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Vorrei ripetere sempre: ricordate coloro che prima di voi hanno

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Vorrei ripetere sempre: ricordate coloro che prima di voi hanno
Vorrei ripetere
sempre: ricordate
coloro che prima di voi
hanno avuto la gioia
dei monti. E non sia
solo un bisogno del
vostro cuore, ma con
un dovere di gratitudine. Non dimenticate
che oggi con la vostra
tecnica e con le
vostre capacità
moderne, vi rizzate
sulle spalle di quelli.
Julius Kugy
Nuvolau e dintorni
da Passo Falzarego
(Ph N.M.)
Data in trave, Rifugio Bajon Belluno
(Ph U.S.)
Ferrata Olivieri
(Foto di Marco Ceccaroni)
Dicembre
2012
La “Riscoperta della montagna”
I disegni dilaganti
delle Vie Alpinistiche
Jean Antoine Carrel
Valtournenche 1829
Breuil, 1980
306
Il percorso della prima salita al
Bianco seguito da Balmat e
Paccard (Arch. CAI)
Il Cervino:
ll più bello
scoglio d’Europa
(Arch. CAI)
Frullare in 5000 battute di computer l’avventura dell’uomo sulle
pareti è come voler ridurre la Cappella Sistina ad una miniatura. Ma tant’è, le esigenze editoriali dovrebbero essere imprescindibili. Pertanto…
… Quando alle 18 e 23’ dell’8 agosto 1786 due tizi, dopo un gelido bivacco ed un’estenuante salita senza attrezzatura di sorta,
però in un commovente sprint finale, si affacciano alla sommità
del Monte Bianco, sicuramente uno dei due, il dottore Michel
Gabriel Paccard di Chamonix, è più che conscio d’aver compiuto
una impresa eccezionale. Giù in valle il barone von Gerstdorf lo
ha seguito con il telescopio, passo dietro passo, ed è lui a certificare l’ora esatta. In paese l’entusiasmo esplode, le campane
suonano a festa. Il compagno di Paccard, Jacques Balmat, ha
ben altri pensieri: è preoccupatissimo per sua figlia malata
(muore proprio quel giorno!) e, al momento, non lo conforta
certo l’aspettativa d’un premio o la rivalsa che, povero cercatore di cristalli com’è, si prenderà nei confronti di quei paesani
che lo snobbano professandosi guide. Comunque la profondità
dell’evento resta: la salita al Bianco segna il discrìmine netto tra
l’alpinismo, illuministico e aneddotico degli scienziati (ginevrini
e britannici) e l’avvento di una nuova era storica.
Altrettanto càpita, 79 anni dopo, con il Cervino, “il più nobile
scoglio d’Europa”, la piramide fino allora inespugnabile. Però,
dopo una ventina di tentativi sui versanti italiano e svizzero da
parte di non pochi aspiranti, nel 1865 la contesa (anche a causa
di incompatibilità caratteriali dei protagonisti) s’incentra sui
due più ostinati pretendenti: il londinese Edward Whymper e
Jean Antoine Carrel il Bersagliere, guida del Breuil. Quando i
tempi oramai stringono Carrel è convocato a Torino da Quintino
Sella, Giordano e Torelli, fondatori del neo Club Alpino: la Gran
Becca, perbacco, è da farsi, quanto prima e per la Cresta italiana del Leone. Ne va il prestigio della Valtournanche.
Whymper però dribbla il rivale dal versante svizzero dell’Hörnli: il 14 luglio 1865, con le guide Michel Croz, Peter Taugwalder
padre e figlio e con Francis Douglas, Robert Hadow e Charles
Hudson, è in cima. Però nella discesa i vincitori formano
un’unica cordata: Hadow scivola trascinando Croz, Hudson e
Douglas. Whymper blocca la corda che si trancia ed i quattro
precipitano lungo la parete nord.
Clamorosa l’eco della tragedia. A Londra si propone perfino di
proibire la pratica dell’alpinismo… Nel frattempo, Carrel il 17 luglio con Jean Baptiste Bich assolve il compito: la via italiana
Edward Whymper
Londra, 1840 Chamonix-Mont
Blanc, 1911
La conquista
del Cervino secondo
Gustave Doré
(Arch. CAI)
306 a Considerando
l’attrezzatura del tempo e le
possibili incognite la prima salita può essere considerata
un’impresa
eccezionale
(Arch. CAI)
307
Georg Winkler
Monaco
1869
308
Emil Solleder
Monaco 1889
Maije1931
Weisshorn 1889
alla Becca è una splendida realtà….
Proseguendo sempre a balzelloni: fine ‘800. lo scenario alpinistico è irriconoscibile, siamo in piena “golden age”. Tutti i 4000
sono stati “pluriconquistati” e, come le cime minori, ne portano
i segni (scritte, ometti, biglietti di vetta, corde fisse, chiodi;
anche croci). D’altronde i clubs alpini europei (autonomi compresi) sono lievitati: un’ottantina con 200.000 soci (150.000 di
lingua tedesca!). E si sono pure costituite vere e proprie “dinastie” di guide che si trasmettono di padre in figlio la nobile professione. Sulle Alpi Orientali poi il dolomitismo, iniziato da Ball
e Grohmann, ha bruciato le tappe: l’arrampicata è già sportiva,
a volte un fatto artistico.
Ed han preso avvio nuove forme d’alpinismo, quello invernale
(i mitici Sella!) e quello dei senza guide (tutti giovani). Uno dei
capiscuola è un occhialuto inglese di Dover, Albert Frederick
Mummery. Un romantico che si fa portatore d’un alpinismo
idealisticamente etico. Nel 1880 sul Dente del Gigante, giunto
con Alexander Burgener alla base della gran placca, retrocede
lasciando uno storico biglietto: “Assolutamente impossibile con
mezzi leali”. Un giudizio imperativo che auspica l’esigenza d’un
codice d’onore (contestato dai più)… Imperturbabile, messa nel
sacco una seconda serie di grandi imprese, Fred si fa sedurre
dall’alpinismo extraeuropeo. Prima in Caucaso, poi nel ’95 con
un audacissimo progetto: tentare un Ottomila himalayano, il
Nanga Parbat. Parte con un paio di amici. Affascinato dalla immensità del Nanga, senza attrezzatura idonea, supera più volte
quota 6000. Scompare, entrando nella leggenda, il 24 agosto
in un ennesimo tentativo con due portatori locali.
E approdiamo al ‘900. Sono anni fiorenti. I segni dell’uomo sulla
montagna si sono moltiplicati: capanne e rifugi nelle valli, serviti da una buona sentieristica. Sotto roccia e su intagli spuntano i primi bivacchi fissi. A Torino nel 1904 si costituisce il Club
Alpino Accademico Italiano, in tutt’Europa fioriscono le prime
scuole d’arrampicata. E l’alpinismo si arricchisce pure di confortanti quote rosa. …Finché appare un tale dalla tecnica perfetta. Arrampica come un angelo: è subito un mito, Paolo
Preuss. Nel solo 1911 compie 179 scalate. Spessissimo in solitaria traccia sulle pareti linee del tutto in libera. Su di lui si versano fiumi d’inchiostro (pro e contro). Dopo 1700 ascensioni, a
27 anni, in una solitaria (quasi ultimata) precipita dallo spigolo
nord del Mandlkogel (Dachstein). Ma ha fatto scuola. In tutto e
per tutto. Anche nel nascente scialpinismo.
… Però questa epoca felice è malata. Svapora nel 1914 con la
“guerra grande”. L’arco alpino del Nordest ne è totalmente
sconvolto: centinaia di km di trincee, bombardamenti terrificanti. Ci si annida al culmine di posizioni imprendibili che “gli
altri” fanno saltare all’aria con tonnellate di esplosivo stipato in
camere di scoppio. Montagne di morti per pietraie di nessun
conto. E a rifornire la prima linea si reclutano anche donne e ragazzi (costano quattro soldi). E d’inverno imponenti nevicate, i
congelamenti, le valanghe che annientano intere corvées. Poi,
quando il grande macello ha termine, si ufficializza l’escursionismo dei reduci ai campi di battaglia…
Ciononostante nei primi anni ’20 l’alpinismo rinasce con salite
al limite del possibile. In parete e su ghiaccio. In Dolomiti si è
sempre guardato alla grandiosa parete nord-ovest della Civetta.
Nell’agosto 1926 la guida Emil Solleder di Monaco ed il concittadino Gustav Lettenbauer, realizzano in giornata un capolavoro. Altro che svolta!, è una prima epocale: il sesto grado. Ma
la relazione ufficiale di Solleder non è purtroppo veritiera. Domenico Rudatis, il “profeta del sesto grado”, la contesta: Solleder ha condotto solo per un terzo della salita, demeritando
Lettenbauer (che disgustato si ritira a vita privata).
Nel decennio ’30, per il nazionalismo dei regimi instauratisi in
Italia e Germania, la competizione si snatura. La soluzione degli
ultimi grandi problemi (Cervino, Bianco, Eiger, Lavaredo, Marmolada, Agner) inzeppano trionfalisticamente le cronache alpine. Si legittima il culto del supereroe latino ed ariano: Franz e
Toni Schmid, Rittler, Welzenbach, Paul e Peter Aschenbrenner,
Heckmair, Kasparek, Harrer; Steger con Paula Wiesinger, Comici,
Soldà, Cassin, Ratti, Giuseppe e Angelo Dimai, Carlesso, Vinatzer, Tissi, Andrich, Gervasutti, Chabod, Boccalatte.
Ma si fanno alla ribalta anche i francesi: Armand Charlet, il ghiacPaul Preuss
in contemplazione
(Arch. CAI)
ciatore artista, affiancato dal fratello Georges, dai Lagarde, Devies, Allain, Roch e quant’altri… Al contrario sulle Alpi i britannici
si defilano (a parte Graham in Brenva), optano per l’Everest, i
tedeschi fanno il controcanto sul Nanga (con grandi sciagure).
Nel ’39 altra guerra: donde esce un’Europa totalmente distrutta
e spaesata. Con milioni di uomini alla ricerca d’una nuova identità, politica e sociale. Negli anni ’50, ripetute le vie estreme
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La storia dell’alpinismo in
persona:
Riccardo Cassin
con Reinhold Messner;
a destra Alessandro Gogna
(Ph Fila)
Reinhold Messner
(dis. Gabriele Zaramella)
d’anteguerra, cambiano i parametri concettuali. Molte le novità: l’onda lunga proletaria che rinsangua i corpi sociali dei
clubs alpini, l’acquisizione di nuove frontiere con l’alpinismo artificiale (specie in Dolomiti) e la globalizzazione delle culture
(specie dell’Est europeo) con un florilegio di imprese complesso
e variegato. Infine l’himalaismo, che ora seduce intere nazioni
con grandiose spedizioni agli Ottomila. Francesi, inglesi ed italiani gareggiano, cadono i primi Ottomila: l’Annapurna, l’Everest, il K2. Sul Nanga un leggendario Hermann Buhl in solitaria
realizza il sogno impossibile di Mummery, il Nanga.
Nel frattempo sul granito del più splendido obelisco alpino, il
Grand Capucin, un giovanissimo, Walter Bonatti con Luciano
Ghigo, traccia una linea estrema clamorosa. Nasce una nuova
gemmazione di “chiodatori”, Interpretato con vedute piuttosto
ambigue l’alpinismo artificiale genera le direttissime. E poiché
tutti vogliono esserci si inventano le superdirettissime invernali (Lavaredo). Ma l’artificiale così estremizzato diventa la
mortificazione dell’alpinista.
Finché nel 1965 la grande svolta. Ed è ancora Bonatti a siglare,
in 70 ore di arrampicata, il termine della sua carriera con una
traccia unica al mondo: prima, invernale e solitaria sulla nord
più nord, quella del Cervino.
Sulla sua scia altri intendono farsi avanti. L’innovatore però è
l’altoatesino Reinhold Messner. Con l’articolo “L’assassinio dell’impossibile” infrange cento tabù: con l’artificiale ad espansione si sopprime l’avventura. A dimostrazione sul Sass de la
Crusc realizza in libera il settimo grado. Poi inizia un travolgente periodo himalaiano, salendo, primo uomo al mondo, la
corona dei quattordici Ottomila. sotto tutti i riflettori, il guru dell’alpinismo di fine secolo. Ma non
basta: sulle Alpi c’è ancora spazio per tutti.
Difatti c’è chi guarda al ghiaccio effimero e mutevole delle goulottes e delle cascate (primi gli scozzesi, poi i virtuosi, i Patrick Gabarrou, i Giancarlo
Grassi, i Gianni Comino. Con la piolet traction è un
ricercare raffinato di nuove tecniche.
Ma il vento del rinnovamento soffia impetuoso:
nasce la compensazione alla tecnologia esasperata,
il Free climbing. In California il “Clean climbing”,
l’arrampicata pulita. Con un cliff, “angeli” in scarpette si librano su prese unidito e miniscaglie di appoggio. Con Helmuth Kiene e Karl Reinhard: la
Scala delle difficoltà di Welzenbach è oramai polverizzata (“Pumprisse” VII).
In Italia un filosofo, Gian Piero Motti, dogmatizza “il
nuovo mattino”, un modo diverso di fare alpinismo
(e di fare storia). I fondovalle diventano Centri di arrampicata (Mello).
Sul proscenio si affacciano a decine nuovi nomi (Igor
Koller e Jndrich Sustr con la celeberrima via del
Pesce in Marmolada, Maurizio Zanolla Manolo il
“Mago”, Wolfgang G llich che stratosfericamente arrampica fino all’XI grado).
Pochi sono ritornati all’alpinismo dai grandi sapori
antichi: Enzo Cozzolino “Grongo” in Dolomiti, Renato Casarotto sui colossi del mondo. In compenso
con la globalizzazione si accresce il sentimento sociale verso le popolazioni più indigenti e indifese. Si
configura così, specie in Himalaya e Ande, il “viaggio
giustificativo”. A cavallo del terzo millennio il panorama è rutilante. Da un lato seducenti minorenni
d’ambo i sessi (Adam Ondra uno per tutti), vanno a
caccia del 9a. Dall’altro ultracinquantenni salgono
ancora l’8c. Salite in libera, concatenamenti e ripetizioni grandinano ovunque. E se le spedizioni commerciali intasano i campi base e stendono km di
corde fisse sulle vie normali degli 8000, alpinisti
d’ogni idioma e cultura concludono salite impossibili con prestazioni al di là d’ogni immaginazione.
Nell’universalizzazione dell’attività in montagna i
loro nomi sfumano in una cronaca sempre più caotica. Ricordarli in questa spremuta di storia è impossibile. Anche perché, incredibile!, nel mondo
roverso che viviamo, ancora manca una storia dell’alpinismo veramente critica e universale.
La versione finora data dai Paesi insistenti sull’arco
alpino è sempre stata egemonica.
Armando Scandellari
(CAI Mestre)
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De Saussure
organizzò una vera e propria spedizione
ingaggiando
decine di portatori
(Arch. CAI)
74. L’esplorazione scientifica della montagna
L’alpinismo, inteso come salita di
una montagna per raggiungere la
cima o la vetta, viene fatta coincidere con al salita al tetto d’Europa : il Monte Bianco. I suoi 4807
m furono raggiunti, per la prima
volta, nel 1786 ad opera di Jaques
Balmat e Michel Gabriel Paccard;
lo scopo fu di natura scientifica: il
controllo della pressione atmosferica ad altezze elevate, i particolari effetti dei raggi solari, il
comportamento dell’organismo,
ecc. L’artefice di tutto questo fu
lo scienziato Horace-Bénédict de
Sussurre (1740-1799). L’anno successivo (1787) lo stesso de Sussurre raggiunse la vetta, con 18
guide, portando con se numerosi
strumenti scientifici di rilevazione.
Ma ad un’analisi un po’ più critica,
le montagne furono salite anche
negli anni precedenti a quella
data della salita al Monte Bianco,
al di là delle salite dei valligiani
che per motivi legati alla caccia,
qualche cima era stata calpestata. Tra tutti ricordiamo il
grande Leonardo Da Vinci (14511519) che, spinto da una attenta e
perseverante osservazione scientifica, permise al grande genio di
esplorare raggiungere alcune
cime, offrendo spunti essenziali
nella storia dell’idea di montagna
e del processo di percezione del
paesaggio alpino. L’attore del
primo delizioso manuale (Basilea
1561, più volte ristampato) fu Guglielmo Gretareli, medico e docente universitario a Padova. Tale
manuale descriveva sul modo di
antere in montagna e sul come
evitare i pericoli.
Arriviamo così nel XVI secolo
dove appaiono sull’intero arco alpino i botanici: il veneziano Pietro
Andrea Mattioli, che esplorò, per
raccogliere erbe, le montagne tra
Trento e Bolzano e salì sul Monte
Roen. I veneti Francesco Calzolari
e Giovanni Pona esplorarono il
Baldo, mentre il botanico dell’imperatore Massimiliano, Clusius,
raggiunge più cime delal Bass Austria. Per alcuni il padre spirituale
dell’alpinismo è considerato il fi-
losofo e pioniere della botanica
moderna, il zurighese Konrad
Gessner (Zurigo 1516-1565) che
salirà parecchie vette.
A cavallo del XVI e XVII secolo, da
parte degli Stati italiani ed europei aumenta l’attenzione verso la
montagna per un complesso intreccio di interessi: ricerche mineralogiche, sfruttamento delle
risorse boschive, possibilità di
traffici commerciali, conoscenza
dl territorio, rilievi topografici con
conseguente incremento della
documentazione cartografica e
letteraria.
Arriviamo così al periodo dei topografi, e ricordiamo i capitani
dello Stato Maggiore Sardo, Cossato e Ricci che nel 1837 e anni
successivi salgono in prima
ascensione molte cime interessanti per la rete trigonometrica.
Molti furono i cartografi delle Alpi
orientali (Peter Anich, 1723-1766)
e il suo assistente Blasius Hüber
per ricordare alcuni.
Infine spuntarono i glaciologi.
Aprendo una parentesi sulla re-
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48 . 336 - 30 7,18 - 16,40
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DOMENICA
Iª Domenica di Avvento
48 . 337 - 29 7,19 - 16,40
Litografia
raffigurante
una comitiva
impegnata nel
superamento
di un grande
crepaccio sul
Monte Bianco
(Arch. CAI)
gione dolomitica ricordiamo
l’ascensione al Cimon del Cavallo
(Prealpi Carniche) effettuata nel
1726 dal farmacista-botanico Giovanni Giacomo Zanichelli (16621729) e il suo collega Domenico
Pietro Stefanelli. Nel XVIII secolo
non sono pochi i botanici ed i geologi, che battano, soli ed in
gruppo, le montagna delle vecchia Serenissima. Il più importante è il veronese Giovanni
Arduino, il padre delle geologia
italiana, tecnico minerario e speleologo, che acquisisce un profondo conoscenza del territorio
veneto, trentino, bergamasco, livornese.
Poi a fine secolo in pieno Illuminismo arrivo de Sussurre e nasce
l’alpinismo....
Ugo Scortegagna
(CAI Mirano)
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3 LUNEDÌ
S. Francesco Saveio
49 . 338 - 28 7,20 - 16,39
4 MARTEDÌ
S. Barbara
49 . 339 - 27 7,21 - 16,39
5 MERCOLEDÌ
S. Dalmazio
49 . 340 - 26 7,22 - 16,39
75. L’escursionismo
L’escursionismo è uno dei modi
per usare il tempo libero più salutare e appagante; ecco perché
viene attuato da oltre l’ottanta
per cento degli appassionati di
montagna (almeno questi sono i
dati dei soci CAI). Camminare
lungo i sentieri che si inerpicano
verso la montagna, attraversare i
prati, i boschi, i pascoli e la praterie d’alta quota, fino a raggiungere la meta prefissata e il punto
dal quale si possono ammirare gli
ineguagliabili paesaggi che solo le
montagne di tutta la penisola (e
non solo!) sanno offrire, non è
una cosa senza importanza, e lascia impressioni che non si possono dimenticare facilmente.
Ogni escursione è un avvenimento, una conquista, una storia
da poter raccontare.
Percorrere i sentieri alpini dà all’escursionista attento moltissime
esperienze nuove: incantevoli panorami, ameni paesaggi, piante e
fiori vivacemente colorati, animali
piccoli e grandi che ancora s’incontrano con frequenza leggere
le varie testimonianze che l’uomo ha impresso in questo territorio. Per i più esperti (e qui viene
in aiuto la figura dell’ONC-Operatore Naturalistico Culturale del
CAI) vi è anche la l’opportunità di
scoprire i molti misteri che la
montagna racchiude e che non
saranno mai compresi completamente, poiché la montagna è, sin
dai tempi dei primi colonizzatori,
la sede dei poteri e fenomeni imprevedibili e dei misteri mai svelati, che da sempre suscitano
nell’uomo fascino e timore.
La soddisfazione dell’escursionista sarà quindi tanto più grande
quanto più riuscirà a “capire”
l’ambiente montano, la sua storia
geologica, l’importanza dei suoli;
quando riuscirà a scoprire, riconoscere ed apprezzare con la
competenza dell’esperto la bellezza di un fiore raro, degli animali del bosco e di quelli che
vivono ai piedi delle montagne e
sulle rocce , di un uccello, di una
farfalla nonchè i segni dell’uomo.
In un’escursione in montagna non
è importante la “velocità media”
(come può esserlo sull’autostrada), né rispettare i tempi di
percorrenza indicati dalle carte
dei sentieri, importante è ciò che
si è visto e capito, ciò che la montagna insegna e che rimane per
sempre impresso nell’ animo.
Come dice Teresio Valsesia, uno
dei promotori dell’attività escursionistica all’interno del CAI, importante è muoversi “con i tempi
della natura non quelli dell’uomo”
e, per ricordare una delle frasi più
belle del past- president Annibale
Salsa, “il terreno dell’attività
escursionistica è uno spazio in cui
possiamo scoprire i segni dell’uomo, della sua febbrile attività
insediativa volta ad ‘addomesticare’ la natura nel rispetto dell’ecosistema”.
Tutto questo e molto altro possiamo trovare e ritrovare nell’escursionismo, basta avere “il
cavallo di San Francesco” : i nostri
piedi.
Buon escursionismo a tutti.
Ugo Scortegagna (CAI Mirano)
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S. Nicola di Bari vescovo
49 . 341 - 25 7,23 - 16,39
S. Ambrogio vescovo
49 . 342 - 24 7,24 - 16,39
8 SABATO
IMMACOLATA CONCEZIONE
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DOMENICA
IIª Domenica di Avvento
49 . 344 - 22 7,26 - 16,39
Uscita escursionistica
(Ph U.S.)
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6 GIOVEDÌ
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10 LUNEDÌ
Nostra Signora di Loreto
50 . 345 - 21 7,27 - 16,39
11 MARTEDÌ
S. Damaso I Papa
50 . 346 - 20 7,28 - 16,39
12 MERCOLEDÌ
S. Giovanna
50 . 347 - 19 7,29 - 16,39
76. I sentieri alpini
Alla luce di quanto afferma il vocabolario, per sentiero si intende: “una
via stretta e appena tracciata tra
prati, boschi, rocce, ambiti naturalistici o paesaggi antropici, in pianura
o montagna”.
È una via, un tracciato ad esclusivo
o prevalente uso pedonale, a fondo
naturale, formatosi per effetto del
passaggio di pedoni; la sua larghezza è tale da permettere il passaggio di una sola persona per volta
in uno dei sensi di marcia (larghezza, generalmente, inferiore a
1,2 m). Il sentiero rappresenta quella
categoria della viabilità montana
che, meglio di ogni altra, si presta
alla conoscenza diretta e approfondita del territorio.
È la via, il percorso, ove si ”adopera” principalmente il frequentatore della montagna poiché ancor
oggi rappresenta la principale via di
comunicazione e di collegamento
tra piccoli centri abitati, per il raggiungimento dei luoghi dove il montanaro svolge la sua attività:
pastorizia, monticazione, prelievo
del legname. I sentieri sono un pa-
trimonio culturale e storico di
enorme spessore e oggi sono riscoperti e ripristinati grazie all’attività
febbrile dei frequentatori della montagna, in primis i soci CAI. Un lavoro
fondamentale, poiché dagli anni ’50,
con l’abbandono forzato delle montagne, questi “fili d’Arianna” non furono più soggetti al minuzioso e
capillare controllo di cui queste testimonianze necessitano.
I sentieri sono fondamentali, oltre
che per un uso legato all’escursionismo, anche per un maggior valore
di controllo e protezione della montagna: è per questo che si è sviluppato anche un “corpus legislativo”
che permette di avere un approccio
coordinato mirato e attento verso
questo patrimonio definito della
“viabilità minore”.
Dal punto di vista escursionistico, i
sentieri consentono un agevole e sicuro movimento dei frequentatori
della montagna al di fuori dei centri
abitati, per l’accesso ai rifugi alpini,
ai bivacchi fissi d’alta quota, a luoghi di particolare interesse naturalistico, ambientale, storico, turistico
e alpinistico. Oltre ai sentieri in
senso stretto esistono anche i “sentieri attrezzati” che consistono in
sentieri con brevi tratti con passerelle, corde d’appoggio,ecc in modo
da renderne giù agevole le percorrenza consentendone l’eliminazione
di difficoltà e pericoli per l’escursionista. I sentieri attrezzati non comprendono le vie ferrate.
I sentieri, per noi uomini e donne del
CAI, costituiscono dei veri e propri
“strumenti culturali” utili prendere
coscienza del proprio essere, della
propria esistenza. Su qualunque
montagna noi percorriamo queste
“vie di conoscenza”, riscontriamo
nel tracciato testimonianze e segni
di una vita legata all’ambiente alpino; se questi percorsi, intrisi di
tanta storia e testimonianze di fatiche, potessero “parlare” ci racconterebbero storie e aneddoti che
sicuramente ci farebbero diventare
più consapevoli e di conseguenza
più rispettosi di questi strumenti
culturali.
Ugo Scortegagna
(CAI Mirano)
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S. Lucia
50 . 348 - 18 7,29 - 16,39
14 VENERDÌ
Giovanni della Croce
50 . 349 - 17 7,30 - 16,40
Sentiero alpino sotto
Lavaredo
(Ph U.S.)
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SABATO
S. Valeriano
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DOMENICA
IIIª Domenica di Avvento
50 . 350 - 16 7,31 - 16,40
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50 . 351 - 15 7,31 - 16,40
Un Sentiero in costruzione
(fonte CAI Agordo)
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13 GIOVEDÌ
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17 LUNEDÌ
S. Lazzaro
51 . 352 - 14 7,32 - 16,40
18 MARTEDÌ
S. Graziano vescovo
51 . 353 - 13 7,33 - 16,41
19 MERCOLEDÌ
S. Dario e S. Fausta
51 . 354 - 12 7,33 - 16,41
77. I rifugi
Furono i romani che, vinta la catena
alpina, stabilirono delle sentinelle
sui valichi più importanti.
Con il Medioevo, il fiorire degli Ordini monastici diffuse il bisogno di
ripopolare la montagna di posti di
sosta; nacquero allora gli ospizi del
Sempione, del Bernina, del Gottardo. Poi, vennero i sei rifugi napoleonici; l’Imperatore, in esilio a
Sant’Elena, fece pervenire al Dipartimento delle Hautes-Alpes il suggerimento di costruire un rifugio al
Col du Noyer, uno al Col de Manse,
un terzo al Colle dell’Agnello, un
quarto al Colle della Croce, un altro
al Col d’Izoard e l’ultimo al Col de
Vars.
I rifugi alpini, quali noi li intendiamo
attualmente, sorsero e si svilupparono per offrire agli appassionati
dei monti un minimo di comodità.
Con la nascita dell’Alpinismo, se ne
costruirono alcuni sui fianchi del
Monte Bianco, alla Montagne de la
Côte, ai Grands Mulets, al Col du
Midi e a Montenvers e con la fondazione del Club Alpino Italiano, si avvertì subito la necessità di creare
basi fisse per la scalata delle
vette.Si ebbero così, in ordine di
tempo, il rifugio dell’Alpette al Monviso nel 1866 e quello della Cravatta
sulle falde del Cervino. Seguirono,
nel 1874 il rifugio delle Aiguilles Grises al Monte Bianco, nel 1875 il rifugio delle Hohes Licht o Linty,
ricavato nel seno di una roccia sulla
via di salita al Monte Rosa e, nel
l876, il rifugio al Colle del Gigante.
Dal 1877 le costruzioni si moltiplicarono rapidamente, ma molte furono
distrutte dal tempo, dalle valanghe
o dagli incendi.
Vecchi rifugi decaddero per il mutare dei gusti che vennero via via
concentrandosi sull‘attività esplorativa e sportiva dell’alpinismo. Furono abbandonati i rifugi costruiti
sulle cime e al loro posto si moltiplicarono quelli costruiti come basi
alpinistiche. Agli inizi del 1900, il
Club Alpino Italiano contava 5400
soci e 98 rifugi.
Nei primi anni della sua esistenza, il
C.A.I. era provvisto di scarsi mezzi
finanziari per cui, quando si trattava
di erigere una capanna, si cercava
di trarre profitto dalla natura dei
luoghi.
Si cercava allora una rupe strapiombante o una grotta scavata
nella roccia attorno a cui fabbricare
tre muri con pietre a secco. Il rifugio era sempre umido e il comfort
inesistente.Il mobilio era costituito
da una tavola, una panca ed un fornello; al suolo, un tavolato su cui veniva stesa della paglia che, per
effetto dell’umidità, in breve imputridiva e diventava come letame.
Anche le coperte di lana ammuffivano.
La neve penetrava, si accumulava
all’interno e si trasformava in ghiaccio che screpolava i muri e ingrandiva le fessure.
Si iniziò, allora, a costruire i rifugi
non più addossati alle pareti, ma,
per ripararli dall’impeto del vento,
distanziati da queste di pochi centimetri, ma il ghiaccio si accumulava
fra la roccia e il muro e con la sua
spinta causava gravi danni strutturali.
Si cominciarono a costruire capanne in legno e si comprese l’importanza di fabbricare rifugi capaci
di resistere alle violente bufere, alle
ingiurie degli agenti atmosferici e ai
repentini e sensibili sbalzi di temperatura. Per questo, si fece ricorso
a materiali di prima scelta e a tec-
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S. Liberato m.
51 . 355 -11 7,34 - 16,42
21 VENERDÌ
S. Pietro Canisio
51 . 356 - 10 7,34 - 16,42
Rifugio Comici e Cima 11
(Ph D.B.)
niche progetuali e costruttive sempre migliori. Oggi, i rifugi del C.A.I.
sono 774 ed offrono 22.604 posti
letto. Sono situati ad altitudini diverse: dal più basso d’Europa (il Rifugio Mario Premuda in Val
Rosandra nel Carso Triestino, 82 m
slm - di proprietà della Società Al-
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SABATO
S. Flaviano
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DOMENICA
IVª Domenica di Avvento
51 . 357 - 9 7,35 - 16,43
321
51 . 358 - 8 7,35 - 16,43
pina delle Giulie), al più alto d’Europa (la Capanna Osservatorio Regina Margherita sulla Punta Gnifetti
nel Massiccio del Monte Rosa, 4.556
m slm - di proprietà del CAI Centrale, in gestione alla Sezione di Varallo).
Mauro Ferrari (CAI Bozzolo)
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20 GIOVEDÌ
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24 LUNEDÌ
S. Irma
52 . 359 - 7 7,36 - 16,44
25 MARTEDÌ
Natale del Signore
52 . 360 - 6 7,36 - 16,44
26 MERCDOLEDÌ
S. Stefano e Sacra Famiglia
52 . 361 - 5 7,37 - 16,45
78. Turismo montano, sci e impianti
Il turismo montano è un fenomeno antropologico (prima che
economico) recente, come l’alpinismo. Anzi: si può ben affermare
che il turismo montano nasce con
l’alpinismo. Le prime forme di
fruizione “diportistica” della
montagna sono quelle dell’esplorazione illuminista à la De Saussure, che portano alla nascita
dell’alpinismo e ai primi esempi
primitivi di servizi e professioni
turistiche (guide e portatori, locande, capanne e rifugi, ecc.).
Ma è solo con l’esplosione dello
sci da discesa che la montagna si
apre definitivamente al turismo di
massa. La diffusione degli impianti di risalita, a partire dal periodo pre-bellico, permette di
concentrare la tecnica sciistica
sulla fase di discesa, decisamente
più ludica. Con il boom economico, poi, lo sci diventa uno sport
alla portata di tutti, pronto da impacchettare e offrire alle masse
in modo standardizzato.
La Golden Age dello sci comincia
negli anni ’50, attraversa in
pompa magna gli anni ’60 e ’70 e
arriva, con qualche segno di cedimento, fino agli anni ’80. Poi lo
sci entra progressivamente in
crisi. Il “prodotto sci” è oggi un
prodotto maturo, la cui domanda
è in contrazione da circa un ventennio, per vari motivi:
è finito il dualismo mare-montagna, perché oggi ci sono nuovi
prodotti turistici fruibili durante
tutto l’anno;
oggi si può andare al mare anche
d’inverno (si arriva a “Sharm” in
tre ore e con pochi soldi);
fino a vent’anni fa i consumi turistici erano standardizzati e omologati, mentre oggi molti turisti
sfuggono alla “massificazione”;
oggi si va in vacanza più spesso,
ma per periodi più brevi (crisi
delle “settimane bianche”);
la popolazione invecchia e lo sci
è uno sport da “giovani”.
Per il turismo sciistico bisogna
considerare, inoltre, almeno un
altro fattore critico, ossia il tendenziale esaurimento della materia prima: la neve. Il mutamento
climatico in atto rappresenta un
elemento di grave incertezza per
molte stazioni turistiche. L’innevamento artificiale non è la soluzione, sia per limiti tecnici, sia per
gli elevati costi economici e ambientali che comporta.
La grande espansione del turismo
sciistico nelle Terre Alte ha cambiato il volto ambientale, economico e culturale delle montagne
più di qualsiasi altro fenomeno
recente. Mentre l’industrializzazione e l’inurbazione svuotavano
le campagne e le montagne, lo
sviluppo dello sci è stato, con i
suoi impianti avveniristici, le
strade, gli alberghi, i servizi moderni e “alla moda”, una grande
speranza di rivincita delle popolazioni montane, legittimamente
ansiose di sfuggire alla trappola
della marginalizzazione.
Oggi le vie dello sviluppo turistico
montano sono altre: diversificazione dei prodotti e dei servizi,
destagionalizzazione, enfasi sulla
naturalità e la tipicità, e così via. Il
ricordo dell’età dell’oro dello sci,
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S. Giovanni evangelista
52 . 362 - 4 7,37 - 16,46
28 VENERDÌ
SS. Innocenti martiri
52 . 363 - 3 7,37 - 16,47
Una nuova pista da Sci in Friuli,
ma arrivera
̀ la neve
(Ph U.S.)
tuttavia, resta molto vivo tra le
popolazioni locali. Nonostante
siano evidenti e numerose le testimonianze dell’insostenibilità
del vecchio modello di sviluppo
turistico (basti contare gli impianti e le strutture chiuse e cadenti, che deturpano l’arco alpino
e la dorsale appenninica), ancora
oggi vengono riproposti progetti
di espansione o nuova costruzione di demani sciistici, molto
29
SABATO
S. Tommaso Becket
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DOMENICA
S. Eugenio vescovo
52 . 364 - 2 7,37 - 16,47
323
52 . 365 - 1 7,37 - 16,48
spesso al di fuori di qualsiasi verifica di sostenibilità economico-finanziaria e ambientale.
Eppure per le montagne, i loro
abitanti e i loro visitatori potrebbe
aprirsi una nuova età dell’oro.
Basta saperla immaginare. E accompagnarla con interventi adeguati e misurati.
Alessio Liquori
(CAI Roma)
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27 GIOVEDÌ
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LUNEDÌ
S. Silvestro Papa
53 . 366 - 0 7,38 -16,49
Ferrata Mesules
(Ph di Marco Golinucci)
79. Storia e nascita delle vie ferrate
Esiste uno sport in montagna che
si inserisce tra l’escursionismo e
l’arrampicata, questa attività permette di intraprendere delle vere
e proprie vie alpinistiche, che ti
consentono di aggrapparti con le
mani alla solida roccia, abbracciare la montagna e assaporare il
senso del vuoto: è la pratica delle
vie ferrate.
Le vie ferrate identificano tutto
ciò che è preparato, fissato, organizzato per facilitare il percorrimento o il transito o più
propriamente la scalata in sicurezza di una parete di roccia che
diversamente dovrebbe essere
affrontata in cordata e il raggiungimento della cima o altra meta
alpinistica.
Nei paesi di lingua tedesca, nonostante venga ripresa abitualmente questa internazionale
definizione, la “via ferrata” viene
chiamata “Klettersteig” ed è con
questa definizione che sono riconosciuti i “connettori” di sicurezza a base larga con ghiera di
auto chiusura per ferrata, siglati
con una K , appunto Klettersteig.
La nascita delle ferrate non ha un
periodo di collocamento preciso
nella storia ma si sa che non furono utilizzate solo per scopi puramente sportivi. Infatti nel
lontano 1492 Antoine De Ville, capitano dell’esercito francese, installò una scala a pioli per salire
sul Monte Anguille; con lui salì
anche il resto della compagnia di
soldati. Passarono quasi cinquecento anni prima di osservare
nuovamente installazioni artificiali per facilitare la salita di montagne.
Attorno al 1843 il Prof. Friedrich
(1813-1896) grande esploratore
delle montagne del Dachstein,
dopo aver raggiunto la cima
dell’Hocher Daschein per diversi
itinerari, allestì la prima vera “via
ferrata” di tutti i tempi composta
da circa 190 metri di cavo d’acciaio, chiodi ed anelli in ferro oltre
ad una scala di quasi 5 metri fissata sull’orlo di un precipizio. Passarono da quel tempo oltre
venticinque anni e nel 1869,
venne preparata una nuova via
ferrata di tutto rispetto ad opera
dei pionieri dell’alpinismo di quei
tempi dai quali scaturì l’idea di facilitare la scalata della bellissima
cresta Sud-occidentale del Grossglockner.
Per fare ciò vennero praticati dei
fori con scalpelli a croce nei quali
si posizionarono dei chiodi in
ferro fermati da opportuna piombatura. A questi chiodi furono fissate delle funi metalliche,
anch’esse fermate in asole con fascette in ferro opportunamente
piombate.
Nello stesso anno, sempre sul
Grossglockner probabilmente a
seguito del successo ottenuto da
questa prima via ferrata, i tedeschi Thomas Rupert e Michel Groder iniziarono la costruzione di un
itinerario attrezzato che percorreva la difficile “via Studl”.
Dopo un lavoro incessante, durato due mesi, i tre alpinisti ebbero ragione di questa nuova ed
entusiasmante via ferrata che fu
attrezzata con 400 metri di cavo
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Si deve risalire al 1903 per tornare in Italia e vedere qualche
cosa muoversi. Sembra che la più
antica via ferrata costruita nel nostro paese sia l’Hans Seyffert
Weg sulla cresta occidentale della
Marmolada. Ma la concezione di
via ferrata non era ancora ben definita.
Si attrezzano brevi tratti molto
difficili su itinerari complessivamente facili. A quel tempo, nel
passaggio al nuovo secolo e
prima della guerra mondiale, diverse associazioni non propriamente
alpinistiche
vollero
allestire una via ferrata come monumento a ricordo della propria
storia.
Nel 1910, sulle Alpi Giulie, in occasione del quarantennale dell’associazione alpinistica di Villach,
venne attrezzato il passaggio più
difficile ed impervio della parete
settentrionale dello Jof di Monta-
sio, scalato per la prima volta nel
1902 dall’alpinista Julius Kugy.
Ed ancora nel 1912, grazie all’opera dei volontari della sezione
di Pobnek durante il loro 25° anniversario di fondazione, venne
allestito uno tra i più arditi tratti
ferrati sulla parete Nord occidentale del Piz de Ciavazes al Passo
Sella che seguiva l’itinerario degli
alpinisti bolzanini Haupt e Mayr.
Certamente gli intendimenti dei
primi costruttori di vie ferrate
non erano quelli dedicati all’utilizzo bellico tuttavia, durante la
grande guerra, l’impiego di questa filosofia venne adottata su
molte montagne di confine.
Si ricorda ancora l’Ortles, le Dolomiti Trentine e Venete sino alle
Alpi Giulie per finire all’Isonzo. I
soldati costruirono nuovi sentieri,
fissarono scale in legno agganciate ad uncini in ferro, stesero
tratti di cavo d’acciaio ed utilizza-
D I C E M B R E 20 1 2
d’acciaio, moltissimi chiodi in
ferro e per la prima volta furono
fissati anche dei gradini di appoggio. Questa ciclopica opera
(per quel tempo) non fu sufficiente ad attenuare le difficoltà
della “via” che rimase per molto
tempo una scalata di rilievo nonostante il rifacimento in “via ferrata”.
Questo periodo storico, certamente da ascriversi quale inizio
della costruzione di vie ferrate
per fini ludici, ebbe inizio grazie
alle spinte di Johann Studl (18291925) uno fra i più grandi alpinisti
di quel tempo e profondo conoscitore delle pareti del Grossglockner.
Successivamente vennero fissate
corde d’acciaio su itinerari escursionistici per facilitare e rendere
sicuri tratti di roccia ghiacciata.
Ma non si poteva parlare, in questo senso, di vie ferrate.
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Ferrata Mesules
(Ph di Marco Golinucci)
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Storia e nascita delle vie ferrate
326
rono molta corda in canapa.
Scavarono vie sotterranee e gallerie in salita per il facile raggiungimento delle varie postazioni di
sparo.
Il Lagazuoi, il Monte Paterno, la
Tofana di Rozes ed altre grandi
montagne dolomitiche furono
teatro di grandi e furiose battaglie ed allo stesso tempo mantennero la continuazione storica
delle vie ferrate.
Negli anni ’30 iniziò l’importante
periodo della costruzione delle
vie ferrate di “grande respiro”. La
Società Alpinistica Trentina del
CAI allestì il famossissimo “sentiero delle bocchette”.
Questa evoluzione, riferita alla
preparazione di vie ferrate, subì
nuovamente uno stop a causa
della seconda guerra mondiale.
Le difficoltà del dopo guerra e
l’inizio di una nuova era non permisero un normale ritorno alla
costruzione di vie ferrate; basti
pensare che per la realizzazione
della via ferrata degli Alleghesi
sul Monte Civetta occorsero ben
17 anni (dal 1949 al 1966).
Attorno agli anni ‘70 si ripresero i
vecchi itinerari, se ne costruirono
di nuovi e la logica dell’attrazione
turistica agevolò anche la possibilità di ottenere, dalle amministrazioni preposte, opportuni
contributi per sopperire ai costi
dei materiali utilizzati. Mentre
molti itinerari (ad esempio quelli
nelle Dolomiti di Brenta) seguono
cenge, risalgono colletti, sfruttano le fasce orizzontali delle ripide
pareti
e
raramente
raggiungono le cime, si fa strada
una logica di sviluppo verticale
degli itinerari che puntano, seguendo un itinerario che sappia
offrire panorami e ambienti naturali d’eccezione, alla vetta.
Oggi sono ormai migliaia gli appassionati di questa attività che
trovano, anno dopo anno, un mi-
glioramento degli itinerari per ciò che riguarda
l’attrezzatura infissa e
per i materiali di autoassicurazione utilizzati.
Si osserva in diverse
aree, oltre a quelle italiane (Alpi austriache –
Alpi della Savoia– Alpi
svizzere), uno sviluppo
di itinerari che non sono
più indirizzati alla vetta
ma tendono alla verticalità ed allo strapiombo della parete
modulando le difficoltà
con un dosato impiego
di funi, catene, pioli o
scale.
Nelle gole di Briançon
sono decine le vie ferrate che seguono pareti
verticali, che salgono e
scendono a sfiorare i
torrenti, che attraversano con ponti, che mirano a pareti verticali e
strapiombanti, ma che
non raggiungono quasi
mai la cima.
Un caso simile di via ferrata “di difficoltà” è certamente la via ferrata sul Monte
Albano presso Mori (TN) che
segue un itinerario di scalata.
A tale proposito una curiosità è
certamente data dalla costruzione di una via ferrata, ritenuta
tra le più difficili delle Alpi, allestita con solo cavo d’acciaio
(senza alcun appoggio o pioli artificiali) su un pilastro verticale,
completamente liscio, di 110 metri
vicino al sentiero Kaiser Max
presso Zierl. Va lasciata ad ogni
ambiente e ad ogni alpinista la valutazione di quali e quante articolazioni filosofiche possono
esprimersi dalla preparazione di
una via ferrata, è certo che la
mente umana, non avendo limiti,
potrà sviluppare ancora straordinarie novità.
Chissà dove arriverà la storia
delle vie ferrate.
Marco Ceccaroni
(CAI Cesena)
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Ferrata Torre Toblin
(Ph di Marco Ceccaroni)
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