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Sbirri e 007 spie dei boss
6 Primo piano Sabato 28 gennaio 2012 Primo piano 7 Sabato 28 gennaio 2012 In manette tre finanzieri corrotti dalla cosca L’asse Reggio-Milano Fino a 60mila euro ogni mese per tacere sul giro delle slot La Dda lombarda svela gli infiltrati della ’ndrangheta nelle istituzioni Sbirri e 007 spie dei boss Cinque arresti nell’indagine contro i Lampada La cosca aveva informazioni sull’inchiesta “Meta” di GIUSEPPE BALDESSARRO giovane ha fornito alcune notizie sull’inchiesta e aggiunge, con una frase incompleta: «Il papà con il colonnello del Ros». «Allora – chiede Francesco – il papà è in amicizia con un colonnello del Ros?». «E’ socio», risponde Minasi che poi alla successiva domanda «chi è questo colonnello del Ros», risponde: «E che ne so?». Minasi ha anche riferito che Gattuso, nel suo studio, verso aprile-maggio 2011 gli disse: «Gli atti non sono più a Reggio, adesso se la vede solo Milano». Nella stessa occasione Gattuso disse a Minasi, secondo la testimonianza: «Fin quando gli atti erano a Reggio Calabria il mio amico poteva controllare, però non poteva controllare la Polizia, adesso gli atti non ci sono più a Reggio e non può controllare». «La notizia che fornisce Gattuso – scrive il gip –è tremendamente esatta e presuppone una conoscenza «interna» delle sorti del fascicolo, anche dopo la chiusura della indagine». | L’APPROFONDIMENTO | L’imprenditore reggino agganciato al “colonnello” REGGIO CALABRIA - «Poteva guardare il computer dei carabinieri ma non poteva guardare il computer dello Sco e della polizia e quindi non poteva sapere chi c’era dietro all’indagine». L’avvocato Vincenzo Minasi, arrestato il primo dicembre dello scorso anno nella prima fase dell’inchiesta della Dda milanese sulla cosca Lampada, parla dell’imprenditore Domenico Gattuso, di 36 anni, arrestato ieri mattina dalla squadra mobile nell’ambito di un’inchiesta della Dda di Milano. Gattuso è, secondo quanto affermano i magistrati lombardi, uno che ha le mani in pasta. Per l’anagrafe societaria ha interessi assieme ai Lampada-Valle, e anche con i fratelli Mario ed Enzo Giglio (rispettivamente indagato il primo e arrestato il secondo nell’ambito dell’operazione scattata ai primi i dicembre). Gattuso è anche imparentato con i due fratelli, i quali a loro volta sono cugini di Vincenzo Giglio, il magistrato reggino arrestato(anche luia dicembre)e accusato di passare informazioni riservate a Giulio Lampada e al consigliere regionale del Pdl Franco Morelli. Una ressa di nomi che si incrocia tra di loro e che per la Dda milanese rappresentano una sorta di reticolo nel quale si incrociano relazioni pericoloso, che a volte diventano veri e propri pati criminali. Il coinvolgimento di Domenico Gattuso e le circostanze che lo riguardano si rilevano dall’ordinanza di custodia cautelare del gip di Milano. Parlando della fuga di notizie dell’inchiesta Meta della Dda di Reggio Calabria, è lo stesso Minasi, che ha anche rife- rito che Gattuso, socio dei Lampada in varie attività, assumeva le informazioni da un colonnello del Ros amico del padre. L’avvocato hariferito diavere saputoda Gattuso, verso aprile/maggio, che gli atti erano stati trasferiti a Milano. «La notizia che fornisce Gattuso - scrive il gip –è tremendamente esatta e presuppone una conoscenza “interna”delle sorti del fascicolo, anche dopo la chiusura della indagine». Ma per scoprire che i Lampada erano ben informati sull’inchiesta “Meta” ben prima che scattassero le manette a giugno 2010, basta scorrere le diverse intercettazioni. Di “Meta” i diversi interlocutori discutono quando dell’operazione non si sa ancora nulla ufficialmente. Secondo i magistrati si capisce che sono informati costantemente. Che sanno che la parte reggina non riguarda i Valle-Lampada, arrivando a scoprire anche quando lo stralcio dell’inchiesta meta finisce poi a Milano. Qui Gattuso afferma apertamente di non poter far più nulla. Di non riuscire ad avere più notizie. A Reggio ha i soi agganci, a Milano no. g. bal. Pignatone e Grasso Moretti informò i mafiosi degli accertamenti in corso La “famiglia” scoprì l’indagine grazie al direttore dell’hotel REGGIO CALABRIA - Oltre ai tre marescialli della guardia di finanza, i provvedimenti emessi ieri mattina dal Gip di Milano, Giuseppe Gennari, hanno colpito anche altri due uomini, Domenico Gattuso, nato a Reggio Calabria, di 36 anni e Vincenzo Moretti, nato a Foligno, di 69 anni. L’accusa per entrambi è concorso esterno in associazione mafiosa. Gattuso è stato arrestato, Moretti è agli arresti domiciliari. A Vincenzo Moretti viene contestato, in qualità di direttore del Grand Hotel Brun di via Novara a Milano, di aver aiutato alcuni membri del clan ad eludere i controlli delle autorità. Moretti avrebbe consentito soggiorni nell’albergo di personaggi vicini al clan, «soggiorni le cui spese erano pagate in contanti o con assegni di conti correnti intestati alle società facenti capo al sodalizio da Giulio Lampada». In particolare gli inquirenti fanno riferimento ad un episodio in particolare. Durante le indagini lle forze dell’ordine attivano dei servizi di sorveglianza per seguire i movimenti Vincenzo Giglio. Si accorgono così | Le rivelazioni dell’avvocato Minasi sui rapporti tra il consigliere regionale e il capo del Sismi «Morelli riceveva informazioni da Pollari» Il politico del Pdl calabrese incontrava a Roma esponenti dei servizi da cui attingeva notizie REGGIO CALABRIA - Franco Morelli, l’exconsigliere regionaledellaCalabria arrestato nel dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Milano sulla cosca Lampada, vantava contatti negli ambienti dei servizi segreti, da cui apprendeva notizie sulle indagini per girarle ai Lampada, e ha anche fatto il nome dell’ex direttore del Sismi, Nicolò Pollari. Lo ha svelato l’avvocato Vincenzo Minasi, arrestato a dicembre, nell’interrogatorio al procuratore aggiunto Ilda Boccassini. Parlando di un incontro del dicembre 2009 tra lui, Giulio Lampada e Morelli, Minasi riferisce che parlarono «del procedimento Meta e delle indagini che si stavano svolgendo sia per Lampada sia per i Valle sia per i Condello». Morelli, dice Minasi, «in quella occasione non portò notizie dalla Calabria, portò notizie da Roma. Nel senso che lui disse 'Sono stato a Roma dai miei amici, i quali mi hanno confermato che c'è l’indagine su Milanò, e fu quella volta che ebbi proprio la conferma della indagine su Milano. Queste furono le notizie che portò Morelli da Roma». Successivamente Minasi ha detto: «Morelli, mi disse che aveva delle buone entrature nei servizi segreti e mi fece il nome di Nicola Pollari. Ora che ho consultato i miei appunti posso dire che l’incontro, se c’è stato ovviamente, con Pollari o qualcun altro dei servizi segreti è da collocare tra il 9 dicembre 2009 e il 21 gen- naio 2010 Tenga conto che quando io ho dato i documenti da me falsificati a Giulio Lampada e quest’ultimo li ha portati a Morelli il 18 gennaio, non posso escludere che Morelli abbia mostrato questi documenti a qualcuno dei servizi o comunque allo stesso Pollari dal 18 gennaio al 21 gennaio». «Naturalmente – scrive il gip – il riferimento ad ambienti dei servizi – riferimento ancora più preciso a proposito del “Nic...” al quale Morelli si rivolgerà più avanti per mostrare alcuni documenti esibiti da Lampada – è preoccupante. La circostanza va evidentemente approfondita, anche perchè Minasi- pur prendendo per vere le sue dichiarazioni – parla di circostanze apprese da terzi. Peraltro viene quasi naturale accostare queste asserzioni alla 'stranà visita che Giglio Vincenzo farà al capocentro Aisi di Reggio, chiedendo notizie sulla indagine». che frequenta l’hotel. Per saperne di più interpellano il direttore dell’albergo (Vincenzo Moretti) e il vice direttore (Mauro Arosio) e secondo quanto riportato dal Gip: «I due si dimostrano scarsamente collaborativi». Ma c’è di più. Perchè dalle intercettazioni «un soggetto allo stato non identificato chiama i Lampada e spiega loro che la Questura di Milano, e in particolare il dirigente della sezione criminalità organizzata della Squadra Mobile, ha svolto accertamenti». «Da quel momento - scrivono ancora gli inquirenti - i Lampada - grazie alla fedeltà (alla famiglia mafiosa e non certo alla legge) manifestata da un dipendente dell’albergo da loro utilizzato come base per gli “ospiti” hanno elementi concreti per ritenere di essere nel mirino di attività d’indagine. Da quel momento inizierà una spasmodica ricerca di notizie che porterà i Lampada a rivolgersi a diversi personaggi e ad attivare canali sia a Roma che a Reggio Calabria». Il fatto che la soffiata sia arrivata dal direttore dell’albergo è poi confermata dallo stesso Giulio Lampada nel coro dell’inter- rogatorio sostenuto davanti ai pm di Milano. E’ lui infatti ad indicare Moretti come l’uomo che lo avvertì della visita della polizia. Incastrando i vari pezzi la Procura di Milano arriva a ricostruire quindi quanto accade nei mesi successivi. L’interessamento di vari soggetti, tutti impegnati a tentare di capire il tenore dell’inchiesta. Ed è così che i boss scoprono che su Reggio i magistrati stanno lavorando all’inchiesta “Meta”, o meglio a quel filone d’inchiesta sugli interessi economici del boss Pasquale Condello al nord e dei collegamenti con i Lampada. Un’indagine che fa paura e che, proprio per questo, viene continuamente monitorata dagli spioni del clan. In questo contesto un ruolo fondamentale lo avrebbero avuto Gattuso e, successivamente, il consigliere regionale Franco Morelli e i Giglio che avrebbero attivato anche il cugino giudice di Reggio Calabria. g. bal. Con una telefonata li avvertì della visita della Mobile L’ALLARME DI WALTER VELTRONI | «La ’ndrangheta è un problema nazionale» E sulla Commissione d’accesso a Reggio Calabria: «Se c’è vuol dire che ci sono le ragioni» di GIOVANNI VERDUCI Walter Veltroni a Reggio Vincenzo Minasi REGGIO CALABRIA - «Il fenomeno della 'ndrangheta come quelli della camorra e della mafia non è più solo un problema di questa regione. È diventato infatti uno dei grandi problemi nazionali, per me il più grande del Paese». Walter Veltroni atterra a Reggio Calabria per parlare di cultura e presentare il libro di Giuseppe Falcomatà: il figlio del sindaco della primavera di Reggio al suo esordio come scrittore, ma si ritrova a disquisire di criminalità organizzata. Veltroni, che è componente della Commissione parlamentare an- timafia, si è espresso anche sull’arrivo della commissione d’accesso a Palazzo San Giorgio. «La 'ndrangheta – ha aggiunto ancora Veltroni sullo strapotere della criminalità organizzata calabrese – sottrae Pil per 160 miliardi all’anno, condiziona la vita pubblica, acquisisce politici ed amministratori e poi determina violenza. Questo è un fenomeno che c'è in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, nel Lazio. La 'ndrangheta è quindi una grande questione nazionale». In merito alla nomina di una commissione d’accesso antimafia al Comune di Reggio Calabria, invece, Walter Veltroni ha detto che «se c'è la commissione d’accesso vuol dire che ci sono le ragioni. Dove ci sono fatti dai quali emergono segni di ambiguità bisogna andare fino in fondo». «In generale – ha aggiunto Veltroni in merito all’arrivo della terna commissariale a palazzo di città – io sono perchè, laddove emergano, come stanno emergendo in tante parti d’Italia, segni di ambiguità nei comportamenti di amministratori locali nei confronti delle organizzazioni mafiose, lì si vada sino in fondo ad accertare le questioni e qualora accertate si proceda allo scioglimento del Consigli. Quando ci si ferma prima, come nel caso di Fondi, poi si pagano dei prezzi molto elevati. Ripeto, tutto questo sulla base della valutazione delle carte che le Commissioni faranno. Perchè certo è che mafia, camorra e 'ndrangheta non sono problemi solo di alcune regioni meridionali, ma sono diventati il più grave problema nazionale». «L'economia criminale – ha concluso Veltroni – sottrae al prodotto interno lordo di questo Paese 160 miliardi di euro all’anno, condiziona la vita pubblica, acquisisce politici ed amministratori, determina violenza. E questo è purtroppo un fenomeno presente in Lombardia, Liguria, Lazio e Piemonte». E' vietata la riproduzione, la traduzione, l'adattamento totale o parziale di questo giornale, dei suoi articoli o di parte di essi con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro REGGIO CALABRIA - L’indagine “Meta” per loro non aveva segreti. Avevano sempre informazioni di prima mano. Sapevano tutto quello che facevano gli investigatori dei carabinieri e le carte che avevano in mano i magistrati della Dda di Reggio. Conoscevano gli atti, i nomi, i dettagli. I boss della cosca Lampada erano costantemente aggiornati dai loro amici. Politici e imprenditori con “orecchie lunghe” relazionavano di continuo. E’ questo il cuore dell’inchiesta della Dda di Milano, che ieri mattina ha portato all’arresto di 5 persone. Tra questi Domenico Gattuso, imprenditore di 36 anni. Sarebbe lui una delle “talpe”per conto delle cosche. Era lui il “mister x” che forniva agli affiliati notizie sulle indagini nei loro confronti perchè «poteva guardare il computer dei carabinieri ma non poteva guardare il computer dello Sco e della polizia e quindi non poteva sapere chi c'era dietro all’indagine». E non era il solo. Informazioni riservate arrivavano anche dai servizi segreti che venivano girate alla cosca. A raccontare come funzionava è stato è stato l’avvocato Vincenzo Minasi (di Palmi), arrestato il primo dicembre dello scorso anno nella prima fase dell’inchiesta. Un racconto dettagliato fatto ai pm lombardi e in particolare al Procuratore aggiunto Ilda Boccassini. In uno di questi interrogatori, Minasi afferma che Franco Morelli, l’ex consigliere regionale della Calabria arrestato assieme a lui nella prima tranche dell’inchiesta, «disse che aveva delle buone entrature nei servizi segreti e mi fece il nome di Nicola Pollari», l’ex capo del Sismi. E sempre Morelli, prosegue Minasi, «portò notizie da Roma. Nel senso che lui disse «Sono stato a Roma dai miei amici, i quali mi hanno confermato che c’è l’indagine su Milanò». Parlando di Gattuso, e della fuga di notizie sul’'inchiesta Meta coordinata dalla Dda Minasi aggiunge: «Poi seppi, perchè mi venne detto dal Giulio Lampada e da Gattuso che la forza investigativa era nata dai Carabinieri del Ross di Reggio (l’inchiesta era firmata dal pm Giuseppe LOmbardo e alla conferenza stampa parteciparono i Procuratori Giuseppe Pignatone e Piero Grasso) e addirittura la persona che poteva fornire queste notizie era la stessa che sapeva perfettamente chi era Giulio Lampada. Questo particolare lo seppi quando conobbi poi Gattuso, nel marzo del 2010». Minasi ha spiegato anche che Gattuso, socio dei Lampada in varie attività, a sua volta, assumeva le informazioni da un colonnello del Ros amico del padre. «Il fatto che l’informatore che qui si ritiene essere Gattuso apprendesse notizie da quella fonte privilegiata – scrive il Gip – è sicuro ed emerge da fonti del tutto genuine quali la conversazione ambientale del 17 marzo all’interno dello studio Minasi». Nell’intercettazione tra Minasi, Francesco Lampada e Leonardo Valle, l’avvocato Minasi, riferendociòchegli èstatodettodaGiulio Lampada, dice agli altri che un Sopra il consigliere regionale Franco Morelli e accanto Ilda Boccassini e il capo della Mobile Giuliani REGGIO CALABRIA - «Avevano mente immobili a Palermo, Fertrovato una vera e propria galli- mignano (Pesaro-Urbino), Pana dalla uova d’oro. Tutti e tre si derno Dugnano (Milano) Bovidimostrano permeabili rispetto sio Masciago (Monza) e Martina a gravi fatti di corruzione». E’ Franca (Taranto). Immobili acpesantissimo il giudizio che il quistati con i soldi della corruGiudice per le indagini prelimi- zione. Secondo le carte dell’innari di Milano esprime sul com- chiesta gli “infedeli” avevano un portamento dei tre finanziari fi- vero e proprio tariffario. I Lamniti in manette ieri mattina. Di- pada pagavano 500 euro per i vise sporcate dall’avidità di de- piccoli locali (in genere bar dove venivano installati 3 o 4 macchinaro. I tre infedeli, tutti in servizio al nette) e mille euro per gli esercizi Gruppo di Milano – Guardia di più grossi. Una giro che fruttava Finanza - e in carico al Nucleo cifre imponenti che poi i finanOperativo, che lavora nel settore zieri si spartivano tra di loro. Il racconto di come avvenivadel monopolio statale, sono Michele Di Dio di 34 anni, Michele no i fatti sono stati raccontati da Noto di 39, e Luciano Russo di 36 Giulio Lampada direttamente al anni. Personaggi che avevano procuratore aggiunto Ilda Bocmesso in piedi una vera e propria cassini nel corso di uno degli inorganizzazione in grado di ri- terrogatori a cui è stato sottoposto. L’imprenditore in odore di scuotere mazzette consistenti. I tre finanzieri arrestati mafia ha spiegato che dopo una nell’ambito dell’inchiesta sulla serie di controlli e sequestri da ’ndrangheta a Milano condotta parte dalla Guardia di Finanza, dal procuratore aggiunto Ilda fu uno dei finanzieri a farsi Boccassini e dai Pm Alessandro avanti per offrirgli la “collaboraDolci e Paolo Storari, secondo il zione” della squadra affinchè Gip Giuseppe Gennari erano «a non ci fossero più problemi del genere. Certo, si libro paga» dei trattava di una clan e «stabilcollaborazione mente retribuiche sarebbe coti» per compiere stata un pò, ma atti «contrari ai che gli avrebbe doveri d’ufficio» garantito pratie violare «il secamente il mogreto e comunnopolio del settoque il dovere di re. Niente più riservatezza». controlli e niente Per questo hanpiù grattacapo no ricevuto in un con le divise delanno e mezzo tra la guardia di fiil 2008 e il dicemnanza. Così efbre 2009 «somfettivamente era me di denaro stato. oscillanti da un Lampada ha minimo di 40 miraccontato anla a un massimo che come avvenidi 60 mila euro Un agente delle Fiamme gialle vano i pagamenmensili (per un totale non inferiore a 720mila ti. Rigorosamente in contanti. euro)». In cambio i tre uomini Una volta al mese Giulio Lampadella Gdf avrebbero evitato di da o il fratello, si recavano a casa «sottoporre a controllo» alcune di uno dei finanzieri a lasciare il società di giochi ed «esercizi loro obolo. Che poi tanto obolo commerciali dove erano instal- non era, visto che si trattava di late le slot machine di queste ul- 40-60 mila euro al mese. Valigette piene di soldi, quasi time, nonostante fosse loro noto che le slot machine erano scolle- sempre imbottite di banconote di gate alla rete dei Monopoli di Sta- piccolo taglio, 5, 10, 20 e 50 euro. to in modo da non far risultare Mai tagli grossi. I soldi, ha analcun guadagno rilevante a fini che spiegato Lampada ai pm di fiscali». In molti casi avrebbero Milano, venivano dai fondi neri avvertito Giulio e Francesco che si creavano grazie al fatto Lampada che le società erano che le macchinette non erano «prossime a subire controlli nei collegati ai monopoli di Stato. In bar ove erano installate le slot fondo a pensarci bene il clan machine, in modo da consentire guadagna soltanto qualcosa in ai titolari del business di colle- meno rispetto ad un giro che era garle alla rete dei Monopoli e co- milionario ed esentasse. E c’era sì dar luogo a controlli di carat- da guadagnare per tutti. Per la tere negativo». Infine i tre, che ‘ndrangheta che si riempiva la lavoravano nella stessa “squa- pancia di contante da reinvestidra”, avrebbero informato i clan re in attività pulite. E per i finandelle indagini avviate dalla Que- zieri che s’erano venduta la divistura di Milano. Ai finanzieri so- sa per un extra consistente. no stati sequestrati preventivag. bal. 8 Primo piano Sabato 28 gennaio 2012 Primo piano 9 Sabato 28 gennaio 2012 Loiero esterrefatto: «Sono vittima dello scontro tra due Procure» “Why not” «Stupito per la condanna» La Corte d’appello cancella l’assoluzione Reato prescritto per Chiaravalloti Felice Enza Bruno Bossio: «È la fine di un incubo» Loiero, un anno di reclusione di TERESA ALOI Giuseppe Chiaravalloti ha annullato sei proscioglimenti di altrettanti indagati scagionati dal giudice Abigail Mellace al termine dell’udienza preliminare. Infine, sono stati assolti Pietro Macrì e Vincenzo Morabito contestualmente al capo di imputazione - contestato ; - “non doversi procedere” nei confronti di Antonio Lachimia per prescrizione per uno specifico capo - la pena è stata scontata di un mese - mentre è stata confermata la sentenza di assoluzione di primo grado nei confronti di Gianfranco Luzzo, Tommaso Loiero, Franco Nicola Cumino, Pasquale Anastasi, Giuseppe Fragomeni ed Enza Bruno Bossio. Restano confermate le condanne di primo grado nei confronti di Francesco Saladino (4 mesi e 300 euro di multa) e Rinaldo Scopelliti (1 anno). E’ bastata dunque un’ora e un quarto di camera di consiglio per far vacillarela solidità della sentenza assolutoria emessa dal gup quando al termine del rito abbreviato emise 34 assoluzioni e 8 condanne pronunciando anche 27 rinvii giudizio (il dibattimento è tutt’oggi in corso) e 28 proscioglimenti per tutti coloro i quali non chiesero di essere giudicati con il rito abbreviato. L’ex governatore Agazio Loiero e l’allora segretario generale della giunta regionale Nicola Durante Il caso “Why not” vissuto tra colpi di scena e scontri tra pm Saladino da benefattore a condannato L’imprenditore lametino è l’imputato principale dell’inchiesta di PAOLO OROFINO CATANZARO – Antonio Saladino nel periodo in cui prende avvio l’inchiesta “Why not” era sotto scorta e considerato un benefattore, soprattutto nel lametino e nel catanzarese, dove aveva sviluppato la sua azione da capo di Compagnia delle Opere e da leader calabrese di Comunione e Liberazione. Assertore della legge Biagi sul lavoro interinale (da ciò le minacce che gli fecero assegnare la scorta di protezione), l’imprenditore che era partito, anni prima, con la produzione e vendita di caramelle, forma il consorzio di società Brutum. L’attività di tale consorzio ben presto, però, finisce sotto i riflettori della magistratura inquirente, per via dell’ingente accaparramento di fondi pubblici e comunitari da parte di società, secondo gli investigatori, da lui dirette o di fatto controllate. Commesse, appalti, assunzioni a progetto o a tempo determinato nell’ambito del consorzio Brutium finiscono sott’inchiesta. Conseguentemente comincia l’indagine su Antonio Saladino. Indagine che nel giro di poco più di un anno contribuirà alla caduta del secondo governo Prodi. Tutti si rivolgevano a Saladino: i politici per avere consensi elettorali ed i disoccupati per aver un posto di lavoro. Il consolidarsi ed il ripetersi di certi meccanismi, però, ha portato l’allora pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, ad aprire un maxifascicolo con una lunga serie di reati contesati a politici, | LE REAZIONI | La Procura: «Confermato l’impianto accusatorio» IL VERDETTO Gianfranco Luzzo Agazio Loiero Nicola Durante Tommaso Loiero Giuseppe Chiaravalloti Franco Nicola Cumino Pasquale Anastasi Giuseppe Fragomeni Enza Bruno Bossio Antonio Saladino Giuseppe Antonio Lillo Pietro Macrì Antonio Lachimia Vincenzo Gianluca Morabito Francesco Saladino Rinaldo Scopelliti 1° GRADO assolto assolto assolto assolto assolto assolto assolto assolto assolto 2 anni 1 anno e 10 mesi 9 mesi e 900 euro di multa 1 anno e 10 mesi 6 mesi e 600 euro di multa 4 mesi e 300 euro 1 anno RICHIESTE APPELLO 1anno e 4 mesi 1 anno 1 anno e 2 mesi 8 mesi 1 anno e 6 mesi 8 mesi 10 mesi 6 mesi 1 anno e 4 mesi 4 anni e 2 mesi 2 anni, 1 mese e 10 giorni 1 anno e 3 mesi conferma conferma conferma conferma SENTENZA APPELLO assolto 1 anno 1 anno assolto assolto assolto assolto assolto assolto 3 anni e 10 mesi 2 anni assolto 1 anno e 9 mesi assolto 4 mesi 300 euro 1 anno I procuratori Eugenio Facciolla e Massimo Lia imprenditori, faccendieri, generali della Guardia di Finanza e a componenti dei servizi segreti. Nella composizione dell’accusa de Magistris, fu aiutato dal consulente informatico Gioacchino Genchi e soprattutto dalla rivelazioni di Caterina Merante, che per diversi anni era stata una collaboratrice di Saladino. Si ipotizzò così che poteva esserci un collegamento illecito fra l’appoggio elettorale di Saladino, in grado di spostare migliaia di voti, e l’affidamento di alcuni appalti e commesse a società riconducibili al capo di Compagnia delle Opere. Il 18 giugno del 2007 il caso diventa pubblico, con una serie di perquisizioni. Un mese dopo, il clamore sull’inchiesta diventa nazionale con la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del premier Romano Prodi. Sullo sfondo prendeva corpo l’ipotesi (poi archiviata) di una loggia massonica deviata, detta “loggia San Marino”. Ad ottobre dello stesso anno, c’è una nuova svolta: dopo il presidente del Consiglio, finisce fra gli indagati, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella. Quest’ultimo aveva disposto l’invio degli ispettori ministeriali alla procura di Catanzaro, proprio per compiere accertamenti sull’operato di de Magistris. Il contestuale coinvolgimento di Mastella nella vicenda giudiziaria, ha determinato il provvedimento di avocazione del fascicolo da parte della procura generale di Catanzaro, che toglieva l’inchiesta al pm che l’aveva avviata, motivando che poteva esserci un nesso fra l’iscrizione di Mastella e l’invio degli ispettori a Catanzaro. A de Magistris, subentrava un pool di magistrati. Ma i problemi nella conduzione del procedimento penale non finirono con l’estromissione di de Magistris. Tant’è che a distanza un anno e mezzo, contrasti insorti fra le toghe del pool, causarono l’allontanamento dalle indagini del pm crotonese Pierpaolo Bruni. Nel dicembre del 2008, pochi giorni dopo l’incredibile scontro con la procura di Salerno, si arriva alla chiusura delle indagini preliminari, con oltre cento indagati, compresi quelli provenienti dal filone investigativo aperto dalla procura di Paola, confluito nel maxifascicolo. Poi c’è stata l’udienza preliminare, sempre fra polemiche e colpi di scena, con rinvii a giudizio, una sfilza di proscioglimenti e assoluzioni, e solo otto condanne al termine del rito abbreviato. Sentenza ieri riformata dai giudici d’Appello. CATANZARO - Una stretta di mano in aula subito dopo la lettura del dispositivo di sentenza emesso intorno alle 15,40 - l’udienza era iniziata in perfetto orario alle 11,30 - suggella il successo ottenuto della Procura generale rappresentata dai sostituti procuratori Eugenio Facciolla e Massimo Lia nel giudizio d’appello dell’inchiesta “Why not”. Del resto a marzo 2010, avevano preannunciato - una volta lette le motivazioni della sentenza di primo grado - il ricorso in appello per ottenere il riconoscimento dell’accusa di associazione per delinquere. «Siamo pienamente sod- Enza Bruno Bossio sentenza. Sarebbe poco serio». Esce da un incubo come lei stesse lo definisce, Enza Bruno Bossio, coinvolta nella sua qualità di amministratore delegato della Cm Sistemi sud, assolta anche in secondo grado. «Un incubo – dice – che aveva provato a distruggere la mia vita e quella dei miei figli. Al quale ho resistito con la consapevolezza di non aver fatto mai nulla di illecito, e grazie all’affetto di moltissimi amici. Non mi sono mai sottratta ai processi in tribunale, anche se vivevo fino in fondo l’ingiustizia morale e materiale di quello che mi stava accadendo. Nonostante tutto ho avuto fiducia nel compimento dell’azione della magistratura, soprattutto di quella giudicante. Anche perchè non mi sento di essere innocente perchè assolta, ma assolta perchè innocente. Dunque esiste il merito dei processi che si svolgono nelle aule dei tribunali, chesono altracosa deiprocessi mediatici che condannano le persone sulla piazza prima ancora di essere giudicate da chi è preposto a questo compito». «Per ora –conclude Bruno Bossio –mi godo con serenità questo momento. Ci sarà tempo e luogo perriflettere su questa ter- disfatti per la sentenza emessa dai giudici della Corte d’appello perchè è stato confermato l’impianto accusatorio». hanno spiegato i due sostituti procuratori generali uscendo dall’ala al primo piano del vecchio palazzo di giustizia. «C'è soddisfazione – ha aggiunto Massimo Lia – anche perchè è stato riconosciuto il reato associativo per alcuni degli imputati, così come avevamo chiesto nel nostro appello. I giudici hanno aggiunto altre condanne a quelle di primo grado e questo riteniamo che dimostri come la tesi dell’accusa è stata sostanzialmente accolta». t. a. | LA SENTENZA ribile vicenda che ancor prima che sul piano personale ha determinato conseguenze devastanti per la vita di tanti lavoratori ed imprese calabresi». Le fanno eco i legali della donna, gli avvocati Ugo Celestino e Fabio Viglione, . «La Corte d’Appello di Catanzaro – affermano – ha confermato la pronuncia pienamente assolutoria già ottenuta dalla dottoressa Enza Bruno Bossio in primo grado. Ha trionfato la giustizia dei fatti e delle prove contro ipotesi accusatorie che, per quanto riferibili alla nostra assistita, si sono dimostrate assolutamente inconsistenti». Anche l’avvocato Francesco Scalzi, legale di Giuseppe Chiaravalloti ha espresso tutta la sua soddisfazione. «Già il presidente Chiaravalloti era stato assolto con la sentenzadel gup edavverso lastessa la Procuragenerale avevapropostoappello limitato a 3 dei plurimi gravi capi originariamente elevati. Ora la Corte ha confermato la assoluzione piena per due capi ed ha prosciolto anche per il terzo applicando la prescrizione. Tale limitazione nella formuladi un capo nonappare però condivisibile e si ritiene che sussistano i presupposti perché sia rettificata la formula con assoluzione piena». «Viva soddisfazione per l’esito del giudizio» è stata espressa dal difensore di Giuseppe Fragomeni, l’avvocato Nunzio Raimondi. «In particolare, mi preme evidenziare - spiega il legale - come, aldilà dei profili di merito rispetto ai quali la condottadel mioassistito èstata ritenutagià dal primo giudice assolutamente irreprensibile, la Corte di Appello abbia ritenutodiaccogliere unadelicataquestione di diritto relativa alla improponibilità dell’impugnazione del pm o del procuratore generale a seguito di assoluzione in primo grado quando prima della proposizione impugnazione il reato addebitato risulti prescritto». «Sono davvero lieto – conclude l’avvocato – che la totale estraneità ai fatti di Fragomeni sia stata confermata anche in appello e questo autentico galantuomo e professionista correttissimo sia uscito da una vicenda così pesante a testa alta». t. a. | Il peso della Corte di Cassazione CATANZARO – Sancita ufficialmente la sussistenza del reato di associazione per delinquere nel processo “Why not”. Sull’importante capitolo dell’impianto accusatorio la Corte d’Appello di Catanzato, ha ribaltato in toto la sentenza di primo grado del gup Abigail Mellace, che dai capi d’imputazione aveva cancellato il reato associativo, ritenendo che non vi fossero gli estremi per contestarlo. Del parere opposto, invece, sono stati i giudici di secondo grado. Antonio Saladino, imputato centrale dell’inchiesta, è stato condannato, oltre che il concorso in abuso d’ufficio, anche per il reato di associazione per delinquere, il che ha determinato per lui quasi il raddoppio della pena inflitta dal gup al termine del rito abbreviato, oggetto del processo d’appello: Saladino che il 2 marzo del 2010 era stato condannato a due anni di reclusione, per le sole accuse relative all’abuso d’ufficio, adesso si ritrova sulle spalle una pena di tre anni e dieci mesi. Per l’ex leader calabrese di Compagnia delle Opere, per effetto della riforma della prima sentenza, è stato anche revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena. Per il reato associativo, dopo la parziale assoluzione in primo grado, è stato condannato anche Giuseppe Lillo, braccio destro di Saladino nelle trame che hanno girato intorno al consorzio di società Brutium, finito sotto la lente degli inquirenti. Anche per quest’ultimo c’è stato un aggravio di pena, ieri fissata a due anni di reclusione. Sulla decisione dei giudici della Corte d’Appello ha pesato (ne sapremo di più dopo il deposito e la lettura delle motivazioni del verdetto) la recente sentenza della Cassazione, allegata al fascicolo processuale su richiesta della pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Eugenio Facciolla e Massimo Lia. La Corte di Cassazione, la scorsa estate, aveva accolto il ricorso della procura generale, avverso alcune dichiarazioni di non luogo a procedere per il reato associativo emesse dallo stesso gup, alla fine dell’udienza preliminare: l’istanza dei due magistrati requirenti veniva accolta dalla Cassazione, che addirittura nel “riconoscere” i presupposti per la contestazione del reato di associazione per delinquere, andava oltre i rilievi segnalati nell’istanza della procura generale. In otto punti la Corte di Cassazione ha chiarito le ragioni a supporto dell’accoglimento del ricorso dei sostituti procuratori generali. Soprattutto ha evidenziato che il giudice per l’udienza preliminare nella dichiarazione di non luogo a procedere aveva “offerto una motivazione contraddittoria e incompleta in ordine alle ragioni poste a fondamento del proscioglimento degli imputati”. Inoltre i supremi giudici, sempre in riferimento al provvedimento del gup, hanno osservato senza mezzi termini che “il ragionamen- to con cui la sentenza nega l’esistenza stessa dell’associazione per delinquere, non regge da un punto di vista logico”. Di riflesso queste conclusioni inerenti l’udienza preliminare e l’ipotesi del reato associativo, si sono inevitabilmente riverberate sulle assoluzioni del rito abbreviato, sostanzialmente spiegate dal gup con le stesse motivazioni dei proscioglimenti. All’apertura del processo d’appello, infatti, il primo passo compiuto dalla procura generale è stato proprio quello di chiedere l’acquisizione della suddetta pronuncia della Cassazione. Richiesta immediatamente accolta dalla Corte composta dai giudici Francesca Marrazzo, Gianfranco Grillone e Vincenzo Galati. La Cassazione, per di più, aveva censurato i proscioglimenti anche su un’altra importante questione, vale sui giudizi circa l’attendibilità della superteste del caso Why Not, Caterina Merante. Attendibilità che il gup ha “aprioristicamente e illogicamente” sminuito, come hanno sottolineato i giudici della Cassazione e come ha ribadito ieri la procura generale nel corso della replica alle arringhe degli avvocati difensori, che in più occasioni hanno cercato, invano, di indebolire la posizione della supertestimone, le cui dichiarazioni “riscontrate” ha affermato il pg Facciolla, continuano a rimanere uno dei capisaldi del pubblica accusa. p. o. Riconosciuta l’esistenza del sodalizio E' vietata la riproduzione, la traduzione, l'adattamento totale o parziale di questo giornale, dei suoi articoli o di parte di essi con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro Soddisfatte le altre difese che hanno incassato la conferma dell’assoluzione Rispetto al primo grado Saladino e Lillo riconosciuti colpevoli anche per il reato di associazione per delinquere CATANZARO – E’ l’ex governatore della Regione Calabria Agazio Loiero ad accusare il colpo maggiore nel processo d’appello a carico di 16 imputati coinvolti nell’inchiesta “Why not” su presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria. Assolto, a marzo 2010, in primo grado con il rito abbreviato “per non aver commesso il fatto” e “perché il fatto non costituisce reato” in relazione a due distinte ipotesi di accusa relative ai progetti finanziati dalla Regione l’ex presidente della Regione Calabria dal 2005 al 2010, ieri è stato condannato dai giudici della Corte d’appello presieduta da Francesca Marrazzo (a latere Gianfranco Grillone e Vincenzo Galati) ad un anno di reclusione - pena sospesa e non menzione nel certificato del casellario giudiziario per il reato di abuso d’ufficio relativo alla vicenda “Censimento Patrimonio immobiliare” così come aveva sollecitato la Procura generale rappresentata dai sostituti procuratori Eugenio Facciolla e Massima Lia. Stessa pena e stesso reato anche per Nicola Durante, nella sua qualità di segretario generale della Giunta Loiero, oggi segretario generale del Consiglio regionale. Ad entrambi i giudici hanno applicato la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici L’accusa aveva chiesto la condanna a 1 anno e 2 mesi di reclusione). “Non doversi procedere per intervenuta prescrizione”, è stata sentenziata nei confronti dell’ex presidente della Regione, Giuseppe Chiaravalloti, dal 2000 al 2005 per il quale la Procura aveva chiesto una condanna a 1 anno e 6 mesi di reclusione. Aggravio della posizione, poi, per Antonio Saladino, l’imprenditore di Lamezia Terme, ex leader della “Compagnia delle opere” in Calabria, e per Giuseppe Antonio Maria Lillo ai quali i giudici di secondo grado hanno riconosciuto il reato di associazione per delinquere di cui il giudice per le udienze preliminari Abigail Mellace aveva escluso l’esistenza. La Corte ha inflitto a Saladino – per il quale sono state escluse le attenuanti generiche – una condanna a 3 anni e 10 mesi di reclusione, l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale per la durata della pena, revocandogli il beneficio della sospensione condizionale, ed a Lillo una condanna a 2 anni. La Procura generale, dunque, ha così ottenuto ragione a proposito dell’ipotizzata associazione per delinquere dopo aver sostenuto con determinazione la fondatezza dell’accusa che descrive un presunto accordo criminale tra soggetti privati i quali si sarebbero avvalsi di volta in voltadi appoggiall’interno dellaRegione Calabria. Lo aveva fatto nel proporre appello e lo ha rifatto ieri, in aula, nel corso dell’udienza dedicata alle repliche ancor prima della sentenza. Una tesi accusatoria confortata anche dalla pronuncia con cui la Corte di Cassazione, lo scorso 20 luglio, come richiesto dalla Procura CATANZARO -«Davanti a questa sentenza sono davvero esterrefatto». A quasi due anni dalla sentenza di primo grado la delusione di Agazio Loiero ex presidente della Giunta regionale, oggi coordinatore nazionale della Federazione tra Mpa ed Autonomia e Diritti, traspare in tutta la sua drammaticità. A marzo 2010. la termine dela sentenza che lo aveva visto assolto, aveva parlato della fine di un calvario fatto di difficoltà e sofferenze puntando il dito contro quel pubblico ministero divenuto un protagonista della vita politica del Paese. Il nome non lo aveva mai pronunciato ma il riferimento era chiaramente tutto per Luigi de Magistris. «Come sempre anche questa volta rispetto le decisioni della Magistratura - ha spiegato Agazio Loiero - Mi stupisce che oggi venga condannato per aver licenziato, con la mia Giunta di allora, una delibera in cui davo pienamente la libertà alla dirigenza di compiere un atto o di non compierlo. La verità è che siamo in presenza di un’inchiesta nella quale si è assistito ad uno scontro mai visto tra Procure: è stato perquisito un procuratore generale, altri magistrati hanno lasciato la Magistratura immediatamente dopo; alcuni magistrati sono stati trasferiti, altri destituiti, ed alcuni sono stati mandati a giudizio». «Mi chiedo prosegue Loiero - se alla fine un cittadino possa davvero sentirsi comunque appagato da un verdetto, specie se di condanna, o piuttosto non sia vittima di un contesto di scontro giudiziario che spaventa i cittadini inermi. Si pensi che io non ho voluto rendere neanche una dichiarazione spontanea perchè mi sembrava superflua. Sono certo di non aver compiuto nessun atto illegittimo. Davvero nessuno». Non hannonascosto illoro stuporeper il verdetto neppure i legali di Loiero, gli avvocati Nicola Cantafora e Marcello Gallo che hanno sottolineato «di ritenere e di aver ritenuto di avere ampia ragione su tutto il fronte accusatorio. Non possiamo dire nulla prima delle motivazioni della 24 ore Sabato 28 gennaio 2012 Crotone. L’uomo lascia il programma di protezione dopo essere scampato a un attentato Il pentito batte cassa allo Stato Luigi Bonaventura ha chiesto un risarcimento di 2,5 milioni di euro di GIACINTO CARVELLI CROTONE - Ancora sugli scudi il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, 40 anni di Crotone. Questa volta, ha annunciato la sua decisione di abbandonare il programma di protezione ed ha chiesto un risarcimento di 2.5 milioni di euro allo Stato. A renderlo noto il difensore di Bonaventura, l'avvocato Giulio Calabretta. In una missiva inviata, nei giorni scorsi, al Ministero dell’Interno, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed al Servizio centrale di protezione, l’avvocato Cavarretta aveva formulato, per il suo assistito, la richiesta di uscire dal programma di protezione e di risarcimento avanzata da Bonaventura. «Bonaventura – ha detto in merito Calabretta – ha deciso di uscire dal programma di protezione ma di continuare a collaborare con la giustizia. La decisione è maturata dopo che nelle settimane scorse il mio assistito è scampato ad un attentato che era stato organizzato da emissari della 'ndrangheta che si erano finti amici di Bonaventura e che avevano manifestato l'in- Luigi Bonaventura tenzione di volerlo aiutare ad integrarsi nella città dove viveva sotto copertura». Per il legale, «questa vicenda ha particolarmente scosso Bonaventura il quale ora vuole abbandonare il programma di protezione perchè non si sente più sicuro». «Se non ci saranno risposte – ha concluso Calabretta – ovviamente procederemo con una causa civile davanti al tribunale di Roma». E dell’episodio del tentato approccio di esponenti della ‘ndrangheta nella località segreta in cui si trova, Bonaventura aveva parlato in una intervista rilasciata al Quotidiano lo scorso 18 gennaio. In particolare, Bonaventura ha raccontato che «a Campobasso opera un mandamento invisibile della ‘ndrangheta», gestito da «finti pentiti che fanno tutto quel che vogliono». Il pentito, poi, disse di essere stato avvicinato «da personaggi di una cosca del Crotonese e da un finto pentito. Volevano condurmi in un luogo ma era una manovra. C’era un piano ben organizzato. Conoscevano in qualsiasi momento i miei spostamenti. Così come Leo Russelli sapeva quello che via via dichiarava il pentito Marino». Nell’occasione denunciò anche l’esistenza di una talpa nel sistema. «C’è una consorteria criminale operante a Termoli - ha detto Bonaventura - la cui “mamma”, come dicono nel gergo mafioso, è a Reggio. Ferrazzo le armi le aveva custodite nel garage della moglie di un poliziotto addetto alla mia scorta. E’ un fatto riscontrabile, le deduzioni le lasciamo ad altri». Nel corso del processo Tramontana, lo stesso Bonaventura ha parlato di analogie con la vicenda di Lea Garofalo. «Lei - ha detto il collaboratore di giustizia - era della provincia di Crotone come me. Il fratello Floriano, dal quale ci rifornivamo di stupefacenti, era detenuto insieme a me. Faceva parte della batteria di Luca Megna. Si trovava a Campobasso quando cercarono di rapirla, e anche lei era nel programma di protezione». Bonaventura ha deposto nell’udienza dello scorso 26 gennaio rispondendo alle domande del pm Antimafia Pierpaolo Bruni nel corso di un’udienza del processo Icaro, contro la cosca Nicoscia di Isola Capo Rizzuto. Banche e usura Al processo per l’omicidio di Lea Garofalo Associazioni parte civile al fianco di De Masi Denise punta ancora il dito contro il padre e gli zii PALMI - Nino De Masi non è solo nella sua avventura contro le banche. Al suo fianco si costituiscono parte civile l'associazione “Codici” ed il “Forum delle Associazioni Antiusura”. Si apre una nuova pagina, quindi, nel processo sui presunti tassi di usura applicati da alcuni istituti bancari italiani. «Siamo soddisfatti - ha commentato in un comunicato stampa il coordinatore provinciale di “Codici” Giuseppe Salamone -». «Per noi è una data importante - ha aggiunto l'avvocato di “Codici” Maria Grazia Morano - che segna la nostra forte presenza sul territorio provinciale contro l'illegalità. Andremo avanti in questa battaglia al fianco delle vittime in un territorio fortemente vessato dal fenomeno dell'usura». Soddisfatto anche il responsabile dell'ufficio legale dell'associazione, Carmine Laurenzano. «Stiamo avviando azioni sul territorio nazionale per verificare procedimenti penali aventi ad oggetto l'usura bancaria solitamente e inopinatamente archiviati per mancanza dell'elemento soggettivo del reato. “Codici” si andrà a costituire in tutti i processi di usura bancaria perché è nostro obbiettivo dimostrare che esiste all'interno delle direzioni centrali di vari istituti bancari un vero e proprio disegno di addebiti e di applicazioni di interessi a carico degli utenti ben oltre i limiti di legge». fra. pap. CROTONE - E’ stata sentita anche Denise, ieri, nell’udienza davanti alla Corte d'Assise di Milano dove è ripartito, in seguito alla nomina di un nuovo presidente, il processo per l'omicidio della madre, Lea Garofalo. La difesa, insieme al pm, ha rinunciato all’esame della teste chiave di questo processo, richiedendo l’acquisizione di quanto la giovane aveva già dichiarato nel precedente processo. A Denise sono state rivolte solo alcune domande specifiche per chiarire alcune circostanze su episodi specifici. In particolare, le è stato chiesto dell’incontro con una persona avuto durante il viaggio in treno a Firenze ed i rapporti che aveva con la madre. Denise era già stata sentita lo scorso 29 settembre, e nell’occasione aveva detto di sapere che il padre, Carlo Cosco, e gli zii c’entravano con l’omicidio. Nella sua de- Lea Garofalo posizione, poi, la diciannovenne ha ribadito che sin dal primo momento della scomparsa della madre, l'ex testimone di giustizia Lea Garofalo, svanita nel nulla nel novembre 2009 e probabilmente uccisa e sciolta nell'acido, sospettava della colpevolezza del padre e degli zii. Denise, che si è costituita parte civile nel processo per l'omicidio della madre, vive in una località segreta, sottoposta a un programma di protezione. Ad interrogarla, allora, fu il pm Marcello Tatangelo, Denise al quale ha raccontato la storia. In un passaggio della sua deposizione, poi, Denise aveva detto di aver «passato un anno con mio padre e i suoi fratelli, pur sapendo che avevano fatto sparire mia madre. Ho fatto finta di niente, lavorato nella loro pizzeria, mangiato con loro, giocato coi loro bambini». Nell’udienza di ieri poi, è stato sentito anche il maresciallo Persovic, colui che raccolse la denuncia di Denise ed avviò gli accertamenti del caso. Verrà risentito, perchè deve ancora dare delle risposte in merito ad alcune circostanze. Inoltre, è stato sentito un altro teste, vale a dire, Pasquale Amodio Buttarelli, l’intermediario a cui si rivolse Vito Cosco per trovare una casa per la sua famiglia. La prossima udienza è fissata al 31 gennaio. gia. car. Franco Corbelli al fianco della giovane accusata del delitto dei suoi bimbi REGGIO CALABRIA Pedopornografia Assicuratore finisce nella rete macchine fotografiche e di GIOVANNI VERDUCI migliaia di supporti inforREGGIO CALABRIA - C'è matici: dalle meticolose anche un giovane reggino analisi dei file illeciti acfra le sei persone tratte in quisiti, la Postale spera di arresto dalla polizia Posta- risalire a quei particolari le di Palermo nell'ambito che possano condurre all'idell'inchiesta “Fabuli- dentificazione fisica dei nus”: un blitz contro la pe- minori coinvolti e abusati. Il procuratore aggiunto dopornografia on line che ha coinvolto diverse regio- di Caltanissetta, Domenico Gozzo, nel corso di una ni della penisola. In manette nella città conferenza stampa in questura a Palerdello Stretto è mo, ha spiegafinito L.M., asto: «Sono state sicuratore di arrestate solo 47 anni. Insiequelle persone me a lui sono che vivevano state tratte in da sole o avevaarresto altre no un utilizzo cinque persoesclusivo del ne: si tratta di telefono e che un programin casa, già matore infordalla prima matico di Bari, perquisizione, un elettricista risultavano in della provinpossesso di cia di Agrigento e in partico- Un agente della Postale una ingente quantità di lare di Campomateriale di bello di Licata natura pedo(che aveva anpornografica. che un ingente Altrimenti saquantitativo rebbe stata di droga e una un'operazione piantagione di più imponenmarijuana), te. Comunque un dipendente le indagini di un'impresa proseguirandi pulizie di no e saranno Roma, un milicondotte dalla tare di Roma e un pensionato di Napoli, procure di competenza. mentre la polizia ha spicca- Non escludo che ci saranto ben 31 denunce ed effet- no altre persone interessatuato oltre trenta perquisi- te da provvedimenti perzioni. Con la supervisione chè si tratta di un fenomedella Postale di Roma, poi, no molto vasto, noi abbiasono stati effettuati dei mo toccato solo la punta. controlli in Calabria, Cam- Gli arrestati sono tutti delpania, Emilia Romagna, la media borghesia, quasi Friuli Venezia Giulia, La- tutti celibi, in molti casi vizio, Liguria, Lombardia, vono con i genitori». L'età dei bambini colpiti Marche, Piemonte, Sicilia, è compresa tra i 2 e i 10 anToscana, Veneto e Puglia. Dopo un anno e mezzo di ni, di entrambi i sessi, spesindagini, gli specialisti so incapucciati e obbligati della Postale hanno indivi- ad avere rapporti con adulduato una rete di persone ti. L'indagine - partita proche, tramite il network “eDonkey”e il programma prio da Caltanissetta - è emule diffondevano e sca- scaturita dalla segnalazioricavano materiale pedo- ne di un agente di polizia pornografico consistente che nel tentativo di scaricain raccapriccianti video e re un video sulla pesca alla immagini a carattere ses- trote utilizzando un norsuale di bambini in tenera male programma di file età. Sono stati rinvenuti e shering ha poi scoperto di sequestrati, poi, compu- aver trovato un file pedoter, cellulari, videocamere, pornografico. L’inchiesta “Fabulinus” parte da Palermo Dura posizione della segretaria regionale Mimma Iannello Sarà decisa oggi a Cosenza la sorte Morti in corsia, la Cgil reclama della rumena Alexandrina Natalina Lacatus l’intervento del ministro Balduzzi COSENZA - Sarà il giudice del Tribunale di sorveglianza, Sergio Caliò (lo stesso che si occupò del caso di Kate Omoregbe, la ragazza nigeriana che se espulsa dall’Italia rischiava la lapidazione nel suo paese), a decidere sul destino della giovane rumena Alexandrina Natalina Lacatus, 24 anni, agli arresti domiciliari in Calabria dal 31 maggio 2011, dopo il rigetto, con due diverse sentenze della Corte di Appello di Catanzaro, della richiesta di estradizione avanzata dal suo Paese, la Romania, che l’aveva condannata a tre anni di reclusione per omicidio corso, per la morte dei suoi tre bambini, Diana, Sebastian eNicoletta, di tre, due e un anno, avvenuta, il 28 dicembre 2008, durante un incendio sviluppatosi per cause accidentali, nell’abitazione del suo piccolo paese nel Nord della Romania. Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, che da 9 mesi sta ininterrottamente lottando per aiutare questa povera e sfortunata ragazza rumena, rivolge oggi un appello al giudice di sorveglianza del Tribunale di Cosenza, Caliò, al quale chiede di concedere l’affidamento ai servizi alla giovane Alexandrina arrestata il 26 aprile 2011 dai carabinieri di Corigliano e rimasta nel carcere di Castrovillari sino al 31 maggio dello scorso anno (quando è stata, dalla Corte di Appello di Catanzaro, respinta la richiesta di estradizione, concessa la scarcerazione e disposti i domiciliari in Calabria, dove la ragazza si trovava dopo aver raggiunto un suo fratello. CATANZARO - «Uno stillicidio di giovani vite che la Calabria non può tollerare. La morte della piccola Singh Gursewale di soli 4 mesi presso l’ospedale Morelli di Reggio Calabria segue di pochi giorni alla morte di Gessica Rita Spina di Crotone. È un quadro sanitario allarmante che rischia di pregiudicare il già labile livello di fiducia dei cittadini verso il sistema sanitario regionale». Lo afferma la Cgil Calabria, in una nota a firma della segretaria regionale Mimma Iannello. «Siamo consapevoli – aggiunge – che la sanità calabrese ha al suo interno indiscutibili competenze professionali che lavorano con grande abnegazione e spesso in condizioni limite. Tuttavia, i casi di presunta malasanità fin qui registrati offrono lo spaccato complessivo di una sanità con vistose criticità sul piano dell’organizzazione, della funzionalità e della qualità dei servizi. L’azione del Piano di rientro anzichè ridurre le criticità le sta accentuando. È scaduto il tempo della propaganda. Insieme all’azione ispettiva delle diverse commissioni d’indagine che faranno il loro corso insieme all’azione delle tante Procure coinvolte, la Cgil chiede la presenza diretta del Ministro Balduzzi per accertare lo stato in cui versa la sanità regionale ed assumere decisioni e misure conseguenti allo stato di insicurezza e inappropiatezza in cui vengono erogati servizi essenziali». E' vietata la riproduzione, la traduzione, l'adattamento totale o parziale di questo giornale, dei suoi articoli o di parte di essi con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro 14 Calabria S. Marco Argentano. Nel mezzo rinvenuti psicofarmaci. Sul corpo non ci sono segni di violenza sessuale Giallo sulla morte di una donna Era stata trovata agonizzante e seminuda a pochi metri dalla sua auto di FRANCESCO RENDE SAN MARCO ARGENTANO - Un casolare diroccato, un'auto con uno sportello aperto ed una vita spezzata in una notte di gelo invernale: è stato ritrovato in località Cumma di San Marco Argentano (Cs), nella mattinata di ieri, il corpo senza vita di Veronique Paffile, una donna di 41 anni di origini francesi (era nata a Villefranchesur-mere) residente a Bisignano e coniugata con un militare dell'Arma dei Carabinieri in servizio a San Marco Argentano. Ancora non vi è nessuna certezza sulle cause della morte: tante circostanze lasciano pensare ad un suicidio, ma alcuni elementi rendono il quadro indiziario ancora poco chiaro e difficile da sbrogliare, lasciando aperta anche la pista di una probabile morte violenta. Resta certamente in piedi l'ipotesi del suicidio tramite intossicazione da farmaci, a causa del ritrovamento delle sostanze all'interno dell'auto, ma tanto resta ancora da chiarire. I FATTI. Nelle prime ore del mattino, intorno alle 7.30, un uomo ha avvistato un'auto ferma con uno sportello aperto in località Cumma, ad un centinaio di metri dalla sede stradale principale, la ProvinVeronique Paffile ciale 94 che collega San Marco Argentano e Mongrassano, ed ha avvistato gli uomini della Polizia Municipale locale, intervenuti sul posto. Il primo pensiero, quello di un furto e di un ritrovamento d'auto, è stato subito scartato dai due agenti, che ad un centinaio di metri di distanza dall'auto hanno trovato il corpo agonizzante della donna, riverso per terra e quasi completamente svestito. Immediata la telefonata al presidio 118 della cittadina normanna ed al Comando dei Carabinieri, anche se ogni tentativo di soccorso è stato inutile. La donna è spirata subito dopo l'arrivo del personale medico ed il corpo, dopo i primi rilievi, è stato portato presso l'obitorio dell'ospedale “Pasteur” di San Marco Argentano, in attesa dell'autopsia che verrà effettuata presumibilmente nella giornata di lunedì. Sul posto sono intervenuti i carabinieri del Comando Provinciale di Cosenza, coordinati dai colonnelli Ferace e Franzese, che avranno il compito di portare avanti le indagini insieme al pubblico ministero di turno, il dottor Antonio Cestone della Procura della Repubblica di Cosenza. LA SCENA DEL CRIMINE. Dopo l'arrivo della scientifica ed i primi rilievi, sono iniziate le prime ricostruzioni sulla scena del crimine: l'auto, una Lancia Y color panna, era abbandonata di fronte ad un casolare diroccato, con lo sportello del lato passeggero completamente aperto ed i sedili abbassati. All'interno dell'auto, alcuni effetti personali della vittima, il cellulare La prima pista è quella che porta al suicidio Il sopralluogo degli investigatori sul luogo in cui è stata trovata la donna staccato chiuso nel vano portaoggetti e alcuni psicofarmaci: sarà compito dell'autopsia chiarire se ed in che quantità sono stati assunti e se possono essere la causa della morte, combinata al freddo gelido della notte. Il corpo della donna, però, è stato trovato a 150 metri circa dall'auto: circostanza strana, se si considera inoltre che il corpo era quasi completamente nudo, con i vestiti sparsi nel breve tragitto dall'auto al luogo del ritrovamento della donna. Il corpo, riverso a terra vicino ad una serie di rovi, presentava una serie di ferite sull'addome, sugli arti superiori ed inferiori e sul vi- so che dai primi rilievi potrebbero essere ritenute compatibili con una caduta sul luogo del delitto e con la vegetazione presente sul posto. Non vi sono segni di colluttazione e di una eventuale violenza sessuale, anche se la certezza si potrà avere solo dopo l'autopsia di lunedì. LA RICOSTRUZIONE. Gli uomini dell'Arma sono al lavoro per ricostruire gli ultimi movimenti della donna, che viveva a Bisignano con le due figlie adolescenti e che era proprietaria di una nota attività commerciale. Il rapporto con il marito, un esponente dell'Arma in servizio proprio a All inside. La donna fu oggetto di un tentato sequestro I dubbi dei genitori di Ilaria sul coinvolgimento di Pesce di DOMENICO GALATÀ PALMI - Il tentato sequestro di persona ai danni di Ilaria Latorre, ex moglie di Francesco Pesce, ('84) è stato il principale argomento trattato ieri mattina nell'ennesima udienza delprocesso All Inside che si sta celebrando nell'aula bunker del Tribunale di Palmi. Tra i testimoni citati dal Pm della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, doveva esserci proprio la Latorre, che però non è comparsa sul banco dei testimoni per motivi di salute (la ragazza, adesso risposatasi, è incinta e lamentava dolori alla schiena certificati da un medico), facendo slittare così a martedì prossimo la sua deposizione. Hanno ricostruito invece l'irruzione in casa Latorre del commando andato a prelevare l'ex moglie diPesce i genitori della ragazza, Cosimo Latorre e Maria Carmela Barbieri. Tribunale di Catanzaro L'episodio risale al febbraio del 2006, dopo che la ex moglie di Pesce aveva fatto ritorno a casa dei genitori lasciando il marito che, a detta dei due testimoni, la maltrattava e le impediva di uscire di casa. Due uomini con il volto coperto da una calzamaglia e da un berretto di lana, armati di pistola e fucile, si erano introdotti nell'abitazione dei Latorre alla ricerca di Ilaria. Quella sera, però, il caso ha voluto che la giovane fosse fuori casa insieme alla sorella e gli zii a vedere uno spettacolo teatrale. Un malvivente teneva sotto tiro i coniugi Latorre e una delle loro figlie, mentre l'altro si dava alla ricerca della ex moglie di Pesce all'interno dell'abitazione. I due testi in aula non hanno affermato di aver riconosciuto Francesco Pesce tra i componenti del commando, anche se nelle dichiarazioni fatte in sede di denuncia ai Carabinieri nel 2006 avevano lasciato spazio ad una somiglianza con Tribunale di Catanzaro Esec. Imm. n. 33/11 R.G.Espr. G.E. Dott.ssa Song Damiani Esec. Imm. n. 262/92+19/04+20/04 R.G.Espr. G.E. Dott.ssa Giovanna Gioia Lotto unico: in Soverato (CZ), via E. Galvaligi n. 12 (già seconda traversa via Trento e Trieste s.n.c.), appartamento con annesso terrazzo, in catasto categoria A/3, consistenza vani 6, meglio descritto nella relazione di stima in atti anche con riferimento alla conformità degli impianti e alla situazione energetica. Beni siti in Petrizzi (CZ) e precisamente: Lotto uno: capannone artigianale di mq 323. Lotto due: C.so Umberto n. 93, magazzino. I beni sono meglio descritti nella relazione di stima in atti. Prezzo base Euro 237.600,00 con offerte minime in aumento in caso di gara Euro 2.000,00. Vendita senza incanto 7.03.2012 ore 10.00 presso il Tribunale di Catanzaro. Termine presentazione offerte entro le ore 12.00 del 6.03.2012 presso la Cancelleria delle Esecuzioni Immobiliari del Tribunale di Catanzaro, unitamente al deposito cauzionale. Maggiori informazioni www.asteannunci.it. in Cancelleria, San Marco Argentano, viveva di alti e bassi, tanto che la coppia era tornata da poco a vivere insieme dopo un periodo di separazione (anche se gli inquirenti non escludono la presenza di rapporti extraconiugali da parte di entrambi, in particolare quello della donna terminato da poco). Una settimana fa la donna, che soffriva di crisi depressive, aveva già tentato il suicidio tramite l'abuso di psicofarmaci, ma un pronto intervento dei sanitari aveva scongiurato la morte. Nella giornata di giovedì, invece, accade qualcosa: la donna chiama un familiare e, sconvolta, gli annuncia che non si sarebbe più fatta vedere; a seguire una serie di telefonate e di incontri, attualmente al vaglio degli inquirenti, l'ultimo di questi pare proprio con il marito. A seguire l'allontanamento, ed infine il ritrovamento del corpo senza vita della mattinata di ieri. Il Nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri sta portando avanti una serie di interrogatori per cercare di ricostruire gli ultimi movimenti della donna, anche in base alle risultanze provenienti dalla sua utenza telefonica, per cercare di ricostruire le ultime ore della vittima. L'ipotesi più seguita al momento pare quella del suicidio, ma non è la sola: alcuni elementi non convincono, primo fra tutti la posizione del corpo trovato lontano dalla macchina e quasi completamente nudo. Inoltre, non si capisce come la donna abbia potuto raggiungere una località lontana dalla sua abitazione, dal suo paese di residenza e solitamente frequentata da coppie in cerca di intimità per appartarsi. Una serie di dubbi che dovranno essere dipanati subito, per un episodio che ha sconvolto le comunità di Bisignano e San Marco Argentano e che rischia di diventare un vero e proprio caso per le incongruenze che verranno chiarite nei prossimi giorni. sul sito Vendita senza incanto 14.03.2012 ore 9.30 presso il Tribunale di Catanzaro. Prezzi base: Lotto 1 Euro 27.468,28; Lotto 2 Euro 3.346,88. Offerte minime in aumento in caso di gara Euro 1.000,00 per il lotto 1 ed Euro 500,00 per il lotto 2. Termine presentazione offerte entro le ore 12.00 del giorno antecedente la vendita presso la Cancelleria Esecuzioni Immobiliari del Tribunale di Catanzaro. Maggiori informazioni in Cancelleria, sito internet www.asteannunci.it. l'ex genero pur senza fornire alcuna certezza a riguardo. La deposizione ha riguardato anche alcuni aspetti della vita coniugale tra Ilaria e l'ex marito e l'apertura di un'azienda di autotrasporti intestata alla donna. Ad un certo punto dell'udienza, il presidente del Tribunale, Concettina Epifanio, ha allontanato Pesce dall'aula in seguito ad alcuni suoi tentativi di intervenire durante la deposizione degli ex suoceri. Sul banco dei testimoni è salito anche un dipendente della gioielleria Gelanzé di Rosarno, nel 2006 oggetto di una rapina che, secondo l'ipotesi della Pubblica Accusa, sarebbe stata compiuta da Pesce ed altri imputati. Il processo è stato aggiornato al prossimo 31 gennaio. Francesco Pesce, ex marito di Ilaria Latorre, oggetto di un tentativo di sequestro E' vietata la riproduzione, la traduzione, l'adattamento totale o parziale di questo giornale, dei suoi articoli o di parte di essi con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro Calabria 15 24 ore Sabato 28 gennaio 2012 LA ‘NDRANGHETA ha un suo presidio in ogni comune della provincia di Reggio Calabria. Una presenza capillare, simile o forse migliore di quella dell’Arma dei carabinieri che, per statuto, possiede una caserma in ogni paese. Il dato che viene fuori dalla relazione della Commissione parlamentare antimafia, guidata dal presidente Giuseppe Pisanu, è disarmante e racconta di un radicamento storico che ha subito un’evoluzione rapida e concreta. La ‘ndrangheta ha cambiato forma ma non abbandona il territorio. «E’ stato stimato - si legge nella relazione discussa in commissione - che nella sola provincia di Reggio Calabria sono presenti circa 140 ‘ndrine ed è sufficiente osservare che in cittadine di 10.000 - 15.000 abitanti, vi siano circa 500 affiliati all’associazione mafiosa. Per quanto riguarda i metodi dell’agire mafioso, al fortissimo radicamento territoriale dell’associazione, va aggiunta la capacità dei capi storici di darsi alla latitanza per lunghissimi periodi di tempo». Boss in fuga, cosche in costante mutamento ma la capacità di fare affari si è evoluta e la ‘ndrangheta ha aumentato a dismisura il suo volume d’affari che, nel 2007, è stato stimato dall’Eurispes in oltre 43 miliardi di euro. La Commissione parlamentare antimafia è stata a Reggio Calabria il 16 e il 16 febbraio del 2010 a seguito di gravissimi episodi concernenti l'ordine pubblico, ed in particolare: i fatti di Rosarno; l'attentato dinamitardo alla Procura Generale della Repubblica; le minacce rivolte al sostituto procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo e il ritrovamento di un'autovettura carica di armi nel giorno della visita del Presidente della Repubblica, il 21 gennaio 2010. Tutti questi episodi sono stati riportati e analizzati nella relazione appena passata al vaglio della Commissione parlamentare antimafia. I fatti di Rosarno. Il 7 gennaio 2010 a Rosarno, comune di circa 15.000 abitanti in provincia di Reggio Calabria ad economia agricola, circa 1500 cittadini extracomunitari tra i quali il 70-80% in possesso di regolare permesso di soggiorno, tutti lavoratori dell'agricoltura impiegati nella raccolta degli agrumi ed ortaggi, erano ammassati in condizioni precarie all'interno di una vecchia fabbrica in disuso e in un'altra struttura abbandonata. I contributi europei, sino al 2008, venivano concessi alle famiglie degli agricoltori in base al raccolto ed alla produzione; successivamente, invece, sono stati parametrati all'estensione delle superfici con un forte calo del contributo, che è passato da 8.000 euro a 1.500 euro a famiglia per circa 1.500 famiglie, alle quali corrispondono 1.500 aziende. Questa riduzione dei contributi non ha reso possibile la raccolta del prodotto che è rimasto sulle piante, con la conseguenza che non è stato necessario assumere quei 1.500 lavoratori extracomunitari che in altri momenti dell'anno si spostavano in altre parti d'Italia per lavori simili. I disordini, dunque, devono essere ricondotti al contesto socioeconomico di quel territorio ove i singoli episodi di violenza sono stati circoscritti e l'arresto di alcuni esponenti della criminalità organizzata, che avrebbero partecipato ad episodi di pestaggio In provincia di Reggio sono presenti circa 140 ’ndrine Dietro disordini di Rosarno non c’erano le cosche Ecco la relazione della Commissione antimafia ’Ndrangheta imprenditrice che controlla il territorio di GIOVANNI VERDUCI di extracomunitari, non è da ricollegare all'attività delle cosche su quel territorio. Al momento della visita della Commissione non erano stati formulati dalla Procura della Repubblica di Palmi ipotesi di reati di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia per fatti concernenti il coinvolgimento della criminalità organizzata essendo, invece, in corso indagini dirette ad accertare ipotesi di sfruttamento del lavoro degli immigrati eventualmente anche con interferenze di carattere mafioso. L’azione di contrasto. Efficace ed incisiva è stata l'azione di contrasto delle Forze dell'ordine e della magistratura che solo in parte è riscontrata dall'aumento nel 2009, rispetto al 2007, sia delle richieste di misure cautelari (+ 51%), sia del numero dei procedimenti (+ 43,7%), sia da quelli definiti (+ 40%) e tutto ciò nonostante l'assenza di collaboratori di giustizia e di precedenti giudiziari, come nel cosiddetto “maxiprocesso alla mafia”, che consentano una ricostruzione storica ed unitaria del fenomeno criminale e i rapporti tra le varie cosche. L'azione di contrasto è stata diversificata nei confronti delle cosiddette “consorterie storiche”, della cosiddetta “zona grigia” con il perseguimento di esponenti delle istituzioni, della politica e dell'imprenditoria, anche con evidenti legami massonici, ed ancora con le attività criminose portate fuori dal territorio originario, come dimostra la strage di Duisburg, pianificata in territorio nazionale, portata in esecuzione in quello tedesco e con l'arresto dei responsabili in Olanda. Da osservare, infine, l'efficace aggressione ai patrimoni illeciti con il sequestro di beni confiscati che, per il solo 2009, è stato stimato in 600 milioni di euro. L'attentato dinamitardo alla Procura Generale. Il 3 gennaio 2010 una bomba, confezionata con una bombola di gas propano da dieci chili e polvere pirica applicata sul maniglione, veniva fatta esplodere davanti al portone d'ingresso del palazzo che ospita gli uffici della Procura Generale e del giudice di pace di Reggio Calabria. modus operandi della 'ndrangheta e si è verificato in un periodo temporale in cui l'azione repressiva nei confronti della criminalità organizzata è stata particolarmente intensa ed efficace, comportando uno stato di soffe- colare a Roma, nel settore turistico e della ristorazione, tanto della 'ndrangheta quanto della camorra. La 'ndrangheta, ad esempio, ha riciclato i suoi profitti illeciti, costituendo società fittizie nel settore della ristorazione in generale (gestione di bar, paninoteche, pasticcerie e ristoranti). Si pensi a questo proposito all'operazione che ha portato (nel luglio del 2009) al sequestro di beni per un valore stimato di circa 250 milioni di euro, tutti investiti in società con sede a Roma e attive nel settore della ristorazione di lusso: l'indagine della D.D.A. di Roma (alla quale ha fatto cenno il Procuratore Distrettuale della Repubblica di Reggio Calabria dott. Pignatone293 Cafè de Paris” di Via Veneto ed il ristorante “George's”. Le inchieste “Crimine”. Le 304 persone arrestate nel luglio 2010 e le 41 persone arrestate il 13 marzo 2011 in Italia e all'estero (delle quali 160 in Lombardia) rispondono a vario titolo dei reati di cui all'art. 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 del codice penale, per aver fatto parte della associazione mafiosa denominata 'ndrangheta, operante in Lombardia e in provincia di Reggio Calabria, del territorio nazionale ed estero costituito da molte decine di locali, articolate in tre mandamenti e con organo di vertice denominato provincia, associazione che si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, allo scopo di: Le due operazioni, denominate “Crimine”e“Crimine 2”, costituiscono in buona sostanza l'una la normale prose- «Il passaggio a mafia imprenditrice è avvenuto alla fine degli anni ’90. L'ultima manifestazione della ’ndrangheta tradizionale in Lombardia è rappresentata dal sequestro Sgarella» renza della controparte. L'episodio dell'intimidazione alla Procura Generale appariva nella prima ricostruzione verosimilmente collegata alla vicenda dell'assegnazione di un fascicolo processuale riguardante l'omicidio di una guardia giurata che aveva determinato molto clamore nell'opinione pubblica e che in sede di Appello richiedeva una articolata e complessa istruzione. L’espansione nel Lazio. È poi, ormai, comprovata l'espansione nel Lazio, ed in parti- Sopra il summit di ‘ndrangheta al circolo Arci di Milano e accanto il presidente Pisanu cuzione dell'altra: esse hanno permesso di delineare l'esistenza della organizzazione 'ndrangheta, avente base strategica nella Provincia di Reggio Calabria e con attive ramificazioni sia nel nord Italia - e in particolare in Lombardia - , sia all'estero, dove è stato replicato il modello organizzativo calabrese da parte di quelle articolazioni che risultano dipendenti dai vertici decisionali presenti in territorio reggino. L'operazione “Il Crimine” per prima ha permesso di delineare l'esistenza della organizzazione 'ndrangheta, avente base strategica nella Provincia di Reggio Calabria ed attive ramificazioni nel nord Italia ed all'estero. L'operazione ha offerto uno spaccato inedito della 'ndrangheta, evidenziando l'esistenza di organismi (provincia, mandamento e locali) di gradi (sgarrista, santista, vangelo) e di ruoli (“cariche”), che rivelano un assetto mafioso basato su una struttura unitaria gerarchicamente organizzata, in cui le decisioni vengono assunte dal vertice provinciale di Reggio Calabria, nel rispetto rigoroso di regole e procedure, lasciando tuttavia alle dipendenti organizzazione esterne ampi margini di autonomia nella gestione delle attività criminali nel territorio dove operano. Le principali attività. Le attività illecite sono riconducibili a tre filoni principali: narcotraffico; traffico di armi; condizionamento della vita economico imprenditoriale nel territorio di competenza: commettere delitti in materia di armi, esplosivi, munizionamenti, contro il patrimonio; la vita e l'incolumità personale, in particolare il commercio di stupefacenti, estorsioni, usura, furti, abusivo esercizio di attività finanziarie, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita in attività economiche, corruzioni, favoreggiamenti di latitanti, corruzione e coercizione elettorale, intestazione fittizia di beni, ricettazione, omicidi; - acquisire direttamente o indirettamente la gestione e il controllo di attività economiche, in particolare nel settore dell'edilizia, del movimento terra, della ristorazione; acquisire appalti pubblici e privati; ostacolare il libero esercizio del voto, procurare a sé o altri voti in occasione di competizioni elettorali, convogliando in tal modo le preferenze su candidati e loro vicini in cambio di future utilità; conseguire per sé o per altri vantaggi ingiusti, con le aggravanti di avere la disponibilità di armi per il conseguimento delle finalità della associazione e che le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. La magia imprenditrice. Il passaggio a questa forma di “mafia imprenditrice” è avvenuto alla fine degli anni Novanta; l'ultima manifestazione della'ndrangheta tradizionale in Lombardia è rappresentata dal sequestro di Alessandra Sgarella: ed in pieno sequestro le indagini degli inquirenti avevano già accertato che, nel 1998, gli affliliati alla 'ndrangheta lombarda (fra i quali uno dei sequestratori che pochi giorni prima aveva formulato la richiesta di riscatto alla famiglia Sgarella) si davano appuntamento presso gli “Orti di Bollate”, ancora oggi luogo di ritrovo delle 'ndrine del locale di Bollate. La stagione delle bombe per frenare l’azione repressiva Le inchieste il “Crimine” hanno segnato una svolta E' vietata la riproduzione, la traduzione, l'adattamento totale o parziale di questo giornale, dei suoi articoli o di parte di essi con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro Reggio 25 Sabato 28 gennaio 2012 Sabato 28 gennaio 2012 Il gup di Reggio Calabria Domenico Santoro ha fissato il rito ordinario per quindici imputati Imelda, arriva il rinvio a giudizio L’inchiesta portò alla luce un’organizzazione dedita al narcotraffico di CLAUDIO CORDOVA IL GUP di Reggio Calabria, Domenico Santoro, ha rinviato a giudizio i quindici imputati del procedimento “Imelda” che nelle scorse udienze avevano scelto di essere giudicati con il rito ordinario. Si tratta di Antonio e Michele Ascone, Umberto Bellocco, Gioacchino e Nicola Bonarrigo, Sergio Carretta, Antonio Costadura, Salvatore Giorgi, Aldo Nasso, Bruno Pisano, Bruno Pizzata, Sebastiano Rechichi, Antonio Romeo (classe 1957, attualmente latitante), State Stelian (di nazionalità rumena), Francesco Stilo. L’indagine “Imelda”, curata dal sostituto procuratore della Dda Maria Luisa Miranda, con il coordinamento del procuratore aggiunto Nicola Gratteri, sgominò un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico che poteva contare su diverse diramazioni in tutto il mondo. Una rete su cui, ovviamente, vi era la longa manus della ‘ndrangheta, da sempre regina del traffico internazionale di stupefacenti. Nel corso delle investigazioni, portate avanti dalla Guardia di Finanza con il fondamentale utilizzo delle intercettazioni telefoniche, furono sequestrate, in diversi tronconi, decine di chilogrammi di cocaina. La “polvere bianca” trattata dall’organizzazione era proveniente dal Sud America, ed era destinata in particolare al mercato milanese e viaggiava anche a bordo di camion carichi di materiale destinato alle case di moda. Il 17 maggio prossimo, al cospetto del Tribunale di Locri compariranno dunque una quindicina di soggetti, tra cui due degli imputati principali. Quel Bruno Pizzata, esponente della ‘ndrangheta di San Luca e broker internazionale in grado di rapportarsi con i trafficanti di droga di svariati paesi del mondo, e il rumeno State Stelian, considerato dagli inquirenti come l’uomo in grado di rapportarsi con i cartelli colombiani del traffico di droga. I due, dunque, avrebbero rivestito il ruolo di maggiore rilievo con Pizzata che avrebbe intrattenuto rapporti in Germania, essendo anche capace di spostarsi con facilità verso la vicina Olanda, nonché di trattare alla pari con i trafficanti sudamericani. Nell’indagine furono coinvolti presunti affiliati alle cosche della Locride, ma anche della Piana di Gioia Tauro. Il Gup Santoro hadunque rinviatoa giudizio quindici persone. Altri sedici, invece, hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato, che prevede, in caso di condanna, la riduzione di un terzo della pena: si tratta di Vincenzo e Rocco Ascone, Laurentiu Doru Avram (di nazionalità rumena), Pasquale Calderone, Domenico Codespoti, Giuseppe Fabrizio, Beniamino Marras, Carmine Murdaca, Vincenzo Perri, Giuseppe Pizzata, Giancarlo Polifroni, Filippo Rechichi, Antonio Romeo (classe 1970), Giuseppe Romeo, Francesco Strangio e Antonio Vottari. Per costoro, il pm Miranda effettuerà la requisitoria il prossimo 16 febbraio. Processo Meta Giardina racconta le ’ndrine di Fiumara La conferenza stampa dell’operazione “Imelda” INTERVIENE MASSIMO CANALE «Urbanistica, processo alla fine» «PARE che il processo penale nei confronti degli impiegati del settore urbanistica, accusati di avere illecitamente lucrato nell’esercizio delle proprie funzioni sia ormai giunto alle battute finali». A parlare è Massimo Canale. «Quel processo costituisce uno dei rari casi giudiziari che riguardano la gestione delComunedi ReggioCalabrianell’ultimo decennio e l’unico in cui gli imputati hanno trascorso diversi mesi in stato di detenzione, dapprima in carcere e, successivamente, agli arresti domiciliari. Intravedo il rischio che quattro geometri dell’urbanistica si possano ritenere le pecore nere del Comune; il “sistema” denunciato negli anni dal centrosinistra e oggi al vaglio dei magistrati reggini riguarda un numero certamente maggiore di personaggi». «Ancora - conclude - non mi sembra civicamente accettabile che a fronte di palesi comportamenti illeciti accertati da consulenze ufficiali di Ministero e Procura della Repubblica ci possa essere un giudizio sospeso nei confronti dei politici. Sono tra quelli che non credono alla logica del “poteva non sapere”, non me ne convincerà mai nessun Sindaco, ma questa, mi si dirà, è una considerazione politica». I vigili del fuoco domano un incendio scoppiato in contrada Boschicello Dalla Guardia costiera Struttura balneare Distrutto silos per la produzione del bergamotto. Aperta un’indagine sequestrata Vecchia fabbrica in fiamme LA VECCHIA fabbrica per la produzione del bergamotto di contrada Boschicello, improvvisamente, è tornata in vita. Ma lo ha fatto per morire ancora una volta. Ieri mattina, infatti, un incendio è improvvisamente scoppiato all’interno del sito industriale ormai abbandonatoed hafinito per distruggere uno dei vecchi silos di contrada Boschicello. Per domare le fiamme, scoppiate nella tarda mattinata di ieri, è stato necessario l'intervento di quattro squadre dei vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Reggio Calabria. Gli uomini del comando provinciale di via Sbarre Superiori si sono mossi con altrettanti automezzi e, dopo pochi minuti, sono giunti in contrada Boschicello per occuparsi dell’incendio. Appena giunti sul posto gli uomini del comandante provinciale Emanuele Franculli si sono accorti che l’incendio stava assumendo proporzioni davvero preoccupanti. Il rogo, le cui cause sono ancora in corso di accertamento, si stavano sviluppando all'interno di una vecchia fabbrica dismessa per la lavorazione dei derivati del bergamotto, nel centralissimo rione Boschicello. Il tempestivo intervento dei Vigili del Fuoco, ha evitato ben più gravi conseguenze per le abitazioni vicine, lambite dalle fiamme che si erano propagate ai silos in disuso, pieni ancoradi esalazioniprodotte dalle vecchie lavorazioni. Le cause dell'incendio sono in corso di accertamento, da Vigili del fuoco al lavoro La zona devastata dall’incendio parte dei tecnici dei Vigili del Fuoco, che eseguiranno i rilievi al termine delle operazioni di raffreddamento e messa in sicurezza della struttura, attualmente eseguite dalle squadre operative terrestri intervenute. Le attività di spegnimento dell’incendio di contrada Boschicello sono terminate nel tardo pomeriggio di ieri. I vigili del fuoco del comando provinciale di via Sbarre Superiori sono dovuti intervenire con la pala gommata per rimuovere le suppellettili rimaste ed evitare che le fiamme, che co- Il locale sequestrato vavano sotto lo strato superficiale, potessero tornare a divampare provocando ulteriori danni. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine e la Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha aperto un’inchiesta. gio.ve. L’ordigno rudimentale ha danneggiato il “Windy hill” di Gallina Bomba carta contro pizzeria UNA bomba carta, esplosa la scorsa notte, ha danneggiato un esercizio commerciale adibito alla ristorazione ubicato a Gallina. L’ordigno rudimentale è stato piazzato davanti alla porta d’ingresso della pizzeria “Windy hill” di proprietà di Antonio Ventura di 37 anni, ubicata in piazza San Francesco di Sales a Gallina. L’esplosione ha danneggiato la saracinesca del locale, i vetri della porta d’ingresso e alcun pannelli del soffitto del locale pubblico. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della locale stazione che hanno avviato le indagini del caso. Un posto di controllo dei carabinieri PROSEGUE l'impegno della Guardia Costiera di Reggio Calabria a tutela dell'ambiente e a salvaguardia del pubblico demanio marittimo, nell'ambito delle attività programmatiche di accertamento finalizzate all'aggiornamento del documento programmatico regionale di mappatura del litorale. Nel comune di Reggio Calabria, nella zona di Bocale del Comune di Reggio Calabria, nella mattinata odierna, è stato posto sotto sequestro preventivo, senza facoltà d'uso, uno stabilimento balneare ubicato sull'arenile, per un ingombro di circa 230 mq. La struttura al termine della stagione balneare non era stata smontata ed era mantenuta dall'indagato M.G di Reggio Calabria, senza alcuna autorizzazione, esposta altresì alle mareggiate invernali che ne avevano alterato altresì la stabilità della stessa . Il titolare dello stabilimento posto sotto sequestro, era stato già deferito lo scorso anno alla autorità giudiziaria. UN PASSAGGIO è dedicato anche a un incontro che Domenico Barbieri avrebbe avuto con l’allora consigliere regionale Gesuele Vilasi. Ma c’è ancora una volta la ‘ndrangheta di Fiumara di Muro e Villa San Giovanni al centro della deposizione del Colonnello dei Carabinieri, Valerio Giardina, nell’ambito del maxiprocesso “Meta”. Al cospetto del Tribunale Collegiale presieduto da Silvana Grasso, Giardina ha elencato una lunga serie di episodi che hanno per protagonisti proprio i presunti capi dei territori dell’hinterland tirrenico di Reggio Calabria. Il processo, infatti, scaturisce da una maxioperazione del Ros dei Carabinieri, che colpì sia le grandi famiglie cittadine, i De Stefano, i Tegano, i Libri e i Condello, ma anche altri personaggi riconducibili a clan storici come gli Imerti, i Buda e i Bertuca. Quella tenutasi ieri è l’ennesima di una lunghissima serie di deposizioni che Giardina, su richiesta del pm Giuseppe Lombardo, sta sostenendo, ripercorrendo le indagini svolte quando era a capo del Ros di Reggio Calabria. Nell’indagine emerse anche la figura di alcuni personaggi della famiglia Barbieri, presunti affiliati alla ‘ndrangheta di Villa San Giovanni, che Giardina ha “prestanome di Cosimo Alvaro”, richiamando anche i contatti che Domenico Barbieri avrebbe avuto con il politico Vilasi, solo uno dei tanti, tra cui l’attuale Governatore Giuseppe Scopelliti, con cui i Barbieri avrebbero avuto incontri. Cosimo Alvaro, invece, è un altro dei personaggi chiave dell’inchiesta, un uomo venuto da Sinopoli, lì dove il suo cognome da decenni significa ‘ndrangheta per controllare importanti attività commerciali come il lido-discoteca “Calajunco”, ubicato sul lungomare: “Il controllo del Calajunco – ha detto Giardina – ha un valore assai simbolico, perché il lido è presente sulla via più significativa di Reggio Calabria”. Così, dunque, le cosche avrebbero messo le mani sulla città. E i contatti con Alvaro sarebbero serviti ai Barbieri anche da “biglietto da visita” allorquando avrebbero, negli anni, appalti pubblici presso le amministrazioni di Rosarno e Palmi, utili, oltre che per far denaro, anche per allacciare significativi rapporti criminali, come quelli testimoniati con la storica famiglia Gallico di Palmi. cla. cor. E' vietata la riproduzione, la traduzione, l'adattamento totale o parziale di questo giornale, dei suoi articoli o di parte di essi con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro 26 Reggio dal POLLINO alloSTRETTO calabria ora SABATO 28 gennaio 2012 PAGINA 5 Why not, poche condanne e molte assoluzioni Catanzaro, si ridimensiona in Appello l’inchiesta avviata da De Magistris CATANZARO Un processo che ha un solo nome diviso in tre tronconi. Un filone ancora in corso davanti al tribunale collegiale di Catanzaro, un altro inizierà a breve dopo il rinvio della Cassazione al gup del capoluogo e un altro ancora si è concluso ieri davanti ai giudici di secondo grado dopo sei mesi di udienze. Erano da poco passate le 15, 30 quando i giudici della Corte d’appello hanno decretato otto condanne e nove assoluzioni a carico di 17 persone coinvolte nell’ambito dell’inchiesta Why not su presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria. Prima le repliche dei sostituti procuratori generali e della difesa, poi il ritiro in camera di consiglio e dopo un’ora e mezza il verdetto dei giudici. Dodici le posizioni appellate dalla procura generale, su cinque delle quali pendeva anche il reato di associazione a delinquere. Ha retto l’accusa dell’associazione solo rispetto all’imprenditore Antonio Saladino e Giuseppe Antonio Lillo condannati rispettivamente a 3 anni e dieci mesi il primo e a 2 anni di reclusione il secondo. Mentre cade l’ipotesi accusatoria rispetto alle posizioni di Gianfranco Luzzo, Pietro Macrì ed Enza Bruno Bossio assolti dal reato associativo. «Mi hanno massacrato in tutti questi anni ha detto Luzzo - è stato un incubo, ma ho sempre avuto fiducia nei magistrati e nella giustizia. Nell’udienza del 24 gennaio Macrì, l’esperto di informatica, aveva rilasciato spontanee dichiarazioni sostenendo la sua estraneità tanto al progetto “Ipnosi” quanto all’assunzione del per- sonale. Lui avrebbe svolto il ruolo di libero professionista, fornendo il suo apporto per soli tre mesi. Macrì ha negato di aver avuto qualunque rapporto con l’imprenditore Antonio Saladino: non sarebbe mai stato assunto in società riconducibili all’ex leader delle Compagnie delle opere in Calabria Saladino. Ma l’esistenza di un’associazione per delinquere, costituita da soggetti privati, che avrebbe stretto accordi con pubblici ufficiali della Regione Calabria per ottenere finanziamenti pubblici, rimane. Almeno per il momento. Lo confermano le due condanne di Saladino e Lillo e il fatto che la Cassazione abbia annullato il 20 luglio scorso sei proscioglimenti rinviando gli atti nel capoluogo per una nuova udienza preliminare, dando ragione ai pg Massimo Lia ed Eugenio Facciolla quando nel corso della requisitoria hanno affermato che «la Cassazione ha sancito che ci può essere un’associazione per delinquere costituita solo da soggetti privati che si avvaleva di volta in volta dell’apporto di singoli pubblici ufficiali», illustrando le modalità con cui alcuni di loro venivano affidati alla società Why Not nello svolgimento di progetti finanziati con fondi pubblici. Subito dopo la lettura del dispositivo i pg hanno commentato: «Siamo soddisfatti, ha retto l’impianto accusatorio, l’associazione a delinquere c’è». I sostituti procuratori generali avevano impu- il commento Così la montagna ha partorito un topolino DI PIETRO COMITO Così la montagna - fatta di enciclopedici faldoni, fiumi di tabulati, verbali, indizi, sospetti e veleni - ha partorito un topolino. E questo è un dato di fatto. A meno che non si voglia insinuare oltre sugli uffici giudiziari di Catanzaro, è l’epilogo atteso, e per certi versi scontato, di una vicenda che paralizzò un Paese intero: una microassociazione a delinquere, in attesa della Suprema corte, e qualche abuso d’ufficio. Pe- rò, da qui a far cadere un governo (ed è successo), da qui a trasformare Catanzaro e la Calabria come l’epicentro di trame affaristiche e complotti istituzionali orditi da asserite cricche paramassoniche (ed è successo), da qui a scatenare una guerra tra Procure (ed è successo), da qui a delegittimare magistrati, avvocati, politici e giornalisti (ed è successo), da qui a tutto quello che è stato, ne passa. Eccome. E oggi cosa resta? Niente. Silenzio. Non ci saranno vetrine nei tg nazionali, ne prime serate del servizio pubblico. Eppure è la sentenza. gnato la sentenza di primo grado emessa il 2 marzo del 2010 contestando, tra l’altro, l’assoluzione per il reato di abuso di ufficio nei confronti di Agazio Loiero, per il solo capo d’imputazione attinente al progetto regionale finalizzato al censimento del patrimonio immobiliare. E ieri per l’ex presidente della regione di centrosinistra è arrivata la condanna ad un anno di reclusione, mentre per Giuseppe Chiaravalloti, già governatore di centrodestra, i giudici di secondo grado si sono espressi con una sentenza di prescrizione per il reato di abuso di ufficio relativo al progetto chiamato “Ipnosi”, per gli altri due capi di accusa è stata confermata l’assoluzione così come aveva decretato il giudice di primo grado. « Non possiamo non nascondere una certo stupore per la sentenza emessa dai giudici della Corte d’appello. Ritenevamo e riteniamo ancora – hanno affermato gli avvocati Marcello Gallo e Nicola Cantafora, difensori di Agazio Loiero - di avere ampia ragione su tutto il fronte accusatorio. Al momento, però, non possiamo dire nulla se prima non vediamo le motivazioni della sentenza». Assolto anche il funzionario regionale Fragomeni: «È stato dichiarato inammissibile l’appello della Procura, desidero esprimere viva soddisfazione per l’esito del giudizio. In particolare - sottolinea l’avvocato Nunzio Raimondi mi preme evidenziare come, aldilà dei profili di merito rispetto ai quali la condotta del mio assistito è stata ritenuta già dal primo giudice assolutamente irreprensibile, la Corte di Appello di Catanzaro abbia ritenuto di accogliere una delicata questione di diritto relativa alla improponibilità dell’impugnazione del pubblico ministero o del procuratore generale a seguito di assoluzione in primo grado quando prima della proposizione impugnazione il reato addebitato risulti prescritto. Tale eccezione, unitamente a quella della aspecificità dei motivi, ha formato oggetto della mia discussione di rito e di merito dinanzi alla Corte territoriale al fine di resistere alle censure della Procura Generale ed ha poi prevalso con la odierna sentenza. Sono infine davvero lieto conclude l’avvocato Raimondi - che la totale estraneità ai fatti di Fragomeni sia stata confermata anche in appello e questo autentico galantuomo e professionista correttissimo sia uscito da una vicenda così pesante a testa alta». E l’assoluzione è arrivata anche per Franco Nicola Cumino:«Si conferma l’assoluta correttezza dell’operato del mio assistito, - ha affermato il legale Carlo Petitto - già riconosciuta dal giudice di primo grado e si conclude speriamo in via definitiva una vicenda che ha determinato estrema sofferenza e patimento, sentimenti questi che albergano proprio nell’animo di chi è stato ingiustamente perseguito dalla legge». GABRIELLA PASSARIELLO [email protected] le reazioni Loiero: vittima di uno scontro giudiziario Esterrefatto davanti a questa sentenza CATANZARO «Come sempre anche questa volta rispetto le decisioni della Magistratura. Cionondimeno davanti a questa sentenza sono davvero esterrefatto». Lo afferma in una nota il coordinatore nazionale della federazione tra Mpa ed Autonomia e Diritti ed ex Presidente della Giunta della Regione Calabria, Agazio Loiero. «Mi stupisce - aggiunge che io oggi venga condannato per aver licenziato, con la mia Giunta di allora, una delibera in cui davo pienamente la libertà alla dirigenza di compiere un atto o di non compierlo. La verità è che siamo in presenza di un’inchiesta nella quale si è assistito ad uno scontro mai visto tra Procure: è stato perquisito un procuratore generale, altri magistrati hanno lasciato la Magistratura immediatamente dopo; alcuni magistrati sono stati trasferiti, altri destituiti, ed alcuni sono stati mandati a giudizio». «Mi chiedo - prosegue Loiero - se alla fine un cittadino possa davvero sentirsi comunque appagato da un verdetto, specie se di conAgazio danna, o piuttosto non sia vittima di un contesto di scontro giudiziario che spaLoiero venta i cittadini inermi. Si pensi che io non ho voluto rendere neanche una dichiarazione spontanea perché mi sembrava superflua. Sono comunque certo di non aver compiuto nessun atto illegittimo. Davvero nessuno». Bruno Bossio: sono uscita da un incubo Ho avuto fiducia nella magistratura CATANZARO «Finalmente sono uscita da un incubo». È quanto afferma, in una nota, Enza Bruno Bossio sulla conferma in appello della sentenza di assoluzione nel processo Why Not. «Un incubo - aggiunge - che aveva provato a distruggere la mia vita e quella dei miei figli. Al quale ho resistito non solo con la consapevolezza di non aver fatto mai nulla di illecito, ma anche grazie all’affetto di moltissimi amici. Non mi sono mai sottratta ai processi in tribunale, anche se vivevo fino in fondo l’ingiustizia morale e materiale di quello che mi stava accadendo. Ma nonostante tutto ho avuto fiducia nel compimento dell’azione della magistratura, soprattutto di quella giudicante. Anche perché non mi sento di essere innocente perché assolta, ma assolta perché innocente. Dunque esiste il merito dei processi che si svolgono nelle aule dei tribunali, che sono altra cosa dei processi mediatici che condannano le persone sulla piazza prima ancora di essere giudicate da chi è preposto a questo compito» «Per ora - conclude BruEnza Bruno no Bossio - mi godo con serenità questo momento. Ci sarà tempo e luogo per Bossio riflettere su questa terribile vicenda che ancor prima che sul piano personale ha determinato conseguenze devastanti per la vita di tanti lavoratori ed imprese calabresi». 9 SABATO 28 gennaio 2012 D A L P O L L I N O calabria A L L O ora S T R E T T O la decisione del collaboratore COSENZA Ha deciso di abbandonare il programma di protezione ed ha chiesto un risarcimento di 2.5 milioni di euro allo Stato, il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, 40 anni di Crotone, che nelle settimane scorse è scampato ad un attentato mentre si trovava in una località protetta. Lo ha reso noto il difensore di Bonaventura, l’avvoca- REGGIO C. Finanzieri corrotti, un imprenditore che fungeva da “informatore” ed un direttore d’albergo che avvisava dei controlli delle forze dell’ordine. La seconda tranche dell’operazione “Infinito” condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano offre uno spaccato inquietante circa gli affari e gli intrecci politico-economici che il clan Valle-Lampada riusciva ad avere tra il capoluogo lombardo e la Calabria. Nella giornata di ieri, infatti, gli uomini della Squadra Mobile di Milano hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Giuseppe Gennari, su richiesta del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei sostituti Storari e Dolci, nei confronti di cinque persone. Tre di queste sono militari della Guardia di Finanza, tutti in servizio al Gruppo di Milano ed in carico al secondo nucleo operativo che opera nel settore dei monopoli di Stato. Si tratta di Michele Di Dio, 34 anni, Michele Noto, 39 anni, e Luciano Russo, 36 anni. I tre sono accusati di corruzione ed il loro arresto è stato possibile anche grazie al contributo degli stessi colleghi. A finire in manette anche un imprenditore residente a Reggio Calabria, che risponde al nome di Domenico Gattuso, 35 anni, il quale avrebbe non soltanto fatto numerosi affari con il clan Lampada, ma avrebbe fornito delle informazioni riservate circa operazioni di polizia giudizia- Il pentito lascia il programma di protezione Luigi Bonaventura chiede inoltre un risarcimento di 2,5 milioni di euro allo Stato to Giulio Calabretta. Nei giorni scorsi il legale ha inviato al Ministero dell’Interno, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed al Servizio centrale di protezione la richiesta uscire dal programma di protezione e di ri- sarcimento avanzata da Bonaventura. «Bonaventura - ha affermato Calabretta - ha deciso di uscire dal programma di protezione ma di continuare a collaborare con la giustizia. La decisione è matura- ta dopo che nelle settimane scorse il mio assistito è scampato ad un attentato che era stato organizzato da emissari della ’ndrangheta che si erano finti amici di Bonaventura e che avevano manifestato l’intenzione di volerlo aiutare ad integrarsi nella città dove viveva sotto copertura. Questa vicenda ha particolarmente scosso Bonaventura il quale ora vuole abbandonare il programma di protezione perché non si sente più sicuro». «Se non ci saranno risposte ha concluso - ovviamente procederemo con una causa civile davanti al tribunale di Roma». Talpe e militari corrotti al servizio dei Lampada «Morelli mi disse che aveva conoscenze nei servizi e mi fece il nome di Pollari» “Infinito”, cinque arresti. Minasi collabora e rivela gli intrecci Domiciliari per il direttore dell’hotel Brun In manette Mimmo Gattuso Il lussuoso Hotel Brun di milano: ai domiciliari è finito il direttore Moretti ria (nello specifico l’inchiesta “Meta”) che dovevano essere eseguite e che riguardavano appunto gli esponenti della consorteria mafiosa. Per lui l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa e concorso in rivelazione di segreto d’ufficio. Ai domiciliari, invece, è andato il direttore del Grand hotel “Brun” di Milano, Vincenzo Moretti, il quale avrebbe avvertito i Lampada dei controlli da parte della polizia, sui soggiorni all’hotel “Brun” di soggetti vicini al clan. Moretti è accusato di favoreggiamento personale e le intercettazioni parlerebbero molto chiaro sul suo conto. Pollari e la fuga di notizie Ma il vero elemento di novità che emerge dalla seconda tranche dell’inchiesta “Infinito” è quella che riguarda l’ex capo del Sismi, Nicolò Pollari. Come si ricorderà, infatti, nell’ambito del primo troncone dell’indagine erano finiti in manette, tra gli altri, anche il giudice Vincenzo Giglio, suo cugino omonimo di professione medico, il consigliere regionale del Pdl Franco Morelli e l’avvocato Vincenzo Minasi. Proprio quest’ultimo ha iniziato una sorta di collaborazione con gli inquirenti che lo ha portato a rivelare chi fosse la fonte alla quale Morelli avreb- be attinto notizie fresche sulle indagini in corso. Sarebbe stato proprio l’ex consigliere regionale a fare il nome di Pollari, quale soggetto che rivelava informazioni riservate. A riferirlo è stato l’avvocato Minasi che, interrogato dalla Boccassini, ha spiegato che nel dicembre del 2009 vi fu un incontro tra lui, Giulio Lampada e Morelli in cui si parlò del procedimento Meta e delle indagini che si stavano svolgendo per i Lampada, i Valle ed i Condello. «Morelli - ha detto Minasi - in quell’occasione non portò notizie dalla Calabria, portò notizie da Roma. Nel senso che lui disse «sono stato a Roma dai miei amici, i quali mi hanno confermato che c’é l’indagine su Milano», e fu quella volta che ebbi proprio la conferma della indagine su Milano... Queste furono le notizie che portò Morelli da Roma». Ed ancora: «Morelli mi disse che aveva delle buone entrature nei servizi segreti e mi fece il nome di Nicola Pollari. Ora che ho consultato i miei appunti posso dire che l’incontro, se c’é stato ovviamente, con Pollari o qualcun altro dei servizi segreti è da collocare tra il 9 dicembre 2009 e il 21 gennaio 2010. Tenga conto che quando io ho dato i documenti da me falsificati a Giulio Lampada e quest’ultimo li ha portati a Morelli il 18 gennaio, non posso escludere che Morelli abbia mostrato questi documenti a qualcuno dei servizi o comunque allo stesso Pollari dal 18 gennaio al 21 gennaio». Per il gip «il riferimento ad ambienti dei servizi (si parla di un tale “Nic...”) è preoccupante. La circostanza va evidentemente approfondita, anche perché Minasi - pur prendendo per vere le sue dichiarazioni - parla di circostanze apprese da terzi. Peraltro viene quasi naturale accostare queste asserzioni alla “strana” visita che Vincenzo Giglio farà al capocentro Aisi di Reggio, chiedendo notizie sulla indagine. Difficile pensare di fare certe domande - conclude il gip Gennari - se non si pensa di potere ottenere delle risposte». Consolato Minniti favorivano il clan “Stipendi” da 40mila euro al mese I tre finanzieri infedeli venivano puntualmente retribuiti dalla cosca REGGIO C. Finanzieri infedeli, «a libro paga» del clan Valle-Lampada. Così il gip Giuseppe Gennari dipinge Michele Di Dio, Avvisavano dei Michele Noto e controlli per non Luciano Russo, le tre fiamme fare scoprire gialle in servizio le slot machines al Gruppo di Milano e in carico irregolari al secondo Nucleo operativo che erano particolarmente morbidi nei controlli che effettuavano nelle società che interessavano alla famiglia Lampada. Il giu- dice li definisce come personaggi «stabilmente retribuiti» per i loro servigi. L’accusa infamante è che avrebbero favorito le società destinatarie dei controlli dove erano istallate le slot machines, il settore in cui i Valle-Lampada avevano stabilito la maggior parte dei loro affari. Anche loro sapevano benissimo che le macchinette non erano collegate ai monopoli di Stato, quindi frodavano il fisco regolarmente. In cambio del loro silenzio e, anzi, della loro complicità, ricevevano dazioni di denaro da Maria e Leonardo Valle, e da Giulio e Francesco Lampada, somme di denaro oscillanti tra i 40mila e i 60mila euro al mese. Cioè in totale, secondo i conti fatti dalla magistratura, non meno di 720mila euro. Questa pratica è stata seguita dagli indagati tra il 2008 e il 2009. I tre finanzieri erano «a libro paga e stabilmente retribuiti, in modo che compissero una serie indeterminata di atti contrari ai doveri d’ufficio e violassero il segreto e comunque il dovere di riservatezza, e ponessero, quindi, le loro funzioni al servizio degli erogatori e ne facessero mercimonio, in tal modo favorendo le società facenti capo all’associazione mafiosa Valle-Lampada». I pubblici ufficiali avevano un raccordo diretto con Luigi Mongelli, l’altro finanziere che era già stato arrestato nella prima tranche dell’operazione “Infinito” del 30 novembre scorso. Quando stavano per fare i controlli, Di Dio, Noto e Russo si premuravano di avvertire Giulio e Francesco Lampada che le società erano prossime alle verifiche in modo - secondo gli inquirenti - da dare ai controllati l’opportunità di collegare temporaneamente le slot machines alla rete dei monopoli di Stato e fare finta che fosse tutto in regola. Salvo poi staccarli di nuovo appena le fiamme gialle uscivano dai locali. In alcuni casi, godendo di larga discrezionalità nell’individuare i destinatari dei controlli e il momento della loro effettuazione, hanno evitato accuratamente di sottoporre a verifica le società che sapevano non erano collegate alla rete dei monopoli. Nelle intercettazioni tra i Valle e i Lampada ci sarebbe traccia delle mazzette che pagavano a “Pinotto” (come chiamavano il finanziere Luigi Mongelli), il quale poi faceva avere ai colleghi la loro parte. Nel maggio 2009 Francesco Lampada chiedeva alla moglie Maria Valle: «Pinotto quant’è?». La donna risponde: «40 euro è... però devono ancora arrivare... sto aspettando che arrivino....». Annalia Incoronato 14 SABATO 28 gennaio 2012 calabria ora R E G G I O Imelda, tutti a giudizio Processo a maggio In 15 compariranno davanti al Tribunale di Locri IN BREVE Sequestrato stabilimento Uno stabilimento balneare è stato posto sotto sequestro preventivo nella zona di Bocale. Era ubicato sull’arenile, per un ingombro di circa 230 metri quadrati. La struttura al termine della stagione balneare non era stata smontata come invece il soggetto che aveva l’autorizzazione avrebbe dovuto provvedere. Gli uomini della Capitaneria di porto hanno accertato che ed era mantenuta dall’indagato M.G di Reggio Calabria, senza alcuna autorizzazione, ed era esposta inoltre alle mareggiate invernali che ne avevano alterato la stabilità della stessa. Scoppia incendio nella ex fabbrica Tutti rinviati a giudizio. Questa la decisione del giudice per l’udienza preliminare Domenico Santoro nell’ambito del processo “Imelda”. Alla sbarra 15 persone accusate di aver messo su una vera e propria holding internazionale dedita al traffico di cocaina. Dovranno comparire dinnanzi alla sezione penale del Tribunale collegiale di Locri, il prossimo 17 maggio, Ascone Antonio, Ascone Michele, Bellocco Umberto, Bonarrigo Gioacchino, Bonarrigo Nicola, Carretta Sergio, Costadura Antonio, Giorgi Salvatore, Nasso Aldo, Pisano Bruno, Pizzata Bruno, Rechichi Sebastiano, Romeo Antonio, Stelian State, Stilo Francesco. Per loro il gup ha disposto il processo ed ha sciolto anche la riserva sulla sede processuale individuandola, appunto, in quella di Locri. Nel corso della giornata di ieri si sono conclusi gli interventi difensivi che hanno visto, tra gli altri, le arringhe degli avvocati Armando Veneto, Domenico Putrino, la holding della droga Le indagini hanno scoperto l’asse criminale tra la Piana di Gioia Tauro e la Locride Guido Contestabile, Tonino Curatola, Giampaolo Catanzariti e Alfredo G. D. Foti. I legali hanno chiesto il non luogo a procedere per i loro assistiti, ma il gup è stato di diverso avviso ed ha invece ritenuto sussistenti gli elementi per disporre il giudizio. Le indagini partono dall’asse creato tra gli Ascone-Bellocco sulla Piana e i Nirta-Strangio-Pizzata sulla Locride, cosche che hanno rinsaldato vecchi legami d’amicizia ed hanno dato vita ad un’alleanza strategica al fine di trafficare dro- ga e creare una rete efficiente di gestione della latitanza degli esponenti delle cosche stesse. Proprio su questi due binari si è imperniata l’attività della Dda reggina e del Goa di Catanzaro: da un lato neutralizzare il traffico di droga e dall’altro catturati i soggetti latitanti ed appartenenti all’organizzazione, che continuavano a gestire gli affari illeciti. Tra le figure di maggiore importanza, sicuramente quella di Antonio Ascone, 57 anni, alias “nascarella”, e ritenuto il capo dell’omonima cosca, Bruno Pisano, 28 anni, Umberto Bellocco, 28 anni e Michele Ascone, figlio di Antonio, di 23 anni. Erano loro ad intessere tutte le trame che hanno portato le cosche calabresi a gestire un giro di droga che partiva dai luoghi d’origine per arrivare in Belgio, Germania ed Olanda, con basi logistiche anche nel nord Italia. Il gruppo poteva contare, infatti, anche sull’apporto di soggetti residenti nella provincia milanese, come Sergio Carretta, 51 anni, e Roc- Il Cedir, sede degli uffici giudiziari co Ascone, 58 anni (cugino di Antonio, recentemente arrestato in “Il Crimine”), che avevano il compito di ricevere, stoccare e smerciare la droga. Proprio ai loro danni fu effettuato un sequestro dai finanzieri di Aosta, nel 2006, di 1,2 chilogrammi di cocaina purissima, trasportata su un furgone guidato da un corriere rumeno, Laurentiu Doru Avram, e fornita da Antonio Ascone per il mercato milanese. Lo stesso Ascone aveva instaura- l’iniziativa Per una Città metropolitana Incontro promosso dal Val Gallico su enti locali e trasporti Un incendio è scoppiato ieri intorno a mezzogiorno nel rione Boschicello. Le fiamme hanno avvolto una vecchia fabbrica dismessa per la lavorazione di derivati del bergamotto. L’incendio ha assunto presto notevoli dimensioni. Si è reso necessario inviare sul posto quattro squadre dei vigili del fuoco del comando provinciale di Reggio Calabria, con altrettanti automezzi. Il loro tempestivo intervento ha evitato ben più gravi conseguenze per le abitazioni vicine, lambite dalle fiamme che si erano propagate ai silos in disuso. Le cause dell’incendio saranno oggetto di approfondimento. Ordigno contro una pizzeria Un attentato dinamitardo è stato perpetrato ieri a un locale di Reggio. Ignoti hanno collocato e fatto esplodere un ordigno rudimentale posizionato all’ingresso della pizzeria “W”, di proprietà di A.V. di 37 anni. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e i carabinieri, che hanno avviato indagini. to una ferrea alleanza con esponenti dei Nirta-StrangioPizzata di San Luca, ovvero con Francesco Strangio, 45 anni, alias “l’ingegnere” ed esponente di spicco dell’omonima cosca, nonché leader nel narcotraffico, Giancarlo Polifroni, 35 anni, e Bruno Pizzata, 55 anni, noto trafficante di coca, recentemente arrestato a seguito dell’operazione “Overloading”, e ritenuto vero perno di tutta l’associazione. c. m. La Vallata del Gallico vuole ritagliarsi un ruolo attivo e da protagonista nella futura Città metropolitana attraverso una concreta valorizzazione del proprio territorio rafforzando la conurbazione tra Reggio e Messina. Intendimento manifestato ieri nel convegno a tema promosso dall'associazione “Val Gallico” con la partecipazione di studiosi e amministratori dell'area interessata. «La città metropolitana non è un sogno ma la nostra voglia di riscatto», afferma il presidente di “Val Gallico” Vincenzo Amodeo facendo riferimento all’ampliamento di Reggio deciso nel 1927 accorpando 14 Comuni autonomi (fra cui Gallico) «divenuti oggi – osserva - quartieri periferici. Ciò che è stato tolto alla Vallata oggi va riconquistato sulla base dell'opportunità di legge». Sul tema il presidente della Provincia Giuseppe Raffa osserva: «Il nostro territorio è debole sul piano delle infrastrutture e della popolazione ma il punto di forza è il lavoro in sinergia con i sindaci. Nella riunione tra i presidenti di Provincia delle 10 Città metropolitane siamo stati critici con il Governo che non dialoga con Province e Comuni e speriamo che con la Regione si avvii un dialogo costruttivo». E, a proposito della Vallata, evidenzia come per il comple- Il tavolo della riunione a palazzo Foti tamento della Gallico-Gambarie la pratica sia ancora ferma a Bruxelles con «l’Europa - sostiene - che ci ha dato un mese e mezzo per fornire alcu- ne risposte tecniche». Di ritorno dalla riunione nazionale dell’Anci a Roma su abolizione delle Province e Città metropolitane, il sindaco Deme- trio Arena annuncia che, dopo un tavolo tecnico, nel giro di due mesi l’associazione dei Comuni partorirà una proposta che seguirà il percorso della legge 42 del 2009 per istituire le Città metropolitane prevedendo che queste ultime sostituiscano le Province a fine durata. «Per la nostra Provincia - spiega - sarà una soluzione indolore e in questi quattro anni Comune e Provincia possono lavorare insieme per arrivare preparati all’appuntamento». La bozza di proposta stabilisce anche che alla Città metropolitana si assegneranno le funzioni della Provincia soppressa lasciando alla prima di stabilire i compiti da trasferire ai Comuni interessati. Gli organi di Governo sarebbero il sindaco e il consiglio metropolitano. «Non si possono abolire le Province dall’oggi al domani – prosegue - e occorre una legge adeguata. Si vogliono eliminare con una norma che presenta incostituzionalità». L’amministratore unico dell’Atam Vincenzo Filardo ricorda l’importanza vitale dell'efficienza del sistema dei trasporti nell’area che si verrà a creare in collegamento con la Sicilia. Auspica un accordo di programma tra Regione Calabria e Sicilia per decentrare la governance della mobilità sullo Stretto puntando sul tavolo ottenuto dall’ente regionale calabrese con il Ministero dei Trasporti «per rimodulare gli interventi sul territorio». ALESSANDRO CRUPI [email protected] province «Reggio capitale mediterranea» L’intervento del presidente Giuseppe Raffa a Firenze «Reggio città Metropolitana deve guardare oltre lo Stretto e diventare una delle capitali del nuovo Mediterraneo reticolare». Lo ha sostenuto il presidente Giuseppe Raffa nel corso della riunione sulle città metropolitane svoltasi nel capoluogo toscano per iniziativa del presidente della Provincia di Firenze Andrea Barducci. «Il modello organizzativo che intendiamo adottare d’intesa con il comune capoluogo - ha sottolineato Raffa - vuole avviare un processo, forte- mente partecipato e dal basso, che possa portare la città e la provincia di Reggio, insieme a tutti gli altri comuni del territorio, nel sistema delle aree metropolitane». Un progetto in coerenza con la normativa sull’istituzione e il funzionamento di questi enti intermedi, che porti, qualora esistano le condizioni, anche ad un’intesa «tra le regioni Calabria e Sicilia ipotizzando la creazione di uno o più organismi periferici». La novità, ha detto ancora Raffa, si caratterizza «nell’avvio di un processo che possa andare oltre le semplici integrazioni di carattere economico – sociale per assumere i connotati di una nuova funzione istituzionale capace di valorizzare tutte le potenzialità dell’area». E renderle sinergiche in termini tali che la stessa area «possa essere riferimento e cerniera non marginale delle scelte della nuova Unione Europea, innanzitutto ma non solo, per le politiche di libero scambio con i paesi africani del sud del Mediterraneo». Una proposta in cui si terrà conto di strumenti per garantire i servizi pubblici essenziali, partendo dalla pianificazione territoriale, dalle reti e delle infrastrutture, all’ambiente. SABATO 28 gennaio 2012 PAGINA 22 l’ora della Piana Piazza Primo Maggio 17, Palmi Tel. e Fax: 0966 55861 Mail: [email protected] PORTO AUTORITA PORTUALE SANITÀ 0966 766415 CAPITANERIA DI PORTO 0966 562911 0966 765369 DOGANA GUARDIA DI FINANZA 0966 51123 OSPEDALE GIOIA TAURO FARMACIE 52203 OSPEDALE PALMI 267611 OSPEDALE CITTANOVA 660488 OSPEDALE OPPIDO 86004 942111 POLIZIA DI FRONTIERA 0966 7610 CARABINIERI 0966 52972 OSPEDALE POLISTENA VIGILI DEL FUOCO 0966 52111 OSPEDALE TAURIANOVA 618911 CINEMA Gioia Tauro Rosarno Ioculano Rechichi Tripodi Alessio Borgese Cianci Paparatti 51909 52891 500461 Palmi Barone Galluzzo Saffioti Scerra Stassi 479470 22742 22692 22897 22651 773237 712574 774494 773046 Taurianova Ascioti Covelli D’Agostino Panato 643269 610700 611944 638486 Gioia Tauro “Politeama” 0966 51498 Chiuso Cittanova “Gentile” 0966 661894 Chiuso Polistena “Garibaldi” 0966 932622 Chiuso Laureana “Aurora” Chiuso Tendopoli, si parte l’1 febbraio San Ferdinando, al via la struttura per migranti. Dalla Regione 40mila euro SAN FERDINANDO La tendopoli di San Ferdinando, che ospiterà circa 250 migranti è quasi pronta. Il 1 febbraio la struttura, messa in piedi grazia alla collaborazione tra prefettura, comuni di Rosarno e San Ferdinando e Prociv, dovrebbe aprire i battenti. Ieri presso il comune di San Ferdinando è stata valutata la disponibilità di associazioni disponibili a gestire la struttura. Alla manifestazione d’interesse presentata dall’ente ha risposto solo l’associazione “Il mio amico Jonathan”, ossia la stessa che gestisce, con ottimi risultati, il campo migranti di Rosarno. L’ammini- strazione comunale, tuttavia, ha ritenuto di dover inviare qualche missiva diretta ad altri operatori sociali presenti sul territorio, per valutare altre disponibilità, anche perché l’avviso pubblico non ha avuto grande pubblicizzazione. Lunedì si valuteranno altre disponibilità, se non ne arriveranno l’associazione “Il mio amico Jonathan” prenderà le redini di questo delicatissimo presidio. Dal punto di vista delle garanzie, inoltre, il sindaco sanferdinandese, Domenico Madafferi, è molto più sereno, visto che la regione Calabria ha inviato l’impegno di spesa per i 40.000 euro che saranno necessari per la gestione delle “Il mio amico Jonathan” unico partecipante al bando del Comune TUTTO PRONTO La tendopoli per migranti tendopoli. Una struttura, è bene ricordarlo, che sarà allestita nelle seconda zona industriale, nominalmente nel comune di San Ferdinando, ma molto vicina a Rosarno. E proprio dal comune medmeo arriveranno i migranti “ospiti” del- la tendopoli, infatti dovrebbero essere gli africani che attualmente vivono in condizioni al limite dell’umanità in fabbriche abbandonate e catapecchie seminascoste dietro il centro storico. La tendopoli, quindi, diventerà il secondo “esperimento” di accoglienza nella Piana, dopo il campo di Rosarno – che ospita moduli abitativi occupati da 120 africani – che replica le sinergie interistituzionali. Una struttura anche questa collocata in area Asi, occupata per decreto dalla Prefettura reggina, per effetto di una emergenza umanitaria. La tendopoli sarà attiva per 3 mesi pieni, ossia dal 1 febbraio al 30 aprile, così da offrire ossigeno alla città di Rosarno, attualmente pressata da circa un migliaio di migranti che non hanno un posto dove dormire. Una problematica ormai di respiro nazionale, che è stata affrontata sia dal Viminale che dal ministro Andrea Riccardi, titolare per l’immigrazione, che è stato a Rosarno per prendere visione della situazione. Si tratta, tuttavia, anche in questo caso di una soluzione temporanea e provvisoria, in attesa che le strutture promesse – centro di accoglienza e formazione e edilizia popolare – divengano realtà. DOMENICO MAMMOLA [email protected] 23 SABATO 28 gennaio 2012 calabria ora P I A N A all inside PALMI Un matrimonio sbagliato, una separazione che il picciotto non può sopportare, un tentativo di sequestro non riuscito. Sono gli ingredienti dell’udienza di ieri del processo “All inside”, procedimento della Dda di Reggio Calabria che si sta celebrando davanti al collegio del Tribunale di Palmi. Nell’udienza di ieri sono stati sentiti gli ex suoceri di Francesco Pesce classe ‘80, figlio di Salvatore e fratello della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce. Sarebbe dovuta comparire anche la protagonista di questa triste vicenda, quella Iliaria Latorre, autrice della “fuitina” ancora mino- Pesce e il matrimonio a mano armata In aula gli ex suoceri di Francesco (’80) sul tentativo di rapimento della figlia renne con il rampollo dei Pesce e pentita dopo poco meno di un anno di matrimonio. La donna, risposata e in stato di gravidanza, ha fatto pervenire un certificato medico nel quale si attestava l’impossibilità per la Latorre a partecipare all’udienza. Il sostituto procuratore della Dda Alessandra Cerreti ha preso atto, ma ha chiesto e ottenuto dal Tribunale che la donna fosse sottoposta a visita fiscale. Il primo a comparire davanti al Tribunale è stato il padre di Ilaria, Cosma La- torre che, con molta “difficoltà”, ha ripercorso la storia di quella relazione, la vita condotta dalla figlia fino alla decisione della sua separazione, dovuta soprattutto alle presunte percosse inferte dal marito, fino al tentativo di rapimento messo in pratica di due giovani il 10 febbraio 2006 che, con calzamaglia in faccia e armati di pistola e fucile a pompa, hanno fatto irruzione in casa Latorre per «prendere Ilaria». Latorre denunciando il fatto ai carabinieri aveva ipotizzato che uno dei due potesse essere suo genero anche se non ne poteva essere certo. Nella ricostruzione dell’uomo anche il tentativo del genero di iniziare a lavorare come autotrasportatore al Cedi Sisa di San Ferdinando, per la procura attività commerciale in mano al clan Pesce, attraverso la creazione di una ditta intestata alla donna che, nel giro di poco tempo, finirà protestata per una serie di assegni a vuoto mai coperti. «Non ero d’accordo con quella unione». Così, invece, ha esordito la madre di Ilaria, Maria Teresa Barbieri. nel corso della sua deposizione la donna non si è discostata dal racconto del marito, anche se sul banco dei testimoni è apparsa moto provata. Un malessere manifestato attraverso un filo di voce che ha contraddistinto tutta la testimonianza. Infine, la deposizione di Campisi, ex dipendente di una nota gioielleria di Rosarno, esercizio commerciale nel quale fu compiuta una rapina. per la procura, tra i tre uomini ci sarebbe stato anche Francesco Pesce, ma il testimone ha dichiarato di non averlo riconosciuto. Si torna in aula arted’ prossimo. fral Piana sicura, Ente in lenta agonia Pellegrini: casse vuote, partner morosi e videosorveglianza senza controlli GIOIA TAURO Piana Sicura sempre più in apnea. Il consorzio - istituito dal Viminale attraverso la prefettura e con la partecipazione dei comuni dell’area portuale, al fine di promuovere la legalità in tutta l’area – denuncia ancora una volta problemi seri di liquidità. Nell’ultima riunione del consiglio di amministrazione, il presidente Angiolo Pellegrini ha formalizzato l’ennesimo grido di dolore. Ha informato, innanzitutto, i colleghi della sua volontà di rinunciare agli emolumenti derivanti dalla carica di presidente. Poi è passato al cahier de doleances, ribadendo che «il Consorzio si trova al momento senza liquidità, oltre che per la morosità degli Enti Provincia, Regione e ASI, anche per il mancato versamento delle quote per l’anno 2011 anche da parte degli altri Enti». Ai consiglieri, inoltre, Pellegrini si è rivolto «affinché si attivino presso gli Enti di appartenenza per sollecitare il versamento delle quote consortili». Ad ascoltare le analisi dell’ex generale e uomo forte della Dia, c’erano i delegati per il PREOCCUPATO Pellegrini e la videosorveglianza a Gioia comune di Rosarno, Giuseppe annualità 2007, 2009 e 2010 Palaia, Gioia, Eleonora Lon- ancora non corrisposte. Brutgo, San Ferdinando, Ferdi- te notizie, infine, per il famonando Bonarrigo e la segreta- so sistema di videosorveglianza, dal moria, il direttore generale mento che Il presidente Alessandra Pellegrini ha annuncia ai Campisi, tecdeciso di conico del comunicare, consiglieri la mune di Ronuovamente, rinuncia al suo sarno. «alla Procura compenso Assente, della Repubinvece, la blica di Palmi provincia reggina, che non ha l’impossibilità di procedere alnominato alcun rappresen- la manutenzione dell’impiantante. Proprio all’amministra- to di videosorveglianza». Il zione di Giuseppe Raffa arri- problema è sempre il solito: verà una nota con la messa in mancano i fondi. Si sta assimora per il pagamento delle stendo, dunque, alla logoran- te disgregazione di un consorzio nato tra l’entusiasmo generale, e divenuto famoso soprattutto per la predisposizione dell’impianto di videosorveglianza nell’area portuale e nei comuni consorziati. Un impianto oggetto delle attenzioni del sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, che è giunto, qualche anno fa, nella Piana per studiarlo. Di tutto questo patrimonio, rimane davvero poco, anche perché regione e provincia, su tutti, non stanno investendo più in questo consorzio. Rimane ormai solo una traccia didattica, tanto che il Cda ha dato il via libera al progetto illustrato da Pellegrini per «promuovere già dall’anno scolastico in corso un percorso in tre scuole (una per ogni Comune) che permetta alla legalità di assumere un ruolo importante nel complesso della programmazione scolastica». Ma a parte questo, l’orizzonte non sembra roseo. Piana Sicura è ad un bivio: o la dismissione, oppure il rilancio, magari con correttivi, ed obiettivi e strategie ricalibrate. L’importante è che si decida in fretta. DOMENICO MAMMOLA [email protected] l’arresto Furto di elettricità, una seminarese finisce in manette Il gip di Palmi convalida il fermo e scarcera la donna beccata in un controllo della polizia SEMINARA Sempre incisiva l’azione di prevenzione e repressione dei reati da parte del Commissariato di Palmi, nel quadro delle direttive impartite a livello provinciale dal Questore della provincia di Reggio Calabria Carmelo Casabona. Stamane, infatti, personale del Commissariato ha effettuato alcune perquisizioni domiciliari a Seminara. Nel corso di una di queste, in via Sant’Antonio, gli operatori della polizia di Stato hanno accertato l’abusivo allacciamento alla rete elettrica in un’abitazione. Pertanto la proprietaria dell’appartamento, la ventiquattrenne T.G., è stata tratta in arresto in quanto ritenuta responsabile di furto aggravato. La donna, dopo le formalità di rito, è stata trattenuta presso gli Uffici in stato di arresto a disposizione dell’A.G. per la direttissima che si è celebrata nella tarda mattinata odierna. Nella giornata di ieri, la seminarese è comparsa davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palmi, che ha confermato il fermo e ne ha disposto la carcerazione. r. p. vento del nord Al via il processo d’appello contro la cosca Bellocco PALMI Si riparte dalle dure condanne inflitte in primo grado dal gup di Reggio Calabria nel processo celebrato con il rito abbreviato. Nella mattinata di ieri ha preso il via il processo d’appello per gli imputati finiti nell’operazione della Dda reggina contro la potente cosca Bellocco di Rosarno. Nella prima udienza, il giudice relatore Bandiera ha letto la sintesi dei motivi d’appello. Subito dopo la Corte ha fissato al 10 febbraio prossimo l’udienza per la requisitoria del sostituto procuratore generale Melidona. Alla sbarra, oltre a alcuni esponenti di spicco del clan Bellocco, anche una serie di presunti prestanome che avrebbero coperto la gestione di numerose attività commerciali nella popolosa cittadina della Piana. E proprio sull’inquinamento del tessuto imprenditoriale da parte del clan Bellocco, si è concetrata l’inchiesta dell’antimafia di Reggio Calabria denominata “Vento del nord”. Un’operazione che, nel gennaio 2010, portò in carcere molte nuove leve, ma già di primo piano, della ‘ndrina rosarnese. Alla sbarra figuarano tra gli altri, il boss Carmelo BOSS Carmelo Bellocco Bellocco, che parte da una condanna in primo grado a 14 anni, il nipote Domenico classe ‘77, su cui pesa una condanna a 10 anni di reclusione, l’altro domenico, figlio di Carmelo, al quale il gup reggino ha inflitto 10 anni e quattro mesi di carcere. Oltre al nucleo della famiglia Bellocco, anche molti presunti prestanome, accusati di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Tutti sono stati condannati in primo grado a pene dai 4 all’anno e sei mesi di reclusione. L’operazione “Vento del nord” prende le mosse da una intercettazione captata a casa di Carmelo Bellocco a Granarolo dell’Emilia, in provincia di Bologna, dove il boss era stato mandato per trascorrere l’ultima parte della sua condanna. In quella casa, dopo il ritrovamente di una pistola, gli investigatori piazzarono una microspia che intercettò una sorta di summit di famiglia, nel corso del quale i Bellocco discutevano di armi, degli affari della famiglia e dei rapporti con l’altra cosca di Rosarno, quella dei Pesce. Prendendo spunto da quella conversazione, gli inquirenti portarono a termine l’operazione che, all’inizio di gennaio 2010, portò in carcere 20 persone (solo 3 delle quali processate in ordinario a Palmi), accusate a vario titolo di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. fral SABATO 28 gennaio 2012 PAGINA 26 l’ora di Vibo Telefono: 0963.547589 - 45605 Fax: 0963.541775 Mail: [email protected] - [email protected] EMERGENZA CRIMINALITÀ «Vibo in ginocchio» Interrogazione di Bevilacqua > pagina 28 LA NOMINA Franco Cavallaro confermato nel Cnel RICADI PIZZO L’assessore Carone protocolla la lettera di dimissioni Scuola, il Pd “salva” il piano della Provincia > pagina 28 > pagina 29 > pagina 29 “luce nei boschi” DOPO IL BLITZ La conferenza stampa di magistrati e poliziotti dopo il blitz di “Luce nei boschi” La mala, a Gerocarne, aveva il suo «serbatoio di voti». Nel 2005 non c’erano solo le comunali, ma anche le provinciali. E la «società» di ’Ntoni Altamura, a quaranta giorni dalle urne, non aveva ancora deciso a favore di chi, tra i candidati al consiglio provinciale, aprire i rubinetti. Poteva scegliere e ne aveva il tempo. Anzi, sapeva di poter contare su un parco d’opzioni da valutare. Bisognava solo aspettare, visto che già qualcuno aveva iniziato a bussare alle porte della società. Un’intercettazione, richiamata nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Tiziana Macrì nell’ambito dell’operazione “Luce nei boschi”, è emblematica. Due degli indagati parlano candidamente della campagna elettorale in corso. «C’è Enrico che sta togliendo passo a Rocco, dopo che aveva tolto pazzo a me». «E cosa voleva?». «Per andare per i voti, no gli ho detto, sono impegnato...». E poi: «Non devi andare in nessun posto, gli ho detto, che noi li dobbiamo raccogliere i voti e lo sai a chi glieli dobbiamo dare». Già, a chi glieli dovevano dare? «Non lo so neanche io, però quando dice Michele, gli ho detto, poi votiamo». Per gli inquirenti non è chiaro chi sia «Enrico», forse un candidato, più probabilmente, un grande elettore. Michele, invece, è il candidato a sindaco Altamura, poi eletto sindaco (prima dello scioglimento per riscontrate irregolarità delle elezioni) di Gerocarne. Lui doveva indirizzarli. Restava, comunque, un fatto: «Ancora ci sono quaranta giorni di tempo, fino al 10 giugno...». Quando c’era da votare gli uomini del clan si davano da «Serbatoio di voti» I rubinetti aperti a chi offre di più Da verbali e intercettazioni nuovi spunti per andare avanti con le indagini Uno degli indagati portati via dagli agenti della Squadra mobile di Catanzaro fare e, anche in famiglia, non discutevano d’altro. Gli “sbirri” d’altronde, erano sempre là, con un orecchio teso ad ascoltare. Si parlava delle comunali a Gerocarne, soprattutto, delle provinciali e, visto che c’erano, pure delle regionali, perché il 2005 fu un anno di chiamata alle urne. Comunali decise: si doveva votare Altamura. Provinciali e regionali ancora sub iudice, invece. Un passaggio interessate dall’ordinanza “Luce nei boschi” riferito ad uno degli indagati raggiunti da misura cautelare: «Discuten- do con la moglie sulle future elezioni regionali affermava che avrebbero votato esclusivamente il candidato politico suggerito da soggetti loro amici. A tal proposito, infatti, precisava che il loro voto sarebbe stato dato al candidato suggerito da tale “Fran- co Lico”. Successivamente la moglie invitava il marito a non interessarsi delle prossime elezioni comunali, motivando la richiesta con quanto accaduto alle precedenti votazioni, nel corso delle quali il consorte aveva sostenuto la campagna elettorale in favore di tale “orecchie a sventola”, politico a cui vengono rivolte minacce di ritorsione da parte dell’indagato. Questi, infatti, dimostrandosi chiaramente scontento della “disponibilità” manifestata dal suddetto politico dopo il “sostegno elettorale” ricevuto, riferiva alla moglie che avrebbe provveduto a “picchiarlo personalmente”». Perché il politico che prende i voti della mala, in sostanza, ha un debito sempre da onorare. Il marito, pertanto, ammirava un’altra figura politica, tale «Vincenzo», il quale «avrebbe “favorito” l’aggiudicazione di appalti pubblici in favore degli adepti della consorteria Loielo». Piccoli lavoretti: appalti pubblici per rifare i cimiteri di Soriano e Sant’Angelo. Bastava per meritarsi il consenso del clan. Non c’è altro. O, meglio, non si va oltre. Tra intercettazioni “omissate” e percorsi logico-indiziari che attengono alle sole contestazioni mosse nell’ordinanza che con l’operazione “Luce nei boschi” ha portato in galera ventotto su trenta dei presunti capi ed affiliati al locale di Ariola. Le indagini, d’altronde, vanno avanti. Ci sono altri casi d’omicidio da risolvere. E c’è, probabilmente, materiale utile per capire - dopo le comunali di Gerocarne - anche cosa successe alle provinciali ed alle regionali. p.com. L’anno 2005 La società chiamava i suoi adepti in vista delle urne. Si votava per le comunali, ma anche per il rinnovo del consiglio provinciale e di quello regionale Povero Enrico... A quaranta giorni dal voto la malavita non aveva ancora deciso chi sostenere alla Provincia. Il primo a farsi avanti fu un certo Enrico, senza fortuna... Invece Franco... Era l’uomo dal quale gli affiliati al locale di Gerocarne aspettavano lumi su chi votare alle elezioni regionali Buoni e cattivi Un politico aveva tradito e quindi doveva essere pestato. Un altro aveva assicurato appalti e doveva essere premiato 27 SABATO 28 gennaio 2012 calabria ora V I B O dalle carte C’era un rapporto di «amicizia» tra Bruno Emanuele e Antonio Forastefano. Si sono conosciuti sul finire degli anni ’90 a Vazzano. Per una questione di traffici di droga, da importare dalla Puglia. A raccontarlo è lo stesso Forastefano, ritenuto dagli inquirenti il capo indiscusso insieme al fratello Vincenzo del clan operante nella Sibaritide, e oggi collaboratore di giustizia. Scambi di cortesie per droga. Ma anche per armi. Armi usate per uccidere. Come in occasione del duplice omicidio dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Loielo, del 22 aprile 2002. Forastefano, Emanuele e l’agguato ai Loielo Il pentito di Cassano racconta il fatto di sangue: Bruno voleva Gerocarne Nell’interrogatorio reso al pm Luberto, Forastefano racconta nel dettaglio il fatto di sangue che sancì la presa del potere da parte di Bruno Emanuele. Prima l’antefatto: «Voglio precisare - dice Forastefano che Emanuele Bruno mi ha parlato espressamente di Gerocarne come luogo che a lui interessava e dove queste due persone comandavano». Ma a causa di una Lancia Thema con la frizione bruciata, l’esecuzione fu rimandata di qualche giorno. Quando tutto fu a posto, si tornò all’attacco. «Io ed Emanuele - il racconto del collaboratore - abbiamo percorso una stradina di montagna ed abbiamo atteso il sopraggiungere delle due vittime. Quando Emanuele ha ricevuto la telefonata dello “specchietto” mi ha intimato di scendere dall’auto, anche Emanuele è sceso e mi ha detto che al suo segnale avrei dovuto sparare al conducente dell’auto in modo da fermarne la marcia. Dopo qualche minuto Emanuele mi dava il segnale per cui iniziavo a sparare a ripetizione contro il conducente di una Fiat Panda. L’auto arrestava la marcia e impat- tava contro un muretto. Emanuele iniziava a sparare contro la persona posta sul sedile lato passeggero. Ricordo che l’auto ostruiva la carreggiata, ricordo ancora il rumore dell’autovettura. Emanuele aprì lo sportello, girò lo sterzo per sgomberare la strada». A quel punto, sotto una pioggia torrenziale, protetti solo dai giubbotti antiproiettile che indossavano, i due si dileguarono. Per quel duplice omicidio Bruno Emanuele è stato arrestato. Le parole del pentito eccellente sembrano inequivocabili. Se rispondono a verità lo decideranno i giudici. (g.maz.) “luce nei boschi” Tentati omicidi, omicidi. Per regolare i conti. Quelli della faida tra i Loielo e i Maiolo, ma non solo. Ne racconta di cose, Francesco Loielo. Oggi collaboratore di giustizia, tra il 1991 e il 1994 reggente della cosca di famiglia, fino alla sua carcerazione. Al procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e all’ispettore Filippo Cosco, nel corso di numerosi interrogatori del 2009, riferisce dettagli e particolari di una guerra di mafia che ha mietuto parecchie vittime, nei boschi delle Preserre. Dall’ordinanza firmata dal gip Tiziana Macrì sgorgano racconti di sangue. Nell’ottica dell’eliminazione ad oltranza, Loielo parla dei tentati omicidi di Bruno e Francesco Maiolo, il primo fratello di Rocco e Antonio (entrambi finiti ammazzati), il secondo cugino, e dell’omicidio di Pasquale De Masi. Bruno Maiolo fu ferito in un agguato, preparato - è il collaboratore a dirlo, a dire tutto ciò che segue - da Vincenzo Loielo (suo cugino, fratello di Giuseppe, entrambi trucidati il 22 aprile 2002 a Gerocarne) ed attuato da Giovanni Loielo e Salvatore Maiolo (di Fabrizia). Bruno era sceso dalla Germania in Calabria, siamo nel 1990, per il funerale del padre. Un giorno si appostarono, Loielo e Maiolo, in cima ad una collinetta nei pressi della casa della vittima predestinata, a Sorianello. Giovanni aveva un kalashnikov, Sal- «Mi dissero che De Masi lo ammazzò uno bravo...» Nei verbali di Loielo anche i tentati omicidi dei Maiolo FAIDA Il territorio di Gerocarne, teatro di diversi omicidi negli anni della faida vatore un 30x30 winchester. Ma le munizioni erano poche, contate. Forse per questo Bruno Maiolo fu ferito soltanto ad una mano. Ma l’intento sarebbe stato quello di uccidere. Ci sono una lettera e una telefonata, invece, al centro del tentato omicidio di Francesco Maiolo. Francesco Loielo racconta - nello stesso interrogatorio del 9 novembre 2009 che un giorno a casa sua arrivò la telefonata di una donna, figlia di Antonino Gallace, la quale riferiva di sapere chi fosse l’autore dell’agguato del 1989 a Vincenzo Loielo. Disse che però il nome lo avrebbe scritto in una lettera, che avrebbe poi depositato all’interno di una casupola diroccata di proprietà della Forestale. Diede indicazioni ai fratelli Loielo su dove andare a trovare la lettera. «Quindi io e mio fratello - rivela il collabo- ratore - andammo subito sul posto». «L’avete trovata questa lettera?», chiede il procuratore. «No - risponde -. Però abbiamo visto Ciccio Maiolo venire con molta cautela per cercare questa lettera. Forse lo ha appreso per telefono, magari alzando la cornetta». Loielo spiega infatti che Maiolo frequentava la casa di Gallace, e quindi avrebbe potuto sentire la donna parlare al telefono. Insomma, i due aspettavano la donna e si trovarono Ciccio Maiolo. A quel punto, insospettiti, attesero che l’uomo uscisse dalla casupola. Appena fuori, gli si pararono davanti: incappucciati, intimarono di fermarsi. Ciccio Maiolo si bloccò, Vincenzo Loielo gli puntò il fucile e sparò, ma l’uomo riuscì a fuggire. A quel punto Francesco Loielo cercò di raggiungerlo da un’altra via, ma Maiolo si dileguò nelle campagne. Faccia a faccia, uno sparo, ma stavolta niente sangue mortale. Epilogo diverso per un al- tro fatto, datato 1994. Questa volta è lo stesso Francesco Maiolo a dover commettere un omicidio. È quello del carrozziere di Soriano Pasquale De Masi. De Masi a quel tempo aveva rapporti con i fratelli Giuseppe e Vincenzo Loielo, con i quali commetteva alcuni furti di auto che poi “spacchettavano” in pezzi e rivendevano. Il collaboratore di giustizia non è in grado di riferire con precisione perché, da un giorno all’altro, i suoi cugini intendessero sbarazzarsi dello sfasciacarrozze. Dice che gli era stato spiegato che «non si comportava più bene». Andava eliminato. Per l’azione di morte Giuseppe e Vincenzo si rivolsero al cugino, in maniera tale da avere poi un alibi. Egli non si rifiutò. Una sera andarono in una campagna di Soriano, dove De Masi aveva un’abitazione. Ci andarono perché Francesco, la sua vittima, neanche la conosceva. Doveva vederlo. E magari, quella sera stessa, ucciderlo, dato che si era portato dietro un fucile calibro 12. Mentre si avvicinavano al garage, però, qualcuno li vide. Tutto sfumò. Di lì a poco Francesco Loielo fu arrestato. Dal carcere venne a sapere che, dopo qualche tempo, il carrozziere fu ammazzato. «I miei cugini - rivela in un interrogatorio del 2009 - in un colloquio in carcere mi dissero che era stato Enzo Taverniti. Mi dissero che era uno bravo». Giuseppe Mazzeo dai verbali dell’interrogatorio Le rivelazioni di Michele Ganino: i Maiolo fecero la strage dell’Ariola «Ad Acquaro tutti sanno che comandavano i fratelli Maiolo, perché questi spadroneggiavano in paese». Michele Ganino è un collaboratore atipico. Dice di non essere mai entrato, in maniera diretta, negli affari criminali del gruppo del suo paese. Il suo ruolo - specifica - era quello di “contrasto onorato”, «soggetto che gode della fiducia ma che non svolge un ruolo della ‘ndrangheta». Ma le sue dichiarazioni - per gli inquirenti - forniscono un quadro chiaro delle dinamiche in atto all’alba del nuovo millennio. Ad Acquaro Ganino aveva un bar. Uno dei suoi clienti «migliori» era Rocco Maiolo. Con lui aveva un rapporto di «amicizia». «Una quindicina d’anni fa circa - racconta in un interrogatorio del dicembre 2010 - il Maiolo Rocco sparì e non si seppe più notizia di lui, e io avevo preso a dare una mano ai suoi due figli Francesco e Angelo, poiché mi facevano pena. Successivamente, quando divennero grandi, non ero più io a offrire loro denaro o servizi del bar gratuitamente, ma erano loro stessi che si facevano avanti chiedendomi espressamente soldi e di utilizzare la mia vettura e la mia moto». «Il loro padre - continua Michele Ganino era il capo ‘ndranghetistico della zona di Acquaro». Dopo la sua spari- zione «il suo posto è stato preso da Enzo Taverniti e Francesco Gallace, mentre attualmente i capi in testa sono i due fratelli Maiolo coadiuvati da Capomolla Francesco e Maiolo Francesco, i cugini». Ma Angelo e Francesco la morte del padre e dello zio non se l’erano scordata. «Mi avevano riferito di ritenere - rivela il collaboratore - che Taverniti Enzo e Gallace Francesco avessero ucciso il loro zio Antonio Maiolo, e quindi volevano vendicarsi. Volevano anche - aggiunge - riappropriarsi del territorio che fu del loro padre». È qui che si consuma il tentato omicidio di Taverniti. «Dopo alcuni giorni il cugino Francesco Maiolo e Angelo Maiolo sono venuti da me e mi hanno riferito che ritenevano di essere in pericolo perché avevano mancato il Taverniti durante l’agguato». Interessante è un altro passaggio, che potrebbe fare luce sulla strage dell’Ariola, nella quale persero la vita sotto una pioggia di piombo Giovanni e Francesco Gallace e Francesco Barilaro: «Una settimana circa prima dell’omicidio (...) Francesco il cugino e Angelo Maiolo mi avevano proposto di partecipare a questa azione di sangue. Avrei dovuto sparare anch’io, ma mi sono rifiutato di farlo e loro mi hanno detto di stare attento alle informazioni in tv e sui giornali poiché avrei avuto notizia a breve sull’argomento. Io ero incredulo di tale proposito, ma in effetti poi si è verificata la strage e dopo questa Angelo Maiolo mi ha mandato a chiamare a casa sua ad Acquaro e mi ha detto di fare silenzio e di non dire nulla sull’argomento». (giu.maz.) Dall’alto, Angelo e Francesco Maiolo