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L`era della miseria estrema. ROCCA, novembre
SOCIETÀ Daniela Bandelli N el 2009 tra i 55 e i 90 milioni di individui si aggiungeranno al numero di persone che già prima della crisi economica globale vivevano in condizioni di estrema povertà. Lo dice il Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite (Un/Desa) nel Rapporto sugli Obiettivi del Millennio pubblicato a luglio, che prevede un rallentamento, se non addirittura un’inversione di marcia, nei progressi ottenuti finora nella lotta alla povertà e alla fame. Il tasso di disoccupazione globale potrebbe salire al 6,5 percento per gli uomini e al 7,4 per le donne. Anche la percentuale delle persone sottonutrite, che era in diminuzione dagli anni Novanta, nel 2008 ha ripreso ad aumentare. E se tra il 1990 e il 2005 il numero degli individui che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno è sceso da 1,8 a 1,4 miliardi, la crisi economica e l’aumento dei prezzi del cibo non fa sperare che il trend continui a essere positivo. C’è da precisare, però, che i miglioramenti dell’ultimo decennio non riguardano in modo omogeneo tutte le aree della Terra, ma si devono soprattutto alla caduta dei tassi di povertà nell’Asia orientale. Cosa che non è avvenuta nell’Africa sub-sahariana dove il numero delle persone ridotte in estrema povertà è continuato ad aumentare: nel 2005 erano 100 milioni in più rispetto al 1990. essere poveri oggi Di fronte a un fenomeno in espansione vale la pena tentare di capirlo a fondo. Anche se immedesimarsi completamente nella quotidianità di quel miliardo di persone che nel 2015 rimarranno, secondo il rapporto Onu, intrappolate in condizioni di estrema povertà, potrebbe risultare difficile per gran parte dei lettori. Nonché per chi scrive, comodamente seduta a un tavolo pigiando i tasti di un computer che costa più di quanto un africano residente in uno slum percepisca in quattro anni di vita. Un efficace esercizio per allenare l’empatia con la marea umana conteggiata nelle fredde classifiche sulla povertà globale è leggere il libro di Alberto Salza: Niente (Sperling & Kupfer, 2009) dove la domanda «cosa vuol dire essere poveri oggi?» trova risposta in numerosi esempi concreti, contestualizzati in diverse realtà geografiche e antropologiche. Salza porta alla luce possibili esistenze umane, inimmaginabili per chi non ha visto con i propri occhi i più neri livelli di miseria. Come quella del mezzo milione di indiani che, per pochi euro di guadagno, ogni notte si calano nei pozzi neri per svuotarli con il solo ausilio di un secchio, che una volta riempito di liquame fino all’orlo, trasportano sulla testa, sperando non piova. Oppure la condizione in cui sono costretti a vivere, sempre in India, i cavatori di sale che lavorano immersi nella salamoia, procurandosi dolorose ulcere alla pelle. La probabilità che queste persone hanno di migliorare il proprio tenore di vita è minima. Non per pigrizia o per mancanza di intraprendenza. Semplicemente per effetto della cosiddetta trappola della povertà: un meccanismo di causa ed effetto per cui i poveri vedono deteriorare progressivamente la loro situazione, vittime di un circolo vizioso dove, per esempio, una per- 31 ROCCA 15 NOVEMBRE 2009 l’era della miseria estrema SOCIETÀ sona già malnutrita, e perciò con maggiori probabilità di ammalarsi, non ha forze sufficienti per lavorare e di conseguenza per procurarsi il cibo e risollevarsi. La mobilità verticale per i poveri del mondo oggi è semplicemente impossibile. La metafora usata da Salza è quella del sifone del gabinetto. «Chi sta in alto respira aria pulita e guarda il cielo, chi sta nella strettoia centrale si industria a galleggiare sulla schiuma. Ma chi sta sotto la curva del sifone, per quanti sforzi faccia, non ha modo di risalire» è la sintesi proposta nell’aletta del volume, in pochi mesi ben tre volte in stampa con oltre cinquemila copie vendute. nuove povertà ROCCA 15 NOVEMBRE 2009 In che modo possiamo definire il concetto della povertà? È misurabile oggettivamente oppure è legato alla percezione che il singolo ha della propria esistenza? Dipende dagli standard di vita della società di riferimento? È direttamente proporzionale alla mancanza di beni materiali? O, come afferma la Banca Mondiale, una persona si definisce povera quando il suo livello di entrate cade sotto il livello minimo necessario a soddisfare i bisogni di base? La povertà resta qualcosa che difficilmente si riesce a racchiudere nei confini di una definizione che non trascuri il lato umano e vada bene allo stesso tempo nell’emisfero Nord così come nell’emisfero Sud, per un africano delle città e per uno delle aree rurali, per un asiatico e per un europeo. Basti riflettere sul fatto che il pastore nomade, che per giorni cammina su territori aridi senza bere un goccio d’acqua, e che noi consideriamo povero, tale non si sente; i bisogni non sono uguali per tutti e la privazione di un determinato bene o servizio, che in una parte di mondo è ritenuto indispensabile, altrove può passare nella completa indifferenza della maggior parte della popolazione. Salza distingue la povertà, che è sempre esistita, dalla miseria estrema, che invece caratterizza il nostro tempo. Durante un dibattito organizzato un paio di mesi fa a Udine dall’associazione TimeForAfrica, l’antropologo ha spiegato così il concetto: «La povertà è una questione quantitativa. Prendete il vostro sistema di vita e immaginate che pian piano il numero di cose e abilità a vostra disposizione diminuisca; la riduzione avviene in modo elastico, può contrarsi ed espandersi, come è avvenuto durante i cicli economici che abbiamo conosciuto finora. Diverso è, invece, il feno32 meno cui stiamo assistendo oggi. Pensate di nuovo al vostro sistema di vita, ma questa volta identificate soltanto uno dei suoi elementi e immaginate vi venga tolto completamente. Improvvisamente manca tutto di una cosa: niente acqua, niente istituzioni pubbliche, niente numeri. Viene meno una struttura di pensiero e a questo punto il sistema, che è organizzato in modo plastico e riesce ad assorbire la riduzione di un elemento, di fronte al suo completamento annichilimento non ce la fa e collassa». Niente cibo, niente acqua, niente casa, «no toilet», niente istruzione, niente sicurezza, niente sviluppo, niente diritti sono alcune delle assenze sulle quali Salza struttura il suo libro, a metà tra un saggio e un reportage, in cui i dati si intrecciano ad aneddoti vissuti in prima persona durante quarant’anni di viaggi nei posti più remoti del pianeta, a stretto contatto con la povertà estrema. uno scarto di produzione La scomparsa totale di un elemento, peculiarità della miseria contemporanea vista dall’antropologo torinese, rende gli esseri umani alieni nel comportamento – pensiamo al soldato bambino che Salza definisce come una delle più terrificanti esperienze dell’umanità – e quindi inguardabili, intoccabili, eliminati dalla società, una sorta di scarto di produzione. Oltretutto, gli effetti della miseria vanno ben oltre la durata della vita di un essere umano. «La denutrizione – ricorda ancora lo studioso – modifica il cervello e si trasmette alla seconda generazione anche se il bambino avrà cibo a sufficienza». I lineamenti che fanno della miseria estrema del terzo millennio un fenomeno nuovo sono, secondo l’autore di Niente, l’involuzione culturale che l’accompagna, la perdita di identità e lo sfaldamento dei legami famigliari. I Dinka del Sud Sudan la pensano in modo simile: considerano veramente povero colui che non può più aiutare e non può più essere aiutato. È infatti l’incapacità di relazionarsi, con gli altri e con le proprie abilità creative, a contraddistinguere la miseria moderna. Che, per concludere con un’ultima efficace definizione suggerita da Salza, «è la radiografia del proprio esistere: penetra in profondità nell’essere umano, annulla le sue strutture, lasciando un piccolo scheletrino impresso su una lastra». Daniela Bandelli