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1 L`IMMAGINE E LA LUCE Forse non tutti sanno di aver ricevuto in
L’IMMAGINE E LA LUCE
Forse non tutti sanno di aver ricevuto in dono alla nascita due vere e proprie macchine
fotografiche: i nostri occhi. Analogamente a quanto avviene in una macchina fotografica, in
cui la luce passa attraverso l'otturatore e impressiona la pellicola fotosensibile, nell'occhio
umano la luce proveniente dall'ambiente circostante penetra attraverso l'apertura variabile
della pupilla e forma sulla retina, sul fondo dell'occhio, un'immagine capovolta di ciò che
ci sta davanti. È poi compito della complessa struttura nervosa che dal nervo ottico arriva
al cervello effettuare, in modo del tutto indipendente dall'attività cosciente, il
raddrizzamento di quell'immagine capovolta, e darci così la possibilità di interagire in modo
naturale con gli oggetti del nostro ambiente. (Immaginiamo che incubo sarebbe il doversi
allacciare la scarpa destra vedendola come sinistra e, soprattutto, poggiata sul soffitto
invece che sul pavimento!)
La visione, dunque, dipende dalla luce: è la luce che ci porta informazioni sulla forma e sul
colore degli oggetti del nostro ambiente. In una stanza completamente buia, pur
continuando le cose ad esistere intorno a noi, nessuna immagine di esse ci appare ed i
nostri occhi sono ciechi.
Ma cos'è in realtà la luce? Dal punto di vista fisico è una radiazione elettromagnetica. In
parole povere è un'onda che si propaga nello spazio ad altissima velocità, anzi alla
massima velocità possibile nell'universo, che - manco a dirlo - è proprio la velocità della
luce, pari a circa 300.000 chilometri al secondo!
Com'è fatta quest'onda? Esattamente come tutte le altre onde: ha delle creste e degli
avvallamenti, che ci consentono di definirne le tre misure principali, cioè lunghezza,
ampiezza e frequenza. La lunghezza d'onda è la distanza tra due creste successive,
mentre l'ampiezza è la distanza tra una cresta ed il piano mediano che interseca l'onda; la
frequenza, infine, è la quantità di oscillazioni che l'onda compie nell'unità di tempo, valore
quest'ultimo che si esprime in Hertz. La frequenza è inversamente proporzionale alla
lunghezza d'onda: minore è la lunghezza d'onda maggiore è la frequenza, e viceversa.
Fig. 1 – Schema di onda
Ai fini della visione dei colori, l'ampiezza dell'onda influisce sull'intensità luminosa dello
stimolo elaborato dal cervello, mentre la lunghezza dell'onda influenza la tonalità del
colore percepito: ad esempio, un'onda elettromagnetica di lunghezza compresa tra i 650 e
i 700 nanometri (nm) provoca in un soggetto normodotato la visione del colore
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LO SPETTRO VISIBILE
Lo spettro elettromagnetico comprende l'intera gamma delle lunghezze d'onda esistenti in
natura, dalle onde lunghissime, poco energetiche (10.000 Km di lunghezza, 30 Hz di
frequenza), alle onde cortissime (0,00001 Angström di lunghezza, 3x1023Hz), dotate di
straordinaria energia. Fenomeni fisici apparentemente diversissimi, come le onde radio
che trasportano suoni e voci nell'etere e i raggi X che impressionano le lastre
radiografiche, appartengono in realtà alla medesima dimensione, quella delle onde
elettromagnetiche.
All'interno dello spettro elettromagnetico, solo una piccolissima porzione appartiene al
cosiddetto spettro visibile, cioè all'insieme delle lunghezze d'onda a cui l'occhio umano è
sensibile e che sono alla base della percezione dei colori. Le differenze individuali
possono far variare leggermente l'ampiezza dello spettro visibile. In linea di massima,
comunque, esso si situa tra i 380 e i 780 nanometri: alla lunghezza d'onda minore
corrisponde la gamma cromatica del blu-violetto, alla lunghezza d'onda maggiore
corrisponde invece la gamma dei rossi.
Fig. 2 – Lo spettro della luce visibile è solo una piccola
porzione dell'intero spettro elettromagnetico
Per avere un'idea dell'ordine di grandezze di cui stiamo parlando, consideriamo l'esempio
della luce rossa, fatto poco sopra. Una radiazione della lunghezza d'onda di 700
nanometri, percepita dall'occhio umano in condizioni normali come rossa, è un'onda in cui
due creste successive (o due avvallamenti successivi) distano tra loro 700 x 10-9 metri: per
capire quanto sia piccola in termini umani questa distanza, si tenga presente che occorre
un milione di nanometri per fare un solo millimetro!
Ancora più impressionanti, a paragone delle grandezze a cui siamo abituati, sono i numeri
relativi alle frequenze della luce visibile. Sappiamo che la tecnologia informatica ha
sviluppato solo di recente gli strumenti per produrre in serie processori per computer in
grado di lavorare alla velocità di 1 Gigahertz (Ghz). Un processore da 1 Ghz compie in un
secondo la bellezza di un miliardo di cicli di elaborazione completi! Ma nello stesso tempo
– un secondo – un'onda elettromagnetica della lunghezza di 700 nm, cioè quella che per
l'occhio umano è una luce rossa, esegue 428.570 miliardi di oscillazioni! Quest'onda, cioè,
ha una frequenza 428.570 volte superiore a quella di un processore da 1 Ghz! Si può
capire, dunque, quale progresso per la tecnologia informatica sarebbe riuscire a costruire
– come alcuni ricercatori stanno tentando di fare - processori che utilizzano la luce
piuttosto che i transistor per eseguire i loro calcoli.
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CONI E BASTONCELLI
Assodato che solo le radiazioni comprese nella gamma di lunghezze d'onda tra 380 e 780
nm sono in grado di produrre nell'uomo percezioni visive, in che modo questo tipo di
radiazioni elettromagnetiche agisce sul sistema occhio-cervello?
E' evidente che deve esserci un meccanismo biologico, sensibile alla luce, in grado di
trasformare la radiazione in una serie di prodotti chimici, suscettibili di essere elaborati dal
cervello e trasformati in sensazioni visive. Tale sistema di recettori biologici – è stato
scoperto - ha sede sulla retina, cioè su quella complessa membrana che tappezza la
parete interna posteriore dell'occhio. Si tratta di due tipi di recettori: i coni e i bastoncelli.
Ciascun tipo, quando stimolato dalla radiazione elettromagnetica, produce un particolare
pigmento – la iodopsina i coni e la rodopsina i bastoncelli – che dà l'avvio ad una serie di
reazioni chimiche e stimolazioni nervose, il cui esito finale è la percezione di luci e colori.
In ogni occhio vi sono circa 6 milioni di coni e 120 milioni di bastoncelli: un numero di
elementi fotosensibili di gran lunga maggiore di quello presente nel più sofisticato dei
monitor in commercio. I coni sono responsabili della visione diurna (detta fotopica),
hanno la massima concentrazione – fino a 160.000 per millimetro quadrato! - in una
piccola zona della retina, completamente priva di bastoncelli, detta fovea, e presiedono
alla percezione del colore e alla nitidezza dei contrasti. Ciascun cono presente nella fovea
è collegato ad una cellula nervosa: a questa via privilegiata di comunicazione con il
cervello si deve la maggiore capacità di discriminazione dei dettagli che è associata con la
stimolazione dei coni della fovea.
I bastoncelli, dal canto loro, benché molto più sensibili dei coni alla stimolazione da parte
della luce, sono collegati alle cellule nervose solo a gruppi e questo fa sì che l'immagine
che essi veicolano sia più confusa. Tuttavia la loro maggiore sensibilità permette all'occhio
di vedere anche in condizioni di scarsa luminosità, quando ormai i coni non riescono più a
fornire informazioni utili al cervello: quando si entra, ad esempio, nella sala buia di un
cinema, dopo un periodo di cecità quasi completa nel corso del quale avviene
l'assuefazione degli occhi all'oscurità, entrano progressivamente in funzione i bastoncelli,
consentendoci di vedere sufficientemente bene per trovare posto senza problemi. La
visione resa possibile dai bastoncelli è una visione non cromatica; assume importanza
primaria in condizioni di scarsa luminosità ed è detta scotopica.
Fig. 3 – Differenze strutturali tra coni e bastoncelli
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COLORI SPETTRALI E NON SPETTRALI
Ora che abbiamo presentato gli attori biologici che stanno alla base del processo della
visione dei colori, dobbiamo fare un ulteriore passo in avanti e cercare di spiegare quale
tipo di interazione, tra onde elettromagnetiche e coni presenti sulla retina, può generare la
percezione di colori differenti.
A tal fine, è utile partire dal famoso esperimento di Newton del 1666, nel corso del quale il
grande fisico e matematico inglese scoprì che la luce bianca, quando viene fatta passare
attraverso un prisma di vetro, si scompone in una serie ordinata di raggi colorati.
Newton dimostrò così che la luce che ci appare bianca non è in sé monocromatica, ma è
la somma di una serie di raggi, ciascuno dei quali – detto con la terminologia odierna – ha
una differente lunghezza d'onda. A Newton si deve anche il primo modello di
rappresentazione del colore, un cerchio che ha al suo centro il bianco e lungo la
circonferenza, ordinatamente disposti, i colori scomposti dal prisma. I due colori agli
estremi dello spettro visibile – il rosso e il violetto – sono giustapposti sulla circonferenza in
modo da creare una transizione continua. Sette sono i colori identificati come principali in
questo modello: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.
Fig. 4 – La ruota dei colori di Newton
I colori presenti lungo la circonferenza del cerchio di Newton sono detti colori spettrali,
intendendo con ciò il fatto che essi sono componenti identificabili dello spettro cromatico in
cui l'interposizione di un prisma scompone la luce bianca. Ma esistono molti altri colori
visibili, ad esempio il rosa e il marrone, non presenti in questa gamma. Si tratta dei
cosiddetti colori non spettrali, generati da una mescolanza di due o più dei colori
spettrali. Mescolando ad esempio in varie proporzioni i due colori estremi dello spettro
visibile, il rosso e il violetto, si ottiene tutta una gamma di colori non spettrali, detti
porpore. Il cerchio dei colori raffigurato qui sotto modifica appunto lo schema originale di
Newton (che egli stesso giudicò manchevole e provvisorio), con l'inserimento dei colori
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non spettrali. Sono anche specificate le lunghezze d'onda, espresse in nanometri, che
corrispondono alle percezioni dei singoli colori.
Fig. 5 – Ruota dei colori contenente anche i colori non spettrali (porpore).
I numeri rappresentano la frequenza in nanometri della luce
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LA TEORIA TRICROMATICA
Da quanto detto finora risulta evidente che ogni singolo colore percepito può essere sia
l'effetto di una radiazione monocromatica (ad esempio un'onda a banda ristretta di 700
nm in grado di generare la visione del rosso) sia l'effetto del sommarsi in un'unica
stimolazione di più radiazioni, ciascuna di lunghezza d'onda differente. Questa
osservazione porta in primo piano un'importante caratteristica della percezione visiva, che
la rende profondamente differente, ad esempio, dalla percezione uditiva. Mentre, infatti,
l'orecchio è in grado di discriminare, in un accordo musicale, le singole note componenti,
l'occhio non è in grado di separare, in una stimolazione luminosa composta dalla
mescolanza di più luci diverse, le singole frequenze componenti.
La percezione visiva è sintetica piuttosto che analitica: una luce rossa ed una luce verde
che colpiscono insieme un medesimo punto della retina avranno come risultato la
percezione del giallo; non vedremo né il rosso né il verde.
Ciò significa che, nel contatto della radiazione elettromagnetica con i recettori della retina,
l'informazione sulla lunghezza d'onda si perde. Al suo posto rimane la misura
dell'eccitazione suscitata, che è proporzionale sia all'intensità della luce incidente sia alla
sensibilità del recettore in quella particolare zona dello spettro a cui appartiene la
radiazione che lo ha colpito.
Possiamo chiederci a questo punto: basterebbe un solo tipo di coni per spiegare la
possibilità innata nella nostra vista di discriminare nella luce, allo stesso tempo, intensità e
colori differenti?
La risposta a questa domanda è no. Per capire il perché occorre considerare il grafico in
fig.6. La curva mostrata nel grafico rappresenta il differente grado di sensibilità di un unico
ipotetico tipo di recettori fotosensibili, rispetto a luci monocromatiche di differente
lunghezza d'onda. Nell'esempio, la radiazione monocromatica A1 ha una lunghezza d'onda
corrispondente quasi alla massima sensibilità del recettore. L'effetto sul sistema percettivo
si traduce in un valore 75 (puramente indicativo) di stimolazione, corrispondente alla
visione di un certo colore avente una data intensità luminosa. La radiazione
monocromatica A2 ha la medesima intensità della radiazione A1, ma ha una lunghezza
d'onda differente, alla quale il recettore risulta tre volte meno sensibile, per cui l'effetto è
una stimolazione tre volte meno intensa.
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Fig. 6 – Due radiazioni monocromatiche di differente lunghezza d'onda
in un sistema dotato di un unico tipo di recettori
Ora è dimostrato che in un sistema di questo tipo, in cui l'informazione sulla lunghezza
d'onda si perde, lasciando in sua vece la percezione dell'intensità dello stimolo, è possibile
eguagliare l'intensità della percezione dipendente dalla radiazione A2 all'intensità della
percezione dipendente dalla radiazione A1 aumentando di tre volte l'intensità della
radiazione A2. Ciò significherebbe, però, che la percezione visiva suscitata da A1 sarebbe
del tutto uguale, indistinguibile da quella suscitata da A2, ovvero non ci sarebbe più
discriminazione del colore, dal momento che vedremmo come uguali due radiazioni
monocromatiche dotate invece di differente lunghezza d'onda.
In realtà questo è ciò che accade, all'incirca, nella visione scotopica dipendente dai soli
bastoncelli: di tali recettori esiste infatti un solo tipo, che non è in grado, per i motivi
appena descritti, di conservare l'informazione sulle differenze di lunghezza d'onda ma solo
quella relativa alle variazioni di intensità luminosa.
Per avere allo stesso tempo discriminazione dell'intensità luminosa e del colore abbiamo
bisogno di almeno due tipi differenti di recettori sensibili al colore. Con due tipi di recettori
diventa possibile, ad esempio, eguagliare la percezione visiva dipendente da una singola
radiazione monocromatica alla percezione visiva dipendente dalla miscela di due
radiazioni monocromatiche di differente lunghezza d'onda.
Al principio dell''800 il fisico inglese Thomas Young propose una teoria della visione in cui
si sosteneva la presenza di tre differenti tipi di recettori, ognuno dei quali in grado di
percepire un particolare colore: dalla combinazione delle sensazioni provenienti da
ciascuno di essi, risulterebbe la percezione dei colori nello spettro visibile. Nella sua
ipotesi iniziale, Young indicò come colori primari - cioè quelli alla base di ogni possibile
combinazione - il rosso, il giallo e il blu. Successivamente modificò la sua teoria indicando
come primari il rosso, il verde e il violetto.
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Le tesi di Young furono riprese circa mezzo secolo dopo dal tedesco austriaco Hermann
von Helmholtz. Da allora la cosiddetta teoria tricromatica della visione, basata cioè
sull'azione combinata di tre diversi tipi di recettori fotosensibili, è nota anche come teoria
di Young-Helmoltz.
Si dovette aspettare ancora, però, circa un secolo, per avere – grazie alle rilevazioni
effettuate nel 1964 con sofisticate tecniche di microspettrofotometria - la conferma
sperimentale dell'esistenza di questi tre diversi tipi di recettori e delle loro specifiche
sensibilità nei confronti della lunghezza d'onda della radiazione elettromagnetica. Il
diagramma in fig. 7 illustra appunto le curve di sensibilità dei tre tipi di coni
sperimentalmente individuati.
Fig. 7 – Curve di assorbimento della luce da parte dei
tre tipi di coni sperimentalmente individuati
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Le differenti posizioni, rispetto alla lunghezza d'onda, dei picchi di assorbimento della luce
da parte dei tre tipi di coni dipende dalle differenti caratteristiche del pigmento – la
iodopsina – in essi contenuto.
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I coni-S (in inglese S-cone, ovvero short-wavelength sensitive cone) hanno il loro
picco di assorbimento intorno ai 437 nm; la loro massima sensibilità è per il colore
blu-violetto; il pigmento in essi contenuto è detto cianolabile. Il fatto che la loro
curva di assorbimento sia molto più bassa di quella degli altri due tipi di coni
dipende dal ridotto numero di coni-S presenti nella retina: costituiscono meno del
10% del totale complessivo e sono quasi del tutto assenti dalla fovea, che è la parte
della retina più sensibile alla visione del colore.
I coni-M (in inglese M-cone: middle-wavelength sensitive) hanno il loro picco di
assorbimento intorno ai 533 nm; sono sensibili principalmente al colore verde; il
pigmento in essi contenuto è detto clorolabile.
I coni-L (L-cone: long-wavelength sensitive) hanno il loro picco di assorbimento
intorno ai 564 nm; sono sensibili principalmente nella gamma dei rossi; il pigmento
in essi contenuto è detto eritrolabile.
Dato un simile modello tricromatico di percezione dei colori, la visione, ad esempio, del
colore giallo è l'effetto di una situazione in cui i coni-M (sensibili al verde) ed i coni-L
(sensibili al rosso) sono massimamente stimolati, mentre l'eccitazione dei coni-S (sensibili
al blu) è del tutto trascurabile. La visione del bianco si ha, invece, quanto tutti e tre i tipi di
coni risultano massimamente stimolati.
Chi ha qualche esperienza dei modelli di rappresentazione del colore su computer avrà
già capito che la teoria tricromatica della visione è l'antecedente fisiologico del modello di
colore RGB.
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LA TEORIA DEI PROCESSI OPPOSTI
Purtroppo la teoria di Young-Helmholtz non è in grado di spiegare alcuni importanti
fenomeni che riguardano la visione dei colori. In particolare non può spiegare i seguenti
fatti:
l'esistenza di due coppie di colori complementari, una costituita dal giallo e dal
blu, l'altra dal rosso e dal verde: i colori che formano ciascuna coppia non possono
essere visti simultaneamente nello stesso posto; mescolati in proporzioni uguali
formano il grigio; la presenza di uno dei due colori in una zona (ad es. il blu), rende
più vivo il colore complementare (il giallo) nelle zone circostanti;
• lo status del giallo, che sembra godere di proprietà analoghe a quelle dei colori
primari rosso, verde e blu;
• la visione di colori consecutivi, costituiti sempre dal complementare del colore
precedentemente osservato (se si guarda per trenta secondi un cerchio blu e si
fissa poi lo sguardo su una superficie neutra, ci apparirà un cerchio giallo –
l'immagine consecutiva – la cui visione è stimolata dalla stessa porzione della
retina precedentemente impressionata dal cerchio blu);
• l'esistenza di colori psicologicamente puri (unique hues, in inglese), cioè colori
che ci appaiono come non contaminati da sfumature di nessun altro colore. I soli
quattro che hanno questa caratteristica di purezza soggettiva sono, ancora una
volta, il blu, il giallo, il rosso e il verde.
•
Per spiegare simili fenomeni, il fisiologo tedesco Ewald Hering propose nel 1878 una
teoria, definita dei processi opposti di colore, che postulava, ad un livello di
elaborazione successivo rispetto ai coni, la presenza di tre canali percettivi:
un canale specializzato nella visione alternativa del giallo e del blu. Quando
l'eccitazione combinata dei tre tipi di coni produce la visione del blu in una certa
zona, è inibita in quella stessa zona la visione del giallo, e viceversa;
• un canale specializzato nella visione alternativa del rosso e del verde. Quando
l'eccitazione combinata dei tre tipi di coni produce la visione del rosso in una certa
zona, è inibita in quella stessa zona la visione del verde e viceversa;
• un canale specializzato nella visione della componente di bianco o di nero.
Questo canale non è basato su meccanismi antagonisti, come i due precedenti,
ma sul presupposto di un'eguale stimolazione dei tre tipi di coni: a stimolazioni di
bassa intensità corrispondono grigi molto scuri; a stimolazioni della massima
intensità corrisponde la visione del bianco.
•
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Fig. 8 – La collaborazione dei tre tipi di coni alla
generazione dei quattro colori puri più la luminosità
Negli anni '50 due ricercatori presso la Eastman Kodak, Leo Hurvich e Dorothea
Jameson, trovarono delle evidenze sperimentali, in grado di confermare in buona misura
la teoria dei processi opposti di Hering. Chiedendo ad una serie di individui di cancellare
(cioè di annullare) un qualsiasi colore dello spettro visibile utilizzando soltanto una
mescolanza dei quattro colori puri dello schema di Hering, essi poterono tracciare delle
curve di cancellazione della frequenza. Queste curve dimostrano, in misura chiarissima
per il verde, il giallo e il blu, un po' meno per il rosso, che la visione di uno dei quattro
colori puri corrisponde psicologicamente all'assenza completa (la cancellazione) del suo
colore complementare e ad uno stato di quiescenza dell'altra coppia di colori
complementari.
Questa rilevazione sperimentale è di grande importanza: essa dimostra che è possibile
riprodurre qualsiasi colore dello spettro visibile, utilizzando tre sole misure:
1. una che identifica il colore sull'asse rosso-verde;
2. una che identifica il colore sull'asse blu-giallo;
3. una che identifica il livello di luminosità sull'asse nero-bianco.
Benché vi siano ancora molti punti oscuri circa i meccanismi fisiologici della visione e
critiche non facilmente confutabili alle tesi sostenute da Hering (si veda ad esempio Peter
Gouras, in particolare i paragrafi 10-12, http://webvision.med.utah.edu/Color.html), è oggi
generalmente accettato un modello della visione dei colori basato su due stadi, che
concorrono entrambi alla determinazione finale del colore percepito:
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il primo stadio, definito dalla teoria tricromatica (vi sono tre tipi di coni, dalla cui
azione combinata dipende la determinazione del colore in base alla lunghezza
d'onda della radiazione incidente);
• il secondo stadio, definito dalla teoria dei processi opposti (la visione di un colore
dipende dall'azione combinata di due canali cromatici, costituiti ciascuno da una
coppia di colori complementari antagonisti, più un canale dedicato alla luminosità).
•
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TONALITA’, LUMINOSITA’ e SATURAZIONE
Ogni sensazione di colore può essere scomposta in tre ingredienti, ciascuno dei quali è a
suo modo elementare, nel senso che partecipa alla determinazione del colore da parte
dell'osservatore e non può essere ricondotto, per via di semplificazioni, a nessuno degli
altri due costituenti. I tre ingredienti del colore sono tonalità, luminosità e saturazione.
La tonalità (hue in inglese) è l'attributo forse più semplice da comprendere. Essa è, infatti,
nell'esperienza comune, la qualità percettiva che ci fa attribuire un nome piuttosto che un
altro al colore che stiamo vedendo. Rosso, verde, giallo, blu sono tutti nomi di tonalità. Da
un punto di vista fisico il corrispettivo della tonalità è la lunghezza d'onda della radiazione
luminosa: quanto più la luce incidente su un certo punto della retina è riducibile ad una
banda ristretta di lunghezze d'onda tanto più netta e precisa sarà per l'osservatore la
possibilità di attribuire un nome al colore percepito.
È importante precisare che le tonalità che l'occhio è in grado di discriminare come
irriducibili ad altre sono i soli colori spettrali (cioè i colori dell'arcobaleno, quelli separati
da Newton tramite l'esperimento del prisma) più i colori originati da combinazioni di rosso
e di blu spettrali (le cosiddette porpore). Tutti gli altri colori - ad esempio il rosa, il marrone,
il salmone, il verde oliva, ecc. – possono essere definiti come combinazioni di una certa
tonalità con gli altri due attributi di cui parleremo fra breve (il rosa, ad esempio, è un rosso
poco saturo).
Fig. 10 – Differenze di tonalità (con valori massimi di saturazione)
La tonalità è una qualità del colore discriminabile ugualmente sia in valutazioni fuori
contesto sia in valutazioni contestuali. Essa ha a che fare, infatti, con l'apparenza del
colore in se stesso più che con la comparazione di un colore con gli altri elementi
circostanti. Tuttavia, la presenza o l'assenza di un contesto possono mutare notevolmente
la percezione di una medesima tonalità, come dimostra l'esempio descritto nel precedente
paragrafo.
La luminosità è l'ingrediente che specifica la quantità di bianco o di nero presente nel
colore percepito. La determinazione della quantità di bianco o di nero in una macchia di
colore è possibile sia fuori contesto che in modo contestuale. Però il tipo di valutazione
che consente di determinare in modo accurato il livello di grigio (cioè la distanza dai due
estremi bianco e nero) in un colore è quello contestuale. Per dimostrare la correttezza di
tale affermazione, occorre introdurre innanzitutto una distinzione terminologica.
Possiamo, dunque, chiamare brillantezza o intensità (brightness, in inglese) la quantità
totale di luce percepita, emessa da una sorgente o riflessa da una superficie. La
valutazione di tale quantità è un giudizio non contestuale, ma dipendente dal solo effetto
percettivo suscitato dalla luce incidente sulla retina. Definiamo, invece, luminosità
(lightness o value, in inglese) - meglio anzi luminosità apparente - la quantità di luce
proveniente da un oggetto, a paragone della quantità di luce proveniente da una
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superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione. Si tratta evidentemente di una
valutazione contestuale.
Fig. 11 – Differenze di luminosità (con tonalità e saturazione costanti)
Il fatto che il giudizio sulla luminosità sia più preciso e differente rispetto al giudizo sulla
brillantezza si può dimostrare con un esempio. Se osserviamo una luce bianca piuttosto
fioca (percezione di brillantezza) essa ci appare comunque bianca e non grigia. La visione
del colore grigio possiamo averla solo osservando una superficie che ci appare meno
luminosa rispetto ad una superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione
(percezione di luminosità). Ciò significa che possiamo variare anche notevolmente
l'intensità della luce che colpisce una superficie, senza che cambi la percezione della
luminosità relativa delle sue parti. Esiste, cioè, un rapporto costante tra la quantità di
grigio percepita in una zona dell'oggetto osservato, a paragone della quantità di grigio
percepita in altre zone dell'oggetto, rapporto che non cambia al variare dell'illuminazione
complessiva dell'ambiente.
Da quanto detto, emerge che la valutazione della luminosità è un atto percettivo
qualitativamente differente rispetto alla determinazione della tonalità di un colore. Mentre
quest'ultima può avvenire in modo non contestuale e sembra spiegabile nei termini
fisiologici descritti dalla teoria tricromatica della visione, la valutazione della luminosità è
invece un atto comparativo che pone in rapporto reciproco tutti gli elementi della scena
osservata.
Proprio per questa sua natura comparativa, olistica, l'attributo della luminosità è
l'elemento più importante all'interno della nostra percezione visiva. Come ben sanno
fotografi, pittori e disegnatori, la visione acromatica, basata solo sul contrasto di luci, è in
grado di veicolare tutte le informazioni essenziali ai fini della comprensione della scena
osservata.
La saturazione (saturation, in inglese) è il terzo ed ultimo ingrediente che contribuisce alla
percezione del colore. È la misura della purezza, dell'intensità di un colore.
La valutazione della saturazione può essere non contestuale o contestuale. Nel primo
caso, essa definisce la purezza e la pienezza del colore in rapporto unicamente
all'intensità della sua percezione isolata. Nel secondo caso, invece, in rapporto ad una
superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione. In questa accezione, cioè come
valutazione contestuale di luci riflesse, si parla tecnicamente di croma (inglese chroma)
piuttosto che di saturazione. Non vi sono però differenze essenziali tra i fenomeni
percettivi definiti per mezzo dei due termini, per cui, ai fini del nostro discorso, parleremo
di saturazione in riferimento ad entrambe le accezioni.
I colori spettrali sono in assoluto i più saturi che noi possiamo osservare. Essi ci
appaiono vivi, puri, brillanti, pieni, per nulla mescolati con parti di grigio. Al contrario, un
colore poco saturo appare smorto, opaco, grigiastro, poco riconoscibile dal punto di vista
della tonalità. Il motivo di questa scarsa riconoscibilità è che un colore poco saturo è il
frutto di una mescolanza di luci di diversa lunghezza d'onda, ragion per cui differisce
profondamente dai colori spettrali che sono invece prodotti da luci di banda molto ristretta.
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Una radiazione costituita dalla mescolanza di molte lunghezze d'onda differenti produce
una curva di assorbimento da parte dei coni della retina piatta e senza picchi, che
corrisponde alla percezione di un colore grigiastro. Perciò la saturazione si definisce
anche comunemente come la misura della quantità di grigio presente in un colore,
intendendo con ciò che la mancanza di grigio accoppiata alla piena riconoscibilità della
tonalità corrisponde alla massima saturazione, mentre la predominanza del grigio su un
colore non facilmente identificabile corrisponde all'assenza di saturazione. La sequenza di
campioni in fig.12 mostra appunto un aumento ordinato della saturazione da sinistra verso
destra.
Fig. 12 – Differenze di saturazione (con tonalità e luminosità costanti)
Il fatto che un colore saturo ci appaia, per così dire, pienamente se stesso, facilmente
identificabile, rende possibile accoppiare la misura della saturazione all'identificabilità di
un colore spettrale nel campione che si sta osservando. Se, cioè, non siamo in grado di
dire con certezza se stiamo osservando un rosso, un giallo, un blu, un verde, ecc., allora è
sicuro che abbiamo a che fare con un colore non saturo: se, ad esempio, siete d'accordo
sul fatto che è difficile valutare se i primi tre campioni a sinistra in fig.12 appartengano
oppure no alla gamma dei rossi, siete anche d'accordo sul fatto che si tratta di colori non
saturi.
Un problema ben noto ad artisti, pittori, grafici e studiosi del colore in generale è la
difficoltà di separare psicologicamente, soprattutto in condizioni di scarsa illuminazione, la
componente di luminosità dalla componente di saturazione di un colore. Quanto più un
colore è scuro, infatti, tanto più è difficile identificarne la tonalità, per poter valutare se esso
sia saturo oppure no. Ed inoltre, a complicare ancora le cose, un colore molto saturo
appare chiaro e brillante, il che porta spesso l'osservatore a giudicarlo più luminoso di un
colore meno saturo che riflette la medesima quantità di luce. La tavola in fig. 13 mostra
schematicamente il modo in cui luminosità e saturazione influenzano la visione dei colori:
nel grafico la luminosità cresce in passi uguali da nero verso bianco sull'asse verticale; la
saturazione aumenta in modo corrispondente lungo l'asse orizzontale. Pertanto tutti i
campioni posti sulla medesima riga condividono lo stesso livello di luminosità; tutti i
campioni sulla medesima colonna condividono lo stesso livello di saturazione.
Dall'osservazione della disposizione dei campioni di colore sulla tavola emergono due
considerazioni: 1) la discriminazione degli ingredienti di un colore è più difficile in
corrispondenza dei toni scuri; 2) la capacità di discriminare livelli di saturazione differenti è
massima in corrispondenza di livelli di luminosità medi.
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Fig. 13 – Influenza della luminosità e della saturazione sulla percezione di un colore
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Abbiamo parlato finora in generale degli effetti della luce sul nostro sistema percettivo,
senza mai portare in primo piano le importanti differenze esistenti tra la percezione di
colori come risultato di luci provenienti direttamente da una sorgente luminosa e la
percezione di colori come risultato di luci riflesse da superfici interposte tra una sorgente
ed i nostri occhi.
È ora il momento di considerare in dettaglio questa differenza, cominciando dai fenomeni
legati alla prima delle due situazioni indicate.
Come abbiamo visto nei paragrafi dedicati al funzionamento dei recettori fotosensibili della
retina, la visione dei colori dipende dall'azione combinata di tre tipi di coni, diversamente
eccitati dalle onde elettromagnetiche che compongono la luce. È possibile sperimentare
che una opportuna mescolanza di radiazioni di diversa lunghezza d'onda produce la
visione del bianco: è, tale risultato, l'opposto di ciò che accade nella scomposizione della
luce bianca solare nei colori dello spettro visibile ad opera di un prisma.
Il fatto che luci di differente lunghezza d'onda, le quali, viste singolarmente, ci appaiono
ciascuna colorata in modo diverso, generino – sommate insieme – la visione del bianco, è
un fenomeno che viene definito sintesi o mescolanza additiva. La visione del bianco può
essere considerata come la controparte percettiva della somma di tutte le radiazioni che
compongono lo spettro visibile.
Ai fini della creazione di un sistema affidabile per la generazione di colori ottenuti
miscelando luci colorate, si ricorre solitamente all'uso di tre colori-base, che sono definiti
primari. I primari utilizzati oggi nei televisori, nei monitor dei computer e nei sistemi di
grafica digitale sono il rosso, il verde e il blu.
È interessante notare, però, che la terna dei cosiddetti colori primari è una scelta arbitraria
dell'uomo, che non ha giustificazioni nella fisica o nella fisiologia dell'occhio. Una terna di
colori primari, cioè, non esiste in natura. I tre tipi di coni presenti sulla retina hanno, ad
esempio, il loro picco di sensibilità intorno alle frequenze del blu-violetto del verde e del
giallo-verde, non in corrispondenza del rosso, del verde e del blu, e vengono stimolati tutti
e tre (sia pure in modo diseguale), o almeno due su tre, dalla maggior parte delle
frequenze visibili, a causa della relativa sovrapposizione della curva di sensibilità di
ciascuno di essi.
Ciò che ha radici nella fisiologia della visione è piuttosto: 1) il fatto che tre è il numero
minimo di luci colorate che è necessario mescolare per ottenere una gamma di colori più o
meno paragonabile alla ricchezza cromatica dello spettro visibile; 2) che il rosso, il verde e
il blu sono colori prodotti da una forte eccitazione di uno solo dei tre tipi di coni e da una
scarsa stimolazione degli altri due tipi, cosa che si accorda con la necessità di far
corrispondere ai colori primari tre fonti di stimolazione luminosa il più possibile indipendenti
l'una dall'altra e in grado, combinate tra loro, di provocare la massima eccitazione di tutti e
tre i tipi di coni, fenomeno quest'ultimo che produce appunto la visione del bianco. La
scelta di questi tre primari si paga però con il fatto che mescolanze uguali di rosso, di
verde e di blu non producono esattamente il bianco, ma una sfumatura tendente al giallo:
occorre aggiungere del blu al rosso primario – o aumentare la luminosità del blu - per
ottenere il bianco.
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In fig.14 è rappresentato lo schema classico della sintesi additiva. È l'effetto che si ottiene
sovrapponendo tra loro tre raggi luminosi: uno verde, uno rosso ed uno blu,
opportunamente corretti in partenza nel modo poco sopra descritto. Un simile esperimento
si può realizzare facilmente, usando tre sorgenti di luce bianca, ciascuna schermata con
un filtro di uno dei tre colori qui considerati primari, e proiettando i tre raggi su una
superficie neutra. Come si può vedere, al centro, dove i tre raggi si sovrappongono,
appare il bianco. Dove, invece, si sovrappongono solo la luce rossa e quella verde,
vediamo il giallo, in accordo con quanto spiegato in precedenza, nei paragrafi dedicati alle
funzionalità recettive dei coni. Nella zona di sovrapposizione tra verde e blu, il colore
percepito è il ciano (un celeste luminoso e molto saturo). Infine, là dove di mescolano il
rosso e il blu, il colore percepito è il magenta (un rosso violaceo molto saturo).
Fig. 14 – Esempio di sintesi (o mescolanza) additiva di tipo spaziale
Il tipo di mescolanza additiva mostrata in fig.14 è detto spaziale, perché l'effetto è prodotto
dalla sovrapposizione di luci su una stessa porzione di spazio. Esistono però altri due tipi
di sintesi additiva: la media spaziale e la media temporale.
La sintesi per media spaziale avviene quando delle luci di colore differente, molto
ravvicinate tra loro, sono viste dall'occhio ad una distanza tale per cui non è più possibile
scorgere le singole componenti: al loro posto appare invece un'unica macchia di colore. È
questo appunto il principio adoperato da monitor e televisori, nei quali ogni punto visibile
dello schermo è costituito da tre fosfori (elementi fotosensibili) molto ravvicinati tra loro,
uno attivo nelle gradazioni del rosso, uno in quelle del blu ed uno in quelle del verde:
l'occhio interpreta la loro vicinanza come un'unica stimolazione-somma, in grado di
produrre la visione dei colori secondo le regole della mescolanza additiva, che è il
meccanismo naturale di funzionamento dei nostri recettori della retina.
L'esempio in fig.15 mostra una sintesi additiva per media spaziale: il quadrato giallo-verde
sulla destra è l'unione di molte migliaia di semiquadrati rossi e verdi, come quelli – molto
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ingranditi - accostati nel quadrato sulla sinistra dell'immagine: i recettori della retina non
sono in grado di separare le singole componenti di rosso e di verde quando esse sono
molto piccole e ravvicinate, per cui vediamo un unico colore-somma che è l'effetto della
loro mescolanza additiva.
Fig. 15 – Esempio di sintesi additiva effettuata per media spaziale. Una serie di bande rosso-verdi,
viste ad opportuna distanza, appaiono come una superficie uniformemente gialla
Il terzo ed ultimo tipo di sintesi additiva avviene per media temporale. Esso si ottiene
quando luci che ci appaiono di colore differente colpiscono lo stesso punto della retina in
rapida successione (almeno 50 o 60 volte al secondo): quando il ritmo del loro alternarsi è
sufficientemente elevato, i recettori della retina non sono più in grado di discriminare tra
due sensazioni successive, che vengono quindi fuse nella percezione psicologica di un
unico colore-somma.
In fig.16 viene mostrato un esempio di sintesi additiva per media temporale: il disco rossoverde (a sinistra), posto in rapida rotazione, viene percepito dall'osservatore come un
disco di colore giallo uniforme (a destra).
Fig. 16 – Esempio di sintesi additiva effettuata per media temporale
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LA SINTESI SOTTRATTIVA
Passiamo ora a considerare cosa accade quando la luce che colpisce i recettori sulla
retina non proviene direttamente da una sorgente, ma è riflessa da una superficie
interposta.
Ai fini della determinazione del colore da parte di un osservatore umano, l'elemento
principale da tenere presente in questo caso è la curva di riflessione propria della
superficie interposta. Il colore visibile di una qualsiasi superficie dipende infatti dal potere
di quella superficie di assorbire una parte della luce ricevuta dall'ambiente e di rimandarne
verso l'osservatore la parte non assorbita sotto forma di luce riflessa.
In situazioni prive di informazioni contestuali il colore della luce riflessa verso l'osservatore
varierà in funzione del variare delle caratteristiche di intensità e colore della luce emessa
dalla sorgente. Tuttavia, il potere riflettente di una superficie, definito per mezzo di una
curva di riflessione, è un'informazione che permette di prevedere in certa misura il colore
finale percepito dall'osservatore (assunta come sorgente di illuminazione una luce bianca
di media intensità, contenente al suo interno l'intera gamma delle lunghezze d'onda dello
spettro visibile).
Una curva di riflessione è sostanzialmente una funzione matematica che definisce il grado
combinato di eccitazione dei tre tipi di coni della retina. Questa curva può essere tradotta,
come mostra il grafico in fig.17, in un diagramma diviso in tre parti, che riporta il grado di
eccitazione relativo a ciascun tipo di coni: nel caso illustrato, il colore percepito sarà un
verde tendente al giallo (la maggiore stimolazione è nell'area sensibile al verde e, in minor
misura, nell'area sensibile al rosso).
Fig. 17 – Una curva di riflessione è una funzione che rappresenta l'effetto combinato della
stimolazione dei tre tipi di coni da parte della luce riflessa da una superficie
La comprensione delle curve di riflessione è il presupposto per capire il motivo per cui una
superficie illuminata ci appare, ad esempio, gialla. Vediamo dunque cosa accade,
partendo dalle radiazioni emesse da una sorgente di luce bianca. Come abbiamo avuto
modo di spiegare parlando dei colori primari, la luce bianca può essere descritta come la
combinazione di una luce verde, di una luce rossa e di una luce blu di opportuna
frequenza.
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Consideriamo l'esempio in figura 18 a partire dalla superficie gialla in alto. Se una
superficie illuminata da una luce bianca ci appare gialla, ciò accade perché quella
superficie ha una curva di riflessione tale da assorbire la radiazione nello spettro del
blu, proveniente dalla luce bianca, e da riflettere verso l'osservatore solo le radiazioni
appartenenti allo spettro del verde e del rosso. Queste ultime, combinandosi sulla retina
secondo le regole già descritte della sintesi additiva, producono la percezione del giallo.
La superficie color ciano (quella al centro) appare tale, perché assorbe le onde nella
frequenza del rosso - nel grafico il raggio luminoso rosso è bloccato appunto dalla
superficie color ciano - e rimanda verso l'osservatore le onde nella frequenza del blu e del
verde, le quali, combinandosi sulla retina, producono la percezione del ciano. Infine la
superficie color magenta (quella in basso) appare tale perché assorbe le radiazioni nella
frequenza del verde e riflette le radiazioni nella frequenza del blu e del rosso, che
agiscono sulla retina producendo la sensazione del magenta.
Fig. 18 – Una superficie colorata assorbe una parte della luce visibile
e restituisce il resto all'ambiente sotto forma di luce riflessa
Come si evince da questi esempi, anche la visione dei colori determinati dalla riflessione
della luce da parte di superfici sottostà alle regole della sintesi additiva, una volta che le
luci riflesse abbiano colpito la retina.
Tuttavia, se consideriamo il fenomeno non dalla parte della radiazione riflessa, ma da
quella della radiazione assorbita, dobbiamo convenire che le superfici che ci appaiono
colorate sottraggono alla nostra visione una parte dello spettro visibile. Sorge quindi il
problema, di massima importanza nel campo della pittura e della stampa, di quale effetto
produca sulla visione dei colori la combinazione delle proprietà riflettenti (cioè della
capacità di assorbire parte della luce) proprie di superfici differenti.
È chiaro che questo discorso non si applica a superfici completamente opache, come
legno, metallo, plastica, ecc., le quali finiscono con il nascondere completamente la
superficie che ricoprono, ma si applica piuttosto a quei pigmenti – colori, tinture, vernici –
che, stemperati, mescolati o diluiti su superfici neutre come la tela o il cartone, combinano
le reciproche proprietà riflettenti, producendo nell'osservatore la visione di nuovi colori.
Che colore vedremo, dunque, se mescoliamo su una superficie neutra del giallo e del
magenta? Prima ancora che attraverso la prova pratica, realizzata ad esempio
mescolando sulla carta o sulla tela dei pigmenti dei colori dati, possiamo ottenere la
risposta a questa domanda per mezzo di semplici considerazioni teoriche, effettuate sulla
base dello schema illustrato nella figura precedente. Come si può vedere osservando i
raggi delle luci riflesse che vanno dalla superficie gialla verso l'osservatore, questa riflette
la luce verde e la rossa; la superficie magenta riflette invece la luce blu e la rossa.
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Mescolando allora fisicamente dei pigmenti giallo e magenta, accadrà che il giallo
bloccherà la componente di luce blu riflessa dal magenta, mentre il magenta bloccherà la
componente di luce verde riflessa dal giallo. Entrambi i pigmenti continueranno a riflettere
la luce nello spettro del rosso e questo è il motivo per cui, amalgamando insieme pigmenti
di questi due colori, il colore risultante visto dall'osservatore sarà il rosso. La curva di
riflessione combinata del giallo e del magenta è illustrata in fig. 19.
Fig. 19 – Le curve di riflessione del giallo e del magenta, combinate tra loro,
mostrano che la luce riflessa risultante è nello spettro del rosso
Dall'esempio precedente si può ricavare una regola empirica: mescolando tra loro in modo
appropriato due pigmenti sufficientemente saturi (tinture, vernici, ecc.), il colore risultante
percepito corrisponderà a quella parte dello spettro visibile che entrambi i pigmenti
riflettono, mentre sarà cancellata ogni parte della luce visibile che è riflessa da uno
soltanto di essi. In base a tale principio, mescolando il ciano e il magenta vedremo il
colore blu, che entrambi riflettono. Allo stesso tempo la luce rossa riflessa dal magenta
sarà bloccata dal ciano, così come sarà bloccata dal magenta la luce verde riflessa dal
ciano. Analogamente, infine, mescolando del ciano con del giallo vedremo il colore
verde, mentre verranno assorbite le luci nello spettro del rosso e del blu.
I tre colori di base utilizzati in questi esempi – il ciano, il giallo e il magenta – non sono stati
scelti casualmente. Ciascuno di essi ha la proprietà di bloccare, cioè di sottrarre alla vista,
uno dei colori primari della sintesi additiva e di riflettere gli altri due. Ciano, giallo e
magenta sono perciò considerati i colori primari della sintesi o mescolanza sottrattiva,
cioè di quella mescolanza di pigmenti che genera la visione di colori in dipendenza del
modo in cui essi riflettono la luce bianca. Come abbiamo avuto modo di constatare poco
sopra, la mescolanza di due primari qualsiasi della sintesi sottrattiva genera uno dei
primari della sintesi additiva. Gli effetti della combinazione parziale o totale dei colori
primari della sintesi sottrattiva sono illustrati in fig. 20. Una bella simulazione di sintesi
sottrattiva, con la possibilità di spostare direttamente gli elementi colorati e verificarne gli
effetti, è disponibile on line all'indirizzo http://www.explorescience.com/index.cfm (sezione
optics).
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Fig. 20 – Esempio di sintesi - o mescolanza - sottrattiva
È da notare che, mentre nella sintesi additiva il colore ottenuto dalla combinazione dei tre
primari è il bianco, nella sintesi sottrattiva il colore risultante è il nero. Ciò si spiega
facilmente: se ognuno dei primari della sintesi sottrattiva ha il potere di assorbire un terzo
differente della radiazione visibile, mescolandoli tutti e tre l'intero spettro visibile verrà
assorbito e nessuna luce sarà riflessa verso l'osservatore.
A questo punto urge un chiarimento molto importante. Dalle spiegazioni date fin qui,
potrebbe sembrare che le mescolanze di colori basate sulla sintesi sottrattiva siano
altrettanto prevedibili e definite di quelle basate sulla sintesi additiva. In realtà non è affatto
così. La mescolanza sottrattiva reale, purtroppo, deve fare i conti con la natura materiale
dei pigmenti e delle superfici utilizzati. Le curve di riflessione dei colori usati nella pittura,
ad esempio, sono solo una lontana approssimazione delle curve di riflessione ideali che
occorrerebbero per produrre gli effetti teorici descritti negli esempi precedenti. La figura
successiva mostra appunto le risposte ideali dei coni della retina per i tre colori primari
della sintesi sottrattiva, a confronto con le risposte reali dei coni, suscitate dai pigmenti
effettivamente disponibili per i colori ciano, magenta e giallo.
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Fig. 21 – Curve di riflessione ideali a confronto con
le curve reali nella sintesi sottrattiva
Come è evidente dai diagrammi di fig. 21, i pigmenti color ciano riflettono la luce verde
meno della blu e riflettono anche una certa quantità di luce rossa. La teoria vorrebbe,
invece, il 100% di riflessione di luce verde e blu e lo 0% di riflessione di luce rossa.
Analogamente il pigmento giallo considerato nella figura riflette la luce verde in misura
minore di quella rossa (in luogo del 100% richiesto dalla teoria per entrambe) e riflette
anche una notevole quantità di luce blu, che dovrebbe invece essere completamente
assorbita.
Gli esempi potrebbero continuare all'infinito. Quel che consegue da questa oggettiva
differenza di comportamento tra i pigmenti realmente disponibili e le prescrizioni della
teoria, è la progressiva perdita di saturazione risultante dalla mescolanza di pigmenti
diversi. Nella mescolanza sottrattiva, infatti, nessun colore ottenuto dalla combinazione
di pigmenti può essere più saturo dei suoi componenti e, in generale, dei tre colori
primari ciano, magenta e giallo. Ciò perché la saturazione è una caratteristica delle luci
spettrali pure, che i colori della sintesi sottrattiva conservano solo nella misura in cui
rimangono pure le luci che riflettono verso la retina.
Poiché gli stessi pigmenti usati come colori primari nella sintesi sottrattiva risentono di un
difetto di saturazione, dovuto a curve di riflessione che non bloccano completamente
nessuna lunghezza d'onda dello spettro visibile, a maggior ragione saranno meno saturi i
colori risultanti dalla mescolanza di pigmenti diversi. Il diagramma in fig. 22 illustra il
cosiddetto saturation cost, cioè il prezzo in termini di saturazione, che bisogna pagare
quando si vogliono mescolare tra loro dei pigmenti. Il cerchio rappresenta la gamma dei
colori ottenibili mescolando i tre primari della sintesi sottrattiva. Lungo la circonferenza si
trovano i colori più saturi; a mano a mano che si procede verso il centro, occupato dal
nero, i colori divengono sempre meno saturi e più scuri. Il colore risultante dalla
combinazione di due pigmenti posti sulla circonferenza, si troverà su una corda che
attraversa la circonferenza nei due punti occupati dai colori utilizzati: da ciò deriva che,
quanto più sono lontani sulla circonferenza i due colori utilizzati, tanto più vicino al centro,
e perciò meno saturo e più scuro, sarà il colore risultante dalla loro combinazione.
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Fig. 22 – Quanto più due colori sono distanti sulla circonferenza tanto
meno saturo sarà il colore risultante dalla loro combinazione
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