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Elogio dei folli in Simone Weil

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Elogio dei folli in Simone Weil
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Elogio dei folli in Simone Weil
Parte I
Paolo Farina – Docente di Teologia, Istituto Teologico Pugliese, Molfetta
Simone Weil, avendo adottato il metodo della contraddizione,
tesse l’elogio della follia.
Solo i folli possono dire liberamente la verità.
1. Follia e ragione: la via della
contraddizione
“Essere considerati pazzi, ti dà
una grande libertà d’azione”: è la
morale del libro Leaving, loving and
learning, dell’italoamericano Leo
Buscaglia2. Non so quanti di voi abbiano avuto la possibilità di leggerlo,
ma credo che queste parole possano
essere d’aiuto nell’introdurci in un
tema assai caro a filosofi, artisti, poeti di ogni epoca. Fu follia quella che
spinse Socrate a bere la cicuta, piuttosto che a cercare una soluzione di
comodo per sfuggire alla morte? Fu
follia quella che guidò il genio creativo di un Michelangelo piuttosto
che di un Caravaggio? E fu follia
quella che ispirò i versi maledetti di
un Baudelaire o la ricerca di un equilibrio mai raggiunto nella composizione de La Gerusalemme liberata di
Torquato Tasso?
È forte per me la tentazione di
divagare, preso dalla voglia di inseguire altre possibili citazioni, nell’intento di esemplificare il tema
della relazione tra ragione e follia.
Mi limito, tuttavia, ad un ultimo richiamo ad un autore che viene
spontaneo accostare a S. Weil, ogni
volta in cui si parli di follia. Mi riferisco ad Erasmo da Rotterdam
che, nel suo Elogio della follia3, ha
composto una sorta di summa, un
concentrato di idee e di temi, capaci di evocare quanto dall’intelligenza e dal cuore dell’uomo sia stato
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concepito e scritto per illustrare le
pascaliane “ragioni del cuore”4 che
la ragione non “con-prende” ovvero, sviscerando il senso etimologico: che la ragione non è in grado di
contenere, di racchiudere in sé, di
imprigionare in una definizione
univoca.
Ecco, appunto, la definizione
univoca della realtà: proprio quanto il pensiero della Weil aborre. In
fondo, potremmo provare a sintetizzare la riflessione weiliana su
questo argomento –che è, si badi
bene, senza dubbio uno dei “gangli”
vitali dai quali scaturisce la genesi
di tutto il suo pensiero– con il rifiuto della formula aut/aut di aristotelica memoria.
È stato Aristotele, infatti, a postulare, nel suo principio di identità e non contraddizione, che una
data verità “A” o è “A” o non è “non
A”. “A” è uguale ad “A” e non può essere “non A”. O/o, aut/aut: o una verità è sempre uguale a se stessa, e
dunque non viene mai negata, o
non è se stessa. Insomma: non si
può dare una verità e contemporaneamente negarla. Non si può dire
che sia vero “A” e poi aggiungere che
anche “non A” sia vero.
È questo un modello secondo il
quale tutto è distinguibile in bianco
o nero, freddo o caldo, luce o buio.
Non esistono le mezze misure, le
sfumature non sono ammesse.
Sei sempre davanti ad un
aut/aut. O vinci o perdi, o hai torN. 71/10
to o ti prendi la ragione, o sei con
me o sei contro di me. O possiedi la
verità o sei in errore, sei un fallito,
un perdente. Un modello che, esasperato, fonda la logica della forza
messa a nudo nell’Iliade, il poema
della forza5.
Di contro, cosa offre la vita, sì
proprio la vita, e poi anche il pensiero di Simone Weil? Sulla vita non
mi diffonderò. Già note sono, infatti, tutte le contraddizioni di un’esistenza che sfugge ad ogni tentativo
di classificazione6. Come opportunamente hanno scritto Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese, presentando il VII Convegno internazionale di filosofia personalista, Simone Weil non è mai stata in sintonia con gli “intellettuali di professione”. Precisano i due autori: “È
evidente il contrasto tra quegli ambienti medio alti, che pure le si confacevano per nascita, con quelli che
la Weil aveva scelto di frequentare:
sindacalisti, operai, socialisti, anarchici, gente ostile a priori alla cultura degli intellettuali non rivoluzionari [...]. La sintonia con gli
emarginati, avvertita profondamente sin dall’infanzia, è per Simone quasi viscerale: per stare bene
con se stessa, per sentirsi in sintonia con la vita nella sua essenzialità, ella deve abbandonare il mondo
ovattato delle convenzioni sociali.
Lo fa concretamente scegliendo la
vita operaia e contadina. Non si
tratta di una sorta di fuga dal mon-
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do, giacché ella ha continuato sempre a occuparsi di politica attiva, ma
dell’obbligo morale, che avvertiva
fortemente, di scegliere ciò che è
più autentico”7.
Quanto alla riflessione weiliana sulla contraddizione, ebbene per
Simone Weil la contraddizione,
lungi dall’essere un ostacolo sul
cammino che conduce alla verità, è
invece la sola porta d’accesso che
introduce sulla soglia8 della verità.
Ora, non v’è dubbio che la cifra dell’ispirazione weiliana sia stata la sua
inesauribile sete di verità. Da adolescente che medita il suicidio a
brillante alunna di Alain, da professoressa di filosofia all’avanguardia
a operaia e contadina, da militante
sindacalista e pacifista a volontaria
nella guerra di Spagna ed ex militante sindacale, da atea e mistica,
quale che sia stato la sua transeunte condizione esistenziale, Simone
Weil ha sempre cercato la verità e l’ha trovata nella contraddizione, o
meglio attraverso la contraddizione. Come ha scritto F. Castellana,
nel tentativo di definire la weiliana
“via della contraddizione” in S.
Weil: “Bisogna servirsi della contraddizione come di una pinza, per
afferrare con un contatto diretto,
mediante le due braccia (i termini
irriducibili) ciò che è al di là, il vero reale, il trascendente, che il pensiero speculativo non può raggiungere”9.
In definitiva, la differenza tra
quanto insegnava Aristotele e
quanto oggi ci dice la Weil mi sembra sia rinvenibile nella disomogeneità di livello delle rispettive speculazioni. Aristotele, il cui pensiero
tanta responsabilità, nel bene e nel
male, ha per l’influenza che ha esercitato sul modello di sviluppo della
cultura occidentale, propone una
chiave di lettura eminentemente
“logica”. La verità di cui egli parla è,
infatti, una verità della parola, non
già della realtà nel suo insieme. Ma
la realtà, pur comprendendo il logos, non è riconducibile esclusivamente ad esso. Se per comprendere
una verità logica ad Aristotele basta
l’aut/aut, Simone Weil propone la
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via dell’et/et, un metodo secondo il
quale può essere vera un’affermazione e, contemporaneamente, su
un altro livello, quella di segno opposto, che la nega. Perché la realtà
non è fatta solo di parole. La realtà
è, come direbbe la Dei Verbum, un
intreccio difatti e parole intimamente connessi10. La realtà è più delle
parole. Le parole hanno il compito
di descrivere la realtà, di provare ad
interpretarla, ad indicarla, a spiegarne il senso, ma non racchiudono mai del tutto il mistero contenuto nella realtà.
Mounier diceva che la persona
è la protesta del mistero11: lo è, a
maggior ragione, la realtà nella sua
interezza, di cui le persone sono a
loro volta parte. È di questo tutto
che è materia e spirito, fisica e metafisica, storia e filosofia, scienza e
religione, uomo e Dio, che la Weil è
assetata. Ed è per incontrarsi con
questo “uno tutto” che lei si convince che ciò che è contraddizione
per la logica possa essere vero per
l’amore; ciò che è incomprensibile
al filosofo, non lo sia per l’artista;
ciò che non sa esprimere lo storico
sappia perfettamente rendere il
poeta. Per esempio, Shakespeare.
2. Weil e i folli di Shakespeare
“Quando ho visto Lear, qui a
Londra, mi sono chiesta per quale ragione il carattere intollerabilmente
tragico di questi folli non fosse mai
saltato agli occhi della gente (e ai
miei). Il loro carattere tragico non sta
tanto nelle cose sentimentali che si
suole dire al loro riguardo, ma piuttosto in questo: in questo mondo, solamente degli esseri precipitati al
fondo dell’umiliazione, ben al di sotto dello stato di mendicità, non solo
senza alcuna considerazione sociale,
ma giudicati come totalmente sprovvisti della fondamentale dignità
umana, cioè della ragione – solamente costoro di fatto hanno la possibilità di dire la verità. Tutti gli altri mentono […]. Il massimo della
tragicità sta nel fatto che, poiché questi folli non hanno né il titolo di proN. 71/10
fessore, né di vescovo […] nessuno sa
che dicono la verità. Non delle verità satiriche o umoristiche, ma semplicemente la verità. Verità pure,
inalterate, luminose, profonde, essenziali. Mamma cara, non avverti
l’affinità, l’analogia profonda tra
questi folli e me – malgrado la Scuola Normale, l’agrégation e gli elogi
della mia ‘intelligenza’? [...] È risaputo che una grande intelligenza è
spesso paradossale, e talvolta un po’
fuorviante... Gli elogi della mia intelligenza hanno lo scopo di evitare
la questione di fondo: ‘Dice il vero
oppure no?’. La mia reputazione
d’intelligenza è il corrispettivo pratico dell’etichetta di folli per questi folli. Quanto preferirei la loro etichetta12!”.
Dunque, la Weil non solo amava i folli, ma si riconosceva in loro,
anzi: li invidiava! Avrebbe preferito
l’etichetta di folle agli elogi della sua
genialità, avrebbe voluto che tutti
riconoscessero il marchio di schiavitù ricevuto in fabbrica13, piuttosto che invidiarle un “cuore capace
di battere attraverso l’universo”14.
E tutto ciò per una sola ragione: per
poter così ottenere il privilegio di
“dire la verità”.
A dar retta alla Weil, come per
il buffone di corte, ieri, così oggi per
colui che avesse l’ambizione di consegnarci “verità pure, inalterate, luminose, profonde, essenziali”, la sola chance che gli si offra è di parlare dopo aver rinunciato ad ogni
“considerazione sociale”, alla stessa
dignità di persona umana, a qualsiasi pretesa di ragionevolezza. I folli di Skakespeare, per Simone Weil,
sono i soli a “ragionare”, ovvero sono i soli in grado di riconoscere e
dire la verità... Eppure, nessuno li
ascolta.
Per l’ultima volta, dobbiamo ribadire: non l’aut/aut, ma l’et/et rappresenta per la Weil la contraddittoria via per la verità. Il folle di Shakespeare, come ogni altro folle, e dice la verità e non viene ascoltato. Simone Weil e sa che gli elogi della sua
intelligenza equivalgono al marchio
d’infamia del folle e sceglie deliberatamente tale marchio, pur di po-
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ter continuare a tramandarci la sua
“inesauribile miniera” di verità:
“Cara mamma, tu credi che ho
qualche cosa da dare. È mal formulato. Eppure ho anch’io una sorta
d’intima, crescente certezza che ci sia
in me un deposito d’oro puro che devo trasmettere. Solo che l’esperienza
e l’osservazione dei miei contemporanei mi convincono sempre più che
non c’è nessuno capace di accoglierlo. Si tratta di un blocco compatto
[...]. Per accoglierlo, occorre uno sforzo. E sforzarsi è talmente faticoso! Alcuni sentono confusamente la presenza di qualcosa. Ma s’accontentano di esprimere qualche elogio della
mia intelligenza e così si mettono a
posto la coscienza. Dopo di che,
quando mi si ascolta e mi si legge, lo
si fa con la stessa frettolosa attenzione che si accorda ad ogni cosa, affermando perentoriamente nel proprio
intimo di fronte ad ogni frammento
di idea: Con questo sono d’accordo,
quest’altro è completamente folle...
Si conclude: È molto interessante, e
si passa ad altro [...]. Quanto alla posterità poi, prima che si dia una generazione con un pensiero vigoroso,
i testi stampati e manoscritti del nostro tempo saranno materialmente
scomparsi. Tutto questo non mi rammarica. La miniera d’oro è inesauribile”15.
3. Follia e obbedienza
Si potrebbe obiettare: ma in chi
o in che cosa la Weil trova la forza
per fondare tanta interiore certezza
che, a tratti, può persino sembrare
arroganza? La risposta è semplice:
nella follia e nell’obbedienza. Scrive: “Il criterio delle cose che vengono da Dio è che esse presentano tutti i caratteri della follia, eccetto la
perdita dell’attitudine a discernere
la verità e ad amare la giustizia”16.
Per la Weil, il desiderio di obbedire a Dio “[...] è una fame già saziata, che lo sarà sempre, e tuttavia
grida perpetuamente nell’anima
come se non potesse mai esserlo. È
un grido a vuoto”17. Occorre gridare così, durante il nostro breve e in-
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terminabile soggiorno quaggiù,
senza interessarsi della risposta che
Dio accorderà al nostro grido. La risposta non è affar nostro: è un affare di Dio18.
Follia e obbedienza rappresentano per la Weil un binomio inscindibile. Simone preferirebbe un inferno reale, piuttosto che un paradiso immaginario, pur di mantenersi fedele nell’obbedienza, fedele sino alla follia:
“Se si dice a se stessi: quand’anche il momento della morte non dovesse portare niente di nuovo, ma fosse solo il termine quaggiù e non il
preludio di un’altra vita, quand’anche la morte portasse solo il nulla; e
quand’anche questo mondo fosse
completamente abbandonato da
Dio; e quand’anche a questa parola,
Dio, non corrispondesse assolutamente niente di reale, ma solo delle
illusioni puerili –ammesso che sia così, tuttavia, anche in questo caso, preferisco eseguire ciò che mi sembra comandato da Dio, ne conseguissero
pure le più orribili sventure, piuttosto che compiere qualsiasi altra cosa.
Solo un folle può pensare così. Ma se
si è contratta questa follia, si può essere del tutto certi di non rimpiangere mai nessuna azione compiuta in
conformità a questo pensiero”19.
La Weil annota anche che l’idea
di compiere qualsiasi sforzo per
Dio, ma pensando che egli non esista, è una “follia” che fornisce ben
poca “energia” per l’azione e che
tuttavia fonte di tale energia siano
la preghiera e la pratica stessa dell’obbedienza20. Vivere un’obbedienza incondizionata e “folle” è di
gran lunga una scelta preferibile alla “scommessa” di Pascal21. Infatti,
ogni creatura pensante che giunge
ad un grado di obbedienza perfetta: “[...] costituisce un modo singolare, unico, inimitabile, insostituibile di presenza, di conoscenza, di
operazione di Dio nel mondo”22. E
la Weil, se con la sua logica dell’assurdo si sforza di individuare una
“verità innominabile”, con la sua logica soprannaturale introduce, di
lettura in lettura, di obbedienza in
obbedienza, nella “logica di Dio”,
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che fonda e dà significato a quel che
all’uomo appare follia23. Non sarà
un caso, se nei Cahiers si legge: “Si
dice che i folli (quelli di un certo tipo) sono logici all’eccesso. Per un
motivo analogo, devono esserlo anche i mistici autentici”24.
NOTE
1 Docente di Antropologia Teologica presso l’ISSR di Trani, docente di lettere presso il Liceo Scientifico “Nuzzi” di
Andria.
2 Per l’edizione italiana: L. BUSCAGLIA, Vivere, amare, capirsi, traduzione
di Roberta Rampelli Pollini, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1992.
3 Cf. ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio
della follia per contrapporsi alla demenza
del mondo, Demetra, Colognola ai Colli
2000.
4 Sono note le parole di Blaise Pascal: “144. Noi conosciamo la Verità non
soltanto con la ragione, ma anche con il
cuore. [...] I princípi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con
certezza, sebbene per differenti vie. Ed è
altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi princípi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore
chiedesse alla ragione un sentimento di
tutte le proposizioni che essa dimostra,
per indursi ad accettarle”; “146. Il cuore
ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose” (B. PASCAL, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, 58-59). Si è facilmente
indotti a pensare che con affermazioni
simili il filosofo Pascal ceda ad un ingenuo sentimentalismo. Sembra corretto
sostenere che egli alluda piuttosto ad un
genere di ragione che, gi à al tempo di
Platone, era noto come “pensiero noetico” o “intuizione intellettuale”, intendendo con questo non un vago irrazionalismo, bensì un uso rigoroso della ragione, coniugato però con l’impegno personale e con un’ardente passione per la
Verità. Gli stessi, per intenderci, che hanno caratterizzato, tanto per fare due
esempi, la vita e il pensiero di Socrate,
come la vita e il pensiero di S. Weil. Sul
rapporto tra il pensiero di Pascal e quello della Weil, cf. D. ALLEN, Three outsiders: Pascal, Kierkegaard, Simone Weil,
Cowley Pubblications, Cambridge 1983;
A. DEVAUX, Simone Weil et Blaise Pascal,
in P. LITTLE, A. UGHETTO, Simone Weil. La
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soif de l’Absolu, in «Sud revue litt è raire
bimestrielle», n° 87/1990, 75-99.
5 Il riferimento è al saggio weiliano
L’Iliade ou le poème de la force: un titolo
che è già una presa di posizione. Simone
Weil ritiene che il protagonista dell’Iliade sia la forza che, in apparenza manovrata dagli uomini, in realtà li sottomette, li riduce ad una cosa, ad un cadavere.
L’Iliade è il poema del dramma della forza pura, che si manifesta nella guerra.
Non ci sono vincitori nella guerra, è una
tragedia dalla quale si esce tutti sconfitti, morti oppure moribondi nell’anima
prima ancora che nel corpo. Si veda anche S. FRAISSE, Genèse de l’article sur
l’Iliade, in S. WEIL, Ecrits historiques et
politiques 3. Vers la guerre (19371940),
Gallimard, Paris 1989, 304-309.
6 Cfr. P. FARINA, Dio e il male in Simone Weil, prefazione di Piero Coda, Città
Nuova, Roma 2009, 364 365; ma si rimanda all’intero capitolo, dal titolo La
morte del folle: Weil, il “giullare” di Dio, IB.,
361-377.
7 G.P. DI NICOLA – A. DANESE (a cura di), Persona e impersonale. La questione antropologica in Simone Weil, Atti del
convegno internazionale di studi dedicato alla Weil nel centenario della sua nascita (Teramo, 10-12 dicembre 2008),
Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, 8.
8 Cf. A. PEZZINI, Pensare la soglia. La
riflessione di Simone Weil tra filosofia e
mistica, Cantagalli, Siena 2007.
9 F. CASTELLANA, Simone Weil. La discesa di Dio, Edizioni Dehoniane, Napoli 1985, 114.
10 Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum, n. 2.
11 Cf. E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica Editrice, Bari 1982,129. A proposito di mistero, ecco la definizione che
ne dà la Weil: “La nozione di mistero è
legittima quando l’uso pi ù logico, più
rigoroso dell’intelligenza porta in un vicolo cieco, a una contraddizione inevitabile, nel senso che la soppressione di
un termine rende l’altro vuoto di senso
e porre un termine costringe a porre l’altro. Allora la nozione di mistero, come
una leva, trasporta il pensiero dall’altra
parte del vicolo cieco, dall’altra parte della porta che non è possibile aprire, al di
là dell’ambito dell’intelligenza, al di sopra. Ma per pervenire al di là dell’ambito dell’intelligenza, bisogna averlo attraversato fino in fondo, e seguendo un percorso tracciato con rigore irreprensibile.
Altrimenti non si è al di là, ma al di qua
[...]. L’intelligenza non può controllare
il mistero stesso, ma possiede un perfetto potere di controllo sui percorsi che
salgono verso di esso, e sui percorsi che
ne ridiscendono” (S. WEIL, Cahiers, vol.
III, Plon, Paris 1974; ed. italiana: Quaderni, vol. III, traduzione di G. Gaeta,
Adelphi, Milano 1988, 351 352; di seguito indicato con la sigla QIII)
12 La citazione è tratta dalla lettera
che Simone Weil scrive alla madre il 4
agosto 1943, diciannove giorni prima
della sua morte, subito dopo aver assistito, a Londra, al Re Lear di Shakespeare:
S. WEIL, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, 255 256; di
seguito indicato con la sigla EL.
13 Scrive S. Weil, a proposito della
sua esperienza in fabbrica: “Ho ricevuto
laggiù per sempre il marchio della schia-
vitù, come quello che i romani imprimevano con il ferro rovente sulla fronte dei
loro schiavi più disprezzati. Da allora mi
sono sempre ritenuta una schiava”(Attente de Dieu, Fayard, Paris 1966;
ed. italiana: Attesa di Dio, a cura di J. M.
Perrin, traduzione di O. Nemi, Rusconi,
Milano 1991, 75; di seguito indicato con
la sigla AD).
14 Cf. S. DE BEAUVOIR, Mémoires,
d’une jeune fille rangée, Gallimard, Paris
1969, 232.
15 Lettera ai genitori, del 12 luglio
1943, ora in EL 250-251.
16 S. WEIL, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950; ed. italiana:
Quaderni, vol. IV, traduzione con saggio
introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, 383; di seguito indicato con la
sigla QIV.
17 QIV 172.
18 Cfr. Ibidem.
19 QIV 187
20 Cf. S. WEIL, Cahiers, vol. I, Plon,
Paris 1970; edizione italiana: Quaderni,
vol. I, traduzione e saggio introduttivo
di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1991, 394
(di seguito indicato con la sigla QI); vedi anche QIV 188. Sul tema della preghiera, cf. P. FARINA, La preghiera, tra
ascolto e lezione, Rotas, Barletta 2009.
21 Cf. QIV, 197.
22 S. WEIL, Cahiers, vol. II, Plon, Paris 1972; ed. italiana: Quaderni, vol. II,
traduzione di G. Gaeta, Adelphi, Milano
1991, 327; di seguito indicato con la sigla QII.
23 Cf. QI 389.
24 QIV 166.
CARLO CRIVELLI, Predella dx (dal Polittico di Camerino), Ss. Giacomo, Bernardino e il beato Ugolino Magalotti da Fiegni (?), Milano, Pinacoteca di
Brera
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