI NUOVI IMPIANTI, IVI SANCITO, VALE - A
PRESCINDERE DALLE ECCEZIONI CONTEMPLATE DALL ' ART. 2 , N.
2, DEL REGOLAMENTO - IN ASSOLUTO, CIOE’, IN PARTICOLARE,
INDIPENDENTEMENTE DALLA QUESTIONE DELL'IDONEITA DEL
TERRENO, DISCIPLINATA DAL PAR 1, 1* COMMA, 2 FRASE , E 2*
COMMA, DELLA LEGGE TEDESCA RECANTE PROVVEDIMENTI PER
IL SETTORE VITIVINICOLO ( WEINWIRTSCHAFTSGESETZ).
3. LA QUESTIONE DELL'EVENTUALE LESIONE DEI DIRITTI
FONDAMENTALI DA PARTE DI UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE
COMUNITA PUO ESSERE VALUTATA UNICAMENTE NELL'AMBITO
DELLO STESSO DIRITTO COMUNITARIO. IL RICHIAMO AL CRITERIO
DI VALUTAZIONE SPECIALE, PROPRIO DELLA LEGISLAZIONE O
DELL'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI UNO STATO MEMBRO
DETERMINATO, DATO CHE MENOMEREBBE L'UNITA’ SOSTANZIALE
E L' EFFICACIA DEL DIRITTO COMUNITARIO, INCRINEREBBE
INEVITABILMENTE
L'UNITA
DEL
MERCATO
COMUNE
E
COMPROMETTEREBBE LA COESIONE DELLA COMUNITA’.
I DIRITTI FONDAMENTALI COSTITUISCONO PARTE INTEGRANTE DEI
PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DI CUI LA CORTE GARANTISCE
L'OSSERVANZA. NEL GARANTIRE LA TUTELA DI TALI DIRITTI, ESSA
E TENUTA AD INFORMARSI ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI
COMUNI AGLI STATI MEMBRI, DI GUISA CHE NON POSSONO
ESSERE
AMMESSI
NELLA
COMUNITA
PROVVEDIMENTI
INCOMPATIBILI COI DIRITTI FONDAMENTALI RICONOSCIUTI DALLE
COSTITUZIONI DI DETTI STATI. GLI STRUMENTI INTERNAZIONALI
CONCERNENTI LA TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO, CUI GLI STATI
MEMBRI HANNO COLLABORATO O ADERITO, POSSONO DEL PARI
FORNIRE INDICAZIONI DI CUI SI DEVE TENER CONTO NELL'AMBITO
DEL DIRITTO COMUNITARIO.
STANDO COSI LE COSE, I DUBBI MANIFESTATI DA UN GIUDICE
NAZIONALE CIRCA LA COMPATIBILITA DI UN ATTO ISTITUZIONALE
DELLE COMUNITA CON LE NORME RELATIVE ALLA TUTELA DEI
DIRITTI FONDAMENTALI, DUBBI FORMULATI CON RIFERIMENTO AL
DIRITTO COSTITUZIONALE NAZIONALE, VANNO INTESI COME
447
VERTENTI SULLA VALIDITA DI TALE ATTO ALLA LUCE DEL DIRITTO
COMUNITARIO.
4. NELL'ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, IL DIRITTO DI
PROPRIETA’ E TUTELATO IN MODO CONFORME AI PRINCIPI
COMUNI ALLE COSTITUZIONI DEGLI STATI MEMBRI, PRINCIPI CHE
SI RITROVANO DEL PARI NEL PRIMO PROTOCOLLO ALLEGATO ALLA
CONVENZIONE EUROPEA DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI
DELL'UOMO.
5 . TENUTO CONTO DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI
STATI MEMBRI, DELLE PRATICHE LEGISLATIVE COSTANTI E
DELL'ART. 1 DEL PRIMO PROTOCOLLO ALLEGATO ALLA
CONVENZIONE EUROPEA DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI
DELL'UOMO, IL FATTO CHE UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE
COMUNITA RECHI RESTRIZIONI PER L'IMPIANTO DI NUOVI VIGNETI
NON PUO ESSERE CONSIDERATO INCOMPATIBILE, IN LINEA DI
PRINCIPIO, COL RISPETTO DOVUTO AL DIRITTO DI PROPRIETA’.
OCCORRE TUTTAVIA CHE TALI RESTRIZIONI PERSEGUANO
EFFETTIVAMENTE SCOPI DI INTERESSE GENERALE PROPRI DELLA
COMUNITA E NON COSTITUISCANO, RISPETTO ALLO SCOPO
PERSEGUITO,
UN
INTERVENTO
SPROPORZIONATO
E
INACCETTABILE NELLE PREROGATIVE DEL PROPRIETARIO, TALI DA
LEDERE LA SOSTANZA STESSA DEL DIRITTO DI PROPRIETA’.
6 . IL DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI DI VITI , DIVIETO STABILITO ,
PER UN PERIODO LIMITATO , DAL REGOLAMENTO N . 1162/76 , E
GIUSTIFICATO DAGLI SCOPI DI INTERESSE GENERALE PERSEGUITI
DALLA COMUNITA E CHE CONSISTONO NELLA RIDUZIONE , A
BREVE TERMINE , DELLE ECCEDENZE PRODUTTIVE E NELLA
PREPARAZIONE , A SCADENZA PIU LONTANA , DELLA
RIORGANIZZAZIONE DELLA VITICOLTURA EUROPEA. ESSA NON
LEDE QUINDI LA SOSTANZA DEL DIRITTO DI PROPRIETA’.
7. AL PARI DEL DIRITTO DI PROPRIETA’, IL DIRITTO AL LIBERO
ESERCIZIO DELLE ATTIVITA PROFESSIONALI , BEN LUNGI DAL
COSTITUIRE UNA PREROGATIVA ASSOLUTA , VA CONSIDERATO
ALLA LUCE DELLA FUNZIONE SOCIALE DELLE ATTIVITA TUTELATE.
IN PARTICOLARE, QUANDO SI TRATTA DEL DIVIETO, AD OPERA DI
UN ATTO ISTITUZIONALE DELLE COMUNITA’, DELL'IMPIANTO DI
NUOVI VIGNETI, VA RILEVATO CHE UN PROVVEDIMENTO DEL
GENERE NON INCIDE IN ALCUN MODO SULL'ACCESSO ALLA
PROFESSIONE DI VITICOLTORE NE SUL LIBERO ESERCIZIO DI
TALE PROFESSIONE SUI TERRENI GIA DESTINATI ALLA
VITICOLTURA. PER QUANTO RIGUARDA I NUOVI IMPIANTI,
L'EVENTUALE RESTRIZIONE DEL LIBERO ESERCIZIO DELLA
PROFESSIONE DI VITICOLTORE COINCIDEREBBE CON LA
RESTRIZIONE STABILITA PER L'ESERCIZIO DEL DIRITTO DI
PROPRIETA’.
Parti
448
NEL PROCEDIMENTO 44/79,
AVENTE
AD
OGGETTO
LA
DOMANDA
DI
PRONUNZIA
PREGIUDIZIALE PROPOSTA ALLA CORTE, A NORMA DELL' ART. 177
DEL TRATTATO CEE, DAL VERWALTUNGSGERICHT (TRIBUNALE
AMMINISTRATIVO) DI NEUSTADT AN DER WEINSTRASSE, NELLA
CAUSA DINANZI AD ESSO PENDENTE FRA
LISELOTTE HAUER, RESIDENTE IN BAD DURKHEIM,
E
LAND RHEINLAND-PFALZ ( LAND RENANIA-PALATINATO ),
Oggetto della causa
DOMANDA VERTENTE SULL'INTERPRETAZIONE DELL'ART. 2 DEL
REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976, N. 1162,
'RECANTE MISURE INTESE AD ADEGUARE IL POTENZIALE
VITICOLO ALLE ESIGENZE DEL MERCATO', NELLA VERSIONE DI
CUI AL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 23 NOVEMBRE 1978 , N .
2776 , IN RELAZIONE ALL'ART. 1 DEL 'GESETZ UBER MASSNAHMEN
AUF
DEM
GEBIETE
DER
WEINWIRTSCHAFT
WEINWIRTSCHAFTSGESETZ'
(LEGGE
TEDESCA
RECANTE
PROVVEDIMENTI PER IL SETTORE VITIVINICOLO),
Motivazione della sentenza
1 CON ORDINANZA 14 DICEMBRE 1978, PERVENUTA IN
CANCELLERIA IL 20 MARZO 1979, IL VERWALTUNGSGERICHT DI
NEUSTADT AN DER WEINSTRASSE HA SOTTOPOSTO A QUESTA
CORTE, A NORMA DELL'ART. 177 DEL TRATTATO CEE, DUE
QUESTIONI PREGIUDIZIALI VERTENTI SULL' INTERPRETAZIONE
DEL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976, N. 1162,
RECANTE PROVVEDIMENTI INTESI AD ADEGUARE IL POTENZIALE
VITICOLO ALLE ESIGENZE DEL MERCATO ( GU N. L 135, PAG. 32 ),
MODIFICATO DAL REGOLAMENTO 23 NOVEMBRE 1978, N. 2776 (GU
N. L 133 , PAG. 1 ).
2 RISULTA DAGLI ATTI CHE , IL 6 GIUGNO 1975 , LA SIG.RA HAUER
AVEVA CHIESTO ALL ' AUTORITA COMPETENTE DEL LAND
RHEINLAND-PFALZ L ' AUTORIZZAZIONE PER UN NUOVO IMPIANTO
DI VITI SU UN FONDO DI SUA PROPRIETA’ NELLA ZONA DI BAD
DURKHEIM . LA DOMANDA VENIVA RESPINTA CON LA
MOTIVAZIONE CHE IL FONDO ERA INIDONEO ALLA VITICOLTURA AI
SENSI DELLA NORMATIVA TEDESCA IN MATERIA , E CIOE LA
LEGGE TEDESCA 10 MARZO 1977 , RECANTE PROVVEDIMENTI PER
IL SETTORE VITIVINICOLO ( WEINWIRTSCHAFTSGESETZ ). LA
SIG.RA
HAUER
FACEVA
OPPOSIZIONE
CONTRO
QUESTO
PROVVEDIMENTO IL 22 GENNAIO 1976 . MENTRE ERA PENDENTE
QUESTA OPPOSIZIONE , VENIVA ADOTTATO IL REGOLAMENTO 17
MAGGIO 1976 , N . 1162 , CHE ALL ' ART . 2 VIETAVA , PER UN
PERIODO DI TRE ANNI , QUALSIASI NUOVO IMPIANTO DI VITI . L '
449
OPPOSIZIONE VENIVA RESPINTA DALL ' AMMINISTRAZIONE CON
PROVVEDIMENTO 21 OTTOBRE 1976 , PER IL DUPLICE MOTIVO
CHE IL FONDO ERA INIDONEO ALLA VITICOLTURA E CHE I NUOVI
IMPIANTI
DI
VITI
ERANO
VIETATI
DAL
REGOLAMENTO
COMUNITARIO SUMMENZIONATO .
3 DOPO CHE L'INTERESSATA AVEVA PROPOSTO RICORSO CONTRO
QUESTO PROVVEDIMENTO DINANZI AL VERWALTUNGSGERICHT,
L'AMMINISTRAZIONE AMMETTEVA, IN SEGUITO AI RISULTATI DI
PERIZIE EFFETTUATE SULLE UVE RACCOLTE NELLA PARCELLA
CATASTALE IN QUESTIONE E AD UNA TRANSAZIONE CON VARI
ALTRI PROPRIETARI DI FONDI LIMITROFI , CHE IL FONDO DELLA
RICORRENTE POSSEDEVA I REQUISITI MINIMI PER POTERSI
CONSIDERARE, AI SENSI DELLA NORMATIVA NAZIONALE, IDONEO
ALLA VITICOLTURA, E SI DICHIARAVA DISPOSTA A CONCEDERE LA
RICHIESTA AUTORIZZAZIONE DOPO LA SCADENZA DEL DIVIETO DI
EFFETTUARE NUOVI IMPIANTI , STABILITO DAL REGOLAMENTO
COMUNITARIO . RISULTA PERTANTO CHIARO CHE ATTUALMENTE
LA CONTROVERSIA FRA LE PARTI VERTE ESCLUSIVAMENTE SU
QUESTIONI DI DIRITTO COMUNITARIO.
4 LA RICORRENTE NELLA CAUSA PRINCIPALE SOSTIENE CHE IL
REGOLAMENTO N . 1162/76 NON PUO APPLICARSI AD UNA
DOMANDA DI AUTORIZZAZIONE PRESENTATA MOLTO PRIMA DELLA
SUA ENTRATA IN VIGORE SICCHE L ' AUTORIZZAZIONE DOVREBBE
VENIRE CONCESSA ; QUAND ' ANCHE IL REGOLAMENTO SI
APPLICASSE A DOMANDE PRESENTATE PRIMA DELLA SUA
ENTRATA IN VIGORE , ESSO SAREBBE COMUNQUE INOPPONIBILE
ALLA RICORRENTE IN QUANTO E INCOMPATIBILE COL SUO
DIRITTO DI PROPRIETA’ E COL SUO DIRITTO AL LIBERO ESERCIZIO
DELLA PROFESSIONE , TUTELATI DAGLI ARTT. 12 E 14 DELLA
LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI
GERMANIA.
5 AI FINI DELLA DECISIONE DELLA CONTROVERSIA, IL
VERWALTUNGSGERICHT HA RITENUTO OPPORTUNO SOLLEVARE
LE DUE SEGUENTI QUESTIONI PREGIUDIZIALI:
1. SE IL REGOLAMENTO (CEE) DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976, N.
1162, NELLA VERSIONE DI CUI AL REGOLAMENTO (CEE) DEL
CONSIGLIO 23 NOVEMBRE 1978, N. 2776, VADA INTERPRETATO
NEL SENSO CHE L ' ART. 2, N. 1, SI APPLICA ANCHE ALLE
DOMANDE DI AUTORIZZAZIONE PER I NUOVI IMPIANTI DI VITI GIA
PRESENTATE PRIMA DELL'ENTRATA IN VIGORE DEL SUDDETTO
REGOLAMENTO.
2. PER IL CASO DI SOLUZIONE AFFERMATIVA DELLA QUESTIONE
SUB 1 ): SE L'ART. 2 , N. 1, DEL SUDDETTO REGOLAMENTO VADA
INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO DI CONCEDERE
AUTORIZZAZIONI DI NUOVI IMPIANTI, IVI SANCITO , VALE - A
PRESCINDERE DALLE ECCEZIONI CONTEMPLATE DALL'ART. 2, N. 2,
DEL REGOLAMENTO - IN ASSOLUTO, VALE A DIRE, IN
450
PARTICOLARE,
INDIPENDENTEMENTE
DALLA
QUESTIONE
DELL'IDONEITA DEL TERRENO , DISCIPLINATA DAL PAR 1 , 1*
COMMA , 2A FRASE, E 2* COMMA, DELLA LEGGE TEDESCA
RECANTE PROVVEDIMENTI PER IL SETTORE VITIVINICOLO
(WEINWIRTSCHAFTSGESETZ).
SULLA PRIMA QUESTIONE ( APPLICAZIONE NEL TEMPO DEL
REGOLAMENTO N . 1162/76 ).
6 A QUESTO PROPOSITO, LA RICORRENTE NELLA CAUSA
PRINCIPALE
SOSTIENE
CHE
SE
IL
PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO SI FOSSE SVOLTO REGOLARMENTE E L '
AMMINISTRAZIONE AVESSE RICONOSCIUTO SENZA INDUGIO CHE
IL FONDO DI SUA PROPRIETA’ POSSEDEVA I REQUISITI RICHIESTI
DALLA LEGGE NAZIONALE PER L ' IDONEITA ALLA VITICOLTURA , L
' AUTORITA COMPETENTE AVREBBE DOVUTO NORMALMENTE
ACCOGLIERE LA SUA DOMANDA , PRESENTATA FIN DAL 6 GIUGNO
1975 , GIA PRIMA DELL'ENTRATA IN VIGORE DEL REGOLAMENTO
COMUNITARIO. DI QUESTO FATTO OCCORREREBBE TENER CONTO
AI FINI DELL'APPLICAZIONE NEL TEMPO DEL REGOLAMENTO
STESSO , TANTO PIU CHE LA PRODUZIONE DEL VIGNETO IN
QUESTIONE NON AVREBBE INCISO SENSIBILMENTE SULLE
CONDIZIONI DEL MERCATO, POICHE FRA L'IMPIANTO DI UN
VIGNETO E L'INIZIO DELLA PRODUZIONE INTERCORRE UN CERTO
LASSO DI TEMPO .
7 LA TESI SOSTENUTA DALLA RICORRENTE NON PUO VENIRE
ACCOLTA . L ' ART . 2 , N . 1 , 2* COMMA , DEL REGOLAMENTO N .
1162/76 , STABILISCE INFATTI ESPRESSAMENTE CHE ' DALLA
DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL PRESENTE REGOLAMENTO ' ,
GLI STATI MEMBRI NON ACCORDANO PIU AUTORIZZAZIONI PER
EFFETTUARE NUOVI IMPIANTI. LA MENZIONE , IVI CONTENUTA ,
DELL ' ATTO DI AUTORIZZAZIONE , ESCLUDE CHE POSSA AVERE
RILIEVO IL MOMENTO DELLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA E
RIVELA
CHIARAMENTE
L'INTENTO
DI
ATTRIBUIRE
AL
REGOLAMENTO EFFICACIA IMMEDIATA, TANTO PIU CHE L' ART . 4
STABILISCE CHE PERFINO I DIRITTI DI IMPIANTO O DI REIMPIANTO
ACQUISITI ANTERIORMENTE ALL' ENTRATA IN VIGORE DEL
REGOLAMENTO SONO SOSPESI PER LA DURATA DEL DIVIETO.
8 COME AFFERMATO AL SESTO PUNTO DEL PREAMBOLO, IL
DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI E IMPOSTO DA UN' INTERESSE
PUBBLICO PERENTORIO 'VALE A DIRE L' ESIGENZA DI PORRE UN
FRENO ALLA SOVRAPPRODUZIONE DI VINO NELLA COMUNITA’, DI
RISTABILIRE L'EQUILIBRIO DEL MERCATO E DI PREVENIRE LA
FORMAZIONE DI ECCEDENZE STRUTTURALI. RISULTA PERTANTO
CHE IL REGOLAMENTO N. 1162/76 HA LO SCOPO DI BLOCCARE,
CON EFFETTO IMMEDIATO, L'INCREMENTO DELLA SUPERFICIE
VITICOLA ESISTENTE, SICCHE NON SI GIUSTIFICHEREBBE
UN'ECCEZIONE A FAVORE DELLE DOMANDE PRESENTATE PRIMA
DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE.
451
9 LA PRIMA QUESTIONE VA DUNQUE RISOLTA COME SEGUE: IL
REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 17 MAGGIO 1976 , N. 1162,
MODIFICATO DAL REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO 23 NOVEMBRE
1978, N. 2776, VA INTERPRETATO NEL SENSO CHE L'ART. 2 , N . 1,
DI ESSO SI APPLICA ANCHE ALLE DOMANDE DI AUTORIZZAZIONE
DI NUOVI IMPIANTI DI VIGNETI PRESENTATE ANTERIORMENTE
ALL'ENTRATA IN VIGORE DEL PRIMO REGOLAMENTO.
SULLA SECONDA QUESTIONE
REGOLAMENTO N . 1162/76)
(PORTATA
MATERIALE
DEL
10 CON LA SECONDA QUESTIOINE, IL VERWALTUNGSGERICHT
CHIEDE ALLA CORTE SE IL DIVIETO DI CONCEDERE
AUTORIZZAZIONI PER I NUOVI IMPIANTI, SANCITO DALL'ART. 2 , N.
1, DEL REGOLAMENTO N. 1162/76, SI APPLICHI IN ASSOLUTO, SE
CIOE CONCERNA ANCHE TERRENI RICONOSCIUTI IDONEI ALLA
VITICOLTURA SECONDO I CRITERI DELLA LEGGE NAZIONALE.
11 LA LETTERA DEL REGOLAMENTO E ESPLICITA A QUESTO
PROPOSITO, IN QUANTO L'ART. 2 VIETA ‘QUALSIASI NUOVO
IMPIANTO’ , PRESCINDENDO DALLE CARATTERISTICHE DEI FONDI.
SIA DALLA LETTERA CHE DAGLI SCOPI DEL REGOLAMENTO N.
1162/76 RISULTA CHE IL DIVIETO DEVE APPLICARSI A TUTTI I
NUOVI IMPIANTI, INDIPENDENTEMENTE DALLE CARATTERISTICHE
DEI TERRENI E DALLA CLASSIFICAZIONE DEI MEDESIMI SECONDO
LA LEGGE NAZIONALE. INFATTI, IL REGOLAMENTO E VOLTO, COME
RISULTA IN PARTICOLARE DAL SECONDO PUNTO DEL PREAMBOLO,
A POR FINE ALLA SOVRAPPRODUZIONE DELLA VITICOL TURA IN
EUROPA E A RISTABILIRE, SIA A BREVE CHE A LUNGO TERMINE,
L'EQUILIBRIO DEL MERCATO. UNICHE ECCEZIONI ALLA PORTATA
GENERALE DEL DIVIETO SANCITO DALL'ART. 2, N.1, SONO QUELLE
CONTEMPLATE AL N. 2 DELLO STESSO ARTICOLO , MA E PACIFICO
CHE NESSUNA DI ESSE RICORRE NEL CASO DI SPECIE.
12 PERTANTO, LA SECONDA QUESTIONE DEV'ESSERE COSI
RISOLTA: L'ART. 2, N . 1 , DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 , VA
INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO DI CONCEDERE
AUTORIZZAZIONI PER NUOVI IMPIANTI IVI SANCITO, VALE - A
PRESCINDERE DALLE ECCEZIONI CONTEMPLATE DALL ' ART . 2, N .
2 , DEL REGOLAMENTO - IN ASSOLUTO, CIOE’, IN PARTICOLARE,
INDIPENDENTEMENTE DAL FATTO CHE IL TERRENO SIA O NO
ADATTO ALLA COLTURA DELLA VITE IN BASE AI CRITERI STABILITI
DAL DIRITTO NAZIONALE.
SULLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELL' ORDINAMENTO
GIURIDICO COMUNITARIO
13 NELL'ORDINANZA DI RINVIO, IL VERWALTUNGSGERICHT
AGGIUNGE CHE , PER IL CASO IN CUI IL REGOLAMENTO N.
1162/76 ANDASSE INTERPRETATO NEL SENSO CHE IL DIVIETO IVI
SANCITO HA PORTATA GENERALE, VALE A DIRE SI APPLICA ANCHE
AI TERRENI IDONEI ALLA VITICOLTURA , LA RELATIVA
DISPOSIZIONE
ANDREBBE
PROBABILMENTE
CONSIDERATA
452
INAPPLICABILE NELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA,
POICHE’ SAREBBE DUBBIA LA SUA COMPATIBILITA CON LA TUTELA
DEI DIRITTI FONDAMENTALI, GARANTITA DAGLI ARTT. 12 E 14
DELLA LEGGE FONDAMENTALE, IN MATERIA DI DIRITTO DI
PROPRIETA’ E, RISPETTIVAMENTE, DI LIBERO ESERCIZIO
DELL'ATTIVITA’ PROFESSIONALE.
14 COME AFFERMATO DALLA CORTE NELLA SENTENZA 17
DICEMBRE 1970 (INTERNATIONALE HANDELSGESELLSCHAFT,
RACC. PAG. 1125), EVENTUALI QUESTIONI RELATIVE ALLA
VIOLAZIONE DI DIRITTI FONDAMENTALI MEDIANTE ATTI EMANANTI
DALLE ISTITUZIONI DELLA COMUNITA POSSONO ESSERE
VALUTATE
UNICAMENTE
ALLA
STREGUA
DEL
DIRITTO
COMUNITARIO. IL RICHIAMO A CRITERI DI VALUTAZIONE SPECIALI,
PROPRI DELLA LEGISLAZIONE O DEL SISTEMA COSTITUZIONALE DI
UNO STATO MEMBRO, INCRINEREBBE INEVITABILMENTE L’UNITA’
DEL MERCATO COMUNE E COMPROMETTEREBBE LA COESIONE
DELLA COMUNITA’, GIACCHE’ MENOMEREBBE L ' UNITA E L '
EFFICACIA DEL DIRITTO COMUNITARIO.
15 LA CORTE HA ALTRESI DICHIARATO , NELLA SENTENZA
SUMMENZIONATA E , IN SEGUITO , NELLA SENTENZA 14 MAGGIO
1974 ( NOLD , RACC . PAG . 491 ) CHE I DIRITTI FONDAMEN TALI
COSTITUISCONO PARTE INTEGRANTE DEI PRINCIPI GENERALI DEL
DIRITTO , DI CUI ESSA GARANTISCE L'OSSERVANZA; NEL
GARANTIRE LA TUTELA DI TALI DIRITTI, ESSA E TENUTA AD
ISPIRARSI ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI
MEMBRI E NON POTREBBE, QUINDI, AMMETTERE PROVVEDIMENTI
INCOMPATIBILI CON I DIRITTI FONDAMENTALI RIONOSCIUTI E
GARANTITI DALLE COSTITUZIONI DI TALI STATI ; I TRATTATI
INTERNAZIONALI IN MATERIA DI TUTELA DEI DIRITTI DELL'UOMO,
CUI GLI STATI MEMBRI HANNO COOPERATO O ADERITO, POSSONO
DEL PARI FORNIRE ELEMENTI DI CUI OCCORRE TENERE CONTO
NELL'
AMBITO
DEL
DIRITTO
COMUNITARIO.
QUESTO
ORIENTAMENTO E STATO RIAFFERMATO DALLA DICHIARAZIONE
COMUNE
DELL'ASSEMBLEA,
DEL
CONSIGLIO
E
DELLA
COMMISSIONE, DEL 5 APRILE 1977, LA QUALE, DOPO AVERE
RICORDATO LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE, FA RIFERIMENTO
TANTO AI DIRITTI GARANTITI DALLE COSTITUZIONI DEGLI STATI
MEMBRI,
QUANTO
ALLA
CONVENZIONE
EUROPEA
DI
SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO E DELLE LIBERTA’
FONDAMENTALI, DEL 4 NOVEMBRE 1950 ( GU 1977, N. C 103 , PAG.
1 ).
16 ALLA LUCE DI QUANTO ESPOSTO , SI DEVE RITENERE CHE I
DUBBI SOLLEVATI DAL VERWALTUNGSGERICHT IN MERITO ALLA
COMPATIBILITA DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 CON LE NORME
VOLTE ALLE TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI CONCERNANO LA
LEGITTIMITA DEL REGOLAMENTO SOTTO IL PROFILO DEL DIRITTO
COMUNITARIO; A QUESTO PROPOSITO, OCCORRE VALUTARE
SEPARATAMENTE L ' EVENTUALE LESIONE DEL DIRITTO DI
453
PROPRIETA’ E LE EVENTUALI LIMITAZIONI DEL DIRITTO AL LIBERO
ESERCIZIO DELL'ATTIVITA PROFESSIONALE.
SUL DIRITTO DI PROPRIETA’
17 NELL'ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, IL DIRITTO DI
PROPRIETA’ E TUTELATO ALLA STREGUA DEI PRINCIPI COMUNI
ALLE COSTITUZIONI DEGLI STATI MEMBRI, RECEPITI NEL
PROTOCOLLO ADDIZIONALE ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI
SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL'UOMO.
18 L ' ART . 1 DI DETTO PROTOCOLLO RECITA :
'OGNI PERSONA FISICA E MORALE HA DIRITTO AL RISPETTO DEI
SUOI BENI. NESSUNO PUO ESSERE PRIVATO DELLA SUA
PROPRIETA’ SALVO CHE PER CAUSA DI UTILITA PUBBLICA E NELLE
CONDIZIONI PREVISTE DALLA LEGGE E DAI PRINCIPI GENERALI
DEL DIRITTO INTERNAZIONALE.
LE DISPOSIZIONI PRECEDENTI NON PORTANO PREGIUDIZIO AL
DIRITTO DEGLI STATI DI METTERE IN VIGORE LE LEGGI DA ESSI
GIUDICATE NECESSARIE PER REGOLARE L'USO DEI BENI IN MODO
CONFORME ALL' INTERESSE GENERALE E PER ASSICURARE IL
PAGAMENTO DELLE IMPOSTE E DI ALTRE CONTRIBUZIONI O
DELLE AMMENDE'.
19 QUESTA NORMA , DOPO AVER AFFERMATO IL PRINCIPIO DEL
RISPETTO DELLA PROPRIETA, CONTEMPLA DUE FORME DI
POSSIBILI LESIONI DEI DIRITTI DEL PROPRIETARIO , VALE A DIRE
QUELLE CONSISTENTI NEL PRIVARE IL PROPRIETARIO DEL SUO
DIRITTO E QUELLE CONSISTENTI NEL LIMITARE L'ESERCIZIO DI
QUESTO . NEL CASO DI SPECIE , E INCONTESTABILE CHE IL
DIVIETO DI NUOVI IMPIANTI NON PUO CONSIDERARSI COME UN
ATTO COMPORTANTE LA PRIVAZIONE DELLA PROPRIETA’ , ATTESO
CHE IL PROPRIETARIO RIMANE LIBERO DI DISPORRE DEI PROPRI
BENI E DI DESTINARLI A QUALSIASI ALTRO USO NON VIETATO. PER
CONTRO, NON V'E DUBBIO CHE DETTO DIVIETO LIMITI
L'ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETA’. L'ART . 1 , 2* COMMA,
DEL PROTOCOLLO, CHE SANCISCE IL DIRITTO DEGLI STATI 'DI
METTERE IN VIGORE LE LEGGI DA ESSI GIUDICATE NECESSARIE
PER REGOLARE L'USO DEI BENI IN MODO CONFORME
ALL'INTERESSE
GENERALE'
,
FORNISCE
UN'INDICAZIONE
IMPORTANTE IN PROPOSITO IN QUANTO AMMETTE IN LINEA DI
PRINCIPIO LA LICEITA DELLE RESTRIZIONI ALL'ESERCIZIO DEL
DIRITTO DI PROPRIETA, A CONDIZIONE CHE QUESTE RESTINO NEL
LIMITE DI QUANTO GIUDICATO DAGLI STATI 'NECESSARIO' AI FINI
DELLA TUTELA DELL'INTERESSE GENERALE'. QUESTA NORMA NON
PERMETTE
TUTTAVIA
DI
FORNIRE
UNA
SOLUZIONE
SUFFICIENTEMENTE PRECISA ALLA QUESTIONE SOLLEVATA DAL
VERWALTUNGSGERICHT.
454
20 PER LA SOLUZIONE DI DETTA QUESTIONE OCCORRE PERTANTO
TENER CONTO ALTRESI DELLE INDICAZIONI FORNITE DALLE
NORME E DALLE PRASSI COSTITUZIONALI DEI NOVE STATI
MEMBRI . A QUESTO PROPOSITO VA ANZITUTTO CONSTATATO CHE
TALI NORME E PRASSI CONSENTONO AL LEGISLATORE DI
DISCIPLINARE L'USO DELLA PROPRIETA’ PRIVATA NELL'INTERESSE
GENERALE. TALUNE COSTITUZIONI FANNO RIFERIMENTO, A
QUESTO PROPOSITO, AGLI OBBLIGHI INERENTI ALLA PROPRIETA’ (
LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBLICA FEDERALE DI
GERMANIA, ART. 14 , 2* COMMA, 1A FRASE), ALLA FUNZIONE
SOCIALE DELLA STESSA ( COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA
ITALIANA , ART . 42 , 2* COMMA ), AL PRINCIPIO CHE L ' USO DI
ESSA VA SUBORDINATO ALLE ESIGENZE DEL BENE COMUNE (
LEGGE FONDAMENTALE DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI
GERMANIA , ART. 14 , 2* COMMA, 2A FRASE, E COSTITUZIONE
DELLA REPUBBLICA IRLANDESE, ART. 43 , 2* COMMA , N. 2 ), O A
QUELLE DELLA GIUSTIZIA SOCIALE ( COSTITUZIONE DELLA
REPUBBLICA IRLANDESE , ART . 43 , 2* COMMA , N. 1 ). IN TUTTI
GLI STATI MEMBRI , VARI TESTI LEGISLATIVI HANNO DATO
CONCRETA ESPRESSIONE A QUESTA FUNZIONE SOCIALE DEL
DIRITTO DI PROPRIETA; IN CIASCUNO DI ESSI, VIGONO NORME IN
MATERIA DI ECONOMIA AGRICOLA E FORESTALE, DI REGIME
DELLE ACQUE, DI PROTEZIONE DELL'AMBIENTE NATURALE, DI
PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE E DI URBANISTICA, CHE
LIMITANO, TALVOLTA NOTEVOLMENTE, L'USO DELLA PROPRIETA’
FONDIARIA.
21 IN PARTICOLARE , IN TUTTI I PAESI DELLA COMUNITA IN CUI SI
COLTIVA LA VITE VIGONO NORME IMPERATIVE, ANCHE SE NON
TUTTE DELLA STESSA SEVERITA, IN MATERIA DI IMPIANTO DELLE
VITI, DI SELEZIONE DELLE VARIETA E DI METODI DI COLTURA. IN
NESSUNO DI ESSI QUESTE NORME SONO CONSIDERATE
INCOMPATIBILI, IN LINEA DI PRINCIPIO, COLLA TUTELA DEL
DIRITTO DI PROPRIETA.
22 E PERTANTO LECITO AFFERMARE , ALLA LUCE DEI PRINCIPI
COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI E DELLE PRASSI
LEGISLATIVE COSTANTI NELLE PIU VARIE MATERIE, CHE NESSUNA
RAGIONE DI PRINCIPIO IMPEDIVA DI ASSOGGETTARE A
LIMITAZIONI, CON IL REGOLAMENTO N. 1162/76 , L'IMPIANTO DI
NUOVI VIGNETI. SI TRATTA DI LIMITAZIONI NOTE, IN FORME
IDENTICHE O ANALOGHE, ALL'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE DI
TUTTI GLI STATI MEMBRI, E DA QUESTO RICONOSCIUTE
LEGITTIME.
23 QUESTA CONSTATAZIONE NON ESAURISCE TUTTAVIA LA
QUESTIONE SOLLEVATA DAL VERWALTUNGSGERICHT: ANCHE SE
NON SI PUO CONTESTARE, IN LINEA DI PRINCIPIO, LA FACOLTA
DELLA COMUNITA DI STABILIRE LIMITI ALL'ESERCIZIO DEL
DIRITTO DI PROPRIETA’ NELL' AMBITO DI UN'ORGANIZZAZIONE
COMUNE DI MERCATO E AI FINI DI UNA POLITICA STRUTTURALE,
OCCORRE ALTRESI ESAMINARE SE LE LIMITAZIONI IMPOSTE
455
DALLA
NORMATIVA
CONTROVERSA
SIANO
REALMENTE
GIUSTIFICATE DA OBIETTIVI DI INTERESSE GENERALE DELLA
COMUNITA
E
NON
COSTITUISCANO
UN'
INTERVENTO
INACCETTABILE
E
SPROPORZIONATO
RISPETTO
AI
FINI
PERSEGUITI, NELLE PREROGATIVE DEL PROPRIETARIO, TALE DA
LEDERE ADDIRITTURA LA SOSTANZA DEL DIRITTO DI PROPRIETA.
QUESTA E INFATTI LA CENSURA FORMULATA DALLA RICORRENTE
NELLA CAUSA PRINCIPALE, LA QUALE SOSTIENE CHE SOLAMENTE
NELL'AMBITO DI UNA POLITICA VOLTA AL MIGLIORAMENTO
QUALITATIVO IL LEGISLATORE PUO PORRE LIMITI ALLA
DISPONIBILITA DELLA PROPRIETA’ DEI FONDI DESTINATI ALLE
VITICOLTURA , SICCHE’, ESSENDO IL SUO FONDO IDONEO ALLA
VITICOLTURA, IL SUO DIRITTO SAREBBE INTANGIBILE. OCCORRE
PERTANTO INDIVIDUARE GLI OBIETTIVI PERSEGUITI COL
REGOLAMENTO CONTROVERSO, ONDE VALUTARE SE ESISTA UN
RAPPORTO RAGIONEVOLE FRA I PROVVEDIMENTI DISPOSTI CON
DETTO REGOLAMENTO E GLI OBIETTIVI PERSEGUITI DALLA
COMUNITA.
24 LE NORME DEL REGOLAMENTO N. 1162/76 VANNO
CONSIDERATE NELL'AMBITO DELL'ORGANIZZAZIONE COMUNE DEL
MERCATO VITIVINICOLO, LA QUALE E STRETTAMENTE CONNESSA
ALLE POLITICA STRUTTURALE DELLA COMUNITA NEL SETTORE DI
CUI TRATTASI . GLI SCOPI DI QUESTA SONO ENUNZIATI NEL
REGOLAMENTO 28 APRILE 1970, N. 816, RELATIVO A DISPOSIZIONI
COMPLEMENTARI IN MATERIA DI ORGANIZZAZIONE COMUNE DEL
MERCATO VITIVINICOLO ( GU N. L 99, PAG. 1) - SUL QUALE SI
FONDA IL REGOLAMENTO CONTROVERSO - E NEL REGOLAMENTO
5 FEBBRAIO 1979, N. 337, RELATIVO ALL'ORGANIZZAZIONE
COMUNE DEL MERCATO VITIVINICOLO (GU N. L 54, PAG. 1), CHE
HA DATO ORGANICA SISTEMAZIONE AL COMPLESSO DELLE
NORME CHE REGGONO L'ORGANIZZAZIONE COMUNE DI QUESTO
MERCATO. IL TITOLO III DI DETTO REGOLAMENTO, INTITOLATO
“NORME RELATIVE ALLA PRODUZIONE E AL CONTROLLO DELLO
SVILUPPO DEGLI IMPIANTI”, CONTIENE ATTUALMENTE LA
DISCIPLINA GIURIDICA DI BASE IN MATERIA. UN ALTRO ELEMENTO
CHE CONSENTE DI INDIVIDUARE LA POLITICA SEGUITA DALLA
COMUNITA IN MATERIA E LA RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO DEL 21
APRILE 1975 , CONCERNENTE I NUOVI ORIENTAMENTI INTESI AD
EQUILIBRARE IL MERCATO DEI VINI DA PASTO ( GU N . C 90 , PAG .
1 ).
25 DALL'INSIEME DI QUESTE NORME RISULTA CHE QUESTA
POLITICA, INAUGURATA E PARZIALMENTE ATTUATA DALLA
COMUNITA, CONSISTE NELL' ORGANIZZAZIONE COMUNE DEI
MERCATI LEGATA AL MIGLIORAMENTO DELLE STRUTTURE DEL
SETTORE VITIVINICOLO. TALE AZIONE MIRA, NELL'AMBITO DEGLI
ORIENTAMENTI ENUNZIATI DALL ' ART . 39 DEL TRATTATO CEE, A
UN DUPLICE OBIETTIVO: STABILIZZARE DUREVOLMENTE IL
MERCATO VINICOLO AD UN LIVELLO DI PREZZI REMUNERATIVO
PER I PRODUTTORI ED EQUO PER I CONSUMATORI, E MIGLIORARE
LA QUALITA DEI VINI MESSI IN COMMERCIO. PER IL
456
CONSEGUIMENTO DI QUESTI DUE OBIETTIVI, L'EQUILIBRIO
QUANTITATIVO
E
IL
MIGLIORAMENTO
QUALITATIVO,
LA
NORMATIVA COMUNITARIA SUL MERCATO VITIVINICOLO HA
PREVISTO UN'AMPIA GAMMA DI INTERVENTI TANTO NELLA FASE
DELLA PRODUZIONE CHE IN QUELLA DELLA DISTRIBUZIONE DEI
VINI.
26 A QUESTO PROPOSITO, OCCORRE ANZITUTTO RICORDARE LE
DISPOSIZIONI DELL'ART. 17 DEL REGOLAMENTO N. 816/70,
RIPRESE IN FORMA PIU ELABORATA DALL'ART. 31 DEL
REGOLAMENTO N. 337/79, SECONDO CUI GLI STATI MEMBRI
REDIGONO PIANI DI PREVISIONE RELATIVI ALL'IMPIANTO DELLE
VITI ED ALLA PRODUZIONE, DA COORDINARSI NELL'AMBITO DEL
PIANO COMUNITARIO OBBLIGATORIO. PER L'ATTUAZIONE DI
QUESTO PIANO POSSONO ESSERE ADOTTATI PROVVEDIMENTI
RELATIVI ALL'IMPIANTO, AL REIMPIANTO, ALL'ESTIRPAZIONE O
ALL'ABBANDONO DI VIGNETI.
27 E IN TALE AMBITO CHE SI INSERISCE IL REGOLAMENTO N.
1162/76. DAL SUO PREAMBOLO E DALLA SITUAZIONE ECONOMICA
NELLA QUALE ESSO E STATO ADOTTATO, CARATTERIZZATA DAL
FORMARSI, A PARTIRE DALLA VENDEMMIA DEL 1974, DI
ECCEDENZE DI PRODUZIONE AVENTI CARATTERE PERMANENTE,
RISULTA CHE QUESTO REGOLAMENTO MIRA A DUE OBIETTIVI: FAR
FRONTE SUL MOMENTO AL CONTINUO AUMENTO DELLE
ECCEDENZE E PERMETTERE ALLE ISTITUZIONI DI ATTUARE, IN UN
PERIODO DI TEMPO ADEGUATO, UNA POLITICA STRUTTURALE
VOLTA A FAVORIRE LE PRODUZIONI DI ALTA QUALITA, NEL
RISPETTO DELLE PECULIARITA E DELLE ESIGENZE DELLE VARIE
REGIONI VINICOLE DELLA COMUNITA, CON UN'ADEGUATA SCELTA
DEI TERRENI E DELLE VARIETA, OLTRE CHE CON LA DISCIPLINA
DEI METODI DI PRODUZIONE.
28 ONDE VENIRE INCONTRO A QUESTA DUPLICE ESIGENZA, IL
CONSIGLIO HA SANCITO, CON IL REGOLAMENTO N. 1162/76, IL
DIVIETO GENERALE DI NUOVI IMPIANTI, SENZA OPERARE, SALVO
CHE PER ALCUNE IPOTESI BEN INDIVIDUATE DI CARATTERE
ECCEZIONALE, ALCUNA DISTINZIONE IN RELAZIONE ALLA NATURA
DEI TERRENI. VA RILEVATO CHE IL PROVVEDIMENTO DEL
CONSIGLIO, NELLA SUA STRUTTURA GENERALE, HA CARATTERE
TEMPORANEO, IN QUANTO VOLTO A FAR FRONTE SUL MOMENTO
AD UNA ECCEDENZA CONGIUNTURALE, ED A CONSENTIRE AL
TEMPO STESSO L'ELABORAZIONE DI PROVVEDIMENTI DEFINITIVI
DI CARATTERE STRUTTURALE.
29 COSI INTESO, IL PROVVEDIMENTO CONTROVERSO NON
STABILISCE ALCUNA ILLECITA LIMITAZIONE DELL' ESERCIZIO DEL
DIRITTO DI PROPRIETA. INFATTI LO SFRUTTAMENTO DEI NUOVI
VIGNETI, IN UNA SITUAZIONE CARATTERIZZATA DA UNA
SOVRAPPRODUZIONE DUREVOLE, AVREBBE, SOTTO IL PROFILO
ECONOMICO, L'UNICO EFFETTO DI AUMENTARE LE ECCEDENZE;
INOLTRE,
L'ESTENSIONE
DELLE
AREE
COLTIVATE
457
COMPORTEREBBE, IN QUESTA FASE, IL RISCHIO DI RENDERE PIU
DIFFICILE L'ATTUAZIONE DELLA POLITICA STRUTTURALE A
LIVELLO COMUNITARIO, QUALORA QUESTA FOSSE FONDATA SU
CRI
Fly UP