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Fiorì d`improvviso

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Ora l’autore non vuol parlare per sé. Per lui parleranno – così come sanno parlare, come possono parlare – le poesie raccolte in
questo quaderno.
Non sono esse fiorite tutte d’improvviso, come il titolo del quaderno lascerebbe intendere: sono piuttosto quanto di salvabile egli
ha raccolto nelle sue presunzioni degli ultimi anni, unito ad una
produzione più recente («1953»), questa sì veramente d’improvviso, che è in fondo – a suo giudizio – la vera giustificazione del quaderno.
Sono sette poesie riferite a situazioni reali: alla partita di calcio
Lucchese-Genoa che si svolgeva durante un altro incontro (d’amore, questo); all’esperienza operaia vissuta per un breve periodo
dall’autore nel 1943 in uno stabilimento industriale della provincia
di Roma; ad uno stato d’animo d’infanzia; ad un ricordo, pure infantile, della rappresentazione di Josephine Baker (ma era poi lei?)
data nel 1931 al Teatro Monteverdi di Spezia; ad un Luna Park di
provincia che ispirò parole di fuoco al corrispondente da Foligno
di un quotidiano romano, preoccupato della quiete dei «commercianti di passaggio»: l’articolo del corrispondente fu regolarmente
cestinato dall’autore che lavorava nella redazione di quel giornale.
La sesta e la settima poesia della serie «1953» sono riferite infine
ad un certo qual disappunto dell’autore che, di fronte a tanta gente
che canta i propri, si accorge con dispettosa meraviglia di non poter dir molto di personale attorno al suo paese, né forse attorno ad
altri. Almeno per ora.
Le altre poesie – quelle dette «del giorno prima» – sono forse
più eterogenee; alcune presentano punti oscuri per il lettore ignaro
delle occasioni da cui nacquero.
Il cielo d’un color d’argento, incoronato di spine, fu visto
dall’autore all’approssimarsi di una tempesta senza pioggia una sera d’agosto del 1947 nel paese dei Baschi, mentre egli si recava a
piedi verso Saint-Jean-de-Luz; la citazione francese della poesia I
giorni non è che la scritta figurante accanto alla meridiana della
modesta chiesa di Rhêmes-Notre Dame in Val d’Aosta; Dadà non
ha riferimenti letterari, ma è solo il nome dato a una bambola di
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fabbricazione ungherese (così pare) di cui fu fatto un dono; l’affresco della poesia Là dove sugli scanni angeli cantano è nella chiesa
del paese natale dell’autore: si vede Abramo che sta sacrificando il
figlio Isacco, mentre fra le nubi (rese più turchine o grigio-cupe
dall’umidità della parete) appare l’Angelo nell’atto di proferire le
famose parole della Scrittura.
Infine la bimba ebrea cui si allude in un’altra poesia – Che ti dischiuse un giorno cuore e lacrime – non è realmente esistita: fu un
momento del paesaggio sentimentale dell’autore, alla ricerca di
una creatura – la più indifesa e la più perseguitata – in cui riflettersi. Bambina ebrea è il titolo di un’altra poesia, che in questa raccolta non appare, né apparirà in altre future; essa – giudicata più tentativo che poesia ed in sé imperfetta – conserva solo un valore
autobiografico e personale.
G.G.
“1953”
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NELLA CITTÀ D’ILARIA
Nella città d’Ilaria sugli spalti,
cara, ricordi tu quando passarono
ridenti alla fortuna i calciatori:
borghesi li seguivano (il mattino
era freddo, d’inverno) per i vetri
di lucenti automobili, e poi giovani
a piedi li seguivano e fanciulle
con rosse e azzurre vesti che sul seno
ostentavano il balzo del Grifone.
Cara la squadra al mio cuore e più cara
tu che l’accompagnavi d’un sorriso,
trepida come loro e non per loro,
ma per il tuo più difficile incontro.
Poi gli occhi mi volgevi di speranza
fatti più chiari: «Ma se perderanno?»
tu mi chiedevi. E non perdemmo, amore.
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IDOLO IN TERRA ERI
Idolo in terra eri (o gioco d’amore?)
del mutevole stuolo d’operaie:
con te ritrascorrevano le giovani
la stagione d’un luglio come gli altri.
Una osò farsi consolare e l’aspro
strido della sirena vi destò.
Ti propinava un magro pane, i frutti
avvizziti dell’orto delle suore,
un suo dialetto veneto.
Dal forno
kappa avvampò nel grigio mezzogiorno
l’incendio ai padiglioni.
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“1953”
Una fine di guerra e nuova guerra
ve l’annunziava il fuoco.
Poi, più nulla:
venne un giorno di festa senza gloria,
il desiderio scritto sulla polvere.
O QUANDO
LA TUA TRISTEZZA
NON AVEVA UN NOME
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Anche per cinque foglie d’agrifoglio,
quando ogni desiderio era inosabile,
e pure apparivan le cose,
vivente ingenuità di forme, colori,
fanciulle acerbe e disdegnate, donne
cui già era condanna l’esser tali
per te guerriero fanciullo;
quando ogni desiderio tuo inosabile
fuggiva la facile preda
di labbra da baci (e giungevano
esse improvvise alla tua bocca, al porto
franco dell’innocenza);
quando tu
ricavalcavi sugli invitti sogni
Drake il corsaro e l’aggrottato ciglio
dello sdegnoso giovine meccanico –
la sua tristezza non aveva un nome.
Ma l’incontrasti a volte in fondo al cuore
ridente d’un tuo prossimo crudele
sulle chiuse persiane che d’un verde
cupo verde funereo castigavano
lo splendore candente delle case.
In te la ritrovasti se dal gioco
vinto tornavi o se di su la strada
ti schernivano a dito le bambine.
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O quando su futile danza
d’oscure strida apparve fra deliri
di marinai la misteriosa e nera
Venere dalla gonna di banane.
Un perché t’indugiava nella sera
sull’abbaino del teatro, intento
all’estivo spettacolo dei grandi,
con la preghiera ancora sulle labbra,
con sulla carne il brivido del freddo.
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PER UNA GIOSTRA SENZA PERMESSO
Attoniti s’inseguono tra specchi
e un coro d’amuleti i bei cavalli
della giostra e di là, dove sui tremuli
banchi del tirassegno la fanciulla
spezza le carabine, un grido esplode
di trionfo per lui che ha fatto centro.
Se a vendicare il sonno degli alberghi
giungeranno i mercanti di cavalli
vivi, i tristi nemici della giostra,
da questa piazza grande che deserta
sarà domani, è un bacio alla tua fuga,
mangiatore di vetri, delle rosse
domestiche l’acuta meraviglia,
e il pianto dei bambini è una ventura.
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COME SEI FATTO ESTRANEO
Se la Venere nera più non danza
per gli occhi tuoi di fanciullo furtivi,
non t’è patria l’inquieta solitudine
dell’abbaino e la città lontana
dell’infanzia. La tua lieta e paesana
cadenza di quei giorni sulle labbra
vibra degli operai – ma tu la senti
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ancora più da te diversa – e canta
nell’umido richiamo delle donne.
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Come sei fatto estraneo a questa terra
ultima di Liguria che sul mare
sorride già del vento di Toscana.
CARTOLINE ITALIANE
«... Io sì,
ci sono stato all’Aquila. Si prende
– è vero? – una corriera che ti porta
dalla stazione in città, sulla piazza.
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Poi là tutto era buio. Mi guidarono
ad un discreto albergo che per sole
lire seicento ti dà da dormire».
E per paura chiusi gli occhi subito.
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«Io saponette. E lei?» «Medaglie antiche»
e lui collane finte; e l’altro — il quarto
viaggiatore commesso — dorme. Estraneo
sei tu solo, mercante di parole.
Se poi quelli riparlano di luoghi
conosciuti, di quiete trattorie
dove un tempo scendeva la ragazza
bruna a servirli (e «non c’è più» poi dicono
«tutta una lunga storia...») ti ritrovi
ancora amaro il desiderio in cuore
d’avere una città di cui parlare.
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Libera uscita: e loro poi salutano
la sentinella immobile al cancello
della caserma (non tradisce il viso
l’interna muta angoscia). Le domestiche
con unghie rosse gli si fanno incontro:
parlano con accenti di paesi
“1953”
(e ognuno sceglie il suo) che poi ricordano
con un dialetto nel gergo d’amore.
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***
Mentisce: «Tu sei ligure all’accento».
E poi la sua Milano lei con quanto
orgoglio ora ricorda. E come lieta
si mostra se anche tu mentisci: «In questa
celebrata città mi sento estraneo».
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