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il gioco delle parti
Stefano Boschi Fr ee w nl oa d do IL GIOCO DELLE PARTI E tu, che parte fai? E-book © Copyright 2014 Alcuni brani di questo e-book sono tratti da Terapia dei Nuclei Profondi di Stefano Boschi. 1 Indice Introduzione … 4 Noi e le nostre parti … 8 Il bambino interiore … 10 I volti del bambino interiore … 14 La parte forte … 19 I volti della parte forte … 20 L’identikit delle parti forti … 31 Il girotondo … 35 I problemi come paradossi … 38 Come identificare la parte forte … 40 La ruota del carattere … 45 Il carattere e le relazioni … 52 I problemi umani e il gioco delle parti … 57 La trasmutazione emozionale … 59 Guidare la parte forte … 64 La spia sul cruscotto … 66 I conflitti relazionali … 68 Verso la comunicazione libera dai conflitti … 71 Dalle parti al tutto: il ritorno all’armonia … 76 L’autore … 59 Il Metodo di Cambiamento Rapido o MCR … 60 2 Questo libro ti vuole raccontare una storia che, come tutte le storie, è animata da vari personaggi e dalle loro vicende. Diversamente da molte altre però, i personaggi di questa storia vivono nel tuo mondo interiore … 3 Introduzione C’era una volta un uomo che aveva tre figli; il minore, chiamato il Grullo, era disprezzato, deriso e sempre trascurato. Un bel giorno, il maggiore volle andare a far legna nel bosco e, prima di uscire, ebbe da sua madre una bella frittata e una bottiglia di vino per non soffrire la fame e la sete. Entrando nel bosco incontrò un vecchio omino grigio, che lo salutò e disse: «Dammi un pezzo della tua frittata e lasciami bere un sorso del tuo vino, ho tanta fame e tanta sete!». Ma il figlio accorto rispose: «Se ti do la mia frittata e il mio vino per me non resta nulla: levati dai piedi!». Lasciò in asso l’omino e se ne andò. Cominciò a tagliare qualche ramo, ma ben presto sbagliò il colpo e con la scure si ferì il braccio e dovette tornare a casa a farsi bendare. Ma quello era un tiro dell’omino grigio. Poi andò nel bosco il secondo figlio e anch’egli, come il maggiore, ebbe dalla madre una frittata e una bottiglia di vino. Anch’egli incontrò il vecchio omino grigio, che gli chiese un pezzo di frittata e un sorso di vino. Ma anche il secondo figlio disse giudiziosamente: «Quel che do a te manca a me, levati dai piedi!». Lasciò in asso l’omino e se ne andò. Ma il castigo non si fece aspettare: dopo aver dato due o tre colpi a un albero si ferì la gamba e dovettero trasportarlo a casa. Allora disse il Grullo: «Babbo, per una volta lasciami andare a far legna». Rispose il padre: «Si sono fatti male perfino i tuoi fratelli! Tu lascia stare, perché non te ne intendi». Ma il Grullo lo pregò tanto che il padre finì col dirgli: «Và pure, imparerai a tue spese!». La madre gli dette una pagnotta cotta e una bottiglia di birra acida. Entrando nel bosco incontrò anch’egli il vecchio omino grigio, che lo salutò e gli disse: «Dammi un pezzo della tua focaccia e un sorso delle tua bottiglia, ho tanta fame e tanta sete». Rispose il Grullo: «Io ho soltanto un po’ di pane cotto nella cenere e birra acida, se ti va sediamoci e mangiamo». Si misero a sedere e quando il Grullo tirò fuori la sua focaccia trovò una bella frittata e la birra acida era diventata buon vino. Mangiarono e bevvero, poi l’omino disse: «Siccome hai 4 buon cuore e dai volentieri del tuo voglio che tu abbia fortuna. Là c’è un vecchio albero, abbattilo e troverai qualcosa nelle radici». E gli disse addio. Il Grullo abbatté l’albero e quand’esso cadde trovò nelle radici un’oca con le penne tutte d’oro. Questa fiaba dei fratelli Grimm, L’oca dalle penne d’oro, non è la storia che questo libro ti vuole raccontare, anche se in qualche modo la introduce. In questa fiaba si narra la storia del Grullo, il figlio che viene trascurato e disprezzato perché considerato incapace e inadeguato. Ognuno di noi ha tanti figli, alcuni considerati capaci, validi e degni di apprezzamento, mentre altri considerati incapaci, inadeguati e da disprezzare. Si tratta dei nostri comportamenti, delle nostre reazioni. Tra tutte le reazioni che consideriamo inadeguate ve n’è una che tendiamo a disprezzare in modo particolare: si tratta di quelle emotive, ossia del provare emozioni spiacevoli in relazione alle circostanze esterne. Quando ci sentiamo giù di morale, afflitti, incapaci, inadeguati, tristi, avviliti perché le cose non stanno procedendo come speravamo, quando abbiamo l’impressione che la nostra vita sia priva di senso perché non riusciamo a realizzare quel progetto a cui tenevamo tanto, tendiamo a considerare il nostro stato d’animo alla stregua del Grullo nella fiaba dei fratelli Grimm. Il motivo è che le emozioni sono la cosa più potente che abbiamo, nel bene e nel male. Mosso dalle nostre emozioni il nostro agire si rivela a volte bizzarro, inspiegabile, totalmente irrazionale, come se a metterlo in atto fosse una sorta di alter ego che rimane celato alla nostra consapevolezza. Vorremmo cambiare, comportarci in modo diverso, far sì che la nostra vita seguisse un'altra direzione, ma ci sentiamo impotenti. È il caso di chi gioca ai cavalli perdendo una fortuna, di chi mangia troppi dolci o fuma troppe sigarette senza poter smettere, di chi non riesce a trattenere le esplosioni di rabbia incontrollata. Il semplice discostarsi dal buonsenso diviene a volte un vero e proprio tradimento della razionalità nelle relazioni affettive, come nel caso in cui allacciamo ripetutamente rapporti con persone che riteniamo, a dir poco, inadeguate ai nostri bisogni e da cui ci sentiamo soggiogati. 5 Gli esempi potrebbero continuare pressoché all'infinito. Che cosa c'è dietro a tutto questo? Le emozioni giocano nella nostra vita un ruolo importante, quello di farci sapere che esistiamo! Cosa sarebbe, infatti, la nostra vita senza emozioni? Se potessimo vedere cose, ascoltare suoni, muoverci nello spazio, parlare con qualcuno, svolgere il nostro lavoro, incontrare persone senza provare alcunché, sarebbe come vivere una vita in bianco e nero, vuota, che non ci apparterrebbe, una vita priva di senso. La possibilità di provare emozioni è tanto importante per noi da farci preferire, a volte, provare stati d’animo spiacevoli piuttosto che noia e senso di vuoto. Per quanto paradossale ed assurdo possa sembrare, è preferibile una vita costellata da momenti di sofferenza a una vita – se mai fosse possibile – emotivamente piatta. Ecco svelato il mistero del grande successo delle telenovelas, in cui le intricate vicende dei protagonisti richiamano in modo evidente i più tipici conflitti relazionali dell'intera umanità, così come il successo di tanta junk television, in cui non viene mostrato altro che omicidi, violenza, inseguimenti, risse e cose del genere. Si tratta del modo più facile, anche se il più triviale, per suscitare una qualche forma di emozione, in modo da attribuire appunto «senso» alla nostra serata. L'importanza delle emozioni è ben nota ai creativi della pubblicità: non si può ascoltare un comunicato pubblicitario che non parli o non faccia leva, direttamente o indirettamente, sulle nostre emozioni. Non si vende il prodotto per le sue caratteristiche merceologiche o tecnologiche, bensì per ciò che sarebbe in grado di farci provare. I creativi della pubblicità devono sapere ciò che controlla e motiva il nostro comportamento, più di quanto non sia necessario per ogni altro professionista: gestiscono, infatti, miliardi e miliardi di euro e di dollari, non possono permettersi di non saperlo! Le passioni che abbiamo vissuto, ancora molto piccoli, nel rapporto con i nostri genitori ci hanno fatto sapere di esistere. Si tratta delle esperienze più forti che abbiamo mai provato. Chi ha assistito alla tempesta emozionale di un bambino sa bene quanto la rabbia, la disperazione, la solitudine possano essere soverchianti. 6 Una volta diventati adulti cerchiamo di controllare le nostre passioni facendo leva sulla razionalità, che viene ad acquisire il ruolo del cavaliere che conduce il suo cavallo là dove lui vuole andare: ma «lui» chi è, il cavallo o il cavaliere? Le emozioni sono il nostro inferno e il nostro paradiso. Ogni problema è tale nella misura in cui reca in sé un vissuto spiacevole, altrimenti che problema sarebbe? Ogni soluzione è tale nella misura in cui reca in sé un vissuto piacevole, altrimenti che soluzione sarebbe? Le sette meraviglie del mondo sono state definite in questo modo perché lasciano esterrefatto chi vi si trova di fronte, sono capaci cioè di suscitare intense emozioni. Si potrebbe affermare che esiste una sola e vera meraviglia: la nostra capacità di provare intense emozioni! Chi è capace di farci provare profondi quanto piacevoli stati d’animo possiede su di noi lo stesso potere del pifferaio magico: iniziamo a seguirlo dovunque vada. Le travolgenti passioni che abbiamo provato nella nostra infanzia non appartengono al passato. Sono i messaggeri che si presentano al nostro cospetto dopo aver attraversato l'oceano del tempo per animare i nostri incubi e i nostri sogni. È dalle nostre antiche, inestinguibili, possenti e irrefrenabili emozioni che nascono le nostre «parti» e il gioco che esse instaurano, appunto il «gioco delle parti». Si tratta di un miscuglio indistinguibile di sentire, di pensare, di atteggiamenti nei confronti degli altri che prende vita dentro e fuori di noi, nel nostro mondo psichico così come in quello delle nostre relazioni. In ognuno di noi c’è un Grullo disprezzato, in ognuno di noi c’è un bambino rifiutato che aspetta di essere riconosciuto e accolto nel suo disagio o nella sua sofferenza. Proprio come accade al Grullo nella fiaba dei fratelli Grimm, egli è, in modo del tutto insospettabile, il depositario di quelle risorse che sentiamo mancanti nella nostra vita di adulti. 7 Noi e le nostre parti L'idea delle parti come aspetti diversi che compongono la personalità non è affatto nuova. Il nostro linguaggio quotidiano la riflette continuamente, attraverso espressioni quali «C'è una parte di me che mi spinge a … mentre un'altra vorrebbe che …», «In quel momento era come non fossi più me stesso», «Era come se fossi un'altra persona», «Fu come se qualcosa dentro di me avesse preso il sopravvento». Più che apparire come un monolito, la nostra personalità può essere paragonata a un mosaico, formato di tante tessere. Alcune di queste tessere risultano ben integrate con la figura che vanno a comporre mentre altre no, proprio come in quei mosaici antichi provati dal tempo, che andrebbero un po’ ricomposti. Se la nostra personalità è come un mosaico, di quelli antichi, dobbiamo considerare la possibilità che ci siano alcune tessere o appunto parti che necessità di un intervento restaurativo, al fine di ritrovare la loro originaria armonia in seno alla figura complessiva, al tutto. A volte si ha come l’impressione che in seno alla personalità esistano dei nuclei di consapevolezza e deliberazione che vivono di vita propria, aspetti di noi che in alcuni particolari momenti sono capaci di prendere il sopravvento, sovrapponendo la loro volontà alla nostra. Ciò accade soprattutto quando siamo preda di forti emozioni e ci troviamo a pensare, a sentire, a volere cose che in condizioni normali non riconosciamo come nostre. Ben lungi dal costituire un fenomeno anomalo, questo stato di cose rientra nella perfetta normalità, anche se molti nostri problemi dipendono da questo. Quando una parte prende il sopravvento sul tutto si realizza ciò che i latini chiamavano pars pro toto, ossia la parte prende il posto del tutto. È questo fatto che dà inizio al «gioco delle parti». Ma come sono, quali sono le nostre parti? Ognuno di noi ha parti diverse o sono uguali per tutti? 8 Per rispondere a queste domande dobbiamo immaginare che il nostro mondo interno, quello psichico, sia come un teatro nel quale – come in tutti i teatri che si rispettano – prendono vita alcuni personaggi. Dato che si tratta di un teatro interiore, il copione messo in scena dai personaggi che lo animano deve avere a che fare con la nostra più personale esperienza. Due personaggi danno vita al «gioco delle parti». Il primo riflette quello che noi, come adulti, siamo tutti stati, ossia bambini. Si tratta di quello che possiamo chiamare il «bambino interiore». Esso mostra due diverse facce. La prima è fonte di creatività, capace di giocare con le cose, le situazioni, le persone e quindi capace di farci divertire. La seconda invece è il ricettacolo della sofferenza che abbiamo patito nella nostra infanzia. Può essersi trattato di paura, di solitudine, di tristezza, di senso di vuoto o di altro ancora, ma di qualunque stato d’animo si sia trattato non è mai scomparso, perché il nostro bambino interiore se n’è fatto carico. D’ora in poi, parlando del bambino interiore ci riferiremo a questo particolare volto, carico di disagio o di vera e propria sofferenza. Esistono profonde similarità tra noi esseri umani anche per quanto riguarda le nostre parti. Il primo e fondamentale motivo è che proviamo tutti le stesse emozioni. Le differenze si riscontrano sul piano del quanto, del come e del dove, non certo del cosa. Non proviamo le stesse emozioni nello stessi momento, in relazione alla stessa circostanza, con la stessa persona, non le esprimiamo nello stesso modo, ma senza dubbio proviamo le stesse emozioni e gli stessi sentimenti. Non importa di quale forma di malessere qualcuno ci parli, possiamo senza ombra di dubbio comprenderlo. Forse non possiamo comprenderne i motivi, ma siamo di certo in grado di capire di che cosa ci stia parlando. Se vogliamo ritrovare un senso di unità tra gli esseri umani dobbiamo riferirci a ciò che sentiamo e non a ciò che pensiamo o a come valutiamo le cose. I volti del bambino interiore sono quindi tanti quanti sono le emozioni spiacevoli. Dato che le emozioni fondamentali – come ha mostrato Charles Darwin – sono universali, tali volti appaiono ricorrenti al punto da poterne identificare un numero assai ristretto. Tra poco passeremo assieme in rassegna questi diversi volti, ma non prima di averti raccontato una storia. 9 Un giorno, una spedizione di scienziati, accompagnati da una squadra di portatori, stava attraversando un territorio impervio in una sperduta regione del mondo. Il responsabile della spedizione aveva imposto già da alcuni giorni un ritmo di marcia molto serrato, poiché la spedizione era in ritardo sul programma stabilito. Il terzo giorno, il capo dei portatori dice ai suoi di fermarsi: sorpreso e contrariato il responsabile della spedizione gli chiede spiegazione, al che l'uomo candidamente risponde: «Abbiamo camminato troppo in fretta. Ora dobbiamo aspettare la nostra anima!». Il bambino interiore Il bambino interiore è in grado di condizionare profondamente la nostra vita, sia individuale che sociale, in forza del potere delle emozioni spiacevoli di cui è carico. È questo bambino l'anima che ci siamo lasciati indietro nel corso della marcia forzata dall'infanzia all'età adulta e che ora ci ritroviamo davanti nella forma dei problemi che ci affliggono. Ciò che ci lasciamo indietro un giorno ce lo ritroveremo davanti. Come affermò qualcuno, se continuiamo a fuggire dai nostri problemi saremo molto stanchi quando un giorno ci raggiungeranno. E questo è il caso del nostro bambino interiore. È il tiranno che continua a pretendere riconoscimento e accettazione per la sofferenza da cui si sente afflitto e finché non avrà ottenuto ciò che cerca continuerà a perseguitarci. Dalle emozioni spiacevoli nasce quindi un bisogno: quello di riconoscimento e di comprensione. Si tratta della chiave per comprendere l’esistenza del nostro bambino interiore. Oltre duemila anni or sono, osservando come i bisogni relazionali apparivano dominanti sugli altri, Aristotele, maestro di color che sanno, definì l’essere umano come «l’animale sociale». Recentemente, alcuni ricercatori della Brigham Young University dello Utah hanno affermato che la mancanza di relazioni sociali apporta lo stesso danno biologico dell'alcolismo e dell'obesità. 10 Tra i bisogni che ci contraddistinguono come animali sociali spicca quello di riconoscimento e di comprensione della sofferenza che proviamo. La soddisfazione di questo bisogno permette, per altri versi, lo stabilirsi di profonde relazioni. Non esiste legame più forte di quello che si osserva tra persone che ne hanno passate di tutti i colori, come ad esempio i commilitoni che hanno combattuto la stessa guerra, che sono passati attraverso situazioni in cui il pericolo di vita ha fatto emergere emozioni estreme, come panico e disperazione. I riti di iniziazione che ritroviamo in tutti i popoli tradizionali, in particolare quello che coincide con l'entrata del giovane nella pubertà, sembrano fatti apposta per stimolare quelle forti emozioni che renderanno l'individuo profondamente parte di quella comunità, amplificando al massimo grado il suo spirito di coesione con il resto della tribù. La possibilità di condividere stati d'animo spiacevoli e quindi di comprendersi reciprocamente in un modo unico, profondo e irripetibile crea un rapporto destinato a durare tutta la vita. In tal senso va forse interpretata la sindrome di Stoccolma, la condizione psicologica nella quale una persona prima vittima di un sequestro può in seguito manifestare sentimenti positivi (talvolta anche innamoramento) nei confronti del proprio sequestratore. Durante una rapina alla Kreditbanken di Stoccolma del 1973, alcuni dipendenti furono tenuti in ostaggio dai rapinatori per sei giorni. Essi provarono una forma di attaccamento verso i banditi, giungendo, una volta liberati, a prenderne le difese e richiedere per loro la clemenza alle autorità. Come si potrebbe affermare che essere tenuti in ostaggio per sei giorni non rappresenti un’esperienza molto emozionante?! Per riprendere quanto affermato dai ricercatori della Brigham Young University dello Utah a proposito del bisogno di relazioni sociali, anche quelle conflittuali sono pur sempre relazioni! Se le emozioni spiacevoli possono costituire un collante tra le persone, anche in situazioni relazionali paradossali come quella tra il rapitore e la sua vittima, è anche vero che possono determinare il naufragio di un rapporto che dura da anni. 11 Il problema è che di fronte alla sofferenza, sia nostra che quella altrui, la nostra cultura ci suggerisce un atteggiamento che va in senso diametralmente opposto al bisogno di riconoscimento e di comprensione, proprio del nostro bambino interiore. Se qualcuno viene da noi e ci racconta che sta male, tendiamo in modo del tutto automatico – ossia senza pensarci minimamente su – a rivolgergli frasi quali «Vedrai che passa!», «Cosa vuoi che sia!», «C’è di peggio!», «Pensa alle cose positive», «Non devi sentirti male!», «Non è giusto che ti senta così!» e via dicendo, chi più ne ha più ne metta. Come diceva Oscar Wild, è con le migliori che spesso si producono i peggiori dei risultati. Queste frasi, infatti, pur essendo proferite con le migliori delle intenzioni producono come effetto la frustrazione del bisogno di riconoscimento e di comprensione. In altre parole, il semplice disagio o la vera e propria sofferenza non vengono riconosciuti o compresi. Un bisogno è ben altra cosa rispetto a un semplice desiderio. Mentre i bisogni sono stabiliti da madre natura i desideri invece vanno e vengono, come le mode. Se un bisogno, un vero e genuino bisogno, non viene soddisfatto ne uscirà inevitabilmente rafforzato. Con esso finisce per essere consolidata anche la sofferenza che ne costituisce il contenuto, che tenderà perciò a riemergere di nuovo e di nuovo nella nostra vita come un cibo non digerito, alla perenne ricerca di riconoscimento e di comprensione. Oltre un secolo fa William James affermava: «Se fosse realizzabile, non ci sarebbe pena più diabolica di quella di concedere a un individuo la libertà assoluta dei suoi atti in una società in ci nessuno si accorga mai di lui» Nei primi anni di vita, quando il bambino subisce la frustrazione di un bisogno importante all'interno della relazione con i suoi genitori, la sofferenza che prova instaura un bisogno di livello superiore, quello di sentirla da loro riconosciuta, accettata e compresa. Per il cucciolo di animale sociale, la soddisfazione di tale bisogno produrrebbe un'esperienza di grande soddisfazione, che si porrebbe a un livello superiore rispetto a 12 quello della soddisfazione del bisogno originariamente frustrato. Ecco come si consolidano le relazioni. Senza comprendere la sofferenza e senza comprendersi nella sofferenza la relazione resta monca, insoddisfacente. Non dobbiamo peraltro dimenticare che le nostre relazioni occupano un posto privilegiato tra le determinanti di ciò che chiamiamo qualità della vita, ricollocandoci continuamente all'interno del continuum creato dai due poli malessere-benessere. Sul piano relazionale, il bisogno fondamentale del bambino è di essere riconosciuto dai suoi genitori, prima ancora che accettato, amato, apprezzato, di ricevere quindi il messaggio «Tu per noi esisti!». Si tratta di esistere per l'altro e attraverso l'altro. Tale è il significato del rituale sociale del saluto, ossia offrire e ricevere riconoscimento: «Salve! Come stai? Cosa fai di bello?». È certamente capitato a tutti di osservare un bambino che vuole a tutti i costi qualcosa – una caramella, un giocattolo, essere portato al cinema – da un adulto, che però glielo nega. A volte capita che, nel momento in cui il bambino si arrabbia o si dimostra offeso, l'adulto cambi idea e divenga disponibile nei confronti della sua originaria richiesta. Proprio a questo punto spesso si osserva un comportamento paradossale da parte del bambino, che ora rifiuta ciò che fino a qualche istante prima richiedeva insistentemente. Se l'adulto ora non riconosce al bambino il suo stato d’animo, il fatto che si sente offeso e arrabbiato, egli difficilmente accetterà l'offerta e si dimostrerà felice per la ritrovata disponibilità dell'adulto. La focalizzazione è quindi passata dal cosa, ossia dall’oggetto in sé che veniva richiesto, al come della relazione. Ora non è più tanto importante il primo, bensì la seconda. È soprattutto in relazione alla nostra sofferenza che sentiamo il bisogno di essere accolti, in particolare dalle persone a cui siamo legati. Se tale bisogno è importante per noi adulti immaginiamo quanto dev'esserlo per il bambino da parte dei suoi genitori. Caduto per cento anni nel sonno del mancato riconoscimento, il nostro bambino interiore può essere risvegliato dall'accoglimento che si rivolge alla sua sofferenza. 13 Riconoscere e accettare un'emozione spiacevole o un impulso risulta più facile se attribuito a una propria parte, piuttosto che a se stessi come tutto. Se nutro sentimenti di odio e di vendetta nei confronti di qualcuno, soprattutto se sono religioso convinto, sarà molto difficile che possa accogliere tali moti del mio animo, a meno che non li attribuisca a una parte di me. I volti del bambino interiore Il mancato riconoscimento e la mancata comprensione della sofferenza infantile è ciò che dà vita al nostro bambino interiore e ne determina la sopravvivenza nel corso dei decenni, fino al termine dell’esistenza. Ricordiamo che da un certo punto in poi, con questa espressione ci siamo riferiti alla faccia del bambino interiore carica appunto di sofferenza e non a quella creativa e giocosa. Scopriremo ora i suoi diversi volti, che ancora oggi si rivelano carichi di paura, senso d’inadeguatezza, senso di abbandono, di oppressione, di colpa, di non esistenza, di rabbia, sentimenti che non furono mai accolti nella nostra infanzia e che sembrano oggi perseguitarci nei momenti bui della nostra vita. Il bambino spaventato Il bambino spaventato nasce soprattutto nel rapporto con un genitore autoritario, prepotente, aggressivo, oppure con uno iperprotettivo, sempre in ansia e preoccupato per gli eventuali pericoli. 14 Entrambi questi genitori frustrano il bisogno di sicurezza e di protezione, facendo emergere senso d’insicurezza, d’incertezza, paura, fino al vero e proprio terrore. Il bambino inadeguato Il bambino inadeguato nasce, come nel caso del bambino spaventato, soprattutto nel rapporto con un genitore autoritario, prepotente, aggressivo, oppure con uno bisognoso che pone richieste superiori alle sue effettive capacità. Entrambi questi genitori frustrano il bisogno di autostima, facendo emergere senso d’inadeguatezza, d’incapacità, d’impotenza. Il bambino abbandonato Il bambino abbandonato nasce soprattutto nel rapporto con un genitore distaccato, freddo, distante o dal punto di vista emotivo o fisico, che frustra il suo bisogno di affetto e di attaccamento. È dalla frustrazione di tale bisogno che nascono senso di solitudine, di abbandono, di vuoto, tristezza. 15 Il bambino invaso Il bambino invaso nasce soprattutto nel rapporto con un genitore iperprotettivo e ansioso o con uno bisognoso che pone continue richieste di assistenza e di sostegno. Entrambi questi genitori frustrano, anche se in modi completamente diversi, il bisogno di autorealizzazione, da cui nascono il senso di oppressione, di essere invaso e violato nella propria territorialità psicologica. Il bambino colpevole Il bambino colpevole nasce soprattutto nel rapporto con un genitore autoritario, colpevolizzante e aggressivo o, di nuovo, bisognoso. Mentre il primo frustra il bisogno relazionale di essere apprezzato e valutato positivamente il secondo frustra quello di autorealizzazione. È dalla frustrazione di tali bisogni che nascono senso di colpa, di non valore, vergogna. 16 Il bambino invisibile Differentemente dagli altri bambini interiori, quello invisibile non è rappresentato da alcuna figura, giacché non si vede. Esso nasce soprattutto nel rapporto con un genitore distaccato, che non lo considera e lo tratta come se non esistesse, che tende perciò a frustrare il suo bisogno di riconoscimento. È dalla frustrazione di tale bisogno che nascono senso di nullità, l’impressione di non esistere, la sensazione di essere trasparente. Il bambino arrabbiato Il bambino arrabbiato costituisce il corollario di tutti i precedenti, nella misura in cui la rabbia è un effetto inevitabile di pressoché ogni forma di sofferenza, quando protratta oltre una certa soglia d’intensità e di tempo. Quando si soffre si finisce, prima o poi, che se ne sia o meno consapevoli, per provare rabbia. La sofferenza va, infatti, contro la nostra naturale tendenza a sentirci bene e la rabbia fornisce la spinta a reagire a tutto ciò che c’impedisce di realizzare tale naturale tendenza. Questo volto di bambino interiore nasce quindi nel rapporto con ogni tipo di genitore preso finora in considerazione e quindi dalla frustrazione di qualsivoglia bisogno. Esso può provare tutte le diverse forme di rabbia e tutte le diverse forme di sentimenti che da essa derivano, quali invidia, gelosia, odio, rancore. 17 Hai scoperto quale o quali sono i volti del tuo bambino interiore? Mentre hai cercato di farlo puoi incappare in un errore. Devi innanzitutto tenere conto del fatto che tutti proviamo tutte le emozioni che sono state precedentemente attribuite ai diversi volti del bambino interiore. Ci sono comunque emozioni che vanno e vengono giacché appaiono legate alle mutevoli circostanze della vita, che anche se spiacevoli non sono vissute come un «problema». Questo tipo di emozioni, che non si affaccia regolarmente alla finestra della nostra coscienza, le chiameremo emozioni di tipo 1. Ci sono invece emozioni che emergono in modo ricorrente e che non si rivelano quindi direttamente legate a particolari circostanze bensì piuttosto indipendenti da esse. Differentemente da quelle di tipo 1, queste emozioni sono invece vissute come un «problema» e, in quanto tali, si affacciano regolarmente alla finestra della nostra coscienza; le chiameremo emozioni di tipo 2. Mentre le prime si originano nella nostra dimensione attuale le seconde sono sorte quando eravamo bambini. Sono queste emozioni che, proprio come nella storia della spedizione, ci siamo lasciati indietro e che ora ci ritroviamo davanti, nella forma dei nostri problemi. Sono le emozioni che non sono mai state o riconosciute o accettate e che perciò ora sono alla ricerca dell’accoglimento che non hanno mai avuto. Queste sono le emozioni del nostro bambino interiore. Rimango spesso stupefatto nell'accorgermi del modo in cui le persone parlano della loro infanzia, del rapporto con i loro genitori, come se le passioni legate a quelle circostanze siano state semplicemente coperte ma mai cancellate o anche solamente attenuate. Non si tratta di semplici ricordi ma di veri e propri parti di sé sopravvissuti al passato, parti ancora vive e vegete nel presente, come se il tempo per loro non fosse affatto trascorso e lo spazio non avesse alcun senso. Come la Fenice che risorge dalle proprie ceneri, il nostro bambino interiore è destinato a risorgere alla ricerca dell’accoglimento a cui non può rinunciare. Per poterlo ottenere sarà disposto a tutto, a pagare e a farci pagare qualsiasi prezzo. 18 La parte forte Prima abbiamo affermato che due personaggi danno vita al gioco delle parti, finendo per parlare solo del bambino interiore. A questo punto possiamo introdurre l’altra parte, quella che chiameremo la «parte forte». Ma da che cosa nasce questa parte? Parlando del bambino interiore abbiamo accennato all’atteggiamento culturalmente diffuso a non riconoscere o a rifiutare la sofferenza, sia nostra che altrui. Si tratta, in realtà, del riflesso di quell’innata tendenza propria dell’animo umano a evitare il dispiacere. Se mi appoggio inavvertitamente a un termosifone molto caldo, la mia prima e giustificata reazione sarà di togliermi dall'incomoda posizione il più rapidamente possibile. Abbiamo mai ascoltato qualcuno dire nelle sue preghiere qualcosa del tipo «Signore, fa che la gioia che provo finisca presto!». Non abbiamo mai ascoltato niente del genere perché tutti gli esseri viventi – e noi con loro! – amano star bene, trovarsi in equilibrio, provare piacere e, per quanto riguarda noi esseri umani, gioia. Abbiamo certamente ascoltato qualcuno pregare dicendo invece qualcosa come «Signore, fa che la mia sofferenza e il mio dolore finiscano presto!». Per quanto riguarda la sofferenza siamo come una coppa che riempendosi si restringe, potendone contenere sempre meno. Non tolleriamo nemmeno un secondo di disagio o di sofferenza senza cercare, anche se in modo totalmente automatico, di fare qualcosa per eliminarlo, proprio come accadrebbe nel caso del termosifone che scotta. Può trattarsi di un semplice prurito: senza pensarci su nemmeno un secondo la nostra mano si attiva, raggiunge la parte del corpo che prude per eliminare quel fastidio, anche se così piccolo e insignificante. Per quanto riguarda invece il piacere, la gioia, la soddisfazione siamo come una coppa che mentre si riempie si allarga, per poterne contenere sempre di più. Non c’è alcun limite! Quello che possiamo chiamare il principio del termosifone determina la nascita della nostra parte forte, la parte di noi volta a far fronte al disagio e alla sofferenza racchiusi nel nostro bambino interiore. 19 I volti della parte forte Come nel caso dell’omino grigio nella fiaba L’oca dalle penne d’oro dei fratelli Grimm che hai letto all’inizio, la parte forte si rivolge a quella rifiutata, derisa, disprezzata, trasformando la sua fragilità in un punto di forza. A seconda della forma in cui disagio e sofferenza si presentano, sviluppiamo parti forti dal diverso volto, anche se tutte hanno qualcosa in comune. Come accade in 2001 odissea nello spazio e in Matrix, ciò che è stato costruito dall’uomo finisce per prendere il sopravvento. Prendendo le mosse dai diversi volti del bambino interiore vedremo ora le diverse parti forti, che il disagio e la sofferenza richiamano per necessità. Ognuna di loro è caratterizzata da un motto, da un preciso intento e da uno stato d’animo che motiva uno specifico comportamento, messo inizialmente in atto al fine di permettere al bambino di far fronte all’antica sofferenza, incarnata dai diversi volti del bambino interiore. I collegamenti che stabiliremo sono tutt’altro che assoluti bensì semplicemente probabili. Accanto a uno stesso bambino interiore potrà, infatti, trovarsi qualsiasi delle dodici parti forti che tra poco illustreremo. Iniziamo quindi dal bambino interiore spaventato. Uno dei più probabili volti che la parte forte potrà assumere è quello del Bullo. Il suo motto è: «La miglior difesa è l'attacco!». Il Bullo vuole dominare l’ambiente sociale in modo aggressivo e spinge perciò ad assumere l'atteggiamento di sfida di chi non ha paura di nessuno. In adolescenza questo atteggiamento può sfociare, appunto, nel bullismo. 20 Il tentativo è nascostamente quello di esorcizzare la paura del bambino interiore spaventato. Si tratta della parte forte che più d’ogni altra cerca di prendere il comando della persona che lo ospita, per occupare il ruolo di tutto e relegare quella al ruolo di parte. Quest’inversione paradossale ricorda la guerra decennale che i Titani combatterono con gli dei dell’Olimpo, prima di essere precipitati nel Tartaro da Zeus che li sconfisse. Spingendo ad assumere un atteggiamento di aperta sfida il Bullo può farsi molti nemici, il che finisce paradossalmente per incentivare la paura del bambino interiore spaventato. Da questo bambino interiore potrà anche svilupparsi un'altra parte forte, sempre volta a proteggere: il Previdente. Il suo motto è: «Prevenire è meglio che curare!». Il Previdente vuole anch’egli controllare l’ambiente in cui si trova ma questa volta si tratta soprattutto di quello fisico. Egli teme le situazioni che potrebbero rivelarsi impreviste, incontrollabili, pericolose. Adotta perciò una serie di contromisure basate sull'evitamento del presunto pericolo e sulla richiesta di aiuto rivolta ad altri, cercando, anch’egli come il Bullo, di fugare la paura del bambino interiore spaventato. Spingendo a focalizzare l’attenzione su ciò che ritiene in qualche modo pericoloso, il Previdente finisce per rendere la vita una sorta di campo minato, in cui occorre essere ben consapevoli di dove sono le mine per non rischiare di saltare in aria, incentivando così – come del resto fa anche il Bullo – la paura del bambino interiore spaventato. 21 Il bambino interiore inadeguato richiama una parte forte dal volto assai noto ai giorni nostri: quello del Vincitore. Il suo motto è: «Meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora». Il mito del successo di cui si fa portavoce il Vincitore è molto popolare nella nostra epoca. Nella cinematografia tale figura s'incarna nei supereroi: Superman, Batman, l'Uomo ragno, ecc. Chi ha sviluppato questa parte vive la sconfitta come il più terrificante dei fantasmi, in grado di far precipitare l'autostima sotto i piedi come nel caso di molti atleti, sempre in lotta per quel centimetro in più o per quel secondo in meno. Il bambino può essersi trovato di fronte alla richiesta di supporto più o meno esplicita da parte del genitore debole e bisognoso (molto spesso la madre malata o depressa), come se fosse lui stesso il genitore e il genitore fosse il figlio. Può essergli anche stata rivolta la richiesta di occuparsi del fratello più piccolo, il che lo ha, per altri versi, spinto ugualmente ad assumere il ruolo genitoriale. Infine, può anche darsi il caso in cui un genitore pone il figlio nel ruolo del coniuge da poco scomparso o assente affettivamente o fisicamente. Comunque sia, il bambino finisce per vivere la vita all’insegna del «devo» sviluppando cioè un profondo senso del dovere in forza del quale si sente chiamato in causa in modo diretto e in prima persona, cercando di esser sempre il migliore, disponibile e all’altezza di ogni compito. Nel bambino in età scolare si tratta della sindrome del primo della classe, il cosiddetto «secchione». 22 L’individuo rimane così schiacciato tra l'incudine del sentirsi obbligato a dimostrarsi più di quanto sente di poter essere e il martello dell'insostenibile senso d’impotenza del bambino interiore inadeguato, sempre più svilito. Come Ercole, il Vincitore porta a termine le sue proverbiali dodici fatiche lanciandosi in imprese che sembrano al di là delle possibilità umane. Le dodici fatiche rappresentano l'impresa che si pone al di là delle possibilità umane, l'andare oltre i confini che ci sono attribuiti per natura, analogamente a quanto cerca di fare questa parte. Veniamo adesso al bambino interiore abbandonato. Uno dei classici volti che potrà assumere la parte forte che da lui nasce è quello dell’Autarchico. Il suo motto è: «Meglio soli che male accompagnati». L'Autarchico spinge a comportarsi come se si fosse su un'isola deserta, da novelli Robinson Crusoe. Questa posizione comporta la perdita di contatto con la propria sfera emozionale nel tentativo di divenire una sorta di cervello senz'anima, come si osserva ad esempio nei rigidi moralisti. Adottando la strategia dell'autarchia si cerca di appiattire il senso di solitudine del bambino interiore e di cancellare i propri bisogni, vissuti come una pericolosa spinta verso gli altri che rischierebbe di minare la propria posizione di indipendenza ad oltranza. L'Autarchico lancia così una sfida alla dimensione più schiettamente umana, in particolare ai bisogni relazionali così come alle esigenze del corpo. Un modo tipicamente maschile è ritirarsi nella torre d'avorio del proprio lavoro, a cui il soggetto può quindi dedicarsi anima e corpo, finendo per vivere per lavorare anziché lavorare per vivere. 23 Spingendo a ritrarsi sempre più dalla sfera sociale, l’Autarchico finisce così per incentivare il senso di solitudine del bambino interiore abbandonato. Anche il bambino interiore invaso può facilmente richiamare questa parte forte. Tale posizione si osserva in persone che da bambini hanno vissuto in una casa senza porte, in cui il genitore non rispettava cioè i limiti del loro spazio psicologico, ad esempio entrando e uscendo dalla loro cameretta. Il bambino può avere anche ricevuto richieste insostenibili da parte del genitore e si è sentito violato nel suo senso d’integrità. La risposta è stata il ritrarsi da ogni coinvolgimento emozionale profondo, che potesse comportare il rischio di far riemergere la sensazione di essere invaso. Anche in questo caso, spingendo a ritrarsi dalla sfera sociale l’Autarchico può finire paradossalmente per incentivare il senso di oppressione, rendendo il soggetto ipersensibile al contatto con gli altri. Come nel caso di una ferita ancora aperta, anche una carezza può far male. Il bambino interiore colpevole può anche richiamare due parti forti, entrambe votate alla sofferenza: si tratta del Sacrificale e dell’Aguzzino. Il motto del Sacrificale è: «Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa». Questa parte forte punisce chi la reca nel proprio mondo interno spingendolo, appunto, a sacrificarsi per qualcosa o per qualcuno. Essa nasce dall'esigenza di sedare i cocenti sensi di colpa del bambino, votandolo a una vita di sacrificio rinuncia e di privazioni nella speranza di emendare la propria colpa e raggiungere così la redenzione, per essere di nuovo accettato e amato. Egli apprende così a sostituire i propri bisogni con quelli del genitore, cosa che alimenta la confusione tra ciò che lui vuole e ciò che vogliono le persone per lui importanti. Nasce così quello che è stato definito il «complesso di Cenerentola». Il mito del peccato originale e quello della cacciata dal Paradiso Terrestre riflettono tale realtà interna, ciò a cui questa figura cerca di trovare rimedio. 24 Il bambino si sente cacciato dal Paradiso terrestre e come Adamo o Eva dovrà sopravvivere con il sudore della fronte e a costo di grandi sacrifici. Spingendo al sacrificio, questa parte forte conferma il senso di colpa del bambino interno colpevole, che in questo modo si sentirà ancora più colpevole e così via, in un circolo vizioso potenzialmente senza fine. Veniamo ora all'Aguzzino, il cui motto è: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso». Questa parte forte punisce infliggendo dolore per emendare una presunta colpa, mettendo perciò a fuoco l'altra faccia della via verso la redenzione rispetto a quella offerta dal Sacrificale: la purificazione attraverso la sofferenza. Sempre munito di ottime scuse e di valide motivazioni assicura, come del resto fa il Sacrificale, una vita di sofferenze e di privazioni, spingendo a vivere in modo spartano, senza concedersi gioie o divertimenti e anche utilizzando, a volte, una serie interminabile di malattie e disturbi somatici come inconsapevole via di espiazione. In tal modo accentua invece che lenire il senso di colpa del bambino interno colpevole. Dal bambino interiore invisibile tendono a svilupparsi due parti forti che mostrano una particolare propensione alla simulazione: lo Sbruffone e il Camaleonte. 25 Il motto dello Sbruffone è: «Apparire per essere!». Questa parte spinge ad assumere un atteggiamento grandioso, cercando così di allontanare la minaccia che sente incombere di non esistere o di non valere nulla. Il bambino cerca allora di mostrare di valere più di quanto internamente non senta, capovolgendo il senso di non esistenza o d’inferiorità che va accumulandosi internamente in un atteggiamento di superiorità solo apparente. Come Narciso, questa parte forte spinge a specchiarsi continuamente negli altri, innamorata in realtà solo di se stessa. Spingendo a simulare ciò che non si è lo Sbruffone finisce per nascondere e coprire in modo sempre più ermetico il bambino interiore invisibile, che in tal modo diviene davvero invisibile. Il motto del Camaleonte invece è: «Sarò come tu mi vuoi!». Questa parte spinge a simulare i comportamenti valutati positivamente dagli altri, a essere come si crede loro ci vogliono. 26 Questo atteggiamento ricorda il dio Proteo, il quale riusciva a trasformarsi in qualsiasi animale o cosa per sfuggire ai pericoli, da cui l'espressione coniata da Lifton «personalità proteiforme». Le sue caratteristiche, che possono essere definite ad assetto variabile, sono rese magistralmente nel film Zelig, di Woody Allen. È il tipico caso dei genitori che non volevano avere un figlio o che volevano un figlio dell'altro sesso. Può anche trattarsi di un genitore imprevedibile, dal comportamento caotico, che pone il bambino nella necessità di adeguarsi continuamente alle sue richieste contraddittorie. Il fine recondito è accattivarsi la simpatia e la benevolenza del genitore e sentirsi accettato nella sua esistenza. È quindi un consumato manipolatore, che irretisce le sue vittime facendo spesso leva sulla loro vanità e sul loro bisogno di adulazione. Spingendo ad agire come se si fosse davvero come vogliono gli altri, il Camaleonte finisce per confermare il senso di non esistenza del bambino interiore invisibile. Eccoci, in ultimo, al bambino interiore arrabbiato. Da lui possono svilupparsi indifferentemente tutte le parti forti cariche di rabbia. Finora di queste abbiamo visto solamente il Bullo e tra quelle restanti emerge prepotentemente il Trasgressore. Il suo motto è: «L'unica regola è infrangere le regole». Questa parte forte fa della trasgressione la propria filosofia di vita, spingendo a individuare con cura gli obiettivi sacri a chi gli sta cordialmente antipatico e mandarli all'aria, uno dopo l'altro, provando un piacere sadico nel fare ciò. 27 Una delle sue caratteristiche peculiari è la negazione dei sentimenti di affetto, amore e tenerezza. Il Dottor Faust, emblema della dannazione legata alla ricerca del potere, riflette questa parte. La sua storia dipinge, dunque, la più genuina forma di perversione dell'epoca pre-rinascimentale: la libertà di pensare con la propria testa. Il Trasgressore assume un atteggiamento apertamente critico, provocatorio, scettico, improntato alla sfiducia e alla ribellione, ponendosi dunque come regola andare contro corrente, opporsi a qualsiasi imposizione da parte di altri che sembra vogliano opprimerlo e prevaricarlo. Spingendo a un atteggiamento di trasgressione e di ribellione a oltranza il Trasgressore finisce per alimentare una visione del mondo e degli altri che conferma la rabbia del bambino interiore, finendo per cristallizzare la sofferenza che vi giace al di sotto come brace sotto la cenere. Il bambino arrabbiato può sviluppare un’altra parte il cui atteggiamento appare improntato alla ribellione: il Mansueto. Il suo motto è: «Vivi e lascia vivere». A prima vista questa parte forte non sembra affatto un ribelle, anche se in realtà lo è. Il Mansueto spinge, infatti, il bambino a essere diverso dal genitore che percepisce aggressivo e prevaricante – spesso il padre – il cui comportamento gl'ingenera profonda repulsione e disprezzo. Nel figlio sorge così il fermo proposito: «Non sarò mai come mio padre/mia madre!», la qual cosa produce una forte spinta ad essere diverso. Diventare diverso significa questa volta – diversamente da quanto si proponeva il Trasgressore – eliminare ogni traccia di rabbia, prevaricazione e aggressività dal proprio comportamento. 28 Ciò finisce per comprimere la rabbia del bambino interiore, rendendola una sorta di mina vagante che rischia di esplodere da un momento all'altro e provocare seri danni. Come afferma l’adagio popolare: «Temi la rabbia del mite!». Il bambino arrabbiato può sviluppare altre due parti forti, che fanno della vendetta la loro missione: il Colpevolizzante e il Disfattista. Il motto del Colpevolizzante è: «La vendetta è un piatto da consumarsi freddo». Questa parte forte intende far pagare quelle che percepisce come intollerabili ingiustizie, che sarebbero state perpetrate ai suoi danni. Il bambino può avere sofferto a causa di un genitore prevaricante o aver preso le parti di un genitore sentito come vittima dell’altro. In questo secondo caso siamo di fronte a due genitori tra i quali sussiste un rapporto fortemente conflittuale, in cui solitamente la madre ricopre il ruolo di vittima e il padre quello di carnefice. Nell'accusare e lamentarsi la persona finisce per assumere, anche se in modo passivo, lo stesso atteggiamento che condanna. Questa parte forte tende a focalizzarsi su tutto ciò che non va nel comportamento altrui, attribuendo sempre a qualcuno la colpa del proprio malessere e dei propri guai. Il Colpevolizzante spinge ad assumere due diverse posizioni. La prima è quella passiva di chi la fa pagare accusando, recriminando e lamentandosi, di chi si pone cioè nel ruolo di vittima. Nella seconda la persona assume invece il ruolo attivo di chi la fa pagare in modo diretto, attraverso vere e proprie azioni volte alla vendetta, diventando quindi a sua volta carnefice. 29 Il motto del Disfattista è: «Muoia Sansone con tutti i Filistei». Si tratta di una parte forte che danneggia colui che la reca nel proprio mondo interno, con l’intento di vendicarlo. Si tratta però di una vendetta indiretta, che passa cioè attraverso il procurato danno in prima persona, al fine di poter rivolgere a colui che si ritiene colpevole il messaggio «Hai visto quanto male mi hai fatto?!?». Come si può ben capire, questa tattica può rivelarsi piuttosto pericolosa poiché spinge a porre in atto condotte autolesionistiche, conservando sempre una sacca di sofferenza come mezzo privilegiato di perseguimento del proprio fine. I comportamenti autolesivi possono evidenziarsi nella forma di tossicodipendenza, omosessualità, prostituzione, di una vita dissoluta, del rapporto con un partner brutale, di un brusco naufragio sentimentale o matrimoniale, del collezionare una sconfitta dopo l'altra in campo lavorativo. In tutti questi casi, il comune denominatore è la rabbia che questa parte rivolge internamente, al fine di attribuire il ruolo di vittima designata a chi la reca internamente, al fine di dimostrare il male che gli è stato fatto e punendolo così attraverso l'attribuzione della colpa. Spingendo a collezionare un motivo di sofferenza dopo l’altro la rabbia del bambino interiore non fa altro che esacerbarsi. 30 L’identikit delle parti forti Le nostre parti forti sono davvero forti. Si dimostrano, infatti, capaci, in particolari circostanze, non solo d’imporre la loro volontà sulla nostra, ma anche di caratterizzare intere fasi evolutive della vita di una persona. Nel periodo adolescenziale ritroviamo il tipico atteggiamento ribelle del Trasgressore e quello onnipotente del Vincitore, nonché quello plateale e vanaglorioso dello Sbruffone. Sempre in tale periodo osserviamo anche l'intellettualizzazione tipica dell'Autarchico. Questa figura caratterizza per altri versi anche il periodo senile, questa volta sul piano del ritiro sociale e del raffreddamento affettivo proprio della persona anziana, nella quale spesso emerge anche il risentimento tipico del Colpevolizzante per le promesse che ritiene la vita non abbia mantenuto, assieme alla proverbiale preoccupazione del Previdente. Varie figure di Adulto egemone riflettono – almeno nel nostro immaginario collettivo – addirittura interi gruppi etnici, nei cosiddetti «stereotipi sociali». Per fare solo alcuni esempi, nell'attività assicurativa degli svizzeri possiamo intravvedere l'azione del Previdente, così come i due volti del Superuomo traspaiono con evidenza nel mito americano del successo. Mentre l'Autarchico nel suo individualismo esasperato incarna la figura del selfmade-man, dell'uomo che si è fatto da solo, la proverbiale capacità di sopportazione del popolo russo richiama i tratti del Sacrificale. La sacralità della privacy così presente nella cultura anglosassone, per cui la casa di un uomo è il suo castello, riflette nuovamente e fedelmente la tipologia dell'Autarchico. Per quanto riguarda poi casa nostra, l'atteggiamento istrionico piuttosto diffuso nel Sud richiama molto da vicino quello dello Sbruffone, così come la maschera del Trasgressore ben si attaglia alla nostra caricaturale propensione a infrangere le regole. Per giunta, l'immagine che molti uomini hanno della donna oggi, in epoca postfemminista, sembra caratterizzata dall'atteggiamento intransigente e ipercritico tipico del Vendicatore, il che potrebbe essere storicamente spiegato in termini di una reazione a secoli di vessazione a opera del maschilismo imperante. 31 Possiamo ora creare un identikit delle parti forti utilizzando quattro loro caratteristiche essenziali: il bisogno, lo stato d’animo, il pensiero ricorrente, l’atteggiamento relazionale. Nell’elencare le 12 parti forti rispetteremo la precedente sequenza. Il Bullo Bisogno: dominare Stato d’animo: rabbia Pensiero ricorrente: «Non devo farmi prendere in giro» Atteggiamento relazionale: diffidenza, sfida, prepotenza, aggressività Il Previdente Bisogno: controllo e prevenzione Stato d’animo: ansia Pensiero ricorrente: «Devo riuscire a evitare i pericoli» Atteggiamento relazionale: richiesta d’aiuto Il Vincitore Bisogno: eccellere Stato d’animo: ansia da prestazione Pensiero ricorrente: «Devo assolutamente riuscire ad essere il migliore» Atteggiamento relazionale: superiorità L’Autarchico Bisogno: restare in disparte 32 Stato d’animo: noia e apatia Pensiero ricorrente: «Voglio evitare d’impegnarmi con gli altri» Atteggiamento relazionale: freddezza, distacco Il Sacrificale Bisogno: sacrificarsi Stato d’animo: rigido senso del dovere Pensiero ricorrente: «Devo sacrificarmi per chi ha bisogno di me» Atteggiamento relazionale: disponibilità al oltranza L’Aguzzino Bisogno: soffrire Stato d’animo: depressione Pensiero ricorrente: «La vita è sofferenza!» Atteggiamento relazionale: sofferenza silenziosa Lo Sbruffone Bisogno: essere al centro dell’attenzione Stato d’animo: frenesia di apparire speciale Pensiero ricorrente: «Gli altri devono rendersi conto di quanto sono bello e bravo» Atteggiamento relazionale: accentrare l’attenzione 33 Il Camaleonte Bisogno: essere come crede gli altri lo vogliono Stato d’animo: ansia di essere accettato Pensiero ricorrente: «Devo assolutamente essere apprezzato da tutti» Atteggiamento relazionale: disponibilità ad oltranza Il Trasgressore Bisogno: ribellarsi Stato d’animo: rabbia Pensiero ricorrente: «Voglio dimostrare di essere diverso da tutti gli altri» Atteggiamento relazionale: opposizione aperta Il Mansueto Bisogno: dimostrarsi pacifico Stato d’animo: neutralità emotiva Pensiero ricorrente: «Ogni forma di aggressione dev’essere abolita» Atteggiamento relazionale: accettazione incondizionata Il Colpevolizzante Bisogno: dare la colpa a qualcuno Stato d’animo: sete di vendetta Pensiero ricorrente: «Devo farla pagare a chi mi ha fatto del male!» Atteggiamento relazionale: accusa generalizzata 34 Il Disfattista Bisogno: fare la vittima Stato d’animo: risentimento Pensiero ricorrente: «Chi mi ha fatto del male dovrà accorgersene e pagare per questo» Atteggiamento relazionale: richiesta di risarcimento affettivo Il girotondo Le parti di cui stiamo parlando si sono originate nel corso delle nostre esperienze infantili più significative, nel rapporto con i nostri genitori o con chi ne ha ricoperto il ruolo, come nonni, zii ecc. Anche il gioco che esse giocano è un gioco infantile, proprio come il girotondo. Introducendo la parte forte e la sua funzione abbiamo poc’anzi parlato del principio del termosifone, come della tendenza a evitare il dispiacere. Se tale principio dà i suoi buoni frutti quando applicato alle situazioni esterne, non si può dire lo stesso a proposito del mondo interno. Se ciò che brucia non si trova fuori ma dentro di noi, che cosa potremo fare per sottrarci a tale spiacevole esperienza? Scappare non servirà. Se ci provassimo ci troveremmo nella situazione del gatto che fugge spaventato dal rumore dei barattoli che qualche ragazzaccio gli ha legato alla coda: più corre maggiore sarà il rumore da cui si sentirà ancor più spaventato. È in forza del principio del termosifone che il bambino interiore e la parte forte iniziano a giocare una sorta di girotondo, in realtà ben poco divertente per colui che li ospita. In questo girotondo la parte bambina prova un malessere a cui la parte forte cerca di far fronte, spingendo la persona come tutto a porre in atto uno specifico comportamento. Come abbiamo visto, questo comportamento appare improntato a sfidare, evitare il pericolo, eccellere, isolarsi, sacrificarsi, patire la sofferenza, farsi grandi agli occhi 35 degli altri, compiacere, ribellarsi, comportarsi in modo pacato, accusare, fare la vittima. Si tratta di manovre spesso messe in atto sin dalla nostra infanzia per far fronte alle situazioni difficili, ma che hanno finito per produrre l’effetto contrario, ossia – nonostante le buone intenzioni – cristallizzare il problema nella sua essenza emozionale. I nostri problemi hanno quindi due facce: una fatta di malessere, l’altra di un comportamento che dovrebbe far fronte a tale malessere, ma che finisce per incentivarlo. Si tratta di un vero e proprio circolo vizioso, che a volte ci appare senza fine. Un problema degno di questo nome, infatti, è ricorrente, non si presenta per un paio di volte e poi più. Accade un po' come per l'assetato che trovandosi in mezzo al mare finisce per bere l'acqua salata alla ricerca di un po’ di ristoro, ma ad ogni sorso la sete anziché diminuire aumenta. Ciò accade per il fatto che le manovre in questione fanno sì che il bisogno di riconoscimento e di comprensione del nostro bambino interiore permanga frustrato, permanendo nel buio dell’inconsapevolezza, rinchiuso nel dimenticatoio. Analogamente a quanto accade negli adolescenti che s’identificano con il loro idolo, la persona adulta finisce per identificarsi – ossia col credere di essere – o il Bullo piuttosto che il Sacrificale piuttosto che il Trasgressore e così via. Si tratta del suo personale eroe interno, della parte che un tempo gli ha permesso di sopravvivere alle situazioni più critiche, di cui ora finisce per indossare i panni. Questo girotondo è destinato a sfociare nella stratificazione di un certo «carattere», che altro non è se non una sorta di corazza difensiva capace di nascondere il bambino interiore. Come vedremo, questa corazza è destinata a influenzare profondamente non solo il nostro mondo interno, ma anche le nostre relazioni. Il nostro carattere si esprime e si manifesta attraverso un certo modo di sentire, di pensare, di relazionarsi con gli altri, così come di muovere il corpo nello spazio e di assumere posture tipiche. Esso ci sembra immutabile nell’assetto che assume dopo l’adolescenza. 36 Si ascoltano spesso frasi del tipo: «È il mio carattere, cosa posso farci?!», «Ha un carattere fatto così, non lo posso certo cambiare!». Ma il cambiamento ha un segreto che bisogna conoscere. Immaginiamo di dover trasportare un'auto con una carriola. Come possiamo fare? L'auto è molto grande, la carriola invece è molto piccola. Un sistema c'è: smontare l'auto e trasportarne un pezzo alla volta. Se consideriamo una grossa cosa come appunto ciò che chiamiamo carattere non riusciremo a cambiarlo tutto d’un pezzo, così com’è. Ma se lo smontiamo diventa possibile, possiamo cambiarlo un pezzo alla volta e il gioco è fatto! Quando abbiamo iniziato ad andare in bicicletta abbiamo scoperto che, pur sembrando facile vedendo gli altri, in realtà si trattava di un'azione alquanto complessa. Si doveva pedalare, tenere il manubrio, guardare dove si stava andando (e non il manubrio né i pedali), bilanciare il peso, mettere il piede giusto a terra per non cadere una volta fermi e una quantità di altre piccole azioni. Per non parlare di quando abbiamo iniziato a guidare l'auto. Quando apprendiamo qualcosa di nuovo si tratta di una gran quantità di azioni da compiere, mentre una volta appreso il nuovo comportamento si tratta di un'azione unica, come appunto «andare in bicicletta» o «guidare l'auto». In altre parole, facciamo le cose di cui non abbiamo sufficiente esperienza come se fossero composte da una quantità di più piccole azioni poste in sequenza, una dopo l'altra. Quando invece diventiamo bravi tutte le azioni che compongono quel dato comportamento vengono compiute come se fossero un'unica azione. Ecco che se vogliamo cambiare il nostro carattere dobbiamo renderci conto di tutti i pezzi che lo compongono, ossia delle nostre parti forti, individuandone ogni singola azione, una dopo l'altra. Potremo allora, una alla volta, iniziare a cambiarle. Spesso pensiamo al cambiamento come a un processo lungo e faticoso, una sorta di attualizzazione del mito di Sisifo. Condannato da Zeus a portare sulle sue spalle un pesante macigno fino alla cima di una montagna, ogni volta che vi giungeva esausto lo vedeva inesorabilmente rotolare di nuovo a valle. 37 Non importa quanto ci proverà il povero Sisifo, non riuscirà mai a portare il pesante macigno sulla cima della montagna e farvelo rimanere. Questa è la sua condanna, che rende il suo intento perciò il suo compito paradossale. I problemi come paradossi I nostri problemi non sono tanto manifestazioni di un conflitto, quanto piuttosto di una condizione di paradosso. Sono, infatti, caratterizzati da libertà ma non deliberazione, aspetti che messi assieme hanno del paradossale. Se mi trovo, giorno dopo giorno, nel ristorante in cui non voglio andare perché non mi piace la sua cucina, allora non sono coinvolto in un conflitto bensì imprigionato in un paradosso. Nessuno mi sta costringendo a recarmi in quel ristorante, quindi ci sono venuto liberamente, ma è proprio in quel ristorante che non voglio recarmi, la qual cosa va contro la mia deliberazione o volontà. I nostri problemi hanno una struttura analoga a quella del ristorante in cui mi trovo ripetutamente pur non volendoci andare. Che si tratti di un comportamento che riteniamo inopportuno – come mangiare troppi bignè alla crema, giocare ai cavalli, fuggire davanti a un ragno, litigare con nostra moglie o nostro marito – oppure di uno stato d’animo spiacevole – come la tristezza, un’esplosione di rabbia, un crollo depressivo – i problemi che ci affliggono sono qualcosa che facciamo liberamente dentro o fuori di noi pur non volendolo fare. Nessuno ci costringe – dall’esterno – a sentirci in quel certo modo, né ad agire in quell’altro. Si tratta quindi di qualcosa che facciamo liberamente anche se saremmo disposti a pagare chissà cosa per riuscire a non fare. Si tratta chiaramente di una situazione per l’appunto paradossale. Una delle più classiche situazioni caratterizzate da libertà ma non da deliberazione è quella del fumatore pentito: pur volendo smettere continua a fumare. Per il senso comune tale dilemma sarebbe di ben facile soluzione. Quante volte gli amici del bar gli hanno detto e ripetuto: «Se vuoi fumare fuma, se non vuoi fumare smetti, che problema c’è!». 38 Sappiamo però che questo tipo di suggerimento non sempre risolve i nostri problemi, anzi, molto spesso ne mette in luce il carattere apparentemente insolubile. Il problema nasce dal fatto che, nel mondo interno del nostro fumatore pentito, sussiste un conflitto tra opposte tendenze. Nel momento in cui sente che il fumo gli fa male – o si convince di quanto gli dicono gli altri in proposito – sviluppa la motivazione a smettere e si pente. Ma ciò, ahimè, non basta a togliergli la voglia di fumare, anche se la può rafforzare. Ecco presentarsi la sua nuova condizione, quella appunto di fumatore pentito, caratterizzata dall’esercizio della forza di volontà, che naturalmente gli deve servire per opporsi efficacemente – almeno così egli crede – all’altra tendenza rappresentata dalla voglia di fumare. Nel momento in cui il nostro fumatore si schiera con il buon proposito di smettere di fumare, finisce per esercitare la forza di volontà contro la cattiva tendenza a continuare a fumare, che intende sopprimere. È nel corso di questo tentativo che il conflitto si trasforma in un paradosso e come tale in un problema apparentemente insolubile. Ricordiamo cosa accade nell’esercizio delle due mani che spingono? Come afferma Oscar Wilde, si può resistere a tutto … fuorché alle tentazioni! Ciò che ci proibiamo diviene più attraente, il che equivale ad affermare che se prima non ci concediamo qualcosa difficilmente potremo poi rinunciarci. La conversione del conflitto in paradosso si verifica per il fatto che dove c’è volontà c’è identità. Noi siamo, alla fin fine, ciò che veramente vogliamo! Si verifica quindi una sorta di magia alla rovescia. Ecco che il nostro uomo finisce, sull’onda della sua forza di volontà, per identificarsi con il buon proposito di non fumare, contrapponendosi così alla cattiva tendenza a continuare a farlo. Ma entrambe queste tendenze, quella a fumare e quella a smettere, non sono che parti di se stesso come tutto. Il nostro fumatore inizia così a con-fondersi con queste due tendenze – o parti di sé. Con quella che gli suggerisce di smettere di fumare quando riesce ad astenersi dal fumo e con quella che vuole continuare a fumare quando cede all’impulso. 39 Si tratta della condizione che i latini chiamavano della pars pro toto, ossia della parte – o delle parti – che prendono il posto del tutto, condizione evidentemente paradossale. Se scambio il mio corpo con una mano, con un braccio o con una gamba non potrò usare in modo appropriato né il mio corpo nella sua interezza né la mano, né il braccio né la gamba come sue parti. Tra il conflitto e il paradosso esiste una differenza fondamentale. Mentre un conflitto può essere composto in modo relativamente facile la condizione di paradosso appare invece più ostica, esponendoci alla situazione delle sabbie mobili, in cui più sforzi si fanno per uscire più inesorabilmente si sprofonda. Per uscire dalle sabbie mobili del paradosso non dovrò far altro che stabilire una precisa distinzione tra le due dimensioni: quella di me come tutto, che mi compete come essere umano, e quella delle mie parti. Una volta uscito dal paradosso mi troverò di fronte alle mie parti in conflitto, in una posizione di equidistanza da loro o super partes. È a quel punto che potrò risolvere agevolmente la questione. Se la personalità può essere paragonata a un coro, nel momento in cui alcune voci iniziano a cantare in modo stonato, fuori dal coro, occorre identificarle e lavorare su di loro con il fine di ristabilire la naturale armonia. Non posso far questo se mi identico ora con l’una ora con l’altra. Se voglio sedare un litigio tra due persone non posso prendere le parti né dell’una né dell’altra. Devo assolutamente mantenere una posizione neutrale, altrimenti rischio di peggiorare le cose ed esacerbare il loro conflitto. In quel gioco delle parti che è il girotondo, tendiamo a identificarci con la nostra parte forte, con il nostro eroe interno, il che ci pone in quella condizione paradossale che si rivela alla base dei nostri problemi. La prima cosa da fare è, dunque, identificare con quale o con quali parti forti siamo identificati. 40 Come identificare la parte forte Nel momento in cui sappiamo quale o quali parti forti dominano il nostro comportamento e formano il nostro carattere potremo decidere se mantenerlo in tutto e per tutto o cambiarne alcuni tratti. Seguiranno ora alcune domande che ti aiuteranno a identificare le tue parti forti dominanti. Quando hai almeno meno 10 minuti a disposizione rispondi alle seguenti domande, 5 per ogni parte forte, con «sì» o «no», poi fai poi la somma dei sì per ognuna di loro. Rifletti bene prima di rispondere, non avere fretta. Per non influenzare le tue risposte non saprai a quale parte forte (che distingueremo ora semplicemente con un numero) corrispondono i vari gruppi di domande se non alla fine del test. Il loro ordine è diverso dal precedente. Parte forte 1 Sento il bisogno di controllare il comportamento delle persone. Provo diffidenza nei confronti del comportamento altrui. Mi arrabbio se mi sembra che qualcuno voglia ingannarmi. Sono un tipo deciso che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Credo che gli altri mi vedano come una persona che sa esattamente quello che vuole. Parte forte 2 Sento il bisogno di vendicarmi nei confronti di chi si comporta ingiustamente. Provo spesso un senso d'ingiustizia nell'osservare il comportamento delle persone. Reagisco con rabbia avendo la sensazione che la gente si comporti in modo scorretto. Sono un tipo orgoglioso che sa reagire alle ingiustizie. 41 Credo che gli altri mi vedano come una persona con cui occorre stare attenti a come si parla e a come si agisce. Parte forte 3 Sento il bisogno di andare contro le aspettative che gli altri hanno nei miei riguardi. Ho spesso l'impressione che le persone vogliano impormi la loro volontà. Reagisco con rabbia se ho la sensazione che qualcuno voglia sopraffarmi. Sono un tipo originale a cui piace andare controcorrente. Credo che gli altri mi vedano come un anticonformista. Parte forte 4 Sento il bisogno di trovare ciò che non va nelle situazioni che mi trovo ad affrontare. Ho la strana sensazione che sto bene solo se mi sento almeno un po’ male. Mi sento oppresso da pensieri di autosvalutazione. Sono un tipo dotato di capacità di sopportazione che sa soffrire in silenzio. Credo che gli altri mi vedano come una persona che non si lamenta anche se sta male. Parte forte 5 Sento il bisogno di sentirmi una vittima. Ho spesso l’impressione di finire in situazioni dannose per me. Mi sento succube delle circostanze se non del mio stesso comportamento. Sono un tipo sfortunato a cui capitano cosa spiacevoli. 42 Credo che gli altri mi vedano come una persona che si lamenta. Parte forte 6 Sento spesso il bisogno di stare solo. Mi capita di annoiarmi quando sto in mezzo alla gente. Ho la sensazione di non riuscire a coinvolgermi sentimentalmente con un’altra persona. Sono un tipo discreto a cui piace restare in disparte. Credo che gli altri mi vedano come una persona schiva. Parte forte 7 Sento il bisogno di comportarmi in modo pacato. Ho spesso l'impressione che la gente agisca in modo aggressivo. Reagisco con disgusto di fronte alle prevaricazioni. Sono un tipo pacifico che sa vivere e lasciar vivere. Credo che gli altri mi vedano come una persona con cui si riesce sempre a parlare. Parte forte 8 Sento il bisogno di dedicarmi agli altri. Ho come la sensazione che i miei personali bisogni abbiano scarsa importanza. Mi sento in colpa se mi preoccupo per me stesso. Sono un tipo che sa sacrificarsi. Credo che gli altri mi vedano come una persona su cui si può sempre contare. 43 Parte forte 9 Sento il bisogno di soddisfare le aspettative delle persone. Provo ansia pensando che potrei non piacere a qualcuno. A volte mi sento rifiutato senza che vi siano fondati motivi. Sono un tipo disponibile che sa accogliere le richieste altrui. Credo che gli altri mi vedano come una persona pronta ad aiutarli. Parte forte 10 Sento il bisogno di apparire sicuro agli occhi degli altri. Provo un particolare piacere raccontando le avventure che ho vissuto. Mi sento euforico mentre parlo con le persone. Sono un tipo speciale che attira l'attenzione. Credo che gli altri mi vedano come una persona particolarmente interessante. Parte forte 11 Sento il bisogno di prevenire i pericoli. Provo paura se penso che si possano verificare situazioni che non posso controllare. Mi sento in ansia senza che vi siano evidenti ragioni. Sono un tipo prudente che non corre rischi. Credo che gli altri mi vedano come una persona che sa provvedere alla propria sicurezza. 44 Parte forte 12 Sento il bisogno di fare sempre le cose alla perfezione. Mi prende spesso la smania di dimostrarmi superiore agli altri. Mi sento in ansia pensando che potrei non raggiungere gli obiettivi prefissati. Sono un tipo di successo che riesce sempre ad emergere. Credo che gli altri mi vedano come una persona da invidiare. La ruota del carattere Bene, hai completato il test! Ora puoi leggere i punteggi che hai ottenuto facendo riferimento alla «ruota del carattere». Si tratta di una figura che ti mostra le 12 parti forti nella stessa sequenza in cui sono stati riportati i precedenti gruppi di domande. La parte forte 1 era quindi rappresentata dal Bullo che ritrovi in cima alla ruota, la parte forte 2 è rappresentata dal Colpevolizzante che segue il Bullo, poi viene il Trasgressore quale parte forte 3, quindi in l’Aguzzino in quarta posizione, seguito dal Disfattista, poi dall’Autarchico, quindi dal Mansueto, poi ancora dal Sacrificale a cui segue il Camaleonte, dopo di che viene lo Sbruffone, poi il Previdente per finire con il Vincitore. Le parti forti sono raggruppate in gruppi di 3, che mostrano anche se in modi differenti, un atteggiamento analogo. Il Bullo, il Colpevolizzante e il Trasgressore hanno in comune il rivolgere la rabbia verso gli altri, l’Aguzzino, il Disfattista e l’Autarchico rivolgono invece la rabbia verso se stessi. Il Mansueto, il Sacrificale e il Camaleonte dal canto loro condividono un atteggiamento di condiscendenza e disponibilità, mentre lo Sbruffone, il Previdente e il Vincitore rivolgono la loro concentrazione su di sé, come se non esistesse nessun altro al mondo. La ruota del carattere mostra quindi 4 gruppi formati ciascuno da 3 parti forti, gruppi identificati da un tratto caratteriale condiviso. Come si può ben comprendere, 45 sommando i punteggi delle parti forti di uno stesso gruppo si ottiene il grado di espressione del tratto che esse hanno in comune. A seconda del punteggio ottenuto al test e del modo in cui esso si distribuisce si ottiene quindi un particolare profilo del carattere. Facciamo quindi un esempio, ipotizziamo di aver ottenuto il seguente punteggio: Bullo … 3 Colpevolizzante … 5 Trasgressore … 4 Aguzzino … 3 Disfattista … 4 Autarchico … 1 Mansueto … 0 46 Sacrificale … 0 Camaleonte … 0 Sbruffone … 2 Previdente … 1 Vincitore … 1 La prima cosa da fare è ora ordinare le 12 parti forti dal punteggio più alto al più basso: Colpevolizzante … 5 Trasgressore … 4 Disfattista … 4 Aguzzino … 3 Bullo … 3 Sbruffone … 2 Autarchico … 1 Previdente … 1 Vincitore … 1 Mansueto … 0 Camaleonte … 0 Sacrificale … 0 La prima informazione che ricaviamo è che la parte forte dominante è il Colpevolizzante, giacché corrisponde al punteggio più alto, ossia 5. Questo ci suggerisce che il bambino interno è molto arrabbiato e che ha dato vita a una parte forte con una gran voglia di vendicarsi facendola pagare a qualcuno (Colpevolizzante: 5, Trasgressore: 4, Disfattista: 4). 47 Dopo aver identificato la parte forte dominante, quella alla base del carattere, si possono raggruppare le 12 parti forti come abbiamo indicato in precedenza facendo riferimento alla ruota del carattere: Bullo … 3 Colpevolizzante … 5 Trasgressore … 4 Totale … 12 Aguzzino … 3 Disfattista … 4 Autarchico … 1 Totale … 8 Mansueto … 0 Sacrificale … 0 Camaleonte … 0 Totale … 0 Sbruffone … 2 Previdente … 1 Vincitore … 1 Totale … 4 A questo punto si possono ordinare i 4 gruppi dal punteggio più alto a quello più basso e associarvi i relativi tratti: Bullo + Colpevolizzante + Trasgressore = 12: rabbia verso gli altri Aguzzino + Disfattista + Autarchico = 8: rabbia verso se stessi Sbruffone + Previdente + Vincitore = 4: concentrazione su di sé 48 Mansueto + Sacrificale + Camaleonte = 0: condiscendenza e disponibilità Da questi ulteriori dati possiamo trarre la conclusione che la rabbia del bambino interiore non è stata diretta solo verso l’esterno (rabbia verso gli altri: 12), ma una parte consistente è stata rivolta anche all’interno (rabbia verso se stessi: 8), la qual cosa contribuisce a formare una personalità con forti tratti distruttivi, il che appare confermato da una certa tendenza narcisistica (concentrazione su di sé: 4). Questo profilo mostra come punto debole l’assenza di disponibilità nei confronti del sociale (condiscendenza e disponibilità: 0), il che si rivela in linea con la precedente impostazione. Esaminiamo adesso, sempre a titolo di esempio, un profilo alquanto diverso: Bullo … 0 Colpevolizzante … 0 Trasgressore … 0 Aguzzino … 2 Disfattista … 3 Autarchico … 1 Mansueto … 4 Sacrificale … 5 Camaleonte … 3 Sbruffone … 0 Previdente … 0 Vincitore … 4 Ordinando quindi le 12 parti forti dal punteggio più alto al più basso otteniamo la seguente graduatoria: Sacrificale … 5 49 Vincitore … 4 Mansueto … 4 Camaleonte … 3 Disfattista … 3 Aguzzino … 2 Autarchico … 1 Previdente … 0 Bullo … 0 Colpevolizzante … 0 Trasgressore … 0 Sbruffone … 0 Possiamo subito notare che il Sacrificale appare la parte forte dominante con 5 punti, il che suggerisce la presenza di un bambino interno colpevole, il quale ha dato vita a una parte forte mossa dal bisogno di espiare. Raggruppiamo quindi le 12 parti forti nei 4 consueti gruppi: Bullo … 0 Colpevolizzante … 0 Trasgressore … 0 Totale … 0 Aguzzino … 2 Disfattista … 3 Autarchico … 1 Totale … 6 Mansueto … 4 Sacrificale … 5 50 Camaleonte … 3 Totale … 12 Sbruffone … 0 Previdente … 0 Vincitore … 4 Totale … 4 Ordiniamo ora i 4 gruppi dal punteggio più alto a quello più basso associandovi i relativi tratti: Mansueto + Sacrificale + Camaleonte = 12: condiscendenza e disponibilità Aguzzino + Disfattista + Autarchico = 6: rabbia verso se stessi Sbruffone + Previdente + Vincitore = 4: concentrazione su di sé Bullo + Colpevolizzante + Trasgressore = 0: rabbia verso gli altri Dai precedenti dati possiamo notare che l’atteggiamento di fondo è di propensione verso il sociale (condiscendenza e disponibilità: 12). Il tratto in seconda posizione rivela la tendenza a prendersela con se stessi (rabbia verso se stessi: 6). Si può dunque ipotizzare che la persona in questione sia molto comprensiva nei confronti degli altri e molto rigida e intransigente nei confronti di se stessa. In apparente contrasto con questi dati abbiamo un Vincitore che ha ottenuto ben 4 punti, figura che rimanda al tratto concentrazione su di sé. Subordinando però questo dato al quadro precedente possiamo ulteriormente ipotizzare che il senso di onnipotenza del Vincitore sia messo al servizio dalla tendenza alla disponibilità ad oltranza nei confronti degli altri, con il fine però di apparire superiore. Se a tutto ciò aggiungiamo il punteggio pari a zero dell’ultimo gruppo (rabbia verso gli altri), ciò potrebbe confermare l’assenza di capacità di reazione nei confronti dei comportamenti altrui, anche qualora fosse contrario ai propri interessi e bisogni. 51 Possiamo quindi supporre che questa persona sia decisamente predisposta al sacrificio per gli altri a tutto discapito di se stessa. Il carattere e le relazioni A questo punto possiamo porci una domanda. Ipotizzando che le due persone a cui si riferiscono i precedenti profili siano un uomo il primo e una donna la seconda, che cosa accadrebbe se s’incontrassero? Abbandoniamo così i placidi lidi dell’individualità per approdare sulle burrascose spiagge delle relazioni umane. L’importanza che le relazioni hanno per noi, animali sociali, si riflette nella complessità del nostro sistema nervoso. Alcuni ricercatori dell'Università del Missouri hanno ipotizzato che lo sviluppo del grande cervello di cui siamo dotati (quasi 1500 cc.) sarebbe legato alla necessità di risolvere i problemi sociali. Gli antropologi Mark Flinn e Carol Ward e lo psicologo David Geary nel 2004 hanno analizzato alcuni fossili individuando prove a sostegno di una teoria proposta da Richard Alexander, zoologo. Tale teoria afferma che gli esseri umani avrebbero aumentato di ben tre volte il loro volume endocranico – se lo si confronta con quello degli ominidi nostri predecessori – per gestire sempre più complesse relazioni sociali. Nel corso di questa ricerca gli scienziati hanno confrontato le nostre capacità mentali con quelle delle scimmie. Flinn sostiene che la maggior parte delle teorie tradizionali, compresa quella di Charles Darwin, suggeriscono che a favorire l'evoluzione di un grande cervello sia stata una combinazione dell'uso di utensili e della caccia. Il fatto che anche altre specie, come gli scimpanzé, usino strumenti e caccino dimostra però che i nostri antenati non erano unici da questo punto di vista. La nostra peculiarità riguarderebbe invece la capacità di comprendere il pensiero altrui, grazie alla quale può svilupparsi l'empatia. 52 Questa necessità di natura sociale avrebbe spinto il cervello degli ominidi a crescere di quasi tre volte in meno di tre milioni d’anni, crescita che ha interessato in particolare l'area neocorticale, che controlla lo sviluppo cognitivo. La dimensione assoluta del cervello appare strettamente legata all'intelligenza e, probabilmente, quest'evoluzione è dovuta all’importanza determinante ricoperta dalle relazioni sociali nello sviluppo delle società umane. Allacciare e sviluppare relazioni emotivamente significative con gli altri sembra, dunque, costituire il modo in cui uno dei bisogni fondamentali della nostra specie viene soddisfatto. Si potrebbe affermare che comunicare al fine di creare e sviluppare soddisfacenti relazioni costituisca una capacità più complessa che mandare l'uomo sulla luna! Se acquisire le capacità relazionali che osserviamo allo stato attuale della nostra evoluzione ha comportato un aumento di oltre il 300 % della massa cerebrale endocranica rispetto a Lucy, il primo ominide di cui si sia trovato traccia, la conquista del nostro satellite non ne ha comportato, infatti, alcun aumento! Torniamo ora alla domanda che ci siamo posti poc’anzi, riguardante che cosa accadrebbe se queste due persone di cui sopra s’incontrassero. Per potere rispondere dobbiamo considerare come si combinano i due profili caratteriali. Iniziamo esaminando l’identikit della due parti forti dominanti, il Colpevolizzante e il Sacrificale; confrontiamole attraverso una tabella: Colpevolizzante Sacrificale Bisogno: dare la colpa a qualcuno Bisogno: darsi agli altri Stato d’animo: sete di vendetta Stato d’animo: rigido senso del dovere Modo di pensare: «Devo farla pagare a Modo di pensare: «Devo sacrificarmi chi mi ha fatto del male!» per chi ha bisogno di me» Modo di relazionarsi: accusare Modo di relazionarsi: disponibilità totale Se queste parti forti si rivelassero dominanti per ognuno dei due anche nella sfera delle relazioni, ciò potrebbe creare una pericolosa attrazione reciproca. 53 Pericolosa perché, come mostra chiaramente la tabella, lui avrebbe bisogno di qualcuno con cui prendersela visto il suo Colpevolizzante dominante, lei di qualcuno da accudire in tutto e per tutto o piuttosto da salvare, visto il suo Sacrificale dominante, anche se ciò la portasse a sopportare vere e proprie angherie. Visto il Trasgressore in seconda posizione nel profilo di lui potrebbe trattarsi di ripetuti tradimenti o comunque dell’infrangere le regole non scritte di un rapporto basato sul rispetto. Il Disfattista e l’Aguzzino rispettivamente in terza e quarta posizione lo farebbero apparire, agli occhi di lei, come una persona sfortunata, una vittima bisognosa di conforto, la qual cosa farebbe scattare la trappola tesa dal suo – di lei – Sacrificale. Ma dietro questa parvenza di lui sarebbe in agguato il Bullo in sesta posizione, con il suo proverbiale atteggiamento prepotente e prevaricante. Il Sacrificale di lei, dopo essere stato sedotto dal Disfattista e dall’Aguzzino di lui, potrebbe ricevere sostegno dal Vincitore in seconda posizione, che porrebbe la sua onnipotenza al servizio del sacrificio per poter quindi apparire come il salvatore. Dal canto suo, il Mansueto sempre di lei in quarta posizione, con il suo atteggiamento oltremodo pacifico eliminerebbe ogni reazione oppositiva, lasciando quindi la donna completamente alla mercé dell’uomo. Come se non bastasse il Camaleonte in quinta posizione la spingerebbe a far buon viso a questo cattivo gioco, rendendola completamente condiscendente nei confronti delle di lui esigenze. A completare questo quadro poco incoraggiante – per la donna ovviamente – si unirebbero il Disfattista e l’Aguzzino – che entrambi condividono – predisponendola a un’esistenza d’infelicità improntata, appunto, al sacrificio e alla sofferenza. A questo punto, l’Autarchico in settima posizione potrebbe timidamente cercare di porre rimedio, spingendola a chiudersi in se stessa. Il punteggio relativo ai 4 gruppi di parti forti riflette questa situazione. Mentre, infatti, l’uomo riporta 12 punti per rabbia verso gli altri, 9 punti per rabbia verso se stessi, 4 punti per concentrazione su di sé e 0 punti per condiscendenza e disponibilità, la donna riporta invece 13 punti per condiscendenza e disponibilità, 9 punti per rabbia verso se stessi, 4 punti per concentrazione su di sé e 0 punti per rabbia verso gli altri. Questi risultati sono riportati nella seguente tabella: 54 Uomo Donna rabbia verso gli altri: 12 condiscendenza e disponibilità: 12 rabbia verso se stessi: 8 rabbia verso se stessi: 6 concentrazione su di sé: 4 concentrazione su di sé: 4 condiscendenza e disponibilità: 0 rabbia verso gli altri: 0 I tratti che riscuotono il punteggio più alto incorniciano la personalità, attribuendo quindi significato a quelli con punteggio più basso: si tratta di rabbia verso gli altri per l’uomo e condiscendenza e disponibilità per la donna. In seconda posizione per entrambi abbiamo poi il punteggio di rabbia verso se stessi, tratto che assume – viste le differenti cornici – un significato assai diverso: colpevolizzante per lui e sacrificale per lei. Anche la concentrazione su di sé va interpretata in modo diverso. Per l’uomo si manifesta in modo egoistico (ad esempio l’esibizionismo dello Sbruffone viene posto al servizio del Colpevolizzante), mentre per la donna accade l’esatto contrario (ad esempio l’onnipotenza del Vincitore viene posta al servizio del Sacrificale). Si potrebbe affermare che questi due sono fatti l’uno per l’altra! La situazione relazionale più frequente che tenderà a crearsi è illustrata dalla seguente figura: 55 Essa mostra come il girotondo, o gioco delle parti, si estenda dal mondo interno di ognuno alla sfera relazionale, finendo per guidare lo sviluppo del loro rapporto di coppia. Alimentato dal bambino interiore arrabbiato (che rimane dietro le quinte della consapevolezza), il Colpevolizzante dell’uomo imposta l’atteggiamento relazionale nei confronti della donna, spingendolo a comportarsi in maniera accusatoria. Per quanto riguarda la donna accade qualcosa di analogo. Il Sacrificale, alimentato dalla bambina interiore colpevole (anch’essa dietro le quinte della consapevolezza) la spinge a comportarsi in modo da subire passivamente le accuse nella relazione con l’uomo. Questo per quanto riguarda le parti forti dominante dei due. Se poi consideriamo almeno le prime tre, come risulta dal punteggio ottenuto da ognuno, la situazione si fa più complessa, come mostra la seguente figura: 56 Si può osservare come le due parti forti dominanti (cerchiate in rosso) svolgono il ruolo di «capo» nei confronti delle altre (che hanno ottenuto un punteggio più basso), impostando il loro modo di agire. Per quanto riguarda il rapporto che si stabilisce tra il Colpevolizzante e il Trasgressore, l’uomo appare coerente sul piano della rabbia rivolta verso gli altri. Il Disfattista si trova quindi all’interno di questa cornice, facendo del vittimismo un’arma al servizio della ribellione e della vendetta contro la donna. La donna appare invece meno coerente, giacché il Sacrificale in prima posizione rimanda a condiscendenza e disponibilità, mentre il Vincitore in seconda posizione a concentrazione su di sé. Questa figura potrà spingerla a credersi onnipotente nell’aiutare gli altri, mentre il Mansueto eliminerà ogni traccia di opposizione: entrambe spingeranno la donna ad essere completamente succube dell’uomo. Se poi consideriamo il girotondo ci accorgiamo che la situazione è assai più complessa per la donna che per l’uomo. Mentre dietro le tre prime parti forti di lui (Colpevolizzante, Trasgressore, Disfattista) si ritrova pur sempre un bambino interiore arrabbiato, nelle retrovie di lei ritroviamo in prima posizione una bambina colpevole (dietro al Sacrificale), in seconda una inadeguata (dietro al Vincitore) e in terza una arrabbiata (dietro al Mansueto). I problemi umani e il gioco delle parti Quando abbiamo un problema degno di questo nome siamo, di solito, all’interno del gioco delle parti. Come abbiamo appena notato, tale gioco non sempre rimane confinato nel nostro mondo interno, giacché a volte ne travalica i confini per influenzare le nostre relazioni. Quando la questione non è occasionale e passeggera – altrimenti non è certo un problema! – di regola c’è lo zampino delle nostre parti. Nel girotondo, il nostro bambino interiore cerca di emergere mentre la parte forte vuole a tutti i costi porre rimedio alla sua sofferenza, impedendogli quindi di essere adeguatamente riconosciuto e compreso. 57 Viene allora messa in atto una qualche contromisura basata sulla protezione, come nel caso del Bullo e del Previdente, sulla simulazione, come nel caso dello Sbruffone e del Camaleonte, sulla ribellione, come nel caso del Trasgressore e del Mansueto, sulla vendetta, come nel caso del Colpevolizzante e del Disfattista, sull’essere superiori, come nel caso del Vincitore e dell’Autarchico, sulla punizione, come nel caso del Sacrificale e dell’Aguzzino. Se quando eravamo bambini queste soluzioni furono la medicina necessaria se non inevitabile, con il passar del tempo i suoi effetti terapeutici sono andatti via via scemando, mentre quelli collaterali accumulandosi. Presi nel girotondo, oggi tendiamo a identificarci con il nostro bambino interiore quando ci sentiamo afflitti da un qualche problema e con la nostra parte forte quando poniamo in atto una contromisura nei confronti del malessere che vi si accompagna. A volte la contromisura che la parte forte si è specializzata a porre in atto emerge con tale rapidità da soffocare sul nascere questo malessere. È il caso in cui siamo identificati con questa parte in modo talmente stretto da non lasciare alcuno spazio al nostro bambino interiore. È allora che il nostro carattere è destinato a divenire la causa dei nostri problemi «insolubili» Agli effetti di tale identificazione, nel nascondere la nostra parte bambina, si somma quella che possiamo chiamare la «malformazione causa-effetto». Quando soffriamo, un meccanismo che scatta in modo completamente automatico ci spinge a cercare all’esterno la causa del nostro malessere, come se le circostanze e le persone che in quel momento della nostra vita ci fanno da cornice avessero il potere di farci sentire in quel certo modo. Ciò finisce, ovviamente, per occultare ancor di più il nostro bambino interiore, che costituisce, in realtà, la vera e profonda causa della nostra afflizione. Il girotondo continua così in modo apparentemente inarrestabile. Il punto è che le emozioni, per loro natura, tendono a essere esternate, a essere portate fuori. Il termine «emozione» deriva, infatti, dal latino emotus, participio passato di emovère, che significa «portar fuori». Questa naturale tendenza propria delle emozioni a essere esternate, espresse, comunicate e infine accolte dall’altro non può essere soppressa, la qual cosa 58 determina quella che possiamo definire la «tirannia delle emozioni». In un modo o nell’altro esse emergeranno, prima o poi verranno alla luce. È in forza di questa tirannia che ci troviamo ripetutamente in situazioni che fanno da cornice al girotondo, in cui cioè emerge la sofferenza del nostro bambino interiore e, parallelamente, si attiva la manovra della nostra parte forte. Tali situazioni, a cui regolarmente quanto erroneamente attribuiamo il ruolo di causa dei problemi che ci affliggono, sono in realtà specchi del nostro mondo interno, che riflettono il gioco delle nostre parti. Lo specchio è uno strumento utile, come lo sono anche le situazioni specchio che mostrano una loro utilità. Esse, infatti, ci permettono di vedere ciò che non potremmo altrimenti vedere, per poter cambiare ciò che non ci piace. Utilizzare lo specchio delle situazioni in cui sappiamo di avere un problema significa identificare la parte forte o la parte bambina o entrambe. La prima si rende evidente attraverso comportamenti o anche non comportamenti (come nel caso di non riuscire a fare qualcosa che si vorrebbe), mentre la seconda attraverso stati d’animo, sensazioni e sentimenti spiacevoli. Nel momento in cui, in occasione delle situazioni specchio, queste parti si affacciano alla nostra consapevolezza, possiamo prima di tutto riconoscerle e quindi riconoscere che non siamo loro, poi dare loro ciò di cui hanno bisogno. Queste due azioni ci permetteranno di uscire dal girotondo e di dare alla nostra storia un finale diverso da quello che fu inizialmente scritto nella nostra infanzia. Ma di cosa ha bisogno il nostro bambino interiore e che cosa appare necessario fornire alla nostra parte forte? La trasmutazione emozionale Parlare di accoglimento della sofferenza appare la cosa più scontata al mondo! Quando qualcuno sta male, soffre, è in pena non ci vuole certo la laurea in ingegneria nucleare per capire che il suo bisogno è di essere accolto. Sembra pura banalità, anche se quando ci caliamo nella concretezza della nostra esperienza diretta ci accorgiamo che le cose stanno in maniera diversa. 59 È certamente capitato a tutti di star male, di soffrire, di essere in pena e di rivolgersi quindi a un amico, a nostra moglie o a nostro marito raccontando il nostro cruccio. Ricordiamo quali sono state le parole che ci sono state rivolte? Senza alcuna pretesa di onniscienza posso essere quasi sicuro di indovinare: «Non ci pensare», «Vedrai che passa», «C’è chi sta peggio», «Non devi sentirti così», «Giovanni sì che sa far fronte alle difficoltà», «Non è giusto che tu ti senta in questo modo», eccetera, eccetera, eccetera. Ci siamo sentiti accolti in quei frangenti? Queste parole hanno suscitato in noi sollievo? Il nostro malessere è scemato di fronte a tali considerazioni? È difficile che la risposta sia affermativa, giacché le precedenti affermazioni o tali buoni consigli vanno in direzione diametralmente opposta a ciò che si deve intendere per genuino «accoglimento». Esistono convinzioni che caratterizzano la nostra cultura e che perciò appaiono ampiamente condivise, secondo le quali le emozioni spiacevoli sono anche negative. Nei riguardi di ciò che è realmente negativo c’è solo una cosa da fare: cercare di eliminarlo. Sul piano della comunicazione, tale tentativo viene attuato attraverso due fondamentali modi, chiamati disconferma e rifiuto. Mentre attraverso la prima si afferma sostanzialmente «Non è vero!», la seconda dichiara invece «Non è giusto!». Riprendendo le precedenti affermazioni possiamo notare come «Non ci pensare», «Vedrai che passa», «C’è chi sta peggio» recano sottilmente il messaggio «Non è vero!», mentre «Non devi sentirti così», «Giovanni sì che sa far fronte alle difficoltà», «Non è giusto che tu ti senta in questo modo» convogliano il giudizio negativo «Non è giusto!». Chi ha provato a eliminare le emozioni si è trovato però di fronte alla loro tendenza a emergere di nuovo e di nuovo, nonostante i tentativi protratti in tal senso. Ciò è accaduto soprattutto per le emozioni che abbiamo chiamato di tipo 2. Un semplice esercizio chiarirà cosa accade quando cerchiamo di eliminare uno stato emozionale: 1) sollevare entrambe le mani all'altezza del petto 2) porre le palme l'una contro l'altra 3) iniziare a spingere forte con la mano destra. 60 Se ci accorgiamo che la sinistra fa resistenza alla destra, la quale perciò non si muove o lo fa solo un poco, non stiamo seguendo le istruzioni, tra cui non compare anche «Spingere anche con la sinistra». In realtà questo esercizio è compiuto correttamente da pochissime persone, poiché la maggior parte cade nell'errore di far opposizione con la mano sinistra, senza che ciò rientri nelle istruzioni. Le emozioni sono l’energia della psiche. Sono loro che muovono il nostro comportamento, che lo motivano fornendo appunto la motiv-azione, ossia il motivo e la spinta ad agire. Sono come la benzina per l’auto. In fisica, il principio di conservazione dell'energia nella sua forma più intuitiva afferma che, sebbene possa essere trasformata e convertita da una forma all'altra, la quantità totale di energia di un sistema isolato è una costante, ovvero il suo valore si mantiene immutato con il passare del tempo. In altre parole l'energia non si crea né si distrugge anche se si tras-forma, ossia può cambiare forma. La forma che l'energia emozionale assume può costituire un problema, come nel caso in cui alimenti un comportamento inopportuno, oppure può costituire una risorsa, nel caso in cui si trasformi in serenità, senso d’integrità, tranquillità. Nei tempi antichi, gli alchimisti affermavano di trasmutare i vili metalli, come il piombo e il ferro, in metalli nobili, come l’oro e l’argento. Secondo questa metafora metallurgica ciò sarebbe avvenuto con l’impiego della pietra filosofale, in grado di attuare l’opus alchemico del solve ed coagula con il risultato finale appunto della trasmutazione. Se le emozioni spiacevoli, di cui il nostro bambino interiore è depositario, sono da paragonarsi ai metalli vili, il loro accoglimento fatto di riconoscimento e di accettazione costituisce la pietra filosofale che ha il potere di trasformale nei metalli nobili delle risorse che sentiamo mancanti. Il riconoscimento tramite attribuzione di un nome, l’accettazione e la comprensione che riassume le prime due, sono in grado di trasformare il piombo della sofferenza nell'oro di risorse di fondamentale importanza nella vita della persona. La possibilità di attuare la trasmutazione emozionale attraverso l’accoglimento del nostro bambino interiore ci rende novelli alchimisti, con il potere di sciogliere (solve) 61 l'antica forma in cui è imprigionata l'energia emozionale permettendole di assumere (coagula) quella di una risorsa. Un’idea del tutto analoga la ritroviamo nel mito della discesa agli inferi nella mitologia greca. Molti eroi scendono agli inferi prima di compiere l’impresa che li avrebbe coperti di gloria, recuperando nel regno delle ombre ciò che non avrebbero potuto trovare altrove. Tra questi, Orfeo dalla musica incantatrice ritrova la sua amata Euridice, Ercole porta a compimento la sua ultima fatica, Enea vi incontra il padre Anchise, che gli annunzia la futura grandezza di Roma. «Inferi», dal latino inferis, non significa inferno bensì ciò che giace al di sotto, sotto la soglia della nostra consapevolezza. Il nostro bambino interiore abita i nostri personali inferi, il luogo in cui abbiamo sospinto – non senza l’aiuto della parte forte – la nostra sofferenza infantile. Egli è l’abitante del regno delle ombre che ha in serbo per noi una rivelazione, che ci può insegnare qualcosa che non sappiamo e che non possiamo trovare altrove. Come in tutti i miti greci della discesa agli inferi, egli è il depositario della risorsa che cerchiamo. Cosa fare concretamente, dunque, nel momento in cui dai nostri inferi emerge uno stato emotivo di sofferenza, soprattutto quando si tratta di un’emozione di tipo 2? La prima cosa da fare è qualcosa che il nostro buonsenso non ci suggerirebbe mai, anzi che fino a oggi ci ha caldamente consigliato di non fare. Una vecchia barzelletta racconta di un tipo che precipita in un dirupo, rimanendo fortunosamente aggrappato al ramo di un albero. Il ramo non è molto resistente e inizia quindi a cedere e il malcapitato inizia a pregare: «Signore, ti prego, salvami!!!». Le sue preghiere sembrano non ricevere alcuna risposta, mentre il ramo dà segni di un imminente cedimento. Ormai in preda alla disperazione egli continua a pregare: «Signore ti prego salvami, farò qualsiasi cosa mi chiederai, qualsiasi!!!». In quel preciso istante ecco udirsi una voce tonante provenire dal cielo: «Ti salverò se farai quello che ti chiederò». L'uomo risponde prontamente: «Farò qualsiasi cosa, qualsiasi cosa!!!». 62 La voce allora gli dice «Bene, allora lascia il ramo a cui ti tieni aggrappato e io ti prenderò». L'uomo, rimane un istante perplesso, poi alza gli occhi verso il cielo e con voce un po' incerta replica: «Non c'è per caso nessun altro lassù?!?». Qual è quindi la prima cosa da fare quando dovesse emergere uno stato emotivo di sofferenza ricorrente, che non necessariamente un legame causale con la situazione che stiamo vivendo e che sentiamo come un problema (e nei confronti della quale il buonsenso ci suggerirà di cercare un’altra soluzione)? Si tratta di lasciarlo liberamente emergere. Uno dei motivi per cui abbiamo sempre cercato di ricacciarlo indietro nei nostri inferi è che non riuscivamo – quando eravamo bambini – a fare la differenza tra uno stato d’animo e uno stato d’essere. Ancor oggi questa confusione non è stata chiarita. Quando parliamo di ciò che proviamo sentendoci tristi, afflitti, addolorati usando molto spesso il verbo essere, come nel caso di «Sono triste», «Sono afflitto», «Sono addolorato». Se prendiamo alla lettera il significato di tale verbo le precedenti affermazioni vanno rilette in termini di «Sono la tristezza», «Sono l’afflizione», «Sono il dolore», la qual cosa, oltre che rivelarsi palesemente falsa si rivela anche inaccettabile. Se potremmo accettare di sentirci tristi non possiamo certo accettare di essere la tristezza. Tanto vale quindi non riconoscerla nemmeno! Le parole – in particolare i verbi – adeguati sono in questo caso provare, sentire, avere la sensazione di. Questi verbi riportano i nostri vissuti interni nella loro giusta dimensione, sottraendoli a quella dell’essere. Fatto questo, si tratta di considerarlo un messaggio proveniente dal nostro bambino interiore. Nel primo film di Henri Potter, quando il protagonista riceve la lettera che lo convoca alla scuola dei maghi i suoi genitori adottivi gliela stracciano. Dato che si tratta di una lettera magica ne arriva un’altra, che subisce lo stesso trattamento. Dopo poco la casa viene letteralmente sommersa di lettere, che non possono più essere ignorate. Lo stesso a volte accade quando tentiamo di ignorare il messaggio proveniente dal nostro bambino interiore, fatto di emozioni spiacevoli: dopo poco ne arriva un altro, poi un altro ancora e un altro ancora, fino a che non possiamo più far finta di niente. Dopo aver considerato l’emozione emergente come un messaggio proveniente da questa nostra parte possiamo, se ne abbiamo modo, chiudere gli occhi e cercare di 63 visualizzarla nel nostro mondo interno, notando la sua espressione in rapporto a un particolare stato interno. A questo punto possiamo estrarre dalla tasca la pietra filosofale dell’accoglimento e iniziare, senza indugio, la trasmutazione emozionale. Si tratta di utilizzare una sorta di formula magica, rivolgendogli parole come: «Piccolo … (il proprio nome) riconosco e comprendo che ti senti … (lo stato d’animo spiacevole riconosciuto poc’anzi) e lo faccio affinché tu ti senta finalmente riconosciuto e compreso da me». Occorre fare attenzione a pronunciare tale formula con enfasi e partecipazione emotiva. Come tutti i bambini del mondo, anche quello interiore si dimostra alquanto sensibile al nostro atteggiamento nei suoi confronti. Se è di sufficienza o emotivamente distaccato non funzionerà. Dopo aver proferito queste parole con enfasi e con partecipazione emotiva non resta che essere testimoni di quanto accade. La portata della trasmutazione emozionale potrà essere diversa, più o meno completa, più o meno profonda, più o meno stabile, ma qualcosa comunque succederà. Dobbiamo solo essere pronti a riconoscerla e ad accettarla. Guidare la parte forte A volte i nostri problemi non sono caratterizzati da sofferenza bensì da un certo comportamento, che mettiamo liberamente in atto pur non volendolo. Anche se una certa dose di malessere appare comunque presente – altrimenti non si tratterebbe di un problema – è in primo piano il fatto che mangiamo troppi bignè alla crema o fumiamo troppe sigarette o litighiamo spesso con nostra moglie o nostro marito e via dicendo. Si tratta dell’inequivocabile indicazione che a emergere in modo prevalente alla nostra consapevolezza è, questa volta, la nostra parte forte piuttosto che il nostro bambino interiore. 64 È, infatti, la parte forte e non quella bambina che ci spinge a porre in atto un comportamento che – pur producendo effetti indesiderati – presenta la stessa ricorsività delle emozioni di tipo 2. Molto spesso parliamo dei problemi fatti di comportamenti inopportuni in termini piuttosto incerti dal punto di vista di ciò che vogliamo e non vogliamo, usando cioè il verso volere al condizionale e al negativo. Affermiamo che si tratta di un comportamento che «non vorremmo» mettere in atto. Quando andiamo al ristorante, prendiamo il treno, ci facciamo il caffè, viaggiamo in auto, siamo determinati e sappiamo bene cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Quel «non vorremmo» non significa, in realtà, né «voglio» né «non voglio». A fronte di un comportamento che valutiamo come problematico, l’espressione corretta sarebbe quindi «non voglio» piuttosto che «non vorrei», che risulta ambigua ed equivoca. Tale ambiguità deriva dal fatto che, differentemente da quanto accade per la nostra parte bambina, noi tendiamo a identificarci con quella forte al punto da non riuscire più a distinguere tra la nostra volontà come tutto e quella di tale nostra parte. Ecco perciò realizzarsi appieno la condizione di pars pro toto di cui parlavano i latini, della parte che prende il posto del tutto. Se con gli stati emozionali della parte bambina usiamo una formula rituale, affrontando i comportamenti ormai divenuti automatici della nostra parte forte la prima cosa da fare è usare lo spartiacque del verbo volere. A fronte del comportamento indesiderato dobbiamo quindi attuare un atto di volontà, diverso dall’esercitare la forza di volontà. Si tratta cioè di dichiarare che non vogliamo – e non che non vorremmo – mettere in atto quel comportamento che riteniamo problematico, indesiderato, inopportuno. Questo semplice atto di volontà ci permette d’identificare la nostra parte forte, che invece vuole e ci spinge a porlo in atto. È solo dopo aver riconquistato la nostra naturale condizione di tutto che possiamo gestire la parte forte. Come abbiamo fatto con il bambino interiore, possiamo adesso visualizzarla, chiedendole cosa si propone di positivo per noi, spingendoci a porre in atto il comportamento in questione. Aspetteremo poi la risposta, qualunque essa sia. 65 A seconda della parte forte coinvolta potremo ottenere una risposta che va in direzione del proteggere, del simulare, del ribellarsi, del vendicarsi, dell’essere superiori, del punire. È a questo punto che dobbiamo estrarre un intento universalmente positivo del tipo «voglio che tu stia bene» o «voglio la tua felicità». Ottenuto questo importante risultato le faremo notare che, pur essendo animata dal migliore degli intenti, i risultati che sta effettivamente ottenendo con noi non sono in linea con tale intento. Per dirla con Oscar Wilde, è con le migliori delle intenzioni che spesso si ottengono i peggiori dei risultati. Non resterà quindi che chiederle di mantenere il fine ma di cambiare il mezzo, rendendolo realmente funzionale al fine stesso. Sarà quindi importante aiutare la nostra parte forte a reperire valide alternative comportamentali, che si dimostrino in grado di ottenere il risultato desiderato, senza – questa volta – alcun effetto collaterale. Fino a quel momento la nostra parte forte si è comportata come se ciò che ha messo in atto funzionasse davvero e nel migliore dei modi, senza mai metterne in discussione la validità e l’efficacia, aderendo quindi al principio per cui la squadra che vince non si cambia. Una vecchia barzelletta racconta che un giorno uno psichiatra visita un paziente che batte continuamente le mani. Incuriosito, gli chiede perché mai lo facesse, al che il paziente gli risponde che è per scacciare gli elefanti. Quando lo psichiatra ribatte che non c’era alcun elefante in giro il paziente, con aria molto soddisfatta, ne conclude: «Ha visto che funziona!». La spia sul cruscotto Immaginiamo di viaggiare con la nostra auto, quando improvvisamente si accende una spia sul cruscotto: riteniamo che questo fatto costituisca un problema? Se poniamo questa domanda a diverse persone la maggior parte risponderà «Sì, perché significa che c'è qualcosa che non va», al che si potrebbe replicare «Quindi, se non si accendesse sarebbe meglio ... anche se mancasse la benzina!?!». 66 A questo punto la risposta naturalmente sarebbe: «No, meglio che si accenda per segnalare che la benzina manca o che c'è qualcosa che non va». Tra le spie sul cruscotto della nostra auto e i problemi che ci affliggono esistono alcune interessanti analogie. Entrambi sono in grado di attrarre la nostra attenzione: le spie sul cruscotto attraverso un segnale luminoso o acustico, i nostri problemi attraverso disagio e sofferenza (la nostra attenzione è più attratta dagli stimoli spiacevoli di quanto non lo sia da quelli piacevoli). Entrambi ci segnalano qualcosa di cui non siamo coscienti o che non possiamo percepire direttamente né comprendere attraverso i consueti schemi di pensiero: la spia della benzina ci segnala che il carburante nel serbatoio si sta esaurendo, mentre i nostri problemi che vi sono situazioni che richiedono la nostra azione. Entrambi recano un messaggio che va recepito, ossia che c'è bisogno di prendersi cura di qualcosa: la spia della benzina ci dice che dobbiamo rifornirci altrimenti rimarremo a piedi, i nostri problemi che dobbiamo ripristinare un certo modo di agire, relativamente al nostro corpo o al nostro modo di pensare. Ma c’è anche un’altra interessante analogia. Entrambi cessano spontaneamente quando ci si prende cura di ciò che era segnalato. Mentre un'elementare saggezza ci spinge a utilizzare le spie della nostra auto per fare quanto è necessario al fine di continuare il nostro viaggio, tale saggezza sembra abbandonarci nel momento in cui affrontiamo in nostri problemi, primi fra tutti gli stati d'animo spiacevoli. Accanto alle precedenti analogie esistono quindi anche sostanziali differenze tra le spie della nostra auto e i nostri problemi. Mentre riconosciamo e possiamo quindi utilizzare i messaggi forniti dalle spie della nostra auto, non riconosciamo e non possiamo quindi utilizzare quelli legati al nostro stato d’animo e al nostro comportamento. Quando una spia della nostra auto si guasta corriamo subito a farla riparare, quando invece ci sentiamo male un'industria multimiliardaria è impegnata a produrre sostanze attive nell’azzerare tale malessere. È questa differenza a costituire il nostro vero problema. Un giorno qualcuno mi raccontò la storia di un capomastro il quale acquistò un modello di auto tecnologicamente all'avanguardia, che aveva alcuni segnalatori vocali. 67 Un giorno, uscito stanco dal cantiere e salito in macchina, una di queste spie vocali inizia a ripetere incessantemente lo stesso messaggio vocale (forse un guasto?). Dopo vani tentativi di zittire la fastidiosa vocina, non potendone più afferrò la mazzetta che aveva con sé e iniziò a colpire il cruscotto, cercando quindi di risolvere la questione in maniera sbrigativa. Di fronte ai nostri problemi, a volte bizzarri, incomprensibili, forieri di sofferenza, che spesso ci vedono impotenti sul piano dell’azione da intraprendere e, prima di tutto, incapaci di comprenderne il significato, siamo un po' come quel capomastro. Privati della capacità di porre in atto le contromisure necessarie non ci resta – così almeno ci sembra – altra possibilità che cercare di zittire il disagio o la sofferenza che proviamo in modo altrettanto sbrigativo. Ma prima di attuare un qualche tentativo in tal senso facciamo qualcosa di ben più subdolo: forniamo una spiegazione in risposta alla domanda «perché accade?». La spiegazione si pone, di solito, in termini di malfunzionamento o di qualcosa che non va piuttosto che dell'esatto contrario, come potrebbe essere se accogliessimo l'idea del problema come messaggio o come segnalatore. Ma che cos’è la spiegazione? Semplice, il sostituto della soluzione. Un tempo nei vecchi Luna Park si poteva trovare il tiro a segno. S'imbracciava il fucile e si cercava di fare centro, per vincere il primo premio. Dato che molto spesso non si riusciva a centrare il bersaglio ci si doveva accontentare del premio di consolazione. Invece che portarsi a casa il grosso orso di peluche ci si doveva accontentare del paperotto di plastica. L’ignorare il messaggio convogliato dai nostri problemi finisce per perpetuare il mancato riconoscimento delle nostre parti. Se iniziassimo a pensare ai nostri problemi come i segnalatori di un girotondo in atto nel nostro mondo interno scopriremmo molte cose utili per riacquistare il nostro benessere e l’armonia nelle nostre relazioni. I conflitti relazionali L’ambito della nostra vita preferito dai personaggi del nostro teatro interiore è molto spesso il teatro esteriore delle relazioni. 68 Se la relazione fosse una valigia o una padella la comunicazione sarebbe il loro manico, ossia il mezzo per poterle agevolmente maneggiarle. Ci sono due fondamentali modi di comunicare. Il primo e più largamente utilizzato è quello usato in tribunale. Il problema risiede nel fatto che le relazioni che approdano in tribunale sono, per definizione, le più conflittuali e quindi le più dense di sofferenza. Ma da che cosa è caratterizzato questo tipo di comunicazione? Anche se – fortuna nostra – non abbiamo mai messo piede in un tribunale, abbiamo certamente visto qualche film che narra le varie fasi di un processo. Sappiamo quindi che le uniche cose che contano in un tribunale sono ciò che è vero o falso e ciò che è giusto o ingiusto: vero secondo le prove e giusto secondo la legge. Possiamo chiamare questo tipo di comunicazione «comunicazione conflittuale», poiché non solo caratterizza i nostri conflitti già in essere ma è anche destinata, prima o poi, a produrne qualcuno. Quando le persone litigano pongono – con matematica certezza – in atto questo tipo di comunicazione basata su ciò che è vero e giusto, che rappresenta perciò la ricetta perfetta del litigio. Il problema risiede nel fatto che, mentre bisogni ed emozioni ci accomunano, giacché a noi attribuite da madre natura, convinzioni e valori ci dividono, essendo figli della differenze culturali e sociali. Dopo una vita passata assieme, a volte le persone scoprono di non conoscere per nulla chi hanno avuto vicino, scoprono che il loro partner è una sorta di estraneo. Per raggiungere questo risultato – che anche se spiacevole è pur sempre un risultato – si sono entrambi basati su ciò che pensano piuttosto che su ciò che sentono. Anche se i motivi dei nostri conflitti sono i più disparati, essi hanno tuttavia in comune il fatto che i contendenti parlano in termini di «tu sei … non sei …», «tu devi … non devi …». «Tu sei così freddo con me (è vero), devi farmi sentire importante (è giusto)», «Tu non sei mai interessato a me (è vero), non devi pensare sempre al tuo lavoro (è ingiusto)» sono frasi che caratterizzano soprattutto il versante femminile. Da quello maschile, in risposta ai precedenti messaggi capita di ascoltare cose del tipo «Non è vero che non mi interesso a te (è falso), devi capire che ho tante cose da 69 fare (è giusto)», «Tu sei sempre lamentosa (è vero), devi smetterla di opprimermi con le tue lamentele (è ingiusto)». Anche dietro i verbi fare e dire nonché i loro derivati, in realtà si nasconde l’essere e il dovere. Messaggi come «Tu ti comporti in modo così freddo con me, voglio che tu mi faccia sentire importante …», «Tu non ti interessi mai a me, pensi sempre al tuo lavoro …» sempre per quanto riguarda il versante femminile. Per quanto riguarda, di nuovo, quello maschile si ascolta invece «Io mi interesso a te, quando capirai che ho tante cose da fare …», «Ti lamenti sempre, lasciami un po’ in pace …» sottintendono comunque «tu sei» o «non sei» e «tu devi» o «non devi». Alla base della comunicazione conflittuale ritroviamo quindi, in modo esplicito o implicito, i verbi essere e dovere. Mentre il primo introduce le nostre presunte verità distinguendole perciò dalle non verità, il secondo sancisce ciò che è giusto discriminandolo quindi da ciò che è ingiusto. Questo modo di comunicare produce i giochi senza fine nelle relazioni, circoli viziosi che appaiono pressoché insolubili e densi di grande sofferenza, nei quali molte persone finiscono a volte per consumare la loro intera vita di relazione. Tra le regole del gioco compaiono quelle su come giocare ma non su come smettere. Ciò che è vero e ciò che è giusto per noi divengono una sorta di capi d'imputazione nei confronti degli altri che non la pensano come noi, i quali, com'è ovvio, ci rivolgeranno a loro volta i loro capi d'imputazione. Tutto questo dà origine a un'escalation di conflittualità tra le due parti, che può culminare con una sentenza di condanna reciproca senza appello. Ecco come una tipica discussione tra persone che si vogliono bene può diventare il susseguirsi dell'arringa del pubblico ministero e dell'avvocato difensore, i cui ruoli sono assunti alternativamente ora dall'uno ora dall'altro. Spesso le persone continuano, anche per anni, a parlare degli stessi fatti, senza poter riconoscere ciò che davvero importa: non tanto cosa è accaduto là fuori, bensì cosa sta continuando ad accadere dentro. Sono le emozioni senza tempo a presentarsi sul palcoscenico della consapevolezza alla ricerca di accoglimento, spesso senza poter ottenere nemmeno riconoscimento. 70 Ciò produce quello che si può definire «l'effetto disco rotto», in cui si continua a parlare e a rimuginare sempre sugli stessi fatti, senza poter riconoscere che sono le emozioni il loro significato. Se emozioni e bisogni ci accomunano in un comune sentire, le nostre convinzioni e i nostri valori ci dividono attraverso un differente modo di pensare, dando così luogo ai conflitti tra le persone. Verso la comunicazione libera dai conflitti L'obiettivo di fondo, anche se del tutto inconsapevole, presente in ogni nostra interazione con altri esseri umani è la soddisfazione del bisogno di accoglimento, ossia di riconoscimento, accettazione e comprensione. Questi sono gli ingredienti dell’altro tipo di comunicazione, quella che possiamo chiamare la «comunicazione emozionale». Differentemente da quella conflittuale, essa si basa su ciò che in tribunale è assolutamente irrilevante: bisogni, stati d’animo, sentimenti. Si tratta della comunicazione che caratterizza gli amanti: «Sento la tua mancanza …», «Ti amo tanto …», «Ho bisogno di te …», «Vorrei tanto averti qui …». Se proviamo a litigare o a entrare in qualche modo in conflitto con chicchessia comunicando esclusivamente in termini di ciò che proviamo, emozioni o bisogni che siano, scoprire che è tecnicamente impossibile. Parlando di questi argomenti anche il nostro tono di voce sarà diverso, più calmo, più comprensivo, in grado di stimolare anche nell’altro pacatezza e comprensione. Il passaggio dalla comunicazione conflittuale a quella emozionale ha il potere di cambiare immediatamente la relazione tra le persone coinvolte, rendendola più conforme ai bisogni di ognuno e innalzandone quindi la qualità. Mentre la comunicazione conflittuale è sotto il diretto controllo della nostra parte forte, che cerca di occultare il bambino interiore eludendone emozioni e bisogni, la comunicazione emozionale si rivolge invece a questa nostra parte bambina, tendendo a soddisfare il suo bisogno di accoglimento. 71 Quando, applicando la comunicazione emozionale, accogliamo il malessere di una persona relativamente a un problema da cui si sente afflitta (vedi le emozioni di tipo 2), in realtà ci stiamo rivolgendo al suo bambino interiore. Quando, per altro verso, mettiamo in atto la comunicazione conflittuale parlando in termini di vero-falso, giusto-sbagliato, stiamo negando l’esistenza del bambino interiore o condannandolo. Ogni emozione solitamente definita «negativa» può sortire due risultati alquanto differenti all'interno di una relazione. Può costituire motivo di conflitto, incomprensione, difficoltà di ogni genere, oppure rappresentare una preziosa opportunità per comprendersi più profondamente, rendendo più autentica e significativa la relazione stessa. Questa seconda evenienza si verifica in virtù della comunicazione emozionale, che riflette il significato stesso di comunicazione, termine la cui origine latina rimanda a mettere qualcosa in comune, appunto e condividere. Un’antica storia racconta che l'inferno è un luogo dove i condannati si trovano attorno ad un tavolo imbandito, ricolmo di ottimi cibi. Tutti hanno le braccia legate, in modo da impedire loro di piegarle per portare il cibo alla bocca e quindi sfamarsi. In seguito al montare della frustrazione tutti provano una grande rabbia, che sfogano picchiandosi con le posate che stringono in mano. Il paradiso invece è un luogo in cui tutti si trovano, anche questa volta, attorno ad un tavolo imbandito, ricolmo di ottimi cibi. Allo stesso modo tutti hanno le braccia legate, in modo da non riuscire a piegarle e portare il cibo alla bocca. La differenza è che ognuno imbocca chi gli sta accanto e perciò tutti mangiano soddisfatti e felici. Nella comunicazione conflittuale, il vero e il giusto diventano dominanti al punto da cancellare ogni traccia di emozioni e di bisogni dalla relazione. Il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato sono come le sirene di Ulisse. Costeggiando l'isola delle Sirene l'eroe si fece legare all'albero maestro della sua nave, per poterne ascoltare il canto senza caderne preda e morire, destino riservato a chi si faceva incantare e attrarre sulla loro isola. Siamo immancabilmente attratti dalle sirene del vero e del giusto, trappola che spesso si rivela mortale per la relazione. 72 In tal senso si può affermare che convinzioni e valori costituiscono la madre di tutti i conflitti e in tal senso gli acerrimi nemici delle nostre relazioni significative. Il passaggio dalla comunicazione conflittuale a quella emozionale comporta la possibilità di una comprensione profonda. In questo caso, infatti, la forza delle emozioni e dei bisogni cessa di alimentare le nostre verità e ciò che per noi è giusto, contrapposti alle verità dell'altro e a ciò che per lui è giusto. Ecco che i giochi senza fine sono finalmente interrotti. La relazione può così svilupparsi, da quel momento in poi, in modo più conforme ai reali bisogni e alla sensibilità delle persone coinvolte. Questo tipo di comunicazione ha per la relazione caratteristiche analoghe a quelle che il sale ha per il cibo. Se la sua mancanza lo rende insipido, il suo eccesso lo rende immangiabile. Comunicare continuamente le proprie emozioni e i propri bisogni renderebbe l'altro sempre meno ricettivo. È un po' quanto accade per la pubblicità: fornire continuamente stimoli rende lo spettatore sempre meno sensibile, richiedendo perciò dosi sempre più massicce per aumentare la probabilità di fare breccia. D'altra parte, non comunicando per nulla a questo livello profondo si sottrae nutrimento alla relazione, senza il quale essa finisce per avvizzirsi, proprio come farebbe una pianta privata per lungo tempo di acqua. Sarebbe anche come cercare di annaffiare foglie e rami: solo dando acqua alle radici essa potrà averne quanto necessita. Anche se la comunicazione emozionale è tecnicamente molto semplice, si rivela spesso molto difficile da mettere in pratica. Semplice, infatti, non è sinonimo di facile. Sempre in tema di paradiso e di inferno, un'antica storia racconta di un samurai che voleva conoscere la differenza tra l'uno e l'altro. Così si recò da un vecchio saggio. Questi lo guardò e iniziò a dubitare delle sue capacità di comprendere, fino a dirgli apertamente che lo riteneva uno stupido. Indignato, il samurai estrasse la spada e lo minacciò, al che egli replicò «Questo è l'inferno!». Il samurai realizzò quanta saggezza era contenuta in questa risposta e, per dimostrargli rispetto e riconoscenza, s'inchinò, al che il saggio aggiunse «E questo è il paradiso!». 73 I contenuti della comunicazione emozionale convogliano al proprio interlocutore due fondamentali messaggi, che la nostra tracotanza finisce spesso per occultare: «Mi sento forte, ecco che cosa mi permette di aprirmi a te!», «Sei importante per me, tengo alla relazione con te, ecco perché ti comunico ciò che provo e ciò di cui ho bisogno!». Proprio chi è in grado di andare oltre il proprio senso di precarietà in rapporto all'altro può concedersi il lusso della forza, quella che nasce dall'integrità personale e dall'autenticità di sentimenti. Una cosa va comunque tenuta ben presente. Alle persone non piace che si parli delle loro emozioni che definiscono «negative», che vogliono in ogni modo cancellare o nei confronti delle quali cercano di far finta di nulla. Un errore sarebbe quindi rivolgersi all’altro in termini di «Tu sei arrabbiato con me!». Se vogliamo far riferimento al mondo interno dell'altro, occorre perciò farlo attraverso le nostre sensazioni e impressioni, come nel caso di «Ho la sensazione che tu ti senta arrabbiato con me!», «Ho l'impressione che tu abbia bisogno di parlarmi», oppure, in modo ancor più indiretto, riferendoci esclusivamente a noi stessi, «Ho una sensazione di rabbia». Ciò che si ritiene vero non è, dunque, che il nostro interlocutore effettivamente si senta arrabbiato con noi o che abbia bisogno di parlarci, quanto piuttosto la nostra personale sensazione o impressione riguardo a ciò. Nel caso degli stati d'animo si potrebbe aggiungere: «… e nel caso tu ti senta arrabbiato ti comprendo». Si eviteranno così le sabbie mobili di una presunta verità e con essa la con-fusione tra la realtà soggettiva e il mondo esterno. Da evitare accuratamente quando si parla di stati d’animo spiacevoli è la causaeffetto, esempi della quale sono «Tu mi fai sentire male», «Mi sento male perché tu …». Alle orecchie del nostro interlocutore tali messaggi suonerebbero, infatti, come una colpevolizzazione. Questo modo di comunicare tende a ripristinare la confusione tra sensazioni soggettive (mondo interno) e verità (mondo esterno), mischiando pericolosamente le carte in tavola. 74 Visto, inoltre, che la colpa non la vuole nessuno egli tenderà perciò a negare lo stato d'animo che viene comunicato o a opporre il suo rifiuto, di conseguenza a chiudersi. Al posto di tali espressioni si potrà usare «Mi sento male quando / nel momento in cui ti arrabbi con me» o «Se fai / dici … allora io mi sento …», forme che instaurano un rapporto di sincronicità tra gli eventi piuttosto che di causalità, riducendo così al minimo la sensazione dell'interlocutore di venire colpevolizzato. Altra cosa importante è saper individuare i casi o i momenti in cui l'altro è maggiormente disponibile alla comunicazione emozionale: una riunione aziendale può non costituire il momento più adatto. Privata di tali premesse la comunicazione diviene ibrida, il bizzarro risultato della confusione tra quella conflittuale basata su presunte verità e quella emozionale, la qual cosa sarebbe destinata a produrre effetti ancora più deleteri. Sarebbe come mescolare due sostanze che non dovrebbero affatto stare assieme, giacché reagiscono l'una all'altra in modo indesiderato. Quando si fabbrica la nitroglicerina si deve trattare la glicerina con l'acido nitrico e quello solforico, ma se il processo non è tenuto accuratamente sotto controllo il prodotto che si forma – appunto la nitroglicerina – produce un'istantanea esplosione. In frasi come «Tu sei arrabbiato con me!» si ha la pretesa di leggere nel pensiero del proprio interlocutore, considerando le proprie impressioni come la verità stessa. Si finisce così per confondere il proprio mondo interno con quello dell'altro. Il passo successivo è esprimere un giudizio – spesso di condanna – nei confronti delle sue presunte emozioni o dei suoi presunti bisogni: «Non devi sentirti insicuro», «É infantile avere bisogno di qualcuno vicino!» e cose del genere. Mentre nel primo caso è come se dichiarassi di possedere il dono della scienza infusa, nel secondo assumo il ruolo di giudice, di depositario della conoscenza del bene e del male. Come potrò non suscitare le reazioni oppositive, manifeste o meno, nel mio interlocutore? Non mischiare il mondo interno con i fatti costituisce un principio relativo piuttosto che assoluto. Non significa, infatti, che quando si comunica in termini di emozioni e di bisogni non si debba prendere in considerazione alcun dato di realtà. Ciò risulta spesso 75 necessario al fine di attuare una comunicazione chiara ed esaustiva, in modo tale che le persone coinvolte possano spiegarsi fino in fondo. Occorre però che tali dati rimangano sul piano sensoriale, come nel caso di: «Mi sento male se mi dici che non ti ascolto mai! Ieri sono stato tutta la sera ad ascoltarti!». Si tratta, in altri termini, di circostanziare quanto si afferma a proposito delle proprie emozioni e dei propri bisogni, al fine di permettere all'altro di comprendere sul piano concreto quanto gli stiamo dicendo e di rispondervi in modo pratico. Nel momento in cui s'introduce una palese interpretazione le cose cambiano, come nel caso di: «Mi sento male perché non mi capisci». In tale messaggio vengono perdute le radici sensoriali del comportamento dell'altro finendo per pretendere di leggere nel suo pensiero. Dalle parti al tutto: il ritorno all’armonia Se la confusione è la madre di tutti i problemi la chiarezza è la madre di tutte le soluzioni. In questo libro abbiamo parlato di una forma molto subdola di confusione, quella tra noi come tutto e le nostre parti. Il nostro bambino interiore e la nostra parte forte, quali personaggi del nostro teatro interiore, a volte prendono il sopravvento su di noi adulti, facendoci provare le forme di un’antica sofferenza e spingendoci a porre in atto vecchi comportamenti nel vano tentativo di porvi rimedio. Come accade in una famiglia in cui vi sono dei conflitti, la soluzione non è certo dare ragione all’uno o all’altro o, tanto meno, buttar fuori l’uno o l’altro. Si tratta di instaurare un dialogo in cui ognuno può comunicare in modo da sentirsi riconosciuto e accolto, in modo che si possa ristabilire l’armonia. Questa armonia è possibile anche nel nostro mondo interno, prerequisito per stabilirla anche in quello là fuori. Così come il conflitto è l’inevitabile risultato di un modo di comunicare conflittuale, questa armonia può essere il naturale risultato di un modo di comunicare volto all’armonia tra il tutto e le parti. 76 Se il nostro mondo interno, la nostra psiche è come un teatro e se in tale teatro interiore recitano alcuni personaggi che replicano, volta dopo volta, la stessa rappresentazione, a questo punto la domanda è: a quante repliche dobbiamo assistere per poterne cambiare il copione? La domanda è paradossale perché la risposta è ovvia: a infinite repliche, in altri termini come semplici spettatori non possiamo cambiare il copione da cui si generano i nostri problemi. Ma nel momento in cui passiamo dal ruolo di semplici spettatori a quello di attori il cambiamento diviene immediatamente possibile. L’attore può, infatti, improvvisare, agire in modo difforme dal copione originario, essere guidato dal regista verso l’elaborazione di un nuovo copione. Siamo così giunti al momento di salutarci. Questo libro ha voluto darti un piccolo suggerimento su come potrai considerare le cose nel momento in cui dovesse emergere una qualche forma di malessere o di disagio o di sofferenza, o ti trovassi paradossalmente a porre in atto un comportamento che ritiene inopportuno, al fine di ristabilire l’armonia. E quindi possiamo concludere ricordandoti che … … la storia che questo libro ha voluto raccontarti, diversamente dalle altre storie, ha un finale che solo tu puoi scegliere, solo tu puoi far sì che la storia della tua vita abbia un lieto fine. 77 Stefano Boschi, psicologo, psicoterapeuta, ricercatore nel settore della comunicazione in ambito clinico e della psicoterapia breve integrata. Dalla sua attività di ricerca nasce la Terapia dei Nuclei Profondi, metodo che sintetizza in modo sinergico alcuni dei massimi sistemi della psicoterapia tradizionale, il Metodo di Cambiamento Rapido o MCR, che si rivolge a psicologi e counselor, il Metodo PsicheSoma, appositamente studiato per affrontare le radici psichiche delle malattie somatiche, la Terapia dei Copioni Relazionali, modello sistemico particolarmente adatto a sciogliere i nodi della coppia, la Pedagogia dei Modelli Adattivi, un nuovo modo di osservare la psicopatologia dell'età evolutiva. www.stefanoboschi.it 78