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Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello

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Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
Verso la maniera
moderna: da
Mantegna a Raffaello
di Giovanni Romano
Storia dell’arte Einaudi
1
Edizione di riferimento:
in Storia dell’arte italiana, II. Dal Medioevo al Novecento, 6. Dal Cinquecento all’Ottocento, tomo I. Cinquecento e Seicento, a cura di Federico Zeri, Einaudi, Torino 1981
Storia dell’arte Einaudi
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Indice
1. Lo Studiolo di Isabella d’Este: Mantegna,
Bellini, Perugino
2. Lo Studiolo di Isabella d’Este: problemi
di iconografia
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Storia dell’arte Einaudi
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1. Lo Studiolo di Isabella d’Este: Mantegna, Bellini,
Perugino.
La grande quantità di nuove informazioni accumulate
intorno allo studiolo di Isabella da Egon Verheyen, Silvie
Béguin, Phyllis Williams Lehmann e Clifford M. Brown
consentono oggi di affrontare senza troppe esitazioni questa iniziativa emblematica della cultura cortigiana tra la
fine del Quattrocento e i primissimi anni del secolo successivo1. Manca ancora un repertorio esaustivo della sterminata corrispondenza in proposito, ma anche solo a ripercorrere il materiale reso noto dagli interventi pionieristici
di Alessandro Luzio e Rodolfo Renier si riesce a leggere
bene il costante e testardo sforzo di aggiornamento culturale cui Isabella d’Este si sottopose per adeguare i temi iconografici e le presenze pittoriche al fronte d’avanguardia
autorizzato dall’élite letteraria del momento.
Come parte in causa e protagonista riconosciuta di
quell’avanguardia il suo coinvolgimento sarà totale, non
meno della sua adesione ai principî e allo stile cortigiano, cosí da lasciarsi sfuggire che quella diffusa fioritura
inizia presto a cedere il campo; si troverà infine emarginata rispetto alla nuova ondata delle mode intellettuali
(e alla nuova unificazione ideologica) e vedrà il suo astro
tramontare tra le piú velenose polemiche e gli oroscopi
infamanti dell’Aretino.
Storia dell’arte Einaudi
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
Di uno studiolo in castello per la giovanissima sposa
di Francesco Gonzaga si ha notizia dal novembre 1491,
a poco piú di un anno e mezzo dal matrimonio, ma la
decorazione iniziale sembra ridursi alle imprese di casa
Gonzaga eseguite dal pittore Luca Liombeni2. Pochi
mesi piú tardi, il 4 marzo 1492, Giacomo Calandra assicura Isabella che il Mantegna contribuirà alla decorazione dello studiolo e finalmente, nel luglio 1497, il
primo dipinto sarà fissato alle pareti (si tratta con tutta
probabilità del cosiddetto Parnaso). A questa data Isabella sembra aver già preso contatto con altri pittori per
completare l’impresa, esattamente con Giovanni Bellini (lettera di Alberto da Bologna del 26 novembre 1496)
e con il Perugino (lettera a Lorenzo da Pavia del 3 aprile 1497). Non possono essere scelte casuali, per quanto
Isabella sia poco piú che ventenne; la sua pronta intelligenza e la sua ampiezza di informazioni, che gli archivi documentano giorno per giorno, non consentono margini all’improvvisazione; tocca alla ricerca storica ricostruire per successive deduzioni i motivi di quell’orientamento, di quell’accorta strategia di committenza.
Con la famiglia dei Bellini i Gonzaga sono in contatto
almeno dal 1493 e, per quanto a quegli anni non lo si
faccia notare troppo, Gentile, Giovanni e Niccolò Bellini restano pur sempre i cognati del Mantegna3. È naturale che Isabella fosse ben informata sulle opere pubbliche di Giovanni Bellini a Venezia dalla famiglia Cornaro e dai suoi corrispondenti veneziani, cosí da riconoscere il suo successo ufficiale alla ripresa dei lavori
nella Sala del Maggior Consiglio e nella Scuola Grande
di San Marco (1492); con assoluta certezza aveva poi
avuto notizia anche delle opere private, assai piú adatte al suo gusto collezionistico. Scrivendo all’amica Cecilia Gallerani a Milano, in data 26 aprile 1498, Isabella
mostra di avere avuto in visione «certi belli retracti de
man de Zoanne Bellino» che vorrebbe confrontare con
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
un esemplare di Leonardo da Vinci ritrattista: difficile
dire se per confermare a se stessa una radicata preferenza, o se per il sospetto che fosse sorto all’orizzonte
un nuovo astro della ritrattistica sul quale assumere tempestive informazioni; per parlar chiaro la Gallerani
risponderà che, quanto alla bravura di Leonardo, «non
se truova un paro»4. Ma non bastavano a Isabella tanto
conclamate qualità figurative, se non autorizzate da un
elogio letterario, e nel caso del Bellini il problema si fa
difficile. Non si può infatti utilizzare il sonetto O imagine mia celeste e pura di Pietro Bembo, perché dei primissimi anni del Cinquecento, ma forse erano giunte alle
orecchie della marchesa le composizioni poetiche in elogio del pittore che Niccolò Liburnio riunirà ad altre
cose sue, nel 1502, sotto il titolo seducente di Opere gentili et amorose5. Il sospetto si basa sul fatto che il Liburnio dedicherà proprio a Isabella la sua seconda raccolta
letteraria (le Selvette del 1513, ricordate nell’inventario
dei libri della marchesa).
Sul Mantegna non occorre sostare, dopo le pagine di
apertura sul dono di una casa da parte di Francesco
Gonzaga e sulla Cronaca di Giovanni Santi, mentre è
opportuno riflettere sulla scelta del Perugino; anche in
questo caso il repertorio della Cronaca urbinate ci può
essere di aiuto, come fu di verosimile guida a Isabella6.
Dei due coetanei, Leonardo e Perugino, solo questo
secondo è «un divin pictore», a conferma di una gerarchia che vale per il grande pubblico almeno fino ai cartoni per la Sant’Anna e per la Battaglia di Anghiari. Gli
altri fiorentini del momento (Ghirlandaio, Filippino
Lippi e Botticelli) corrono via senza riconoscimenti particolari, salvo la giovane età del Lippi junior, e solo con
Luca Signorelli ritornano attributi qualificanti («Luca de
ingegno et spirto pellegrino»), non credo solo per le esigenze di una versificazione un poco chiacchierina. Sulla
memoria del Santi forse agiva ancora la prestigiosa com-
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
missione al Signorelli di un affresco nella Cappella Sistina, ma l’effetto doveva essere minore sulla mente insofferente di Isabella d’Este. Che del resto la voce corrente favorisse il Perugino e non il Cortonese si constata al
momento in cui il Signorelli verrà chiamato per la sua
impresa piú impegnativa; voglio dire gli affreschi nel
Duomo di Orvieto (cappella di san Brizio) che, come è
noto, erano stati prima offerti al Perugino, dichiaratosi
però indisponibile. Anche da Venezia, per quanto sede
non molto ospitale per i pittori di altre regioni, venivano ottime commendatizie sul maestro umbro. I documenti raccolti dal Canuti e riesaminati dal Ballarin lo
confermano presente in città nell’estate del 1494 e nell’autunno del 1495, per una impresa di grande importanza, in quella stessa Sala del Maggior Consiglio, a
Palazzo Ducale, cui già si è accennato per Bellini7. Non
credo esista segno di stima piú invidiabile per un pittore quattrocentesco, cresciuto in una Italia ancora compattamente gravitante intorno alle piccole corti, alle sue
città commerciali, ai grandi santuari religiosi e alle università. È il segno vistoso che anche la cultura figurativa, fuori delle strette corporative, si adegua alla circolazione di novità, di mode, di motivi formali, di costumi intellettuali imposta dai letterati cortigiani in continuo e turbinoso avvicendarsi intorno alle corti, e magari anche attorno ai piú promettenti empori editoriali. Il
primato di Perugino va letto per questo verso tanto nei
suoi estremi settentrionali (Pavia, Cremona, Bologna,
ovviamente Venezia) quanto in quelli meridionali (naturalmente la pala commessa da Oliviero Carafa per il
Duomo di Napoli, ormai sulla metà del primo decennio
del Cinquecento) e abbiamo la fortuna di poterne seguire l’affermazione quasi in presa diretta, attraverso le
fonti contemporanee.
Forse il documento piú curioso è la serie di distici che
il notaio Pier Domenico Stati scrisse a commento del
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
contratto per l’altar maggiore della chiesa di Santa Maria
Nova a Fano (21 aprile 1488), quasi un esaltante peana,
affine a certe iscrizioni medievali dedicate a grandi
architetti o scultori: «Pictor in Italia tota qui primus
haberis / Petreque qui primus pictor in orbe manes / [...]
Optimus et primus pictor iam Petrus in orbe...»8. Meno
curiosa, in quanto meno assoluta, ma certo piú significativa nella sua relatività è la nota informazione a Ludovico il Moro circa i migliori pittori contattabili a Firenze per certe opere da eseguire alla Certosa di Pavia:
Sandro de Botticello pictore excellen.mo in tavola et in
muro: le cose sue hano aria virile et sono cum optima ragione et integra proportione. Philippino di frati Philippo optimo: discipulo del sopra dicto et figliolo del piú singurale
maestro di tempi suoi; le sue cose hanno aria piú dolce, non
credo habiano tanta arte. El perusino maestro singulare, et
maxime in muro; le sue cose hano aria angelica, et molto
dolce. Domenico de Grilandaio bono maestro in tavola et
piú in muro; le cose sue hano bona aria et è homo expeditivo, et che conduce assai lavoro. Tutti questi predicti maestri hanno facto prova di loro ne la capella di papa Syxto
excepto che Philippino. Ma tutti poi all’Ospedaletto del
M.co Laur.o et la palma è quasi ambigua9.
In verità la palma era contesa al Perugino dal solo
Filippino Lippi, e furono infatti impegnati ambedue per
la Certosa pavese. Fuori di Firenze però il confronto era
tutto a favore del Perugino, nonostante le teste di ponte
di Filippino a Genova e a Bologna; lo ricaviamo dagli
elogi del Maturanzio per la pala di San Pietro a Perugia
(1495-99) e da una lettera di Agostino Chigi al padre
circa una pala per Sant’Agostino a Siena (7 novembre
1500)10 – Isabella poteva pertanto sentirsi in piena ragione nell’insistere con Bellini e con Perugino, quanto mai
renitenti, per avere un loro dipinto nello studiolo: erano,
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
col Mantegna, i pittori universalmente riconosciuti al
vertice della graduatoria figurativa quattrocentesca.
Dopo la fortuna sopraregionale di Giotto, lo studiolo mi
sembra il primo caso di un discorso figurativo a raggio
nazionale, in una Italia ancora frammentata politicamente, e soddisfatta di esserlo. Non altrettanto ci si
poteva compiacere per le disparità linguistiche e ne ferveva già un vivissimo dibattito tra i letterati a proposito di un coordinamento unitario, almeno sul fronte della
lingua usata nelle corti (quel dibattito stava aprendo la
via anche agli artisti).
Dal nostro punto di vista sorprende l’impopolarità di
Leonardo, su cui gravavano una certa marginalità culturale della corte milanese, soprattutto dopo la morte di
Beatrice d’Este, l’impegno non letterario ma tecnicoscientifico del maestro, e la rarità di opere circolanti
sotto il suo nome11. Persino l’Ultima Cena alle Grazie di
Milano stenta ad emergere tra i contemporanei come
primo capolavoro della maniera moderna, in anticipo
indubbio su Michelangelo e su Raffaello, mentre i pochi
ritratti venivano per lo piú gelosamente riservati. Può
cosí capitare che nello Speculum lapidum di Camillo
Lunardi, uscito a Venezia nel 1502 con dedica a Cesare
Borgia, Leonardo non sia ricordato tra i maggiori pittori del momento, proprio lui che stava per contattare il
Borgia e mettersi al suo servizio (ma come architetto militare). Sono invece privilegiati i pittori scelti da Isabella,
con una certa propensione ancora per Mantegna:
Penicillo quoque qui praestantior Ioanne Bellino Veneto ac Petro Perusino qui adeo hominum imagines, animallum quoque ac rerum omnium pingunt, ut solo spiritu carere videantur? Inter antiquos celeberrimus fuit Zeusis [...].
Fuere et Protogenes et Apelles [...]. Non minori et admiratione Italia nostra virum celeberrimum habet, qui ob eius
excellentiam inaurati militis ordine annumeratus est,
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
Andream Patavinum cognominatum Mantegnam qui omnes
regulas ac pingendi rationes posteris aperuit, et non solum
penicillo omnes excedit, verum etiam arrepto calamo seu
carbone extinto in ictu oculi hominum aetatum ac diversorum animallum veras imagines ac effigies diversarumque
nationum habitus, mores ac gesta figurat, ut quasi se movere videantur. Hunc non solum modernis, sed antiquis praeferendum esse censeo12.
Nello stesso 1502 Isabella d’Este riprende i contatti
col Perugino tramite Francesco Malatesta e rinuncia al
quadro del Bellini su cui aveva per lungo tempo contato; si direbbe che i due fatti siano interdipendenti perché tanto la lettera a Francesco Malatesta quanto quella a Michele Vianello per Bellini sono datate 15 settembre. Da non molti giorni era stato collocato nello studiolo il secondo dipinto del Mantegna (credo la Minerva che caccia i Vizi), a giudicare dal fatto che solo il 31
luglio era arrivata da Venezia la vernice necessaria. Mantegna lavorerà ancora a un terzo dipinto (o almeno al suo
modello) con il regno di Como, ma Isabella teme di non
poter piú contare molto su questo diligente settantenne,
che pur ha prodotto con la Minerva uno dei suoi piú alti
capolavori. Basterebbe il bellissimo volto spirante del
centauro, circondato da una peluria di alghe chiare, o il
gruppo degli amorini in volo, di una misura involontariamente raffaellesca, o le montagne frananti, le nuvole
antropomorfe, la vegetazione malata dell’acquitrino a
convincerci che Mantegna è poeticamente ancora in
grado di reggere i confronti piú esigenti. Già si è visto
l’eccellente risultato del fregio Corner e non meno raffinata e sensibile mi pare la mano che con feroce diligenza ha strizzato la sciarpa a frange che cinge il San
Sebastiano della Ca’ d’Oro13. Il dipinto non ha mai avuto
grande fortuna, ma andrebbe tenuto conto del fatto che
la finitura del volto non è autografa. Il fitto macerarsi
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
dei panni in pieghe taglienti e come fissate dal gelo sembra il corrispettivo metaforico del Mantegna alla macerazione sentimentale del Perugino. Una lucida risposta
tutta dentro il problema dello stile, che però ormai pochi
si impegnavano ad accogliere e gradire; il dissidio si era
fatto radicale e si avviava a minacciare lo stesso contenuto morale e allegorico dello studiolo.
2. Lo Studiolo di Isabella d’Este: problemi di iconografia.
[A] La poetica nostra inventione, la quale grandemente
desidero da voi esser dipinta, è una batagla di Castità contro di Lascivia, cioè Pallade e Diana combattere virilmente contro Venere e Amore. E Pallade vol parere quasi de
avere come vinto Amore, havendoli spezato lo strale d’oro
et l’arco d’argento posto sotto li piedi, tenendolo con l’una
mano per il velo che il cieco porta inanti li ochi, con l’altra
alzando l’asta, stia posta in modo di ferirlo. Et Diana al
contrasto de Venere devene mostrarsi eguale nella vittoria;
et che solamente in la parte extrinsecha del corpo come ne
la mitra e la girlanda, overo in qualche velettino che abbi
intorno, sia da lei saettata Venere; et Diana dalla face di
Venere li habbia brusata la veste et in nulla altra parte sian
fra loro percosse. Dopo queste quatro deità, le castissime
seguace nimfe di Pallade e Diana habbino con varii modi e
atti, come a voi piú piacerà, a combattere asperamente con
una turba lascivia di fauni, satiri et mille varii amori. Et
questi amori a rispetto di quel primo debbono essere piú
picholi con archi non d’argento, né cum strali d’oro, ma piú
di vil materia come di legno o ferro o d’altra cosa che vi
parrà.
[B] Et per piú expressione et ornamento della pittura
dallato di Pallade li vuol esser la oliva arbore dedicata allei,
dove lo scudo li sia riposto col capo di Medusa, facendoli
posare fra quelli rami la civetta, per essere ucciello proprio
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di Pallade; dallato di Venere si debbe farli el mirto, arbore gratissima allei.
[C] Ma per maggior vaghezza li vorebbe uno acomodato lontano, cioè uno fiume overo mare dove si vedessero
passare in sochorso d’Amore, fauni, satiri et altri amori, e
chi di loro notando passare el fiume e chi volando, e chi
sopra bianchi cigni cavalcando, se ne venissero a tanta amorosa impresa. E sopra el lito del detto fiume o mare Jove
con altri iddei, come nemico di castità, trasmutato in tauro
portasse via la bella Europa, e Mercurio, qual aquila sopra
preda girando, volasse intorno ad una nympha di Pallada
chiamata Glaucera, la qual nel braccio tiene un cistello ove
sono li sacri della detta iddea; e Polifemo ciclope con un
solo occhio coresse diretro a Galatea, et Phebo a Daphne
già conversa in lauro, ci Pluton, rapita Proserpina, la portasse allo infernale suo regno, et Neptuno pigliasse una
nimpha e conversa quasi tutta in cornice...
[D] Ma parendo forse a voi che queste figure fussero
troppe per uno quadro, a voi stia di diminuire quanto vi
parerà, purché poi non li sia rimosso el fondamento principale, che è quelle quatro prime, Pallade, Diana, Venere,
et Amore. Non accadendo incomodo mi chiamerò satisfatta sempre; a sminuirli sia in libertà vostra, ma non agiugnierli cosa alcuna altra.
Cosí recita l’istruzione di Isabella d’Este acclusa al
contratto col Perugino del 19 gennaio 1503 per un dipinto che le verrà consegnato solo nel 1505; all’istruzione
era unito anche un disegno con tutti i particolari che,
sfortunatamente, non è stato ancora reperito14. Per maggiore chiarezza il testo è qui riprodotto con un piccolo
restauro sui capoversi, per distinguere quanto appartiene alla «poetica [...] invenzione» nel suo «fondamento
principale» [A e C], da quanto va inteso solo come ausilio «per piú expressione et ornamento» [B], e da quanto rientra nel campo facoltativo della «vaghezza» [C e
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
D]. Su questa lezione di iconografia umanistica dobbiamo basarci per intendere anche gli altri dipinti dello studiolo, misurandone l’aderenza o meno al suo semplice
schema. Ovviamente i conti tornano benissimo con la
Battaglia di Castità contro Lascivia (che Perugino ha disinvoltamente ricalcato sulla Battaglia di ignudi del Pollaiolo) e tornano altrettanto bene con il cosiddetto Regno
della Poesia (o della Musica) del Costa che, commesso sul
finire del 1504, verrà consegnato due anni dopo: per
ambedue i dipinti il suggerimento iconografico si deve
a Paride da Ceresara. I conti non tornano affatto con i
due dipinti del Mantegna, dove «invenzione», «expressione» (cioè attributi per individuare meglio il soggetto) e «vaghezza» sono intrecciati in modo indissolubile, e dove non esiste un secondo piano popolabile a piacere. In una situazione intermedia si colloca il secondo
dipinto del Costa, dedicato al dio Como, da datarsi sul
1511, solo con qualche margine di incertezza. Basti per
ora dire che sul tema del dio Como si era già esercitato
lo stesso Mantegna, preparando un terzo dipinto per lo
studiolo poi non eseguito, e che con tutta verosimiglianza il Costa si ispirò a quel disegno per il primo piano
del dipinto, riservandosi invece il fitto paesaggio sulla
sinistra e l’arrivo di Arione dal mare, con altri come lui
cavalcanti sulle onde15.
Non abbiamo notizie su chi suggerí al Mantegna i
temi iconografici dei suoi contributi allo studiolo (Como
compreso) ed è molto probabile che, su una «poetica [...]
invenzione» di Isabella d’Este riguardante il significato
d’insieme della decorazione, Mantegna abbia fatto da sé.
Non mi pare sia possibile leggere diversamente la sua lettera del 13 maggio 1506 a Isabella stessa: «Ho quaxi fornito de designare la instoria de Como de Vostra Ex.
quale andarò seguitando quando la fantasia me adiuterà». A supporto vengono le perplessità, vere o false
che fossero, del Bellini circa il porre un suo dipinto a
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fianco di quelli del cognato. Se Bellini poteva essere un
poco in malafede non lo era Lorenzo da Pavia, pratico
del mondo degli artisti, e non solo veneziani (è amico
anche del Perugino e di Leonardo). Le sue lettere sono
univoche sulla eccellenza del Mantegna in fatto di invenzioni: «ben è vero che de invencione non se po andare
apreso a m. Andrea ecelentisimo...» (6 luglio 1504);
«de invencione nesuno non po arivare a m. Andrea
Mantegna che invero l’è ecelentisimo e el primo, ma
Giovane Belino in colorire ecelente...» (16 luglio 1504);
«io per me non spero maie vedere el piú belo desegnatore e inventore...» appena ricevuta la notizia della
morte del Mantegna; di rimando Isabella si lascia andare a un commento senza troppa commozione, e forse un
poco denigratorio, ormai cosciente che la testimonianza figurativa e culturale del Mantegna apparteneva a un
mondo tramontato: «... siamo certe che de la morte de
m. Andrea Mantegna habiati preso dispiacere per esser
mancato alli pari vostri un buon lume» (ambedue le lettere sono del 16 ottobre 1506)16.
Proviamo a verificare anche il problema dell’«invenzione» alla luce delle fonti contemporanee, ad esempio
sul De sculptura di Pomponio Gaurico. Tra le molte
banalità raccolte nell’ambiente padovano dal suo petulante autore ventenne, vi leggiamo che la competenza
letteraria è assolutamente d’obbligo per un artista, e
che lo scultore deve essere
antiquarium quoque, qui sciat, cur verbigratia Mars apud
Romanos duplex, Gradivus et Quirinus, alter in Campo olim
extra, alter in foro intra urbem colebatur, cur et Venus apud
Lacedemonios armata, apud Archadas nigra, apud Cyprios
barbata virili sceptro, muliebrique ornatu, ecc. ecc.17.
Giusto la competenza che Mantegna si era guadagnata frequentando gli amici «antiquarii», magari leg-
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
gendo il Polifilo dell’«antiquario» Francesco Colonna,
rilevando epigrafi e raccogliendo taccuini di disegni,
collezionando oggetti antichi da rianimare nel corso
della sua attività di pittore non meno «antiquario» dei
suoi compagni di gita sul lago di Garda: nella testa della
Venere cacciata dal giardino delle Virtú è facile riconoscere i tratti della sua «cara Faustina de marmo anticha»
(lettera a Isabella del 13 gennaio 1506)18.
Per chi ancora non si fosse convinto si può condurre
una verifica su una famosa incisione doppia uscita dalla
bottega del Mantegna e preparata da un suo splendido
disegno al British Museum, intendo l’Allegoria della
Virtú (Hind, V 22) di cui una serie di precise ricerche
ha potuto ricomporre l’albero genealogico: a partire da
alcuni versi del raro Pacuvio, per la figura dell’Ignoranza cieca e deforme seduta su un globo, fino alla Tabula
Cebetis, un dialogo di origine greca amatissimo dal
nostro Rinascimento, per le figure restanti (una verifica incrociata viene da un noto quadro di Leombruno,
nella Pinacoteca di Brera, che intreccia la Tabula con La
calunnia di Apelle)19. Non è però ancora stato collegato
all’incisione un manoscritto della Nazionale di Roma che
contiene la Cebetis Tabulae interpretatio desultoria di Giovanni Battista Pio con dedica a Isabella d’Este, da giudicare un probabile lavoro mantovano, prima del passaggio del Pio alla corte di Ludovico il Moro (1497) e
poi a quella dei Bentivoglio bolognesi (1500). L’attività
editoriale milanese del Pio è nota (prima Varrone,
Nonio, Festo, Apicio, Fulgenzio, Sidonio insieme, poi
Plauto), e cosí caratteristica, nella rarità delle scelte in
zone marginali o arcaiche della classicità, da farci capire che cosa intendesse Ercole Strozzi quando, nel 1496,
lo presentò ad Isabella d’Este come possibile precettore: «La imparerà piú vocabuli exquisiti in uno mese da
epso che la non farà in tri da un altro». Incontreremo
ancora questo personaggio a Roma, al tramonto della sua
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
carriera; ora, tra Ferrara, Mantova e Milano, la sua filologia innamorata di testi rari, di zone recondite del latino, di «vocabuli exquisiti» serve a gettar luce sui temi
«exquisiti» del Mantegna20.
La ricerca sulle fonti letterarie per le opere del maestro mantovano è purtroppo ancora agli inizi, ma speriamo che presto qualcuno sciolga almeno il nodo che
lega le incisioni con la Battaglia degli dei marini, il passo
della Naturalis historia di Plinio su un’opera di Scopa con
tritoni e nereidi e la decorazione della «spectatissima
porta» del tempio esplorato da Polifilo in sogno:
piena concinnamente di aquatici monstriculi nell’acqua
simulata et negli moderati plemmyruli semihomini; et foemine, cum spirate code pisciculatie, sopra quelli appresso il
dorso acconciamente sedeano, alcune di esse nude,
amplexabonde gli monstri cum mutuo innexo; tali tibicinarii, altri cum phantastici instrumenti, alcuni tracti, nelle
extranee bige sedenti, dalli perpeti delphini, dil frigido
fiore di nenufaro incoronati, tali vestitose di le proprie
foliacie; alcuni cum multiplici vasi di fructi copiosi et cum
stipate copie; altri cum fasciculi di achori et di fiori di
barba silvana mutuamente si percotevano; tali erano cinti
di trivuli; l’altra parte sopra gli hippopotami aequitanti luctavano, et altre diverse belve et invise cum protectione
chilonea; et qui dava opera ad la lascivia, et qui a iochi varii
et feste21.
Gli studi recenti sullo studiolo hanno sostato con
particolare compiacimento sulle intricate iconografie
mantegnesche leggendo in trasparenza la sorprendente
miscela tanto di testi medievali (Mitologiae di Fulgenzio,
Psychomachia di Prudenzio, Genealogia Deorum del Boccaccio, Trionfi del Petrarca) come di testi classici, conosciuti non sempre direttamente: dai Fasti di Ovidio alle
sterminate Dionisiache di Nonno, alle Immagini di Filo-
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
strato Lemnio voltate in latino da Demetrio Mosco e in
italiano da Mario Equicola (nella dedica a Isabella del
codice di Parigi l’Equicola, le giudica «degne di la tua
aurea grocta»). Poco si può aggiungere, in specie sul Parnaso, cosí minutamente decodificato dalla Williams Lehmann, salvo modificare l’angolo di visione e tentare di
sorprendere il defluire di quelle iconografie anche al di
fuori dello studiolo, quasi fossero esempi cui adeguare
il proprio comportamento quotidiano, non diversamente dalle imprese vere e dagli emblemi che costellavano
gli appartamenti Este-Gonzaga: i polizzini legati, il crogiolo, il silenzio, il candeliere, il XXVII, ecc.
Un accenno al Parnaso può essere anche generico,
poco piú che un luogo comune, ma è tale l’insistenza sul
motivo da far credere che faccia parte di un elegante
gioco per allusioni. Isabella, da poco sposa, ma già nota
come munifica protettrice di letterati, viene definita
dal riminese Francesco Roello «doctissima, che è stata
al monte Parnaso et a la fonte Pegasea [...] tucta dedita a le Muse» (quasi il «fondamento principale» del Parnaso ancora di là da venire). Quando invece la splendida allegoria del Mantegna ha trovato posto sulle pareti
dello studiolo ecco Galeotto Del Carretto, da Casale
Monferrato, inviarle dei componimenti poetici pur
sapendo come «habia tutta la achademia di Parnasso in
questa inclita cità di Mantova» (15 aprile 1498). Ancora piú appropriatamente scrive da Verona Bernardo
Bembo, padre di Pietro, in una lettera a Francesco Gonzaga del 2 settembre 1502:
... per Marco Cantore vostro familiare et nostro veronese
[quindi il famosissimo Marchetto Cara] ho ricevuto i versi
de Venere et figlio. Di quali ne ho avuto a piacere molto
perché sono deliciosi, et ben quadrano al facto. Ma piú
m’hariano piaciuti fusseno stati di Venere e Marte figurando la persona vostra vero simulacro d’esso...
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Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
Forse è solo un gioco di società, ma non è escluso che
Bernardo Bembo alludesse proprio al dipinto del Mantegna; la conferma mi sembra riconoscibile in alcuni
versi di Battista Fiera, certo piú tardi di qualche anno,
dove si dà per scontato che la Venere del Parnaso sia Isabella d’Este. Lo sviluppo del tema cortigiano del Parnaso toccò il massimo di ampiezza nell’Amoroso peregrinaggio del Calmeta, che noi conosciamo per una lettera
del Calmeta stesso a Isabella d’Este (5 novembre 1504)
e per la dedica delle Collettanee in morte di Serafino
Aquilano a Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino e
cognata di Isabella (1504):
... questo compendiolo di frammenti in miscellanee o collettanee ti destino e dedico – scrive Giovanni Filoteo Achillini – acciò che quando con la toa Diva Emilia il tuo diletto monte Parnaso ascenderai (la cui amenitade il tuo e mio
facondo Poeta nel primo libro del suo Peregrinaggio Amoroso, non ancora in luce pervenuto, leggiadramente descrive) ecc.
L’osmosi continua tra le corti italiane, che è tratto
tipico e portante della diffusione culturale di quegli
anni, consente di usare indirettamente anche questa
citazione per il Parnaso mantovano che ancora sembra
ironicamente brillare, con il suo terso splendore di primavera, sul fondo di una movimentata scena di gelosia
coniugale descritta da Francesco Gonzaga (lettera del 21
febbraio 1507): Isabella, sospettando la propria damigella Isabetta Tosabezzi di una tresca col marito, le
taglia inferocita i capelli e picchiandola urla: «va mo’,
fa la nimpha al Signore!»22. Discesi dall’Olimpo Marte,
Venere, le Muse, le ninfe, Mercurio, Apollo, le divinità
minori care ai mitografi si aggirano nelle corti italiane
come parte ineliminabile di quella vita e di quella curiosa disponibilità verso le antichità classiche. Come non
Storia dell’arte Einaudi
18
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
ricordare che, per il Carnevale del 1507, giunsero in
corte a Urbino due ambasciatori di Venere e, tramite un
interprete, dal momento che parlavano solo la lingua del
loro pianeta, rimproverarono l’eccessiva freddezza di
Elisabetta Gonzaga e di Emilia Pia nei confronti della
dea che li aveva inviati?
Le ricerche iconografiche a noi piú vicine, su una
traccia che fu meno esasperata in Panofsky, hanno spesso dimenticato la convenzionalità, magari anche la futilità di questi apparati allusivi, e si ostinano ad appesantire certa cultura del Rinascimento italiano con un
sovraccarico di zavorra filosofica (occulta o scolastica)
che non fu nella mente dei protagonisti di quegli anni,
forse neppure in quella del Ficino, almeno non ai livelli oggi presunti. Per nostra fortuna Errist Gombrich ha
saputo condurci per mano a leggere con sensibilità e giusta misura le Mitologie botticelliane e sulla traccia di quel
saggio fondamentale è opportuno considerare anche le
mitologie mantegnesche: un intrico complesso di simboli
e di significati, da precisare uno per uno ricollocandoli
nella realtà culturale, anzi proprio nel repertorio di letture dell’artista e dei suoi consulenti, a volte disperatamente dispersivo e banalmente compilatorio. Come se
ciò non bastasse i significati possono a volte slittare
fuori dai sentieri previsti o adeguarsi a delle esigenze che
sono ormai contingenti e non dei mitografi o dei primi
creatori dei nomi degli dei, comportando quindi dei
fenomeni di disturbo nella lettura iconografica, da non
imputare alla nostra ignoranza, bensí alla disinvolta esegesi di alcuni nostri commentatori umanisti (di quelli
tardo-quattrocenteschi in particolare)23. Il delirio iconologico, che riconosce il suo libro dei sogni nel Ripa (e
siamo ancora fuori dagli incubi ben piú costrittivi di altri
repertori), è malattia di anni piú tardi e di corti soffocate da un dirigismo culturale che non fu solo religioso
e politico, ma globalmente psicologico e morale. Fu allo-
Storia dell’arte Einaudi
19
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
ra che nacquero i manuali per non commettere errori di
gusto, di etichetta, di religione, di comportamento, o
d’altro, secondo una strategia integralista che gli anni di
Isabella d’Este non conoscono ancora. Può sorprendere, ma non troppo a rifletterci, il fatto che quelle corti
di ultimo manierismo guardassero oltre i modelli tardoquattrocenteschi – oltre una società ancora piena di
avventure personali, e di sventure naturalmente, talvolta indipendenti persino dal censo e dal sangue, e si
riferissero piuttosto all’esperienza delle corti tardogotiche, ignorando le aperture anche sociali dell’umanesimo.
Di qui qualche motivo della sfortuna storica che è toccata agli anni di passaggio tra Quattrocento e Cinquecento; anni di crisi politica vistosa, ma non anni vuoti
e senza germi di importanti novità future. Se mai merita una riflessione insoddisfatta, almeno per quanto attiene alla cultura figurativa, il mancato rinnovamento nel
campo religioso, che anzi subisce l’iniziativa della cultura cortigiana e vi si adegua. Sul finire del secolo non
si può dire che la Madonna della Vittoria al Louvre e la
pala di Santa Maria in Organo ora a Milano possano
stare alla pari dei Trionfi o dello studiolo. La qualità personale del Mantegna è fuori discussione, ma importa
riconoscere che solo le due imprese profane possono
assurgere a forme simboliche della fioritura cortigiana in
Italia, non i due dipinti ecclesiastici. Il discorso vale per
Mantova e per il resto d’Italia, dal momento che nemmeno la Firenze di Savonarola seppe proporre qualche
plausibile alternativa; non saprei dire quanto fosse possibile in concreto, e l’iconoclastia riformata potrebbe
apparire una risposta negativa per disperazione, se non
fosse accompagnata da una prepotente esplosione di grafica militante, ad altissimo livello.
Al di là delle favole antiche lo studiolo di Isabella cela
un privato itinerario iconologico, per usare un ambiguo
termine di moda, che si individua solo mettendo in suc-
Storia dell’arte Einaudi
20
cessione i nuclei fondamentali e piú direttamente apparenti di quelle affollate iconografie. L’unione di Venere e Marte, sotto il segno dell’Amore celeste (o Anteros),
genera l’armonia del mondo, il suo ritmo musicale rivelato dalla danza delle Muse, dalla musica di Apollo, dal
canto, e quindi dalla poesia per musica. «Otia si tollas
periere Cupidinis arcus» si legge ai piedi della bellicosa
Minerva che caccia dal regno della Virtú il vizioso corteggio della Venere terrena, mentre nel cielo appaiono
Giustizia, Forza e Temperanza invocate dalla Virtus
deserta all’estrema sinistra: «Agite, pellite sedibus
nostris | foeda haec viciorum monstra | virtutum coelitus ad nos redeuntium | divae comites». Sulla destra la
madre delle Virtú, segregata in mura ciclopiche, affida
il suo messaggio di salvezza a un esile cartiglio: «et mihi
virtutum matri succurite divi». Una precisazione sul
significato di questa concitata estromissione viene ricordando che «Otia si tollas...» è tratto dai Remedia amoris di Ovidio. Il contratto per il dipinto del Perugino
parla di «quoddam opus Lasciviae et Pudicitiae» e
attraverso la lettera d’intenti di Isabella è chiaro, ancora una volta, che si tratta di una sconfitta dell’Amore
terreno. Piú ambiguo il significato del primo dipinto di
Lorenzo Costa, su cui gli iconografi hanno sostato di
meno e con molte difficoltà. Qui il consulente di Isabella, Paride da Ceresara, propone in effetti una «fabula o historia» per nulla «antiqua» se la vera protagonista, al centro, può vestire alla moda del 1506. Riducendo schematicamente la lettura si può pensare che Venere e Amore, ovviamente la Venere celeste e AmoreAnteros, premino la vittoria sui Vizi, e in primo luogo
sull’Amore terreno, di una giovane che altri non può
essere se non Isabella stessa, in veste di perfetta «donna
di palazzo», come avrebbe detto Castiglione. È evidente che sui confini di questo regno musicale vegliano
Diana, dea di conclamata castità, e Cadmo, dio minore,
Storia dell’arte Einaudi
21
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
ma che ebbe il fortunato destino di sposare Armonia
(almeno secondo i pettegolezzi delle Dionisiache di
Nonno). Il secondo dipinto costesco ci ripropone un
regno popolato di musici cui presiede Como, dio delle
feste, seduto accanto alla solita Venere celeste, mentre
quella terrena, accosciata al suolo, rischia quasi di essere calpestata da Apollo. Sullo sfondo Giano e Mercurio
svolgono lo stesso ufficio toccato a Minerva nel giardino della Virtú. Il filo che lega l’intera serie è quindi un
elogio, in cinque capitoli, dell’Amore celeste e delle sue
vittorie, con premio finale per la sua adepta che è accolta nel regno di Anteros e coronata come per un trionfo
all’antica.
Non è necessario cercare molto lontano il materiale
di base su cui è stato costruito questo approdo figurato,
un poco fuori tempo, di un dibattito vivissimo nell’Italia delle corti intorno al tema amoroso. Fuori tempo perché al momento della sua conclusione risulta già superato dalla prima edizione degli Asolani del Bembo; esempio unico comunque, e questo è vanto tutto proprio di
Isabella d’Este e del Mantegna, perché propone per una
via non mai praticata con tanto rigore il paragone tra la
letteratura e l’arte, con evidente preferenza per quest’ultima. Isabella non scrisse mai professionalmente,
resta viva per noi nella sua acuta intelligenza politica,
nella sua disponibilità agli amichevoli affetti, nelle
improvvise suscettibilità di autonoma «donna di palazzo», nella sua inesausta curiosità, persino nelle sue rimozioni psicologiche, attraverso le bellissime lettere che
sono giunte fino a noi; ma l’intima collaborazione col
Mantegna consente alle sue convinzioni di platonismo
cortigiano un canale espressivo anche attraverso le
immagini, con piena fiducia nella loro maggior suggestione e nel loro piú intenso potere emotivo. I riferimenti letterari di Isabella sono i trattati piú grevemente compilatori sul l’amore, dagli Anteroticorum libri di
Storia dell’arte Einaudi
22
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
Pietro Edo o Cavretto (Treviso 1492) all’Anteros di Battista Fregoso (Milano 1496), in evidente contiguità cronologica e di gusto con gli inizi dello studiolo. Piú tardi
si aggiungeranno le conversazioni in corte con Jacopo
Calandra (il figlio di chi assicurò alla marchesa la collaborazione del Mantegna, nel 1492), di cui le fonti ricordano un trattato d’amore intitolato Aura, per noi perduto24.
Concludendo mi sembra certo che al momento della
chiusura dei lavori nello studiolo, con il quadro del
regno di Como, Isabella e Costa ritornino all’erudito
modello mantegnesco dopo le libertà attualizzanti dell’Incoronazione di Isabella (che è consegnata nel 1506, a
un anno di distanza dall’edizione degli Asolani e a pochi
mesi dalla diretta conoscenza tra Isabella e Pietro
Bembo)25. Per questa scelta tradizionale possiamo sospettare una ripresa del vecchio dibattito su Amore-Anteros,
stimolata dalla presenza di Mario Equicola che, dal
1508, passa al servizio di Isabella dopo una lunga esperienza di corti italiane (da Napoli a Ferrara). Subito
dopo l’Equicola riprende a lavorare al suo vecchio trattato, anzi Libro de natura de Amore, che verrà pubblicato
solo assai piú tardi (1525), con dedica ad Isabella. Un
libro che si pone vicino agli Asolani quando promette,
in apertura, di spiegare «quali et quanti siano li affecti,
effecti, cause et moti, che per quello [l’amore naturalmente] alli animi nostri advengono», e se ne allontana
invece quando indaga «qual sia la falsa et qual vera
voluptà et beatitudine con ragione et auctorità di antiqui probatissimi...» In effetti nel trattato gli «antiqui
probatissimi» non mancano, anzi tutte le pagine grondano di studiate citazioni, senza contare che la prima
parte è una revisione diligente di tutta la bibliografia
classica, medievale e contemporanea. Numerose pagine
sono anche dedicate agli stilnovisti, ai provenzali e ai
Trionfi del Petrarca, un repertorio romanzo cui indiret-
Storia dell’arte Einaudi
23
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
tamente avevano fatto richiamo i motti che costellavano il pavimento dello studiolo («vrai amour ne se change», «bona fé non est mutabile»), fino al «prenez sur
moi votre exemple amoureux» scritto su una delle tarsie dei fratelli Mola, ora nella grotta della Scalcheria. È
già stato notato che quella frase appartiene a una canzone di Giovanni Ockeghem pubblicata dal Petrucci a
Venezia nel febbraio 1504, ma vale la pena di ricordare che continuando i versi sembrano fare eco al moralismo dello studiolo:
Commencement d’amours est savoureux
Et le moyen plain de peine et tristesse
Et la fin est d’avoir plaisant maistresse
Mais au saillir sont les pas dangereux26.
Una lezione che per Isabella, come per l’Equicola, si
esplicava in
fictioni poetice [...] ché, como nella theologica sacra speculatione enigmi, figure, parabole, proverbii et similitudini vedemo, cosí ad inescare et excitare la imperita multitudine et occultamente tirare il vulgo alla cognitione del
vero li antiqui cognobero essere necessaria una nova generatione di delectare cio è fabule, le quali alti e reconditi
sensi comprendono27.
Una disciplina che si plasmava sulle «fabule» degli
antichi, che ad esse sacrificava ogni passione, tanto che
forse allude a Isabella il già ricordato interprete degli
ambasciatori di Venere giunti ad Urbino per omaggiare
Elisabetta Gonzaga Montefeltro:
... ma l’accoglienza, il senno e la virtute
potrebbon dare al mondo ogni salute.
Se non fosse il penser crudele et empio,
Storia dell’arte Einaudi
24
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
che v’arma incontro Amor di ghiaccio il petto,
e fa d’altrui sí doloroso scempio
e priva del maggior vostro diletto
voi con l’altre, a cui nôce il vostro exempio;
Tra le altre, non proclivi a una piú accogliente disponibilità amorosa, andava infatti annoverata anche Isabella d’Este e ne avranno sorriso sotto la maschera i
misteriosi messaggeri celesti: Pietro Bembo, autore degli
Asolani, e Ottaviano Fregoso, destinato ad un altissimo
elogio da parte del Castiglione nella dedica al Da Sylva
del Cortegiano28.
e. verreven, The Paintings in the Studiolo of Isabella d’Este at Mantua, New York 1971; Le Studiolo d’Isabelle d’Este, catalogo della mostra
a cura di S. Béguin, Paris 1975 (altri interventi sullo studiolo, connessi
con questa mostra, in «Laboratoire de recherche des Musées de France. Annales», 1975 e in «La Revue du Louvre», luglio-agosto 1975);
p. williams lehmann, The Sources and Meaning of Mantegna’s Parnassus, in p. williams lehmann e k. lehmann, Samothracian Reflections,
Princeton 1973, pp. 57-178 (ma il saggio risale al 1968); c. m. brown,
The Grotta of Isabella d’Este, in «Gazette des Beaux-Arts», maggio-giugno 1977, pp. 155-71; febbraio 1978, pp. 72-82 (lo scritto è stato realizzato in collaborazione con A. M. Lorenzoni); id., «Lo insaciabile desiderio nostro di cose antique»: new documents on Isabella d’Este’s Collection of Antiquities, in Cultural Aspects of the Italian Renaissance. Essays
in Honour of Paul Oskar Kristeller, a cura di C. H. Clough, New York
1976, pp. 324-53.
2
Per questi momenti iniziali sono ancora importanti le indicazioni
raccolte in g. gerola, Trasmigrazioni e vicende dei Camerini di Isabella
d’Este, in «Atti e memorie della Reale Accademia virgiliana di Mantova», vol. XXI, 1929, pp. 254-60.
3
Per l’intricato giro di corrispondenza tra i Gonzaga e i Bellini, si
tengano presenti: w. braghirolli, Carteggio di Isabella d’Este Gonzaga
intorno ad un quadro di Giambellino, in «Archivio veneto», 1877, parte
I, pp. 370-83; v. cian, Pietro Bembo e Isabella d’Este Gonzaga. Nuovi
documenti, in «Giornale storico della letteratura italiana», gennaio-giugno 1887, pp. 104-8; a. luzio, Disegni topografici e pitture dei Bellini,
in «Archivio storico dell’arte», 1888, pp. 276-78; j. m. fletcher, Isa1
Storia dell’arte Einaudi
25
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
bella d’Este and Giovanni Bellini’s Presepio, in «The Burlington Magazine», dicembre 1971, pp. 703-12: c. m. brown, Giovanni Bellini and
Art Collecting, ivi, giugno 1972, pp. 404-5.
4
a. venturi, Nuovi documenti su Leonardo da Vinci, in «Archivio
storico dell’arte», 1888, p. 45.
5
dionisotti, Niciolò Liburnio cit., p. 49, nota 4.
6
I versi qui utilizzati sono facilmente reperibili in baxandall, Pittura ed esperienze sociali cit., p. 108.
7
ballarin, Una nuova prospettiva cit., p. 237, nota 1.
8
f. battistelli, Notizie e documenti sull’attività del Perugino a
Fano, in «Antichità viva», settembre-ottobre 1974, pp. 67-68.
9
baxandall, Pittura ed esperienze sociali cit., p. 24.
10
p. scarpeliani, Le fonti critiche relative ai pittori umbri del Rinascimento, in L’Umanesimo umbro, Atti del IX Convegno di studi umbri
(Gubbio, 22-23 settembre 1974), Perugia 1977, pp. 624-25.
11
Sul sospetto provincialismo milanese si vedano le inequivocabili
testimonianze che ho raccolto in La pala sforzesca, Quaderni di Brera
n. 4, Firenze 1978, pp. 14-15 e 22, nota 22.
12
e. carin, Giudizi artistici di Camillo Lunardi, in «Rinascimento»,
giugno 1951, pp. 191-92; non credo che possa identificarsi con Leonardo da Vinci il Leonardo milanese, incisore di pietre dure, citato dal
Lunardi; questa identificazione è riproposta in id., Il problema delle
fonti nel pensiero di Leonardo, in La cultura filosofica del Rinascimento
italiano, Firenze 1961, p. 397. Mantegna e Bellini, ma non ancora il
Perugino, sono elogiati da Jacopo Filippo Foresti nell’edizione veneziana del Supplementum Chronicarum (1503): c. dionisotti, Tiziano e
la letteratura, in Tiziano e il manierismo europeo, a cura di R. Pallucchini,
Firenze 1978, p. 261.
13
Il San Sebastiano di Venezia è senza dubbio quello lasciato incompiuto dal Mantegna al momento della morte (13 settembre 1506); piú
tardi il Michiel lo segnala nella collezione di Pietro Bembo a Padova
(j. morelli [m. michiel], Notizia d’opere di disegno, a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, p. 50); il pessimistico commento del cartiglio presso la candelina, «Nihil nisi divinum stabile est, coetera fumus», Mi
sembra ancora di ispirazione polifilesca, ma certo si adatta bene al
tempo della peste del 1506 (battisti, Il Mantegna e la letteratura classica cit., pp. 46 e 51). Per puro dovere di completezza si segnala anche
l’imbarazzante articolo di m. levi d’ancona, Il Mantegna e la simbologia: il S. Sebastiano del Louvre e quello della Ca’ d’Oro, in «Commentari», gennaio-giugno 1972, pp. 44-52.
14
verheyen, The Paintings in the Studiolo cit., pp. 26-27.
15
Non è ovviamente pensabile che Costa mettesse mano al dipinto prima della morte del Mantegna, con tutta evidenza incaricato di
quel soggetto; per gli anni successivi l’aggancio plausibile mi sembra da
Storia dell’arte Einaudi
26
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
riconoscere nella ripresa di contatti col Francia, sul finire del 1510, poi
precipitosamente smentiti (cfr. a. luzio, Federico Gonzaga ostaggio alla
corte di Giulio II, in «Archivio della R. Società Romana di storia
patria», 1886, pp. 564-65). I margini di incertezza sono dovuti alla
nostra limitata conoscenza degli anni mantovani del Costa, per i quali
non è di nessun aiuto la confusa monografia di Ranieri Varese. Anche
di recente si è ripetuto che sotto il dipinto costesco si troverebbe l’abbozzo del Mantegna, mentre il fatto è assolutamente da escludere. Le
radiografie esposte alla mostra parigina del 1975 erano ben piú leggibili di quanto non lasci intendere lo stesso catalogo: il dipinto è stato
eseguito con colori molto spenti e senza corpo, con intonazione prevalente verso il grigio piombo; su questa base il pittore è tornato
riprendendo tutta la vegetazione che rivela quindi un maggior spessore di materia cromatica rispetto al resto. Tale vistoso squilibrio deve
aver suggerito assai per tempo delle riprese, che non sono però estesissime: i danni maggiori si trovano presso le gambe della Venere celeste a sinistra; dietro la schiena della nuda che abbraccia un airone, al
centro; nell’angolo in basso a destra.
16
kristeller, Andrea Mantegna cit., pp. 496, 493, 494, 500
17
p. gaurico, De sculptura (1504), a cura di A. Chastel e R. Klein,
Genève-Paris 1969, p. 55.
18
kristeller, Andrea Mantegna cit., p. 496.
19
Per l’incisione cfr. j. a. levenson, k. oberhuber e j. l. sheenan,
Early Italian Engravings from the National Gallery of Art, Washington
1973, pp. 222-27 (scheda di Leveson e Sheenan); per le fonti letterarie cfr. f. j. dwyer, A Note on the Sources of Mantegna’s Virtus combusta, in «Marsyas», 1970-71, pp. 58-62. La fortuna editoriale della
Tabula Cebetis in latino inizia sul 1495-96 e a Mantova poteva essere
nota l’edizione bolognese del 12 maggio 1497 (Benedictus Hectoris)
nella traduzione latina di Ludovico Odasi padovano e per le cure di
Filippo Beroaldo; tra gli altri scritti di questa raccolta si segnala il dialogo albertiano tra Mercurio e la Virtú (creduto di Luciano) destinato
a ispirare al Dosso il suo famoso dipinto viennese con Giove in atto di
colorare le ali alle farfalle. Non è da escludere che alla Virtus combusta
come alla tela con Minerva dello studiolo si ricolleghino alcuni componimenti per musica, attribuiti a Isabella d’Este, e un sonetto di Niccolò da Correggio (cfr. c. gallico, Poesie musicali di Isabella d’Este, in
«Collectanea Historiae Musicae», vol. III, 1963, pp. 109-15: il codice che ospita i componimenti isabelliani è datato 1495; c. dionisotti,
Nuove rime di Niccolò da Correggio, in «Studi di filologia italiana»,
1959, p. 180). Per il rapporto con il dipinto di Leombruno a Brera cfr.
battisti, Il Mantegna e la letteratura classica cit., p. 35.
20
c. dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento,
Firenze 1968, pp. 80-87.
Storia dell’arte Einaudi
27
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
Unico termine sicuro per la cronologia della Battaglia degli dei
marini è la copia di mano del Dürer datata 1494; che non si tratti in
ogni caso di un’incisione precoce mi sembra confermato dal rapporto
tra le teste dei duellanti nella metà sinistra dell’incisione e la testa del
centauro nella Minerva che caccia i Vizi dello studiolo (cfr. levensonoberhuber-sheenan, Early Italian Engravings cit., pp. 188-93); questo
comporta la già prospettata dipendenza di Francesco Colonna (veneto) per la citazione riportata in testo (si veda Hypnerotomachia Polyphili cit., vol. I, p. 52, vol. II, p. 87). Al sospetto di un rapporto con il
testo di Plinio sono stato indotto da una miniatura di Pietro Guindaleri (?) nel Plinio gonzaghesco ora alla Biblioteca Nazionale di Torino:
cfr. a. bovero, Ferrarese Miniatures at Turin, in «The Burlington Magazine», agosto 1957, pp. 261-65; u. meroni, Mostra dei codici gonzagheschi ecc., catalogo, Mantova 1966, pp. 66-67 e 80-81; la miniatura
però (del Cod. I, 22.3, fol. 5r) illustra l’inizio del libro IX, mentre il
passo sul rilievo con gli dèi marini è al libro XXXVI 4.
22
I materiali qui collegati sono reperibili in v. cian, Una baruffa letteraria alla corte di Mantova (1513). L’Equicola e il Tebaldeo, in «Giornale storico della letteratura italiana», luglio-dicembre 1886, p. 389,
nota 1; id., Pietro Bembo cit., p. 90; luzio e renier, La coltura e le relazioni letterarie cit., p. 382; a. luzio, Isabella d’Este ne’ primordi del papato di Leone X e il suo viaggio a Roma nel 1514-1515, in «Archivio storico lombardo», 1906, p. 101; v. calmeta, Prose e lettere edite e inedite ecc., a cura di C. Grayson, Bologna 1959, p. xxxiv; battisti, Il
Mantegna e la letteratura classica cit., pp. 42-43.
23
e. h. gombrich, Mitologie botticelliane. Uno studio sul simbolismo
neoplatonico della cerchia del Botticelli, in id., Immagini simboliche.
Studi sull’arte del Rinascimento, Torino 1978, pp. 47-116 e 280-302 (ma
si ricordi che la prima redazione di questo saggio è del 1963). Dopo
l’intervento già segnalato della Williams Lehmann l’iconografia del Parnaso mantegnesco può considerarsi decodificata, ma è importante risalire al dibattito che precedette questa soluzione per intendere i problemi e i rischi di una ricerca iconografica al di fuori di un preciso contesto storico. L’incidente piú grave fu l’interpretazione salace del dipinto proposta da e. wind, Bellini’s Feast of the Gods. A Study in Venetian
Humanism, Cambridge (Mass.) 1948, p. 8; era la prova che Wind non
aveva inteso per nulla il progetto dello studiolo, tanto piú che isolava
dall’insieme ciascuno dei dipinti e, sul fraintendimento della prima tela
mantegnesca, si provava a immaginare che anche il Festino degli dei a
Washington (dipinto da Bellini per lo Studiolo di Alfonso d’Este)
potesse essere stato pensato per Isabella. Della giusta polemica che ne
seguí vale la pena di ricordare almeno l’intervento di e. tietze-conrat,
Mantegna’s Parnassus. A Discussion of a recent interpretation, in «The Art
Bulletin», giugno 1949, pp. 126-30; piú tardi, nel 1963, intervenne
21
Storia dell’arte Einaudi
28
Giovanni Romano - Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello
anche Gombrich con nuove plausibili proposte (ora in Immagini simboliche cit., pp. 117-20, 302-3). Concludendo ripeto qui la mia convinzione che la biforcazione warburghiana Panofsky-Saxl sia piú grave
di quanto appaia in evidenza e che la linea Panofsky-Wind sia assai
meno garantita di quella Saxl-Gombrich.
24
La bibliografia sui trattati d’amore del tardo Quattrocento e
sulla diffusione di una forma molto disinvolta di neoplatonismo è
ormai enorme, e non sempre necessaria; riducendosi al minimo si vedano con maggior chiarezza e. verheyen, Eros et Anteros. L’Education
de Cupidon et la prétendue Antiope du Corrège, in «Gazette des BeauxArts», maggio-giugno 1965, pp. 323-32; c. dionisotti, Appunti su
Leone Ebreo, in «Italia medioevale e umanistica», 1959, pp. 415-21;
m. pozzi, Introduzione al reprint dei Trattati d’amore del Cinquecento,
a cura di G. Zonta, Bari 1975, pp. v-xv.
25
Sull’iconografia della seconda tela del Costa cfr. wind, Bellini’s
Feast of the Gods cit., pp. 46-48; c. m. brown, Comus, dieu des fêtes ecc.,
in «La Revue du Louvre», xix, 1969, pp. 31-38; j. schloder, Les Costa
du Studiolo d’Isabelle d’Este ecc., ivi, luglio-agosto 1975, pp. 230-33.
26
f. luisi, La musica vocale nel Rinascimento ecc., Torino 1977,
p. 18.
27
Sulle favole didattiche dei poeti antichi insistono anche il Bembo
(Asolani I xii) e Leone Ebreo (si veda l’ampia citazione riportata in a.
gentili, Da Tiziano a Tiziano ecc., Milano 1980, p. 20). Sull’Equicola
e il suo tardivo trattato sono intervenuti di recente: d. de roberti, La
composizione del «De natura de amore» e i canzonieri antichi maneggiati
da Mario Equicola, in «Studi di filologia italiana», 1959, pp. 189-220;
i. rocchi, Per una nuova cronologia e valutazione del «Libro de natura
de Amore» di Mario Equicola, in «Giornale storico della letteratura italiana», ottobre-dicembre 1976, pp. 566-85; m. aurigemma, Il gusto letterario di Mario Equicola ecc., in Studi di letteratura e di storia in memoria di Antonio di Pietro, Milano 1977, pp. 86-106; m. pozzi, Mario Equicola e la cultura cortigiana ecc., in «Lettere italiane» aprile-giugno 1980,
pp. 149-71.
28
bembo, Prose e rime cit., pp. 662-63 (Stanze di M. Pietro Bembo,
recitate per giuoco ecc., 27 e 28).
Storia dell’arte Einaudi
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