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progetto progetto “caffe` alzheimer”
Associazione Encefalon per le Neuroscienze PROGETTO “CAFFE’ ALZHEIMER” Comune di Dronero Educatori di riferimento: Dr. ssa Cristina Capellino Referente del Progetto: Dr. P. G. Zagnoni PREMESSA Oggi i malati di Alzheimer sono 18 milioni nel mondo, 500.000 in Italia, ma secondo le stime dell'Alzheimer's Disease International (ADI) il dato è destinato a raddoppiare entro il 2025 come conseguenza dell'invecchiamento della popolazione. La demenza colpisce una persona su 20 oltre i 65 anni e una su 5 oltre gli 80. Eppure il problema è ancora sottovalutato ed a rimetterci sono sempre più i malati e le loro famiglie. Sulla base di dati epidemiologici attendibili si è stimato, inoltre, che la prevalenza dei casi di demenza, a livello di questo quadrante, sia di circa 9.000 pazienti e che nell'A.S.L. 15 i pazienti siano circa 2.000. Il Sistema Sanitario Nazionale ha sempre privilegiato la cura ospedaliera ma deve ri-orientarsi verso forme di prevenzione, riabilitazione e mantenimento del potenziale di autonomia per rispondere, insieme alla rete di assistenza sociale, all'esigenza dei "cronici" che richiedono un accudimento ed un'assistenza prolungata con continuità di prestazioni sanitarie e tutelari. A tal proposito si mira alla costituzione di uno spazio assistenziale denominato "Caffè Alzheimer" costituito da una rete multifunzionale in cui malati e parenti si ritrovano in uno spazio informale e "rilassato" per parlare dei problemi, ricevere un consulto e al tempo stesso sentirsi a casa. Il primo Alzheimer Cafè è nato il 15 settembre 1997 a Leida in Olanda, da un progetto dello psicogeriatra olandese Bere Miesen. Oggi, dopo Inghilterra, Germania, Belgio, Grecia e Australia l'idea "approda" ora in Italia. La città di Dronero fungerà da centro pilota dei vari centri abitativi che si prevede instaureranno questa forma di aiuto socio-assistenziale per le persone affette da M.A. e per loro famigliari. L'Alzheimer Cafè è un luogo dove malati, familiari, caregivers e volontari possono incontrarsi, bere una bibita o un caffè insieme e, grazie al confronto con esperti del settore, ricevere informazioni e scambiarsi esperienze. Un 2 clima ed un'atmosfera rilassati tra persone coinvolte nello stesso problema offrono la possibilità di uscire dal tabù che spesso circonda tale malattia. Per il malato è importante entrare in contatto con persone di cui ci si può fidare perché sono in grado di capire il suo problema o perché lo condividono, trovandosi nella stessa sua situazione. Per il familiare è altrettanto importante poter parlare con persone competenti da cui ricevere informazioni su come comportarsi, sul significato della malattia e sulle possibili forme di assistenza attuabili. 1.1 OBIETTIVO GENERALE Il nostro obiettivo è quello di creare un luogo di ritrovo dove s’incontrano persone che condividono lo stesso problema di salute. Questo spazio assistenziale è coordinato da personale qualificato (nello specifico dalla figura dell’Educatore Professionale specializzato nel trattare con soggetti affetti da M.A.), coadiuvato da volontari con finalità di auto mutuo aiuto. I familiari stessi diventano una risorsa per se stessi e per gli altri pazienti e caregiver coinvolti. 1.2 RUOLO DELL’ EDUCATORE Il ruolo dell’Educatore Professionale è di essere il punto di riferimento per le persone che afferiscono al Caffè, il cosiddetto “padrone di casa” che nelle ore in cui è presente deve: ACCOGLIERE un ambiente per essere familiare deve poter contare su persone che sappiano ospitare l’utenza con calore mettendola a proprio agio COORDINARE essere punto di riferimento sia per i malati che per i caregivers, responsabilizzare i volontari nelle ore in cui non è presente ed organizzare attività in base ai bisogni dei singoli 3 COINVOLGERE lavorare in rete. La struttura è inserita nella realtà locale, pertanto è opportuno coinvolgere i vari enti locali, le associazioni di volontariato e la cittadinanza CONSIGLIARE deve diventare un occhio vigile sulla vita quotidiana e domestica del malato ed offrire consigli su come relazionarsi a lui quando è a domicilio L’intervento dell’Educatore è diretto sia al paziente che al caregiver. 1.2.1 ATTIVITA’ COL PAZIENTE L’Educatore “offre le proprie competenze professionali cercando di individuare attività e laboratori che potenzino le loro capacità e risorse residue. La conoscenza della patologia diagnosticata permette all’Educatore Professionale di comprendere le reali potenzialità psicofisiche ancora presenti nei soggetti malati, di definire obiettivi riabilitativi adeguati e di individuare strumenti idonei al raggiungimento degli obiettivi stessi”. In base allo scopo da raggiungere, gli interventi di tipo riabilitativo1 possono essere identificati nelle seguenti categorie: manuale-operativa: viene attivata attraverso un lavoro pratico che richiede soprattutto l’uso delle mani (bricolage, disegno,..) e del corpo in genere (ginnastica); intellettuale: è indirizzata al recupero delle capacità cognitive, quali lettura, scrittura, memoria; psicologico-relazionale: agisce sulla capacità di ogni individuo di definire il proprio sé ed essere in grado di rapportarsi con gli altri. La capacità di partecipare alla comunicazione all’interno della relazione di aiuto consente all’Educatore di ridimensionare gli ostacoli prevalentemente 1 Confronta Allegato I. 4 emotivi, vissuti dal soggetto in difficoltà e di superare, per quanto possibile, i condizionamenti che influenzano il modo di viversi e di vivere; espressivo-creativa: comprende sia attività relative all’area operativa che cognitivo-psicologica. In base all’esperienza acquisita dai soggetti, facilita la produzione e l’elaborazione di nuove idee e proposte rispetto alla realtà vissuta favorendo la partecipazione e facendo leva sulla motivazione” 2. E’ importante proporre attività di gruppo al fine di favorire la socializzazione e stimolare la compartecipazione dei pazienti. Coinvolgere tutti potrebbe inizialmente sembrare la cosa più giusta da fare per non creare differenze tra gli ospiti. Invece, in base all’esperienza di molti professionisti del campo, è fondamentale comprendere quanto sia sì importante rendere partecipi tutti i pazienti, ma sia altrettanto indispensabile attuare interventi individualizzati. “La biografia del malato di Alzheimer è una biografia che la demenza distrugge e che l’operatore, non essendo un familiare, deve saper ricostruire. Tutti dovrebbero riflettere su qual è lo scopo del proprio lavoro. Prendersi cura non significa solo accudire, sorvegliare, dare assistenza. La cura non può prescindere da un rapporto tra assistente e assistito, e la buona qualità del rapporto dipende dalle caratteristiche personali, dal desiderio di conoscere, dalla condivisione di momenti di vita. E’ necessario un notevole sforzo per ricomporre il puzzle di una vita che il malato non può più raccontare e per riadattarsi ogni giorno a una storia che cambia perché sarebbe comunque cambiata e perché la malattia vi ha assunto un ruolo da protagonista”.3 2 S. MIODINI, M. T. ZINI, L’educatore professionale. Formazione, ruolo competenze., op. cit., p. 31. 3 D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei5 malati di Alzheimer, op. cit., p. 47. E’ fondamentale adattare le attività ad interessi personali e ad abilità del passato. Molte persone colpite da Alzheimer amano intraprendere attività che ricordino il lavoro svolto in passato: una persona vissuta in campagna, ad esempio, potrà essere ancora felice di occuparsi di piccoli lavori di giardinaggio come il seminare ortaggi o il piantare fiori, una persona con l’hobby delle carte, forse, non sarà più in grado di giocare un’intera partita, ma sarà interessata e proverà piacere a fare qualche piccolo gioco, a denominare e riconoscere le carte, a contarle, suddividerle per somiglianza,… E’ bene ricordare che ciò che più conta e ha importanza è il processo e non tanto l’attività, non il risultato o il prodotto finale ed il segreto sta proprio nel fare stesso e non in ciò che viene fatto. Se un’attività come stendere, raccogliere e/o piegare la biancheria viene accompagnata da sorrisi, da parole, da pettegolezzi amichevoli, da confronti per un lavoro ben fatto, non importa se i vestiti non sono stati stesi, raccolti e piegati perfettamente. Come già sottolineato più volte, le attività educative dovrebbero ricordare il lavoro passato della persona. Questo è il motivo per cui, nei Centri Riabilitativi, gli Educatori propongono attività di bricolage a chi, per esempio, è stato un tuttofare, attività di cucina a chi ha svolto l’attività di casalinga, attività di giardinaggio a chi è stato contadino, attività di cartellonistica a chi ha avuto la passione per il disegno,… Spesso si sente dire che i malati di Alzheimer sono come bambini. In effetti, alcuni loro comportamenti richiamano il modo di fare dei bimbi, tuttavia è opportuno trattare sempre il paziente come un adulto e proporgli attività adatte: attività inutilmente infantili possono produrre in lui frustrazione, umiliazione, depressione e persino rabbia. Anche il non fare nulla è in realtà fare qualcosa. Restare seduti sul divano e sulla poltrona, oziare, ascoltare musica o guardare il paesaggio fuori della finestra può essere positivo per il paziente che trae gioia dalla sua stessa6 presenza in una stanza dove gli altri giocano o lavorano, o addirittura dal passare un po’ di tempo da solo. E’ basilare rendersi conto che le attività devono sempre essere iniziate da lui stesso. I pazienti dementi perdono la capacità di dare inizio ad attività ed anche l’attività progettata nel modo migliore rischia di fallire se la persona non può iniziarla. Colui che ama disegnare, ad esempio, può ancora amare la pittura, ma avere grosse difficoltà nel ricordare come si tengono in mano i colori e come si sparge il colore stesso sul foglio. Spesso un aiuto esterno è tutto quello che serve per portare a termine un’attività di successo. Colei che ama occuparsi delle faccende domestiche può ancora aiutare, ma necessita di qualcuno che la orienti e le illustri il da farsi. Rispettare i tempi e la volontà altrui sta alla base del lavoro di un Educatore. La maggior parte delle persone colpite da demenza non accetta di fare qualcosa che non ama o che non trova interessante o soddisfacente. Costringere gli ospiti a fare qualcosa contro la propria volontà è un errore: spesso, per invogliare l’ospite ad intraprendere un’attività, è sufficiente cominciarla davanti ai loro occhi. A volte basta un gesto per riuscire a coinvolgere anche il malato più indifferente. Molti pazienti colpiti da M.A. conservano buone condizioni fisiche pertanto, traendo vantaggio da ciò, le attività possono includere esercizi fisici, passeggiate, brevi gite, lavoretti domestici, ecc. Lavorare con una persona affetta da M.A. non è facile, tuttavia non bisogna perdersi d’animo: laboratori ed attività ritenuti impossibili spesso sono invece realizzabili. Provare, osare, mettersi in gioco sono parole chiave con questa tipologia di utenza: le persone affette da demenza sono una continua fonte di risorse e di sorprese, per cui è utile interrogarsi sulle aspettative per poi provare nuove cose. Le attività devono piacere oltre che alla persona malata anche a chi se ne7 prende cura. E’ inutile proporre un’attività che non si apprezza: di certo non si invoglia il paziente a partecipare in modo attivo e viene a mancare ad entrambi il piacere di un divertimento, di una sfida, di un’eccitazione o di una soddisfazione comune! Inoltre, è fondamentale proporre laboratori brevi, proprio perché spesso le capacità di attenzione, ormai compromesse, impediscono ad una persona affetta da demenza di restare coinvolta in un’attività particolarmente lunga nel tempo. Ci sono giornate in cui si può proporre la stessa attività in più momenti: anche se durano solamente pochi minuti, queste, alternandole ad altre, portano i loro frutti! Per ultimo, le attività possono essere realizzate (e lo sono!) dappertutto e in ogni momento: non c’è nulla che non possa trasformarsi in un’attività interessante e piacevole. Ecco cosa significa essere creativi: un quadro può evocare ricordi; una semplice stretta di mano, ad esempio, può portare ad una discussione sulla delicatezza della pelle, sui guanti, sui lavori eseguiti a mano, sugli anelli di fidanzamento, sul matrimonio; una canzone può essere spunto di conversazione sul proprio cantante o genere musicale preferito, … 1.2.1.1 IL SIGNIFICATO DELLE ATTIVITA’ PER IL MALATO Lavorando con i pazienti dementi si vengono a scoprire il significato e l’importanza delle attività, comprendendo ciò che esse rappresentano per loro. Partecipare ad un’attività educativo - riabilitativa per il malato vuol dire essere ancora produttivo. Tutti hanno bisogno di sapere che la propria esistenza è significativa per qualcuno ed anche coloro che sono colpiti da M.A. presentano la necessità di sentirsi ancora capaci, competenti ed utili. Portare avanti un piccolo incarico significa anche aver successo: questi8 malati subiscono, a causa della malattia, molti fallimenti, ma parecchie attività possono aiutarli a godere di nuovi “successi”. Spesso i pazienti dementi mantengono intatta la capacità di godere di momenti di gioco, di scherzare, di impegnarsi e di sperimentarsi in attività ludiche come, ad esempio, fare una partita a carte o a bocce. Mantenersi attivi vuol anche dire stare e saper stare con gli altri e, nonostante questi pazienti di solito si sentano più a loro agio in piccoli gruppi, il loro bisogno di socializzazione e di appartenenza è ancora importante. Con l’esperienza, ci si rende conto che gli ospiti di cui ci si prende cura non sono per lo più più in grado di imparare nuove abilità, ma alcuni laboratori possono contribuire a rinnovarne o mantenerne di vecchie. La soddisfazione e il piacere vengono dalla partecipazione ad una situazione di ri – educazione e ri - apprendimento. 1.2.1.2 L’INCONTRO CON I PAZIENTI DEMENTI “Osservare il comportamento del soggetto e capire come egli percepisce e come pensa di essere percepito nella relazione con l’ambiente esterno, consente di conoscere quale considerazione/stima egli abbia di sé, quali sono i suoi punti forti e quali i punti deboli. Ciò permette anche di definire una relazione basata sulla reale accettazione dell’utente per quello che manifesta attraverso il suo comportamento, considerandolo parte attiva dell’interazione e di favorire una presa in carico individualizzata anche nell’ambito di una struttura residenziale o nella realizzazione di un intervento di tipo familiare”4. Concretamente, la prima cosa che si osserva in un malato di Alzheimer è il comportamento: fin dal primo “contatto” è necessario prestare attenzione ad ogni piccolo particolare, sforzarsi di conoscere e di comprendere chi si ha 4 S. MIODINI, M. T. ZINI, L’educatore professionale. Formazione, ruolo competenze., Carocci Faber, Roma 2003, p. 65. 9 davanti, soprattutto quando questa persona non è in grado di comunicare o di esprimersi correttamente. Spesso si provano disagio, imbarazzo ed anche un senso di frustrazione perché è difficile (a volte quasi impossibile) riuscire a capire totalmente questi malati. Tuttavia, è vero che “ogni comportamento è comunicazione”5: il malato, per esempio, può non essere in grado di dire che ha caldo, ma continuare a svestirsi; oppure rifiuta di uscire dalla stanza, perché ha paura di farsi vedere così dagli altri; oppure appare ansioso verso le cinque del pomeriggio, perché i suoi “bambini” non sono ancora rientrati da scuola; oppure cade, forse perché i farmaci che assume gli creano problemi nel mantenimento dell’equilibrio, o perché non sta bene. “Il fatto che ogni comportamento sia comunicazione non significa che sia facile capire che cosa comunica”6; inoltre, è necessario ricordare che il malato può comunque sempre riuscire ad interpretare o mal intendere le parole ed i gesti di chi ha accanto. Succede agli operatori, in alcuni frangenti, di non capire perché l’ospite è irritato o arrabbiato: è necessario rendersi conto che le sue reazioni di rabbia o di protesta a volte non sono necessariamente rivolte al contenuto delle parole di chi se ne occupa, ma al modo in cui fisicamente questa persona si pone a lui. La comunicazione non verbale non è solo un utile aiuto quando le parole non bastano: attraverso il contatto visivo, la musica, la gestualità, la prossimità nello spazio, il tono della voce, cioè attraverso il corpo, si comunica molto. Spesso si sottovaluta l’importanza della comunicazione non verbale e rischiano di compromettere il loro rapporto con il paziente. Nelle righe precedenti ho sottolineato l’importanza e il valore della gestualità: carezze, abbracci, strette di mano sono fondamentali e permettono quotidianamente di instaurare una relazione con gli assistiti. E’ necessario 5 D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, op. cit., p. 49. 10 6 Ibidem, p. 50. diventare creativi, adattarsi alle varie situazioni cercando di utilizzare anche un nuovo lessico, un vocabolario nuovo, ma familiare alle persone di cui ci si prende cura: spesso nascono neologismi e sono proprio questi che gli permettono di conversare e stare in contatto con gli ospiti! La stimolazione del malato va pertanto a coinvolgere più aspetti: AREA LINGUISTICA La vita del Caffè diventa un modo ed un’occasione per stimolare la persona a parlare ed a combattere l’isolamento AREA FUNZIONALE Nel Caffè il paziente può godere di una certa autonomia ed essere coinvolto a livello pratico in ciò che si fa trovare dei lavoretti che stimolino e potenzino per quanto possibile le sue capacità residue AREA EMOTIVA Essere coinvolti nelle attività e nella vita di comunità consente al malato di sentirsi ancora utile (ci sarà un’iniziale valutazione al fine di comprendere le reali possibilità e capacità del malato per non rischiare di farlo sentire inutile o incapace) AREA COGNITIVA Il dialogo e le attività svolte con l’utente devono permettergli di raggiungere il più alto grado di autonomia consentitagli ancora dalla malattia. 1.2.1.3 ATTIVITA’ DI ORIENTAMENTO SPAZIO – TEMPORALE. Lo scopo di tale attività è cercare di ridurre il disorientamento spaziotemporale. la Rot formale la Rot informale. 11 La più utilizzata pare essere la seconda. Può essere portata avanti da chiunque si occupi del malato: ogni caregiver, durante il giorno, ricorda al paziente chi è, dove si trova, che ore sono, cosa succede attorno a lui. 1.2.1.4 ATTIVITA’ DI GIARDINAGGIO Innaffiare e prendersi cura dei fiori, piantare ortaggi, occuparsi del giardino e dell’orto può essere un’attività stimolante per il malat, perché lo coinvolge e stimola tutti i suoi sensi permettendogli di ricordare, di sentirsi ancora utile e capace. 1.2.1.5 ATTIVITA’ DI CUCINA L’attività di cucina occupa principalmente le donne, crea molta soddisfazione sia negli ospiti che nei caregivers e consiste nel preparare la colazione o la merenda e nella preparazione di cibi (primi, secondi, contorni o dolci) preconfezionati (e non solo). Ha come obiettivo il recupero della memoria, della manualità, delle abitudini, della memoria olfattiva e delle tradizioni. 1.2.1.6 ATTIVITA’ DI VITA DOMESTICA Anche questo tipo di attività solitamente coinvolge maggiormente le donne, che amano occuparsi delle faccende domestiche come il lavaggio ed il riordino delle stoviglie, la preparazione della tavola, la stesura della biancheria, il rifacimento dei letti. 1.2.1.7 ATTIVITA’ DI SVAGO 12 Esistono laboratori come quello di cartellonistica (disegnare, colorare, eseguire collage, ritagliare…), di lettura e commento del giornale, di gioco, che coinvolgono ed interessano i pazienti. Tuttavia, per loro è altrettanto importante e significativo sedersi sul divano e raccontare di sé: molto spesso i loro racconti non rispecchiano veramente i vissuti, sono fantasie, ma permettere loro di dire, di narrare, di parlare li fa sentire bene. Il canto, il ricordo di proverbi o espressioni dialettali, i giochi di memoria (per esempio nominare gli opposti, i frutti, le città, gli oggetti che si hanno intorno,…) sono attività che possono essere condotte dall’Educatore e da qualunque altra persona viva accanto al malato e sono ritenute utili e positive per i pazienti affetti da Malattia di Alzheimer. L’obiettivo di tali attività è quello di mantenere e di riattivare comportamenti comunicativi il più possibile adeguati. Anche la partecipazione a feste e momenti di divertimento è necessaria. Prima si è accennato alla musica: non solo gli anziani amano cantare, ma, spesso, apprezzano ballare ed anche chi non è più in grado di farlo, gradisce osservare gli altri farlo. La musica è molto rilassante per il paziente demente, specialmente per gli anziani iperattivi e confusi. E’ per questo motivo che nella maggior parte dei Centri c’è un sottofondo musicale a basso volume. Per quanto riguarda invece i programmi televisivi, alcuni desiderano vederli, altri li ignorano, non li riconoscono o ne sono infastiditi. Grazie alle varie attività ed i poliedrici interventi oggi si riesce a ridurre al minimo indispensabile la somministrazione farmacologica ed aumenta il numero delle strutture nelle quali non si utilizza alcun tipo di contenzione fisica, nonostante i pazienti ospitati spesso siano piuttosto agitati e 13 fisicamente aggressivi. E’ la relazione, è il comportamento dell’operatore (e del familiare adeguatamente formato), che mette prontamente in atto strategie di intervento quando il demente è agitato, a far sì che il paziente si tranquillizzi. Occorre distrarre l’ospite, occuparlo, offrirgli nuovi stimoli, isolarlo da ciò che ha scatenato il comportamento aggressivo: molti di questi frangenti si risolvono relazionandosi all’ospite in modo adeguato (ad es. risulta utile, in molte occasioni, portarlo semplicemente a fare una passeggiata). Attività manuali di manipolazione possono essere utili per permettere all’ospite di scaricare la sua ansia, ma servono anche a stimolare l’assistito dal punto di vista funzionale, sociale e neuro-cognitivo. 1.2.1.8 ATTIVITA’ DI BASE Ogni momento è educativo, ogni istante è educativo. Stimolare il paziente demente ad alimentarsi autonomamente e a vestirsi da solo costituisce un’attività che va portata avanti da tutti, familiari ed Educatore. Per quanto concerne l’alimentazione, c’è l’ospite che non si alimenta o si alimenta troppo poco, o chi, dopo aver mangiato, vuol mangiare ancora perché non ricorda di aver mangiato. In quest’ultimo caso può essere utile consigliare ai familiari di distribuire i pasti nell’arco della giornata in modo che siano frequenti. Spesso l’ospite confonde le posate, non le usa nel modo corretto, rovescia l’acqua fuori dal bicchiere, nasconde il cibo, gioca con la tovaglia e getta per terra tutto ciò che ha di fronte. Ecco allora che risulta efficace posizionare in mano le posate ed aiutarlo ad iniziare il pasto; usare stoviglie di plastica (se cadono non si rompono e non costituiscono un pericolo) e colorate (per la stimolazione visiva); versare l’acqua direttamente nei bicchieri; sminuzzare il cibo; servire una portata alla volta. E’ 14 fondamentale non imboccare il malato. Inizialmente si deve considerare positivo il semplice fatto che l’anziano riesca ad alimentarsi da solo anche parzialmente, per riuscire poi a progredire e riacquisire l’abilità. Anche tutto ciò che riguarda il vestirsi comporta un’adeguata attenzione. Il malato spesso confonde i vestiti, non li riconosce, li indossa in modo sbagliato (si infila la camicia come fosse un paio di pantaloni, si mette la camicia senza aver tolto il pigiama,…). E’ utile permettere al malato di vestirsi ancora autonomamente: è necessario, però, per i caregivers adottare degli accorgimenti, come, ad esempio, guidarlo attraverso stimolazioni verbali, lasciando gli abiti da indossare in sequenza sul letto. L’esercizio fisico è importante per chiunque, ma sicuramente ancor di più per gli anziani affetti da demenza. E’ importante accompagnare il paziente a passeggiare, non solo perché ciò costituisce un efficace strumento per mantenere e conservare le abilità motorie, ma perché costituisce un momento di socializzazione. Inoltre ciò permette all’anziano di mantenere un ritmo sonno-veglia regolare: se l’ospite viene stimolato di giorno, certamente sarà stanco e dormirà facilmente di notte. N.B. Le attività descritte possono essere una strategia per ridurre e/o “tenere sotto controllo” i disturbi comportamentali Sono tutte attività che possono essere svolte da un familiare “educato” e formato a tal fine Purtroppo vi è il rischio da parte di chi si occupa del paziente di sottoutilizzare le risorse funzionali residue. Invece, se si osserva attentamente il paziente demente, possiamo notare come egli possieda ancora delle funzioni che apparentemente sembrano perse come la capacità di vestirsi, camminare, 15 lavarsi ed alimentarsi. E’ importante tener presente che non è un beneficio per il soggetto che qualcuno si sostituisca a lui e, pertanto, è un errore imboccare il malato che ancora può mangiare da solo, anche se con le mani, anche se in tempi lunghi, anche se si sporca tutto, o vestirlo ancora quando riesce ad indossare la camicia e i pantaloni in modo autonomo. Ecco allora che per il paziente demente è opportuno offrire un’assistenza che abbia come obiettivo il miglioramento della qualità di vita e il raggiungimento del massimo livello di autonomia possibile tramite il potenziamento delle capacità residue. Gestire una persona anziana affetta da demenza non significa sostituirsi a lei “facendo le cose al posto suo perché non è più in grado di fare”, bensì supportarla, sostenendo le funzioni ancora esistenti e compensare la perdita di abilità che subisce. Ciò significa che il caregiver diventa una “protesi”, esattamente come la sedia a rotelle ha funzione di supporto per chi non è più in grado di camminare. Solo così è possibile rallentare la progressione della malattia e migliorare in modo significativo la qualità della vita dei pazienti. I dati disponibili negli Istituti di Riabilitazione Geriatrica e nei Nuclei Alzheimer delle Residenze Protette permettono di affermare che, pur non potendo arrestare il declino cognitivo-funzionale e comportamentale della demenza, è tuttavia possibile rallentarne la progressione e migliorare in modo significativo la qualità di vita dei pazienti. “È importante ricordare pertanto che, malgrado l’evoluzione progressiva della malattia, c’è sempre spazio per fare qualcosa, perché il malato viva e possa vivere con dignità. C’è sempre spazio per tamponare lo stress e conservare una buona qualità di vita. Ciò non significa adottare un atteggiamento forzatamente dominato da un vuoto ottimismo, ma, al contrario, è necessario sapere che, anche per i malati più gravi, esiste sempre l’opportunità per migliorare le condizioni di vita. Lo16 sforzo di creare condizioni che contrastino le sopraggiunte disabilità richiede affetto, pazienza, ottimismo, fantasia e versatilità; queste qualità vengono mostrate dalla grande maggioranza dei caregivers che si impegnano affinché il paziente o il proprio caro possa vivere “comunque” nel migliore dei modi. L’amore, la generosità, l’affetto e la gratitudine possono essere confermate e rafforzate, ed il senso di frustrazione attenuato dalla conoscenza della malattia e da alcuni consigli su come gestire i problemi assistenziali. L’atteggiamento più corretto deve pertanto evitare da una parte il senso di disperazione e di impotenza, dall’altra le false speranze. Durante l’intero decorso della malattia, al fine di limitarne le conseguenze e di rallentarne l’evoluzione, è possibile ricorrere agli interventi riabilitativi, che consistono in un complesso di approcci che permettono di mantenere il più elevato livello di autonomia compatibile con la malattia. Le manifestazioni cliniche delle demenze, che possono essere oggetto di specifici interventi riabilitativi, sono molteplici e riguardano i deficit cognitivi (memoria, linguaggio), i deficit sensoriali (vista e udito), i sintomi depressivi, le alterazioni del ciclo sonno-veglia (insonnia), le turbe dell’alimentazione, i deficit motori e la disabilità nelle attività della vita quotidiana. Le principali strategie e metodiche7 impiegate nel paziente demente sono molteplici, anche se molte di queste sono ancora poco diffuse. La riabilitazione con il paziente demente si prefigge il duplice obiettivo di limitare l’impatto di condizioni disabilitanti e di stimolare le capacità residue, e le strategie di intervento sono differenti a seconda del livello di gravità della malattia: le mnemotecniche, la stimolazione della memoria procedurale e la terapia di Riorientamento alla realtà trovano spazio nelle fasi iniziali della malattia; la terapia di Reminiscenza e di Rimotivazione nelle fasi iniziali ed intermedie; la terapia di Validazione nelle fasi intermedie ed avanzate. 7 Confronta Allegato I. 17 Le tecniche riabilitative per le quali è stata dimostrata una maggiore efficacia nei pazienti affetti da demenza sono la terapia di Riorientamento nella realtà (ROT), le terapie basate sulla stimolazione della memoria automatica (procedurale) e l’impiego di ausili mnesici esterni”8. 8 AA. VV., Non so cosa avrei fatto oggi senza di te. Manuale per i familiari delle persone affette da18 demenza, Regione Emilia Romagna, Modena 2003, pp. 38 - 42. 1.2.2 ATTIVITA’ COL CAREGIVER E’ importantissimo il contributo dei caregivers e, allo stesso tempo, è necessario comprendere quanto anch’essi abbiano bisogno di accoglienza, ascolto ed attenzione. Uno dei compiti dell’Educatore è proprio quello di occuparsi del parente, sostenerlo, accoglierlo, coinvolgerlo, al fine di “essere insieme” nella sua cura. E’ importante perseverare nell’osservazione e nello scambio di vedute con chi si occupa dei malati: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto è possibile imparare qualcosa di nuovo: ecco perchè diventano fondamentali il confronto e lo scambio d’informazioni con i familiari dei pazienti. Le attività col caregiver si dividono in due gruppi: 1. Aiuti di tipo pratico 2. Sostegno di tipo emotivo 1. Aiuti pratici Il Caffé può aiutare il caregiver nella preparazione alle fasi successive della malattia: chi ha il proprio caro alle prime fasi della malattia tramite l’osservazione di parenti di pazienti in fasi più avanzate può capire e prepararsi a quanto accadrà in futuro al proprio caro Il caffè può essere considerato per certi aspetti una sorta di “Banca del tempo” dove il familiare che ne ha bisogno può lasciare l’assistito per qualche ora al giorno, certo che un altro parente glielo assisterà: egli, a sua volta si renderà disponibile per la volta successiva 19 2. Sostegno emotivo Nel Caffè si cerca di favorire il dialogo tra i caregivers secondo modalità di aiuto e mutuo auto-aiuto Si cerca di facilitare la rielaborazione del proprio vissuto tramite un dialogo individuale Diventa un momento formativo – informativo dove il caregiver può ricevere chiarimenti sulla malattia, sulla sua evoluzione e su comportamenti, interventi ed accorgimenti da adottare. 20 ALLEGATO I 21 GLI INTERVENTI RIABILITATIVI Esistono interventi riabilitativi ovvero strategie finalizzate a ridurre l’impatto della malattia, limitarne le conseguenze e rallentarne l’evoluzione. Tali approcci permettono al paziente demente di mantenere il più alto livello di autonomia e di qualità di vita possibili, compatibilmente con le sue condizioni cliniche. La Terapia di Orientamento alla Realtà (ROT)9 La Rot è una tecnica di riabilitazione psicogeriatrica definita da James Folsom e Lucille Taulbee nel 1966 che indirizza i suoi interventi a stimolare le funzioni cognitive del soggetto e con la quale ci si prefigge di riorientare il paziente confuso rispetto all’ambiente, al tempo ed alla propria storia personale. In pazienti affetti da compromissione cognitiva lieve si dimostra efficace nel rallentare l’evoluzione della malattia migliorando sensibilmente le risposte dei soggetti alle domande di orientamento. Il suo costante utilizzo, inoltre, dà un senso e uno scopo all’attività di chi assiste, cura e promuove un’atmosfera di coinvolgimento anziché di apatia e di indifferenza. Esistono due principali modalità di ROT: informale e formale. La Rot informale prevede un processo di stimolazione continua che implica la partecipazione degli operatori socio-sanitari e familiari, i quali, durante i loro contatti col paziente nel corso della giornata, gli forniscono ripetutamente le informazioni. Fin dal risveglio è utile comunicare informazioni sul giorno, la stagione, il 9 D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 102 - 104. 22 nome dei familiari. La continua ripetizione di indicazioni e notizie aiuta il malato a conservarle maggiormente nel tempo. Tutti coloro che avvicinano il paziente disorientato, siano essi educatori, infermieri, assistenti, terapisti, medici, parenti, volontari, dovrebbero sfruttare ogni occasione delle giornata per mettere in atto questa forma di terapia. Ogni attività quotidiana costituisce un’opportunità di conversazione. Le stimolazioni sensoriali hanno l’obiettivo di coinvolgere nella loro globalità le capacità ancora integre del soggetto per riportarlo nel “qui e ora”: si incoraggiano le risposte e le ripetizioni, si usano le esperienze passate come aggancio al presente o agli eventi quotidiani. Sarà accortezza dell’operatore condurre il dialogo in modo equilibrato tra la difficoltà delle domande e il ridimensionamento delle risposte scorrette del paziente, al fine di non creare inutili frustrazioni. L’operatore deve essere sicuro di avere informazioni aggiornate e corrette sui pazienti, per esempio dove hanno abitato, la loro età, le circostanze familiari e gli eventi importanti accaduti. La Rot formale viene eseguita da uno o più terapisti esperti in una stanza idonea. E’ organizzata in sessioni di piccoli gruppi (da due o cinque persone) o individualmente a seconda del grado di confusione, disorientamento, funzionalità dell’utente demente ed i pazienti vengono divisi in gruppi omogenei per abilità mentale. La stanza della terapia deve essere arredata in modo da ricordare una stanza di un’abitazione, con un orologio con grossi numeri 23 appeso al muro visibile a tutti, un calendario con foglietti asportabili quotidianamente che mostri la data corrente e una lavagna. L’inizio della sessione è dato dalla presentazione per nome di tutti i partecipanti, si prosegue introducendo la data, il giorno della settimana, l’ora, il luogo dove si svolge la seduta (in questo modo si effettuano delle stimolazioni all’orientamento spazio- temporale). Successivamente si passa ai ricordi: gli argomenti ricorrenti per gli uomini riguardano la guerra (quando è finita la prima guerra mondiale e la seconda?), lo sport, gli hobbies; per le donne i figli, la casa,... E’ importante mantenere lo stesso orario di inizio della sessione e la durata, per il livello di attenzione richiesto, non deve superare i 30-45 minuti circa. La frequenza varia, a seconda dei centri in cui viene praticata, da tre a cinque volte la settimana. La relazione con il paziente deve essere cordiale, disponibile. Nel gruppo il nome della persona si deve esprimere così come egli desidera farsi chiamare; il “tu” si rivolgerà quando il paziente è disposto ad accettarlo. Alcuni soggetti dimostrano un maggiore formalismo e preferiscono il “lei”, anche se spesso crea confusione; si può ovviare rivolgendosi ai pazienti chiamandoli con il proprio nome di persona preceduto da signor o signora. I successi riscontrati durante una sessione di Rot vanno rafforzati con accorgimenti o gratificazioni verbali e non verbali. Si dirà “molto bene”, “è proprio così” e contemporaneamente e 24 successivamente si annuirà con la testa, con le mani. E’ bene mai utilizzare rinforzi negativi, come “male”, “ha/hai sbagliato”, meglio limitarsi a dire che non fa niente se non si ricorda, che non è importante, oppure facilitare il soggetto nella risposta. Gli interventi finalizzati a migliorare la memoria procedurale (è una memoria di tipo automatico, vale a dire quella che controlla le normali attività quotidiane) si sono dimostrati utili nel migliorare i tempi di esecuzione di alcune attività della vita quotidiana e potrebbero avere favorevoli ripercussioni sulla qualità di vita del paziente e dei familiari. Anche l’impiego di ausili mnesici esterni (diari, segnaposto, suonerie) si è dimostrato efficace, nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer lieve, nel migliorare la memoria per fatti personali, per appuntamenti e nel favorire il livello di interazione sociale del paziente. La Terapia di Validazione (Validation Therapy)10 si basa su un rapporto empatico con il paziente; la comunicazione con il paziente prevede che vengano accettati la realtà nella quale il paziente vive ed i suoi sentimenti, anche se questi sono collocati lontano nel tempo. Si applica al paziente con decadimento moderato o severo le cui scarse risorse cognitive residue renderebbero vani i tentativi di riportare il paziente “qui ed ora” e 10 Ibidem, pp. 104 – 107. 25 permette di comprendere e di gestire i suoi cambiamenti comportamentali e di origine emotiva. La Validation Therapy è l’approccio terapeutico sviluppato da Naomi Feil11 tra il 1963 e il 1980 nell’Ohio. Dopo anni di lavoro con persone anziane disorientate l’autrice rinunciò al tentativo di ricondurle alla realtà poiché capì che ritornando al passato i soggetti disorientati acquistavano il senso della sopravvivenza. La Validation Therapy è un metodo che propone di: ● restituire la stima di sé; ● ridurre la tensione; ● dare un senso alla vita; ● aiutare e chiarire i contrasti non risolti del passato esprimendo le emozioni; ● migliorare la comunicazione verbale e non verbale; ● migliorare il portamento e il benessere fisico. I principi fondamentali sviluppati dalla Psicologia Comportamentale Analitica e Umanistica sono fondamentali per la comprensione di questa tecnica. Quando la memoria recente (memoria a breve termine) diventa debole, le persone molto anziane ripristinano il loro equilibrio richiamando i ricordi remoti. I ricordi lontani, ben conservati, persistono nelle persone anziane disorientate i cui comportamenti hanno dietro di sé una causa legata a vissuti rimossi nelle fasi precedenti della malattia. L’autrice nel suo testo riporta la teoria di Erik Erikson degli stadi della vita e dei relativi compiti. “Nella prima infanzia dobbiamo imparare ad 11 Definizione a cura della Wfot (Federazione mondiale dei terapisti occupazionali), 1999 op. cit. in D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, op. cit., p. 99. 26 avere fiducia…Se il neonato non può avere la sicurezza che sua madre tornerà, non imparerà poi a essere fiducioso…Quando questo bambino diventerà un uomo anziano che cade perché le sue ginocchia artritiche non lo sostengono più, accuserà la donna delle pulizie di aver deliberatamente dato la cera sul pavimento per farlo cadere.” Il metodo Validation aiuta l’anziano disorientato ad esprimere e comprendere la sua realtà interiore. Gli operatori che applicano questo metodo non esprimono giudizi e non si impongono alla persona cercando di convincerla del presente. L’empatia è intesa come percezione dell’interiorità del soggetto, come partecipazione al suo universo personale; essa sollecita l’operatore ad affinare la sua sensibilità personale per cogliere il mondo interiore del paziente, rimanendo sempre se stesso. Per mettere in pratica il metodo è importante: ● conoscere la persona disorientata con la quale si sta lavorando (relazioni familiari, personalità di spicco, morte di persone importanti, impieghi e passatempi, importanza della religione, modalità con cui la persona affronta le crisi, come la persona ha affrontato le perdite conseguenti la vecchiaia, la storia clinica); ● osservare le sue espressioni verbali e non verbali, il suo comportamento spontaneo ed emotivo; ● individuare lo stadio di disorientamento e la tecnica più idonea da usare. Esempi di alcune tecniche sono i seguenti. Nelle fasi iniziali della malattia, quando sono presenti i primi disturbi dell’orientamento e il paziente si mostra confuso, è necessario sintonizzarsi con lui ed esplorare i fatti in questione con domande in merito a “chi?, che cosa?, 27 dove?, quando?”. Riformulare i concetti ripetendo il “nocciolo” di ciò che il paziente ha detto usando le sue parole chiave: se afferma che gli rubano qualcosa (solitamente la biancheria, la borsa…) chiedere quante volte hanno rubato. Aiutare il paziente a immaginare cosa accadrebbe se fosse vero il contrario; richiamare i ricordi. Nelle fasi avanzate della malattia, quando è presente costante confusione temporale, è indicato usare il contatto fisico (quando è accettato dal paziente). E’ indispensabile avvicinare il paziente standogli davanti, entrando nel suo campo visivo, accostarsi lateralmente può spaventarlo poiché la visione periferica viene meno limitandosi al campo centrale. E’ opportuno parlare con tono di voce tranquillo, chiaro, staccando le parole; usare un linguaggio semplice accompagnato dai canali di comunicazione non-verbale (gesti, postura…) e risulta utile modulare una voce rassicurante: toni aspri possono portare il paziente a chiudersi in sé stesso o a scatti di collera ed aggressività. Non bisogna agire in fretta, ma occorre informare il paziente di quello che si sta facendo, in particolar modo durante le azioni passive: quando lo si sta vestendo, lavando, spostando o posizionando. Dopo aver svolto il compito, inoltre è positivo ringraziare sempre l’ospite per la collaborazione. Rispettare le emozioni e immedesimarsi con il paziente nelle sue emozioni con l’espressione del volto, la respirazione, il tono della voce. Può essere utile richiamare alcune esperienze della vita nelle quali si sono provate le stesse sensazioni. La terapia di Validazione si applica all’anziano con decadimento 28 moderato o severo le cui scarse risorse cognitive residue renderebbero vani i tentativi di riportarlo nel “qui e ora”. L’autrice dedica un’attenzione particolare anche all’ultimo stadio della malattia da lei chiamato “Vita vegetativa”. “Le caratteristiche fisiche di questo stadio sono: ● gli occhi per lo più chiusi, lo sguardo non è focalizzato o è vacuo; ● i muscoli sono atrofici; ● il paziente è abbandonato su una sedia o giace a letto nella posizione fetale; ● i movimenti sono appena percettibili” “Le caratteristiche psicologiche sono: ● il paziente non riconosce i parenti prossimi; ● il paziente raramente esprime sentimenti di qualsiasi genere; ● il paziente non inizia attività di alcun genere; ● non c’è modo di conoscere se il paziente ha risolto i suoi problemi.” Nella fase finale le parole che vengono pronunciate dal paziente sono sempre più rare e la comunicazione verbale lascia il posto a quella corporea. “Di fatto le capacità che il soggetto apprende da bambino vanno via via perdute, nell’ordine esattamente contrario a quello con il quale sono state acquisite e spesso secondo la stessa tabella di marcia.”12 Gli operatori che si prendono cura della persona in questa fase della malattia devono privilegiare un tono di voce rassicurante e il contatto. I 12 T. SMITH, Convivere con l’Alzheimer, Editori Riuniti, Roma, 2001 op. cit. in D. BARBOT, Fiori , sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer 29 op. cit., pp. 104 – 107. segnali d’intesa con il paziente sono minimi; spesso un contatto visivo, i movimenti facciali o delle mani e dei piedi o un sorriso possono rappresentare validi segnali di relazione. Nell’ambito degli interventi psicoterapici uno spazio a sé occupa la Terapia di Reminiscenza (rassegna di vita, rievocazione di momenti significativi) che si fonda sulla naturale tendenza da parte dell’anziano a rievocare il proprio passato; il ricordo e la nostalgia possono essere fonte di soddisfazione ed idealizzazione. L’obiettivo di questo approccio consiste nel favorire questo processo spontaneo e renderlo più consapevole e deliberato; nel paziente demente viene impiegata per il recupero di esperienze piacevoli della propria vita anche tramite l’ausilio di oggetti o fotografie. “La reminiscenza non è solo un raccontare delle storie insieme ad altri: è riviverle, con-parteciparle in gruppo, emozionandosi ed usando tutti i sensi. E' cura della relazione, delle tante relazioni, che abitano ed hanno abitato una vita. E' cura della crisi, standoci dentro e vivendola fino in fondo, ma trovando anche un modo positivo, creativo, costruttivo per dare senso al nostro esserci. Ricordare insieme è una pratica attiva e creativa che può: • vincere l'isolamento sociale della famiglia, grazie all'espansione della rete di relazioni significative; • dar voce a tutti i partecipanti, riconoscendo non solo il bisogno del malato di essere riconosciuto come persona, ma il bisogno del carer, altrettanto forte e spesso sottovalutato; • aiutare a ritrovare o imparare l'ascolto reciproco, la com30 passione, il rispetto per i sentimenti dell'altro; • far diventare i familiari del malato “consulenti” delle altre famiglie, scoprendo che si può imparare gli uni dagli altri e darsi sostegno reciproco; • ridurre l’effetto stigmatizzante della diagnosi di demenza, che colpisce non solo il malato, ma tutta la sua famiglia; • far scoprire la pluralità dei punti di vista su quella che solo apparentemente è “la stessa malattia”, la stessa situazione, perché ognuno la vive a modo suo; • far acquisire competenze attive di cura: dare aiuto, donare le proprie storie, essere propositivi oltre che chiedere aiuto, ricevere consigli, mettersi in posizione recettiva (senza tuttavia connotare di illegittimità questi atteggiamenti comuni); • aumentare la creatività e la progettualità individuali e familiari, facendo sperimentare situazioni concrete che possono essere trasferite nella quotidianità della vita familiare. Tutto questo significa anche alleviare il peso della cura, la fatica della crisi e dare quindi un sostegno importante sia per le cure domiciliari, sia nelle situazioni di ricovero. Grazie alle attività proposte, la famiglia ritrova un ruolo positivo che le permette di reintegrare la crisi del proprio funzionamento. Per reminiscenza si intende un ricordo vago, impreciso nel quale domina la tonalità affettiva. E’ un processo nel quale emerge un ricordo o quello che ne resta, sia come il risultato di tale processo. Fare reminiscenza significa dunque pensare o parlare della propria esperienza di vita, per condividere le memorie con gli altri e anche per poter riflettere sul passato. Il contenuto della reminiscenza è sempre personale e specifico, pertanto rappresenta una via rapida per31 conoscere e per apprezzare le altre persone coinvolte. Quando raccontiamo un ricordo, riveliamo dei piccoli e significativi dettagli che parlano della nostra vita. Spetta all’educatore, all’animatore, agli operatori, insomma al conduttore del gruppo, garantire la tonalità emotiva di base, fare in modo che i partecipanti si sentano al sicuro e fare in modo che le attività proposte non vengano mai vissute come dei tentativi di metterli alla prova. Per questo è importante trattare gli errori commessi dai partecipanti con una vena umoristica, leggera, che sdrammatizzi la situazione. Per una persona che soffre di demenza, partecipare ad un gruppo nel quale si fanno insieme attività nuove e piacevoli, in un’atmosfera di festa dove l’humour e il sorriso sono di rigore, non può che essere stimolante. La presenza attiva degli operatori è comunque fondamentale per suscitare e sostenere l’interesse dei malati nei confronti di ciò che succede intorno. E’ basilare un’attenzione personalizzata affinché ciascuno possa davvero partecipare e contribuire a quello che accade nel gruppo. I conduttori di gruppo non devono né dovranno aspettarsi risultati miracolosi, ma troveranno motivo di soddisfazione nel constatare tanti piccoli miglioramenti (per esempio, il fatto che un paziente già piuttosto deteriorato si mostri vigile e sereno nel gruppo, anche se non interviene con la parola). La reminiscenza fa scattare diverse modalità di comunicazione con le persone affette da demenza. Per farci capire da queste persone è necessario usare parole, gesti, atteggiamenti corporei e psicologici che favoriscano la comunicazione ed è fondamentale saper osservare ed interpretare correttamente i segnali ed i messaggi che a loro volta ci trasmettono. Alcune regole consistono: 32 • nell’utilizzare un linguaggio semplice e dire soltanto una cosa per volta; • nel trovare gli stessi modi per dire la stessa cosa per assicurarci di essere stati ben compresi; • nell’accompagnare le parole con gesti che aiutino a trasmettere meglio il significato di quello che viene detto; • nell’osservare i segnali di comprensione che la persona ci dà ed interpretarli con immaginazione e creatività. Saper ascoltare, saper accordare tutta la nostra attenzione e manifestare interesse per l’altro diventa cruciale con i pazienti dementi. E’ indispensabile assicurarsi che la persona sia rilassata e si senta apprezzata e accettata. Per poterci riuscire dobbiamo: • sederci allo stesso livello del malato; • rispettare il suo spazio fisico, pertanto non stargli addosso, e tuttavia favorire il contatto fisico ogni volta che questo sembra opportuno e appare ben accetto; • rispettare e accettare quello che la persona dice (per esempio, evitando di interromperlo, come pure di precederlo quando fa fatica ad esprimersi); • lasciare che si possa rimanere in silenzio, senza sentire il bisogno di colmarlo; • ricordare quello che la persona ci ha detto e ripeterglielo per mostrarle che l’abbiamo compreso e memorizzato; • lasciare alla persona tutto il tempo per potersi esprimere a modo suo e riconoscere che ciò che dice o comunica ha senso; • reagire con una partecipazione affettiva adeguata a quello che ci sta dicendo; • convalidare il contenuto emotivo di quello che viene espresso,33 piuttosto che cercare di focalizzarne il significato letterale o superficiale. Consapevole dei suoi problemi di memoria, spesso la persona affetta da demenza teme di non poter produrre dei ricordi. Pertanto, dobbiamo trovare dei modi per suscitare il ricordo, evitando di porre alle persone delle domande dirette e fornire al paziente la possibilità di riconoscere degli oggetti, delle fotografie,…, senza che debba formulare la sua risposta verbalmente, ma attraverso la mimica, un cenno del capo, un sorriso,… Fare reminiscenza è un’esperienza che procura benessere alla persona che sta evocando i propri ricordi personali, ed anche a quelli che la ascoltano. La persona anziana malata di demenza prova un grande piacere nel sentirsi capace di far emergere ricordi passati, che possono persistere a lungo anche quando quelli di eventi più recenti sono sfilacciati. La reminiscenza fa rivivere dei periodi della vita nei quali queste persone erano attive, in buona salute, ha il potere di rievocare i sentimenti positivi provati allora: fiducia, padronanza di sé, felicità,… Questo processo permette dunque di lottare contro i sentimenti di scoraggiamento e di angoscia che affiorano nelle persone ogni volta che prendono coscienza dei loro deficit intellettivi”13. Un’altra tecnica riabilitativa è la Rimotivazione il cui scopo consiste nella rivitalizzazione degli interessi per gli stimoli esterni, nello stimolare gli anziani a relazionarsi con gli altri e a discutere argomenti contingenti. 13 E. BRUCE, S. HODGSON, P. SCHWEITZER, I ricordi che curano. Pratiche di reminiscenza nella34 Malattia di Alzheimer, Raffaello Corina Editore, Milano 2003, pp. 1-74. Accanto agli interventi rivolti in modo specifico alle prestazioni mnesiche, è fondamentale affiancare interventi cognitivi e cognitivo-comportamentali finalizzati al controllo dei sintomi non cognitivi (cfr. Parte I - Capitolo II). Importante è la Terapia Occupazionale14 che orienta i suoi interventi a mantenere e prolungare nel tempo l’autonomia del soggetto nelle abilità prassiche e contribuisce ad una migliore gestione nelle attività della vita quotidiana. Viene definita come il “trattamento delle condizioni fisiche e psichiatriche che, attraverso attività specifiche, aiutano le persone a raggiungere il massimo livello di funzione e di indipendenza in tutti gli aspetti della vita quotidiana”15. L’aprassia porta il malato di Alzheimer a realizzare con difficoltà compiti funzionali e gesti precisi, dunque finalizzare i movimenti ed eseguire compiti in sequenza diventa molto impegnativo. Le mani non riescono a chiudere il bottone della camicia, ad allacciare le scarpe, ad aprire una porta, ad afferrare una forchetta,a chiudere una finestra; per il demente è un continuo rimandare di intenzioni, di obiettivi piccoli che mai si concretizzano. “Eseguire un’attività comprende varie abilità come riconoscere l’oggetto, seguire una sequenza logica, eseguire dei movimenti che possono essere automatici o possono essere il risultato di un pensiero organizzato. Per tali motivi quanto più un’attività è complessa e strutturata, tanto più sarà difficile per il paziente 14 D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, op. cit., pp. 99 - 102. 15 Definizione a cura della Wfot (Federazione mondiale dei terapisti occupazionali), 1999 op. cit. in D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei35 malati di Alzheimer, op. cit., p. 99. portarla correttamente a termine”16. Il grado di difficoltà è determinato dal tipo di attività (abbigliamento, alimentazione, igiene personale) e dal livello di deficit cognitivo. La Terapia Occupazionale considera i bisogni, gli interessi, le abilità residue ed individua i seguenti obiettivi di intervento: • mantenere il più a lungo possibile l’autonomia nelle attività quotidiane non sostituendosi al paziente nelle situazioni in cui è ancora abile; • studiare gli adattamenti ambientali intervenendo sull’ambiente a mano che si modifica il quadro della malattia; • stimolare interesse e motivazione attraverso attività reali che mettano il paziente in condizione di esercitare le sue capacità residue; • mantenere il massimo livello di funzionalità fisica e mentale; • adattare gli interventi al livello mentale funzionale. Due sono le sue aree di intervento: 1. Le attività della vita quotidiana, ovvero tutte quelle attività umane, personali e sociali, che sono importanti nella vita di ogni persona e le permettono di sentirsi integrata con l’ambiente di vita: • Attività quotidiane per la cura di sé (igiene, abbigliamento, alimentazione…); 16 • Attività di cucina e vita domestica; • Attività di cucito, ricamo, maglia; • Attività di gioco e svago; B. M. PETRUCCI, Tecniche riabilitative nelle sindromi demenziali, Progetto Alzheimer, Corsi per Operatori, Familiari e Volontari, Alzheimer Italia e ASL 3 Milano op. cit. in D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, op.36 cit., pp. 99 -100. • Attività di musica (canto, ballo, ascolto musicale,…) • Attività artigianali; • Attività sociali (parlare, passeggiare, ricordare, pregare). 2. L’ambiente, costituito dagli spazi in cui vive il paziente, dagli arredi e dagli oggetti che lo circondano, deve essere adattato al fine di orientare il paziente demente a mantenere il più a lungo possibile la sua autonomia, evitando situazioni pericolose. L’adozione di interventi ambientali assume valenza terapeutica fondamentale in condizioni quali la demenza; le scelte sono condizionate dalle caratteristiche del paziente, del grado di compromissione, dalla natura e dalla manifestazione dei disturbi comportamentali. Per favorire l’adattamento ambientale può risultare utile: • Eliminare le fonti di pericolo; • Semplificare al massimo la disposizione degli oggetti riducendo gli ostacoli (per esempio mobili, sedie o tappeti); • Evitare o ridurre al minimo i cambiamenti; • Fornire indicazioni segnaletiche per orientarsi nelle varie stanze (per esempio la sala da pranzo, bagno, soggiorno,…); • Fare in modo che le stanze siano ben illuminate ed evitare la presenza di rumori o di suoni disturbanti, fonti di stress (mantenere basso il volume del televisore della radio,…); • Garantire la sicurezza, compensando le inabilità e i disturbi della memoria e dell’orientamento (per esempio: gli operatori possono indossare dei distintivi con il nome, il tavolo dove mangia può essere corredato da un cartellino con il suo nome, …); I contrassegni di riconoscimento e la segnaletica per l’orientamento possono essere preparati durante le attività di animazione coinvolgendo gli stessi pazienti nella realizzazione e permettendo loro di sentirsi utili. 37 I colori delle pareti, dei pavimenti e degli oggetti (è meglio utilizzare i colori primari) dovrebbero essere ben contrastati per migliorare la capacità di discriminazione da parte del soggetto. Calendari, orologi, oppure una fotografia personale collocata sulla porta di ingresso della stanza sono certamente altri importanti ausili ambientali da usare. Il soggetto affetto da demenza di Alzheimer con grave compromissione cognitiva e con tendenza al vagabondaggio è sicuramente più al sicuro se può deambulare in una stanza priva di soprammobili o arredi ingombranti; al contrario, il paziente con lievi o moderati deficit cognitivi vive meglio in un spazio il più possibile simile a un ambiente familiare disponendo di uno spazio personale (il comodino, la poltrona, il posto a tavola). Gli interventi finalizzati a modificare l’ambiente in cui il paziente vive rivestono particolare importanza in quanto consentono una migliore conservazione dell’orientamento e facilitano il controllo di alcuni sintomi comportamentali. Per ultimo ma non per questo meno importante, è bene non dimenticarsi che la persona confusa spesso non è in grado di riconoscere oggetti o situazioni pericolose per la salute. A tal fine risulta utile: ● lasciare in vista solo gli oggetti di uso quotidiano (nelle fasi più avanzate anche gli oggetti quali lo spazzolino o il dentifricio possono essere usati in modo improprio); ● non lasciare medicinali o prodotti nocivi alla portata di mano. 38 La metodologia del Gentlecare17 si orienta al benessere del paziente attraverso la costruzione di una protesi, di una cura costituita da spazio fisico, persone e attività. Ogni caso di demenza di Alzheimer è unico e, poiché la malattia è una condizione progressiva, i caregivers si trovano a lavorare con persone che vivono in fasi diverse del loro percorso: i soggetti in uno stadio iniziale hanno problemi di orientamento nello svolgere compiti complessi, quelli nelle fasi avanzate sono persone totalmente dipendenti e bisognose anche per le attività più semplici. Le situazioni, i comportamenti e gli atteggiamenti presenti nell’ambiente che circonda il paziente e nelle persone che si prendono cura di lui influenzano fino a modificare lo stato di salute e benessere del soggetto. Un atteggiamento rinunciatario “Non c’è più nulla da fare” o una stimolazione eccessiva finalizzata al recupero delle funzioni perse, compromettono sin dall’inizio qualsiasi azione a favore della persona affetta da demenza. Il Gentlecare18, promosso da Moira Jones, è un modello di intervento protesico che ha come obiettivo il benessere del paziente e di chi gli sta vicino; esso permette di confrontarsi con la perdita delle abilità cognitive e sociali proprie del malato di Alzheimer senza rinunciare a obiettivi di lavoro concreti. 17 D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, op. cit., p. 109 – 111. 18 A. GUAITA, M. JONES, Il Progetto Gentlecare, “Giornale di Gerontologia”, n. 48, 2000; per ulteriori approfondimenti è anche possibile consultare il sito internet www.gentlecare.com in BARBOT D., Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei39 malati di Alzheimer, op. cit., p. 109. Parlare di protesi significa fare riferimento a uno strumento o una struttura artificiale esterna che sostituisce una parte perduta o deficitaria. Allo stesso principio fa riferimento il modello di Gentlecare per il quale la protesi di cura è pensata e costruita in funzione delle caratteristiche del paziente, nel preciso momento della sua storia personale, per sostenere il suo benessere funzionale, intellettivo, fisico, psichico ed emotivo. Fondamentali la conoscenza dell’evoluzione della malattia con i danni che ne conseguono, le competenze e abilità residue, la storia biografica del paziente, le sue abitudini, cosa gli piace, come si presenta, la cura nella presentazione di sé. La raccolta di questi dati può avvenire attraverso una sinergica collaborazione dei familiari. La metodologia di intervento si fonda sulla costruzione di un ambiente protesico di cura e supporto al paziente nel quale sono in relazione dinamica tre componenti: PERSONE SPAZIO FISICO PROGRAMMI. 1. Gli operatori che si prendono cura dei pazienti affetti da demenza devono sviluppare in modo appropriato la loro professionalità, la capacità di comunicare con il linguaggio verbale e non verbale, la capacità di osservare, di analizzare e di risolvere i problemi, e non da ultimo il rispetto e il senso dell’umorismo. Questi elementi concorrono a motivare gli atteggiamenti e i comportamenti degli operatori e degli altri caregivers che quotidianamente sono a contatto con il malato di Alzheimer. Le persone che curano non sono solo gli operatori socio-sanitari, ma anche i familiari, i volontari, gli amici ai quali va rivolta la stessa azione informativa e formativa. 40 La collaborazione tra lo staff di cura e la famiglia è un elemento significativo per garantire il benessere del paziente e la continuità nelle azioni di assistenza; questo obiettivo non è sempre facile da raggiungere, a volte per la non accettazione della malattia da parte dei familiari o l’attuazione di comportamenti inadeguati nei confronti del proprio assistito. 2. Gli elementi caratteristici dell’ambiente sono: ● sicurezza: perché il malato possa muoversi con minor stress del caregiver; ● familiarità: per facilitare comportamenti sociali adeguati; ● elasticità: per adattarsi ai cambiamenti che caratterizzano ogni fase della malattia e permettere al soggetto di riconoscersi in un ambiente a lui idoneo; ● confort: per un ambiente gradevole e non solo protetto. In sintesi, un ambiente semplice, accogliente, domestico, privo di barriere architettoniche e che faciliti il riconoscimento da parte del paziente. Se una stanza è arredata in modo da ricordare una casa, sarà più facile per la persona disorientata muoversi in un contesto familiare e sviluppare un miglior livello funzionale. Nel Gentlecare si dà particolare rilievo anche agli spazi all’aperto, come il giardino, che favorisce il contatto con gli elementi della natura, stimolanti nei loro profumi e colori, e al tempo stesso rilassanti per i soggetti molto compromessi. Sono necessari percorsi non troppo articolati, privi di barriere architettoniche e con indicazioni segnaletiche chiare. 3. Si pone l’attenzione ai cosiddetti “Compiti di vita”, tutte 41 quelle attività che normalmente le persone anziane svolgono nel quotidiano, come per esempio passeggiare, spolverare, cucire, riordinare, riparare, pregare, prendersi cura di… Si devono sviluppare piani di cura che comprendano: ● attività primarie; ● attività necessarie; ● attività significative. Sono considerate come attività primarie: mangiare, lavarsi, vestirsi; attività necessarie: riposarsi, dormire, rilassarsi, avere momenti di privacy; attività significative: tutto ciò che va dal lavoro allo svago. Una giornata di normale routine può essere arricchita da tante occasioni piacevoli e gratificanti, come riempire dei cesti con gomitoli, oggetti di uso comune, attrezzi da lavoro, disporre fiori e piante, ordinare la biancheria, apparecchiare la tavola. Significative anche le attività di carattere espressivo e creativo come disegnare, cantare, ballare. Sono importanti gli oggetti di vita della persona e quelli che danno un carattere familiare e casalingo all’ambiente. “Questi interventi riabilitativi possono essere applicati sia individualmente che in gruppo; entrambi gli approcci hanno maggiore probabilità di efficacia se integrati in un piano che comprenda, oltre ai farmaci, l’educazione della 42 famiglia o di chi si prende cura del malato. Dal momento che i bisogni del paziente cambiano nel corso del tempo, è necessario modificare gli approcci riabilitativi durante la progressione della malattia. La valutazione del clinico è quindi importantissima nell’assicurare la rilevanza del trattamento”.19 “Nel lavoro quotidiano di cura ed assistenza, ogni operatore è chiamato a contribuire al “ben-essere” possibile del soggetto, articolando saggiamente le sue conoscenze professionali nella relazione con l’altro. Gli approcci riabilitativi suggeriscono strategie di intervento certamente utili per l’assistenza della persona demente, ma è essenziale una personalizzazione delle azioni e degli interventi di cura al fine di rispondere in modo adeguato e il più rispondente ed adeguato possibile ai bisogni della persona”20. 19 AA.VV., Non so cosa avrei fatto oggi senza di te. Manuale per i familiari delle persone affette da demenza, op. cit., pp. 38-42. 20 D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei43 malati di Alzheimer, op. cit., pp. 111 – 112. BIBLIOGRAFIA LIBRI AA. VV., Non so cosa avrei fatto oggi senza di te. Manuale per i familiari delle persone affette da demenza, Regione Emilia Romagna, Modena 2003. D. BARBOT, Fiori sotto zero. Manuale per la formazione degli operatori addetti all’assistenza dei malati di Alzheimer, Franco Angeli, Milano 2003. V. BELL, D. TROXEL, Il malato di Alzheimer. 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