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dio si interessa di noi?
2° domenica
Baruc 5,1-9 Ritorno degli esiliati
Sal 125 Quando il Signore ristabilì
la sorte di Sion…
Fil 1,4-6.8-11
Lc 3,1-6 Il Battista
Seconda domenica di Avvento
DIO SI INTERESSA DI NOI
PREGHIERA D’INIZIO Tutto quello che si può fare con Dio
Si può rendere Dio responsabile della fame e della miseria.
Si può negare Dio, perché non si fa vedere
e non impedisce le disgrazie.
Si può affittare Dio in particolari occasioni: egli serve per le solennità
e favorisce gli affari.
Si può voler avere Dio solo per sé e negare Dio alle altre persone —
specialmente a quelle che la pensano diversamente.
Si può usare Dio a vantaggio del proprio potere, dicendo che ogni
autorità viene da Dio.
Si possono fare guerre nel nome di Dio,
si possono condannare ed uccidere delle persone
affermando che questa è la volontà di Dio.
Si possono mascherare delle aggressioni come ‘crociate’ al grido di
«Dio lo vuole», e scrivere sulle uniformi dei soldati: «Dio con noi».
Ma tutto questo è ateo. Non si può ‘fare’ niente con Dio, né usarlo né
sfruttarlo, giacché Dio è amore, e ne ha parte soltanto chi questo
amore lo fa crescere dentro di sé
?
Focus
Cosa vuol dire “ricordarsi di Dio”
nel corso della nostra storia:
Nelle attività in cui siamo implicati
tutti i giorni?
Nella valutazione deifatti che
capitano?
Nelle decisioni che prendiamo?
Riprendiamo la preghiera che
abbiamo appena recitato: quali
frasi ci provocano o ci lasciano
perplessi? Quali domande sorgono
in noi rispetto al modo abituale di
intendere la presenza di Dio nella
storia?
Dal libro del profeta Baruc (5,1-9)
Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto
Dio è il Padre
e dell’afflizione,
Gerusalemme è la madre che ha nutrito il popolo.
Ora la madre, che è vedova,
rivèstiti dello splendore della gloria
è invitata a guardare ad oriente per vedere che i
che ti viene da Dio per sempre.
2
figli vengono ricondotti in trionfo da Dio.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
Quando il profeta parla
metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno,
3
sembra che la rivelazione sia imminente: “Guarda!”
perché Dio mostrerà il tuo splendore
a ogni creatura sotto il cielo.
4
Sarai chiamata da Dio per sempre:
«Pace di giustizia» e «Gloria di pietà».
5
Ritorno
Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura
I nemici hanno provocato
glorioso
e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti,
la rovina di Gerusalemme
Cammino
dal tramonto del sole fino al suo sorgere,
facile (Isaia), alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
Il ricordo di Dio è fondamentale
spianato,
6
perché innesca
Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici;
il deserto
il
dinamismo
della salvezza
ora Dio te li riconduce in trionfo, come sopra un trono regale.
come selva
1
profumata…
Poiché Dio ha deciso di spianare
ogni alta montagna e le rupi perenni,
di colmare le valli livellando il terreno,
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
8
Anche le selve e ogni albero odoroso
hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio.
9
Perché Dio ricondurrà Israele con gioia
alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.
7
è il Signore che dirige la storia
ma non la regge come un burattinaio. Chi crede è
capace di vedere che Dio non si è dimenticato. La
domanda è DIO SI INTERESSA DI NOI O NO?
Nella storia c’è qualcosa che si può trovare ma non
è automatico: compito del profeta è quello di aiutare
a vedere…
Il compito profetico del cristiano:
permettere ai fatti di parlare….
I profeti si sono conservati perché le loro profezie si
sono avverate. La storia ha dato ragione ai profeti e
ha fatto capire che se si vuole costruire una nuova
storia, bisogna mettersi in movimento
diversamente.
COMMENTO
Il libro di Baruc è un testo composito che include quattro sezioni distinte:
un racconto in prosa sulla composizione di un libro o di una lettera e la sua duplice lettura
pubblica a Babilonia e Gerusalemme (1,1-15a);
la preghiera penitenziale collettiva, in prosa, che la comunità di Gerusalemme deve
recitare per incarico degli esiliati (1,15b-3,8);
una composizione poetica sull’unico accesso alla sapienza: il libro della Legge donato al
popolo eletto (3,9-4,4);
l'esortazione di una voce profetica e della Gerusalemme personificata rivolta agli esiliati
da un lato e a Gerusalemme dall’altro (4,5-5,9).
Il discorso di incoraggiamento include l’annuncio della svolta salvifica imminente, con frequenti
appelli agli esiliati da un lato (4,5-29) e a Gerusalemme presentata come una vedova privata dei
suoi figli dall’altro (4,30-5,9); prende la parola la Gerusalemme già menzionata nella prima parte
con un’ampia citazione, anzitutto lamentandosi (4,9b-20) e quindi invitando alla fiducia (4,21-29).
Le due parti si corrispondono in parte fino nella terminologia. Contrariamente all’introduzione
narrativa e alla preghiera penitenziale, i fautori della deportazione qui sono qualificati come
nemici (già 3,10 parlava di nemici).
Si accumulano i predicati di Dio: creatore, 4,7; sostentatore, 4,8; eterno, 4,10.14.22.24.35; 5,2,
salvatore, 4,22; santo, 4,37; 5,5.
Più volte si ripete: "Coraggio, popolo mio" (4,5; cf. 4,21.27.30). Dio è il padre che ha
allevato il suo popolo; Gerusalemme è la madre che l'ha nutrito (4,8). La città-madre è invitata a
guardare verso oriente per contemplare la riunificazione di tutti i figli dispersi: «ora Dio te li
riconduce in trionfo» (5,6). L'attesa e la speranza di una liberazione sono pressanti.
Gerusalemme è la città-madre, il centro spirituale in cui Dio attuerà la sua salvezza.
Con immagini presenti anche in altri testi profetici, Gerusalemme è invitata a rivestirsi della gloria
di Dio (cf. Is 52,1; 61,10), a indossare il manto della giustizia divina (Is 48,18; 51,5-8) e a mettersi
la corona della gloria dell'Eterno. Dio comunica al suo popolo sia la sua "gloria" sia la sua
"giustizia". Il "diadema di gloria" è un ornamento del capo, con cui Dio riabilita Gerusalemme, la
ristabilisce nei suoi diritti e la fa trionfare sui nemici.
La città riceverà un nome nuovo, segno della sua rinnovata identità (5,4; cf.inoltre 1,26; 60,14.18;
Ger 33,16; Ez 48,35). Il nome indica anche il ruolo, la missione e i valori che la città dovrà
incarnare: la pace, la giustizia, la pietà o rispetto del Signore.
Si realizzano le profezie della seconda parte di Isaia (40,9; 49,18; 51,17); tutti sono esultanti
perché Dio si è ricordato di loro (5,5). Il ritorno è un trionfo simile a un corteo regale (5,6). Come
prevedeva la profezia di Isaia 40,3-4, la via del ritorno sarà piana; anche il deserto diventerà una
selva ombrosa, piena di alberi odorosi (5,8).
Tutto ciò avverrà perché Dio ha dato un comando: tutto è opera sua. Sarà Dio che "ricondurrà
Israele con gioia" (5,9), facendo così conoscere il trionfo della sua gloria, della sua misericordia e
della sua giustizia.
Per i discepoli di Gesù, la Gerusalemme promessa trova già il suo inizio nella chiesa; è lei il
popolo radunato da Dio, che nella storia deve incarnare il ruolo, la missione e i valori qui
elencati: la pace, la giustizia, la pietà.
RIAPPROPRIAZIONE
Dopo aver letto il testo di E. Hillesum
Cosa può voler dire per noi “difendere Dio
nel nostro cuore” in questo tempo, nella
nostra vita concreta, nella settimana che si
apre davanti a noi?
Come coltivare ed alimentare nei nostri
discorsi questo atteggiamento positivo,
sintonizzato sulla salvezza che Dio opera?
convegno di
Firenze
TRASFIGURARE
Le comunità cristiane sono nutrite e trasformate nella fede grazie alla vita
liturgica e sacramentale e grazie alla preghiera. Esiste un rapporto intrinseco
tra fede e carità, dove si esprime il senso del mistero: il divino traspare
nell’umano, e questo si trasfigura in quello. Senza la preghiera e i sacramenti,
la carità si svuoterebbe perché si ridurrebbe a filantropia, incapace di conferire
significato alla comunione fraterna.
Riascoltiamo le parole del Concilio Vaticano II: «La liturgia, mediante la quale,
soprattutto nel divino sacrificio dell’eucaristia, si attua l’opera della nostra
redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro
vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera
Chiesa» (Sacrosanctum Concilium 2).È la vita sacramentale e di preghiera che
ci permette diesprimere quel semper maior di Dio nell’uomo descritto sopra.
Lavia dell’umano inaugurata e scoperta in Cristo Gesù intende non soltanto
imitare le sue gesta e celebrare la sua vittoria, quasi a mantenere la memoria
di un eroe, pur sempre relegato in un’epoca, ormai lontana. La via della
pienezza umana mantiene in lui il compimento, perché prosegue la sua stessa
opera, nella convinzione che lo Spirito che lo guidò è in azione ancora nella
nostra storia, per aiutarci a essere già qui uomini e donne come il Padre ci ha
immaginato e voluto nella creazione. «Come la natura assunta serve al Verbo
divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, – Lumen
gentium 8 – così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve
allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cf. Ef 4,16)».
Questo è, per esempio, il senso della festa e della Domenica, che sono spazi
di vera umanità, perché in esse si celebra la persona con le sue relazioni
familiari e sociali, che ritrova se stessa attingendo a una memoria più grande,
quella della storia della salvezza.
Lo spirito delle Beatitudini si comprende dentro questa cornice: la potenza dei
sacramenti assume la nostra condizione umana e la presenta come offerta
gradita a Dio, restituendocela trasfigurata e capace di condivisione e di
solidarietà. Al Convegno verifichiamo la qualità della presenza cristiana nella
società, i suoi tratti peculiari e la custodia della sua specificità.
A noi, popolo delle beatitudini che si radica nell’orazione di Gesù, è chiesto di
operare nel mondo, sotto lo sguardo del Padre, proiettandoci nel futuro mentre
viviamo il presente con le sue sfide e le sue promesse, con il carico di peccato
e con la spinta alla conversione.
Proviamo a rileggere assieme i passi compiuti dopo il Concilio per
rendere le nostre liturgie capaci di esprimersi e di parlare dentro
la cultura di oggi.
Le nostre celebrazioni domenicali sono in grado di portare il
popolo ancora numeroso che le celebra a vivere quest’azionedi
trasfigurazione della propria vita e del mondo? La Conferenza
Episcopale Italiana ha appena pubblicato un testo sull’annuncio e
la catechesi: come introduciamo e educhiamo alla fede un popolo
molteplice per provenienza, storia, culture?
Quanto l’attitudine filiale di Gesù col Padre – espressa nel suo
stile di preghiera e nella sua consegna a noi nel sacramento
dell’Eucaristia –, quanto lo stile della cura del Maestro di
Nazareth, lo stile della misericordia di Dio Padre operante in
Gesù stesso, è diventato l’ingrediente principale del nostro essere
uomini e donne di questo mondo?
SALMO 126
DOPO LE LACRIME, LA GIOIA
Nel ritmo del pellegrinaggio, il salmo 126 evoca la condizione di chi, già giunto alla meta, medita con gratitudine sul
significato del cammino compiuto. Esso richiama il cammino di liberazione con il quale Dio ha restituito Israele alla sua
terra, togliendolo dalla schiavitù babilonese. Il pellegrinaggio è il memoriale di quella liberazione e ci rende disponibili
ad essere rallegrati dalla grazia delle liberazioni di Dio.
1
Cantico delle ascensioni
AZIONE DI DIO E
SUE FELICI
CONSEGUENZE
Quando Jahweh restaurò le sorti di Sion
noi eravamo come trasognati.
2
Allora la nostra bocca si colmò di sorriso,
la nostra lingua di esultanza
Allora si diceva tra le nazioni:
“Grandi cose Jahweh ha fatto per loro”
3
“Grandi cose Jahweh ha fatto per noi”
eravamo pieni di gioia.
Eravamo sognanti
Hajinu holmim
Eravamo gioiosi
Hajinu somehim
Restaura, Jahweh, le nostre sorti
DALLA
come i torrenti nel Negheb!
5
GRATITUDINE
Coloro che seminano nelle lacrime
ALL’INVOCAZIONE mieteranno nell’ esultanza”
6
Se ne va piangendo colui che porta il sacco della semente
mentre viene con esultanza colui che porta i suoi covoni.
(la vita quotidiana)
4
Il pellegrinaggio è un esercizio di fede che tende a recuperare il sogno, la visione profetica suscitata
dall’agire di Dio. Soltanto così la fede libera in noi il coraggio del futuro.
COSE GRANDI HA FATTO IL SIGNORE PER NOI Sal 125
Sogno — sorriso — canti di gioia (vv. 1-2). Quello che accade a Israele sembra troppo bello per essere
vero. Eppure è la realtà: l’impero di Babilonia è crollato, le porte della prigionia si aprono. La campagna di
Ciro — ieri ancora uno sconosciuto — è stata fulminea. È l’ora della rivincita e della riabilitazione del
popoio di Dio. Il mondo non si è ancora ripreso dal suo stupore che già le prime colonne di rimpatriati si
avviano verso Gerusalemme.
I popoli parlano prima di Israele e rendono al Signore la gloria che egli sembrava avere perduto ai loro
occhi. La profezia di Ezechiele si adempie: « Le genti sapranno che la casa d’Israele per la sua iniquità
era stata condotta in schiavitù, perché si era ribellata a me e io avevo nascosto loro il mio volto e li avevo
dati in mano ai loro nemici... ma ora io ristabiirò la sorte di Giacobbe, avrò compassione di tutta la casa
d’Israele e sarò geloso del mio santo nome » (Ez 39,23-25). Israele unisce il suo riconoscimento a quello
dei popoli, pressappoco negli stessi termini, ma aggiungendovi la gioia:
popoli: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro »;
Israele: « Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia» (vv. 2-3).
Nella Bibbia, la gioia può essere sinonimo di salvezza e di redenzione: « Farò di Gerusalemme una gioia,
del suo popoio un gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo » (Is 65,18). La gioia è il
vincolo che unisce salvatore e salvati. La gioia messianica è una di quelle emozioni profonde che tanto
più crescono, quanto più sono soddisfatte.
La seconda parte (vv. 4-6) ritorna alla supplica: « Riconduci, Signore, i nostri prigionieri, come i torrenti
del Negheb » (v. 4). Salvezza e liberazione riprendano il loro corso, come i fiumi stagionali del Negheb, in
secca durante l’estate, riprendono a scorrere in inverno, al ritorno della pioggia. L’idea di alternanza delle
stagioni, introdotta dall’immagine dei torrenti del Negheb, ispira la logica degli ultimi versetti:
seminare lacrime portare la semente
raccogliere canti portare i Covoni
La storia della salvezza è a immagine del ciclo agrario. Le restrizioni e le fatiche del momento sono la
condizione indispensabile per abbondanza e soddisfazioni future. Così la rinuncia è il passaggio obbligato
verso la ricchezza autentica. La semente perduta si ritrova nei covoni falciati. Allo stesso modo l’esilio
prepara un più giusto modo di riprendere in mano il paese.
Per la fede, non ci sono strade che si perdano. Ogni andata ha la possibilità di un ritorno.
TESTI
E. Hillesum (breve testo e commento)
(allegati)
Z. Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Milano, Adelphi, 1997, pp. 23-24 e
27-29. Traduzione di A. L. Callow
'Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi
bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio,
soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il
domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di
aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa,
però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover
aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e
anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche
contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far
molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in
causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio
cuore, cresce la mia certezza: (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.
Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e
cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio'
(Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, pp. 169-170).
Così scriveva Etty Hillesum, un’ebrea olandese di
Amsterdam, una domenica mattina del 1942,
mentre fuori infuriava la persecuzione nazista.
Etty (Esther) Hillesum era nata il 15 gennaio 1914
a Middelburg (Paesi Bassi) da famiglia ebrea, figlia
di un insegnante di lingue classiche e di una russa
scampata ai pogrom. Laureata in giurisprudenza e
iscrittasi poi alla facoltà di lingue slave, coltivò la
passione per la lettura e gli studi di filosofia e
psicologia. Ad Amsterdam, in cui passò la maggior
parte della sua vita, Etty insegnò russo e condusse
un’intensa vita relazionale, vissuta comunque
come arricchimento e ulteriore stimolo di una
intensissima vita interiore. Di quest’ultima sono
testimonianza i suoi diari (dal marzo 1941 al
settembre 1943), e le lettere scritte agli amici, in
gran parte da Westerbork, campo di smistamento
e anticamera per Auschwitz, situato al confine tra i
Paesi Bassi e la Germania, dove Etty si trovò
come prigioniera dal giugno del ’43 (dopo avervi
lavorato con possibilità di allontanamento e avere
avuto quindi più volte l’occasione, da lei rifiutata, di
fuggire). Il 7 settembre 1943 si trovò anche lei
come tutti sul treno merci per Auschwitz, assieme
ai genitori e ad uno dei due fratelli.
Da una informazione della Croce Rossa risulta che
Etty morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943;
aveva ventinove anni.
Chi era Etty Hillesum? Il punto di partenza di Etty è
quello di una donna fragile, inquieta, instabile
affettivamente. Depressione, paura e repulsione
marcano l’umanità di questa donna all’inizio della
sua autotestimonianza. Etty è una donna che ha
avuto un’intensa vita sentimentale e un’altrettanto
intensa vita spirituale, una donna che cercò con
molta difficoltà di trovare un equilibrio tra la sua
sete spirituale, di leggere, di conoscere, di
scrivere, di esprimersi, di pregare e il suo desiderio
di vivere un rapporto d’amore con un uomo. Nei
suoi scritti troviamo una grossa capacità
introspettiva e una ricerca acuta, piena di alti e
bassi, con intuizioni profonde e ingenuità, con
rabbie, delusioni, angosce e scoppi di ottimismo:
stati d’animo questi e sentimenti propri di ogni
individuo sensibile alla ricerca di identità.
L’itinerario interiore di Etty Hillesum si svolse
contemporaneamente ai fatti storici esterni che
andarono coinvolgendo in maniera sempre più
drammatica la gente ebrea: questo dramma la
sollecitò fortemente alla ricerca di un
atteggiamento da tenere sia di fronte alla propria
storia personale che alla 'grande' Storia, l’abisso di
assurdità e ingiustizia che si compiva sotto gli
occhi di quella generazione di ebrei. Ma Etty
chiede di essere un 'cuore pensante', e si oppone
tanto all’incapacità di pensare come violenza
nell’atteggiamento dell’aguzzino quanto alla non
volontà di pensare come reazione al dolore che si
evidenzia nelle vittime, attorno a lei. In ascolto di
se stessa, Etty si fortifica sempre più in
benevolenza e fiducia verso la vita mentre
all’esterno la situazione storica precipita in orrore,
così che verso il termine del suo itinerario interiore,
quella vitalità inquieta e sofferente si è come
illuminata e pacificata, saldata attorno ad un
ancoraggio interiore: Dio.
Etty non invoca consapevolmente il Dio di una
particolare tradizione religiosa; il 'suo' Dio è,
semplicemente e immediatamente, il Dio che
ciascuno porta al fondo della propria anima. Ciò
che allora riappare è semplicemente l’uomo che
custodisce Dio nel segreto, un Dio che 'va salvato'
proprio perché lo si tiene nell’intimo del proprio
cuore. C’è dunque una parte della creatura più
profonda e intangibile, una parte divina, che
patisce senza subire violenza, che è Dio in noi.
'Dentro di me c’è una sorgente molto profonda –
scrive Etty – e in quella sorgente c’è Dio. A volte
riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta
di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora
bisogna dissotterrarlo di nuovo'.
La vita di Etty, la sua reazione al dolore alla morte,
il suo grande amore a oltranza per la vita,
appaiono così come la manifestazione della
profezia di Isaia: 'Sarai come un giardino irrigato,
come una sorgente le cui acque non inaridiscono'.
In un luogo e in un momento storico in cui tutto
proclamava e anzi urlava la morte di Dio e
dell’uomo, Etty intuisce l’intimo legame tra le sorti
dell’uno e quelle dell’altro, riscopre in se stessa la
verità dell’uomo come luogo in cui sopravvive la
presenza di Dio, e si dà il compito di custodire,
preservare, più che la propria vita fisica, il proprio
nucleo interiore più profondo, un piccolo pezzo di
Dio in noi stessi, con un’intuizione di verità
profondissima, che ritrova Dio per una strada altra,
personale e universale insieme, l’uomo come solo
tempio possibile di un Dio vivente. E disseppellire
Dio nel cuore dell’uomo è 'rintracciare il minuscolo
essere umano, sepolto sotto la barbarie
dell’insensatezza e dell’odio'. Così Etty può
arrivare a dire: 'Amo così tanto gli altri perché amo
in ognuno un pezzetto di te, mio Dio'.
E a Dio scrive: 'Discorrerò con te molto spesso e in
questo modo ti impedirò di abbandonarmi'. Etty
tiene vivo Dio in sé come relazione da alimentare,
e parla con lui come ad una persona diventata
importante, qualcuno che non si vuole più lasciare
andare. Parla a Dio come a un qualcuno la cui
permanenza nella nostra vita è più importante
delle proiezioni e delle attese che possiamo avergli
costruito attorno. Lei fa un’operazione di 'ritiro delle
proiezioni' con tutti gli attori più importanti della sua
scena esistenziale, il suo uomo, il suo nemico, il
suo Dio. In questo modo diventa capace di
relazioni libere e liberanti con tutti, anche con Dio,
da cui arriva a non pretendere niente, nemmeno
che sia Dio, con tutte le immagini e le implicazioni
di potenza che caricano questo nome.
Etty manifesta questa idea commovente, originale,
profondamente umana: trattenere Dio presso di sé
col dialogo, con l’attenzione, con la cura di una
relazione: 'Discorrerò con te'; parlerò io nel tuo
silenzio e farò essere la relazione anche
nell’assenza, nell’apparente assenza di te. Vorrò
crederci, e, credendoci, ti farò essere; parlando
con te renderò viva e operante la tua presenza
invisibile, seppellita e silente nel cuore dell’uomo.
Poiché, scrive Etty: 'Una volta è un Hitler; un’altra
è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un
caso è la rassegnazione, in un altro sono le
guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel
che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e
risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto
un pezzetto della propria anima'. Un pezzetto della
propria anima che è 'la parte più profonda di sé',
quella in cui lei 'si riposa' e che chiama 'Dio'.
Lei, di Dio, comprende e vive le cose essenziali: la
sua presenza familiare e non estranea al cuore
dell’uomo, una sorta di sua profonda solidarietà e
compromissione con l’uomo, con la sua debolezza
e impotenza e crocifissione nelle contraddizioni e
nell’estremo dolore dell’esistenza; il suo tacere di
fronte ai giochi tragici con cui l’uomo mette in
scena il suo profondo inganno su di sé; il suo
tornare a farsi avanti sempre e ancora attraverso
l’uomo, con la stessa fedeltà ostinata della vita.
Verso Dio, come verso la vita, Etty mantiene un
atteggiamento di apertura e di disponibilità le cui
perturbazioni non mette mai sul conto di Dio ma,
con grande dignità e libertà e responsabilità,
ascrive al proprio limite umano. Etty 'scagiona Dio'
e lo considera la prima vittima dell’odio e della
violenza che infierisce attorno a lei.
Per Etty Hillesum, il 'Dio lontano', che spesso
appare sordo e indifferente alle drammatiche
situazioni della nostra vita, è un Dio prossimo,
come nella vicenda evangelica del Buon
Samaritano (Lc 10,25-37): Dio è il suo prossimo e
del prossimo ha la vulnerabilità, una vulnerabilità
che, ribaltando i tradizionali termini religiosi, fa di
Dio un supplice di aiuto e liberazione da parte
dell’uomo, un bisognoso di soccorso. E il soccorso
è l’impegno che Etty volle assumersi, disseppellire
Dio nell’interiorità dell’uomo, inaridita come nel
devastato campo di ossa sparse – immagine
perfetta dei campi di sterminio – che viene
presentato agli occhi del profeta Ezechiele (Ez
37,1-14): una visione disperatamente desolata sui
cui la domanda – 'Figlio dell’uomo, potranno
queste ossa rivivere?' – suona già come
l’annuncio, quasi la sfida, della forza sconcertante
della Vita dal profondo dell’abisso della
desolazione.
Etty invoca un organo oltre la ragione per 'capire
una realtà sconcertante'; organi – dice – che
crediamo di non conoscere, o che non abbiamo
mai avuto modo di scoprire, e che invece sono
dentro di noi. Il dolore, la morte, la sventura, la
crudeltà, la persecuzione; in una parola, la
sofferenza. Ci sono dei 'duri fatti' che dobbiamo
irrevocabilmente affrontare; la nostra sfida è farli
diventare fattori di crescita e di comprensione,
oppure soccombere. Poiché è dai pozzi della
nostra miseria e desolazione, è dalla
trasformazione della sofferenza che ci accade
personalmente che possiamo attingere un senso
nuovo, da offrire a noi stessi ma anche agli altri.
'Non diventate apatici e insensibili'. In ognuno di
voi – scrive Etty ai suoi colleghi del Consiglio
ebraico di Amsterdam (uno strumento di apparente
collaborazione con gli ebrei, creato dai nazisti) –
esiste 'una parte migliore'. Questo lo dice anche
San Paolo: 'Sono convinto che in ognuno di voi vi
siano cose migliori'; la parte migliore, di cui parla
anche Gesù a Marta, dicendo di Maria che si è
scelta la parte migliore – questa parte migliore è
dentro di te, è una sorgente nel tuo cuore,
seppellita di pietre e sabbia.
Etty scopre questa sorgente e ne fa il cuore del
proprio essere, o meglio, apprende a vivere a
partire da questa sorgente che è il cuore del
proprio essere; significa che pone la sua mente,
qui intesa come ragione giudicante, nel cuore, in
questo nuovo (o antico) centro del suo essere e si
scopre ad attingere da lì i giudizi più profondi che
dà sulla realtà: una realtà in cui c’erano dei fatti
molto duri da sopportare – la persecuzione – e in
cui c’era un nemico. E i giudizi che lei sceglie di
dare non sono giudizi di condanna della vita, della
malasorte, di Dio, e nemmeno dell’altro, il nemico.
Dare giudizi col cuore, porre la mente nel cuore,
non significa buonismo, perdonismo, così come
non vuol dire chiudere gli occhi sul male, non
distinguerlo dal bene; significa, per Etty, qualcosa
che lei stessa non riesce a spiegare bene, a far
intendere ai suoi amici, ai suoi interlocutori, a
meno di non chiarirlo progressivamente a se
stessa: significa avere uno sguardo dilatato – un
cuore appunto dilatato – sulla vita. Riuscire a
ricomprendere in essa, e nella sua bellezza, anche
il dolore come parte integrante: il dolore, non il
male che lo provoca. Il dolore, anche se è
provocato dal male subito, dall’ingiustizia, può
essere trasformato e giungere a contribuire al
senso della vita; soprattutto, agli occhi di Etty, il
dolore non arriva a vanificare, a nascondere, a
distruggere, la bellezza della vita.
Dal treno che la portava ad Auschwitz, Etty lanciò
una cartolina postale, indirizzata ad un’amica;
qualcuno la raccolse dalla strada ferrata e la spedì.
Vi si legge: 'Christien, apro a caso la Bibbia e trovo
questo: Il Signore è il mio estremo rifugio. Sono
seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato
vagone merci. Papà, mamma e Mischa sono
alcuni vagoni più avanti. Abbiamo lasciato il campo
cantando'.
Questo 'lasciare il campo cantando' di Etty, la sua
cartolina all’amica, mi fa tanto pensare ad una
strofa di una bellissima canzone di R. Vecchioni:
'La vita è qualcosa di talmente forte
Che quando sarai sul punto di morire
Pianterai un ulivo
Convinto ancora di vederlo fiorire'.
YOSSL RAKOVER SI
RIVOLGE A DIO
Il racconto di Zvi Kolitz Yossl Rakover si rivolge a
Dio è ambientato a Varsavia, il 28 aprile 1943. La
voce narrante è quella di un combattente del
ghetto, ormai privo di munizioni e armato solo di un
paio di bottiglie piene di benzina. In questa
situazione disperata, il suo pensiero e la sua
preghiera si rivolgono a Dio, che sembra aver
abbandonato Israele. Eppure il protagonista, Yossl
Rakover, proclama che non cesserà di essere
ebreo e non abbandonerà la fede dei suoi Padri. In
virtù della sua straordinaria potenza espressiva, il
racconto fu a lungo considerato come una
testimonianza autentica, effettivamente scritta
durante l’insurrezione del ghetto di Varsavia; in
realtà, fu composto nel 1946.
Non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito.
Anche se non credessi che un tempo Dio ci abbia
destinati a diventare popolo eletto, crederei che ci
abbiamo resi eletti le nostre sciagure.
Credo nel Dio di Israele, anche se ha fatto di tutto
perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi,
anche se non posso giustificare i suoi atti. Il mio
rapporto con lui non è più quello di uno schiavo
verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il
suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua
grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi
percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e
continuerei a osservarla anche se perdessi la mia
fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua
Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più
moriamo in nome di quel modello di vita, tanto più
esso diventa immortale.
Perciò concedimi, Dio, prima di morire, ora che in
me non vi è traccia di paura e la mia condizione è
di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederTi
ragione, per l’ultima volta nella vita.
Tu dici che abbiamo peccato? Di certo è così. Che
perciò veniamo puniti? Posso capire anche questo.
Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una
colpa che meriti un castigo come quello che ci è
stato inflitto?
Tu dici che ripagherai i nostri nemici con la stessa
moneta? Sono convinto che li ripagherai, e senza
pietà, anche di questo non dubito. Voglio però
sapere da Te: Esiste al mondo una punizione che
possa espiare il crimine commesso contro di noi?
Tu dici che ora non si tratta di colpa e punizione,
ma che hai nascosto il Tuo volto, abbandonando
gli uomini ai loro istinti? Ti voglio chiedere, Dio, e
questa domanda brucia dentro di me come un
fuoco divorante: che cosa ancora, sì, che cosa
ancora deve accadere perché Tu mostri
nuovamente il Tuo volto al mondo? […]
Tra un’ora al massimo sarò con la mia famiglia, e
con milioni di altri uccisi del mio popolo, in quel
mondo migliore in cui non vi sono più dubbi e Dio è
l’unico pietoso sovrano. Muoio tranquillo, ma non
appagato, colpito, ma non asservito, amareggiato,
ma non deluso, credente, ma non supplice, colmo
d’amore per Dio, ma senza rispondergli
ciecamente “amen”.
Io l’ho seguito anche quando mi ha allontanato da
sé; ho fatto la sua volontà persino quando mi ha
colpito per questo; l’ho amato, e ho continuato ad
amarlo anche quando mi ha umiliato oltre ogni
dire, quando mi ha torturato a morte, quando mi ha
esposto alla vergogna e allo scherno.
Il mio rebbe [= maestro – n.d.r.] soleva raccontarmi
la storia di un ebreo che era sfuggito con la moglie
e il figlio all’Inquisizione spagnola, e con una
piccola barca, sul mare in tempesta, aveva
raggiunto un’isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e
uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò
suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo,
stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai
fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio,
l’ebreo proseguì il suo cammino sull’isola rocciosa
e deserta, e si rivolse al suo Creatore con queste
parole:
“Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire
indisturbato, per obbedire ai Tuoi comandamenti e
santificare il Tuo nome. Tu però fai di tutto perché
io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi
di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti
avverto, Dio mio e dei miei padri, che non Ti
servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire,
mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro
posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io
crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre,
sfidando la Tua stessa volontà!”.
E queste sono anche le mie ultime parole per Te,
mio Dio colmo d’ira: non Ti servirà a nulla! Hai fatto
di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché
non credessi più in Te, io invece muoio così come
sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te.
Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della
vendetta, della verità e della giustizia, che presto
mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne
scuoterà le fondamenta con la sua voce
onnipotente.
Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore
è uno. Nella tua mano, Signore, affido il mio spirito.
[Queste due ultime frasi, con cui si conclude il
racconto, nel testo originale yiddish sono scritte in
ebraico; sono citazioni dalla Bibbia – Deut. 6,4 e
Sal. 31,6 – e vengono recitate nella preghiera per i
defunti – n.d.r.].
Z. Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Milano,
Adelphi, 1997, pp. 23-24 e 27-29. Traduzione di A.
L. Callow
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