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Vette: Sette storie per sette sorelle

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Vette: Sette storie per sette sorelle
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Vette
“Le montagne non sono stadi
dove placo la mia ambizione al successo.
Sono le cattedrali
dove pratico la mia religione.”
Everest
Anatolij Boukreev
Sette
per Sette
Storie
Sorelle
Testo e foto
di Giuseppe Pompili
Aconcagua
C’
Denali
erano una volta gli anni ottanta, quelli del boom
dell’Avventura intesa come sfida sportiva che irrompeva nei nostri salotti dall’altare del piccolo
schermo con imprese inedite e sport estremi, proclamando per immagini che non esistevano limiti. Fu in quegli anni che l’eccentrico milionario statunitense Richard
Daniel (Dick) Bass concepì l’idea di scalare la montagna
più alta di ciascun continente.Sette montagne,tante quante i continenti, contando le due Americhe e l’Antartide,
sette sorelle, come le Pleiadi. Numero potente il sette,
evocativo e magico. Sette i chakra, le note musicali, le meraviglie del mondo antico,sette le virtù come i peccati capitali, senza tralasciare i nani di Biancaneve. All'epoca, il
progetto implicava una formidabile sfida organizzativa: il
Caucaso sovietico si trovava oltrecortina, le spedizioni
commerciali all'Everest ancora non esistevano,l'Antartide
era irraggiungibile per chiunque tranne che per pochi militari o ricercatori. Il Denali era una montagna remota e
ostile,scalata da pochi specialisti,mentre per l'Aconcagua,
il Kilimanjaro e il Kosciuszko si trattava prevalentemente
di un problema economico. La testardaggine yankee, unita al potere del dollaro, ebbero infine la meglio e la strada fu aperta. Quella che sembrava una favola bella riservata a un’élite è stata poi raccolta dai migliori alpinisti dell’epoca, in cerca di nuovi orizzonti e di visibilità.Vent'anni
dopo,la situazione è radicalmente cambiata:logistica e trasporti sono ormai alla portata dei comuni mortali e la sfida si è spostata sul piano tecnico. Per questo, il numero di
4
Elbrus
Kilimanjaro
alpinisti di ogni parte del mondo che dal 1985 sono entrati a far parte di questo palmarès è andato costantemente aumentando anche se, a tutt'oggi, solo tre italiani
vi fanno parte (fonte: www.7summits.com).
Anche la mia salita delle “Seven Summits” ha una lunga genesi, che non si può ridurre ai venti mesi occorsi per salire materialmente sei delle sette vette (ero già stato sul
Kilimanjaro nel 1993, con un gruppo di Avventure).Tutto
ha avuto inizio nello stesso periodo in cui il signor Bass
realizzava il suo sogno. Ha un'incubazione concepita davanti alla TV dei ragazzi, allattata dai documentari in bianco e nero di Quilici, diventata febbre attraverso i libri di
Conrad e Shackleton, di Cassin e Diemberger durante la
forzata immobilità degli studi,per materializzarsi infine,solo dopo parecchi anni, con la sfida degli ottomila e il mio
recente successo sull’Everest. È una malattia che ti mangia, cresce per contagio, si nutre di letture, coincidenze,
sogni, incontri… lo scorso dicembre in Antartide, a Patriot Hills, ho rivisto per caso, dopo otto anni,Victor Boyarsky,direttore del museo polare di San Pietroburgo,uno
dei più grandi esploratori artici e antartici.Boyarsky è stato uno dei sei membri della spedizione internazionale
transantartica: 6.400 km in quattro mesi coi cani da un
estremo all'altro del continente bianco.Un'impresa gigantesca che non è stata più ripetuta e forse mai più lo sarà.
Con lui, nel 1989, c'erano un giapponese, un cinese, un
americano ed un inglese, Geoff Somers, capo del British
Antarctic Survey. Geoff, ormai sessantenne è ritornato
Kosciuszko
Vinson
quest'anno in Antartide per ripercorrere con tre compagni gli ultimi duecentocinquanta km della sfortunata spedizione capitanata da Scott alla conquista del polo sud nel
1912. Geoff e i suoi tre compagni erano rigorosamente
equipaggiati con le stesse attrezzature dell'epoca, ricostruite per l'occasione (www.southpole2005.com).Avevo
conosciuto Victor in qualità di guida della nostra spedizione "North Pole '97", che ci ha visto percorrere insieme l'ultimo grado di latitudine fino al Polo Nord geografico.Questa volta stava accompagnando un gruppo di moscoviti al Polo Sud, in aereo. Si ricordava ancora di me e
mi ha abbracciato con la sua abituale esuberanza. Quando abbiamo parlato delle grandi montagne gli brillavano
gli occhi e pareva quasi in imbarazzo per il suo presente
incarico di accompagnatore per turisti facoltosi. Gli anni
passano, ma nulla sembra piegare questi spiriti indomiti
che spendono la vita tra un polo e l'altro, come una strana razza migratoria il cui richiamo è costituito dai deserti bianchi...
Ciascuno, nel raggiungimento delle Seven Summits, realizza un proprio sogno, gli assegna un valore personale, così come chi ne è spettatore. Può essere considerata una
competizione per snob,un terreno di gioco per celebri alpinisti,o un prodotto di lusso offerto da prestigiose agenzie internazionali di alpinismo e avventura.Per me si è trattato di un modo per cercare di conoscere alcuni tra i luoghi più remoti e affascinanti del nostro pianeta. Più che
vette da conquistare, le sette cime sono state il mio pre-
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testo per esplorare alcuni angoli di mondo, altrettante finestre spalancate su ogni continente.Questa geografia vissuta resta segnata sulla pelle e le sue cicatrici sono altrettante storie.
Africa,
Kilimanjaro, la Scomparsa della Montagna Bianca
Tre rifugi scandiscono le tappe di salita lungo la via Marangu, che si snoda per quaranta chilometri tra il Kili gate, quartier generale del parco del Kilimanjaro, e il picco
Uhuru, "Libertà" in swahili, quattromila metri più in alto. Il
sentiero s’insinua sotto la volta della foresta, popolata da
scimmie e uccelli multicolori, sino alle capanne Mandara.
Poco oltre gli alberi scompaiono, rivelando l'imponente
mole del Mawenzi, la più bassa delle due cime del vulcano, dall’inconfondibile profilo frastagliato.Al tramonto, le
ripide creste di lava scura, secondo l’angolo con cui sono
colpite dai raggi dell’ovest, arrugginiscono accendendosi
di colore amaranto mentre le ombre si allungano sul fondo dei barrancos e delle aspre gole. Sul Kibo, al di là della “sella dei venti”, i candidi ghiacciai pensili aggrappati al
bordo esterno del cratere riflettono delicate sfumature
rosa. Una leggenda indigena narra come la vetta Kilimanjaro,la Montagna Bianca,sia una delle dimore di Ngai,creatore del mondo e marito della Luna. Il mito della creazione della tribù dei Kikuyu attribuisce a Ngai la propria esistenza e prosperità. Il patriarca della tribù si recò sulla
montagna e il dio gli spiegò come fare per trovare uno
sposo (ai tempi merce rara) alle sue nove figlie per mezzo del sacrificio di una capra sotto al grande albero di fico. Detto fatto, per incanto comparvero nove bei giovani
che subito le presero in moglie e tutti vissero felici e contenti. Ben diversamente andò al leopardo che, inseguendo una gazzella, giunse in cima e vi trovò la morte, punito
dal dio per aver osato entrare nella sua dimora. La montagna è una sorgente di portenti e di vita ma occorre poco perché si trasformi nel suo opposto… i signori animali sono avvisati. Oggi ben altri inquilini, più temibili di una
belva,premono alle porte del Signore della Montagna.Sono gli spettri della deforestazione e del riscaldamento globale, progenie del nuovo millennio che si accingono a dare lo sfratto definitivo agli dèi.Si calcola che,tra circa venti anni, del trono di ghiaccio resterà unicamente il ricordo. Sul Kilimanjaro, più si sale, più sembra di procedere a
ritroso nel tempo, all’inseguimento di un mondo che va
scomparendo, dai seneci alle lobelie delle pendici sino alla candida vetta sovente celata da una morbida coltre di
nubi.Sotto,lontana,c’è l’Africa,immensa,all’apparenza disabitata, dalle ininterrotte pianure di Serengeti alle Montagne della Luna. Laggiù, in basso, quasi un miliardo di persone stanno lottando per sopravvivere e premono e si
moltiplicano, condividendo risorse finite. Nel 2050 saranno il doppio,è un fatto.Inevitabile,come la scomparsa delle nevi perenni da questa montagna che una volta era stata bianca.
Asia,
Chomolungma, effetto Everest
Per la maggior parte degli scalatori la salita dell'Everest
comporta una lenta e faticosa progressione. La Dea madre della Terra è una regina a cui bisogna chiedere il permesso prima di salire. E c’è sempre un prezzo da pagare.
I corpi congelati,che costeggiano la via oltre l’ultimo campo sulla cresta nord testimoniano fino a che punto il conto possa essere salato. Sono i cadaveri dell’avventura. Oltre gli ottomila metri, (là dove un normale elicottero non
può salire), rimanere in vita richiede impegno e vigilanza
costante e la sopravvivenza si misura in ore. Nell’ultimo
chilometro nessuno può fermarsi a dare pietà a quelle che
sono ormai statue di ghiaccio. Non c'è tempo per fare i
becchini, non ce n'è nemmeno per soccorrere i vivi, che
rapidamente si trasformano in morti. Mike Rheinberger
era uno scalatore australiano, che aveva già provato sette
volte a raggiungere il tetto del mondo per la cresta nordest.L'ossessione di Mike durava da più di dieci anni finché,
all’ottavo tentativo nel 1994,raggiunse la vetta insieme all’amico Mark Whetuha. La loro avventura, filmata dallo
stesso Whetuha, resta uno dei migliori e più toccanti documentari di montagna:“The Fatal Game”, il Gioco Fatale.A mezzanotte, Mike, assieme ai compagni Mark e Dave
si svegliarono per iniziare i lunghi preparativi in vista del
tratto finale della salita. Occorreva sciogliere la neve, riempire i thermos,fare colazione e vestirsi.Alle quattro del
mattino si misero in marcia. Del trio, solo Dave si era dato degli obiettivi ben definiti: se non avesse raggiunto determinati luoghi a degli orari prestabiliti, sarebbe tornato
indietro. Diffidava del suo giudizio.Temeva che l’ingannevole vicinanza della vetta lo avrebbe indotto a mosse azzardate. Per ridurre i rischi aveva pianificato in anticipo la
salita. Ne avevano discusso tutti insieme, il giorno prima.
Dell’“Effetto Everest”, di quella pericolosa distorsione di
giudizio che si sperimenta quando non si vuole rinunciare alla vetta “Perchè è Là”. Quando sembra essere ormai
a portata di mano. Dave giunse stanco e provato a metà
della salita.Attenendosi ai limiti che si era dato,preferì voltarsi e scendere.Poco dopo incrociò Mike e Mark che,invece, caparbiamente, seguitavano a salire nonostante fossero in evidente ritardo. Perché decisero di proseguire,
non si può spiegare:nella vita,come sull’Everest,non ci sono risposte, soltanto scelte. Non che fossero inesperti.
Mark, un neozelandese di ascendenza Maori, aveva una
grande competenza e sicurezza. Era già salito sull’Everest
da nord,nel 1991.Mike,all’opposto,era un australiano calmo e attento, ma che aveva già preso parte a sette precedenti spedizioni all’Everest,sia dal versante nepalese che
dal quello tibetano...e ogni volta ne era stato respinto.Durante la salita, il neozelandese aveva più volte implorato il
compagno di tornare indietro perché stavano procedendo troppo lentamente. La sottile linea rossa per la cima,
fissata da Dave a mezzogiorno, fu ampiamente superata.
Mike e Mark giunsero in vetta alle sette del pomeriggio,
proprio mentre il sole tramontava. Quell’istante, fissato
per sempre dal loro filmato, fu bellissimo, con il mare di
nuvole sottostante incendiato dai colori del tramonto.Dopo anni di sacrifici, di tentativi, di delusioni, provarono finalmente l’estasi indescrivibile che la cima regala.Mike cadde in ginocchio e baciò il suolo. Ma la notte incombeva e
alla coppia non rimase altra scelta che bivaccare all’aperto, appena venti metri sotto, senz’acqua né cibo. Purtroppo, un bivacco forzato sulla cresta sommitale dell’Everest
non lascia senza conseguenze... L’ossigeno si esaurì, le
estremità degli arti si congelarono… Il mattino seguente,
alquanto malconci, ma ancora vivi, i due cercarono di riprendere la discesa. Mike provava dolore alla parte alta
delle gambe, forse si trattava di trombi. Se si fossero embolizzati e avessero raggiunto i polmoni sarebbe stata la
fine.Muoversi era la cosa pegAconcagua
giore, ma anche la sola,
per sopravvivere.
Vette
Everest, in vetta
Mike iniziò a delirare e Mark non era in condizioni migliori, con la punta dei piedi e delle mani congelata. Pressoché cieco per via delle emorragie della retina, Mike era
sempre più esausto, disidratato, incapace quasi di muoversi. Una spedizione partita dal campo alto cercò di prestar loro soccorso e riuscì a lasciare una bombola piena
d’ossigeno appena sopra il primo step, in un luogo che,
con un pizzico di fortuna, i due avrebbero potuto raggiungere in poche ore. Ma quel giorno, quel lunghissimo
giorno, finì facendo registrare scarsi progressi in discesa.
Al tramonto di quella terribile giornata erano ancora a
metà strada tra il primo ed il secondo step. Mark proseguì per recuperare la bombola piena. Ci fu poi una lunga
e terribile conversazione alla radio con il campo base per
convincere Mark a continuare la discesa da solo. Dal basso era infatti chiaro che, al massimo, si poteva ormai sperare di salvare solo Mark. Occorreva convincerlo ad abbandonare Mike,finché poteva farlo.Nel frattempo era arrivato al campo base un suo vecchio compagno di spedizioni. L’amico afferrò la radio e con notevole fermezza gli
disse:“Mark… devi scendere… ORA…”.Alla fine Mark,
riluttante ad abbandonare il compagno,fu persuaso a scendere ancora un po’ e così fu recuperato dalla squadra successiva che si trovava appena al disotto del primo risalto.
Il corpo di Mike fu avvistato il giorno dopo, un centinaio
di metri più in basso della via, ed è lì che tuttora riposa.
Sudamerica,
Aconcagua, La Sentinella Bianca
Cinque secoli fa, gli Inca praticavano sacrifici umani sulle
più alte montagne delle Ande. Lo dimostrano i recenti ritrovamenti archeologici sulla sommità del Nevado Ampato, in vetta al Cerro Llullaillaco e sul Cerro El Plomo, nei
pressi dell’Aconcagua.La storia ufficiale attribuisce agli europei la prima ascensione della più alta vetta del
sud america,
ma è probabile
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le cose non siano andate esattamente a questo modo perché, nel 1947, uno scheletro di guanaco fu ritrovato
a poIl Denali
che centinaia di metri dalla cima, in un luogo dove è assai
improbabile si sia recato di sua spontanea volontà. Quello che segue è un brano apocrifo, ispirato alla Historia Indica di Pedro Sarmento de Gamboa,scritta nel 1572.Narra la testimonianza di un vecchio indio, che era stato un
sacerdote inca prima che i conquistadores estirpassero
con il ferro e il fuoco ogni forma d’idolatria dai costumi
locali.
“Furono le cattive notizie provenienti dall’Alto Cusco,che
indussero il mio signore, il nobile governatore della regione meridionale di Qullasuyu a comandare un rito per
invocare l’aiuto degli dèi. Correva infatti voce che il figlio
del Sole, il divino Huáscar, inca supremo del Tawantinsuyu, la terra fra le quattro regioni, fosse stato ucciso per
mano di Atahualpa. Bianchi stranieri seminavano morte e
distruzione con armi potenti, come se fossero scesi dal
Cielo a punirci per le liti dei nostri governanti. Forse, come era avvenuto altre volte in passato,un’invocazione fatta con le debite forme avrebbe destato gli dèi dal loro sonno. Essi disdegnavano la follia degli uomini e si ritiravano
sempre più lontano,sempre più in alto sulle montagne.All’estremo sud dell'impero si trova una grande cima ammantata di neve,visibile anche dalla costa.La chiamano Ancocahuac, la Sentinella Bianca, perché si erge, più alta di
tutte, a guardare i confini meridionali del regno.A memoria d’uomo,nessuno vi era mai salito perché si temeva che
gli dèi fossero gelosi della propria dimora e la proteggessero con la Folgore Illap'a, e il mortale alito divino, il vento bianco.Anni prima, un sacrificio era già stato compiuto sulle sue pendici meridionali, ma questa volta gli eventi luttuosi richiedevano di bussare fin alle porte del cielo.
Partimmo in quattro: oltre a me c'era il Tarpuntay, sacerdote del Sole, lo sciamano e una guida, che conduceva un
guanaco bianco destinato al sacrificio in sostituzione di un
essere umano.Tutti indossavamo tuniche pesanti dalla trama fine per proteggerci dal vento e avevamo viveri e offerte per gli dèi, oltre che svariati oggetti rituali. Dopo sei
giorni di cammino dalla costa,attraverso impervi passi tra
le montagne, giungemmo in un’ampia conca erbosa attraversata al centro da un rivo impetuoso. Un ponte naturale di pietra, il cui colore giallo intenso era un segno di Inti, il dio Sole, c’indicò il luogo dove imboccare un vallone
laterale che iniziammo a risalire. Dopo mezza giornata di
cammino giungemmo in vista della grande muraglia che
costituisce il fianco sud dell’Ancocahuac. Iniziammo a dubitare che saremmo mai riusciti ad arrivare fin lassù, ma
la nostra guida conosceva bene la strada.Presto ogni traccia di vegetazione scomparve e fummo costretti a bivac6
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Nordamerica
Il Denali
care,dopo aver raccolto la legna per il fuoco,lasciando pascolare l'animale sui radi ciuffi d'erba che spuntavano dal
suolo pietroso. Il giorno seguente proseguimmo lungo
l'ampia valle, ora completamente desolata, protetta ai lati
da rupi inaccessibili e solcata sul fondo da torbide acque
rosso sangue. Percorremmo un ampio arco, tra pinnacoli
di roccia protesi come le braccia di condannati imploranti, fino ai piedi di un erto pendio, nascosto da grandi massi e difeso da lance di ghiaccio alte come un uomo. Per
proteggerci dal freddo costruimmo un riparo circolare di
pietre accatastate e ci accingemmo a trascorrervi la notte,distesi sulle stuoie imbottite d’erba secca,stretti gli uni
agli altri, avvolti nelle calde coperte di lana d'alpaca.Al levarsi di Inti, dopo un’invocazione agli spiriti Apu che dimorano sulla montagna,e a Taita Urqu,il Padre Monte,iniziammo a salire un erto pendio pietroso. Non ci fermammo se non poco prima del tramonto, in una radura riparata da alte rocce. Quella sera costruimmo un riparo di
sassi per accendere il fuoco,
ma non mangiammo quasi
nulla. Il soroche ci tormentava e il freddo pungente
non dava tregua.Il Tarpuntay
aveva portato foglie di coca
e un otre di chicha. Ne distribuì a tutti e,masticando e
bevendo,riuscimmo a obliare il luogo spaventevole e
ostile dove ci trovavamo.
Anche il guanaco tremava,
quasi presagisse la sorte che
lo attendeva. Il mattino seguente ci portò un’alba gelida, limpida come Mamaqucha,la Madre Acqua.Coperti con tutto quello che avevamo spingemmo in alto l'animale restio, ma dovemmo
desistere a pochi metri dalla cima. Il guanaco si era cocciutamente rifiutato di salire oltre la cresta,per via del vento gelido,e allora decidemmo di sacrificarlo,là dove si era
accasciato per non più rialzarsi. Proseguimmo poi oltre la
cresta,in direzione della vetta principale,che appariva sempre più vicina.Il Sole aveva già percorso oltre metà del suo
cammino in cielo quando, esausti e infreddoliti, raggiungemmo il punto culminante della montagna. Non trovammo nulla lassù, eccettuato l'alito forte del vento che soffiava gelido sopra ad un suolo di dura pietra.Tenemmo un
breve cerimonia,invocando la protezione degli spiriti Wamani e lasciando le offerte a Inti entro un circolo di sassi.
Con le membra irrigidite e insensibili iniziammo la discesa, quasi fuggendo da quel luogo ostile che non ci offriva
altra promessa se non una lenta agonia...".
McKinley, Chiedi al Vento
Riccardo Cassin, friulano, classe 1909, non ha bisogno di
presentazioni. È entrato a far parte della leggenda dell’alpinismo sin dagli anni ‘30, con la salita della nord-est del
Badile e lo sperone nord della Walker alle Jorasses. Ma il
suo terreno di gioco non si è limitato alle Alpi. Nel 1952
ha condotto una ricognizione al K2 che permise l’anno
successivo la conquista italiana della montagna. Nel 1958
ha guidato una spedizione al Gasherbrum IV che ha visto
salire in vetta, primi assoluti,Walter Bonatti e Carlo Mauri.Fu proprio quest’ultimo a proporgli l’idea,nel 1961,della spedizione “Città di Lecco” alla sud del McKinley, una
via inviolata che Bradford Washburn, uno dei pionieri del
Denali,aveva descritto come “una successione ininterrotta di tiri precipitevoli di ghiaccio e granito…”.Assieme a
cinque compagni del CAI di Lecco,Cassin raggiunse la vetta dopo quindici giorni di strenuo impegno, in condizioni
di freddo artico e bufere di vento che costarono a tutti i
membri della spedizione qualche congelamento,più o meno lieve. Nonostante il Comitato statunitense per i Nomi
Geografici vieti di chiamare col nome di un personaggio
vivente una via di salita, la cresta sud del McKinley è oggi
a tutti universalmente nota come la Cassin Ridge. A dispetto delle sue straordinarie imprese in montagna, Riccardo Cassin non è mai stato uno spericolato. Sapeva bene cos’era il freddo,per essere stato in Karakorum,anche
se non si aspettava di trovare sul Denali condizioni così
glaciali. Alcuni anni or sono mi ha raccontato di aver rinunciato per sempre alla parete Nord dell’Eiger dopo un
primo ed unico tentativo, fallito:“Non mi ha voluto”, quasi fosse una bella donna. E tante grazie.
Sulla cresta del Denali che porta il suo nome, Cassin ha
scritto, con i suoi cinque compagni, una pagina nuova sul
gran libro dell’alpinismo,una storia fatta di coraggio e bravura.Alle ventitre,dopo diciassette ore ininterrotte di scalata dall’ultimo campo, raggiunsero tutti insieme la vetta,
in condizioni di scarsa visibilità, per cui iniziarono subito
la discesa. Il gelo si fece presto insopportabile: Giancarlo
Canali iniziò a lamentarsi di un freddo intenso ai piedi e a
vomitare. Le sue condizioni preoccupavano un po’ tutti
ma, scendendo, parve riprendersi. Giunti al campo tre e
tolti gli scarponi, la situazione apparve subito grave: tutte
le dita dei piedi erano bluastre, segno inequivocabile di
congelamento. Il vento soffiava più impetuoso che mai e il
freddo era diventato insopportabile.In più ,i piedi di Giancarlo erano così gonfi da non permettergli di calzare di
nuovo gli scarponi.La decisione di scendere al campo due
fu rimandata di un giorno, quando il tempo parve migliorare.Avvolti i piedi in quattro paia di calze e indossando
le scarpe di renna prestate da Luigi Alippi, Giancarlo iniziò la discesa in cordata con Riccardo Cassin e Annibale
Zucchi. Luigi, privo delle sue scarpe e dei ramponi, dovette fare le acrobazie per scendere e a un certo punto scivolò, sbilanciando Romano Perego: Riccardo lo afferrò al
volo, riuscendo così, per un pelo, a evitare al gruppo una
disastrosa caduta a catena. Giunti al secondo campo, la
cordata di Riccardo, Giancarlo e Annibale decise di proseguire la discesa. Cassin voleva tentare di raggiungere il
campo base più in fretta possibile, finché Giancarlo ce la
faceva a camminare. Dopo una discesa interminabile nella nebbia, i tre arrivarono infine il campo uno dove, spossati, decisero di trascorrere la notte, purtroppo senza più
gas per sciogliere la neve e dissetarsi. Il giorno dopo, sotto una fitta nevicata, che penetrava sin dentro i loro vestiti,gelandoli dall’interno,la cordata riprese la discesa.Riccardo Cassin procedeva senza un rampone, che gli si era
slacciato, scivolando giù a valle prima che riuscisse a riacciuffarlo. Nel bel mezzo della discesa all’interno di un ca-
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Vette
Antartide,
L’ Elbrus
nalone Cassin fu travolto da una slavina di neve polverosa che gli portò via anche l’altro rampone. Soffocato, aggrappandosi con la forza della disperazione alle corde fisse, riuscì a non farsi travolgere. Giunti infine alla terminale, i tre s’imbatterono in uno strato di neve inconsistente
alto un metro e mezzo, che li costrinse letteralmente a
“nuotare” per uscirne. Finalmente, riuscirono a raggiungere il campo base,trovandolo semisepolto dalla neve.Riuscirono a recuperare combustibile e viveri, bevendo e
mangiando qualcosa per la prima volta dopo ventiquattro
ore. Il giorno seguente furono raggiunti anche dagli altri
tre compagni, tutti sani e salvi. Era la salvezza, e il trionfo.
Europa,
Elbrus, nelle Terre dell’Anabasi
Sul lato opposto delle colonne d’Ercole, agli estremi confini orientali d’Europa, sorge un vulcano spento ricoperto
dai ghiacci. È il punto culminante del Caucaso, la catena
che separa il mar Nero dal mar Caspio e l’Europa dell’Asia. Nelle belle giornate la cima innevata è visibile da centinaia di chilometri di distanza, a nord come a sud, dalla
Kabardino Balkaria alla Georgia e all’Armenia.La storia ufficiale ci racconta che è stato salito per la prima volta nel
1874, ma la sua presenza è nota da tempo immemorabile. Oggi come duemilacinquecento anni fa, le condizioni
meteo variabili costituiscono il principale ostacolo alla sua
ascensione.Alla fine del V secolo avanti Cristo, lungo l’itinerario tracciato da Alessandro Magno, si erano messe in
marcia alcune migliaia di mercenari greci, reclutati da Ciro, desideroso di rovesciare il fratello Artaserse sul trono
di Persia.La grande carovana si addentrò tra il Tigri e l’Eufrate.Vinta in battaglia e rimasta senza capi, dovette cercarsi una via per tornare al mare. L’Anabasi di Senofonte
è la narrazione della vicenda fatta da uno dei protagonisti
di questa “lunga marcia” di ritorno a casa dell’esercito greco, attraverso la Mesopotamia, l’Armenia e il Ponto Eusino, l’odierno Mar Nero. Nel suo vivido racconto, quasi un
romanzo, Senofonte descrive le peripezie dell’attraversamento dell’Armenia, dei villaggi sperduti tra gli alti passi
innevati tra le pieghe del Caucaso.“… ma gli altri, quelli
che non riuscirono a finire la strada, passarono la notte
senza cibo e senza fiamma. Parecchi morirono … Soldati
che avevano perso la vista, accecati dalla neve, o a cui erano cadute le dita dei piedi, incancrenite dal freddo, furono abbandonati sulla via. Per riparare gli occhi dal bagliore della neve,tenevano durante la marcia una pezzuola nera davanti agli occhi; per difendere i piedi si muovevano
continuamente, evitando di stare fermi un attimo solo e
durante la notte scioglievano le calzature.A dormire con
i sandali, infatti, i legacci penetravano nella carne e le suole gelavano intorno al piede.” Anabasi (IV,V). Come scrive
l’Ecclesiaste “niente di nuovo sotto il sole”.
Antartide,
verso il C1
Vinson, in Cima al Fondo del Mondo
L’Antartide resta, ancor oggi, un continente in gran parte
inesplorato.E già questo basta a renderlo unico,in un mondo sempre più interconnesso e sovrappopolato. Nessuno si è mai recato nella maggior parte delle valli della catena della Sentinella,nessun uomo ha mai messo piede su
molte delle montagne della catena transantartica.Che sia
un ambiente inospitale lo si percepisce non appena vi si
poggia piede.Venti catabatici prendono velocità scivolando dal centro del continente, in cui domina l’alta pressione, verso le coste, dove giungono con velocità distruttiva. Occorre una nomenclatura specifica per descrivere il
paesaggio: barriere, correnti di ghiaccio, sastrugi, nunatak.
Grazie alla tecnologia, solo da pochi anni, alcuni siti del
continente bianco sono diventati accessibili, ma senza un
equipaggiamento adatto la sopravvivenza risulta impossibile.Da milioni di anni,nulla,né pianta né animale,può sopravvivere alle condizioni dell’interno, a un’oscurità che
dura sei mesi l’anno con una temperatura di meno cinquantacinque. Ogni altro spazio del pianeta è stato abitato, o perlomeno attraversato, sin dalla preistoria. Tutti,
tranne gli aridi altopiani antartici.Deserti bianchi dove l’aria è più secca di quella del Sahara. Orizzonti di ghiaccio
di fronte alla cui vastità non si può fare a meno di provare un senso di vertigine, una sensazione adatta a un luogo non a misura d’uomo. Forse, a nessuno dovrebbe essere consentito di venire qui. Forse, uno dei motivi per
cui l’Antartide è ora un santuario naturale,un monumento
alla Natura grande quanto un continente, è perché degli
uomini sono arrivati e hanno riportato indietro storie di
bellezza e meraviglia. Forse, se non è stato ancora rovinato o sfruttato a fini commerciali, è perché risulta troppo costoso e difficile. Comunque sia, in nessun altro paese al mondo le leggi impongono di organizzarsi in modo
che siano integralmente recuperati i propri rifiuti, solidi e
liquidi, compresa l’acqua di risciacquo delle stoviglie, perché in nessuno altro posto quanto questo l’ecosistema è
così fragile e qualsiasi alterazione destinata a restare.È un
obbligo, ma anche una grande responsabilità, perché tutti
devono avere la possibilità di venire e ritrovare un territorio pressoché incontaminato. Ma vale davvero la pena,
a mio avviso, fare qualche sacrificio, non solo economico,
per avere il privilegio di ammirare e raccontare un angolo di mondo che esorbita dai parametri dell’ordinaria
esistenza. Una bellezza terribile e senza tempo, pervasa
da un fascino che toglie il respiro, dal brivido di sentirsi
fragili in un ambiente ostile eppure preparati nell’affrontarlo, dalla seduzione della fisicità che sta alla
base di ogni avventura. Quando le parole diventano inadeguate, non ci restano che le azioni:
noi siamo quello che facciamo. Viaggiare,
esplorare lo spazio,è praticare l'arte della "lettu-
ra visiva del mondo",senza necessariamente avere la pretesa di comprenderlo, muti spettatori della sua varietà e
bellezza.L'arbitrarietà del viaggiare trova allora il suo equivalente,e insieme la propria consolazione,con quella della vita.
Australia,
Kosciuszko, una Passeggiata nel Parco
La minore delle Seven Summits è australiana e della giovinezza possiede le caratteristiche. Le forme morbide e
tondeggianti ispirano una naturale simpatia che la bassa
statura non fa che accentuare.Vezzosa,ama cambiarsi spesso d’abito,e abbandona presto il bianco per passare al verde, alternando ai freddi colori invernali le calde tinte pastello dell’estate.Adora fiori e profumi e con l’arrivo della bella stagione ama ornarsi di fiori di campo, in preferenza margherite e ranuncoli. L’aria che la circonda odora di mirto selvatico. Delle sorelle maggiori non possiede
né l’imponenza né la severità, ma a volte riesce ad essere
dispettosa, inventandosi scherzi da fare agli ignari passanti, in particolare, scagliando loro lietamente contro nugoli di mosche. Non lo fa per malizia, ma piuttosto per quell’esuberanza dovuta alla giovane età.Adora prendere il sole e fare lunghe passeggiate nel parco. D’indole dolce, di
rado si rannuvola,e comunque i suoi capricci passano presto,lasciando spazio al sorriso e a una vitalità che ti fa sentire bene quando ti trovi con lei, come con una cara amica.
… e dopo ?
Un vasto mondo ci aspetta,appena fuori dalla porta di casa. Un universo tutto da scoprire, poco importa
che siano le più belle spiagge dei sette mari o le
cime più alte dei sette continenti. Posti magici,che sfidano l’immaginazione,di cui la maggior parte della gente ignora persino l’esistenza. Angoli di mondo fragili, non
ancora addomesticati,dove occorre
entrare con rispetto,quasi in punta di piedi. E ogni volta che ritorniamo da uno di questi luoghi,non saremo mai più gli stessi, perché una parte di noi resta là, almeno quanto loro entrano a far parte di noi.
In vetta al Vinson
7
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