Non credevo che sarebbe finita così. L`avevo detto, a Chiara, di
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Non credevo che sarebbe finita così. L`avevo detto, a Chiara, di
IL SUPPLENTE di Simona Sparro Non credevo che sarebbe finita così. L’avevo detto, a Chiara, di starmi alla larga, che con me avrebbe avuto solo guai. Lei non mi aveva ascoltato. Peggio per te, le avevo detto. Non cambierò la mia vita per te. Chi ti credi di essere? Lei aveva riso. Pensava scherzassi. Ci eravamo conosciuti sui banchi di scuola. Forse farei meglio a dire che io ero il professore. Supplente, per la precisione. Lei aveva sedici anni, e le tette più belle che avessi mai visto. Io ne avevo ventisei e una vista perfetta. Me le aveva sbattute in faccia, le sue tette, tutto il tempo. Veniva a scuola vestita come una puttana, indossando minuscoli pezzi di stoffa che non lasciavano niente all’immaginazione. Me l’ero scopata contro il muro del bagno vicino alla sala professori, la prima volta. Era brava, ma anche un po’ ingenua. Mi piaceva il suo lato innocente. Ci eravamo visti fuori, nel mio appartamento, per qualche tempo. Lei mi aveva raccontato dei problemi coi suoi genitori. Io avevo sopportato le sue stupide chiacchiere scolandomi parecchi bicchieri di Jack Daniel’s. Non me ne fregava un cazzo. Di lei, dei suoi impicci, della sua vita. Dormiva da me quasi ogni weekend. La lasciavo fare, non mi importava granché di ritrovarmela nel letto, la mattina quando aprivo gli occhi. Aveva anche i suoi lati positivi, veramente. Mi portava il caffè a letto, mi faceva pompini degni di questo nome, teneva la casa pulita, mi lavava i vestiti. Quando uscivo, praticamente tutte le sere, non me lo impediva mai. E anche se ci avesse provato, magari mettendosi davanti all’ingresso gridando e piangendo, l’avrei spinta via. Era già successo, a dirla tutta. Cadendo aveva sbattuto contro il mobile dell’ingresso. Si era procurata un grosso livido sul braccio destro. Stupida ragazzina, avevo pensato, così impari a fare scenate. Ero uscito, e un po’ mi era dispiaciuto. Lasciarla lì, sul pavimento, a piangere tenendosi il braccio. Poi mi ero infilato in un bar, e Chiara, beh, lei me l’ero scordata, per un po’. Però l’avevo avvertita. Ero stato sincero, non l’avevo mai presa per il culo. Sono uno stronzo, avevo detto, non mi importa niente di te. Mi piace bere, scopare, divertirmi. Quello che vedi è quello che avrai. Lei mi guardava sempre con quello sguardo! Sembrava innamorata. Non lo sopportavo, perché ne conoscevo le conseguenze. La sua convinzione nel farmi cambiare. Il suo essere materna. Materna! Una bambina col corpo di una donna che gioca a fare la chioccia. Credeva davvero che avessi un cuore. Che lo conservassi nascosto solo per lei. Faceva progetti per il futuro mentre le toglievo i vestiti. Parlava e parlava e io sentivo solo il bisogno di tapparle la bocca e scoparla fino alla morte. Un giorno me lo chiese. Mi ami? Occhi spalancati nell’attesa di parole che non avevo. Cosa vuoi che risponda, le dissi. Vuoi che ti dica stronzate. Non lo chiedevo, lo affermavo. Io lo so che mi ami. Ti fa paura dirlo. Me lo diceva convinta di avere ragione. Lasciai perdere. Credesse quel che voleva. Una notte non tornai. Avevo incontrato una in un bar. Bionda. Disponibile. Mi accompagni a casa, disse. Non era una domanda. Eravamo sul letto, ci divertivamo. Il cellulare suonò. Smise, poi suonò ancora. Chiara insisteva. Lo presi e lo buttai contro il muro. Tornato a casa mi investì di parole. Il viso impiastricciato di mascara sciolto. Sei uno stronzo. Mi fai male al cuore. Mi sento morire. Smettila, Chiara. Ti avevo avvertita. Ma io credevo. Pensavo. Volevo. I soliti discorsi di qualcuno che sente, ma non vuole ascoltare davvero. La sollevai da terra, dove consumava una delle sue teatrali scene disperate. Vattene, le dissi. Torna a casa e dimentica tutto. Fingi che io non esista. Mi hai rotto i coglioni. In camera c’era tutta la sua roba. Porta via tutto, dissi buttando i suoi vestiti per aria. Lei urlava di smetterla, isterica. Mi tappai le orecchie con le dita. Presi una birra dal frigo. Lei smise di urlare. Mi si avvicinò facendo le fusa. Mi disse perdonami. Mi disse ho esagerato. Ero troppo sbronzo e stanco per discutere ancora. Le dissi va bene. Le dissi andiamo di là. Sul letto entrai dentro di lei. L’ultima volta, pensai. Poi ecco il dolore. Insopportabile. Lancinante. Che cosa mi hai fatto, urlai. Lei mi guardò ridendo, avevo le sue gambe ancora intorno. Non era più Chiara. Era qualcosa di buio e sinistro. Qualcosa di orribile e oscuro. Guardai lo specchio appeso dietro al letto. Qualcosa spuntava dalla mia schiena. Respirare era un’impresa mentre cercavo di estrarre il coltello. Me l’aveva infilato con forza tra una costola e l’altra. Chiara sgusciò fuori dal letto. Io ti amo, disse. Si rivestiva mentre vomitava parole assurde. Volevo che fossi mio. Tutti mi vogliono, ma io ho scelto te. Dovevi solo amarmi. Invece sei vuoto come le bottiglie di vino che ti sei scolato. Vaffanculo. Mi ha lasciato qui, sdraiato su un fianco, nel mio letto. Si è portata via il mio cellulare. Il coltello è ancora nella mia schiena. Sto perdendo sangue, respiro a malapena. Credo che la mia sarà una morte lenta e dolorosa. Capiranno subito che è stata lei. Ci sono i suoi vestiti sparsi ovunque, i suoi libri di scuola sul tavolino davanti al divano. Un po’ mi dispiace per lei, ma io l’avevo avvertita. Con me avrebbe avuto solo guai. Quest’opera appartiene esclusivamente all’autrice. E’ vietata la riproduzione totale o parziale dell’opera a fini di lucro.