storie parallele terzo capitolo di o gorizia tu sei maledetta
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storie parallele terzo capitolo di o gorizia tu sei maledetta
LAURA MATELDA PUPPINI Capitolo terzo di “ O Gorizia tu sei maledetta...” STORIE PARALLELE . PRIMA STORIA. E CI FU CHI ALLA GUERRA CREDETTE VERAMENTE: ALBINO CANDONI, UNO DI QUEI POCHI CHE ANDARONO IN GUERRA VOLONTARI…. Marco Candido, soldato per forza, non avrebbe voluto andare in guerra. Ma ci furono altri che, invece, vi andarono volontari. Erano ben pochi, forse pochissimi, ed appartenevano alla classe borghese agiata o erano studenti, pieni di ideali, che vedevano nella fine degli imperi centrali il trionfo della libertà e della giustizia. Fra questi volontari vi furono il professore e letterato napoletano Nunzio Coppola, dichiarato abile ai soli servizi sedentari e volontario sul fronte del Carso come ufficiale, che si fece sette mesi di trincea e diciotto di prigionia prima a Mauthausen poi a Heinrichsgrün, ma che uscì dalla guerra vivo ed ha potuto lasciarci un ricco epistolario,1 ed Albino Candoni di Imponzo, classe 1878, meno fortunato. Albino, quando parte per la guerra, non è giovanissimo, ha moglie e figlie, ed è un promettente scultore ed esponente del liberty. Non si sa di preciso che cosa lo abbia spinto a tale scelta, dato che in proposito non resta scritto alcuno. Forse Albino sposava l’ irredentismo, forse temeva, come tanti socialisti riformisti, il prevalere dell ‘egemonia germanica sull’ Europa, forse sperava che la guerra spazzasse via i vecchi imperi e portasse ad un’ Europa degli Stati nazionali, dal volto nuovo. Albino Candoni nacque ad Imponzo, frazione del comune di Tolmezzo, il 15 luglio 1878. Rimasto orfano di entrambi i genitori a 12 anni, fu costretto ad abbandonare il paese natio ed a trasferirsi a Venezia, ove unì studio, apprendistato e lavoro. Infatti egli di giorno lavorava duramente come scalpellino, mentre di sera studiava disegno presso la Scuola d’Arte. Trascorse così quattro anni della sua vita e, con il trascorrere del tempo, si affermò sempre più per le sue capacità nel disegno. 2 All’epoca gli architetti disegnavano con infinita pazienza i loro palazzi e gli elementi decorativi degli stessi e la bravura nel disegno poteva far emergere anche un semplice scalpellino. Così, sfruttando quanto appreso con studio e lavoro, Albino riuscì ad entrare nella bottega dello scultore Antonio Dal Zotto3, di famiglia carnica, noto scultore realista, ed interventista per quanto riguarda la prima guerra mondiale. Presso il suo studio Albino copiò schizzi, analizzò opere, ed affinò la conoscenza dell’ anatomia, indispensabile ad ogni scultore, prestando anche attività lavorativa per il Dal Zotto e perfezionandosi nel restauro. Nel 1902, sentendosi pronto per muoversi da solo, vendette i beni familiari e si recò a Roma, dove venne ammesso alla frequenza dell’ Accademia delle Belle Arti. Vinse anche una borsa di studio ed ebbe modo di farsi conoscere da valenti artisti impresari ed architetti. Non sempre però l’ambiente romano gli fu favorevole, ma egli decise di perseverare e, lavorando per terzi, mise da parte un discreto gruzzolo, che gli servì per “mettersi in proprio”. 4 Così scrive a Rosina5 il 24 febbraio 1910, palesando qualche speranza per il futuro: ______________________________________________________________________________________ Rosina Carissima, oggi ho fatto il contratto di una parte di lavoro ornamentale del Palazzo del Parlamento, e fra non molto mi sarà dato a trattativa privata (…). In tal modo mi sono assicurato il lavoro per un paio d’ anni e forse più. Degli altri lavori ti dirò soltanto che non mi lasciano in pace e non ti nascondo che alle volte sono un po’ seccato: ma (…) dall’ esser senza lavoro ad averne troppo, sto per quest’ ultimo caso, e poi son quattrini. Ti assicuro, cara Rosina, che oggi non altri ( pensieri ho, sottinteso n.d.r.) che quello di far quattrini per rendermi indipendente dinanzi a tutti e sono pronto pertanto a qualunque sacrificio. Quando io avrò assicurato l’esistenza mia e quella della mia futura famiglia potrò allora occuparmi da vero signore della mia arte e procurarmi tutto il necessario, acciocché all’ infuori dello studio nulla mi manchi (…). La mia Rosina condividendo con me e piaceri e tristezze dovrà sottostare a questo regime di cose; e pazientare quando il suo Albino tarda a scriverle, oppure le parla sempre di affari e mille altre storie. (…). Sì cara Rosina, quando una persona si ama grandemente con tutta l’anima, tutto con essa si deve condividere, perciò tu non te ne meraviglierai. (…). E tu che vita fai a Verona? Nell’ ultima tua mi dici che sei arcicontenta. Il sapere che la Signorina sta in ottima compagnia e che lavora allegramente, lontana da certi brontoloni, ( come essa dice) mi fa molto piacere. Spero nella tua prossima lettera mi dirai qualcosa di Verona e delle tue occupazioni un po’ dettagliatamente. Saluta tanto la Sig. Pina e Mami (?) e a te affett (non ben leggibile n.d.r.) e baci tuo Albino. Roma 24 febbraio 910. 6 _______________________________________________________________________________________ L’ artista Albino Candoni. Albino Candoni, come architetto e scultore fece molte opere di valore, di cui alcune sono state regalate, dalle figlie7, al Museo Carnico di Arti e Tradizioni Popolari, con sede a Tolmezzo, e si distinse a Istanbul, Bangkok, Roma, Genova.8 Nel 1906 Albino Candoni partì per Istanbul o Costantinopoli che dir si voglia, ove lavorò, per alcuni mesi, con Raimondo D'Aronco9. Nel clima cosmopolita della capitale ottomana egli ebbe modo di mettere alla prova le proprie attitudini artistiche superando le durezze provinciali, volgendo verso piani fluidi e verso la tendenza ad interpretare, in chiave floreale, tipologie rinascimentali e barocche, diventando uno dei maestri del liberty. Realizzò, su incarico di D'Aronco, la fontana per i giardini imperiali ed altre opere, ma ben presto il Candoni entrò in contrasto con il noto architetto gemonese, in quanto si sentiva sfruttato, lasciato in ombra, mal pagato dallo stesso. Per questo motivo rientrò a Roma, dove, nel 1909, si dedicò alla decorazione del Villino Ravà ( decorazione ora alterata da una ristrutturazione) ed eseguì anche il Ritratto della signorina di Ravà, considerato un autentico gioiello.10 Collaborò , poi, con l’architetto Cesare Bazzani, eseguendo, con una sufficiente libertà creativa, dei suoi disegni di decorazione architettonica.11 Quando pareva che la fortuna gli arridesse, decise di partecipare alla prima guerra mondiale come volontario, convinto, secondo Licio Damiani, che la distruzione dell’Impero Austro- ungarico avrebbe favorito la libertà e l’arte.12 Forse il suo pensiero fu influenzato anche da quello di Antonio Del Zotto, suo maestro, e di Raimondo D’ Aronco entrambi nazionalisti ed interventisti. Il sottotenente Albino Candoni perse la vita il 15 gennaio 1918, al fronte, colpito da una scheggia di granata alla testa. E morirono pure, volontari al fronte, tra gli altri, i triestini Ruggero Fauro Timeus, piccolo borghese irredentista ed antisloveno, e Scipio Slataper, scrittore irredentista. Fronte di guerra. Immagine facente parte di una serie di positivi giacenti presso isis. F. Solari – Tolmezzo, forse relativi ad Albino Candoni. – Per gentile concessione dell ‘isis F. Solari – Tolmezzo. Albino Candoni soldato per scelta. Relativamente al periodo di guerra ed alla morte di Albino Candoni, ci restano queste righe firmate A. Molinari, probabilmente Antonio, il caporale originario di Zuglio che faceva parte del Battaglione13. _______________________________________________________________________________________ «Il Capitano Candoni Albino giunse al Batt.ne . Arvenis 8° Alpini verso la metà di Ottobre del 1916. Allora era Sotto Tenente. Fu assegnato alla 152a Compa del detto Batt.ne. Prese parte a azioni difensive sul monte Gardinal Busa Alta (Alpi di Fassa). Verso il Febbraio 1917 fu promosso Tenente. Allora passò al comando del Batt.ne come Ufficiale zappatore e gli furono assegnati i lavori di difesa del monte Gardinal. Cime e rocce impraticabili, là, allora nulla era, non un sentiero non una strada, tutto si percorreva a corda maniglia e molto pericoloso in vista al nemico, ma lui, instancabile al lavoro, capace di guidare, in poco tempo tutto si fece, e a descrivere certi lavori è impossibile. Dico solo che non era più un monte ma una fortezza. In Luglio 1917 fu promosso Capitano. Allora passò al comando della 153 Comp. e gli fu affidata la difesa sempre di detto monte ove si stette fino alla sciaugura di Caporetto che, per ordine superiore, i primi di Novembre venne l’ordine di ritirarsi. Fu l’ultimo ad abbandonare la posizione. In ritirata, sempre con il nemico alle calcagne, di quando in quando qualche scaramuccia. Il giorno 11 novembre si giunge al ponte della Serra. Era ordine di tener resistenza per dar tempo a ( illeggibile n.d.r.) profughi che si allontanassero. Tutto il giorno fu combattimento ma lui sempre tra i suoi soldati incoraggiandoli e incurante a qualsiasi pericolo. Verso sera il nemico ci aveva alle strette, cuasi circondati. Fu un attimo: fece saltare il ponte e già varcando la Val Cismon, passammo Fonzaso e giù, per la val Brenta14, sempre col nemico alle calcagne e qualche scaramuccia. Raggiungemmo il Grappa. Giornate storiche: vorrebbe tanto a descriverle. I primi dicembre si giunge alla cima Solarolo ( Grappa)15. Il 10 incomincia l’offensiva austriaca: 10. 11. 12. 13. 14 Dicembre 1917 e impossibile descrivere queste orribili giornate, giornate intiere di combattimenti bombardamenti che aravano palmo per palmo il terreno ma lui sempre coraggio e sempre tra i soldati. In questi giorni venne promosso alla medaglia d’argento che venne decorato a Paderno d’Asolo16, verso gli ultimi Dicembre che trovavasi in riposo. Il giorno 8 gennaio 1918 si torna di nuovo in linea una giornata pessima neve e tormenta e si trattava di 14 15 ore di marcia sotto tutte queste intemperie che molti soldati e ufficiali per lo strapazzo andarono all ‘ospedale. Pure Candoni si ammalò di febbre e benché consigliato dal dottore di andare all’ ospedale non volle per non abbandonare la comp. ( compagnia n.d.r.). Non lo avesse mai fatto. Il giorno 14 Dicembre si sentiva un po’ meglio, volle alzarsi e venuto fin sul portale della galleria in cui alloggiava, una granata austriaca scoppiava a pochi passi distante e una scheggia lo colpiva alla testa che poche ore dopo lo rese cadavere. Tra lo strazio di superiori e dipendenti che da tutti era amato, lo presero e portato a Fietta17 ove in quel campo santo fu sepolto. Verso maggio 191818, il Colonnello Tessitori cav. Francesco ha aperto una sottoscrizione che fruttò bene. Ufficiali e soldati tutti sottoscrissero. Perché da tutti era amato. Con questa sottoscrizione allora si diceva fare un monumento con la scuola d’ Arti e Mestieri a suo nome a Tolmezzo.» 19 _______________________________________________________________________________________ Per la verità, la versione della morte di Albino Candoni data dal Molinari differisce, per qualche particolare, da quella data da Isidoro Primus, nel suo :”Ricordi di guerra”20. Questi afferma che il capitano Candoni morì mentre osservava, con altri ufficiali, l’attacco del btg. Cividale, in zona Cima di Solarolo. 21 Comunque, sia come sia, successivamente il suo corpo fu esumato e trasferito a Tolmezzo, ove fu sepolto nuovamente nel locale cimitero. Qualche giorno dopo, il 4 novembre, la Scuola d’Arte e Mestieri veniva a lui intitolata e veniva inaugurato il Museo alla stessa annesso, in concomitanza con le celebrazioni del Milite Ignoto a Roma e deposizione della salma al Vittoriano. Invito all’ inaugurazione della R. Scuola Professionale. Originale presso isis F. Solari. Per gentile concessione isis. F. Solari. A Tolmezzo: l’inaugurazione della nuova sede della scuola professionale dedicata ad Albino Candoni .22 « Mezzo milione dedicò il comune alla nuova appropriata sede della scuola professionale. Il nuovo edificio sorge in via Lequio dietro l’altro grandioso ed artistico dove è collocata la scuola tecnica pareggiata. In un’aula a pianterreno si svolse la cerimonia della inaugurazione. Vasta l’aula ma ben presto affollata. Le autorità sono presenti tutte. (…). ..e tutti (…) coloro che hanno a cuore l’istruzione pratica dei lavoratori, il decoro ed il progresso del loro paese. (…). Noto i rappresentanti delle associazioni combattenti di Zuglio e Paularo, delle cooperative combattenti di Cercivento. E vi erano gli alunni delle scuole elementari in numerosa schiera e artieri e operai – vecchi e giovani: il tipo della maestranza carnica intelligente infaticabile, che si è sparsa in tutto il mondo e che dappertutto ha saputo conquistare a sé ed al proprio paese, la fama migliore. (…). Le adesioni Alla sede della scuola, popolo ed autorità vennero in corteo, formatosi sulla piazza principale, preceduto dal gruppo delle bandiere e della banda. La cerimonia si inizia con la lettura delle adesioni . Il prefetto di Udine (…) si scusa di non poter essere presente causa i doveri di ufficio che lo costringono ad Udine e incarica il viceprefetto di rappresentarlo (…). Il presidente della deputazione provinciale avv. Candolini, (…) prega il sindaco di rappresentare anche l’amministrazione provinciale. Da Roma la signora Rosina Candoni, vedova del glorioso caduto, così telegrafò all’on. Gortani: “Prego tenermi spiritualmente presente inaugurazione scuola professionale intitolata per chiara significazione, all’Eroe nostro. “ Avevano pure aderito i Comuni di Enemonzo, Forni di Sopra, Pontebba, la Società Filologica Friulana, (…), la Società Alpina Friulana che pregò il socio on. Gortani di rappresentarla; l’avv. Eugenio Linussa; l’avv. Comm. Reiner, (…) ecc.. I discorsi. Poi cominciò la serie dei discorsi. Primo sorge a parlare il Sindaco avvocato Candussio, che espone in breve la storia della scuola dal sorgere, ( …) fino all’attuale suo rinnovamento. (…). Parla quindi il viceprefetto. Ricorda l’omaggio che, pochi giorni addietro, il popolo, tutto concorde nella riconoscenza, e nella commozione di profondo accorato amore, aveva tributato alla Salma di Albino Candoni e come uguale fremito di commozione, di amore, di dolore, fosse quel giorno corso in tutta la Carnia. All’Artista - Eroe la scuola per la quale il comune ha voluto, con nobile determinazione, erigere la degna sede che stiamo inaugurando – all’Artista – Eroe che simboleggia le virtù morali e intellettuali e il fermo patriottismo del popolo carnico, la scuola è intitolata: questo è l’auspicio questo è l’impulso più potente per l’avvenire di essa, per l’avvenire dei lavoratori che ad essa domanderanno istruzione e cultura: avvenire su cui si impernia la grandezza e la prosperità della Patria.(…). Il presidente della scuola, ing. Moro, espone un largo istoriato di essa – da quando 25 anni or sono – la si iniziava con un bilancio di mille lire, ad oggi, che nel progredire segna la data di una meta raggiunta e non dell’arrivo alla meta. (…). Il discorso dell’on. Gortani Signore e Signori, per concorde volontà di popolo, senza distinzioni di parte, con magnifico esempio di unione nel bene e per il bene, Tolmezzo ha dato questa degna sede alla sua scuola Industriale. E come la stanza angusta e male illuminata di dieci anni or sono si è trasformata in un grandioso edificio, così la piccola e modesta “Suola di disegno applicato alle arti e industrie,” si è ora mutata nella scuola professionale Carnica con un bilancio annuo di dieci volte maggiore, mentre gli allievi si sono quintuplicati di numero ed aumentano costantemente. Grado e sviluppo, senza dubbio notevoli, e raggiunti soltanto dopo anni di lunghi sforzi,delle autorità amministrative e politiche, sorrette dalla volontà unanime del paese; grado e sviluppo che tuttavia non sono da noi considerati se non come una tappa per raggiungere una meta più alta. E’ infatti intendimento comune che la scuola professionale Carnica passi dal 1 al 2. grado, elevandosi così all’altezza di quella di Belluno e diventando un vero centro di insegnamento industriale. (…). Nel fiorire di questa scuola noi vediamo uno dei più potenti mezzi per la elevazione materiale e morale dei nostri operai, e accetteremo con lieto animo ogni sacrificio all’uopo necessario. Che se poi non ci bastassero le forze, abbiamo ferma fiducia che gli altri Comuni della Carnia e gli Enti provinciali non ci negherebbero quell’aiuto a noi indispensabile e non esorbitante dai limiti delle loro possibilità. Mi si permetta intanto di affermare con orgoglio di carnico che una popolazione di seimila anime, la quale, al termine dell’invasione nemica e della lunga guerra, ancora esausta, lacerata, spoglia, sa sobbarcarsi l’onere di mezzo milione per costruire una scuola, si mostra ben degna della stirpe italiana e, fra tutte le genti italiche, di quel mobilissimo ramo che è il popolo del Friuli. Il museo che vogliamo annettere alla scuola e che in essa è, per ora, ospitato, sorge in virtù di quel più fervido e religioso amore per la piccola patria e per tutte le sue caratteristiche ataviche, che il tormentoso periodo dell’invasione ha ravvivato in tutti i cuori friulani. E’ intento nostro raccogliere, perché ne resti duratura memoria, ciò che formava l’arredamento caratteristico e tradizionale della vecchia casa carnica, comprese quelle forme ingenue di arte paesana di cui tuttora sopravvive qualche residuo fatalmente destinato a sparire sotto la marea livellatrice dei nuovi tempi. Il museo è in formazione; opera resa lunga e difficile dalle devastazioni nemiche e dalle moltiplicate rapine degli antiquari nostri e di fuori. Ma lo vogliamo aprire fin da ora per invogliare ad agevolare il compimento quanti amano la nostra Terra e il nostro passato. (…). Il museo dovrà avere degna e adatta sede in un edificio che riproduca il tipo delle nostre belle case antiche: e noi confidiamo nell’animo di tutti i carnici perché a suo tempo l’ edificio sorga. Ma urge intanto di concentrare gli sforzi nella raccolta. Ai mobili ed arredi vogliamo aggiunti i tessuti, i costumi, i pizzi e ricami nostri. Di questi abbiamo esposto, per la circostanza odierna, una prima raccolta che mia moglie ed io siamo lieti di regalare al Museo, salvo depositarvela effettivamente quando i futuri locali e vetrine adatte permetteranno esporla in permanenza, senza pericolo di deteriorarsi. La presente cerimonia si lega a quello che oggi e nei giorni passati hanno fatto vibrare di un sentimento solo tutto il popolo italiano. La scuola che inauguriamo è dedicata ai prodi figli della Carnia, illustri ed oscuri, tutti ugualmente martiri del dovere, della patria, della libertà. Intorno ad uno di essi ci siamo raccolti e ci raccogliamo anche in questo momento, comprendendo con lui tutti quanti, in un solo pensiero e in un solo palpito di amore, di fede, di propositi. La lapide dedicatoria, che per contrarietà di eventi non possiamo ancora scoprire, porterà scolpito questo nostro sentimento. “Nel nome di Albino Candoni “ - essa dice – “che compendia e riassume tutte le virtù di sua gente – la Carnia ricorda ed onora - l’eroismo di tutti i suoi figli - caduti per la libertà della patria.”» 23 E ritorniamo al capitano Candoni. E per rincuorarci, il capitano comperava per noi vino, mele e castagne… Vorrei terminare la storia di Albino Candoni riportando alcune righe, dal testo di Isidoro Primus, sulle pessime condizioni di vita e battaglia in zona monte Grappa, e una lettera sul suo funerale di Gualtiero Castellini24, al fronte con Candoni. «Il giorno seguente (…) saliamo sul Grappa. - scrive Primus - Lassù il monte era coperto da circa trenta centimetri di neve, divenuta dura quanto il marmo, a causa del freddo intenso. Come fare? Non avevamo nulla per coprirci. Niente cappotto, niente mantelline, e senza coperte. Niente corredo. Inoltre avevamo le scarpe rotte. E così abbiamo dovuto tirare avanti un mese. Nulla avevamo, neppure un piconzino! Praticamente tutti noi avevamo i piedi congelati, eppure bisognava rimanere inchiodati sulla posizione. I piedi ci davano la sensazione che fossero fatti di legno. Per non essere scaraventati giù lungo le pendici gelate del monte, dovevamo tenerci per mano in circolo a sei per sei. Questo, naturalmente, quando si scatenavano le tormente. E queste si succedevano sovente le une alle altre. Una notte di tempesta, (…) il nemico venne ricacciato alla baionetta. Altre munizioni non avevamo, all ‘ infuori di quelle per le mitragliatrici. Si pensi che il vino ed il cognac, destinati a noi, venivano usati per le mitragliatrici che dovevano sparare sovente, per evitare che tutto il meccanismo si ghiacciasse e non si potesse poi usare l’arma. Il nemico bombardava ininterrottamente, tanto che i posti colpiti non erano più bianchi di neve, ma brulli. I battaglioni venivano decimati dai bombardamenti nemici e dal congelamento. Anche il Capitano Candoni soffriva come noi, tuttavia egli visitava i soldati della compagnia frequentemente, incoraggiando tutti. Egli ci parlava in dialetto friulano, particolarmente quando ci voleva dare la carezza di padre. » Il racconto di Primus continua narrando di soldati che potevano morire dissanguati per mancanza di soccorso, di bombardamenti intensi e continui da parte del nemico, di assalti alla baionetta, di tanti morti anche fra gli ufficiali, di discese a cavalcioni dei fucili, di tanto, tanto freddo, di alloggi in tende, di Albino Candoni che, raggiunto finalmente, attraverso la Val Calcino, Romano Alto,25 cercava di rincuorare i suoi soldati donando loro vino, castagne e mele comperati a proprie spese, dai contadini locali. 26 Così ricorda la sepoltura del capitano Albino Candoni Gualtiero Castellini: « 16 gennaio. – Abbiamo portato a seppellire il capitano Candoni (…). Candoni è morto ieri per una cannonata, in un momento quasi di stasi, ma è la perdita più grave che abbiamo avuto dall’ inizio del ripiegamento. Per me era più di un fratello (…). Era uno scultore friulano (…), volontario di guerra, l’ideatore ed esecutore di quei lavori del Gardinal di cui vi ho tanto parlato (…). Tutte le volte che lo andavo a trovare era una festa reciproca e poco (a sott. n.d.r.) poco era divenuto popolare nel Raggruppamento. (…). Ci siamo visti l’ultima volta il 28 dicembre, alla consegna delle medaglie. (…). E in quel giorno mi regalò la medaglietta del suo battaglione, l’Arvenis, coniata da lui stupendamente, poi non l’ho più visto. (…). Aveva la febbre, è andato lo stesso, è morto. Ora manca ai nostri alpini una grande forza, e a me uno dei migliori amici e dei più grandi esempi. L’ abbiamo messo qui, in un cimitero di campagna, col tricolore: uno dei pochi capitani nostri che abbiamo potuto seppellire. E speriamo di riportarlo un giorno, nel suo paese. (…).» Così termina la storia dello scultore soldato, volontario al fronte. ____________________________________________________ SECONDA STORIA. RAGAZZI E RAGAZZE, UOMINI E DONNE AL DURO LAVORO PER LA GUERRA. L’entrata in guerra dell’ Italia modificò, pure, il contesto economico della nazione. La commesse militari all’ industria, relative ad armamenti, munizioni, ed automobili, cambiarono il mondo del lavoro e la sua composizione. La chiamata in guerra degli uomini e l’aumento di richieste all’ industria metallurgico – meccanica, determinarono la presenza di nuovi spazi di occupazione per manodopera femminile e minorile.27 « La riduzione delle attività produttive in settori artigianali ed industriali dove i giovani trovavano larga occupazione ( produzione della carta, ceramiche, vetrerie, settore edile estrattivo), indusse un gran numero di apprendisti provenienti dalle campagne a trovare occupazione nell’ industria bellica. Si innescarono, così, forti flussi migratori interregionali che interessarono in maniera rilevante la manodopera minorile e femminile. (…): frotte di ragazzini ed adolescenti scesero dalle vallate lombarde per lavorare nei grossi centri legati alla produzione bellica, come Milano e Brescia. (…). Inoltre dal Veneto riprese un consistente flusso verso gli stabilimenti tessili lombardi e piemontesi che producevano divise, tessuti ed indumenti per i soldati al fronte; e ragazze trovarono lavoro come operaie nell’ industria meccanica. La mobilitazione militare determinò, pure, un numero crescente di vuoti tra lavoratori nelle campagne, costringendo donne e fanciulle a impegnarsi nei lavori agricoli.»28 Le condizioni di lavoro erano, per donne e ragazzetti, massacranti: basti pensare che, secondo l’Ufficio del Lavoro, circa 85.000 mondine, molte delle quali sotto i 14 anni, avevano compiuto lavori che avrebbero contemplato 130.000 addetti.29 Uomini e ragazzi furono anche impiegati in lavori di utilità bellica, per esempio nella costruzione di trinceramenti, fortificazioni, strade, mulattiere, magazzini, baraccamenti, ferrovie. 30 In Italia, durante la prima guerra mondiale, « furono costruiti 510 chilometri di ferrovia a scartamento ridotto; impiantate 918 teleferiche per uno sviluppo di 828 chilometri; inviate complessivamente in zona di guerra 40.000 baracche. Per i lavori di rafforzamento furono forniti all'esercito: 280 milioni di sacchi a terra, 20 milioni di paletti da reticolati, 3.135.000 quintali di corda spinosa. Negli anni di guerra 1917 e 1918 il consumo di calce e cementi raggiunse la media di quintali 100.000 al mese. Per i lavori da mina furono adoperati 3925 gruppi di perforatori di potenza varia da 5 a 45 HP.»31 L’ esecuzione di questi lavori divenne un gigantesco affare che permise notevoli profitti alle ditte private, tanto che, dal 1916, i militari decisero di gestirla in proprio, attraverso il Segretariato Generale per gli Affari Civili. Esso era stato istituito, il 29 maggio 1915, al fine di integrare le terre irredente nello stato italiano, con la certezza della vittoria imminente, e non pensando, probabilmente, neppure lontanamente, a una possibile Caporetto. La competenza del Segretariato spaziava su tutti i settori non strettamente militari: amministrazioni comunali ed ecclesiastiche, scuole, questioni finanziarie, assistenza, attività economiche e agricole, ed assolveva mansioni anche diverse dall’ ordinaria amministrazione.32 Tra queste vi era, sicuramente dal 1916, il provvedere ai lavori per la manutenzione, riparazione e costruzione di strade; alle opere necessarie per facilitare le condizioni di vita delle truppe e per il funzionamento dei servizi; all'impianto e funzionamento di speciali servizi tecnici (teleferiche, impianti idrici, impianti elettrici, ecc.); al rifornimento, sgombero, recupero e riparazione dei materiali di proprietà. 33 Il Segretariato faceva da tramite fra le richieste di manodopera del Genio militare e la Prefettura ed I Comuni, a cui spettava l’onere della selezione. Gli operai assunti venivano, quindi, trasferiti sotto scorta in zona di guerra ed ivi impiegati nei lavori richiesti. Questi lavoratori venivano muniti di un bracciale di riconoscimento che non potevano togliersi; non potevano abbandonare il lavoro neppure sotto il fuoco nemico ed erano sottoposti a giurisdizione militare; venivano retribuiti e veniva loro dato vitto ed alloggio, avevano diritto, se ammalati, a prestazioni mediche. Questo riguardava, però, gli operai assunti con regolare contratto. Ma anche in Carnia avvenivano, da parte del genio militare, assunzioni fuori – norma, senza mediazioni.34 E spesso questi lavoratori erano ragazzetti. Infatti all’ epoca non si richiedeva a chi voleva esser assunto di avere più di 14 anni, ed una prima regolamentazione del lavoro minorile avvenne solo nel 1919.35 Giovani e giovanissimi friulani e veneti ma anche pugliesi e calabresi accorsero in massa a cercare lavoro nelle zone di guerra.36 La fame era grande e chi poteva cercava di occuparsi a qualsiasi condizione. E così le donne carniche andarono a fare le portatrici per il Regio Esercito Italiano invece che per i parenti ed il marito, sobbarcandosi ulteriori fatiche e rischi. E perde la vita Maria Plozner Mentil, sposa, e con il marito a combattere sul Carso, nonché madre di quattro figli da sfamare, colpita dal fuoco nemico sulla via per malga Promosio, mentre si è fermata per riposare; e si arrampicano sulle montagne con la gerla pesantissima: Rosalìa di Cleulis che è con Maria quando muore, Alberilla Rupil di Prato Carnico, , Virgilia Mazzilis di Tualis, Acerina Durighello di Paularo, Irma Casanova di Ravascletto, giovanissima, Caterina Zozzoli pure di Paularo, e tante altre.37 _______________________________________________________________________________________ «Caterina Zozzoli ricorda di essersi presentata presso l’Ufficio della Sussistenza di Paularo (…) sostenendo: ho forza, so portare la gerla, porto anche pesi», Alberilla racconta: « Sulla schiena avevo un gran peso, 30, 50 chili. Bisognava riposare ogni tanto. Nei boschi, quando portavamo su tavole di legno, queste ci sbattevano negli alberi e nei rami. Le strade erano brutte, bisognava stare attenti a non scivolare se il terreno non era asciutto.» « D’ inverno andavamo su nonostante la grande quantità di neve – narra Irma Casanova – La strada era impervia e pericolosa.» Irma Casanova di Ravascletto racconta che ha iniziato a lavorare a 14 anni, come portatrice. « Quando siamo andate a lavorare per i militari eravamo in tre sorelle. Io avevo 14 anni le altre 12 e 13 anni di età. Il peso del materiale ci faceva morire; la salita per le cime Taront, Pezzeit, Crostis era durissima. (…). Portavamo carta catramata, damigiane di vino, tutto quello che serviva ai militari (…). Andavamo su insieme in 8- 10 ragazze (…). A Ravascletto c’erano tantissime giovani che lavoravano per i militari e c’era anche qualche madre di famiglia. Eravamo tutte donne. Fra noi ragazze ci si aiutava, tutte dovevano arrivare in cima … una fatica da morire. (…). Le ragazze più stanche non potevano tornare indietro, dovevamo andare avanti fino a che non si concludeva il trasporto. (…) Prendevamo bei soldi, 5 centesimi quella volta erano qualcosa! » Sempre Irma Casanova dice che, giunte in cima con il carico, dopo 4 o 5 ore di cammino, « i soldati ci sgridavano, controllavano, facevano i pignoli, ci giudicavano, ci osservavano, chi aveva il fisico forte, chi era incerta e gracile… e poi controllavano i materiali per verificare se tutto il materiale arrivava a destinazione. Le ragazze lavoravano guidate, da un uomo, il capo.» Ed al controllo militare si univa l’ancor più temuto controllo parentale. 38 ______________________________________________________________________________________ Donne vennero impiegate anche in lavori rischiosi, a causa della mancanza di manodopera maschile. Virgilia Mazzilis faceva la portatrice di ghiaia che sarebbe servita per l’allargamento della strada, troppo stretta per far passare le artiglierie; maestranze femminili vennero impiegate come boscaiole, conduttrici di carri, nelle segherie, nella costruzione di strade, ed anche come artificieri nel taglio della roccia per la costruzione di strade, mulattiere, camminamenti. 39 « Nel corso del 1917 aumentarono notevolmente reclutamenti di manodopera femminile: se nel dicembre del 1916 le donne e le ragazze arruolate dal Segretariato Generale presso la Zona Carnia erano 1.192, durante l’estate del 1917 superarono le 4.000 unità, costituendo quasi la metà delle maestranze femminili impiegate su tutto il fronte.»40 Inoltre nei cantieri, sia per gli uomini che per le donne, mancavano pagliericci e tende, le condizioni igieniche erano precarie, vi erano gravi rischi di epidemie. E si lavorava con ogni condizione climatica: sotto la pioggia, le tormente di neve, esposti al vento ed a temperature ben sotto lo zero, con il pericolo di congelamento o di finire sotto una valanga. « Non è improprio affermare – scrive Matteo Ermacora – che questo impiego si risolse in un fenomeno di sfruttamento di ampie dimensioni, giustificato da una parte dalle esigenze belliche e dall’ altra dalla necessità delle maestranze di percepire un salario di sussistenza che comunque risultava inadeguato al crescente costo della vita.»41 Vi fu però anche chi, in Carnia, migliorò i suoi affari con la guerra, e fra questi vi fu la Cooperativa Carnica di Consumo, i cui massimi esponenti: Riccardo Spinotti e Vittorio Cella, socialisti riformisti, si erano schierati con gli interventisti. Vittorio Molinari. Donne carniche portatrici, forse di materiali per lavori. Da: Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi Cjargne Culture, 2007, p.42 « Il conflitto mondiale diede all’ azienda la possibilità di mettere a disposizione dell’ Esercito la sua organizzazione di magazzini e succursali distribuite nella regione, e di provvedere all’ approvvigionamento delle truppe in territorio di operazioni militari. (…). Soltanto il forno raggiunse la ragguardevole produzione di 80 quintali di pane al giorno. La Cooperativa Carnica di Consumo ottenne uno sviluppo notevole: i magazzini erano ricolmi di merce ed il giro delle vendite aveva raggiunto il tetto dei 5 milioni, tanto da far ritenere agli amministratori che sarebbe stato possibile realizzare (…) la distribuzione di alcuni generi di prima necessità (ai soci n. d. r.) al prezzo di costo.»42 Ma poi questa felice situazione si infranse con la rotta di Caporetto. L’invasione delle truppe austriache obbligò molte famiglie alla profuganza, ed anche le Cooperative Carniche si trasferirono a Bologna. Ultimo a lasciare la Carnia e Tolmezzo per Bologna, da quanto si sa, fu Vittorio Cella, con uno zaino pesantissimo pieno di documenti e numeri di La voce della Cooperazione, periodico diffuso dal gruppo cooperativo ai suoi soci.43 TERZA STORIA. PROFUGHI NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE. La guerra produsse, in tutta Europa, una miriade di profughi, più o meno volontari. Molti lasciarono anche la Carnia, molti il Friuli, famiglie intere abbandonarono casa e beni, per l’avanzare degli austriaci; ma la prima guerra mondiale creò flussi migratori anche da città del Veneto, della Venezia Giulia e nel Trentino. Dopo la rotta di Caporetto dell’ottobre 1917, seicentomila civili furono costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o minacciato da vicino dall’esercito austro-ungarico, dando vita alla più grande tragedia collettiva che interessò la popolazione durante la Grande Guerra. Anche l’Italia conobbe così, come gli altri paesi coinvolti nel conflitto, il fenomeno dei profughi di guerra, divisi dal dilemma se fuggire di fronte al nemico o subirne l’occupazione. Erano donne, vecchi e bambini, provenienti prevalentemente da città come Udine, Treviso e Venezia. 44 E le condizioni in cui si trovarono i profughi non furono delle migliori. « Una tragedia nella tragedia fu quella dei profughi civili (…). Durante la ritirata, oltre un milione di persone delle provincie di Udine, Treviso, Belluno, Venezia e Vicenza furono costrette ad abbandonare le loro case riversandosi nelle strade che conducevano alla pianura padana (…). Nonostante ciò il trasferimento di questa gente non fu programmato e aiutato (anzi, i comandi militari imposero di dare priorità alle truppe e ai mezzi militari, con requisizioni di mezzi civili e divieto di uso delle strade principali). Molti perirono durante la fuga, ad esempio a causa della piena dei fiumi che si trovarono ad attraversare lungo strade secondarie, e solo 270.000 riuscirono a porsi in salvo; gli altri ne furono impediti o dalla distruzione dei ponti o dal fatto che vennero semplicemente intercettati dagli austro-tedeschi. (…). I profughi vennero sistemati un po' in tutta Italia (…). Essendo sussidiati venivano accusati di essere un peso e di rubare il lavoro ai locali. Particolarmente difficile fu la situazione di chi venne inviato al sud.»45 Durante la prima guerra mondiale, inoltre, molti trentini furono fatti allontanare da città e paesi. «Circa 75.000 civili vennero evacuati e deportati dagli austro-ungarici, in campi profughi in Boemia, Moravia, in Alta e Bassa Austria e in Stiria (…). Per i trentini di estrazione sociale più elevata furono invece allestiti degli alloggi nel Tirolo del Nord e nel Salisburghese. Gli ordini di sgombero nella zona nera (Rovereto, Ala, Avio, Brentonico, Riva del Garda), dove si combatteva più intensamente, arrivarono con appena quarantott'ore di anticipo. I profughi trentini vennero sistemati nelle cosiddette città di legno (tra le maggiori quelle di Braunau e Mitterndorf), dove vissero in baracche in precarie condizioni igienico-sanitarie e patirono la fame. Soprattutto i bambini morirono di stenti. Dei 1.931 trentini deceduti nel campo di Mitterndorf dal giugno 1915 al dicembre del 1918, 875 (…) erano di età inferiore ai 10 anni.» 46 _______________________________________________________________________________________ Così descrive Romano Marchetti, allora bambino, la sua esperienza da profugo. «E si giunse alla disfatta di Caporetto ed alla successiva invasione austriaca. Anche la mia famiglia, come molte altre, decise di abbandonare il paese e rifugiarsi in luoghi più sicuri. E così, una mattina, ci raccogliemmo tutti intorno al grande tavolo costruito dal nonno, liberammo il lucherino dalla gabbia, caricammo le nostre cose su un carro e, dopo aver dato l’ultimo saluto ai parenti ed al paese, ci avviammo verso luoghi a noi sconosciuti. Il viaggio fu lungo e ricco di emozioni. (…). Attraversammo la Toscana e quindi, fra un mare di fichi d’India che costeggiavano la ferrovia e attiravano la mia attenzione, continuammo il nostro viaggio verso sud. Quei paesaggi, che si susseguivano dal finestrino del treno, colpivano la mia immaginazione di bambino e guardavo stupito quegli orizzonti nuovi che si aprivano al mio sguardo. Ricordo ancora il buio della galleria appenninica che lasciò poi spazio ad immagini mai viste e situazioni mai provate: un susseguirsi di alberi alti, argentei, sconosciuti, alla cui ombra persone, che mi apparivano piccole e lontane, consumavano il pasto raccolte intorno al desco; le tradotte dei soldati ed il frequente insulto: <Imboscato!>, lanciato da questi a qualsiasi maschio vedessero, anche se bianco di capelli; il catino dell’acqua elargito dal macchinista accondiscendente a mio padre, che si lavò a torso nudo nella ghiaia della massicciata; mio cugino Dino, carico di febbre, in braccio alla madre, alta e vestita di nero. Dal Nord, via Roma, raggiungemmo la Puglia, per sapere, poi, che il posto di lavoro di mio padre era stato modificato e che dovevamo ritornare in Emilia Romagna. (…). Finalmente il nostro peregrinare ebbe termine e ci stabilimmo a Bagnocavallo di Romagna. (…). Mi sovviene ancora quella prima notte in quel nuovo paese e la struggente nostalgia per Maiaso. (…). Comunque mi abituai ben presto al nuovo ambiente e trovai modo, come ogni bimbo che si rispetti, di continuare a combinare qualche marachella. Infine anche la guerra ebbe termine e ci incamminammo sulla via del ritorno. Percorremmo l’ultimo tratto di strada, fra Villa Santina e Maiaso, su di un carro tipo “Far West” ripieno di bagagli e racchiuso da un telo rotondo, sotto una pioggia insistente che ci accompagnò, nella notte.»47 _______________________________________________________________________________________ Poi i profughi tornarono , e, come già visto, iniziarono a litigare con i rimasti, anche a suon di denunce. Centinaia di migliaia di morti fra soldati e civili, vedove, madri senza figli, miseria,fame, profuganza, distruzione del tessuto sociale, furono il risultato delle mire espansionistiche di alcuni, del nazionalismo esasperato e dell’idealismo di altri. Ma erano ben pochi, rispetto a tutti quelli che soffrirono e morirono senza sapere il perché. Vietata la riproduzione. Copyright dell’ autrice. 1 COPPOLA Nunzio, Un professore al fronte. Diari di guerra e di prigionia, a cura di COPPOLA Giuseppe ed ERMACORA Matteo, Gaspari, 2011, pp. 9- 15. 2 MOLFETTA Domenico, Prolusione, in: AA.VV., In ricordo di Albino Candoni, Tolmezzo 1993,p.9. 3 Antonio Dal Zotto, figlio di Giovanni e da Rosa De Chiara, di origine carnica, nacque a Venezia, il 7 maggio 1841. Ancora fanciullo imparò a maneggiare lo scalpello nella bottega del padre marmista. Frequentò l'Accademia e,fin dai 16 anni iniziò a produrre opere di valore. Nel 1864, grazie ad una pensione del governo austriaco, poté soggiornare dai primi del gennaio 1866 a Roma, dove frequentò, in via Margutta, una scuola di nudo, per apprendere la copia dei corpi. Dopo la terza guerra d’ indipendenza rientrò a Venezia. Nel 1870 fu nominato professore di modello e di anatomia alla scuola d'arte applicata all'industria e nel 1879 passò all'Accademia di belle arti, dove insegnò per quarantacinque anni. Cominciò allora un'intensa e fortunata attività scultorea soprattutto di carattere celebrativo, commemorativo e sepolcrale. Nel 1880 eseguì il busto di Vittorio Emanuele II, collocato nell'atrio del municipio di Este; nello stesso anno realizzò la statua in bronzo di Tiziano Vecellio, inaugurata il 5 settembre a Pieve di Cadore. Nel 1883 venne posto in campo San Bartolomeo, a Venezia, il monumento considerato il suo capolavoro: quello relativo a Carlo Goldoni, ed ai primi anni ’80 dell ‘Ottocento risalgono altre sue opere prestigiose. Nel 1889 sposò Ida Lessiak, vedova del famoso fotografo Carlo Naya, donna bellissima e colta, che teneva nel suo palazzo in campo S. Maurizio un salotto frequentato da artisti e da intellettuali veneziani. Alla sua morte, nel 1893, Antonio Dal Zotto divenne l’erede del cospicuo patrimonio appartenuto alla moglie. Egli aveva un ampio studio a S. Vio, fondamenta Bragadin, dove teneva anche una collezione di marmi antichi, già raccolta da Carlo Naya. Nella "sala anatomica" conservava numerosi calchi in gesso (oggi in buona parte in deposito press o l'Accademia di belle arti di Venezia) soprattutto di volti, ch'egli nella sua passione per il vero andava eseguendo sui cadaveri. In quegli anni Dal Zotto ricoprì cariche pubbliche cittadine: fu consigliere comunale e membro della commissione d'ornato, e partecipò attivamente alla vita artistica e culturale della città. Dopo il successo dell'Esposizione nazionale del 1887, egli fu uno dei promotori e membro del comitato ordinatore della prima Esposizione biennale internazionale d'arte della città di Venezia, aperta non senza polemiche nel 1895. Intanto, continuava la sua produzione di opere, che si arricchì del bronzo del re Vittorio Emanuele II e del monumento al Doge Sebastiano Venier. Nel 1911 Antonio Dal Zotto lasciò l'insegnamento ufficiale all'Accademia per andare in pensione, ma poco dopo, non sapendo staccarsi dai suoi allievi, ritornò a prestare, senza compenso, la sua opera di maestro, fino al 1917. Allo scoppio della prima guerra mondiale, fu interventista. Dopo Caporetto, molti veneziani abbandonarono la città; non il Dal Zotto che, convinto della vittoria italiana, attendeva con passione al bozzetto di una grandiosa allegoria della guerra. Ma la mattina del 19 febbraio 1918, colto da malore improvviso, spirò. Il suo studio venne ereditato dal nipote, che però lo abbandonò, facendo in modo che il materiale contenuto venisse disperso. (Livia Alberton Livio, Vinco Da Sesso Vinco, Dal Zotto Antonio, Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 – 1986, in: www.treccani.it/enciclopedia/antonio-dal-zotto/ ). 4 MOLFETTA Domenico, op. cit. ,p p. 9- 11. 5 Secondo Domenico Molfetta Albino Candoni sposò, nel 1911, Rosina Ungar, donna elettissima (ivi, p. 11), secondo Licio Damiani, la carnica Rosina Unfer. (DAMIANI Licio, Riscoperta di uno scultore: Albino Candoni, in: www.friulinelmondo, 12- 1993). 6 La lettera integrale, manoscritta, è pubblicata su: AA.VV., In ricordo di Albino Candoni, Tolmezzo 1993, pp.38 – 41. 7 Albino Candoni ebbe due figlie: Luigia detta Gina ed Elisabetta, detta Lisute, amica della famiglia di Michele Gortani, che spesso si recava a trovare. 8 Albino Candoni, in: www.friul.net/dizionario_biografico. 9 Raimondo Tommaso D’Aronco, nacque nella frazione di Godo, comune di Gemona (Udine), il 31 ag. 1857, da Girolamo e Santa Venturini, primogenito di otto figli. Il padre, Girolamo, titolare di una fabbrica di marmi artificiali, fu progettista e costruttore, e lasciò ampliamenti ed opere, realizzate o solo progettate, in Friuli. I figli Quinto, Vigilio e Giobatta seguirono le sue orme e continuarono l'attività del padre. Raimondo, invece, Invece Raimondo frequentò prima la scuola di arti e mestieri della cittadina natale per due anni, poi fu portato dal padre a Graz, in Stiria, per far pratica nel mestiere di muratore. Nel 1874, diciassettenne, Raimondo ritornò in Friuli; e fu inserito nell'impresa paterna, seguendo però, autonomamente un percorso di scuola e lavoro. Al rifiuto del padre di lasciarlo frequentare una scuola politecnica, decise di allontanarsi dalla famiglia, entrando, come volontario, nel corpo del genio militare di stanza a Torino. Congedatosi, si iscrisse, nel novembre 1877, all'accademia di belle arti di Venezia. La prima attività progettuale, che affiancò all'insegnamento presso l'università di Messina (1886-92), mostra una disinvolta elaborazione degli stili storici (cimitero di Cividale, 1889). Nel 1893 si trasferì a Istanbul, dove fino al 1907 svolse un'intensa attività a servizio del governo ottomano e dell'alta società con progetti che vedono elementi della tradizione turca inseriti in schemi funzionali (Yildiz Sarayi, 1893-1900; scuola imperiale di medicina, 1895-1900). Momento importante fu la sua visita all'esposizione di Parigi del 1900, il suo incontro con Olbrich e la conoscenza delle esperienze secessioniste a Vienna. I suoi progetti e le realizzazioni successive rimangono tra le più felici espressioni del liberty, primo fra tutti il progetto per l'esposizione di Torino del 1902, eseguito con la collaborazione di A. Rigotti. Da ricordare, sempre a Torino, la sua casa in via Petrarca (1906) e, tra le opere a Istanbul, casa Botter sull'Istiklal Caddesi (1901), la residenza del ministro turco Memduh Pasa ad Arnavutköy (1903), il complesso con fontana, tomba e biblioteca per Seyh Zafir presso il parco Yildiz (1903-04), la residenza estiva dell'ambasciatore italiano a Tarabya (190506), oltre a numerose altre rimaste allo stadio di progetto o distrutte. Tornato in Italia, nella sua opera maggiore, il pal. comunale di Udine (1909-30), forse l'ufficialità della commissione suggerì un ritorno allo stile storico, lontano dalle novità di linguaggio che tuttavia connotano ancora opere come le case per il fratello a Tarcento (1910) e a Udine (1911), per la figlia, a Roma presso Trinità dei Monti (1917) e la chiesetta a Ribis, Udine (1923). Dal 1917 al 1929 insegnò all'istituto di belle arti di Napoli. Fu anche membro del Parlamento, con la destra, e nell ‘immediato dopoguerra sposò l’ irredentismo giuliano-dalmata ; dopo il 1922 dichiarò la propria adesione al fascismo, prendendone più tardi, nel 1929,almeno occasionalmente, le distanze. trascorse gli ultimi anni della sua vita come insegnate a Napoli. Lasciò l’insegnamento nel 1929 e morì a Sanremo nel 1932. (www.treccani.it/enciclopedia/raimondo-d-aronco/). 10 DAMIANI Licio, Riscoperta di uno scultore, op. cit.. 11 Ivi. 12 Ivi. 13 La breve relazione è firmata solo A. Molinari, ma ritengo che si tratti del caporale Antonio Molinari, citato in: PRIMUS Isidoro, Ricordi di guerra, in: : AA.VV., In ricordo di Albino Candoni, op. cit., p. 61. 14 Il Monte Gardinal , che ora viene chiamato Cardinal, è una delle cime che dominano la Val di Sadole, nel gruppo dei Lagorai, nel Trentino orientale, e rappresenta anche oggi una sfida difficile ed impegnativa, per l’alpinista. Busa Alta è il nome di una cima che lo dà poi alla Forcella sottostante. Il ponte di Serra, la val Cismon, Fonziaso e la val Brenta indicano la via di discesa e ritirata del gruppo verso il Grappa. Si chiama Ponte Serra una località in comune di Lamon e provincia di Belluno, ove fu costruita, fra ‘800 e ‘900, una diga (cfr. www.recuperanti.it/museo06_ieri-oggi_3.php). La Val Cismon attualmente viene chiamata Valle di Primiero e ivi si trova San Martino di Castrozza. Anche Fonzaso si trova in provincia di Belluno , ad ovest di Feltre. La val Brenta è solcata dal fiume che le dà il nome, ed attualmente fa parte del parco naturale dell ‘Adamello Brenta. 15 Trattasi del Monte Solarolo, alto 1676 metri, una delle cime dei "Solaroli", e una delle numerose cime sulla cresta che dal Monte Valderoa porta alla cima del Monte Grappa. Questa divide due importanti valli del Massiccio, la Valle delle Mure che, scendendo diventa la Valle del torrente Calcino (Alano di Piave) e la Valle di Seren del Grappa, sul territorio del basso Feltrino al confine con i comuni trevigiani della pedemontana del Monte Grappa. (it.wikipedia.org/wiki/Monte_Solarolo). 16 Paderno d’ Asolo è l’attuale Paderno del Grappa. La cittadina fu chiamata Paderno fino nel 1867, Paderno d'Asolo del 1867 a 1920, e Paderno del Grappa dal 1920. (www.venarbol.net/it/chronique.../paderno-del-grappa-et-fietta ). 17 Fietta, frazione dell’ attuale Paderno del Grappa, posta sotto il Monte Grappa. Qui venne sepolto Albino Candoni. 18 In effetti la richiesta all’ Onorevole Michele Gortani, Deputato al Parlamento, di ricordare Albino Candoni, firmata dal Tenente Colonnello Tessitore, Comandante il Battaglione Monte Arvenis, è datata Zona di Guerra, lì 26 giugno 1918. L’originale della lettera si trova presso l’isis F. Solari. 19 L’originale della lettera si trova presso l’ isis F. Solari. 20 PRIMUS Isidoro, Ricordi di guerra, in: : AA.VV., In ricordo di Albino Candoni, op. cit., pp. 55 – 67. 21 Ivi, pp. 64 e 67. 22 L’edificio di cui si parla, sede della scuola professionale e del museo, è quello che ora ospita la scuola elementare o primaria che dir si voglia di via Dante. Par di capire che anche l’attuale via della Cooperativa si chiamasse allora via Lequio. 23 Da: “A Tolmezzo. Il gagliardetto ai combattenti. La commemorazione. S’inaugura la nuova sede della scuola prof. e del museo”, in: La Patria del Friuli, 5 novembre 1921. 24 Lettera datata 16 gennaio , in: CASTELLINI Gualtiero, Tre anni di guerra, in: AA.VV., In ricordo di Albino Candoni, op. cit. , p. 72. 25 La Val Calcino è una valle, percorsa dal torrente omonimo, che si trova nella parte orientale del Massiccio del Monte Grappa. Essa si incunea fra i monti Spinoncia, Zoc, Madal ed i dirupi che scendono dai pascoli di Valderoa, Tas o Sas e del Colle Fornel. (valcalcino.blogspot.com/ ). Romano Alto è una frazione del comune Romano di Ezzelino, in provincia di Vicenza. 26 PRIMUS Isidoro, Ricordi di guerra, op. cit. p. 60 - 63. 27 ERMACORA Matteo, I minori al fronte della grande guerra. Lavoro e mobilità minorile, Il Calendario, rivista mensile di cultura, numero monografico, Teti ed., gennaio 2004. 28 Ivi, p. 5. 29 Ivi, p.6. 30 Ivi, p.7. www.treccani.it/enciclopedia/genio. 32 Cfr. Il Segretariato Generale per gli Affari Civili, in: La Grande Guerra 1914- 1918 sul Carso e sul fronte dell’Isonzo, in: www.grandeguerra.ccm.it. 33 www.treccani.it/enciclopedia/genio. 34 ERMACORA Matteo, I minori al fronte, op. cit., pp.8- 9. 35 Il primo trattato in materia di lavoro minorile risale al 1919. Trattasi della Convenzione n° 5 sull’età minima per l’accesso al lavoro nell’industria, che fissava a 14 anni l’età minima per l’assunzione nel settore industriale. Questo documento rappresenta la prima regolamentazione internazionale in merito alla partecipazione dei bambini al mondo del lavoro ed aveva un campo di attuazione limitato. (www.volint.it/areavolint/educazione/...minori/lezione6.htm). 36 Cfr. sull argomento: ERMACORA Matteo, I minori al fronte, op. cit.. 37 I nomi delle portatrici sono tratti da: ERMACORA Matteo, I minori al fronte, op. cit., p. 42- 47. 38 Ivi, pp. 42- 45. 39 Ivi, pp. 45- 56. 40 Ivi, p. 45. 41 Ivi, p. 47. 42 PUPPINI Laura (Matelda), Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le Cooperative Carniche 1906- 1938, Gruppo Gli Ultimi, 1988, pp. 63- 64. 43 Ivi, p. 64. 44 Dalla presentazione del volume: CESCHIN Daniele, Gli esuli di Caporetto, La Terza 2006, in: www.laterza.it/ 45 it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Caporetto. 46 it.wikipedia.org/wiki/Esodo_dei_trentini 47 MARCHETTI Romano, Da Maiaso al Golico dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel ‘900 italiano, (a cura di Laura Matelda Puppini) ifsml e kappavu ed. 2013, pp. 29- 31. 31