...

il gioco delle parti

by user

on
Category: Documents
23

views

Report

Comments

Transcript

il gioco delle parti
Stefano Boschi
Fr
ee
w
nl
oa
d
do
IL GIOCO
DELLE PARTI
E tu, che parte fai?
E-book
© Copyright 2014
Alcuni brani di questo e-book sono tratti da
Terapia dei Nuclei Profondi
di Stefano Boschi.
1
Indice
Introduzione … 4
Noi e le nostre parti … 8
Il bambino interiore … 10
I volti del bambino interiore … 14
La parte forte … 19
I volti della parte forte … 20
L’identikit delle parti forti … 31
Il girotondo … 35
I problemi come paradossi … 38
Come identificare la parte forte … 40
La ruota del carattere … 45
Il carattere e le relazioni … 52
I problemi umani e il gioco delle parti … 57
La trasmutazione emozionale … 59
Guidare la parte forte … 64
La spia sul cruscotto … 66
I conflitti relazionali … 68
Verso la comunicazione libera dai conflitti … 71
Dalle parti al tutto: il ritorno all’armonia … 76
L’autore … 59
Il Metodo di Cambiamento Rapido o MCR … 60
2
Questo libro ti vuole raccontare una storia che, come tutte le storie,
è animata da vari personaggi e dalle loro vicende.
Diversamente da molte altre però,
i personaggi di questa storia vivono nel tuo mondo interiore …
3
Introduzione
C’era una volta un uomo che aveva tre figli; il minore, chiamato il Grullo, era
disprezzato, deriso e sempre trascurato. Un bel giorno, il maggiore volle andare
a far legna nel bosco e, prima di uscire, ebbe da sua madre una bella frittata e
una bottiglia di vino per non soffrire la fame e la sete. Entrando nel bosco
incontrò un vecchio omino grigio, che lo salutò e disse: «Dammi un pezzo della
tua frittata e lasciami bere un sorso del tuo vino, ho tanta fame e tanta sete!».
Ma il figlio accorto rispose: «Se ti do la mia frittata e il mio vino per me non
resta nulla: levati dai piedi!». Lasciò in asso l’omino e se ne andò. Cominciò a
tagliare qualche ramo, ma ben presto sbagliò il colpo e con la scure si ferì il
braccio e dovette tornare a casa a farsi bendare. Ma quello era un tiro
dell’omino grigio. Poi andò nel bosco il secondo figlio e anch’egli, come il
maggiore, ebbe dalla madre una frittata e una bottiglia di vino. Anch’egli
incontrò il vecchio omino grigio, che gli chiese un pezzo di frittata e un sorso di
vino. Ma anche il secondo figlio disse giudiziosamente: «Quel che do a te
manca a me, levati dai piedi!». Lasciò in asso l’omino e se ne andò. Ma il
castigo non si fece aspettare: dopo aver dato due o tre colpi a un albero si ferì la
gamba e dovettero trasportarlo a casa. Allora disse il Grullo: «Babbo, per una
volta lasciami andare a far legna». Rispose il padre: «Si sono fatti male perfino
i tuoi fratelli! Tu lascia stare, perché non te ne intendi». Ma il Grullo lo pregò
tanto che il padre finì col dirgli: «Và pure, imparerai a tue spese!». La madre
gli dette una pagnotta cotta e una bottiglia di birra acida. Entrando nel bosco
incontrò anch’egli il vecchio omino grigio, che lo salutò e gli disse: «Dammi un
pezzo della tua focaccia e un sorso delle tua bottiglia, ho tanta fame e tanta
sete». Rispose il Grullo: «Io ho soltanto un po’ di pane cotto nella cenere e
birra acida, se ti va sediamoci e mangiamo». Si misero a sedere e quando il
Grullo tirò fuori la sua focaccia trovò una bella frittata e la birra acida era
diventata buon vino. Mangiarono e bevvero, poi l’omino disse: «Siccome hai
4
buon cuore e dai volentieri del tuo voglio che tu abbia fortuna. Là c’è un
vecchio albero, abbattilo e troverai qualcosa nelle radici». E gli disse addio. Il
Grullo abbatté l’albero e quand’esso cadde trovò nelle radici un’oca con le
penne tutte d’oro.
Questa fiaba dei fratelli Grimm, L’oca dalle penne d’oro, non è la storia che questo
libro ti vuole raccontare, anche se in qualche modo la introduce. In questa fiaba si
narra la storia del Grullo, il figlio che viene trascurato e disprezzato perché
considerato incapace e inadeguato.
Ognuno di noi ha tanti figli, alcuni considerati capaci, validi e degni di
apprezzamento, mentre altri considerati incapaci, inadeguati e da disprezzare. Si tratta
dei nostri comportamenti, delle nostre reazioni.
Tra tutte le reazioni che consideriamo inadeguate ve n’è una che tendiamo a
disprezzare in modo particolare: si tratta di quelle emotive, ossia del provare emozioni
spiacevoli in relazione alle circostanze esterne.
Quando ci sentiamo giù di morale, afflitti, incapaci, inadeguati, tristi, avviliti
perché le cose non stanno procedendo come speravamo, quando abbiamo
l’impressione che la nostra vita sia priva di senso perché non riusciamo a realizzare
quel progetto a cui tenevamo tanto, tendiamo a considerare il nostro stato d’animo
alla stregua del Grullo nella fiaba dei fratelli Grimm.
Il motivo è che le emozioni sono la cosa più potente che abbiamo, nel bene e nel
male. Mosso dalle nostre emozioni il nostro agire si rivela a volte bizzarro,
inspiegabile, totalmente irrazionale, come se a metterlo in atto fosse una sorta di alter
ego che rimane celato alla nostra consapevolezza.
Vorremmo cambiare, comportarci in modo diverso, far sì che la nostra vita
seguisse un'altra direzione, ma ci sentiamo impotenti.
È il caso di chi gioca ai cavalli perdendo una fortuna, di chi mangia troppi dolci o
fuma troppe sigarette senza poter smettere, di chi non riesce a trattenere le esplosioni
di rabbia incontrollata.
Il semplice discostarsi dal buonsenso diviene a volte un vero e proprio tradimento
della razionalità nelle relazioni affettive, come nel caso in cui allacciamo
ripetutamente rapporti con persone che riteniamo, a dir poco, inadeguate ai nostri
bisogni e da cui ci sentiamo soggiogati.
5
Gli esempi potrebbero continuare pressoché all'infinito. Che cosa c'è dietro a
tutto questo?
Le emozioni giocano nella nostra vita un ruolo importante, quello di farci sapere
che esistiamo! Cosa sarebbe, infatti, la nostra vita senza emozioni?
Se potessimo vedere cose, ascoltare suoni, muoverci nello spazio, parlare con
qualcuno, svolgere il nostro lavoro, incontrare persone senza provare alcunché,
sarebbe come vivere una vita in bianco e nero, vuota, che non ci apparterrebbe, una
vita priva di senso.
La possibilità di provare emozioni è tanto importante per noi da farci preferire, a
volte, provare stati d’animo spiacevoli piuttosto che noia e senso di vuoto. Per
quanto paradossale ed assurdo possa sembrare, è preferibile una vita costellata da
momenti di sofferenza a una vita – se mai fosse possibile – emotivamente piatta.
Ecco svelato il mistero del grande successo delle telenovelas, in cui le intricate
vicende dei protagonisti richiamano in modo evidente i più tipici conflitti relazionali
dell'intera umanità, così come il successo di tanta junk television, in cui non viene
mostrato altro che omicidi, violenza, inseguimenti, risse e cose del genere.
Si tratta del modo più facile, anche se il più triviale, per suscitare una qualche
forma di emozione, in modo da attribuire appunto «senso» alla nostra serata.
L'importanza delle emozioni è ben nota ai creativi della pubblicità: non si può
ascoltare un comunicato pubblicitario che non parli o non faccia leva, direttamente o
indirettamente, sulle nostre emozioni. Non si vende il prodotto per le sue
caratteristiche merceologiche o tecnologiche, bensì per ciò che sarebbe in grado di
farci provare.
I creativi della pubblicità devono sapere ciò che controlla e motiva il nostro
comportamento, più di quanto non sia necessario per ogni altro professionista:
gestiscono, infatti, miliardi e miliardi di euro e di dollari, non possono permettersi di
non saperlo!
Le passioni che abbiamo vissuto, ancora molto piccoli, nel rapporto con i nostri
genitori ci hanno fatto sapere di esistere. Si tratta delle esperienze più forti che
abbiamo mai provato.
Chi ha assistito alla tempesta emozionale di un bambino sa bene quanto la rabbia,
la disperazione, la solitudine possano essere soverchianti.
6
Una volta diventati adulti cerchiamo di controllare le nostre passioni facendo leva
sulla razionalità, che viene ad acquisire il ruolo del cavaliere che conduce il suo
cavallo là dove lui vuole andare: ma «lui» chi è, il cavallo o il cavaliere?
Le emozioni sono il nostro inferno e il nostro paradiso. Ogni problema è tale nella
misura in cui reca in sé un vissuto spiacevole, altrimenti che problema sarebbe? Ogni
soluzione è tale nella misura in cui reca in sé un vissuto piacevole, altrimenti che
soluzione sarebbe?
Le sette meraviglie del mondo sono state definite in questo modo perché lasciano
esterrefatto chi vi si trova di fronte, sono capaci cioè di suscitare intense emozioni. Si
potrebbe affermare che esiste una sola e vera meraviglia: la nostra capacità di provare
intense emozioni!
Chi è capace di farci provare profondi quanto piacevoli stati d’animo possiede su
di noi lo stesso potere del pifferaio magico: iniziamo a seguirlo dovunque vada.
Le travolgenti passioni che abbiamo provato nella nostra infanzia non
appartengono al passato. Sono i messaggeri che si presentano al nostro cospetto
dopo aver attraversato l'oceano del tempo per animare i nostri incubi e i nostri sogni.
È dalle nostre antiche, inestinguibili, possenti e irrefrenabili emozioni che nascono
le nostre «parti» e il gioco che esse instaurano, appunto il «gioco delle parti».
Si tratta di un miscuglio indistinguibile di sentire, di pensare, di atteggiamenti nei
confronti degli altri che prende vita dentro e fuori di noi, nel nostro mondo psichico
così come in quello delle nostre relazioni.
In ognuno di noi c’è un Grullo disprezzato, in ognuno di noi c’è un bambino
rifiutato che aspetta di essere riconosciuto e accolto nel suo disagio o nella sua
sofferenza.
Proprio come accade al Grullo nella fiaba dei fratelli Grimm, egli è, in modo del
tutto insospettabile, il depositario di quelle risorse che sentiamo mancanti nella nostra
vita di adulti.
7
Noi e le nostre parti
L'idea delle parti come aspetti diversi che compongono la personalità non è
affatto nuova.
Il nostro linguaggio quotidiano la riflette continuamente, attraverso espressioni
quali «C'è una parte di me che mi spinge a … mentre un'altra vorrebbe che …», «In
quel momento era come non fossi più me stesso», «Era come se fossi un'altra
persona», «Fu come se qualcosa dentro di me avesse preso il sopravvento».
Più che apparire come un monolito, la nostra personalità può essere paragonata a
un mosaico, formato di tante tessere.
Alcune di queste tessere risultano ben integrate con la figura che vanno a
comporre mentre altre no, proprio come in quei mosaici antichi provati dal tempo,
che andrebbero un po’ ricomposti.
Se la nostra personalità è come un mosaico, di quelli antichi, dobbiamo
considerare la possibilità che ci siano alcune tessere o appunto parti che necessità di
un intervento restaurativo, al fine di ritrovare la loro originaria armonia in seno alla
figura complessiva, al tutto.
A volte si ha come l’impressione che in seno alla personalità esistano dei nuclei di
consapevolezza e deliberazione che vivono di vita propria, aspetti di noi che in alcuni
particolari momenti sono capaci di prendere il sopravvento, sovrapponendo la loro
volontà alla nostra.
Ciò accade soprattutto quando siamo preda di forti emozioni e ci troviamo a
pensare, a sentire, a volere cose che in condizioni normali non riconosciamo come
nostre.
Ben lungi dal costituire un fenomeno anomalo, questo stato di cose rientra nella
perfetta normalità, anche se molti nostri problemi dipendono da questo.
Quando una parte prende il sopravvento sul tutto si realizza ciò che i latini
chiamavano pars pro toto, ossia la parte prende il posto del tutto. È questo fatto che dà
inizio al «gioco delle parti».
Ma come sono, quali sono le nostre parti? Ognuno di noi ha parti diverse o sono
uguali per tutti?
8
Per rispondere a queste domande dobbiamo immaginare che il nostro mondo
interno, quello psichico, sia come un teatro nel quale – come in tutti i teatri che si
rispettano – prendono vita alcuni personaggi.
Dato che si tratta di un teatro interiore, il copione messo in scena dai personaggi che
lo animano deve avere a che fare con la nostra più personale esperienza.
Due personaggi danno vita al «gioco delle parti». Il primo riflette quello che noi,
come adulti, siamo tutti stati, ossia bambini. Si tratta di quello che possiamo chiamare
il «bambino interiore». Esso mostra due diverse facce.
La prima è fonte di creatività, capace di giocare con le cose, le situazioni, le
persone e quindi capace di farci divertire. La seconda invece è il ricettacolo della
sofferenza che abbiamo patito nella nostra infanzia.
Può essersi trattato di paura, di solitudine, di tristezza, di senso di vuoto o di altro
ancora, ma di qualunque stato d’animo si sia trattato non è mai scomparso, perché il
nostro bambino interiore se n’è fatto carico.
D’ora in poi, parlando del bambino interiore ci riferiremo a questo particolare
volto, carico di disagio o di vera e propria sofferenza.
Esistono profonde similarità tra noi esseri umani anche per quanto riguarda le
nostre parti. Il primo e fondamentale motivo è che proviamo tutti le stesse emozioni.
Le differenze si riscontrano sul piano del quanto, del come e del dove, non certo del cosa.
Non proviamo le stesse emozioni nello stessi momento, in relazione alla stessa
circostanza, con la stessa persona, non le esprimiamo nello stesso modo, ma senza
dubbio proviamo le stesse emozioni e gli stessi sentimenti.
Non importa di quale forma di malessere qualcuno ci parli, possiamo senza ombra
di dubbio comprenderlo. Forse non possiamo comprenderne i motivi, ma siamo di
certo in grado di capire di che cosa ci stia parlando.
Se vogliamo ritrovare un senso di unità tra gli esseri umani dobbiamo riferirci a
ciò che sentiamo e non a ciò che pensiamo o a come valutiamo le cose.
I volti del bambino interiore sono quindi tanti quanti sono le emozioni spiacevoli.
Dato che le emozioni fondamentali – come ha mostrato Charles Darwin – sono
universali, tali volti appaiono ricorrenti al punto da poterne identificare un numero
assai ristretto.
Tra poco passeremo assieme in rassegna questi diversi volti, ma non prima di
averti raccontato una storia.
9
Un giorno, una spedizione di scienziati, accompagnati da una squadra di portatori,
stava attraversando un territorio impervio in una sperduta regione del mondo. Il
responsabile della spedizione aveva imposto già da alcuni giorni un ritmo di marcia
molto serrato, poiché la spedizione era in ritardo sul programma stabilito.
Il terzo giorno, il capo dei portatori dice ai suoi di fermarsi: sorpreso e contrariato
il responsabile della spedizione gli chiede spiegazione, al che l'uomo candidamente
risponde: «Abbiamo camminato troppo in fretta. Ora dobbiamo aspettare la nostra
anima!».
Il bambino interiore
Il bambino interiore è in grado di condizionare profondamente la nostra vita, sia
individuale che sociale, in forza del potere delle emozioni spiacevoli di cui è carico.
È questo bambino l'anima che ci siamo lasciati indietro nel corso della marcia
forzata dall'infanzia all'età adulta e che ora ci ritroviamo davanti nella forma dei
problemi che ci affliggono.
Ciò che ci lasciamo indietro un giorno ce lo ritroveremo davanti. Come affermò
qualcuno, se continuiamo a fuggire dai nostri problemi saremo molto stanchi quando
un giorno ci raggiungeranno. E questo è il caso del nostro bambino interiore.
È il tiranno che continua a pretendere riconoscimento e accettazione per la
sofferenza da cui si sente afflitto e finché non avrà ottenuto ciò che cerca continuerà
a perseguitarci.
Dalle emozioni spiacevoli nasce quindi un bisogno: quello di riconoscimento e di
comprensione. Si tratta della chiave per comprendere l’esistenza del nostro bambino
interiore.
Oltre duemila anni or sono, osservando come i bisogni relazionali apparivano
dominanti sugli altri, Aristotele, maestro di color che sanno, definì l’essere umano come
«l’animale sociale».
Recentemente, alcuni ricercatori della Brigham Young University dello Utah
hanno affermato che la mancanza di relazioni sociali apporta lo stesso danno
biologico dell'alcolismo e dell'obesità.
10
Tra i bisogni che ci contraddistinguono come animali sociali spicca quello di
riconoscimento e di comprensione della sofferenza che proviamo. La soddisfazione
di questo bisogno permette, per altri versi, lo stabilirsi di profonde relazioni.
Non esiste legame più forte di quello che si osserva tra persone che ne hanno
passate di tutti i colori, come ad esempio i commilitoni che hanno combattuto la
stessa guerra, che sono passati attraverso situazioni in cui il pericolo di vita ha fatto
emergere emozioni estreme, come panico e disperazione.
I riti di iniziazione che ritroviamo in tutti i popoli tradizionali, in particolare quello
che coincide con l'entrata del giovane nella pubertà, sembrano fatti apposta per
stimolare quelle forti emozioni che renderanno l'individuo profondamente parte di
quella comunità, amplificando al massimo grado il suo spirito di coesione con il resto
della tribù.
La possibilità di condividere stati d'animo spiacevoli e quindi di comprendersi
reciprocamente in un modo unico, profondo e irripetibile crea un rapporto destinato
a durare tutta la vita.
In tal senso va forse interpretata la sindrome di Stoccolma, la condizione
psicologica nella quale una persona prima vittima di un sequestro può in seguito
manifestare sentimenti positivi (talvolta anche innamoramento) nei confronti del
proprio sequestratore.
Durante una rapina alla Kreditbanken di Stoccolma del 1973, alcuni dipendenti
furono tenuti in ostaggio dai rapinatori per sei giorni. Essi provarono una forma di
attaccamento verso i banditi, giungendo, una volta liberati, a prenderne le difese e
richiedere per loro la clemenza alle autorità.
Come si potrebbe affermare che essere tenuti in ostaggio per sei giorni non
rappresenti un’esperienza molto emozionante?!
Per riprendere quanto affermato dai ricercatori della Brigham Young University
dello Utah a proposito del bisogno di relazioni sociali, anche quelle conflittuali sono
pur sempre relazioni!
Se le emozioni spiacevoli possono costituire un collante tra le persone, anche in
situazioni relazionali paradossali come quella tra il rapitore e la sua vittima, è anche
vero che possono determinare il naufragio di un rapporto che dura da anni.
11
Il problema è che di fronte alla sofferenza, sia nostra che quella altrui, la nostra
cultura ci suggerisce un atteggiamento che va in senso diametralmente opposto al
bisogno di riconoscimento e di comprensione, proprio del nostro bambino interiore.
Se qualcuno viene da noi e ci racconta che sta male, tendiamo in modo del tutto
automatico – ossia senza pensarci minimamente su – a rivolgergli frasi quali «Vedrai
che passa!», «Cosa vuoi che sia!», «C’è di peggio!», «Pensa alle cose positive», «Non
devi sentirti male!», «Non è giusto che ti senta così!» e via dicendo, chi più ne ha più
ne metta.
Come diceva Oscar Wild, è con le migliori che spesso si producono i peggiori dei risultati.
Queste frasi, infatti, pur essendo proferite con le migliori delle intenzioni producono
come effetto la frustrazione del bisogno di riconoscimento e di comprensione.
In altre parole, il semplice disagio o la vera e propria sofferenza non vengono
riconosciuti o compresi.
Un bisogno è ben altra cosa rispetto a un semplice desiderio. Mentre i bisogni
sono stabiliti da madre natura i desideri invece vanno e vengono, come le mode. Se
un bisogno, un vero e genuino bisogno, non viene soddisfatto ne uscirà
inevitabilmente rafforzato.
Con esso finisce per essere consolidata anche la sofferenza che ne costituisce il
contenuto, che tenderà perciò a riemergere di nuovo e di nuovo nella nostra vita
come un cibo non digerito, alla perenne ricerca di riconoscimento e di comprensione.
Oltre un secolo fa William James affermava:
«Se fosse realizzabile, non ci sarebbe pena più diabolica di quella di
concedere a un individuo la libertà assoluta dei suoi atti in una
società in ci nessuno si accorga mai di lui»
Nei primi anni di vita, quando il bambino subisce la frustrazione di un bisogno
importante all'interno della relazione con i suoi genitori, la sofferenza che prova
instaura un bisogno di livello superiore, quello di sentirla da loro riconosciuta,
accettata e compresa.
Per il cucciolo di animale sociale, la soddisfazione di tale bisogno produrrebbe
un'esperienza di grande soddisfazione, che si porrebbe a un livello superiore rispetto a
12
quello della soddisfazione del bisogno originariamente frustrato. Ecco come si
consolidano le relazioni.
Senza comprendere la sofferenza e senza comprendersi nella sofferenza la
relazione resta monca, insoddisfacente.
Non dobbiamo peraltro dimenticare che le nostre relazioni occupano un posto
privilegiato tra le determinanti di ciò che chiamiamo qualità della vita, ricollocandoci
continuamente all'interno del continuum creato dai due poli malessere-benessere.
Sul piano relazionale, il bisogno fondamentale del bambino è di essere riconosciuto
dai suoi genitori, prima ancora che accettato, amato, apprezzato, di ricevere quindi il
messaggio «Tu per noi esisti!». Si tratta di esistere per l'altro e attraverso l'altro.
Tale è il significato del rituale sociale del saluto, ossia offrire e ricevere
riconoscimento: «Salve! Come stai? Cosa fai di bello?».
È certamente capitato a tutti di osservare un bambino che vuole a tutti i costi
qualcosa – una caramella, un giocattolo, essere portato al cinema – da un adulto, che
però glielo nega.
A volte capita che, nel momento in cui il bambino si arrabbia o si dimostra offeso,
l'adulto cambi idea e divenga disponibile nei confronti della sua originaria richiesta.
Proprio a questo punto spesso si osserva un comportamento paradossale da parte
del bambino, che ora rifiuta ciò che fino a qualche istante prima richiedeva
insistentemente.
Se l'adulto ora non riconosce al bambino il suo stato d’animo, il fatto che si sente
offeso e arrabbiato, egli difficilmente accetterà l'offerta e si dimostrerà felice per la
ritrovata disponibilità dell'adulto.
La focalizzazione è quindi passata dal cosa, ossia dall’oggetto in sé che veniva
richiesto, al come della relazione. Ora non è più tanto importante il primo, bensì la
seconda.
È soprattutto in relazione alla nostra sofferenza che sentiamo il bisogno di essere
accolti, in particolare dalle persone a cui siamo legati. Se tale bisogno è importante
per noi adulti immaginiamo quanto dev'esserlo per il bambino da parte dei suoi
genitori.
Caduto per cento anni nel sonno del mancato riconoscimento, il nostro bambino
interiore può essere risvegliato dall'accoglimento che si rivolge alla sua sofferenza.
13
Riconoscere e accettare un'emozione spiacevole o un impulso risulta più facile se
attribuito a una propria parte, piuttosto che a se stessi come tutto.
Se nutro sentimenti di odio e di vendetta nei confronti di qualcuno, soprattutto se
sono religioso convinto, sarà molto difficile che possa accogliere tali moti del mio
animo, a meno che non li attribuisca a una parte di me.
I volti del bambino interiore
Il mancato riconoscimento e la mancata comprensione della sofferenza infantile è
ciò che dà vita al nostro bambino interiore e ne determina la sopravvivenza nel corso
dei decenni, fino al termine dell’esistenza.
Ricordiamo che da un certo punto in poi, con questa espressione ci siamo riferiti
alla faccia del bambino interiore carica appunto di sofferenza e non a quella creativa e
giocosa.
Scopriremo ora i suoi diversi volti, che ancora oggi si rivelano carichi di paura,
senso d’inadeguatezza, senso di abbandono, di oppressione, di colpa, di non
esistenza, di rabbia, sentimenti che non furono mai accolti nella nostra infanzia e che
sembrano oggi perseguitarci nei momenti bui della nostra vita.
Il bambino spaventato
Il bambino spaventato nasce soprattutto nel rapporto con un genitore autoritario,
prepotente, aggressivo, oppure con uno iperprotettivo, sempre in ansia e
preoccupato per gli eventuali pericoli.
14
Entrambi questi genitori frustrano il bisogno di sicurezza e di protezione, facendo
emergere senso d’insicurezza, d’incertezza, paura, fino al vero e proprio terrore.
Il bambino inadeguato
Il bambino inadeguato nasce, come nel caso del bambino spaventato, soprattutto
nel rapporto con un genitore autoritario, prepotente, aggressivo, oppure con uno
bisognoso che pone richieste superiori alle sue effettive capacità.
Entrambi questi genitori frustrano il bisogno di autostima, facendo emergere
senso d’inadeguatezza, d’incapacità, d’impotenza.
Il bambino abbandonato
Il bambino abbandonato nasce soprattutto nel rapporto con un genitore
distaccato, freddo, distante o dal punto di vista emotivo o fisico, che frustra il suo
bisogno di affetto e di attaccamento.
È dalla frustrazione di tale bisogno che nascono senso di solitudine, di
abbandono, di vuoto, tristezza.
15
Il bambino invaso
Il bambino invaso nasce soprattutto nel rapporto con un genitore iperprotettivo e
ansioso o con uno bisognoso che pone continue richieste di assistenza e di sostegno.
Entrambi questi genitori frustrano, anche se in modi completamente diversi, il
bisogno di autorealizzazione, da cui nascono il senso di oppressione, di essere invaso
e violato nella propria territorialità psicologica.
Il bambino colpevole
Il bambino colpevole nasce soprattutto nel rapporto con un genitore autoritario,
colpevolizzante e aggressivo o, di nuovo, bisognoso. Mentre il primo frustra il
bisogno relazionale di essere apprezzato e valutato positivamente il secondo frustra
quello di autorealizzazione.
È dalla frustrazione di tali bisogni che nascono senso di colpa, di non valore,
vergogna.
16
Il bambino invisibile
Differentemente dagli altri bambini interiori, quello invisibile non è rappresentato
da alcuna figura, giacché non si vede. Esso nasce soprattutto nel rapporto con un
genitore distaccato, che non lo considera e lo tratta come se non esistesse, che tende
perciò a frustrare il suo bisogno di riconoscimento.
È dalla frustrazione di tale bisogno che nascono senso di nullità, l’impressione di
non esistere, la sensazione di essere trasparente.
Il bambino arrabbiato
Il bambino arrabbiato costituisce il corollario di tutti i precedenti, nella misura in
cui la rabbia è un effetto inevitabile di pressoché ogni forma di sofferenza, quando
protratta oltre una certa soglia d’intensità e di tempo.
Quando si soffre si finisce, prima o poi, che se ne sia o meno consapevoli, per
provare rabbia. La sofferenza va, infatti, contro la nostra naturale tendenza a sentirci
bene e la rabbia fornisce la spinta a reagire a tutto ciò che c’impedisce di realizzare
tale naturale tendenza.
Questo volto di bambino interiore nasce quindi nel rapporto con ogni tipo di
genitore preso finora in considerazione e quindi dalla frustrazione di qualsivoglia
bisogno. Esso può provare tutte le diverse forme di rabbia e tutte le diverse forme di
sentimenti che da essa derivano, quali invidia, gelosia, odio, rancore.
17
Hai scoperto quale o quali sono i volti del tuo bambino interiore? Mentre hai
cercato di farlo puoi incappare in un errore. Devi innanzitutto tenere conto del fatto
che tutti proviamo tutte le emozioni che sono state precedentemente attribuite ai
diversi volti del bambino interiore.
Ci sono comunque emozioni che vanno e vengono giacché appaiono legate alle
mutevoli circostanze della vita, che anche se spiacevoli non sono vissute come un
«problema».
Questo tipo di emozioni, che non si affaccia regolarmente alla finestra della nostra
coscienza, le chiameremo emozioni di tipo 1.
Ci sono invece emozioni che emergono in modo ricorrente e che non si rivelano
quindi direttamente legate a particolari circostanze bensì piuttosto indipendenti da
esse.
Differentemente da quelle di tipo 1, queste emozioni sono invece vissute come un
«problema» e, in quanto tali, si affacciano regolarmente alla finestra della nostra
coscienza; le chiameremo emozioni di tipo 2.
Mentre le prime si originano nella nostra dimensione attuale le seconde sono sorte
quando eravamo bambini. Sono queste emozioni che, proprio come nella storia della
spedizione, ci siamo lasciati indietro e che ora ci ritroviamo davanti, nella forma dei
nostri problemi.
Sono le emozioni che non sono mai state o riconosciute o accettate e che perciò
ora sono alla ricerca dell’accoglimento che non hanno mai avuto. Queste sono le
emozioni del nostro bambino interiore.
Rimango spesso stupefatto nell'accorgermi del modo in cui le persone parlano
della loro infanzia, del rapporto con i loro genitori, come se le passioni legate a quelle
circostanze siano state semplicemente coperte ma mai cancellate o anche solamente
attenuate.
Non si tratta di semplici ricordi ma di veri e propri parti di sé sopravvissuti al
passato, parti ancora vive e vegete nel presente, come se il tempo per loro non fosse
affatto trascorso e lo spazio non avesse alcun senso.
Come la Fenice che risorge dalle proprie ceneri, il nostro bambino interiore è
destinato a risorgere alla ricerca dell’accoglimento a cui non può rinunciare. Per
poterlo ottenere sarà disposto a tutto, a pagare e a farci pagare qualsiasi prezzo.
18
La parte forte
Prima abbiamo affermato che due personaggi danno vita al gioco delle parti,
finendo per parlare solo del bambino interiore.
A questo punto possiamo introdurre l’altra parte, quella che chiameremo la «parte
forte». Ma da che cosa nasce questa parte?
Parlando
del
bambino
interiore
abbiamo
accennato
all’atteggiamento
culturalmente diffuso a non riconoscere o a rifiutare la sofferenza, sia nostra che
altrui. Si tratta, in realtà, del riflesso di quell’innata tendenza propria dell’animo
umano a evitare il dispiacere.
Se mi appoggio inavvertitamente a un termosifone molto caldo, la mia prima e
giustificata reazione sarà di togliermi dall'incomoda posizione il più rapidamente
possibile.
Abbiamo mai ascoltato qualcuno dire nelle sue preghiere qualcosa del tipo
«Signore, fa che la gioia che provo finisca presto!». Non abbiamo mai ascoltato niente
del genere perché tutti gli esseri viventi – e noi con loro! – amano star bene, trovarsi
in equilibrio, provare piacere e, per quanto riguarda noi esseri umani, gioia.
Abbiamo certamente ascoltato qualcuno pregare dicendo invece qualcosa come
«Signore, fa che la mia sofferenza e il mio dolore finiscano presto!».
Per quanto riguarda la sofferenza siamo come una coppa che riempendosi si
restringe, potendone contenere sempre meno.
Non tolleriamo nemmeno un secondo di disagio o di sofferenza senza cercare,
anche se in modo totalmente automatico, di fare qualcosa per eliminarlo, proprio
come accadrebbe nel caso del termosifone che scotta.
Può trattarsi di un semplice prurito: senza pensarci su nemmeno un secondo la
nostra mano si attiva, raggiunge la parte del corpo che prude per eliminare quel
fastidio, anche se così piccolo e insignificante.
Per quanto riguarda invece il piacere, la gioia, la soddisfazione siamo come una
coppa che mentre si riempie si allarga, per poterne contenere sempre di più. Non c’è
alcun limite!
Quello che possiamo chiamare il principio del termosifone determina la nascita della
nostra parte forte, la parte di noi volta a far fronte al disagio e alla sofferenza
racchiusi nel nostro bambino interiore.
19
I volti della parte forte
Come nel caso dell’omino grigio nella fiaba L’oca dalle penne d’oro dei fratelli Grimm
che hai letto all’inizio, la parte forte si rivolge a quella rifiutata, derisa, disprezzata,
trasformando la sua fragilità in un punto di forza.
A seconda della forma in cui disagio e sofferenza si presentano, sviluppiamo parti
forti dal diverso volto, anche se tutte hanno qualcosa in comune. Come accade in
2001 odissea nello spazio e in Matrix, ciò che è stato costruito dall’uomo finisce per
prendere il sopravvento.
Prendendo le mosse dai diversi volti del bambino interiore vedremo ora le diverse
parti forti, che il disagio e la sofferenza richiamano per necessità.
Ognuna di loro è caratterizzata da un motto, da un preciso intento e da uno stato
d’animo che motiva uno specifico comportamento, messo inizialmente in atto al fine
di permettere al bambino di far fronte all’antica sofferenza, incarnata dai diversi volti
del bambino interiore.
I collegamenti che stabiliremo sono tutt’altro che assoluti bensì semplicemente
probabili. Accanto a uno stesso bambino interiore potrà, infatti, trovarsi qualsiasi
delle dodici parti forti che tra poco illustreremo.
Iniziamo quindi dal bambino interiore spaventato. Uno dei più probabili volti che
la parte forte potrà assumere è quello del Bullo.
Il suo motto è: «La miglior difesa è l'attacco!». Il Bullo vuole dominare l’ambiente
sociale in modo aggressivo e spinge perciò ad assumere l'atteggiamento di sfida di chi
non ha paura di nessuno. In adolescenza questo atteggiamento può sfociare,
appunto, nel bullismo.
20
Il tentativo è nascostamente quello di esorcizzare la paura del bambino interiore
spaventato.
Si tratta della parte forte che più d’ogni altra cerca di prendere il comando della
persona che lo ospita, per occupare il ruolo di tutto e relegare quella al ruolo di parte.
Quest’inversione paradossale ricorda la guerra decennale che i Titani
combatterono con gli dei dell’Olimpo, prima di essere precipitati nel Tartaro da Zeus
che li sconfisse.
Spingendo ad assumere un atteggiamento di aperta sfida il Bullo può farsi molti
nemici, il che finisce paradossalmente per incentivare la paura del bambino interiore
spaventato.
Da questo bambino interiore potrà anche svilupparsi un'altra parte forte, sempre
volta a proteggere: il Previdente.
Il suo motto è: «Prevenire è meglio che curare!». Il Previdente vuole anch’egli
controllare l’ambiente in cui si trova ma questa volta si tratta soprattutto di quello
fisico. Egli teme le situazioni che potrebbero rivelarsi impreviste, incontrollabili,
pericolose.
Adotta perciò una serie di contromisure basate sull'evitamento del presunto
pericolo e sulla richiesta di aiuto rivolta ad altri, cercando, anch’egli come il Bullo, di
fugare la paura del bambino interiore spaventato.
Spingendo a focalizzare l’attenzione su ciò che ritiene in qualche modo pericoloso,
il Previdente finisce per rendere la vita una sorta di campo minato, in cui occorre
essere ben consapevoli di dove sono le mine per non rischiare di saltare in aria,
incentivando così – come del resto fa anche il Bullo – la paura del bambino interiore
spaventato.
21
Il bambino interiore inadeguato richiama una parte forte dal volto assai noto ai
giorni nostri: quello del Vincitore.
Il suo motto è: «Meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora». Il
mito del successo di cui si fa portavoce il Vincitore è molto popolare nella nostra
epoca. Nella cinematografia tale figura s'incarna nei supereroi: Superman, Batman,
l'Uomo ragno, ecc.
Chi ha sviluppato questa parte vive la sconfitta come il più terrificante dei
fantasmi, in grado di far precipitare l'autostima sotto i piedi come nel caso di molti
atleti, sempre in lotta per quel centimetro in più o per quel secondo in meno.
Il bambino può essersi trovato di fronte alla richiesta di supporto più o meno
esplicita da parte del genitore debole e bisognoso (molto spesso la madre malata o
depressa), come se fosse lui stesso il genitore e il genitore fosse il figlio.
Può essergli anche stata rivolta la richiesta di occuparsi del fratello più piccolo, il
che lo ha, per altri versi, spinto ugualmente ad assumere il ruolo genitoriale.
Infine, può anche darsi il caso in cui un genitore pone il figlio nel ruolo del
coniuge da poco scomparso o assente affettivamente o fisicamente.
Comunque sia, il bambino finisce per vivere la vita all’insegna del «devo»
sviluppando cioè un profondo senso del dovere in forza del quale si sente chiamato
in causa in modo diretto e in prima persona, cercando di esser sempre il migliore,
disponibile e all’altezza di ogni compito.
Nel bambino in età scolare si tratta della sindrome del primo della classe, il cosiddetto
«secchione».
22
L’individuo rimane così schiacciato tra l'incudine del sentirsi obbligato a
dimostrarsi più di quanto sente di poter essere e il martello dell'insostenibile senso
d’impotenza del bambino interiore inadeguato, sempre più svilito.
Come Ercole, il Vincitore porta a termine le sue proverbiali dodici fatiche
lanciandosi in imprese che sembrano al di là delle possibilità umane.
Le dodici fatiche rappresentano l'impresa che si pone al di là delle possibilità
umane, l'andare oltre i confini che ci sono attribuiti per natura, analogamente a
quanto cerca di fare questa parte.
Veniamo adesso al bambino interiore abbandonato. Uno dei classici volti che
potrà assumere la parte forte che da lui nasce è quello dell’Autarchico.
Il suo motto è: «Meglio soli che male accompagnati». L'Autarchico spinge a
comportarsi come se si fosse su un'isola deserta, da novelli Robinson Crusoe.
Questa posizione comporta la perdita di contatto con la propria sfera emozionale
nel tentativo di divenire una sorta di cervello senz'anima, come si osserva ad esempio
nei rigidi moralisti.
Adottando la strategia dell'autarchia si cerca di appiattire il senso di solitudine del
bambino interiore e di cancellare i propri bisogni, vissuti come una pericolosa spinta
verso gli altri che rischierebbe di minare la propria posizione di indipendenza ad
oltranza.
L'Autarchico lancia così una sfida alla dimensione più schiettamente umana, in
particolare ai bisogni relazionali così come alle esigenze del corpo.
Un modo tipicamente maschile è ritirarsi nella torre d'avorio del proprio lavoro, a
cui il soggetto può quindi dedicarsi anima e corpo, finendo per vivere per lavorare
anziché lavorare per vivere.
23
Spingendo a ritrarsi sempre più dalla sfera sociale, l’Autarchico finisce così per
incentivare il senso di solitudine del bambino interiore abbandonato.
Anche il bambino interiore invaso può facilmente richiamare questa parte forte.
Tale posizione si osserva in persone che da bambini hanno vissuto in una casa senza
porte, in cui il genitore non rispettava cioè i limiti del loro spazio psicologico, ad
esempio entrando e uscendo dalla loro cameretta.
Il bambino può avere anche ricevuto richieste insostenibili da parte del genitore e
si è sentito violato nel suo senso d’integrità. La risposta è stata il ritrarsi da ogni
coinvolgimento emozionale profondo, che potesse comportare il rischio di far
riemergere la sensazione di essere invaso.
Anche in questo caso, spingendo a ritrarsi dalla sfera sociale l’Autarchico può
finire paradossalmente per incentivare il senso di oppressione, rendendo il soggetto
ipersensibile al contatto con gli altri. Come nel caso di una ferita ancora aperta, anche
una carezza può far male.
Il bambino interiore colpevole può anche richiamare due parti forti, entrambe
votate alla sofferenza: si tratta del Sacrificale e dell’Aguzzino.
Il motto del Sacrificale è: «Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa». Questa
parte forte punisce chi la reca nel proprio mondo interno spingendolo, appunto, a
sacrificarsi per qualcosa o per qualcuno.
Essa nasce dall'esigenza di sedare i cocenti sensi di colpa del bambino, votandolo
a una vita di sacrificio rinuncia e di privazioni nella speranza di emendare la propria
colpa e raggiungere così la redenzione, per essere di nuovo accettato e amato.
Egli apprende così a sostituire i propri bisogni con quelli del genitore, cosa che
alimenta la confusione tra ciò che lui vuole e ciò che vogliono le persone per lui
importanti. Nasce così quello che è stato definito il «complesso di Cenerentola».
Il mito del peccato originale e quello della cacciata dal Paradiso Terrestre
riflettono tale realtà interna, ciò a cui questa figura cerca di trovare rimedio.
24
Il bambino si sente cacciato dal Paradiso terrestre e come Adamo o Eva dovrà
sopravvivere con il sudore della fronte e a costo di grandi sacrifici.
Spingendo al sacrificio, questa parte forte conferma il senso di colpa del bambino
interno colpevole, che in questo modo si sentirà ancora più colpevole e così via, in
un circolo vizioso potenzialmente senza fine.
Veniamo ora all'Aguzzino, il cui motto è: «Chi è causa del suo mal pianga se
stesso». Questa parte forte punisce infliggendo dolore per emendare una presunta
colpa, mettendo perciò a fuoco l'altra faccia della via verso la redenzione rispetto a
quella offerta dal Sacrificale: la purificazione attraverso la sofferenza.
Sempre munito di ottime scuse e di valide motivazioni assicura, come del resto fa
il Sacrificale, una vita di sofferenze e di privazioni, spingendo a vivere in modo
spartano, senza concedersi gioie o divertimenti e anche utilizzando, a volte, una serie
interminabile di malattie e disturbi somatici come inconsapevole via di espiazione.
In tal modo accentua invece che lenire il senso di colpa del bambino interno
colpevole.
Dal bambino interiore invisibile tendono a svilupparsi due parti forti che
mostrano una particolare propensione alla simulazione: lo Sbruffone e il Camaleonte.
25
Il motto dello Sbruffone è: «Apparire per essere!». Questa parte spinge ad
assumere un atteggiamento grandioso, cercando così di allontanare la minaccia che
sente incombere di non esistere o di non valere nulla.
Il bambino cerca allora di mostrare di valere più di quanto internamente non
senta, capovolgendo il senso di non esistenza o d’inferiorità che va accumulandosi
internamente in un atteggiamento di superiorità solo apparente.
Come Narciso, questa parte forte spinge a specchiarsi continuamente negli altri,
innamorata in realtà solo di se stessa.
Spingendo a simulare ciò che non si è lo Sbruffone finisce per nascondere e
coprire in modo sempre più ermetico il bambino interiore invisibile, che in tal modo
diviene davvero invisibile.
Il motto del Camaleonte invece è: «Sarò come tu mi vuoi!». Questa parte spinge a
simulare i comportamenti valutati positivamente dagli altri, a essere come si crede
loro ci vogliono.
26
Questo atteggiamento ricorda il dio Proteo, il quale riusciva a trasformarsi in
qualsiasi animale o cosa per sfuggire ai pericoli, da cui l'espressione coniata da Lifton
«personalità proteiforme».
Le sue caratteristiche, che possono essere definite ad assetto variabile, sono rese
magistralmente nel film Zelig, di Woody Allen.
È il tipico caso dei genitori che non volevano avere un figlio o che volevano un
figlio dell'altro sesso.
Può anche trattarsi di un genitore imprevedibile, dal comportamento caotico, che
pone il bambino nella necessità di adeguarsi continuamente alle sue richieste
contraddittorie.
Il fine recondito è accattivarsi la simpatia e la benevolenza del genitore e sentirsi
accettato nella sua esistenza. È quindi un consumato manipolatore, che irretisce le
sue vittime facendo spesso leva sulla loro vanità e sul loro bisogno di adulazione.
Spingendo ad agire come se si fosse davvero come vogliono gli altri, il Camaleonte
finisce per confermare il senso di non esistenza del bambino interiore invisibile.
Eccoci, in ultimo, al bambino interiore arrabbiato. Da lui possono svilupparsi
indifferentemente tutte le parti forti cariche di rabbia.
Finora di queste abbiamo visto solamente il Bullo e tra quelle restanti emerge
prepotentemente il Trasgressore.
Il suo motto è: «L'unica regola è infrangere le regole». Questa parte forte fa della
trasgressione la propria filosofia di vita, spingendo a individuare con cura gli obiettivi
sacri a chi gli sta cordialmente antipatico e mandarli all'aria, uno dopo l'altro,
provando un piacere sadico nel fare ciò.
27
Una delle sue caratteristiche peculiari è la negazione dei sentimenti di affetto,
amore e tenerezza.
Il Dottor Faust, emblema della dannazione legata alla ricerca del potere, riflette
questa parte. La sua storia dipinge, dunque, la più genuina forma di perversione
dell'epoca pre-rinascimentale: la libertà di pensare con la propria testa.
Il Trasgressore assume un atteggiamento apertamente critico, provocatorio,
scettico, improntato alla sfiducia e alla ribellione, ponendosi dunque come regola
andare contro corrente, opporsi a qualsiasi imposizione da parte di altri che sembra
vogliano opprimerlo e prevaricarlo.
Spingendo a un atteggiamento di trasgressione e di ribellione a oltranza il
Trasgressore finisce per alimentare una visione del mondo e degli altri che conferma
la rabbia del bambino interiore, finendo per cristallizzare la sofferenza che vi giace al
di sotto come brace sotto la cenere.
Il bambino arrabbiato può sviluppare un’altra parte il cui atteggiamento appare
improntato alla ribellione: il Mansueto.
Il suo motto è: «Vivi e lascia vivere». A prima vista questa parte forte non sembra
affatto un ribelle, anche se in realtà lo è.
Il Mansueto spinge, infatti, il bambino a essere diverso dal genitore che percepisce
aggressivo e prevaricante – spesso il padre – il cui comportamento gl'ingenera
profonda repulsione e disprezzo.
Nel figlio sorge così il fermo proposito: «Non sarò mai come mio padre/mia
madre!», la qual cosa produce una forte spinta ad essere diverso.
Diventare diverso significa questa volta – diversamente da quanto si proponeva il
Trasgressore – eliminare ogni traccia di rabbia, prevaricazione e aggressività dal
proprio comportamento.
28
Ciò finisce per comprimere la rabbia del bambino interiore, rendendola una sorta
di mina vagante che rischia di esplodere da un momento all'altro e provocare seri
danni. Come afferma l’adagio popolare: «Temi la rabbia del mite!».
Il bambino arrabbiato può sviluppare altre due parti forti, che fanno della vendetta
la loro missione: il Colpevolizzante e il Disfattista.
Il motto del Colpevolizzante è: «La vendetta è un piatto da consumarsi freddo».
Questa parte forte intende far pagare quelle che percepisce come intollerabili
ingiustizie, che sarebbero state perpetrate ai suoi danni.
Il bambino può avere sofferto a causa di un genitore prevaricante o aver preso le
parti di un genitore sentito come vittima dell’altro.
In questo secondo caso siamo di fronte a due genitori tra i quali sussiste un
rapporto fortemente conflittuale, in cui solitamente la madre ricopre il ruolo di
vittima e il padre quello di carnefice.
Nell'accusare e lamentarsi la persona finisce per assumere, anche se in modo
passivo, lo stesso atteggiamento che condanna.
Questa parte forte tende a focalizzarsi su tutto ciò che non va nel comportamento
altrui, attribuendo sempre a qualcuno la colpa del proprio malessere e dei propri guai.
Il Colpevolizzante spinge ad assumere due diverse posizioni. La prima è quella
passiva di chi la fa pagare accusando, recriminando e lamentandosi, di chi si pone
cioè nel ruolo di vittima.
Nella seconda la persona assume invece il ruolo attivo di chi la fa pagare in modo
diretto, attraverso vere e proprie azioni volte alla vendetta, diventando quindi a sua
volta carnefice.
29
Il motto del Disfattista è: «Muoia Sansone con tutti i Filistei». Si tratta di una parte
forte che danneggia colui che la reca nel proprio mondo interno, con l’intento di
vendicarlo.
Si tratta però di una vendetta indiretta, che passa cioè attraverso il procurato
danno in prima persona, al fine di poter rivolgere a colui che si ritiene colpevole il
messaggio «Hai visto quanto male mi hai fatto?!?».
Come si può ben capire, questa tattica può rivelarsi piuttosto pericolosa poiché
spinge a porre in atto condotte autolesionistiche, conservando sempre una sacca di
sofferenza come mezzo privilegiato di perseguimento del proprio fine.
I
comportamenti
autolesivi
possono
evidenziarsi
nella
forma
di
tossicodipendenza, omosessualità, prostituzione, di una vita dissoluta, del rapporto
con un partner brutale, di un brusco naufragio sentimentale o matrimoniale, del
collezionare una sconfitta dopo l'altra in campo lavorativo.
In tutti questi casi, il comune denominatore è la rabbia che questa parte rivolge
internamente, al fine di attribuire il ruolo di vittima designata a chi la reca
internamente, al fine di dimostrare il male che gli è stato fatto e punendolo così
attraverso l'attribuzione della colpa.
Spingendo a collezionare un motivo di sofferenza dopo l’altro la rabbia del
bambino interiore non fa altro che esacerbarsi.
30
L’identikit delle parti forti
Le nostre parti forti sono davvero forti. Si dimostrano, infatti, capaci, in particolari
circostanze, non solo d’imporre la loro volontà sulla nostra, ma anche di
caratterizzare intere fasi evolutive della vita di una persona.
Nel periodo adolescenziale ritroviamo il tipico atteggiamento ribelle del
Trasgressore e quello onnipotente del Vincitore, nonché quello plateale e
vanaglorioso dello Sbruffone. Sempre in tale periodo osserviamo anche
l'intellettualizzazione tipica dell'Autarchico.
Questa figura caratterizza per altri versi anche il periodo senile, questa volta sul
piano del ritiro sociale e del raffreddamento affettivo proprio della persona anziana,
nella quale spesso emerge anche il risentimento tipico del Colpevolizzante per le
promesse che ritiene la vita non abbia mantenuto, assieme alla proverbiale
preoccupazione del Previdente.
Varie figure di Adulto egemone riflettono – almeno nel nostro immaginario
collettivo – addirittura interi gruppi etnici, nei cosiddetti «stereotipi sociali».
Per fare solo alcuni esempi, nell'attività assicurativa degli svizzeri possiamo
intravvedere l'azione del Previdente, così come i due volti del Superuomo traspaiono
con evidenza nel mito americano del successo.
Mentre l'Autarchico nel suo individualismo esasperato incarna la figura del selfmade-man, dell'uomo che si è fatto da solo, la proverbiale capacità di sopportazione
del popolo russo richiama i tratti del Sacrificale.
La sacralità della privacy così presente nella cultura anglosassone, per cui la casa di
un uomo è il suo castello, riflette nuovamente e fedelmente la tipologia
dell'Autarchico.
Per quanto riguarda poi casa nostra, l'atteggiamento istrionico piuttosto diffuso
nel Sud richiama molto da vicino quello dello Sbruffone, così come la maschera del
Trasgressore ben si attaglia alla nostra caricaturale propensione a infrangere le regole.
Per giunta, l'immagine che molti uomini hanno della donna oggi, in epoca postfemminista, sembra caratterizzata dall'atteggiamento intransigente e ipercritico tipico
del Vendicatore, il che potrebbe essere storicamente spiegato in termini di una
reazione a secoli di vessazione a opera del maschilismo imperante.
31
Possiamo ora creare un identikit delle parti forti utilizzando quattro loro
caratteristiche essenziali: il bisogno, lo stato d’animo, il pensiero ricorrente,
l’atteggiamento relazionale. Nell’elencare le 12 parti forti rispetteremo la precedente
sequenza.
Il Bullo
 Bisogno: dominare
 Stato d’animo: rabbia
 Pensiero ricorrente: «Non devo farmi prendere in giro»
 Atteggiamento relazionale: diffidenza, sfida, prepotenza, aggressività
Il Previdente
 Bisogno: controllo e prevenzione
 Stato d’animo: ansia
 Pensiero ricorrente: «Devo riuscire a evitare i pericoli»
 Atteggiamento relazionale: richiesta d’aiuto
Il Vincitore
 Bisogno: eccellere
 Stato d’animo: ansia da prestazione
 Pensiero ricorrente: «Devo assolutamente riuscire ad essere il migliore»
 Atteggiamento relazionale: superiorità
L’Autarchico
 Bisogno: restare in disparte
32
 Stato d’animo: noia e apatia
 Pensiero ricorrente: «Voglio evitare d’impegnarmi con gli altri»
 Atteggiamento relazionale: freddezza, distacco
Il Sacrificale
 Bisogno: sacrificarsi
 Stato d’animo: rigido senso del dovere
 Pensiero ricorrente: «Devo sacrificarmi per chi ha bisogno di me»
 Atteggiamento relazionale: disponibilità al oltranza
L’Aguzzino
 Bisogno: soffrire
 Stato d’animo: depressione
 Pensiero ricorrente: «La vita è sofferenza!»
 Atteggiamento relazionale: sofferenza silenziosa
Lo Sbruffone
 Bisogno: essere al centro dell’attenzione
 Stato d’animo: frenesia di apparire speciale
 Pensiero ricorrente: «Gli altri devono rendersi conto di quanto sono bello e
bravo»
 Atteggiamento relazionale: accentrare l’attenzione
33
Il Camaleonte
 Bisogno: essere come crede gli altri lo vogliono
 Stato d’animo: ansia di essere accettato
 Pensiero ricorrente: «Devo assolutamente essere apprezzato da tutti»
 Atteggiamento relazionale: disponibilità ad oltranza
Il Trasgressore
 Bisogno: ribellarsi
 Stato d’animo: rabbia
 Pensiero ricorrente: «Voglio dimostrare di essere diverso da tutti gli altri»
 Atteggiamento relazionale: opposizione aperta
Il Mansueto
 Bisogno: dimostrarsi pacifico
 Stato d’animo: neutralità emotiva
 Pensiero ricorrente: «Ogni forma di aggressione dev’essere abolita»
 Atteggiamento relazionale: accettazione incondizionata
Il Colpevolizzante
 Bisogno: dare la colpa a qualcuno
 Stato d’animo: sete di vendetta
 Pensiero ricorrente: «Devo farla pagare a chi mi ha fatto del male!»
 Atteggiamento relazionale: accusa generalizzata
34
Il Disfattista
 Bisogno: fare la vittima
 Stato d’animo: risentimento
 Pensiero ricorrente: «Chi mi ha fatto del male dovrà accorgersene e pagare per
questo»
 Atteggiamento relazionale: richiesta di risarcimento affettivo
Il girotondo
Le parti di cui stiamo parlando si sono originate nel corso delle nostre esperienze
infantili più significative, nel rapporto con i nostri genitori o con chi ne ha ricoperto
il ruolo, come nonni, zii ecc. Anche il gioco che esse giocano è un gioco infantile,
proprio come il girotondo.
Introducendo la parte forte e la sua funzione abbiamo poc’anzi parlato del
principio del termosifone, come della tendenza a evitare il dispiacere. Se tale
principio dà i suoi buoni frutti quando applicato alle situazioni esterne, non si può
dire lo stesso a proposito del mondo interno.
Se ciò che brucia non si trova fuori ma dentro di noi, che cosa potremo fare per
sottrarci a tale spiacevole esperienza?
Scappare non servirà. Se ci provassimo ci troveremmo nella situazione del gatto
che fugge spaventato dal rumore dei barattoli che qualche ragazzaccio gli ha legato
alla coda: più corre maggiore sarà il rumore da cui si sentirà ancor più spaventato.
È in forza del principio del termosifone che il bambino interiore e la parte forte
iniziano a giocare una sorta di girotondo, in realtà ben poco divertente per colui che
li ospita.
In questo girotondo la parte bambina prova un malessere a cui la parte forte cerca
di far fronte, spingendo la persona come tutto a porre in atto uno specifico
comportamento.
Come abbiamo visto, questo comportamento appare improntato a sfidare, evitare
il pericolo, eccellere, isolarsi, sacrificarsi, patire la sofferenza, farsi grandi agli occhi
35
degli altri, compiacere, ribellarsi, comportarsi in modo pacato, accusare, fare la
vittima.
Si tratta di manovre spesso messe in atto sin dalla nostra infanzia per far fronte
alle situazioni difficili, ma che hanno finito per produrre l’effetto contrario, ossia –
nonostante le buone intenzioni – cristallizzare il problema nella sua essenza
emozionale.
I nostri problemi hanno quindi due facce: una fatta di malessere, l’altra di un
comportamento che dovrebbe far fronte a tale malessere, ma che finisce per
incentivarlo.
Si tratta di un vero e proprio circolo vizioso, che a volte ci appare senza fine. Un
problema degno di questo nome, infatti, è ricorrente, non si presenta per un paio di
volte e poi più.
Accade un po' come per l'assetato che trovandosi in mezzo al mare finisce per
bere l'acqua salata alla ricerca di un po’ di ristoro, ma ad ogni sorso la sete anziché
diminuire aumenta.
Ciò accade per il fatto che le manovre in questione fanno sì che il bisogno di
riconoscimento e di comprensione del nostro bambino interiore permanga frustrato,
permanendo nel buio dell’inconsapevolezza, rinchiuso nel dimenticatoio.
Analogamente a quanto accade negli adolescenti che s’identificano con il loro
idolo, la persona adulta finisce per identificarsi – ossia col credere di essere – o il Bullo
piuttosto che il Sacrificale piuttosto che il Trasgressore e così via.
Si tratta del suo personale eroe interno, della parte che un tempo gli ha permesso di
sopravvivere alle situazioni più critiche, di cui ora finisce per indossare i panni.
Questo girotondo è destinato a sfociare nella stratificazione di un certo
«carattere», che altro non è se non una sorta di corazza difensiva capace di nascondere il
bambino interiore.
Come vedremo, questa corazza è destinata a influenzare profondamente non solo
il nostro mondo interno, ma anche le nostre relazioni.
Il nostro carattere si esprime e si manifesta attraverso un certo modo di sentire, di
pensare, di relazionarsi con gli altri, così come di muovere il corpo nello spazio e di
assumere posture tipiche. Esso ci sembra immutabile nell’assetto che assume dopo
l’adolescenza.
36
Si ascoltano spesso frasi del tipo: «È il mio carattere, cosa posso farci?!», «Ha un
carattere fatto così, non lo posso certo cambiare!». Ma il cambiamento ha un segreto
che bisogna conoscere.
Immaginiamo di dover trasportare un'auto con una carriola. Come possiamo fare?
L'auto è molto grande, la carriola invece è molto piccola. Un sistema c'è: smontare
l'auto e trasportarne un pezzo alla volta.
Se consideriamo una grossa cosa come appunto ciò che chiamiamo carattere non
riusciremo a cambiarlo tutto d’un pezzo, così com’è. Ma se lo smontiamo diventa
possibile, possiamo cambiarlo un pezzo alla volta e il gioco è fatto!
Quando abbiamo iniziato ad andare in bicicletta abbiamo scoperto che, pur
sembrando facile vedendo gli altri, in realtà si trattava di un'azione alquanto
complessa.
Si doveva pedalare, tenere il manubrio, guardare dove si stava andando (e non il
manubrio né i pedali), bilanciare il peso, mettere il piede giusto a terra per non cadere
una volta fermi e una quantità di altre piccole azioni. Per non parlare di quando
abbiamo iniziato a guidare l'auto.
Quando apprendiamo qualcosa di nuovo si tratta di una gran quantità di azioni da
compiere, mentre una volta appreso il nuovo comportamento si tratta di un'azione
unica, come appunto «andare in bicicletta» o «guidare l'auto».
In altre parole, facciamo le cose di cui non abbiamo sufficiente esperienza come
se fossero composte da una quantità di più piccole azioni poste in sequenza, una
dopo l'altra.
Quando invece diventiamo bravi tutte le azioni che compongono quel dato
comportamento vengono compiute come se fossero un'unica azione.
Ecco che se vogliamo cambiare il nostro carattere dobbiamo renderci conto di
tutti i pezzi che lo compongono, ossia delle nostre parti forti, individuandone ogni
singola azione, una dopo l'altra. Potremo allora, una alla volta, iniziare a cambiarle.
Spesso pensiamo al cambiamento come a un processo lungo e faticoso, una sorta
di attualizzazione del mito di Sisifo.
Condannato da Zeus a portare sulle sue spalle un pesante macigno fino alla cima
di una montagna, ogni volta che vi giungeva esausto lo vedeva inesorabilmente
rotolare di nuovo a valle.
37
Non importa quanto ci proverà il povero Sisifo, non riuscirà mai a portare il
pesante macigno sulla cima della montagna e farvelo rimanere. Questa è la sua
condanna, che rende il suo intento perciò il suo compito paradossale.
I problemi come paradossi
I nostri problemi non sono tanto manifestazioni di un conflitto, quanto piuttosto
di una condizione di paradosso. Sono, infatti, caratterizzati da libertà ma non
deliberazione, aspetti che messi assieme hanno del paradossale.
Se mi trovo, giorno dopo giorno, nel ristorante in cui non voglio andare perché
non mi piace la sua cucina, allora non sono coinvolto in un conflitto bensì
imprigionato in un paradosso.
Nessuno mi sta costringendo a recarmi in quel ristorante, quindi ci sono venuto
liberamente, ma è proprio in quel ristorante che non voglio recarmi, la qual cosa va
contro la mia deliberazione o volontà.
I nostri problemi hanno una struttura analoga a quella del ristorante in cui mi
trovo ripetutamente pur non volendoci andare.
Che si tratti di un comportamento che riteniamo inopportuno – come mangiare
troppi bignè alla crema, giocare ai cavalli, fuggire davanti a un ragno, litigare con
nostra moglie o nostro marito – oppure di uno stato d’animo spiacevole – come la
tristezza, un’esplosione di rabbia, un crollo depressivo – i problemi che ci affliggono
sono qualcosa che facciamo liberamente dentro o fuori di noi pur non volendolo fare.
Nessuno ci costringe – dall’esterno – a sentirci in quel certo modo, né ad agire in
quell’altro.
Si tratta quindi di qualcosa che facciamo liberamente anche se saremmo disposti a
pagare chissà cosa per riuscire a non fare. Si tratta chiaramente di una situazione per
l’appunto paradossale.
Una delle più classiche situazioni caratterizzate da libertà ma non da deliberazione
è quella del fumatore pentito: pur volendo smettere continua a fumare.
Per il senso comune tale dilemma sarebbe di ben facile soluzione. Quante volte gli
amici del bar gli hanno detto e ripetuto: «Se vuoi fumare fuma, se non vuoi fumare
smetti, che problema c’è!».
38
Sappiamo però che questo tipo di suggerimento non sempre risolve i nostri
problemi, anzi, molto spesso ne mette in luce il carattere apparentemente insolubile.
Il problema nasce dal fatto che, nel mondo interno del nostro fumatore pentito,
sussiste un conflitto tra opposte tendenze.
Nel momento in cui sente che il fumo gli fa male – o si convince di quanto gli
dicono gli altri in proposito – sviluppa la motivazione a smettere e si pente. Ma ciò,
ahimè, non basta a togliergli la voglia di fumare, anche se la può rafforzare.
Ecco presentarsi la sua nuova condizione, quella appunto di fumatore pentito,
caratterizzata dall’esercizio della forza di volontà, che naturalmente gli deve servire
per opporsi efficacemente – almeno così egli crede – all’altra tendenza rappresentata
dalla voglia di fumare.
Nel momento in cui il nostro fumatore si schiera con il buon proposito di smettere
di fumare, finisce per esercitare la forza di volontà contro la cattiva tendenza a
continuare a fumare, che intende sopprimere.
È nel corso di questo tentativo che il conflitto si trasforma in un paradosso e
come tale in un problema apparentemente insolubile. Ricordiamo cosa accade
nell’esercizio delle due mani che spingono?
Come afferma Oscar Wilde, si può resistere a tutto … fuorché alle tentazioni! Ciò che ci
proibiamo diviene più attraente, il che equivale ad affermare che se prima non ci
concediamo qualcosa difficilmente potremo poi rinunciarci.
La conversione del conflitto in paradosso si verifica per il fatto che dove c’è volontà
c’è identità. Noi siamo, alla fin fine, ciò che veramente vogliamo! Si verifica quindi una
sorta di magia alla rovescia.
Ecco che il nostro uomo finisce, sull’onda della sua forza di volontà, per
identificarsi con il buon proposito di non fumare, contrapponendosi così alla cattiva
tendenza a continuare a farlo.
Ma entrambe queste tendenze, quella a fumare e quella a smettere, non sono che
parti di se stesso come tutto.
Il nostro fumatore inizia così a con-fondersi con queste due tendenze – o parti di sé.
Con quella che gli suggerisce di smettere di fumare quando riesce ad astenersi dal
fumo e con quella che vuole continuare a fumare quando cede all’impulso.
39
Si tratta della condizione che i latini chiamavano della pars pro toto, ossia della parte
– o delle parti – che prendono il posto del tutto, condizione evidentemente
paradossale.
Se scambio il mio corpo con una mano, con un braccio o con una gamba non
potrò usare in modo appropriato né il mio corpo nella sua interezza né la mano, né il
braccio né la gamba come sue parti.
Tra il conflitto e il paradosso esiste una differenza fondamentale. Mentre un
conflitto può essere composto in modo relativamente facile la condizione di
paradosso appare invece più ostica, esponendoci alla situazione delle sabbie mobili,
in cui più sforzi si fanno per uscire più inesorabilmente si sprofonda.
Per uscire dalle sabbie mobili del paradosso non dovrò far altro che stabilire una
precisa distinzione tra le due dimensioni: quella di me come tutto, che mi compete
come essere umano, e quella delle mie parti.
Una volta uscito dal paradosso mi troverò di fronte alle mie parti in conflitto, in
una posizione di equidistanza da loro o super partes. È a quel punto che potrò risolvere
agevolmente la questione.
Se la personalità può essere paragonata a un coro, nel momento in cui alcune voci
iniziano a cantare in modo stonato, fuori dal coro, occorre identificarle e lavorare su di
loro con il fine di ristabilire la naturale armonia.
Non posso far questo se mi identico ora con l’una ora con l’altra. Se voglio sedare
un litigio tra due persone non posso prendere le parti né dell’una né dell’altra. Devo
assolutamente mantenere una posizione neutrale, altrimenti rischio di peggiorare le
cose ed esacerbare il loro conflitto.
In quel gioco delle parti che è il girotondo, tendiamo a identificarci con la nostra
parte forte, con il nostro eroe interno, il che ci pone in quella condizione paradossale
che si rivela alla base dei nostri problemi.
La prima cosa da fare è, dunque, identificare con quale o con quali parti forti
siamo identificati.
40
Come identificare la parte forte
Nel momento in cui sappiamo quale o quali parti forti dominano il nostro
comportamento e formano il nostro carattere potremo decidere se mantenerlo in
tutto e per tutto o cambiarne alcuni tratti.
Seguiranno ora alcune domande che ti aiuteranno a identificare le tue parti forti
dominanti.
Quando hai almeno meno 10 minuti a disposizione rispondi alle seguenti
domande, 5 per ogni parte forte, con «sì» o «no», poi fai poi la somma dei sì per
ognuna di loro. Rifletti bene prima di rispondere, non avere fretta.
Per non influenzare le tue risposte non saprai a quale parte forte (che
distingueremo ora semplicemente con un numero) corrispondono i vari gruppi di
domande se non alla fine del test. Il loro ordine è diverso dal precedente.
Parte forte 1
 Sento il bisogno di controllare il comportamento delle persone.
 Provo diffidenza nei confronti del comportamento altrui.
 Mi arrabbio se mi sembra che qualcuno voglia ingannarmi.
 Sono un tipo deciso che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona che sa esattamente quello che
vuole.
Parte forte 2
 Sento il bisogno di vendicarmi nei confronti di chi si comporta ingiustamente.
 Provo spesso un senso d'ingiustizia nell'osservare il comportamento delle persone.
 Reagisco con rabbia avendo la sensazione che la gente si comporti in modo
scorretto.
 Sono un tipo orgoglioso che sa reagire alle ingiustizie.
41
 Credo che gli altri mi vedano come una persona con cui occorre stare attenti a
come si parla e a come si agisce.
Parte forte 3
 Sento il bisogno di andare contro le aspettative che gli altri hanno nei miei
riguardi.
 Ho spesso l'impressione che le persone vogliano impormi la loro volontà.
 Reagisco con rabbia se ho la sensazione che qualcuno voglia sopraffarmi.
 Sono un tipo originale a cui piace andare controcorrente.
 Credo che gli altri mi vedano come un anticonformista.
Parte forte 4
 Sento il bisogno di trovare ciò che non va nelle situazioni che mi trovo ad
affrontare.
 Ho la strana sensazione che sto bene solo se mi sento almeno un po’ male.
 Mi sento oppresso da pensieri di autosvalutazione.
 Sono un tipo dotato di capacità di sopportazione che sa soffrire in silenzio.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona che non si lamenta anche se sta
male.
Parte forte 5
 Sento il bisogno di sentirmi una vittima.
 Ho spesso l’impressione di finire in situazioni dannose per me.
 Mi sento succube delle circostanze se non del mio stesso comportamento.
 Sono un tipo sfortunato a cui capitano cosa spiacevoli.
42
 Credo che gli altri mi vedano come una persona che si lamenta.
Parte forte 6
 Sento spesso il bisogno di stare solo.
 Mi capita di annoiarmi quando sto in mezzo alla gente.
 Ho la sensazione di non riuscire a coinvolgermi sentimentalmente con un’altra
persona.
 Sono un tipo discreto a cui piace restare in disparte.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona schiva.
Parte forte 7
 Sento il bisogno di comportarmi in modo pacato.
 Ho spesso l'impressione che la gente agisca in modo aggressivo.
 Reagisco con disgusto di fronte alle prevaricazioni.
 Sono un tipo pacifico che sa vivere e lasciar vivere.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona con cui si riesce sempre a parlare.
Parte forte 8
 Sento il bisogno di dedicarmi agli altri.
 Ho come la sensazione che i miei personali bisogni abbiano scarsa importanza.
 Mi sento in colpa se mi preoccupo per me stesso.
 Sono un tipo che sa sacrificarsi.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona su cui si può sempre contare.
43
Parte forte 9
 Sento il bisogno di soddisfare le aspettative delle persone.
 Provo ansia pensando che potrei non piacere a qualcuno.
 A volte mi sento rifiutato senza che vi siano fondati motivi.
 Sono un tipo disponibile che sa accogliere le richieste altrui.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona pronta ad aiutarli.
Parte forte 10
 Sento il bisogno di apparire sicuro agli occhi degli altri.
 Provo un particolare piacere raccontando le avventure che ho vissuto.
 Mi sento euforico mentre parlo con le persone.
 Sono un tipo speciale che attira l'attenzione.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona particolarmente interessante.
Parte forte 11
 Sento il bisogno di prevenire i pericoli.
 Provo paura se penso che si possano verificare situazioni che non posso
controllare.
 Mi sento in ansia senza che vi siano evidenti ragioni.
 Sono un tipo prudente che non corre rischi.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona che sa provvedere alla propria
sicurezza.
44
Parte forte 12
 Sento il bisogno di fare sempre le cose alla perfezione.
 Mi prende spesso la smania di dimostrarmi superiore agli altri.
 Mi sento in ansia pensando che potrei non raggiungere gli obiettivi prefissati.
 Sono un tipo di successo che riesce sempre ad emergere.
 Credo che gli altri mi vedano come una persona da invidiare.
La ruota del carattere
Bene, hai completato il test! Ora puoi leggere i punteggi che hai ottenuto facendo
riferimento alla «ruota del carattere». Si tratta di una figura che ti mostra le 12 parti
forti nella stessa sequenza in cui sono stati riportati i precedenti gruppi di domande.
La parte forte 1 era quindi rappresentata dal Bullo che ritrovi in cima alla ruota, la
parte forte 2 è rappresentata dal Colpevolizzante che segue il Bullo, poi viene il
Trasgressore quale parte forte 3, quindi in l’Aguzzino in quarta posizione, seguito dal
Disfattista, poi dall’Autarchico, quindi dal Mansueto, poi ancora dal Sacrificale a cui
segue il Camaleonte, dopo di che viene lo Sbruffone, poi il Previdente per finire con
il Vincitore.
Le parti forti sono raggruppate in gruppi di 3, che mostrano anche se in modi
differenti, un atteggiamento analogo.
Il Bullo, il Colpevolizzante e il Trasgressore hanno in comune il rivolgere la rabbia
verso gli altri, l’Aguzzino, il Disfattista e l’Autarchico rivolgono invece la rabbia verso se
stessi.
Il Mansueto, il Sacrificale e il Camaleonte dal canto loro condividono un
atteggiamento di condiscendenza e disponibilità, mentre lo Sbruffone, il Previdente e il
Vincitore rivolgono la loro concentrazione su di sé, come se non esistesse nessun altro al
mondo.
La ruota del carattere mostra quindi 4 gruppi formati ciascuno da 3 parti forti,
gruppi identificati da un tratto caratteriale condiviso. Come si può ben comprendere,
45
sommando i punteggi delle parti forti di uno stesso gruppo si ottiene il grado di
espressione del tratto che esse hanno in comune.
A seconda del punteggio ottenuto al test e del modo in cui esso si distribuisce si
ottiene quindi un particolare profilo del carattere.
Facciamo quindi un esempio, ipotizziamo di aver ottenuto il seguente punteggio:
Bullo … 3
Colpevolizzante … 5
Trasgressore … 4
Aguzzino … 3
Disfattista … 4
Autarchico … 1
Mansueto … 0
46
Sacrificale … 0
Camaleonte … 0
Sbruffone … 2
Previdente … 1
Vincitore … 1
La prima cosa da fare è ora ordinare le 12 parti forti dal punteggio più alto al più
basso:
Colpevolizzante … 5
Trasgressore … 4
Disfattista … 4
Aguzzino … 3
Bullo … 3
Sbruffone … 2
Autarchico … 1
Previdente … 1
Vincitore … 1
Mansueto … 0
Camaleonte … 0
Sacrificale … 0
La prima informazione che ricaviamo è che la parte forte dominante è il
Colpevolizzante, giacché corrisponde al punteggio più alto, ossia 5.
Questo ci suggerisce che il bambino interno è molto arrabbiato e che ha dato vita
a una parte forte con una gran voglia di vendicarsi facendola pagare a qualcuno
(Colpevolizzante: 5, Trasgressore: 4, Disfattista: 4).
47
Dopo aver identificato la parte forte dominante, quella alla base del carattere, si
possono raggruppare le 12 parti forti come abbiamo indicato in precedenza facendo
riferimento alla ruota del carattere:
Bullo … 3
Colpevolizzante … 5
Trasgressore … 4
Totale … 12
Aguzzino … 3
Disfattista … 4
Autarchico … 1
Totale … 8
Mansueto … 0
Sacrificale … 0
Camaleonte … 0
Totale … 0
Sbruffone … 2
Previdente … 1
Vincitore … 1
Totale … 4
A questo punto si possono ordinare i 4 gruppi dal punteggio più alto a quello più
basso e associarvi i relativi tratti:
Bullo + Colpevolizzante + Trasgressore = 12: rabbia verso gli altri
Aguzzino + Disfattista + Autarchico = 8: rabbia verso se stessi
Sbruffone + Previdente + Vincitore = 4: concentrazione su di sé
48
Mansueto + Sacrificale + Camaleonte = 0: condiscendenza e disponibilità
Da questi ulteriori dati possiamo trarre la conclusione che la rabbia del bambino
interiore non è stata diretta solo verso l’esterno (rabbia verso gli altri: 12), ma una
parte consistente è stata rivolta anche all’interno (rabbia verso se stessi: 8), la qual
cosa contribuisce a formare una personalità con forti tratti distruttivi, il che appare
confermato da una certa tendenza narcisistica (concentrazione su di sé: 4).
Questo profilo mostra come punto debole l’assenza di disponibilità nei confronti
del sociale (condiscendenza e disponibilità: 0), il che si rivela in linea con la
precedente impostazione.
Esaminiamo adesso, sempre a titolo di esempio, un profilo alquanto diverso:
Bullo … 0
Colpevolizzante … 0
Trasgressore … 0
Aguzzino … 2
Disfattista … 3
Autarchico … 1
Mansueto … 4
Sacrificale … 5
Camaleonte … 3
Sbruffone … 0
Previdente … 0
Vincitore … 4
Ordinando quindi le 12 parti forti dal punteggio più alto al più basso otteniamo la
seguente graduatoria:
Sacrificale … 5
49
Vincitore … 4
Mansueto … 4
Camaleonte … 3
Disfattista … 3
Aguzzino … 2
Autarchico … 1
Previdente … 0
Bullo … 0
Colpevolizzante … 0
Trasgressore … 0
Sbruffone … 0
Possiamo subito notare che il Sacrificale appare la parte forte dominante con 5
punti, il che suggerisce la presenza di un bambino interno colpevole, il quale ha dato
vita a una parte forte mossa dal bisogno di espiare.
Raggruppiamo quindi le 12 parti forti nei 4 consueti gruppi:
Bullo … 0
Colpevolizzante … 0
Trasgressore … 0
Totale … 0
Aguzzino … 2
Disfattista … 3
Autarchico … 1
Totale … 6
Mansueto … 4
Sacrificale … 5
50
Camaleonte … 3
Totale … 12
Sbruffone … 0
Previdente … 0
Vincitore … 4
Totale … 4
Ordiniamo ora i 4 gruppi dal punteggio più alto a quello più basso associandovi i
relativi tratti:
Mansueto + Sacrificale + Camaleonte = 12: condiscendenza e disponibilità
Aguzzino + Disfattista + Autarchico = 6: rabbia verso se stessi
Sbruffone + Previdente + Vincitore = 4: concentrazione su di sé
Bullo + Colpevolizzante + Trasgressore = 0: rabbia verso gli altri
Dai precedenti dati possiamo notare che l’atteggiamento di fondo è di
propensione verso il sociale (condiscendenza e disponibilità: 12). Il tratto in seconda
posizione rivela la tendenza a prendersela con se stessi (rabbia verso se stessi: 6).
Si può dunque ipotizzare che la persona in questione sia molto comprensiva nei
confronti degli altri e molto rigida e intransigente nei confronti di se stessa.
In apparente contrasto con questi dati abbiamo un Vincitore che ha ottenuto ben
4 punti, figura che rimanda al tratto concentrazione su di sé.
Subordinando però questo dato al quadro precedente possiamo ulteriormente
ipotizzare che il senso di onnipotenza del Vincitore sia messo al servizio dalla
tendenza alla disponibilità ad oltranza nei confronti degli altri, con il fine però di
apparire superiore.
Se a tutto ciò aggiungiamo il punteggio pari a zero dell’ultimo gruppo (rabbia
verso gli altri), ciò potrebbe confermare l’assenza di capacità di reazione nei confronti
dei comportamenti altrui, anche qualora fosse contrario ai propri interessi e bisogni.
51
Possiamo quindi supporre che questa persona sia decisamente predisposta al
sacrificio per gli altri a tutto discapito di se stessa.
Il carattere e le relazioni
A questo punto possiamo porci una domanda. Ipotizzando che le due persone a
cui si riferiscono i precedenti profili siano un uomo il primo e una donna la seconda,
che cosa accadrebbe se s’incontrassero?
Abbandoniamo così i placidi lidi dell’individualità per approdare sulle burrascose
spiagge delle relazioni umane.
L’importanza che le relazioni hanno per noi, animali sociali, si riflette nella
complessità del nostro sistema nervoso.
Alcuni ricercatori dell'Università del Missouri hanno ipotizzato che lo sviluppo del
grande cervello di cui siamo dotati (quasi 1500 cc.) sarebbe legato alla necessità di
risolvere i problemi sociali.
Gli antropologi Mark Flinn e Carol Ward e lo psicologo David Geary nel 2004
hanno analizzato alcuni fossili individuando prove a sostegno di una teoria proposta
da Richard Alexander, zoologo.
Tale teoria afferma che gli esseri umani avrebbero aumentato di ben tre volte il
loro volume endocranico – se lo si confronta con quello degli ominidi nostri
predecessori – per gestire sempre più complesse relazioni sociali.
Nel corso di questa ricerca gli scienziati hanno confrontato le nostre capacità
mentali con quelle delle scimmie.
Flinn sostiene che la maggior parte delle teorie tradizionali, compresa quella di
Charles Darwin, suggeriscono che a favorire l'evoluzione di un grande cervello sia
stata una combinazione dell'uso di utensili e della caccia.
Il fatto che anche altre specie, come gli scimpanzé, usino strumenti e caccino
dimostra però che i nostri antenati non erano unici da questo punto di vista. La
nostra peculiarità riguarderebbe invece la capacità di comprendere il pensiero altrui,
grazie alla quale può svilupparsi l'empatia.
52
Questa necessità di natura sociale avrebbe spinto il cervello degli ominidi a
crescere di quasi tre volte in meno di tre milioni d’anni, crescita che ha interessato in
particolare l'area neocorticale, che controlla lo sviluppo cognitivo.
La dimensione assoluta del cervello appare strettamente legata all'intelligenza e,
probabilmente, quest'evoluzione è dovuta all’importanza determinante ricoperta dalle
relazioni sociali nello sviluppo delle società umane.
Allacciare e sviluppare relazioni emotivamente significative con gli altri sembra,
dunque, costituire il modo in cui uno dei bisogni fondamentali della nostra specie
viene soddisfatto.
Si potrebbe affermare che comunicare al fine di creare e sviluppare soddisfacenti
relazioni costituisca una capacità più complessa che mandare l'uomo sulla luna!
Se acquisire le capacità relazionali che osserviamo allo stato attuale della nostra
evoluzione ha comportato un aumento di oltre il 300 % della massa cerebrale
endocranica rispetto a Lucy, il primo ominide di cui si sia trovato traccia, la conquista
del nostro satellite non ne ha comportato, infatti, alcun aumento!
Torniamo ora alla domanda che ci siamo posti poc’anzi, riguardante che cosa
accadrebbe se queste due persone di cui sopra s’incontrassero.
Per potere rispondere dobbiamo considerare come si combinano i due profili
caratteriali. Iniziamo esaminando l’identikit della due parti forti dominanti, il
Colpevolizzante e il Sacrificale; confrontiamole attraverso una tabella:
Colpevolizzante
Sacrificale
Bisogno: dare la colpa a qualcuno
Bisogno: darsi agli altri
Stato d’animo: sete di vendetta
Stato d’animo: rigido senso del dovere
Modo di pensare: «Devo farla pagare a
Modo di pensare: «Devo sacrificarmi
chi mi ha fatto del male!»
per chi ha bisogno di me»
Modo di relazionarsi: accusare
Modo di relazionarsi: disponibilità totale
Se queste parti forti si rivelassero dominanti per ognuno dei due anche nella sfera
delle relazioni, ciò potrebbe creare una pericolosa attrazione reciproca.
53
Pericolosa perché, come mostra chiaramente la tabella, lui avrebbe bisogno di
qualcuno con cui prendersela visto il suo Colpevolizzante dominante, lei di qualcuno
da accudire in tutto e per tutto o piuttosto da salvare, visto il suo Sacrificale
dominante, anche se ciò la portasse a sopportare vere e proprie angherie.
Visto il Trasgressore in seconda posizione nel profilo di lui potrebbe trattarsi di
ripetuti tradimenti o comunque dell’infrangere le regole non scritte di un rapporto
basato sul rispetto.
Il Disfattista e l’Aguzzino rispettivamente in terza e quarta posizione lo farebbero
apparire, agli occhi di lei, come una persona sfortunata, una vittima bisognosa di
conforto, la qual cosa farebbe scattare la trappola tesa dal suo – di lei – Sacrificale.
Ma dietro questa parvenza di lui sarebbe in agguato il Bullo in sesta posizione, con
il suo proverbiale atteggiamento prepotente e prevaricante.
Il Sacrificale di lei, dopo essere stato sedotto dal Disfattista e dall’Aguzzino di lui,
potrebbe ricevere sostegno dal Vincitore in seconda posizione, che porrebbe la sua
onnipotenza al servizio del sacrificio per poter quindi apparire come il salvatore.
Dal canto suo, il Mansueto sempre di lei in quarta posizione, con il suo
atteggiamento oltremodo pacifico eliminerebbe ogni reazione oppositiva, lasciando
quindi la donna completamente alla mercé dell’uomo.
Come se non bastasse il Camaleonte in quinta posizione la spingerebbe a far buon
viso a questo cattivo gioco, rendendola completamente condiscendente nei confronti
delle di lui esigenze.
A completare questo quadro poco incoraggiante – per la donna ovviamente – si
unirebbero il Disfattista e l’Aguzzino – che entrambi condividono – predisponendola
a un’esistenza d’infelicità improntata, appunto, al sacrificio e alla sofferenza.
A questo punto, l’Autarchico in settima posizione potrebbe timidamente cercare
di porre rimedio, spingendola a chiudersi in se stessa.
Il punteggio relativo ai 4 gruppi di parti forti riflette questa situazione. Mentre,
infatti, l’uomo riporta 12 punti per rabbia verso gli altri, 9 punti per rabbia verso se
stessi, 4 punti per concentrazione su di sé e 0 punti per condiscendenza e
disponibilità, la donna riporta invece 13 punti per condiscendenza e disponibilità, 9
punti per rabbia verso se stessi, 4 punti per concentrazione su di sé e 0 punti per
rabbia verso gli altri.
Questi risultati sono riportati nella seguente tabella:
54
Uomo
Donna
rabbia verso gli altri: 12
condiscendenza e disponibilità: 12
rabbia verso se stessi: 8
rabbia verso se stessi: 6
concentrazione su di sé: 4
concentrazione su di sé: 4
condiscendenza e disponibilità: 0
rabbia verso gli altri: 0
I tratti che riscuotono il punteggio più alto incorniciano la personalità, attribuendo
quindi significato a quelli con punteggio più basso: si tratta di rabbia verso gli altri per
l’uomo e condiscendenza e disponibilità per la donna.
In seconda posizione per entrambi abbiamo poi il punteggio di rabbia verso se
stessi, tratto che assume – viste le differenti cornici – un significato assai diverso:
colpevolizzante per lui e sacrificale per lei.
Anche la concentrazione su di sé va interpretata in modo diverso. Per l’uomo si
manifesta in modo egoistico (ad esempio l’esibizionismo dello Sbruffone viene posto
al servizio del Colpevolizzante), mentre per la donna accade l’esatto contrario (ad
esempio l’onnipotenza del Vincitore viene posta al servizio del Sacrificale).
Si potrebbe affermare che questi due sono fatti l’uno per l’altra! La situazione
relazionale più frequente che tenderà a crearsi è illustrata dalla seguente figura:
55
Essa mostra come il girotondo, o gioco delle parti, si estenda dal mondo interno
di ognuno alla sfera relazionale, finendo per guidare lo sviluppo del loro rapporto di
coppia.
Alimentato dal bambino interiore arrabbiato (che rimane dietro le quinte della
consapevolezza), il Colpevolizzante dell’uomo imposta l’atteggiamento relazionale nei
confronti della donna, spingendolo a comportarsi in maniera accusatoria.
Per quanto riguarda la donna accade qualcosa di analogo. Il Sacrificale, alimentato
dalla bambina interiore colpevole (anch’essa dietro le quinte della consapevolezza) la
spinge a comportarsi in modo da subire passivamente le accuse nella relazione con
l’uomo.
Questo per quanto riguarda le parti forti dominante dei due. Se poi consideriamo
almeno le prime tre, come risulta dal punteggio ottenuto da ognuno, la situazione si
fa più complessa, come mostra la seguente figura:
56
Si può osservare come le due parti forti dominanti (cerchiate in rosso) svolgono il
ruolo di «capo» nei confronti delle altre (che hanno ottenuto un punteggio più basso),
impostando il loro modo di agire.
Per quanto riguarda il rapporto che si stabilisce tra il Colpevolizzante e il
Trasgressore, l’uomo appare coerente sul piano della rabbia rivolta verso gli altri. Il
Disfattista si trova quindi all’interno di questa cornice, facendo del vittimismo
un’arma al servizio della ribellione e della vendetta contro la donna.
La donna appare invece meno coerente, giacché il Sacrificale in prima posizione
rimanda a condiscendenza e disponibilità, mentre il Vincitore in seconda posizione a
concentrazione su di sé. Questa figura potrà spingerla a credersi onnipotente
nell’aiutare gli altri, mentre il Mansueto eliminerà ogni traccia di opposizione:
entrambe spingeranno la donna ad essere completamente succube dell’uomo.
Se poi consideriamo il girotondo ci accorgiamo che la situazione è assai più
complessa per la donna che per l’uomo.
Mentre dietro le tre prime parti forti di lui (Colpevolizzante, Trasgressore,
Disfattista) si ritrova pur sempre un bambino interiore arrabbiato, nelle retrovie di lei
ritroviamo in prima posizione una bambina colpevole (dietro al Sacrificale), in
seconda una inadeguata (dietro al Vincitore) e in terza una arrabbiata (dietro al
Mansueto).
I problemi umani e il gioco delle parti
Quando abbiamo un problema degno di questo nome siamo, di solito, all’interno
del gioco delle parti.
Come abbiamo appena notato, tale gioco non sempre rimane confinato nel nostro
mondo interno, giacché a volte ne travalica i confini per influenzare le nostre
relazioni.
Quando la questione non è occasionale e passeggera – altrimenti non è certo un
problema! – di regola c’è lo zampino delle nostre parti.
Nel girotondo, il nostro bambino interiore cerca di emergere mentre la parte forte
vuole a tutti i costi porre rimedio alla sua sofferenza, impedendogli quindi di essere
adeguatamente riconosciuto e compreso.
57
Viene allora messa in atto una qualche contromisura basata sulla protezione, come
nel caso del Bullo e del Previdente, sulla simulazione, come nel caso dello Sbruffone e
del Camaleonte, sulla ribellione, come nel caso del Trasgressore e del Mansueto, sulla
vendetta, come nel caso del Colpevolizzante e del Disfattista, sull’essere superiori, come
nel caso del Vincitore e dell’Autarchico, sulla punizione, come nel caso del Sacrificale e
dell’Aguzzino.
Se quando eravamo bambini queste soluzioni furono la medicina necessaria se
non inevitabile, con il passar del tempo i suoi effetti terapeutici sono andatti via via
scemando, mentre quelli collaterali accumulandosi.
Presi nel girotondo, oggi tendiamo a identificarci con il nostro bambino interiore
quando ci sentiamo afflitti da un qualche problema e con la nostra parte forte
quando poniamo in atto una contromisura nei confronti del malessere che vi si
accompagna.
A volte la contromisura che la parte forte si è specializzata a porre in atto emerge
con tale rapidità da soffocare sul nascere questo malessere. È il caso in cui siamo
identificati con questa parte in modo talmente stretto da non lasciare alcuno spazio al
nostro bambino interiore.
È allora che il nostro carattere è destinato a divenire la causa dei nostri problemi
«insolubili»
Agli effetti di tale identificazione, nel nascondere la nostra parte bambina, si
somma quella che possiamo chiamare la «malformazione causa-effetto».
Quando soffriamo, un meccanismo che scatta in modo completamente
automatico ci spinge a cercare all’esterno la causa del nostro malessere, come se le
circostanze e le persone che in quel momento della nostra vita ci fanno da cornice
avessero il potere di farci sentire in quel certo modo.
Ciò finisce, ovviamente, per occultare ancor di più il nostro bambino interiore,
che costituisce, in realtà, la vera e profonda causa della nostra afflizione. Il girotondo
continua così in modo apparentemente inarrestabile.
Il punto è che le emozioni, per loro natura, tendono a essere esternate, a essere
portate fuori. Il termine «emozione» deriva, infatti, dal latino emotus, participio passato
di emovère, che significa «portar fuori».
Questa naturale tendenza propria delle emozioni a essere esternate, espresse,
comunicate e infine accolte dall’altro non può essere soppressa, la qual cosa
58
determina quella che possiamo definire la «tirannia delle emozioni». In un modo o
nell’altro esse emergeranno, prima o poi verranno alla luce.
È in forza di questa tirannia che ci troviamo ripetutamente in situazioni che fanno
da cornice al girotondo, in cui cioè emerge la sofferenza del nostro bambino interiore
e, parallelamente, si attiva la manovra della nostra parte forte.
Tali situazioni, a cui regolarmente quanto erroneamente attribuiamo il ruolo di
causa dei problemi che ci affliggono, sono in realtà specchi del nostro mondo interno,
che riflettono il gioco delle nostre parti.
Lo specchio è uno strumento utile, come lo sono anche le situazioni specchio che
mostrano una loro utilità. Esse, infatti, ci permettono di vedere ciò che non
potremmo altrimenti vedere, per poter cambiare ciò che non ci piace.
Utilizzare lo specchio delle situazioni in cui sappiamo di avere un problema
significa identificare la parte forte o la parte bambina o entrambe. La prima si rende
evidente attraverso comportamenti o anche non comportamenti (come nel caso di
non riuscire a fare qualcosa che si vorrebbe), mentre la seconda attraverso stati
d’animo, sensazioni e sentimenti spiacevoli.
Nel momento in cui, in occasione delle situazioni specchio, queste parti si
affacciano alla nostra consapevolezza, possiamo prima di tutto riconoscerle e quindi
riconoscere che non siamo loro, poi dare loro ciò di cui hanno bisogno.
Queste due azioni ci permetteranno di uscire dal girotondo e di dare alla nostra
storia un finale diverso da quello che fu inizialmente scritto nella nostra infanzia.
Ma di cosa ha bisogno il nostro bambino interiore e che cosa appare necessario
fornire alla nostra parte forte?
La trasmutazione emozionale
Parlare di accoglimento della sofferenza appare la cosa più scontata al mondo!
Quando qualcuno sta male, soffre, è in pena non ci vuole certo la laurea in ingegneria
nucleare per capire che il suo bisogno è di essere accolto.
Sembra pura banalità, anche se quando ci caliamo nella concretezza della nostra
esperienza diretta ci accorgiamo che le cose stanno in maniera diversa.
59
È certamente capitato a tutti di star male, di soffrire, di essere in pena e di
rivolgersi quindi a un amico, a nostra moglie o a nostro marito raccontando il nostro
cruccio. Ricordiamo quali sono state le parole che ci sono state rivolte?
Senza alcuna pretesa di onniscienza posso essere quasi sicuro di indovinare: «Non
ci pensare», «Vedrai che passa», «C’è chi sta peggio», «Non devi sentirti così»,
«Giovanni sì che sa far fronte alle difficoltà», «Non è giusto che tu ti senta in questo
modo», eccetera, eccetera, eccetera.
Ci siamo sentiti accolti in quei frangenti? Queste parole hanno suscitato in noi
sollievo? Il nostro malessere è scemato di fronte a tali considerazioni?
È difficile che la risposta sia affermativa, giacché le precedenti affermazioni o tali
buoni consigli vanno in direzione diametralmente opposta a ciò che si deve intendere
per genuino «accoglimento».
Esistono convinzioni che caratterizzano la nostra cultura e che perciò appaiono
ampiamente condivise, secondo le quali le emozioni spiacevoli sono anche negative.
Nei riguardi di ciò che è realmente negativo c’è solo una cosa da fare: cercare di
eliminarlo.
Sul piano della comunicazione, tale tentativo viene attuato attraverso due
fondamentali modi, chiamati disconferma e rifiuto. Mentre attraverso la prima si afferma
sostanzialmente «Non è vero!», la seconda dichiara invece «Non è giusto!».
Riprendendo le precedenti affermazioni possiamo notare come «Non ci pensare»,
«Vedrai che passa», «C’è chi sta peggio» recano sottilmente il messaggio «Non è
vero!», mentre «Non devi sentirti così», «Giovanni sì che sa far fronte alle difficoltà»,
«Non è giusto che tu ti senta in questo modo» convogliano il giudizio negativo «Non
è giusto!».
Chi ha provato a eliminare le emozioni si è trovato però di fronte alla loro
tendenza a emergere di nuovo e di nuovo, nonostante i tentativi protratti in tal senso.
Ciò è accaduto soprattutto per le emozioni che abbiamo chiamato di tipo 2.
Un semplice esercizio chiarirà cosa accade quando cerchiamo di eliminare uno
stato emozionale:
1) sollevare entrambe le mani all'altezza del petto
2) porre le palme l'una contro l'altra
3) iniziare a spingere forte con la mano destra.
60
Se ci accorgiamo che la sinistra fa resistenza alla destra, la quale perciò non si
muove o lo fa solo un poco, non stiamo seguendo le istruzioni, tra cui non compare
anche «Spingere anche con la sinistra».
In realtà questo esercizio è compiuto correttamente da pochissime persone,
poiché la maggior parte cade nell'errore di far opposizione con la mano sinistra,
senza che ciò rientri nelle istruzioni.
Le emozioni sono l’energia della psiche. Sono loro che muovono il nostro
comportamento, che lo motivano fornendo appunto la motiv-azione, ossia il motivo e
la spinta ad agire. Sono come la benzina per l’auto.
In fisica, il principio di conservazione dell'energia nella sua forma più intuitiva
afferma che, sebbene possa essere trasformata e convertita da una forma all'altra, la
quantità totale di energia di un sistema isolato è una costante, ovvero il suo valore si mantiene
immutato con il passare del tempo.
In altre parole l'energia non si crea né si distrugge anche se si tras-forma, ossia può
cambiare forma.
La forma che l'energia emozionale assume può costituire un problema, come nel
caso in cui alimenti un comportamento inopportuno, oppure può costituire una
risorsa, nel caso in cui si trasformi in serenità, senso d’integrità, tranquillità.
Nei tempi antichi, gli alchimisti affermavano di trasmutare i vili metalli, come il
piombo e il ferro, in metalli nobili, come l’oro e l’argento.
Secondo questa metafora metallurgica ciò sarebbe avvenuto con l’impiego della
pietra filosofale, in grado di attuare l’opus alchemico del solve ed coagula con il risultato
finale appunto della trasmutazione.
Se le emozioni spiacevoli, di cui il nostro bambino interiore è depositario, sono da
paragonarsi ai metalli vili, il loro accoglimento fatto di riconoscimento e di
accettazione costituisce la pietra filosofale che ha il potere di trasformale nei metalli
nobili delle risorse che sentiamo mancanti.
Il riconoscimento tramite attribuzione di un nome, l’accettazione e la comprensione che
riassume le prime due, sono in grado di trasformare il piombo della sofferenza
nell'oro di risorse di fondamentale importanza nella vita della persona.
La possibilità di attuare la trasmutazione emozionale attraverso l’accoglimento del
nostro bambino interiore ci rende novelli alchimisti, con il potere di sciogliere (solve)
61
l'antica forma in cui è imprigionata l'energia emozionale permettendole di assumere
(coagula) quella di una risorsa.
Un’idea del tutto analoga la ritroviamo nel mito della discesa agli inferi nella
mitologia greca. Molti eroi scendono agli inferi prima di compiere l’impresa che li
avrebbe coperti di gloria, recuperando nel regno delle ombre ciò che non avrebbero
potuto trovare altrove.
Tra questi, Orfeo dalla musica incantatrice ritrova la sua amata Euridice, Ercole
porta a compimento la sua ultima fatica, Enea vi incontra il padre Anchise, che gli
annunzia la futura grandezza di Roma.
«Inferi», dal latino inferis, non significa inferno bensì ciò che giace al di sotto, sotto la
soglia della nostra consapevolezza.
Il nostro bambino interiore abita i nostri personali inferi, il luogo in cui abbiamo
sospinto – non senza l’aiuto della parte forte – la nostra sofferenza infantile.
Egli è l’abitante del regno delle ombre che ha in serbo per noi una rivelazione, che
ci può insegnare qualcosa che non sappiamo e che non possiamo trovare altrove.
Come in tutti i miti greci della discesa agli inferi, egli è il depositario della risorsa che
cerchiamo.
Cosa fare concretamente, dunque, nel momento in cui dai nostri inferi emerge
uno stato emotivo di sofferenza, soprattutto quando si tratta di un’emozione di tipo
2?
La prima cosa da fare è qualcosa che il nostro buonsenso non ci suggerirebbe mai,
anzi che fino a oggi ci ha caldamente consigliato di non fare.
Una vecchia barzelletta racconta di un tipo che precipita in un dirupo, rimanendo
fortunosamente aggrappato al ramo di un albero. Il ramo non è molto resistente e
inizia quindi a cedere e il malcapitato inizia a pregare: «Signore, ti prego, salvami!!!».
Le sue preghiere sembrano non ricevere alcuna risposta, mentre il ramo dà segni
di un imminente cedimento. Ormai in preda alla disperazione egli continua a pregare:
«Signore ti prego salvami, farò qualsiasi cosa mi chiederai, qualsiasi!!!».
In quel preciso istante ecco udirsi una voce tonante provenire dal cielo: «Ti
salverò se farai quello che ti chiederò». L'uomo risponde prontamente: «Farò
qualsiasi cosa, qualsiasi cosa!!!».
62
La voce allora gli dice «Bene, allora lascia il ramo a cui ti tieni aggrappato e io ti
prenderò». L'uomo, rimane un istante perplesso, poi alza gli occhi verso il cielo e con
voce un po' incerta replica: «Non c'è per caso nessun altro lassù?!?».
Qual è quindi la prima cosa da fare quando dovesse emergere uno stato emotivo
di sofferenza ricorrente, che non necessariamente un legame causale con la situazione
che stiamo vivendo e che sentiamo come un problema (e nei confronti della quale il
buonsenso ci suggerirà di cercare un’altra soluzione)?
Si tratta di lasciarlo liberamente emergere. Uno dei motivi per cui abbiamo sempre
cercato di ricacciarlo indietro nei nostri inferi è che non riuscivamo – quando eravamo
bambini – a fare la differenza tra uno stato d’animo e uno stato d’essere.
Ancor oggi questa confusione non è stata chiarita. Quando parliamo di ciò che
proviamo sentendoci tristi, afflitti, addolorati usando molto spesso il verbo essere,
come nel caso di «Sono triste», «Sono afflitto», «Sono addolorato».
Se prendiamo alla lettera il significato di tale verbo le precedenti affermazioni
vanno rilette in termini di «Sono la tristezza», «Sono l’afflizione», «Sono il dolore», la
qual cosa, oltre che rivelarsi palesemente falsa si rivela anche inaccettabile.
Se potremmo accettare di sentirci tristi non possiamo certo accettare di essere la
tristezza. Tanto vale quindi non riconoscerla nemmeno!
Le parole – in particolare i verbi – adeguati sono in questo caso provare, sentire, avere
la sensazione di. Questi verbi riportano i nostri vissuti interni nella loro giusta
dimensione, sottraendoli a quella dell’essere.
Fatto questo, si tratta di considerarlo un messaggio proveniente dal nostro
bambino interiore.
Nel primo film di Henri Potter, quando il protagonista riceve la lettera che lo
convoca alla scuola dei maghi i suoi genitori adottivi gliela stracciano.
Dato che si tratta di una lettera magica ne arriva un’altra, che subisce lo stesso
trattamento. Dopo poco la casa viene letteralmente sommersa di lettere, che non
possono più essere ignorate.
Lo stesso a volte accade quando tentiamo di ignorare il messaggio proveniente dal
nostro bambino interiore, fatto di emozioni spiacevoli: dopo poco ne arriva un altro,
poi un altro ancora e un altro ancora, fino a che non possiamo più far finta di niente.
Dopo aver considerato l’emozione emergente come un messaggio proveniente da
questa nostra parte possiamo, se ne abbiamo modo, chiudere gli occhi e cercare di
63
visualizzarla nel nostro mondo interno, notando la sua espressione in rapporto a un
particolare stato interno.
A questo punto possiamo estrarre dalla tasca la pietra filosofale dell’accoglimento
e iniziare, senza indugio, la trasmutazione emozionale. Si tratta di utilizzare una sorta
di formula magica, rivolgendogli parole come:
«Piccolo … (il proprio nome) riconosco e comprendo che ti senti
… (lo stato d’animo spiacevole riconosciuto poc’anzi) e lo faccio
affinché tu ti senta finalmente riconosciuto e compreso da me».
Occorre fare attenzione a pronunciare tale formula con enfasi e partecipazione
emotiva. Come tutti i bambini del mondo, anche quello interiore si dimostra alquanto
sensibile al nostro atteggiamento nei suoi confronti. Se è di sufficienza o
emotivamente distaccato non funzionerà.
Dopo aver proferito queste parole con enfasi e con partecipazione emotiva non
resta che essere testimoni di quanto accade.
La portata della trasmutazione emozionale potrà essere diversa, più o meno
completa, più o meno profonda, più o meno stabile, ma qualcosa comunque
succederà. Dobbiamo solo essere pronti a riconoscerla e ad accettarla.
Guidare la parte forte
A volte i nostri problemi non sono caratterizzati da sofferenza bensì da un certo
comportamento, che mettiamo liberamente in atto pur non volendolo.
Anche se una certa dose di malessere appare comunque presente – altrimenti non
si tratterebbe di un problema – è in primo piano il fatto che mangiamo troppi bignè
alla crema o fumiamo troppe sigarette o litighiamo spesso con nostra moglie o nostro
marito e via dicendo.
Si tratta dell’inequivocabile indicazione che a emergere in modo prevalente alla
nostra consapevolezza è, questa volta, la nostra parte forte piuttosto che il nostro
bambino interiore.
64
È, infatti, la parte forte e non quella bambina che ci spinge a porre in atto un
comportamento che – pur producendo effetti indesiderati – presenta la stessa
ricorsività delle emozioni di tipo 2.
Molto spesso parliamo dei problemi fatti di comportamenti inopportuni in termini
piuttosto incerti dal punto di vista di ciò che vogliamo e non vogliamo, usando cioè il
verso volere al condizionale e al negativo. Affermiamo che si tratta di un
comportamento che «non vorremmo» mettere in atto.
Quando andiamo al ristorante, prendiamo il treno, ci facciamo il caffè, viaggiamo
in auto, siamo determinati e sappiamo bene cosa vogliamo e cosa non vogliamo.
Quel «non vorremmo» non significa, in realtà, né «voglio» né «non voglio».
A fronte di un comportamento che valutiamo come problematico, l’espressione
corretta sarebbe quindi «non voglio» piuttosto che «non vorrei», che risulta ambigua
ed equivoca.
Tale ambiguità deriva dal fatto che, differentemente da quanto accade per la
nostra parte bambina, noi tendiamo a identificarci con quella forte al punto da non
riuscire più a distinguere tra la nostra volontà come tutto e quella di tale nostra parte.
Ecco perciò realizzarsi appieno la condizione di pars pro toto di cui parlavano i
latini, della parte che prende il posto del tutto.
Se con gli stati emozionali della parte bambina usiamo una formula rituale,
affrontando i comportamenti ormai divenuti automatici della nostra parte forte la
prima cosa da fare è usare lo spartiacque del verbo volere.
A fronte del comportamento indesiderato dobbiamo quindi attuare un atto di
volontà, diverso dall’esercitare la forza di volontà.
Si tratta cioè di dichiarare che non vogliamo – e non che non vorremmo – mettere
in atto quel comportamento che riteniamo problematico, indesiderato, inopportuno.
Questo semplice atto di volontà ci permette d’identificare la nostra parte forte,
che invece vuole e ci spinge a porlo in atto.
È solo dopo aver riconquistato la nostra naturale condizione di tutto che possiamo
gestire la parte forte.
Come abbiamo fatto con il bambino interiore, possiamo adesso visualizzarla,
chiedendole cosa si propone di positivo per noi, spingendoci a porre in atto il
comportamento in questione. Aspetteremo poi la risposta, qualunque essa sia.
65
A seconda della parte forte coinvolta potremo ottenere una risposta che va in
direzione del proteggere, del simulare, del ribellarsi, del vendicarsi, dell’essere
superiori, del punire.
È a questo punto che dobbiamo estrarre un intento universalmente positivo del tipo
«voglio che tu stia bene» o «voglio la tua felicità».
Ottenuto questo importante risultato le faremo notare che, pur essendo animata
dal migliore degli intenti, i risultati che sta effettivamente ottenendo con noi non
sono in linea con tale intento.
Per dirla con Oscar Wilde, è con le migliori delle intenzioni che spesso si ottengono i peggiori
dei risultati. Non resterà quindi che chiederle di mantenere il fine ma di cambiare il
mezzo, rendendolo realmente funzionale al fine stesso.
Sarà quindi importante aiutare la nostra parte forte a reperire valide alternative
comportamentali, che si dimostrino in grado di ottenere il risultato desiderato, senza
– questa volta – alcun effetto collaterale.
Fino a quel momento la nostra parte forte si è comportata come se ciò che ha
messo in atto funzionasse davvero e nel migliore dei modi, senza mai metterne in
discussione la validità e l’efficacia, aderendo quindi al principio per cui la squadra che
vince non si cambia.
Una vecchia barzelletta racconta che un giorno uno psichiatra visita un paziente
che batte continuamente le mani.
Incuriosito, gli chiede perché mai lo facesse, al che il paziente gli risponde che è
per scacciare gli elefanti. Quando lo psichiatra ribatte che non c’era alcun elefante in
giro il paziente, con aria molto soddisfatta, ne conclude: «Ha visto che funziona!».
La spia sul cruscotto
Immaginiamo di viaggiare con la nostra auto, quando improvvisamente si accende
una spia sul cruscotto: riteniamo che questo fatto costituisca un problema?
Se poniamo questa domanda a diverse persone la maggior parte risponderà «Sì,
perché significa che c'è qualcosa che non va», al che si potrebbe replicare «Quindi, se
non si accendesse sarebbe meglio ... anche se mancasse la benzina!?!».
66
A questo punto la risposta naturalmente sarebbe: «No, meglio che si accenda per
segnalare che la benzina manca o che c'è qualcosa che non va».
Tra le spie sul cruscotto della nostra auto e i problemi che ci affliggono esistono
alcune interessanti analogie.
Entrambi sono in grado di attrarre la nostra attenzione: le spie sul cruscotto
attraverso un segnale luminoso o acustico, i nostri problemi attraverso disagio e
sofferenza (la nostra attenzione è più attratta dagli stimoli spiacevoli di quanto non lo
sia da quelli piacevoli).
Entrambi ci segnalano qualcosa di cui non siamo coscienti o che non possiamo
percepire direttamente né comprendere attraverso i consueti schemi di pensiero: la
spia della benzina ci segnala che il carburante nel serbatoio si sta esaurendo, mentre i
nostri problemi che vi sono situazioni che richiedono la nostra azione.
Entrambi recano un messaggio che va recepito, ossia che c'è bisogno di prendersi
cura di qualcosa: la spia della benzina ci dice che dobbiamo rifornirci altrimenti
rimarremo a piedi, i nostri problemi che dobbiamo ripristinare un certo modo di
agire, relativamente al nostro corpo o al nostro modo di pensare.
Ma c’è anche un’altra interessante analogia. Entrambi cessano spontaneamente
quando ci si prende cura di ciò che era segnalato.
Mentre un'elementare saggezza ci spinge a utilizzare le spie della nostra auto per
fare quanto è necessario al fine di continuare il nostro viaggio, tale saggezza sembra
abbandonarci nel momento in cui affrontiamo in nostri problemi, primi fra tutti gli
stati d'animo spiacevoli.
Accanto alle precedenti analogie esistono quindi anche sostanziali differenze tra le
spie della nostra auto e i nostri problemi.
Mentre riconosciamo e possiamo quindi utilizzare i messaggi forniti dalle spie
della nostra auto, non riconosciamo e non possiamo quindi utilizzare quelli legati al
nostro stato d’animo e al nostro comportamento.
Quando una spia della nostra auto si guasta corriamo subito a farla riparare,
quando invece ci sentiamo male un'industria multimiliardaria è impegnata a produrre
sostanze attive nell’azzerare tale malessere.
È questa differenza a costituire il nostro vero problema. Un giorno qualcuno mi
raccontò la storia di un capomastro il quale acquistò un modello di auto
tecnologicamente all'avanguardia, che aveva alcuni segnalatori vocali.
67
Un giorno, uscito stanco dal cantiere e salito in macchina, una di queste spie
vocali inizia a ripetere incessantemente lo stesso messaggio vocale (forse un guasto?).
Dopo vani tentativi di zittire la fastidiosa vocina, non potendone più afferrò la
mazzetta che aveva con sé e iniziò a colpire il cruscotto, cercando quindi di risolvere
la questione in maniera sbrigativa.
Di fronte ai nostri problemi, a volte bizzarri, incomprensibili, forieri di sofferenza,
che spesso ci vedono impotenti sul piano dell’azione da intraprendere e, prima di
tutto, incapaci di comprenderne il significato, siamo un po' come quel capomastro.
Privati della capacità di porre in atto le contromisure necessarie non ci resta – così
almeno ci sembra – altra possibilità che cercare di zittire il disagio o la sofferenza che
proviamo in modo altrettanto sbrigativo.
Ma prima di attuare un qualche tentativo in tal senso facciamo qualcosa di ben più
subdolo: forniamo una spiegazione in risposta alla domanda «perché accade?».
La spiegazione si pone, di solito, in termini di malfunzionamento o di qualcosa che non
va piuttosto che dell'esatto contrario, come potrebbe essere se accogliessimo l'idea del
problema come messaggio o come segnalatore.
Ma che cos’è la spiegazione? Semplice, il sostituto della soluzione. Un tempo nei
vecchi Luna Park si poteva trovare il tiro a segno. S'imbracciava il fucile e si cercava
di fare centro, per vincere il primo premio.
Dato che molto spesso non si riusciva a centrare il bersaglio ci si doveva
accontentare del premio di consolazione. Invece che portarsi a casa il grosso orso di
peluche ci si doveva accontentare del paperotto di plastica.
L’ignorare il messaggio convogliato dai nostri problemi finisce per perpetuare il
mancato riconoscimento delle nostre parti.
Se iniziassimo a pensare ai nostri problemi come i segnalatori di un girotondo in
atto nel nostro mondo interno scopriremmo molte cose utili per riacquistare il nostro
benessere e l’armonia nelle nostre relazioni.
I conflitti relazionali
L’ambito della nostra vita preferito dai personaggi del nostro teatro interiore è
molto spesso il teatro esteriore delle relazioni.
68
Se la relazione fosse una valigia o una padella la comunicazione sarebbe il loro
manico, ossia il mezzo per poterle agevolmente maneggiarle.
Ci sono due fondamentali modi di comunicare. Il primo e più largamente
utilizzato è quello usato in tribunale. Il problema risiede nel fatto che le relazioni che
approdano in tribunale sono, per definizione, le più conflittuali e quindi le più dense
di sofferenza.
Ma da che cosa è caratterizzato questo tipo di comunicazione? Anche se – fortuna
nostra – non abbiamo mai messo piede in un tribunale, abbiamo certamente visto
qualche film che narra le varie fasi di un processo.
Sappiamo quindi che le uniche cose che contano in un tribunale sono ciò che è
vero o falso e ciò che è giusto o ingiusto: vero secondo le prove e giusto secondo la legge.
Possiamo chiamare questo tipo di comunicazione «comunicazione conflittuale»,
poiché non solo caratterizza i nostri conflitti già in essere ma è anche destinata, prima
o poi, a produrne qualcuno.
Quando le persone litigano pongono – con matematica certezza – in atto questo
tipo di comunicazione basata su ciò che è vero e giusto, che rappresenta perciò la
ricetta perfetta del litigio.
Il problema risiede nel fatto che, mentre bisogni ed emozioni ci accomunano,
giacché a noi attribuite da madre natura, convinzioni e valori ci dividono, essendo
figli della differenze culturali e sociali.
Dopo una vita passata assieme, a volte le persone scoprono di non conoscere per
nulla chi hanno avuto vicino, scoprono che il loro partner è una sorta di estraneo.
Per raggiungere questo risultato – che anche se spiacevole è pur sempre un
risultato – si sono entrambi basati su ciò che pensano piuttosto che su ciò che sentono.
Anche se i motivi dei nostri conflitti sono i più disparati, essi hanno tuttavia in
comune il fatto che i contendenti parlano in termini di «tu sei … non sei …», «tu devi
… non devi …».
«Tu sei così freddo con me (è vero), devi farmi sentire importante (è giusto)», «Tu
non sei mai interessato a me (è vero), non devi pensare sempre al tuo lavoro (è
ingiusto)» sono frasi che caratterizzano soprattutto il versante femminile.
Da quello maschile, in risposta ai precedenti messaggi capita di ascoltare cose del
tipo «Non è vero che non mi interesso a te (è falso), devi capire che ho tante cose da
69
fare (è giusto)», «Tu sei sempre lamentosa (è vero), devi smetterla di opprimermi con
le tue lamentele (è ingiusto)».
Anche dietro i verbi fare e dire nonché i loro derivati, in realtà si nasconde l’essere e
il dovere.
Messaggi come «Tu ti comporti in modo così freddo con me, voglio che tu mi
faccia sentire importante …», «Tu non ti interessi mai a me, pensi sempre al tuo
lavoro …» sempre per quanto riguarda il versante femminile.
Per quanto riguarda, di nuovo, quello maschile si ascolta invece «Io mi interesso a
te, quando capirai che ho tante cose da fare …», «Ti lamenti sempre, lasciami un po’
in pace …» sottintendono comunque «tu sei» o «non sei» e «tu devi» o «non devi».
Alla base della comunicazione conflittuale ritroviamo quindi, in modo esplicito o
implicito, i verbi essere e dovere.
Mentre il primo introduce le nostre presunte verità distinguendole perciò dalle non
verità, il secondo sancisce ciò che è giusto discriminandolo quindi da ciò che è ingiusto.
Questo modo di comunicare produce i giochi senza fine nelle relazioni, circoli viziosi
che appaiono pressoché insolubili e densi di grande sofferenza, nei quali molte
persone finiscono a volte per consumare la loro intera vita di relazione. Tra le regole
del gioco compaiono quelle su come giocare ma non su come smettere.
Ciò che è vero e ciò che è giusto per noi divengono una sorta di capi
d'imputazione nei confronti degli altri che non la pensano come noi, i quali, com'è
ovvio, ci rivolgeranno a loro volta i loro capi d'imputazione.
Tutto questo dà origine a un'escalation di conflittualità tra le due parti, che può
culminare con una sentenza di condanna reciproca senza appello.
Ecco come una tipica discussione tra persone che si vogliono bene può diventare
il susseguirsi dell'arringa del pubblico ministero e dell'avvocato difensore, i cui ruoli
sono assunti alternativamente ora dall'uno ora dall'altro.
Spesso le persone continuano, anche per anni, a parlare degli stessi fatti, senza
poter riconoscere ciò che davvero importa: non tanto cosa è accaduto là fuori, bensì
cosa sta continuando ad accadere dentro.
Sono le emozioni senza tempo a presentarsi sul palcoscenico della consapevolezza
alla ricerca di accoglimento, spesso senza poter ottenere nemmeno riconoscimento.
70
Ciò produce quello che si può definire «l'effetto disco rotto», in cui si continua a
parlare e a rimuginare sempre sugli stessi fatti, senza poter riconoscere che sono le
emozioni il loro significato.
Se emozioni e bisogni ci accomunano in un comune sentire, le nostre convinzioni e
i nostri valori ci dividono attraverso un differente modo di pensare, dando così luogo
ai conflitti tra le persone.
Verso la comunicazione libera dai conflitti
L'obiettivo di fondo, anche se del tutto inconsapevole, presente in ogni nostra
interazione con altri esseri umani è la soddisfazione del bisogno di accoglimento,
ossia di riconoscimento, accettazione e comprensione.
Questi sono gli ingredienti dell’altro tipo di comunicazione, quella che possiamo
chiamare la «comunicazione emozionale». Differentemente da quella conflittuale, essa
si basa su ciò che in tribunale è assolutamente irrilevante: bisogni, stati d’animo,
sentimenti.
Si tratta della comunicazione che caratterizza gli amanti: «Sento la tua mancanza
…», «Ti amo tanto …», «Ho bisogno di te …», «Vorrei tanto averti qui …».
Se proviamo a litigare o a entrare in qualche modo in conflitto con chicchessia
comunicando esclusivamente in termini di ciò che proviamo, emozioni o bisogni che
siano, scoprire che è tecnicamente impossibile.
Parlando di questi argomenti anche il nostro tono di voce sarà diverso, più calmo,
più comprensivo, in grado di stimolare anche nell’altro pacatezza e comprensione.
Il passaggio dalla comunicazione conflittuale a quella emozionale ha il potere di
cambiare immediatamente la relazione tra le persone coinvolte, rendendola più
conforme ai bisogni di ognuno e innalzandone quindi la qualità.
Mentre la comunicazione conflittuale è sotto il diretto controllo della nostra parte
forte, che cerca di occultare il bambino interiore eludendone emozioni e bisogni, la
comunicazione emozionale si rivolge invece a questa nostra parte bambina, tendendo
a soddisfare il suo bisogno di accoglimento.
71
Quando, applicando la comunicazione emozionale, accogliamo il malessere di una
persona relativamente a un problema da cui si sente afflitta (vedi le emozioni di tipo
2), in realtà ci stiamo rivolgendo al suo bambino interiore.
Quando, per altro verso, mettiamo in atto la comunicazione conflittuale parlando
in termini di vero-falso, giusto-sbagliato, stiamo negando l’esistenza del bambino
interiore o condannandolo.
Ogni emozione solitamente definita «negativa» può sortire due risultati alquanto
differenti all'interno di una relazione.
Può costituire motivo di conflitto, incomprensione, difficoltà di ogni genere,
oppure
rappresentare
una
preziosa
opportunità
per
comprendersi
più
profondamente, rendendo più autentica e significativa la relazione stessa.
Questa seconda evenienza si verifica in virtù della comunicazione emozionale, che
riflette il significato stesso di comunicazione, termine la cui origine latina rimanda a
mettere qualcosa in comune, appunto e condividere.
Un’antica storia racconta che l'inferno è un luogo dove i condannati si trovano
attorno ad un tavolo imbandito, ricolmo di ottimi cibi. Tutti hanno le braccia legate,
in modo da impedire loro di piegarle per portare il cibo alla bocca e quindi sfamarsi.
In seguito al montare della frustrazione tutti provano una grande rabbia, che
sfogano picchiandosi con le posate che stringono in mano.
Il paradiso invece è un luogo in cui tutti si trovano, anche questa volta, attorno ad
un tavolo imbandito, ricolmo di ottimi cibi. Allo stesso modo tutti hanno le braccia
legate, in modo da non riuscire a piegarle e portare il cibo alla bocca.
La differenza è che ognuno imbocca chi gli sta accanto e perciò tutti mangiano
soddisfatti e felici.
Nella comunicazione conflittuale, il vero e il giusto diventano dominanti al punto
da cancellare ogni traccia di emozioni e di bisogni dalla relazione. Il vero e il falso, il
giusto e lo sbagliato sono come le sirene di Ulisse.
Costeggiando l'isola delle Sirene l'eroe si fece legare all'albero maestro della sua
nave, per poterne ascoltare il canto senza caderne preda e morire, destino riservato a
chi si faceva incantare e attrarre sulla loro isola.
Siamo immancabilmente attratti dalle sirene del vero e del giusto, trappola che
spesso si rivela mortale per la relazione.
72
In tal senso si può affermare che convinzioni e valori costituiscono la madre di tutti
i conflitti e in tal senso gli acerrimi nemici delle nostre relazioni significative.
Il passaggio dalla comunicazione conflittuale a quella emozionale comporta la
possibilità di una comprensione profonda.
In questo caso, infatti, la forza delle emozioni e dei bisogni cessa di alimentare le
nostre verità e ciò che per noi è giusto, contrapposti alle verità dell'altro e a ciò che
per lui è giusto. Ecco che i giochi senza fine sono finalmente interrotti.
La relazione può così svilupparsi, da quel momento in poi, in modo più conforme
ai reali bisogni e alla sensibilità delle persone coinvolte.
Questo tipo di comunicazione ha per la relazione caratteristiche analoghe a quelle
che il sale ha per il cibo. Se la sua mancanza lo rende insipido, il suo eccesso lo rende
immangiabile.
Comunicare continuamente le proprie emozioni e i propri bisogni renderebbe
l'altro sempre meno ricettivo.
È un po' quanto accade per la pubblicità: fornire continuamente stimoli rende lo
spettatore sempre meno sensibile, richiedendo perciò dosi sempre più massicce per
aumentare la probabilità di fare breccia.
D'altra parte, non comunicando per nulla a questo livello profondo si sottrae
nutrimento alla relazione, senza il quale essa finisce per avvizzirsi, proprio come
farebbe una pianta privata per lungo tempo di acqua.
Sarebbe anche come cercare di annaffiare foglie e rami: solo dando acqua alle
radici essa potrà averne quanto necessita.
Anche se la comunicazione emozionale è tecnicamente molto semplice, si rivela
spesso molto difficile da mettere in pratica. Semplice, infatti, non è sinonimo di facile.
Sempre in tema di paradiso e di inferno, un'antica storia racconta di un samurai
che voleva conoscere la differenza tra l'uno e l'altro.
Così si recò da un vecchio saggio. Questi lo guardò e iniziò a dubitare delle sue
capacità di comprendere, fino a dirgli apertamente che lo riteneva uno stupido.
Indignato, il samurai estrasse la spada e lo minacciò, al che egli replicò «Questo è
l'inferno!».
Il samurai realizzò quanta saggezza era contenuta in questa risposta e, per
dimostrargli rispetto e riconoscenza, s'inchinò, al che il saggio aggiunse «E questo è il
paradiso!».
73
I contenuti della comunicazione emozionale convogliano al proprio interlocutore
due fondamentali messaggi, che la nostra tracotanza finisce spesso per occultare: «Mi
sento forte, ecco che cosa mi permette di aprirmi a te!», «Sei importante per me,
tengo alla relazione con te, ecco perché ti comunico ciò che provo e ciò di cui ho
bisogno!».
Proprio chi è in grado di andare oltre il proprio senso di precarietà in rapporto
all'altro può concedersi il lusso della forza, quella che nasce dall'integrità personale e
dall'autenticità di sentimenti.
Una cosa va comunque tenuta ben presente. Alle persone non piace che si parli
delle loro emozioni che definiscono «negative», che vogliono in ogni modo cancellare
o nei confronti delle quali cercano di far finta di nulla. Un errore sarebbe quindi
rivolgersi all’altro in termini di «Tu sei arrabbiato con me!».
Se vogliamo far riferimento al mondo interno dell'altro, occorre perciò farlo
attraverso le nostre sensazioni e impressioni, come nel caso di «Ho la sensazione che
tu ti senta arrabbiato con me!», «Ho l'impressione che tu abbia bisogno di parlarmi»,
oppure, in modo ancor più indiretto, riferendoci esclusivamente a noi stessi, «Ho una
sensazione di rabbia».
Ciò che si ritiene vero non è, dunque, che il nostro interlocutore effettivamente si
senta arrabbiato con noi o che abbia bisogno di parlarci, quanto piuttosto la nostra
personale sensazione o impressione riguardo a ciò.
Nel caso degli stati d'animo si potrebbe aggiungere: «… e nel caso tu ti senta
arrabbiato ti comprendo».
Si eviteranno così le sabbie mobili di una presunta verità e con essa la con-fusione tra
la realtà soggettiva e il mondo esterno.
Da evitare accuratamente quando si parla di stati d’animo spiacevoli è la causaeffetto, esempi della quale sono «Tu mi fai sentire male», «Mi sento male perché tu …».
Alle orecchie del nostro interlocutore tali messaggi suonerebbero, infatti, come una
colpevolizzazione.
Questo modo di comunicare tende a ripristinare la confusione tra sensazioni
soggettive (mondo interno) e verità (mondo esterno), mischiando pericolosamente le
carte in tavola.
74
Visto, inoltre, che la colpa non la vuole nessuno egli tenderà perciò a negare lo
stato d'animo che viene comunicato o a opporre il suo rifiuto, di conseguenza a
chiudersi.
Al posto di tali espressioni si potrà usare «Mi sento male quando / nel momento
in cui ti arrabbi con me» o «Se fai / dici … allora io mi sento …», forme che
instaurano un rapporto di sincronicità tra gli eventi piuttosto che di causalità,
riducendo così al minimo la sensazione dell'interlocutore di venire colpevolizzato.
Altra cosa importante è saper individuare i casi o i momenti in cui l'altro è
maggiormente disponibile alla comunicazione emozionale: una riunione aziendale
può non costituire il momento più adatto.
Privata di tali premesse la comunicazione diviene ibrida, il bizzarro risultato della
confusione tra quella conflittuale basata su presunte verità e quella emozionale, la
qual cosa sarebbe destinata a produrre effetti ancora più deleteri.
Sarebbe come mescolare due sostanze che non dovrebbero affatto stare assieme,
giacché reagiscono l'una all'altra in modo indesiderato.
Quando si fabbrica la nitroglicerina si deve trattare la glicerina con l'acido nitrico e
quello solforico, ma se il processo non è tenuto accuratamente sotto controllo il
prodotto che si forma – appunto la nitroglicerina – produce un'istantanea esplosione.
In frasi come «Tu sei arrabbiato con me!» si ha la pretesa di leggere nel pensiero del
proprio interlocutore, considerando le proprie impressioni come la verità stessa. Si
finisce così per confondere il proprio mondo interno con quello dell'altro.
Il passo successivo è esprimere un giudizio – spesso di condanna – nei confronti
delle sue presunte emozioni o dei suoi presunti bisogni: «Non devi sentirti insicuro»,
«É infantile avere bisogno di qualcuno vicino!» e cose del genere.
Mentre nel primo caso è come se dichiarassi di possedere il dono della scienza
infusa, nel secondo assumo il ruolo di giudice, di depositario della conoscenza del
bene e del male. Come potrò non suscitare le reazioni oppositive, manifeste o meno,
nel mio interlocutore?
Non mischiare il mondo interno con i fatti costituisce un principio relativo
piuttosto che assoluto.
Non significa, infatti, che quando si comunica in termini di emozioni e di bisogni
non si debba prendere in considerazione alcun dato di realtà. Ciò risulta spesso
75
necessario al fine di attuare una comunicazione chiara ed esaustiva, in modo tale che
le persone coinvolte possano spiegarsi fino in fondo.
Occorre però che tali dati rimangano sul piano sensoriale, come nel caso di: «Mi
sento male se mi dici che non ti ascolto mai! Ieri sono stato tutta la sera ad
ascoltarti!».
Si tratta, in altri termini, di circostanziare quanto si afferma a proposito delle proprie
emozioni e dei propri bisogni, al fine di permettere all'altro di comprendere sul piano
concreto quanto gli stiamo dicendo e di rispondervi in modo pratico.
Nel momento in cui s'introduce una palese interpretazione le cose cambiano, come
nel caso di: «Mi sento male perché non mi capisci». In tale messaggio vengono
perdute le radici sensoriali del comportamento dell'altro finendo per pretendere di
leggere nel suo pensiero.
Dalle parti al tutto: il ritorno all’armonia
Se la confusione è la madre di tutti i problemi la chiarezza è la madre di tutte le
soluzioni.
In questo libro abbiamo parlato di una forma molto subdola di confusione, quella
tra noi come tutto e le nostre parti.
Il nostro bambino interiore e la nostra parte forte, quali personaggi del nostro
teatro interiore, a volte prendono il sopravvento su di noi adulti, facendoci provare le
forme di un’antica sofferenza e spingendoci a porre in atto vecchi comportamenti nel
vano tentativo di porvi rimedio.
Come accade in una famiglia in cui vi sono dei conflitti, la soluzione non è certo
dare ragione all’uno o all’altro o, tanto meno, buttar fuori l’uno o l’altro. Si tratta di
instaurare un dialogo in cui ognuno può comunicare in modo da sentirsi riconosciuto
e accolto, in modo che si possa ristabilire l’armonia.
Questa armonia è possibile anche nel nostro mondo interno, prerequisito per
stabilirla anche in quello là fuori. Così come il conflitto è l’inevitabile risultato di un
modo di comunicare conflittuale, questa armonia può essere il naturale risultato di un
modo di comunicare volto all’armonia tra il tutto e le parti.
76
Se il nostro mondo interno, la nostra psiche è come un teatro e se in tale teatro
interiore recitano alcuni personaggi che replicano, volta dopo volta, la stessa
rappresentazione, a questo punto la domanda è: a quante repliche dobbiamo assistere
per poterne cambiare il copione?
La domanda è paradossale perché la risposta è ovvia: a infinite repliche, in altri
termini come semplici spettatori non possiamo cambiare il copione da cui si
generano i nostri problemi.
Ma nel momento in cui passiamo dal ruolo di semplici spettatori a quello di attori
il cambiamento diviene immediatamente possibile. L’attore può, infatti, improvvisare,
agire in modo difforme dal copione originario, essere guidato dal regista verso
l’elaborazione di un nuovo copione.
Siamo così giunti al momento di salutarci.
Questo libro ha voluto darti un piccolo suggerimento su come potrai considerare
le cose nel momento in cui dovesse emergere una qualche forma di malessere o di
disagio o di sofferenza, o ti trovassi paradossalmente a porre in atto un
comportamento che ritiene inopportuno, al fine di ristabilire l’armonia.
E quindi possiamo concludere ricordandoti che …
… la storia che questo libro ha voluto raccontarti,
diversamente dalle altre storie,
ha un finale che solo tu puoi scegliere,
solo tu puoi far sì che la storia della tua vita abbia un lieto fine.
77
Stefano Boschi, psicologo, psicoterapeuta, ricercatore
nel settore della comunicazione in ambito clinico e
della psicoterapia breve integrata. Dalla sua attività di
ricerca nasce la Terapia dei Nuclei Profondi, metodo
che sintetizza in modo sinergico alcuni dei massimi
sistemi della psicoterapia tradizionale, il Metodo di
Cambiamento Rapido o MCR, che si rivolge a
psicologi
e
counselor, il
Metodo
PsicheSoma,
appositamente studiato per affrontare le radici
psichiche delle malattie somatiche, la Terapia dei
Copioni
Relazionali,
modello
sistemico
particolarmente adatto a sciogliere i nodi della coppia,
la Pedagogia dei Modelli Adattivi, un nuovo modo di
osservare la psicopatologia dell'età evolutiva.
www.stefanoboschi.it
78
Fly UP