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23-46 DOSSIER-follia:23-46 DOSSIER 4.0
DOSSIER
MISSIONI CONSOLATA
Viaggio nel disagio mentale, affettivo, comportamentale
«LA FOLLIA,
UNA CONDIZIONE UMANA»
di Orazio Anselmi, Nadia Greco, Alessandro Meluzzi, Ugo Zamburru
(a cura di Paolo Moiola)
DOSSIER
INTRODUZIONE
uando McMurphy domanda all’amico
Harding quale sia lo scopo della terapia
con l’elettroshock, questi gli risponde:
«Ma per il bene del paziente, si capisce. Tutto
quello che fanno qui è per il bene del paziente.
(...) Non sempre si ricorre all’Est (Elettro-shockterapia, ndr) a titolo punitivo, come è solita fare
la nostra infermiera, e nemmeno si tratta di
puro sadismo da parte del personale. Numerosi
malati ritenuti inguaribili sono stati riportati in
contatto con la realtà grazie all’elettroshock,
così come altri hanno fatto progressi con la lobotomia e la leucotomia. L’elettroshock terapia
presenta alcuni vantaggi: è poco costosa, rapida, del tutto indolore. Causa soltanto una
sorta di attacco epilettico».
Sono righe tratte da Qualcuno volò sul nido del
cuculo, romanzo (1) ambientato in un ospedale
psichiatrico dell’Oregon, ma è dall’Italia che conviene partire quando si parla di disagio mentale. La
psichiatria italiana è infatti nota a livello internazionale per le innovazioni introdotte con la riforma
della legge 180 del 1978, anche nota come
«legge Basaglia», dal nome del suo ideatore.
Diceva lo psichiatra veneziano (2): «La follia è
Q
una condizione umana. In noi la follia esiste ed è
presente come lo è la ragione. Il problema è che
la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare
tanto la ragione quanto la follia, invece incarica
una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in
malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio
ha qui la sua ragion d’essere». E ancora: «Il manicomio è nato storicamente a difesa dei sani.
Le mura servivano, quando l’assenza di terapie
rendeva impossibile la guarigione, ad escludere,
isolare la follia perché non invadesse il nostro
spazio» (3).
Quella di Franco Basaglia è stata una riforma
rivoluzionaria e, come tale, anche oggetto di critiche. Ma quasi sempre non a causa dei suoi
contenuti, bensì per la sua inadeguata applicazione (4).
«Scrivo ancora contro la legge 180. Quando finirà questa pagliacciata della libertà obbligatoria? I matti non li vuole nessuno e, abbandonati a
se stessi, si stanno estinguendo. Sì, estinguendo,
ma per suicidio o ricovero in manicomio giudiziario. E soprattutto quello che fa schifo è che vogliono far passare questa situazione per liberatoria. Il sottoscritto, dopo 9 ricoveri “volontari”,
MATTI
”
“
COME LORO
O COME NOI?
?????
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MC GENNAIO 2006
MISSIONI CONSOLATA
non sa più dove sbattere la testa. E così tanta
gente che conosco e che non fa altro che ripresentarsi tutte le settimane ai centri di igiene
mentale. Vi piace la libertà? Tenetevela, ma per
piacere ridateci la possibilità di difenderci da voi
normali, di mettere un muro tra noi e voi».
Non sappiamo se questa lettera, apparsa sul
quotidiano la Repubblica nel 1988, sia stata effettivamente scritta da un paziente o invece sia
soltanto il prodotto di un oppositore della legge
Basaglia. Ciò non toglie che essa, nella sua crudezza, descriva un problema possibile, che di
norma nasce quando la 180 è applicata male.
«La malattia psichiatrica - scrive Benedetto
Saraceno, direttore del Dipartimento salute
mentale e tossicodipendenze dell’Organizzazione
mondiale della sanità (Oms/Who) - ha caratteristiche che la rendono diversa dalla maggior
parte delle altre malattie e, dunque, l’uguaglianza tra i cittadini (e tra i cittadini malati) va
ricercata nella uguaglianza di diritti e opportunità, ma non nella uguaglianza delle risposte assistenziali. Un malato psichiatrico non ha bisogno di “letti in ospedale”, ma di opportunità di
vita alternative all’ospedale e spesso anche alla
famiglia di origine; ha bisogno di residenzialità,
di lavoro, di presa in carico, di affetto, di autonomia».
e patologie mentali sono correlabili al contesto sociale ed economico nel quale si
vive? La risposta pare affermativa. Ad
esempio, si è visto che le psicosi migliorano più
facilmente nei paesi in via di sviluppo, ove il contesto comunitario è più accogliente e i meccanismi di esclusione meno rigidi (5).
Secondo lo psichiatra statunitense Richard
Warner (6), il cambiamento di ruolo, la perdita
di status e l’incertezza occupazionale possono
accrescere il rischio di sviluppare la schizofre-
L
nia. In particolare, per alcuni gruppi, come gli
«scolarizzati disoccupati» nei paesi industrializzati, i «poveri urbanizzati» nei paesi in via di sviluppo.
Nei paesi ricchi si è trovata una possibile, parziale soluzione con gli psicofarmaci (si veda la
tabella di pagina 31). Ad essi si fa sempre più
ricorso, a volte perché sono utili, a volte perché
fortissima è la pressione delle multinazionali farmaceutiche.
Nel gennaio del 2003 la «Food and Drug
Administration» (Fda), l’agenzia federale che vigila sulla salute degli statunitensi, ha dato il via
libera alla somministrazione del Prozac, il più famoso dei farmaci antidepressivi, a bambini e
adolescenti dai 7 anni in su (7). Molti specialisti
hanno messo in guardia sugli effetti collaterali
(tra cui una diminuzione della crescita) derivanti
dall’assunzione dell’antidepressivo. Altri hanno
applaudito alla novità. Altri ancora hanno trovato una risposta certamente più banale ma
senz’altro molto vera: la Eli Lilly, l’azienda statunitense produttrice del Prozac, aveva necessità
di allargare i confini di un mercato ormai saturo.
ono passati più di duemila anni da quando
Aristotele e Galeno spiegavano la follia a
partire dallo squilibrio dei quattro umori
presenti nel corpo umano: sangue, flegma,
bile gialla e bile nera. L’eccesso di uno di questi umori veniva considerato la «causa» della
follia.
Oggi, a guardare il mondo che ci circonda,
nella dialettica normalità-pazzia vale la saggezza
di Bertoldo (8). Quando il re gli chiede: «Qual è
la più grande pazzia dell’uomo?», Bertoldo risponde: «Il reputarsi savio».
S
PAOLO MOIOLA
QUESTO DOSSIER
Nelle pagine che seguono abbiamo voluto dare spazio a due diverse realtà che si occupano di problematiche
mentali. La prima è una struttura pubblica e laica: il «Centro diurno» della Asl 4 di Torino (con l’associazione
«Vol.p.i» lì ospitata). La seconda è una struttura privata con una precisa impronta cattolica: la cooperativa
«Agape, Madre dell’accoglienza». In entrambi i casi, abbiamo trovato persone appassionate ed entusiaste del
loro lavoro, ben al di là delle responsabilità derivanti dal consueto rapporto operatore sanitario-paziente. Un ringraziamento particolare va a coloro che hanno contribuito a questo dossier: gli psichiatri Ugo Zamburru ed
Alessandro Meluzzi, padre Orazio Anselmi, Nadia Greco, Elisa Iannetti e Giuseppina De Cesare. Come quasi
sempre capita, abbiamo dovuto sforbiciare molto i lunghi testi che ci sono pervenuti. Lo abbiamo fatto cercando di preservare al massimo lo spirito di chi aveva scritto.
Pa.Mo.
NOTE:
(1) Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rizzoli Editore, Milano 1976. Dal romanzo è stato ricavato un famoso film con l’attore Jack
Nicholson.
(2) Franco Basaglia (Venezia, 1924-1980) è stato il maggiore rappresentante della psichiatria italiana del Novecento. Lavorò a Gorizia,
Parma e Trieste, dove fu direttore del manicomio di San Giovanni. Il 13 maggio 1978 il parlamento italiano con la legge 180 approvò la sua
riforma psichiatrica.
(3) Franco Basaglia, L’utopia della realtà, Giulio Einaudi Editore, Torino 2005, pag. 55.
(4) Si veda in particolare la posizione dell’«Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica» (Arap).
(5) Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, Dizionario della salute, Milano 1991.
(6) Richard Warner, Schizofrenia e guarigione, Feltrinelli Editore, Milano 1991.
(7) Si veda «la Repubblica» del 5 gennaio 2003.
(8) Da Bertoldo e Bertoldino, di Giulio Cesare Croce, cantastorie bolognese (1550-1609).
MC GENNAIO 2006
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DOSSIER
Lavorare in un Dipartimento di salute mentale
LA SALUTE NON PUÒ ESSERE
UN BUSINESS
I «matti» non sono più quelli di una volta. Nelle strutture arrivano disoccupati, poveri,
extracomunitari,drogati.Anche la società non è più la stessa:l’1 per cento della popolazione
mondiale è affetta da schizofrenia;circa il 15-20 per cento da depressione;una percentuale
ancora più alta da ansia.Lavorare sulla salute mentale è sempre più difficile.Ma un principio
dovrebbe rimanere saldo ed immutabile: la salute non può essere un campo dove cercare
il profitto.
DI
L
a giornata lavorativa sta terminando, nel fatiscente caseggiato adibito ad ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano.
Da sotto si sente salire per le scale l'odore del cibo preparato al centro diurno.
I due infermieri rimasti guardano
lo psichiatra seduto di fronte, i gomiti appoggiati sulla scrivania e le
mani a reggere la testa appesantita da una interminabile serie di colloqui.
Una delle infermiere e lo psichiatra responsabile del centro
diurno si conoscono da venti anni,
da quando, giovani e carichi di entusiasmo, si erano trovati a lavorare insieme, in quello stesso quartiere della periferia torinese così
cambiato negli anni.
Quando capita che i due si incontrino con un po' di tempo a disposizione per parlarsi, succede
talvolta che si mettano a parlare
dei bei tempi andati, quando c'erano più risorse, più energie, quando la psichiatria era un argomento
di primaria importanza e quando
tutto era migliore.
Anche i «matti» non sono più
quelli di una volta. Ormai negli ambulatori arriva di tutto e i bisogni
sono sempre più complessi: disoccupazione, povertà, extracomunitari, e poi quanti pazienti usano anche droghe assortite, una
volta non era tutto così incasinato.
Morena e Ugo non sono poi così
vecchi, una cinquantina d’anni lo
psichiatra, 43 l'infermiera e sono
ancora innamorati del loro mestiere, certo non delle condizioni in cui
si trovano ad operare.
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UGO ZAMBURRU
MISSIONI CONSOLATA
Quando nel 1985 hanno iniziato
a lavorare insieme, l'équipe era
composta da 3 medici a tempo pieno, una psicologa, un assistente
sociale (e per un certo periodo addirittura due), 6 infermieri a tempo
pieno ed i casi attivi erano circa
300, quasi tutti di chiara pertinenza psichiatrica, per i quali attivare
le risorse di personale ed economiche (sussidi, una tantum, borse
lavoro, soggiorni) a disposizione.
Un bel mix tra i 2 vecchi infermieri che avevano vissuto da protagonisti la fase propedeutica alla
chiusura dei manicomi con la famosa legge 180 (conosciuta come
legge Basaglia) e il resto del personale, tutto alle prime esperienze,
amalgamati dalla responsabile che,
pur ancora giovane, aveva lavorato
anch'essa in manicomio, permettevano all'équipe di sentirsi parte
di un progetto forte, con una salda
base ideologica e con valori morali ed etici che permettevano di
esprimersi in un'atmosfera di creatività, ma anche di efficienza.
Sarebbe ora interessante vedere
come si è trasformata quell'équipe:
al momento un medico a tempo
pieno che sta scoppiando per il carico lavorativo, un medico che si occupa anche di ricerca e quindi dedica metà tempo all'attività clinica
con i pazienti, e un terzo medico
che al momento non c'è perché in
gravidanza e comunque per quel
terzo posto negli ultimi anni si sono avvicendati, per motivi diversi,
ma costituendo un dato che comunque dovrebbe far riflettere, 5
medici e un sesto sta arrivando.
Da un anno è finalmente tornata
l'assistente sociale, figura professionale che per un paio d'anni era
mancata, mentre gli infermieri sono quattro più una a 15 ore. La figura dello psicologo è presente:
una. Insomma, un’équipe assolutamente indebolita, mentre il carico lavorativo, ovvero il numero dei
pazienti in cura che necessitano di
visite regolari e abbastanza ravvicinate, è aumentato di molto, diciamo almeno del 30% in questi 20
anni.
Per non parlare di quello che succede nei turni in ospedale, quando
dal pronto soccorso si viene chiamati per affrontare situazioni di
marginalità di gran lunga superiori alle reali competenze cliniche.
Dunque, cos'è la psichiatria oggi? Come funziona un Dipartimento di salute mentale? Proviamo a
raccontarlo.
EVOLUZIONE
O INVOLUZIONE?
Credo che ormai non esistano
più dubbi sui danni che sta causando il modello neoliberista. Questa non è la sede per soffermarci,
ma sicuramente una serie di contraccolpi li respiriamo anche nell'ambito del nostro lavoro di operatori della salute mentale.
Il neoliberismo promuove il «Diomercato» e riduce tutto a merce,
come tale monetizzabile. Persino
l’acqua si vuole privatizzare (1).
Che c’entra questa storia con la
psichiatria? C’entra: basta considerare la salute mentale come un
terreno di profitto.
Dunque, l’oggetto di cui si occupa la psichiatria, ovvero la salute
mentale, rappresenta un fenomeno complesso articolato su almeno tre livelli: quello biologico, quello sociale e quello psicologico.
Negli anni, a seconda della cultura dominante, si è enfatizzato un
aspetto piuttosto che un altro: fino alla seconda metà degli anni
Sessanta, per esempio, l'aspetto
primario era quello del controllo
sociale e gli ospedali psichiatrici, i
manicomi, ben assolvevano questo compito.
Le forti spinte di rinnovamento
sociale veicolate dal movimento
dell'ormai mitico Sessantotto fecero sì che in quegli anni l'accento
fosse posto prevalentemente sul
ruolo della società come «fabbrica
della follia» (2).
Le caratteristiche insite nel movimento di demanicomializzazione, l'atmosfera di libertà e impegno che si respiravano funzionarono da collante e diedero una
forte identità agli operatori della
salute mentale: lavorare in psichiatria significava sentirsi prota-
QUALCHE
DATO
• persone affette da malattie
mentali: 450 milioni
• numero di suicidi all’anno:
1 milione
• persone schizofreniche:
45 milioni
• persone con problemi di
abuso di alcool: 140 milioni
• percentuale della spesa sanitaria mondiale per la salute
mentale: 2%
(elaborazione su dati OMS/WHO)
gonisti di un cambiamento epocale che ridava dignità e soggettività
al malato psichiatrico, essere per
la creatività, l'impegno e la solidarietà contro i vecchi modelli di reclusione, violenza, negazione dei
diritti (3).
Un forte senso di appartenenza
caratterizzava gli operatori di quegli anni, con la sensazione che
quello che si faceva non era solo
un lavoro, ma un impegno sociale
fondamentale per determinare i futuri orientamenti del nostro stile di
vita. D'altro canto la psichiatria era
un argomento «a la page» e lo status di operatore in questo campo
era fonte di riconoscimento e interesse.
Ricordo quelli che sono stati i
miei veri maestri, i vecchi infermieri, come li chiamavamo, che ci
raccontavano gli orrori dei manicomi e ci mostravano più con l’esempio che con le parole il senso
del lavorare con la persona che si
affidava a noi.
Scivolo su questo terreno infido, dove rischio di diventare retorico perché è un ideale che sento di aver ereditato da loro, come
se mi avessero dato il testimone
dei loro sogni di rinnovamento e
delle loro lotte. Ecco perché mi
permetto di ricordare Pino, che
era stato il protagonista della rivolta contro la violenza medica
(4), ma anche Augusto, Meo, Carlo e poi mi fermo scusandomi con
quelli che non cito, ma l’elenco
sarebbe troppo lungo.
GLI ANNI NOVANTA:
L’«IO» SOSTITUISCE IL «NOI»
Poi gli anni Novanta, quelli della
stasi: i protagonisti della chiusura
dei manicomi vanno in pensione,
portandosi dietro i loro ideali e lasciandoci con un po' di idee sulla
necessità dell'approccio integrato,
che tenga conto di tutti e tre gli
aspetti citati in precedenza.
Intanto la società cambia, le multinazionali diventano sempre più
padrone della scena politica. Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del commercio (Omc)
esasperano la logica del profitto.
promuovono la figura del vincente, ci colonizzano l'immaginario e
ci convincono che la scienza e le
operazioni finanziarie in borsa ci
porteranno alla felicità.
Si impone il pensiero unico: mangiamo allo stesso modo (magari
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DOSSIER
Mc Donald’s), vestiamo allo stesso
modo, pensiamo (o non pensiamo)
allo stesso modo, compriamo di
tutto e di più e promuoviamo la
competizione.
L'«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà
si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse
che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodotti in
Amazzonia o i fabbricanti di armi).
Allora, se tutto è merce, perché
non può esserlo anche la salute?,
pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano a difendere con
i denti i cosiddetti «brevetti».
Difenderli, perché in India, in
Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a
basso prezzo (circa 10 volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le molecole chimiche appartengano alle
ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni.
Assoldati i migliori avvocati, le
multinazionali attaccano: «Come vi
permettete di produrre senza la
nostra autorizzazione i farmaci
che noi abbiamo scoperto e per di
più a venderli sottocosto?».
Certo, la concorrenza è - stando
ai canoni del mercato neoliberista
- «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l’anno possano accedere a cure altrimenti
troppo costose, salvandosi la vita
per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte.
«Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in
ricerca, diciamo il 20%, mentre il
resto è puro profitto.
Tra l’altro, della quota spesa per
la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle so-
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MC GENNAIO 2006
cietà ricche: diabete, obesità e via
discorrendo.
A proposito di obesità (5), che
razza di società è la nostra, che
spacciamo per portatrice di valori
contro il rischio di un «meticciato»
catastrofico (come ha sentenziato
il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce
a produrre obesi e bulimici quando un miliardo di persone vivono
con un dollaro al giorno e muoiono di fame?
PSICOFARMACI: UTILI (CON
MOLTI «SE» E MOLTI «MA»)
Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la
salute mentale può esserlo.
In fondo, l’1% della popolazione
mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il 10-15% di depressione
e poi c'è sempre l'ansia che è un
bel terreno di lavoro.
Si tratta solo di trovare la strada
giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo
questo è un campo ancora poco
esplorato e conosciuto.
Una volta analizzati fino alle più
piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che
differiscono tra loro per cose minime.
Così per ogni classe vai con la
fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e
così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral,
Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci
non funzionino. Anzi, sono una
grande scoperta.
Dov’è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un lato creare una
medicalizzazione eccessiva dei
problemi, dall’altro una fiducia to-
tale e acritica nel progresso delle
neuroscienze. Ma - si può obiettare - c’è la preparazione dei medici
e la deontologia? Vero, però consideriamo due aspetti.
Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da
una ricerca finanziata dalle multinazionali e da un aggiornamento
gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall’altro,
guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare
in termini di sintomi e in cui - mi si
permetta di esagerare - le emozioni rischiano di essere considerate
«tempeste chimiche».
Manca solo un passaggio, ormai
ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della
fiducia nella scienza, un modello
di mondo dove è bandito il dolore,
dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma - al
contrario - dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi
spianare le rughe, livellare l’addome, rimodellare il seno, le labbra,
il naso e via discorrendo. E se per
caso c’è un incidente di percorso
allora via con la soluzione magica
del farmaco!
Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare
la sofferenza significa negare la
compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per
tutti di reclamare i diritti negati.
Intendiamoci: non nego l’utilità
dei vari psicofarmaci (si veda la tabella), che io stesso uso e anche
con buoni risultati. Quello che mi
spaventa è l’uso improprio delle
categorie diagnostiche non tanto
da parte degli psichiatri, che al
massimo si adeguano, ma dalla
«costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore
con la malattia, a scindere la sofferenza dal neurotrasmettitore chi-
MISSIONI CONSOLATA
mico in difetto, a isolare la malattia del singolo dalla crisi della società in cui ci muoviamo e della
quale siamo impregnati.
E allora si ricorre in maniera sempre più massiccia agli psicofarmaci, che, tra l’altro, hanno costi sempre più elevati, non giustificati dai
miglioramenti, peraltro inoppugnabili (non tanto in termini di efficacia, quanto in termini di minori effetti collaterali).
OLTRE I PREGIUDIZI
E GLI STEREOTIPI
Piccola riflessione: e se in psichiatria invece di parlare solo di
guarigione imparassimo a parlare
di qualità della vita?
Lo psichiatra allora non è più il
professionista della sofferenza, così come la sofferenza non è più
una malattia di cui quasi vergognarsi, ma un bagaglio della grande valigia della vita. Allora un altro
concetto è importante: quello di
evitare le categorie, le generaliz-
zazioni.
In quest’ottica non esistono più
gli schizofrenici e gli psichiatri, i
depressi e gli infermieri, i disturbi
di personalità e gli psicologi, ma
persone diverse che fanno la medesima professione o che hanno la
stessa malattia.
In questo modo, possiamo meglio realizzare la soggettività di
ciascuno, premessa importante
per poter continuare ad esistere
agli occhi degli altri in quanto individui con la nostra unicità fatta
di biologia, di costituzione, di temperamento, ma anche di incontri,
di esperienze e storie che nessun
altro ha uguali alle nostre.
Così parleremo di persone che
esercitano la professione di medici o di infermieri, così come parleremo di persone ammalate di schizofrenia o di depressione e questo
ci permetterà di evitare generalizzazioni che sono alla base dei pregiudizi e degli stereotipi: «gli schizofrenici sono violenti e imprevedibili», «gli psichiatri sono
eccentrici e particolari». Modalità
per impedire il reale incontro con
l'altro che è la grande magia della
vita, anche quando la generalizzazione è in positivo tipo: «i matti
hanno un'intelligenza e una sensibilità eccezionali» o «gli psichiatri
sono studiosi e profondi».
Scopriremo così che esistono
psichiatri simpatici e altri antipatici, schizofrenici intelligenti e no,
infermieri spiritosi ed infermieri
noiosi, matti generosi ed altri gretti.
Allo stesso modo occorre riflettere insieme sullo stato di salute
del mondo in cui viviamo, con le
sue devastazioni ambientali,i cibi
adulterati, l’aumento della povertà, la crisi industriale, i conflitti
etnici e religiosi, le guerre preventive perché, come diceva il psicoanalista James Hillman nel suo
libro dal titolo provocatorio «Cento anni di psicoterapia e il mondo
va sempre peggio» (8), non si può
non far entrare nella stanza della
terapia quello che succede fuori,
se no si rischia di promuovere una
cultura solipsistica, di ripiegamento su se stessi che è già il grande
dramma della nostra società occidentale così impregnata di narcisismo e quindi di perdita di contatto con il proprio sé più intimo e con
la dimensione empatica verso l’altro.
Evitiamo anche, per quanto possibile, di chiuderci nelle nostre specificità, impariamo a promuovere
la cultura della mescolanza e della
curiosità per le differenze degli altri, insieme al rispetto nel piacere
della reciprocità.
Bisogna poter procedere nella direzione della condivisione consapevole, insieme alla scoperta che,
come con amici abbiamo ripetuto
in quella meravigliosa esperienza
che è stato, nel 2002, il primo forum piemontese itinerante della
salute mentale: «La psichiatria non
è solo il luogo tetro della sofferenza e della solitudine, ma anche il
luogo dove recuperare solidarietà,
senso d'appartenenza e capacità di
provare piacere!».
Non a caso il sottotitolo del forum, più come augurio che come
provocazione, recitava «Divertirsi
insieme è terapeutico!».
L'operatore della salute, lo psi-
Al «Centro diurno» di via Leoncavallo 2,
a Torino.
MC GENNAIO 2006
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DOSSIER
Al «Centro diurno» di via Leoncavallo 2,
a Torino.
chiatra in particolare secondo le
rigide gerarchie del sogno fasullo
del neoliberismo, non è quindi il
dispensatore di formule scientifiche o di ricette che allontanano il
dolore con una pastiglia (meglio
se costosa) quanto piuttosto un
compagno di strada nella costruzione di percorsi individuali e collettivi. Per andare dove? Verso il
migliore dei mondi possibili, quello dove le differenze siano ricchezze e non ostacoli e dove, come recitano gli indigeni dell’Ezln
messicano per bocca del loro portavoce, il subcomandante Marcos,
si possa «camminare al passo degli ultimi», dove «si cammini domandando» per arricchirsi nel
confronto e non irrigidirsi sulle
proprie convinzioni e dove si eserciti il «comandare obbedendo»,
perché chi ha una posizione di potere deve obbedire ai bisogni di
chi sta sotto e lo ha eletto come
portavoce.
È un’utopia quella di un mondo
che contenga tutti i mondi, come
affermano gli amici zapatisti?
Bisogna essere dei «visionari
pratici», come dice Alberto Oliveira, il giovane psicologo che nel
«Borda», il gigantesco e fatiscente manicomio maschile di Buenos
Aires, è riuscito ad aprire una radio che ormai trasmette su scala
nazionale in tutta l'Argentina e
che ha succursali in America Latina, ma anche in Europa, (compresa l’esperienza di «Radio 180», a
Mantova).
In questo periodo di crisi dello
stato del benessere (welfare state) e di congiuntura internazionale (di cui l’immigrazione, la disoccupazione e la perdita del tes-
30
MC GENNAIO 2006
suto sociale rappresentano alcuni degli epifenomeni), le istituzioni sociali sempre più hanno dovuto prendersi cura di ciò che la
base sociale non riesce ad affrontare.
Allora, se lo stato del benessere,
«costruito» per rispondere a bisogni primari, è da sempre costretto ad occuparsi di ogni cosa, non
viene difficile immaginare come in
tempo di crisi, il pronto soccorso
di un ospedale pubblico possa diventare il contenitore di tutti i disperati e gli emarginati, portando
problematiche extra-cliniche che
funzionano da ulteriori stressors
su di un personale già al limite del
collasso.
Ecco, perché non è pensabile
che l’équipe del pronto soccorso,
soprattutto il personale infermieristico, non abbia uno spazio continuativo e regolare dove provare
a metabolizzare i vissuti e le difficoltà, reali e simboliche: intendo uno spazio di supervisione
psicologica.
Dal momento che non esistono
le competenze umanitarie, che
sono doti e bagaglio personale
che non s’imparano sui libri, ma
nei banchi di scuola della vita, ritengo che la professionalità dello psichiatra in queste situazioni
consista nella capacità di orizzontarsi nel groviglio emozionale, lavorando, come si dice in linguaggio tecnico, sul «controtransfert».
Nel carico di angoscia io devo
capire quale emozioni passano
per la testa della persona che ho
di fronte, perché solo così posso
capirne i bisogni e la risposta ad
essi.
Per fare questa operazione io
devo però discriminare tra ciò che
appartiene a me e ciò che appartiene all'altro: se percepisco rabbia, è legata al mio modo di sentire o è veramente quello che mi
passa l’altro? E ancora: è una rabbia destata dal comportamento
della persona di fronte a me che
evoca miei problemi o è rabbia
che appartiene davvero a lei?
Per esemplificare, se io sento di
avere un problema con la sottomissione e l'incapacità di farmi le
mie ragioni, una persona con gli
stessi meccanismi, mi scatenerà
una rabbia e un fastidio incredibili, perché funziona da specchio
per qualcosa di mio che non voglio accettare, anzi che nego con
forza.
Se io invece fossi in grado di accettarmi per quello che sono, o se
per lo meno sapessi il mio modo
di funzionare in senso psichico,
potrei confrontarmi con un problema analogo portato da un'altra
persona senza scaricare su di lei
la rabbia e l'odio per quella parte
buia di me che non accetto al punto di non vederla neppure.
Pertanto, la capacità di analizzare il mosaico emozionale attribuendo a ciascuno la sua parte
(per quanto possibile, non stiamo
parlando di operazioni puramente tecniche, c’è sempre la contaminazione del nostro essere
umani) permette una partecipazione «ripulita», ma empatica al
dolore delle persone che chiedono aiuto alle mie specifiche competenze.
Ovviamente l'aspetto tecnico è
comunque secondario a quello
umano: il dolore è un luogo di assoluta solitudine, al quale potersi
avvicinare con il dovuto rispetto,
ma senza la paura paralizzante.
L’ANSIA DI VIVERE
(E DI POSSEDERE)
Il nostro stile di vita è purtroppo
sempre più centrato sull’affermazione e sull'efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e
la morte.
L’ansia di vivere e di possedere
ci rendono sempre più fragili di
fronte al nostro e altrui dolore.
MISSIONI CONSOLATA
Questo materialismo che non voglio etichettare (dategli la connotazione che preferite) ci ha tolto la
capacità di assumerci il peso del
dolore degli altri: per non vedere il
fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello
di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica.
Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, lo psichiatra in
questo caso, che con il suo sapere
rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo.
Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati
o estroversi o solitari o generosi o
avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della
classe o incapaci e l’imperativo
sarà sempre e solo «essere all’altezza, sempre e comunque, costi
quel che costi».
E allora anche il confronto con il
dolore dell'altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare
di essere all'altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure
perché rischieremo di entrare in
contatto con la nostra piccola, fragile umanità.
Il nostro bagaglio professionale
ci può e deve aiutare, quello che
importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione»,
nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l'angoscia di
morte che ne deriva.
Possiamo evocare la pietas cristiana o citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio
più laico come Che Guevara nella
lettera ai figli («occorre che sappiate sentire la sofferenza di ogni
uomo come se fosse la vostra»).
Certo è che dobbiamo ritrovare un
senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione
di pensare che lo psichiatra è lo
«specialista della sofferenza».
chiatria rispetto a quello che succede nel mondo (9).
Nell’ottica neoliberista, colpire
i deboli non è un progetto, quanto la logica conseguenza di un
modello che riduce a merce qualsiasi cosa.
Come insegnano gli amici boliviani, l’acqua non è una risorsa
IL
(termine che sottende la possibilità di mercificare) quanto un bene comune e come tale da condividere con solidarietà e nel rispetto di tutti.
Difendere la legge 180 (10) e la
psichiatria pubblica significa, pertanto, difendere lo stato sociale,
ma è anche importante capire co-
DISAGIO IN FARMACIA: ALCUNI FARMACI
TIPOLOGIA
NOME
antipsicotici (neurolettici)
Serenase
Deniban
Clopixol
Neuleptil
Zyprexa (A)
3,00 (gtt)
12,60 (12 cp)
9,95 (gtt)
1,76
147,94
antidepressivi
Sereupin (A)
Prozac (A)
Entact (A)
Elopram (A)
19,00
23,60
29,20
14,00
(28 cp)
(28 cp)
(28 cp)
(28 cp)
ansiolitici - ipnotici
Xanax
Lexotan
Valium
Tavor
10,25
7,20
7,40
6,30
(gtt)
(gtt)
(gtt)
(gtt)
COMMERCIALE
COSTO
IN EURO
(A: sono farmaci mutuabili; quelli elencati sono soltanto alcuni dei farmaci in
commercio; in foto, due «stabilizzanti dell’umore»)
PSICOFARMACI - Gli psicofarmaci sono medicamenti che, con diversi meccanismi
d’azione, modificano sia in senso depressivo sia stimolante l’atteggiamento psichico dell’individuo. La loro introduzione in terapia ha esercitato un’influenza rivoluzionaria sul trattamento delle malattie psichiche, agevolando notevolmente la
cura e la risocializzazione dei pazienti.
Gli psicofarmaci possono essere classificati in:
1) «deprimenti» del Sistema nervoso centrale (detti «psicolettici»), che si dividono
in 2 grosse categorie:
- ansiolitici (tranquillanti minori) che, oltre all’attività ansiolitica e muscolo-rilassante, sono in grado di indurre il sonno;
- neurolettici (tranquillanti maggiori) o antipsicotici, che sono impiegati nel trattamento della schizofrenia cronica, nei soggetti con allucinazioni, turbe psichiche e
movimenti incontrollati;
2) «stimolanti» del Sistema nervoso centrale (detti «psicoanalettici»), che includono:
- antidepressivi, che rasserenano l’umore
- psicostimolanti, dalla caffeina alle anfetamine.
SEROTONINA - È un neurotrasmettitore chimico che, tra le molteplici funzioni, controlla le reazioni emozionali e regola il ritmo veglia/sonno. Bassi livelli di serotonina nel cervello aumentano il rischio di depressione.
- a cura di Giuseppina De Cesare, farmacista -
FERMARE LA DERIVA VERSO
LA MEDICALIZZAZIONE
Se la legge 180 era stata resa
possibile dai fermenti di quegli anni e dalle lotte politiche degli anni
’60-’70, inserendosi nel medesimo
filone, è ora importante «contestualizzare» la situazione della psi-
MC GENNAIO 2006
31
DOSSIER
me farlo per essere al passo dei
tempi anche nelle lotte.
Quello che stiamo imparando
dal movimento dei movimenti è la
necessità di unirsi per «cambiare
il mondo senza prendere il potere». Come farlo? Creando un mondo dove fare incontri per scambiare identità e per mescolarsi,
contaminarsi e conoscersi, scambiare esperienze e opportunità tra
diversi che siano uniti da due sole discriminanti ferree: «no» alla
guerra e «no» all’esclusione crea-
ta dal modello neoliberista. Mentre il modello alternativo deve cercare di rispondere alla filosofia
del «pensare globalmente, agire
localmente».
Pertanto, pur tenendo conto
delle differenze tra i vari dipartimenti di salute mentale, risulta
chiara l’importanza di contrastare il pericoloso restringimento del
concetto di cura sul versante medico-biologico, mentre il resto viene declassato a contorno.
Un recente studio di Emanuela
Storie ed esperienze torinesi
QUANDO LA PSICHIATRIA
PERCORRE ALTRE
STRADE
Le strutture di salute mentale sono troppo
spesso scollegate dalla cittadinanza.
Ciò favorisce l’espulsione e l’indifferenza.
E, nel contempo, deprime la solidarietà.
Per questo, a Torino, un gruppo di
operatori ha tentato di agire concretamente
per far cambiare l’«immaginario collettivo»
della follia.
E, nonostante le inevitabili difficoltà, i
risultati non sono mancati...
uesta è la storia di un progetto che potremmo chiaQ
mare «Il Kiosko, il Cafè Neruda e altre meraviglie».
La nascita del progetto. Un bel giorno di alcuni anni fa
con due amici psichiatri, Tiraferri e Braccia, si discuteva
sulla necessità di aprire nuovi sbocchi ad una psichiatria,
la nostra perlomeno, in debito d’ossigeno, priva di creatività e massacrata dalla drastica riduzione delle risorse
legata alla crisi del «welfare state».
Ci dicevamo che quello a cui assistevamo era un sistema
che, 20 anni dopo la chiusura dei manicomi, aveva prodotto una «trans-istituzionalizzazione»: la creazione di queste piccole strutture «bonsai», gli ambulatori della salute
mentale, sortiva come unico effetto un atteggiamento di
delega rispetto alla gestione del benessere psichico. Non
si era quindi riusciti ad attuare quella saldatura con la comunità locale che era negli intenti, così di fatto gli ambulatori di salute mentale risultavano (e risultano tuttora)
ancora troppo scollegati dalla cittadinanza, rendendo difficile il lavoro di prevenzione e di inclusione. Ne sono derivati una cronicizzazione di comportamenti passivi e richiedenti, nonché uno scollamento dal tessuto sociale,
elementi che hanno favorito atteggiamenti espulsivi o di
indifferenza, perdendo due formidabili fattori spontanei
di terapia: la solidarietà ed il senso di appartenenza.
Quello che ci proponevamo era quindi di favorire un processo di riconoscimento e supporto alle reti informali della solidarietà primaria (amici, vicini, parenti) e secondaria ( volontariato, associazionismo, etc.), favorendo la costituzione di una comunità «competente», ovvero in grado
di attivare le proprie risorse e capacità di fronte ai problemi che si trova ad affrontare, in questo caso nel cam-
32
MC GENNAIO 2006
Terzina, ricercatrice presso il dipartimento di epidemiologia clinica dell’Istituto Mario Negri ci dimostra come a livello predittivo la
diagnosi conti relativamente poco sulla prognosi (5%), a confronto con la presenza di una rete sociale che incide per il 35% sull’andamento della malattia.
La ricerca scientifica, totalmente
in mano alle multinazionali e all’università, deve spostare l’interesse
sulla formazione, fermando la deriva verso la medicalizzazione.
po della salute mentale. Con un gruppetto di infermieri
nel 1998 abbiamo organizzato una festa di quartiere presso la polisportiva Centrocampo di via Petrella. Al termine dell’evento, abbiamo organizzato un corso di informazione che, nel marzo del 1999, ha portato alla nascita dell’associazione VOL.P.I. (Volontari psichiatrici
insieme).
Il coordinamento tra volontari ed operatori ha permesso
una serie di iniziative (uscite serali, mercati per vendere
le opere prodotte al Centro diurno, soggiorni estivi), ma
nel tempo alcune fortunate occasioni ci hanno consentito di sviluppare un percorso più articolato, partito da queste riflessioni:
1. quando la persona colpita da malattia psichiatrica è in
fase di compenso clinico, occorre dargli la possibilità di
fare esperienza della e nella vita, mentre troppo spesso
la malattia lo porta ad un isolamento sociale ed affettivo;
2. è necessario riattivare il sentimento dell'identità collettiva veicolandola con la riscoperta del piacere dell'aggregazione intorno a obiettivi condivisi e di cui sentirsi
tutti protagonisti;
3. è fondamentale lavorare sul pregiudizio rispetto alla
malattia mentale, favorendo la mescolanza e la prossimità che portano allo scambio di identità;
4. occorre ritrovare un ruolo sociale attraverso una vera
riabilitazione che consiste, all’interno di strutture specialistiche, nell’apprendere nuove abilità o nel recuperare
quelle perse con l’insorgere della malattia, per poterle poi
trasferire all'esterno come competenze lavorative.
A quel punto è nato il progetto «Catering», che recava in
sé le riflessioni sopra elencate, nell’intento di affrontare
la psichiatria come lo spazio dove recuperare solidarietà,
creatività e senso di appartenenza. Appariva riuscito,
quindi, il tentativo di far percorrere dalla psichiatria una
strada alternativa al disagio e alla sofferenza.
IL GRUPPO CATERING OVVERO «IL PRANZO È SERVIITO»
È nel 2001 che, grazie ad un finanziamento ottenuto mediante un bando, alcuni operatori insieme a dei volontari Vol.p.i. decidono di allestire un progetto definito «Il
pranzo è servito».
Il progetto risulta così strutturato: 8 persone vengono affidate ad un cuoco-tutor che per due mesi lavora per affinare le capacità culinarie dei pazienti. Divisi a rotazione in camerieri e cuochi, gli 8 pazienti preparano quindi
tre pasti a settimana presso il Centro diurno, pasti ai quali mediamente partecipano una ventina di persone. L’esperienza viene replicata l’anno successivo fino a quando, nel giugno 2003, si tiene la prima cena aperta all’esterno: poiché «Amnesty International» sta conducendo
una campagna sulla terribile situazione dei manicomi bulgari, noi proponiamo di tenere una conferenza presso il
Centro diurno con un pasto interamente preparato dal
nostro gruppo Catering (8 pazienti, 2 operatori, 6 vo-
MISSIONI CONSOLATA
La rivisitazione del paradigma
di malattia in psichiatria deve ricordarci quanto avvenuto, per
esempio, rispetto alla tubercolosi, ove le abitazioni insalubri sono state individuate come imporA lato: la cucina del Centro diurno,
dove si preparano i pasti per il Servizio catering, che porta il nome
suadente de «Il pranzo è servito».
Sotto: la tavolata imbandita dal Servizio catering in occasione di un
ma per i pazienti sono il tramite per dei piccoli lussi: una
bibita quando si esce la sera o la possibilità di offrire un
caffè ad amici, parenti, operatori. A febbraio il freddo torinese taglia il volto ai pazienti, ma nei loro occhi continua a leggersi la volontà di essere presenti, e di fronte al
cedimento di un volontario sono quegli stessi occhi a far
sentire un pò meno il freddo...
lontari) al prezzo concordato di 10 euro. Inizia quindi il
percorso di mescolanza, e gli ottimi esiti ci inducono a
proseguire e potenziare il progetto, fino al riconoscimento
della società italiana di psichiatria, che nel giugno 2004
ci affida il buffet per un convegno che prevede la partecipazione di oltre 200 persone.
Contestualmente iniziano le cene bimensili presso «Cafè
Neruda« e «Casseta Popular« (storici circoli Arci di Torino), che mettendo a disposizione dei pazienti la cucina,
consentono l’affinamento delle abilità e della compattezza del gruppo, unitamente ad un notevole aumento dell’autostima da parte dei pazienti. La testimonianza diretta dei fruitori delle cene (60/70 ad evento) ha consentito un cambiamento nell’«immaginario collettivo della
follia», vissuta non solo più in termini di pericolosità o imprevedibilità, ma anche come una malattia dietro la quale si celano personalità e risorse da scoprire.
IL KIOSKO
Novembre 2003, fa freddo a Torino. Siamo in una stanza della Circoscrizione 6, a discutere con una serie di associazioni su di un progetto di riqualifica della nostra periferia.
Seduta al tavolo con me c’è anche Maria Grazia, presidente delle Vol.p.i. In questa sede giunge la proposta di
affidarci in gestione il bar della polisportiva Centrocampo e, nel marzo 2004, parte subito l’esperienza: dal lunedì al sabato dalle 16 alle 24 e la domenica dalle 8.30
alle 13.
Dietro il banco un membro Vol.p.i. (ruotano in una dozzina) e due pazienti (una quindicina). Le regole di convivenza si decidono nel gruppo lavoro che si tiene ogni giovedì e i compensi vengono erogati in base agli incassi e
alle ore lavorate. Il Kiosko diventa luogo di aggregazione: si mettono dei tavolini all’aperto e il sentore di autentica mescolanza appare forte.
Il nuovo progetto Kiosko si muove nella direzione giusta.
A molti le somme guadagnate sembrerebbero irrisorie,
IL CAFÈ NERUDA
È in quello stesso locale dove fummo ospiti col progetto
Catering, che nel 2004 prende l’avvio il terzo progetto
delle Vol.p.i.: il proprietario del locale ce ne offre la gestione nel suo complesso. Tra mille difficoltà, il 29 settembre siamo pronti: dietro il bancone non solo più membri Vol.p.i. e pazienti, ma chiunque sia interessato al progetto e abbia abilità da condividere.
Obiettivi dell’attività sono, come sempre, la promozione
dell’autonomia dei pazienti mediante la creazione di un
lavoro che generi retribuzione, nonché il rafforzamento
delle relazione sociali. Fondamentale è il contenimento
della vulnerabilità legata alla malattia (per via della minor resistenza agli stress) attraverso l'organizzazione non
rigida dei turni né al Kiosko né al Neruda, mentre il collegamento con il gruppo di lavoro settimanale consente
l’elaborazione di problemi e vissuti così come la condivisione di gioie e successi.
Per i volontari Vol.p.i. l’esperienza rappresenta un modo per sentirsi co-protagonisti del miglioramento della
qualità della vita dei pazienti, così come era avvenuto anche per tutti gli altri progetti; per i pazienti, ancora una
volta, è un mezzo terapeutico: il lavoro che dà una retribuzione, che riempie qualche ora altrimenti vuota, che
consente di relazionarsi con l’esterno perché «diversi» sono loro per noi come noi per loro.
osì, sull’onda dell’entusiasmo dei pazienti, mi lascio
C
trasportare dai sogni e immagino che la risposta alla
crisi che tutto investe, possa essere per noi la creazione
di un’autonomia attraverso una ricerca creativa di lavoro, come le microimprese del Sud del mondo: le panetterie solidali, gli orti collettivi, i refettori popolari. Mi immagino tutti insieme nei nostri orti, nei circoli, nelle piazze, ma poi mi fermo perché il mio sogno non diventi un
delirio.
Da ottobre 2004 un altro circolo Arci, l’«Ornato di te», ci
consente di continuare il sogno mentre il Neruda è ormai
una parentesi chiusa dalla quale abbiamo imparato tanto ma che, sia pure a malincuore, abbiamo dovuto abbandonare... La complessità dei progetti gestiti talvolta
ingenera responsabilità e stress anche su noi operatori e
volontari, ma negli occhi dei pazienti sempre si ritrova la
forza per ricominciare a sognare.
UGO ZAMBURRU
(ha collaborato Nadia Greco)
MC GENNAIO 2006
33
DOSSIER
tanti tanto quanto l’agente patogeno.
IL MANICOMIO
È DENTRO DI NOI
Siamo partiti dal nostro ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano.
Siamo passati ai danni prodotti dal
neoliberismo su ogni aspetto della
vita e dunque anche sulla salute,
troppo spesso mercificata. Abbiamo parlato della trasformazione
della psichiatria e sulla sua eccessiva medicalizzazione, a scapito del
contesto, che invece è essenziale.
In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro
dividere il mondo in buoni e catti-
Note.
(1) La prima esperienza è stata tentata a Cochabamba, città boliviana di un milione di
abitanti in cui una multinazionale ebbe la gestione della rete idrico-fognaria e, senza tentennamenti, aumentò il prezzo delle bollette a 20 dollari al mese, quando il reddito medio è di 60 dollari. E con la chicca di una
legge ad hoc che vietava la raccolta di acqua
piovana per non danneggiare i profitti della
multinazionale statunitense...
(2) Consigliamo la visione di «Family life», un
film del regista Ken Loach, che, nonostante
gli anni, mantiene un suo profondo significato.
(3) Si veda il film «Matti da slegare» di Marco Bellocchio.
(4) Si veda il libro «Portami su quello che canta», storie di ordinario sadismo in manicomio e del coraggio di Pino e Vittorio che hanno testimoniato l'accaduto, due semplici infermieri psichiatrici contro il professor Coda
Al Centro diurno: la testimonianza
di una volontaria di «Volpi»
«Salve buonasera grazie
e arrivederci»
Il Centro diurno è un posto particolare
dove la terapia principale consiste nello
stare insieme per parlare, ascoltare, fare le
piccole cose della quotidianità.
Perché il pregiudizio e l’esclusione sociale
siano meno pesanti.
a follia di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del
L
«Barone Rampante» di Italo Calvino, trovava spazio in
un’infinita distesa di alberi, tra parenti facoltosi e impalpabili
storie d’amore con bionde chiome attraenti dai nomi di fiori
dolci e sottili.
Niente di simile per il «matto» dei giorni nostri. No, il
Centro diurno è una sede decisamente più terrena, così descrivibile: una piccola Asl un po’ speciale con dei pazienti
molto, molto colorati e le pareti in festa.
È strano entrare in questo ambiente apparentemente incolto,
disomogeneo e confusionario. È un flusso continuo di stimoli, appena si varca la soglia che vuole dividere i matti dai
normodotati. Il Centro diurno è un vulcano carico di personalità, malattie e realtà diverse, ognuna con la stessa dignità e
volontà di essere. Subito si viene investiti da mille domande,
travolgimenti emotivi e fisici, abbracci, strette di mano, saluti
più o meno calorosi, sguardi fugaci che scrutano il vestito del
nuovo arrivato le scarpe la borsa, nel tentativo di riconoscere
qualcosa di familiare e partecipare all’accoglienza del nuovo
venuto. Anna, vecchia e giovane ballerina del Balôn (mercato
popolare che raccoglie il più vasto panorama di differenze in
Torino), ti invita caldamente a ballare con lei, accompagnando la musica con ancheggiamenti e singolari passi di
danza... Paolo ti parla di quando era medico, che poi è diven-
34
MC GENNAIO 2006
e il sistema che gli stava alle spalle, ma alla
fine Coda è stato condannato.
(5) Per non parlare dei modelli alimentari alla McDonald’s, per i quali consiglio la visione del film «Supersize me», che racconta di
un giornalista che per un mese mangia solo
da McDonald’s, ingrassando a dismisura e ritrovandosi con esami del sangue da paura,
veramente a rischio di vita.
(6) Luigi Bobbio. «Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza. Medici e industria», Einaudi 2004.
(7) Informatore anonimo, «La Mala Ricetta.
Dieci geniali mosse del marketing farmaceutico», Fratelli Frilli Editori, Genova 2000.
(8) Per Raffaello Cortina Editore, 1998.
(9) E in Italia... Qualche tempo fa, sono usciti gli indici dei consumi nel nostro paese e
saltava agli occhi che negli ultimi 2 o 3 anni
è raddoppiata la vendita di Ferrari e quadruplicata quella delle imbarcazioni oltre i 14
metri... Dati che fanno pensare, se paragonati ai «nuovi poveri» che si stimano sull’or-
tato alcolista, ma ora ne è uscito e vorrebbe un lavoro, sinonimo di dignità e normalità; mentre mi parla sento forte il suo
alito di birra, e non capisco se parli di ex alcolismo per convincere me o se stesso. Poi c’è Irma, non parla tanto, quanto
basta per lamentarsi di 248 euro di sussidio che non possono
essere sufficienti per chi ha la pretesa di fare due pasti al
giorno.
Come loro mille altri, desiderosi di raccontarsi e dividere un
pò la noia degli stessi problemi di sempre...
l Centro diurno è uno spazio piccolo, adatto ad un amIfanno
biente familiare, dove poco più di 40 persone al giorno
pranzo e cena, mentre altre 20 si alternano nelle attività
che scandiscono le giornate di molti di loro.
Nell’aria si respira calore, l’ambiente, spoglio e un po’ trasandato, trova vita negli occhi di medici e operatori, che più che
un mestiere paiono aver scelto una vocazione... Qui ognuno
si racconta attraverso un vestito, una mania, un movimento
fisico ricorrente, un tic ossessivo... E il Centro si riempie di
rumori e silenzi che si alternano secondo una disordinata sequenza. E tutti trovano qui il proprio spazio, più o meno
confortevole, nelle attività terapeutiche, nei gruppi lavoro,
nello sport, nel gruppo lettura, nello «spazio Donna»... Sì,
perché qui come altrove le donne sono uguali e diverse da
tutte e parlano di amore, di sensazioni fisiche, di sesso e dei
problemi di tutte le donne, forse non di cellulite e make-up,
ma qui tutti i mesi bisogna confrontarsi con le difficoltà economiche, con i pregiudizi e con gli psicofarmaci, e il tempo
per le follie moderne manca.
Sui volti di molti di loro il tempo si è fermato e alle volte la
sensazione è che abbia vinto la loro natura puerile, come confrontarsi con eterni bambini, pensieri confusi (apparentemente incomprensibili) e capricci, e nell’essersi fermato è il
tempo stesso che gli infligge l’eterna condanna ad essere diversi, incompleti, incompresi, ignorati.
Tutto parla di loro nel Centro, i disegni dell’arte terapia, qualche trofeo sportivo, i colori, i rumori e la musica, variegata
come loro; arrivare in questo spazio pieno di diversità induce
a ritrovarsi e a cercare di esprimersi.
Ogni gesto qui si carica di culto, apparecchiare la tavola diventa una tappa del percorso di crescita e di cura, in esso ri-
MISSIONI CONSOLATA
dine dei 6-7 milioni, ovvero il 10-11 per cento degli italiani che non riesce ad arrivare alla fine del mese, e ancora più inquietanti se
letti nella prospettiva di un governo che vuole creare stati fortezza (legge Bossi-Fini sull'immigrazione, sino alle dichiarazioni leghiste sulle cannonate alle navi che trasportano disperati in fuga), ma soprattutto
colpire al cuore i più deboli attraverso proposte di legge come quella sulla tossicodipendenza.
(10) Giace in Commissione parlamentare la
proposta Burani Procaccini sullo smantellamento della legge 180 in ambito psichiatrico.
(11) Cosa sono gli attuali Cpt, i famigerati
«Centri di permanenza temporanea» per immigrati, se non una moderna versione dei
manicomi?
A lato: un banchetto dell’associazione «Volpi» per le vie di Torino; è
una maniera per autofinanziarsi.
siede la consapevolezza degli altri, del numero di commensali
che dividono con te il pasto, e la conta delle posate e dei bicchieri diventa uno dei mezzi attraverso cui recepire l’«altro»,
in una costante lotta contro l’individualismo, l’alterazione patologica persistente del nostro sistema che vive e si nutre del
culto di sé e dei propri oggetti.
avide passeggia ininterrottamente lungo il corridoio
del Centro diurno (qualche metro invero!), e quando
qualcuno esce saluta cordialmente con un «Salve buonasera
grazie e arrivederci», secondo una formula che è difficile ricondurre a questioni di mera rigida educazione... Come
Gianfranco che comunica con tono alto e a tratti imponente, muovendo ricordi che spaziano probabilmente ben
più lontano di quanto alcuni di noi sappiano fare (spesso
per via del timore di ridare vita a speranze perdute e a volti
senza rughe sinonimo di libertà e ricchezza...), e se vuole
parlare parla, indipendentemente dalla presenza o meno di
un interlocutore; nessuna distinzione apparente tra il sentire
e l’ascoltare (qualcuno si è riconosciuto?), così io parlo con
Simonetta, un’infermiera minuta con gli occhi pieni della
storia di ognuno di loro, lui mi guarda e dice: ”l’acqua potabile di Pecetto, è ancora potabile anche se prima era l’acqua
del mago dei fiori, ora non più ma adesso è ancora buona” e
in una impalpabile alienazione intima, mia personale evidentemente, ritrovo una strana sensazione di comunione col
mio mondo. Più comprensibile e forse più significativa dello
stesso straniamento di fronte ad una scatola nera che parla
ininterrottamente nell’infimo tentativo - certo non del tutto
fallito... - di omologare istupidire generare ignoranza o artefatte forme di conoscenza, e la spiccata propensione alla solitudine trionfa incontrovertibilmente.
Una giornata al Centro diurno: una tensione costante verso
il tentativo di comprendere la logica di un saluto troppo
complesso e tortuoso, di un mago dei fiori che forse appartiene ai suoi ricordi e riemerge casualmente o forse no.
Amo pensare che nei meandri complessi e talvolta ingestibili della loro mente si celi una logica illogica, o una logica
incomprensibile, o una illogicità talvolta eccentrica e creativa... guardare e vivere i matti è come essere affetti da una
miopia in cui si cela la difficoltà a capire se il mondo vero è
quello con gli occhiali o senza, se i due mondi sono affini e
D
complementari e in quali di questi la dimensione umana
trovi più libertà e autonomia.
ssere matti vuol dire sentire le voci e non riuscire a libeE
rarsene. Essere matti vuol dire avere le allucinazioni e
rasentare in preda ad esse talvolta anche la violenza.
Essere matti vuol dire vivere la diversità come una condanna in una ricetta medica, in un sorriso mai rubato, nella
vergogna di essere fruitori di sussidi. Essere matti vuol dire
anche subire un decadimento fisico, perché gli psicofarmaci
rovinano i denti, fanno cadere i capelli e spesso inibiscono
l’atto sessuale, riducendo drasticamente la possibilità di
condurre una vita normale, un lavoro, una famiglia, dei figli.
Essere matti vuol dire spesso essere identificati con la violenza e subire la vergogna e il pregiudizio della diversità
come elemento negativizzante. Essere matti vuol dire essere
vittime, per ragioni di familiarità o meno, di una fra le malattie più invalidanti socialmente.
Ma essere matti vuol dire anche essere stati fra i più grandi
produttori di arti e musiche di tutti i tempi, nelle espressioni più acute ed esasperate della dimensione interiore.
Essere matti vuol dire anche forse vivere un autentico culto
della differenza nelle sue forme più deliranti e creative,
come un viso struccato nell’esasperante tentativo di sembrare ciò che si è, come un colore sbagliato in un disegno
sbagliato, come un discorso sconclusionato in una stanza
vuota o in una strada piena ma ugualmente vuota....
Essere matti, forse, vuol dire anche pensare che un domani
un matto possa essere considerato un malato come tanti,
come un insulino-dipendente, come un ventenne che trascorre le proprie giornate a lasciarsi vivere dalla Tv, come
un malato di Aids, come un portatore di bypass.
Se così fosse, allora domani vorrei svegliarmi in un mondo
di matti, dove le malattie non siano più un virus che si trasmette con una stretta di mano, ma un infelice evento nella
vita degli altri che induca quantomeno a rispettarli e forse
anche a diventare noi stessi un tramite per la tanto agognata
«normalità», come uno stipendio per un cassaintegrato Fiat,
la televisione spenta per la nuova generazione, uno spazio
caldo per un mendicante a rischio assideramento.
NADIA GRECO
MC GENNAIO 2006
35
DOSSIER
L’esperienza della cooperativa «Agape» (1)
RIAFFERMARE IL
«VALORE DELLE PERSONE»
È più di una «convivenza guidata». È un’esperienza di «welfare comunitario», che va oltre la
pura cura e riabilitazione. Avviene ad «Agape, Madre dell’accoglienza», una comunità laica
ma con una forte impronta evangelica.
DI
N
ella riabilitazione psichiatrica il concetto di «convivenza guidata» in una prospettiva educativa e cognitivoemozionale riveste, in alcuni
passaggi del processo psico-socio-riabilitativo, un ruolo centrale nello sviluppo dei processi
di autonomia.
La possibilità di affrontare
esperienze emotivamente intense di convivenza familiare e di
avvio ad esperienze lavorative e
di autosufficienza nella gestione
quotidiana della vita, in una casa
e in un contesto «normali», è un
passaggio fondamentale. È una
tappa indispensabile nel percorso di soggetti con storie di disagio, desocialità, marginalità
istituzionale, o con disturbi del
comportamento e della personalità in fase di iniziale compenso.
Attraverso di essa le persone affrontano, in una condizione esistenziale ed abitativa «normale»,
le difficoltà dell’autosufficienza e
dell’«empowerment» personale.
RISORSE, NON PESI
Le diverse linee di intervento
progettuali-individuali, fanno riferimento alla necessità di riaffermare il concetto di «valore
delle persone».
Riaffermare il valore vuol dire ricostruire strumenti di aiuto che
permettano di riscoprire le persone deboli come una risorsa e
non come un peso. Il luogo presso cui alloggiano gli individui è, a
tutti gli effetti, una casa, un’abitazione rurale o urbana dove convivono, badando quasi autonomamente ai propri bisogni logistici, da 5 a 10 persone supportate
da alcune figure educatoriali e
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MC GENNAIO 2006
psicologiche. Questi ospiti provvedono a tutti i momenti della
quotidianità come i pasti, la pulizia, la manutenzione degli spazi.
Inoltre, almeno per una parte di
loro, è possibile partecipare ad attività lavorative e/o di formazione
in campo agricolo e zootecnico
biologico, silvo-colturale e di tutela del territorio nell’ambito di
una cooperativa sociale.
Il modello di riferimento per la
organizzazione si rifà al concetto
di un «comunitarismo forte»
senza escludere gli aspetti professionali e deontologici delle attività proposte, delle «tecniche»,
dei saperi e del «saper fare».
ALESSANDRO MELUZZI
L’obiettivo è certamente quello di
un pieno recupero dell’autonomia personale, del godimento
dei diritti e della «cittadinanza»,
in stretta integrazione con l’équipe territoriali e del sociale,
per la costruzione di un vero
«welfare comunitario».
Quando parliamo di welfare
non ci riferiamo solamente alla
tutela delle fasce più deboli, ma
al fine fondamentale che è
quello di valutare l’insieme dei
rapporti e la qualità dei processi
di integrazione che riguardano
tutti i cittadini. Esercizio dei diritti civili e sociali, giustizia sociale, parità delle opportunità,
MISSIONI CONSOLATA
Comunità «Agape, Madre dell’accoglienza»: «tutti insieme, appassionatamente».
consistenza e qualità delle relazioni tra le persone, valorizzazione delle risorse dei singoli,
questi sono i contenuti del «welfare». Non sono solamente le risorse economiche che concorrono alla produzione del nostro
«welfare», ma sono soprattutto
le risorse umane autonomamente impiegate dai singoli individui, dalle famiglie, dai gruppi a
determinare una migliore qualità
della vita e quindi maggior benessere. Pensiamo soltanto all’importanza delle attività di cura
e educazione, ai flussi relazionali ed affettivi che vengono garantiti dalla famiglia, dalla solidarietà diffusa sul territorio, al
vicinato, all’impiego capillare e
determinante del volontariato in
alcune gravi situazioni di emarginazione sociale e di sofferenza. Queste risorse umane
sono l’ossatura principale del
nuovo «welfare».
Parliamo di convivenza in fraternità, pur tra i diversi carichi
da sostenere, secondo un’ispirazione che si può definire «monastica», dove gli operatori e i cosiddetti utenti camminano insieme. Condividendo, sia sul
piano del progetto di vita, sia su
quello dell’affettività e delle
emozioni, un’ispirazione che si
definisce giorno per giorno, in
un dialogo di crescita e conoscenza reciproca nella libera
proposta dell’annuncio evangelico.
L’ispirazione della comunità nel
suo progetto educativo è comunque laica e non confessionale,
perché tesa a valorizzare la ricchezza delle identità, delle pluralità e delle diversità, nell’ascolto
dei singoli bisogni, nel rispetto e
nella valorizzazione di tutte le
fedi, opinioni e posizioni, purché
rispettose della libertà, responsabilità amorevole e dignità dell’uomo e della donna.
RECUPERARE
L’AUTONOMIA PERSONALE
Nel quadro normativo vigente,
«Agape, Madre dell’accoglienza»
Onlus è da ritenersi in tutto e
per tutto una cooperativa di tipo
A, che gestisce specifiche e variate forme di residenzialità ria-
bilitativa centrate sulla persona.
Tutti gli inserimenti effettuati
nel percorso comunitario di
Agape sono da considerarsi rigorosamente «progetti individuali».
Sia che si tratti di percorsi definiti dal Dipartimento di salute
mentale di provenienza, sia che
avvengano nella dimensione di
accreditamento attuata con il comune di Torino e con alcune Asl
(1, 2, 3, 4) della regione Piemonte
per disabili comportamentali, valutati dalle Unità valutative handicap; sia che si tratti di doppie
diagnosi con relativo coinvolgimento dei servizi di tossicodipendenza e di algologia; sia - infine - che si tratti di soggetti inviati dall’autorità giudiziaria provenienti da case circondariali o
da Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), e sottoposti a misure
di sicurezza.
La compresenza di problematiche differenziate e variegate all’interno di uno stesso piccolo
nucleo abitativo-esperienziale, è
nella nostra valutazione più una
ricchezza che un problema. La
multiproblematicità e l’inclassificabilità all’interno della stessa
persona e tra persone, favorisce
a nostro giudizio le relazioni,
l’affettività, la complementarietà
solidale delle differenti e irriducibili storie personali. Una selezione spesso più burocratica o
casuale, che nosografica o razionale a nostro parere, separa artificialmente ciò che la vita, così
come gli spazi e i territori esistenziali e storici uniscono e
spingono all’incontro-confronto,
esattamente come in una famiglia allargata o in una comunità
evolutiva. Rimanendo nella lo-
gica di voler realizzare un «welfare» comunitario si realizzano
percorsi individuali di alta, media, bassa intensità inerenti a linee progettuali: formazione/lavoro, casa/habitat sociale, socialità/affettività.
Il budget di cura mira alla deistituzionalizzazione e al recupero dell’autonomia personale.
In questo modo si vuol sviluppare un programma di passaggio progressivo da forme prevalentemente sanitarie o di risposta in emergenza al bisogno socio–assistenziale a forme partecipate ed organiche al tessuto
sociale. Lo spirito che guida la
realizzazione di tali progetti è legato ad uno schema «fraterno»,
orientato da concetti etici e valori forti d’ispirazione cristiana,
secondo un modello educativo
ed emozionale intensamente comunitario, con valori dell’ecologia «profonda» e di un «umanesimo integrale», evocato dalla rivelazione e dalla sua profezia di
liberazione. La comunità anima
l’eucaristia nell’Abbazia di Santa
Maria di Vezzolano (tutte le domeniche alle 18.00), la scuola di
gregoriano, l’adorazione eucaristica, il laboratorio d’icone nel
corso della settimana, ed altri
momenti liturgici, culturali, formativi e artistico-espressivi.
Circa all’evoluzione ed alla
fuoriuscita dal percorso «Agape,
Madre dell’accoglienza», tendiamo a sottolineare che come
esperienza sia già in sé da intendersi come post-istituzionale e
post-psichiatrica,
rappresentando un laboratorio-atelier di
stili di vita comunitari, non necessariamente considerabili a
MC GENNAIO 2006
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DOSSIER
tempo, già oltre la marginalità e
la «diversità». Si sottolinea peraltro che parte di coloro che costituiscono l’anima del progetto
cooperativo sono del tutto autosufficienti produttivamente, e
non provenienti da esperienze
cliniche ed istituzionali, ma si
muovono in un ambito di scelte
di forte ispirazione valoriale di
tipo comunitario.
È scontato che, se coloro che
hanno esaurito l’esperienza risocializzante di Agape, intenderanno permanere all’interno di
questo disegno, come stile di
vita di welfare comunitario, la
cooperativa operante sul territorio come nicchia economica-sociale, dovrà dare il segno della
non sporadicità ed episodicità di
questo cammino.
Tendiamo quindi a configurare
un’ipotesi operativa di tipo sociologica ed antropologica di più
vasto respiro, rispetto alla pura
cura e riabilitazione. Piuttosto,
aspirazione ad una profezia che
si realizza, anche con il suo colore di utopia concreta e di sogno ben radicato nel reale.
UNA RETE
DI «CASE DI FRATERNITÀ»
Gli inserimenti abitativi sono
realizzati secondo le indicazioni
regionali, in piccoli nuclei in
rete, da noi definiti «case di fraternità», ove gli operatori sono
accompagnati nella quotidianità
e nei singoli progetti da operatori dipendenti con presenza
quotidiana diurna e notturna,
supportati da servizi centralizzati di terapia e riabilitazione
(medico-sanitari, psichiatrici,
psicologico-clinici, psicoterapeutici, pastorali) concordati con il
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MC GENNAIO 2006
servizio e inseriti nel progetto
individuale.
Il modello organizzativo a
«piccole case in rete», garantisce
- a nostro giudizio - il massimo
dell’umanizzazione e della personalizzazione, ma soprattutto
la percezione da parte di tutti
(ospiti, operatori, famiglie, servizi) che non si tratta di una piccola istituzione totale e neppure
di una «comunità protetta» per
post-acuti. Bensì ha tutti gli effetti di una casa, con una convivenza guidata e supportata, inserita armonicamente in una
rete integrata di persone, relazioni, affetti, organizzati anche
in molti momenti di attività comune tra i vari nuclei.
A partire dalla celebrazione eucaristica settimanale nell’Abbazia
di Vezzolano, animata regolarmente dalla comunità, seguita e
preceduta da momenti ludici di
festa e d’incontro, che coinvolgono anche volontari, famiglie,
amici.
LE PERSONE
Alla cooperativa aderiscono insieme, secondo schemi normativi vigenti, soggetti disagiati e
personale terapeutico ed educatoriale, realizzando esperienze
lavorative comuni in ambiti diversi e spesso attinenti alla valorizzazione agricola e naturalistica del territorio.
È previsto l’impiego del medico-psichiatra con funzione di
coordinatore del progetto, del
responsabile pastorale, dell’amministratore delegato, del consigliere responsabile della logistica, del consigliere responsabile delle relazioni istituzionali,
del supervisore etico, del responsabile dell’assistenza le-
gale, di psicologi responsabili
dei programmi riabilitativi e dei
progetti individuali, del supervisore esterno dell’organizzazione
dei progetti, e di animatori di comunità (operatore socio sanitario, educatore professionale, animatore sociale, formatori).
Abbiamo usato il termine animatore in quanto rende più comprensibile il ruolo delle persone.
L’animatore è un «operatore»
che nelle strutture guida i gruppi
nei processi evolutivi, gestendo
le loro dinamiche interne, stimolando la partecipazione ed il
coinvolgimento dei singoli. Sa
far emergere i bisogni e le risorse dei singoli gruppi, promovendo attente azioni di deistituzionalizzazione e autonomia.
Organizza e gestisce, anche in
collaborazione con esperti, attività che, favorendo l’espressività, la creatività, e la comunicazione possono costruire momenti educativi e spazi sociali.
Inoltre l’animatore utilizza come
strumento operativo nella valutazione del funzionamento sociale, nella pianificazione di interventi individualizzati e nella
valutazione degli esiti raggiunti
strumenti di valutazione obiettiva e di controllo di qualità, ad
esempio la V.a.d.o. (Valutazione
di abilità e definizione degli obbiettivi).
Tali istrumenti sono oggetto di
discussione e valutazione nelle
riunioni periodiche. L’animatore
attiva una rete di rapporti con
agenzie, servizi sociosanitari,
realtà territoriali e le istituzioni
sempre in un ottica di tipo preventiva e psico-socio-riabilitativa, nella verifica di qualità richiesta dai percorsi dell’accreditamento pubblico.
La dizione «fratello di roccia»
nell’accezione delle «pietre scartate» tese a diventare «testata
MISSIONI CONSOLATA
d’angolo» della concezione evangelica, sottolinea l’appartenenza
allo stesso vissuto ispirato ad un
comunitarismo forte, piuttosto
che ad una rigida distinzione
operatore-ospite. Il «fratello di
roccia» condivide innanzitutto la
vita e la quotidianità con un carico di responsabilità ispirate a
quella «accoglienza ed assunzione dei bisogni dell’altro nell’incontro», che fa parte dell’anima profonda del progetto.
L’INCONTRO CON IL MISTERO
Nel modello di Agape, l’incontro con l’altro è la realizzazione
di un mistero che apre tutti (figure professionali e non) all’incontro con il mistero e l’assoluto. Dal mistero dell’incontro all’incontro con il mistero e ritorno.
Ben lontani da una visione rigida, dogmatica e men che mai
confessionale o integralista, il
cammino di ricerca di tutti si manifesta nella ricerca di un percorso di vita e d’identità con-diviso, fortemente ispirato al
senso personale della Buona notizia evangelica. Anch’essa ben
lungi dal costituire un elemento
di divisione tra operatori e
ospiti, credenti e non, diviene invece un metodo di assunzione
ed accoglienza dell’assoluta centralità dell’altro-persona in ogni
momento ed in ogni passaggio
del cammino e del recupero di
autonomie, abilità sociali, autosufficienza, produttività e cittadinanza attiva.
La formazione e supervisione
degli animatori-fratelli di roccia
è affidata a riunioni periodiche
delle singole équipe di casa con
gli psicologi, lo psichiatra e il direttore educativo-spirituale. È
presente inoltre una supervisione esterna, sia di tipo professionale, psicologico-clinico e psichiatrico, che di orientamento
etico pastorale ed educativo.
Vengono attivati periodicamente
corsi di riqualificazione affidati
ad agenzie esterne su progetti
validati in sede regionale e nazionale. Importante nella vita
della comunità è anche l’apporto
realizzato dai soci volontari e da
realtà associative ecclesiali e laiche che partecipano periodicaLa rupe della Verna (Arezzo),
centro di incontro e riflessione
degli operatori di «Agape».
mente alla vita della comunità
(Caritas-Scuola d’Accoglienza
Diocesi di Asti, gruppi missionari legati ai missionari della
Consolata). Sono sede di formazione professionale e d’animazione spirituale, l’Abbazia di
Vezzolano, la casa natale di San
Giuseppe Cafasso in Castelnuovo Don Bosco e il Monastero
del Rul in Albugnano, dov’è ubicata la sede amministrativa.
La cooperativa è convenzionata come sede di formazione
con la Scuola di psicologia e psicoterapia dell’Università di
Siena, sede di tirocini e supervisione. Ha in corso un progetto
per la formazione sulla «pet-therapy» in collaborazione con
l’Università di Torino.
VIVERE IN «CASA»
Il lavoro in «comunità» è fondato sulla multidisciplinarietà,
svolto da diverse categorie professionali, medici – psichiatri,
psicologi, educatori, operatori di
supporto, animatori e volontari.
La meta è la riduzione del
«malessere» personale, il recupero e lo sviluppo delle abilità, il
reinserimento sociale e la riumanizzazione della persona
che chiede aiuto. Proprio per
questo principio di «accoglienza» e «cura» che l’organizzazione dei programmi deve essere flessibile e al servizio del
«trattamento».
La scelta di vivere in una
«casa» fa sì che ogni individuo
partecipa in maniera attiva, a
quelle che sono le mansioni domestiche; in quanto per poter
preparare un pranzo, ad esempio, ci si deve mettere nella condizione di dover modulare le
proprie esigenze con quelle altrui e cercare un punto di incontro e di organizzazione lavorativa nel vero senso della parola.
Questo porta a confrontarsi con
se stesso e con gli altri e costruire una gerarchia di bisogni
che non sono più individuali ma
diventano «bisogni comunitari».
Tutto ciò implica un’apertura
agli altri ed un aumento della capacità di ascoltare l’altro da me.
Il gestire la «casa» permette di
riappropriarsi di un’organizzazione mentale e psicologica che
vanno al di là del riassettare o
cucinare. Ogni persona, in base
alle proprie caratteristiche e pre-
disposizioni svolge dei compiti,
che vanno dall’occuparsi dei luoghi, formare legami, ricostruire
storia, attaccamento e radicamento, fino ad attività esterne di
tipo agricolo, zootecnico o di tutela dell’ambiente.
Tutto questo permette di attivare una serie di «dinamiche»,
che riguardano la sfera esterna
ed interna del soggetto. In questo modo durante l’arco della
giornata il singolo individuo ha
la possibilità di potersi mettere
in contatto con se stesso e con il
mondo, di rielaborare i suoi vissuti, e di generalizzare le abilità
acquisite.
Le attività strutturate sottoposte a verifica sono:
- attività educative verso i bisogni personali e di comunità;
- terapia psicologica individuale
e di gruppo-integrata con farmacoterapia psichiatrica o legata
alle necessità della medicina
delle dipendenze o ad altre necessità sanitarie;
- percorso di musico e danza terapia;
- teatro terapia e psicodramma;
- «pet-therapy» e attività con animali;
- logoterapia;
- attività di psicomotricità e attività creative ed espressive;
- arteterapia e laboratori artigianali;
- attività ecoambientali e agricolo-zootecniche;
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DOSSIER
- lavori socialmente utili di manutenzione del territorio in collaborazione con enti pubblici locali territoriali;
- attività ludiche, gite, viaggi e
vacanze educative;
- formazione professionale al lavoro anche attraverso la scuola o
appositi enti accreditati;
- momenti liturgici, incontro spirituale e preghiera - catechesi,
formazione e revisione di vita
personale.
Questo permette di avere continui feedback e fa sì che l’organizzazione sia sempre in continua
evoluzione per riuscire a trovare
sempre il giusto progetto per
ogni singolo individuo, adeguato
allo specifico tempo del cammino.
La cooperativa dopo una prima
fase di attivazione riabilitativa introduce i singoli soggetti in attività produttiva esterna presso
aziende agricole o di ricezione turistica o di ristorazione della zona
con contratti e relazioni personali
tra l’ospite ed il datore di lavoro
esterno o tramite lavori socialmente utili realizzati dalle cooperative presso enti pubblici della
zona, come comuni o le comunità
collinari (come raccolta differenziata della carta, manutenzione
aree verdi o manufatti pubblici).
In questa fase, l’ospite che lo
desidera può acquisire la qualifica di socio o socio lavoratore
della cooperativa.
UN «MONTE ATHOS
DELLE DIVERSITÀ»
La cooperativa si avvia ad accogliere attualmente nelle sue 8
case di fraternità circa una cinquantina di ospiti, occupando
stabilmente con contratti di lavoro o contratti a progetto più di
20 operatori professionali nelle
diverse qualifiche, affiancati da
consulenti e volontari.
Rispetto agli assetti di vita
nelle case di fraternità, dopo
aver sperimentato l’organizzazione a coabitazione completa
(tipo «casa famiglia»), si è valutato che le autonomie personali
e l’armonia complessiva dell’assetto sia garantita meglio da
una contiguità discreta di operatori, che abitano con le loro famiglie in un’area circumlimitrofa alle case d’accoglienza ed
a una rotazione in turno con
ampi momenti di condivisione
della quotidianità, ma anche
della festa e della relazione
umana, su progetti esistenziali
condivisi.
Non è indifferente il fatto che
molti operatori siano legati tra
loro da relazioni familiari, che
esaltano sostanzialmente e simbolicamente questa specifica dimensione di comunità di famiglie accoglienti in cammino, con
gli amici di una più ampia famiglia allargata.
Questo modello originale di
case di fraternità in rete (di città
e di campagna), è reso possibile
dalle normative legislative e amministrative vigenti. Vi si valorizzano infatti, la individualizzazione e personalizzazione dei
percorsi rispetto alle grandi aggregazioni troppo istituzionalizzanti e marginalizzanti.
Il baricentro geografico dell’esperienza è inserito provvidenzialmente in un’area di grande
bellezza e di forte impatto paesaggistico e simbolico, come
l’Alto astigiano, contrassegnato
da luoghi di forte dimensione
spirituale ed estetica. Intriso di
romanico, di percorsi di pellegrinaggio e di boschi incontaminati, ma soprattutto segnato
dalle tracce dei grandi santi sociali e mistici piemontesi (il
Cafasso, Don Bosco, l’Allamano,
Domenico Savio, il cardinal
Massaia).
Aspiriamo a vedere in questa
sorta di «monastero del cuore»,
policentrico, diffuso e dislocato, fatto d’incontri e di recupero di autonomia e libertà, un
piccolo «Monte Athos delle diversità», che si fanno ricchezza
e delle pietre scartate che ricostruendosi, costruiscono e realizzano la casa e il regno dell’uomo e del Dio vivente che
abita con lui.
Comunità pellegrina nel deserto e sulla strada che pone qui
la sua tenda perché: «Signore,
L’ALTRO E IL MISTERO DELL’INCONTRO
incontro con l'altro, la sua misteriosa e meraviL'
gliosa incomprensibilità, accompagnata dalla
sfida di conoscerlo e di accoglierlo, rappresentano il
più stupefacente accostamento al profondo segreto
della condizione umana.
In questa ricerca di senso e questa pratica necessaria, dell'assumerci la responsabilità degli sguardi e
dei volti che incontriamo sul nostro cammino, si dissolvono le distinzioni tra credenti e non credenti, tra
laici e religiosi, tra mistici e razionali.
Non vi è infatti uomo che non sia così poco credente,
da non dover accogliere la sfida del mistero, della vita
e della morte: e così poco amorevole da non dover sospendere, talvolta, il giudizio sugli altri e su di sè.
Così come il bisogno e la necessità di accogliere l'altro, suscita un amore libero e gratuito, frutto di una
scelta, ma necessario ed ineludibile. Infatti se l'accoglienza è puro, calcolo, tecnica, ragione o compromesso, debilita, sfibra ed annichilisce.
Ben sperimentano questa contraddizione (che oggi è
di moda chiamare «burnout») coloro che fanno professione di cura, di servizio sociale o di solidarietà in ambiente comunitario, istituzionale o sul territorio.
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MC GENNAIO 2006
Così come coloro che soffrono o hanno sofferto di relazioni umane interpersonali distorte o distruttive.
In questo cammino di ricerca di senso, che può rendere ogni pratica di relazione e di cura amorevole per
chi la esercita e per chi la riceve, per sfuggire ad un
cinismo autodistruttivo o ad una dissipazione caotica,
la cooperativa «Agape, Madre dell’accoglienza» si propone come luogo di formazione e ricerca in cui i linguaggi della psicologia, della clinica, della filosofia e
della scienza, si intreccino e si fecondino con la ricerca dell'antropologia cristiana, la teologia dell'amore trinitario e la buona notizia evangelica, gravida
di speranza e di progetto divino-umano.
La filosofia di Agape è volta a scoprire l'essere nell'ineluttabile provocazione della relazione personale, e
sociale non solo nei suoi non scontati aspetti emozionali e pragmatici, etici e morali, ma anche trascendenti e mistici.
L'incontro del sé e l'infinito, dall'esperienza alla rivelazione e ritorno, anche di fronte allo straniero, al
folle, all'ostile, all'incomprensibile, al più piccolo,
alla pietra scartata, che può divenire testata d'angolo.
MISSIONI CONSOLATA
L’esperienza della cooperativa «Agape» (2)
LE PIETRE SCARTATE
Una società malata di competitività sforna sempre più persone con disagi affettivi e di
comportamento. Troppe sono le «pietre scartate» verso le quali deve andare la solidarietà
del credente. Occorre agire affinché, in terra, il «paradiso» non sia accessibile sempre e
soltanto ai soliti fortunati.
DI
«L
a pietra scartata dai costruttori è divenuta testata
d’angolo, ecco l'opera del
Signore» (Salmo 118, 22-23).
Le parole del salmista, che si ritrovano anche nel vangelo di Marco (12,
11-12) sono fondamentali per chi,
come i missionari in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione, desiderano proclamare il «Regno di
Dio», non solo a parole ma soprattutto con i fatti, incominciando dagli
ultimi.
Le pietre scartate non sono «privilegio» del Sud del mondo; chi osserva con occhio attento e vigile può facilmente constatare che la loro presenza è ovunque
nella nostra
quotidianità.
Papa Giovanni XXIII ci ha spiegato
nella «Pacem in terris» che i segni
dei tempi non sono segni posti da
Dio nel cielo, ma cose compiute dagli uomini sulla terra. In questa enciclica il Santo padre elencava tanti
aspetti positivi del momento storico
che si viveva; ma c’è anche il retro
della medaglia, ci sono gli eventi negativi compiuti dagli uomini, da noi
tutti, che seminano abbandono, disprezzo, segregazione. Sono segni
presenti nella nostra società che
continuamente provoca «pietre
scartate» verso le quali siamo chiamati ad annunciare, con interventi
di accoglienza, la Buona notizia del
vangelo.
Le case di fraternità «Agape, Madre dell’accoglienza» sono luoghi in
cui si concentrano le più diversificate storie di disagio e dissocialità: situazioni precarie, che producono
marginalità e disturbi di comportamento e di personalità. Sono povertà
estreme dove l’affetto e l’accoglienza sono state bandite. Sono storie
frutto di una società sempre più
egoista ed edonista dove vale solo il
bello, il vincente, il tornaconto economico. In questa piramide, in ne-
gativo, sono tanti gli esclusi che popolano il nostro quotidiano, il cristianesimo si è ridotto ad una etichetta invece di un coinvolgimento
con il cuore e un impegno di vita. Davanti a questa urgenza dilagante c’è
bisogno di persone che sappiano
«curvarsi» davanti al fratello ferito e
abbandonato ai cigli delle strade.
L’evangelista Luca attraverso la parabola del «Buon samaritano» ci presenta l’essenzialità del vangelo con
le parole finali della parabola: «Va’ e
anche tu fa lo stesso» (Lc 10,37).
Don Milani, il priore della Barbiana, davanti ai suoi ragazzi «montanari», segregati ed esclusi dalla scuola ufficiale e senza possibilità di inserimento nella vita sociale, aveva
coniato il motto «I care» (mi interessa!). Gli interessava la vita di quei singoli ragazzi che vivevano nell’abbandono e nell’esclusione, ne fece la
sua forza profetica con una adesio-
ORAZIO ANSELMI
ne e un compromesso personale e rispondendo ad una sfida del suo tempo.
S. Giuseppe Cafasso, patrono dei
carcerati e «perla del clero italiano»,
definisce le pietre scartate, (i condannati a morte) «i miei santi impiccati». Il suo eroico ministero e la sua
vicinanza fisica a questi assassini incalliti, a questi derelitti della società,
donò a ciascuno di loro, l’esperienza della solidarietà iniettando nei loro cuori la speranza evangelica che
Gesù ci ha donato dalla croce: «Oggi sarai con me in paradiso». La gratuità della salvezza è di tutti. Il Cafasso ha sempre insistito, nella formazione del clero del suo tempo,
affinché ogni azione di preghiera, di
studio, di impegno del vissuto nella
semplicità dell'ordinario senza cercare lo straordinario, formassero la
vita e coniassero lo spirito dei futuri
pastori in profondità! Bisogna avere
MC GENNAIO 2006
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DOSSIER
sempre come obiettivo i bisogni del
tempo, del luogo e soprattutto delle
persone. Nella carità non c'è spazio
per sfaccendati e accidiosi; la forza
dei santi e dei profeti è soprattutto
di «dire e fare». Davanti al pericolo
di tante parole... «Signore, Signore»,
S. Giacomo ci allerta: «Come il corpo
senza lo spirito è morto, così anche
la fede senza le opere è morta» (Gs
2,26).
Ad ogni cristiano dovrebbe interessare la vita dei fratelli dimenticati che il vangelo mette ai primi
posti. La società, malata di primi po-
sti per emergere e di competitività
sfrenata per ingordigia, sforna continuamente e sempre più forme di
disagio affettivo e disturbi comportamentali, il «paradiso terrestre»
promesso a tutti è accessibile solo
ai soliti fortunati. La solidarietà senza misura, traboccante e continua
per gli ultimi della terra, gli amici di
Dio, è la risposta e l'impegno di tutti coloro che hanno cercato il Signore con cuore sincero.
«Agape, Madre dell’accoglienza»
è un impegno, un tentativo di risposta a chi si trova in difficoltà psi-
chiche vivendo esclusioni e segregazioni. Persone che gridano il loro
dolore e che sono definite disturbate e pericolose, sono messe al
bando il più delle volte anche dalle
proprie famiglie.
Desideriamo dire a questo mondo isolato, calpestato ed escluso
che ci «interessa, ci sta a cuore» la
loro dignità di esseri umani fragili e
bisognosi di accoglienza. Una fragilità che si incontra con la nostra
fragilità fatta di paure, di prevenzioni, di fughe e di trascuratezza. Il
vangelo di Marco nel capitolo 5, 120, ci parla di Gesù che incontra il
«folle»; un uomo aggressivo, isolato dagli altri, che provoca paura...
Gesù si avvicina, lo incontra, lo
sguarisce, lo libera, lo riabilita...
rompe il cerchio della solitudine e
dell'esclusione nello stargli accanto
ascoltando il suo grido, accogliendo il suo bisogno e rispondendo alle necessità di affetto.
La vita umana vale più di ogni altro bene, lo scriviamo sui muri, nei
libri, sulle magliette, negli slogan
pubblicitari, lo sosteniamo anche
con il referendum, ma davanti al fratello bisognoso, che chiama e grida
rispondiamo come Caino: «Sono
forse io custode di mio fratello?» Gn
4,9. La sopravvivenza di chi si trova
nella difficoltà non fa parte del nostro impegno di vita e deleghiamo
ad altri le responsabilità. Molte volte la ricerca smodata di rituali eccessivi, inebriata dal fumo dell'incenso, da canti sofisticati, perfino
con l'eccessiva abbondanza di suppellettili liturgiche... può appagare
il nostro ego e il nostro contatto con
Dio che costruiamo a immagine e
somiglianza di noi stessi, facendoci dimenticare il fratello bisognoso,
abbandonandolo proprio sul sagrato del tempio in cui ci rifugiamo.
Il nodo della questione è il nostro
coinvolgimento personale, «metterci del proprio», non tanto in soldi o intenzioni, ma mettendoci del
proprio tempo e del proprio cuore.
«Mettersi in gioco» per difendere la
sacralità di ogni vita umana soprattutto quella debole, quella che da
sola non si regge, quella che più riflette l'amore e la fragilità di Dio incarnato in mezzo a noi nelle sembianze e nei cuori di questi fratelli
«speciali». Molte volte la paura ci
paralizza, l'egoismo ci frena e la nostra arroganza ci fa cambiare strada perché percorrere la strada di
Sopra: foto ricordo di una gita.
A lato: l’abbazia di Vezzolano, vicina al paese di Albugnano (Asti).
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MISSIONI CONSOLATA
Gerico porterebbe a cambiare l'itinerario della nostra stessa vita, questo disturba troppo il nostro quieto
vivere che difendiamo ad oltranza.
Nelle fraternità «Agape» si cerca
di celebrare la fragilità della vita così com'è davanti alla mensa quotidiana con le gioie e dolori di tutti e
davanti all'Eucaristia domenicale avvolta dalla ragnatela di tanti nostri
dubbi ma soprattutto vissuta come
evento ci rinnova la forza della solidarietà con la certezza che Dio
continua a camminare con noi nei
sentieri dubbiosi della vita come fece con i discepoli di Emmaus.
È un lavoro impari per le nostre
forze e le tante debolezze che accompagnano gli operatori, i volontari, i professionali, ma tutti desiderosi di fare, di buttarsi sporcandosi le mani e purificando il cuore,
tutto questo con la certezza che Dio
ama ogni vita e aiuta i cuori generosi. È un lavoro non facile per nessuno; ogni giorno bisogna ricostruire quello che si è tentato di realizzare il giorno prima. È come la
tela di Penelope che di giorno si fa
e di notte si disfa. Ogni mattina c’è
l’impegno di ricominciare! Proprio
come fa il Signore con ciascuno di
noi.
San Vincenzo de’ Paoli ha
detto: «Donare fa bene, soprattutto a colui che dona».
Intraprendiamo questa
gara a fare del bene. Ne usciremo
più ricchi davanti a
Dio, soddisfatti
con noi stessi,
utili e necessari
a chi ne ha bisogno. ■
MA CHE MISSIONE È
LAVORARE CON I «MATTI»?
uesta domanda mi viene rivolta spesse volte da molti colleghi e da
Q
tanti amici. Domanda che spesso mi pongo e a cui rispondo semplicemente: «… e perché no?». Certamente non sempre è facile lasciare
situazioni ed organizzazioni scontate come varie attività di animazione
missionaria in parrocchie o nelle scuole, uscire da strutture protette
come gli oratori e le case religiose. Può sembrare non logico, certamente «non è normale». La vera pazzia è proprio questo cambiamento:
«Mettersi in gioco», 24 ore al giorno. È un ritmo che ti cambia la vita, i
programmi, le abitudini. Certamente erano ritmi incalzanti anche
quando si lavorava nelle «favelas brasiliane»; però, ogni tanto, esisteva
qualche parentesi, momenti per sé. Interagire con la «pazzia» ti prende
a tempo pieno, a tutto raggio, a 360 gradi.
Ad ogni momento fatti e situazioni «provvidenziali» possono bussare
alla tua porta con tutta la loro drammacità e repentinità ed hanno il sopravvento su tutto. Si cambia continuamente scenario: la notte si trasforma in giorno; una festa in dramma da pronto soccorso; l’euforia di
momenti felici in una caduta libera d’angosce senza precedenti.
Le giornate sono piene d’imprevisti e di non soluzioni che ci avvicinano,
in parte, ai tempi di stare con i poveri delle periferie del mondo; il tuo
tempo, le tue cose cessano di esistere, ci si trova davanti al grande vortice dell’immediato, si nuota in balia del necessario, si interviene nella
necessità di «tutti per uno». Il lavoro quotidiano con i «nostri amici»,
membri esclusi della nostra società, dove anche le proprie famiglie abdicano davanti ad un impegno troppo eccessivo, diventa un lavoro continuo, di giorno si costruisce e di notte il più si disfa. L’unica certezza è
che ogni giorno c’è da ricominciare… Ogni mattino non si sa come
sarà la sera. Ogni sera non si coglie quasi mai i segni di come sarà il risveglio.
«Tutto è grazia», diceva Bernanos nel suo romanzo «Il curato
di campagna». Questo lo possiamo sostenere anche
noi! Possiamo dire che «tutto diventa provvidenziale«, in cui esistono pochi «distinguo», dove
non c’è spazio per «ripudi o delazioni«. Di
fatto, tutto è possibile, in ogni momento e a
qualsiasi ora, proprio come la «provvidenza«.
Madre Teresa di Calcutta ci invita a sentirci
delle «piccole matite« nella mano di Dio, possiamo scrivere perfino qualcosa di interessante, ma
è sempre il Signore che ci guida. Don Tonino Bello
pone l’accento dicendo che: «Vivere non è trascinare...
strappare... rosicchiare la Vita. Vivere è aver la certezza di avere un partner grande come Dio».
Con queste certezze possiamo rilevare che è il Signore
colui che ci dona i poveri, i pazzi, gli ultimi. Tutto questo ci è stato dato probabilmente per incanalarci nell’unica via della salvezza attraverso la carità, vissuta e
servita nell’umiltà e nella mitezza di cuore, senza trascurare la perseveranza quotidiana.
In ogni momento, in ogni situazione, in ogni luogo
geografico il Signore ci attende e ci fa passare per
la « via di Gerico». A noi rimane la scelta di fuggire, cambiare strada… o l’impegno di fermarci e
chinarci presso il fratello bisognoso che ci immette nel progetto della salvezza trovando il
senso della nostra vita e quella degli altri.
Per un missionario è sempre l’ora della «carità». Credo che sia una delle cose più belle
e significative riuscire a mescolare la propria vita con quelle dei fratelli bisognosi;
sono tante «pietre scartate« che il Signore
pone sul nostro cammino.
«Christus alter Christus»,
mosaico dei Palazzi Vaticani.
OR.A.
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DOSSIER
PICCOLO
GLOSSARIO
PSICHIATRICO
(SECONDO LO PSICHIATRA)
SCHIZOFRENIA: è la malattia psichiatrica per eccellenza. Spiegata in
termini comprensibili, è una vulnerabilità biologica (eccesso di una
sostanza chiamata Dopamina) su
cui si innestano i traumi della vita
per far scattare la malattia. Chi soffre di tali problemi nei momenti di
crisi è come se vivesse sognando ad
occhi aperti, per cui diventa difficile distinguere la realtà dalla fantasia.Colpisce circa l’1% della popolazione mondiale e può essere caratterizzata da
DELIRI ovvero pensieri immotivati a
contenuto vario: persecutorio («ce
l’hanno con me», «vogliono farmi
del male»), mistico («sono l’inviato
di Dio», etc.) e da
ALLUCINAZIONI ovvero sentire delle
voci che ci insultano, ci comandano
o parlano tra di loro; sentire odori
sgradevoli( e per spiegarmeli mi dico che forse qualcuno vuole avvelenarmi)Esistono sotto la voce schizofrenia tante forme diverse per esito e decorso, la cosa importante
credo sia non considerare i sintomi
separati tra loro, ma collocarli nella
storia di vita della persona per dare
un senso e un significato anche al
contenuto dei deliri, per esempio.
Giudicata in passato inguaribile, ora
le statistiche dicono che 1/3 guarisce, 1/3 va verso un deterioramento e 1/3 alterna momenti di compenso clinico a ricadute.
ella mia piccola esperienza, anche se di oltre 20 anni, non me
la sentirei di avvallare questi dati
per l’estrema variabilità in termini
di parametri da considerare: il servizio che ci prende in cura, il contesto socio-economico, le caratteristiche individuali.
Preferisco pertanto pormi l’obiettivo di lavorare con il paziente e con
le risorse a disposizione (parenti,
amici, comunità locale) per la migliore qualità possibile della vita.
Ugo Zamburru
N
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I DISTURBI DELLA PSICHE (secondo il DSM IV *)
AUTISMO
La chiusura dei rapporti comunicativi con il mondo esterno e l'ambiente,
completo ritiro in se stessi.
DISTURBI AFFETTIVI
Comprendono disturbo bipolare, depressione, mania: un'ampia gamma di patologie che coinvolgono l'umore.
SCHIZOFRENIA
Psicosi (disturbi psichici gravi) rapporto alterato con la realtà (deliri, allucinazioni), disturbi comportamentali (agitazione, catatonia).
DISTURBI SESSUALI
Quattro le categorie: le disfunzioni sessuali, le parafilie, i disturbi dell'identità di genere e i disturbi sessuali non altrimenti specificati.
DISTURBI D’ANSIA
Dalle fobie all'atttacco di panico ai sintomi ossessivo-compulsivi (per es. irrazionale ripetizione di atti), al disturbo post-traumatico da stress (traumi
da attentati, violenze, guerre).
DISTURBI DISSOCIATIVI
Dal disturbo da personalità multipla (coesistenza di identità separate) alla
depersonalizzazione (estraneità rispetto a se o agli altri).
DISTURBI DI PERSONALITÀ
Modi costanti e distruttivi di percepire e rapportarsi a se stessi e al mondo.
Tipologie: paranoide, schizoide, schizotipico, borderline, narcisista, antisociale, istrionico, ossessivo compulsivo, evitante, dipendente.
STRESS
Stato di malessere, più o meno grave, dovuto a una situazione traumatica.
Termine mutuato dall'ingegneria: indica il massimo di tensione sopportabile
da una struttura rigida in condizioni di sollecitazione.
DISTURBI COGNITIVI
Menomazione e disfunzione cerebrale con incapacità cronica cognitiva: delirium, demenza, disturbi di memoria.
ADHD
Sono i disturbi da deficit di attenzione e iperattività. Una serie svariata di
disturbi che alterano i meccanismi di controllo dell'attività.
DIPENDENZE
Le patologie correlate all'abuso di sostanze psicoattive, dall'alcol alle droghe. Vanno considerati criteri di tolleranza o astinenza fisica.
DISTURBI ALIMENTARI
Tutte quelle patologie in cui si verifica un rapporto alterato con il cibo. Per
esempio: bulimia, anoressia, abbuffate.
(*) DSM: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali
MISSIONI CONSOLATA
Le Associazioni
NOTA SUGLI AUTORI
• ASSOCIAZIONE «VOL.P.I.»,
VOLONTARI PSICHIATRICI INSIEME ONLUS
via Leoncavallo 2, Torino
tel. 347.8796392
[email protected]
www.associazionevolpi.org
• COOPERATIVA SOCIALE «AGAPE, MADRE
DELL’ACCOGLIENZA» ONLUS
Monastero del Rul, Località Vezzolano
57, Albugnano (Asti);
tel. 011.9920671 / fax 011.9922034,
[email protected]
DIREZIONE: presidente, dr. Alessandro
Meluzzi; vicepresidente, p. Gottardo
Pasqualetti; direttore educativo, p.
Orazio Anselmi; direttore esecutivo,
Maria Valencia Meluzzi
UGO ZAMBURRU è medico, specialista in
psichiatria. Ha lavorato come terapeuta
sistemico-relazionale (anche conosciuta
come terapia familiare) presso la scuola
di specializzazione di Roma del prof.
Cancrini e come terapeuta psicoanalitico. Nel 1999 ha seguito un training presso la Haight Ashbury Free Clinic di San
Francisco sui problemi della doppia diagnosi. È stato supervisore presso la Comunità Lucignolo (Rivoli) e presso la Comunità Nikodemo (Nichelino). Dal
1990 al 1998 è stato docente di psichiatria presso la scuola per infermieri professionali dell’Asl 4 di Torino. Dal 1984
lavora come psichiatra presso la Asl 4 di
Torino, attualmente come responsabile
del Centro diurno di via Leoncavallo 2,
con particolare attenzione al reinserimento socio-lavorativo.
NADIA GRECO è laureanda in «ingegneria biomedica» e volontaria dell’associazione «Vol.p.i», che assiste le persone
con problemi psichiatrici. Della stessa associazione fa parte ELISA IANNETTI, studentessa di psicologia, che ha scattato
molte delle foto di questo dossier.
CENTRO DIURNO ASL 4 - TORINO:
via Leoncavallo 2 - tel. 011.2482856
Responsabile: dr. Ugo Zamburru
Bibliografia essenziale
• F.Basaglia, Che cos’è la psichiatria,
Parma 1967
• F.Basaglia, L’utopia della realtà,
Giulio Einaudi Editore, Torino 2005
• F.Basaglia, Conferenze brasiliane,
Raffello Cortina Editore, Milano
2000
• D.Hales-R.E.Hales, La salute della
mente, Longanesi, Milano 1998
• P.Sarteschi, Manuale di psichiatria,
Edizioni Sbm, 1982
• R.P.Liberman, La riabilitazione psichiatrica, Raffello Cortina Editore,
Milano 1997
• M.Shepherd, La matrice sociale della
psichiatria, Bollati Boringhieri,
Torino 1990
• AAVV, Psichiatria nella comunità.
Cultura e pratica, Bollati Boringhieri,
Torino 1993
Siti internet
• www.psichiatriademocratica.com
sito di una storica associazione di settore
• www.unasam.it
Unione nazionale delle associazioni per
la salute mentale
• www.arap.it
Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica
• ww.wfmh.org
World Federation for Mental Health
• ww.eufami.org
Associazione europea familiari dei malati mentali
ORAZIO ANSELMI è missionario della Consolata, sacerdote dal 1977. Ha trascorso 18
anni nelle favelas brasiliane di Rio de Janeiro e Salvador Bahia. Si è specializzato in
missiologia presso l’Università «Nossa Senhora da Assunçao» di Sao Paulo, Brasile.
Attualmente è impegnato nell’animazione missionaria in Italia ed è direttore educativo della comunità «Agape, Madre dell’accoglienza», di Albugnano (Asti).
ALESSANDRO MELUZZI è medico, specialista in psichiatria, psicologo e psicoterapeuta.
Insegna presso le Università di Siena (genetica del comportamento umano) e di Torino (psichiatria sociale). È direttore scientifico della Scuola superiore di Umanizzazione della medicina. Si è altresì laureato in filosofia e mistica al Pontificio ateneo S.
Anselmo di Roma. Ha scritto tra l’altro: Il sesso: bestialità e religione ((Firenze 1995),
La via degli spiriti animali (Milano 1997), Viaggio nelle profezie. Visioni, presagi e nuovo millennio (Venezia 1998), NeoMonasteri e riEvoluzione (Venezia 2001). Già parlamentare italiano (senatore), è conosciuto al grande pubblico anche per le sue numerose collaborazioni televisive.
HA COLLABORATO: GIUSEPPINA DE CESARE, farmacista.
HA CURATO QUESTO DOSSIER: PAOLO MOIOLA, giornalista.
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FINE
DOSSIER
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«LA FOLLIA, UNA CONDIZIONE UMANA»
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