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Parla come mangi e saprai chi sei

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Parla come mangi e saprai chi sei
A me piace trasmettere a chi ascolta
o a chi legge le sensazioni e le esperienze vissute. Perciò vorrei proporre
una rubrica che riporti le parole più
interessanti del nostro dialetto montanaro esaminandole dal punto di vista dell'etimologia. Negli ultimi dieciundici anni ho lavorato accanitamente alla compilazione di un Vocabolario dei dialetti montanari, e durante
le ricerche ho sperimentato una soddisfazione intima scoprendo che il
nostro modo di parlare allunga le radici in tutte le direzioni e in tutte le
epoche. Ho trovato espressioni che
si perdono nella notte del tempo e in
aree geografiche impensabili.
Non garantisco una "consecutio" regolare e alfabeticamente ordinata.
Non ho ancora un elenco di tutti i
vocaboli da approfondire. Farò comunque del mio meglio, se la cosa
risultagradita, per rendermi utile. Anzi,
a coloro cui interessa l'argomento
chiedo di suggerire vocaboli sui quali
indagare. E mi lusingo che la rubrica
sia di stimolo per smentire chi non ha
voluto credere che la gente ha più
voglia di sapere e molte più capacità di capire di quanto non si creda.
Vorrei rassicurare i lettori che quanto
racconterò, o quanto utilizzerò, non è
farina del mio sacco ma frutto di
consultazione, proprio come sistema
analitico, su almeno sei autori diversi, alcuni a stampa, altri su internet, i
cui nomi credo siano una garanzia
sulla serietà della ricerca. Potrebbe
bastare il nome di Giacomo Devoto,
o quello di Barbara Colonna, oppure
quello di un anonimo pubblicato da
Rusconi nel 2003. Esu internet? Parte del Tommaseo (del Vocabolario
non è ancora conclusa la trascrizione), Ottorino Pianigiani (autore meticoloso, forse poco noto, ma che merita di essere consultato), oltre al Battaglia, al De Mauro, al vecchio e
sempre valido Palazzi e al Fedele.
Ho anche ritenuto opportuno tenere
presente l'opinione di ricercatori nati
nel nostro territorio, là dove costoro
indagano il nome di nostre località
appenniniche. Mi riferisco allo scomparso Cavalieri di Frascaro, all'eruditissimo prof. Minghelli di S. Andrea
Pelago, all'autodidatta Riccardo Berteni, al prof. Roberto Gandini, e anche a coloro che, con meno mezzi a
disposizione, hanno cercato comunque un approfondimento, come l'indimenticabile Agnese Castellini.
Il che mi convince ancor più d'essere
in buona compagnia.
Savino Rabotti
NUOVA RUBRICA/ETIMOLOGIA
DIALETIALE
Parla come mangi e saprai chi sei
di Savino Raboni
A prima lettera dell'alfabeto
Credo proprio che questa vocale rappresenti
il primo suono emesso dagli esseri umani, il
vagito iniziale. Che sarà stato accompagnato
da un gesto di trasporto del neonato verso la
madre, una specie di invocazione di protezione, di garanzia. Infatti, (ma questo non posso
documentario scientificamente perché risale
ad una lezione del prof. Pieraccioni nell' anno
scolastico 1956!) c'è chi ha intrawisto nella
grafia della A (maiuscola) le due falde del tetto
di una tenda o di una casa. Col passare del
tempo questa lettera è passata a indicare una
miriade di concetti legati al movimento (moto
a luogo), al vantaggio (a favore di. ..), al
tempo (es.: a Pasqua, a Natale), al modo (a
casaccio), ecc.
Ma la lettera A rappresenta un ordinamento le cui origini risalgono ai popoli mesopotamici, se non addirittura agli antichi popoli
dell'India. E fino all'avvento dei numeri
arabi questa lettera era la prima di una numerazione alfanumerica. Ancora oggi indica
l'inizio di una classificazione (Serie A; classe
A; categoria A; ecc.), e ciò ci spinge a
ritenere che il concetto investisse anche il
mondo metafisico, quello soprannaturale, arrivando ad indicare il principio vitale, l'inizio
di ogni cosa. Come per i Fenici, per i quali la
figura della A (àlep o àlef), raffigurava la testa
del toro che per quel popolo rappresentava
l'ente supremo.
Abandun
Abbandono, rinuncia, diserzione. Con tutte
le sue sfumature questo termine mette addosso un senso di impotenza, di vuoto che ti si
forma intorno. E lo vediamo nelle espressioni
pratiche della nostra gente: Abandunar
quercadùn significa lasciare che una persona segua il suo destino senza più intervenire;
abandunàr la via maìstra = uscire dalle
regole dettate dalla società, seguire l'istinto,
non ascoltare i suggerimenti di chi ha più
esperienza. Abandunar la cùrsc = ritirarsi, non competere più, rinunciare; in abandùn = trascurato, smesso.
Meno frequente, ma almeno gratificante, è il
senso spirituale o sentimentale del verbo, in
modo particolare se è riflessivo: abbandonarsi significa allora mettersi completamente
nelle mani di qualcuno, Dio se si tratta di
abbandono religioso, l'oggetto del proprio
amore se si tratta di sentimenti.
Ma, alla fine, cosa vuoI dire Abandun?
Come si è formata la parola (e con essa i
concetti)? Gli studiosi fanno risalire iltermine
al francese Abandonner, derivato da una
espressione del XII secolo à ban donner,
che significava: inserire nella lista, mettere a
disposizione di chiunque. Dietro tale espressione s'intravvede un consistente numero di
persone con lavoro precario, che si mettono
a disposizione di chiunque può offrire una
occupazione.
Iltermine francese si compone di tre elementi: la preposizione à (che per noi diventa in,
neh, il sostantivo ban, di derivazione gotica
(bandwa = segno, indicazione), resa in latino
con Bandum, in italiano con Bando, che
indica un ordine dell'autorità reso pubblico
mediante ilbanditore, cioè colui che grida per
farsi sentire; e infine il verbo donner, che
oggi ha assunto il significato di "dare", ma in
passato voleva dire anche inserire, mettere
dentro. Le motivazioni del bando potevano
essere tante, dalla ricerca di manodopera fino
alla comminazione dell'esilio. Passando al
pratico l'espressione ha cambiato significato
lungo i secoli conservando solo l'aspetto
deteriore dell' azione descritta, perché un elenco pubblico, in particolare quando la gente
non sapeva leggere, finiva lettera morta.
Veniva abbandonato! Un oggetto abbandonato è un qualcosa di inutile, di indecoroso.
[Devoto, Colonna, Rusconi}.
A brìch
Si tratta di una locuzione awerbiale con
riferimento concreto al montone. E ci riporta
alla memoria certe foto d'epoca in cui noi
ragazzi posavamo mostrando in tutta la sua
quantità le nostre cucurbite pelate a zero,
giustificando l'allusivo epiteto di "teste quadre", sulle quali cerchiamo di intrattenerci il
meno possibile. L'espressione indicava una
tosatura radicale, a zero (o alla Yul Brinner,
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BBTM
come si diceva qualche decennio
fa). Ilragazzo (perché di questi si
trattava quando si sentiva
l'espressione) veniva tosato da
qualche parente stretto, senza
tanti riguardi, come succede con
le pecore. L'operazione si rendeva necessaria se all'interno
della capigliatura comparivano
certi parassiti. E allora la prassi
esigeva, per i maschietti, rasatura a zero e frizione con petrolio
da lampada, mentre per le femminucce era sufficiente la frizione al petrolio.
La stessa espressione però ha
anche un altro significato: prendendo a paragone la testardaggine del montone lauuràr a
brìeh sottolinea la caparbietà di
chi non intende rinunciare a qualcosa, anche a rischio di sbattere
la testa contro un ostacolo.
Riferita al termine Brìeh la
messe etimologica è abbondante e ilvocabolo ha diversi significati. Per indicare il montone
Devoto spiega così: "Dal termine latino Buriceus, variante diminutiva di Bèeeus, si è
arrivati al nostro bricco". Però
il vocabolo latino beeeus ha un
antenato originario dell' area mediterranea in (i)bex, termine con
cui si indicavano le capre selvatiche. Abbiamo un brikòn anche
in greco, ma qui indica un animale da soma, cavallino o asino,
e la parola è di origine africana.
Bertani invece predilige il vocabolo longobardo Brihhil con
cui si definisce l'ariete usato per
demolire le fortìfìcazìonì.
Ma brìeh sta anche per cucuma, caffettiera, pentolino. In
questo caso viene chiamato in
causa il termine turco lbriq che
abitualmente traduciamo con
brocca. {Palazzi, Rusconi, Devoto, Colonna].
Se però vogliamo indicare un
picco, uno sperone di roccia allora bisogna risalire all'aggettivo
latino Aprìcus, cioè solatio,
esposto al sole. Il termine però
ha un antenato in Brikka, una
voce mediterranea che indica un
dirupo, una parete scoscesa {Colonna, Rusconi}.
Abastànsa
E' iltermine di "chi s'accontenta
gode", che si limita al necessario
senza preoccuparsi del superfluo. Compare nel XVI secolo.
Ad un primo esame la parola è
composta dalla preposizione Ad
e dal neutro plurale latino Bastantia ed equivale alla frase:
fino a (raggiungere) le cose sufficienti. E fin qui nessun problema. Ma conviene chiamare in
causa ilverbo Bastareper
scorgere altre sfumature che iltermine ha perso lungo i secoli. Esiste
in greco un verbo, Bastàzein,
che significa: io trasporto. Da
tale verbo è derivato ilsostantivo
latino Bàstum che indica l'attrezzo per il trasporto a soma, il
basto. Immaginiamo ora che un
mercante, o altra persona dell'antichità, debba iniziare un lungo viaggio. Si procurerà, in base
alla distanza da coprire, una o
più bestie da soma su cui carica-
re ilnecessario per ilviaggio: cibi
per le persone, acqua, indumenti, ecc., eliminando le cose superflue. Quindi le cose poste sui
basti, (torniamo al neutro plurale
latino bastantia), sono le provviste necessarie. Ma sono "bastanti" in quanto collocate sui
basti {Colonna, Devoto, Rusconi].
Abàt, con le varianti Abà e,
verso la pianura, Abè.
Qui il discorso è facilitato dal
poco uso del vocabolo. Diciamo
subito che la radice va ricercata
nell'aramaico 'Ab, attraverso il
siriaco Abbàh, cioè padre. La
parola è arrivata in Occidente
tramite il greco della Vulgata
'Abba', e il latino ecclesiastico
Abbas {Palazzi, Colonna Devoto].
Richiamiamo alla memoria certe figure ieratiche di monaci, fondatori o prosecutori di confraternite, ordini o congregazioni, moltiplicatesi nei primi secoli della
cristianità. Il termine
veniva loro attribuito
come segno di riverenza per la dottrina, lo
spiritoascetico, l'ascendente che costoro esercitavano sui seguaci. I
quali non trovavano di
meglio che chiamare
Padre il fondatore di
quella creatura che era
il monastero o l'ordine
monastico.
Quando poi la rigidità
della regola monastica
si allentò il termine è
stato usato per indicare
persona agiata o, comunque, comoda, lenta nelle decisioni. Al
femminile poi, Siùra Badèsa,
si riferisce a chi pretende servigi
anche senza averne diritto. In
tali situazioni era facile che l'interessata si sentisse rivolgere
l'espressione: Mangia meno
e tot la serva! (Mangia meno
e assumi una domestica, se vuoi
essere servita).
Abeeedàri, Beeedàri
Iltermine ricorda i primi elementi del sapere appresi sui banchi di
scuola, e, più che da noi, dai
nostri genitori. Noi disponevamo già del sillabario. Come è
deducibile dal suono, la parola
indica le prime quattro lettere dell'alfabeto(A, Bé, Cé,
Dé) ma sottintendendo l'inizio
dello scibile, la base di ogni scienza {Palazzi}. Il termine compare
in epoca carolingia, IX secolo
dopo Cristo (Abeeedàrius),
proprio per indicare un libro che
contiene i primi elementi del
sapere {Palazzi, Devoto, Rusconi, Colonna}.
Come capita spesso al significato iniziale ne viene applicato un
altro, metaforico, che si scosta
dal senso originario. Perciò, nel
linguaggio comune, può indicare un manuale per le istruzioni
d'uso, ma anche una sequela di
epiteti personali degni di biasimo.
Àbit
E' più usato vesti(al maschile) o
vèsta (al femminile). In latino
hàbitus indica soprattutto un
modo di comportarsi, un atteggiamento. Da tale termine nascono: abitudine, abituarsi, abitare e i loro derivati.
Facciamo un passo indietro e
lavoriamo un tantino di fantasia.
Partiamo dal verbo habère, che,
alla lettera, significa avere. Però,
con un poco di analisi, possiamo
scorgervi anche il significato di
possedere o, nella forma passiva, di essere posseduto,
essere contenuto, trovarsi dentro a. Da questo verbo (che viene
considerato intensivo di habère)
è derivato habitàre. Quindi
l'abito è ciò che contiene la persona e le conferisce un tono, uno
Foto archivio don Vasco Casotti.
stile, un modo d'essere, una indicazione del rango (non per nulla
ci si serve in abbondanza di divise
specifiche). Cioè dal concetto
materiale di vestito si passa a
quello di dote acquisita o di rango
svolto. E se l'abito non fa il
monaco è solo perché, spesso,
non ci immergiamo completamente nel ruolo che ci compete.
Afàbil, Afàble
Si parte dal verbo latino Fàri
che significa parlare, dire, esprimere a voce. Affabile è colui che
può essere raggiunto mediante
la parola, col quale si può parlare. L'aspetto piacevole del termine deriva dal fatto che spesso
la persona affabile è capace di
intrattenere con racconti gradevoli. Ilverbo Fàri è padre di una
lunga prole, a volte gustosa, altre volte no: affabile, infante,
fama, facondo, infame, nefando, ecc. {Colonna, Rusconi,
Devoto].
Afermàr
Preso così, nudo e crudo, il termine indica la possibilità di dire,
di sostenere una tesi. In latino
Affirmàre (composto da Ad +
firmare) indica una cosa (oggetto o idea) che deve essere consolidata. Se si tratta di oggetti materiali bisognerà renderli stabili,
fissi; se invece ci si riferisce a
concetti, idee, occorrerà dimostrare col ragionamento che si
tratta di affermazioni valide. E'
interessante seguire il percorso
del termine. Si parte dall'idea di
fissare (firmare) qualcosa ad un
oggetto (Ad). Possiamo fare un
esempio con l'adagio: Legare
l'asino dove vuole il padrone.
Ma ben presto il significato si è
spostato ad indicare concetti
astratti, tesi, giudizi. In conclusione oggi il verbo indica il prevalere del proprio (o altrui) modo
di vedere le cose, facendo leva su
prestigio personale, cultura, ecc.
Afit, Fìt
E' l'importo da versare per potere usufruire di un determinato
oggetto, di un ambiente, di un
servizio. Dal vocabolo
originale sono derivate
altre parole, quali: Fitànsa, Fita, Fitàble, Fitarol, Fituàri, Afitàr,
ecc.
Esisteva, presso i latini,
un'espressione giuridica: Ad pretium fietum = a prezzo stabilito. Tali infatti sono i
canoni di nolo o di utilizzo. Nel Medioevo
l'espressione è stata trasformata in verbo: adfictare, poi affietare. Il dialetto ha poi
fatto il resto riducendo
il vocabolo al minimo
necessario:
fita r,
come verbo (che riguarda sia il locatario che il
locatore), e, come sostantivo, fit!
Aghièl, Aghia
Si tratta di un termine diffuso di
più nel Carpinetano e nel Casinese. A Castelnovo e nel Vettese viene sostituito da Stùmbel,
il bastone di frassino, lungo e
sottile, all'estremità del quale veniva applicato un punteruolo, al
pintrol. Serviva per stimolare
gli animali durante l'aratura o il
traino di grossi carichi. Iltermine
si rifà al latino Aeus, ago, spillo,
punteruolo.
Albasin
Questo vocabolo è tuttora motivo di disputa fra gli etimologisti.
E ciò perché non è chiaro il
concetto che il termine indica.
Tutti ammettono che si tratta di
un ambiente ombreggiato, situato nella parte fredda, ma chi lo
pone verso est (collegando il termine ad alba, quindi rivolto
verso l'albeggiare), chi è convinto del versante a nord (invocando a convalida l'esposizione al
freddo). Tuttavia è ormai accertato che l'origine del vocabolo va
cercata nel latino Opàcus, aggettivato in (O)pacìvus, (ombroso, tendente allo scuro), termine che si è via via corrotto
tanto da arrivare in italiano con
A bacìo e in dialetto Albasin
(per fusione di Al + bado, e
sonorizzazione della c in s) {De
Mauro, Tommaseo,
Devoto,
Rusconi].
•
TM 87
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
Angùta: neppure una goccia
di Savino Raboni
Alvaròla - Alvaroli
Oggi pochi ricordano la coppia di corregge
che partivano da un anello del giogo e si
awolgevano intorno alle corna dei buoi o
delle mucche. Ed è complicato spiegare che
per aggiogare un paio di bestie da tiro
occorrevano due coppie di a/varo/i, due di scià! e due di sutqùlo: La prima coppia
serviva per tirare il carico. La seconda per
frenare nel momento in cui il traino iniziava
la discesa. I sottogola invece erano una
semplice precauzione perché il giogo non
scivolasse via dal collo degli animali. Come si
sia formata questa parola è un mistero. Ci si
orienta verso il verbo Alvar, ma nell'accezione tipicamente contadina, legata al momento in cui le varie coppie di animali che
costituiscono la "taccata" si trovano in curva
e quella posteriore deve alzare il collo e
spingere verso l'esterno per mantenere il
carro o l'aratro in traiettoria. A tale proposito si diceva: "Far alvàr i bò " (o le mucche).
Quindi ci si è scostati dal senso originale del
verbo alzare, il cui significato è: sollevare,
portare verso l'alto, ma anche alleviare,
alleggerire.
Sfogliando il Devoto ho trovato un termine
che ci può illuminare di più sul significato
della nostra parola: Alzaia, che indica "colei che tira la fune". In questo caso la parola
deriva dal latino del medioevo helcionaria ed
è legata al termine classico helcium =
giogo. Elcionaria traduce il nostro "bestia
da tiro".
la falce fienaria. Iltermine deriva direttamente dal verbo andare, ma trasmette la sensazione dell'ondulazione, del procedere quasi
incerto. Tar l'cndàna indica quindi il mettersi al passo, uno dopo l'altro, dei falciatori.
Ma, come capita sovente, allude anche al
prendere una brutta piega, all'adeguarsi a
situazioni poco chiare.
Andàn
E' un termine in uso soprattutto nel versante
modenese (lo chiamano Agnedàn) e in Val
d'Asta. Indica l'ontano, un albero ad alto
fusto abbastanza diffuso anche da noi. Cresce di preferenza in terreni umidi e freschi,
come ci informa Virgilio: Pa/udibus a/ni
nascuntur (gli ontani nascono nelle paludi).
La loro corteccia è utilizzata in tintoria e
conceria. Nel latino classico si chiamava
Alnus, per poi diventare alnetanus nel
latino tardo. Minghelli (che documenta la
presenza del termine in molte altre regioni)
cita però il celtico Allan = vicino all'acqua,
che potrebbe essere il progenitore del latino
Alnus.
Andàna
Qualcuno forse ricorda le squadre di falciatori procedere a scala, ad una distanza tale da
permettere di mantenere il ritmo senza mettere in pericolo gli arti inferiori di chi lo
precedeva. Era un movimento sincronizzato: la falce che inizia a destra, traccia un
semicerchio, si ferma, un passo avanti e via,
daccapo. Fino a quando il caposquadra si
ferma per passare la cote sulla lama della
"ferra" o del "ferro", come veniva chiamata
74TM
Antiìn
La parola indica prevalentemente due cose:
lo spazio che un falciatore riesce a coprire in
una mandata oppure lo spazio che intercorre tra un filare e l'altro, che, grosso modo, è
riducibile al primo in quanto detto spazio
Mietitura (Roberto Sevardi, Fototeca
Biblioteca Panizzi Reggio Emilia).
Angùta
Amigh
Oltre al significato iniziale oggi ha assunto
anche quello di amante, convivente. A noi è
arrivato attraverso il latino Amicus, un'aqgettivazione del verbo amare. Ma anche il
latino lo ha mutuato da una radice preindoeuropea a base onomatopeica 'amma, col
significato di mamma. Il termine ha dato
origine ad un gruppo di vocaboli quali amita (la zia paterna, in latino), ameno, e
manth (il dio eros in etrusco).
bre, mentre si addolcisce in annus nel latino,
e sta ad indicare la ruota del tempo. Vertere
ci dà il senso del ciclo del tempo e di tutto ciò
che ad esso è legato. La sua traduzione ha
una infinità di sfumature legate a: girare,
rivoltare, capovolgere, rovinare, scorrere.
Come ci ammaestra l'adagio greco Pànta
rèi = tutto scorre.
Chissà in quante frasi fatte rientra questo
termine. E pur pronunciandolo spesso non
ci chiediamo che cosa voglia effettivamente
significare. Dividiamo la parola in due parti,
an e gùta. La prima parte, ci avverte
Cavalieri, è l'avverbio non che il popolo ha
trasformato in an. Però l'autore non ci
spiega con quale processo. Per la seconda
parte invece andiamo sul sicuro: gùta deriva direttamente dal latino gutta e conserva
lo stesso significato. Quindi angùta significa: neppure una goccia di ciò che è argomento di disquisizione. Si obietterà che goccia in dialetto suona gùsa. Verissimo. Ma
non è questo l'unico termine che, passando
nelle parlate moderne, si sdoppia su due
strade parallele.
Aniversàri
L'augurio è che questo termine venga utilizzato solo per ricorrenze liete. Purtroppo non
possiamo evitare che vi siano anche ricordi
tristi. Del resto già i latini, con la loro pìetas,
ci insegnano quanto importante sia il ricordo
costante di coloro che se ne sono andati. Se
da un lato abbiamo l'anniversario della nascita, del matrimonio, di una vittoria o di un
qualsiasi evento positivo, dall'altro abbiamo
l'anniversario di chi ci è stato caro per infiniti
motivi. Anche in questo caso la parola deriva
direttamente dal latino ed è composta da due
elementi: annus, che indica un periodo ben
preciso di tempo, e versarius, aggettivo
derivato dal verbo vèrtere. Ilsenso intrinseco dei due termini oggi ha perso un tantino
ilvalore iniziale che è quello di trasmettere la
sensazione dello scorrere ineluttabile del tempo. Infatti annus è l'evoluzione di una
radice primitiva • at ( = ruotare), che diventa
atnos (poi aknos) nelle parlate tosco-um-
corrisponde ad una sbracciata del falciatore.
Come concetto ritorniamo a quanto detto
sotto la parola Andana. Questo termine
però va ricollegato alla preposizione latina
ante = ciò che sta davanti. Tra i ricercatori
vi è chi ricollega, acrobaticamente, iltermine
a onda, riferendosi al movimento del falciatore che mantiene un ritmo ondulatorio. Tar
I'antùn è il compito del capo dei falciatori
al quale compete l'onere di iniziare la falciatura e determinare il ritmo delle cadenze.
Apàlt
Di solito si usa questo termine quando si
affida ad una impresa la realizzazione di un
progetto edile, stradale, ecc. In passato il
termine indicava anche la licenza per vendere beni di monopolio quali il tabacco, il sale
e simili. In questo caso però si usava di più il
sostantivo Patta, e il gestore diventava Al
pattino All'origine del termine abbiamo una
espressione giuridica latina: Ad pactum
che indica un impegno assunto per contratto, una convenzione. Intorno al XIII secolo
compare il termine Appaltus, ma con un
significato leggermente diverso. Pur restando legato ai beni di monopolio con tale
parola si indicava anche la possibilità di
esporre la merce sperando di invogliare
l'ipotetico compratore. Insomma, a loro
modo, esistevano già i vetrinisti. Ilsostantivo
Pactum, in questo caso, ha una evoluzione
particolare: è il participio passato del verbo
latino Pacàre, cioè calmare, pacificare,
placare. E' vero che i latini usavano Sòlvere
per indicare ilpagamento di un' opera o di un
servizio, ma il nostro pagare deriva direttamente da Pacàre. Alla fin fine pagare non
significa altro che calmare un creditore, fare
con lui la pace, rabbonirlo [Devoto, Colonna, Rusconi, Pianigiani}.
Apa~i
E qui-abbiamo una bella gatta da pelare!
Sul significato di questo verbo gli etirnologisti non hanno ancora raggiunto un
accordo. Per la maggior parte di costoro
il nostro termine deriva dal verbo latino
Pàndere ed indica un qualcosa che si è
disteso, che è stato aperto, oltre ad altri
significati. E spiegano la relazione col
nostro appassito dando al participio
latino il valore di "screpolato dal sole,
passo, appassito" {Colonna, Rusconi].
A me risulta difficile ammettere che il
caldo, l'arsura, allarghino o distendano
le foglie. Mi sembra più facile che le
rattrappiscano. Per questo mi sono fatto
la mia opinione che il termine derivi dal
latino Pàssus, participio passato del
verbo Pàtior, che significa: soffro, patisco. Lo ritengo più attinente se pensiamo che, di solito, una pianta o un ortaggio appassisce perché ha patito la sete.
Apòsta (A posta)
Un awerbio che conserva la sfumatura
di un comportamento dispettoso, vendicativo, come esprimono i modi di dire
del passato: T'I'è fàt a posta!, Fèt a
posta? Effettivamente il puntiglio della
volontari età deriva dalla primitiva formulazione in latino che suona: Ad pòsitam voluntàtem, che traduciamo col
semplice volutamente, deliberatamente. Oltre ad esprimere la volontarietà di
un' azione il termine in dialetto ha anche
la sfumatura di un qualcosa fatto per
scherzo, per prendere in giro: Fèt a
pòsta o Jet dabùn = fai per scherzo
a sul serio?
Ara
Oggi ha perso ilsignificato originale e, là
dove ancora ne esiste qualcuna, ha mutato la finalità, passando a quella di
parcheggio privato. Il significato del termine è di facile individuazione, ricorrendo, come al solito, al latino. Nel classico
infatti suona àrea, per passare nel latino tardi ad aria e quindi ad aia. Ma,
come al solito, ilsostantivo è legato ad un
verbo, in questo caso Arere = inaridire,
seccare. Ecco allora tornare alla mente il
grano disteso al sole in mezzo all'aia, o le
biade, o tutto ciò che necessitava di una
buona essiccazione prima di essere sgranato. E sempre sull'aia abbiamo visto
girare intorno i buoi con a traino al
piagnun (lapietra per sgranare) o squadre di uomini e donne intenti a far
roteare al cérsì, per poi percuotere il
cumolo di spighe, di fava, veccia o altro.
Il momento trionfale per l'aia era l'arrivo della trebbiatrice con tutto un formicolare di gente intenta ai diversi ruoli.
Per noi ragazzi la più bella soddisfazione era l'abbassare la leva della sirena al
termine della battitura, quando si mandava il segnale al successivo colono che
la macchina da battere lo stava per
raggiungere.
•
via Gatta, 48 - Castel
o; t~·~ ~~.
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p--1L'zO ~~~
Archerval'.r- al delunto una
nuova pOssibilila di vita
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
-
,
no sopra. Anche se è intuibile,
l'errore è dovuto alla fusione del
sostantivo con l'articolo. Poiché
Radio è femminile (la radio), ma
ha desinenza in o come i vocaboli maschili, i primi ascoltatori
hanno risolto unendo articolo
e sostantivo (Laradìo), e considerandolo maschile, per cui si è
reso necessario dividere l'articolo
con un apostrofo: l'aradio. E la
corruzione del termine ce la siamo
tirata dietro fino a poco tempo fa.
L'aratura (Fototeca Biblioteca Panizzi Reggio Emilia).
di Savino Rabotti
Ara
Aratro, in tutte le sue accezioni.
E uno degli strumenti che hanno
accompagnato,
passo passo,
l'umanità. A cominciare dai più
semplici (ricavati da un grosso
ramo bìforcuto, cui si tagliava
una parte per trasformarla in
vomere, e l'altra veniva usata per
fissarla al giogo) fino a quelli più
sofisticati, a vomere multiplo, da
trainare con grossi trattori. Sembra che già gli egiziani, settemila
anni fa, usassero l'aratro come
evoluzione della vanga. Occorre
infatti partire da molto lontano,
dal sanscrito. Glietimologi citano
il termine Aròtriam, che però
significa nave. Come mai? Perché come la nave solca e fende il
mare, così fa l'aratro col terreno.
E questo è il concetto base: fendere, tagliare, ferire. Ilsanscrito è
un'antica lingua dell'India che si
è evoluta prime delle importanti
lingue occidentali, e che, pur
essendosi trasformata, è ancora
parlato dai dotti indiani. Spostandosi verso occidente il termine
aratro è passato attraverso il
greco aròthron e poi il latino
aràtrum, ed è stato presente,
o lo è tuttora, con leggere sfumature, nelle parlate europee:
rumeno (aratru), provenzale
(araire), francese (araire, arlìlau),
catalano (aradra), spagnolo (arado, arairo), portoghese (arado),
antico tedesco (Ardhr), boe ma
(aradlo), slavo (aralo, ralo), e,
soprattutto, nel nostro dialetto,
con le varianti: aréì da la pèrdqa,
aréì d' lègn (detto anche piudà!ia),aréì d' [èr, aréì dal carìol, aréì
drìt (cioè col versoio a destra),
mansln (col versai o a sinistra),
vultln (a doppio vomere). Come
però si sia passati da Aràtrum
a Plòvum [piéd) è difficile da
giustificare. Probabilmente per
corruzione del termine greco
Plumaràtron
= aratro con
70TM
ruote. Ma di questo riparleremo
a suo tempo. Ci basti ricordare
che la voce latina Plòvum ebbe
l'onore di comparire nell'editto
di Rotari del 23 novembre 643.
Arabir
Nel nostro dialetto questo termine ha diverse sfumature. /srabir
pr'al taoùr indica un impegno
risoluto, un accanimento, ilvoler
ottenere più di quello che permettono le forze; arabir da l'invìdia
vuoi dire rodersi dentro, senza un
motivo valido; Fàr arabir corrisponde a tormentare, infastidire,
provocare, mettere in difficoltà.
Viene spontaneo associare il
vocabolo alla parola rabbia. La
radice sanscrita Rabha indica
violenza, impeto. In latino è
diventata prima ràbies,
poi,
nel parlare popolare, ràbia,
sostantivazione del verbo ràbere
che significa fremere di rabbia,
essere furioso. Teniamo però
presente che il termine latino
ràbies indica in primo luogo la
malattia tipica dei cani. E ràbidus in latino si riferisce a chi è
affetto dalla rabbia e si comporta
di conseguenza. Ilche conferisce
al termine una sfumatura di irrazionalità, di illogicità. E anche di
cosa pericolosa e contagiosa. Lo
ricordiamo l'effetto che faceva su
noi bambini quando vedevamo
una persona accanirsi in tutti
i modi col lavoro, magari poi
ottenendo risultati mediocri. In
chiave più rilassante vi è il detto
AI tàja eh 'l'arabìsache lascia
intendere uno strumento da taglio (coltello, manarino, accetta)
efficiente, ma poi il tutto viene
smontato dalla parte finale del
motto: cui ch'an tàja al le
scherpltsaì (ciò che non riesce
a tagliare lo strappa)!
Aràdio
Ormai tutti sanno che si tratta di
un madornale errore di pronuncia dei nostri nonni. E io rischio
d'essere fischiato perché ci ritor-
Arbasàr
Ribassare, sbassare, calare. Il
verbo tocca molti aspetti del
quotidiano:
il prezzo di un
prodotto, una posizione fisica,
un compromesso morale, un
degrado fisiologico. Si tratta di
un termine iterativo di abbassare. E per l'etimologia bisogna
risalire all'aggettivo Basso. Su
quest'argomento
gli etimologi
fanno tranquillamente a cornate.
La maggior parte insiste sulla
derivazione dal latino Bàssus,
termine che indica una persona
tarchiata ma poco alta, facendo
riferimento al Diez e appellandosi
ai linguisti del passato (Isidoro,
Papia). Altri vogliono risalire
al greco Bathùs
(profondo). Una
orecconferma
chiabile la si trova
nel dialetto dorico
Bàsson
(= più
profondo). Qualche connessione
fra le due lingue
comunque esiste.
E forse sarebbe
interessante capire da che pu n to
di vista viene osservato l'oggetto,
se dal basso verso l'alto o viceversa. Come succede per il termine
latino Altus che, in alcuni casi
specifici, significa profondo. Del
resto, se osservo un monte trovandomi alla sua base certamente
risulta "alto", ma se osservo un
pozzo sarà profondo, a meno
che non mi trovi sul suo fondo,
e allora diventa altus.
Arbecàs
Rimbeccare, rivoltarsi, reagire.
E immaginiamoci la scenetta di
due individui che discutono caldamente, ma ognuno con l'ìntenzione di far prevalere la propria
versione dei fatti. NelPianigiani,
un vocabolario etimologico della
fine dell'Ottocento, ho trovato
questa definizione per il verbo
rimbeccare: "Rispondere arditamente a un superiore, stare
a tu per tu". Oggi quell'autore
forse sarebbe costretto ad usare
espressioni meno pudiche e
meno rispettose. E' palese che
alla base del termine vi è ilsostan-
tivo becco, a~ma ~i d.ifesa e.di
offesa. Arbecas quindi vuoi dire
~~~~i~~i~~~eul~s~e~~ll;u~~
e nell'altro caso si intrawede la
reazione di chi, tollerati a lungo i
soprusi, alla fine sbotta. E in quei
~~t~~~~~~%e!erità riemergono,
Arbùmb e Rimbùmb
L'onomatopeia
qui la fa da
padrone. Il termine riproduce
un suono forte, cupo, preoccupante, e può dipendere da uno
scoppio (bomba, cannonata),
da un fenomeno atmosferico
(tuono), da un'eco amplificata.
La consuetudine di rifarei ad un
vocabolo il più distante possibile
nel tempo ci riconduce al greco
Bòmbos, che diventa Bumbus
in latino, ed indica un rumore di
fondo, cupo, ma non assordante
come un tuono. Viene più da
pensare ad un alveare o ad
un nido di vespe. In italiano è
diventato Bòmba. Oggi però
il termine
rievoca solo fantasmi di guerra
e di stragi. Si tratta infatti di
una parola quasi creata ex novo
dopo la scoperta della polvere da
sparo, nel XV secolo. Negli ultimi
tempi la parola bomba ha assunto
altri significati: notizia clamorosa, che sconvolge il quieto
trascorrere del tempo, o, peggio
ancora, allude all' assunzione
di stupefacenti.
Per nostra
fortuna lo stesso vocabolo indica
anche qualcosa di grandioso, di
piacevole al massimo: l'é 'na
bùmba = è uno schianto.
Arbufàr
Serate d'autunno,
giornate
piovose e agitate dal vento.
Prima di coricarsi la famigliola
è seduta a semicerchio attorno
al camino. All'improwiso uno
sbuffo di fumo scende dalla
cappa e si sparge per la cucina
sollecitando starnuti e tosse. Nel
mondo agricolo di un tempo ogni
fenomeno viene messo a confronto con qualcosa di pratico, di
tangibile. Allora un rimbrotto,
una lavata di capo, diventano
fastidiosi come il fumo negli occhi, e ti inducono a sbuffare, a
dimostrare insofferenza. Come
indispettisce una folata di vento
che scompiglia quanto hai
appena radunato. Queste sono
le diverse accezioni del termine
in oggetto. Per trovare una derivazione interessante anche in
questo caso dobbiamo ricorrere
all'onomatopeia, cioè ad un insieme di sillabe che riproducono
con la voce il suono contenuto
nel vocabolo.
Arbùt o Arbot
La voce indica i getti che crescono spontaneamente attorno alla
ceppaia di un albero. Si tratta
di getti spontanei, di ricrescita
di polloni, ma è pur sempre un
ri-buttare fuori quell'energia
vitale che le esigenze umane
cercano di contenere e pilotare.
Non sempre sono getti utili,
vantaggiosi per chi coltiva campi
e piante. Tocca perciò all'occhio
vigile del coltivatore discernere
(e solo con l'esperienza!) quando
questi potranno essere lasciati
soprawivere o tolti per far posto
a germogli più produttivi. La
parola è composta da due parti:
Ar-, particella iterativa, in italiano
tradotta, di solito, con Ri-, e bùt,
ossia getto, pollone, da riportare
al verbo Buttàre, presente in
tutte le parlate europee, dal
provenzale allo spagnolo, al
portoghese (botar), al francese
(boter e bouter), al germanico
(bot = spingere) e all'olandese
(bots). E, come spesso capita,
si tratta di un verbo con diverse
interpretazioni, stiracchiato per
la giacca, costretto ad adattarsi
a diverse esigenze, ma legato
comunque alla radice iniziale, il
franco ne o una lingua germanica, botan, che significa proprio
gettare fuori i germogli. Ed è
esattamente quello che il verbo
esprimeva al tempo dei nostri
nonni e tuttora indica. E, se
vogliamo passare al tenero, anche i figli, e ancor più i nipotini
sono degli "arbùt" da coltivare
e proteggere con ogni cura! Vi
è poi una curiosità legata all'ita-
liano ormai smesso, arbùto,
che indica o un melo selvatico
o il corbezzolo. In questo caso
bisogna riallacciarsi al sanscrito
bhu-tàs (pianta, germe) e da
questo al greco phutòn con lo
stesso significato.
Arbutàs
È difficile spiegare alle generazioni attuali questo comportamento. Semplicemente perché
è difficile scorgere un asino che
si ribalta e rotea a destra e a
sinistra, magari accompagnando
il comportamento con un raglio
di soddisfazione. Proprio questo
indica ilverbo: ilrigirarsi dell'animale in questione sulla nuda terra
per "grattarsi", asciugarsi, scacciare fastidiosi parassiti. Come
per la voce precedente occorre
riandare al verbo buttare, come
se l'animale gettasse sé stesso a
terra e ripetesse l'operazione.
Un tempo si usava lo stesso
termine per descrivere chi rideva
a crepapelle. Infine anche per il
ciuco si tratta di un gesto che dà
soddisfazione come una risata
liberatoria.
Archervàr
La memoria ora corre a quelle
piccole creature cui veniva chiesto di ricordare, se non proprio
di reincarnare una persona cara
scomparsa. Ilcompito affidato le
era proprio quello di tener viva la
memoria di un avo scomparso o
di un parente caduto in guerra.
Di per sé la parola significa Ricreare. Cioè bisognava dare al
defunto una nuova possibilità di
vita. Tale tradizione è vecchia
quanto l'uomo e molto radicata
presso i popoli orientali, per
i quali era obbligo conservare
l'albero genealogico. Presso gli
Etruschi e i Romani gli antenati
venivano divinizzati fino a diventare "gli dei penati", ossia
gli dei tutelari della casa. Anche
nel nostro caso il vocabolo si
compone di due parti, il prefisso
iterativo ar e il verbo chervàr.
Evidentemente il verbo ha subito il fenomeno della metatesi:
Creare, Cberiàr, Chervàr,
fenomeno non poi tanto raro
nel passaggio di certi termini
dal latino al dialetto. Del resto
anche il sostantivo creatura è
diventato cherìadùra.
Arcurdàr
Beh! il valore del vocabolo è
chiaro e non necessita di spiegazioni. Ciò che molti di noi non
sanno è la sua provenienza, la sua
composizione. Ancora una volta
chiamiamo in causa i Romani.
Nella loro mentalità la memoria,
il ricordo, aveva sede nel cuore,
non nel cervello. Per cui un fatto
veniva posto di nuovo (re-) nel
cuore (Cor). E questo passaggio
veniva espresso da un verbo
cordàre (in verità poco usato
perché rimpiazzato dal più usato
Recordàri) che significa mettere
dentro al cuore. Tale concetto è
ancora presente in francese (par
CCEr = a memoria) e in inglese
(to know by heart = imparare
a mente).
•
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
E' Natale, è ora
di ardusir la lamìa
di Savino Raboni
A m'é d'ajìs - A m'é d'avìS - A
m'é d'invìS
Locuzione che, alla fine, significa: mi sembra; è mia opinione.
A chi la sente solo pronunciare
e non la vede scritta può sembrare un ammonimento. Composita
com'è la frase risulta difficile da
decifrare. Tuttavia ha una corrispondente in latino che dice
esplicitamente:
A me sembra
che ... = Mihi visum est. Nel nostro caso rnihi traduce alla lettera
il nostro a me, mi. Visum est è
la forma passiva del verbo video,
tra i cui tanti significati vi è anche sembra, pare (Cavalieri). E
anche i francesi hanno lo stesso
processo fino alla formazione di
A vis = mi sta davanti. Per arrivare al dunque potremmo tradurre
l'adagio così: A me la questione è
apparsa così. Il che non esclude
altre opinioni o punti di vista. Del
resto anche in italiano l'espressione è sopravvissuta con: Sono
dell'avviso che.
Archivi
Archivio, raccolta di documenti importanti, da conservare. È
il luogo (o anche solo un mobile) adibito alla classificazione o
conservazione dei documenti di
famiglia o di quelli di interesse
pubblico, ma accessibili solo a
persone autorizzate.
Insomma,
il termine lascia trasparire che
si tratta di qualcosa di segreto,
da non dare in pasto a chiunque.
L'antico vocabolo del dialetto
greco Archèjwon
(Devoto), poi
Archèjon,
(derivato da Archè
inteso come principio, in seguito
come antichità, poi, ad un certo punto, anche come autorità
[Pianigiani}),
indicava qualcosa di relativo alla residenza dei
magistrati (Colonna). Dal greco
il termine è poi passato in latino
con Archium e in seguito Ar-
78TM
chìvum. Nelle lingue moderne ha
assunto il senso di luogo riservato
a persone autorizzate dalla legge,
ma non aperto a tutti. Tant'è che
per accedervi spesso occorrono
permessi speciali (come per l'archivio che raccoglie atti politici,
o l'archivio giudiziario).
Ma il
termine viene usato anche per indicare una raccolta di documenti
non segreti, come le fotografia.
Arcrovre
Di per sé il vocabolo indica la predisposizione di un riparo, di una
copertura, e deriva direttamente
dal latino Cooperire
= nascondere (un oggetto) con (qualcosa),
cioè toglierlo dalla vista. La sfumatura del verbo latino sta nella
radice operire = celare, nascondere (di conseguenza
coprire)
(Devoto). Ma ricordo questo termine per una sfumatura specifica
che il verbo assumeva quando si
trattava dei capitali della famiglia, gli animali. Indicava infatti
il momento della fecondazione
di una mucca o altro animale della stalla, cioè la monta. Dopo che
la manza era stata arquèrta bisognava aspettare il compimento
del ciclo per sapere se "si era tenuta" o meno. In questo caso più
che la radice del verbo dovremo
cercare una similitudine. Il toro,
per fecondare la mucca, la copriva col proprio corpo.
Ardensàr
E ricordiamo le con gratitudine le
lavandaie inginocchiate
nell'acqua corrente di un torrente o
appoggiate
ai lavelli pubblici,
impegnate ad eliminare le tracce
di sapone dalla biancheria appena lavata. Ed è il motivo per
cui ho citato il verbo. Non mi è
stato ancora possibile rintracciare una spiegazione etimologica
per questo vocabolo. So solo che
avvicinandoci
al Po il verbo diventa redensar, e in Lombardia
resentiir [SvampaJ.
Il parere dei lettori
Qualcuno si è fatto vivo! Iniziando questa rubrica abbiamo
chiesto ai lettori di suggerire vocaboli su cui indagare o versioni diverse da quelle proposte sull'etimologia dei termini
dialettali. Ringraziamo quindi Danilo Morini che ci ha segnalato che, a parere suo, l'etimologia di Angùta va cercata altrove.
E' stata proposta la versione di Giulio Cavalieri, sintetizzata
così: An = non (in origine nèque = neanche; e del resto pure
neanche, passando in dialetto è diventato Gnàn), e Gùtta =
goccia, quantità minima. Quindi l'espressione equivale a:
neanche una goccia, niente. Morini assicura d'avere letto
in qualche documento lombardo che la parola deriverebbe
invece dal latino Negòtia (in italiano = affari, negoziazioni,
occupazioni), partendo a ritroso da Negòt, Negòta. Certamente in questa versione il suono di negotia si avvicina di
più a Negòta. Personalmente però ritengo più convincente
la versione del Cavalieri (Parole latine vive nel dialetto della montagna reggiana, 1976, pg. 31). Intanto perché l'autore
cita nientemeno che Plauto (Neque gutta certi consilii = qui
non c'è neanche il minimo di buon senso), poi perché il termine latino Negotium è passato direttamente in dialetto con
Neqòsi, termine che riguarda il locale commerciale, mentre
per la contrattazione si ricorre a nequsiàr, nequsìànt. Però,
ritornando al lombardo, lo stesso Cavalieri cita un Vocabolario Milanese-Italiano del prof. Sanfi (II~ ed. 1870) secondo il
quale Negott o Negotta equivale a niente, ma sempre attraverso il latino Gutta. In tal caso il processo sarebbe lo stesso
in Lombardia e da noi. Ripeto però che in fatto di etimologia
di certezze ve ne sono poche.
Ardusir
Abbondante
è la messe di significati: ridurre, riunire, raccogl iere, ricondurre, rimpicciolire,
mandare in miseria. Il termine è
composto dal prefisso Ar (che dà
il senso della ripetizione) e dalla
radice dusir , discendente diretta del latino dùcere = condurre,
guidare, governare. Prevale però,
nel dialetto, il senso di riunire in
un unico luogo. E questo poteva
capitare con gli armenti (ardusir
al pègri), con la pulizia dei terreni (ardcstr al bràchi, i s.às.),
coi propri cari (ardusir lafamìa).
Nella forma riflessiva il termine
indica situazioni deprecabili sia
dal punto di vista fisico (al s' é
ardusf màl, al s'è ardusf pèla e
Òs.), sia da quello morale tcùma
t'ét ardusf?), oppure un ritorno a
casa, in famiglia, o alle usanze di
un tempo (arduèis a ca').
Arèla
Di per sé l'Arèla è
una canna palustre,
ma spesso s'intende, con quel nome,
il prodotto di un
insieme di canne,
quali una stuoia, un
graticcio o recinto,
uno strato di canne
applicato ai soffitti
per sagomarli, dare
loro una curvatura
per ottenere vele o
volte, in modo da
potervi
applicare
l'intonaco. Il termine si può facilmente
ricondurre al latino
aruntiella,
diminutivo di arundo
(o
=
anche harundo)
piccola canna. Una
curiosità: per i latini il termine
indicava anche uno zufolo o l'imboccatura
della
zampogna (Palazzi}. Anche noi facevamo delle
pive con qualsiasi tipo di
cannuccia.
Non mi considero lontano dal vero se ritengo
che derivi da questo termine anche il nome di
Rondinara.
Dall'agget(=
tivo (h)arundinàrius
produttore di canne, che
al neutro plurale fa arundinària),
si arriva facilmente al nome proprio
della località. Trovandosi
lungo un ruscello Rondinara avrà avuto, da sempre, floridi canneti.
Donne di Vedriano intente a fare il bucato
(foto
Cavallari, 1940
circa).
Arènt
Vicino, a contatto, in prossimità.
Ancora una volta bisogna ricorrere al latino, al verbo Ràdere,
che, oltre al significato di rasare, raschiare, ha anche valore
di rasentare, sfiorare. Partendo
dal participio presente Ràdens
arriviamo all'avverbio italiano a
radente, che, per sincope, diventa a rènt (ar) (ad)ent(e). E non
ci lusingava molto, nell'infanzia,
sentirei dire: "I' t' pàs: d'arèntì",
Significava rischiare un assaggio
di strupèt o altri poco graditi strumenti flessibili!
Arghìgn
Rivolta, ribellione, insubordinazione. Il termine esprime l'esplosione di rabbia fino a quel momento repressa. Come la maggior
parte dei vocaboli composti dal
prefisso Ar e da una radice, indica un gesto ripetuto nel tempo.
Nel caso specifico: Ri-ghignare.
Si risale al verbo ghignare, in
francese guigner [Devoto, Colonna]. A sua volta questo verbo
deriva da Kìnan (in antico germanico = sorridere) [Pianigiani]
se non addirittura dal latino popolano cachinnari (= sghignazzare,
ridere senza ritegno). Gli etimologi però non sono concordi se
Foto archivio don Vasco Casotti.
non nel fatto che il verbo esprime
una deformazione del volto (per
riso, per dolore o per scherno) e
che il vocabolo è arrivato a noi
attraverso il provenzale Guinhar
e poi il francese Guigner.
Argoj
Orgoglio, alterigia, vanto, boria,
superbia. Anche in questo caso
la parola ha un percorso lungo e
gli etimologi si stiracchiano l'un
l'altro i vestiti per evidenziare la
propria opinione in merito. Prevale l'idea che il termine sia giunto
a noi attraverso il franco (orgoli)
e poi il provenzale orgolh. A titolo di informazione ricordiamo
che c'è chi lo fa risalire al greco
antico òrghilos (irascibile), e chi
all'antico alto tedesco urguòli,
o urgòli (= insigne, fastoso).
Resta un fatto: questo termine
è presente fin dalle parlate piu
antiche in Provenza (orgolh, orguelh, orgoil), nel francese antico (orgueil), nell'antico catalano
(orgull), nello spagnolo (orgullo),
nello spagnolo antico (ergull, arguyo), nel portoghese (orgulho),
nell'anglosassone
(orge).
Arlechin
Stravagante,
incoerente,
burattino. E il nome dato alla maschera della commedia dell'arte.
Sull'origine
del nome vi sono
teorie diverse. Qualcuno lo collega al demone citato da Dante
nell'Inferno
(XXI, 118 - XXII,
]]2), Alichino,
nome derivato
dal germanico Helle, o Holle (=
spettro, inferno) da cui il francese Hellequin. Questo appellativo
sarebbe poi passato a un personaggio della commedia dell'arte
e, in seguito, assunto da un giovane acrobata italiano che recitò
in Francia sotto Enrico II!. Altri
preferiscono la versione di un soprannome dato a quell' attore italiano mentre in Francia frequentava il signore De Harlay. La
maschera fu poi trasferita nella
commedia italiana sotto l'aspetto
di un servo bergamasco e, infine,
utilizzata dal Goldoni. Il carattere instabile e stravagante della
maschera
viene evidenziato
dall'abito.
ArIìa
Rabbia, nervoso, dispetto. E
qui il cammino si fa davvero
arduo visto che tra le traduzion i non ve n'è una che assomigli, per suono o per grafia, a
quella dialettale. La Castellini
collega il nostro vocabolo al
portoghese Arelia, che significa dispetto. Più laboriosa è la
spiegazione di Bellei che preferisce la strada del latino. Il
verbo hariolari vuoi dire: parlare a vanvera, fare l'indovino
in senso dispregiativo (il nostro
stròlghe). Da questo comportamento sarebbe derivato l'appellativo di impostore, ciarlatano, affermatosi nel medioevo.
La spiegazione sottintende un
fondo di superstizione. Sempre
il Bellei cita anche un 'altra parola latina, redùvia, traducibile
con pellicola o pipita (le pellicine che si sollevano di fianco alle
unghie), che nei diversi passaggi
sarebbe diventata reIìvia poi, in
dialetto, arIìa.
Arnès
Arnese, strumento da lavoro; tipo
strano. Pare di assistere ai fuochi
pirotecnici. Alcuni, fra i quali
Devoto e Rusconi, fanno derivare
il termine dal provenzale Arnes,
poi dal francese antico, Hernèis
(= armatura, sia del cavallo che
del cavaliere); Colonna e Pini
citano il termine germanico Hèrnest (= Provvigioni per i soldati);
la Castellini si rifà ad un termine
anglosassone
Harness
(= qualsiasi strumento da lavoro); Bellei
propende per Hernest,
ma aggiunge che tale termine è giunto a
noi latinizzato in Arnèsius (pre-
sente in Sicilia, 1J86).
•
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
Olio di gomito e alséja,
altro che lavatricel
gèntum, e significa: che riluce.
Ma sembra che gli antichi avessero un termine comune per indicare il metallo. In sanscrito suona:
Argunas = splendente (Pianigiani). Durante il medioevo fu detto
argento vivo il mercurio. Ma per
noi l'argèni v/v è un 'altra cosa.
Lo sanno bene le nonne impegnate a custodire i nipotini irrequieti.
pace o di pausa. Questo locale era
chiamato Armàrium,
vocabolo
passato pari pari in dialetto con
Armàri. Lungo i secoli ha avuto
alcune variazioni per l'italiano e
le lingue neolatine, quali armadio per l'italiano, armoire per il
framcese (Pianigiani, Devoto). E
anche per la destinazione d'uso
(non più armi ma vestiti).
Argumènt
Argomento, tema di un discorso,
elemento persuasivo. Argomentazione in un dibattito. E' la trasformazione popolare del latino
Argumèntum
(Pianigiani, Devoto) = spiegazione, dimostrazione.
Il sostantivo latino deriva in linea
diretta dal verbo Argùere, tra i
cui significati vi è quello di dimostrare, ma anche quello di far
brillare.fare risaltare, attraverso
l'uso della ragione (Colonna).
Dallo stesso verbo latino deriva
anche arguto e arguzia, prerogativa che sembra avere
allignato bene tra la
gente di campagna.
Per esempio il randello dei militi fascisti era detto, con
ironia, argomento.
Arnèga
Puzza, odore nauseante. La parola è diffusa nel Castelnovese e nel
Carpinetano. È una voce verbale
diventata sostantivo senza alterazioni. Deriva dal latino Re-necàre, che in latino significa: torna
ad uccidere. Perché iI verbo
necàre significa appunto uccidere. el nostro caso si tratta della
terza persona singolare dell'indicativo presente: re-nècat, A ghé
'na pusa cl'amèga = c'è un fetore che fa stare male. Quindi nessuna relazione con rinnegare.
Ària
Aria, come elemento; ma anche atteggiamento,
posa,
boria, alterigia;
e
ancora:
moti vetto
musicale. Il termine
risale al greco Àer,
passato
in latino
con Aera, poi via
via modificato
in
àrea e in fine in ària
(Devoto). Diis dagli
àrii = essere vanitoso. Butàr a l'ària
di Savino Rabotti
Albi,Aibi
Abbeveratoio, trogolo, beccatoio.
Di legno, di pietra o di cemento,
serviva per somministrare il bere,
a volte anche il cibo, agli animali.
Per lo più era a tiro per le galline, ma uno particolare era situato
all'interno dello stambio del maiale ove si versava la giotta. Gnir
a l'albi era la frase che indicava
come, all 'ora di pranzo, tutti si
avvicinavano
alla tavola senza
bisogno d'essere sollecitati. Berleciir l'albi equivaleva a pulire il
piatto, non lasciare nulla, un po'
perché la fame era tanta, un po'
anche perché il cibo era piaciuto.
Il termine deriva dal latino classico Àlveus, che indica il letto del
fiume, ma, per similitudine, descrive qualcosa di concavo entro
cui può stare un liquido, come un
bacino o un vasca (Pianigianiy.
Nel latino popolare diventa già
àlbeus e poi àlbius. Nel 1200 troviamo un aibus nel dialetto bolognese (L. Serra in Reggiostoria n.
115).
Alsìa, o Alséja
Lisciva, ranno. Sopra un grosso
mastello di legno, pieno di panni
da lavare, si poneva un telo e su
1DTM
questo molta cenere. Si faceva
bollire una grossa pentola di acqua poi la si versava sopra alla
cenere. Si lasciava il tutto a mollo
per un certo tempo poi si faceva
uscire la lisciva. La conseguenza
di questo procedimento
era un
bucato pulitissimo e profumato.
Di lisciva e di pulito, logicamente. La lisciva era viscida al tatto.
Il termine deriva dal latino Aqua
Iìxa = acqua bollita, e più precisamente da Iix, Iìcis = acqua mista
a cenere (Pianigiani),
ed ha un
nesso col verbo Liquère e l'aggettivo Iìquidus (Devoto).
Argènt
Argento, colore grigio metallico;
denaro. Sotto quest'ultimo aspetto i nostri vecchi dicevano che
Almartel d'argent (il denaro) al
rèva 'l porti d' fèr; cioè: col denaro si ottiene tutto, E' conosciuto
fin dall 'antichità e usato per fare
monili (in Egitto ne sono stati rin-
venuti alcuni risalenti al 4000 a.
C.) oppure moneta tun'iscrizione
del 3500 a. C. dice: Una parte di
oro è uguale a 2'12 parti d'argento). E col significato di denaro
(argent, pronunciato alla francese) è ancora usato nella vicina
Traversetolo. Il nome di questo
metallo è arrivato a noi dal greco
Argyrion attraverso il latino Ar-
= Scaravoltare
degli
oggetti; stravolgere
un ambiente; mandare a monte un impegno.
Arloj
Orologio,
anche
manometro o strumento di precisione.
Persona rigorosa e
puntuale. Dal greco hora (= tempo, stagione) e
lòghion = che legge il tempo.
Anche in latino era horologium.
Le forme e le applicazioni sono
innumerevoli. Già gli egizi e i babilonesi disponevano di strumenti
per la misurazione del tempo. In
occidente greci e romani si sono
serviti della clessidra e delle
meridiane. Ma la fantasia degli
inventori ha prodotto orologi da
torre, da appartamento, da braccio, da taschino, da mobile (sveglie), di precisione o cronometri,
di controllo (per le fabbriche), a
molla, a peso, elettrici o elettronici. Esistono inoltre orologi a mercurio, ad olio, a sabbia.
Armàri
Armadio, mobile per vestiti. Ma
con questo termine si indica anche una persona alta e robusta. I
latini avevano un ripostiglio ove
tenere le armi nei momenti di
Arpa
Strumento musicale, di forma approssimativamente
triangolare, a
corde (42/46), da suonare a mano
pizzicandola. Era già nota presso i
popoli antichi, dagli egizi ai babilonesi, agli ebrei, ai greci e latini.
Questi ultimi però la ridussero di
volume fino a trasformarla in cetra. Il nome attuale deriva da un
termine nordico, chi dice franco,
chi germanico, strumento diffuso
comunque tra i popoli anglosassoni che lo utilizzavano
molto
(Venanzio Fortunato, scrittore
del Vl" secolo d. c., nato a Treviso e morto vescovo di Poitiers, lo
chiama strumento barbaro). Alla
base ci sarebbe la parola del tardo
latino Harpa (o Harpha) (Pianigiani), che però in origine indicava uno strumento agricolo, l'erpice (Herpex) [Devoto). E qui gli
studiosi si dividono. C'è chi vede
nel latino Herpex (erpice) un collegamento col sannita Hirpum
= lupo, i cui denti, nella fantasia
popolare, assomigliano all'erpice
[Colonna]. A titolo di curiosità si
cita anche l'Arpa eolica, una versione molto semplice (8/10 corde)
da sistemare in una zona ventosa,
le cui corde sono mosse dal vento
stesso "che fa loro produrre un
suono gradevole" (Palazzi).
Arpicajàs
E' un'espressione
diffusa nel castelnovese ed indica un individuo
che se l'è cavata a malapena da
una malattia grave. Più che l'etimologia è interessante l'immagine retorica che il verbo contiene.
In conclusione significa che l'individuo in oggetto è riuscito a
riattaccarsi all'albero della vita.
I frutti sono collegati all' albero
tramite il Picàj, il peduncolo, col
quale restano solidali all 'albero
fino alla piena maturazione. Pe-
tuazioni: argine del fiume, sia
che si tratti di manufatti destinati
a regolamentare il flusso dell'acqua, sia che si alluda alle sponde
alte e scoscese. Argini sono anche
quelli di un campo, che delimitano il confine e creano uno stacco
dal terreno circostante. Possono
essere la conseguenza
di materiale di scarto portato ai limiti del
terreno per togliere ostacoli alla
coltivazione
o per rendere più
agevole la parte bassa del campo.
Nei castagneti invece gli argini
prendono il nome di Roste. Il loro
scopo principale è quello di fermare le castagne quando cadono.
Il nome argine deriva dal latino
antiquato Arger, poi nel classico Agger, a sua volta derivato
dal verbo Aggere = accumulare,
portare. L'Agger era anche il terrapieno di difesa costruito attorno all'accampamento
romano e
provvisto di diversi accorgimenti
per una difesa più sicura (fossati
con acqua, paletti di sbarramento,
trabocchetti).
Arsura
Arsura, siccità, sete. E non era
di certo gradevole, specialmente
per chi, in campagna, viveva dei
prodotti della terra. Significava
vedere andare in fumo il lavoro
e le fatiche di un intero anno. Arsura infatti rimanda direttamente
al verbo latino Ardere = bruciare, abbruciacchiare.
Il sostantivo
Arsura compare nel latino tardo,
per passare poi ai dialetti. Ardere
corrisponde al nostro Bruciare.
L'effetto
dell'arsura
è proprio
quello di bruciare:
campàgna
brusàda; a m' brasa la giila;
bruià dal sul, ecc ...
Lavandaie al fiume (foto archivio don Artemio Zanni).
dùnculus è il diminutivo di Pès
= piede. E come gli esseri dotati di gambe comunicano con la
terra attraverso i piedi, i fiori e
frutti degli alberi comunicano
col terreno attraverso il picciolo e
la pianta. Per il nostro termine è
come se un frutto caduto a terra
prima del tempo venisse riattaccato all'albero per continuare la
maturazione. Il termine dialettale
Picàj è la trasformazione del tardo latino pedìculus, poi diventato
peciòlus, piciòlus, picùl, picài.
Esiste anche il verbo Picajàr col
significato di ciondolare, bighellonare, non concludere nulla di
positivo.
Arsi
Argine, contrafforte, riparo. L'uso
di tale parola investe diverse si-
Artìcle, Artìchel, Artìcul
Articolo grammaticale;
capo di
vestiario o altro prodotto commerciale;
soggetto
strano; capoverso di un codice; elaborato
giornalistico. Il diverso significato lo si capisce dall'espressione
di chi parla: Un briit artìcle è un
individuo poco raccomandabile.
Un artìchel ciir è un capo o un
prodotto costoso. Ritorniamo 1Inche in questo caso al latino. Artus significa arto, articolazione
del corpo (braccia, gambe), che al
diminutivo fa Artìculus. Per metafora poi è passato ad indicare le
parti di un discorso, i capi di leggi, un brano su un giornale o su un
libro, ecc ...
Artigiàn
Artigiano, lavoratore autonomo.
Nel Carpinetano
il termine indica anche i pozzi artesiani, ma
con questo significato è più usato
ArtiSian. Si parte dal sostantivo
latino Ars = tecnica di un mestiere, arte, inventiva. Col suffisso giànus si passa ad indicare
colui che esercita un mestiere. In
latino, e giù giù fino al Rinascimento, ogni mestiere veniva considerato un'arte, e chi insegnava
un mestiere ne era il Maestro (poi
Mastro). Per i pozzi artesiani bisogna risalire al francese Artésien, aggettivo riferito alla città
di Artois.
•
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
Avril, 101 i dè un barìl
Arvìa
Veccia, pisello selvatico. Il termine evoca l'idea di qualcosa
di attorcigliato. Partiamo, come
al solito, dal latino, da Ervum
(veccia, legume), il cui diminutivo diventa Ervìlium, al neutro
plurale Ervìlia. Lungo il cammino è scomparsa la E iniziale, e il
gruppo ilia s'è fuso in ia ('rvìa).
Ma era difficile da pronunciare, e
allora si è inserita la A eufonica
all'inizio ottenendo il vocabolo
attuale Arvìa.
Arvina
Rovina. Disastro. Tracollo finanziario, fallimento. Macerie. Tutti
concordano col partire dal verbo
latino Rùere che significa: rotolare, crollare, precipitare, abbattere, cadere, gettare fuori. E fin
qui tutto bene. Qualcuno però
osa andare oltre, arrivando fino
al sanscrito Rauti (= fracassare,
distruggere) [Colonna, Rusconi,
Pianigiani che cita Fick], o ad
una radice Ru/ru, attestata nelle
regioni baltiche e anche in quelle
indiane [Devoto l, o ancora al greco Rèò (scorro) [Bopp, citato da
Pianigiani].
Tutti questi termini
hanno, come effetto onomatopeico, il senso di rotolare, di precipitare. Dalle conseguenze di sommovimenti, s ismi o frane prendono nome alcune località, tra cui
Rovina, presso Castelnovo.
di Savino Rabotti
Artrite
Artrite, dolore alle ossa o alle
giunture. Col tempo gli arti subiscono una deformazione che ne
rende difficoltoso l'utilizzo. I nostri nonni le definivano anche al
doji. Il dolore infatti è fastidioso e
continuativo quasi come le doglie
del parto. Il termine artrite ha un
antenato in greco, Arthrìtis, trasferito alla lettera nel tardo latino:
arthrìtis.
In greco Arthron,
da
cui deriva il nostro vocabolo, indica le articolazione, le giunture,
gli arti. I latini chiamarono questo male anche Gutta, la nostra
gotta, perché credevano che dalla
cavità delle ossa colasse a gocce
un umore che produceva il dolore
(Pianigiani, Devoto). Che le artriti si debbano curare con il caldo
è scontato, ma ce lo ricorda un
proverbio: "Ad hlj sta cuntènt e
CItra al doj" (In luglio sta contento e cura le artriti).
Arturnàr
Ritornare.
Ripetersi
di eventi
periodici.
Rivangare
situazioni
passate. Ritornare col pensiero
su fatti o parole passate, che però
hanno lasciato una traccia dentro
di noi. È un verbo che contiene
troppe situazioni, legate magari
alla nostalgia (arturnàr a ca'), al
rancore (urturndgn sùra), al desiderio di rivedere vecchi amici
(Arturnàr a catàr = ritornare a
visitare), o al ripetersi di fenomeni atmosferici (l'artùma al sul =
GGTM
rasserena; l'artiirna al càld, al
frèd, ritorna il caldo, il freddo).
Ma questo concetto di girare e rigirare da dove deriva? Ancora una
volta risaliamo al latino, al verbo
Tornàre, che in origine significava Tornire, usare il tornio, quindi
girare intorno ad un oggetto per
modificarlo
(Devoto,
Colonna,
Rusconi). Poi è passato ad indicare il ritorno, l'inversione
del
cammino. Si tratta di un termine
ancora presente nelle lingue neolatine (spagnolo = retornar, francese = retourner, provenzale =
retournar) e anche in inglese = to
return [Pianigiani]. Ricordo con
quanta insistenza i nostri nonni
chiedevano al parente o all'amico
in procinto di andarsene: "Arturne!" (Ritornate a visitarci].
Arugànsa
Arroganza,
prepotenza,
sopraffazione. Si tratta di una parola
di derivazione
latina, composta
dalla preposizione ad e dal verbo Rogare. In origine significava
chiedere qualcosa a favore di
qualcuno, ma poi il termine si è
contaminato a tal punto da passare ad indicare prima petulanza, poi prepotenza, caratteristica
poco piacevole di chi pretende ad
ogni costo di prevalere sull'interlocutore. E questo è un saggio di
come certi termini si deteriorino
lungo i secoli. Presso i latini infatti, in origine, il verbo Adrogare
(poi arrogare) indicava la volontà
di adottare qualcuno chiedendo il
permesso al popolo [Pianigiani].
assunto tale bevanda i seguaci del
Vecchio si producevano in assalti,
grassazioni, uccisioni (Colonna,
Pianigiani), Ne parla anche Marco Polo. Il termine (scritto Assaci) è arrivato in occidente dopo la
presa di Gerusalemme del 1099.
Il termine è di origine araba (hascìsc = erba secca) e oggi indica
un allucinogeno.
Asènsia
Ascensione di Nostro Signore al
cielo. L'origine del termine è facile: dal latino Ascènsio = salita,
ascensione. Ma ci soffermiamo
sul vocabolo perché questa festa
assumeva una particolare solennità legata alla tradizione delle Rogazioni. In pianura per l'occasione si faceva una processione fra i
campi con lo scopo di invocare la
protezione divina sui raccolti, e si
ponevano le croci con l'ulivo benedetto (Bertani), cosa che da noi
avveniva il 3 maggio. Da noi la
croce veniva conficcata nella parte alta del campo lavorato, mentre
in pianura veniva legata ad un albero con uno strupèt.
Arvisèria
Somiglianza.
Tratti somatici di
una persona uguali a quelli di
un'altra. Alla base c'è il verbo
latino Vidère, che al participio
passato fa Visus da cui deriva
un'intera famiglia di parole quali visione, vista, viso, visuale,
ecc ... Arviseria
diventa la sostantivazione di Vedere, cioè il
rivedere nel volto di qualcuno i
tratti di altra persona. [n qualche
caso il termine indica somiglianza non legata al volto: "Al gh'ha
i'arviièria d'èsre un bùn cuntràt" (Mi sembra un buon affare).
Arvo]
Groviglio, intreccio. In passato il
termine indicava anche il cercine,
una specie di anello-cuscino che
si poneva sul capo per trasportare
secchi d'acqua, panieri per il bucato, l'asse per portare il pane al
forno, o altri colli. Questo sistema
esigeva equilibrio e sicurezza, ma
permetteva di vedere il percorso
spesso accidentato.
Deriva dal
verbo latino Re-volvo = ri-avvolgo. Il cercine era detto anche Al
croj.
Asasin
Assassino, killer, sicario. In dialetto indica anche chi sperpera i
beni senza criterio, o chi tradisce
la fiducia. Il termine deriva da
una situazione storica secondo
la maggior parte degli etimologi: i seguaci del Vecchio della
Montagna, fondatore di una setta
musulmana operante a Damasco e
Antiochia tra l'XI e il XIII secolo,
assumevano hascis (una bevanda
ricavata dal!' infuso di canapa secca), il cui effetto era di inebriare
e alterare la ragione. Dopo avere
ASìj
Li rivedete gli animali domestici,
mucche soprattutto e bestie da
soma, partire all'impazzata lungo
i pendii per liberarsi da quell'insetto piccolo ma tanto fastidioso
quale è il tafano? L'insetto in discussione è vecchio quanto l'uomo, meglio, quanto il contadino
visto che a costui soprattutto dava
fastidio. Per indicarlo esiste in
latino un vocabolo, Asìlus, mentre i greci preferivano chiamarlo
estro. Asilus diventa poi assillus
= tormento. Virgilio (di cui si dice
che da ragazzo venisse a pascolare nei boschi di Marola) descrive
così l'effetto prodotto dall'Assìllus. " ... C'è un frequente alato,
il cui nome è l'assillo, al quale
i Greci cambiarono nome chiamandolo Estro, aspro, che manda
un acuto ronzio. Ne sono atterriti
tutti gli armenti e fuggono qua e
là per le selve. Rimbomba l'aria
percossa dai muggiti ..." [Georgiche, libro /Il, vv. /46-/51 l. Come
spesso accade, il contadino trasferisce questa situazione anche nel
mondo degli uomini quando uno
di costoro si mostra inquieto o
agitato. "Gh'ét l'aitj?" era la battuta (da intendere non solo come
domanda ma anche come costatazione), rivolta a chi dimostrava
nervosismo, sia che ciò fosse dovuto a rabbia o ad innamoramento. Concetto, quest'ultimo,
sintetizzato nel proverbio "Quando
l'amore c'è, è la gamba che tira
il piè",
Aspa
Aspo per confezionare le matasse.
Un popolo che vive in paesi freddi ha bisogno di abiti consistenti.
Di conseguenza
sviluppa l'arte
del tessere con tutti i passaggi,
dalla tosatura della lana alla sua
trasformazione in panno. I Longobardi (ma c'è chi attribuisce
il termine ai Goti {Devoto] chi
all'antico tedesco (Pianigiani])
erano popoli originari dei paesi
freddi. Per loro lo strumento in
questione assomigliava a qualcosa che si agita, che annaspa, e la
parola Haspa esprimeva bene tale
concetto.
sedere, dover fare, essere creditore. Come sostantivo indica i beni
posseduti. Anche in questo caso
abbiamo una fioritura di opinioni
diverse. Qualcuno risale ad una
radice indoeuropea Sha, che poi si
è mutata in Hab, col significato di
tenere (Pianigiani). Altri si rifanno ad una radice nordeuropea (celtica) oppure tosco-umbra Gha-b
= portare (Colonna, Devoto).
Tutti comunque arrivano al latino
Habére che ha gli stessi significati dell'italiano ed ha dato origine
a molti derivati, quali abito, abitudine, abitare, abbiente. I nostri
vecchi comunque ci ammonivano,
a scanso di brutte sorprese, che:
"L'é méj aver che aver da aver".
Avrii
Aprile, quarto mese dell'anno. E
ancora una volta gli studiosi sono
divisi. Concordano solo nel dire
che il nome indica un mese dedicato ad una divinità, com'era consuetudine presso gli antichi. I più
(Pianigiani,
Rusconi)
pensano
che il nome sia arrivato in latino
dal greco, ma attraverso l'etrusco.
In greco Aphròs significa schiuma. Poiché la leggenda dice che
Venere (in greco Afrodite) è nata
dalla schiuma del mare, questo
potrebbe essere il mese dedicato
a Venereo Altri autori pensano che
il nome derivi dal verbo Apertre,
riferito allo schiudersi della natura. E quest'aspetto sembra essere
il più vicino alla mentalità agricola. Ma noi lo ricordiamo, oltre che
per il dolce dormire o per gli acquazzoni (tu-c i dì un barfl), anche per la tradizione, sopravvissuta nei secoli, del pesce d'aprile, ossia: Purtàr al cuch, Da qui
l'adagio: Pr'al prim d'avrtl, tu-c
i cujiin i' van in giro
A Ufa,A ofa
A ufo, a sbaffo, gratis, a scrocco. Dice il proverbio latino: Tot
càpita, tot sententiee = I pareri
sono tanti quante le persone prepropende per
senti. Pianigiani
una derivazione dal gotico Ufjon
che significa abbondanza. Ma cita
anche altre possibilità quali l'abbreviazione di Ab ufficio (A(b)
uf(ici)o], indicando la corrispondenza burocratica che viaggiava
esente da tasse. E questa interpretazione ha il beneplacito della
Crusca. Vi è anche chi timidamente accenna all'ebraico 'Efes
= gratuitamente (Citato da Colonna). La versione più accreditata è
quella che vi vede una sigla: AUF
= Ad Usum Fabricee: era la sigla
che Gian Galeazzo Visconti faceva apporre alle pietre trasportate
dal Lago Maggiore a Milano per
la costruzione del Duomo (Colonna). Devoto invece si limita
ad una espressione onomatopeica
legata allo sbadiglio.
Aver
Come verbo significa: avere, pos-
Avtùn
Autunno. La maggior parte degli
studiosi si rifà ad un verbo latino
arcaico, scomparso, Àutere che
significa rinfrescare
(Devoto).
Altri preferiscono l'altro verbo latino Augère = aumentare,
accrescere. C'è anche chi parla di un
non precisato vocabolo etrusco.
(Rusconi, Pianigiani, Colonna).
E' vero, in autunno si raccolgono
tanti frutti e c'è anche l'estate di
S. Martino, ma c'è pure la caduta
delle foglie e giornate nebbiose e
piovose che inducono malinconia.
Avucàt
Avvocato, difensore. Persona loquace. Imbroglione. E qui c'è uniformità di opinione. In latino Advocàtus è colui che viene chiamato come assistente durante un processo. Si parte dalla preposizione
Ad (vicino, presso) unita al verbo
Vocàre = chiamare. Quindi chiamare vicino a sé. Certo l'opinione
della gente non è del tutto favorevole a questi professionisti: Méj
un top in buca a un gàt - che un
cliènt in màn a un avucàtl I siòch
e j'ustinà i' fàn rìch i avucàt. E
nemmeno sono tutti concordi sulla preparazione di costoro: L'é
l'avucàt Desniiv, ch'al n'ha mai
vintl, giocando sull'equivoco di
quel vint che può essere numero
o participio passato.
•
EX
Nazior
Regia:
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coetanei, é
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ricorso sis
Luce, coin
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
Meglio evitare chi ha
'Ibercilil ad travers
di Savino RaboUi
Bàsel, bàsle: bàggiolo,
traversino di legno, arcuato, con due
tacche alle estremità, usato per
trasportare secchi, canestri o altri colli simili. Il termine italiano
bàggiolo ormai è in disuso. Per di
più, in passato, poteva indicare
una leva, un palanchino o anche
altre soluzioni, come il sostegno dei graticci su cui venivano
posti i bachi da seta o la frutta a
stagionare (Bellei), o ancora designava un non meglio identificato
elemento architettonico (FerrariSerra). In latino il bàjulus era il
facchino, dal verbo bajulàre =
trasportare.
Possiamo
immaginare che lungo i secoli la J abbia
preso sonorità fino a diventare S.
C'è anche chi azzarda collegare a
questo termine il vocabolo bàlio
(educatore,
tutore di minore),
come se si trattasse di trasportare un essere indifeso dall'infanzia fino alla maturità. Teoria che
però non convince. A noi, nati in
una certa epoca, è andata bene!
Perché? In passato era importante che il bàsel svolgesse solo la
funzione di mezzo di trasporto
e non quella di procurare clienti
all'ortopedia. Tra le minacce più
o meno persuasive c'era anche:
"Dro via al bàsle"?
Bàst: basto, supporto
to alla schiena di muli
per il trasporto di cose
ci risiamo. Quanto più
70TM
applicae somari
varie. E
la parola
sembra nostrana tanto più c'è da
lambiccarsi il cervello per trovare
qualcosa di concreto come punto
di partenza. AI momento il termine più sicuro sembra il verbo greco bastàzein (tra i cui significati
troviamo: sostenere, sorreggere),
anche perché dal termine citato derivano bàstagma
= carico,
e bàstax = somiere (vocabolo
forbito per dire somaro, portatore di soma). Cito, per semplice
informazione, le altre ipotesi: in
tedesco bast significa corteccia.
Forzando un tantino l'immagine ci si può avvicinare alla forma del basto. In persiano antico
pust indica il modo di adattare
al proprio corpo un peso (per lo
più un sacco). In arabo abbiamo
bardahàt, ricollegabile al nostro
bardare (Pianigiani). Ma la prima
idea resta la migliore, confortati
dal passaggio del vocabolo nelle
lingue neolatine (bàt in provenzale e francese attuale, bastais in
catalano, bastage in spagnolo). In
passato esisteva anche il termine
italiano bastèrna per indicare una
portantina.
Bèldra: il termine indica indistintamente animali dannosi al pollaio o al granaio, come la donnola,
la lontra, la faina, la puzzola. Bèldra infatti è un nome generico,
trasformazione
del latino bèlua,
poi belva, che si può tradurre
semplicemente in bestiaecia, bestia feroce. Per alcuni studiosi
(C. e B. Ricchi) il termine sarebbe
arrivato a noi attraverso la parola
veltro, il cane velocissimo citato
da Dante (Inferno, 1,101). Il contadino è più attento ai risultati che
alla precisione scientifica, quindi
chi lo danneggia è semplicemente una bestia selvaggia. Già che
ci siamo diciamo anche l'origine
degli altri nomi: dùnla (donnola)
deriva da Dò(m)nula, diminutivo
ironico di domina (signora) che
potremmo tradurre col nostro signorinel/a per le forme aggraziate dell'animaletto. La faina è così
detta, sempre in latino, dall'aggettivo fagina, cioè ghiotta di
semi di faggio. La spésla deve
il proprio nome all'odore nauseante che emana. In latino tardo
fa putàcius, puzzolente, dal verbo classico putére (puzzare). In
dialetto questo termine è arrivato
tramite l'italiano, con l'aggiunta
iniziale di una S rafforzativa. Il
nome della lfintra è legato all'acqua. Dal greco ènydris (acquatico), attraverso il latino lutra, anche se l'origine del termine viene
ricondotta al sanscrito hydra.
Bercizil:
berrettino,
cappellino, basco. A volte è sinonimo di
umore: "AI gh'ha (I berciul ad
travèrs" = è di cattivo umore.
Pianigiani cita due correnti diverse di studiosi. La prima pensa
che il vocabolo derivi dal greco
pyrros (rosso, color del fuoco)
spiegando così la cosa: il colore
rosso era quello di stoffe per fare
sopravvesti o cappucci. Dal greco si passa poi al latino birrus,
poi birrètum,
se non addirittura
a berretum. Per altri deriverebbe
dal francese barre (barretta) partendo dal fatto che si costruivano
cappucci a forma di piramide, i
cui lati di base erano tenuti rigidi
da barrette (un fac simile dell'ombrellino). Prevale comunque
la
prima versione, con l'evoluzione
del termine da berrétum a berreticulum, a bertreuiùculum fino a
Bifirch: Bifolco, uomo di fatica,
ma anche responsabile della stalla e della conduzione del podere.
L'origine della parola è la stessa
di bifirca. Non di rado il termine
indicava semplicemente il capofamiglia, cioè colui che doveva
dimostrarsi capace di condurre il
podere della famiglia e farlo rendere al massimo.
elle famiglie
patriarcali però il ruolo del biùrch.
non andava confuso con quello
del resdùr. Quest'ultimo era superiore a tutti in famiglia.
Blèdghe: solletico. E qui si fa
dura. Pianigiani riporta il parere
di diversi autori: Galvani pensa
al latino allettare
o dilettare;
Muratori vi vede sollicitare; Ferrari, Diez e Flecchia si rifanno al
classico latino titilIare. Colonna
(che però cita anche la teoria del
Muratori) preferisce il verbo subtitilIicare. La stessa cosa pensa
anche Cavalieri, mentre Devoto
si limita ad una voce recente (XV
sec.), ma già italiana: sollecitare.
Più convincente sembra l'interpretazione del Minghelli, il quale
bercùil.
Bifirca: biolca, misura di terreno. L'estensione di quest'area in
passato differiva a seconda dei
territori. A Reggio una biolca
equivaleva a 2.922,2 mq; a Modena 2.836; a Mantova 3.138,59;
a Ferrara 6.523,93. Preso alla lettera il termine bibulca (l'antenato
di biolca) significa: il terreno che
un bifolco può arare con un paio
di buoi (bis boves) in una giornata. E qui si parte direttamente dal
latino fondendo i due termini bòs
(= bue) e il verbo colo (= io coltivo), quindi aro servendomi dei
buoi (Pianigiani). Gli studiosi del
1800 hanno spaziato fino al greco
e al sanscrito con riflessioni anche
interessanti, ma per stavolta ve le
risparmiamo. Preferiamo far conoscere quest'altra informazione:
nell'alto Medioevo esisteva una
strada, detta anch 'essa via Bibulca, che dalla Garfagnana scendeva lungo il Dolo, forse fino a Cerredolo di Toano, per poi deviare
in direzione di Carpineti. Anche
in questo caso la figura dominante
è la coppia di buoi che percorrono
appaiati la strada. Doveva trattarsi, insomma, di una specie di autostrada di quel tempo.
parte da bi-Ieticàre per arrivare
a velleticare
(stuzzicare, provocare) e al sostantivo vellèticus,
presente nelle forme dialettali in
Liguria, in Corsica, e in diverse
zone emiliane.
E quest'ultima
sembra la più verosimile per la
facilità di passare da vel/etieus a
bel/etico, poi a blèdghe.
Brunsa,
Brunsina:
pentola in
genere. Ma di solito si vuole indicare quella per cuocere la minestra.
oi eravamo abituati a
quelle panciute di alluminio o, al
massimo, di rame (più note però
come al parlèti). Oggi abbiamo
quelle speciali, inox e a doppio
fondo, a batteria, a pressione,
e via dicendo. Vengono dette
brùnsi (ma più spesso brunslni),
le campanelle appese al collo delle pecore perché fuse in bronzo.
Per le mucche, invece, per evitare
loro disturbi all'udito, si usavano
i campanacci. Vi era poi un altro
tipo di brunsini che nulla hanno
a che vedere con le pentole o le
campanelle: si tratta delle protezioni interne del mozzo delle ruote di legno, una più grande verso
l'interno dell'assale e l'altra verso l'esterno, tutte e due a forma
leggermente conica, con tre alette per incastrarle al mozzo. Alla
base del termine vi è un vocabolo del medioevo, brùndum,
poi
brùndjum,
derivato con ogni
probabilità da un termine persiano biring, giunto a noi tramite il
greco bronté (tuono). In Grecia
esisteva uno strumento derivato
da bronte, il bronteion, un recipiente metallico usato sulle scene
per imitare il rumore del tuono
(Colonna,
Rusconi,
Devoto).
Cavalieri cita la presenza di tale
termine a Bologna già nel 1335:
duo bronza parva ... (= due piccole pentole, da bruniinv. Sull'altro
tipo di brùnsa, il lavès, ci torneremo a suo tempo.
Bll-c: boccone, manciata di fieno,
quantità minima di fieno o di erba
somministrata a qualsiasi animale. Però il termine era più usato
dedica il Pianigiani che cita un bel
numero di studiosi tra cui il tedesco Grimm e gli italiani Flecchia,
Ferrari, Menagio, Diez; Tassoni e
Muratori. Quest'ultimo propende
per la versione assunta poi dal
Devoto: dall 'antico tedesco buchen, legato al franco bùkòn, col
significato di lavare nella lisciva.
Gli altri autori, in particolare il
Tassoni, preferiscono il termine
buca. Spiegano però la loro teoria
così: "... per la usanza di colare il ranno attraverso un panno
sforacchiato".
Oppure:"...
in
un tronco d'albero smidollato
e bucato dal tempo".
Fra tanto
spremere di meningi godiamoci
almeno il ricordo del profumo che
emanava dalla biancheria frèsca
d' bugàda.
Buràs: strofinaccio,
canovaccio,
panno per asciugare pentole e stoviglie. Deriva dal latino volgare
bura (a volte anche burra) una
stoffa grossolana, utilizzata pure
per setacciare o per filtrare liquidi. Infatti ha la stessa radice il termine buratto = setaccio, crivello.
elle famiglie di un
tempo al buràs veniva
T. _
ricavato da spezzoni di
tela grezza, inutilizzabili altrimenti.
Burchèta:
borchia,
bulletta, chiodo, ornamento metallico. Le più
note erano quelle applicate alle suole delle
scarpe per proteggerle e
farle durare a lungo. E
tra queste emergevano
le grappe, disposte ai
bordi della suola, usate
soprattutto
dagli alpini e dai rocciatori. C'è
chi chiama così anche
le piccole borchie usate in tappezzeria o per
ornare certi pannelli. E
anche qui ci sono punti
di vista diversi. C'è chi
vuole collegare il vocab~n bastò (PatiI sçheuerm~ier 19.23L_
bolo al latino bùIcula
oteca Bibliotecji Panini Reg~o lmilia).
(o bullàcula) come derivato da bulla (bolla).
La maggioranza
però
quando si poneva davanti ad anipreferisce risalire al latino bùcmali da tiro, nelle brevi pause,
cula (boccola, guarnizione),
ciuna manciatina di fieno per tenerli
tato anche da Isidoro (Pianigiabuoni. Tipico il modo di dare un
ni). Lo stesso afferma il Devoto,
boccone al cavallo da tiro mentre
con l'aggiunta di un passaggio
il padrone andava a prendere 'na
nel latino volgare: bròccula. Co[ujèta all'osteria: dentro ad un
lonna preferisce partire da brocsacco di juta agganciato alle oreccus (= che ha i denti sporgenti).
chie o al collo del cavallo con due
Cavalieri cita un "burchètas"
lacci per sostegno (il muso dentro
usato come mezzo di fissaggio
al sacco), veniva introdotta una
nelle botti (/388).
manciata (un bu-e) di fieno. GraBurnisa:
cenere con braci non
devole e benedetta pausa tanto per
del tutto spente. Erano molto utili
il padrone quanto per il cavallo! Il
vocabolo viene collegato a bocca,
per cuocere la patùna o la mestòca. ella vita pratica il termine
come dire: la quantità contenibile
indica persone o animali che stanin una bocca. Logicamente in una
no volentieri al calduccio. Durbocca di erbivoro!
mir int la burniia = essere vecch i
decrepiti (riferito a cani o gatti).
Bugàda: bucato, lavaggio della
L'unica fonte trovata è quella del
biancheria. Ma anche la stessa
Devoto: il termine italiano bronza
biancheria lavata. I ricercatori più
significa brace accesa, dal gotico
recenti risolvono il problema o
brunsts.
E questo perché alaomettendo il vocabolo (Colonna,
brunsts
equivale ad olocausto,
Rusconi) o con un semplice dal
cioè vittima sacrificata sull'ara
franco bùkòn
immergere-t Deardente.
•
voto). Più attenzione al termine la
=
IELI
ILAI
:>ri sol
selen
~forze
-e l'en
lente (
tua cal
ndo u
70% t
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)
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l
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a
o
-
ETIMOlOGIA DIAlETIAlE/PARlA COME MANGI
Nell'anno bisesto,
né baco né innesto
di Savino Raboni
Bagàj:
bagaglio, roba che ci
portiamo appresso, come le valige o le sacche. Roba di nessun
valore, gingillo: L'é un bagàj =
non vale nulla. A volte è anche
un titolo poco onorifico, equivalente a balordo, truffaldino, falso:
L'é un fat bagàj = È un tipo di
cui è bene non fidarsi. Quando si
tratta di cose che ci portiamo dietro gli studiosi si rifanno al latino
Bajulàrius
= facchino, trasportatore (Cfr. Bàkel, nella puntata
precedente). Se invece il termine
indica una persona poco seria i
ricercatori preferiscono la derivazione da Baga. In italiano indica
l'otre per la zampogna, ma si ritiene che derivi dall'antico ligure
*baga, anteriore al latino, che poi
nel latino tardo diventa bagàgium
(Pianigiani),
col significato di
borsa, fagotto (Colonna), termine
ritornato all'italiano attraverso il
francese Bagage (Devoto, Pianigiani, Colonna, Rusconi). Nei
secoli scorsi, in Francia, questo
termine indicava i venditori di lucido da scarpe, per poi comprendere pure gli imbroglioni, gli opportunisti, tradotto benissimo dal
nostro: Bagàj dal luster.
Bàter, Bàtre: sì, si tratta di un
termine con una piazza molto
estesa: battere, picchiare, percuotere, vincere, superare, trebbiare,
pulsare (del cuore), chiedere soldi (bàter càsa) , ritirarsi (battere
in ritirata), rallentare (bàter la
fiàca) , affilare la falce (bàtr' al
74TM
fèr, la msiira). triturare il lardo per
fare il soffritto (bàtre, [pistàr J al
gràs), A proposito di quest'ultimo
significato mi piace ricordare una
battuta che circolava intorno al
1940. Due tizi si incontrano dopo
molto tempo. Uno chiede all'altro
dove sia andato a finire, visto che
non lo si vede più al mercato del
lunedì. Questi, che si era trasferito vicino al crinale, risponde:
"I' stàgh tànt in su ch'i' sènt la
Madùna a pistàr e' grasl" (Abito
talmente in alto che sento la Madonna che prepara il soffritto).
Per questo verbo ricorriamo subito al latino classico Battùere , che
poi diventa Bàttere nella parlata
della gente (Devoto, Colonna, Rusconi, Pianigiani). Questo dopo
che la lingua latina si era strutturata imponendosi regole ben precise. Però i nostri amici ricercatori continuano a scavare fino ad
arrivare al greco Patèo (o anche
Batèo), per arrivare al sanscrito
Pad = piede. Forse i nostri nonni
non pensavano a tanto, però cercavano di non Bàtr' i' dèn: per il
freddo, e di vigilare quando s'avvicinava l'ora d' bàtr'al furmènt,
specialmente ai tempi in cui, non
esistendo ancora le trebbiatrici, bisognava proprio "batterio" con al
cèrsi; (Cavalieri cita gli Statuti di
Modena del 1327, quelli di Parma
del /255 e quelli di Ravenna, in
cui ricorre l'espressine: Battere
cum bràchiis... che traduciamo
con: Bàtre a màn). Oggi, purtroppo, conosciamo gente che preferisce sentire bàtr' al màn al proprio
indirizzo. Anche se ciò, spesso,
produce più paglia che grano!
Bendìga:
nebulosi
ricordi
di
quando, calzoncini corti, testa rasata a brìch, stavamo ore e ore davanti alle mucche o ai torelli, lassù
nella piazza del bestiame, per la
Fiera di S. Michele. E la speranza
era che il nonno concludesse un
buon affare coi mercanti, e quindi
poter passare al sughèt al garzone del nuovo padrone, ricevere
qualche lira da correre a spendere alle bancarelle. Quello era uno
dei pochi, striminziti momenti in
cui potevamo disporre di qualche
monetina. Ma cos'è la Bendiga'i
Dal punto di vista etimologico,
almeno questa volta, il discorso
finisce qui: Dio ti benedica! Le
sfumature legate alle diverse fìessioni dialettali non modificano
affatto il senso dell' espressione:
bendiga o bandiga, il significato è lo stesso. Quello che invece
cambia è l'occasione per ricevere
quelle misere ma ambite monetine: e poteva trattarsi della custodia degli animali in fiera mentre
al reidùr concludeva gli affari,
del servizio come chierichetto durante le benedizioni pasquali alle
case, o della cena per i muratori
che avevano coperto la casa in
costruzione (Ferrari-Serra),
del
regalino di capodanno (Bellei).
Ritengo invece fuori strada l'interpretazione del Benatti (citato
da Bellei) che scorge nell'espressione Bendiga la compressione
di "tavola imbandita", probabilmente ingannato dal proverbio:
Al dé d'la bendiga - a gh'é la
tiivla imbandida. Più realistica
l'usanza che troviamo in prossimità del crinale. Quando il parroco passava a benedire case o stalle
la padrona offriva quel poco che
poteva in prodotti di casa (noci,
castagne, uova ...) e lui augurava:
"Che Dio t' bendìga!" (Gaspari:
Reggiostoria n. 115, giugno 2007,
pag.56).
Bìs: straccio, cencio, vestito di
poco conto. In realtà il termine
bisso ha una origine assai nobile. Pur essendo un tessuto a base
di lino, la sua struttura molto ricercata, l'utilizzo per preparare
vesti sacerdotali
o, comunque,
nobili, ha trasformato il prodotto in un tessuto molto pregiato. I
ricercatori del passato risali vano
all'ebraico
Bus, o all'egiziano
Buss (Pianigiani), qualcuno addirittura ad un termine dell 'India.
A noi è arrivato attraverso il greco
byssos e il latino byssus. Come
poi il concetto si sia trasformato passando ad indicare abiti di
nessun valore non lo so indicare.
Forse nel parlare della gente sopravviveva un concetto di nobiltà
non soffocato dalla miseria.
Bìs: Come termine di spettacolo:
replica, ripetizione. In latino l'avverbio Bis significa: due volte.
Ed ha un antenato che parte dalla
radice di duo (due): nel latino arcaico era duis (dvis), poi la consonante D si è trasformata in B.
Usato come prefisso il termine
ha un numero pressoché infinito
di applicazioni
e di significati:
bis-àvolo, bis-cotto, bis-lùngh,
biscàrgne (non suggerite bistecca
perché non ha nulla a che vedere con questo avverbio), ecc. In
alcuni casi il concetto legato al
termine diventa peggiorativo: bistrattare, bis-ticciare. E su questo
concetto ho intenzione di ritornare in seguito.
Bis: bigio, bianco scuro, bianco
sporco. Ancora una volta c'è differenza di interpretazione tra gli
studiosi. Prevale l'opinione che
ci si debba riallacciare al latino
(bom)byceus = panno di seta, che
nel tempo si è corrotto in Bìsius
(Diez, Pianigiani, Devoto, Colonna). La seta grezza non è di colore
bianco candido. Qualche studioso
si è lasciato prendere la mano
(Ménage, citato da Pianigiani) ricorrendo al termine latino Pìceus
= colore della pece, ma, sinceramente, sembra un tantino esagerato. Probabilmente
quell'autore
non aveva ancora sperimentato
che A la sira tu-c i' asi i' èn bis.
Bìsa-Bisabòga: biscia, rettile in
genere. Però se è riferito a una
persona indica un tipo di cui non
è bene fidarsi perché è subdolo,
strisciante, pronto a colpirti a tradimento. Di nuovo gli studiosi si
accapigliano per trovare una spiegazione convincente. La più condivisa è che si tratti del termine
latino Bèstia, col significato generico di bestia feroce, che incute
paura. E le serpi incutono ancora
oggi paura, anche se è risaputo
che sono innocue al 90% (Pianigiani, Canello e Ascoli [citati
da Pianigianii, Devoto, Colonna,
Rusconi). Devoto cita un ulteriore passaggio del termine con un
Bìstia (del IV secolo). A titolo di
informazione cito l'idea di Diez e
Mackel che risalgono ad un verbo
germanico Bis = mordere. A tale
vocabolo si fanno risalire i termini lombardi (e anche nostrani)
Besìàr, Besiùn, Besiùs. E' vero
che anche il morso dei rettili si
traduce con Besiàr, ma lo stesso
vale anche per le api, i calabroni
e altri ancora, che di sicuro non
sono paragonabili ad una serpe.
Quanto al termine Bìsabòga ho
trovato solo un tentativo di spiegazione in Bellei, che riporta
l'opinione del Galvani: " ... deriva dalle parole tedesche Béissen
= mordere, e bòghen = arco, piega", volendo con questo indicare
il modo di procedere a zig-zag
tipico dei rettili.
Bìscher: da noi il termine indica un discolo, un ragazzaccio,
un lazzarone. Preso sotto questo
aspetto il termine è la traduzione
di un termine germanico, reso in
latino medioevale con Biscàtor
= giocatore da bisca. In origine
il termine Bisca indicava solo
il tavolo da gioco, poi è passato ad indicare anche il locale
ove si gioca d'azzardo. Qualche
studioso ricollega il termine al
latino Dysculus, che dovremmo
tradurre con intrattabile. Ma la
cosa sembra alquanto forzata. In
italiano bischero indica anche
le chiavette per tendere le corde
del violino. In tal caso si risale
al germanico Busk = legno (da
cui bosco), o al latino Pèsculum (poi Pèssulum)
= legnetto,
piccolo piolo, cavicchio (Caix,
citato da Pianigianii. In dialetto
però si chiamava semplicemente
Ciavèta.
gratella" (Palazzi). Trattandosi
di un termine di importazione, recente, tagliamo subito la testa al
toro senza inoltrarci nei meandri
del latino e del greco. Nella lingua inglese il termine è composto
da due parole: Beef = bue e Steak
che significa fetta. Siccome quella
f di beef si pronunciava male ecco
la semplificazione con bistecca.
Bifida: difficilmente lo si sente
ancora questo termine, e quelle
poche volte con un senso di schifo. Forse perché non ricordiamo
più quanta utilità procurasse a
chi viveva in campagna: principalmente come concime naturale, ma poi anche come coibente
contro il freddo o come isolante
sull'aia al momento di trebbiare.
Diluita nell 'acqua la si stendeva,
con una grossa scopa fatta di frasche, sull'aia appena ripulita dalle
erbacce e dai sassi. Una volta seccata costituiva un velo impermeabile su cui si potevano recuperare
i grani caduti a terra senza che
questi si sporcassero. Oppure la si
applicava alle pareti degli stalletti
delle pecore, e in questo caso le
proteggeva dal freddo. Nonostante tutto ha conservato il significato
di roba di nessun conto (A 'n val
'na biada), o, se riferita ad una
persona, equivaleva alla qualifica
di balorda, infida. Deriva dal latino popolare Ablùta = deposito di
liquami. Un monito per le ragazzine un po' troppo pretenziose in
fatto di marito: A n' far cmé la
musca duràda: la gira, la gira,
pu' la fnis. insìma a 'na biada.
Foto don Vasco Casotti.
Bìsestil: anno bisestile. Qui occorre partire da lontano. Per tutti i
popoli è stato un grande problema
la strutturazione di un calendario.
Per quello che riguarda il nostro
territorio abbiamo notizia di una
prima formulazione ai tempi di
Numa Pompilio (morto nel 673
a.C.), ma si trattava di un computo abbastanza approssimativo.
Cercò di porvi rimedio Giulio Cesare nel 46 a.c. col tentativo di rifasare l'anno solare con quello lunare alternando mesi di 31 giorni
ad altri di 30. Utilizzò poi il mese
di febbraio come jolly inserendo
ogni quattro anni un giorno in più.
Questo giorno corrispondeva
al
24 febbraio, il sesto giorno prima
delle calende di marzo. Il giorno
aggiunto diventava il secondo sesto giorno, quindi il bì-sesto, da
cui bisestile. Ma anche Cesare
non tenne conto degli Il minuti e
12 secondi di differenza, per cui
ai tempi di Papa Gregorio XIII fu
necessario un nuovo intervento
con la soppressione di 11 giorni (passando dal 4 al 15 ottobre
nell 'anno 1582) e mantenendo il
discorso del! 'anno bisestile. Non
gode buona nomea l'anno bisestile: Anno bisesto - anno funesto.
O, per la campagna: Anno bisesto
- né baco (da seta) né innesto.
bistecca, "fetta di carne
di manzo, tagliata dalla schiena,
con l'osso, che si cuoce sulla
Bistèca:
Blìsgàr: con i derivati Blìsga,
Bllsgaròla, Blisgòt,
Blìsgùn,
ecc ... La traduzione immediata
è: scivolare. Ma come ci si arriva? Partiamo da lontano. Pini,
citando Maranesi,
pensa che
derivi dal greco Lissè o Blissè
col significato di liscio, levigato.
Serra preferisce risalire al latino
Blcesus (balbuziente) e cita diversi verbi come blissare, blessicare
(= levigare, lisciare), exbilicare
(= perdere l'equilibrio),
exblissicare, tutti termini che preparano
il termine volgare, fino a giungere a sblisigare. Il riferimento
a Blcesus è da considerare come
paragone: come il bleso scivola,
è insicuro nel parlare, così è chi
"Bliiga", chi è insicuro, come colui che Al bliiga anch int al pera
= scivola anche nel terreno piano.
Bòsma: bòzima, impasto di crusca usato per ammorbidire l'ordito. E temo che siamo in pochi a
ricordare questa funzione. E' più
facile ricordare il significato secondario, quello di cibo cucinato
male, oppure di vino molto torbido. La crusca conserva l'amido e
questo mantiene uniti i fili del tessuto, senza che si sfilaccino. Deriva pari pari dal greco Apòzema =
impacco. Ciàr cmé la bOsma = (in
senso ironico) = discorso confuso.
Bracunèr: bracconiere, cacciatore di frodo. Il termine è di origine
transalpina, dal francese Bracconier. In origine indicava chi "cacciava con giovani bracchi", ma
sottintendeva "di frodo".
•
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
A lello per cavas
i busch d'inl i' ò-c
di Savino Raboni
Brasadèla: ciambella, torta, dolce. La maggior parte degli autori
risale al tedesco Bretzel = ciambella. Ma vi è chi si rifà a una tradizione di Modena, e forse anche
di altre città, secondo la quale al
cresimando venivano date alcune
ciambelle che egli si infilava al
braccio per distribuirle ai parenti
(Bellei). Oppure le stesse venivano portate in chiesa come offerta
votiva o anche al mercato.
Bràv: bravo, diligente, buono.
Ma in passato indicava anche gli
sgherri, i masnadieri al servizio
dei signorotti prepotenti.
el primo caso il termine lo si fa derivare dal latino bàrbarus,
ma da
intendere come persona valorosa,
indomita, arrivato a noi attraverso
il provenzale brau. Nel secondo
invece da pravus = cattivo, perfido, malvagio. A questa radice
risale anche depravato.
Brevèt: brevetto, diploma, patente, autorizzazione
alla guida
di aerei. Il nostro termine si rifà
al medievale Brevis, giunto a
noi attraverso iI francese antico
Brief. Si tratta di lettere private,
del Papa o di principi, relative a
problemi non ufficiali. In pratica
ci troviamo di fronte a un breve
scritto (in latino Brevis = corto),
destinato a persona singola, non
alla comunità. Oggi il termine
indica prevalentemente l'autorizzazione a fare qualcosa oppure il
riconoscimento della paternità di
una invenzione.
.
Brii: brillo, allegro, quasi ubriaco. In greco (e anche in latino)
il termine Beryllos indica una
persona cui luccicano gli occhi.
Devoto si rifà ad un brill(at)o col
significato di eccitato. Sia Pianigiani che Colonna preferiscono la
derivazione dal latino Ebrìolus =
quasi ubriaco, che mi sembra la
più veritiera.
Bròca: col significato di recipiente si risale al greco pròkòs,
recipiente per versare l'acqua,
termine composto
dal prefisso
pro = davanti, e kèò = verso (Pianigiani, Devoto, Colonna). Se invece si intende un ramo d'albero
è più facile che derivi dal latino
(ma di origine etrusca) bròchus
= dai denti sporgenti, simili ad un
becco d'uccello.
Bruàdi (anche Bruvàdi): castagne secche lessate. Si consumavano normalmente
a colazione
con un poco di latte. Il verbo Bruvàr indica sia la scottatura che la
cottura sul fuoco, ma anche la fusione ad alta temperatura dei metalli, in particolare l'oro, partendo
dall 'antenato
latino Probàre
=
fondere, passare al crogiuolo. Ma
indica anche una infiammazione
della pelle, tale da somigliare ad
una scottatura. Pé bruà = piedi infj.ammati per il troppo camminare.
Ov bruti = uovo appena scottato.
Bucàl; Pitàl: vaso da notte, pitale, orinatoio. Inteso come bicchiere per la birra è un'interpretazione
relativamente recente; un tempo
si diceva Bicèr dal mànghe, e da
noi la birra non era diffusa. Maga-
ri si preferiva un gùs ad tuscàn.
L'etimologia di Bucàl risale ad
un termine egiziano, passato poi
in greco e in latino con Baukalis
= dotato di bocca, intendendo con
ciò la bocca dei vasi. Pitàl invece
deriva dal greco Pithàrion = orinale. Vi è poi chi si lambicca per
creare un rapporto con Pitùita =
mucco, moccio (Pianigiani}, pensando ad una sputacchiera. Aqua,
dieta e pitàl i' guarisi ui-c i mal.
ricercatori il termine deriva dallo
spagnolo burla. Colonna cita anche Ausonio, per il quale deriverebbe dal latino bùrrula = cosa da
nulla, inezia, ma preferisce l'altro
termine latino burella = trappola,
inganno, trabocchetto, condiviso
anche dal Muratori. Tra la fine del
1700 e i primi decenni del 1800
indicava l'intermezzo o la comica
finale. Era un modo per mandare
a casa gli spettatori con il dolce in
bocca dopo che avevano assistito
a tragedie. " ... La sera, quando
s'avvicina l'ora I d'andare alla
burletta o alla commedia ... (Giusti: L'amar pacifico).
Bur-c:
quest'aggettivo
veniva
messo in relazione ad animali (raramente anche ad esseri umani)
con orecchie molto ridotte, simili
a quelle dei gatti. Le spiegazioBùsch: bruscolo, granello di polni sanno più di fantasia che di
documentazione.
Si tende a fare
vere, pagliuzza, festuca. Per gli
derivare il termine da Buricchio,
autori del DEI (Dizionario Etiche, di per sé, indica il gatto, ma
mologico Italiano) il termine dealludendo ad un essere strano, furiva dal gotico bùsk = fuscello,
sione di due razze diverse, come
stecco. Devoto e Colonna prefeil gatto e l'asino, o, comunque, un
riscono risalire al latino bruscum
altro animale non pregiato (Devo= nodo del legno, di una radice.
to). In latino esisteva
il termine Buriccus,
Uno scherzo fra due ragazze
poi Buricus, col quale
(archivio don Vasco Casotti).
si indicava il somarello. Tale vocabolo però
deriva a sua volta da
un termine africano,
preso dai greci con
Brikòn, utilizzato per
indicare una cavalcatura minuta (Devoto).
Et bùr-c? o anche
Gh'èt a-gli urèci barci? era un modo per
dire a qualcuno: sei
sordo o lo fai?
Burcàj:
da noi era
solo l' accoratoio; altrove indica anche lo
svasatore, il piolo per
seminare ortaggi, oppure iI legnetto otturatore per lo spillo dei
tini. Aveva una impugnatura con anello per
introdurvi il dito medio e poter esercitare
maggior forza.
Buriàna:
sfuriata,
lavata di capo, arrabbiatura.
Evoluzione
dell'aggettivo
latino boreànus,
derivato da Bòrea = "vento impetuoso che spira da settentrione,
detto dai latini Aquilone" (Pianigianii. Da Bòrea deriva Bòra
in dialetto veneto e lombardo.
Riccardo Bertani, in risposta ad
un meteorologo che abbinava la
tempesta di neve al vento siberiano Buran, dopo avere analizzato diverse voci simili, in uso tra
i popoli asiatici e anche al ord
dell 'Europa, conclude preferendo
il Bòrea latino (su Reporter del
IO febbraio 2002). Dice la canzone Al vilàn, riferendosi al padrone
che ha riscosso i soldi dal contadino: " ... cun i sàld dal cuntadéin
I alfà sù 'na gran buriàna I e al
s'imberièga per' na sunàna",
Burla: burla, scherzo, tiro mancino, gag, breve commedia. "È
meno di beffa, perché non c'è
derisione; ma è più di scherzo"
(Palazzi), Per la maggior parte dei
Di sicuro non è simpatico avègb
un buscb int 'n ò-c. Ma anche
per questo esiste la cura: cavàs i
bùsch d'int i' ò-c infatti significa
fare una bella dormita ristoratrice.
Butèga: questo termine può indicare un negozio oppure un locale ove gli artigiani esercitano il
loro mestiere. In origine indicava
solo un locale adibito a ripostiglio o a magazzino. Così il greco
Apothékè, che si adegua ai tempi
e ai luoghi diventando bottega in
italiano, butèga in dialetto reggiano, putìga in siciliano, boutique
in francese, botica in spagnolo e
botiga in portoghese. In questo
caso almeno tutti gli studiosi sono
concordi nel riallacciare il termine al greco. Per un certo periodo,
nel medioevo, la parola bottega
indicava esclusivamente
quella
dello speziale. In senso ironico e
canzonatorio la parola indica anche la patta dei pantaloni.
•
TM 71
ETIMOLOGIA DIALETIALE/PARLACOME MANGI
Per il caporale però è più indicato
il ruolo di cane da guardia.
Meglio un buon cafè
che un infuso di calègna
di Savino RaboUi
Ca': Casa, abitazione, residenza.
Casato. Ditta, fabbrica. Atelier di
moda. E' la sincope di Casa, e
come tale il vocabolo è uguale anche in latino e in greco. Solo che a
quel tempo indicava una casupola, una baracca o una tenda. Pare
però che la radice di Casa si debba cercare nel sanscrito C'had,
col senso di coprire. E qui, con
questo concetto,
mi sovviene
un'espressione dei nostri antenati: Da cùp siir a la tèsta, cioè un
tetto, qualcosa che copra contro
le intemperie e ti rende più sicura
l'intimità. Ma spesso il termine
trascende il primo significato per
arrivare ad indicare la famiglia, i
parenti stretti, oppure l'inizio di
una vita a due, la genuinità di un
prodotto, e anche l'intelligenza,
il comprendonio. Esre d' ca' =
conoscere bene. Mèter su ca' =
sposarsi. Fàt in ca' = genuino.
N'èser mia tut a ca' = mancare di
qualche rotella. Ciamàr in ca' =
essere ospitale.
Cabò: E chi non ci ha provato almeno una volta? Se non altro per
il gusto di trasgredire. Marinare la
scuola, anche ai miei tempi, era
una rivalsa, un atto eroico. Altri
tempi! E altro modo di pensare!
Ma quell'idea non è ancora tramontata. Oltre alla scuola oggi
coinvolge anche il lavoro, perché
se qualcuno alla domenica ci carica su un po' troppo, il lunedì mattina stenta ad alzarsi. Si tratta di
un termine entrato in uso da poco
ed è difficile trovare spiegazioni
convincenti fra gli studiosi. Finora ne ho trovati solo due. Luisa
Modena fa derivare la parola dal
dialetto gergale dell 'ebraico modenese, ma non ne dà una spiegazione. Più preciso è Sandro Bellei
che fa risalire il vocabolo ad un
poco noto personaggio
francese detto Cabotin (abbreviato in
Cabot), termine con cui si indica
un attore girovago, un istrione,
o anche un esibizionista. Oggi il
termine francese indica tanto un
cane quanto un caporale. Beh,
sì, lo scolaro che va a zonzo non
rassomiglia ad un cane randagio?
Cafè: Caffè. Piante del caffè.
Bar. In Europa e in Italia il caffè
giunse nel XVI secolo ad opera
dei Veneziani. I primi scrittori che ne hanno parlato in modo
scientifico sono Prospero Alpino
(Marostica 1553-Padova 1617) e
Linneo (Cari af Linnè, Raashult
1703-Upsala
1778), naturalista
svedese. La pianta del caffè è una
rubiacea. La specie più diffusa è
l'arabica, originaria dell' Abissinia. Oggi è molto rinomato il caffè del Brasile, ma in quello stato
le piantagioni iniziarono solo nel
1723 per opera dei francesi. Ma
per l'etimologia ci dobbiamo rivolgere all' arabo Qauhah o Qhawa (che però in turco si pronuncia
Kahwè). Questo termine non indica la pianta ma solo il liquore,
che per gli arabi era considerato
un tipo di vino bianco leggero,
anche se inebriante (Pianigiani,
Rusconi, Colonna, Devoto). Nel
nostro territorio l'uso di bere o di
offrire un caffè è entrato dopo la
prima guerra. In precedenza, e ancora fino al 1950 circa, si usava al
suo posto l'orzo, magari corroborato da un cucchiaino di surrogato
"olandese" (la marca più diffusa
era la Vecchina). Nei centri più
evoluti era diventato consuetudine comune già intorno al 1940,
come attesta una sestina attribuita ad Isaia Zanetti: "Fin che 'l
re l'era re / a s'abbiva dal bùn
cafè. / F l'han fàt imperadiir: /
dal cafè n'se sènt gnàn l'udiir. /
Adès ch' l'è re àncb d' l'Albania
/ al cafè alle manda via".
Cafùn: Cafone, zotico, maleducato, rustico. E' un vocabolo di
importazione. Devoto cita un termine osco, che in latino diventa
Cabonem
ed indica un cavallo
castrato (e in seguito anche il cappone). Colonna, pur accennando
alla versione del Devoto, preferisce un 'altra voce osca, passata in
latino con Cafo (diventato anche
prcenomen di una Gens), termine
connesso all' idea di "cavare la
terra". Vi è poi una etimologia
popolare, destituita di fondatezza,
che vedrebbe nel cafone colui che,
secondo alcuni, rientra dai campi
con la fune (cumfune) a tracolla,
secondo altri con le scarpe legate
assieme e poste sulla spalla.
Càl: La parola ha due significati:
l) Calo, diminuzione. In tal caso
deriva dal verbo Calare, rimasto
uguale al latino. Gli studiosi ci
PAOLOGOM
Calamìta:
Calamita,
magnetismo. Attrazione.
Inclinazione.
I primi esperimenti di magnetismo furono compiuti in Grecia
nell'antichità,
poi abbandonati.
Furono poi ripresi sempre dai
greci nel Medioevo quando si costruirono le prime rozze bussole.
Tali esperimenti consistevano nel
porre sopra una cannuccia (ealama) un frammento di magnetite.
Il risultato fu definito Kalamìtès
(Devoto, Pianigianii. Il vocabolo
quindi non deriva dal materiale
magnetico ma dal supporto, la
cannuccia. Da calamo (cannuccia) deriva Calamaio, che nulla
ha a che fare con la calamita.
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di Dalla Porta Paolo
EE~UPERSERVICE
ESPERTI
7BTM
vedono una radice di area mediterranea Kalhàn che vuoI dire:
allentare.
2) Callo, pelle indurita. Talvolta
è definita anche Cùpa. In questo
caso la maggior parte dei ricercatori parte da un termine sanscrito
Karkaça = essere duro (Curtius,
citato da Pianigiani),
termine
giunto a noi attraverso il greco
Kalòn = legno. Altri vi vedono il
latino Calx (calcagno). Altri ancora si rifanno al latino Callum,
variante di Callis = battuto, pestato, in riferimento all' indurimento
dei calli (Devoto, Colonna, Rusconii. A me quest'ultima versione sembra più realistica se pensiamo che il latino Callis (viottolo,
sentiero, terra battuta) è sopravvissuto nel veneto (le calli), nel
ligure (i carugi), nello spagnolo
(Calle mayor = strada principale)
e nel rumeno (cale).
IN PNEUMATICI
E SERVIZI
Càld: Caldo, caloroso, fervoroso. Calura, afa. L'aggettivo latino
càlidus ben presto viene sincopato in caldus. Deriva dal verbo
calère = essere caldo, emanare
calore. La prima forma in latino
indica anche una mente fervida,
una persona furba. Traduce bene
il nostro troja inteso non come
scrofa ma come furbacchione.
Stiir al càld = poltrire, proteggersi. Al càld d'i' linso a n' fa brisa
bùjer la parlèta: l'ozio non produce benessere.
cui si fissavano le scadenze o le
ricorrenze legate ad ogni singolo
mese. Un primo rudimentale calendario consistette nel dividere
l'anno in dodici mesi in base ai
cicli lunari. Si passò poi al calendario solare, suddiviso in 365
giorni, 5 ore, 48 minuti primi e
lO secondi. Quello attuale è detto
Calendario Giuliano (da Giulio
Cesare che lo fece aggiornare)
corretto poi da Papa Gregorio
XIII nel 1582. Breve esistenza
ebbe il calendario
della Rivo-
luzione
Caldarin: Secchio. Ma indicava
soprattutto quello per andare al
pozzo a prendere acqua o quello
per somministrare il beverone ai
vitellini o la giotta ai maiali. I Romani indicavano con (holla) calidària un contenitore in terracotta
(Devoto) o di rame (Pianigiani),
adatto a contenere le braci per
riscaldare gli ambienti. Nel medioevo ne esistevano anche di dimensioni ridotte, detti caldarìnus
(piccola caldaia). I Romani chiamavano Calidàrium
un ambiente
Francese
(1793/1806)
perché creava troppe difficoltà
a confrontarsi con gli altri paesi
d'Europa.
Calèsna:
Caligine,
fuliggine.
Viene data come scontata la derivazione dal latino calìgo, caliginis, termine che indica vapore,
nebbia densa. Colonna aggiunge
la possibilità di un legame col
sanscrito Kalah = nero. Fa eccezione Bertani che, pur accettando la precedente versione, tira in
ballo un termine africano-bantu,
Kalenge, con lo stesso significato di sopra. Minghelli ricorda una
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sgu
che
IL
Nal
delle thernue che veniva riscaldato ad alte temperature (come la
sauna) mediante focolari disposti
sotto il pavimento. Una breve
digressione:
esiste un termine
equivalente (in uso nel Modenese e nel Bolognese), il Calsèder,
che indica sempre un secchio di
rame, ma la cui derivazione è dal
bizantino Kàlkydron
(recipiente
per l'acqua), e lo troviamo citato
a Bologna nel 1227. Permane in
altri dialetti, come il lombardo
Calcirolo, e calcirèl nei territori
veneziani.
Calèndi,
Calendàri:
Calende.
Calendario, lunario. Piano degli
impegni. Scadenziario.
Deriva
dal greco Kalènde rna il termine
è stato coniato dai Romani (i greci
non avevano calende) e indicava
il primo giorno di ogni mese. Si
deve risalire al verbo greco Càlein = chiamare. Era il giorno in
cui i creditori "chiamavano
al
rendiconto" i debitori, ma anche
il giorno in cui le autorità romane
chiamavano il popolo per bandire le feste, i giochi, i giorni fasti
e quelli nefasti. Quindi il Calendario (Lìber Calendàrum = libro
delle calende) era un registro su
strana usanza: agli ammalati di
polmonite veniva somministrato
un infuso di Calèg-na.
Càlibro: E' questo uno dei casi
in cui la fantasia dei ricercatori ha
cavalcato per le praterie delle lingue in lungo e in largo. Partiamo
dal Pianigiani (fine 1800), che
chiama in causa l'arabo (Qàlìb ,
o Qalàb = stampo, forma) ma
ricorda anche un anteriore termine greco, Kalàpos = forma per
le scarpe. Sempre il Pianigiani
riporta anche l'opinione di non
precisati "altri" i quali si rifanno
al latino Qua lìbra?, traducibile
con: Di che peso? Per Devoto il
termine deriverebbe dal francese
del XV secolo Calibre, derivato però dall' arabo Qalib inteso
come forma per le scarpe. In italiano il termine può indicare uno
strumento per la misurazione degli spessori o dei diametri di tubi,
ma soprattutto indica il diametro
interno di una bocca da fuoco o il
diametro esterno dei proiettili. Ricordo che mio zio (ma anche tanti
cacciatori del luogo) possedeva il
coltello da cacciatore, munito di
doppio estrattore per cartucce di
calibro) 2 o 16.
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