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GRATTERI la giustizia è una cosa seria

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GRATTERI la giustizia è una cosa seria
La Calabria nel mondo
il mondo della Calabria
Editore Amici Casa della Cultura “L. Répaci”
www.amicicasarepaci.it
PERIODICO TRIMESTRALE - ANNO IV - N. 12 - Aprile 2011 - Costo/copia: E 2,50
Poste Italiane S.p.A. Sped. in abb. post70% - Roma - Aut. n. 67/2008
In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina
per la restituzione al mittente previo pagamento resi
Un magistrato ostinato nell’attaccamento alle regole
GRATTERI
la giustizia è
una cosa seria
Occorre “una riforma non strillata, espressione di scelte
concepite nell’interesse di tutti”. Nicola Gratteri, da sempre
impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, analizza
i tanti problemi in campo e propone
le riforme che potrebbero aiutare la giustizia
n Antonio Minasi
“L
a giustizia è una cosa seria” ripete
spesso Nicola Gratteri. E questa sua
affermazione dà il titolo al volumeconversazione (Mondadori) con il giornalista
Antonio Nicaso. Concetto con tanti corollari di
specificazione che egli ripete, instancabilmente, quando incontra le scolaresche o quando va
in televisione.
Gratteri, procuratore aggiunto della Direzione
distrettuale antimafia di Reggio Calabria, è nato
e vive a Gerace, ormai, in simbiosi permanente
con la sua scorta, e “traspare dalle sue parole”
- come scrive Vittorio Zucconi nella prefazione un “brivido di solitudine”.
Oggi le modalità ed i tempi di notifica di fine in- È sul fronte della lotta alla ‘ndrangheta, col coroldagine ad avvocati ed imputati, oppure le ordi- lario di tutte le sue attività illecite, che Gratteri è
nanze di custodia cautelare - alle volte faldoni fortemente impegnato, ma anche disincantato ricon centinaia di pagine a consegna manuale - spetto ai tanti successi finora conseguiti.
richiedono tempi e risorse enormi. Basterebbe introdurre, in alternativa, con “Anche in Calabria esiste da tempo una
una modifica del codice di procedura borghesia mafiosa che si avvale di relazioni
penale, la notifica con la posta elettrodiffuse negli ambienti che contano”
nica certificata e l’ordinanza di custodia racchiusa in un cd. Si risolverebbe
in dieci minuti, ciò che oggi richiede, talvolta L’operazione “Crimine” - trecento arresti - ha rianche mesi.
velato il solido cordone ombelicale tra ‘ndrangheAltro esempio. Se oggi nel corso del processo oc- ta della provincia reggina e ramificazione al Nord.
corre sostituire un componente del collegio giu- L’Expo 2015 esercita, ora, un’ulteriore attrazione,
dicante, si ricomincia da capo, richia- occasione non soltanto di arricchimento, ma di
“Le grandi opere hanno sempre attratto le mafie. mando tutti i testimoni. Soluzione: an- ostentazione di potere: ‘Ho avuto la forza di veniSoprattutto la Salerno – Reggio Calabria, non nullare l’obbligo, come nei processi di re a Milano e ottenere tre, quattro appalti’.
della rinnovazione degli atti.
Il numero dei latitanti catturati ha raggiunto livela torto definita il corpo di reato più lungo d’Italia” mafia,
Poi, sostiene Gratteri, occorre far rien- li mai primi raggiunti, parametro questo, talvolta,
trare i magistrati - sono circa 150 - con utilizzato come “vetrina”. Dimostra che non ci soAscoltando Gratteri, si percepisce subito che è incarichi extragiudiziari, distaccati presso i mi- no intoccabili, ma gli equilibri non cambiano. E qui
un magistrato fuori dal coro, preoccupato di mi- nisteri. “Non occorre un consigliere di Cassazio- un’affermazione da brivido: “In provincia di Regsurare le parole, di affermare soltanto ciò che la ne per decidere l’acquisto di cinque scrivanie di gio Calabria per mille arrestati, c’è pronto il ricambio, dopo una settimana, con altri diecimila”.
sua esperienza, ma soprattutto la sua etica di ma- truciolato”.
Nello stesso tempo occorre chiudere i
gistrato, gli consentono.
Le riflessioni e i suggerimenti di Gratteri per ren- piccoli tribunali accorpandoli ai più vici- “Il federalismo rischia di consegnare
dere la giustizia più rapida per i cittadini e per i ni. “Certo qualche parlamentare locale definitivamente il Sud alle mafie”
magistrati, appaiono di una semplicità, a volte s’incatenerà davanti alla prefettura”.
disarmante, al punto che viene spontaneo chie- “Basterebbe una settimana per rendersi perché alcune riforme non siano adottate dere operative queste modifiche” con il recu- “Il successo nella lotta alla mafia non si misura
mentre si continua a dibattere all’infinito di “rifor- pero di almeno il 40% del tempo oggi disperso”. con il numero di latitanti arrestati, ma con il graMa il problema è sempre lo stesso: c’è la volontà do di vivibilità assicurato ai cittadini”.
ma della giustizia”.
politica?
Prendiamo il caso dell’usura. Le misure di re“Chi denuncia i mali del Sud non dovrebbe essere Gratteri non si sottrae a un giudizio an- pressione evidentemente non sono efficaci se
guardato con sospetto. La denuncia spesso è un che sulle “toghe”. “Sembra che il noautogoverno a volte preferisca gli
atto d’amore. Non basta dire c’è il sole, c’è il mare” stro
atteggiamenti di tipo corporativo”.
IN QUESTO NUMERO
Due anni fa, per fare un esempio, il
Prendiamo, per esempio, il processo breve, un’il- CSM ha messo ripetutamente a concorso dei
2 QUANDO LA CASTA NON SI ARRENDE
lusione che possa snellire il carico di lavoro dei posti in sedi appetibili determinando la fuga da
LA RIVOLTA DI LILLIPUT
magistrati. Significherebbe, dice Gratteri, “dene- quelle disagiate del Sud. “Il problema, però, è
L’IRRESISTIBILE FASCINO DEL “PORCELLUM”
gata giustizia alle parti offese”. E suggerisce come che la copertura non è avvenuta sulla base del
3 AI TAGLI E AL FEDERALISMO IL SUD DICE NO
soluzione l’informatizzazione del processo penale. merito, ma in base alla forza e al gioco delle
correnti”.
4 UN PIANO DI SVILUPPO MAI ARRIVATO IN PORTO
E le tanto contestate intercettazioni? “Sono inPERSA UNA GRANDE OCCASIONE
sostituibili” afferma senza esitazione Gratteri.
5 CALABRESI NEL MONDO
“A Reggio Calabria costano 11 euro più Iva al
LA PICCOLA ITALIA FREGATA DALLA PAURA
giorno contro mediamente i tremila di un pedinamento, magari da Reggio Calabria a Roma,
6 IL PRETE DEI POVERI CHE SFIDÒ LA MAFIA
col rischio, fra l’altro, che il pedinato se ne ac7 QUANDO IN CALABRIA C’ERA L’INDUSTRIA
corga…” Però, perché tante violazioni del seCOSÌ SCOPRIMMO LA FERRIERA DI MONGIANA
greto istruttorio? Di chi la responsabilità? La ri8 IL RISORGIMENTO E LE ARTI IN CALABRIA
sposta è lapidaria: “Fino alle indagini preliminari, polizia giudiziaria o pubblico ministero”. Ba10 ASPETTANDO ANCORA GARIBALDI
sterebbe, dice il magistrato, imporre l’introduzioLA CALABRIA E I FERMENTI UNITARI
ne della password nominativa per ciascun file di
RACCONTI DA UN SUD DA AMARE
registrazione per individuare chi è venuto meno
(MALGRADO TUTTO)
al dovere di segretezza.
l’estorto valuta che sia meglio pagare, anziché
denunciare. Ma se l’usuraio, ragiona Gratteri, anziché a due anni di carcere fosse condannato a 15
(che poi si riducono a dieci netti), allora la valutazione sarebbe che è conveniente denunciare.
E il pizzo? Le mafie gestiscono risorse immense
derivanti soprattutto dal narcotraffico. Perché
sono così affezionate al pizzo?
“Per le mafie l’estorsione è tutto. Più del traffico
di droga, più degli appalti, più dei soldi. È attraverso il pizzo che le mafie manifestano la loro esistenza, il loro potere. È il riconoscimento di un’autorità diversa rispetto allo Stato”.
Il 41 bis, il carcere duro, è il suo modello?
“Io voglio che i detenuti godano buona salute, altrimenti qualcuno concede i domiciliari e poi
scompaiono. Chi è stato battezzato nella ‘ndrangheta, crede come ad una religione. L’esperienza
giudiziaria dimostra che non c’è ravvedimento”.
Soluzione? “Innalzare le pene, in modo che sia
chiaro che non è conveniente delinquere e far lavorare i detenuti in carcere per pagarsi il cibo e il
pernottamento”.
Un nuovo pericolo che si va addensando per la
nostra convivenza Gratteri lo individua nel federalismo. “Consegneremo il Sud alle mafie se
decentriamo il potere agli enti locali. Le organizzazioni criminali avranno maggiore potere di
controllo e quindi anche d’incidere sulle scelte
politiche”. E il ruolo della Chiesa? “La Chiesa
può fare di più, potrebbe essere più presente.
“Come mons. Morosini, vescovo della diocesi di
Locri nel cui territorio ricadono San Luca, Polsi. Il
suo linguaggio è ‘sì sì, no no’.
“Scomunicare i mafiosi sarebbe un atto di grande valore simbolico. Dichiarare che con il loro
agire criminale, i mafiosi si pongono fuori dalla
Chiesa è molto, ma non basta. Alla censura deve
seguire la sanzione”.
Un ultimo, inquietante, dato: stando ad una indagine del Censis del 2009, tredici milioni di italiani
hanno a che fare, direttamente o indirettamente,
con le mafie. “Se pensiamo ai consumatori di cocaina, temo siano di più”.
n
11 LO SPECCHIO DEFORMATO, MA NON TROPPO,
DI CETTO LA QUALUNQUE
MA LA CALABRIA NON SI VEDE
12 SOFFIA UN VENTO ANTICO
CHE PORTA IDEE E SAPORI NUOVI
LA DIVISIONE DEL VINO E DELL’OLIO
13 ABBIAMO ACCORCIATO E UNITO L’ITALIA
14 UN PROGETTO DI FEDELTÀ
AI VALORI DI UN’ITALIA VINCENTE
MATTMARK, STORIA DI UNA TRAGEDIA
15 CALABRIA UNITA NEL NOME
DI SAN FRANCESCO DI PAOLA
16 NEWS
2
REGIONE
ANNO VI - N. 12 - Aprile 2011
3
ANNO VI - N. 12 - Ottobre 2010
UNA “LEGGINA TRUFFA” PER LE AMMINISTRATIVE?
COSENZA
CREARE UN FRONTE COMUNE ALDILÀ DELLE APPARTENENZE
TAGLI E FEDERALISMO
IL SUD DICE NO
QUANDO LA CASTA
NON SI ARRENDE
n Angela Altomare
“Le cariche di presidente e assessore della giunta provinciale
e di sindaco e assessore dei comuni compresi nel territorio
della Regione sono compatibili con la carica di consigliere regionale”.
È la norma, palesemente incostituzionale, votata recentemente
dal Consiglio regionale, ma che si può correggere da subito se c’è
la volontà politica di recuperare credibilità e trasparenza
l problema della credibilità e della trasparenza della politica, se è
sempre attuale nel nostro Paese,
in Calabria lo è ancora di più.
Avrebbe dovuto segnare una svolta
per la nostra regione la proposta di
legge della giunta Loiero del 6 agosto 2009: primarie obbligatorie per la
scelta dei candidati alla presidenza
della Regione. Non se ne fece nulla,
perché su proposta dell’allora capogruppo del Pd, Nicola Adamo, l’assemblea di Palazzo Campanella decise di posticipare l’introduzione
delle primarie a partire dalla prossima legislatura. In soldoni, tutto rimandato al 2015.
Le anomalie, comunque, analizzando il
testo approvato, non mancano. Il meccanismo “studiato” per le primarie calabresi prevede uno strano sistema di
voto: quando gli elettori vanno al seggio possono scegliere tra un numero di
schede pari a quello delle liste che
partecipano: sulla scheda scelta pubblicamente (svelando quindi il proprio
orientamento) segnano il nome del
candidato preferito (oppure, perché
no, votano in massa per il candidato
più improbabile o più debole dello
schieramento avversario). Appare fin
troppo facile intuire che tutto questo
viola uno dei cardini della democrazia
rendendo, potenzialmente, la legge incostituzionale: la segretezza del voto.
Non a caso il governo ha deciso, nello
scorso ottobre, di impugnare la legge
davanti alla Consulta.
Uscendo per un attimo dallo scontro
istituzionale c’è da dire che in Calabria,
le primarie sono state già sperimentate.
I
Le ha celebrate il Partito democratico
per la scelta del candidato a governatore. La competizione fu vinta da Agazio Loiero che prevalse su Giuseppe
Bova e Bruno Censore. Fu una vittoria
di Pirro perché il centrosinistra si presentò diviso alle urne con Italia dei
Valori schierata al fianco dell’imprenditore Pippo Callipo. Finì con la netta
vittoria di Giuseppe Scopelliti e della
coalizione di centrodestra.
Ora si è aperto un altro caso di manifesta incostituzionalità di una “leggevergogna” votata in una seduta nella
generale distrazione dell’euforia prenatalizia.
L’ha presentata Nicola Adamo capogruppo del Pd nella passata legislatura e ora iscritto (dopo le roventi polemiche con i vertici del suo partito) al
Gruppo Misto. Il testo normativo del
29 dicembre 2010 n. 34 (che come accade quando ai cittadini si vogliono
far vedere lucciole per lanterne, si
apre con una promettente dichiarazione: “Programma di interventi per il
contrasto alla ‘ndrangheta”) è passato con un codicillo. Dice che «anche
in deroga a quanto previsto dall’articolo 4 legge 154/81 e dell’articolo 65
decreto legislativo 267/00, le cariche
di presidente e assessore della giunta provinciale e di sindaco e assessore dei comuni compresi nel territorio
della Regione sono compatibili con la
carica di consigliere regionale». In
parole povere: contrariamente a
quanto dispone la legge, sarà possibile per gli eletti nell’assemblea regionale essere contemporaneamente
sindaci o assessori perfino di grandi
Don Chisciotte, l’invincibile
C
ambiare la Calabria? È come lottare contro i mulini a vento. Potrebbe essere questo il messaggio - quasi un avvertimento - che viene dal quadro che a Catanzaro fa bella mostra
di sé nell’ufficio del presidente della giunta regionale Giuseppe Scopelliti. L’ha realizzato il pittore reggino Natino Chirico,
artista che da Reggio Calabria approdò negli anni ’70 a Milano
e di qui a Roma, con studio nel quartiere Parioli. Per lui l’estroso cavaliere nato dall’immaginazione di Cervantes non è un
simbolo di sconfitta.
La rivolta di Lilliput
G
città. (E il primo ad approfittarne è
l’on. Peppe Bova, candidato sindaco
a Reggio Calabria nella imminente
tornata elettorale).
Per la cronaca, unica voce fuori dal
coro quella dei democrat che nonostante l’innovazione possa tornare
utile un domani anche a qualche
esponente della sinistra, ha votato
contro.
Il governatore Peppe Scopelliti in aula si è astenuto salvo poi riparare in
corner dichiarando di aver lui stesso
“caldeggiato” l’impugnazione governativa della legge. Un comportamento alquanto contraddittorio. Se c’era
in partenza il sospetto di palese incostituzionalità della norma, perché - fra
l’altro nel suo ruolo di coordinatore
regionale del Popolo della Libertà - ha
deciso di lasciare mano libera alla
sua maggioranza? Quasi una “libertà
di coscienza» neppure si trattasse di
temi “sensibili”. O meglio “sensibile”
il tema lo è perché mette in discussione la credibilità della politica e, a cascata, delle istituzioni, al punto che
Gian Antonio Stella, sul Corriere della
Sera, ha potuto titolare, ironicamente,
riferendo del voto del Consiglio regionale, “Il partito degli ingordi”.
Ma se vuole, l’on. Scopelliti un rimedio
efficace a portata di mano ce l’ha: si
faccia promotore del ripristino delle
vecchie regole, prima che si vada al voto. Il “ravvedimento operoso”, in questo
caso, non sarà ammissione di debolezza, ma espressione alta di rispetto delle leggi e dei cittadini e quindi di affidabilità della classe politica.
n
«Considero Don Chisciotte un personaggio positivo» dice Chirico a Itaca «un invincibile, uno che cade e si rialza, che non
ha paura, che non arretra mai davanti a niente, insomma
quello che ci vuole per risolvere i problemi della Calabria».
Ma è stato Scopelliti a chiederle il quadro?
«No, sono io che ho voluto donarlo al presidente perché ha mostrato sempre grande attenzione al mio lavoro, che segue da
molto tempo. Grazie alla sua sensibilità ho potuto realizzare
rassegne importanti, come l’antologica al Vittoriano e al Comune di Reggio e la mostra dedicata alle donne nel cinema».
Il cinema è la principale fonte d’ispirazione di Chirico, che ne
reinterpreta i personaggi e li restituisce sulle tele con originalità. Il più dipinto è Charlot, utilizzato anche per creare il
nuovo logo di Azienda Calabria Lavoro, organismo che ha il
compito di supportare l’ente Regione nelle politiche occupazionali. «In Tempi moderni Charlie Chaplin mostra come le
macchine mortifichino l’uomo, mentre lo sforzo deve essere
quello di dare dignità e umanità al lavoro. Per questo ho pensato a Charlot come miglior testimonial».
Anche Charlot come Don Chisciotte è un simpatico spiantato. Viene il dubbio che solo dei poveracci possano rappresentare la Calabria e ispirarla. Comunque sia, Chirico è convinto di una cosa: «Anche l’arte può offrire il suo contributo
per la crescita della Calabria, a tutti i livelli, compreso quello
economico».
en.ro.
iuseppe Bova e Agazio Loiero sono stati i due big della passata legislatura regionale, ai massimi vertici politici e istituzionali. Il primo Presidente
del Consiglio Regionale, il secondo “Governatore”. Entrambi eletti nelle liste
del Pd. Ma con la nuova tornata elettorale, ora in minoranza, non si sono più
riconosciuti nello schieramento di provenienza, rifiutando di far parte del Gruppo Pd a Palazzo Campanella.
Hanno preso altre strade: Peppe Bova ha formato un nuovo raggruppamento, “A testa alta” che per acclamazione lo ha candidato a sindaco di Reggio
Calabria; Loiero si riappropria di A&D (Autonomia e Diritti) messa in campo
alle regionali 2010.
All’origine, l’inconciliabile dissidio con Adriano Musi, commissario regionale
del Pd, che ha commissariato, senza chiedere permesso, tutto quanto era commissariabile nel partito, uscito a pezzi dalla competizione elettorale dello
scorso anno e di cui i due, evidentemente, pur qualche responsabilità hanno avuto. Ma lo scontro, in realtà, è stato con
Giuseppe
Bersani, immemore secondo Loiero del notevole apporto caBova
labrese alla sua elezione al vertice del partito. Bersani, in
realtà, ha cercato di mettere ordine, con la nomina del sen.
Musi, in un partito allo sbando e ingovernabile, incapace di
fare autocritica rispetto al mortificante esito elettorale.
Le prospettive future? “Non saremo” - dice Bova - “né con
Scopelliti e Berlusconi e neanche con Bersani e Musi, loro
Gulliver e noi tanti lillipuziani. No, non ci stiamo”. Ma on. Bova,
Agazio
abbia fiducia, anche i lillipuziani furono in grado di imbriLoiero
gliare il corpaccione dormiente di Gulliver…
La defezione dei due condottieri, comunque si sia verificata,
è stata vissuta, in quel che resta del Pd, come una sorta di
liberazione, la possibilità concreta di un nuovo corso. “Prima
il Pd si libera dei suoi padri padroni e prima potrà cambiare
pagina e scommettere su una nuova classe dirigente”, è il
caustico giudizio dell’on. Franco Laratta.
“Non è giusto andare via nel momento di grave difficoltà in cui vive il Pd calabrese. Soprattutto da parte di chi ha avuto. Avrà certamente dato, ma anche avuto. E molto… Noi continueremo a pagare per gli errori gravi del Pd
che non avrebbe dovuto ricandidare Loiero perché erano evidentissime le
ragioni della sconfitta”.
E l’on. Doris Lo Moro, assessore alla Sanità in una delle giunte Loiero: “Penso che essere stato tra i 45 fondatori del Pd e poi uscire per cambiare bandiera non sia un esempio di grande signorilità politica”.
È nobile l’intento del governatore Scopelliti:
impedire l’inserimento nelle liste elettorali
di personaggi collusi con la ‘ndrangheta,
ma la sua proposta delle liste bloccate
somiglia molto a quella introdotta
a livello nazionale dal leghista Calderoli…
n Antonio Ricchio
Giuseppe Scopelliti
È
un grido d’allarme a più voci
quello che si leva nei confronti
dell’introduzione del federalismo
fiscale. Una preoccupazione avvertita
non solo dagli amministratori degli enti
locali meridionali, ma anche dalle forze
politiche, istituzionali e sociali. Gravissimi potrebbero essere, infatti, gli effetti
che sommati a quelli dei tagli ai trasferimenti erariali operati dal Governo con
l’ultima finanziaria, il nuovo sistema fiscale, basato su autonomia e decentramento finanziario, potrebbe arrecare al
Mezzogiorno, e in particolare alla Calabria. Il rischio temuto è che un regime di
proporzionalità diretta tra le imposte riscosse in una determinata area territoriale e le imposte effettivamente utilizzate, potrebbe generare una grave difficoltà, per quegli enti locali dotati di minore capacità impositiva, non più in grado di garantire adeguati servizi ai cittadini, qualora venissero a mancare risorse adeguate.
Decentrare imposte e spesa pubblica
in un paese come l’Italia, caratterizzato da un forte dualismo nei livelli di sviluppo economico tra Nord e Sud del
Paese, rischierebbe di penalizzare le
realtà territoriali più povere.
Una vera e propria mobilitazione unitaria,
al di là delle appartenenze politiche, contro i tagli erariali operati dal Governo, è
partita dalla Provincia di Cosenza. Dibattiti, conferenze stampa, appelli, incontri,
fino alla convocazione di una seduta ad
hoc del Consiglio provinciale al quale
hanno partecipato tantissimi cittadini, alcuni consiglieri regionali, moltissimi amministratori locali, che ha portato all’approvazione all’unanimità di un documento finale contro le decurtazioni operate
dal Governo nei confronti degli enti locali del Mezzogiorno e della Calabria.
Una situazione finanziaria quella degli enti locali calabresi
che rischia secondo il Presidente della Provincia di Cosenza,
Mario Oliverio, di essere “sempre più intollerabile e insostenibile”
Una situazione grave e insostenibile
quella che i tagli previsti dall’ultima finanziaria e dai decreti attuativi del federalismo fiscale potranno generare
sugli enti locali calabresi, così come
ha ribadito il Presidente della Provincia di Cosenza, Mario Oliverio, in occasione della visita del Presidente della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo.
Presidente Oliverio, quali saranno gli
effetti dell’attuazione del federalismo
fiscale per la Provincia e per gli altri
enti locali della Calabria e del Mezzogiorno?
In base alla manovra finanziaria estiva assunta dal Governo e convertita
per le cinque Province calabresi si registrerà già per l’esercizio in corso un
minore trasferimento di oltre 36 milioni di euro pari ad una decurtazione di
18 euro per abitante. Per la Provincia
di Cosenza, in base ai criteri indicati
dal ministero competente, i tagli ai trasferimenti sono quantizzati in undici
milioni e 300 mila euro. E nel 2012 saranno ancora più pesanti. Quasi il
doppio. I Comuni introiteranno minori
entrate per oltre 70 milioni di euro, pari a meno 33 euro per abitante. Queste
decisioni, assolutamente non condivisibili, rischiano di rendere la situazione finanziaria dei Comuni e delle Province calabresi e meridionali sempre
più insostenibile ed intollerabile.
È questo l’antipasto di una situazione
che sarà destinata ad aggravarsi come conseguenza di provvedimenti per
l’attuazione del Federalismo fiscale
così come proposto dal governo.
Quali saranno le conseguenze di queste drastiche decurtazioni?
Importanti servizi rischiano di essere
smantellati, i programmi d’investimento taglieggiati, gli interventi per garantire l’esercizio delle competenze, compressi. L’ordinaria amministrazione rischia addirittura di essere fortemente
compromessa. Un quadro quello che si
verrà a delineare che metterà Comuni
e Province nelle condizioni di non potere chiudere i bilanci, perché non tiene conto delle condizioni economiche
e territoriali. Tutto ciò rischia di affermare gravi elementi di disarticolazione
del nostro Paese.
In un’Italia “a due velocità” le misure
del federalismo fiscale rischiano di accentuare ancora di più il gap tra il Nord
e il Sud del Paese?
Il Nord senza il Sud rischia di diventare marginale nei processi di sviluppo e
di integrazione europei. Il Paese non
può essere costituito da figli e figliastri.
I problemi del Sud non sono in contrapposizione con i problemi del
Nord. Anzi, essi convivono e si
integrano con un’esigenza comune, che è quella di uscire
dalla crisi in atto. In questo
contesto, pertanto, non
può esserci alcuno sviluppo sociale, economico e competitività
nello scenario europeo e italiano se
non si assume il Mezzogiorno come
priorità da porre al centro delle politiche nazionali.
Quindi a suo avviso, per il rilancio del
Sistema Paese, lo sviluppo del Mezzogiorno dovrebbe rappresentare la
vera sfida?
Il Mezzogiorno e la Calabria desiderano contribuire alla crescita del Paese a
patto che ognuno abbia le stesse opportunità degli altri. Un federalismo
che toglie ai poveri per dare ai ricchi
non assicura di certo le stesse opportunità. Il Paese non cresce, non avanza se con esso non cresce e non avanza l’intero Mezzogiorno. Il Mezzogiorno
deve sapersi rimettere in piedi ed alzare la voce. Il Mezzogiorno deve essere
aiutato attraverso adeguate, intelligenti e moderne politiche nazionali, tese a
L’irresistibile fascino del “porcellum”
L
a proposta del governatore Giuseppe
Scopelliti è arrivata attraverso un’intervista al settimanale Panorama: “Ho intenzione di proporre in Calabria una nuova legge
elettorale: stop alle preferenze e introduzione
delle liste bloccate”. Né più, né meno di quanto
introdotto a livello nazionale dalla legge che porta il nome del ministro Calderoli. Quella legge che
il politologo Giovanni Sartori ha definito “porcellum” per via del fatto che gli elettori non scelgono più i candidati a cui accordare la loro preferenza, ma possono soltanto esprimere il loro gradimento per la lista di nomi proposta dai vari partiti presenti nella competizione elettorale. Scopelliti punta il dito contro i “colletti grigi”, rei di
bloccare ogni forma di emancipazione della Calabria e parte dall’assunto che, per bloccare gli
accordi criminali fra ‘ndrangheta e politica, occorrano misure drastiche.
Il caso di Santi Zappalà, il consigliere regionale
del Pdl arrestato con l’accusa di essere il candidato delle cosche della Locride, insegna e spinge il presidente della Regione a dire che “nella
scorsa consiliatura ci siamo ritrovati con decine
di eletti indagati. E pure in questa, benché le forze politiche sane abbiano fatto la guardia, è già
emersa qualche collusione. È un danno di immagine e di sostanza che rallenta il cambiamento”.
Per poi aggiungere: “Con le liste bloccate - si legge sempre nell’intervista concessa lo scorso mese a Panorama - si responsabilizzano i partiti, in
questo caso le segreterie regionali, e si abbatte
il meccanismo della rincorsa al consenso a ogni
costo e si chiudono le porte in faccia ai singoli imbecilli che a ogni elezione producono accordi criminali e clientelari con la ‘ndrangheta. Secondo
me, per coltivare il nuovo, bastano due legislature, poi si potrà tornare anche alla preferenza”.
Ma facciamo un passo indietro e concentriamoci su quanto è avvenuto in Calabria in questi ultimi mesi. A chi spetta la composizione delle liste?
Al coordinatore del partito che, nel caso del Popolo della Libertà, è lo stesso governatore Scopelliti. Che ha inserito Zappalà in lista assieme a
qualche altro candidato spingendolo, col senno
di poi, a parlare di “qualche collusione” e non di
“una collusione”.
Non ha spiegato il governatore della Calabria chi
ha voluto la candidatura di Santi Zappalà. Chi lo
ha inserito in lista? Come mai non è stata ritirata
la sua candidatura come, invece, è avvenuto per
quella dei candidati “impresentabili” Tommaso
Signorelli e Antonio La Rupa, per i quali è stato
sufficiente il codice etico per l’autoregolamentazione delle candidature? E le oltre undicimila preferenze raccolte da Zappalà, a quale candidato a
presidente erano collegati? E soprattutto, con
quale criterio, la candidatura del consigliere regionale arrestato (incensurato fino a dicembre
2010) sarebbe stata evitata se fosse stata in vigore la legge che prevede liste bloccate? Il dibattito
è tutt’altro che aperto. E allora, siamo davanti ad
una proposta da cestinare tout court? Non proprio. A Scopelliti va riconosciuto il merito di aver
aperto il dibattito non a ridosso della scadenza
della legislatura (è successo varie volte in passato con maggioranze di centrodestra e di centrosinistra) quando ogni tipo di scelta può prestarsi a
strumentalizzazioni di parte.
Certo, gli ostacoli da superare non sono pochi. In
primis quello di un’opposizione che su questo
punto non sembra voler concedere sconti.
Basta ascoltare il capogruppo del Pd a palazzo
Campanella, Sandro Principe, per rendersene
conto: “Il Pd non può condividere un’impostazione ‘antidemocratica’, perché il cittadino calabrese non può perdere il diritto di scegliere i
propri amministratori. Di fronte a un presidenzialismo forte, come quello attuale, si può pensare di ridurre il numero dei consiglieri e poi applicare la formula dei collegi uninominali nelle
cinque province.
Una sfida fra due, al massimo tre, candidati da una
parte riduce la corsa forsennata alla candidatura,
realizzare obiettivi di crescita e di recupero dei ritardi nei vari campi dell’economia, della società e dei servizi.
Anche le risorse comunitarie nella disponibilità delle regioni meridionali,
possono e devono essere più efficacemente utilizzate per la realizzazione
della crescita economica e sociale dei
nostri territori, se sono accompagnate
e rafforzate da programmi nazionali
che vanno in direzione dell’ammodernamento infrastrutturale, del sostegno
alle imprese, dell’agevolazione dell’accesso al credito, della ricerca e
dell’innovazione.
È possibile, dinanzi a temi come quello del federalismo fiscale, accantonare le differenze anche politiche, ed
unirsi in una battaglia comune, trovando quel terreno di confronto costruttivo che spesso oggi manca?
Se sapremo creare un fronte vasto,
coeso e unitario, al di là dei colori e
delle appartenenze politiche, saremo
più forti e daremo un contributo importante al nostro territorio e al Paese.
Guai, perciò, a far prevalere la rassegnazione. È necessario reagire, affinché siano assunte misure e provvedimenti fortemente correttivi da parte del
Governo e del Parlamento. Ecco perché è importante far leva su iniziative
che riescano a coinvolgere non solo gli
Enti locali, ma anche le parti sociali.
Mai come in questo momento il destino del Mezzogiorno è indissolubilmente legato al destino del Paese. Il nostro
intento è quello di riaccendere i motori
perché il Meridione possa definitivamente tornare ad essere di nuovo protagonista in Italia e in Europa.
n
Mario Oliverio
dall’altra rafforza ancora di più il lavoro di selezione dei partiti e delle coalizioni”.
Posizioni assai divergenti, insomma. Che non
scoraggiano, però, Scopelliti, tornato alla carica.
Il pretesto gli è stato offerto dalla relazione annuale sulla dinamiche e le strategie della criminalità organizzata nel nostro Paese presentato
dalla Direzione nazionale antimafia.
“La relazione della Dna - dice Scopelliti - dice
che il sistema elettorale delle politiche dovrebbe
essere ripetuto nei collegi regionali, soprattutto
dove è presente la mafia, perché allontana la mafia dalla politica. Voglio, però, discutere, perché
in Calabria dobbiamo discutere. Questo meccanismo delle ‘liste bloccate’ riduce anche le forme
clientelari che fino ad oggi hanno rappresentato
uno dei limiti della Calabria”. Come andrà a finire
è troppo presto per capirlo. L’interrogativo, d’altronde, semmai la modifica alla legge elettorale
dovesse andare in porto, è sempre quello: chi
controllerà il controllore? Ovvero: a chi risponderanno i vari segretari di partito che avranno il
compito di redigere le liste? Sono tutti interrogativi che potrebbero essere spazzati via qualora si
scegliessero le primarie per la scelta dei candidati. Ma questa è una strada ancora tutta da percorrere…
n
4
GIOIA TAURO
ANNO VI - N. 12 - Aprile 2011
LA CRISI DEL PORTO, LE RISPOSTE DELLA POLITICA
EMIGRAZIONE
Un PIANO
di SVILUPPO
mai arrivato
in PORTO
n Agostino Pantano
A
5
ANNO VI - N. 12 - Ottobre 2010
ll’inizio dello scorso gennaio, il porto di
Gioia Tauro, cuore pulsante dell’intera
economia regionale, per la seconda volta
dopo 15 anni d’intensa attività, si è fermato, improvvisamente, per 30 ore. Una vera e propria serrata della Società Medcenter (Gruppo Contship)
che ha colto di sorpresa i lavoratori innanzitutto,
ma anche tutte le istituzioni locali e regionali. Un
azzardo quello di Medcenter, società monopolista, che però sconta una crisi che dura dal 2009 e
che ha comportato, per i suoi 1.200 dipendenti, il
ricorso per due semestri ai sussidi statali della
cassa integrazione.
Il danno d’immagine è stato enorme, ma ha costretto la politica ad interessarsi della progressiva caduta di competitività dell’hub calabrese, a
lungo leader nel Mediterraneo con i suoi tre milioni di container movimentati negli anni d’oro.
Sulla vertenza ingaggiata dal colosso dei container, certamente hanno influito le ristrettezze finanziarie cui è condannato in questo momento il
Paese, un modello di sviluppo che sembra penalizzare nuovamente il Mezzogiorno, ma anche la
farraginosità della strategia messa in campo dalla
Si apre una nuova sfida per l’hub delle navi
portacontainer, cuore pulsante dell’economia calabrese.
Alla crisi internazionale si aggiunge la concorrenza
dei porti del nord Africa assieme agli incredibili ritardi
nella creazione delle infrastrutture attese da anni
società concessionaria, probabilmente spiazzata
dagli effetti della crisi internazionale dei traffici
via mare, comunque disabituata nei 16 anni di vita del porto a puntare su un metodo inclusivo anche delle istanze più ampie del territorio che
ospita la grande infrastruttura.
Il gruppo Contship ha chiesto a più riprese - anche
attraverso un battage insistente sulla grande stampa nazionale - nuove misure tese a far rientrare le
perdite che, da quanto dichiarato dalla presidente
Cecilia Battistello, sarebbero “di 10,5 milioni l’anno”. Fra gli incentivi richiesti, la manager ha indicato la riduzione delle accise sui carburanti per i
mezzi meccanici interni al porto, la fiscalizzazione al 45% dei
contributi Inps per i
lavoratori, l’abolizione
delle tasse di ancoraggio. Tutti interventi
proposti alle istituzioni nazionali, di nuovo
senza presentare un Cecilia Battistello
articolato piano di rilancio che, invece, da più parti è invocato sin dal
2009, anche per spiegare se vi sia stato un qualche
effetto migliorativo dopo l’elargizione degli ammortizzatori sociali.
Il terminalista - gode di una concessione demaniale cinquantennale che per lunghezza non ha
precedenti - ha agganciato le sue rivendicazioni
ai mutamenti di mercato avvenuti negli ultimi anni nel Mediterraneo, in particolare con il prevedibile rampantismo dei porti della costa africana, di
Tangeri in Marocco e Port Said in Egitto, operativi con costi del lavoro e tassazione di gran lunga
più competitivi. Un quadro reso più allarmante
dalla fuga di tanti operatori, non da oggi, dallo
scalo gioiese verso quello marocchino (qui la
Contship si è già insediata ed ha contribuito con
proprie maestranze all’avvio del terminal) e verso
quello egiziano, dove ha trasferito i suoi traffici la
compagnia Maersk titolare del 30% di Medcenter.
La compagnia svizzera Msc, ultimo grosso cliente di Medcenter a Gioia Tauro, dopo la serrata di
gennaio è uscita allo scoperto rivelando la sua intenzione di entrare nell’azionariato del terminalista calabrese in crisi.
Non è nuova la tendenza dei proprietari delle navi a gestire anche i porti in autonomia e quindi l’unica sorpresa riguarda i tempi di un’esternazione
459 milioni per la logistica
Antonella Stasi
“Il futuro di Gioia Tauro passa attraverso la logistica.
La Regione Calabria ci crede e sta lavorando
per attuare un piano concreto”.
Lo ha affermato Antonella Stasi, vicepresidente
della Giunta regionale, intervenendo a Reggio Calabria
al Convegno nazionale della UIL Trasporti.
L’APQ (Accordo di Programma Quadro) siglato tra Regione,
Gruppo F.S., ministri dello Sviluppo economico e dei Trasporti,
per complessivi 459 milioni di euro potrebbe segnare,
finalmente, il momento di svolta da tanto atteso.
PERSA UNA GRANDE OCCASIONE
Fallimentare la governance politica dell’ex “porto dei miracoli”
incapace d’innescare un processo d’industrializzazione. La maggior parte
delle aziende legate all’attività portuale è nata prevalentemente
per drenare fondi pubblici. La responsabilità del Consorzio ASI
S
e il “sistema Gioia Tauro”, comprensivo
dell’area portuale e delle tre zone industriali ad essa adiacenti, fosse governato
da una società privata, non c’è dubbio che sarebbe inevitabile portare i libri in tribunale dichiarando fallimentare una gestione che non ha
mai integrato due fattori produttivi che, visti i numeri e le potenzialità di mercato, tutto il mondo,
fino all’altro ieri, ci ha invidiato.
Ma è politica la governance frammentaria e rissosa che da quasi un ventennio programma male e spende peggio in questo mancato perimetro d’oro. Tramonta malinconicamente la comoda immagine di Gioia Tauro isola felice nel panorama asfittico di una regione in coda a tutte le
classifiche.
Le istituzioni regionali e la deputazione calabrese si sono mostrate impreparate a gestire
l’unica grande occasione di creare condizioni
vantaggiose, stabili e durature per tutto il territorio, aldilà dei record nella movimentazione
delle merci o della criticità dei traffici internazionali. Dal 1995 si diceva Gioia Tauro e si pensava al “porto dei miracoli”, omettendo però di
ricordare il modello di sviluppo della struttura,
transhipment di container le cui merci venivano sdoganate successivamente nei porti più
piccoli del trasferimento finale. Dunque, il beneficio fiscale era ed è lucrato altrove.
Le tre aree industriali programmate dal consorzio Asi, inadeguato braccio operativo della Regione, non hanno saputo mettere in campo le
necessarie strategie di sviluppo. Così, mentre
altrove in Europa le aree portuali soffrivano per
la saturazione e l’impossibilità di reperire terreni adatti per la lavorazione delle merci da immettere nel mercato continentale, la Calabria per
responsabilità che sono tutte politiche non ha
che, avvenuta nel bel
mezzo della vertenza
aperta da Medcenter, ha finito col rendere evidente l’interesse dei due operatori privati a socializzare le perdite in vista
di una partnership
che sembra immiGiovanni Grimaldi
nente. Per salvare la società che è in crisi, ma svolge un servizio appetibile, Msc aspetta che il governo batta un colpo
per rendere ancora più vantaggioso un investimento che, però, non sembra avere alternative
per i due contraenti che tempo fa ingaggiarono
una lotta furibonda, a causa della richiesta degli
svizzeri di aprire un secondo terminal container a
Gioia Tauro.
Tra le richieste della Battistello, la più problematica da accogliere, perché graverebbe sui conti
pubblici, è quella dell’abolizione della tassa d’ancoraggio dovuta da ogni nave che attracca in porto. Un vantaggio offerto, lo scorso anno, dall’Autorità portuale presieduta da Giovanni Grimaldi,
che ha messo in campo, tagliando altre voci di bilancio, quattro milioni di euro pur d’incentivare il
ritorno delle portacontainer, che nel frattempo
avevano fatto rotta verso l’Africa, nei cui porti
l’approdo è libero da balzelli fiscali.
Per riproporre il taglio della tassa serve una volontà politica che al momento manca. Nessun segnale d’inversione di tendenza da parte del ministero guidato da Giulio Tremonti è stato fin qui registrato, nel quadro di una politica nazionale che
complessivamente è orientata ad assecondare
l’ottimo adattamento che i porti del Nord, Genova
e Trieste in primis, stanno dimostrando rispetto ai
flussi di merce che bypassano la Calabria, rimasta al palo in fatto di trasporti intermodali, senza
l’alta capacità ferroviaria - è semplicemente incredibile che in tanti anni non si sia riusciti a potenziare il fondamentale collegamento del porto
alla ferrovia (il “gateway”) - e con l’autostrada
che è una mulattiera.
Sembrano lontani i tempi in cui lo scalo calabrese, dedicato esclusivamente al trasbordo dei container, fu capace di portare benefici all’intera portualità italiana, spezzando nel cuore del Mediterraneo le rotte transoceaniche delle portacontainer, per rifornire con altre navi più piccole i porti
europei. Sedici anni di occasioni mancate, per
trarre altro vantaggio dal transito delle merci, ma
i calabresi non gridino al complotto.
COSA OFFRIRE ALLA CALABRIA DELL’ESODO?
CALABRESI NEL MONDO
Si aprono nuovi scenari della politica regionale per le comunità emigrate. Perfezionato l’assetto
istituzionale con le nomine di Alfonsino Grillo e Giuseppe Galati. In ritardo la creazione
della Consulta dell’Emigrazione. Urgente inserire in agenda il rapporto con le nuove generazioni
n Antonio Minasi
C’
è molta attesa per la nomina della Consulta dell’Emigrazione, in
ritardo ormai di quasi un anno. Sarebbe dovuta avvenire, a norma di legge, entro 60 giorni dall’insediamento del Consiglio regionale eletto. Probabilmente si è voluta dare la precedenza a due fatti istituzionali: la delega per i problemi dell’emigrazione conferita dal governatore
Scopelliti al consigliere Alfonsino Grillo; la costituzione della Fondazione
Calabresi nel mondo, attuata, per la prima volta, in applicazione della Legge n.33, legge aggiornata con accordo
bipartisan nel luglio 2009. Presidente della Fondazione, il
parlamentare Giuseppe Galati (UdC). Sarà interessante
vedere come andrà costruendosi il rapporto fra questi
due poli istituzionali, soprattutto in tema di competenze e
di riferimento organizzativo per tutte le associazioni dell’emigrazione presenti in Italia e nel mondo.
Sui programmi futuri, qualche anticipazione è venuta dall’on. Grillo: accorpamento in un testo unico delle tre leggi
esistenti che regolano il settore, con le novità della “Festa dell’emigrante calabrese” da realizzare ogni anno in
un Paese diverso e del Premio “Calabresi nel mondo”.
Bene la “festa dell’emigrante” come tante altre regioni Alfonsino Grillo
già fanno (e meglio sarebbe se ci fosse una data stabile che coinvolgesse contemporaneamente l’universo
mondo dell’emigrazione e non solo un singolo paese).
Una festa capace di proporre, ovunque, anche un momento di aggregazione con le altre comunità presenti sui
territori, con le quali condividere, ricordi, immagini, suggestioni - dal cibo alla musica - della Calabria tutta.
Lascia piuttosto perplessi l’ipotesi del ”premio”. Di premi
ce ne sono già troppi e in qualche caso con oneri non indifferenti a carico della stessa Regione che interviene,
magari, a favore di una serata di “bla, bla, bla” e di ricco
buffet. Realisticamente l’organizzazione del premio accenderebbe una inutile competizione e una dispersione Giuseppe Galati
enorme di risorse destinabili a impieghi più pertinenti.
Se si vuole veramente - e l’abbiamo scritto più volte - che l’emigrazione
diventi risorsa occorre ripensare la politica finora adottata. Occorrono,
strettamente uniti, progettualità e investimenti.
Liquidiamo il discorso investimenti: le attuali dotazioni sono semplicemente risibili, soprattutto in confronto con gli stanziamenti di altre regioni. (Il
Veneto ha stanziato, quest’anno, 600 mila euro destinati alle iniziative d’informazione, istruzione e cultura ed alle attività delle Associazioni).
Il problema numero uno è sicuramente quello dei giovani e della lingua. Intanto è importante che nella Consulta facciano il loro ingresso - come peraltro previsto dalla legge 33 - rappresentanti delle nuove generazioni e,
aggiungeremmo noi, anche giovani di recente emigrazione intellettuale.
Sappiamo, per conoscenza diretta, come nell’area dell’emigrazione, il
mondo giovanile di ultima generazione sia nettamente diviso. Da una parte, fortunatamente minoritaria, prevale l’indifferenza per
le proprie origini familiari; dall’altra, c’è, invece, un desiderio intenso, molto spesso insoddisfatto, di conoscere
quella realtà che il racconto nostalgico dei genitori e dei
nonni ha sempre evocato.
È intuitivo allora, come sia fondamentale - e non soltanto
per la lingua - stabilire un forte raccordo con le università calabresi, in termini di master, borse di studio, stage di
studio/vacanza, capaci di offrire anche un fecondo raccordo con i diversi aspetti della realtà regionale.
La Regione Lazio ha messo in campo una interessante
iniziativa: individuare i mercati esteri verso i quali le
aziende intendono dirigersi, selezionare direttamente lì
giovani di origine laziale meritevoli, formarli in Italia e farne dei promoter delle imprese della regione nel paese in
cui sono nati e cresciuti. C’è insomma la diffusa consapevolezza che il mantenimento dei rapporti di tipo storico e culturale con le generazioni un po’ più avanti con gli
anni, sono destinate ad affievolirsi sempre più, e quindi è
fondamentale pensare al ricambio se si vuol mantenere
un legame identitario con le comunità all’estero.
Infine, per concludere, c’è da compilare il solito promemoria - impossibile non ripetersi - degli interventi utili per
una efficace politica: promozione del turismo etnico, export dei prodotti locali d’eccellenza, emigrati di ritorno
motivati, magari, ad investire in regione… Ed in questa
prospettiva indispensabile si rivela il collegamento con
l’Assessorato all’Internazionalizzazione.
L’intreccio di relazioni istituzionali faciliterà o ritarderà la definizione di
una politica regionale per i calabresi all’estero (e non semplicemente
dell’emigrazione)? Staremo a vedere. Non rinunciamo, intanto, all’ipotesi già formulata da questo giornale, di uno specifico assessorato o in
subordine un Sottesegretariato della Presidenza che unifichi e coordini
le diverse funzioni.
n
n
saputo mettere a frutto il combinato disposto tra
un porto capace di movimentare ben tre milioni
di container l’anno e i circa 1500 ettari delle zone industriali nell’area del retroporto. Si conta
che su una cinquantina di aziende insediate e finanziate con fondi pubblici, ne siano effettivamente attive meno di una decina.
Il porto oggi soffre per la congiuntura internazionale e per l’emergere di nuove leadership nello
scacchiere mediterraneo.
È rimasto ciò che era nel 1995, ovvero uno scalo per il solo transito di merce, che non crea valore aggiunto in una regione che ha visto insediare a ridosso del terminal, senza efficaci controlli sulla valenza economica dei programmi
industriali, per la maggior parte aziende nate o
allo scopo di fruire dell’elargizione di fondi pubblici, oppure in settori produttivi che nessuna
convenienza potevano trarre dalla vicinanza
del porto.
Le classi dirigenti e politiche si sono cullate nel
miraggio che il solo porto potesse bastare. È
stata sprecata finora la grande occasione per
intercettare parte delle merci in arrivo, materie
prime e semilavorati, per trasformarle ulteriormente in prodotti finiti e innescare così un processo d’industrializzazione su larga scala, capace di rivitalizzare il circuito economico e sociale del territorio.
A. P.
La piccola Italia fregata dalla paura
Quei migranti così simili a noi raccontati da Annarosa Macrì in Alì voleva volare
n Enzo Romeo
C
alabria è una sorta di portaerei sul Mediterraneo, dove
tutti tentano di atterrare. Come Alì, il piccolo marocchino che ha
ispirato la penna della giornalista Annarosa Macrì. Il bambino vive a Sellia,
figlio di un venditore ambulante che
tutti chiamano Vu’ Cumprà e che ogni
giorno va al mercato di Crotone a
montare il suo banchetto.
Il libro della Macrì si intitola Alì voleva
volare (Abramo editore), perché il ragazzino sogna di diventare pilota e così poter fare la spola con l’aereo fra le
sue due patrie, l’Italia e il Marocco.
Per adesso deve accontentarsi di una
bicicletta, con cui tenta di raggiungere Catanzaro, dov’è ricoverata la nonna, sfidando il traffico della SS. 106, la
strada della morte.
Annarosa Macrì ricorda che gli immigrati marocchini chiamano i calabresi cugini. E che i calabresi, e in generale i meridionali, che sgobbavano
negli Stati Uniti piuttosto che in Svizzera o in Francia, portavano appiccicato addosso l’appellativo di Marocco. Vallo a distinguere uno di Reggio
da uno di Fès, uno di Soverato da uno
di Marrakech. Stessi occhi, stesso
tratto malinconico. I maghrebini è
gente venuta in Italia, in Calabria, come noi andavamo nelle Americhe, in
Australia o nel Nord Europa, in cerca
di lavoro e di fortuna. Solo che oggi
prevale la paura dello straniero, del
«diverso», anche quando il diverso è
in realtà molto simile a noi. E allora
non comprendiamo che gli immigrati
del terzo millennio ci riportano quel
mondo nuovo che i nostri padri e i nostri nonni hanno cercato lontano da
qui, a costo di tanti strazianti addii.
Come il signor Franco Suraci, partito
a cinque anni con i genitori da Gizzeria per Buenos Aires. Papà e mamma
lavorarono da cani per farlo studiare
da geometra, ma fu preso dalla passione per il volo - lo stesso sogno di Alì
- e divenne pilota di elicotteri.
Finì negli Stati Uniti in cerca di occasioni e di qui, senza neppure rendersene
conto, nell’inferno del Vietnam. Era il
’69, l’epoca dei Beatles, dei Rolling Stones e delle chitarre che davano solo la
nota della mitraglia: tatatatatà tatatatatà... Alla fine, dopo mille avventure,
Franco è tornato nella sua Itaca-Gizzeria e vola per conto della Protezione civile sulla Calabria delle frane e delle alluvioni. “I calabresi sono così” commenta amaro. “Distruggono tutto, il
mare e la montagna, le città e i paesini. Poi se ne vanno in giro per il mondo
e dicono: com’era bello il mio mare,
com’era verde la mia montagna”.
L’autrice racconta queste e altre storie (sette in tutto) con stile originale,
restituendoci il parlato dei protagonisti. Lei si autoproclama extracomunitaria ad honorem e le sue pagine vogliono essere un antidoto alla piccola Italia fregata dalla paura.
Cosa sarebbe oggi il ricco Nordest
senza i lavoratori stranieri che fanno i
manovali, gli operai nelle concerie e
alle catene di montaggio? In che modo andrebbe avanti l’agricoltura campana senza gli africani che si rompono
la schiena nei campi di pomodori? E
che dire della sommossa di Rosarno,
con gli stagionali della raccolta delle
arance che si sono ribellati allo sfruttamento subìto per tanti anni?
Quanto è avvenuto nella cittadina tirrenica è stato quasi un preambolo alla
rivoluzione dei gelsomini, che la Macrì
profetizza con un anno di anticipo: “Se
fossero loro a perdere la pazienza, a
sfoderare quel po’ di lauree che hanno
più di noi, quelle due o tre lingue che
conoscono più di noi, se fossero loro a
prendere l’iniziativa, a scendere in piazza e a indicarci come si fa a costruire
dalle macerie un mondo nuovo?”.
È accaduto proprio così.
n
6
ANNO VI - N. 12 - Aprile 2011
REGGIO CALABRIA
7
ANNO VI - N. 12 - Ottobre 2010
IL SENSO PROFONDO DI UNA TESTIMONIANZA DI CONDIVISIONE
MONGIANA
L’ARRIVO DEI PIEMONTESI SPENSE FABBRICA E SPERANZE
QUANDO IN CALABRIA
C’ERA L’INDUSTRIA
AD ECCEZIONE
Fratello
che da ragazzo levavi lo sguardo
di chi non sa cosa vuol dire resa
Fratello
la cui scelta di vita fu scommessa
in un mondo solo predicato
Fratello
al cui collo si è aggrappato,
come l’ostrica, chiunque andava a fondo
Fratello
la cui casa è stata aperta
com’è aperta una porta spalancata
Fratello
che di tutto ti sei spogliato
ad eccezione della tua coerenza.
Furono tempi d’oro quelli della Regia Fabbrica d’Armi di Mongiana,
la più avanzata in Europa. Forniva i fucili ai soldati di Sua Maestà
il Re delle due Sicilie. Poi arrivò l’Unità d’Italia e fu un’altra storia,
così come la ricostruisce Pino Aprile nel suo bestseller Terroni
Corrado Calabrò
IL PRETE DEI POVERI
CHE SFIDÒ LA MAFIA
n Piero Cipriani
ent’anni sono pochi, forse, per l’analisi
storica di un evento o di un percorso di vita. Ma il passare degli anni - e ne sono trascorsi poco più di venti dalla morte di don Italo Calabrò, scomparso a Reggio Calabria il 16 giugno
1990 - conferma questo straordinario prete del
Sud come una delle figure più rappresentative
della Calabria del ‘900. Una testimonianza di vita,
la sua: perché don Italo fu soprattutto - per intere
generazioni, di credenti e no - un testimone prima
ancora che un maestro. Una testimonianza di servizio, che vive ancora oggi nelle molteplici esperienze di accoglienza e di solidarietà avviate da lui
V
Don Italo Calabrò con mons. Giovanni Ferro,
Arcivescovo di Reggio Calabria,
di cui fu anche vicario generale
In alto, la poesia che Corrado Calabrò, Presidente
dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni,
ha dedicato al fratello don Italo
Don Italo Calabrò fu un prete da prima linea
fino alla sua morte avvenuta nel 1990.
Direttore della Caritas di Reggio Calabria, fece della città
dello Stretto un luogo d’avanguardia per l’accoglienza
dei poveri e chiamò i mafiosi “uomini del disonore”.
Il ricordo di colui che ne fu il braccio destro
e da chi ne sta proseguendo l’opera. Una testimonianza di amore, per la Chiesa e per la sua terra,
cui fu sempre profondamente legato.
Colpiva, in lui, soprattutto la concretezza di un
Vangelo vissuto. La fedeltà a Dio inscindibile dalla fedeltà all’uomo. E poi il senso tutto cristiano
dell’ottimismo, dell’apertura al futuro, al nuovo.
A dare una svolta decisiva alla sua vita era stato il pontificato di papa Giovanni XXIII: lui, già
sacerdote da una decina d’anni, era rimasto affascinato da Roncalli, che gli appariva l’incarnazione di una Chiesa più evangelica e meno
mondana. Quei tratti tipici del papato giovanneo
- la semplicità nel rapporto con i fedeli, il dialogo con tutte le persone di buona volontà, lo
sguardo al di fuori dei recinti ecclesiali per cogliere i “segni dei tempi” che lo Spirito suscita
ovunque - li ritroviamo anche in don Italo e nel
suo essere prete.
I poveri e i giovani sono le due polarità tra cui si
è sviluppata l’esperienza ecclesiale e sociale di
don Calabrò. Alla fine degli anni ’60 - quando anche a Reggio si avvertono i fermenti della contestazione - lui è insegnante di religione all’Istituto
tecnico-industriale Panella, tremila alunni, una
scuola difficile, dove don Italo diventa il punto di
riferimento per tutti, studenti e altri professori.
Ma la sua è una presenza mai accomodante e
scontata: a quei giovani che rimproverano alla
Chiesa inerzie e anacronismi, lui rilancia proponendo un percorso personale e di gruppo, chiede di assumersi le loro responsabilità nel cuore
dei problemi.
Per approfondire la figura
di don Italo Calabrò e delle opere
da lui promosse, si possono consultare
Centro Comunitario Agape (www.centroagape.org)
Piccola Opera Papa Giovanni
(www.piccolaopera.org)
concepite come “segni”, senza la presunzione di
dare risposte esaustive, ma come provocazione
attiva, intelligente, esemplare, perché anche altri
(l’ente pubblico in primo luogo) facciano la loro
parte. Strutture piccole, aperte al coinvolgimento delle comunità locali, delle parrocchie. È la
“pedagogia dei fatti”, cara in quegli anni alla Caritas Italiana, di cui don Italo fu uno dei cofondatori: educare, con gesti concreti, all’amore e alla
solidarietà, che nella Chiesa non possono essere
più delegati a qualcuno. È lo stesso motivo per cui
don Italo già dagli anni ’70 scommette con entusiasmo sulle nuove forme di coinvolgimento: il volontariato, l’affidamento familiare, l’obiezione di
coscienza, il servizio civile.
Segni controcorrente, spesso, rispetto alla cultura dominante. Nel Sud, soprattutto. Don Italo ne
era consapevole, lui, uomo profondamente incarnato nella sua terra. L’impegno per il riscatto del
Mezzogiorno, infatti, fu l’altro tema portante del
suo impegno pastorale: la lotta alla disoccupazione, la denuncia del malaffare e della cattiva politica, l’opposizione alla ‘ndrangheta, che per lui
era l’anti-vangelo, la negazione dei valori più autentici dell’uomo e della fede stessa. Quando nel
1984, con un gesto allora clamoroso, da vicario
generale decise la sospensione dei festeggiamenti patronali a Lazzàro, perché la mafia aveva
rapito Vincenzino Diano, un bambino di undici
anni, l’omelia che tenne in piazza divenne un
vero manifesto ecclesiale contro la ‘ndrangheta:
Nasce lì, sui banchi del Panella, quel gruppo di
giovani amici che poi via via negli anni darà vita
alle case-famiglia, alle comunità di accoglienza,
alle cooperative di lavoro, alla rete di famiglie affidatarie.
Servizi per i disabili, i dimessi dall’ospedale psichiatrico, le ragazze-madri, i minori a rischio.
Esperienze diffuse sul territorio, anche nei centri
più piccoli e poveri della diocesi reggina, perché
dovunque - insisteva don Italo - la solidarietà può
e deve diventare prassi, stile di vita diffuso.
Amava ripetere spesso il titolo di un libro di Arturo Paoli, Camminando s’apre cammino: e mi sembra esprima bene il suo percorso esistenziale. La scelta dei poveri non era per lui
“Abbiamo trovato difficoltà, contrasti,
un fatto ideologico o politico, un piano
astratto studiato a tavolino, ma il modo ma sempre abbiamo aperto, abbiamo accolto,
concreto di vivere il vangelo, accanto a abbiamo amato: questa è preghiera”
chi fa fatica, con la capacità di “spostare
“Quella gente oggi in mezzo a noi esprime il pole tende sempre più in là”.
Man mano che si incontravano i problemi e so- tere di Satana, il regno del male”. E altro che uoprattutto le persone reali. Perciò la sua casa era mini d’onore: “I mafiosi non sono uomini. I mafiosempre aperta a tutti, così come il suo ufficio in si non hanno onore”.
Curia (don Italo, oltre che parroco nel paesino di Il suo lavoro in mezzo alla gente lo portò spesso
San Giovanni, sulle pendici aspromontane, fu an- a incrociare le vittime di mafia, le storie di chi
che vicario generale della diocesi).
cercava di uscirne, ma anche a confrontarsi a
Secondo una sua precisa regola di vita: “Non si muso duro con boss e uomini delle cosche. E,
fa mai l’elemosina, neppure di una parola buona. soprattutto negli ultimi anni, a sostenere le
Si condivide”.
esperienze di resistenza alla mafia che nasceNon più la carità deformata a paternalismo o, vano nei quartieri, nelle scuole, nelle associapeggio, a strumentalizzazione del bisogno. Ma la zioni giovanili. “Serve una reazione nonviolencondivisione, che significa farsi carico, accom- ta”, ripeteva, “una nonviolenza forte, coraggiopagnare. E le opere, quando nascono, vanno sa, perché il vangelo è questo, non le interpretazioni sdolcinate che ne danno”.
Era questa la sua spiritualità: profonda, mai disincarnata. Che si ritrova nelle parole con cui, pochi
giorni prima della morte, don Italo si accomiatò
dalla sua comunità dell’Agape: “Io credo che abbiamo pregato in tutta la nostra vita. Ogni volta che
Piero Cipriani
abbiamo lottato per gli ultimi, ogni volta che ci siaNESSUNO
mo fatti carico di nuove situazioni, era il Signore
ESCLUSO, MAI
che pregava. Abbiamo trovato difficoltà, contrasti,
Italo Calabrò
prete del Sud,
ma sempre abbiamo aperto, abbiamo accolto, abbiamo amato: questa è preghiera”. Credo sia il
Edizioni
La Meridiana
senso più profondo della sua eredità.
n
n Massimo Vivarelli
o sai? Qui c’erano le più
grandi e moderne acciaierie d’Italia, le sole in grado
di competere, per qualità e produttività, con le migliori d’Europa” mi raccontava il mite Sharo Gambino, scrittore fecondo del fiume Angitola, dei
boschi dell’Ancinale…”
È questo l’incipit del capitolo I meridionali non hanno cultura industriale
del volume Terroni di Pino Aprile, bestseller da - al momento - trecentomila
copie, e che sta alimentando dibattiti
a non finire e ispirando “traduzioni”
teatrali.
“Questo era” scrive Aprile “il più grande distretto minerario e siderurgico del
Regno delle Due Sicilie e dell’Italia intera. Fu soppresso dal governo unitario, per un grave difetto strutturale: era
nel posto sbagliato, nel Meridione”.
Dopo l’Unità, è la tesi di Aprile, al Nord
furono concentrate tutte le opportunità,
“L
tanti ostacoli, invece, per il Sud privato
molto di quel che c’era.
“Gli altiforni di Mongiana, che erano i
più grandi e tecnologicamente più
avanzati d’Italia, vennero ribattezzati
Cavour e Garibaldi (invece che San
Francesco e San Ferdinando, dal nome dei re napoletani che li avevano
voluti e pagati). E poco dopo furono
spenti. Le rotaie che servivano al trasporto dei minerali estratti dalle miniere della zona furono divelte e vendute a peso, come ferro vecchio. L’intero stabilimento fu messo all’asta e
ceduto ad un ex sarto, garibaldino,
poi divenuto parlamentare e già coinvolto in una colossale truffa ai danni
dello stato. Nel prezzo, il maggior valore (i quattro quinti) fu attribuito ai
boschi che erano in dote alla fabbrica
e non agl’impianti. Un inutile, estremo
insulto”. Gli operai, 1.200, furono mandati a casa.
Così scoprimmo
la ferriera
di Mongiana
n Gennaro Matacena
n un’estate di circa quarant’anni fa, il mio amico Brunello de
Stefano Manno, di origine serrese ma trasferitosi a Napoli
dove aveva frequentato l’univeristà, mi invitò a passare qualche giorno a Serra San Bruno.
Tra le gite nei dintorni, a Mongiana, in quello che ci apparve
come il quasi rudere di un edificio neoclassico, “scoprimmo”
alcune colonne di ghisa, di fattura e dimensioni inusuali.
Informazioni raccolte sul posto facevano riferimento ai resti di
una Ferriera, probabilmente borbonica. Troppo poco per soddisfare la curiosità di giovani architetti.
Di nuovo a Napoli, consultando testi sulla Storia del Regno delle
Due Sicilie, trovammo frammentarie informazioni sul centro siderurgico calabrese. Da successivi sopralluoghi a Mongiana e da
iniziali ricerche in archivi, (soprattutto quello militare di Napoli),
ci rendemmo conto che la vicenda della Mongiana era stata complessa ed era meritevole di approfondimenti. In effetti era la vittima di una clamorosa, quanto inspiegabile, rimozione storica,
tenendo conto che era stata la più importante fonderia del Regno
delle Due Sicilie, non meno sviluppata di quelle coeve di
Follonica, (poi ILVA), nel Granducato di Toscana, e di un altro paio
tra Lombardia e Piemonte.
Nella Fabbrica d’Armi calabrese, attiva fino a pochi anni dopo
l’Unità d’Italia, si produssero infatti pregevoli fucili e armi bianche.
I
Eppure gli acciai di Mongiana - lame damascate, carabine di precisione, sciabole e armi - avevano ottenuto, fino ad
allora, riconoscimenti e premi in tutte le
esposizioni internazionali. Eppure, i
mongianesi si erano illusi, all’arrivo dei
garibaldini, che mai l’Italia avrebbe potuto fare a meno della loro eccellenza
siderurgica. Il governo di Torino scelse,
invece, di costruirne di nuovi, più a nord.
Così al referendum per l’annessione al
Regno di Sardegna, “l’amarezza della
Mongiana tradita divenne rifiuto: alle urne si contò una delle più alte percentuali di ‘no’ dell’intera provincia di Catanzaro”. Insomma, il giusto risentimento di
coloro che col Borbone erano stati concorrenti dei migliori produttori d’acciaio
d’Europa, che avevano reso il regno
precedente autonomo nella produzione
di armi e di travi per la costruzione dei
primi ponti sospesi in ferro d’Italia.
A tantissime famiglie toccò emigrare
Oltreoceano o verso Nord. “Ma la voglia di ferro e la capacità di lavorarlo
resistettero”.
È incredibile, ma oggi a Lumezzane,
cinquecento mongianesi con l’ondata
migratoria di un secolo dopo, negli
anni Sessanta, si trovano a lavorare
nelle fonderie del Bresciano.
E lì la vera Mongiana, quella originale è ridotta a “Mongianella”. Sulle ferriere e sul loro glorioso passato, progressivamente era caduto un velo,
per non dire una coltre, di dimenticanza. Sono stati due giovani architetti, mezzo secolo fa, ad incuriosirsi
davanti a due colonne di ghisa, che
oggi è possibile ridare vita e memoria
a Mongiana, così come racconta
Gennaro Matacena nella testimonianza che segue.
L’ingresso
della
fabbrica
d’armi
come appariva nel
1975 ed ora
dopo
il restauro
L’architetto Gennaro Matacena
racconta la quarantennale
storia del restauro, a lui affidato,
della Regia Fabbrica d’Armi
riportata alla luce dopo una
clamorosa, quanto inspiegabile,
rimozione storica
Accertammo infine che le colonne di ghisa che ne decorano l’accesso, che tanto ci avevano sorpreso, erano state fuse a Mongiana
nel 1852, e rappresentavano uno dei primi tentativi nell’architettura italiana di uso dell’acciaio come elemento strutturale.
Tanto bastò. Proponemmo al sindaco di Mongiana, il cavaliere
Vincenzo Rullo, (che era anche direttore amministrativo del Corpo
della Forestale) di avviare il restauro della Fabbrica, (all’epoca
prevalentemente privata, trasformata in abitazioni e depositi agricoli), per destinarlo a museo della siderurgia della Calabria che avevamo scoperto - era attiva già dal Medioevo.
Il restauro cominciò nel 1972… Dopo quasi quarant’anni, sta infine per concludersi, proprio mentre a guidare il Comune di
Mongiana è la dottoressa Rosamaria Rullo, figlia del sindaco con
il quale avviammo l’impresa.
In questi decenni, gli altri due sindaci che si sono succeduti
Mongiana, al di là del loro schieramento politico, hanno dato il
loro contributo per completare il restauro: Gesualdo Campese e
Vito Scopacasa, nipote del parroco Scopacasa, autore dell’unico
articoletto che, agli inizi della nostra avventura, ci informava dell’esistenza della Ferriera di Mongiana.
Finanziamenti a singhiozzo e problematiche di varia natura
(amministrative e ambientali) hanno rallentato e reso complesso
il recupero di questa importante testimonianza di archeologia
industriale italiana, caratterizzata anche da problematiche specifiche inerenti al delicato rapporto tra restauro filologico e consolidamento strutturale antisismico, nonchè il recupero di tipologie
costruttive connesse alle attività produttive, e di cui si erano
perse tracce.
La Mongiana ha dunque attraversato la mia attività professionale
lungo quattro decenni, cadenzato da numerose interruzioni e conseguenti momenti di sfiducia. Spesso, ho temuto di non riuscire a
vedere terminato il recupero della Fabbrica e l’apertura del
Museo nel quale raccogliere armi e documenti, testimonianze
concrete dell’alto livello artigianale e tecnologico raggiunto da
generazioni di operai.
Ho potuto superare i momenti di scoraggiamento grazie all’interesse sempre crescente manifestato verso la storia della
Mongiana e, più in generale, per l’industria calabrese preunitaria, che seppe trasformare le sue risorse, minerarie e agricole, in
prodotti di ampio consumo, (seta, zucchero da cannamela, olio,
conservazione del tonno, liquirizia, e altro ancora).
L’apertura del Museo della Fabbrica d’Armi rappresenta per i
calabresi un impegno morale a “fare qualcosa” che serva testimoniare il lavoro degli operai della Mongiana - minatori, carbonai, fonditori - la cui abilità fu premiata in esposizioni e fiere, nel
Regno e in altre nazioni europee.
n
8
ANNIVERSARI
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ANNO VI - N. 12 - Ottobre 2010
DIPINTI E SCULTURE MEMORIA DI UN GRANDE EVENTO
Da qualche anno un gruppo di ricerca guidato da Giovanna Capitelli,
professore associato di Storia dell’arte moderna dell’Università
della Calabria, indaga la cultura artistica dell’Ottocento in Calabria
e dunque anche il contributo degli artisti calabresi al Risorgimento italiano.
Un ricco volume sull’argomento, illustrato da una campagna fotografica
di Giulio Archinà, sarà in libreria nel prossimo dicembre
Il Risorgimento e
le arti in Calabria
Domenico Russo, Garibaldi e Roma, 1862, Napoli, Museo Nazionale di San Martino
Andrea Cefaly,
La battaglia di Legnano,
Catanzaro,
Museo Marca
Un incontro con Giuseppe Verdi
asseggiavamo un
giorno, sulla celebre
striscia bianca, avanti palazzo reale di Napoli, ed
eravamo io, Achille Martelli, il povero Saro Cucinotta
(che fu fucilato poi al tempo
della Comune di Parigi), l’incisore Micale e, mi pare,
anche De Bartolo», così inizia il racconto dell’incontro
«P
fortuito con Giuseppe Verdi
di Andrea Cefaly, narrato in
una lettera inviata dal pittore a Francesco Jerace il 7
aprile 1897.
È il 1857-58 quando, per le
strade di Napoli, un gruppo di
giovani studenti di Belle Arti,
tra cui il giovane Cefaly,
s’imbatte nel maestro, presentandosi con ammirazione
Andrea Cefaly, artista e patriota
ell’ambito delle celebrazioni dei 150
anni dell’Unità d’Italia e del
progetto “Italia Unita, Musei Uniti”,
il riallestimento degli spazi espositivi di
un’ala del Museo MARCA di Catanzaro
si configura come un’occasione per
accostarsi a un gruppo di opere
permeate degli ideali risorgimentali.
L’esposizione dal titolo “Andrea Cefaly
pittore e patriota”, a cura di Manuela
Alessia Pisano e Maria Saveria Ruga,
è infatti dedicata ad una delle figure più
significative della scena artistica
calabrese ottocentesca e sebbene
contenuta nel numero, è significativa
per la comprensione di mode e gusti
del Mezzogiorno risorgimentale.
Nato nel 1827 a Cortale (CZ) da una
nobile famiglia di ricchi possidenti,
N
Andrea Cefaly frequenta l’ambiente
napoletano sin dalla più giovane età
maturando una spiccata propensione
per la pratica artistica. La scena della
città partenopea della seconda metà
del XIX secolo era piuttosto vivace,
con personalità quali Filippo e Nicola
Palizzi, Domenico Morelli, Michele
Cammarano, Vittorio Imbriani.
La mostra si apre con il celebre
Autoritratto del 1860 che, attraverso
uno sguardo che è finestra sul mondo
interiore, introduce il visitatore al
grande carisma e all’eccezionale
tempra morale del pittore-patriota
cortalese. Il percorso espositivo
prosegue con l’Autoritratto in divisa
garibaldina che testimonia, in una
chiave pittorica innovativa, il suo
Andrea Cefaly, Campagna del Volturno,1860/61, Reggio Calabria, Pinacoteca Civica
e riconoscendo in lui uno dei
principali emblemi del patriottismo risorgimentale.
È noto come i temi cantati
da Giuseppe Verdi - il cui
stesso cognome divenne,
nel motto Viva Verdi, acronimo di Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia - non mancarono di far sentire la loro
influenza nella scelta dei
impegno civile e la sua adesione alle
istanze di repubblicanesimo
risorgimentale mazziniano. Si continua
con il Bivacco di garibaldini in cui, con
evidenti richiami al naturalismo di
matrice palizziana e alla nascente
tecnica della macchia, si dà conto di
uno squarcio di vita militare in un
momento di pausa tra una battaglia e
l’altra. La mostra è, inoltre, arricchita
da due importanti inediti. Sono i due
disegni di soggetto allegorico-politico,
provenienti dalla collezione Russo, che
s’inseriscono nel percorso espositivo
ad ulteriore riprova della centralità
dell’impegno risorgimentale nella vita
sociale e artistica di Cefaly.
Accanto ad essi è il monumentale
Bruto che condanna i figli del 1863,
quadro d’impostazione mancinelliana,
esaltazione degli ideali di patriottismo e
democrazia e soggetto iconografico
soggetti degli artisti patrioti.
La stessa Battaglia di Legnano (Catanzaro, MARCA), dipinta da Andrea Cefaly, non può che essere
letta in relazione all’omonima opera messa in scena
da Verdi nel 1849 - su libretto del napoletano Salvatore
Cammarano - dedicata ad
uno dei temi divenuti simbolo della lotta per l’indipendenza, inserendosi nel
filone storico di stampo patriottico caro alla pittura del
Risorgimento.
Maria Saveria Ruga,
Università di Pisa
che gli consente di assecondare le sue
inclinazioni ideologiche repubblicane.
Ed infine la Battaglia di Benevento dei
primi anni ‘70, di ispirazione morelliana,
con la quale rievoca una delle più
gloriose battaglie dell’Italia
meridionale, concausa della perdita di
indipendenza per il Regno delle Due
Sicilie, e la tela di Chi compra
Manfredi? che celebra l’eroica epopea
del giovane re di Sicilia.
Con la mostra dedicata ad Andrea
Cefaly sarà possibile ripercorrere la
vicenda di tanti artisti patrioti che si
mobilitarono per la strenua difesa della
libertà, oltre che approfondire quella di
uno dei maggiori protagonisti e
testimoni in pittura delle vicende del
Risorgimento meridionale.
Manuela Alessia Pisano,
Università della Calabria
Giuseppe Scerbo,
passione per l’arte
e ideale di patria
epopea risorgimentale che infiamma la Calabria tutta, trova la sua
espressione nell’opera dello scultore Giuseppe Scerbo (Polistena 1844
- Reggio Calabria 1902), straordinaria combinazione tra la passione per l’arte
e l’ideale della patria. Scerbo scolpisce la statua del generale Francesco
Stocco (1806-1880) in Catanzaro, un eroe calabrese tra i mille partiti da
Quarto al fianco di Garibaldi, e in seguito generale maggiore nell’esercito e
poi deputato nel Parlamento.
L’opera, inaugurata nel 1898 per volere della cittadinanza e della provincia, rappresenta il culmine della produzione scultorea civile di questo artista, sia per la tecnica che per il grado di espressività raggiunto.
Nel marmo, Scerbo condensa gli elementi distintivi di un combattente tra
i più valorosi nella regione; sceglie di rappresentare un momento di vita
privata, in cui il generale stringe nel pugno un telegramma recante notizie negative su un’insurrezione da lui organizzata. La cura dei dettagli con
cui Scerbo celebra il personaggio, si coglie nella collera del gesto della
mano e nella forte idealizzazione dello sguardo, ed è legata ai ricordi della
sua giovinezza, quando partecipa ai moti, tra le fila del generale Stocco, insieme a molti altri artisti come i pittori Andrea
Cefaly e Antonio Migliaccio.
La figura di questo scultore mostra interessanti sviluppi,
ancora da indagare per molti aspetti.
Si forma nella bottega dei Morani a Polistena,
poi all’Accademia Napoletana negli anni ’70 dell’800,
e lavora ininterrottamente fino alla morte a Reggio
Calabria, rimanendo così confinato nell’ambito artistico
regionale.
Tra le sue opere suscita particolare interesse
un filone di marmi post-risorgimentali, dove ritrae
personaggi impegnati nei moti e nelle lotte per l’Unità,
che include la statua a Stocco, il busto a uno dei
fratelli Plutino a Reggio Calabria e la statua
del martire risorgimentale Battista Falcone ad Acri.
I caratteri distintivi dello stile di Giuseppe Scerbo
si consolidano nelle opere di Acri e Catanzaro;
per fermare il pathos del soggetto e trasmetterlo
al fruitore, l’artista utilizza vicende del personaggio,
ricordi privati o pubblici, che costituiscono un nesso
tra l’opera e lo spettatore, capace di rafforzare
il valore dell’arte come mezzo di comunicazione di
ideali e sentimenti al popolo.
L’
Graziella Staltari, Università della Calabria
Giuseppe Scerbo,
Monumento al martire Battista Falcone,
1888, Acri, Piazza Vittorio Emanuele III
Foto Giulio Archinà
Garibaldi, sogno e tradimento
a Calabria, con i suoi pittori-patrioti e i suoi scenari paesistici, entra di diritto
nel patrimonio artistico e visivo del Risorgimento almeno attraverso due
dipinti di straordinaria importanza per la nazione in fieri, due opere capaci
di raffigurare la portata simbolica del sogno garibaldino e il suo repentino
tradimento. La prima è un ritratto allegorico di Garibaldi eseguito nel 1862
da un (ancora troppo poco noto) artista di Nicotera, Domenico Russo.
Il suo titolo è Garibaldi e Roma: un pezzo visionario che, specie a confronto
con la sterminata e spesso monotona iconografia garibaldina, rappresenta
una testimonianza pittorica di eccezionale elaborazione formale.
La seconda è La discesa d’Aspromonte di Gerolamo Induno, un grande quadro
di storia contemporanea che raffigura la discesa dei Garibaldini dalla montagna
all’indomani dello scontro con i Bersaglieri del Regno d’Italia: l’episodio che
notoriamente aveva bloccato l’avanzamento del gruppo del generale verso
Roma. L’opera, presentata a Brera nel 1863 e subito amata dal pubblico, fu
argomento di grande discussione, così come lo era stata nell’agosto del 1862
la notizia del ferimento e dell’arresto di Giuseppe Garibaldi per mano italiana.
L
“La sventura di Aspromonte: il più lugubre avvenimento che abbia contristati
i primi anni del Risorgimento italiano” rappresentò infatti per una parte
dell’opinione pubblica un fatto da cancellare per sempre dalla storia scritta,
dipinta e parlata. L’opera di Gerolamo Induno ne offrì invece una pacata
rievocazione, lontana dalle polemiche e incredibilmente intensa.
Lo notarono molti contemporanei, fra cui Camillo Boito che scrisse:
“Quelle sue figure… scendono meste, pensose e tacite, perché i grandi dolori
amano il silenzio”. Sostenuto da una barella di pronto soccorso,
Garibaldi emerge tra la folla dei suoi soldati come un Cristo doloroso
ma paziente, un eroe sereno e incapace di provare amarezza.
Lo accompagnano i suoi fedelissimi: il figlio Menotti, il dottor Ripari,
Enrico Cairoli, Francesco Nullo, Enrico Guastalla, lo stesso pittore.
Lo salutano le donne e i contadini calabresi, che accompagnano la triste
discesa verso il mare con gesti di accoglienza e di affetto.
Giovanna Capitelli, Università della Calabria
I temi patriottici
entrano anche
nel repertorio
della pittura
di genere,
vestendosi
di significati diversi
alle varie latitudini
dell’Italia.
Migliaccio e Lenzi
appartengono
al giro più stretto
dei sodali
di Andrea Cefaly,
prima a Napoli,
poi a Cortale
Gerolamo Induno, La discesa d’Aspromonte, 1863, Collezione Terlizzi
Eduardo Fiore, originario di Sambiase,
è una figura più isolata, ma di estremo
interesse per le sue ricerche
demo-etnografiche, che qui emergono
nella rappresentazione della casa borghese
e dei costumi delle donne
Tra delusione
e impegno sociale
Giovanni Pacchioni,
Monumento alla Libertà,
1878, Cosenza,
Piazza della Prefettura
La statua cosentina
è una delle prime
testimonianze
in Calabria della
‘monumentomania’
postrisorgimentale.
Lo scultore,
bolognese,
aveva fatto
parte della
spedizione dei
fratelli Bandiera
nel 1844,
per la quale
aveva scontato
lunghi anni
di reclusione
Eduardo Fiore, La bandiera italiana, collezione privata?
Foto Giulio Archinà
Michele Lenzi, Il ritorno del garibaldino, 1861, Napoli, collezione del Comune
el 1866, Andrea Cefaly presenta alla IV
esposizione della Società promotrice di
Belle Arti di Napoli un dipinto di contestazione in aperta polemica con la politica dell’Italia unita. L’opera era registrata nel catalogo con il titolo Il miglior modo di viaggiare in
Calabria (Napoli, Museo Civico di Castel
Nuovo), insieme all’annotazione del proposito dell’autore di dedicare il dipinto al Ministro dei Lavori Pubblici per denunciare lo
stato della viabilità calabrese.
Inviato a Napoli ed affidato alle cure di Filippo
Palizzi, il quale intervenne direttamente sulla
tela ritoccandone l’intonazione luministica del
fondo, l’opera suscitò non poco scalpore, ma
riscosse i favori del politico calabrese Giovanni Nicotera - impegnato nel migliorare le vie di
comunicazione della regione - che lo fece acquistare dal Municipio di Napoli.
Il dipinto costituisce la prima opera di Cefaly
di dichiarato impegno sociale che riflette l’interesse crescente dell’artista per le questioni civili,
un’inclinazione già espressa nel suo non lontano
passato da garibaldino - acuitasi negli anni del forzato rientro in Calabria, nel 1862, per motivi familiari - preludio del suo attivismo politico.
N
Antonio Migliaccio, Garibaldini in osteria,
Napoli,Museo Nazionale di Capodimonte
Andrea Cefaly, Il miglior modo di viaggiare in Calabria,
Napoli, Museo Civico di Castel Nuovo
Cefaly insiste sul tema anche nella V Promotrice
del 1867-68, esponendo due dipinti: Il Commercio di
Calabria: senza ponti, senza strade e coi briganti!
e La ferrovia promessa dal ministero Italiano pel
1867 è rimasta in aria - rintracciata nella collezione della Banca d’Italia a Catanzaro - insieme a I
Calabresi, veduto ch’è inutile lo sperare più
strade, tentano mettersi in relazione con gli
altri popoli affidandosi ad un pallone spinto
da un razzo volante. Confusi dalla critica
con la tela presentata alla IV Promotrice,
per il soggetto ed i titoli, questi due lavori
costituiscono una naturale prosecuzione
della polemica con essa innescata.
Le due opere furono aspramente criticate da
Vittorio Imbriani e Carlo Tito Dalbono, insistendo sull’invito al pittore di occuparsi di
pittura e non, attraverso l’arte, di politica.
Questa stroncatura ed il conseguente richiamo di Filippo Palizzi a rientrare al più
presto a Napoli - per non prolungare la “lontananza dalla fucina rivoluzionaria dell’arte”
- giunto a Cefaly con una missiva del marzo
del 1868, indussero poi il pittore di Cortale ad
abbozzare una lettera di autodifesa, pubblicata da Alfonso Frangipane, indirizzata allo
stesso Imbriani: “Non essendo, né scrittore
(di buona qualità) né giornalista, né storico,
né Poeta come dovrei esprimere a gl’Italiani
fratelli, le sofferenze di noi altri Calabresi?...
E tu, perdona, che ‘l dica, tu come garibaldino, figlio di un famoso patriota avresti dovuto riguardare i miei brutti lavori dal lato solo della mia
buona intenzione, tramandando… il giudizio sull’Arte».
Maria Saveria Ruga, Università di Pisa
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STORIA TEATRO CINEMA MUSICA
La Calabria
e i fermenti unitari
n Saverio Musolino
artecipò la Calabria ai moti risorgimentali? Che ruolo ebbero i patrioti calabresi nel processo che portò all’unificazione della penisola? Scarso o nullo,
a giudicare dallo spazio riservato dai testi di storia per la scuola. Bene che
vada, si citano i fratelli Bandiera, ufficiali veneziani che in Calabria trovarono solo la morte.
Di Calabria se ne parlerà dopo l’unità, per mettere in risalto gli aspetti - negativi legati al brigantaggio, fenomeno sul quale si ritiene, erroneamente, affondi le radici il fenomeno mafioso.
Invece, contrariamente a quanto rappresentato dalla storiografia ufficiale, la Calabria, nella storia risorgimentale, ebbe un ruolo di primo piano, sotto il profilo
della cospirazione, dell’azione e del pensiero. Proprio a Pizzo, nacque e operò
Benedetto Musolino (da non confondere con l’omonimo e più famoso brigante, nato alla fine dell’800, in
epoca post-unitaria), che discendeva da una famiglia di patrioti che già nel 1799 avevano abbracciato le idee egalitarie e illuministiche della Repubblica Partenopea e per questo avevano subìto la rappresaglia delle orde del Cardinale Ruffo, nella sua
crociata volta a far riconquistare il Regno al Borbone spodestato. Benedetto Musolino fondò la setta
segreta dei Figlioli della Giovane Italia, cui aderì subito Luigi Settembrini e il giovanissimo Giovanni Nicotera, nipote del fondatore. Fu questa l’unica Giovane Italia diffusa nel Meridione (come attesta lo
stesso Settembrini nelle Ricordanze), che era non
solo distinta ma addirittura contrapposta a quella
del Mazzini, cui ingiustamente - ed erroneamente - Benedetto Musolino
ancora taluno attribuisce la paternità.
Nel 1848, dopo che il Re Ferdinando II aveva abiurato la concessa Costituzione, fu
proprio in Calabria che fu organizzata la più vibrata reazione, che portò alla formazione a Cosenza di un Governo provvisorio rivoluzionario, guidato dal Ricciardi, al
quale prese parte anche il cosentino Domenico Mauro, oltre al Musolino. È in Calabria che avvennero gli scontri più sanguinosi con le milizie borboniche, come la
battaglia dell’Angitola e l’eccidio di Pizzo nel 1848. Per non dimenticare il sacrificio di Domenico Romeo e dei cinque martiri di Gerace.
I patrioti calabresi, dopo che fu sedata la rivoluzione con la repressione borbonica, combatterono anche a Roma nel 1849 (Musolino e Nicotera), al fianco di Garibaldi e quindi a Venezia. Seguirono dieci lunghi anni di esili e di galere borboniche, ma mai essi smisero di cospirare, tanto da congiungersi a Garibaldi nell’impresa dei Mille. Si distinsero Giovanni Nicotera, Francesco Stocco e Benedetto
Musolino il quale, la notte dell’8 agosto 1860, su disposizione di Garibaldi, attraversò lo Stretto al comando di 200 uomini, a bordo di piccole barche, approdando a
Santa Trada, nei pressi di Villa S. Giovanni, spianando così la strada al Dittatore,
che sbarcherà una decina di giorni dopo a Melito. La vicenda, ignorata dai testi di
storia in uso nelle scuole, è testimoniata da una fitta corrispondenza, custodita nell’archivio Musolino, con la quale il Dittatore, dalla Sicilia, impartiva le direttive in
vista del suo arrivo.
Tutto questo fermento prova non solo la partecipazione della Calabria ai moti unitari, ma attesta altresì che questa Terra, ai primi dell’‘800, non era affatto, sotto il
profilo culturale, la cenerentola che si vuol far credere.
P
L’attore
Gregorio Calabretta
ripropone con
il suo spettacolo
un quesito irrisolto:
l’Unità d’Italia
per il Sud significò
annessione, perdita
di identità,
emigrazione forzata?
Le opinioni degli
studiosi a confronto
n Giuseppe Chiellino
C’
è chi ha celebrato in Calabria il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con uno spettacolo che mette a soqquadro i libri di
storia e i loro personaggi. S’intitola
Aspettando, ancora, Garibaldi, allestito da Gregorio Calabretta, autore, regista e attore calabrese autodidatta, originario di Stallettì. È un “viaggio in Calabria dall’Unità d’Italia ad oggi” che
seduce lo spettatore, giocando con il
dialetto e con le immagini per raccontare “ciò che i libri di scuola non dicono sull’Unità”. E lo fa attraverso la storia di tre generazioni di una famiglia
calabrese, dall’arrivo dei garibaldini
nel 1860 all’eccidio dei braccianti di
Torre Melissa che reclamavano le terre, nell’Italia repubblicana del 1949.
Un testo che, spiega l’autore, “fonde in
un’unica trama i racconti di tre scrittori, Leonida Répaci (La marcia dei braccianti di Melissa), Francesco Perri
(Emigranti, 1928) e Saverio Strati (Mani vuote) che nel corso del ‘900 hanno
affrontato il dramma delle lotte dei
contadini del Sud e dell’emigrazione
massiccia che ha svuotato campagne
e paesi del Mezzogiorno. “La sconfitta
più grande per noi meridionali causata dall’Unità - afferma Calabretta in un
dialogo immaginario con Garibaldi - è
stata la perdita della nostra identità
culturale, il senso di appartenenza che
rende gli uomini orgogliosi della propria terra. Vi sono due modi per cancellare l’identità di un popolo: il primo
è di distruggere la sua memoria storica, il secondo è di sradicarlo dalla propria terra. Noi meridionali li abbiamo
subiti entrambi”.
“Sono punti di vista di una vulgata ricorrente - osserva Sergio Luzzatto, docente di Storia moderna all’Università
di Torino - ma nella vulgata non c’è solo storia d’accatto. In questo caso, non
è tutto falso. Tutt’altro”. A parte il giudizio su Garibaldi, che Luzzatto non ha
problemi a definire un “avventuriero
generoso, ma poco accorto e di scarse vedute”, lo storico individua nella
repressione “indiscriminata e senza
prigionieri” del brigantaggio “la ferita
più grave del Risorgimento, che non si
è mai rimarginata del tutto”.
ASPETTANDO
ancora
GARIBALDI
Non c’è dubbio, secondo Luzzatto, che
“l’Italia che portava i medici, le scuole, il sistema metrico decimale nell’ex
Regno di Napoli portasse anche tante
altre cose che sono sparite dai libri di
storia”.
Un grande esperto di storia risorgimentale e del Mezzogiorno, Giuseppe
Galasso, autore tra l’altro della Storia
del Regno di Napoli, è prudente nelle
critiche al processo unitario condotto
con la regia di Cavour. “È vero che le
casse del Regno delle due Sicilie erano piene di soldi che sono serviti ai Savoia per riequilibrare i conti dello Stato. Ma era una ricchezza inerte. Improduttiva”. Una prova? “Nel 1860 in tutto
il Regno di Napoli c’erano non più di
110 km di ferrovie. In Piemonte, Lombardia, Liguria e Veneto occidentale
ce n’erano 1.500”.
Nel dibattito s’inseriscono, non senza
una venatura polemica, i monarchici.
“Lo scenario rivendicativo meridionalista è poco credibile”, afferma Alberto
Casirati, presidente dell’Istituto della
Reale Casa di Savoia. “È un fatto storicamente accertato che le sorti del Regno borbonico erano affidate ad una
classe dirigente composta in massima
parte da corrotti e da traditori, come dimostra la repentina decomposizione
del Regno dopo lo sbarco dei Mille a
Marsala”. E aggiunge: “Come ogni
esperienza umana, anche il nostro Risorgimento ha avuto le sue ombre, ma
non v’è dubbio che abbia costituito per
il Sud un’occasione vera di sviluppo. Se
ne ricordarono bene, solo 86 anni dopo,
i cittadini meridionali quando votarono
a grande maggioranza a favore della
Monarchia sabauda nel referendum
istituzionale”.
Miguel Gotor, docente di storia all’Università di Torino non è sorpreso dalla
“riemersione carsica” degli argomenti
antirisorgimentali, ma li etichetta come
“retorica del ribaltonismo”. Secondo
lui “era fatale che ai localismi ‘leghisti’
che trovano una definizione nella questione settentrionale, giungesse una risposta identitaria dal Mezzogiorno”.
Gotor fa riferimento al “fenomeno”
Lombardo in Sicilia, ma anche alla difficoltà di Pdl e Pd a rappresentarsi come
partiti nazionali al Sud. “È normale che
ciò accada quando tutto il Paese vive
un momento di difficoltà, quando c’è,
come oggi, una crisi economica mondiale e si fatica a comprendere quale
sarà il ruolo internazionale dell’Italia,
anche dal punto di vista del prestigio
economico”. E tuttavia non serve a
niente creare “il mostro-Sud proprio
nel momento in cui l’industria del Nord
non ha più bisogno della manodopera
meridionale”. Il Sud non è tutto uguale e i meridionali devono essere aiutati a “non stare fermi”, per usare l’immagine dello spettacolo di Calabretta.
Ciò significa “valorizzare ciò che c’è di
buono, tagliare i legami con la criminalità organizzata e affermare il buon governo della cosa pubblica”.
n
Racconti di un Sud da amare
(malgrado tutto)
Cataldo Perri
medico, amministratore comunale,
ma soprattutto cantautore, torna
con un nuovo disco, sintesi di memorie
lontane e di umori contemporanei
n Gianluca Veltri
sei anni da Bastimenti, torna Cataldo Perri,
il cantastorie di Cariati. I suoi lavori hanno
una gestazione lunga, ma poi sono molto
longevi. Guellarè è il titolo del nuovo lavoro di Perri, il quale, oltre a essere un artista conosciuto in
mezzo mondo e un virtuoso della chitarra battente,
è medico condotto nel suo amato paese jonico ed
è reduce da un’esperienza come assessore e vicesindaco che lo ha molto impegnato.
Rotte Saracene, il suo primo disco, nel 1992, narrava una storia remota, quella di Laura, la bella cariatese rapita dai turchi nelle loro incursioni, nel 1540,
A
sulle nostre coste. Bastimenti, del 2005, metteva in
musica un’epopea, quella della diaspora di migliaia
di braccia calabresi nelle Americhe, dei loro sogni e
delle speranze di cambiamento; raccontava l’emigrazione attraverso la storia argentina del nonno
Michele. Guellarè, la fatica più recente di Cataldo
Perri, ribolle di melodie maghrebine, tanghi e tarantelle, preghiere cristiane e musulmane. Affronta temi diversi e complessi: gli sbarchi delle carrette del
mare, l’invadenza mafiosa, la piaga delle “morti
bianche”, il rapporto figli-genitori dentro relazioni familiari tipiche del Sud. Insomma, pubblico e privato.
Lo specchio deformato,
ma non troppo,
di Cetto La Qualunque
Nelle sale
cinematografiche
ha spopolato
Qualunquemente,
film-parodia
dei peggiori vizi di
un certa classe
politica: arrivismo,
ignoranza, disprezzo
delle regole
n Enzo Natta
Q
ualunquemente di Giulio Manfredonia, cosceneggiato e interpretato da Antonio Albanese, presentato nella sezione “Panorama” del 61° Festival di Berlino, è stato
accolto dal commento pressoché unanime della stampa straniera, che, pur
nella sua chiave grottesca, l’ha visto
come uno specchio fedele delle vicende politiche italiane.
Giudizio condivisibile? Forse, in questo
caso, bisognerebbe tirare in ballo Majakovskij, quando diceva che il cinema
e il teatro non sono lo specchio della
società, bensì la loro lente d’ingrandimento, spesso deformante. Giudizio
che ben si addice a Qualunquemente,
cronaca di una produzione annunciata
dopo il successo raggiunto dal personaggio di Cetto La Qualunque, nato in
Rai nel 2003 all’interno del programma
Non c’è problema fino a conseguire un
largo consenso di pubblico con la Gialappa’s band nel programma Mai dire
domenica, rafforzatosi ulteriormente
con la partecipazione a Che tempo che
fa di Fabio Fazio.
Cetto La Qualunque è un “miles gloriosus” del nostro tempo, imprenditore calabrese, corrotto, depravato, spudoratamente ignorante e tronfiamente incolto, sprezzante di ogni valore, dall’onestà
alla dignità, dalla famiglia alle regole basilari della democrazia, dal rispetto dell’ambiente a quello della donna, ritenuta niente di più di un famelico oggetto
del desiderio e di un protervo consumo
usa e getta. È l’immagine restituita dalla lente d’ingrandimento di un deprecabile tipo di comportamento all’interno
Gli attori protagonisti
di Qualunquemente
Guellarè è un termine arabo che significa “bambino”, ripescato da Perri nel pozzo della sua memoria infantile. “He Guellarè, màmmita ha fatti i
cudduredd, era l’incipit di una cantilena con la
quale ci prendevamo in giro da ragazzini”, ricorda. Quello scherno torna oggi come una tenerezza, ma anche come un simbolo di ricchezza culturale. La parola “guellarè” diventa una testimonianza delle contaminazioni fra i popoli del Mediterraneo, l’eredità di una parentela. “La Calabria”,
ricorda il cantautore, “è stata crocevia di tanti saperi e in un brano di musica di tradizione è racchiusa la storia di un popolo”.
Il mio Sud è il brano iniziale del disco, quello che
forse con più dolorosa verità racconta i mali della Calabria: “il degrado urbanistico e ambientale, l’incivile giogo della criminalità organizzata”,
riassume Perri, da sempre in prima linea nelle
iniziative civili, negli ultimi tempi anche come
amministratore.
Guellarè ha molto impressionato Renato Marengo
e Michel Pergolani, i due celebri dj conduttori della trasmissione “Demo” su Radio Uno, che hanno
dedicato uno speciale interamente a Perri, per
l’anteprima di Guellarè. “Il cd di un’artista che ci
colpisce e ci stupisce”, dicono, “che ci invade il
cuore e ci strizza l’anima”.
Il medico-cantastorie vive a Cariati a pochi metri
dal mare. Lo Jonio, la sua risacca, i suoi profumi,
gli fanno compagnia da sempre. “Le voci animate
del tessuto politico e sociale, dicevamo,
che fa risaltare la materia deformandola ed esasperandola con tratti quanto
mai grotteschi e paradossali, accentuati da una scenografia di contorno e da
costumi che ne acuiscono il tratto fino a
dilatarsi nella buffoneria.
Nel bel mezzo di questo “décor”, come
monarca assoluto trionfa il personaggio
di Cetto. Che fa strame di tutto: affetti,
sentimenti, doveri civici e familiari, onore, integrità morale, galateo, siti archeologici, aree protette e chi più ne ha più
ne metta. Ma, nel passaggio dalla ribalta televisiva al cinema, non basta allungare il brodo aggiungendo acqua (come
la proverbiale minestra del convento)
perché una macchietta si trasformi in
un carattere.
Su un’idea (e quella di Cetto La Qualunque al momento è soltanto un’idea) bisogna spalmare una storia perchè uno
sketch si converta in una sceneggiatura dall’ossatura ben articolata e questa
in un film. Condizione che non trova
compimento in Qualunquemente, sfilacciato e ripetitivo collage di siparietti
fine a se stessi, dove tutto è prevedibile, dove ogni scena annuncia e anticipa quella successiva e dove la regia
non va mai al di là di un accompagnamento che si limita a rassettare il poco
di cui dispone.
Con un traguardo finale preventivato in
venti milioni di euro, ogni appunto e
ogni rilievo rischiano comunque di risuonare come un’eco spuntata, ma
anche il più soddisfacente successo
potrebbe esaurirsi in uno sfogo generalizzato e qualunquista, esito finale di
un’inutile polemica senza destinatario
quando il bersaglio è così vago e impreciso da scomparire ancor prima di poter prendere la mira. Con un paese in affanno e una ripresa economica in stallo l’evasione consumata fra la burletta e
la canzonatura ha le gambe corte e non
può andare molto lontano. Rischia di
non colmare lo iato fra la politica e la satira e di fermarsi a metà strada. Come ha
fatto con Qualunquemente.
Il senso del ridicolo che procede sottobraccio alla costante amoralità di Cetto La Qualunque non si traduce in disprezzo, ma in compiaciuta tenerezza,
che se insistita si fa complicità e che, in
una perversa forma di torsione verso il
basso, la rende prigioniera della stessa
volgarità che inizialmente avrebbe voluto bollare. Eppure, qualche bella trovata, per palati fini, non manca. Per
esempio il gemellaggio di Marina di Sopra con Weimar, la repubblica che per
la sua inettitudine e l’incapacità di reagire generò il nazismo. Ma l’effetto, così isolato e subito rimosso, è quello di
una cattedrale nel deserto.
n
MA LA CALABRIA NON SI VEDE
Eppure il film ha ricevuto i contributi della Regione
L
a cosa che più ha sorpreso è che il film sia stato prodotto con l’ausilio economico
e logistico della Film Commission Calabria che ha versato alla Fandango 25.000
euro. In cambio, la promozione turistica della Calabria è stata realizzata con due fondamentali inquadrature: l’ingresso dell’aeroporto di Lamezia Terme (appena riconoscibile
da chi lo frequenta) e il pilone di Santa Trada. Ciliegina sulla torta, esclusione di tutti gli
attori calabresi convocati per il casting.
“Appaiono sconcertanti” ha dichiarato Antonio Caputo, consigliere regionale Pdl, le
dichiarazioni sul film di Albanese fatte sulla stampa da Francesco Zinnato, presidente
(non riconfermato dalla nuova Giunta, N.d.R.) della Film Commission Calabria in base
alle quali si ritiene quasi doveroso fare delle criticità calabresi il messaggio promozionale di questa regione”.
E a proposito di criticità, il ricordo corre allo spot confezionato, con ben altri sostanziosi costi, da Oliverio Toscani, qualche anno addietro. L’allegra brigata dei giovani
selezionati, gioiosamente proclamava, per quel che ricordiamo, “siamo calabresi,
siamo mafiosi”. Ma, obiettivamente, improponibile il confronto con Cetto.
dei pescatori, le loro storie, la loro ironia”, ricorda.
“Il peso del loro lavoro e gli sforzi per difendere la
dignità. Ricordo quando trovavo sulla nostra infinita spiaggia quintali di pesce azzurro buttato con
rabbia dai nostri pescatori per gridare ‘no’ ai prezzi mortificanti che voleva imporre il racket del pesce”. Quel sussulto di coscienza dei pescatori cariatesi gli ha ispirato il brano Controvento.
Ancora una volta ad accompagnare Cataldo Perri sono gli straordinari musicisti dello Squintetto:
Checco Pallone, Nicola Pisani, Enzo Naccarato,
Piero Gallina, Carlo Cimino. “Il nostro lavoro trasuda amicizia”, rivendica il cantautore, “il sapore
delle soppressate affettate in studio e cioccolata
fondente”.
Già, perchè Guellarè sarà il primo gastrodisco della storia. Abbinato al cd ci sarà un buono acquisto
di una nota marca di soppressata calabrese. “Voglio portare avanti questa provocazione”, spiega
Perri, “perché è ormai morto il mercato del disco,
mentre il mangiare resta una delle ossessioni per
noi italiani. La musica è il nutrimento dell’anima, ma
nel caso questo disco non dovesse riuscirci, la
soppressata potrebbe essere il nutrimento e basta.
Lo slogan della campagna promozionale sarà Soddisfatti o soppressati.
Non manca una tarantella neanche nel nuovo lavoro, s’intitola Tarabella. Perri è un ricercatore
sensibile, affezionato, ma curioso e mai banale,
che rimane in contatto con il materiale folklorico
sforzandosi di rivitalizzarlo. “Adoro la nostra tarantella”, dice, “è cultura peculiare, identitaria, come
lo è il flamenco per la Spagna e il tango per l’Argentina. La mia prima Tarantella di Cariati è stata
la sigla del Meteo Rai per alcuni anni, a dimostrazione che quando si lavora con amore sulla propria cultura si può parlare anche al mondo intero.
La nuova tarantella, Tarabella, parte dalla tradizione con un ritmo lento sensuale per poi approdare
a suoni e ritmi trasgressivi. Possiamo provare a
creare la tradizione del futuro, senza ripetere pedissequamente il passato, che può anche essere
affrontato con il sapere e la sensibilità di oggi”.
Un’altra ballata, dal titolo Malanottata,
rievoca la tragedia del 31 dicembre 1974,
quando perirono nello Jonio
dodici pescatori di Schiavonea
usciti in mare in quel giorno
di festa pur di poter
guadagnare qualcosa.
“Attraverso Malanottata”,
spiega Perri, “ho voluto
rendere omaggio alle
vittime del mare
e del lavoro in generale.
Dalla cronaca
epicizzata di una tragedia
collettiva dimenticata,
alla riflessione struggente
di una relazione privata,
Antonio Caputo
Il tempo e il pudore dedicata ai genitori. Una
canzone toccante, cantata a due voci con Rosa
Martirano, con cui il 52enne cantautore ricorda
“la rasserenante semplicità e la tenerezza nel
manifestare i sentimenti dei suoi vecchi, lo spirito di sacrificio nell’affrontare la durezza della
vita”, ma anche il buonumore di una famiglia numerosa negli anni del boom, desiderosa di lasciarsi alle spalle le macerie della guerra.
È fitto, insomma, di narrazioni e suggestioni, questo Guellarè nuovo di zecca, da ascoltare e forse
pure meditare.
n
Perri con gli amici
della sua band,
lo “Squintetto”
12
ANNO VI - N. 12 - Aprile 2011
NICOTERA
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ANNO VI - N. 12 - Ottobre 2010
...DI CHI FA IMPRESA AL SUD
SCOMMESSE E SFIDE...
ROSSANO
Il libeccio soffia da sempre sulle coste calabresi.
Ma stavolta, oltre alla brezza umida, ha portato
un’idea vincente: quella di un nuovo vino
che prende il suo stesso nome in vernacolo, il Libìci.
Lo produce l’azienda Casa Comerci,
che sulle colline ventose di Nicotera cattura
e mette in bottiglia tutti i sapori di quella terra
ABBIAMO
ACCORCIATO
E UNITO L’ITALIA
SOFFIA UN VENTO ANTICO
CHE PORTA IDEE E SAPORI NUOVI
Dal 1946 gli autobus rossanesi
della famiglia Smurra fanno da trait d’union
tra Calabria, Italia ed Europa.
Oggi la SIMET conta più di trecento dipendenti,
130 agenzie dislocate in tutta la Penisola
e un sistema online d’avanguardia
n Massimo Zeno
ibìci mai bbeni fici. Il libeccio
non ha mai fatto bene. È uno dei
tanti proverbi contadini della
Calabria. Che stavolta, però, va aggiornato. Perché il Libìci da qualche anno
è anche il nome di uno dei più interessanti vini calabresi. Un magliocco canino prodotto da Casa Comerci, azienda agricola di Badia di Nicotera.
L’idea di chiamare così questo vino è
venuta a un bravo ristoratore, Salvatore Pavia, titolare del ristorante Peppino il Pescatore di Ricadi. La suggerì a Domenico Silipo, il fondatore (anzi, ri-fondatore) di Casa Comerci, che
la approvò subito. Quel vento, che in
estate soffia come una piacevole
brezza di mare e d’inverno segnala la
tempesta, è il miglior modo per indicare un vino dal raro bouquet floreale, dal colore leggero, dal sapore rotondo e strutturato. Adatto ad accompagnare ogni tipo di pasto, si esalta
con i primi piatti dai sapori forti, le
carni rosse e i formaggi stagionati. Se
a tavola c’è un bel piatto fumante di
pasta fatta in casa (a fileja), magari
condita con ragù di maiale, allora il Libìci darà il massimo al nostro palato.
Prima la schiettezza, poi l’eleganza: potrebbe essere questo il suo motto. Le
sue uve contengono infatti i sapori che
il libeccio porta dall’Africa e che sono
mitigati sulle colline aperte verso la
Piana di Rosarno.
Un’altitudine di circa 250 metri, quanto
basta per aprire lo sguardo all’orizzonte. Il vento la fa da padrone in quei dodici ettari di terra, dove l’occhio si perde tra l’azzurro del Tirreno e il verde delle Serre. Da sempre lì si coltiva la vite.
Filari bassi e ordinati, che anche nelle
L
Domenico Silipo
giornate più calde trovano nutrimento
nelle zolle che trattengono il fresco dell’acqua piovana. Un posto del genere
valeva la scommessa di far risorgere
ciò che apparteneva ormai solo alla
memoria familiare. E così Silipo, che
aveva lasciato la Calabria 40 anni fa per
esercitare in Emilia la professione di
avvocato, torna nella casa del nonno.
Francesco Comerci alla fine del 1800
aveva già le vigne e produceva il vino di
Nicotera, quello «formato nell’argilla e
scolpito nella pietra». Quanti ricordi! La
scala di granito, la finestra dalla quale
s’intravedeva l’uva appena raccolta, il
suono ritmico delle presse, l’odore dello zolfo che serviva a preparare i tini…
Si comincia da capo, piantando il vitigno magliocco, la qualità autoctona
che più si adatta al luogo. La pianta è
generosa, produce grappoli dai chicchi radi, con acini di colore blu scuro e
dalla buccia spessa. A guardarli sembrano l’emblema stesso della Calabria.
Hanno un aspetto forte, quasi rude,
che nasconde un’anima delicata. Eppure non è facile «addomesticarli». Anni di tentativi, fin quando finalmente arrivano i risultati. Grazie, tra l’altro, all’apporto della moderna tecnologia.
Nel vigneto viene sistemata una stazione meteo per conoscere in tempo
reale pioggia, umidità, temperatura del
suolo e dell’aria. Si misura la bagnatura fogliare e l’evapotraspirazione, in
modo da realizzare una viticoltura ragionata e rispettosa dell’ambiente.
Nell’antica cantina di pietra le vecchie
botti sono sostituite con serbatoi in acciaio inox di ultima generazione, la vinificazione è a temperatura controllata, tutto è controllato dai computer.
Casa Comerci è oggi un piccolo gioiello tra i marchi della tipicità agroalimentare del Mezzogiorno. La scommessa è vinta, ma la sfida continua.
Per il futuro si progetta una nuova cantina, più grande, interrata quasi totalmente nel declivio della collina che
guarda il mare. Intanto l’azienda sperimenta una prima diversificazione della propria offerta, con una piccola (per
il momento) produzione di Greco di
Bianco, fine pasto tipicamente calabrese. Non solo vino, però. Sull’antica
proprietà e sul nuovo fondo Sant’Andrea ci sono anche gli ulivi. L’olio che
se ne ricava è un monocultivar ottobratica di coltivazione biologica. Per
chi se ne intende diciamo che contiene pochissimi perossidi e molti polifenoli. Ciò vuol dire garanzia di grande
qualità. E poi va assaggiata la vinaccia, una grappa leggera e profumata.
«Proprio come la rugiada del mattino»
dice Domenico Silipo «e per questo
l’abbiamo chiamata Acquazzina, un altro termine preso in prestito dal nostro
dialetto, perché ci teniamo a richiamare sempre le nostre radici».
L’azienda vuol diventare inoltre un luogo d’attrazione socio-ambientale. L’attenzione dei particolari, la cura del
verde e dei fiori, le statue che adornano il giardino…
Ogni cosa richiama l’armonia e il posto
consente, certo, l’avvio di un’attività
agrituristica. Andando, però, oltre gli
schemi consueti. Silipo e i suoi collaboratori vorrebbero che sulle loro colline
non si andasse solo per «stare un po’
in campagna». Verranno recuperati gli
antichi strumenti usati per vinificare.
Chissà, forse potrà sorgere una cantina-museo (si conservano ancora alcune bottiglie del vino imbottigliato un secolo fa), dedicata soprattutto alle nuove generazioni che vogliono affacciarsi sul domani senza smarrire le tradizioni. In questa stessa ottica nascerà
una scuola di cucina per valorizzare i
prodotti alimentari del territorio. Nicotera è divenuta l’emblema della dieta
mediterranea.
«Chi mangia come a Nicotera campa
cent’anni» si dice. E non è una battuta,
ma il risultato di ricerche scientifiche
condotte già molti decenni fa da studiosi del valore di Ancel Keys – il fisiologo
Gerardo Smurra con i figli, impegnati anche loro nella gestione dell’azienda
n Rocco Militano
americano esperto di malattie vascolari – e ribadite recentemente da studi
dell’Università romana di Tor Vergata.
Negli anni ’50 Keys, sbarcando in Calabria dal Minnesota, verificò che i braccianti che si nutrivano semplicemente
con pane, olio, cipolle rosse di Tropea e
pomodori erano molto più sani dei pasciuti cittadini di New York.
L’avventura di Casa Comerci ha suscitato una certa curiosità tra gli esperti
del settore enogastronomico. Alla Calabria vengono riconosciute grandi potenzialità, che non sempre sono adeguatamente espresse.
È bastato un bel IGT, un vino di «indicazione geografica tipica», per far spirare un vento nuovo.
Vento di Libìci.
n
L’enologo Giuseppe Meglioli con
Lea Corigliano, amministratrice
di Casa Comerci
“A
bbiamo sempre ascoltato
ed assecondato le esigenze
del mercato”, dice Gerardo
Smurra, “considerando il cliente come
il nostro unico datore di lavoro. È, questo, forse, il motivo per il quale, in questo territorio, ma potrei dire in questa
regione, siamo considerarti un’azienda un po’ anomala, perché viviamo
esclusivamente di mercato, ci rivolgiamo al cittadino utente e non chiediamo
sovvenzioni alle istituzioni”. Una affermazione di giusto orgoglio avvalorata
da una storia familiare e aziendale che
attraversa, ormai, più generazioni.
Gerardo Smurra è il presidente della
Simet SpA, azienda di trasporto su
strada, da oltre sessant’anni in viaggio con i Calabresi e non solo. Smurra ricorda quell’11 novembre del 1965
quando suo padre Stanislao diede vita alla Società, da allora e ininterrottamente, con la sede ed il cuore nel
centro storico bizantino di Rossano.
In realtà Simet era la prosecuzione
ideale, o meglio lo sbocco maturo,
della precedente Società Atas (Azienda Trasporti Autolinee Smurra), costituita nel lontano 1946 con il collegamento Cosenza - Longobucco e a seguire Cosenza - Napoli. Poi, nel tempo,
si sono aggiunte nuove mete: Roma,
innanzitutto, con due corse quotidiane, diventate oggi otto.
Con l’acquisizione della società di trasporto Pasqualini di Verona nel 1989, la
città scaligera ha costituito il fronte più
avanzato in territorio italiano. Ma il
balzo più significativo doveva avvenire
Nelle due foto sopra: ieri e oggi della Simet. Se n’è fatta di strada…
Accanto, la squadra Simet al gran completo
con il collegamento con Francoforte.
Un percorso sud-nord che travalica le
Alpi e che fa della Simet un’impresa
autenticamente europea.
“Le più grandi soddisfazioni le abbiamo ricevute dai lavoratori calabresi
emigrati in Germania. Ci hanno accolto con grande entusiasmo, grati di poter usufruire di un collegamento con
la propria regione di origine”.
LA DIVISIONE
DEL VINO E DELL’OLIO
lio e vino calabresi. Avranno, si spera presto, una vetrina dignitosa e accogliente.
La Giunta regionale ha approvato due proposte di legge
per istituire la “Casa dei vini di Calabria” e la “Casa degli
oli extravergine d’oliva”.
L’idea dell’enoteca regionale non è nuova.
Emilio De Masi, capogruppo Idv in Consiglio regionale, la
rivendica. Era stato lui, afferma, quando era vicepresidente della Provincia di Crotone, a farsene promotore.
La proposta, nonostante l’impegno dell’allora assessore
regionale Sulla, non andò in porto.
Ma è proprio Francesco Sulla (PD), ora consigliere regionale di minoranza, ad esprimere un totale disappunto a
proposito delle scelte fatte.
O
Emilio De Masi
Francesco Sulla
L’ipotesi più ovvia era di creare a Cirò, territorio che da secoli identifica vino con Calabria, la sede naturale dell’enoteca. Ma siccome il “campanile” è duro a morire, cosa si sono inventato: sede legale nel Cirotano, sede per l’innovazione tecnologica a Lamezia Terme, sedi territoriali per lo studio e la promozione dei vini regionali autoctoni a S. Marco
Argentano, Monasterace, Vibo Valentia. E così tutte e cinque
le province avranno i gradi di cui fregiarsi.
“Quando abbiamo cominciato”, ricorda Smurra, “non ci credeva nessuno,
neppure mia moglie”.
Ma ora l’Azienda è giunta felicemente
alla quarta generazione. Papà Gerardo
è il presidente, ma i suoi figli, Stanislao
- il nome del nonno -, Emanuele e Daniele, hanno preso in carico, con differenti mansioni e idee innovative, la gestione aziendale. E a dar man forte ci
Più moderata la frantumazione a proposito dell’olio: sede
legale Gioia Tauro; Corigliano per gli oli Dop e Igp e da agricoltura biologica.
“Siamo alle solite. Quando una provincia dalle antiche radici culturali come Crotone, ha l’opportunità di vedersi finalmente riconosciuta una delle sue peculiarità più indiscusse, sia sul piano delle produzioni attuali che della storia enologica mondiale, ti aspetteresti l’unanimità di vedute nell’individuazione esclusiva, in questo caso dell’Enoteca, nel suo territorio. Invece – lamenta Sulla – si è fatta la
scelta della doppia sede. Lamezia, al più, avrebbe potuto,
grazie alla sua riconosciuta posizione geografia baricentrica, essere luogo di rappresentanza e di ‘vetrina’ per i nostri vini, mentre il Crotonese avrebbe dovuto essere riconosciuto come luogo esclusivo per la ricerca e l’innovazione
legata a tradizioni millenarie, storiche e mitologiche”.
Di opposto avviso il lametino on. Mario Magno (PdL), Presidente della Commissione Riforme e Decentramento, che si
compiace della “vittoria della città di Lamezia Terme”.
n
sono pure i cognati Mariella De Florio
col marito Antonello Lauria.
“Mi sono alleggerito dalla pressione
della mobilità che in passato è stata
sopportata anche da mia moglie Raffaella”. “Ma di annoiare non mi annoio” assicura Smurra. Ed infatti lo
tengono impegnato gli incarichi in
Confindustria e nella Camera di Commercio di Cosenza, ma in particolare la
presenza nel Consiglio di Amministrazione della Banca Popolare del Mezzogiorno (ex Popolare di Crotone). Tutti spazi dove portare un’esperienza
d’impresa ormai decennale e che fatalmente rimanda alla realtà calabrese
nel confronto con il nord d’Italia. “Da
noi ci si adagia nell’assistenzialismo. Il
potere politico ‘docet’ e la società si è
appiattita a confronto di una iniziativa
privata al Nord molto vivace. Siamo,
insomma, carenti di cultura d’impresa.
Ma c’è pure da dire che fare impresa
al Sud ha molti condizionamenti obiettivi di cui il Nord non soffre”.
In questo quadro di riferimento il problema della mobilità nel territorio, diventa decisivo. E proprio a questa irrinunciabile esigenza è venuta la significativa risposta dalla Simet. Intanto di
supplenza alle deficienze del sistema
ferroviario e a quello stradale (basti
pensare alla Salerno-Reggio Calabria
e alla statale 106 jonica).
Ma soprattutto Gerando Smurra ha
mirato a operare sempre meglio per
“fidelizzare”, come oggi si dice, la
propria clientela, a ottimizzare lo standard qualitativo del servizio: dall’esperimento del primo telefono a bordo dei
propri mezzi qualche ventennio fa; al
primo autobus a due piani presentato
ufficialmente a metà anni ’80 alla Bit di
Milano; al catering a bordo: sono, queste, alcune delle tappe e delle innovazioni storiche che Gerardo Smurra
ama ricordare nel ripercorrere una
storia aziendale di successo e che, oggi, annovera oltre trecento dipendenti,
130 agenzie dislocate in tutta Italia e
una biglietteria online all’avanguardia.
Migliaia di viaggiatori, per turismo o per
lavoro, hanno fatto e continuano a fare
comodamente la spola tra la Germania
e la Calabria, dal Po al Pollino, dall’Arena al Teatro magno-greco di Sybaris.
Un andirivieni che, nel piccolo, può anche esser letto, senza retorica, come
un modesto contributo, al 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.
“La sfida - afferma Gerardo Smurra è sempre quella degli inizi: accorciare l’Italia per unificarla”.
n
14
MELBOURNE
ANNO VI - N. 12 - Aprile 2011
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ANNO VI - N. 12 - Ottobre 2010
UN PONTE IDEALE COSTRUITO MEZZO SECOLO FA
NEL MONDO
SI CELEBRA SOLENNEMENTE LA FESTIVITÀ DEL 2 APRILE
Il Globo, giornale degli italiani d’Australia,
fu la risposta che un emigrato calabrese,
Ubaldo Larobina, volle dare ai tanti connazionali
desiderosi di ritrovarsi intorno a obiettivi comuni
innanzitutto quello di preservare la nostra lingua
L’
Australia aveva pagato in modo pesante
la sua partecipazione alla seconda guerra mondiale nella regione del Pacifico e
anche in Europa con centinaia di migliaia di vittime. L’assenza per lunghi anni, di uomini validi per
l’industria e l’agricoltura aveva messo la nazione in
ginocchio. Era urgente e indispensabile ripopolare
il continente. Alla fine degli anni ‘40 l’Australia aveva poco più di sette milioni di abitanti. “Contiamo di
arrivare ad una popolazione di dieci milioni, aveva
detto il ministro dell’Emigrazione Calwell, entro il
1954 e per questo continuo e progressivo aumento
sarà dato a molti degli australiani d’oggi di vedere
la loro terra abitata da venti milioni di abitanti. Iddio lo voglia! Sarà un successo grandioso”. Obiettivo pienamente raggiunto poiché la popolazione
australiana è arrivata a quota 22.000.000.
Un progetto di fedeltà
ai valori di una
Italia vincente
n Germano Spagnolo
Calabria unita nel nome
di San Francesco di Paola
n Assunta Orlando
Spetta agli emigrati da Oriolo (CS) il primato di aver istituito
per primi, nel 1927, un’associazione dedicata a S. Francesco di Paola.
Il prossimo anno ricorre il cinquantenario della proclamazione
del Santo a Patrono della Calabria.
Si spera che non si ripetano le negligenze della Regione Calabria,
come negli anniversari celebrati negli anni scorsi
Uno dei progetti storici è stato il “Miss Italian
Community Quest”, concorso di eleganza e beneficenza durato 22 anni, dal ‘64 al 1986. L’intento era
duplice: fare emergere, nella complessa società
multietnica d’Australia, la “bellezza tipicamente
italica” delle giovani italiane, e quello di una generosità esemplare a beneficio delle strutture sanitarie e assistenziali. Per ben sette anni la “Miss
Charity Queen” della comunità italiana ha vinto il
concorso di “Miss Australia Charity Queen”, e per
13 anni quello di “Victorian Charity Queen”. Ma è
stato soprattutto nei momenti delle grandi catastrofi, degli incendi che hanno devastato il Victoria (febbraio 2009) e del terremoto dell’Abruzzo
(aprile 2009) che Ubaldo Larobina ha chiamato a
raccolta organizzazioni e singoli individui per dare prova di una grande generosità collettiva.
l 2 aprile, festività del Santo, è celebrato solennemente in tutto il mondo e anche a Toronto, dove numerosi sono i devoti, una solenne celebrazione officiata da Mons. John Iverinci, Vicario episcopale degli Italiani in Canada,
con la partecipazione, quest’anno, del soprano
Cesira Frangella, solista nella Corale del Santuario di Paola.
La “Fondazione San Francesco da Paola nel
mondo” di cui è presidente il maestro Antonio
Caruso, ha riunito a Toronto, dove ha sede, devoti provenienti dall’estero in rappresentanza
delle Associazioni dedicate al Santo per la sottoscrizione del “Patto di Fraternità” che favorirà
la nascita di una solidale collaborazione ispirata alla devozione verso San Francesco di
Paola e ai profondi sentimenti verso i paesi
d’origine.
Molto significativa, infatti, è la devozione verso
il Santo, di chi ha lasciato la propria terra perché lo sente ancora più vicino, avendo San
Francesco vissuto gli stessi struggenti sentimenti dovuti alla lontananza dai luoghi natii,
quando per obbedire al Papa, partì per la Francia, dove morì senza più tornare a rivederli. È
proprio dagli emigranti che viene una grande testimonianza d’identità religiosa che s’identifica
in quella etnica.
La prima Associazione dedicata a San Francesco di Paola, istituita all’estero risale al 1927 ed
è stata fondata da emigranti di Oriolo (Cs), paese che venera il Santo, a Frankfort, nello Stato di
New York. La cappella, originariamente in legno,
che ne custodisce la statua, è stata ricostruita
artisticamente in pietra e sulle pareti due dipinti riproducono scene di Oriolo.
Si racconta che furono dipinti da un uomo che
fu rinchiuso nella cappella fino a che non terminò il lavoro. Con il tempo ai membri calabresi
della Società si sono uniti molti siciliani e insieme continuano ad onorare il Santo. Il “Patto di
Fraternità” tra la Società di Frankfort e il “Comitato San Francesco di Paola” di Salemi istituito
a Toronto quarant’anni fa da emigrati siciliani,
consoliderà l’unione delle comunità che venerano il Santo con particolare devozione. Calabresi
e siciliani uniti nel nome del Santo che simbolicamente, unì le sponde delle due regioni attraversando miracolosamente lo Stretto di Messina sul suo mantello.
Sopra e nelle foto del titolo i festeggiamenti a Toronto
Frankfort (NY), qui la prima associazione per il Santo
Anche a Sidney il “patto di fraternità” fra i devoti
I
Ubaldo Larobina e la moglie Lynnette Powell
Arrivarono giovani da ogni parte d’Europa ed in
particolare dal bacino del Mediterraneo, con l’Italia in prima linea. Calabria, Sicilia, Veneto, Friuli
e Abruzzo sono state le regioni che hanno dato il
maggior contributo. Quei giovani avevano voglia
di costruirsi un avvenire migliore; ma con il passare dei mesi e degli anni, sentivano già un vuoto
di carattere “culturale”, anche se cultura significava la canzonetta del festival di Sanremo, il fotoromanzo di Grand Hotel, il film di Totò o di Gina Lollogrigida, i risultati del campionato di calcio e di
ciclismo.
A Melbourne, data la necessità di colmare questo
vuoto, Ubaldo Larobina e Tarcisio Valmorbida
fondarono Il Globo, subito battezzato come “il giornale degli italiani d’Australia”. La scelta del nome,
secondo Larobina, veniva dettata dalla semplicità
e comprensione della parola, molto simile all’inglese The Globe e quindi ampiamente recepita come indicativa di un “notiziario” internazionale.
Ubaldo aveva esperienza di giornalismo in Italia
avendo lavorato presso la redazione de Il Tempo
di Roma. Nato a Reggio Calabria nel 1931, aveva
completato il percorso di formazione nel Lazio, ottenendo il diploma di Maturità Classica nella cittadina di Velletri. La passione per il giornalismo, come mezzo d’informazione e di coinvolgimento dei
connazionali in progetti comuni, lo ha accompagnato in ogni scelta.
La prima edizione de Il Globo porta la data del 4
novembre 1959. Una data scelta non a caso per
un “lancio” che doveva avere un carattere distinto d’italianità. Infatti, nell’articolo di fondo,
dal titolo “Ponte Ideale”, si ricollegava l’anniversario della Vittoria con il successo dell’emigrazione italiana in Australia, a dimostrazione della
nobiltà e forza di carattere del popolo italiano. Ed
è proprio per questo che doveva essere salvaguardata la lingua italiana, fonte di informazioni
comprensibili, ma anche di piacevoli e gratificanti letture. “Non possiamo sacrificare sull’altare dell’assimilazione, scriveva Ubaldo Larobina, una lingua che ci fa onore e ci dà soddisfazioni”. E su questo punto Il Globo è sempre stato molto fermo.
Con il passare degli anni Larobina ha investito in
modo generoso e lungimirante nel campo dell’editoria. Ha fondato la “Italian Media Corporation
Pty Ltd” con l’acquisizione del giornale La Fiamma di Sydney, azione mirata ad avere un giornale unico, anche se con due diverse testate, un
Taglio della torta del
50° anniversario
del giornale.
Sopra, Dario Nelli
direttore de Il Globo
con il fondatore
unico direttore (Dario Nelli dal 2007), e il supporto della stazione radio “Rete Italia” diretta da
Ivano Ercole.
Il giornale ha cambiato formato negli anni ’90 (è
divenuto tabloid) ed è pubblicato da lunedì a venerdì in tutti gli Stati d’Australia. Con il supporto e
la collaborazione dei figli (Julian e Nicoletta, mentre Marco è laureato in Medicina e Chirurgia) Larobina ha esteso il suo campo d’azione. È presidente di due importanti compagnie: “Tempo Media” (che pubblica le riviste Australian Teachers
Magazine, S Press e Australian Student, giornale
per alunni delle scuole secondarie distribuito in
tutta l’Australia) e “Street Press Australia”, network di cinque riviste di musica e intrattenimento
per giovani.
Nei momenti in cui la comunità italiana è stata
chiamata a dare prova di unità, solidarietà e prestigio, il gruppo editoriale di Larobina ha fatto da
volano di tutte le iniziative di associazioni, club,
circoli di pensionati, comitati parrocchiali...
SAN GIOVANNI IN FIORE
Mattmark, storia di una tragedia annunciata
S
an Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza, è
da sempre l’emblema dell’emigrazione calabrese. Da quest’antico paese, infatti, sono partiti,
nel secolo scorso, alla ricerca di un lavoro, prima
oltreoceano e poi nell’Europa opulenta, più di 7500
persone molte delle quali non hanno fatto più ritorno al paese d’origine e l’esodo continua ancora oggi con la partenza di decine di giovani che conseguita una laurea nella vicina Università di Arcavacata, vanno a cercare un lavoro nel Nord d’Italia.
Con una differenza sostanziale però: prima ci s’imbarcava su navi traballanti e con la valigia di cartone, mentre oggi si parte con il pc a tracolla.
Ma se il grosso centro silano rappresenta il paese
simbolo di una Calabria errante, è ancora più triste
il primato che detiene di paese con il maggior numero, all’estero, di caduti sul lavoro.
La prima tragedia risale al 6 dicembre 1907 quando a Monongh nel West Virginia rimasero sepolti
in una miniera di carbone 34 sangiovannesi; poi è
stata la volta di Mattmark nel cantone Vallese il
30 agosto 1965, quando sette emigrati stagionali
rimasero sepolti sotto una massa di ghiaccio
staccatisi dall’Allalin. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Per ricordare il sacrificio di tanti emigrati, i giornalisti Saverio Basile e Francesco Mazzei hanno pubblicato recentemente Mattmark storia di una tragedia annunciata (Edizioni Pubblisfera) in cui raccontano quei tragici giorni vissuti con angoscia e dignità da tutta la popolazione silana.
I due autori hanno raccolto le testimonianze dei
sopravvissuti, hanno dato risalto al parere dei tecnici che da sempre sostenevano che “la montagna
Due degli operai periti a Mattmark
sovrastante il cantiere slittava a valle”, hanno riprodotto le prime pagine dei giornali più diffusi che all’epoca dei fatti diedero ampio risalto all’evento. Numerosi i politici che hanno reso omaggio ai familiari e alla città delle vittime di quell’immane catastrofe (ultimo il presidente della Repubblica, Giuseppe
Saragat in visita a San Giovanni il 21 aprile 1966).
“Un libro scritto con il cuore”, ha sottolineato l’assessore comunale alla cultura Giovanni Iaquinta durante la manifestazione di presentazione del volume.
La stampa italiana d’Australia ha anche il grandissimo merito di aver difeso con editoriali di fuoco
la comunità italiana dall’accusa di corruzione di
stampo mafioso. Ha sempre posto un chiaro spartiacque tra singoli casi di criminalità e la perfetta
tenuta morale della comunità, considerata esemplare dalle stesse autorità di governo, che hanno
sempre elogiato la comunità italiana per avere la
più bassa percentuale di criminalità rispetto a tutte le altre etnìe. Cinquant’anni dopo, rimangono
vivi e più validi che mai i principi e gli impegni presi con i lettori e la collettività in generale, dal suo
fondatore e primo direttore Ubaldo Larobina, con
il primo editoriale del 4 novembre 1959: quelli della costruzione di un “ponte ideale” fra gli Italiani
in Australia e quelli che vivono in Italia, “rimanendo sempre vicini alla vita della comunità, rispondendo puntuali alle sue aspettative, alle sue ambizioni ed alle sue necessità”.
Una sfida si presenta ora con le celebrazioni del
150° anniversario dell’Unità d’Italia, alle quali le
comunità italiane all’estero sono chiamate a dare
il loro valido contributo. Ubaldo Larobina ha un
progetto originale, interessante, che entra nel
cuore della società australiana nella parte più nobile ed accogliente, quella dei giovani nelle scuole. “Vogliamo preparare un’edizione speciale del
giornale, in lingua italiana e inglese, e distribuirlo
in tutte le scuole d’Australia”: questo il progetto di
Larobina. La rivista avrà testi e immagini che presentano l’Italia vincente: dalle bellezze paesaggistiche all’arte, dalla moda ai motori... e speriamo
qualche esempio di eroismo di quei “ragazzi” che
nel secolo scorso lasciarono la loro terra per emigrare in continenti lontani. Edmondo de Amicis li
aveva immortalati nel libro Cuore, nel 1886. Si era
all’indomani dell’unità d’Italia, e il testo aveva il
chiaro scopo di insegnare ai giovani le virtù civili,
ossia l’amore per la patria, il rispetto per le autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità, la pietà, l’obbedienza e la resistenza alle disgrazie. Quei ragazzi sono ancora tra noi,
e sono un esempio da indicare alle nuove generazioni, con orgoglio.
n
Altra testimonianza di devozione legata al paese
natio che ha come Patrono San Francesco di
Paola, è data dagli emigranti di Vazzano (VV) che
partiti per luoghi diversi, Argentina, Australia e
Canada, hanno fondato in questi Paesi l’Associazione “San Francesco di Paola” di Vazzano. L’incontro dei devoti Vazzanesi di Buenos Aires,
Sydney e Toronto per il “Patto di Fraternità” assume particolare significato per la sottoscrizione
dell’atto anche da parte del Comune di Vazzano,
rappresentato dal sindaco Antonino Mirenzi,
giunto a Toronto con una delegazione di cittadini.
Da Vazzano e dai “Devoti Vazzanesi nel mondo”,
parte l’iniziativa, proposta dalla Fondazione di Toronto, di un simbolico gemellaggio dei Comuni
con le comunità all’estero, al fine di “allargare la
cittadinanza al di là delle frontiere” e farne progredire la fraternità in nome di San Francesco di
Paola in occasione del cinquantenario, nel 2012,
della proclamazione del Santo a Patrono della
Calabria.
Processione a Buenos Aires
n
Porta a casa la Calabria
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probabilmente non conoscevi Itaca o magari l’hai ricevuto una o più volte in passato.
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Itaca è realizzato dall’Associazione, no profit, Amici Casa della Cultura ‘Leonida Répaci’ di
Palmi, che sostiene i rilevanti costi di stampa e spedizione. Tutti i redattori prestano la loro
collaborazione su base volontaria, motivati dal monito dello scrittore Leonida Répaci che
nell’inaugurare la Casa della Cultura di Palmi affermava:
“Puntare a fare, a seminare, nella consapevolezza che nient’altro come la cultura è mezzo
insostituibile di reale crescita civile…”
Itaca vuol essere un punto d’incontro fra tutti i calabresi ovunque nel mondo, rafforzando
il rapporto con la terra d’origine; raccontando la ricchezza di beni materiali (archeologici,
monumentali, paesaggistici…) ed immateriali (storia, tradizioni, usi, costumi…) che
connotano l’identità regionale, ma nello stesso tempo anche le sue criticità per ricercare una
piena consapevolezza dei problemi e delle possibili soluzioni.
Manifestandoci la tua solidarietà favorirai l’incontro con i nostri corregionali emigrati e potrai
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NEWS
ANNO VI - N. 12 - Aprile 2011
LA CALABRIA NEL MONDO, IL MONDO DELLA CALABRIA
CINISELLO BALSAMO
L’Associazione Calabrese fra cultura e tradizione
TORONTO / Aspettando il 2 giugno
’ Italia é in festa per il 150mo
L
anniversario dell’unità del loro
Paese. Forse con più calore, più
nostalgia e con grande passione, tutti
gli Italiani sparsi nel mondo si
uniscono in questa meravigliosa
celebrazione.
È questo grande amore per la nostra
terra d’origine, questo legame
indissolubile che nutre e unisce gli
Italiani nel mondo ovunque essi siano.
In Canada gli Italiani sono circa un
milione e quattrocentomila, con la più
grande presenza nello stato
dell’Ontario.
Già da anni, dalla mia prima iniziativa,
ora si celebra la festa della
Repubblica del 2 Giugno, con la
cerimonia dell’alza bandiera davanti
al Parlamento provinciale dell’Ontario.
È un evento di grande partecipazione:
suoni, canti, sfilano le Ferrari e le
Lamborghini, i noti ristoranti Italiani
con i loro risotti e le orecchiette con
rape, tante pizze e squisiti dolci
italiani.
Quest’anno il 2011, sarà ancora più
grande ed in grande stile ci stiamo
organizzando per celebrare il 150mo
anniversario della nostra Unità. Anzi,
le iniziative sono già cominciate
dall’anno scorso, quando nel mese di
ottobre il governo dell’Ontario approvò
all’unanimità la mia proposta di legge
per proclamare Giugno, ogni anno, il
mese dedicato al “Retaggio Italiano”.
Con questo grande onore conferito
alla comunità italiana, il governo
dell’Ontario ha voluto riconoscere
l’immenso contributo degli emigrati
italiani alla crescita economica
e sociale del nostro Stato.
È la prima volta che un governo di una
nazione o stato straniero ha conferito
alla comunità italiana questo
riconoscimento.
Allora, Giugno 2011 sarà ancora più
speciale per noi e celebreremo il
150mo anniversario con questo
meritato riconoscimento. Tutte le
autorità italiane ed il congresso
Italo-Canadese sono in pieno
fermento perché nel mese di giugno ci
siano attività ed eventi degni di una
grande celebrazione.
Dovrà essere un evento da
tramandare per far sì che un domani
si sappia chi erano questi emigranti
italiani e come sono riusciti a dare il
loro immenso contributo ad una
nazione dove oggi sono fieri di vivere.
Auguri. Viva l’Italia!
Mario Sergio
Deputato Provincia dell’Ontario
BUENOS AIRES
Il giorno dell’emigrante calabrese
COLONIA, DORTMUND, MONACO
Un comune futuro europeo
L
I
a Federazione delle Associazioni Calabresi in Argentina
(Faca) sta organizzando “Buenos Aires celebra il giorno
dell’emigrante calabrese” per il prossimo 8 maggio.
È quanto comunicano il presidente e il segretario della Federazione, Antonio Pisano e Julio Croci, insieme a Irma Rizzuti, presidente della Lega Donne Calabresi.
Sarà una grande festa. La Faca invita a
partecipare tutte le associazioni calabresi con uno stand dove dare informazioni
su attività, storia, oggetti di emigranti calabresi e dove offrire specialità regionali.
La federazione invita anche gli artisti della comunità calabrese che saranno protagonisti dello spettacolo che verrà orgaJulio Croci
nizzato per l’occasione.
“Speriamo nella vostra partecipazione alla festa di tutti i calabresi in Argentina - concludono Pisano,
Croci e Rizzuti - essendo questa una buona opportunità per
far conoscere la vita istituzionale e le attività della nostra collettività, sottolineando l’apporto della nostra emigrazione dato al Paese che ci ha accolto”.
Com.it.es delle tre città hanno pubblicato e distribuito i testi della costituzione italiana e della Repubblica Federale di
Germania, sia in lingua originale che nella traduzione a fronte.
Lo spunto per questa iniziativa la ricorrenza di un duplice anniversario: il 1° gennaio 1948 entrava in vigore la costituzione
italiana, il 23 maggio 1949 quella tedesca.
Giorgio Napolitano e Horst Köhler, fino all’altro ieri presidente della Repubblica federale di Germania, hanno scritto l’introduzione al volume.
“La legge fondamentale tedesca e la Costituzione italiana,
con i valori in esse incarnati - afferma Köhler - offrono una
solida base sulla quale realizzare insieme il nostro futuro europeo”.
Nell’inviarci il volume, Giuseppe Rende, calabrese di Mongrassano, membro eletto del Comites di Monaco di Baviera,
scrive: “Questo grande paese amico che ci ospita, spesso,
per la sua struttura socio-politica, è citato da tanti nostri onorevoli come esempio da imitare. Perché non si decidono? Forse staremmo tutti più sereni.
L’Europa attende e avrà il suo ruolo solo quando gli stati membri supereranno le proprie logiche”.
Come dargli torto?
C
on l’autunno arrivano due appuntamenti importanti legati alla tradizione e alla cultura regionale.
La prima è “Castagna in…cantata” il 30
e 31 Ottobre in collaborazione con
l’Amministrazione comunale di Savelli.
La tradizione, un vocabolo che sa di
terra, di sudore e di lavoro e di tutto quello che riguarda l’universo contadino che
tanto ci ha lasciato e che, ora, in un
mondo così omologato e pieno di luoghi
comuni spacciati per innovazioni, sta
perdendo i suoi connotati più genuini e
veri: colori, suoni, profumi, forme. E
comunque la tradizione non delude mai
quando diventa momento di aggregazione e di riscoperta di antiche sensazioni.
Tutt’altro fine si propone la manifestazione dell’11 Dicembre, il nostro fiore all’occhiello che vuole attirare l’attenzione sul
panorama culturale calabrese che noi
stessi stiamo riscoprendo nella molteplicità dei suoi aspetti e dei suoi personaggi.
Quest’anno, con l’intervento di Enzo
Romeo ed Antonio Minasi, abbiamo
ricordato Francesco Cilea e Leonida
Répaci, entrambi nati a Palmi (RC), e fra
loro legati da salda amicizia e reciproca
stima.
Il primo, musicista sensibile e raffinato
ha ricoperto, con le sue composizioni, un
ruolo importante nel panorama dell’opera lirica del primo ‘900; il secondo,
romanziere prolifico, è stato, in realtà, un
grande intellettuale, con interessi diffusi
nel cinema, nel teatro, nelle arti, nel giornalismo, oltre alla partecipazione attiva
l 12 ottobre, anniversario
dell’arrivo di Colombo in
America, nel Centro Italiano
Venezolano, alla presenza
di un bel numero di amici
amanti del cinema tra cui
la Luigina Peddi, direttrice
dell’Istituto Italiano di
Cultura, Rosita Belgiovane
e Antonino Amodeo,
consiglieri del Comites
di Caracas, l’Associazione
Calabrese del Venezuela ha
organizzato la proiezione
del film Emigranti di Marco
Ottavio Graziano,
raccolta di testimonianze
di oriundi di Amendolara,
paese dell’entroterra
cosentino, negli anni
cinquanta.
Il regista, costruisce una
storia tra la fiction e la
realtà che ben potrebbe
essere la storia di un
adolescente qualunque che
un giorno si fa forza
e coraggio e decide
di abbandonare la propria
terra e intraprendere
un viaggio per cercare
un avvenire diverso.
Teresina Giustiniano tra Luigina Peddi (a sinistra) e Silvana Briglio
Un passaggio sconvolgente
dall’adolescenza alla vita
adulta.
Un viaggio spesso senza
ritorno verso Paesi con
politiche di accoglienza che
facilitavano in qualche modo
la decisione di intraprendere
questa avventura.
Il dramma dell’emigrazione
non è finito, purtroppo
ancora ci sono persone che
hanno la necessità di
lasciare la propria terra
e Paesi che un giorno sono
stati di emigrazione
oggigiorno sono diventati
Paesi d’immigrazione.
Le politiche di accoglienza
sono sempre più labili e le
frontiere dei Paesi sono
diventati, talvolta, posti dove
la violazione dei diritti umani
si pratica in modo
intollerabile, finanche ad
uccidere chi osa
attraversare un confine
senza il dovuto visto
d’ingresso.
Nella foto sopra, targa ricordo da
Gerardo ‘Gino’ Gatto a Enzo Romeo e, sotto,
da Pantaleone Paparo ad Antonio Minasi
Tradizione e cultura costituiscono i capisaldi della connotazione della regione, ne
identificano l’anima. Oggi dobbiamo far
leva proprio sulla nostra cultura per
riscoprirla con orgoglio; per tentare un
cambiamento di una regione che attende
ma non reagisce, che spera ma non
opera, perché il nostro patrimonio è
costellato di quegli uomini giusti che possono aiutarci a rivalutarla, a rimuovere il
fruscio di fondo che ne offusca l’immagine, affinché l’indifferenza di tanti non
distrugga la buona volontà e la fermezza
morale di molti.
I
l presidente del Comites di Hannover, Giuseppe Scigliano, ha inviato una
lettera all’Assemblea del Comites per “dare l’allarme per il ridimensionamento dei fondi annunciato per il 2011”, una situazione che si prospetta difficile se non ingestibile. Fra l’altro “i fondi ritarderanno a pervenire perché il
Governo ha deciso di accantonare un ulteriore 10% della miseria concessa.
Questo significa che molti che non potranno fare nessunissima attività. Qualcuno come quello che rappresento avrà addirittura il
problema di coprire i costi fissi”.
Scigliano si appella “ai parlamentari eletti all’estero
perchè intervengano. “Se cadono i Comites cadrà
tutta la struttura della rappresentanza che abbiamo
ottenuto. Non ha senso avere un tetto senza le fondamenta. Mi auguro che il buon senso prevalga sulla
filosofia della mannaia di questo Governo che - conclude colpisce immancabilmente e soprattutto le strutture
degli italiani all’estero”.
Giuseppe Scigliano
Questa è una faccia della
moneta, ma esiste per
fortuna l’altra, ed è quella
in cui nonostante i traumi e
dispiaceri constatiamo che
emigrare ci fa conoscere ed
apprezzare costumi, lingue,
cibi e culture diversi che ci
arrischiscono aprendoci un
vasto mondo di sensazioni
ed esperienze che ci
costituiscono in persone più
tolleranti e complete.
Persone prospere non solo
di beni, bensì di esperienze
di vita.
Emigranti ci invita alla
riflessione. Ieri siamo stati
noi, oggi lo sono “altri”
che decidono di emigrare.
E chissà l’invito non sia
a sognare con un mondo
senza frontiere burocratiche
dove l’unico lasciapassare
sia quello di avere la voglia
di esserci.
Teresina Giustiniano
Presidente Associazione
Calabrese del Venezuela
Carolina Tallarico
HANNOVER / Allarme Comites
CARACAS / Emigranti di ieri, emigranti di oggi
I
alla vita politica e sociale.
ITACA - Anno IV - n. 12 - Aprile 2011
PERIODICO TRIMESTRALE
Registrazione n. 2/08
Tribunale Palmi (RC) del 17.01.2008
Iscrizione al ROC n. 17695 dal 22 nov. 2008
Direttore responsabile
Antonio Minasi
[email protected]
Grafica
Roberta Melarance
Redazione
Amici Casa della Cultura ‘L. Répaci’
Via F. Battaglia s.n.c.
89015 Palmi
[email protected]
POSTE ITALIANE S.p.A.
Spedizione in A. P. 70% - Autorizzazione n. 67/2008
Stampa
A.G. Rinascimento S.r.l.
Sede Legale:
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