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Ascolto dei minori, rifiuti e procedure

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Ascolto dei minori, rifiuti e procedure
Psicologia & Giustizia
Anno XVI, numero 2
Luglio – Dicembre 2015
ASCOLTO DEI MINORI, RIFIUTI E PROCEDURE
M. Malagoli Togliatti, A. Lubrano Lavadera, A. Imbellone1
Abstract. Negli ultimi anni, in Italia, l’entrata in vigore di diverse Leggi e Convenzioni
internazionali hanno sancito il diritto dei minori ad essere ascoltati direttamente dal giudice in tutte
le procedure che li riguardano, purché abbiano compiuto 12 anni, o anche di età inferiore se capaci
di discernimento o se ascoltati da un esperto in psicoterapia/psicologia dell’età evolutiva e delle
relazioni familiari. Si tratta di una particolare attenzione ai diritti delle persone (New York 1989)
in cui il diritto viene proiettato verso “soluzioni miti, comprensive di tutte le ragioni che possono
rivendicare buoni principii a loro favore”. Si parla di diritto mite (Zagrebelsky, 1992,
Occhiogrosso, 2002) come un diritto che pensa che “le persone sostenute da adeguati richiami etici
possano rendersi protagonisti attivi di una visione antropologica positiva della società civile”. In
questo contributo vogliamo sintetizzare alcune indicazioni per gli esperti che possono essere
incaricati dell’ascolto, ribadendo che con l’ascolto del figlio conteso tra genitori separati ci si
propone di avere la possibilità di comprendere il ruolo che egli assume all’interno del suo
contesto di vita dandogli la opportunità di far ascoltare i suoi bisogni, le sue aspirazioni e di
dare spazio alle sue esigenze e alle sue emozioni. L’esperto avrà così modo di sintonizzarsi con il
suo mondo interno e la sua visione degli eventi aiutandolo a “pensare” anche al suo ruolo nelle
dinamiche genitoriali e familiari.
In particolare l’ascolto può essere utile ad indicare in che modo il figlio può “coordinarsi” tra
due case, in cosa ciascuno dei due genitori è più competente e soprattutto come ognuno dei due
genitori può diventare più attento a gestire insieme all’altro la funzione educativa. Infine, l’ascolto
del minore - soprattutto se avviene nel corso di una consulenza tecnica di ufficio attenta agli stati
d’animo, ai legami significativi, alle dinamiche intrapsichiche e relazionali - può favorire la
capacità di ascolto da parte dei genitori che in occasione dell’evento separativo spesso sono
troppo coinvolti nei loro stati emotivi, per “dare retta” al figlio. Una consulenza “trasformativa” può
aiutare i genitori a non dimenticare che è loro dovere tener conto delle capacità, inclinazioni e
1
Prof. M. Malagoli Togliatti, PhD A. Lubrano Lavadera, PhD A. Imbellone. Facoltà di Medicina e Psicologia, Università La
Sapienza, Roma
1
aspirazioni dei figli anche in relazione a quella particolare fase di riorganizzazione delle relazioni
familiari.
Parole chiave: minori, ascolto, separazione, figli contesi, genitori, rifiuto, consulenza
L’ascolto: premessa
Negli ultimi anni, in Italia, l’entrata in vigore di diverse Leggi a livello nazionale e Convenzioni
internazionali (tra cui la n. 54 dell’8 febbraio 2006 e la n.219 del 10 dic. 2012 e quelle di
Strasburgo, Bruxelles II bis, Nizza) hanno sancito il diritto dei minori ad essere ascoltati
direttamente dal giudice in tutte le procedure che li riguardano, purché abbiano compiuto 12 anni, o
anche di età inferiore se capaci di discernimento o se ascoltati da un esperto in psicoterapia/
psicologia dell’età evolutiva e delle relazioni familiari. Si tratta di una particolare attenzione ai
diritti delle persone(New York 1989) in cui il diritto viene proiettato verso”soluzioni miti,
comprensive di tutte le ragioni che possono rivendicare buoni principii a loro favore”. Si parla di
diritto mite(Zagrebelsky, 1992, Occhiogrosso, 2002) come un diritto che pensa che “le persone
sostenute
da adeguati richiami etici possano rendersi protagonisti attivi di una visione
antropologica positiva della società civile”.
In base a dette convenzioni internazionali e alle leggi nazionali che le hanno recepite abbiamo
una grande attenzione alla tematica relativa all’ascolto dei minori nei procedimenti giudiziari che
riguardano la separazione o il divorzio dei loro genitori2, affidandone la pratica ai magistrati con
l’eventuale ausilio di esperti in ambito psicologico (ascolto indiretto). Illustri giudici hanno scritto
sull’ascolto diretto in tale ambito (citiamo tra gli altri: Cavallo, 2012; Fadiga, 2008; Pazè, 2011;
Russo, 2011; Serrao, 2014, Velletti, 2012), mettendone in evidenza le caratteristiche e le
problematiche. Gli autori hanno evidenziato che l’ascolto diretto, inserito nel procedimento
giuridico civile, assume una finalità “informativa” riguardo alle sue opinioni, desideri ed
emozioni e contribuisce, ma non determina, il convincimento del giudice, né costituisce una
prova o testimonianza.
Viene fatta dagli esperti citati una distinzione esplicita tra ascolto nelle procedure di
separazione, divorzio, dalle forme di esame che, specie in ambito penale, prevedono l’ascolto del
minore per la conoscenza di fatti ritenuti rilevanti da parte del giudice (“ascolto protetto” o
Tra questi ci si riferisce anche ai procedimenti che riguardano l’affidamento dei figli delle coppie di fatto equiparati ai figli delle
coppie coniugate, come previsto dalla legge n. 219 del 10 dic. 2012 e nei decreti attuativi entrati in vigore l’8 febbraio del 2014, che,
tra l’altro abolisce la dizione “figli naturali”, sostituendola con la dizione “figli” tout court e prevede il rapporto con i nonni e i
parenti di entrambi i genitori.
2
2
“audizione protetta”).
L’ascolto indiretto da parte del giudice o indiretto da parte del CTU (o di altro ausiliario
quale il giudice onorario: Re, 2012) è un atto che richiede competenze specifiche e l’attenzione al
fatto che l’accesso del minore all’interno del contesto giudiziario potrebbe costituire per lui
motivo di turbamento (anche per il contesto ambientale) o di aggravamento di responsabilità
nella conflittualità genitoriale. In particolare i giudici hanno messo in evidenza che l’ascolto nei
procedimenti civili non essendo una testimonianza, né un interrogatorio, deve essere finalizzato alla
ricerca di come una specifica situazione relazionale e ambientale sia vissuta dal figlio ed in che
modo sia possibile facilitare il mantenimento dei rapporti con entrambi i genitori, attraverso
un’indagine sui progetti di riorganizzazione dei rapporti familiari di cui il minore è soggetto attivo e
partecipe insieme ai suoi genitori.
Le finalità dell’ascolto dei figli contesi da parte del CTU
In questo contributo vogliamo riflettere su alcuni elementi che possono essere significativi per
gli ausiliari cui può rivolgersi il giudice per l’ascolto indiretto: operatori dei Servizi
Territoriali, giudici onorari e soprattutto Consulenti Tecnici di Ufficio (CTU). Vogliamo, inoltre,
sintetizzare alcune indicazioni da noi già proposte in altri contributi, ribadendo che con
l’ascolto del figlio conteso tra genitori separati ci si propone di
avere la possibilità di
comprendere il ruolo che egli assume all’interno del suo contesto di vita dandogli la opportunità di
far ascoltare i suoi bisogni, le sue aspirazioni e di dare spazio alle sue esigenze e alle sue
emozioni (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2012).
L’esperto avrà così modo di
sintonizzarsi con il suo mondo interno e la sua visione degli eventi aiutandolo a “pensare”
anche al suo ruolo nelle dinamiche genitoriali e familiari. Le sue opinioni saranno considerate
rilevanti anche se non corrispondono alle scelte o ai desideri dei genitori soprattutto per quel che
concerne la sua vita quotidiana, ma anche le sue scelte per l’educazione, la salute o
per le
decisioni che riguardano le modalità e i tempi della sua collocazione presso l’uno o l’altro
dei genitori. Affinché ciò diventi possibile l’attenzione deve essere rivolta non soltanto verso gli
aspetti oggettivi (situazioni, eventi, dichiarazioni), ma anche e soprattutto verso gli aspetti
soggettivi che riguardano il modo con cui vengono attribuiti significati ai comportamenti delle
persone di riferimento e il modo con cui vengono “costruite” le sue opinioni nel corso del tempo
facendo attenzione alla ricostruzione alle interpunzioni che lo hanno coinvolto. In particolare
l’ascolto può essere utile ad indicare in che modo il figlio può “coordinarsi” tra due case, in cosa
ciascuno dei due genitori è più competente e soprattutto come ognuno dei due genitori può
diventare più attento a gestire insieme all’altro la funzione educativa. Infine, l’ascolto del
3
minore - soprattutto se avviene nel corso di una consulenza attenta agli stati d’animo, ai legami
significativi, alle dinamiche intrapsichiche e relazionali - può favorire la capacità di ascolto da
parte dei genitori che in occasione dell’evento separativo spesso sono troppo coinvolti nei loro
stati emotivi, per “dare retta” al figlio (Martinelli 2006). Una consulenza “trasformativa” può
aiutare i genitori a non dimenticare che è loro dovere tener conto delle capacità, inclinazioni e
aspirazioni dei figli anche in relazione a quella particolare fase di riorganizzazione delle relazioni
familiari. La scarsa capacità di ascolto delle aspirazioni e delle scelte ragionevoli del figlio da parte
dei genitori indica limitate competenze genitoriali e può essere un elemento su cui lavorare in senso
trasformativo durante gli incontri di consulenza.
L’ascolto del minore, da parte dell’esperto, inoltre, parte dalla necessità di tutelare la
“continuità” dello stile di vita del figlio e delle sue relazioni con le figure significative,
puntando alla salvaguardia del rapporto con le famiglie di origine e con entrambi i genitori.
L’ascolto peraltro viene e deve essere graduato a seconda della età e comunque l’esperto
deve procedere con il massimo dell’accordo possibile cercando sia il consenso del minore stesso
(che deve essere informato degli obiettivi e delle opportunità che l’ascolto gli offre), sia il consenso
dei genitori che possono fornire all’esperto informazioni (a volte anche diverse se non
contrapposte) utili a conoscere il loro punto di vista sul figlio e quindi l’esperto potrà verificare se
quei genitori “conoscono” ovvero “sono capaci di ascoltare” il figlio. Si deve tendere verso un
ascolto “relazionale” che correli le caratteristiche dei genitori con quelle del figlio secondo
procedure capaci di integrare il livello dinamico con il livello giuridico.
Soprattutto con i minori al disotto dei dodici anni o nei “casi complessi”3 è opportuno che il
figlio venga ascoltato in maniera indiretta: nel contesto del Servizio sociale, se sono presenti figure
professionali con adeguata formazione, o meglio all’interno di una procedura di Consulenza tecnica
d’ufficio4. Questa modalità, nonostante sia maggiormente dispendiosa in termini di tempi e di
risorse, è più efficace in quanto consente di inserire il colloquio all’interno del contesto familiare e
relazionale allargato, oltre che esplorare il suo mondo sul piano affettivo ed emotivo anche a livello
intrapsichico. Correlando il suo mondo intrapsichico con quello relazionale possiamo cercare uno
spazio psicologico per testare la “modificabilità” di posizioni disadattive – ad esempio i rifiuti –
assunte, nell’ambito del conflitto tra i genitori. Un altro vantaggio della CTU riguarda il fatto che
l’ascolto viene fatto da personale esperto e in una situazione ambientale non giudiziaria, un contesto
più informale, più empatico, può aiutare a creare una maggiore confidenza con l’esperto, che
3
In ambito internazione, in base agli elementi riconosciuti dalle varie autorità è emerso che al di sotto di una determinata età, che è
orientativamente fissata a dieci anni, può presumersi l’incapacità del minore di esprimersi in base al raggiungimento di una adeguata
capacità di discernimento e, pertanto, l’ascolto può essere predisposto attraverso una modalità indiretta da parte di un esperto
(Velletti, 2012).
4 Per un approfondimento sulle modalità di conduzione della consulenza tecnica di ufficio e sull’ascolto del minore da parte del
Servizio Sociale e/o del CTU si veda Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera (2011, 2012).
4
cercherà di andare oltre il contenuto manifesto e cogliere le diverse sfaccettature della situazione in
cui vive il minore per dargli la possibilità di essere riconosciuto quale soggetto portatore di diritti.
D’altro canto l’utilità dell’ascolto del minore all’interno delle indagini riguarda la possibilità che il
CTU raccolga e si faccia delle ipotesi, attraverso indagini cliniche accurate sulla personalità dei
genitori e su altri adulti significativi, informazioni riguardo al contesto relazionale e ambientale in
cui vive il minore.
Molto importante è che l’esperto possa comprendere, facendo ipotesi specifiche, i rapporti tra
quel bambino e quei genitori, attraverso osservazioni sulle relazioni familiari sia direttamente
che indirettamente. Ascoltare il minore significa, infatti, porre attenzione non solo ai codici che
egli usa per esprimersi, siano essi verbali o non, ma attenzione anche ai “giochi relazionali” dei
membri della sua famiglia, i cui componenti devono essere ben conosciuti a tutti i livelli, e ancora
attenzione all’atteggiamento dei genitori verso il figlio e, in modo più ampio, a tutti i messaggi che
provengono dal contesto socioambientale in cui è inserito.
Come indicato nelle Linee Guida degli Psicologi del Lazio (Malagoli Togliatti, Capri,
Rossi, Lubrano Lavadera, Crescenzi, 2013), fondamentali sono le competenze professionali del
CTU, ovvero: conoscenze aggiornate della psicologia dell’età evolutiva e delle relazioni familiari,
adeguamento del setting e delle tecniche all’età del minore (gradazione delle modalità di
ascolto/osservazione), conoscenza delle Linee Guida degli ordini professionali e dei rispettivi codici
deontologici da parte di tutti i professionisti che possono essere coinvolti nel delicato lavoro della
riorganizzazione delle relazioni familiari: psicologi, psichiatri, assistenti sociali, ma anche avvocati
impegnati nel diritto di famiglia. Per quello che riguarda il CTU ricordiamo che egli svolge di fatto
un ruolo di “mediatore” tra il contesto giudiziario e il contesto clinico al “servizio” della famiglia e
le sue conoscenze tecniche devono essere sempre aggiornate. Queste conoscenze permetteranno al
CTU di utilizzare gli strumenti di indagine più opportuni e più adeguati nelle diverse situazioni.
Fig. 1. Setting dell’ascolto in rapporto alla età dei minori5
> 6 anni


6 – 09 anni



5
Osservazione presso i domicili dei due genitori;
Osservazione a studio attraverso procedure specialistiche, quali LTPc (Malagoli
Togliatti, Mazzoni, 2006) e osservazione diadica genitore-figli.
Osservazione presso i domicili dei due genitori;
Osservazione a studio attraverso procedure specialistiche, quali LTPc (Malagoli
Togliatti, Mazzoni, 2006) e osservazione diadica genitore-figli.
Colloquio individuale. Iter scolastico. Eventuali test psicodiagnostici
Chiaramente la tabella è orientativa e l’esperto, per minori di età a limite tra le categorie, dovrà valutare caso per caso.
5
10 – 12 anni  Valutazione della capacità di discernimento in base a dichiarazioni genitori, iter
scolastico, osservazione diretta, eventuali test psicodiagnostici, eventuali
cartelle cliniche;
 Osservazione a studio attraverso procedure specialistiche, quali LTPc (Malagoli
Togliatti, Mazzoni, 2006) e osservazione diadica genitore-figli.
 Colloquio individuale e familiare.
> 12 anni
 Colloquio congiunto padre/figlio, madre/figlio;
 Colloquio familiare;
 Colloquio individuale col CTU
Non è sempre necessario od opportuno attivare tutte le procedure indicate, il CTU, con
l’accordo dei CTP, provvederà ad effettuare le operazioni indicate a seconda della complessità di
quanto andrà rilevando, di quanto indicato dalle dichiarazioni dei genitori, dalla documentazione
agli atti e dai colloqui/osservazioni del minore. Sul ruolo e le funzioni del CTP ricordiamo che
molte delle considerazioni finora effettuate lo riguardano in quanto il CTP è corresponsabile del
procedimento ed è tenuto al rispetto delle norme previste nel codice deontologico dell’ordine
professionale,
non entreremo nel merito della deprecabile tendenza che in alcuni casi i CTP
tendono a trasformarsi in una sorta di avvocati di parte, abdicando alle loro competenze tecniche.
Rimandiamo a quanto
scritto nei nostri
contributi già ampiamente indicati, al Protocollo di
Milano, alle Linee Guida citate e alle più recenti riflessioni del collega Bencivenga (2014).
Ritornando agli aspetti tecnici precisiamo che nel caso in cui siano presenti più figli si utilizzeranno
le procedure che facilitano il coinvolgimento di tutti i figli, oltre che porre attenzione ai singoli
individui. In ogni caso, se l’età lo consente, l’esperto procederà a colloqui individuali e congiunti
con i minori, oltre che alla osservazione delle relazioni familiari anche per esaminare il ruolo svolto
dai fratelli e le posizioni autonome di ciascuno. Come si può notare dallo schema indicato si
utilizzano strumenti e procedure specifiche della psicologia clinica(osservazione, test, colloqui
clinici, anamnesi…), calibrandole sulle esigenze di approfondimento del caso in esame, sempre
attenti a non superare le richieste che saranno fatte al minore.
Obiettivi: superare difficoltà relazionali, non solo fotografare
Nell’introdurre il colloquio con il minore è importante innanzitutto chiarire adeguatamente il
contesto in cui ci si trova ed acquisire il consenso specifico del bambino/adolescente al colloquio.
Questa fase introduttiva è molto utile anche a comprendere quali informazioni hanno ricevuto i figli
e se queste sono state concordi, in quanto nonostante le specifiche raccomandazioni che
precedentemente possono essere state fatte ai genitori, i figli spesso hanno avuto informazioni
diverse o divergenti o addirittura contrastanti da parte dei genitori. Andranno indagati i
6
condizionamenti, i timori, il desiderio ma anche la “paura” che il figlio potrebbe sperimentare nei
confronti delle indagini, soprattutto se il figlio possa essere condizionato dal timore di deludere
uno dei genitori o entrambi o più specificamente temere le “conseguenze” che potrà avere per lui
l’effettuare specifiche dichiarazioni. In definitiva il minore va incoraggiato e sostenuto nel suo
diritto all’ascolto per aiutarlo ad esprimere il suo punto di vista e le sue emozioni. Questa tematica
si correla strettamente alla considerazione relativa al fatto che il minore ha peraltro anche diritto a
rifiutare il colloquio (vedasi, art. 315 bis; Ballarani, 2011), in quanto l’ascolto è un diritto non un
dovere del minore; se egli non desidera essere ascoltato e motiva tale richiesta non si dovrà
procedere all’ascolto, ma sarà necessario capire l’origine di tale rifiuto, ovvero capire se è una
“scelta” dettata dalla paura o dal non voler prendere parte per l’uno o per l’altro o perché uno dei
due genitori lo ha inibito. Ancora l’esperto potrà decidere di non effettuare l’ascolto se il minore
non è idoneo per stati psichici particolari in cui si ravvisi(in base alla documentazione scolastica e
sanitaria e alle dichiarazioni dei genitori) che l’ascolto potrebbe recare pregiudizio o danni gravi
alla serenità del medesimo. Ancora si potrà procedere a non ascoltarlo (o si potrà differire tale
ascolto) se egli “viene portato” da un genitore come “testimone” o fuori dal contesto previsto, in
quanto questo atto può essere indice di un suo eccessivo coinvolgimento nel conflitto. Il CTU non
accettando la “proposta” di quel genitore o comunque decidendone tempi e modi, manda un
messaggio forte su ruoli, contesti e gerarchie relazionali. L’ascolto in definitiva è sempre e
comunque condizionato alla tutela dell’interesse del minore.
All’esito del colloquio, infine, è opportuno fornire una “restituzione”, un commento sulla
importanza di quanto ha detto il minore, ad es. anche rileggendo insieme a lui il verbale e la sintesi
delle sue dichiarazioni e successivamente tale “restituzione” sarà fornita anche ai genitori(insieme o
separatamente) soprattutto in forma di riflessioni sui comportamenti da assumere o modificare
(Rossi, 2014, Ruo, 2014).
Il rifiuto del figlio ad incontrare un genitore nelle situazioni ad alta conflittualità
Uno degli scopi più complessi dell’ascolto è quello di cercare di aiutare il minore a superare
eventuali rifiuti nei confronti di un genitore. Ricordiamo che nel corso degli ultimi anni siamo stati
impegnati per la comprensione del fenomeno del rifiuto nei casi di separazione e divorzio (Malagoli
Togliatti, Lubrano Lavadera, 2005, 2009, 2013; Lubrano Lavadera, Ferracuti, Malagoli Togliatti,
2012) e nel definire Linee Guida rispetto alla prassi corretta nell’ascolto dei minori coinvolti
nella separazione – anche delle coppie di fatto - o nel divorzio dei propri genitori (Malagoli
7
Togliatti, Capri, Rossi, Lubrano Lavadera, Crescenzi 2013)6.
In occasione della separazione dei genitori, i figli possono manifestare in modi diversi la loro
sofferenza oppure essere in grado di “tollerare e superare” – grazie alla presenza di “fattori
protettivi” - l’iniziale disagio per un evento che subiscono e che il più delle volte non desiderano e
che appartiene al processo evolutivo della coppia genitoriale. Questi fattori sono legati alle modalità
con cui la coppia gestisce questa fase della propria riorganizzazione dei rapporti, alle risorse che il
minore possiede (correlate in genere con l’età ovvero con il suo livello di sviluppo psicoemotivo) e
alla costruzione di rapporti di attaccamento validi con l’uno e con l’altro, durante le fasi di vita
precedenti e successive alla separazione.
Un bambino di 3, 4, 5 anni, ad esempio, “normalmente” può rifiutarsi di parlare al telefono col
genitore assente, spesso questo comportamento è sostanzialmente bilanciato nei confronti di
entrambi i genitori. A questa e anche ad età successive parlare col genitore assente “presenti fica” al
bambino il fenomeno della separazione e per tale motivo può essere “messo tra parentesi” dal
bambino, con il rifiuto di parlare al telefono.
Ancora può accadere che il figlio di 3, 5, 6 anni si mette “normalmente” a piangere quando
deve andare con l’altro genitore e deve smettere le sue attività di gioco, come ad es. vedere un
cartone animato il cui racconto non termina esattamente all’ora prevista per il “cambio” di genitore.
Ancora è frequente che i bambini, nel passaggio da un genitore all’altro, o quando devono separarsi
da un genitore, o quando tornano a casa dopo la frequentazione dell’altro genitore, manifestino
sofferenza e/o veri e propri sintomi. Il figlio fa capricci, piange o manifesta il desiderio di non
andare via dalla casa in cui è ospitato e il genitore che si aspetta grandi riconoscimenti o
comunque vuole essere preferito dal figlio, attribuisce alla “istigazione”
dell’altro
il
comportamento di disagio. Questi comportamenti “normali” e legati ad una condizione nuova per
il minore – e ripetiamo spesso non voluta -, possono essere riletti in modo distorto dai genitori – e/o
dai parenti, o nuovi compagni - nelle situazioni ad alta conflittualità: ad esempio, possono essere
considerati un segnale del fatto che il bambino vuole rimanere con il genitore da cui si distacca o
come la chiara dimostrazione che il figlio non vuole andare dall’altro genitore; il disagio può anche
essere letto come il segno di quanto sia nociva la frequentazione dell’altro genitore o altre letture
ancor più complesse e destabilizzanti per l’amor proprio dell’uno e dell’altro genitore.
Ciò che si intende sottolineare è che gli elementi da prendere in considerazione per la
comprensione di questi fenomeni sono molteplici ed in particolare il tipo e la qualità della relazione
- da sempre presente nella storia di queste famiglie – che si manifesta prima, durante e dopo la
In questo lavoro non entreremo nella discussione rispetto alla definizione del fenomeno “PAS” o meglio “PA” in quanto tale
discussione è già trattata nel volume in altri contributi (e in particolare dal collega Camerini); ci interessa l’importanza della
comprensione della “storia relazionale” e del ruolo degli esperti (avvocati, giudici, operatori del Servizio, Consulenti di ufficio o di
parte, terapeuta del minore, terapeuti dei genitori) coinvolti in queste situazioni molto complesse.
6
8
separazione. La relazione tra i partner della coppia genitoriale definisce, infatti, fin dall’inizio della
vita psichica del bambino, il suo e il loro mondo “interno”, il luogo della crescita mentale
attraverso la sua - ma anche la loro - capacità di sviluppare relazioni fantasmatiche, simboliche e
“reali” che influiscono sull’apprendimento relazionale e cognitivo del figlio.
L’ascolto del minore e la comprensione di un eventuale suo rifiuto ad incontrare un genitore va,
dunque, inserito all’interno della storia relazionale e familiare anche attraverso una indagine
accurata sulla storia della coppia oltre che della storia affettiva e relazionale dei singoli nelle fasi del
loro sviluppo all’interno delle famiglie di origine, alle caratteristiche di quel figlio e alla sua storia
personale. Le affermazioni del minore, i suoi comportamenti di rifiuto, infatti, devono essere
contestualizzati sia in senso cronico che diacronico. Per questo motivo diventa molto importante la
procedura con cui viene condotto il loro ascolto durante la consulenza7. È fondamentale, inoltre,
integrare le informazioni provenienti dalla raccolta della storia relazionale dei genitori e del minore,
relativi al fallimento dell’unione di coppia, e dall’osservazione diretta della relazioni familiari
(Lubrano Lavadera, Laghi, Malagoli Togliatti, 2011).
La fine disperante dei legami
Isabella, di 12 anni, da circa un anno non vede il padre. I genitori si sono appena separati dopo
13 anni di vita insieme. Entrambi fortemente cattolici, frequentavano anche un gruppo di
catechesi. Nonostante un matrimonio descritto da entrambi come molto difficile e
insoddisfacente, sembra impossibile, soprattutto per la madre, accettare la fine di un legame
che deve essere “eterno” secondo il proprio sistema di riferimento valoriale. La madre lamenta
instabilità e comportamenti “irascibili” e violenti da parte del marito, ma ciò di cui lo
accusa realmente è di averla lasciata per un'altra donna, una sua amica. In un qualche
modo vive l’evento come un doppio tradimento. La figlia Isabella non comprende quello che
le accade intorno, vede il padre tornare sempre più tardi, la madre piangere e soprattutto
“vomitare”. Dopo circa un mese di questa situazione il padre esce di casa e da allora non
vedrà più la figlia. In realtà, è il padre che rifiuta di incontrare Isabella, perché costei –
assumendosi un ruolo non suo – vuole vederlo soltanto in presenza della mamma. Il padre
rifiuta di “rifare la finta famiglia felice” e rinuncia ad incontrare la figlia, definendo tale
modalità come una imposizione della moglie cui la figlia sottostà. Il suo comportamento è
peraltro anche legato al timore di un conflitto con la nuova partner che vuole vivere una storia
d’amore esclusiva.
Isabella non comprende le motivazioni “ufficiali” addotte dal padre e gli unici
E anche su questo sono state definite Linee Guida per una buona prassi: Protocollo di Milano – Fondazione Gulotta e riflessioni:
Bencivenga, 2014 che entrano nel merito anche del ruolo del Consulente di parte (CTP).
7
9
elementi di spiegazione in suo possesso sono quelli visti e vissuti da lei direttamente, o detti
esplicitamente o sussurrati dalla madre. Della madre per un periodo “raccoglie il vomito” e
cerca di consolarla per il dolore
comportamento per lei
che
costei
manifesta;
del
padre
assiste
ad
un
illogico che le confermano i giudizi negativi espressi dalla madre.
Inizia anche lei a”somatizzare", accentua le sue richieste di essere “disponibile” solo in
presenza della madre, presenta conati di vomito in occasione dei “possibili” incontri con il
padre.
In questa breve vignetta clinica è descritta la situazione così come si presenta al CTU del Giudice
all’inizio delle operazioni peritali. Una situazione di stallo, in cui le soluzioni ai problemi cercate
sono diventate a loro volta il problema (Watzlawich, Weakland, Fisch, 1974), anche perchè sono
sempre presenti diversi elementi per comprendere l’origine di questo rifiuto, per comprendere il
quale non “funziona” nessuna lettura semplificata. Ovvero non basterà che la madre modifichi i
suoi comportamenti che direttamente o indirettamente sono di fatto ostativi ad una “libera”
frequentazione tra figlia e padre. Ma non basterà neppure che il padre proceda ad es. in modo
graduale, accettando alcune delle richieste della figlia e superando le sue rigidità e il suo rifiuto
orgoglioso di doversi “piegare”e fare i conti con i disagi della figlia e le sofferenze della moglie.
Un modello complesso, partendo da quello classico di Kelly e Johnston (2001)8, può aiutare e
rappresentare una buona griglia per l’individuazione, la sintesi e la correlazione dei diversi fattori
implicati. Innanzitutto le personalità dei genitori. In diversi lavori (Lubrano Lavadera, Gizzi,
Galante, Malagoli Togliatti, 2014; Roma, Ricci, Abbate, Lubrano Lavadera et. al. 2014) è stato
evidenziato che i genitori coinvolti in tali situazioni non presentano una condizione psicopatologica,
piuttosto caratteristiche problematiche di personalità “simili”, quali rigidità, scarsa capacità di
introspezione e riflessione rispetto al proprio operato, affettività immatura ed “esternalizzata”,
ovvero manipolativa, oppositività, scarsa capacità di problem solving e di senso pratico. Queste
caratteristiche in parte presenti in entrambi gli ex partner, anche se in modo diverso, determinano
spesso un’escalation conflittuale in cui non è possibile trovare una soluzione, in quanto è più
8 Come abbiamo indicato in Malagoli Togliatti, M, Lubrano Lavadera A, 2009 e 20013: Kelly e Johnston (2001) evidenziano
che dopo la separazione, la relazione tra genitori e figlio può essere concettualizzata lungo un continuum che va da rapporti positivi a
rapporti molto negativi ed evidenziano come si possano individuare dei fattori di rischio per prevedere una specifica evoluzione
disfunzionale. Secondo il modello proposto vi sono molteplici fattori correlati, tra cui il comportamento e le credenze dei genit ori, le
relazioni tra fratelli, la resilienza o la vulnerabilità dei figli, il comportamento delle famiglie di origine, la presenza o meno di nuovi
partner. Ovvero possono essere presenti fattori di rischio e fattori di protezione, che riguardano tutti i componenti del sistema
familiare nucleare e allargato e che, influenzando direttamente o indirettamente il comportamento emotivo e relazionale del figlio,
portano alla strutturazione del fenomeno della “alienazione”. Anche le riformulazioni successive hanno adottato una prospettiva più
sistemica ed “ecologica” (Gagné, Drapeau, Hénault, 2005; Warshak, 2010), sottolineando il ruolo dei fattori familiari preferendo
utilizzare il termine “famiglie con un figlio alienato” (Friedlander & Walters, 2010). In particolare, si enfatizza il ruolo della
conflittualità di coppia in cui il figlio è stato triangolato e quello del sistema giudiziario e dei servizi come elementi che tendono a
mantenere o cronicizzare la patologia relazionale (“professionisti eccessivamente allineati”, “esacerbazione del conflitto” per la
logica del vincente/perdente che il procedimento giudiziario introduce nei rapporti di coppia).
10
“importante” prevalere sull’altro e affermare il proprio punto di vista. Il contesto giudiziario con la
sua logica “vincente o perdente” sostiene la incapacità a cercare di capire il punto di vista dell’altro.
Spesso in consulenza si osserva che i genitori vivono e di riflesso fanno vivere il figlio, in una
situazione “schizofrenica”, da un lato sono o vengono impegnati in un tentativo di ricerca di accordi
nella stanza con il consulente, ma fuori dalla stanza, nei contatti con i componenti delle rispettive
famiglie e nel contesto giudiziario sono invece impegnati in uno scontro che richiede un”vincitore
e un vinto”. Il figlio che diviene fonte di aspettative di vittoria da parte del genitore, viene
“triangolato” ma nel tempo, perdurando la situazione relazionale disfunzionale, a sua volta
“triangola”. Il figlio in genere cerca di proteggersi il più possibile dalla “guerra” tra gli adulti, in
cui è possibile solo vincere o perdere, in una condizione in cui ciascuno dice al figlio “o con me o
contro di me”, e quindi può fare una opzione per uno dei genitori, coalizzarsi e cominciare a dire o
ad assumere comportamenti coerenti con la alleanza spesso acritica che stabilisce con uno dei due,
nella speranza così di essere fuori dalla guerra relazionale.
Ambra, 18 anni e mezzo, brillante studentessa, non riesce ultimamente a concentrarsi sugli
studi. I genitori si sono separati da oltre un anno e la madre si è trasferita in un’altra città per
motivi di carriera. Lei e la sorella minore sono rimaste a vivere con il padre. Con l’ingresso
all’Università, Ambra decide di raggiungere la madre, che d’altra parte le sembra sola e
bisognosa di affetto. Questo provoca in lei forti sensi di colpa rispetto al padre, che si sente
“tradito” anche da lei. Ambra dice di “non capire”, non riesce a capire il comportamento del
padre, che scrive di “mantenerla”, ma poi non ne ricarica la Carta di credito. Ambra non
riesce a capire come il padre non comprenda che i comportamenti che egli assume nei
confronti della madre, hanno una ripercussione su di lei. Ambra non capisce, inoltre, come la
madre possa inserirla nella “sua” lista di testimoni, “contro”, il padre. Chiede un sostegno
individuale per “uscire fuori” da questo doppio legame relazionale sentendosi sempre più sola
in coincidenza con la crisi del rapporto di coppia con un ragazzo violento e possessivo.
Età dei figli, capacità di discernimento, rifiuto e ascolto del minore
Come si diceva, elemento rilevante rispetto alle procedure di ascolto dei figli, soprattutto in caso
di rifiuto è l’età dei minori. La età “tipica”, in cui è più probabile che si sviluppi un
rifiuto “immotivato” è quella in cui i figli hanno un’età compresa tra i 7/ 8 anni e i 12 (Lubrano
Lavadera, Ferracuti, Malagoli Togliatti, 2012). In questo range di età i minori, per le caratteristiche
cognitive, emotive e di sviluppo morale sono in grado di fare dei ragionamenti autonomi, ma si
basano molto su dati concreti, senza essere ancora in grado di considerare di correlare tra di loro i
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molteplici elementi presenti attraverso ragionamenti più astratti, per ipotesi o contrastivi. Spesso
sono percepiti dai genitori come in grado di comprendere le proprie ragioni (con il pericolo
di una sorta di inversione di ruolo), accogliere le loro confidenze (e perdere di ruolo e funzione in
quanto “amici e coetanei”), portare messaggi all’altro (con triangolazioni veramente degne di un
ritorno alla guerra fredda). In sintesi sia l’uno che l’altro genitore ritengono il figlio di questa
età in grado di partecipare attivamente al conflitto. In letteratura questi minori sono definiti i
“grandi minori” (Velletti, 2012), secondo un ossimoro che ben coglie la paradossale situazione
relazionale in cui possono venire a trovarsi.
Altro fattore da considerare è la presenza e il ruolo che assumono gli altri adulti significativi,
nonni o nuovi partner, che solitamente in tali situazioni non favoriscono la risoluzione della crisi,
ma al contrario diventano i catalizzatori del conflitto o i “finanziatori” emotivi ed economici del
conflitto. Della prima tipologia fanno spesso parte i nuovi partner; spesso, infatti, il figlio rifiuta un
genitore e il suo compagno/a per timore di “tradire” l’altro genitore o semplicemente perché gelosi
o timorosi di essere abbandonati a loro volta. In questi casi i figli possono porre “veti” al genitore
rifiutato rispetto ad un ripristino delle frequentazioni che esclude l’altro partner. Anche in questi casi
è possibile ravvisare non soltanto il contributo del genitore che è rimasto “solo”, ma anche
il contributo di quello che ha instaurato una nuova relazione, in quanto a sua volta è solito
commettere “errori relazionali”, nel senso di dare messaggi confusivi, oppure non rispettare i tempi
del figlio, imponendo la nuova presenza in modo precoce e massiccio o ancora non tutelando i
tempi in cui resta e compie attività anche da solo con il figlio.
Edoardo 12 anni rifiuta di incontrare la nuova compagna del padre, in precedenza, insieme
al marito era la migliore amica di famiglia, ed egli era solito chiamarla “zia”. Durante la
sua infanzia era solito andare in vacanza insieme e giocare con i figli della “zia” e
dello”zio”. Il mondo relazionale e affettivo delle due coppie e
soprattutto dei rispettivi
figli è rimasto “sconvolto” dai cambiamenti che il padre continua a definire “normali”. Il
padre non tollera la frustrazione del rifiuto della nuova compagna e a sua volta rifiuta di
tenere il figlio, soprattutto nei periodi di vacanza, senza la presenza di costei e il figlio
rifiudella nuova compagna. Edoardo accusa il padre di preferire la compagna a lui,
instaurando un braccio di ferro con il padre da cui nessuno degli adulti lo aiuta ad uscire.
Un’altra tipologia di casi è quella in cui il genitore crea una nuova “famiglia” con il
partner, spesso dando alla luce un altro bambino. Non è raro in queste situazioni che il figlio si
“allinei” fortemente alla nuova famiglia, per dimostrarne l’appartenenza, rifiutando e quasi
12
“disconoscendo” l’altro ramo genitoriale, in una dinamica di inclusione nel nuovo nucleo che
gli offre un “senso della famiglia” che il minore aveva perso con la separazione dei propri genitori.
In questa situazione è davvero molto difficile l’intervento efficace, in quanto il minore vede in
questa strategia l’unica possibilità di non essere abbandonato anche da quel genitore e rimanere solo
o escluso dagli affetti.
Il ruolo delle famiglie d’origine è spesso testimoniato dalla presenza anche di denunce e azioni
legali tra un genitore, i membri della sua famiglia di origine e l’altro genitore e i membri dell’altra
famiglia. Spesso si rende necessario, dunque, integrare un’ottica sistemica e psicodinamica per la
comprensione di conflitti incistati, agiti anche a livello intergenerazionale. Le dinamiche del sistema
trigenerazionale non solo può illuminare l’area della collusione di coppia e dei rapporti
disfunzionali all’interno della famiglia nucleare, ma anche l’area in cui erano state depositate
inconsciamente le aspettative di salvezza e riparazione di precedenti relazioni affettive disfunzionali
Questo fenomeno descritto come “chiasma relazionale” (Malagoli Togliatti, Ardone, 1992),
intendendo con ciò un conflitto per l’appartenenza del figlio/nipote tra due stirpi/clan, si verifica più
facilmente quando la separazione tra i genitori interviene con figli ancora piccoli. In questi casi può
verificarsi una dinamica in cui i genitori/nonni offrono un più che significativo sostegno economico
e logistico al conflitto e quindi a “maggior ragione” si attendono una “vittoria”. Possibili anche i
casi di scontri anche violenti sia sul piano verbale che fisico in presenza dei figli.
All’uscita di scuola Alberto si recava a prendere la piccola Benedetta, insieme ai propri
genitori che lo attendevano in macchina. Alberto visto il clima di forte tensione con la
ex-moglie si faceva accompagnare sempre da uno dei suoi genitori o da entrambi quando
doveva prendere la bimba. Diverse denunce erano state sporte tra lui e gli ex-suoceri e tra la
sua ex-moglie e i di lui genitori.
Alberto, nonostante siano in corso le operazioni peritali, va a prendere la figlia nel giorno e
nell’ora concordata col CTU, ma nel piazzale antistante la scuola trova ad attenderlo i genitori
della signora che lo aggrediscono. Osservando la scena si inserisce anche suo padre e
nell’arco di pochi minuti si ha una colluttazione che coinvolge tutti, con l’arrivo della polizia e
dell’ambulanza. Il nonno paterno riporta frattura alla mascella con prognosi di 30 giorni;
altrettanti 30 giorni di prognosi per frattura delle costole riceve il nonno materno.
Non meno importante, ma al contrario molto spesso fondamentale, è il ruolo dei professionisti
coinvolti a diversi livelli che possono essere “inseriti” all’interno del conflitto, cercando complicità
e sostegno alle proprie “tesi”, in un sistema in cui viene richiesto anche al professionista “di parte”
lo schieramento contro l’altro. Professionisti (avvocati, psicologi, medici) che “sposano” la causa
dei propri assistiti colludendo acriticamente con le richieste di una parte, spingono il conflitto
13
all’estremo, impedendo un abbassamento delle tensioni e una risoluzione della situazione. Spesso
forniscono gli “strumenti” tecnici – o apparentemente tali – facendo precipitare la situazione
in alcuni casi in modo irreversibile o quasi.
In questo rientrano le “false denunce di abuso”o di maltrattamento del minore compiute dal
genitore o dal nuovo partner di uno dei due a danno del minore, oppure all’accusa di far assistere
quest'ultimo ai rapporti sessuali tra un genitore e il suo o i suoi partner. Queste accuse, quando non
hanno un fondamento di verità, possono essere la proiezione e l’attribuzione all’altro coniuge di
proprie esperienze infantili, fantasie o paure, percepite come reali, altre volte sono invece una
accusa consapevolmente espressa, anche se non vera, utilizzata per colpire, aggredire e danneggiare
l’ex partner. Il bambino/a, specie se di età prescolare, “subisce e accetta” le descrizioni del genitore
accusante, vi si identifica, assumendole come vere. In questi casi anche se non c’è stato l’abuso o il
maltrattamento, viene comunque operata una violenza psicologica, un abuso i cui effetti spesso si
prolungano nel tempo e tendono a diventare irreversibili (Montecchi, 2014). Anche le più semplici
pratiche di accudimento del figlio, soprattutto quelle relative alla pulizia e all’addormentamento
possono essere ridescritte e utilizzate per suggestionare e costruire falsi ricordi e false accuse.
Più complessi ancora sono i casi, in frequente aumento, in cui il partner viene accusato, anche
“giustamente”, di violenza domestica. In questi casi il figlio può aver assistito o essere stato
coinvolto in qualche modo nella violenza e sviluppare un rifiuto nei confronti del genitore violento.
È molto importante riconoscere correttamente se si tratta di una reale “violenza” domestica e di
quale intensità e tipologia (psicologica, fisica, sessuale), e il grado di coinvolgimento diretto del
minore. Molti genitori pensano di poter mostrare in tutti i modi l’astio per l’ex partner e
contemporaneamente, a parole, pretendono che il figlio sia in ottimi rapporti e li accolga con affetto
e gioia, come se il figlio non percepisse le manifestazioni negative, a livello verbale e non verbale,
che egli esprime verso l’altro genitore. Il conflitto che vive il figlio in questi casi è ancora più
complesso in quanto egli può sperimentare anche una propria paura o diffidenza verso il genitore
rifiutato, soprattutto se ha assistito a scene di grande tensione tra i due.
Il rifiuto come falsa soluzione
Per capire il senso del rifiuto da parte di un figlio è importante, quindi, ascoltare i racconti dei
genitori e del minore, relativi anche alla storia familiare prima della separazione e alle difficoltà di
elaborare/adattarsi alla separazione tra i genitori, difficoltà che sono acuite in modo talvolta
drammatico dalla persistente conflittualità tra i genitori e dal “rinforzo” da parte delle famiglie di
origine e dagli “agiti” nell’ambito del contesto giudiziario.
14
In termini psicologico-relazionali, si tratta di processi che iniziano molto prima che ci sia la
notifica da parte dell’ufficiale giudiziario e che terminano molto dopo che la causa di separazione
sia effettivamente definita a livello legale9. Quando la separazione non è utile a contenere, o meglio
ridurre le difficoltà relazionali tra i partner (e questo dipende anche dal tipo di separazione) (vedasi
Cigoli, 2006); o peggio se la conflittualità aumenta e si intensifica attraverso manifestazioni
crescenti di denigrazione (talvolta sempre più perverse) l’esplosione di un intenso stato di conflitto
e la rottura del legame tra i genitori fanno emergere nel figlio, in modo molto intenso e spesso
patologico, ansie arcaiche, timori di abbandono, angosce persecutorie e depressive, causate dalla
mancanza di punti di riferimento chiari e di un contesto rassicurante, costringendolo a cercare in
qualsiasi modo punti di riferimento affettivi stabili.
Il figlio che rifiuta
Questi sentimenti penosi costringono il bambino ad utilizzare meccanismi di difesa rigidi
per proteggersi dalla sofferenza e lo inducono a distorcere le esigenze affettive necessario per
un proprio corretto sviluppo psicoaffettivo. Per il timore di perdere le attenzioni affettive e di cura
e di rimanere senza punti di riferimento chiari e rassicuranti, questi figli cercano di individuare da
chi, minimamente, possano avere la garanzia e la certezza di almeno un riferimento affettivo stabile,
a qualsiasi prezzo, ed utilizzano modalità "adesive" come tattiche per la “sopravvivenza”.
Clinicamente, il minore che rifiuta, vive in modo persecutorio la relazione col genitore rifiutato, ma
ha anche un disturbo nel rapporto con l’altro con cui ha una relazione simbiotica. In altre parole la
relazione con entrambi i genitori è disfunzionale (patologia relazionale) e, permanendo nel tempo
questa disfunzione, diventa patologico anche il funzionamento individuale del bambino (patologia
intrapsichica, Montecchi, 2014).
Con l’ascolto si può cercare di fare ipotesi, clinicamente fondate, per capire se il bambino
si difende dalla sofferenza attraverso meccanismi di rifiuto accompagnati da regressione alla fase
simbiotica, oppure da meccanismi di scissione, proiezione, idealizzazione (ovvero di identificazione
proiettiva). Si può individuare il distanziamento affettivo (con congelamento delle emozioni)
quando, apparentemente, sembra sereno; si può approfondire attraverso anche le indagini
testologiche se le figure genitoriali interne sono state scisse secondo polarità opposte:
buono/cattivo attraverso la distorsione dei processi di memoria, si possono fare ipotesi di uno
sviluppo basato sul falso Sé, come situazione a rischio di sofferenze psicologiche future.
9
Diversi anni or sono gli autori (Kaslow e Bohannan, in Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2002) hanno sviluppato modelli per
la comprensione delle “fasi” del divorzio psichico, ovvero per comprendere il processo di elaborazione della separazione da parte dei
singoli individui. Gli autori evidenziano come è necessario superare alcune fasi in step successivi per raggiungere una condizione di
elaborazione della perdita del rapporto affettivo e una discreta serenità relazionale nei confronti dell’altro.
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Questo funzionamento che in un qualche modo tende a difenderlo dalla sofferenza lo porta a
sviluppare sfiducia nelle figure di attaccamento e nel corso del tempo si è osservato in molti
adolescenti anche il rifiuto verso l’altro genitore: questa modalità di relazionarsi tenderà a ripetersi
negli altri legami significativi della sua vita affettiva.
In tal senso riprendendo quanto sostenuto da Montecchi (2014), il rifiuto, non ha un nesso diretto
di causalità con le manovre o i condizionamenti del genitore alienante ma rappresenta un sintomo di
una situazione clinica complessa che il bambino mette in atto per proteggersi dalla sofferenza
(pensare al rifiuto come l’elemento centrale è come considerare solo la febbre nella malaria). Con
una lettura della situazione intrapsichica e relazionale si può cercare di uscire da una visione
unilaterale del figlio come vittima innocente delle manovre degli adulti o come caparbio
onnipotente braccio armato, vendicatore del genitore, considerato, programmante.
Quali interventi e a tutela di chi o di cosa?
Si è tentato durante questi ultimi decenni di individuare le possibili forme di intervento in caso
di difficoltà tra un figlio e uno dei due genitori, ma nel nostro Paese ancora manca un protocollo o
un accordo sulle strategie e gli interventi da effettuare, soprattutto in termini di rete sinergica.
Ipotizzando uno schema provvisorio(in base a diversi contributi, tra cui il Protocollo di Milano, la
Carta di Civitanova, le Linee Guida già indicate e gli esperti citati) si potrebbe prevedere che in
caso di:
1. un livello di conflittualità difficile da gestire, ma “moderata” in cui sono presenti:
-
ostacoli alla frequentazione (in genere tra figli e genitore non collocatario);
-
denigrazione (in genere reciproca) o di accuse circolari di inadeguatezza nello svolgere il
ruolo e le funzioni genitoriali;
-
incapacità/difficoltà nella gestione della vita quotidiana del figlio a livello delle cure
quotidiane, oppure a livello educativo e gestionale (vedi Protocollo di Milano, 2011)
l’intervento che sembra più indicato è la mediazione familiare preceduto da una
“premediazione” necessaria per “lavorare” con i singoli con l’obiettivo di aprire o riaprire la
possibilità di una comunicazione diretta tra i due partner. Ricordiamo la mediazione ad
orientamento terapeutico nei casi in cui bisogna lavorare sulle componenti emotive dei due
partner anche attraverso una rilettura della storia trigenerazionale in funzione della storia
individuale e di coppia (Malagoli Togliatti, Angrisani, Barone, 2005).
2. Nei casi di rifiuto di un genitore da parte di un figlio (ma anche di un figlio rifiutato da un
16
genitore), di conflittualità così alta da non sembrare gestibile, vengono spesso proposti gli
incontri attraverso lo spazio neutro o gli incontri assistiti. Sono interventi spesso destinati a
fallire, perché sovente sono focalizzati sui diritti del genitore rifiutato anziché sui diritte del
figlio. Bisogna considerare che spesso il figlio viene messo direttamente a contatto con il
genitore rifiutato, come se le difficoltà di rapporto riguardassero solo quel genitore:
l’intervento rischia di rimanere focalizzato sulla diade. Ricordiamo che al rifiuto più o meno
immotivato concorrono – seppur con modalità, consapevolezza e intensità diverse – tutti i
componenti il gruppo familiare (Malagoli, Lubrano, Lavadera, 2013), per cui tutti i
componenti del gruppo familiare devono essere aiutati, perché sono i rapporti interpersonali a
doversi evolvere e modificare.
Lavorare con tali situazioni impegna gli esperti ad interrogarsi rispetto a quali obiettivi si
vogliono raggiungere, quali interessi si vogliono tutelare: il diritto di “riconoscimento” della
genitorialità e i bisogni affettivi dei genitori? o il bisogno e il diritto alla salute emotiva del
minore? o l’adesione alle indicazioni dei giudici e dei trattati internazionali? Partendo dal CTU,
esperto che viene solitamente coinvolto per comprendere ed intervenire in tali situazioni, l’elemento
che dovrebbe guidarlo è, come ripetuto da più parti, la tutela dell’interesse del minore seguendo
principii che sono innanzitutto di natura etica, in quanto i principii etici devono guidare gli
interventi tecnici e le procedure. Diritti dei genitori e diritto al benessere dei figli possono essere
difficili da integrare e spesso, nel lavoro di CTU ci si chiede come coordinare le indicazioni ad un
intervento clinico da parte del magistrato e il principio base di ogni lavoro di sostegno psicologico
clinico, di ogni psicoterapia: atti basati sulla volontarietà e consapevolezza dell’interessato al
trattamento psicosociale Le indicazioni del CTU, saranno costruite durante i colloqui attraverso un
paziente lavoro di riflessione guidata. Si tradurranno in una prescrizione da parte di un giudice o
serviranno a “stimolare” la consapevolezza della necessità di interventi specialistici negli
interessati? I genitori potranno trarre beneficio dal prendere coscienza e consapevolezza delle
proprie problematiche e del proprio contributo a rendere disfunzionale la situazione? Sembra un
obiettivo importante far entrare tutti i membri della famiglia nella consapevolezza dell’opportunità
dell’intervento psicologico nelle varie forme della psicoterapia, ma bisogna avere la conoscenza
delle difficoltà che poi gli interessati incontreranno, anche perché i Servizi pubblici, soprattutto in
questa fase storica, non sempre hanno sufficienti risorse professionali per realizzare un progetto
complesso. In alternativa la possibilità di rivolgersi al privato implica impegni economici che
possono essere anche consistenti soprattutto se gli interventi riguarderanno tutti i componenti il
nucleo familiare disfunzionale.
Nonostante ciò, bisogna continuare a dare indicazioni in questa direzione con la speranza che se
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il giudice darà disposizioni per un percorso terapeutico, che non può essere realizzato su
“prescrizione”, l’intervento sarà possibile e il clinico potrà lavorare sulla “prescrizione” per
trasformarla in una domanda “spontanea” e comunque “consapevole” di terapia.
Come CTU, quindi, riteniamo che dobbiamo occuparci del diritto alla salute emotiva dei minori,
proponendo un modello di integrazione dei diversi tipi di intervento e una “presa in cura” che
facendo “lavorare “ i genitori, pone il bambino al centro dell’intervento terapeutico, per non
essere limitati al semplice ruolo di supporto alle strutture giudiziarie, attraverso interventi valutativi
e di protezione o attraverso gli incontri assistiti. Gli incontri protetti, anche se hanno l’obiettivo di
riavvicinare il bambino al genitore rifiutato, rischiano di essere insufficienti rispetto ai livelli più
profondi che sono in gioco e la cui risoluzione rappresenta la conditio sine qua non del
riavvicinamento relazionale. Quanto affermato è supportato anche dai dati di una ricerca condotta
nel 2012 per il Garante dell’Infanzia della Regione Lazio, sugli interventi effettuati nei Servizi
Municipali del comune di Roma nei casi di rifiuto immotivato dei figli (Lubrano Lavadera,
Malagoli Togliatti, 2013). La ricerca citata ha evidenziato che in tutti o in quasi tutti i casi è stata
effettuata una pluralità di interventi specialistici nel corso del procedimento legale. Tali interventi
hanno riguardato una fase valutativa (attraverso l’indagine dei Servizi e/o la CTU) ed una fase
successiva di trattamenti vari. Tra questi ultimi, l’intervento più praticato è stato lo Spazio neutro,
con esiti tuttavia spesso non efficaci. È stata in genere fallimentare la Mediazione familiare,
coerentemente del resto con i criteri di mediabilità della SIMEF, che considerano questi casi ad
elevatissima conflittualità non rispondenti alle caratteristiche della mediazione familiare. In tutti i
casi è stato necessario attivare più interventi e di lunga durata, tanto che anche dopo il decreto
definitivo sono stati suggeriti o prescritti ulteriori interventi specialistici, il più delle volte
combinati, come ad es. il monitoraggio del Servizio sociale e una psicoterapia per il figlio, interventi
si sostegno alla genitorialità e /o psicoterapia dei genitori secondo una gradualità di interventi volta
comunque ad ottenere la adesione degli interessati.
In base alle ricerche finora effettuate sembra che soltanto interventi integrati di psicoterapia sui
singoli individui e su tutto il gruppo familiare nelle fasi successive, con una cornice data da
provvedimenti giudiziari ad hoc, e un tempo ampio possono aiutare questi minori e i loro
genitori a trovare un riequilibrio nelle relazioni. Questo impone ai tecnici di informarsi e
aggiornarsi sulla “variabilità delle conoscenze nel corso del tempo” in quanto per citare quanto
detto dal collega Sabatello nel corso di un convegno su tale tema nel corso di un convegno nel
2014, gli “errori etici sono errori tecnici”, ovvero bisogna operare con la consapevolezza che
anche le scienze esatte hanno delle aree indeterminate, spesso i figli che rifiutano si fanno carico dei
problemi relazionali dei genitori, in quanto possono sentirsi responsabili delle relazioni conflittuali
18
tra i loro genitori e per intervenire in maniera efficace bisogna intervenire su e con tutti i
protagonisti del sistema familiare disfunzionale, coinvolgendoli a tutti i livelli.
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