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la presenza dei carri a due ruote nelle tombe di eta` arcaica di area

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la presenza dei carri a due ruote nelle tombe di eta` arcaica di area
LA PRESENZA DEI CARRI A DUE RUOTE NELLE TOMBE DI ETA’ ARCAICA
DI AREA PRETUZIA
La deposizione del carro nella tomba è un fenomeno tra i più significativi della cosiddetta
“cultura dei principi” nell’Italia di età orientalizzante ed arcaica (fine VIII – VI sec. a. C.).
Con l’espressione “cultura dei principi” gli archeologi sono soliti designare una tendenza
che interessa, in maniera “trasversale”, le etnie che vissero nell’area mediterranea ed
europea (Greci come Etruschi, Piceni come Veneti ecc.), ovvero l’affermazione di ceti
aristocratici molto ricchi e potenti, che legittimarono il proprio potere essenzialmente su tre
solide basi di affermazione nella società:
la ricchezza, l’abilità guerriera e il ruolo di prestigio ricoperto anche nell’ambito religioso
della comunità tutta.
Oggi siamo in grado di conoscere quei ceti aristocratici, il loro concetto di ricchezza e
prestigio, i loro reciproci contatti economici e culturali, soprattutto attraverso un settore
della ricerca archeologica, quello incentrato sullo studio dei contesti funebri. Il successo
della cosiddetta “archeologia della morte” in questo senso è dovuto innanzitutto al fatto che
niente come una tomba può preservare il materiale archeologico dagli agenti di distruzione
esterni: essa è come un contenitore sigillato in antico che conserva più o meno intatte tutte
le testimonianze materiali che in essa sono contenute. Da questa considerazione che può
sembrare apparentemente banale, si capisce quante informazioni si mantengano intatte
nelle necropoli rispetto agli abitati, dove la distruzione, o meglio l’alterazione, è un
fenomeno costante sin dal momento della formazione degli stessi.
Certo, attraverso lo studio dei contesti funerari si avrà sempre una visione parziale di tutta
una serie di informazioni sulle civiltà antiche: mancheranno informazioni sulle tecniche
edilizie ed architettoniche, sulle modalità di sfruttamento del territorio, sul modo in cui
l’uomo ha interagito con l’ambiente circostante, tuttavia nelle tombe sono racchiuse
informazioni importantissime riguardo le tre peculiarità sopra citate, pertinenti ai ceti
aristocratici (la ricchezza, la guerra e la religione).
Nella tomba, i “principi guerrieri” di cui stiamo parlando, si portano dietro un corredo che
offre un’idea chiara sul loro prestigio: il vasellame in ceramica e bronzo sarà emblematico
del banchetto, ovvero del momento di aggregazione sociale da parte delle élites e di
affermazione della propria ricchezza.
Molto spesso nella tomba si individuano oggetti d’uso comune, coltelli, calici, vasellame da
mensa in generale, i quali possono essere considerati gli “strumenti” nelle celebrazioni
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religiose: sappiamo che particolari forme di coltelli (le machairai ad esempio) erano
utilizzate per il taglio delle carni durante i riti religiosi, così come particolari forme
vascolari ( tipo il rytòn) erano utilizzate negli stessi contesti.
Queste presenze nei corredi degli aristocratici ci permettono di conoscere il loro prestigio
anche nell’ambito delle celebrazioni religiose; il “principe guerriero” è anche rex sacrorum
(signore delle cose sacre) e legittima il suo potere nella comunità anche attraverso la sua
importanza religiosa.
La ricchezza della panoplia (armatura, dal greco panoplìa, insieme delle armi) è indice del
potere che l’individuo ha in guerra: in un contesto dove non esiste ancora la milizia
regolare, dove la guerra non è un mestiere remunerato, il combattente è un “guerriero”, non
è un “soldato”. Ciò significa che ogni uomo compie il suo dovere di difensore della
comunità in cui vive, e lo fa esclusivamente con le proprie risorse. Così, mentre chi è di
estrazione sociale povera combatterà con un armamentario scarso (quasi nullo a volte), il
signore andrà in battaglia con un armamentario “ricco e terribile”, rappresentato da lance,
pugnali, spade, elmi, corazze protettive ecc.
In questi corredi sepolcrali, così carichi di significati sociali, politici, religiosi, appare
molto spesso il carro.
Posizionato a fianco del deposto (fig. 1) nelle fosse terragne di dimensioni consistenti (che
per le loro dimensioni ricordano le tombe a camera, e non a caso vengono definite spesso
“a pseudocamera”) o addirittura sopra il corpo inumato, come a proteggerlo (fig. 2, Tomba
“La Gorge-Meillet”, Somme-Tourbe, Champagne, Francia nord orientale), esso si presenta
come un’evidenza di primo piano agli occhi degli archeologi che riportano alla luce la
tomba.
Tuttavia individuarne la presenza all’interno della tomba non è sempre facile: stiamo infatti
parlando di veicoli dalla struttura portante realizzata interamente in legno (dunque di solito
facilmente deteriorabile), che il più delle volte lasciano solo sporadiche tracce della loro
presenza nel terreno.
E’ il rinvenimento di parti superstiti in metallo (e solo assai raramente in legno) che
permette di riconoscere la presenza del carro nella tomba, anche se ridotto in condizioni
assai deteriorate; le fasce in ferro piatte utilizzate come cerchioni, le fasce di sostegno dei
mozzi delle ruote, le piastre di raccordo tra timone ed asse, sono tutti elementi che, anche
se presi singolarmente, possono testimoniare la sepoltura del veicolo nella fossa (fig. 3).
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Perché i carri nelle tombe
In Italia come in Grecia, nella Penisola Iberica come nell’Europa Halstattiana, il carro è
dunque prerogativa della nobiltà guerriera di questi secoli, emblema del loro potere, status
symbol di un ceto che li utilizzava per recarsi in battaglia o a caccia ( i carri veloci, anche
detti currus, fig. 4), o nella vita quotidiana e durante cerimoniali che raccoglievano tutta la
collettività (i calessi, chiamati in latino carpenta, parola mutuata dal celtico, fig. 5) .
La loro presenza nelle tombe, almeno per quel che concerne la Penisola Italiana, ha un
determinato ambito di diffusione, sia nello spazio che nel tempo. Più avanti si specificherà
che la deposizione dei carri è un fenomeno diffuso in modo particolare nell’Italia centrosettentrionale (si veda comunque fig. 6), che interessa dunque soprattutto l’ambito veneto,
etrusco, piceno e laziale (sabino, falisco e latino). E’ in questo ambito che dalla metà del
secolo VIII fino al V secolo a. C., si trova la maggioranza dei carri deposti nelle tombe.
In un primo periodo (fine VIII- prima metà VII secolo avanti Cristo) i veicoli presenti nei
contesti funebri sembrano essere, per le dimensioni e per le fattezze, quegli stessi che
hanno accompagnato l’individuo sepolto in vita, nella battaglia come nella caccia. Si pensi
ad esempio al carro rinvenuto nella necropoli Case Nocera (Casale Marittimo, Pi), o a
quelli provenienti dalla necropoli della Bandinella (Marsiliana d’Albegna, Gr), tutti datati
tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo.
Dal VI secolo a. C. nelle tombe si iniziano a trovare veicoli dagli apparati decorativi
sontuosi, poco funzionali poiché eccessivamente appesantiti; ciò ha fatto supporre che da
questo periodo essi diventano ancora di più un simbolo della tryphè aristocratica, perdendo
quelle peculiarità che li rendevano adatti per il trasporto veloce e funzionale su ogni tipo di
terreno. E’ in questo momento più che mai che il carro ha la funzione di connotare
socialmente l’individuo con il quale è sepolto (si vedano il carro di Monteleone di Spoleto,
Perugia, necropoli Colle del Capitano fig. 7, oppure quello rinvenuto a Castel S. Mariano di
Corciano, Pg,; entrambi sono datati alla seconda metà del VI secolo avanti Cristo, 550-500
a. C.)
I carri pretuzi
I carri rinvenuti nella necropoli pretuzia di Campovalano di Campli e nella sepoltura isolata
di S. Giovanni al Mavone (tutti currus, dunque veicoli da corsa da guidare stando in piedi,
cfr. la biga romana) appartengono a questo periodo, potendo intuire che la loro datazione è
compresa tra la fine del VII e la metà del VI secolo a. C.. Essi sono sei in tutto: cinque
provenienti da Campovalano (rinvenuti nelle tombe 2, 69, 100, 121 e 371) e uno nella
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tomba scavata nel 1902 da E. Brizio in località S. Giovanni al Mavone, presso la
confluenza dei du fiumi Vomano e Mavone.
A differenza dei contemporanei carri etruschi o piceni, non sono caratterizzati da
importanti elementi decorativi, tranne uno, quello della Tomba 121 di Campovalano, che
presenta delle fasce in ferro decorate a sbalzo, usate come rinforzo delle fiancate e del
parapetto (fig. 8). La loro condizione di simbolo del potere aristocratico più che di semplice
veicolo addetto al trasporto potrebbe essere legata alle dimensioni ridotte; sembrano infatti
quasi realizzati per essere deposti all’interno delle fosse, visto che il loro scartamento
(ovvero la distanza tra le due ruote) non supera mai un metro di larghezza, e le ruote hanno
diametro compreso tra cm 65 e 70. Questa è solo un’ipotesi, ma facendo un confronto con i
veicoli rinvenuti in altre aree le loro dimensioni risultano un dato abbastanza significativo.
Nel territorio abruzzese la presenza del carro nelle tombe è un fenomeno circoscritto alla
sola area pretuzia.
La facies pretuzia, anticamente vissuta nella parte settentrionale dell’odierno Abruzzo
(grossomodo la provincia di Teramo), presenta alcune caratteristiche che la differenziano
rispetto alle altre antiche culture della regione. Essenzialmente ciò è dovuto alla vicinanza
con l’area centroitalica (Etruria e Piceno settentrionale) e alla facilità di comunicazione con
le popolazioni che vivevano lungo la fascia adriatica, media e alta.
Con la cultura propriamente picena, il cui “epicentro” si trovava certamente a nord, nelle
odierne Marche, ebbe un’ affinità di carattere culturale tale da rendere oggi difficile la
definizione di un confine meridionale della regione meglio conosciuta come Piceno. Tanti
furono anche i contatti con i territori nord-occidentali, soprattutto l’Agro Falisco e l’Etruria
interna, con i quali si crearono sicuramente scambi commerciali per mezzo delle vie che
attraversavano la dorsale appenninica; testimonianza di queste relazioni sono i prodotti di
importazione (vasellame prima di tutto e, in special modo, quello in bronzo), ma anche
forme e reinterpretazioni di motivi decorativi mutuati dall’area tirrenica.
La consuetudine di seppellire assieme al corredo anche i carri deve essere inserita
all’interno di questo quadro di relazioni tra l’area pretuzia e l’Italia centro-settentrionale; in
effetti, come già accennato, questo costume così diffuso nelle civiltà italiche del centro e
del settentrione è assai raro nel meridione. E in effetti, se non per rari rinvenimenti che
peraltro non sono attribuibili ad esatti contesti, esso non si ritrova nelle altre culture
dell’Abruzzo antico, che sembrerebbero perlopiù orientate verso l’orizzonte centromeridionale.
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Il problema delle ricostruzioni
Nell’affrontare un lavoro di ricerca sulla realizzazione dei veicoli utilizzati in antichità
(carri a due e quattro ruote e calessi) ci si imbatte in terreni poco battuti e ricchi di asperità.
Proporre delle ipotesi ricostruttive sui carri antichi, infatti, significa dover tenere conto di
tutta una serie di aspetti tecnici legati alla funzionalità di tali vetture, quali la resistenza
delle parti che li costituivano o l’equilibrio tra queste (ad esempio tra il timone e il sistema
asse-ruote), necessario ad un’adeguata stabilità e ad un corretto funzionamento. Molto
spesso, a causa delle condizioni assai deteriorate dei carri rinvenuti, può risultare difficile
anche comprendere quale fosse la reale funzione di singoli elementi che, nel contesto di
ritrovamento, sono dissociati dalla struttura in cui erano inseriti. Infatti, come già spiegato,
per una maggiore leggerezza e funzionalità (elasticità, resistenza agli urti), la struttura di
base dei carri era per lo più realizzata in legno, materiale organico purtroppo condannato a
disintegrarsi quasi del tutto nei contesti di rinvenimento. Il più delle volte ci si ritrova
dunque ad analizzare singole parti in metallo (ferro o bronzo), testimonianza parziale ed
incompleta di tutto l’insieme. Tutto questo ed altro, insomma, pone non pochi problemi
quando ci si impegna nella ricostruzione dei veicoli.
Sicuramente le fonti iconografiche, come i modellini in terracotta o le rappresentazioni su
pitture vascolari e nei rilievi fittili, offrono un valido aiuto nella ricostruzione, almeno per
avere un’opinione quanto più esatta possibile sulla loro realtà; rimane comunque difficile
avere un’idea corretta sulla realizzazione di alcuni dettagli strutturali, risultato di un sapere
artigianale e di una tecnologia purtroppo quasi del tutto scomparsi e quindi poco
comprensibili.
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Figura 1- rilievo grafico della Tomba 69 di Campovalano;
con il riquadro largo, in basso a sinistra, si indica l’area
d’ingombro del pianale del carro. Con il riquadro lungo e
stretto si indica la possibile l’area di ingombro del timone
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Figura 2 - Tomba “La Gorge-Meillet”, Somme-Tourbe,
(Champagne, Francia nord orientale), rilievo grafico della
Tomba (immagine presa da A. Emiliozzi, Carri da guerra e
principi Etruschi, catalogo della mostra, Viterbo 1999).
Il triangolo indica l’area di ingombro del carro nel sepolcro,
e si vede chiaramente come il pianale veniva a trovarsi sopra
il corpo del defunto.
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Figura 3 – elementi in ferro pertinenti il carro rinvenuto nella Tomba 100 di Campovalano.
Con il num. di inventario 16039 si indica il cerchione; con i numeri 16033, 16034, 16036,
16037 si indicano gli anelli dei mozzi delle ruote. Con il numero 16040 si indicano i morsetti
Fermagavelli (che servivano a tenere insieme le parti di cerchione in legno della ruota, ovvero
i gavelli appunto). 16032 è invece la piastra che teneva in raccordo il timone con l’asse delle ruote
(piastra blocca-timone); con 16035 si indicano gli acciarini, perni che, fissati sulle testate esterne
dell’asse, impedivano alle ruote di sganciarsi da esso.
(si ringrazia il Museo Civico Archeologico “F. Savini” di Teramo per aver fornito la documentazione
sul carro della Tomba 100, conservato proprio in questo museo).
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Figura 4 – carro veloce (currus); ricostruzione di un carro pretuzio sulla base dell’analisi dei frammenti in ferro rinvenuti
nelle cinque tombe di Campovalano in cui era sepolto un carro (documento inedito).
Figura 5 – calesse proveniente da Sirolo (Ancona), Tomba “della Principessa”, Necropoli dei Pini (da Emiliozzi 1999)
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Figura 6 – mappa di distribuzione delle presenze di carri nelle tombe (da A. Emiliozzi 1999); si noti come la presenza si
fa più consistente nell’Italia centro-settentrionale (Etruria e Piceno prima di tutto).
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Figura 7 - il carro di Monteleone di Spoleto, Perugia, necropoli Colle del Capitano
Figura 8 – ricostruzione del parapetto e fiancate laterali del carro proveniente
dalla Tomba 121 di Campovalano
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