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eresia creativa, eredità originale
Da: Giuseppe Limone, Introduzione a I Rosselli: eresia creativa, eredità originale, a
cura di Simone Visciola e Giuseppe Limone, Guida, Napoli, 2005.
I ROSSELLI: UN’ERESIA CREATIVA, UN’EREDITA’
ORIGINALE
di Giuseppe Limone
1.
Una premessa.
Ringrazio le Scuole, le Autorità, i colleghi, i relatori che
hanno accettato l’invito a venire fra noi. Ringrazio i
professori del mio Dipartimento e della mia Facoltà, la
Biblioteca centrale di Firenze, il liceo classico Domenico
Cirillo di Aversa, i miei studenti, i miei dottorandi1, i miei
collaboratori, i miei tesisti, tutti coloro che hanno consentito,
con la loro opera intelligente, la migliore realizzazione di
questa Giornata di studi.
Sul limitare di questo Convegno dedicato ai Rosselli,
superando per un attimo la gravitazione emotiva esercitata su
1
Ringrazio qui, oltre al prezioso e appassionato contributo del dott. Simone Visciola, l’opera prestata dai
miei dottorandi Michele Blanco, Maria Teresa Giugliano, Benedetto Barra, Severino Berardi, Domenico
Parrello, Fabio Benigni, Pietro Emanuele, Roberta Riverso, Luigi Vitullo. Ringrazio anche il dott.
Francesco Rizzo per l’opera intelligente e infaticabile dedicata all’organizzazione del Convegno, e l’arch.
Massimo Olivieri per la bella ed elegante grafica realizzata per i manifesti e gl’inviti del Convegno.
Ringrazio altresì le dottoresse Annunziata Valente, Elena Daniela Scaramella e Rosa Santo per l’operosa
ed efficace azione di sostegno amministrativo nella loro qualità di responsabili del Dipartimento.
1
di noi dal ricorrere del loro anniversario, è lecito domandarsi:
che cosa significa, oggi, interrogarsi sui Rosselli? E che cosa
significa, insieme, interrogarsi su ‘Giustizia e Libertà’?
Diremmo che l’attualità dei Rosselli riguarda, di là dal loro
anniversario, una lezione teorica, una lezione etica, una
lezione prospettica, una lezione civile.
Passati i cent'anni dalla loro nascita, infatti, può riaprirsi
con straordinaria forza, oggi, una questione culturale e civile:
quella posta fin dai primi decenni del Novecento, appunto, dal
loro itinerario intellettuale ed umano, culminato nella loro
morte tragica, vittime del fascismo. E si tratta, a ben
guardare, di una questione che i Rosselli stessi impostarono,
nel loro tempo, in termini che solo oggi possiamo, forse, a
distanza di molti decenni, collocare nella giusta prospettiva
critica. Meglio: rimeditare. E ciò per alcune dimensioni,
originali e coraggiose, che i Rosselli fecero, negli scritti e
nell'azione, emergere con nettezza – e che qui solo in alcuni
punti riassumeremo.
2.
Alcune coordinate.
Veniamo a questi punti, che caratterizzarono la scommessa
intellettuale rosselliana – parliamo del loro patrimonio
simbolico comune, a prescindere dalle singole, diverse
testimonianze:
2
1. Il coraggio di rompere tradizioni consolidate in nome di
una fedeltà più profonda. Fu Carlo Rosselli, infatti, a
sostenere
la natura
fittizia
–
artificiosa, deformante,
ideologica – dell'antitesi fra liberalismo e socialismo, se nel
socialismo è veramente in questione la giustizia e se nel
liberalismo è veramente in questione la libertà. Non può esserci,
infatti, ‘libertà’ se non è di ognuno e di tutti; e, al tempo
stesso, non può esserci alcuna ‘giustizia’ calata sull’insieme
sociale a prescindere dalle libertà. In questo senso, Carlo
Rosselli intuiva che era necessario, per un paradosso virtuoso,
essere eretici del liberalismo per essere liberali ed eretici del
socialismo per essere socialisti. Né si trattava, in questa
opzione, di adottare una mera 'terza via', perché veniva in
questione, invece, un modo epistemologicamente nuovo di
impostare il rapporto fra ‘giustizia’ e ‘libertà’. Un problema
che era infatti – contemporaneamente – politico, etico,
filosofico e civile. Nella consapevolezza militante che è l'eresia,
spesso, la strada da osare nell’esercizio di una ricerca
appassionata. E l’eresia costa: in termini di sofferenze, di
amici, di alleati, di privilegi economici, di posizioni di classe,
di quiete, di libertà.
2. Il coraggio di dire no a ogni dottrinarismo che intendesse
ingabbiare la storia e il nuovo, perché, per sua stessa natura,
lo stereotipo dottrinario sempre dimentica l'importanza
3
dell'esperienza
concreta
quale
campo
d'illuminazione
dell'ideale. Ma si trattava, al tempo stesso, del coraggio di dire
no a ogni empirismo che perdesse di vista l'ideale
nell'individuazione del percorso civile. "Le utopie di oggi –
dirà Carlo Rosselli – possono essere le realtà di domani". Ma
il metodo, in ogni caso, non potrà mai essere diverso da quello
della libertà.
3. La capacità di essere, al tempo stesso, teorici e
combattenti, idealisti e realisti, in un nesso senza tregua fra
mente e corpo, fra pensiero ed azione, tra filosofia e pratica,
fra cultura e sperimentazione civile.
4. L'intuizione profetica e militante – al di là di ogni
ragionevole realismo – dell'idea europea. Carlo Rosselli, come
è noto, scriverà: " [Occorre] prospettare fin d'ora la
convocazione di un'Assemblea Europea, composta di delegati
eletti dai popoli, che in assoluta parità di diritti e di doveri
elabori la prima costituzione federale europea, nomini il
primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della
convivenza europea, svalorizzi frontiere e dogane, organizzi
una forza al servizio del nuovo diritto europeo e dia vita agli
Stati Uniti d'Europa … Vaneggiamo? No. Le utopie dell'oggi
possono essere le realtà del domani" (in "Giustizia e Libertà",
17.5.1935).
Solo oggi, forse, dissipatisi i fumi degli opposti teologèmi
4
schierati, possiamo appieno capire lo spessore di questa
lezione.
Tradizioni
liberali,
tradizioni
democratiche,
tradizioni filosofiche e culturali, mazzinianesimo, socialismo,
spirito libertario, ebraismo critico, entusiasmo civile – tutto
s’intersecava nel crogiuolo di una grande idea ricreatrice.
Controcorrente, composita e una. Forse oggi vincente perché
– allora – vinta. Ma non solo per questo. La famiglia Rosselli –
e Amelia, la loro madre, notevolissima scrittrice di teatro –
riuscirà a porsi, in quel contesto sociale, se la guardiamo da
oggi, come il centro testimoniale di una comunità d'affetti più
ampia – di amici, di militanti, di intellettuali – che sa essere
non puro crocevia intimistico ma elaborazione di formazione
e di storia. Ciò, in un grande circúito europeo e mondiale, in
cui essi, i Rosselli, effettivamente circolavano stando nel loro
habitus più proprio. Si tratta, a ben vedere, di un modello
straordinario per l'oggi. E di un monito per l'avvenire. Per
l'avvenire
della
stessa
Europa
presente,
alla
quale
silenziosamente ricorda l’importanza di non essere la grigia
stanza delle compensazioni del danaro. I Rosselli sono stati, in
questo senso, un ossimoro vivente. Emersi in una società
occidentale che li ha visti nascere e perire in una condizione di
frattura con tutte le tradizioni consolidate, e con le loro stesse,
essi sono rimasti per troppo tempo consegnati a un martirio
senza livrèe e senza laudatori di cordata, perché eretici di
5
tutte le chiese. A maggior ragione, per rispetto alla loro storia
e alla nostra, non si tratta oggi, qui, di imbalsamarli ex post,
ma di capirli. E, per capirli, studiarli. Il loro impegno fu
arduo. Congiungere creativamente ciò che da tutti era diviso.
Andare oltre ciò che divide. Rendere, in uno sforzo
dell’immaginazione,
compossibili
gli
estremi.
Impresa
impossibile, forse. Impresa interminabile, certo. Ma il fine
non è necessariamente il suo conseguimento. Esso è invece,
più spesso, la direzione. Solo gli uomini intelligenti sanno
accettare questa sfida.
3. Una domanda.
Nei Rosselli possiamo meglio ritrovare perciò – oggi più di
ieri – alcune intuizioni di fondo, degne di millennio. Pensiamo
alla lezione teorica di Carlo, alla lezione storiografica di Nello,
alla lezione letteraria e testimoniale di Amelia.
Ci domandiamo, perciò, oggi. Essi sono o non sono per noi,
sul limitare del nuovo millennio, un possibile modello? E, se
sì, in quale senso lo diciamo?
Nella vita quotidiana e intellettuale di ognuno di noi,
quando si tratta di confrontarsi con esperienze di alto profilo,
il metodo cruciale non è, a nostro avviso, quello di proporre
modelli,
ma
quello
di
attraversarli.
E
si
tratta
di
quell’‘attraversarli’ che significa farli sedimentare.
6
Lezione teorica, lezione etica, lezione prospettica, lezione
civile, quindi. Vediamole di scorcio.
4. La lezione teorica.
Intendiamo parlare, innanzitutto, della lezione teorica in
termini di metodo adottato. Un metodo i cui nuclei
fondamentali vanno individuati pensando allo scenario storico
in cui l’esperienza dei Rosselli storicamente si consumò. Si
tratta del rapporto fra ‘giustizia’ e ‘libertà’. In un tempo in
cui, come è tragicamente noto, il mondo andava spaccandosi
in due. Fra le ragioni della ‘giustizia’ e quelle della ‘libertà’.
Da che parte schierarsi?
Come è noto, Gustavo Zagrebelsky ha individuato uno dei
passaggi fondamentali dell’Occidente – della ‘modernità’ –
nel trànsito fra i valori di giustizia e i valori della libertà. In
una tale impostazione, il nodo cruciale è impostato e
interrogato così: pensare il mondo degli uomini a partire dalla
giustizia o a partire dalla libertà?
A nostro avviso, una tale impostazione va criticamente
ripensata. Almeno nella fase più matura del pensiero
moderno, infatti, a partire cioè dalle strade imboccate da
Locke, da Rousseau e da Kant, il problema appare, a nostro
avviso, diverso.
7
Se si guarda, infatti, al dibattito fra la ‘libertà degli antichi’
(‘autonomia’) e la ‘libertà dei moderni’ (‘indipendenza’), la
domanda più pertinente, forse, è intorno a come, nei tempi in
cui scoppia il dibattito degli antichi e dei moderni, tendano a
convivere e a strutturarsi fra loro, nel mondo degli uomini
(ossia, nella società civile e politica), la ‘giustizia’ e la ‘libertà’.
Non si tratta, cioè, nella prospettiva che qui si segnala, di
indicare una successione di fasi, o di stadi, nell’evolversi degli
orizzonti di senso della modernità, ma di cogliere la guisa in
cui vanno a strutturarsi, in un solo contesto, le loro istanze
simultanee, pur nel comune e centrale privilegiamento dell’
‘individuo’ come fuoco. A partire da una tale impostazione,
cioè, occorrerà domandarsi piuttosto: occorre pensare la
libertà a partire dalla giustizia o la giustizia a partire dalla
libertà?
Si tratta di un problema non riducibile alla semplice
scansione per cui a un’aetas cristiana succeda un’aetas
secolarizzata.
I
nuovi
termini
del
problema,
infatti,
riguarderanno tutti i moderni, credenti e non credenti. E
condurranno, come è noto, – almeno a un primo stadio – a
una contrapposizione fra le ragioni del liberalismo e le ragioni
del socialismo.
Come uscire dall’alternativa? Uno dei modi sarà quello di
dosare le ragioni in gioco in una nuova, difficile prospettiva.
8
L’altro modo, sarà quello di decostruire i termini in conflitto
per ripensarli daccapo.
Si tratterà, in quest’ultimo caso, di identificare una diversa
grammatica dei valori in contesa e della loro sfida, cercando,
lungo questo percorso, di rompere il guscio dell’alternativa
secca per mostrarne l’incongruità.
Una parte notevole della storia del primo Novecento è
proficuamente leggibile dentro lo sforzo eretico di percorrere
questa seconda strada – quella della decostruzione creativa. E
sarà, infatti, dalla ricerca di una tale nuova grammatica che
emergeranno, rotte le ragioni delle contrapposizioni costituite,
particolari posizioni teoriche che sembreranno, in quel
contesto, più contradictiones in adiecto che pensieri sostenibili.
Si pensi solo ad alcune delle opzioni filosofiche e delle
soluzioni espressive che in quegli anni fioriranno: ‘rivoluzione
liberale’, ‘socialismo liberale’, ‘rivoluzione personalista’,
‘liberalsocialismo’. Non si trattava qui, a ben vedere, di meri
tentativi di armistizi teorici – o, peggio, di scorciatoie verbali
per soluzioni di facciata. Si trattava, invece, il più delle volte,
di soluzioni consapevolmente problematiche, di cui oggi noi,
dal luogo del presente, possiamo meglio misurare il coraggio e
la fantasia.
La soluzione cercata, in realtà, consisteva in una sfida del
pensiero a sé stesso. Ed è in questo senso che richiamiamo
9
oggi, nella sua pienezza strategica, un pensiero di Carlo
Rosselli, da noi collocato a esergo ideale di questo Convegno:
“Per noi il mito della libertà impregna tutto il nostro
programma, perché anche le più avanzate trasformazioni
sociali le sollecitiamo e le giustifichiamo in nome di un
principio di libertà: di libertà piena, effettiva, positiva, per
tutti gli esseri umani, in tutti gli aspetti dell’esistenza”2.
Ogni parola, qui, ha un preciso valore di sfida teorica, che
va misurata e capita. L’opzione speculativa è netta. Si tratta
di rifiutare l’alternativa fra ‘giustizia’ e ‘libertà’. E si tratta,
al tempo stesso, di rifiutare l’idea metodologica di un
amministrare dosaggi fra esse. Ciò, allo scopo non di
conseguire un ‘ottimale ponderato’, di opinabile e friabile
coniugazione, ma di accettare tutti e due i valori senz’altro,
acquisiti nella loro radicalità. Cioè: interamente e fino in
fondo. Si trattava, all’epoca, di una scelta difficile e precisa,
ma soprattutto ambiziosa: quella di pensare la giustizia a
partire dalla libertà. Meglio: si trattava di pensare la giustizia
a partire dalle libertà. Meglio ancora: si trattava, nel pensare
la giustizia a partire dalle libertà, di comprendere fino in
fondo che la giustizia non è il ‘vestito di contenzione’ in cui
un’istanza (la ‘libertà’) debba essere frenata entro i confini di
un’istanza diversa (la ‘giustizia’), perché è la libertà, invece, –
2
Carlo ROSSELLI, Scritti politici, Guida, Napoli, 1988, p. 154.
10
anzi: sono le libertà – a fornire i costituenti essenziali della
giustizia. Né la giustizia, una qualsiasi giustizia, potrebbe mai
essere pensata senza le (di tutti e di ognuno) libertà.
Di quale ‘giustizia’, quindi, si parla? Non si tratta, qui,
della mera giustizia come ripartizione di beni e/o di risorse. E
si tratta, a questo punto, per capire una tale impostazione, di
lavorare teoricamente, in un prima fase, per approssimazioni.
a. In una prima approssimazione, è in questione la giustizia
(non come ripartizione di beni ma) come ripartizione delle
libertà. Ma nemmeno una tale formulazione è sufficiente.
Ancora una volta si diventerebbe, per amore di schema,
fallaci.
b.
Si
tratta,
infatti,
di
capire,
in
una
seconda
approssimazione, che la giustizia è il limite interno che la stessa
singola
libertà – ogni singola libertà – chiede, in quanto
costitutivamente relazionata a ogni altra e a tutte insieme, a
custodia di sé. Si tratta, cioè, in formulazione sintetica, della
giustizia interamente consumata nel mondo delle libertà. Delle
libertà, si diceva, non della libertà. Occorre infatti capire a
fondo la ragione – che è anche la sfida ambiziosa del pensiero
a sé stesso – per cui le libertà sono i costituenti intrinseci della
giustizia – e non la giustizia la ‘norma’ delle libertà. Ciò non è
semplice, né da poco, né conseguibile con puri aggiustamenti
verbali. Perché, quando si parla di ‘libertà’, non si sta
11
parlando di un puro principio ideale, ma della libertà concreta
di ogni singolo uomo – di ogni uomo empirico, còlto nel mondo
del suo quotidiano, della sua esistenza, del suo vissuto – e non
nel cielo stellato di una fantasia generatrice.
E’ questa la fondamentale ragione per cui prima
indicavamo come fondamentale il discorso del metodo. Anzi
meglio: il modello del metodo. Sapendo che esso allude a un
lavoro teorico che custodisce, per così dire, ‘in foro interno’,
un fine preciso, nascosto nella sua struttura.
Donde i corollari di questo metodo:
1.
Una critica permanente del potere, esercitata a partire
dal concreto, come milizia del pensiero.
2.
Una
critica
permanente
del
potere
accentrato,
esercitata a partire dall’autonomia, come misura di ogni
centro.
3.
Una critica permanente del potere dottrinario – e delle
congiunte concezioni deterministe – esercitata a partire
dall’esperienza, come misura di ogni concetto.
4.
Un’idea forte dell’antipotere come istanza etica
permanente, cui concorrono o possono concorrere, insieme
intrecciate, la componente ebraica, la mazziniana, la laica,
l’intellettuale,
l’anarchica,
l’utopica,
e,
infine
e
principalmente, la libertaria.
5.
Una certa idea del socialismo inteso come autonomia,
12
come cooperazione, come federazione, come partecipazione
dal basso, come liberazione delle libertà.
6.
Una precisa idea dell’Europa e del mondo (“…parlo a
quelli che non credono terminate alle Alpi le frontiere del
mondo…”): l’idea degli ‘Stati Uniti d’Europa’, come si sa, è di
Carlo Rosselli.
7.
Un’idea forte della circolazione europea e mondiale
delle persone, circolazione cosmopolita per natura e per
vocazione.
8.
Un’idea operosa d’una comunità d’affetti itinerante,
di cui la famiglia Rosselli, nomade e cosmopolita, sarà, per
così dire, laboratorio esemplare. E proprio mentre, in una
sorta di paradossale inversione, essi rovesciavano la propria
condizione di classe privilegiata in una militanza di
emarginazione liberatrice.
9.
Un’idea militante del rapporto fra pensiero e azione,
fra scienza e pratica civile, fra identità dottrinale e libertà.
Da qui, l’eresia dei Rosselli. Eresia in senso forte: come
travaglio di ricerca; come atto di coraggio; come decisione di
vita; come scelta di civiltà.
“I miei conti col marxismo li vado facendo da parecchi anni
sotto la scorta di molti nemici e carabinieri dottrinali, in
Commento [G1]: Carlo
ROSSELLI, Socialismo liberale,
Antologia degli scritti, p. 177).
compagnia di parecchi eretici amici”3.
Commento [G2]:
3
Ivi, p. 177.
13
Si trattava di una condizione paradossale. Consistente
nell’avere, in molti casi, per alleati di oggi i propri possibili
avversari di domani. E per avversari di oggi i possibili alleati
di domani.
5. La lezione etica.
Richiameremmo, anche qui, alcuni punti.
a. L’importanza data dai Rosselli, da tutti i Rosselli, ai
valori dell’educazione alla libertà – nell’azione e nella ricerca
scientifica – e della lotta per l’emancipazione.
b. L’aporia contestata a un certo marxismo per quella sua
restrittiva idea consistente nel pensare che, per mobilitare,
bisogna necessariamente ridurre le ragioni della mobilitazione
alle ragioni dell’utilità perché solo questa sarebbe persuasiva.
(Ci domandiamo, oggi, se questo monito non valga anche per i
tempi nostri e per noi, quando abbiamo guardato e
guardiamo all’unificazione europea sulla pura base dell’euro).
6. La lezione prospettica.
La lezione prospettica dei Rosselli fu nel saper guardare
oltre l’orizzonte dell’oggi, anche quando il filo di un tale
orizzonte sembrava escludere ogni possibile sguardo. Lo dico
ai ragazzi presenti oggi qui, attenti e numerosi. Oggi viviamo,
nella nostra civiltà, come in un treno lanciato a folle velocità,
14
che corre a migliaia di chilometri all’ora, in una dinamica di
progressione esponenziale, rischiando di avere per unico fine
il suo correre stesso. Ciò che significa, in realtà, una velocità
senza guidatore. E noi sappiamo che chi corre, tanto più corre
tanto più deve guardare lontano, se non vuole uscire di strada.
Carlo Rosselli conosceva questa lezione, quando scriveva,
con straordinario senso profetico dell’inattuale: “ Occorre
prospettare fin d’ora la convocazione d’un’Assemblea
europea, composta di delegati eletti dal popolo, che in assoluta
parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione
federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i
principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzi
frontiere e dogane, organizzi una forza al servizio del nuovo
diritto europeo e dia vita agli stati Uniti d’Europa
…Vaneggiamenti? No. Le utopie dell’oggi possono essere la
realtà del domani”4.
Forse potremmo ricordare a noi stessi, qui, la cosiddetta
‘crisi delle ideologie’ oggi. Pensiamo ad alcune sue coordinate:
1.
Tutto è neutro e uguale, in una omologazione
d’idee consistente nel consegnarsi irriflesso al ‘Pensiero
Unico’ del Capitale.
2.
4
Tutti sono democratici e tutti sono liberali. In
Ivi, p. 316.
15
realtà, senza nessuna determinazione dei concetti.
3.
L’idea di una ‘saggia’ rinuncia a ogni azione
lungimirante.
Noi osiamo dire che la crisi delle ideologie è certamente
benvenuta se è crisi delle ideologie chiuse, totalizzanti e
intolleranti – ma non è salutare se è mera rinuncia a un
pensiero che sappia farsi, per impegno e responsabilità, azione
concreta che opera a partire da una teoria e da un’assiologia
disposte a sperimentarsi.
I Rosselli hanno, in questo senso, una grande lezione da
darci. Il loro problema teorico ebbe il lessico dei loro tempi.
‘Giustizia e Libertà’ come movimento politico e ideale si
poneva
fra
due
schieramenti
opposti.
Contro
due
totalitarismi, più o meno mimetizzati. Contro i totalitarismi
del potere e contro il totalitarismo del denaro.
Oggi il problema del rapporto fra ‘giustizia’ e ‘libertà’ ha,
a ben vedere, acquisito un lessico nuovo. E’ il lessico dei
Diritti fondamentali. Infatti il ‘diritto fondamentale’ è, nel
contesto contemporaneo, l’idea di una risposta forte ai poteri
forti in nome della libertà. Non si tratta, infatti, solo di
realizzare una ‘libertà’ che resista al potere, ma di tutelare la
dignità, anzi le dignità. Non si tratta solo di salvaguardare
una libertà che attua la giustizia, ma di tutelare le tante
libertà dei tanti perché si attivino in un’autorealizzazione
16
relazionata.
Elias Canetti, nella sua splendida opera Masse e potere, ha
scritto che la moneta del potere è la minaccia della morte. Ci
domandiamo: qual è la moneta di quel contropotere che è la
dignità umana? Risponderemmo, a questa domanda, che
moneta del contropotere è il diritto fondamentale preso sul
serio. Ossia quel diritto che resiste vittoriosamente anche alle
leggi, concretamente vincolante – nel suo contenuto – anche
nei loro confronti. La questione teorica di ieri si è
trasformata, uguale e diversa, nella questione teorica di oggi.
E’ noto che, in una famosa lettera di San Paolo, si dice delle
tre virtù fondamentali, che i teologi chiameranno ‘teologali’.
Si tratta della ‘Fede’, della ‘Speranza’ e della ‘Carità’. Paolo
ci dice che la carità è la più importante delle virtù. Senza
carità, infatti, sarei solo un cembalo squillante. Nel caso dei
Rosselli, ossia nel contesto di una fede civile, muterei qualche
punto del discorso, ma conservandone la struttura essenziale.
‘Giustizia’ e ‘libertà’ furono le coordinate dei Rosselli. Ma,
oserei dire, la prima coordinata, nel loro caso, fu la fede. Fede
laica, rispettosa, intransigente. E potremmo forse qui
domandarci, alla maniera di Paolo: che cosa sarebbe mai una
giustizia senza fede? Sarebbe un’amministrazione – fiscale ed
occhiuta – di criteri centrali. E che cosa sarebbe una libertà
17
senza fede? Sarebbe la pura ricerca del benessere, la resa
grigia alla dottrina delle quantità, quel movimento calcolatore
e circoscritto che chiude ogni uomo concreto nella più banale
delle prigioni.
E domandiamoci ancora: che cosa sarebbe una fede senza
giustizia? Sarebbe nient’altro che l’Inquisizione, credente o
laica non importa, ma pur sempre Inquisizione. E che cosa
sarebbe una fede senza il rispetto della libertà, anzi delle
libertà? Sarebbe il fanatismo costituito.
Potremmo forse dire qui, col Dante interprete di Paolo, che,
nel triangolo dei valori morali, la fede è la sostanza delle cose
sperate. Ed è questa fede, che è anche fede civile, infatti, la
sostanza in cui sono felicemente radicate la ‘giustizia’ e la
‘libertà’.
Ricordiamoci di quei tempi – dei tempi in cui vissero i
Rosselli. Eravamo alla vigilia di una terribile ecatombe, la
seconda guerra mondiale. Follia o razionalità?
7. Dal quesito etico al quesito speculativo.
Uno dei motori dell’universo di Carlo Rosselli è certamente
quello etico. E, in esso, uno degli universi speculativi di
riferimento è certamente Emanuele Kant. Ma preferiremmo,
qui, dire subito che l’universo kantiano riceve, nelle
declinazioni dell’ideale rosselliano, alcune accentuazioni e
18
modificazioni essenziali.
Il principio della ‘libertà’ infatti – soprattutto se lo si
guarda non dal punto di vista della sua significazione
metafisica ma da quello del suo significato civile e politico – è
solo apparentemente uno: è plurale. Come l’idea di ‘persona’.
E’, questo, un paradosso teorico nascosto nella sua stessa
formulazione.
Si tratta, in realtà, qui del problema essenziale di non
separare ‘uomo empirico’ e ‘uomo noumenico’, allo scopo
fondamentale di assumere come punto di partenza essenziale
l’uomo concreto. Partendo dalle sue pratiche di libertà.
L’impostazione
del
problema
etico-politico
sembra
indicare, pertanto, la necessità di una nuova impostazione
speculativa.
8. Il problema del senso.
Dalle libertà alla giustizia, quindi, e non dalla giustizia alle
libertà. E, ciò, non a prezzo ma in nome della giustizia – di una
più rigorosa giustizia. Vorremmo domandarci: c’è, a
guardare fra le righe della teoria di Carlo Rosselli, una pratica
teorica da comprendere in filigrana? Una pratica teorica, cioè,
che sia radicalmente – direi trascendentalmente – preceduta
da una teoria che non sia esplicitata ma praticata. A ben
guardare, a nostro avviso, questa pratica teorica c’è, e
19
consiste in un lascito, speculativo e metodologico, cruciale. Si
tratta di un problema la cui elucidazione potrebbe esser fatta
valere a partire da Kant, a partire cioè dal problema del
‘giudizio riflettente’5.
E’ noto come nella filosofia kantiana sia fondamentale il
ricorso al ‘giudizio determinante’, il quale si avvale di un
modello di universale razionale precostituito sotto il quale
sussumere, nel giudizio, i dati dell’esperienza. Ed è noto,
altresì, come nella terza Critica kantiana, la Critica del
giudizio, emerga la significatività di un altro modello di
razionalità, proprio del ‘giudizio riflettente’, in cui i dati
dell’esperienza, lungi dall’essere sussunti in un modello
universale precostituito che li qualifichi, sono chiamati invece
a delineare e costruire il concetto universale – a ‘cercarlo’.
A partire da questa consapevolezza si è sviluppata, negli
ultimi decenni, una tendenza critica tesa a configurare il
‘giudizio riflettente’ kantiano, attivato da Kant in relazione al
giudizio estetico – del gusto –, come non circoscrivibile nel
puro ambito di questo. La premessa da cui si parte, infatti, è
quella del considerare il ‘giudizio riflettente’ capace di
esprimere
un
dell’universale
modello
già
alternativo
costituito,
rispetto
proprio
del
a
quello
‘giudizio
5
E’ un’opinione su cui abbiamo già insistito in altra sede. Ci permettiamo richiamarci qui a G.LIMONE,
Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali,
Jovene, Napoli, 2001.
20
determinante’6.
Una premessa è, qui, indispensabile. Quando si parla di
‘libertà’, bisogna distinguere, perché altro è parlare della
libertà come libertà metafisica, ossia come capacità di
rompere la rete dei condizionamenti causali per dare inizio a
un percorso nuovo; altro è, invece, il parlare della libertà
come libertà civile e politica, ossia come possibilità conferita
di un ventaglio di realizzazione di fini nell’ambito di un
contesto sociale. Se si parla di ‘libertà’ in questo secondo
senso, infatti, si individua un concetto solo apparentemente
unitario: perché si delinea, in realtà, l’àmbito di un concetto
plurale. Ci si riferisce, infatti, in questo caso, a tanti possibili
modi di tanti possibili singoli di esercitare queste possibilità.
Allo stesso modo: se si parla di ‘persona’ intendendola come
l’uomo concreto distinto da ogni altro, si parla solo
apparentemente di un concetto unitario: in realtà, si tratta,
anche qui, di di un concetto plurale, che concerne ogni uomo
concreto assunto nella sua (pur relazionata), distinta da ogni
altra, singolarità7.
6
E’ una pista su cui insiste, come è noto, Hannah Arendt. Ed è un punto su cui stiamo lavorando da
tempo. Ci permettiamo qui rinviare a più profili di questa nostra discussione in Giuseppe Limone, Il sacro
come la contraddizione rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene,
Napoli, 2000, spc. e passim.
7
Per questo punto, ci permettiamo richiamarci a Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione
rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli, 2001.
21
Commento [G3]: Significativi
sviluppi in questo Senso hanno
determinato gli studi di Hasnnah
Arendt: Lectures on Kant’s
Political Philosophy, University of
Chicago, Chicago, 1982; tr. It.
Teoria del giudizio politico, Il
Melangolo, Genova, 1992.
E’ ciò che in altra sede abbiamo sottolineato. La persona è
un concetto in cammino8. Come la libertà.
A ben guardare, stando nella pratica teorica della
concezione di Carlo Rosselli, si tratta di pensare alle singole
libertà concrete degli uomini concreti. E si tratta, al tempo
stesso, di pensare a una prospettiva in cui non c’è e non può
esserci
separazione
tra
‘uomo
fenomenico’
e
‘uomo
noumenico’. In questo senso, lo stesso giudizio politico può
essere pensato secondo il modello del giudizio riflettente. E,
con il giudizio politico, lo stesso giudizio sui fini dell’azione
dell’uomo concreto e sulla sua libertà. Non solo: lo stesso
giudizio sulla sua libera e personale umanità.
Pensare a partire dall’uomo concreto e dalla sua libertà
concreta significa certamente porsi il problema di tradurre il
programma rosselliano in direzione del ‘katà’, ossia in termini
di modello politico-istituzionale. Ma si tratta, a nostro avviso,
di porsi, contemporaneamente, un altro problema, non meno
importante – anzi, diremmo, cruciale: quello di tradurre il
programma rosselliano in direzione dell’‘anà’, ossia nei
termini di un modello speculativo.
9. Per un programma speculativo.
Qual è questo programma? L’abbiamo testé ricordato.
8
G. LIMONE, op. cit., p. 24 ss. e passim.
22
Carlo Rosselli scrive: “Per noi il mito della libertà impregna
tutto il nostro programma, perché anche le più avanzate
trasformazioni sociali le sollecitiamo e le giustifichiamo in
nome di un principio di libertà: di libertà piena, effettiva,
positiva, per tutti gli esseri umani, in tutti gli aspetti
dell’esistenza”9.
Come prendere sul serio e tradurre in vincolante statuto
speculativo un tale programma ideale? La strada non può che
essere una. Quella che realizza la scommessa teorica implicata
nel giudizio riflettente kantiano, pur senza ripeterne
pedissequamente le linee regolatrici. Si tratta, cioè, di
delineare una strada che, a partire dal concreto ineludibile su
cui cade e da cui parte il giudizio, ne ricostruisca, in modo
riflettente, la sua legittimazione di pretesa all’universale.
Vediamone i possibili percorsi. Kant, come è noto, afferma,
nella
seconda
formulazione
dell’imperativo
categorico:
“Agisci in modo da trattare l’umanità che è in te e negli altri
come un fine e mai come un semplice mezzo”. A una tale
‘umanità’, infatti, si deve ‘rispetto’. Ci si domanda. Questa
‘umanità’
è
un’‘idea’,
un’‘essenza’,
rinvenibile
universalmente e necessariamente in tutti gli uomini come già
costituita – o meglio: come già formulabile in modo
determinabile ed esaustivo? La varietà indefinita degli uomini
9
C. ROSSELLI, Scritti politici, Guida, Napoli, p. 154.
23
– e una possibile opzione cognitiva che incominci a prendere
sul serio ogni uomo concreto nella sua novità – potrebbe, però,
revocare in dubbio la certezza della precostituzione di una
tale ‘essenza’ universale. Ci si domanda: come, a questo
punto, ritrovare l’universale perduto? Un tale interrogativo,
nato da un tale percorso, legittima in realtà la valenza di quel
giudizio
che,
rovesciando
il
percorso
del
giudizio
determinante – che ‘applica’ l’‘umanità’ a ‘ogni uomo’ –
cerca di postulare, intenzionare e ricostruire, invece, una
possibile universalità a partire da ogni singolo uomo: è il
percorso del ‘giudizio riflettente’.
Si tratta di una strada logica lungo la quale è possibile, a
ben vedere, intenzionare, postulare e ricostruire la stessa idea
di libertà (civile e politica) a partire da ogni concreta libertà così
come esercitata da ogni singolo uomo. Se proviamo, infatti, a
partire da ogni uomo concreto, – a partire cioè da ogni uomo
individuale, sensibile, ‘fenomenico’ –
e a intenzionare,
postulare e ricostruire un percorso verso un’universale
trasvalutazione del suo ‘umano’, non è questo, forse, il vero
modo di prendere sul serio quest’uomo rispettando – non solo
sul piano dell’azione concreta che lo riguarda ma sul piano
della stessa azione teoretica che lo guarda – la sua ‘dignità’? E,
in ogni caso, anche tenendo sullo sfondo un precostituito
‘universale’ di ‘umanità’, se proviamo a lasciare ‘aperto’ il
24
concetto di ‘uomo’ e di ‘libertà’ per evitare di partire da
concetti definiti troppo presto, non sarebbe forse, un tale
atteggiamento teoretico, un prendere sul serio anche sul piano
speculativo la propria decisione di prendere sul serio l’uomo
concreto?
Tali domande rappresentano, in realtà, una precisa
scommessa
teorica,
implicante
una
ben
determinata
concatenazione di scelte. Si tratta, infatti, di fare una scelta
che ha un prezzo: la caduta della separazione fra uomo
fenomenico
e
uomo
noumenico.
In
nome
dell’uomo
fenomenico. Si tratta, cioè, di partire dall’uomo sensibile in
quanto uomo desiderante, in quanto uomo concretamente
radicato nelle proprie appetizioni, in quanto uomo che
esercita nel modo suo proprio la sua libertà. Ma si tratta di un
prezzo teoretico che ha, a ben guardare, una precisa
caratteristica: rimane infatti, pur sempre sullo sfondo, quale
punto finale di fuga, quale polo asintotico di attrazione, il mito
della libertà di ognuno e di tutti. Quel ‘mito della libertà’ che,
pur non assunto come concetto chiuso, costituisce, pur
sempre, un centro aperto e condiviso di gravitazione comune.
L’impiego del giudizio riflettente nel percorso ricostruttivo
di un universale non chiuso non è teoreticamente indolore.
Potremmo segnalarne, qui, due esiti significativi.
Il primo esito. Se ben osserviamo, attraverso un giudizio
25
riflettente che parta dalla concretezza di ogni uomo concreto
distinto da
ogni altro per trarne contenuti degni di un
rispetto universale, si sviluppa una vera rivoluzione nel
concetto di ‘bene comune’. Perché si postula che anche ciò che
sia singolarissimo in una persona, in quanto sia degno
d’universale, è ‘bene comune’ – donde l’imperativo che
nessuna maggioranza possa mai lederlo o minacciarlo.
Il secondo esito. Nel momento in cui il giudizio riflettente
trae da quest’uomo concreto, distinto da ogni altro, il suo
contenuto specifico degno di rispetto universale, esso giudizio
parte da un contenuto assunto come valido non in quanto tale
sia ‘in sé’ ma in quanto tale sia scelto e considerato dallo
stesso uomo concreto.
In altri termini, il giudizio riflettente che parta da questo
uomo concreto, può esprimersi a due livelli.
A un primo livello, si parte dal concreto delle sue
manifestazioni, dai modi del suo essere concreto, per estrarne
quanto sia degno di universale.
A un secondo livello, si parte dal concreto delle sue scelte,
dai modi del suo scegliere comportamenti e valori, per
estrarne quanto sia degno di universale. Si pensi alla stessa
valutazione dei propri bisogni, della propria cultura, della
propria libertà, e, in generale, di quanto è bene e bello per lui.
La base da cui parte il giudizio, qui, è un rinvio alla sua
26
libertà di scegliersela – e al suo modo di intenderla e
valutarla. E, d’altra parte, non si può partire dalla libertà di
un uomo se non si tenga conto di che cosa egli intenda e scelga
come sua libertà.
Nella prima pista, c’è un estrarre dall’essere fenomenico
dell’uomo concreto quanto in esso sia degno d’universale.
Nella seconda pista, c’è un estrarre dalle scelte d’essere
dell’uomo concreto quanto in esse sia degno di universale –
assumendo come base di partenza non valori o modelli ‘in sé’,
ma ciò che quell’uomo concreto decide essere modelli e valori.
Vediamo ora, a questo punto del discorso, il possibile
programma speculativo rinvenibile nella ‘pratica teorica’
della concezione di Carlo Rosselli.
Emanuele Kant individua, come è noto, nell’uomo il
Faktum di un comando. Un comando in cui egli legge
l’esistenza di un ‘imperativo categorico’, incondizionato, da
lui formulato in più guise. Una delle quali, come è noto, dice:
‘Agisci in modo da trattare l’umanità che è in te e negli altri
come un fine e mai come un semplice mezzo’. Diremmo che
nella pratica teorica dell’ideale rosselliano è individuabile, in
modo analogo e diverso, un altro Faktum. Il Faktum di un
comando che è, al tempo stesso, l’esortazione profonda ad
aderire senza eccezioni e senza tregua. E’ l’esortazione
27
profonda ad essere l’uomo che in concreto si è. Ad essere e
cercarsi nella propria umanità, sentita alla propria scala.
Nel sentirsi destinatario di un tale comando incondizionato
ad essere l’uomo che si è, infatti, l’uomo concreto si sente
comandato all’esercizio della propria individuale umanità – e
facultato ad essa. Con due precisazioni essenziali: 1. Si tratta
di un’‘umanità’ che non è la ‘generale’ umanità, ma la
propria, presa sul serio nella sua capacità di presentarsi, a
modo proprio, come esemplare. 2. Si tratta di un ‘comando’
che non ha per contenuto solo doveri ma diritti. E non solo
diritti concepiti accanto ai doveri. Ma, al tempo stesso, doveri
che hanno per contenuto diritti. Si ha, infatti, anche il dovere
di esercitare diritti, se si comprende che questi ‘diritti’
possono riguardare doveri verso sé stessi. Si tratta, a ben
guardare, della figura, ancípite e complessa, della ‘dignità’.
La quale non è solo sostanziata di diritti, ma di doveri – e di
doveri di esercitare diritti10. ‘Dignità’ che non è pertinenza di
una ‘species’, perché non può non riguardare il singolo uomo.
E, ove riguardi e nella misura in cui riguardi l’uomo in
generale, lo riguarda alla sola condizione che il suo imperativo
miri, all’epilogo, assumendolo come fine di percorso, proprio a
quell’uomo
concreto
per
il
quale
esprime
in
forma
contemplativa la sua ‘cura’.
10
Sul punto vedi G. LIMONE, Da Grozio a Vico. Il ‘diritto naturale’ come teoresi rigorosa, in AA.VV.
Il diritto naturale della socialità, a cura di Vanda Fiorillo, Giappichelli, Torino, 2003.
28
Si è comandati ad esercitare la propria umanità, quindi.
Ma che cosa è mai questa ‘umanità’? Non si tratta, in
quest’ordine di discorso, di un’umanità ‘generale’ che si trovi,
nel caso concreto del singolo, ‘trascritta’ e ‘applicata’ al
singolare. O meglio: non è di questa che soprattutto si tratta.
Si tratta, invece, dell’‘umanità’ che l’uomo concreto vive e
sente, dentro di sé, al singolare e che lo fa sentire
incondizionatamente facultato a darsi un ordine di fini in un
contesto sociale liberato.
Sentirsi comandati ad esercitare la propria concretissima
umanità – quindi i propri bisogni desideri risorse – significa:
1.
a un primo livello, sentirsi incondizionatamente
facultati a darsi un ordine di fini. Fini, per di più, inviolabili,
se si tratta dei modi in cui poter esercitare la propria dignità;
2.
a un secondo livello, sentire, in questa esperienza al
singolare, necessariamente presupposta la propria libertà
(come assenza di condizionamenti, ossia come capacità di
rompere la rete dei condizionamenti causali). Non è possibile
darsi dei fini, infatti, se non è presupposta la libera potenza di
darseli. E non a caso si dice, qui, ‘potenza’. Perché si tratta di
quella potenza che può rompere la rete dei condizionamenti
causali, dando l’inizio a un percorso nuovo.
In questa esperienza fondamentale, l’uomo può riuscire a
cogliere tre strati diversi della sua libertà. 1. Al livello primo, la
29
libertà come non condizionamento – ossia la capacità di dare
un nuovo inizio alle cose (libertà come indipendenza). 2. Al
livello secondo, la libertà come il darsi una norma, ossia come
autogoverno (libertà come autonomia). 3. Al livello terzo, la
libertà come il darsi ed esprimersi in un ventaglio di fini
(libertà come autorealizzazione).
Ci si domandava, in altra sede, a proposito di Kant11: si sta
dicendo ‘l’umanità che è in me o l’umanità che è di me?’. Non
si tratta, a rigore, della stessa cosa. C’è, a nostro avviso, un
percorso da compiere – non immediatamente dato né già
costituito – che va dalla propria umanità all’umanità e dalla
propria libertà alla libertà. Un percorso in cui il ‘da dove’ è
essenziale. Un tale movimento è l’itinerario complesso e
problematico che va dal proprio concreto valore al valore di
ogni altro – singolarmente e complessivamente preso. Si tratta
di un percorso non inscrivibile nell’itinerario precalcolato di
un giudizio determinante, perché ‘inventabile’ nel cammino
non precalcolabile di un giudizio riflettente. Percorso che,
quindi, non è già teoreticamente garantito, perché è frutto di
un lavoro. Lavoro che è, a un primo livello, incontro e
interazione di persone e, a un secondo livello, elaborazione –
sempre aperta e mai dottrinariamente chiusa – di istituzioni e
di civiltà.
11
Ci riferiamo a G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata, cit., p. 219.
30
Ciò
significa
due
precise
figure:
1.
Vivendo
e
sperimentando il proprio essere concreto, distinto da ogni
altro, l’uomo vi trova inscritta una ‘umanità’ il cui valore
intrinseco può diventare, attraverso un percorso riflettente,
dynamis di una pretesa all’universale, che non è garantita ma
va conquistata. In un itinerario in cui – potrebbe anche dirsi –
non la ‘ratio è relatio’ ma ‘la relatio è ratio’. 2. Vivendo e
sperimentando il proprio essere concreto, distinto da ogni
altro,
l’uomo
vi
trova
inscritta
una
‘libertà’
come
autorealizzazione il cui valore intrinseco può parimenti
diventare, attraverso un percorso riflettente, dynamis di una
pretesa universale. Né, d’altra parte, la pari pretesa che può
contemporaneamente venire da ogni altro uomo concreto si
può ritenere si ponga, secondo miti irenici o percorsi
precostituiti, come facilmente armonizzabile.
10. Per alcune precisazioni essenziali.
Un punto ci preme qui sottolineare. A ben osservare, nel
programma speculativo ricostruibile nel percorso indicato
possono cogliersi più gradi del giudizio riflettente.
a. A un primo grado. Si tratta, alla scala di ogni uomo, del
percorso che egli conduce e può condurre dall’universo di
desideri e bisogni di cui è portatore all’idea di uomo degno di
realizzare i suoi fini.
31
b. A un secondo grado. Si tratta, alla scala di ogni uomo
relazionato, del percorso che egli conduce e può condurre alle
forme istituzionali di appartenenza quali forme in cui sia
concretizzata un’idea di umanità, di cultura, di civiltà: si
pensi alla patria, all’Europa, al mondo.
c. A un terzo grado. Si tratta, alla scala di ogni uomo e dei
vari uomini concreti, del percorso ricostruibile per arrivare –
lungo l’esperienza di prove ed errori – a un’idea di umanità
degna di esprimersi attraverso tutte le sue voci. Libera, forte,
anche conflittuale, ma relazionata e liberata nella sua carica
liberatrice.
L’umanità inscritta nella propria singolare concretezza è la
‘persona’. Essa è l’uomo singolare, concreto, non l’essere
umano in generale. In questa ‘persona’ si ritiene sia radicata
un’idea – al grado singolare – universale. Che è ‘luogo’ di un
‘logo’ per il ‘dia-logo’. Ed è, nel suo essere tale, ponte
essenziale per passare dall’ ‘umanità di me’ all’ ‘umanità in
me’. E, di qui, al mondo delle istituzioni e della civiltà.
Si tratta di fare i conti con la libertà e con l’inevitabilità di
essere sé stessi. Con la libertà e con l’inevitabilità di essere
differenti. E con la responsabilità di essere uguali, ossia
appartenenti – prima che a un genus logico – a una comunità
di esistenti, come avrebbe specificato Ernst Cassirer.
32
11. Stili di percorso.
Una tale opzione di percorso significa, insieme con una
scelta teorica, alcuni precisi no:
1.
No ad ogni dottrinarismo chiuso, ingabbiato in
giudizi a concetti precostituiti. E quindi:
2.
No ad ogni concezione che svaluti il significato,
anche evolutivo, dell’esperienza. E quindi:
3.
No a ogni facile pretesa che le libertà si
armonizzino in modo irenico, senza travagli e conflitti.
Si tratterà, a questo punto, di interrogare ogni uomo e tutti
gli uomini a partire dalle loro situazioni concrete: nei loro
bisogni, nei loro fini, nei loro desideri, nelle loro risorse, nelle
loro concrete domande di vita, nella loro dignità.
Si tratta di un metodo. Non puramente strumentale, perché
vi è inscritto un fine. Là dove il fine è, innanzitutto, la
direzione.
Posto
l’uomo
concreto,
nel
concreto
delle
sue
determinazioni storiche e delle sue esigenze esistenziali, si
tratta, a questo punto, di guardarlo non (tanto) alla luce del
concetto di umanità che è in lui, ma a partire dall’idea di
umanità inscritta nella sua singolarità. A partire dall’idea di
libertà inscritta nella sua singolarità. Ossia: si tratta di partire
33
da questa idea di umanità e di libertà guardate e prese sul
serio nel loro specifico novum – e non nel loro essere mera
traduzione applicativa di un concetto generale.
In questo senso, ogni uomo, in quanto persona, e quindi in
quanto radicalmente differente da ogni altro, è portatore –
calco e filigrana – di una propria specifica idea di umanità. Di
una propria specifica idea di libertà. Ignorare questo punto è
tradirlo. In questo senso, ricostruire e delineare un’idea
generale di umanità e/o di libertà è ricostruire e delineare un
riflesso di quell’idea che vive nel concreto e di cui va
rispettata in radice la teoretica dignità. Qui il ‘riflettere’ si
pone come un collocare a una scala più alta ciò che è singolare,
e secondo la percezione e il vissuto che liberamente ne dà la
stessa singolarità.
Infatti, in questa prospettiva (consapevolmente situata),
ogni uomo è un novum. Come è un novum ogni libertà. Là
dove si tratta di un’umanità e di una libertà relazionate –
essendo la ‘relazione’ non additiva ma costitutiva. E là dove
ogni uomo e ogni libertà concorrono alla individuazione,
perennemente aperta, di una ‘umanità’ e di una ‘libertà’ che
tutte le possibili forme contenga (nel duplice significato di
includerle e di possibilitarle nello stampo di un modello).
Perché, in questo senso, il rinvio – teoreticamente salutare –
è al giudizio riflettente di Kant? Perché si tratta di cogliere e
34
di elaborare nell’idea di ‘umanità’ e di ‘libertà’ inscritta
nell’uomo concreto – e in ogni uomo a suo modo – lo stesso
in-finito percorso che conduce, in Kant, dal bello di quest’opera
d’arte al bello di qualsiasi opera d’arte e dal bello che si coglie
in quest’opera d’arte al bello che ognuno deve saper cogliere in
quest’opera d’arte. E, ancora, dal bello che in quest’opera
d’arte questa libertà creativa ha espresso al bello che questa
libertà creativa significa e deve significare a un grado
universale.
E’ il giudizio in quanto inferenza non di mero concetto, ma
di modello e di valore. E’ il giudizio elaborato a partire dalla
concretezza di uno spazio politico, fatto di concreti uomini e
libertà. A partire da ‘pratiche di libertà’ che rispondano a
desideri, risorse, bisogni che cercano una dignità universale.
E’ qui, diremmo, il senso della ‘libertà uguale’ di cui
Lorella Cedroni acutamente parla nel suo saggio, compreso in
questo volume. Dove l’uguaglianza delle libertà non può non
alludere alla diversità irriducibile di ogni libertà rispetto a
ogni altra – e alla diversità irriducibile di ogni uomo rispetto a
ogni altro. Dove l’‘uguaglianza’, quindi, è la ricerca delle
condizioni di possibilità strutturali in cui le diverse libertà –
tutte e ognuna – possano coesistere e co-svilupparsi. In una
situazione strutturale in cui possano declinarsi insieme la
libertà di essere diversi e la responsabilità di essere uguali.
35
Libertà diverse, collocate in griglie storiche e istituzionali che
rifiutano il dottrinarismo preconcetto con la stessa logica con
cui rifiutano i troppo rapidamente preconcetti significati di
‘umanità’ e di ‘libertà’. Concetti non acquisibili mai una volta
per tutte, perchè stanno, per così dire, sullo sfondo di ogni
percorso mirato alla loro determinazione. In questo, è la loro
‘miticità’.
Ma un tale giudizio – giudizio ‘riflettente’ – è un lavoro. Un
lavoro permanente. Un’opera lunga che cerca e deposita
istituzioni. Un’opera che, proprio nella consapevolezza di
essere
aperto
e
interminato,
rifiuta
i
dottrinarismi
considerandoli anticipazioni preconcette, schemi e sistemi
chiusi.
Qui la libertà non è solo metodo, ma fine – e fine inscritto
nel metodo. Qui, la libertà non è solo libertà come
indipendenza. Né è solo libertà come autonomia. Perché è è
libertà come sperimentazione di fini, come spendita personale
di risorse, come cammino di autorealizzazione. Come
spontanea individuazione, nella propria vita, di un orizzonte
di valori.
Qui, il giudizio riflettente diventa un lavoro teorico
interminabile, da costruire col pensiero e nell’azione.
12. Per una conclusione provvisoria.
36
I Rosselli sono stati, nella storia del Novecento, non solo
persone diverse appartenenti a un clima familiare e ideale
comune, ma una costellazione ideale. In essi vanno colti con
perspicacia la loro propria intelligenza dei tempi e il loro
modo
di
rispondervi12.
Citeremmo,
brevemente,
a
conclusione, tre coordinate di questa loro sagacia strategica e
valoriale, oggi così necessaria per i nostri.
La prima. L’intuizione che l’alternativa fra liberalismo e
socialismo era gravata – sia nell’uno sia nell’altro termine –
da un’ipoteca ‘scientificistica’ così dogmatica da soffocare le
potenzialità teoriche pur aperte al possibile superamento del
liberismo economico e del marxismo deterministico.
La seconda coordinata. Sarebbe troppo semplice, e perfino
banale, credere che il ‘socialismo liberale’ di Carlo Rosselli
fosse il conciliativo modo di pensare a una mera soluzione
intermedia, sorta di armistizio teorico o ‘terza via’ per un
arbitrato compromissorio. Carlo Rosselli, invece, aveva capito
davvero, e nei fatti, che non si esce da una contraddizione
mediandone le posizioni, ma smontandone i fattori – per
ripensarne la grammatica essenziale. Non si trattava, cioè, di
sancire
un
nuovo
compromesso
fra
‘liberalismo’
e
‘socialismo’, ma di ripensare in concreto – nel lessico della
grammatica politica e nel luogo dei fatti – la ‘giustizia’ e la
12
Vedi la ricostruzione di Marina Calloni e quella di Lorella Cedroni, in questo volume.
37
‘libertà’ – anzi le libertà. I Rosselli furono, perciò, non a caso,
fra i giovani arditi di quella generazione ideale che ruotò
intorno ai nomi di Gaetano Salvemini, di Piero Calamandrei,
di Guido Calogero, di Ferruccio Parri, di Aldo Garosci, di
Alessandro Levi, di Emilio Lussu. Uomini diversi, eppure
concorrenti insieme a un arricchimento teorico dell’idea della
dignità nel contesto delle istituzioni. I Rosselli, perciò,
frequentarono quei luoghi teorici in cui il liberalismo è preso
così tanto sul serio da essere còlto in contropiede nelle sue
stesse costruzioni di base – e nella sua stessa idea di libertà.
Operazione speculativa che non poteva non essere fatta anche
per il socialismo.
La terza coordinata. Fu proprio dei Rosselli il fare della
propria condizione di classe non una divisa per privilegiati,
ma la qualità di partenza per una testimonianza di
cittadinanza universale. Nessuno più dei Rosselli fu – per
vocazione non solo mentale ma civile – tanto mobile,
multilingue, europeo, cosmopolita, meticcio, a pieno titolo
cittadino militante in un universo complesso. I Rosselli erano
di casa a Parigi, a Londra, a New York. Il loro domicilio fu il
mondo. Lo stesso loro nomadismo esule fu il consapevole
rovesciamento della loro condizione di classe. Non a caso, essi
furono europeisti della prima ora, quando nemmeno forse si
sapeva che cosa fosse l’Europa. E ciò non in nome di uno
38
snobismo da
isolati, ma nella impervia condizione di chi testimonia con
la vita.
I giovani, perciò, possono e debbono apprendere molto da
quella lezione. Innanzitutto dal suo metodo. Perciò, un
Convegno. E perciò, soprattutto, gli Atti di un Convegno, da
disseminare nelle menti perché diano frutti copiosi nelle
generazioni future.
Potremmo dire che la morte precoce di Carlo e Nello
Rosselli ha, per noi, oggi, un valore simbolico forte. Perché
rappresenta non solo la loro brutale soppressione ma anche,
in qualche misura, l’assassinio perpetrato, nel loro corpo vivo,
da quell’idea di totalità che è stato uno dei fondamentali e
infausti miti del Novecento. Perciò, la loro morte precoce è
stato anche il simbolo di questo lavoro interminabile nella
ricerca della libertà e delle sue forme. Ricerca che la morte di
un uomo non interrompe, ma, a volte, addirittura potenzia.
In questo senso, la madre di Carlo e Nello Rosselli, Amelia,
fu, con la sua vita di scrittrice e di madre, metafora forte di
una vita vissuta con onore, al servizio dei figli e degl’ideali.
Ideali vissuti con uguale fedeltà. Così essa ci appare nelle sue
molteplici facce: tenera e severa come la ricorda il nipote Aldo
39
Rosselli; grande scrittrice di teatro del Novecento, come la
ricordano i suoi scopritori; madre martire nel senso più
sereno e più forte, come la sua vita testimonia. Amelia Rosselli
fu, per così dire, una sintesi alta dei significati di cui Carlo e
Nello Rosselli furono i testimoni non sempre ricordati.
Straordinaria fu la commemorazione che pronunciò Gaetano
Salvemini per la morte di Amelia, commemorazione oggi
reperibile
anche
nella documentatissima e intelligente
ricostruzione delle sue Memorie che ne ha fatto Marina
Calloni:
<<Quando Amelia, stanca e diafana, si presentò alla porta
dell’eterno riposo, l’angelo guardiano le domandò con quali
diritti chiedeva di essere ammessa all’eterno riposo. Lei, che
aveva il pudore del suo cuore ferito e non ne parlava mai,
rispose timidamente: <<Ho molto sofferto>>. – Soffrire,
soffrire – disse l’angelo; tutti i nati di donna sono nati per
soffrire; è il dolore che va a cercar loro, non loro che vanno a
cercare il dolore; non c’è nessun merito a soffrire. – Non ho
fatto mai male a nessuno. – Non basta, non basta. Che merito
c’è a non far male a nessuno, che crei il diritto all’eterno
riposo? - […] Allora Amelia dové parlare: – <<Ebbi tre figli,
li educai ad amare giustizia e libertà, e per avere amato
giustizia e libertà uno morì in guerra, e due furono
assassinati>>. L’angelo si inchinò, le baciò le piccole mani ed
40
aprì la porta dell’eterno riposo. Aldo, Carlo e Nello, sulla
soglia, l’aspettavano>>13.
Giuseppe Limone
13
Amelia ROSSELLI, Memorie, a cura di Marina Calloni, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 269.
41
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