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la desertificazione interessa quasi la metà delle terre emerse

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la desertificazione interessa quasi la metà delle terre emerse
FOCUS
LA DESERTIFICAZIONE INTERESSA
QUASI LA METÀ DELLE TERRE EMERSE
di Marco Cochi *
The phenomenon is most surely a
worrying one, so that UNESCO has
declared 2006 the International Year of
Desertification. Both the data that came
out as a result of the International
Conference on the future of drylands and
those dealt with during the World
Environment Day (that took place under
the slogan “Don’t desert drylands”) are
equally worrying. On the other hand we
have those who support the vast
potentialities of deserts, seen as dynamic
areas under the biological, economic and
cultural perspectives. The author, though,
appears sceptical on this last point and
reckons countering desertification is a
total challenge every single developing
country will have to take up.
L
a desertificazione - secondo la Convenzione delle Nazioni
Unite per la Lotta alla Desertificazione, Unccd - «è il degrado
delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali variazioni climatiche ed attività umane».1 È un fenomeno estremamente preoccupante che si sta sviluppan__________________
* Giornalista e saggista. Coordinatore Centro Studi geopolitica.info
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Il fenomeno è senza dubbio preoccupante: a tal punto che l’Unesco ha proclamato
il 2006 Anno internazionale per la lotta
alla desertificazione. Altrettanto allarmanti i dati che sono emersi nel corso sia
della conferenza internazionale indetta
sul futuro delle terre aride, sia della
Giornata mondiale dell’Ambiente svoltasi sotto il suggestivo monito “Don’t desert
drylands” (non abbandonare le terre aride). Cionondimeno non mancano quanti
sostengono le grandi potenzialità dei deserti, considerati dinamici sul piano biologico, economico, culturale. Ma l’autore si
mostra scettico e ritiene che la lotta alla
desertificazione vada intesa come una sfida a tutto campo, in cui si dovrà cimentare ogni Paese in via di sviluppo.
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do con l’innalzamento delle temperature e che riduce in maniera drammatica la fertilità dei suoli e di conseguenza la capacità di un ecosistema, seppur in origine desertico o semi-desertico, di produrre risorse. È
importante chiarire che con l’uso di questo termine non si intende soltanto l’avanzata dei deserti, ma più in generale il degrado delle terre in
terre aride.
La desertificazione quindi non è limitata, come si potrebbe pensare,
alle aree confinanti ai deserti ma, al contrario, interessa circa il 40 per
cento delle terre emerse a livello planetario e coinvolge indirettamente
un miliardo di persone. In verità, essa è una calamità di origini antiche
(regioni oggi desertiche sono state un tempo ricche di boschi, pascoli,
campi coltivati), che però solo da pochi anni suscita serie preoccupazioni, in quanto i processi di desertificazione si stanno sviluppando su
scala globale e a ritmo accelerato, rendendo ogni anno inutilizzabili nel
mondo circa 60mila chilometri quadrati di terreni, mentre su 5,2 miliardi di ettari di terre secche utili per l’agricoltura circa 3,6 miliardi soffrono di erosione e di degrado avanzato.
Il fenomeno della desertificazione è sicuramente aggravato dall’azione dell’uomo: deforestazione, eccessivo sfruttamento dei terreni agricoli, errata gestione dell’acqua non fanno che peggiorare la situazione.
Senza dimenticare gli incendi che sottraggono alla terra grandi quantità
di riserve idriche necessarie al mantenimento del suo ecosistema.
Insomma un complotto contro la salute del nostro pianeta da sventare
quanto prima, tanto da indurre l’Unesco a proclamare il 2006 Anno internazionale per la lotta alla desertificazione.
Molteplici gli eventi che nell’arco dei 12 mesi hanno avuto luogo in
ogni parte del mondo con l’intento di sensibilizzare i cittadini al rispetto del fragile ecosistema e all’impegno comune verso lo sviluppo sostenibile. Tra queste iniziative, in cui sono proliferati documenti e “anatemi”, spicca la proclamazione del 17 giugno come giornata internazionale contro la desertificazione, nel corso della quale l’attenzione si è
concentrata sul delicato equilibrio degli ecosistemi del deserto. Altri
due momenti di grande richiamo sono stati la conferenza internazionale per discutere del futuro delle terre aride, “The future of drylands”,
che ha avuto luogo a Tunisi dal 19 al 21 giugno e la XXXV Giornata
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mondiale dell’Ambiente,2 il cui slogan “Don’t desert drylands!” (non
abbandonare le zone aride), ha lanciato un inequivocabile messaggio a
riflettere sulla grande pressione esercitata dalle attività umane sul surriscaldamento anomalo del pianeta che sta provocando l’impoverimento
di un quarto della superficie terrestre.3 Non è un caso se nella tradizionale data del 5 giugno, l’Unep (il Programma delle Nazioni Unite per
l’Ambiente), per ospitare le celebrazioni ufficiali dell’evento, abbia scelto Algeri, capitale di una nazione il cui territorio è coperto per la quasi
totalità dal deserto del Sahara.
Nello stesso giorno, a Londra, è stato presentato il rapporto
dell’Onu sull’ambiente. Lo studio ha rilevato l’ampiezza del degrado
delle zone desertiche, le quali, stando a quanto si legge nel documento,
costituiscono almeno un quarto delle terre emerse del pianeta (33,7 milioni di chilometri quadrati) e sono abitate da ben 500 milioni di persone. Ma i loro paesaggi unici, le loro culture, la loro flora e fauna particolari rischiano di scomparire in mancanza di un intervento. A sottolineare, durante la conferenza stampa di presentazione, l’importanza di questa parte del rapporto è stato proprio uno dei suoi autori, Andrew
Warren, che ha spiegato come «mai prima d’ora i deserti sono minacciati dal cambiamento climatico, dall’eccessivo sfruttamento delle falde
freatiche, dalla salinizzazione e dalla scomparsa della fauna». Le parole
del geografo dell’University Collegium di Londra fanno da corollario
alle conclusioni del rapporto, per cui le temperature delle regioni desertiche sono aumentate tra lo 0,5 e i 2 gradi Celsius in 24 anni (tra il 1976
e il 2000), ben più degli 0,45 gradi di rialzo registrati in media nel resto
del pianeta. Non solo: le temperature nei deserti potrebbero aumentare
da 5 a 7 gradi da oggi al 2071-2100. Nel frattempo, un terzo della popolazione mondiale abita le terre aride e 2 miliardi di persone vivono in
condizioni disagevoli, con poca acqua e pochi terreni coltivabili.
Il problema investe soprattutto estese aree dell’Africa, dove il 66 per
cento dei terreni è arido o semi-arido e ogni anno 12mila chilometri
quadrati di terraferma vanno persi a causa della desertificazione, che
minaccia in particolar modo l’Etiopia, la regione dei Grandi Laghi
(principalmente Ruanda e Burundi), i sistemi aridi e semiaridi del Sahel
come quelli del Niger meridionale e del Ciad, infine la maggior parte
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delle zone aride dell’Africa meridionale. Se in breve non si corre ai ripari, si stima che entro il 2020 circa 60 milioni di persone saranno costrette a migrare verso l’Africa del Nord e l’Europa. Senza contare che la
desertificazione può incrementare nelle zone povere malattie quali il
colera, la febbre tifoide, l’epatite A e le malattie diarroiche. Si è riscontrato inoltre un rapido aumento delle incidenze di epidemie di malaria,
collegate solitamente con i movimenti della popolazione e con i cambiamenti climatici delle stagioni.4
Sempre in Africa la desertificazione, la siccità e la gestione non appropriata delle zone della savana hanno ridotto drasticamente la quantità di prodotti raccolti dai cespugli, quali bacche, foglie e radici che hanno sempre rappresentato supplementi nutrizionali fondamentali per le
popolazioni locali. Inoltre, questi mutamenti della biodiversità possono
mettere a rischio anche la medicina tradizionale che da sempre svolge
un ruolo essenziale in tutto il continente africano.
Per citare qualche esempio, il 35 per cento del territorio del Ghana è
potenzialmente sotto la minaccia della desertificazione. Secondo i dati
in possesso del governo di Accra, il 70 per cento della desertificazione
è provocato dagli incendi indotti dagli agricoltori, che spesso finiscono
fuori controllo e investono aree boschive. Le conseguenze sono ben
evidenziate da immagini satellitari, a cominciare dall’espansione della
savana, che ora copre il 58 per cento del paese ed è l’ultima fase ancora
reversibile prima della desertificazione.
Un’altra zona nevralgica è il bacino del fiume Congo che, con oltre
200 milioni di ettari, è considerato il secondo “polmone verde” del
mondo dopo l’Amazzonia. La vasta area, pari al 30 per cento delle foreste di tutta l’Africa e poco meno del 20 per cento dell’intero pianeta,
perde ogni anno un milione di ettari, a causa soprattutto dei diversi fenomeni di erosione denunciati ed è stato inoltre rilevato che la fertilità
del suolo ha già iniziato a diminuire a causa della desertificazione.
Una situazione da monitorare con estrema attenzione è quella del
fiume Niger che rischia di essere inghiottito dal deserto. Si tratta del
terzo fiume d’Africa per lunghezza: 4.200 chilometri di percorso lungo
il quale vivono qualcosa come 11 milioni di persone che dipendono
dalla sua acqua sia per bere che per irrigare i campi ed anche per spo-
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starsi nel tratto centrale, dove il fiume è la barriera contro il deserto, e
più a valle. Ebbene, il fiume Niger è in gravissima crisi, minacciato dal
clima che cambia e dall’aumento della popolazione lungo le sue rive,
ma la prima minaccia è proprio il deserto. Dagli anni Settanta il regime
delle precipitazioni nel Sahel è cambiato in modo drastico: la portata
del fiume si è ridotta di un terzo, con punte di secca a metà degli
Ottanta e nel 1990 e di nuovo di recente.
Nell’agosto 2003, gli abitanti della capitale del Niger, Niamey, guardavano dai ponti un fiume in secca: era successo già nel 1984, in piena
siccità. Le famiglie di pescatori nomadi che con le loro grandi piroghe
ogni anno risalgono il fiume dalla Nigeria fino al Mali, fanno sempre
più fatica a navigare per i banchi di sabbia e le rocce affioranti; le carovane si bloccano, spesso devono scaricare le imbarcazioni e portare il
carico a piedi per superare l’ostacolo. I mercati fluviali vanno in crisi
perché la navigazione ora si interrompe per oltre quattro mesi. Le dune
che si alzano sempre più spesso sulle rive del fiume ricordano che il deserto avanza mentre i bracci laterali del fiume si trasformano spesso in
acquitrini chiusi e fangosi, divenendo un autentico vivaio di malattie.
Del resto, nella sua parte centrale nel Sahel, il Niger è l’unica fonte d’acqua per l’agricoltura e per bere. E le comunità che vi attingono sono
sempre più numerose, come gli abitanti di Niamey dove l’88 per cento
dell’acqua potabile è tratto dal fiume e non ci sono altre falde freatiche
da sfruttare. Così, se il Niger scompare la città è al collasso.5
Un altro esempio di quello che possono provocare gli effetti della
desertificazione in questa parte del continente è il villaggio di
Tulotulowa, situato nello stato di Yobe, nell’estremo nord della Nigeria
al confine con la Repubblica del Niger. Qui, ogni anno il deserto inghiotte 30 ettari di terreno da pascolo o da coltivazione, mentre ogni
giorno quattromila persone si trovano a fronteggiare l’avanzata inesorabile della sabbia verso le loro capanne di fango. Il problema però non
riguarda solo Tulotulowa, oltre un terzo dello stato di Yobe è minacciato dall’avanzata del deserto e molti villaggi rischiano di scomparire come Ligaridi, inghiottito dalle dune vent’anni fa, costringendo i residenti
a spostarsi cinque chilometri più a sud. In queste zone la principale
causa della desertificazione è l’erosione del vento, ma la distruzione
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della scarsa vegetazione a causa della deforestazione e dei troppi pascoli ha acuito il problema, mentre le dune di sabbia si muovono più velocemente della popolazione locale che non riesce a fronteggiarne l’avanzata.6
Eppure è ampiamente dimostrato che investire contro la desertificazione da i suoi frutti. L’ultima conferma giunge da un rapporto reso
pubblico verso la fine dello scorso anno dal Comitato inter-statale per
la lotta contro la siccità nel Sahel (Comité inter Etats de lutte contre la
sécheresse au Sahel, Cilss7) che rileva come oggi questa vasta regione,
compresa tra il deserto del Sahara e l’area equatoriale, stia tornando
verde grazie agli investimenti operati in passato. L’analisi, realizzata nel
2005 e 2006 nelle regioni del Niger di Tahoua, Maradi, Zinder e
Tillabery, mostra i risultati incoraggianti prodotti dai programmi contro
la desertificazione, come la rigenerazione e l’aumentata densità della
copertura vegetale, cresciuta da 3 fino a 150 alberi per ettaro.
Secondo Edwige Liéhoun, esperta in gestione delle risorse naturali
presso il Cilss, lo studio ha dimostrato che nonostante le fosche previsioni, il Niger è riuscito a mettere in atto una politica efficace per recuperare la terra degradata. La ricercatrice ha poi osservato che «mentre
nel 1984 le donne impiegavano due ore e mezzo al giorno per raccogliere la legna, oggi impiegano non più di mezz’ora per fare lo stesso
lavoro».
Secondo Chris Reij, consulente di gestione delle risorse naturali
presso l’Università di Amsterdam in Olanda, i risultati provano che la
popolazione è riuscita a fronteggiare condizioni ambientali avverse che
addirittura minacciavano la loro stessa esistenza. Liéhoun avverte però
che investire nella gestione delle risorse naturali non dà risultati immediati. I donatori devono pazientare: «Dobbiamo attendere diversi anni.
I partner non devono aspettarsi di vedere gli effetti dei loro investimenti già dopo tre anni».
Nel contempo, per meglio valutare gli effetti economici degli investimenti contro la desertificazione nell’intera regione del Sahel, il Cilss ha
annunciato che presenterà presto un altro studio effettuato in Burkina
Faso, Mali e Senegal.
Nella lotta alla desertificazione un ruolo centrale è rivestito anche
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dagli alberi, come è stato ampiamente illustrato con rigore scientifico in
un saggio8 curato da due dei massimi esperti del settore, Dov
Pasternak, professore dell’Università Ben-Gurion (Negev), e Arnold
Schlissel, consulente dell’Unesco per le zone aride. Negli ultimi decenni
l’incremento dell’attività umana ha provocato, in particolare nell’Africa
subsahariana, un grave aumento del numero di terre asciutte degradate,
strappate alla produzione di beni alimentari e alla pastorizia. Ciò nonostante, le esperienze locali degli ultimi 30 anni dimostrano che, laddove
si finanzino attività umane compatibili con l’ambiente e si piantino alberi, è possibile dapprima arrestare, poi invertire questo processo che
porta alla desertificazione. Uno degli esempi più significativi giunge
proprio dal Niger, dove negli ultimi anni i contadini sono riusciti a recuperare all’agricoltura ben tre milioni di ettari di terreni seriamente degradati. La scala della velocità di questo fenomeno è sorprendente.
Laddove a metà degli anni Ottanta era possibile trovare solo pochi alberi, ora ce ne sono tra i 20 e i 150 per ogni ettaro. La lezione da apprendere, in definitiva, è che gli alberi non solo riparano il suolo dal sole, dall’azione del vento e dal dilavamento provocato dalle acque, ma attraverso l’azione dell’humus rendono gradualmente fertili terreni prima
considerati inutilizzabili per l’agricoltura. E questo rappresenta un vero
e proprio rovesciamento della spirale di degrado che ha caratterizzato
gli anni Settanta e Ottanta.
Il fenomeno della desertificazione, anche se con impatto di gran
lunga lontano da quello registrato nelle regioni aride africane, interessa
anche il bacino del Mediterraneo e la nostra penisola. Anche qui, per
delineare la situazione, può essere utile fornire alcuni dati recenti: il 6
per cento della superficie dell’Europa è costituito da terre aride; il 2 per
cento invece è la percentuale delle terre già desertificate nel continente
europeo; 30mila ettari di suoli ad alta fertilità sono sottoposti, ogni anno in Italia, a cambio d’uso da agricolo a urbanistico; 3,7 milioni di ettari di suolo nell’Italia meridionale risultano degradati; 50mila ettari di
bosco nel nostro paese sono, in media, percorsi da incendi. Un altro
aspetto della desertificazione nell’area mediterranea è rappresentato
dall’inevitabile pressione sugli ecosistemi naturali derivante dall’esplosione demografica che c’è stata negli ultimi decenni e che ci si aspetta
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nel prossimo futuro: nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo si è
passati dai 90 milioni di abitanti (all’inizio del secolo passato) agli attuali 300 milioni (secondo le stime più ottimistiche, si prevede di raggiungere quota 850 milioni entro il 2050).
La comunità internazionale ha riconosciuto fin dagli anni Settanta la
gravità del fenomeno e dal giugno 1994, con l’obiettivo di fornire gli
strumenti di indirizzo politico e scientifico-tecnologico, ha adottato la
Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione
(Unccd).9 Nell’ambito di questa convenzione, l’Italia ha stipulato un accordo regionale insieme ai paesi europei maggiormente colpiti:
Portogallo, Spagna, Grecia e Turchia. Si tratta del cosiddetto “Annesso
IV”, tramite il quale si intende rafforzare lo scambio reciproco ed esercitare una pressione significativa in sede comunitaria, affinché la
Commissione europea riconosca la rilevanza delle problematiche legate
alla desertificazione nella zona meridionale del nostro continente.
La desertificazione si combatte anche a livello nazionale: da diversi
anni è stato costituito il “Comitato Nazionale per la lotta contro la
Desertificazione” che si avvale del contributo tecnico-scientifico degli
esperti dei più prestigiosi enti di ricerca nazionali, fra cui Cnr, Enea e
Inea, per predisporre ed attuare il Piano di Azione Nazionale di lotta alla Desertificazione (Pan), promuovere attività di ricerca e per coinvolgere e sensibilizzare maggiormente l’interesse dell’opinione pubblica
nei riguardi di questo problema.
Alla fine della nostra disamina potrebbe destare stupore la teoria di
alcuni studiosi, secondo cui i deserti potrebbero rappresentare una preziosa risorsa in vari settori: dall’energia che sfrutta il sole e il vento a
piante e animali utili per la ricerca farmaceutica. Tra i più strenui sostenitori di queste tesi ci sono due alti funzionari dell’Unep. Il primo è il
direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente,
Shafqat Kakakhel, che per supportare la sua teoria si richiama al fatto
che «lontano dall’essere terre aride, i deserti appaiono come dinamici
sul piano biologico, economico e culturale».10 Sulla stessa linea anche le
argomentazioni di Zaveh Zahedi, direttore aggiunto del centro di sorveglianza per la difesa dell’ambiente del Programma Onu, con sede a
Cambridge. Secondo Zahedi, un deserto delle dimensioni del Sahara
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potrebbe catturare energia solare sufficiente per rispondere ai bisogni
di elettricità del mondo intero. Piante scoperte nel deserto del Negev in
Israele potrebbero invece aiutare la lotta contro il cancro e la malaria.11
I vertici dell’Unep avranno di sicuro i loro buoni motivi per sposare
questa teoria, ma non possiamo dimenticare che il peggioramento delle
condizioni del suolo provoca un generale deterioramento della situazione sociale, con l’insorgere di nuove e più acute sacche di povertà,
tensioni e conflitti e l’incremento delle migrazioni per fame. Per evitare
tutto questo, è evidente che la lotta contro la desertificazione deve essere intesa come una sfida a tutto campo in cui ogni Paese in via di sviluppo si dovrà cimentare.
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Note
Il testo ufficiale della Convenzione è stato pubblicato dall’United Nations Convention to
combat desertification (Unep), Ginevra, 1995, p. 71.
1
La Giornata Mondiale dell’Ambiente, che si celebra il 5 giugno di ogni anno, è uno dei principali mezzi mediante i quali le Nazioni Unite stimolano la coscienza mondiale nonché l’intervento politico in relazione alle tematiche ambientali. Essa fu indetta dall’Assemblea
Generale dell’Onu il 15 dicembre 1972, con la risoluzione 2294 (XXVII), per porre in evidenza l’apertura della Conferenza di Stoccolma sull’Ambiente Umano. Nella stessa data fu
adottata un’altra risoluzione che portò alla creazione del Programma delle Nazioni Unite per
l’Ambiente (Unep).
2
About World Environment Day 2006, in «Unep.org» http://www.unep.org/wed/2006/english/About_WED_2006/index.asp
3
Cfr. Rechkemmer, A., Postmodern Global Governance. The United Nations convention to combat desertification, Nomos, Baden-Baden, 2004, p. 91.
4
5
Cfr. L’Afrique lance un appel au monde pour sauver le fleuve Niger, in «Le Monde», 24 aprile 2004.
Cfr. Nigerian farmers losing fields as desert creeps south, in «Terradaily.com», 17 novembre 2006,
http://www.terradaily.com/2006/061117030613.4zt3mfqy.html
6
Il Cilss è stato creato nel settembre 1973, dopo la grande siccità che ha colpito il Sahel negli
anni Settanta, comprende Burkina Faso, Capo Verde, Ciad, Gambia, Guinea-Bissau, Mali,
Mauritania, Niger e Senegal.
Pasternak, D., Schlissel, A., Combating desertification with plants, Kluwer Academic/Plenum
Publishers, New York, 2001.
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A oggi sono 186 i paesi che hanno ratificato la Convenzione.
Cfr. Les déserts menacés malgré leur potentiel, in «LeFigaro.fr», 6 giugno 2006,
http://www.lefigaro.fr/sciences/20060606.FIG000000107_les_deserts_menaces_malgre_l
eur_potentiel.html
10
11
Loc. cit.
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