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La perla e il profumo
Marco Vergottini La perla e il profumo Gesù, il grande "seduttore" Il binomio scelto dagli organizzatori per intitolare la presente riflessione ha suscitato in me il ricordo di due romanzi letti a suo tempo: rispettivamente, La perla di John Steinbeck e Il profumo di Patrick Suskind. Tuttavia, consultando i due testi ho prontamente realizzato di non poter certo affidarmi all'intreccio e al messaggio che, rispettivamente, li riguardano. Nel breve racconto dello scrittore americano, il ritrovamento della perla preziosa da parte di Kino è per lui motivo di grandi speranze, ma più ancora di un destino sventurato. Anziché riscattarsi dalla povertà, egli sarà costretto a difendersi dalle insidie dei prepotenti, fino al punto di trovarsi ad uccidere; ma il prezzo della sua lotta sarà di vedere andare in fumo la sua casa e, soprattutto, di assistere alla tragica morte del figlio. Disperato, non troverà altra soluzione che quella di gettare la perla in fondo al mare. Un esito funesto ha anche la vicenda narrata dal romanziere svedese. Il protagonista, Jean-Baptiste Grenouille, cresciuto in un orfanotrofio della Parigi del XVIII secolo, scopre via via di essere dotato di un eccezionale senso dell'olfatto, così da voler mettere a frutto questa sua spiccata sensibilità. Nondimeno, tale non comune qualità, anziché risvegliare in lui il sentimento della bellezza, lo condurrà a macchiarsi dei crimini più efferati, proprio nella ricerca spasmodica della creazione del profumo perfetto. Abbandonata la pista della letteratura contemporanea, ho provato a verificare se la Scrittura offrisse qualche interessante chiave per rilegare insieme i due simboli della perla e del profumo. Consultando una Concordanza biblica mi sono felicemente imbattuto nel capitolo 4 del Cantico dei Cantici, ove ai vv. 9 e 13 così lo sposo si rivolge con grande trasporto alla sua amata: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! [9] I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo, nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo con ogni specie d'alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi [13]». Confortato da questa suggestione, ho ritenuto di procedere affrontando separatamente e in successione i temi della perla e del profumo alla luce di due celebri testi evangelici1. Nel primo caso si tratta della celebre parabola della perla preziosa, narrata da Matteo nel cap. 13, ove il messaggio di Gesù punta a mettere in luce come il mercante sia sopraffatto dalla grandezza della sua scoperta. Così avviene del regno di Dio. Così avviene nell'incontro con la persona di Gesù, che a buon motivo può essere definito grande seduttore, perché chi si imbatte in lui è sopraffatto dallo splendore della sua presenza. 1 Provvedo a segnalare il debito nei confronti di due stimolanti testi, da raccomandare per chi intenda approfondire e prolungare la problematica in esame: B. MAGGIONI, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 1992; N. CALDUCH-BENAGES, Il profumo del vangelo. Gesù incontra le donne, Edizioni Paoline, Milano 2007. Nel secondo caso, l'episodio giovanneo dell'unzione a Betania (Gv 12, 1-12) porta l'attenzione sul personaggio di Maria che, con un gesto tutto femminile, effonde il suo profumo per esprimere la sua gioia nell'incontrare il Signore. Entrambe le pagine evangeliche saranno precedute da una breve cornice introduttiva, nell'un caso, per ricapitolare il senso del parlare figurato di Gesù, nell'altro, per ragguagliare sul simbolismo del profumo nel quadro dell'atmosfera antico-testamentaria. 1. Perché Gesù parla in parabole Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?». Egli rispose: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani. Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono! (Mt 13, 10-17) Le parabole evangeliche si presentano a noi con la straordinaria capacità di metterci in contatto con il Signore Gesù, con il suo messaggio, con il suo modo di parlare; più ancora, con la concezione che egli ha di Dio, di sé e degli uomini. Sotto questo profilo, è in grado di comprendere appieno il significato dell'annuncio di Gesù colui che oltre ad intendere la "cosa" che il Signore comunica, inestricabilmente si sofferma sul "come" egli la trasmette. Dell'originale linguaggio di Gesù in parabole vale la pena di mettere in luce almeno tre caratteristiche. Anzitutto, si tratta di un linguaggio inadeguato che, muovendo dall'esperienza ordinaria, pure intende sporgersi oltre ad essa, così da accedere ad un livello ulteriore e più profondo. Inoltre, si è in presenza di un linguaggio aperto, allusivo, che spinge l'interlocutore a mettersi in questione: perché se è vero che il regno di Dio è lungi dall'i-dentificarsi con la nostra storia, pure si presenta intrecciato con la nostra stessa esistenza. Infine, quello delle parabole è un linguaggio interpellante, che obbliga l'ascoltatore a riflettere, a prendere posizione sul messaggio annunciato: le parabole non puntano a fornire una definizione dottrinale, ma sollecitano chi ascolta a divenire attore e non soltanto spettatore del racconto. Di conseguenza, le parabole suonano ambivalenti: sono luminose e insieme oscure, svelano e insieme nascondono. In altre parole, lasciano trasparire il mistero di Dio a chi ha occhi penetranti, sguardo puro, cuore pronto; risultano al contrario oscure per chi è distratto, è sospettoso o, ancora, ha il cuore appesantito. Le parabole riflettono, dunque, la singolarità di Gesù e della sua rivelazione. In esse Gesù coinvolge se stesso, racconta di sé, della nuova esistenza che egli vive e che l'uomo è chiamato a condividere. Soprattutto rivelano chi è Dio, qual è il suo progetto sull'umanità, più ancora e prima ancora di indicare come noi dobbiamo stare davanti a Lui. Per tutti questi motivi, non è possibile disgiungere - come già si è detto - l'insegnamento in parabole dal suo narrato re. Insomma, nei confronti della vicenda di Gesù occorre prendere partito, per il sì o per il no; infatti, la decisione della fede costituisce una conditio sine qua non per essere fatti oggetto della benevolenza di Dio. Non a caso, Gesù ripete il ritornello: «Chi ha orecchie per intendere, intenda». Infatti, c'è chi è sordo e chi non vuol sentire, c'è chi è cieco e chi non vuol vedere... Con l'aggiunta, assolutamente decisiva, che le parabole (e, più in generale, la storia di Gesù) non soltanto richiedono la fede per poter essere comprese, ma ancor prima la rendono possibile e la alimentano per chi vuole intendere (con il cuore). 2. Parabole del tesoro e della perla Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. (Mt 13,44-46) La parabola della perla, unitamente alla gemella del tesoro, appartiene a un raggruppamento di parabole ove viene messo a tema l'atteggiamento spirituale di quanti si dispongono ad accogliere il Regno, entrando in contatto con il valore gratuito dell'iniziativa divina. L'evangelista Matteo ha collegato queste due piccole parabole all'insegnamento che Gesù ha impartito ai discepoli (13,30), non già alle folle, affinché il discepolo sappia apprezzare la fortuna che gli è toccata in sorte. Il filo rosso delle due parabole è caratterizzato dal succedersi di alcuni verbi: "trovare", "andare", "vendere", "comperare". Le parabolette mettono in scena due attori che appartengono a strati sociali diversi: nella prima si parla di un bracciante agricolo che lavora in un campo non suo, nella seconda di un ricco mercante che possiede empori e filiali. In prima battuta, si potrebbe ritenere che i due personaggi siano i protagonisti della vicenda che li riguarda. Sono infatti essi a trovare, ad andare, a vendere, a comprare. Tuttavia, ad una lettura più in profondità, è dato avvertire che i veri protagonisti dei due episodi sono il tesoro e la perla, nell'atto in cui si impadroniscono dei due uomini. Il punto decisivo non è la decisione da parte del contadino e del mercante di cedere tutto quanti essi posseggono, bensì il motivo della loro decisione: essi agiscono così, perché sopraffatti dalla grandezza della loro scoperta. Così - occorre concludere - è l'esperienza dell'incontro con il Vangelo. Colpisce pertanto l'immediatezza con cui i due protagonisti reagiscono alla loro scoperta: prendono importanti e radicali decisioni quasi con naturalezza, prontamente, senza riserve e, soprattutto, senza alcun rimpianto. Chi si imbatte nel Vangelo del Regno non può comportarsi che come quel contadino e quel mercante, per i quali nessun prezzo è troppo alto pur di assicurarsi quel bene in cui si sono imbattuti; l'abbandono totale di quanto si possiede diviene un fatto assolutamente ovvio, per nulla fuori dal comune. Certo, il Vangelo esige un distacco totale, chiede di vendere tutto: una tale rinuncia, però, è compensata dalla gioia per quanto si è ritrovato. Ed è significativo che il commerciante acquisti la perla preziosa non già per rivenderla, ma per impossessarsi di essa. Al contempo, il contadino va a vendere tutto ciò che possiede "spinto dalla gioia" (apò tes charas); una gioia che nasce, certamente, dal ritrovamento, ma tale da trasformare la rinuncia della vendita. Quella che si presenta ai due è infatti un'occasione unica, da afferrare senza titubanze tenuto conto che una tale fortuna certamente non si ripeterà; ragion per cui è necessario un impegno pronto e totale, quale la situazione richiede. Qui risiede la chiave di volta delle due parabole: la radicalità del distacco è il rovescio della vera faccia della medaglia: la gioia di appartenere al tesoro scoperto. La misura del discepolo, pertanto, è l'appartenenza, non il distacco. La buona novella dell'incontro del Regno dona grande letizia, riorienta la vita, consente di affidarsi incondizionatamente alla logica di Dio e di colui che ce ne ha svelato il vero volto. 3. Il profumo della presenza di Dio Secondo il Talmud (Berakhòt 43b) l'olfatto è il solo senso da cui l'anima trae piacere, a differenza degli altri sensi che recano piacere al corpo. In quanto consente di percepire e distinguere realtà molto sottili, del tutto nascoste all'evidenza immediata, l'odorato è ritenuto il più spirituale di tutti i sensi. Secondo i Midrashim, poi, il senso dell'olfatto è l'unico fra i cinque a non essere stato intaccato dal peccato di Adamo ed Eva. L'olfatto spirituale scopre la traccia di Dio, scopre nell'assenza - l'essenza del suo profumo, la sua presenza nascosta. Conoscere il nome profumato di Dio significa coglierne la sua invisibile natura profonda, priva di forma, di colore o di tangibilità. L'olfatto, infine, è un senso intimo che, affinandosi nell'arte della sottigliezza e della penetrazione, è in grado di scorgere quanto si cela al di là delle apparenze. Non a caso, nel testo di Isaia 11,3, l'olfatto viene presentato come il senso del Messia: «Respirerà come profumo il timor dell'Eterno, non giudicherà dall'apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire». 4. L'unzione di Betania Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: «Perché quest'olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?». Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Intanto la gran folla di Giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù. (Gv 12, 1-8) Nell'Omelia sul Cantico dei cantici (1, 4), così Origene fa riferimento all'unzione di Betania: «Fa' attenzione, dico, e troverai che, nel passo evangelico, gli evangelisti non hanno scritto parole e racconti, ma misteri». In altre parole, il lettore del quarto Vangelo deve sapere di imbattersi con verità nascoste, accessibili solo per chi sappia cimentarsi nell'impresa ardua di decifrarle. Ecco il nostro cimento: cogliere il mistero racchiuso nell'espressione «la fragranza del profumo» nel racconto giovanneo. Vale la pena di considerare, anzitutto, che l'episodio in esame intende disporre il lettore a comprendere la secon- da parte del Vangelo (Gv 11-12), in vista di dischiudere poi il significato sul mistero pasquale di Gesù (Gv 13-20). In altre parole, il racconto dell'unzione funge da ingresso nel quadro della passione del Signore, prefigurando l'annuncio della sua regalità messianica. I personaggi I protagonisti della cena di Betania sono Maria, Giuda e Gesù. L'agire sorprendente di Maria (v. 3) provoca l'intervento di Giuda (vv. 4-6) e questi, a sua volta, l'intervento di Gesù (vv. 7-8). Mentre l'evangelista fornisce qualche informazione intorno a Lazzaro e Marta (vv. 1-2), di Maria, invece, non dice nulla. Per altro, nel capitolo precedente, quello della resurrezione di Lazzaro (11, 1-53), la figura di Maria era già stata ampiamente presentata (il suo nome compariva 8 volte), e con un flash forward (anticipazione) l'evangelista l'aveva presentata come «colei che aveva unto con il profumo il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i propri capelli». Maria si prostra davanti a Gesù, ne unge i piedi con unguento profumato molto costoso e poi li asciuga con i suoi capelli. La donna agisce in silenzio, senza rivolgere la parola a nessuno, neppure a Gesù. Eppure quel gesto risulta assai eloquente, cogliendo di sorpresa gli astanti e suscitando - almeno, stando alla versione dei racconti paralleli degli altri evangelisti (cfr. Mt 28, 6; Mc 14, 4-5; Lc 7 , 39) - reazioni diverse. L'evangelista Giovanni, per parte sua, descrive il fatto senza commento alcuno. Tuttavia, l'osservazione che la casa si riempie della fragranza del profumo acquista un valore simbolico costituisce una tacita approvazione per il gesto di confidenza e amore della donna nei confronti del Signore. Il personaggio di Giuda acquista un rilievo decisivo nel racconto giovanneo (di lui non si parla nei sinottici, ove a reagire sono "alcuni" in Marco, e "i discepoli" in Matteo). Lungo tutto il quarto Vangelo, Giuda è il traditore, l'antagonista di Gesù. L'irritazione che compare sulle sue labbra in forma passiva, «perché non si è venduto questo unguento profumato per trecento denari e lo si è dato ai poveri?», non è indirizzata direttamente a Maria, eppure è il suo gesto ad essere censurato dalle sue parole. Implicitamente egli le muove il rimprovero di avere sperperato soldi, poiché l'unguento profumato corrispondeva ad un'ingente somma di danaro. Nel caso di Giuda, l'evangelista non nasconde un giudizio perentorio sulle cattive intenzioni del traditore, a cui i poveri importano assai poco. Senza mezzi termini, lo definisce un "ladro", in quanto non esitava a rubare dalla cassa della comunità che custodiva (cfr. 13, 29). Per quanto poi riguarda il ruolo che Gesù acquista nel racconto, occorre osservare che egli si incarica di fornire il commento al gesto compiuto in silenzio dalla donna. Mentre nei testi paralleli di Matteo e Marco la risposta di Gesù affronta in successione il riferimento ai poveri e poi il valore messianico del gesto, in Giovanni l'ordine è inverso. Al quarto evangelista non interessa focalizzare l'attenzione sui poveri, bensì sulla figura di Gesù Messia. Così al v. 7 il Signore reinterpreta l'episodio dell'unzione come anticipazione profetica dell'ora imminente della sua morte; mentre al v. 8 l'accento è posto sulla seconda parte della risposta: «Giacché dei poveri sempre ne avrete con voi; me, invece, non sempre mi avrete». Con queste parole Gesù conferisce pieno senso al gesto di Maria. La sua unzione non è soltanto un gesto di squisito amore verso Gesù, ma la testimonianza della sua sovranità universale. Riepilogando, nel racconto giovanneo si assiste ad un netto contrasto tra il ritratto di Giuda e quello di Maria: - Maria, fedele discepola, unge di profumo i piedi di Gesù. Giuda, il traditore, ne causerà la sua morte. - Maria con la sua azione è la donna di un amore disinteressato nei confronti del Maestro. Giuda con la sua reazione tradisce il suo egoismo avido di denaro. - Maria di Betania, la donna che unge di profumo il Signore, impersona tutti coloro che si relazionano con devozione e cuore puro nei confronti del Signore. - Giuda Iscariota è il prototipo di quanti svendono l'amicizia di Gesù per un pugno di monete. - L'esito del gesto trasparente di Maria è che la casa si riempie della fragranza del profumo. Al contrario la reazione irritata di Giuda lascia presagire la consegna di Gesù ai suoi aguzzini. - Maria lava i piedi del Gesù amico con olio profumato e li asciuga delicatamente con i suoi capelli; successivamente sarà Gesù a lavare i piedi a Giuda, il traditore, amandolo fino all'estremo (cfr. 13, 14-21). Il gesto di Maria Giovanni non si limita a raccontare che Maria «prese dell'olio profumato», ma è interessato a ragguagliare il lettore su diversi particolari: precisa la quantità (una libbra), il tipo di profumo (nardo), la sua qualità (puro) e il prezzo (molto caro). Una libbra romana corrisponde a 327 grammi; il nardo è un unguento che si estrae dalla radice della pianta del nardo; quanto all'aggettivo "puro" (pistiké), taluni studiosi lo fanno derivare da pistis (fede), per cui si traduce con "autentico, genuino, puro"; altri autori dal verbo pin (bere), acquisterebbe così il significato di "liquido"; altri, infine, dal greco spikata/pistakia (l'albero del pistacchio) o dall'aramaico qushta (verità) tenuto conto che in taluni testi si applica al nardo. L'aggettivo polytimos indica qualcosa "di grande valore, prezioso". In Mt 13,46 è riferito significativamente alle perle e in 1 Pt 1,7 è attribuito alla "qualità provata della vostra fede". Per parte sua Giuda stima che il valore del profumo corrisponda a 300 denari, una somma assai ingente che corrispondeva allo stipendio annuale di una persona. Maria dopo avere unto i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli. Maria unge i piedi di Gesù con tanto profumo al punto da doverlo togliere con i suoi capelli: in apparenza, le due azioni sembrano contrarie e fra loro opposte. I capelli di Maria raccolgono il profumo dei piedi di Gesù ed ella si sente avvolta nella loro fragranza. A partire da questo momento il profumo di Gesù diviene il profumo di Maria. Questo nuovo profumo riempie la casa come il vangelo riempie il mondo. L'atto dell'unzione sconcerta i commensali di Betania, poiché accade qualcosa di insolito e di imprevisto. E vero che a quei tempi v'era l'uso che gli schiavi e le schiave onorassero un ospite ungendogli il capo con olio profumato; oppure che ungessero i piedi e le mani degli invitati con olio, prevalentemente di oliva, talora mescolato con vino e altri aromi. Qui però la donna, versando una libbra di profumo di nardo, fa una cosa inaudita, così da far gridare allo spreco. Il risultato è che un profumo incredibile si espande per tutta la sala. E un gesto inatteso, un'opera inaspettata quindi, e originale, creativa. Ha la bellezza dei gesti umani che non sono semplicemente adempimenti di leggi oppure risposte ad esigenze di efficienza ma sgorgano dall'intimo della persona che li compie. Se la donna avesse chiesto consiglio le avrebbero detto che era inutile versare quell'olio, che non ce n'era bisogno. E anche un gesto gratuito, e totale, esaustivo. Nel brano parallelo dell'evangelista Marco, Gesù così commenta: «Questa donna ha fatto quello che ha potuto» (cfr. Me 14,8). Ci richiama così l'obolo della vedova che, pur non avendo fatto niente dal punto di vista dell'efficienza, ha però fatto tutto perché ha espresso se stessa. «E la casa si riempì della fragranza del profumo» La casa si riempie della fragranza del profumo {hé osmé tou myrou); l'aroma si diffonde ovunque, in tutti gli angoli. La casa (la comunità dei credenti) è ricolma nella sua interezza della fragranza del profumo di nardo. L'espressione «fragranza del profumo» ritorna nell'Antico Testamento, in Gen 8,21: Noè offrì un sacrificio di ringraziamento a Dio per averlo salvato dal diluvio e «il Signore odorò il gradevole olezzo»; mentre, nel Nuovo Testamento, Paolo definisce il volontario sacrificio di Cristo come «odore gradevole» (cfr. 2 Cor 2, 14-17). Soprattutto, la relazione tra il profumo e l'amore sponsale si ritrova nel Cantico dei Cantici, dove in due passi (1,12 e 4,13-14) si parla di nardo. Utilizzando la parola osmé, che non compare altrove nei vangeli, è probabile che Giovanni abbia voluto alludere a Ct 1, 12. Se è così, lo sposo del Cantico è Cristo, e Maria, "osmofora", incarna la figura della sposa. A questo punto ritorna la domanda decisiva: qual è il significato dell'espressione «fragranza del profumo» nel racconto giovanneo dell'unzione? Nel quarto Vangelo l'unzione di Betania preannunzia la morte/sepoltura di Gesù (cfr. 12, 7). Così il profumo di nardo usato da Maria nell'unzione di Gesù ci rimanda agli aromi, mirra e aloe, che serviranno per profumarne il corpo nel giorno della sepoltura (Gv 19, 39-40). Se, tuttavia, c'è una stretta relazione tra il profumo dell'unzione e la morte/sepoltura di Gesù, il significato del profumo di Betania non può ridursi alla morte di Gesù. Il profumo dell'unzione non annunzia soltanto la morte di Gesù, ma anche la sua risurrezione. Gesù muore. Il suo corpo è unto con profumi e aromi. Ma egli è vivo. Per questo il suo corpo emana un odore di vita (2 Cor 2,14-16) e non di morte. La vita di Gesù non è terminata nel sepolcro. La sua morte è germinata in vita nuova. Come il chicco di grano deve essere sepolto nella terra per poter dare frutto (Gv 12,24), così pure il profumo di nardo è sepolto con il corpo di Gesù per poter diffondere il suo aroma. Il gesto del versare il profumo in questa situazione di ospitalità, è il segno dell'accoglienza, del rispetto amoroso, affettuoso, femminile, è quello che, in altre parole evangeliche, appare, per esempio, come il vino alle nozze di Cana. E il superfluo necessario, è quel "di più" che potrebbe non esserci e che però indica l'umanità che si dona con autenticità di amore, di affezione, di affettuosità, di simpatia, di disponibilità, di spreco, al limite, ma perché la persona vale più di tutto, ha un valore inestimabile! E quindi il segno del valore della persona e del primato dell'incontro personale. L'effusione del profumo corrisponde dunque alla gratuità, alla gioia di chi sa di avere trovato, di essere in presenza della perla per cui vale la pena di vendere tutto, ma insieme di versare tutto il profumo per la gioia dell'incontro (con il Signore). E il Signore assegna a quel gesto un valore profetico, teologico, messianico.