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eresia creativa, eredità originale
Da: Giuseppe Limone, Introduzione a I Rosselli: eresia creativa, eredità originale, a cura di Simone Visciola e Giuseppe Limone, Guida, Napoli, 2005. I ROSSELLI: UN’ERESIA CREATIVA, UN’EREDITA’ ORIGINALE di Giuseppe Limone 1. Una premessa. Ringrazio le Scuole, le Autorità, i colleghi, i relatori che hanno accettato l’invito a venire fra noi. Ringrazio i professori del mio Dipartimento e della mia Facoltà, la Biblioteca centrale di Firenze, il liceo classico Domenico Cirillo di Aversa, i miei studenti, i miei dottorandi1, i miei collaboratori, i miei tesisti, tutti coloro che hanno consentito, con la loro opera intelligente, la migliore realizzazione di questa Giornata di studi. Sul limitare di questo Convegno dedicato ai Rosselli, superando per un attimo la gravitazione emotiva esercitata su 1 Ringrazio qui, oltre al prezioso e appassionato contributo del dott. Simone Visciola, l’opera prestata dai miei dottorandi Michele Blanco, Maria Teresa Giugliano, Benedetto Barra, Severino Berardi, Domenico Parrello, Fabio Benigni, Pietro Emanuele, Roberta Riverso, Luigi Vitullo. Ringrazio anche il dott. Francesco Rizzo per l’opera intelligente e infaticabile dedicata all’organizzazione del Convegno, e l’arch. Massimo Olivieri per la bella ed elegante grafica realizzata per i manifesti e gl’inviti del Convegno. Ringrazio altresì le dottoresse Annunziata Valente, Elena Daniela Scaramella e Rosa Santo per l’operosa ed efficace azione di sostegno amministrativo nella loro qualità di responsabili del Dipartimento. 1 di noi dal ricorrere del loro anniversario, è lecito domandarsi: che cosa significa, oggi, interrogarsi sui Rosselli? E che cosa significa, insieme, interrogarsi su ‘Giustizia e Libertà’? Diremmo che l’attualità dei Rosselli riguarda, di là dal loro anniversario, una lezione teorica, una lezione etica, una lezione prospettica, una lezione civile. Passati i cent'anni dalla loro nascita, infatti, può riaprirsi con straordinaria forza, oggi, una questione culturale e civile: quella posta fin dai primi decenni del Novecento, appunto, dal loro itinerario intellettuale ed umano, culminato nella loro morte tragica, vittime del fascismo. E si tratta, a ben guardare, di una questione che i Rosselli stessi impostarono, nel loro tempo, in termini che solo oggi possiamo, forse, a distanza di molti decenni, collocare nella giusta prospettiva critica. Meglio: rimeditare. E ciò per alcune dimensioni, originali e coraggiose, che i Rosselli fecero, negli scritti e nell'azione, emergere con nettezza – e che qui solo in alcuni punti riassumeremo. 2. Alcune coordinate. Veniamo a questi punti, che caratterizzarono la scommessa intellettuale rosselliana – parliamo del loro patrimonio simbolico comune, a prescindere dalle singole, diverse testimonianze: 2 1. Il coraggio di rompere tradizioni consolidate in nome di una fedeltà più profonda. Fu Carlo Rosselli, infatti, a sostenere la natura fittizia – artificiosa, deformante, ideologica – dell'antitesi fra liberalismo e socialismo, se nel socialismo è veramente in questione la giustizia e se nel liberalismo è veramente in questione la libertà. Non può esserci, infatti, ‘libertà’ se non è di ognuno e di tutti; e, al tempo stesso, non può esserci alcuna ‘giustizia’ calata sull’insieme sociale a prescindere dalle libertà. In questo senso, Carlo Rosselli intuiva che era necessario, per un paradosso virtuoso, essere eretici del liberalismo per essere liberali ed eretici del socialismo per essere socialisti. Né si trattava, in questa opzione, di adottare una mera 'terza via', perché veniva in questione, invece, un modo epistemologicamente nuovo di impostare il rapporto fra ‘giustizia’ e ‘libertà’. Un problema che era infatti – contemporaneamente – politico, etico, filosofico e civile. Nella consapevolezza militante che è l'eresia, spesso, la strada da osare nell’esercizio di una ricerca appassionata. E l’eresia costa: in termini di sofferenze, di amici, di alleati, di privilegi economici, di posizioni di classe, di quiete, di libertà. 2. Il coraggio di dire no a ogni dottrinarismo che intendesse ingabbiare la storia e il nuovo, perché, per sua stessa natura, lo stereotipo dottrinario sempre dimentica l'importanza 3 dell'esperienza concreta quale campo d'illuminazione dell'ideale. Ma si trattava, al tempo stesso, del coraggio di dire no a ogni empirismo che perdesse di vista l'ideale nell'individuazione del percorso civile. "Le utopie di oggi – dirà Carlo Rosselli – possono essere le realtà di domani". Ma il metodo, in ogni caso, non potrà mai essere diverso da quello della libertà. 3. La capacità di essere, al tempo stesso, teorici e combattenti, idealisti e realisti, in un nesso senza tregua fra mente e corpo, fra pensiero ed azione, tra filosofia e pratica, fra cultura e sperimentazione civile. 4. L'intuizione profetica e militante – al di là di ogni ragionevole realismo – dell'idea europea. Carlo Rosselli, come è noto, scriverà: " [Occorre] prospettare fin d'ora la convocazione di un'Assemblea Europea, composta di delegati eletti dai popoli, che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzi frontiere e dogane, organizzi una forza al servizio del nuovo diritto europeo e dia vita agli Stati Uniti d'Europa … Vaneggiamo? No. Le utopie dell'oggi possono essere le realtà del domani" (in "Giustizia e Libertà", 17.5.1935). Solo oggi, forse, dissipatisi i fumi degli opposti teologèmi 4 schierati, possiamo appieno capire lo spessore di questa lezione. Tradizioni liberali, tradizioni democratiche, tradizioni filosofiche e culturali, mazzinianesimo, socialismo, spirito libertario, ebraismo critico, entusiasmo civile – tutto s’intersecava nel crogiuolo di una grande idea ricreatrice. Controcorrente, composita e una. Forse oggi vincente perché – allora – vinta. Ma non solo per questo. La famiglia Rosselli – e Amelia, la loro madre, notevolissima scrittrice di teatro – riuscirà a porsi, in quel contesto sociale, se la guardiamo da oggi, come il centro testimoniale di una comunità d'affetti più ampia – di amici, di militanti, di intellettuali – che sa essere non puro crocevia intimistico ma elaborazione di formazione e di storia. Ciò, in un grande circúito europeo e mondiale, in cui essi, i Rosselli, effettivamente circolavano stando nel loro habitus più proprio. Si tratta, a ben vedere, di un modello straordinario per l'oggi. E di un monito per l'avvenire. Per l'avvenire della stessa Europa presente, alla quale silenziosamente ricorda l’importanza di non essere la grigia stanza delle compensazioni del danaro. I Rosselli sono stati, in questo senso, un ossimoro vivente. Emersi in una società occidentale che li ha visti nascere e perire in una condizione di frattura con tutte le tradizioni consolidate, e con le loro stesse, essi sono rimasti per troppo tempo consegnati a un martirio senza livrèe e senza laudatori di cordata, perché eretici di 5 tutte le chiese. A maggior ragione, per rispetto alla loro storia e alla nostra, non si tratta oggi, qui, di imbalsamarli ex post, ma di capirli. E, per capirli, studiarli. Il loro impegno fu arduo. Congiungere creativamente ciò che da tutti era diviso. Andare oltre ciò che divide. Rendere, in uno sforzo dell’immaginazione, compossibili gli estremi. Impresa impossibile, forse. Impresa interminabile, certo. Ma il fine non è necessariamente il suo conseguimento. Esso è invece, più spesso, la direzione. Solo gli uomini intelligenti sanno accettare questa sfida. 3. Una domanda. Nei Rosselli possiamo meglio ritrovare perciò – oggi più di ieri – alcune intuizioni di fondo, degne di millennio. Pensiamo alla lezione teorica di Carlo, alla lezione storiografica di Nello, alla lezione letteraria e testimoniale di Amelia. Ci domandiamo, perciò, oggi. Essi sono o non sono per noi, sul limitare del nuovo millennio, un possibile modello? E, se sì, in quale senso lo diciamo? Nella vita quotidiana e intellettuale di ognuno di noi, quando si tratta di confrontarsi con esperienze di alto profilo, il metodo cruciale non è, a nostro avviso, quello di proporre modelli, ma quello di attraversarli. E si tratta di quell’‘attraversarli’ che significa farli sedimentare. 6 Lezione teorica, lezione etica, lezione prospettica, lezione civile, quindi. Vediamole di scorcio. 4. La lezione teorica. Intendiamo parlare, innanzitutto, della lezione teorica in termini di metodo adottato. Un metodo i cui nuclei fondamentali vanno individuati pensando allo scenario storico in cui l’esperienza dei Rosselli storicamente si consumò. Si tratta del rapporto fra ‘giustizia’ e ‘libertà’. In un tempo in cui, come è tragicamente noto, il mondo andava spaccandosi in due. Fra le ragioni della ‘giustizia’ e quelle della ‘libertà’. Da che parte schierarsi? Come è noto, Gustavo Zagrebelsky ha individuato uno dei passaggi fondamentali dell’Occidente – della ‘modernità’ – nel trànsito fra i valori di giustizia e i valori della libertà. In una tale impostazione, il nodo cruciale è impostato e interrogato così: pensare il mondo degli uomini a partire dalla giustizia o a partire dalla libertà? A nostro avviso, una tale impostazione va criticamente ripensata. Almeno nella fase più matura del pensiero moderno, infatti, a partire cioè dalle strade imboccate da Locke, da Rousseau e da Kant, il problema appare, a nostro avviso, diverso. 7 Se si guarda, infatti, al dibattito fra la ‘libertà degli antichi’ (‘autonomia’) e la ‘libertà dei moderni’ (‘indipendenza’), la domanda più pertinente, forse, è intorno a come, nei tempi in cui scoppia il dibattito degli antichi e dei moderni, tendano a convivere e a strutturarsi fra loro, nel mondo degli uomini (ossia, nella società civile e politica), la ‘giustizia’ e la ‘libertà’. Non si tratta, cioè, nella prospettiva che qui si segnala, di indicare una successione di fasi, o di stadi, nell’evolversi degli orizzonti di senso della modernità, ma di cogliere la guisa in cui vanno a strutturarsi, in un solo contesto, le loro istanze simultanee, pur nel comune e centrale privilegiamento dell’ ‘individuo’ come fuoco. A partire da una tale impostazione, cioè, occorrerà domandarsi piuttosto: occorre pensare la libertà a partire dalla giustizia o la giustizia a partire dalla libertà? Si tratta di un problema non riducibile alla semplice scansione per cui a un’aetas cristiana succeda un’aetas secolarizzata. I nuovi termini del problema, infatti, riguarderanno tutti i moderni, credenti e non credenti. E condurranno, come è noto, – almeno a un primo stadio – a una contrapposizione fra le ragioni del liberalismo e le ragioni del socialismo. Come uscire dall’alternativa? Uno dei modi sarà quello di dosare le ragioni in gioco in una nuova, difficile prospettiva. 8 L’altro modo, sarà quello di decostruire i termini in conflitto per ripensarli daccapo. Si tratterà, in quest’ultimo caso, di identificare una diversa grammatica dei valori in contesa e della loro sfida, cercando, lungo questo percorso, di rompere il guscio dell’alternativa secca per mostrarne l’incongruità. Una parte notevole della storia del primo Novecento è proficuamente leggibile dentro lo sforzo eretico di percorrere questa seconda strada – quella della decostruzione creativa. E sarà, infatti, dalla ricerca di una tale nuova grammatica che emergeranno, rotte le ragioni delle contrapposizioni costituite, particolari posizioni teoriche che sembreranno, in quel contesto, più contradictiones in adiecto che pensieri sostenibili. Si pensi solo ad alcune delle opzioni filosofiche e delle soluzioni espressive che in quegli anni fioriranno: ‘rivoluzione liberale’, ‘socialismo liberale’, ‘rivoluzione personalista’, ‘liberalsocialismo’. Non si trattava qui, a ben vedere, di meri tentativi di armistizi teorici – o, peggio, di scorciatoie verbali per soluzioni di facciata. Si trattava, invece, il più delle volte, di soluzioni consapevolmente problematiche, di cui oggi noi, dal luogo del presente, possiamo meglio misurare il coraggio e la fantasia. La soluzione cercata, in realtà, consisteva in una sfida del pensiero a sé stesso. Ed è in questo senso che richiamiamo 9 oggi, nella sua pienezza strategica, un pensiero di Carlo Rosselli, da noi collocato a esergo ideale di questo Convegno: “Per noi il mito della libertà impregna tutto il nostro programma, perché anche le più avanzate trasformazioni sociali le sollecitiamo e le giustifichiamo in nome di un principio di libertà: di libertà piena, effettiva, positiva, per tutti gli esseri umani, in tutti gli aspetti dell’esistenza”2. Ogni parola, qui, ha un preciso valore di sfida teorica, che va misurata e capita. L’opzione speculativa è netta. Si tratta di rifiutare l’alternativa fra ‘giustizia’ e ‘libertà’. E si tratta, al tempo stesso, di rifiutare l’idea metodologica di un amministrare dosaggi fra esse. Ciò, allo scopo non di conseguire un ‘ottimale ponderato’, di opinabile e friabile coniugazione, ma di accettare tutti e due i valori senz’altro, acquisiti nella loro radicalità. Cioè: interamente e fino in fondo. Si trattava, all’epoca, di una scelta difficile e precisa, ma soprattutto ambiziosa: quella di pensare la giustizia a partire dalla libertà. Meglio: si trattava di pensare la giustizia a partire dalle libertà. Meglio ancora: si trattava, nel pensare la giustizia a partire dalle libertà, di comprendere fino in fondo che la giustizia non è il ‘vestito di contenzione’ in cui un’istanza (la ‘libertà’) debba essere frenata entro i confini di un’istanza diversa (la ‘giustizia’), perché è la libertà, invece, – 2 Carlo ROSSELLI, Scritti politici, Guida, Napoli, 1988, p. 154. 10 anzi: sono le libertà – a fornire i costituenti essenziali della giustizia. Né la giustizia, una qualsiasi giustizia, potrebbe mai essere pensata senza le (di tutti e di ognuno) libertà. Di quale ‘giustizia’, quindi, si parla? Non si tratta, qui, della mera giustizia come ripartizione di beni e/o di risorse. E si tratta, a questo punto, per capire una tale impostazione, di lavorare teoricamente, in un prima fase, per approssimazioni. a. In una prima approssimazione, è in questione la giustizia (non come ripartizione di beni ma) come ripartizione delle libertà. Ma nemmeno una tale formulazione è sufficiente. Ancora una volta si diventerebbe, per amore di schema, fallaci. b. Si tratta, infatti, di capire, in una seconda approssimazione, che la giustizia è il limite interno che la stessa singola libertà – ogni singola libertà – chiede, in quanto costitutivamente relazionata a ogni altra e a tutte insieme, a custodia di sé. Si tratta, cioè, in formulazione sintetica, della giustizia interamente consumata nel mondo delle libertà. Delle libertà, si diceva, non della libertà. Occorre infatti capire a fondo la ragione – che è anche la sfida ambiziosa del pensiero a sé stesso – per cui le libertà sono i costituenti intrinseci della giustizia – e non la giustizia la ‘norma’ delle libertà. Ciò non è semplice, né da poco, né conseguibile con puri aggiustamenti verbali. Perché, quando si parla di ‘libertà’, non si sta 11 parlando di un puro principio ideale, ma della libertà concreta di ogni singolo uomo – di ogni uomo empirico, còlto nel mondo del suo quotidiano, della sua esistenza, del suo vissuto – e non nel cielo stellato di una fantasia generatrice. E’ questa la fondamentale ragione per cui prima indicavamo come fondamentale il discorso del metodo. Anzi meglio: il modello del metodo. Sapendo che esso allude a un lavoro teorico che custodisce, per così dire, ‘in foro interno’, un fine preciso, nascosto nella sua struttura. Donde i corollari di questo metodo: 1. Una critica permanente del potere, esercitata a partire dal concreto, come milizia del pensiero. 2. Una critica permanente del potere accentrato, esercitata a partire dall’autonomia, come misura di ogni centro. 3. Una critica permanente del potere dottrinario – e delle congiunte concezioni deterministe – esercitata a partire dall’esperienza, come misura di ogni concetto. 4. Un’idea forte dell’antipotere come istanza etica permanente, cui concorrono o possono concorrere, insieme intrecciate, la componente ebraica, la mazziniana, la laica, l’intellettuale, l’anarchica, l’utopica, e, infine e principalmente, la libertaria. 5. Una certa idea del socialismo inteso come autonomia, 12 come cooperazione, come federazione, come partecipazione dal basso, come liberazione delle libertà. 6. Una precisa idea dell’Europa e del mondo (“…parlo a quelli che non credono terminate alle Alpi le frontiere del mondo…”): l’idea degli ‘Stati Uniti d’Europa’, come si sa, è di Carlo Rosselli. 7. Un’idea forte della circolazione europea e mondiale delle persone, circolazione cosmopolita per natura e per vocazione. 8. Un’idea operosa d’una comunità d’affetti itinerante, di cui la famiglia Rosselli, nomade e cosmopolita, sarà, per così dire, laboratorio esemplare. E proprio mentre, in una sorta di paradossale inversione, essi rovesciavano la propria condizione di classe privilegiata in una militanza di emarginazione liberatrice. 9. Un’idea militante del rapporto fra pensiero e azione, fra scienza e pratica civile, fra identità dottrinale e libertà. Da qui, l’eresia dei Rosselli. Eresia in senso forte: come travaglio di ricerca; come atto di coraggio; come decisione di vita; come scelta di civiltà. “I miei conti col marxismo li vado facendo da parecchi anni sotto la scorta di molti nemici e carabinieri dottrinali, in Commento [G1]: Carlo ROSSELLI, Socialismo liberale, Antologia degli scritti, p. 177). compagnia di parecchi eretici amici”3. Commento [G2]: 3 Ivi, p. 177. 13 Si trattava di una condizione paradossale. Consistente nell’avere, in molti casi, per alleati di oggi i propri possibili avversari di domani. E per avversari di oggi i possibili alleati di domani. 5. La lezione etica. Richiameremmo, anche qui, alcuni punti. a. L’importanza data dai Rosselli, da tutti i Rosselli, ai valori dell’educazione alla libertà – nell’azione e nella ricerca scientifica – e della lotta per l’emancipazione. b. L’aporia contestata a un certo marxismo per quella sua restrittiva idea consistente nel pensare che, per mobilitare, bisogna necessariamente ridurre le ragioni della mobilitazione alle ragioni dell’utilità perché solo questa sarebbe persuasiva. (Ci domandiamo, oggi, se questo monito non valga anche per i tempi nostri e per noi, quando abbiamo guardato e guardiamo all’unificazione europea sulla pura base dell’euro). 6. La lezione prospettica. La lezione prospettica dei Rosselli fu nel saper guardare oltre l’orizzonte dell’oggi, anche quando il filo di un tale orizzonte sembrava escludere ogni possibile sguardo. Lo dico ai ragazzi presenti oggi qui, attenti e numerosi. Oggi viviamo, nella nostra civiltà, come in un treno lanciato a folle velocità, 14 che corre a migliaia di chilometri all’ora, in una dinamica di progressione esponenziale, rischiando di avere per unico fine il suo correre stesso. Ciò che significa, in realtà, una velocità senza guidatore. E noi sappiamo che chi corre, tanto più corre tanto più deve guardare lontano, se non vuole uscire di strada. Carlo Rosselli conosceva questa lezione, quando scriveva, con straordinario senso profetico dell’inattuale: “ Occorre prospettare fin d’ora la convocazione d’un’Assemblea europea, composta di delegati eletti dal popolo, che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzi frontiere e dogane, organizzi una forza al servizio del nuovo diritto europeo e dia vita agli stati Uniti d’Europa …Vaneggiamenti? No. Le utopie dell’oggi possono essere la realtà del domani”4. Forse potremmo ricordare a noi stessi, qui, la cosiddetta ‘crisi delle ideologie’ oggi. Pensiamo ad alcune sue coordinate: 1. Tutto è neutro e uguale, in una omologazione d’idee consistente nel consegnarsi irriflesso al ‘Pensiero Unico’ del Capitale. 2. 4 Tutti sono democratici e tutti sono liberali. In Ivi, p. 316. 15 realtà, senza nessuna determinazione dei concetti. 3. L’idea di una ‘saggia’ rinuncia a ogni azione lungimirante. Noi osiamo dire che la crisi delle ideologie è certamente benvenuta se è crisi delle ideologie chiuse, totalizzanti e intolleranti – ma non è salutare se è mera rinuncia a un pensiero che sappia farsi, per impegno e responsabilità, azione concreta che opera a partire da una teoria e da un’assiologia disposte a sperimentarsi. I Rosselli hanno, in questo senso, una grande lezione da darci. Il loro problema teorico ebbe il lessico dei loro tempi. ‘Giustizia e Libertà’ come movimento politico e ideale si poneva fra due schieramenti opposti. Contro due totalitarismi, più o meno mimetizzati. Contro i totalitarismi del potere e contro il totalitarismo del denaro. Oggi il problema del rapporto fra ‘giustizia’ e ‘libertà’ ha, a ben vedere, acquisito un lessico nuovo. E’ il lessico dei Diritti fondamentali. Infatti il ‘diritto fondamentale’ è, nel contesto contemporaneo, l’idea di una risposta forte ai poteri forti in nome della libertà. Non si tratta, infatti, solo di realizzare una ‘libertà’ che resista al potere, ma di tutelare la dignità, anzi le dignità. Non si tratta solo di salvaguardare una libertà che attua la giustizia, ma di tutelare le tante libertà dei tanti perché si attivino in un’autorealizzazione 16 relazionata. Elias Canetti, nella sua splendida opera Masse e potere, ha scritto che la moneta del potere è la minaccia della morte. Ci domandiamo: qual è la moneta di quel contropotere che è la dignità umana? Risponderemmo, a questa domanda, che moneta del contropotere è il diritto fondamentale preso sul serio. Ossia quel diritto che resiste vittoriosamente anche alle leggi, concretamente vincolante – nel suo contenuto – anche nei loro confronti. La questione teorica di ieri si è trasformata, uguale e diversa, nella questione teorica di oggi. E’ noto che, in una famosa lettera di San Paolo, si dice delle tre virtù fondamentali, che i teologi chiameranno ‘teologali’. Si tratta della ‘Fede’, della ‘Speranza’ e della ‘Carità’. Paolo ci dice che la carità è la più importante delle virtù. Senza carità, infatti, sarei solo un cembalo squillante. Nel caso dei Rosselli, ossia nel contesto di una fede civile, muterei qualche punto del discorso, ma conservandone la struttura essenziale. ‘Giustizia’ e ‘libertà’ furono le coordinate dei Rosselli. Ma, oserei dire, la prima coordinata, nel loro caso, fu la fede. Fede laica, rispettosa, intransigente. E potremmo forse qui domandarci, alla maniera di Paolo: che cosa sarebbe mai una giustizia senza fede? Sarebbe un’amministrazione – fiscale ed occhiuta – di criteri centrali. E che cosa sarebbe una libertà 17 senza fede? Sarebbe la pura ricerca del benessere, la resa grigia alla dottrina delle quantità, quel movimento calcolatore e circoscritto che chiude ogni uomo concreto nella più banale delle prigioni. E domandiamoci ancora: che cosa sarebbe una fede senza giustizia? Sarebbe nient’altro che l’Inquisizione, credente o laica non importa, ma pur sempre Inquisizione. E che cosa sarebbe una fede senza il rispetto della libertà, anzi delle libertà? Sarebbe il fanatismo costituito. Potremmo forse dire qui, col Dante interprete di Paolo, che, nel triangolo dei valori morali, la fede è la sostanza delle cose sperate. Ed è questa fede, che è anche fede civile, infatti, la sostanza in cui sono felicemente radicate la ‘giustizia’ e la ‘libertà’. Ricordiamoci di quei tempi – dei tempi in cui vissero i Rosselli. Eravamo alla vigilia di una terribile ecatombe, la seconda guerra mondiale. Follia o razionalità? 7. Dal quesito etico al quesito speculativo. Uno dei motori dell’universo di Carlo Rosselli è certamente quello etico. E, in esso, uno degli universi speculativi di riferimento è certamente Emanuele Kant. Ma preferiremmo, qui, dire subito che l’universo kantiano riceve, nelle declinazioni dell’ideale rosselliano, alcune accentuazioni e 18 modificazioni essenziali. Il principio della ‘libertà’ infatti – soprattutto se lo si guarda non dal punto di vista della sua significazione metafisica ma da quello del suo significato civile e politico – è solo apparentemente uno: è plurale. Come l’idea di ‘persona’. E’, questo, un paradosso teorico nascosto nella sua stessa formulazione. Si tratta, in realtà, qui del problema essenziale di non separare ‘uomo empirico’ e ‘uomo noumenico’, allo scopo fondamentale di assumere come punto di partenza essenziale l’uomo concreto. Partendo dalle sue pratiche di libertà. L’impostazione del problema etico-politico sembra indicare, pertanto, la necessità di una nuova impostazione speculativa. 8. Il problema del senso. Dalle libertà alla giustizia, quindi, e non dalla giustizia alle libertà. E, ciò, non a prezzo ma in nome della giustizia – di una più rigorosa giustizia. Vorremmo domandarci: c’è, a guardare fra le righe della teoria di Carlo Rosselli, una pratica teorica da comprendere in filigrana? Una pratica teorica, cioè, che sia radicalmente – direi trascendentalmente – preceduta da una teoria che non sia esplicitata ma praticata. A ben guardare, a nostro avviso, questa pratica teorica c’è, e 19 consiste in un lascito, speculativo e metodologico, cruciale. Si tratta di un problema la cui elucidazione potrebbe esser fatta valere a partire da Kant, a partire cioè dal problema del ‘giudizio riflettente’5. E’ noto come nella filosofia kantiana sia fondamentale il ricorso al ‘giudizio determinante’, il quale si avvale di un modello di universale razionale precostituito sotto il quale sussumere, nel giudizio, i dati dell’esperienza. Ed è noto, altresì, come nella terza Critica kantiana, la Critica del giudizio, emerga la significatività di un altro modello di razionalità, proprio del ‘giudizio riflettente’, in cui i dati dell’esperienza, lungi dall’essere sussunti in un modello universale precostituito che li qualifichi, sono chiamati invece a delineare e costruire il concetto universale – a ‘cercarlo’. A partire da questa consapevolezza si è sviluppata, negli ultimi decenni, una tendenza critica tesa a configurare il ‘giudizio riflettente’ kantiano, attivato da Kant in relazione al giudizio estetico – del gusto –, come non circoscrivibile nel puro ambito di questo. La premessa da cui si parte, infatti, è quella del considerare il ‘giudizio riflettente’ capace di esprimere un dell’universale modello già alternativo costituito, rispetto proprio del a quello ‘giudizio 5 E’ un’opinione su cui abbiamo già insistito in altra sede. Ci permettiamo richiamarci qui a G.LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli, 2001. 20 determinante’6. Una premessa è, qui, indispensabile. Quando si parla di ‘libertà’, bisogna distinguere, perché altro è parlare della libertà come libertà metafisica, ossia come capacità di rompere la rete dei condizionamenti causali per dare inizio a un percorso nuovo; altro è, invece, il parlare della libertà come libertà civile e politica, ossia come possibilità conferita di un ventaglio di realizzazione di fini nell’ambito di un contesto sociale. Se si parla di ‘libertà’ in questo secondo senso, infatti, si individua un concetto solo apparentemente unitario: perché si delinea, in realtà, l’àmbito di un concetto plurale. Ci si riferisce, infatti, in questo caso, a tanti possibili modi di tanti possibili singoli di esercitare queste possibilità. Allo stesso modo: se si parla di ‘persona’ intendendola come l’uomo concreto distinto da ogni altro, si parla solo apparentemente di un concetto unitario: in realtà, si tratta, anche qui, di di un concetto plurale, che concerne ogni uomo concreto assunto nella sua (pur relazionata), distinta da ogni altra, singolarità7. 6 E’ una pista su cui insiste, come è noto, Hannah Arendt. Ed è un punto su cui stiamo lavorando da tempo. Ci permettiamo qui rinviare a più profili di questa nostra discussione in Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli, 2000, spc. e passim. 7 Per questo punto, ci permettiamo richiamarci a Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli, 2001. 21 Commento [G3]: Significativi sviluppi in questo Senso hanno determinato gli studi di Hasnnah Arendt: Lectures on Kant’s Political Philosophy, University of Chicago, Chicago, 1982; tr. It. Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, Genova, 1992. E’ ciò che in altra sede abbiamo sottolineato. La persona è un concetto in cammino8. Come la libertà. A ben guardare, stando nella pratica teorica della concezione di Carlo Rosselli, si tratta di pensare alle singole libertà concrete degli uomini concreti. E si tratta, al tempo stesso, di pensare a una prospettiva in cui non c’è e non può esserci separazione tra ‘uomo fenomenico’ e ‘uomo noumenico’. In questo senso, lo stesso giudizio politico può essere pensato secondo il modello del giudizio riflettente. E, con il giudizio politico, lo stesso giudizio sui fini dell’azione dell’uomo concreto e sulla sua libertà. Non solo: lo stesso giudizio sulla sua libera e personale umanità. Pensare a partire dall’uomo concreto e dalla sua libertà concreta significa certamente porsi il problema di tradurre il programma rosselliano in direzione del ‘katà’, ossia in termini di modello politico-istituzionale. Ma si tratta, a nostro avviso, di porsi, contemporaneamente, un altro problema, non meno importante – anzi, diremmo, cruciale: quello di tradurre il programma rosselliano in direzione dell’‘anà’, ossia nei termini di un modello speculativo. 9. Per un programma speculativo. Qual è questo programma? L’abbiamo testé ricordato. 8 G. LIMONE, op. cit., p. 24 ss. e passim. 22 Carlo Rosselli scrive: “Per noi il mito della libertà impregna tutto il nostro programma, perché anche le più avanzate trasformazioni sociali le sollecitiamo e le giustifichiamo in nome di un principio di libertà: di libertà piena, effettiva, positiva, per tutti gli esseri umani, in tutti gli aspetti dell’esistenza”9. Come prendere sul serio e tradurre in vincolante statuto speculativo un tale programma ideale? La strada non può che essere una. Quella che realizza la scommessa teorica implicata nel giudizio riflettente kantiano, pur senza ripeterne pedissequamente le linee regolatrici. Si tratta, cioè, di delineare una strada che, a partire dal concreto ineludibile su cui cade e da cui parte il giudizio, ne ricostruisca, in modo riflettente, la sua legittimazione di pretesa all’universale. Vediamone i possibili percorsi. Kant, come è noto, afferma, nella seconda formulazione dell’imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità che è in te e negli altri come un fine e mai come un semplice mezzo”. A una tale ‘umanità’, infatti, si deve ‘rispetto’. Ci si domanda. Questa ‘umanità’ è un’‘idea’, un’‘essenza’, rinvenibile universalmente e necessariamente in tutti gli uomini come già costituita – o meglio: come già formulabile in modo determinabile ed esaustivo? La varietà indefinita degli uomini 9 C. ROSSELLI, Scritti politici, Guida, Napoli, p. 154. 23 – e una possibile opzione cognitiva che incominci a prendere sul serio ogni uomo concreto nella sua novità – potrebbe, però, revocare in dubbio la certezza della precostituzione di una tale ‘essenza’ universale. Ci si domanda: come, a questo punto, ritrovare l’universale perduto? Un tale interrogativo, nato da un tale percorso, legittima in realtà la valenza di quel giudizio che, rovesciando il percorso del giudizio determinante – che ‘applica’ l’‘umanità’ a ‘ogni uomo’ – cerca di postulare, intenzionare e ricostruire, invece, una possibile universalità a partire da ogni singolo uomo: è il percorso del ‘giudizio riflettente’. Si tratta di una strada logica lungo la quale è possibile, a ben vedere, intenzionare, postulare e ricostruire la stessa idea di libertà (civile e politica) a partire da ogni concreta libertà così come esercitata da ogni singolo uomo. Se proviamo, infatti, a partire da ogni uomo concreto, – a partire cioè da ogni uomo individuale, sensibile, ‘fenomenico’ – e a intenzionare, postulare e ricostruire un percorso verso un’universale trasvalutazione del suo ‘umano’, non è questo, forse, il vero modo di prendere sul serio quest’uomo rispettando – non solo sul piano dell’azione concreta che lo riguarda ma sul piano della stessa azione teoretica che lo guarda – la sua ‘dignità’? E, in ogni caso, anche tenendo sullo sfondo un precostituito ‘universale’ di ‘umanità’, se proviamo a lasciare ‘aperto’ il 24 concetto di ‘uomo’ e di ‘libertà’ per evitare di partire da concetti definiti troppo presto, non sarebbe forse, un tale atteggiamento teoretico, un prendere sul serio anche sul piano speculativo la propria decisione di prendere sul serio l’uomo concreto? Tali domande rappresentano, in realtà, una precisa scommessa teorica, implicante una ben determinata concatenazione di scelte. Si tratta, infatti, di fare una scelta che ha un prezzo: la caduta della separazione fra uomo fenomenico e uomo noumenico. In nome dell’uomo fenomenico. Si tratta, cioè, di partire dall’uomo sensibile in quanto uomo desiderante, in quanto uomo concretamente radicato nelle proprie appetizioni, in quanto uomo che esercita nel modo suo proprio la sua libertà. Ma si tratta di un prezzo teoretico che ha, a ben guardare, una precisa caratteristica: rimane infatti, pur sempre sullo sfondo, quale punto finale di fuga, quale polo asintotico di attrazione, il mito della libertà di ognuno e di tutti. Quel ‘mito della libertà’ che, pur non assunto come concetto chiuso, costituisce, pur sempre, un centro aperto e condiviso di gravitazione comune. L’impiego del giudizio riflettente nel percorso ricostruttivo di un universale non chiuso non è teoreticamente indolore. Potremmo segnalarne, qui, due esiti significativi. Il primo esito. Se ben osserviamo, attraverso un giudizio 25 riflettente che parta dalla concretezza di ogni uomo concreto distinto da ogni altro per trarne contenuti degni di un rispetto universale, si sviluppa una vera rivoluzione nel concetto di ‘bene comune’. Perché si postula che anche ciò che sia singolarissimo in una persona, in quanto sia degno d’universale, è ‘bene comune’ – donde l’imperativo che nessuna maggioranza possa mai lederlo o minacciarlo. Il secondo esito. Nel momento in cui il giudizio riflettente trae da quest’uomo concreto, distinto da ogni altro, il suo contenuto specifico degno di rispetto universale, esso giudizio parte da un contenuto assunto come valido non in quanto tale sia ‘in sé’ ma in quanto tale sia scelto e considerato dallo stesso uomo concreto. In altri termini, il giudizio riflettente che parta da questo uomo concreto, può esprimersi a due livelli. A un primo livello, si parte dal concreto delle sue manifestazioni, dai modi del suo essere concreto, per estrarne quanto sia degno di universale. A un secondo livello, si parte dal concreto delle sue scelte, dai modi del suo scegliere comportamenti e valori, per estrarne quanto sia degno di universale. Si pensi alla stessa valutazione dei propri bisogni, della propria cultura, della propria libertà, e, in generale, di quanto è bene e bello per lui. La base da cui parte il giudizio, qui, è un rinvio alla sua 26 libertà di scegliersela – e al suo modo di intenderla e valutarla. E, d’altra parte, non si può partire dalla libertà di un uomo se non si tenga conto di che cosa egli intenda e scelga come sua libertà. Nella prima pista, c’è un estrarre dall’essere fenomenico dell’uomo concreto quanto in esso sia degno d’universale. Nella seconda pista, c’è un estrarre dalle scelte d’essere dell’uomo concreto quanto in esse sia degno di universale – assumendo come base di partenza non valori o modelli ‘in sé’, ma ciò che quell’uomo concreto decide essere modelli e valori. Vediamo ora, a questo punto del discorso, il possibile programma speculativo rinvenibile nella ‘pratica teorica’ della concezione di Carlo Rosselli. Emanuele Kant individua, come è noto, nell’uomo il Faktum di un comando. Un comando in cui egli legge l’esistenza di un ‘imperativo categorico’, incondizionato, da lui formulato in più guise. Una delle quali, come è noto, dice: ‘Agisci in modo da trattare l’umanità che è in te e negli altri come un fine e mai come un semplice mezzo’. Diremmo che nella pratica teorica dell’ideale rosselliano è individuabile, in modo analogo e diverso, un altro Faktum. Il Faktum di un comando che è, al tempo stesso, l’esortazione profonda ad aderire senza eccezioni e senza tregua. E’ l’esortazione 27 profonda ad essere l’uomo che in concreto si è. Ad essere e cercarsi nella propria umanità, sentita alla propria scala. Nel sentirsi destinatario di un tale comando incondizionato ad essere l’uomo che si è, infatti, l’uomo concreto si sente comandato all’esercizio della propria individuale umanità – e facultato ad essa. Con due precisazioni essenziali: 1. Si tratta di un’‘umanità’ che non è la ‘generale’ umanità, ma la propria, presa sul serio nella sua capacità di presentarsi, a modo proprio, come esemplare. 2. Si tratta di un ‘comando’ che non ha per contenuto solo doveri ma diritti. E non solo diritti concepiti accanto ai doveri. Ma, al tempo stesso, doveri che hanno per contenuto diritti. Si ha, infatti, anche il dovere di esercitare diritti, se si comprende che questi ‘diritti’ possono riguardare doveri verso sé stessi. Si tratta, a ben guardare, della figura, ancípite e complessa, della ‘dignità’. La quale non è solo sostanziata di diritti, ma di doveri – e di doveri di esercitare diritti10. ‘Dignità’ che non è pertinenza di una ‘species’, perché non può non riguardare il singolo uomo. E, ove riguardi e nella misura in cui riguardi l’uomo in generale, lo riguarda alla sola condizione che il suo imperativo miri, all’epilogo, assumendolo come fine di percorso, proprio a quell’uomo concreto per il quale esprime in forma contemplativa la sua ‘cura’. 10 Sul punto vedi G. LIMONE, Da Grozio a Vico. Il ‘diritto naturale’ come teoresi rigorosa, in AA.VV. Il diritto naturale della socialità, a cura di Vanda Fiorillo, Giappichelli, Torino, 2003. 28 Si è comandati ad esercitare la propria umanità, quindi. Ma che cosa è mai questa ‘umanità’? Non si tratta, in quest’ordine di discorso, di un’umanità ‘generale’ che si trovi, nel caso concreto del singolo, ‘trascritta’ e ‘applicata’ al singolare. O meglio: non è di questa che soprattutto si tratta. Si tratta, invece, dell’‘umanità’ che l’uomo concreto vive e sente, dentro di sé, al singolare e che lo fa sentire incondizionatamente facultato a darsi un ordine di fini in un contesto sociale liberato. Sentirsi comandati ad esercitare la propria concretissima umanità – quindi i propri bisogni desideri risorse – significa: 1. a un primo livello, sentirsi incondizionatamente facultati a darsi un ordine di fini. Fini, per di più, inviolabili, se si tratta dei modi in cui poter esercitare la propria dignità; 2. a un secondo livello, sentire, in questa esperienza al singolare, necessariamente presupposta la propria libertà (come assenza di condizionamenti, ossia come capacità di rompere la rete dei condizionamenti causali). Non è possibile darsi dei fini, infatti, se non è presupposta la libera potenza di darseli. E non a caso si dice, qui, ‘potenza’. Perché si tratta di quella potenza che può rompere la rete dei condizionamenti causali, dando l’inizio a un percorso nuovo. In questa esperienza fondamentale, l’uomo può riuscire a cogliere tre strati diversi della sua libertà. 1. Al livello primo, la 29 libertà come non condizionamento – ossia la capacità di dare un nuovo inizio alle cose (libertà come indipendenza). 2. Al livello secondo, la libertà come il darsi una norma, ossia come autogoverno (libertà come autonomia). 3. Al livello terzo, la libertà come il darsi ed esprimersi in un ventaglio di fini (libertà come autorealizzazione). Ci si domandava, in altra sede, a proposito di Kant11: si sta dicendo ‘l’umanità che è in me o l’umanità che è di me?’. Non si tratta, a rigore, della stessa cosa. C’è, a nostro avviso, un percorso da compiere – non immediatamente dato né già costituito – che va dalla propria umanità all’umanità e dalla propria libertà alla libertà. Un percorso in cui il ‘da dove’ è essenziale. Un tale movimento è l’itinerario complesso e problematico che va dal proprio concreto valore al valore di ogni altro – singolarmente e complessivamente preso. Si tratta di un percorso non inscrivibile nell’itinerario precalcolato di un giudizio determinante, perché ‘inventabile’ nel cammino non precalcolabile di un giudizio riflettente. Percorso che, quindi, non è già teoreticamente garantito, perché è frutto di un lavoro. Lavoro che è, a un primo livello, incontro e interazione di persone e, a un secondo livello, elaborazione – sempre aperta e mai dottrinariamente chiusa – di istituzioni e di civiltà. 11 Ci riferiamo a G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata, cit., p. 219. 30 Ciò significa due precise figure: 1. Vivendo e sperimentando il proprio essere concreto, distinto da ogni altro, l’uomo vi trova inscritta una ‘umanità’ il cui valore intrinseco può diventare, attraverso un percorso riflettente, dynamis di una pretesa all’universale, che non è garantita ma va conquistata. In un itinerario in cui – potrebbe anche dirsi – non la ‘ratio è relatio’ ma ‘la relatio è ratio’. 2. Vivendo e sperimentando il proprio essere concreto, distinto da ogni altro, l’uomo vi trova inscritta una ‘libertà’ come autorealizzazione il cui valore intrinseco può parimenti diventare, attraverso un percorso riflettente, dynamis di una pretesa universale. Né, d’altra parte, la pari pretesa che può contemporaneamente venire da ogni altro uomo concreto si può ritenere si ponga, secondo miti irenici o percorsi precostituiti, come facilmente armonizzabile. 10. Per alcune precisazioni essenziali. Un punto ci preme qui sottolineare. A ben osservare, nel programma speculativo ricostruibile nel percorso indicato possono cogliersi più gradi del giudizio riflettente. a. A un primo grado. Si tratta, alla scala di ogni uomo, del percorso che egli conduce e può condurre dall’universo di desideri e bisogni di cui è portatore all’idea di uomo degno di realizzare i suoi fini. 31 b. A un secondo grado. Si tratta, alla scala di ogni uomo relazionato, del percorso che egli conduce e può condurre alle forme istituzionali di appartenenza quali forme in cui sia concretizzata un’idea di umanità, di cultura, di civiltà: si pensi alla patria, all’Europa, al mondo. c. A un terzo grado. Si tratta, alla scala di ogni uomo e dei vari uomini concreti, del percorso ricostruibile per arrivare – lungo l’esperienza di prove ed errori – a un’idea di umanità degna di esprimersi attraverso tutte le sue voci. Libera, forte, anche conflittuale, ma relazionata e liberata nella sua carica liberatrice. L’umanità inscritta nella propria singolare concretezza è la ‘persona’. Essa è l’uomo singolare, concreto, non l’essere umano in generale. In questa ‘persona’ si ritiene sia radicata un’idea – al grado singolare – universale. Che è ‘luogo’ di un ‘logo’ per il ‘dia-logo’. Ed è, nel suo essere tale, ponte essenziale per passare dall’ ‘umanità di me’ all’ ‘umanità in me’. E, di qui, al mondo delle istituzioni e della civiltà. Si tratta di fare i conti con la libertà e con l’inevitabilità di essere sé stessi. Con la libertà e con l’inevitabilità di essere differenti. E con la responsabilità di essere uguali, ossia appartenenti – prima che a un genus logico – a una comunità di esistenti, come avrebbe specificato Ernst Cassirer. 32 11. Stili di percorso. Una tale opzione di percorso significa, insieme con una scelta teorica, alcuni precisi no: 1. No ad ogni dottrinarismo chiuso, ingabbiato in giudizi a concetti precostituiti. E quindi: 2. No ad ogni concezione che svaluti il significato, anche evolutivo, dell’esperienza. E quindi: 3. No a ogni facile pretesa che le libertà si armonizzino in modo irenico, senza travagli e conflitti. Si tratterà, a questo punto, di interrogare ogni uomo e tutti gli uomini a partire dalle loro situazioni concrete: nei loro bisogni, nei loro fini, nei loro desideri, nelle loro risorse, nelle loro concrete domande di vita, nella loro dignità. Si tratta di un metodo. Non puramente strumentale, perché vi è inscritto un fine. Là dove il fine è, innanzitutto, la direzione. Posto l’uomo concreto, nel concreto delle sue determinazioni storiche e delle sue esigenze esistenziali, si tratta, a questo punto, di guardarlo non (tanto) alla luce del concetto di umanità che è in lui, ma a partire dall’idea di umanità inscritta nella sua singolarità. A partire dall’idea di libertà inscritta nella sua singolarità. Ossia: si tratta di partire 33 da questa idea di umanità e di libertà guardate e prese sul serio nel loro specifico novum – e non nel loro essere mera traduzione applicativa di un concetto generale. In questo senso, ogni uomo, in quanto persona, e quindi in quanto radicalmente differente da ogni altro, è portatore – calco e filigrana – di una propria specifica idea di umanità. Di una propria specifica idea di libertà. Ignorare questo punto è tradirlo. In questo senso, ricostruire e delineare un’idea generale di umanità e/o di libertà è ricostruire e delineare un riflesso di quell’idea che vive nel concreto e di cui va rispettata in radice la teoretica dignità. Qui il ‘riflettere’ si pone come un collocare a una scala più alta ciò che è singolare, e secondo la percezione e il vissuto che liberamente ne dà la stessa singolarità. Infatti, in questa prospettiva (consapevolmente situata), ogni uomo è un novum. Come è un novum ogni libertà. Là dove si tratta di un’umanità e di una libertà relazionate – essendo la ‘relazione’ non additiva ma costitutiva. E là dove ogni uomo e ogni libertà concorrono alla individuazione, perennemente aperta, di una ‘umanità’ e di una ‘libertà’ che tutte le possibili forme contenga (nel duplice significato di includerle e di possibilitarle nello stampo di un modello). Perché, in questo senso, il rinvio – teoreticamente salutare – è al giudizio riflettente di Kant? Perché si tratta di cogliere e 34 di elaborare nell’idea di ‘umanità’ e di ‘libertà’ inscritta nell’uomo concreto – e in ogni uomo a suo modo – lo stesso in-finito percorso che conduce, in Kant, dal bello di quest’opera d’arte al bello di qualsiasi opera d’arte e dal bello che si coglie in quest’opera d’arte al bello che ognuno deve saper cogliere in quest’opera d’arte. E, ancora, dal bello che in quest’opera d’arte questa libertà creativa ha espresso al bello che questa libertà creativa significa e deve significare a un grado universale. E’ il giudizio in quanto inferenza non di mero concetto, ma di modello e di valore. E’ il giudizio elaborato a partire dalla concretezza di uno spazio politico, fatto di concreti uomini e libertà. A partire da ‘pratiche di libertà’ che rispondano a desideri, risorse, bisogni che cercano una dignità universale. E’ qui, diremmo, il senso della ‘libertà uguale’ di cui Lorella Cedroni acutamente parla nel suo saggio, compreso in questo volume. Dove l’uguaglianza delle libertà non può non alludere alla diversità irriducibile di ogni libertà rispetto a ogni altra – e alla diversità irriducibile di ogni uomo rispetto a ogni altro. Dove l’‘uguaglianza’, quindi, è la ricerca delle condizioni di possibilità strutturali in cui le diverse libertà – tutte e ognuna – possano coesistere e co-svilupparsi. In una situazione strutturale in cui possano declinarsi insieme la libertà di essere diversi e la responsabilità di essere uguali. 35 Libertà diverse, collocate in griglie storiche e istituzionali che rifiutano il dottrinarismo preconcetto con la stessa logica con cui rifiutano i troppo rapidamente preconcetti significati di ‘umanità’ e di ‘libertà’. Concetti non acquisibili mai una volta per tutte, perchè stanno, per così dire, sullo sfondo di ogni percorso mirato alla loro determinazione. In questo, è la loro ‘miticità’. Ma un tale giudizio – giudizio ‘riflettente’ – è un lavoro. Un lavoro permanente. Un’opera lunga che cerca e deposita istituzioni. Un’opera che, proprio nella consapevolezza di essere aperto e interminato, rifiuta i dottrinarismi considerandoli anticipazioni preconcette, schemi e sistemi chiusi. Qui la libertà non è solo metodo, ma fine – e fine inscritto nel metodo. Qui, la libertà non è solo libertà come indipendenza. Né è solo libertà come autonomia. Perché è è libertà come sperimentazione di fini, come spendita personale di risorse, come cammino di autorealizzazione. Come spontanea individuazione, nella propria vita, di un orizzonte di valori. Qui, il giudizio riflettente diventa un lavoro teorico interminabile, da costruire col pensiero e nell’azione. 12. Per una conclusione provvisoria. 36 I Rosselli sono stati, nella storia del Novecento, non solo persone diverse appartenenti a un clima familiare e ideale comune, ma una costellazione ideale. In essi vanno colti con perspicacia la loro propria intelligenza dei tempi e il loro modo di rispondervi12. Citeremmo, brevemente, a conclusione, tre coordinate di questa loro sagacia strategica e valoriale, oggi così necessaria per i nostri. La prima. L’intuizione che l’alternativa fra liberalismo e socialismo era gravata – sia nell’uno sia nell’altro termine – da un’ipoteca ‘scientificistica’ così dogmatica da soffocare le potenzialità teoriche pur aperte al possibile superamento del liberismo economico e del marxismo deterministico. La seconda coordinata. Sarebbe troppo semplice, e perfino banale, credere che il ‘socialismo liberale’ di Carlo Rosselli fosse il conciliativo modo di pensare a una mera soluzione intermedia, sorta di armistizio teorico o ‘terza via’ per un arbitrato compromissorio. Carlo Rosselli, invece, aveva capito davvero, e nei fatti, che non si esce da una contraddizione mediandone le posizioni, ma smontandone i fattori – per ripensarne la grammatica essenziale. Non si trattava, cioè, di sancire un nuovo compromesso fra ‘liberalismo’ e ‘socialismo’, ma di ripensare in concreto – nel lessico della grammatica politica e nel luogo dei fatti – la ‘giustizia’ e la 12 Vedi la ricostruzione di Marina Calloni e quella di Lorella Cedroni, in questo volume. 37 ‘libertà’ – anzi le libertà. I Rosselli furono, perciò, non a caso, fra i giovani arditi di quella generazione ideale che ruotò intorno ai nomi di Gaetano Salvemini, di Piero Calamandrei, di Guido Calogero, di Ferruccio Parri, di Aldo Garosci, di Alessandro Levi, di Emilio Lussu. Uomini diversi, eppure concorrenti insieme a un arricchimento teorico dell’idea della dignità nel contesto delle istituzioni. I Rosselli, perciò, frequentarono quei luoghi teorici in cui il liberalismo è preso così tanto sul serio da essere còlto in contropiede nelle sue stesse costruzioni di base – e nella sua stessa idea di libertà. Operazione speculativa che non poteva non essere fatta anche per il socialismo. La terza coordinata. Fu proprio dei Rosselli il fare della propria condizione di classe non una divisa per privilegiati, ma la qualità di partenza per una testimonianza di cittadinanza universale. Nessuno più dei Rosselli fu – per vocazione non solo mentale ma civile – tanto mobile, multilingue, europeo, cosmopolita, meticcio, a pieno titolo cittadino militante in un universo complesso. I Rosselli erano di casa a Parigi, a Londra, a New York. Il loro domicilio fu il mondo. Lo stesso loro nomadismo esule fu il consapevole rovesciamento della loro condizione di classe. Non a caso, essi furono europeisti della prima ora, quando nemmeno forse si sapeva che cosa fosse l’Europa. E ciò non in nome di uno 38 snobismo da isolati, ma nella impervia condizione di chi testimonia con la vita. I giovani, perciò, possono e debbono apprendere molto da quella lezione. Innanzitutto dal suo metodo. Perciò, un Convegno. E perciò, soprattutto, gli Atti di un Convegno, da disseminare nelle menti perché diano frutti copiosi nelle generazioni future. Potremmo dire che la morte precoce di Carlo e Nello Rosselli ha, per noi, oggi, un valore simbolico forte. Perché rappresenta non solo la loro brutale soppressione ma anche, in qualche misura, l’assassinio perpetrato, nel loro corpo vivo, da quell’idea di totalità che è stato uno dei fondamentali e infausti miti del Novecento. Perciò, la loro morte precoce è stato anche il simbolo di questo lavoro interminabile nella ricerca della libertà e delle sue forme. Ricerca che la morte di un uomo non interrompe, ma, a volte, addirittura potenzia. In questo senso, la madre di Carlo e Nello Rosselli, Amelia, fu, con la sua vita di scrittrice e di madre, metafora forte di una vita vissuta con onore, al servizio dei figli e degl’ideali. Ideali vissuti con uguale fedeltà. Così essa ci appare nelle sue molteplici facce: tenera e severa come la ricorda il nipote Aldo 39 Rosselli; grande scrittrice di teatro del Novecento, come la ricordano i suoi scopritori; madre martire nel senso più sereno e più forte, come la sua vita testimonia. Amelia Rosselli fu, per così dire, una sintesi alta dei significati di cui Carlo e Nello Rosselli furono i testimoni non sempre ricordati. Straordinaria fu la commemorazione che pronunciò Gaetano Salvemini per la morte di Amelia, commemorazione oggi reperibile anche nella documentatissima e intelligente ricostruzione delle sue Memorie che ne ha fatto Marina Calloni: <<Quando Amelia, stanca e diafana, si presentò alla porta dell’eterno riposo, l’angelo guardiano le domandò con quali diritti chiedeva di essere ammessa all’eterno riposo. Lei, che aveva il pudore del suo cuore ferito e non ne parlava mai, rispose timidamente: <<Ho molto sofferto>>. – Soffrire, soffrire – disse l’angelo; tutti i nati di donna sono nati per soffrire; è il dolore che va a cercar loro, non loro che vanno a cercare il dolore; non c’è nessun merito a soffrire. – Non ho fatto mai male a nessuno. – Non basta, non basta. Che merito c’è a non far male a nessuno, che crei il diritto all’eterno riposo? - […] Allora Amelia dové parlare: – <<Ebbi tre figli, li educai ad amare giustizia e libertà, e per avere amato giustizia e libertà uno morì in guerra, e due furono assassinati>>. L’angelo si inchinò, le baciò le piccole mani ed 40 aprì la porta dell’eterno riposo. Aldo, Carlo e Nello, sulla soglia, l’aspettavano>>13. Giuseppe Limone 13 Amelia ROSSELLI, Memorie, a cura di Marina Calloni, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 269. 41