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La perla e il profumo
Marco Vergottini
La perla e il profumo
Gesù, il grande "seduttore"
Il binomio scelto dagli organizzatori per
intitolare la presente riflessione ha suscitato in me
il ricordo di due romanzi letti a suo tempo:
rispettivamente, La perla di John Steinbeck e Il
profumo di Patrick Suskind. Tuttavia, consultando
i due testi ho prontamente realizzato di non poter
certo affidarmi all'intreccio e al messaggio che,
rispettivamente, li riguardano.
Nel breve racconto dello scrittore americano, il
ritrovamento della perla preziosa da parte di Kino
è per lui motivo di grandi speranze, ma più ancora
di un destino sventurato. Anziché riscattarsi dalla
povertà, egli sarà costretto a difendersi dalle
insidie dei prepotenti, fino al punto di trovarsi ad
uccidere; ma il prezzo della sua lotta sarà di vedere andare in fumo la sua casa e, soprattutto, di
assistere alla tragica morte del figlio. Disperato,
non troverà altra soluzione che quella di gettare la
perla in fondo al mare.
Un esito funesto ha anche la vicenda narrata dal
romanziere svedese. Il protagonista, Jean-Baptiste
Grenouille, cresciuto in un orfanotrofio della
Parigi del XVIII secolo, scopre via via di essere
dotato di un eccezionale senso dell'olfatto, così da
voler mettere a frutto questa sua spiccata
sensibilità. Nondimeno, tale non comune qualità,
anziché risvegliare in lui il sentimento della
bellezza, lo condurrà a macchiarsi dei crimini più
efferati, proprio nella ricerca spasmodica della creazione del
profumo perfetto.
Abbandonata la pista della letteratura contemporanea, ho
provato a verificare se la Scrittura offrisse qualche
interessante chiave per rilegare insieme i due simboli della
perla e del profumo. Consultando una Concordanza biblica
mi sono felicemente imbattuto nel capitolo 4 del Cantico dei
Cantici, ove ai vv. 9 e 13 così lo sposo si rivolge con grande
trasporto alla sua amata:
«Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu
mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana! [9] I tuoi
germogli sono un giardino di melagrane, con i
frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo,
nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo con
ogni specie d'alberi da incenso; mirra e aloe con
tutti i migliori aromi [13]».
Confortato da questa suggestione, ho ritenuto di procedere affrontando separatamente e in successione i temi
della perla e del profumo alla luce di due celebri testi
evangelici1.
Nel primo caso si tratta della celebre parabola della perla
preziosa, narrata da Matteo nel cap. 13, ove il messaggio di
Gesù punta a mettere in luce come il mercante sia sopraffatto
dalla grandezza della sua scoperta. Così avviene del regno di
Dio. Così avviene nell'incontro con la persona di Gesù, che a
buon motivo può essere definito grande seduttore, perché chi
si imbatte in lui è sopraffatto dallo splendore della sua
presenza.
1
Provvedo a segnalare il debito nei confronti di due stimolanti testi,
da raccomandare per chi intenda approfondire e prolungare la
problematica in esame: B. MAGGIONI, Le parabole evangeliche, Vita e
Pensiero, Milano 1992; N. CALDUCH-BENAGES, Il profumo del vangelo.
Gesù incontra le donne, Edizioni Paoline, Milano 2007.
Nel secondo caso, l'episodio giovanneo dell'unzione a
Betania (Gv 12, 1-12) porta l'attenzione sul personaggio di
Maria che, con un gesto tutto femminile, effonde il suo profumo per esprimere la sua gioia nell'incontrare il Signore.
Entrambe le pagine evangeliche saranno precedute da una
breve cornice introduttiva, nell'un caso, per ricapitolare il
senso del parlare figurato di Gesù, nell'altro, per ragguagliare sul simbolismo del profumo nel quadro dell'atmosfera antico-testamentaria.
1. Perché Gesù parla in parabole
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero:
«Perché parli loro in parabole?». Egli rispose: «Perché
a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli,
ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà
nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche
quello che ha. Per questo parlo loro in parabole:
perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non
odono e non comprendono. E così si adempie per loro
la profezia di Isaia che dice: Voi udrete, ma non
comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché
il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati
duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non
vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non
intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani. Ma
beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi
perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti
hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo
videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non
l'udirono!
(Mt 13, 10-17)
Le parabole evangeliche si presentano a noi con la
straordinaria capacità di metterci in contatto con il Signore
Gesù, con il suo messaggio, con il suo modo di parlare; più
ancora, con la concezione che egli ha di Dio, di sé e degli
uomini. Sotto questo profilo, è in grado di comprendere
appieno il significato dell'annuncio di Gesù colui che oltre
ad intendere la "cosa" che il Signore comunica, inestricabilmente si sofferma sul "come" egli la trasmette.
Dell'originale linguaggio di Gesù in parabole vale la pena
di mettere in luce almeno tre caratteristiche. Anzitutto, si
tratta di un linguaggio inadeguato che, muovendo
dall'esperienza ordinaria, pure intende sporgersi oltre ad
essa, così da accedere ad un livello ulteriore e più profondo.
Inoltre, si è in presenza di un linguaggio aperto, allusivo, che
spinge l'interlocutore a mettersi in questione: perché se è
vero che il regno di Dio è lungi dall'i-dentificarsi con la
nostra storia, pure si presenta intrecciato con la nostra stessa
esistenza. Infine, quello delle parabole è un linguaggio
interpellante, che obbliga l'ascoltatore a riflettere, a prendere
posizione sul messaggio annunciato: le parabole non
puntano a fornire una definizione dottrinale, ma sollecitano
chi ascolta a divenire attore e non soltanto spettatore del
racconto. Di conseguenza, le parabole suonano ambivalenti:
sono luminose e insieme oscure, svelano e insieme
nascondono. In altre parole, lasciano trasparire il mistero di
Dio a chi ha occhi penetranti, sguardo puro, cuore pronto;
risultano al contrario oscure per chi è distratto, è sospettoso
o, ancora, ha il cuore appesantito.
Le parabole riflettono, dunque, la singolarità di Gesù e
della sua rivelazione. In esse Gesù coinvolge se stesso, racconta di sé, della nuova esistenza che egli vive e che l'uomo
è chiamato a condividere. Soprattutto rivelano chi è Dio,
qual è il suo progetto sull'umanità, più ancora e prima ancora
di indicare come noi dobbiamo stare davanti a Lui. Per tutti
questi motivi, non è possibile disgiungere - come già si è
detto - l'insegnamento in parabole dal suo narrato
re. Insomma, nei confronti della vicenda di Gesù occorre
prendere partito, per il sì o per il no; infatti, la decisione
della fede costituisce una conditio sine qua non per essere
fatti oggetto della benevolenza di Dio.
Non a caso, Gesù ripete il ritornello: «Chi ha orecchie per
intendere, intenda». Infatti, c'è chi è sordo e chi non vuol
sentire, c'è chi è cieco e chi non vuol vedere... Con
l'aggiunta, assolutamente decisiva, che le parabole (e, più in
generale, la storia di Gesù) non soltanto richiedono la fede
per poter essere comprese, ma ancor prima la rendono
possibile e la alimentano per chi vuole intendere (con il
cuore).
2. Parabole del tesoro e della perla
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in
un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di
nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi
averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è
simile a un mercante che va in cerca di perle
preziose; trovata una perla di grande valore, va,
vende tutti i suoi averi e la compra.
(Mt 13,44-46)
La parabola della perla, unitamente alla gemella del
tesoro, appartiene a un raggruppamento di parabole ove
viene messo a tema l'atteggiamento spirituale di quanti si
dispongono ad accogliere il Regno, entrando in contatto con
il valore gratuito dell'iniziativa divina. L'evangelista Matteo
ha collegato queste due piccole parabole all'insegnamento
che Gesù ha impartito ai discepoli (13,30), non già alle folle,
affinché il discepolo sappia apprezzare la fortuna che gli è
toccata in sorte. Il filo rosso delle due parabole è
caratterizzato dal succedersi di alcuni verbi: "trovare",
"andare", "vendere", "comperare".
Le parabolette mettono in scena due attori che appartengono a strati sociali diversi: nella prima si parla di un
bracciante agricolo che lavora in un campo non suo, nella
seconda di un ricco mercante che possiede empori e filiali.
In prima battuta, si potrebbe ritenere che i due personaggi
siano i protagonisti della vicenda che li riguarda. Sono
infatti essi a trovare, ad andare, a vendere, a comprare.
Tuttavia, ad una lettura più in profondità, è dato avvertire
che i veri protagonisti dei due episodi sono il tesoro e la
perla, nell'atto in cui si impadroniscono dei due uomini. Il
punto decisivo non è la decisione da parte del contadino e
del mercante di cedere tutto quanti essi posseggono, bensì il
motivo della loro decisione: essi agiscono così, perché
sopraffatti dalla grandezza della loro scoperta. Così - occorre
concludere - è l'esperienza dell'incontro con il Vangelo.
Colpisce pertanto l'immediatezza con cui i due protagonisti reagiscono alla loro scoperta: prendono importanti e
radicali decisioni quasi con naturalezza, prontamente, senza
riserve e, soprattutto, senza alcun rimpianto. Chi si imbatte
nel Vangelo del Regno non può comportarsi che come quel
contadino e quel mercante, per i quali nessun prezzo è troppo alto pur di assicurarsi quel bene in cui si sono imbattuti;
l'abbandono totale di quanto si possiede diviene un fatto
assolutamente ovvio, per nulla fuori dal comune.
Certo, il Vangelo esige un distacco totale, chiede di
vendere tutto: una tale rinuncia, però, è compensata dalla
gioia per quanto si è ritrovato. Ed è significativo che il
commerciante acquisti la perla preziosa non già per rivenderla, ma per impossessarsi di essa. Al contempo, il contadino va a vendere tutto ciò che possiede "spinto dalla
gioia" (apò tes charas); una gioia che nasce, certamente, dal
ritrovamento, ma tale da trasformare la rinuncia della
vendita. Quella che si presenta ai due è infatti un'occasione
unica, da afferrare senza titubanze tenuto conto che
una tale fortuna certamente non si ripeterà; ragion per cui è
necessario un impegno pronto e totale, quale la situazione
richiede.
Qui risiede la chiave di volta delle due parabole: la
radicalità del distacco è il rovescio della vera faccia della
medaglia: la gioia di appartenere al tesoro scoperto. La
misura del discepolo, pertanto, è l'appartenenza, non il
distacco. La buona novella dell'incontro del Regno dona
grande letizia, riorienta la vita, consente di affidarsi
incondizionatamente alla logica di Dio e di colui che ce ne
ha svelato il vero volto.
3. Il profumo della presenza di Dio
Secondo il Talmud (Berakhòt 43b) l'olfatto è il solo senso
da cui l'anima trae piacere, a differenza degli altri sensi che
recano piacere al corpo. In quanto consente di percepire e
distinguere realtà molto sottili, del tutto nascoste all'evidenza
immediata, l'odorato è ritenuto il più spirituale di tutti i
sensi. Secondo i Midrashim, poi, il senso dell'olfatto è
l'unico fra i cinque a non essere stato intaccato dal peccato di
Adamo ed Eva.
L'olfatto spirituale scopre la traccia di Dio, scopre nell'assenza - l'essenza del suo profumo, la sua presenza
nascosta. Conoscere il nome profumato di Dio significa
coglierne la sua invisibile natura profonda, priva di forma, di
colore o di tangibilità.
L'olfatto, infine, è un senso intimo che, affinandosi
nell'arte della sottigliezza e della penetrazione, è in grado di
scorgere quanto si cela al di là delle apparenze. Non a caso,
nel testo di Isaia 11,3, l'olfatto viene presentato come il senso
del Messia: «Respirerà come profumo il timor dell'Eterno,
non giudicherà dall'apparenza, non darà sentenze stando al
sentito dire».
4. L'unzione di Betania
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania,
dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato
dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e
Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa
una libbra di olio profumato di vero nardo, assai
prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i
suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo
dell'unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi
discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: «Perché
quest'olio profumato non si è venduto per trecento
denari per poi darli ai poveri?». Questo egli disse non
perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro
e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi
mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare,
perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I
poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre
avete me». Intanto la gran folla di Giudei venne a
sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per
Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva
risuscitato dai morti. I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti
Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in
Gesù.
(Gv 12, 1-8)
Nell'Omelia sul Cantico dei cantici (1, 4), così Origene fa
riferimento all'unzione di Betania: «Fa' attenzione, dico, e
troverai che, nel passo evangelico, gli evangelisti non hanno scritto
parole e racconti, ma misteri». In altre parole, il lettore del
quarto Vangelo deve sapere di imbattersi con verità
nascoste, accessibili solo per chi sappia cimentarsi
nell'impresa ardua di decifrarle. Ecco il nostro cimento:
cogliere il mistero racchiuso nell'espressione «la fragranza
del profumo» nel racconto giovanneo.
Vale la pena di considerare, anzitutto, che l'episodio in
esame intende disporre il lettore a comprendere la secon-
da parte del Vangelo (Gv 11-12), in vista di dischiudere poi
il significato sul mistero pasquale di Gesù (Gv 13-20). In
altre parole, il racconto dell'unzione funge da ingresso nel
quadro della passione del Signore, prefigurando l'annuncio
della sua regalità messianica.
I personaggi
I protagonisti della cena di Betania sono Maria, Giuda e
Gesù. L'agire sorprendente di Maria (v. 3) provoca
l'intervento di Giuda (vv. 4-6) e questi, a sua volta,
l'intervento di Gesù (vv. 7-8). Mentre l'evangelista fornisce
qualche informazione intorno a Lazzaro e Marta (vv. 1-2), di
Maria, invece, non dice nulla. Per altro, nel capitolo
precedente, quello della resurrezione di Lazzaro (11, 1-53),
la figura di Maria era già stata ampiamente presentata (il suo
nome compariva 8 volte), e con un flash forward
(anticipazione) l'evangelista l'aveva presentata come «colei
che aveva unto con il profumo il Signore e gli aveva
asciugato i piedi con i propri capelli». Maria si prostra
davanti a Gesù, ne unge i piedi con unguento profumato
molto costoso e poi li asciuga con i suoi capelli. La donna
agisce in silenzio, senza rivolgere la parola a nessuno,
neppure a Gesù. Eppure quel gesto risulta assai eloquente,
cogliendo di sorpresa gli astanti e suscitando - almeno,
stando alla versione dei racconti paralleli degli altri
evangelisti (cfr. Mt 28, 6; Mc 14, 4-5; Lc 7 , 39) - reazioni
diverse. L'evangelista Giovanni, per parte sua, descrive il
fatto senza commento alcuno. Tuttavia, l'osservazione che la
casa si riempie della fragranza del profumo acquista un
valore simbolico costituisce una tacita approvazione per il
gesto di confidenza e amore della donna nei confronti del
Signore.
Il personaggio di Giuda acquista un rilievo decisivo nel
racconto giovanneo (di lui non si parla nei sinottici, ove a
reagire sono "alcuni" in Marco, e "i discepoli" in Matteo).
Lungo tutto il quarto Vangelo, Giuda è il traditore,
l'antagonista di Gesù. L'irritazione che compare sulle sue
labbra in forma passiva, «perché non si è venduto questo
unguento profumato per trecento denari e lo si è dato ai
poveri?», non è indirizzata direttamente a Maria, eppure è il
suo gesto ad essere censurato dalle sue parole.
Implicitamente egli le muove il rimprovero di avere
sperperato soldi, poiché l'unguento profumato corrispondeva
ad un'ingente somma di danaro. Nel caso di Giuda,
l'evangelista non nasconde un giudizio perentorio sulle
cattive intenzioni del traditore, a cui i poveri importano assai
poco. Senza mezzi termini, lo definisce un "ladro", in quanto
non esitava a rubare dalla cassa della comunità che
custodiva (cfr. 13, 29).
Per quanto poi riguarda il ruolo che Gesù acquista nel
racconto, occorre osservare che egli si incarica di fornire il
commento al gesto compiuto in silenzio dalla donna. Mentre
nei testi paralleli di Matteo e Marco la risposta di Gesù
affronta in successione il riferimento ai poveri e poi il valore
messianico del gesto, in Giovanni l'ordine è inverso. Al
quarto evangelista non interessa focalizzare l'attenzione sui
poveri, bensì sulla figura di Gesù Messia. Così al v. 7 il
Signore reinterpreta l'episodio dell'unzione come
anticipazione profetica dell'ora imminente della sua morte;
mentre al v. 8 l'accento è posto sulla seconda parte della
risposta: «Giacché dei poveri sempre ne avrete con voi; me,
invece, non sempre mi avrete». Con queste parole Gesù
conferisce pieno senso al gesto di Maria. La sua unzione non
è soltanto un gesto di squisito amore verso Gesù, ma la
testimonianza della sua sovranità universale.
Riepilogando, nel racconto giovanneo si assiste ad un
netto contrasto tra il ritratto di Giuda e quello di Maria:
- Maria, fedele discepola, unge di profumo i piedi di Gesù.
Giuda, il traditore, ne causerà la sua morte.
- Maria con la sua azione è la donna di un amore disinteressato nei confronti del Maestro. Giuda con la sua
reazione tradisce il suo egoismo avido di denaro.
- Maria di Betania, la donna che unge di profumo il
Signore, impersona tutti coloro che si relazionano con
devozione e cuore puro nei confronti del Signore.
- Giuda Iscariota è il prototipo di quanti svendono l'amicizia di Gesù per un pugno di monete.
- L'esito del gesto trasparente di Maria è che la casa si
riempie della fragranza del profumo. Al contrario la
reazione irritata di Giuda lascia presagire la consegna di
Gesù ai suoi aguzzini.
- Maria lava i piedi del Gesù amico con olio profumato e li
asciuga delicatamente con i suoi capelli; successivamente
sarà Gesù a lavare i piedi a Giuda, il traditore, amandolo
fino all'estremo (cfr. 13, 14-21).
Il gesto di Maria
Giovanni non si limita a raccontare che Maria «prese
dell'olio profumato», ma è interessato a ragguagliare il
lettore su diversi particolari: precisa la quantità (una libbra),
il tipo di profumo (nardo), la sua qualità (puro) e il prezzo
(molto caro).
Una libbra romana corrisponde a 327 grammi; il nardo è
un unguento che si estrae dalla radice della pianta del nardo;
quanto all'aggettivo "puro" (pistiké), taluni studiosi lo fanno
derivare da pistis (fede), per cui si traduce con "autentico,
genuino, puro"; altri autori dal verbo pin (bere),
acquisterebbe così il significato di "liquido"; altri, infine, dal
greco spikata/pistakia (l'albero del pistacchio) o
dall'aramaico qushta (verità) tenuto
conto che in taluni testi si applica al nardo. L'aggettivo
polytimos indica qualcosa "di grande valore, prezioso". In
Mt 13,46 è riferito significativamente alle perle e in 1 Pt 1,7
è attribuito alla "qualità provata della vostra fede". Per parte
sua Giuda stima che il valore del profumo corrisponda a 300
denari, una somma assai ingente che corrispondeva allo
stipendio annuale di una persona.
Maria dopo avere unto i piedi di Gesù e li asciuga con i
suoi capelli. Maria unge i piedi di Gesù con tanto profumo al
punto da doverlo togliere con i suoi capelli: in apparenza, le
due azioni sembrano contrarie e fra loro opposte. I capelli di
Maria raccolgono il profumo dei piedi di Gesù ed ella si
sente avvolta nella loro fragranza. A partire da questo
momento il profumo di Gesù diviene il profumo di Maria.
Questo nuovo profumo riempie la casa come il vangelo
riempie il mondo.
L'atto dell'unzione sconcerta i commensali di Betania,
poiché accade qualcosa di insolito e di imprevisto. E vero
che a quei tempi v'era l'uso che gli schiavi e le schiave
onorassero un ospite ungendogli il capo con olio profumato;
oppure che ungessero i piedi e le mani degli invitati con olio,
prevalentemente di oliva, talora mescolato con vino e altri
aromi. Qui però la donna, versando una libbra di profumo di
nardo, fa una cosa inaudita, così da far gridare allo spreco. Il
risultato è che un profumo incredibile si espande per tutta la
sala. E un gesto inatteso, un'opera inaspettata quindi, e
originale, creativa. Ha la bellezza dei gesti umani che non
sono semplicemente adempimenti di leggi oppure risposte ad
esigenze di efficienza ma sgorgano dall'intimo della persona
che li compie. Se la donna avesse chiesto consiglio le
avrebbero detto che era inutile versare quell'olio, che non ce
n'era bisogno. E anche un gesto gratuito, e totale, esaustivo.
Nel brano parallelo dell'evangelista Marco, Gesù così
commenta: «Questa donna ha fatto quello che ha potuto»
(cfr. Me
14,8). Ci richiama così l'obolo della vedova che, pur non
avendo fatto niente dal punto di vista dell'efficienza, ha però
fatto tutto perché ha espresso se stessa.
«E la casa si riempì della fragranza del profumo»
La casa si riempie della fragranza del profumo {hé osmé
tou myrou); l'aroma si diffonde ovunque, in tutti gli angoli.
La casa (la comunità dei credenti) è ricolma nella sua
interezza della fragranza del profumo di nardo.
L'espressione «fragranza del profumo» ritorna nell'Antico
Testamento, in Gen 8,21: Noè offrì un sacrificio di
ringraziamento a Dio per averlo salvato dal diluvio e «il
Signore odorò il gradevole olezzo»; mentre, nel Nuovo
Testamento, Paolo definisce il volontario sacrificio di Cristo
come «odore gradevole» (cfr. 2 Cor 2, 14-17). Soprattutto, la
relazione tra il profumo e l'amore sponsale si ritrova nel
Cantico dei Cantici, dove in due passi (1,12 e 4,13-14) si
parla di nardo. Utilizzando la parola osmé, che non compare
altrove nei vangeli, è probabile che Giovanni abbia voluto
alludere a Ct 1, 12. Se è così, lo sposo del Cantico è Cristo, e
Maria, "osmofora", incarna la figura della sposa.
A questo punto ritorna la domanda decisiva: qual è il
significato dell'espressione «fragranza del profumo» nel
racconto giovanneo dell'unzione? Nel quarto Vangelo
l'unzione di Betania preannunzia la morte/sepoltura di Gesù
(cfr. 12, 7). Così il profumo di nardo usato da Maria
nell'unzione di Gesù ci rimanda agli aromi, mirra e aloe, che
serviranno per profumarne il corpo nel giorno della sepoltura
(Gv 19, 39-40). Se, tuttavia, c'è una stretta relazione tra il
profumo dell'unzione e la morte/sepoltura di Gesù, il
significato del profumo di Betania non può ridursi alla morte
di Gesù.
Il profumo dell'unzione non annunzia soltanto la morte di
Gesù, ma anche la sua risurrezione. Gesù muore. Il suo
corpo è unto con profumi e aromi. Ma egli è vivo. Per
questo il suo corpo emana un odore di vita (2 Cor 2,14-16) e
non di morte. La vita di Gesù non è terminata nel sepolcro.
La sua morte è germinata in vita nuova. Come il chicco di
grano deve essere sepolto nella terra per poter dare frutto
(Gv 12,24), così pure il profumo di nardo è sepolto con il
corpo di Gesù per poter diffondere il suo aroma.
Il gesto del versare il profumo in questa situazione di
ospitalità, è il segno dell'accoglienza, del rispetto amoroso,
affettuoso, femminile, è quello che, in altre parole
evangeliche, appare, per esempio, come il vino alle nozze di
Cana. E il superfluo necessario, è quel "di più" che potrebbe
non esserci e che però indica l'umanità che si dona con
autenticità di amore, di affezione, di affettuosità, di simpatia,
di disponibilità, di spreco, al limite, ma perché la persona
vale più di tutto, ha un valore inestimabile! E quindi il segno
del valore della persona e del primato dell'incontro
personale. L'effusione del profumo corrisponde dunque alla
gratuità, alla gioia di chi sa di avere trovato, di essere in
presenza della perla per cui vale la pena di vendere tutto, ma
insieme di versare tutto il profumo per la gioia dell'incontro
(con il Signore). E il Signore assegna a quel gesto un valore
profetico, teologico, messianico.
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