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Brano2
da “Pietre del levante” di Domenico Gangemi Cap. 2 pag. 25 e segg. La gente, quella di un piccolo paese, dove si sa tutto di tutti, dove il vivere a stretto contatto fa apparire molte facce della stessa verità. Sugli usci, mamme sezionavano i lunghi capelli alle ragazzine, per scovare pulci e lindani che poi schiacciavano tra le unghie, uomini anziani tenevano i piedi a mollo dentro bacinelle d’acqua, senza curarsi di mosche che non avvertivano sulla pelle indurita. Cristiani e bestie vivevano le stesse case. Le donne si vedevano poco in giro. Nessuna però mancava in chiesa per la funzione della domenica, magari due volte, alla Messa del mattino per vera devozione e a quella delle undici, stracolma di gente, per esservi viste. Dentro, vecchie vestite a nero apprezzavano con vistosi sbattiti di testa il tuonare dal pulpito, impressionate dalle parole altisonanti, e incomprensibili. E Rosaria, tanto sorda da non farsi bastare le urla dentro le orecchie, ”che bella predica” commentava ogni volta alla vicina di posto, a ciò convinta dalla foga e dal gesticolare di mani. Le giovani, vestite con l’abito migliore e la veletta più ricamata, su quell’uscita domenicale fidavano per un buon matrimonio. Stavano bene accorte a mantenere il giusto decoro, tenendo gli occhi bassi a terra e la camminata composta. Che non ci voleva niente a perdere l’onore, bastava a volte solo un sospetto, persino una maldicenza per rifarsi di un rancore. Recuperarlo non era poi altrettanto facile. Ne sapeva qualcosa Maretta, che sempre si proclamava vittima innocente. ”Quando si butta in terra un pugno di farina, vallo a raccogliere poi” si lamentava piagnucolosa. Su lei, piacente come poche, gravavano infatti fosche ombre, seppure nessuno potesse addebitarle alcunchè di concreto, a parte l’essere stata sorpresa mentre parlava con un forestiero – un mastro lì di passaggio – troppo a lungo, troppo sorridente e sul fare dell’imbrunire. Ora poteva solo sospirare sull’uscio di casa in attesa di un marito. Ma le restavano poche speranze, aveva già posato gli occhi su tanti, scalando i sottili, quasi impercettibili, strati in cui presumeva di distinguersi il popolo, dirottando, a ogni fallimento, sempre un po’ più in basso. Nelle ore del giorno per i vicoli si incontravano solo vecchi e bambini. Gli altri stavano in campagna, anche molti ragazzi che avrebbero dovuto essere a scuola. Nella piazza e sul Corso stazionavano i nullafacenti, per indole o per non aver trovato padrone, e i ”civili”, quei pochi che avevano un comodo lavoro di paese e quanti potevano delegare a fattori e a servi le incombenze nelle proprietà. Gli uni e gli altri si mostravano con facce linde, capelli pettinati e abiti in ordine, come si conveniva a chi popolava il centro. Per le strade, ragazzi rincorrevano un pallone di pezze, spingevano a colpi di verga il cerchio arrugginito di una botte, si azzuffavano per accaparrarsi i cartoni della farmacia, da arrotolare per farne torce e giocarci a sera. In primavera in tanti con le canne rompevano i nidi e si mettevano in attesa della caduta di passerotti unti e spennacchiati, armati di due fette di pane dentro cui accogliere quel già pronto condimento. I più indossavano giacche paterne adattate alla meglio, con maniche luccicanti di un muco da asciugare lì solo al sentirne l’amaro in bocca. Colori non ce ne sono nei miei ricordi, se non il giallo rosato del lungo verme che vomitò un giorno Lino tra schiuma e bava. Di certo non ce n’erano nei vestiti, e neppure nei volti dei miei amici, tutti mostravamo lo stesso pallore della cera che raccoglievamo a palla il giorno dei morti al camposanto. Io avevo le scarpe. Cioè, io avevo le scarpe comprate apposta per me, da portare all’osso. Anche altri avevano le scarpe, molte però ciabattavano come becchi di papera o erano cosi abbondanti da far nuotare il piede. Eravamo comunque la prima generazione a portarle. Per quella appena precedente erano state un lusso insostenibile, per gente con la pancia piena. Pure tra noi ancora qualcuno le risparmiava: aveva piedi così induriti da poterne fare a meno. Le faceva viaggiare spesso a sbafo, tenendole in mano quando lo consentivano la strada e l’occhio dei paesani, per calzarle solo in vista delle case, con cura ai passi, da poggiare leggeri per limitare i danni. Già, proprio una generazione fortunata la nostra. Ce lo rimproveravano di continuo. ”Ci colpa l’alluvione del ’5l ... dopo, tutti gli stronzi vennero a galla”, cosi ci dicevano i grandi nati prima di quella calamità che aveva fatto rovine. Usavano un tono scherzoso, ma l’accusa era sentita, nasceva dall’inconfessabile malanimo di chi era cresciuto con orizzonti ristagnanti e immutabili, mentre il mondo d’improvviso concedeva, apriva strade, permetteva finanche gli studi. Tutte novità che disturbavano, perchè annullavano un livellarsi in basso dentro cui si riconosceva giustizia. Maruzzo si accaniva più di tutti. Sembrava avere un motivo di rancore con ciascuno di noi, non la finiva mai con la storia degli stronzi e dell’alluvione. Pure, ”papà” ci faceva a mo’ di verso a ogni incontro, irridente nello storpiarlo a gote piene. Credo si disturbasse che usassimo così, che fossimo la prima generazione ad aver messo da parte il ”voi” e quel ”patri” sempre adoperato da tutti. Credo gli rendesse più amaro il già indigesto pensiero che fossimo destinati a un destino migliore del suo, che a noi toccasse davvero ciò che lui poteva solo far intendere. Era infatti uomo di parata. Usciva di casa tirando grandi boccate di fumo dalla sigaretta nazionale e facendo i gesti buoni a indicarlo sazio di un lauto pranzo. Sbuffava pesantezza, si strofinava la pancia e si rigirava per ore un sottile filo di brughiera limato di punta per togliersi dagli spazi tra i denti i fastidiosi rimasugli di quella carne che, nelle famiglie del popolo, santificava – ma non sempre e non ovunque – la domenica. Non ci credeva nessuno. E Ntonuzza, sua vicina di casa, per ogni buon conto, non appena lo vedeva in giro, si ritirava dentro la gatta. A parte Maruzzo che ne faceva quasi un fatto personale, l’alluvione del ’5l rappresentò nell’immaginario collettivo il momento esatto del cambiamento, seppure non fosse pensabile di poter datare un’evoluzione. Però gli stravolgimenti ci furono davvero. Si videro libri in case prima ingombre solo di zappe e di pale, i servi dei palazzi cominciarono a essere pensati niente più che servi, contadini a giornata sollevarono la testa oltre il limite della terrazza da zappare pattuita col padrone. …