Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la
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Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la
ISSN 2038-5293 10 n. 10, luglio-agosto 2011 Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità e del diabete mellito n. 10, luglio-agosto 2011 Ministro d e lla S a lut e : Fe r r uccio Fa zio Direttore S cie nt ifico: Gio v a nni S imo ne t t i Direttore Re sp o nsa b ile: Pa o lo Ca so la r i Direttore E d it o r ia le : D a nie la Ro d o r ig o Vicedirettore esecutivo: Ennio Di Paolo Comitato d i D ire zio ne Francesca Basilico (con funzioni di coordinamento); Massimo Aquili (Direttore Ufficio V Direzione Generale Comunicazione e Relazioni Istituzionali); Francesco Bevere (Direttore Generale Programmazione Sanitaria, Livelli di Assistenza e Principi Etici di Sistema); Silvio Borrello (Direttore Generale Sicurezza degli Alimenti e della Nutrizione); Massimo Casciello (Direttore Generale Ricerca Scientifica e Tecnologica); Giuseppe Celotto (Direttore Generale Personale, Organizzazione e Bilancio); Gaetana Ferri (Direttore Generale Sanità Animale e del Farmaco Veterinario); Giovanni Leonardi (Direttore Generale Risorse Umane e Professioni Sanitarie); Romano Marabelli (Capo Dipartimento Sanità Pubblica Veterinaria, Nutrizione e Sicurezza degli Alimenti ); Marcella Marletta (Direttore Generale Farmaci e Dispositivi Medici); Concetta Mirisola (Segretario Generale del Consiglio Superiore di Sanità); Fabrizio Oleari (Capo Dipartimento Prevenzione e Comunicazione ); Filippo Palumbo (Capo Dipartimento Qualità); Daniela Rodorigo (Direttore Generale della Comunicazione e Relazioni Istituzionali); Giuseppe Ruocco (Direttore Generale Rapporti con l’Unione Europea e Rapporti Internazionali ); Francesco Schiavone (Direttore Ufficio II Direzione Generale Comunicazione e Relazioni Istituzionali); Rossana Ugenti (Direttore Generale Sistema Informativo); Giuseppe Viggiano (Direttore Generale Rappresentante del Ministero presso la SISAC) Comitato S cie nt ifico Giampaolo Biti (Direttore del Dipartimento di Oncologia e Radioterapia dell'Università di Firenze); Alessandro Boccanelli (Direttore del Dipartimento dell’Apparato Cardiocircolatorio dell’Azienda Ospedaliera S. Giovanni Addolorata – Roma); Lucio Capurso (Direttore Generale degli Istituti Fisioterapici Ospitalieri – Roma); Francesco Cognetti (Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena Irccs – Roma); Alessandro Del Maschio (Direttore del Dipartimento di Radiologia delI’Ospedale San Raffaele Irccs – Milano); Vincenzo Denaro (Preside delIa Facoltà di Medicina e Chirurgia e Responsabile delI’Unità Operativa Ortopedia e Traumatologia del Policlinico Universitario Campus Biomedico – Roma); Massimo Fini (Direttore Scientifico delI’Irccs S. Raffaele Pisana – Roma); Enrico Garaci (Presidente delI’Istituto Superiore di Sanità – Roma); Enrico Gherlone (Direttore del Servizio di Odontoiatria delI’Ospedale San Raffaele Irccs – Milano); Maria Carla Gilardi (Ordinario di Bioingegneria Elettronica e Informatica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia delI’Università di Milano – Bicocca); Renato Lauro (Rettore dell’Università Tor Vergata – Roma); Gian Luigi Lenzi (Ordinario di Clinica Neurologica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia delI’Università la Sapienza – Roma); Francesco Antonio Manzoli (Direttore Scientifico delI’Istituto Ortopedico Rizzoli – Bologna); Attilio Maseri (Presidente delIa Fondazione “Per il Tuo cuore - Heart Care Foundation Onlus” per la Lotta alle Malattie Cardiovascolari – Firenze); Maria Cristina Messa (Ordinario del Dipartimento di Scienze Chirurgiche presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia delI’Università di Milano – Bicocca); Sergio Ortolani (Coordinatore dell’Unità di Malattie del Metabolismo Osseo e Reumatologia – Irccs Istituto Auxologico Italiano – Milano); Roberto Passariello (Direttore dell’Istituto di Radiologia – Università La Sapienza – Roma); Antonio Rotondo (Direttore del Dipartimento di Diagnostica per Immagini – 2a Università di Napoli); Armando Santoro (Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica ed Ematologia – Irccs Istituto Clinico Humanitas – Rozzano, Mi); Antonio Emilio Scala (Preside delIa Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Vita/Salute San Raffaele – Milano); Giovanni Simonetti (Direttore del Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Imaging Molecolare, Radioterapia e Radiologia Interventistica del Policlinico Universitario Tor Vergata – Roma); Alberto Zangrillo (Ordinario di Anestesiologia e Rianimazione dell’Università Vita/Salute San Raffaele e Direttore dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Cardiochirurgica dell’Ospedale San Raffaele Irccs – Milano) Comitato d i Re d a zio ne Simonetta Antonelli, Massimo Ausanio, Carla Capitani, Amelia Frattali, Francesca Furiozzi, Milena Maccarini, Carmela Paolillo, Alida Pitzulu, Claudia Spicola (Direzione Generale della Comunicazione e Relazioni Istituzionali del Ministero della Salute), Antonietta Pensiero (Direzione Generale Personale, Organizzazione e Bilancio del Ministero della Salute) Quaderni del Ministero della Salute © 2011 - Testata di proprietà del Ministero della Salute A cura della Direzione Generale Comunicazione e Relazioni Istituzionali Viale Ribotta 5 - 00144 Roma - www.salute.gov.it Consulenza editoriale e grafica: Wolters Kluwer Health Italy S.r.l. Stampa: Poligrafico dello Stato Registrato dal Tribunale di Roma - Sezione per la Stampa e l'Informazione - al n. 82/2010 del Registro con Decreto del 16 marzo 2010 ISSN 2038-5293 Pubblicazione fuori commercio Tutti i diritti sono riservati, compresi quelli di traduzione in altre lingue. Nessuna parte di questa pubblicazione potrà essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o per mezzo di apparecchiature elettroniche o meccaniche, compresi fotocopiatura, registrazione o sistemi di archiviazione di informazioni, senza il permesso scritto da parte dell’Editore Le ragioni di una scelta e gli obiettivi Perché nascono i Quaderni U niformare e fissare, nel tempo e nella memoria, i criteri di appropriatezza del nostro Sistema salute. È l’ambizioso progetto-obiettivo dei Quaderni del Ministero della Salute, la nuova pubblicazione bimestrale edita dal dicastero e fortemente voluta dal Ministro Ferruccio Fazio per promuovere un processo di armonizzazione nella definizione degli indirizzi guida che nascono, si sviluppano e procedono nelle diverse articolazioni del Ministero. I temi trattati, numero per numero, con taglio monografico, affronteranno i campi e le competenze più importanti, ove sia da ricercare e conseguire la definizione di standard comuni di lavoro. La novità è nel metodo, inclusivo e olistico, che addensa e unifica i diversi contributi provenienti da organi distinti e consente quindi una verifica unica del criterio, adattabile volta per volta alla communis res. La forma dunque diventa sostanza, a beneficio di tutti e ciò che è sciolto ora coagula. Ogni monografia della nuova collana è curata e stilata da un ristretto e identificato Gruppo di Lavoro, responsabile della qualità e dell’efficacia degli studi. Garante dell’elaborazione complessiva è, insieme al Ministro, il prestigio dei Comitati di Direzione e Scientifico. Alla pubblicazione è affiancata anche una versione telematica integrale sfogliabile in rete ed edita sul portale internet del Ministero www.salute.gov.it; qui è possibile il costante approfondimento dei temi trattati grazie alla semplicità del sistema di ricerca e alla scaricabilità dei prodotti editoriali; tra questi spiccano le risultanze dei pubblici convegni mirati che, volta per volta, accompagnano l’uscita delle monografie nell’incontro con le articolazioni territoriali del nostro qualificato Sistema salute. Non ultimo, il profilo assegnato alla Rivista, riconoscibile dall’assenza di paternità del singolo elaborato, che testimonia la volontà di privilegiare, sempre e comunque, la sintesi di sistema. Paolo Casolari Direttore Responsabile Giovanni Simonetti Direttore Scientifico 10 Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità e del diabete mellito GRUPPO DI LAVORO Francesco Bevere, Francesco Dotta, Alba Fava, Sandro Gentile, Davide Lauro, Renato Lauro, Piero Marchetti, Fabrizio Oleari, Filippo Palumbo, Paola Pisanti, Gabriele Riccardi, Paolo Sbraccia, Giovanni Simonetti ISSN 2038-5293 10 n. 10, luglio-agosto 2011 Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità e del diabete mellito Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità e del diabete mellito Indice Prefazione pag. IX Foreword pag. XII Premessa pag. XV Introduction pag. XIX Sintesi dei contributi pag. XXIII Abstract pag. XL Parte Prima – Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’obesità pag. 1 1. Definizione di obesità pag. 3 2. La situazione attuale pag. 5 3. Appropriatezza clinica pag. 21 4. Appropriatezza strutturale e tecnologica pag. 25 5. Appropriatezza operativa pag. 49 6. Indicatori e standard: definizioni e tipologie pag. 63 7. La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa pag. 67 8. Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni pag. 95 Parte Seconda – Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, la diagnosi e la terapia del diabete pag. 99 9. pag. 101 Classificazione e definizione di diabete mellito 10. La situazione attuale pag. 105 11. Appropriatezza clinica pag. 117 12. Appropriatezza strutturale pag. 133 13. Appropriatezza tecnologica pag. 147 14. Appropriatezza operativa pag. 175 15. Situazioni particolari pag. 195 16. Definizione di standard pag. 225 17. La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa pag. 227 18. Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni pag. 231 19. Il ruolo delle Associazioni pag. 235 Appendici Parte Seconda pag. 237 Allegato pag. 261 Bibliografia pag. 277 Ministero della Salute Prefazione S ebbene esistano diversi tipi di diabete, è indubbio che la diffusione mondiale di questa condizione patologica interessa quasi esclusivamente il cosiddetto tipo 2 ed è strettamente legata all’altrettanto allarmante epidemia di obesità. Questa è la ragione principale per la quale il Ministero della Salute ha deciso di pubblicare un unico Quaderno che affronti congiuntamente i criteri di appropriatezza per la prevenzione, diagnosi e cura di obesità e diabete. Le proiezioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mostrano che, per il 2015, gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi e gli obesi più di 700 milioni. Parallelamente, la prevalenza del diabete arriverà fino al 6,3% nel 2025, coinvolgendo 333 milioni di persone in tutto il mondo. L’OMS ha quindi inserito il diabete tra le patologie croniche su cui maggiormente investire per la prevenzione. In Italia l’allungamento della vita media e il cambiamento dello stile di vita (sedentarietà, obesità) sono in larga parte responsabili dell’aumento atteso nella prevalenza del diabete di tipo 2. In effetti, l’incremento più rilevante è stato registrato negli anziani (età > 65 anni), che attualmente rappresentano i due terzi della popolazione diabetica italiana; in questa fascia di età la prevalenza è pari al 14%. È evidente che in assenza di iniziative volte alla prevenzione dell’obesità e del diabete e all’ottimizzazione dell’assistenza per le persone con obesità e diabete, le risorse disponibili in termini sia umani sia economici potrebbero, presto, non essere più sufficienti a garantire le cure più adeguate. Infine, l’enorme peso clinico e sociale di obesità e diabete si traducono in un altrettanto drammatico impatto economico. È su tali basi che, il 20 dicembre 2006 in occasione della Giornata mondiale del diabete, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione sulla minaccia rappresentata dall’attuale diffusione globale di diabete, nella quale, tra l’altro, si incoraggiano gli Stati membri a impegnarsi in politiche nazionali volte alla prevenzione, al trattamento e alla cura del diabete. Questo Quaderno testimonia, da un lato, la piena consapevolezza del Ministero della Salute dell’estrema rilevanza della tematica e, dall’altro, l’intenzione di IX Ministero della Salute fornire gli elementi necessari a definire i criteri di appropriatezza (clinica, strutturale, tecnologica e operativa) per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità e del diabete. In linea con quanto enunciato dal Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in progress), questo documento, partendo dalla situazione attuale, delinea i rapporti tra medicina primaria e centri specialistici territoriali e ospedalieri; indica i modelli organizzativi per la gestione integrata del follow-up (chronic care model) e i criteri di appropriatezza dell’equipe multidisciplinare e del setting di cura. Particolare attenzione è data al ruolo dell’“Health Technology Assessment” come strumento di analisi delle evidenze disponibili sul trattamento dell’obesità e del diabete. Nell’ottica di fornire i riferimenti a cui puntare per ottenere la migliore efficacia terapeutica e assistenziale, vengono segnalati gli indicatori di processo e di risultato intermedio e gli indicatori di esito. Non mancano, infine, precisi riferimenti per l’individuazione di strategie di implementazione delle raccomandazioni. Merita infine sottolineare che, nella parte dedicata al diabete (che ovviamente affronta le problematiche legate al tipo 1 e al tipo 2 indipendentemente dalla loro differente prevalenza), uno spazio non trascurabile è dedicato all’automonitoraggio glicemico domiciliare, alla terapia insulinica sottocutanea continuativa tramite microinfusore, alla telemedicina, al trapianto di pancreas e, non ultimo, all’educazione terapeutica. Destinatari principali di questo documento sono tutte le Autorità Regionali che a vario titolo si occupano di assistenza: Assessorati Regionali, Provinciali e Comunali. Ma anche Direttori Generali, Direttori Sanitari e imprenditori di sanità. In tal senso, vengono anche fornite precise indicazioni circa i requisiti strutturali e organizzativi dei servizi specialistici territoriali e ospedalieri. Tuttavia, le informazioni e i dati contenuti in questo Quaderno potranno essere utili anche a diabetologi, internisti e medici di medicina generale. Questi ultimi vi troveranno utili riferimenti al loro ruolo, nell’ambito di programmi di gestione integrata, specie delle persone con diabete. Inevitabilmente le due parti, obesità e diabete, sono state declinate in modo differente; se infatti per il diabete esistono strumenti legislativi ad hoc, come la Legge 115/87 “Disposizioni per la prevenzione e la cura del diabete mellito”, che rappresenta certamente una conquista civile e giuridica, per l’obesità il con- X Prefazione cetto di “assistenza dedicata” presso centri specializzati e organizzati in rete non è stato mai riportato a livello di provvedimenti legislativi nazionali o regionali, ma solo come documento di indirizzo in alcune Regioni per la definizione del percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti. Ciò è probabilmente legato a criticità “storiche” nella gestione del paziente obeso; infatti, l’obesità non è mai stata considerata una vera e propria entità patologica e conseguentemente non è stata mai delineata la figura dell’esperto nella cura dell’obesità. Il “percorso assistenziale” più frequente è quello del medico di medicina generale (ma anche dello specialista) che invia il paziente per una visita dietologica. Infine, l’assenza di precisi modelli assistenziali ha favorito la presenza di “realtà monovalenti”, dedicate cioè all’utilizzo prevalente, quando non esclusivo, di una delle varie opzioni terapeutiche; questa situazione ha contribuito, insieme alle oggettive difficoltà di trattamento dell’obesità, al proliferare di sedicenti “centri dimagranti”, che tanto danno fanno e continuano a fare. In tal senso, in questo Quaderno vengono indicati modelli di gestione globale del paziente, in particolar modo del paziente affetto da grande obesità, in “aree/strutture dedicate” da parte di equipe multidisciplinari specializzate. La concentrazione dell’assistenza, in relazione alla diversa criticità del paziente, in centri di eccellenza con l’invio dei pazienti ai centri periferici in relazione alla prosecuzione/integrazione del percorso terapeutico/riabilitativo è stata strutturata secondo il modello “Hub & Spoke”. Prof. Ferruccio Fazio Ministro della Salute XI Ministero della Salute Foreword A lthough there are several types of diabetes, the world spread of this disease almost exclusively involves type 2 diabetes and is closely related to the equally alarming epidemic of obesity. This is why the Italian Ministry of Health has decided to publish a single Quaderno treating together the appropriateness criteria for the prevention, diagnosis and treatment of diabetes and obesity. According to the projections of the World Health Organization (WHO), by 2015 the number of overweight adults will reach about 2.3 billion, and that of obese people will be over 700 million. At the same time, the prevalence of diabetes will touch 6.3% in 2025, with more than 333 million people affected worldwide. Diabetes has therefore been classified by the WHO among the chronic diseases that warrant the highest investments for prevention. In Italy, increased mean life expectancy and life style changes (physical inactivity, obesity) are largely responsible for the expected rise in the prevalence of type 2 diabetes. The most relevant increase was indeed observed among elderly people (> 65 years old) who currently make up two-thirds of the Italian diabetic population; in this age group the prevalence is 14%. Clearly, without initiatives to prevent obesity and diabetes and to optimize the management of obese and diabetic people, the available resources, both human and economic, may be soon insufficient for ensuring the best care. The huge clinical and social burden of obesity and diabetes translates into an equally dramatic economic impact. Based on these facts, on 20 December 2006 in occasion of the World Diabetes Day, the General Assembly of the United Nations passed a resolution that recognizes the current spread of diabetes as a serious global health threat. The resolution also encourages UN Member States to adopt national policies for the prevention, management and treatment of diabetes. The present Quaderno testifies to the Ministry of Health’s full awareness of the extreme relevance of the issue, as well as the intention to provide all the elements necessary to define the appropriateness criteria (clinical, structural, technological and operational) for prevention, diagnosis and treatment of obesity and diabetes. In line with the content of the Piano Sanitario Nazionale 2011-2013, this XII Foreword document outlines the relationship between primary medicine and hospital, community and specialized centres, based on the current situation; it indicates organizational models for the integrated management of the follow-up (chronic care model) and the criteria of appropriateness of the multidisciplinary team and setting of care. Particular attention is given to the role of the Health Technology Assessment as a tool for analyzing the available evidence on the treatment of obesity and diabetes. With the objective of providing targets for achieving the best therapeutic and management efficacy, the document mentions the process-, the intermediate outcome-, and the outcome-indicators. Also given are suggestions on how to follow the recommendations. Finally, it is noteworthy that the section on diabetes (in which both type 1 and type 2 diabetes are discussed regardless of their different prevalence) is largely dedicated to blood glucose self-monitoring at home, to continuous subcutaneous insulin infusion therapy, to telemedicine, to pancreas transplantation and, not least, to therapeutic education. This document is addressed primarily to Italian healthcare Regional Authorities: Assessorati Regionali, Provinciali and Comunali (regional, provincial and municipal health departments), but also to general and medical directors and to healthcare entrepreneurs. In this context, precise indications are provided regarding the structural and organization requirements of community and hospital specialized services. However, the information and the data contained in this Quaderno will be useful also for diabetologists, internists and general practitioners. General practicioners will find useful information on their role within programs of integrated management, particularly for diabetic patients. The two parts – diabetes and obesity – were necessarily treated in different ways; while for diabetes a number of ad hoc legal tools are available, including Legge 115/87 “Disposizioni per la prevenzione e la cura del diabete mellito” (regulations for the prevention and management of diabetes mellitus), which is no doubt an important civil and legal breakthrough, for obesity the concept of “dedicated care” at specialized centres organized as a network has never been considered, nationally or regionally, from the legal point of view, with the exception of a guideline document issued by some Regions and indicating the pathway of care for this type of patient. This is probably due to “historical” XIII Ministero della Salute reasons related to the management of obese patients. In fact, obesity has never been considered, so far, as a true disease entity and consequently the role of the obesity expert has never been outlined. According to the most common “pathway of care” the patient is directed to the dietitian by the general practitioner (and by the specialist as well). Finally, the lack of precise care models has favored approaches that use predominantly, if not exclusively, only one of the various therapeutic options available. This situation, along with the objective difficulty posed by the treatment of obesity, has contributed to the proliferation of so called “diet centres”, which still cause extensive harm. In this respect, the present Quaderno suggests models for the comprehensive management of patients, in particular of those with major obesity, in “dedicated centres” by a specialized multidisciplinary team. Care has been concentrated in centres of excellence, according to patient needs, and patients have been referred to peripheral centres for the continuation/integration of the therapeutic/rehabilitation pathway based on the Hub & Spoke model. Prof. Ferruccio Fazio Minister of Health XIV Ministero della Salute Premessa Il concetto di appropriatezza e le finalità del documento Il Servizio Sanitario Nazionale garantisce la tutela della salute dei cittadini, e pertanto lo Stato e le Regioni dedicano una parte consistente delle risorse pubbliche per realizzare e mantenere i servizi, le attività e le prestazioni che contribuiscono al conseguimento di tale obiettivo, unitamente a interventi indiretti verso altri fattori importanti, come i comportamenti dei singoli cittadini. In tale situazione, di particolare importanza è il concetto di appropriatezza, stante esprimere la misura dell’adeguatezza delle azioni intraprese per trattare uno specifico stato patologico, secondo criteri di efficacia ed efficienza che coniugano l’aspetto sanitario a quello economico. Con l’appropriatezza, quindi, si valutano insieme gli standard clinici e quelli economici, con l’intento di individuare gli interventi nell’ambito di criteri il più possibile certi. Si tratta evidentemente di un concetto dinamico, condizionato dall’evoluzione della domanda (a sua volta legata al modificarsi, per esempio, del profilo delle patologie note, al comparire di malattie nuove, al progresso tecnologico) e dalla variabilità della disponibilità della spesa sanitaria, soggetta alle mutazioni dell’economia mondiale e nazionale. Il significato di appropriatezza ha rappresentato il filo conduttore dei principali documenti di programmazione sanitaria: dal Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000, PSN 2006-2008, PSN 2011-2013 (in progress) attraverso il DL 229/99, il PSN 2003-2005 e la normativa sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), dove si legge che “le prestazioni che fanno parte dell’assistenza erogata non possono essere considerate essenziali, se non sono appropriate”. In generale, si può affermare che un intervento sanitario è appropriato quando è di efficacia provata da variabili livelli di evidenza, è prescritto appropriatamente al paziente, nel momento giusto e per un’adeguata durata, e gli effetti sfavorevoli sono accettabili rispetto ai be- XV Ministero della Salute nefici. L’appropriatezza professionale deve inoltre, come visto in precedenza, coniugarsi a un’appropriatezza organizzativa, intesa come utilizzazione della giusta quantità di risorse professionali e logistiche, inclusi le componenti tecnologiche, gli adeguati indicatori qualitativi e quantitativi e gli strumenti per la formazione. In altre parole, l’appropriatezza professionale (o clinica) garantisce che i benefici per il paziente superino significativamente gli eventuali rischi o svantaggi, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili. A sua volta, l’appropriatezza organizzativa consente che le modalità di erogazione della prestazione (es. ambulatoriale o ricovero diurno o ordinario) utilizzino il giusto e l’adeguato impiego di risorse professionali ed economiche, a parità di sicurezza ed efficacia terapeutica. L’appropriatezza clinica, professionale e organizzativa sono elementi che finiscono per influenzarsi reciprocamente. Il concetto di appropriatezza è pertanto di fondamentale importanza, tant’è che soltanto quando le prestazioni sanitarie soddisfano tale principio esse sono incluse nei LEA, e quindi a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Infatti, nell’individuazione dei LEA si è fatto riferimento al principio dell’efficacia e dell’appropriatezza degli interventi, principio dell’efficienza e dell’equità. A livello operativo questi concetti si rendono concreti nello sviluppo di un vero governo clinico che renda i professionisti responsabili e partecipi al processo, all’interno di sistemi di eccellenza. Molti e tra loro interconnessi sono i determinanti dell’appropriatezza, tra cui la formazione, la gestione del rischio, l’audit, la medicina basata sull’evidenza (EBM ed EBHC), le linee guida cliniche e i percorsi assistenziali, la gestione dei reclami e dei contenziosi, la comunicazione e gestione della documentazione, la ricerca e lo sviluppo, la valutazione degli esiti, la collaborazione multidisciplinare, il coinvolgimento dei pazienti, l’informazione corretta e trasparente e la gestione del personale. Nel nostro sistema sanitario, che tiene conto, oltre che dell’universalità, anche dell’equità delle prestazioni, ancora di più diventa necessaria l’implementazione dell’appropriatezza, che diventa l’elemento inderogabile per realizzare l’una e l’altra. XVI Premessa Alla luce di queste considerazioni, il presente documento intende: • dare agli operatori e ai decisori istituzionali conoscenze aggiornate sulle tematiche in oggetto; • fornire gli strumenti affinché le scelte organizzative e i comportamenti professionali siano omogenei; • individuare percorsi integrati e condivisi per un appropriato uso delle risorse disponibili. Questo per consentire che il cittadino ottenga un inquadramento clinico precoce con tempestivo e continuo controllo della condizione clinica e delle complicanze, basato su protocolli definiti e condivisi da tutta la classe medica. Il Quaderno fornisce anche indicazioni sui percorsi di cura, evidenziando l’importanza del territorio quale luogo di analisi dei bisogni e dell’integrazione tra vari livelli di assistenza, con la centralità del paziente. Inoltre, si è inteso approfondire la parte che si riferisce all’appropriatezza tecnologica per evidenziare la necessità che gli operatori siano preparati a un confronto con nuovi strumenti e procedure di alto livello tecnologico. Infatti, al corretto utilizzo della strumentazione è necessario abbinare un valido apprendimento e un utilizzo di competenze che rafforzino la relazione tra il sanitario e il paziente, attraverso un’azione concordata tra i bisogni di cura e quelli della persona. Le finalità del Quaderno sono in linea con il contesto istituzionale e normativo attuale, caratterizzato dalla modifica del titolo V della Costituzione, mediante il quale il Governo centrale si trasforma da una funzione preminente di organizzatore e gestore di servizi a quella di garante dell’equità sul territorio nazionale, e l’individuazione dei LEA con il DPCM del 29 novembre 2001 e successive integrazioni. Il legislatore costituzionale ha posto con grande chiarezza in capo allo Stato “la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante un forte sistema di garanzie attraverso i livelli di assistenza”, affidando al tempo stesso alle Regioni la diretta responsabilità della realizzazione del governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese. Alla base di questa scelta vi è il principio di sussidiarietà costituzionale, che XVII Ministero della Salute vede la necessità di porre le decisioni il più possibile vicino al luogo dove nasce il bisogno e quindi al cittadino e alla comunità locale. L’introduzione dei LEA costituisce l’avvio di una nuova fase per la tutela sanitaria: garantire ai cittadini un servizio sanitario omogeneo in termini di qualità e quantità delle prestazioni erogate, dotandosi contemporaneamente di uno strumento di governo dell’assistenza. Infine, le indicazioni contenute nel Quaderno hanno l’obiettivo di implementare a livello locale, sia per la persona con diabete sia per quella con obesità, il principio di uniformità, articolato all’interno del federalismo sanitario, e di indicare, attraverso la definizione delle appropriatezze cliniche, strutturali e operative, gli strumenti per una corretta razionalizzazione delle risorse, con una sinergia e condivisione d’intenti nel rispetto delle competenze. XVIII Ministero della Salute Introduction The concept of appropriateness and aims of the document The Servizio Sanitario Nazionale (SNN, Italian national health service) guarantees the protection of public health. As a consequence, State and Regions dedicate a substantial part of their resources to the creation and maintenance of services, activities and performances that contribute to the achievement of this objective, along with indirect interventions on other important factors, including the behaviour of individual citizens. In such a context, the concept of appropriateness which defines how adequate the applied interventions are for the treatment of a specific pathological condition, according to criteria of efficacy and effectiveness that combine medical and economic issues, is extremely important. Therefore, by means of the appropriateness, clinical standards are assessed along with economic standards, so as to identify interventions that satisfy the most robust criteria. This is no doubt a dynamic concept, influenced by an evolving demand (which in turn depends on the changes in the profile of known diseases, on the appearance of new diseases, or on technological progresses) and by the variability, arising from changes in global and national economies, of the resources available for covering healthcare costs. The definition of appropriateness was the underlying theme of the most important documents of healthcare planning: from the Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000, PSN 2006-2008, PSN 2011-2013 (in progress) to DL 229/99, PSN 2003-2005 and the legislation on the Livelli Essenziali di Assistenza (LEAs, essential levels of care), which states that “interventions belonging to the healthcare service provided can not be considered essential if they are not appropriate”. In general, a healthcare intervention is appropriate when its efficacy is proven at various levels of evidence, when it is appropriately prescribed, at the right moment and for an adequate duration, and when the adverse effects are acceptable and XIX Ministero della Salute counterbalanced by the benefit. As we have seen earlier, professional appropriateness should be combined with organizational appropriateness, to be intended as the correct use of professional and logistic resources, including technological components, adequate qualitative and quantitative indicators and training tools. In other words, professional (or clinical) appropriateness ensures that the benefits for the patient are significantly superior to potential risks or disadvantages, based on the available scientific evidence. In turn, the organizational appropriateness makes sure that services (e.g. out patient or day hospital o regular hospitalization) are allocated according to the proper and adequate use of professional and economic resources, provided safety and efficacy are equivalent. Clinical, professional and organizational appropriateness are bound to be mutually influenced. The concept of appropriateness is therefore extremely important, so much that healthcare services are included in the LEAs, and are covered by the Italian SSN only if they comply with this concept. In fact, the LEAs were defined based on the efficacy and appropriateness of the interventions, thus based on a principle of efficiency and equity. At the operational level, these concepts are implemented with the development of a true clinical governance by which professionals are made responsible and can take part in the process, within systems of excellence. There are several determinants of appropriateness, many of which are interconnected, including training, risk management, audit, evidence based medicine (EBM and EBHC), clinical guidelines and pathways of care, management of complaints and litigations, communication and organization of records, research and development, outcome assessment, multidisciplinary collaboration, patient involvement, correct and transparent information and personnel management. In our healthcare system, which takes into account not only the comprehensiveness of the service provided but also its equity, the implementation of the appropriateness, essential for the accomplishment of both, is even more critical. Based on these considerations, the present document intends to: XX Introduction • provide operators and regulatory decision makers with updated information on the issues discussed; • provide the tools needed to standardize organizational choices and professional behaviours; • indicate integrated and shared pathways to the appropriate use of the available resources. All this to allow an early clinical classification of the citizen with the timely and continuous control of the clinical condition and its complications, based on protocols defined and shared by all healthcare professionals. This Quaderno also indicates the pathways of care, with an emphasis on the importance of community as a setting for the analysis of the needs and the integration between the various levels of care, with the patient at the centre. The part related to technological appropriateness is treated more in depth to highlight the fact that healthcare operators need to be ready to deal with novel tools and procedure of high technological complexity. As a matter of fact, the correct use of medical instrumentation should be combined with rigorous learning and with the use of skills directed to the consolidation of the relationship between healthcare professionals and patients, by taking into account both the necessity to treat and the needs of the person. The objectives of this Quaderno are in line with the current political and regulatory context, characterized by the revision of title V of the Italian Constitution, by which the central government no longer acts predominantly as organizer and manager of services, but rather as guarantor of the equity throughout the national territory, and the identification of LEAs by means of the DPCM of 29 November 2001 and following integrations. The constitutional legislator has clearly assigned to the State “the responsibility of ensuring the right to health to all citizens, by means of a solid system of guarantees, through the levels of care”, while the responsibility of implementing governance and the expenses to achieve the health objectives of the Country have been delegated to the Regions. This choice is based on the principle of constitutional subsidiarity, whereby decisions should be as close as possible to where the need originated and therefore to the citizen and to the local community. XXI Ministero della Salute With the introduction of the LEAs a new phase of health protection has begun: a healthcare system, homogenous in terms of quality and quantity of the delivered services, and provided at the same time with a tool for healthcare governance. Finally, the indications contained in the present Quaderno are intended to implement locally, for diabetics as well as for obese people, the principle of uniformity developed within the healthcare federalism, and to indicate, by defining clinical, structural and operational appropriateness, the tools for a correct rationalization of resources, with synergic and common goals in the full respect of competences. XXII Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Sintesi dei contributi PARTE PRIMA 1. Definizione di obesità L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio fra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi), con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. Il grado di obesità, cioè l’eccesso di grasso, viene comunemente espresso con l’indice di massa corporea (BMI), che si calcola dividendo il peso corporeo espresso in kg per l’altezza espressa in metri al quadrato: BMI = kg/m2. L’OMS definisce un individuo normopeso se ha un BMI < 25 kg/m2, in sovrappeso se ≥ 25 kg/m2 e francamente obeso se ≥ 30 kg/m2. Il limite del BMI è quello di non fornire alcuna indicazione effettiva sulla composizione corporea reale del soggetto, in quanto non distingue se l’incremento sia dovuto a un aumento della massa grassa o della massa magra (un culturista risulterebbe obeso, sebbene abbia una massa grassa ridotta), e sulla distribuzione della massa grassa. La diagnosi di sovrappeso o obesità stabilita con il BMI, quindi, dovrebbe essere integrata dall’impiego di indicatori diretti dell’adiposità e della distribuzione adiposa che permettano un più agevole inquadramento nosologico dell’obesità e una classificazione descrittiva fondamentale ai fini dell’individuazione dei soggetti a maggiore rischio di morbilità; tra i più utilizzati per la semplicità vi è la misurazione della circonferenza della vita, che fornisce un indice della distribuzione del grasso corporeo e delle possibili complicanze metaboliche associate. 2. La situazione attuale Le proiezioni dell’OMS mostrano che, per il 2015, gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi e gli obesi più di 700 milioni. Obesità e sovrappeso, prima considerati problemi solo dei Paesi ricchi, sono ora drammaticamente in crescita anche nei Paesi a basso e medio reddito, specialmente negli insediamenti urbani, e sono ormai riconosciuti come veri e propri problemi di salute pubblica. L’obesità è stata giustamente definita dell’OMS come l’epidemia del XXI secolo. Nel suo “Rapporto sulla salute in Europa 2002”, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come “un’epidemia estesa a tutta la Regione europea”, tanto che circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso e il 20-30% degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Questa situazione desta particolare preoccupazione per l’elevata morbilità associata, specie di tipo cardiovascolare, oltre al diabete di tipo 2, in genere preceduto dalle varie componenti della sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi e aumentato rischio di eventi cardio- e cerebrovascolari. Nella Regione Europea dell’OMS, la prevalenza dell’obesità è triplicata negli ultimi vent’anni. Sovrappeso e obesità sono poi responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive fra gli adulti che vivono in Europa. Nei Paesi più poveri ma con uno sviluppo rapido si riscontra un veloce aumento dell’obesità, mentre nei Paesi più avanzati, con le maggiori disparità di reddito tra ricchi e poveri, si misurano in genere livelli più alti di obesità. In Italia, nel 2009, l’obesità ha interessato l’11,1% dei maschi e il 9,2% delle femmine. La percentuale di soggetti obesi è più elevata nel Sud e nelle Isole (11,1%). Nel Nord e nel Centro Italia le XXIII Ministero della Salute percentuali si equivalgono (rispettivamente, 9,7% e 9,6%). La prevalenza negli adulti cresce con l’età fino alla fascia di età 65-74 anni, in cui si hanno i valori più elevati (15,6%); successivamente, risulta sempre meno diffusa. Sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minore reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna, dunque, alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. L’obesità infantile è una delle più gravi questioni del XXI secolo. La prevalenza ha raggiunto livelli preoccupanti: secondo l’OMS, in tutto il mondo, nel 2005, ben 20 milioni di bambini di età < 5 anni erano in sovrappeso. Il problema è globale: si stima che nel 2010 i bambini con meno di 5 anni di età in eccesso di peso siano stati oltre 42 milioni e, di questi, quasi 35 milioni in Paesi in via di sviluppo. La gravità della diffusione dell’obesità infantile sta anche nel fatto che i bambini obesi rischiano di diventare adulti obesi. E l’obesità è un fattore di rischio per serie condizioni e patologie croniche. L’obesità è responsabile del 2-8% dei costi sanitari e del 10-13% dei decessi in diverse parti della Regione Europea dell’OMS, dove, ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile di più di 1 milione di decessi e della perdita di 12 milioni di DALY (anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). L’obesità influenza pesantemente anche lo sviluppo economico e sociale. I programmi di contrasto all’obesità del Ministero della Salute fanno in particolare riferimento a diverse linee di attività, quali la collaborazione con la Regione Europea dell’OMS alla definizione di una strategia di contrasto alle malattie croniche denominata Gaining Health, la cooperazione con l’OMS alla costruzione di una strategia europea di contrasto all’obesità, le indicazioni europee da XXIV parte del Consiglio EPSCO nel 2006, il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008, il Piano di Prevenzione 2010-2012, lo sviluppo e coordinamento del Programma interministeriale “Guadagnare Salute”, che parte dall’identificazione dei fattori di rischio (alimentazione, fumo, alcool, sedentarietà) che possono essere modificati e dai principali determinanti delle malattie croniche più frequenti. 3. Appropriatezza clinica L’esecuzione di un’anamnesi accurata è la parte più delicata del procedimento che, se non compiuta in maniera completa e adeguata, può pregiudicare le decisioni terapeutiche e alla fine vanificare gli investimenti terapeutici compiuti. L’anamnesi familiare deve evidenziare in maniera esaustiva la presenza dell’obesità, del diabete mellito di tipo 2, dell’ipertensione arteriosa e delle iperlipoproteinemie nei parenti di 1° grado (e in taluni casi anche di 2° grado, se possibile). L’anamnesi alimentare deve essere molto accurata, per valutare sia le abitudini attuali sia quelle precedenti. Nell’effettuare l’anamnesi patologica, particolare attenzione va riservata alla valutazione della presenza di ansia, depressione e ogni altra patologia psichiatrica. Nell’inquadramento clinico del paziente affetto da obesità il metodo più semplice, scientificamente corretto e pratico, per valutare quantitativamente l’eccesso ponderale è rappresentato dal calcolo del BMI. Sono comunque necessarie, oltre alla valutazione del BMI, la misurazione della circonferenza vita, direttamente correlata alla presenza di grasso viscerale, e la misurazione della circonferenza dei fianchi. La valutazione della composizione corporea del paziente mediante esecuzione della bioimpedenziometria corporea è di indubbia utilità nell’inquadramento e nel followup del paziente obeso. Sintesi dei contributi Oltre alla doverosa attenzione riguardo alle malattie cardiovascolari, non va mai dimenticata la ricerca accurata di altre malattie legate a stati d’infiammazione di basso grado e alla ricerca di patologie endocrine, anche con valutazioni ormonali e/o strumentali: le patologie della tiroide e del surrene, così come uno stato di insulino-resistenza o di disglicemia. Nel parlare di dieta, nel trattamento dell’obesità, è necessario intendere non soltanto un regime alimentare ipocalorico, ma uno stile di vita corretto. Lo stile di vita rappresenta, infatti, un modo di vivere che può essere modificato nel corso della vita e che include, secondo il rapporto OMS del 2002, oltre a un’alimentazione sana e varia, una regolare attività fisica, il moderato consumo di alcool e la cessazione dell’eventuale abitudine tabagica o del consumo di droghe. Il cambiamento permanente dello stile di vita può essere raggiunto con tecniche di derivazione cognitivo-comportamentale che aiutino il paziente a compiere le scelte su base quotidiana, rinforzando la volontà di proseguire nel percorso intrapreso, cercando al tempo stesso di far mettere in relazione i sentimenti che precedono, accompagnano e seguono l’assunzione del cibo e l’esecuzione dell’attività fisica con la qualità della performance che il paziente si è proposto di raggiungere. 4. Appropriatezza strutturale e tecnologica Un modello d’assistenza adeguato alle caratteristiche del paziente obeso patologico dovrebbe prevedere centri di elevata specializzazione che devono agire in stretta collaborazione con le altre strutture sanitarie operanti sul territorio, con i medici di medicina generale, i pediatri di famiglia e i centri ospedalieri situati sul territorio che richiedano consulenza. Affinché il trattamento dell’obesità risulti efficace, in termini sia di risultati sia di mantenimento degli stessi, è necessario affiancare all’intervento medico un intervento educativo che consenta al soggetto di comprendere le cause del problema e di mettere in atto nella vita di tutti i giorni i comportamenti idonei a raggiungere gli obiettivi prefissati. In Italia, a livello istituzionale, l’HTA viene esplicitamente menzionato nel Piano Sanitario Nazionale 2006-2008: “La valutazione delle tecnologie sanitarie, intesa come insieme di metodi e strumenti per supportare le decisioni, si rivolge ai diversi livelli decisionali secondo modelli operativi differenziati, rivolti a fornire supporto a: • decisioni di politica sanitaria; • decisioni “manageriali” d’investimento in nuove tecnologie a livello aziendale e per la promozione di un utilizzo appropriato delle tecnologie medesime tramite l’elaborazione di protocolli; • decisioni cliniche, per la diffusione di “modelli di governo (governance)” individuati da strutture centrali, e da adottare a livello organizzativo, quali la definizione e diffusione degli standard qualitativi e quantitativi. In definitiva, la peculiarità dell’HTA può essere ricondotta a due aspetti principali: la multidimensionalità della valutazione e la sua sistematicità. Per quanto riguarda le tecnologie per la prevenzione e il follow-up delle complicanze o delle condizioni associate all’obesità, in questo Capitolo vengono elencati alcuni presidi diagnostici riguardanti la misurazione della composizione corporea con la descrizione dell’analisi di impedenza bioelettrica (BIA) a corpo intero, dell’apparecchiatura DEXA (densitometria a doppio raggio X) e della TC con scansione a livello lombare. Inoltre, viene evidenziata l’importanza della valutazione del dispendio energetico, delle comorbilità e della funzione cardiopolmonare. Lo scopo primario del trattamento dell’obesità XXV Ministero della Salute dovrebbe essere quello di ottenere e mantenere una perdita di peso utile a ridurre il rischio di complicanze, e di fatto i trattamenti attualmente approvati per l’obesità, assieme ad alcuni dei presidi terapeutici in sviluppo, inducono perdita di peso e quindi rappresentano potenzialmente strumenti di prevenzione delle complicanze dell’obesità. Tuttavia, tali terapie mostrano il limite di indurre solo una modesta perdita di peso nel tempo e sono inoltre seguite, all’interruzione del trattamento, da un rapido riguadagno ponderale. La chirurgia dell’obesità tendenzialmente modifica l’anatomia del tratto digestivo. I meccanismi attraverso i quali essa agisce sono di due tipi: a) meccanico-restrittivi, che permettono più facilmente di diminuire la quantità di alimenti assunti e quindi di osservare più facilmente le diete ipocaloriche; b) metabolico-malassorbitivi che, più o meno selettivamente, alterano la digestione e l’assorbimento degli alimenti, in particolare degli alimenti grassi, diminuendo così l’apporto calorico. La laparoscopia è la tecnica da preferire, gold standard sia per la maggiore compliance del paziente, sia perché ha una minore percentuale di complicanze connesse all’accesso chirurgico; la precoce mobilizzazione e la più rapida ripresa funzionale rappresentano grandi vantaggi in questi pazienti, che sono da considerare ad alto rischio. 5. Appropriatezza operativa In Italia, il concetto di “assistenza dedicata” al paziente con grande obesità presso centri specializzati e organizzati in rete non è stato mai riportato a livello di provvedimenti legislativi nazionali o regionali, ma solo come documento di indirizzo in alcune Regioni per la definizione del percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti. Il modello Hub & Spoke, promosso per la gestione di patologie ad andamento cronico di particolare XXVI impegno sanitario ed economico, prevede la concentrazione dell’assistenza, in relazione alla diversa criticità del paziente, in centri di eccellenza (Hub) e l’invio dei pazienti ai centri periferici (Spoke), in relazione alla prosecuzione/integrazione del percorso terapeutico/riabilitativo. La rete che viene a crearsi in tal modo ha l’obiettivo di assicurare una coordinata azione d’intervento, garantendo al paziente un’assistenza ottimale nella struttura più adeguata in termini di appropriatezza clinica e organizzativa. Per quanto riguarda la formazione è indispensabile che i MMG siano correttamente informati di tutti gli aspetti diagnostico-terapeutici che ruotano intorno all’obesità, ma anche, allo stesso tempo, che essi possano contare su centri di elevata specializzazione ai quali fare riferimento. D’altro canto, anche la formazione del chirurgo che intende indirizzarsi alla cura dell’obesità dovrà non solo includere un aggiornamento costante delle tecniche e degli strumenti chirurgici, ma anche dare un più ampio respiro alla cultura della cronicità, che comporta l’inserimento della propria attività in una catena di interventi medici che accompagneranno il paziente per tutta la vita. La prevenzione dell’obesità si fonda sulla formazione scolastica nell’età evolutiva, sull’educazione sanitaria, sull’attività fisica e sulla dieta. La scuola è caricata dell’onere di dare messaggi tecnicamente corretti, utilizzando anche strumenti didattici innovativi, che riescano a colpire la fantasia e la capacità d’imitazione degli allievi. Si può osservare che l’esercizio fisico regolare provoca una modificazione della composizione corporea, con aumento della massa muscolare e quindi della massa magra, metabolicamente attiva, che si associa a un incremento del dispendio energetico a riposo. Non vi è dubbio che non è solamente una particolare dieta che riduce i fattori di rischio nel lungo Sintesi dei contributi termine, quanto appunto uno stile di vita, un comportamento adeguato alla condizione del soggetto. Le peculiari caratteristiche della grande obesità come patologia cronica, le sue comorbilità e la disabilità conseguente con un impatto sulla qualità della vita e sui costi sanitari impongono di assumere una prospettiva non solo di tipo terapeutico, ma soprattutto riabilitativo. È importante, quindi, prevedere e definire percorsi terapeutici con una squisita valenza multidisciplinare, che affrontino in una prospettiva temporale di lunga durata il problema del peso, ma soprattutto la prevenzione e cura delle complicanze. La rete regionale per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’obesità si articola attraverso i diversi livelli di intervento: ambito territoriale e ospedaliero. 6. Indicatori e standard: definizioni e tipologie L’indicatore è un’informazione, quantitativa o qualitativa, numerica e quindi “misurabile”, che ragguaglia sullo stato di successo raggiunto lavorando sui fattori critici e fornisce un quadro efficace sul raggiungimento di strategie e obiettivi. Uno degli obiettivi principali del programma comunitario in materia di salute (2008-2013) consiste nel fornire informazioni comparabili sulla salute dei cittadini europei attraverso lo sviluppo di indicatori sanitari e la raccolta di dati. Le informazioni da raccogliere riguardano il comportamento della popolazione in relazione alla salute (dati sullo stile di vita e altri determinanti della salute), le malattie (incidenza delle malattie croniche, gravi e rare e modalità di controllo delle stesse) e i sistemi sanitari (informazioni sull’accesso ai servizi e sulla qualità dell’assistenza prestata, dati relativi alle risorse umane e alla capacità finanziaria dei sistemi sanitari). La raccolta dei dati si fonda su indicatori sanitari comparabili, applicabili in tutta Europa, nonché su de- finizioni e metodi di raccolta e utilizzo concordati. Gli indicatori esprimono una valutazione/misurazione di un fenomeno/un evento/un’attività/un oggetto/una realtà/ecc. correttamente rilevati ed elaborati; si distinguono in due grandi categorie: sintetici e analitici. Gli indicatori devono essere elaborati basandosi prevalentemente su dati elementari e devono possedere alcune caratteristiche di facile reperibilità dei dati: affidabilità nel misurare un fenomeno, comprensibilità, costo sostenibile, assenza di ambiguità. L’indicatore, per definizione, descrive soltanto un aspetto di un processo complesso e che, raramente, è possibile condensare in una sola misura. La scelta dell’indicatore è quindi importante, ma soprattutto lo è in funzione della sua capacità di “marcare” un processo, invitando alla revisione e al miglioramento della qualità del processo stesso. 7. La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa A differenza di altre patologie croniche, nella letteratura scientifica riguardante l’obesità il problema degli indicatori di esito, ma soprattutto di processo, è stato poco trattato. Questo è sicuramente dovuto al ritardo culturale che solo in tempi relativamente recenti è arrivato ad attribuire all’obesità la categoria di malattia cronica associata all’aumento di morbidità e mortalità nella popolazione generale, nonché una delle principali cause di disabilità e di spesa sanitaria. Inoltre, la relativamente ridotta efficacia delle terapie disponibili rispetto a quanto ottenuto per altre malattie croniche e la relativa giovinezza di quelle di maggiore efficacia, quali la chirurgia bariatrica e la riabilitazione multidisciplinare, rendono il campo della terapia dell’obesità ancora in buona parte sperimentale e in attesa di Linee guida ben definite. XXVII Ministero della Salute Nella trattazione di questo argomento il problema degli indicatori di processo e di esito è stato riferito ai diversi livelli (setting assistenziali) nei quali si svolge il disease management del paziente obeso. PARTE SECONDA 8. Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni Il diabete mellito, comunemente definito diabete, è un gruppo di malattie metaboliche in cui la persona ha come difetto principale un aumento delle concentrazioni ematiche di glucosio (iperglicemia). Il diabete può essere causato da un deficit assoluto di secrezione insulinica, o da una ridotta risposta all’azione dell’insulina a livello degli organi bersaglio (insulino-resistenza), o dalla combinazione dei due difetti. L’iperglicemia cronica del diabete si associa a un danno d’organo a lungo termine (complicanze croniche), che porta alla disfunzione e all’insufficienza di differenti organi come gli occhi, il rene, il sistema nervoso centrale, autonomo e periferico, il cuore e i vasi sanguigni. I processi che portano allo sviluppo del diabete variano dalla distruzione autoimmunitaria delle cellule beta del pancreas e conseguente insulinodeficienza a difetti causati da un’aumentata insulino-resistenza nei tessuti periferici. Le basi delle alterazioni del metabolismo dei carboidrati, degli acidi grassi e delle proteine sono provocate da un difetto della secrezione dell’insulina in risposta al glucosio associato o meno a un difetto dell’azione insulinica nei tessuti bersaglio, principalmente a livello epatico, nella fibra muscolare scheletrica, nel tessuto adiposo e nelle cellule vascolari. L’insufficiente azione insulinica può essere provocata da una non adeguata secrezione insulinica e/o da una diminuita risposta periferica all’azione dell’insulina in uno o più punti della complessa via di trasmissione a livello cellulare. Le forme più comuni di diabete, che comprendono la quasi totalità dei casi, ricadono in tre principali categorie: il diabete di tipo 1 (DT1), il diabete di tipo 2 (DT2) e il diabete gestazionale. L’esplosione epidemica dell’obesità e le sue conseguenze economiche e sociosanitarie rendono necessaria un’azione di contrasto efficace basata sulla sinergia fra tutti gli organismi (istituzioni, comitati di esperti, rappresentanti della società civile, settore privato) operanti nel campo della prevenzione e cura di tale patologia. Tutti i Paesi industrializzati si sono dotati di Linee guida per la prevenzione, diagnosi e cura dell’obesità; le Linee guida, elaborate sulla base delle più aggiornate evidenze scientifiche, indicano le misure più efficaci per contrastare questa patologia e sviluppano sia interventi di prevenzione dell’obesità nella popolazione generale, sia interventi volti al trattamento delle persone con sovrappeso o obesità. Per il raggiungimento degli obiettivi è indispensabile mettere in atto strategie che facilitino comportamenti salutari in termini sia di alimentazione sia di promozione dell’attività fisica. Tutto questo può essere realizzato soltanto se si ha chiara la consapevolezza che l’obesità non è un problema o una responsabilità del singolo individuo, ma un problema sociale, e che le scelte salutari possono essere orientate attraverso appropriate politiche economiche, agricole, urbanistiche e dei trasporti. Processo necessario a diffondere, applicare e monitorare l’efficacia degli interventi contenuti nelle Linee guida è la loro “implementazione”. Tale processo consiste nell’introdurre nella pratica corrente le Linee guida utilizzando strategie di intervento appropriate, atte cioè a favorirne l’utilizzo e a rimuovere i fattori di ostacolo al cambiamento. XXVIII 9. Classificazione e definizione di diabete mellito Sintesi dei contributi 10. La situazione attuale Si sta assistendo a un’epidemia mondiale di diabete, con una prevalenza che arriverà fino al 6,3% nel 2025, coinvolgendo 333 milioni di persone in tutto il mondo. L’OMS ha quindi inserito il diabete fra le patologie croniche su cui maggiormente investire per la prevenzione, dato il crescente peso assunto da questa patologia anche nei Paesi in via di sviluppo e vista la possibilità di attuare misure preventive efficaci e di basso costo. Il rischio d’insorgenza del DT2 è in larga parte determinato da età, obesità, familiarità ed etnia. In Italia, l’allungamento della vita media e il cambiamento dello stile di vita (sedentarietà, obesità) sono in larga parte responsabili dell’aumento atteso nella prevalenza del DT2. L’incremento temporale nella prevalenza del DT2 riconosce cause diverse: aumentata incidenza di malattia, più giovane età d’esordio e di diagnosi, aumentata sopravvivenza dei pazienti e, soprattutto, invecchiamento della popolazione generale. Quest’ultimo fattore è, verosimilmente, quello di maggiore impatto nei Paesi industrializzati. In Italia, per il 2009, l’Istat stimava una prevalenza del diabete diagnosticato pari al 4,8%. La prevalenza del diabete aumenta con l’età fino al 18,9% nelle persone con età uguale o superiore ai 75 anni. La prevalenza è più alta nel Sud e nelle Isole, con un valore del 5,5%, seguita dal Centro con il 4,9% e dal Nord con il 4,2%. Attualmente, vi sono in Italia almeno tre milioni di soggetti con diabete, oltre ai quali si aggiunge una quota stimabile in circa un milione di persone che, pur avendo la malattia, non ne sono a conoscenza. Le disuguaglianze sociali agiscono fortemente sul rischio di contrarre il diabete: la prevalenza della malattia è, infatti, più elevata nelle donne e nelle classi sociali più basse e tale effetto è evidente in tutte le classi di età. I dati italiani sull’incidenza della malattia sono molto limitati. Il problema metodologico principale è dato dall’inadeguata completezza delle rilevazioni epidemiologiche nell’età adulta, mentre nell’età pediatrica la quasi totalità dei diabetici è regolarmente seguita sin dalla diagnosi dai servizi di diabetologia; vi sono, inoltre, difficoltà diagnostiche legate alla necessità di eseguire il test da carico orale di glucosio per stimare i casi di diabete asintomatico a livello di popolazione. Il DT1 è una delle più frequenti malattie croniche dell’infanzia e la sua incidenza è in aumento. Un’indagine condotta dall’International Diabetes Federation ha calcolato un’incidenza di DT1 nel mondo di circa 65.000 nuovi casi/anno. Il DT1, seppure meno frequente rispetto al DT2 (1 caso su 10 diabetici), presenta nel nostro Paese un elevato impatto sociale, in quanto interessa soggetti in giovane età. L’incidenza è compresa tra i 6 e i 10 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6,72 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 15 a 29 anni, con forti differenze geografiche. L’epidemia di diabete ha anche importanti risvolti economici; in Italia, attualmente, i diabetici sono responsabili di un consumo di risorse sanitarie 2,5 volte superiore rispetto a quello delle persone non diabetiche di pari età e sesso. Ogni anno, ci sono in Italia più di 70.000 ricoveri per diabete, principalmente causati da complicanze quali ictus cerebrale e infarto del miocardio, retinopatia diabetica, insufficienza renale e amputazioni degli arti inferiori. Per quanto riguarda i farmaci, la quota principale del costo è imputabile al trattamento delle complicanze cardiovascolari. Tutte le categorie farmacologiche, tuttavia, mostrano un aumentato utilizzo nei diabetici rispetto ai non diabetici, a rilevare l’interessamento multiorgano della malattia. Il costo del trattamento delle complicanze è inoltre particolarmente elevato. Nel 2010, il diabete ha determinato il 10-15% dei costi dell’assistenza sa- XXIX Ministero della Salute nitaria in Italia. L’impatto sociale del diabete si avvia, quindi, a essere sempre più difficile da sostenere per la comunità, in assenza di un’efficace prevenzione. Le strategie internazionali specifiche sul diabete riguardano, in particolar modo, le indicazioni definite a livello europeo nel Consiglio EPSCO del giugno 2006, i contenuti della Risoluzione ONU del dicembre 2006, le conclusioni del Forum di New York del marzo 2007 e i lavori della Commissione europea su “Information to patient”, che evidenziano la necessità di sviluppare politiche nazionali per la prevenzione, il trattamento e la cura del diabete. L’impegno del Ministero della Salute in questi ultimi anni è stato quello di rendere attuali e innovativi i contenuti delle norme specifiche sul diabete, individuando strategie che richiedessero regole operative basate su un ampio dialogo e collaborazione fra tutti i principali protagonisti dell’assistenza al diabete, in una reale sinergia fra le Regioni, le Associazioni professionali, il Volontariato, le Istituzioni pubbliche e private. Si possono ritenere tuttora attuali le finalità generali individuate dalla Legge n. 115 del 1987 e dall’Atto d’Intesa del 1991 e gli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 che pone il diabete fra le quattro grandi patologie, assieme a malattie respiratorie, cardiovascolari e tumori, evidenziando l’importanza della riorganizzazione delle cure primarie, dell’integrazione tra i diversi livelli di assistenza, esaltando al tempo stesso il ruolo del cittadino e della società civile nelle scelte e nella gestione del SSN. Le strategie nazionali differentemente non possono non tenere conto, oltre che delle indicazioni dell’OMS e della Dichiarazione di Saint Vincent – che ponevano l’accento sullo sviluppo di un programma nazionale per il diabete e sull’importanza dell’intervento pubblico di governi e amministra- XXX zioni per assicurare la prevenzione e la cura della patologia diabetica – anche delle indicazioni europee. I programmi di prevenzione che riguardano il diabete in Italia fanno riferimento a diverse linee di attività, quali la collaborazione con la Regione Europea dell’OMS alla definizione di una strategia di contrasto alle malattie croniche (Gaining Health), la Cooperazione alla costruzione di una strategia europea di contrasto all’obesità, la predisposizione, attraverso il CCM e in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), del progetto IGEA (Integrazione, Gestione e Assistenza per la malattia diabetica), lo sviluppo e il coordinamento del Programma “Guadagnare Salute” e la partecipazione dell’Italia alla definizione delle indicazioni europee sul diabete da parte del Consiglio EPSCO nel 2006. Nel 2004, il Ministero della Salute ha introdotto le complicanze del diabete fra le aree d’intervento prioritarie. Il Piano di Prevenzione Attiva considerava la prevenzione delle complicanze del diabete attuata tramite l’adozione di programmi di strategia di gestione delle malattie croniche (disease management). 11. Appropriatezza clinica L’appropriatezza diagnostica del diabete si basa sull’uso corretto di criteri che sono maturati nel corso degli anni, di recente ulteriormente definiti. La misurazione della glicemia a digiuno o durante OGTT, nonché il dosaggio dell’HbA1c consentono anche di individuare soggetti a rischio di diabete e di malattia cardiovascolare. Il dosaggio della glicemia a digiuno, l’esecuzione dell’OGTT o la misurazione dell’HbA1c sono attualmente ritenuti egualmente utili per la diagnosi di diabete, pur nella consapevolezza delle differenze fra tali valutazioni. Tuttavia, la valutazione dell’HbA1c è considerata, nel complesso, più affi- Sintesi dei contributi dabile. I motivi di questa maggiore affidabilità dell’HbA1c sono molteplici; inoltre, come ben noto, essa è espressione della glicemia media di un lungo periodo (2-3 mesi) e non di un singolo momento. Dal punto di vista operativo, il dosaggio dell’HbA1c deve essere effettuato almeno due volte l’anno in ogni paziente diabetico, anche allorquando il controllo glicemico sia stabilmente nell’ambito dell’obiettivo terapeutico. Numerosi studi hanno ormai chiaramente dimostrato come la prevenzione dello sviluppo delle complicanze croniche del diabete (o almeno una loro più lenta progressione) passi attraverso una precoce e attenta strategia terapeutica volta al controllo di molteplici fattori di rischio, e come tutto questo abbia poi anche effetti positivi sull’aspettativa di vita dei pazienti. Tali fattori sono rappresentati, in particolare, da età, sesso, familiarità per coronaropatia o morte improvvisa, durata del diabete, controllo glicemico, attività fisica, fumo, peso corporeo e distribuzione del grasso corporeo, pressione arteriosa, lipidi plasmatici, microalbuminuria. Se si vuole intervenire favorevolmente sulla prognosi dei pazienti diabetici, è necessario precisare gli obiettivi; non a caso, negli studi d’intervento in cui i molteplici fattori di rischio per patologia vascolare erano aggrediti simultaneamente si sono ottenute impressionanti riduzioni sia degli eventi cardiovascolari sia della mortalità. Fra gli strumenti terapeutici un ruolo di assoluto rilievo riveste l’educazione terapeutica, cioè il complesso d’attività educative che si rivolge a specifiche categorie di soggetti, che si esplica attraverso la trasmissione di conoscenze e l’addestramento a conseguire abilità e a promuovere modifiche dei comportamenti. Nei diabetici l’educazione terapeutica ha come scopo migliorare l’efficacia delle cure attraverso la partecipazione attiva e responsabile della persona con diabete al programma delle cure. Il miglioramento non solo degli stili di vita, ma anche delle abilità personali nelle attività di supporto alle cure e alle scelte di modifiche concordate dei trattamenti, è responsabile della maggiore efficacia delle cure stesse e del benessere psicofisico delle persone con diabete. Gli standard italiani per la cura del diabete mellito, redatti dalle due Società scientifiche diabetologiche italiane (AMD e SID), hanno l’intento di fornire raccomandazioni per la diagnosi, il trattamento del diabete e delle sue complicanze e per il raggiungimento degli obiettivi di trattamento sui quali basare le scelte diagnostico-terapeutiche, fornendo anche indicazioni sugli strumenti di valutazione della qualità della cura, riferiti alla realtà italiana. 12. Appropriatezza strutturale I compiti assegnati al MMG nella gestione dei pazienti diabetici da numerosi documenti di consenso e Linee guida richiedono un’evoluzione del modello assistenziale e organizzativo da parte della medicina generale. Questa esigenza, comune alle principali patologie croniche, è ben evidenziata in letteratura da diversi anni. Nella gestione delle patologie croniche (diabete soprattutto), il MMG non può lavorare attraverso interventi “puntuali e tra loro scoordinati”, ma ha bisogno di strumenti che lo aiutino nelle procedure di verifica di appropriatezza e qualità delle cure erogate (per una spinta verso il miglioramento continuo delle performance). A tutto ciò serve il sistema informativo clinico, mediante i dati registrati nella cartella clinica informatica, trasformati prima in indicatori di processo e di esito e poi in informazioni leggibili. In Italia esiste una rete di strutture specialistiche che non ha confronto con altri Paesi e che è stata oggetto di studi e riferimenti da parte di organiz- XXXI Ministero della Salute zazioni internazionali. La rete dei servizi di diabetologia eroga un’assistenza di tipo specialistico che si fa carico di molti aspetti della gestione della malattia. Tale rete, organizzata soprattutto al Nord e al Centro, ha una diffusione di tipo capillare, pertanto riesce a raggiungere la maggior parte dei diabetici diagnosticati. Questa organizzazione può in parte spiegare i migliori risultati assistenziali rilevati da varie indagini epidemiologiche rispetto ad altri Paesi. L’identità della diabetologia italiana è fortemente legata a questa rete di servizi, che nel tempo ha contribuito ad avvicinare al problema studenti, laureandi e neolaureati, e a formarli, mantenendo viva l’attenzione per un problema sanitario di elevata rilevanza economica e sociale. La diabetologia italiana ha subito nel tempo una trasformazione storica e culturale che l’ha portata, da disciplina impegnata nella cura delle fasi acute e subacute della malattia, a disciplina in cui il carico maggiore è nella prevenzione delle complicanze tardive. Negli ultimi anni essa ha perseguito con particolare attenzione il tema della qualità dei servizi e delle prestazioni. Il ricovero in ospedale di un diabetico, al di là della condizione che lo ha richiesto, può essere un momento per verificare l’efficacia della terapia e migliorare, laddove necessario, il grado di compenso metabolico. Inoltre, durante il ricovero si deve verificare la stadiazione delle complicanze croniche. Pertanto, è necessaria un’opportuna e corretta integrazione con il diabetologo, mediante la richiesta di una consulenza. Al momento della dimissione del paziente in cui si rende necessario un monitoraggio glicemico domiciliare è indispensabile svolgere attività di educazione terapeutica sull’uso dei presidi, che deve poi continuare presso il MMG e il servizio di diabetologia. Circa una persona su 4 ospitata in strutture residenziali è affetta da diabete. Pertanto, deve essere XXXII garantita un’assistenza adeguata alle necessità e non inferiore a quella che viene fornita agli altri pazienti, nel rispetto degli standard di cura. Il personale sanitario deve quindi avere una formazione specifica in merito alle procedure di monitoraggio metabolico e clinico e agli strumenti terapeutici del diabete. I pazienti di età avanzata sono spesso affetti da comorbidità, pertanto sono spesso esposti all’uso inadeguato di farmaci antidiabetici, con conseguente ipoglicemia, che rappresenta una causa importante nei ricoveri d’urgenza presso le strutture ospedaliere. 13. Appropriatezza tecnologica L’automonitoraggio glicemico domiciliare è parte integrante della terapia del diabete mellito con modalità differenti in relazione alle caratteristiche cliniche della malattia ed è soggetto a una prescrizione medica e regolato dalla normativa esistente. Le norme sanciscono il diritto alla scelta condivisa dei presidi tra paziente e medico. L’innovazione tecnologica aumenta e diversifica caratteristiche e funzioni degli strumenti e richiede un’attenta valutazione dell’appropriatezza e utilità. Questo aspetto di notevole importanza è valutato con criteri differenti e più o meno restrittivi; si deve anche considerare che le valutazioni di accuratezza dovrebbero essere fatte anche nell’utilizzo diretto dei pazienti. Il fattore chiave per una determinazione accurata della concentrazione della glicemia è convertire la concentrazione del glucosio in uno specifico segnale che possa essere misurato con precisione. A questo scopo, a oggi, le tecniche di misurazione sono colorimetriche (reflettometro) o elettrochimiche (potenziometro). In tale ambito, nonostante gli elementi tecnologici abbiano importanza, soprattutto nell’accettabilità del device, per il diabetologo e per il paziente l’aspetto più im- Sintesi dei contributi portante rimane l’accuratezza dell’informazione ottenuta sulla concentrazione glicemica. I glucometri oggi in uso soddisfano tutti i criteri ISO. Nonostante ciò, studi clinici documentano come, quando questi strumenti arrivano nelle mani dei pazienti, l’errore spesso superi il 20%. Molti elementi contribuiscono a tale amplificazione; la conservazione delle strisce, la manualità dell’operatore e infine il coding. L’accuratezza dell’autocontrollo può essere, quindi, ampiamente influenzata da errori di procedura del paziente. Fra gli errori operatore-dipendenti più rilevanti, la mancata o errata calibrazione è senza dubbio il più comune. Più segnalazioni sono disponibili in letteratura che dimostrano come l’errata calibrazione porti a letture glicemiche non accurate fino a influenzare l’azione clinica. La terapia iniettiva insulinica sottocutanea continuativa tramite micropompa (CSII) è una proposta terapeutica che sempre più frequentemente è oggi presentata alle persone con DT1. Se si considerano i risultati dell’ultima survey nazionale sull’argomento, si evidenzia un “rate” di crescita nel numero di soggetti in trattamento con CSII impressionante rispetto all’inizio degli anni 2000. Tutte le pompe oggi disponibili possono, infatti, modulare l’insulinizzazione basale giornaliera abbinandola al meglio con il fabbisogno insulinico dei pazienti nelle differenti fasi giornaliere. Tra le cause che hanno favorito la diffusione di quest’opzione terapeutica si devono citare l’evoluzione tecnica e la grande affidabilità degli strumenti oggi disponibili, con contestuale evoluzione dei set d’infusione. Il monitoraggio continuo della glicemia è oggi possibile attraverso metodiche mini-invasive, ovvero attraverso la misurazione diretta e continua della concentrazione del glucosio presente nei liquidi interstiziali, più specificatamente nei liquidi che bagnano il tessuto adiposo sottocutaneo. Tale approccio, possibile grazie alla disponibilità di sensori del glucosio a forma di ago, è sovrapponibile a quello nel versante ematico. Tali device sono inoltre in grado di fornire dati immediati sulla velocità e sulla direzione di spostamento della glicemia. Infine, questi sistemi consentono di prevedere gli spostamenti dei valori glicemici nei minuti a venire e possono anche allertare il paziente in caso di superamento della soglia d’ipo- o iperglicemia, rendendo così possibile un atteggiamento pro-attivo del paziente stesso, che può immediatamente aggiustare la terapia insulinica o la dieta. Il diabete mellito è un esempio di malattia cronica la cui gestione da tempo è supportata da sistemi telematici utilizzati nell’ambito dello screening delle complicanze croniche e del monitoraggio della glicemia e in ambito educativo. In particolare, nella persona con diabete la telemedicina rappresenta un’importante opzione per la gestione dell’automonitoraggio della glicemia capillare. Sono da tempo in uso diversi sistemi di gestione a distanza delle informazioni derivate dall’autocontrollo e la letteratura offre diversi documenti che testimoniano l’applicabilità clinica di questi sistemi. L’azione dei farmaci utilizzati nel trattamento del DT2 si manifesta principalmente nell’aumentare la sensibilità periferica all’azione dell’insulina, nella stimolazione della secrezione insulinica sia direttamente sia in risposta al glucosio e nella riduzione dell’assorbimento del glucosio a livello intestinale. La scelta dell’agente ipoglicemizzante da utilizzare nel DT2 dovrebbe essere condotta in base alle esigenze mediche del paziente e agli obiettivi del trattamento, alla potenza dell’agente nel raggiungere l’ottimo controllo glicemico, alla tollerabilità e agli effetti collaterali potenziali del farmaco utilizzato, alla facilità di somministrazione, alla convenienza costo-beneficio e alla presenza di eventuali altri effetti benefici extraglicemici. XXXIII Ministero della Salute La terapia insulinica nel DT2 può essere istituita come basale, in cui si utilizzano insuline sintetiche umane o analoghi sintetici modificati dell’insulina umana che hanno un’emivita di quasi 24 ore senza picco d’azione, o soluzioni d’insulina premiscelata in cui si combinano nella stessa siringa un’insulina ad azione rapida (umana) o “ultrarapida” (analoghi modificati dell’insulina umana) con un’insulina ricombinante umana con emivita intermedia. I risultati più importanti nella valutazione del controllo glicemico nel DT1 sono stati ottenuti con lo studio Diabetes Control Complication Trial (DCCT) completato nel 1993 e con il successivo monitoraggio dei pazienti che avevano partecipato allo studio nell’Epidemiology of Diabetes Intervention and Complications (EDIC) study. Da questi risultati è emerso come raccomandazione che il paziente affetto da DT1 deve essere trattato con un regime di terapia intensivo sotto la supervisione di un team specialistico, valutando sempre e comunque il rapporto rischio-beneficio. Nella maggior parte dei pazienti i livelli di controllo della glicemia sono difficilmente raggiungibili senza l’utilizzo di un trattamento d’insulina con multiple iniezioni giornaliere (MIG) combinando l’utilizzo d’insuline ad azione rapida insieme con insuline ad azione lenta. In alternativa, si può utilizzare l’infusione continua sottocutanea d’insulina (ICSI) mediante l’utilizzo di pompe che permettono ai pazienti di modificare la dose d’insulina in funzione dei risultati della glicemia ottenuti con l’automonitoraggio, l’apporto calorico giornaliero con la dieta e l’attività fisica. I primi trapianti di pancreas sono stati eseguiti a metà degli anni Sessanta e da allora oltre 30.000 pazienti diabetici hanno usufruito di tale procedura. La maggior parte dei trapiantati ha ricevuto, oltre al pancreas, proveniente da donatore morto, anche un rene, proveniente da donatore morto o vivente, per la concomitante presenza d’insuffi- XXXIV cienza renale cronica. In questi casi, il trapianto combinato pancreas e rene può così risolvere contemporaneamente il problema metabolico e quello renale e, quindi, riscattare dall’insulino-dipendenza e dalla necessità del trattamento dialitico. In Italia, i primi casi di trapianto di pancreas sono stati segnalati al Centro Nazionale Trapianti nel 1992 e, a oggi, tali trapianti risultano essere oltre 1000, di cui oltre due terzi rappresentati da trapianto combinato pancreas e rene. Dati recenti evidenziano che la sopravvivenza attuale dei pazienti trapiantati di pancreas e rene, pancreas dopo rene e pancreas isolato è, a 15 anni dal trapianto, rispettivamente del 56%, 42% e 59%. Al contempo, nelle suddette categorie di riceventi, l’emivita del pancreas trapiantato è risultata, nell’ordine, di 12, 7 e 9 anni per interventi eseguiti nel periodo 1998-1999. L’effetto del trapianto di pancreas sulle complicanze croniche del diabete non è semplice da definire, essendo il danno vascolare spesso avanzato nei pazienti sottoposti a trapianto. Tuttavia, negli studi con follow-up sufficientemente prolungato è stato osservato che la retinopatia tende a regredire o almeno a stabilizzarsi in una percentuale elevata di casi (fino a oltre l’80%), e comunque più frequentemente rispetto a quanto osservato nei gruppi di controllo. La terapia con steroidi, che fa parte delle strategie antirigetto, può tuttavia accelerare la progressione della cataratta. Le lesioni tipiche della nefropatia diabetica possono regredire a distanza di 5-10 anni dal trapianto di pancreas, mentre la proteinuria si riduce significativamente e in tempi brevi dopo il trapianto. Occorre tuttavia tenere presente che alcuni farmaci immunosoppressori sono nefrotossici e, pertanto, in caso di trapianto di pancreas dopo rene o trapianto isolato la funzione renale deve essere ragionevolmente ben conservata. Anche la neuropatia autonomica e quella periferica possono migliorare dopo trapianto di Sintesi dei contributi pancreas, un effetto che, in caso di trapianto combinato con il rene, sembra comunque dipendere dalla funzione del pancreas. Per quanto riguarda gli effetti sulle complicanze macrovascolari, il trapianto combinato di pancreas e rene è associato a riduzione dell’aterosclerosi coronarica e di quella carotidea, nonché a minore incidenza d’infarto del miocardio ed edema polmonare. Il trapianto di pancreas comporta rischi che sono associati alla procedura chirurgica in sé (soprattutto quando eseguito nei pazienti con insufficienza renale cronica), nonché rischi dovuti all’uso della terapia antirigetto (in particolare infezioni e rischio neoplastico). Tuttavia, grazie al miglioramento delle procedure chirurgiche e ai progressi del trattamento immunosoppressivo, tali rischi appaiono contenuti. Si ritiene che il trapianto combinato di pancreas e rene sia indicato nei pazienti con DT1 e insufficienza renale cronica, in assenza di controindicazioni assolute o relative. 14. Appropriatezza operativa L’organizzazione delle cure alla persona con diabete in Italia è essenzialmente a livello territoriale. Anche quando le equipe diabetologiche operano in ambito ospedaliero offrono assistenza prevalentemente di tipo ambulatoriale o in day-hospital, mentre i ricoveri ordinari sono dedicati a episodi acuti o complicanze della malattia e coinvolgono reparti di tutte le specialità mediche e chirurgiche. A livello territoriale, quindi, ci si trova a operare in una continuità assistenziale da un lato con la medicina generale, in una visione di disease management, e dall’altro in continuità ospedale-territorio con flusso bidirezionale. La prevenzione del diabete e delle malattie metaboliche sulla popolazione generale coinvolge molti più attori rispetto ai soli professionisti della salute. La diffusione dei messaggi educativi su stili di vita salutari riguarda le abitudini, l’educazione e i consumi alimentari, la pratica di attività motoria, l’astensione dal fumo, la lotta all’alcolismo e al consumo di sostanze d’abuso. La prevenzione del DT1 non è al momento realizzabile e rappresenta un argomento di studio e sperimentazione clinica. La prevenzione del DT2 si applica ai soggetti a elevato rischio di sviluppare la malattia sia su base familiare sia su base ambientale (sovralimentazione e riduzione dell’attività fisica). Nel campo delle malattie metaboliche e del diabete in particolare, che negli ultimi anni hanno visto l’affermarsi della genomica, della proteomica e della metabolomica fino a creare sub-specialisti che devono mantenere il contatto con la pratica clinica, ove nuovi protocolli terapeutici e farmaci innovativi rendono necessario un aggiornamento frequente delle Linee guida, il problema della formazione continua si pone con particolare urgenza. Questo processo formativo deve riguardare sia il personale dei centri specialistici (assistenti sanitari e infermieri, dietisti, podologi, ma anche psicologi, esperti di attività fisica), sia la medicina territoriale (medici di medicina generale e pediatri di libera scelta), per garantire quella continuità assistenziale che diviene elemento imprescindibile dell’assistenza sanitaria nelle malattie croniche. Solo una formazione diffusa nei vari gruppi professionali, progettata con riferimento alle competenze necessarie e aggiornata nel tempo, può divenire il cardine di un miglioramento continuo in efficienza ed efficacia. Il disease management e il chronic care model, e i principi di cui questi approcci sono portatori, sono ormai divenuti il quadro logico-concettuale di riferimento per chiunque lavori nel campo della gestione delle patologie croniche. È noto che gli interventi di gestione integrata più efficaci sono proprio quelli che agiscono su tutti i livelli della XXXV Ministero della Salute “storia naturale” della malattia ma, ove un disegno di portata sistemica si rendesse poco fattibile a causa di risorse limitate, sarebbe più utile concentrare gli sforzi di tutti gli attori del sistema sugli snodi ritenuti più critici e più opportuni per il contesto locale. La potenzialità fondamentale dell’approccio al disease management è quella di far convergere le energie dei vari attori del sistema su obiettivi comuni, seppure con responsabilità diversificate, evitando in tal modo una progettualità non concordata e frammentaria, spesso incapace di incidere significativamente sui risultati complessivi del sistema assistenziale. Il disease management, in altri termini, è un approccio sistemico che permette di contestualizzare gli interventi, individuando i target dei pazienti e gli snodi critici della storia naturale di malattia più vicini alle problematiche, ai limiti/potenzialità e alle strategie del sistema locale, sui quali concentrare, raccordandole, le energie di tutti gli attori del sistema. In tale prospettiva, la gestione integrata rappresenta lo strumento del concretizzarsi dell’approccio sistemico integrato proposto dal disease management. Il percorso assistenziale è un metodo innovativo utilizzato per la revisione critica e il ridisegno degli iter assistenziali di specifici target di pazienti. La costruzione di un percorso assistenziale deve basarsi su un metodo che sia in grado di mettere insieme tre diversi focus: organizzativo, clinico e relativo alla presa in carico dei bisogni globali del paziente. Sintetizzando, i percorsi assistenziali rappresentano strumenti utili per il concretizzarsi della gestione integrata e allo stesso tempo risultano indispensabili per costruire un disegno assistenziale adatto alle potenzialità e ai limiti dei contesti locali, permettendo di inserire, nelle diverse tappe, indicatori di verifica specificamente correlati ai contributi dei diversi servizi e delle differenti figure professionali. XXXVI 15. Situazioni particolari L’ipoglicemia (glicemia < 70 mg/dl), specialmente nei pazienti trattati con insulina, rappresenta il principale fattore limitante nella terapia del DT1 e del DT2. Sono definiti tre gradi di ipoglicemia: lieve e moderato, nel quale l’individuo è in grado di autogestire il problema; grave, nel quale l’individuo presenta uno stato di coscienza alterato e necessita dell’aiuto o della cura di terzi per risolvere l’ipoglicemia. Le emergenze o crisi iperglicemiche che si possono manifestare in persone con diabete sono la chetoacidosi diabetica, caratteristica del DT1, e la sindrome iperglicemica iperosmolare, caratteristica del DT2. Entrambe, se non trattate tempestivamente, possono causare la morte del paziente. Benché normalmente considerate come entità distinte, rappresentano in realtà uno spettro continuo di emergenze cliniche causate dal cattivo controllo del diabete. La fase di transizione tra l’infanzia e l’età adulta, che include le variazioni biologiche della pubertà, pone particolari problemi alla persona con DT1 e al “team” di diabetologia pediatrica. Si deve riconoscere che l’assistenza ai teen-ager è molto diversa da quella dei bambini e degli adulti e richiede quindi competenze diverse perché, sebbene nella maggior parte dei casi il giovane abbia raggiunto l’autonomia gestionale, raramente egli ha vera consapevolezza e responsabilità nei confronti della sua malattia. In questa fase è quindi richiesto un lavoro particolare sulla motivazione, che tenga conto delle ambivalenze tipiche dell’età, di una quota di “aggressività” nei confronti dei curanti e di quella parte di sé legata alla malattia. Il passaggio dal centro pediatrico al centro dell’adulto deve essere un processo e non un evento critico e deve essere realizzato costruendo gradualmente, sin dalle prime fasi, con il giovane Sintesi dei contributi stesso un clima di comunicazione e collaborazione aperte e adeguate. Il piede diabetico è una patologia che può svilupparsi nei pazienti affetti da diabete mellito ed è caratterizzata da differenti componenti fisiopatologici (polineuropatia periferica, arteriopatia periferica e infezioni). Questi differenti fattori eziologici possono agire singolarmente o, più frequentemente, coesistere nella fisiopatologia della malattia. L’aumento medio dell’aspettativa di vita nella popolazione generale e in particolare nei pazienti diabetici ha incrementato l’incidenza e la prevalenza delle complicanze croniche con un aumento esponenziale della patologia macrovascolare e delle sue complicanze. Il piede diabetico è la complicanza tardiva del diabete mellito con più rilevante peso sociale ed economico, poiché è causa di lunghi periodi di cure ambulatoriali, di prolungati e ripetuti ricoveri ospedalieri e di amputazioni, essendo il piede diabetico la causa più frequente di amputazione non traumatica degli arti inferiori. Dati epidemiologici indicherebbero che in Italia il diabete è la prima causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori nella popolazione, arrivando al 56% di tutte le cause di patologia, ed è un frequente motivo di ricovero in ospedale per il paziente diabetico a causa dei frequenti fenomeni d’acuzie associati alla patologia. Il diabete pregravidico (tipo 1 e 2) è ancora oggi gravato da un’elevata frequenza di morbilità materna e fetale nonostante il miglioramento, negli ultimi anni, delle tecniche di sorveglianza fetale e di assistenza al neonato e alla madre. Dati di prevalenza nazionali riportano che ogni anno in Italia si hanno circa 40.000 gravidanze complicate da diabete gestazionale e circa 1300 da diabete pregestazionale. La programmazione della gravidanza nelle pazienti con diabete pregestazionale è molto importante per ridurre la frequenza di outcome materno e fetale avverso ma, purtroppo, anche in Italia solo circa il 50% di tali gravidanze è programmato. Tutte le donne con diabete in età fertile devono essere informate sull’importanza di programmare la gravidanza in buon controllo glicemico e di pianificare il concepimento utilizzando metodi contraccettivi efficaci. Nelle pazienti con diabete pregravidico è consigliabile l’autocontrollo domiciliare intensivo della glicemia, con valutazioni sia pre- sia postprandiali e notturne. Nelle stesse va instaurata una terapia insulinica intensiva sottocutanea o con microinfusore (CSII). Per il raggiungimento di tali obiettivi è auspicabile che la paziente venga seguita da un’equipe multidisciplinare (diabetologo, infermiere esperto, dietista e altre figure professionali); sono infine raccomandate valutazioni ambulatoriali mensili. Per quanto attiene al diabete gestazionale (GDM), la terapia medica nutrizionale personalizzata, l’attività fisica e l’autocontrollo glicemico sono i cardini del trattamento. A livello internazionale la prevalenza di diabete negli adulti ospedalizzati è stimata tra il 12% e il 25%. Nel 2000, il 12,4% delle dimissioni negli Stati Uniti era riferito a pazienti con diabete. Della spesa sanitaria correlata a diabete in Italia, oltre il 60% è dovuto a costi diretti, attribuibili all’ospedalizzazione per complicanze acute e croniche. Il diabete in ospedale costituisce una realtà trasversale a tutti i reparti: è presente, infatti, almeno in un paziente su quattro tra i degenti e in un paziente su due/tre in terapia intensiva cardiologica. Il ricovero ospedaliero non è sempre dovuto a eventi metabolici legati alla malattia, ma più frequentemente a eventi acuti che richiedono un ricovero urgente (ictus, infarto miocardico, infezioni, frattura o trauma) o a interventi chirurgici in elezione in persone con diabete, che comportano per sé uno stress metabolico. La presenza di XXXVII Ministero della Salute diabete (noto o di nuova diagnosi) aumenta il rischio di infezioni e complicanze, peggiora la prognosi, allunga la degenza media e determina un incremento significativo dei costi assistenziali. 16. Definizione di standard Per i contenuti del Capitolo si rimanda alla Parte Prima, Capitolo 6. 17. La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa Gli indicatori di processo e di risultato intermedio, per il loro numero elevato e per le difficoltà di estrazione dei dati dalle cartelle cliniche/schede ambulatoriali, dovrebbero essere intesi come una check list per mezzo della quale il medico possa analizzare i suoi processi di cura e i risultati che ne conseguono e allinearli alle Linee guida condivise: si tratta di uno strumento di analisi e d’indirizzo che si svolge in tempo reale, cioè mentre avviene il processo di cura, ed è volto a misurare e a migliorare la performance. Gli indicatori di esito hanno un’utilità probabilmente marginale in un’ottica di autovalutazione: infatti, l’esiguità delle singole casistiche non consente di raggiungere un numero di eventi adeguato e la stretta dipendenza dell’outcome dal case mix ne impedisce un utilizzo appropriato per attività di benchmarking. L’individuazione di un minimum data set costituisce, invece, il vero strumento affidato ai professionisti per misurare la loro performance e va applicato a una percentuale più significativa di soggetti; in questo caso lo strumento analizza e misura retrospettivamente ciò che è stato fatto e ottenuto relativamente agli aspetti essenziali di una specifica condizione clinica: la misura di ciò XXXVIII che è stato fatto, cioè della performance, costituisce l’elemento essenziale e critico da cui partire per migliorare la qualità dei processi di cura. 18. Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni La produzione di Linee guida e/o Raccomandazioni di pratica clinica tese al raggiungimento di obiettivi di salute rappresenta un momento molto importante nella costruzione dei principi del Governo Clinico, ma rischia di restare un mero esercizio accademico se non è accompagnata da una programmazione pragmatica relativa all’organizzazione dei servizi deputati a erogare quelle prestazioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi posti. È quindi necessario tentare di disegnare un quadro organizzativo di riferimento, con precisi riferimenti pratici per realizzare setting idonei all’applicazione delle Raccomandazioni espresse e alla rilevazione degli indicatori di esito che consentiranno di monitorare l’efficacia e la qualità delle prestazioni rese. Il quadro di riferimento di principio è quello che permette di applicare sulla più vasta scala possibile il modello di assistenza delle malattie croniche (chronic care model), che, ove applicato, sembra promettere i migliori e più duraturi risultati sia relativamente agli obiettivi di salute sia a quelli economici. La comunità scientifica è oggi in grado di fornire ai cittadini e agli operatori sanitari una serie di Raccomandazioni basate su forti evidenze; l’implementazione di queste Raccomandazioni nella pratica clinica è certamente in grado di fornire al cittadino affetto da diabete un notevole valore aggiunto in termini di spettanza e soprattutto di qualità di vita. È tuttavia necessario, per poter applicare con buon Sintesi dei contributi successo quanto stabilito dalla ricerca scientifica, modificare in parte il sistema organizzativo sanitario, per avviarsi sulla strada della corresponsabilizzazione informata dei cittadini e fornire loro i più adeguati percorsi clinici relativi alla patologia da cui sono affetti. 19. Il ruolo delle Associazioni Il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in progress) ripropone ulteriore attenzione nei confronti del ruolo delle Associazioni dei pazienti, enfatizzando la necessità: • della promozione del ruolo del cittadino e delle Associazioni nella gestione e nel controllo delle prestazioni del SSN; • della partecipazione sostenibile dei pazienti e delle loro Associazioni negli organismi e nei processi decisionali; • del coinvolgimento dei familiari e delle Associazioni di Volontariato nei percorsi sanitari. Tali necessità sono elementi essenziali per sviluppare l’empowerment del paziente e il grado di soddisfazione nei confronti dei servizi erogati e per consentire al Volontariato di effettuare interventi non parcellizzati, ma sinergici e coordinati con i vari nodi del sistema e con le attività delle istituzioni. XXXIX Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Abstract PART ONE 1. Definition of obesity Obesity occurs due to an unbalance between calorie intake (from food) and energy expenditure (resulting from basal metabolism, physical exercise and thermogenesis), leading to a build-up of excess calories in the form of triglycerides in adipose tissue deposits. The degree of obesity, i.e. excess fat, is commonly expressed using the body mass index (BMI), which is calculated by dividing body weight, expressed in kg, by height, expressed in square meters. BMI = kg/m2. According to the WHO, an individual is of a normal weight if he/she has a BMI < 25 kg/m2, is overweight if BMI ≥ 25 kg/m2 and is obese if BMI ≥ 30 kg/m2. The limitation of BMI as a measurement is that it does not provide any effective information about the subject’s actual body composition, since it makes no distinction between body fat or lean body mass (for instance, despite having very little body fat, a weightlifter would be considered obese), nor does it provide information on the distribution of body fat. The diagnosis of being overweight or obese established using the BMI therefore needs to be complemented by the use of direct indicators of adipose deposits and the distribution of body fat that allow a more straightforward clinical classification of obesity and fundamental descriptive classification in order to identify those subjects at the greatest risk of morbidity. One of the most commonly used measurements is waist circumference, which gives an indication of how body fat is distributed and of the possible related metabolic complications. XL 2. The current situation According to WHO forecasts, by 2015, there will be about 2.3 billion overweight adults and over 700 million obese adults worldwide. Originally considered a problem facing rich countries alone, obesity and overweightness are currently growing dramatically also in poorer countries, particularly in urban areas, and have come to be recognized as significant public health problems. The WHO has rightly defined obesity as the epidemic of the 21st century. In its “Report on Health in Europe 2002”, the WHO’s Regional Office for Europe defined obesity as “an epidemic affecting the whole of Europe”, to the extent that about half the adult population is overweight and, in many countries, 20-30% of individuals can be defined as clinically obese. The situation is particularly worrying because of the high morbidity related to this condition, particularly that of a cardiovascular nature, as well as type 2 diabetes, which is usually preceded by the various components of metabolic syndrome (arterial hypertension and atherogenic dyslipidemia) with progressive atherosclerosis and increased risk of cardio- and cerebrovascular events. In the WHO European Region, the prevalence of obesity has tripled over the past twenty years. Overweightness and obesity are responsible for 80% of type 2 diabetes, 35% of ischemic heart disease and 55% of hypertensive diseases amongst Europe’s adult population. Poor but rapidly evolving countries are experiencing a fast increase in obesity, whereas the more advanced countries, where the difference in income between rich and poor is greatest, usually have the highest absolute levels of obesity. In 2009, 11.1% of Italian men and 9.2% of Italian women were obese. The percentage of obese subjects is highest in the south of the country and Abstract the islands (11.1%). The rates for the northern and central parts of the country are practically identical (9.7% and 9.6%, respectively). Prevalence amongst adults increases with age up to the 65-74 year bracket, in which peak values are found (15.6%), and subsequently decreases. Overweightness and obesity primarily affect socially disadvantaged categories, which have the lowest income and poorest schooling, as well as the greatest difficulties in accessing treatment. Obesity therefore reflects and accompanies inequality, favoring the onset of an authentic vicious circle. Infantile obesity is one of the most pressing issues of the 21st century. Prevalence has reached alarming levels: according to the WHO, in 2005 a staggering 20 million children under 5 years of age were overweight worldwide. The problem is a global one: it has been estimated that in 2010, more than 42 million children under 5 years of age were overweight and of these, almost 35 million live in developing countries. The severity of the spread of infantile obesity lies in the fact that obese children are likely to become obese adults. Obesity is a risk factor for many serious conditions and chronic diseases. It accounts for 2-8% of spending on healthcare and 10-13% of deaths in various parts of the WHO European Region in which, every year excess weight causes more than 1 million deaths and the loss of 12 million DALY (disability-adjusted life years). Obesity also takes a hefty toll on economic and social development. Obesity prevention programs run by the Italian Ministry of Health follow various directions, including cooperating with the WHO European Region to define a strategy to fight chronic diseases called Gaining Health; cooperating with the WHO to devise a European strategy to fight obesity; the European indications issued by the EPSCO Council in 2006; the Piano Sanitario Nazionale [National Health Plan] 2006-2008; the Piano di Prevenzione [Prevention Plan] 20102012; and the development and coordination of the “Guadagnare Salute” [Gaining Health] Interministerial program based on the identification of correctable risk factors (diet, smoking, alcohol consumption, lack of exercise) and the main causes of common health complaints. 3. Clinical appropriateness Accurate history taking is the most delicate part of a procedure that, if it is not performed in a complete and adequate manner, can prejudice therapeutic decisions and ultimately vanquish investments in treatments. The family history must fully investigate the presence of obesity, type 2 diabetes, arterial hypertension and hyperlipoproteinemia in 1st degree relatives (and in some cases also 2nd degree relatives, where possible). Dietary history taking must be very thorough, to evaluate both current and previous eating habits. When taking the patient’s pathological history, it is important to assess the presence of anxiety, depression and other mental illnesses correctly. In the clinical assessment of patients with obesity, the most simple, scientifically correct and practical way to quantitatively evaluate excess weight is the calculation of the patient’s BMI. However, BMI calculation should be complemented by measuring the waist circumference, which is directly related to the presence of abdominal fat, and the hip circumference. Evaluation of the patient’s body composition by bioelectrical impedance analysis (BIA) is undoubtedly useful in the assessment and follow-up of the obese patient. In addition to due attention to cardiovascular diseases, it is important to thoroughly investigate other conditions related to lower degrees of inflammation and endocrine diseases, also with hor- XLI Ministero della Salute monal and/or instrumental investigations: thyroid and adrenal gland disorders, insulin-resistance or dysglycemia. With regard to diet, when dealing with obesity, it is essential not to talk merely in terms of a low calorie diet, but rather of a correct lifestyle. Lifestyle is a set of habits that can be altered throughout an individual’s life and, according to the WHO’s 2002 report, in addition to a healthy, varied diet, it should also include regular exercise, moderate alcohol consumption and no smoking or substance abuse. Permanent lifestyle change can be achieved using cognitive and behavioral techniques that help the patient to make the decisions he/she faces every day, thus promoting their resolve to continue the program undertaken, whilst trying to establish a relationship between the feelings that precede, accompany and follow eating and physical exercise with the performance quality that the patient aims to achieve. 4. Structural and technological appropriateness A healthcare model suited to the characteristics of the obese patient necessarily involves highly specialized centers that cooperate closely with other community medicine facilities, general practitioners, primary care pediatricians and local hospital facilities that request consultations. For obesity treatment to be effective, in terms of both results and maintenance, medical intervention must be accompanied by educational initiatives that allow the subject to understand the causes of the problem and to make the necessary changes to daily life to achieve the targets set. On an institutional level in Italy, healthcare technology assessment (HTA) received an explicit mention in the Piano Sanitario Nazionale 20062008: “Healthcare technology assessment, in- XLII tended as a set of methods and tools that support decisions, focuses on different levels of decisionmaking in relation to differentiated operational models aimed at lending support to: • healthcare policy decisions; • “managerial” decisions concerning hospital investments in new technologies and the promotion of an appropriate use of the same technologies through the drafting of protocols; • clinical decisions, for the distribution of “governance models” identified by central facilities to be adopted on an organizational level, such as the definition and distribution of qualitative and quantitative standards. Ultimately, the novelty of HTA is linked to two main aspects: the multidimensionality of assessment and its systematic nature. As far as the technologies for the prevention and follow-up of obesity-related complications is concerned, this chapter lists a number of diagnostic aids for measuring body composition, with the description of full-body BIA, DEXA (dual-energy x-ray absorptiometry) and CT scanning of the lumbar spine. It also deals with the importance of assessing energy expenditure, comorbidity and cardiopulmonary function. The primary purpose of obesity treatment should be to achieve and maintain weight loss in order to reduce the risk of complications. Although the treatments currently approved for obesity, and some of the treatments being developed, do lead to weight loss and therefore potentially represent tools for preventing the complications of obesity, they are nevertheless limited by the fact that they only allow modest weight loss over time and that they are followed, when treatment is discontinued, by rapid weight gain. The surgical treatment of obesity usually consists in altering the anatomy of the digestive tract. This acts by means of two mechanisms: a) mechanical Abstract and restrictive mechanisms that facilitate a reduction in the amount of food eaten and therefore make it easier to follow a low-calorie diet and b) metabolic and absorption mechanisms that, more or less selectively, alter the digestion and absorption of food, particularly fatty foods, to reduce calorie intake. Laparoscopy is the technique of choice and the gold standard in terms of patient compliance, the procedure also has a lower complication rate related to the less-invasive surgical incision/access. Early mobilization and a faster functional recovery are great advantages in these high risk patients. 5. Operative appropriateness In Italy, the concept of “dedicated care” for very obese patients in specialized centers organized into networks has never been introduced into national or regional legislation, remaining relegated to Guidelines in some Regions for the definition of the pathways of care for this kind of patient. The hub and spoke model put forward for the management of chronic conditions of special healthcare and economic interest, involves the concentration of tailored care,, in centers of excellence (hub) and the referral of patients to peripheral centers (spokes), for the continuation/integration of their treatment/rehabilitation program. Networks created using this approach aim to guarantee a coordinated action of intervention, thus assuring patients optimum healthcare in the best suited facility in terms of clinical and organizational appropriateness. With regard to training, it is essential for GPs to be correctly informed of all the diagnostic and therapeutic aspects related to obesity, but also in concert, to be able to count on highly specialized centers for patient referral. Moreover, the training of surgeons who regularly treat obese patients must not merely include continuing updates on surgical techniques and tools, but also dedicate greater attention to the concept of chronicity, incorporating a chain of medical procedures that will accompany the patient for the rest of his/her life. The prevention of obesity is based on school education during the developmental age, including education on health, exercise and diet. It is the school’s responsibility to give technically-correct messages, including using innovative teaching aids that are able to stimulate the students’ imagination and imitation skills. It should be pointed out that regular physical exercise causes a change in body composition, with an increase in muscle mass and therefore lean, metabolically active mass, which is associated with an increase in resting energy expenditure. There can be no doubt that it is not just a particular diet that reduces risk factors in the long-term, rather lifestyle as a whole, intended as a way of behaving that suits the subject’s condition. The particular characteristics of morbid obesity as a chronic disease, its comorbidities and consequential disabilities that negatively impact both quality of life and health expenditure. This calls for an approach that also involves rehabilitation and not just treatment alone. It is therefore important to devise and develop pathways of care based on a multidisciplinary approach that not only deal with the weight issue over a longer period, but, above all, prevent and treat its complications. Regional obesity prevention, diagnosis and treatment networks are structured into various levels including both community and hospital facilities. 6. Indicators and standards: definitions and types An indicator is a piece of quantitative or qualitative information that is numerical and therefore “measurable”, that provides feedback on the level of suc- XLIII Ministero della Salute cess obtained by working on critical factors and provides an efficacious picture of the achievement of strategies and objectives. One of the main aims of the EU health program (2008-2013) is the provision of comparable information on the health of Europe’s citizens by developing healthcare indicators and collecting data. The information to be collected observes the way the population behaves in relation to health (data on lifestyle and other health determinants), diseases (the incidence of severe, rare and chronic diseases and how they can be monitored) and healthcare systems (information on access to services and the quality of care provided, data on human resources and the financial capacity of our healthcare systems). Data collection is based on comparable health indicators that can be applied across Europe and on common definitions and methods of collection and use. Indicators express an evaluation of a situation that if correctly measured and processed, can be broken down into two macro-categories: synthetic and analytical. Indicators must be processed primarily using elementary data and must possess certain characteristics related to the accessibility of the data: reliability in the measurement of a situation, comprehensibility, sustainable cost, and absence of ambiguity. By definition, an indicator only describes one aspect of a complex process that can rarely be condensed into a single measurement. The choice of indicator is therefore important, above all in terms of its ability to rate a process, suggesting a review and improvement in the quality of that same process. 7. Evaluation of process and outcome indicators concerning obesity to confirm the validity of the operative proposal Unlike other chronic diseases, little attention in scientific literature on obesity has been dedicated to the issue of outcome and, above all, process XLIV indicators. This is undoubtedly due to the fact that it was only in relatively recent times that besity was categorized as a chronic disease, which is associated with an increase in the morbidity and mortality in the general population, and one of the main causes of disability and spending on healthcare. On the other hand, the relatively poor efficacy of the treatments available compared to that achieved for other chronic illnesses and the relatively recent advent of more effective therapies, such as bariatric or weight loss surgery and multidisciplinary rehabilitation, make the field of obesity therapy one that is still largely experimental and lacking in well-defined guidelines. When dealing with this topic, the issue of process and outcome indicators has been considered according to the different levels within the healthcare setting in which the management of the obese patient takes place. 8. Identification of strategies for the implementation of recommendations The explosion of the obesity epidemic and its economic, social and health-related repercussions call for effective counter measures based on an interaction between all the various players (institutions, expert panels, representatives of civil society and the private sector) with a role to play in the prevention and treatment of this condition. All industrialized countries have adopted Guidelines for the prevention, diagnosis and treatment of obesity. These guidelines, based on the latest scientific evidence, identify the most effective measures for dealing with the condition and develop initiatives aimed at preventing obesity in the general population and at treating individuals who are overweight or obese. To achieve these targets it is essential to implement strategies that facilitate healthy behavior in terms Abstract of both diet and the promotion of physical exercise. This is only possible if we are fully aware that obesity is not the problem or responsibility of a single individual, rather a social issue, and that healthy choices can be directed through appropriate economic, farming, town planning and transport policy. The implementation of the initiatives detailed in the guidelines is essential to distributing, applying and monitoring their efficacy. This process consists of introducing the Guidelines into current practice using appropriate intervention strategies that aim to encourage their use and to remove the factors that hinder change. metabolic alterations may or may not be associated with a defect in the way the insulin acts in the target tissues, primarily in the liver, skeletal muscular fibers, adipose tissue and vascular cells. Insufficient insulin activity can be caused by inadequate insulin secretion and/or a reduced peripheral response to the action of insulin at one or more points in the complex cell transmission pathway. The most common forms of diabetes, which account for almost all cases of the disease, fall into three main categories: type 1 diabetes (type 1 DM), type 2 diabetes (type 2 DM) and gestational diabetes. 10. The current situation PART TWO 9. Classification and definition of diabetes mellitus Diabetes mellitus, commonly known as diabetes, is a group of metabolic diseases in which the main defect is an increase in blood glucose levels (hyperglycemia). Diabetes can be caused by an absolute deficiency of insulin secretion or a reduced response to insulin in the target organs (insulin resistance) or a combination of both. The chronic hyperglycemia of diabetes is associated with long-term organ damage (chronic complications) leading to the dysfunction and failure of various organs such as the eyes, kidneys, autonomous, peripheral and central nervous systems, heart and blood vessels. The processes that lead to the development of diabetes range from the autoimmune destruction of pancreatic beta cells and consequent insulin deficiency, to defects caused by increased insulin resistance in the peripheral tissues. The basic alterations in the metabolism of carbohydrates, fatty acids and proteins are caused by a deficiency in the secretion of insulin in response to glucose. These We are currently experiencing a global diabetes epidemic, with a prevalence that will reach a peak of 6.3% in 2025, involving 333 million people worldwide. The WHO has consequently classified diabetes amongst the chronic diseases warranting the highest investments for prevention, considering the growing importance the condition has taken on in developing countries and the possibility of implementing effective and affordable measures of prevention. The risk of developing type 2 DM depends largely on age, obesity, family history and ethnic origin. In Italy, the increase in mean life expectancy and change in lifestyle (lack of exercise, obesity) are to a great extent responsible for the expected increase in the prevalence of type 2 DM. The temporal increase in the prevalence of type 2 DM has a number of causes: increased incidence of the disease, earlier age of onset and diagnosis, increased patient survival and, above all, the ageing of the general population. This last factor is most likely that of greatest impact in industrialized countries. In Italy, for 2009, Istat estimated a prevalence of diagnosed diabetes of 4.8%. The XLV Ministero della Salute prevalence of diabetes increases with age up to 18.9% in people aged 75 or over. Prevalence is highest in southern Italy and the islands, with a value of 5.5%, followed by Central Italy with 4.9% and the North with 4.2%. There are currently at least three million diabetic people in Italy, to which we can add an estimated further one million who are unaware that they have diabetes. Social inequality greatly affects the risk of diabetes: the prevalence of the disease is higher in women and the lower social classes, an effect that can be observed in all age brackets. Italian data on the incidence of the disease is very limited. The main methodological problem is the incompleteness of epidemiological data for the adult population, whereas in the pediatric age almost all diabetics are followed regularly by diabetes centers from the time of diagnosis. To this we can add diagnostic difficulties connected with the need to perform the oral glucose tolerance test in order to estimate the number of cases of asymptomatic diabetes in the population. Type 1 DM is one of the most frequent chronic diseases of childhood and its incidence is on the increase. A survey conducted by the International Diabetes Federation calculated that the incidence of type 1 DM worldwide is about 65,000 new cases/year. Type 1 DM, although less frequent than type 2 (1 case every 10 diabetics), has a high social impact, as it affects young subjects. The incidence is between 6 and 10 cases per 100,000 per year in the 0 to 14 years age bracket, and the incidence of cases between 15 to 29 years is estimated at 6.72 cases per 100,000, with significant geographical differences. The diabetes epidemic also has considerable economic repercussions. In Italy, diabetics are currently responsible for health resource consumption 2.5 times that of non-diabetics of the same age and sex. Each year in Italy there are more than XLVI 70,000 hospital admissions for diabetes, most of which are due to complications such as stroke and myocardial infarction, diabetic retinopathy, renal insufficiency and lower limb amputation. As far as medicinal products are concerned, costs are primarily attributable to the treatment of cardiovascular complications. In any case, all categories of medicinal product are used to a greater extent by diabetics than non-diabetics, demonstrating the condition’s multiorgan involvement. The cost of treatment for complications is also particularly high. In 2010, diabetes was responsible for 10-15% of all healthcare costs in Italy. The social cost of diabetes therefore looks set to become increasingly difficult for the community to support, in the absence of efficacious prevention. The main specific international strategies on diabetes are: the indications defined on a European level by the EPSCO Council in June 2006; the contents of the UN Resolution of December 2006; the conclusions of the New York Forum held in March 2007 and the work of the European Commission on “Information to patient”, which highlights the need to develop national policies for the prevention, treatment and care of diabetes. The Italian Ministry of Health’s commitment over the past few years has focused on updating and innovating the contents of specific regulations on diabetes, identifying strategies that require operative rules based on extensive dialogue and cooperation between the main players involved in providing diabetes care and effective interaction between the Regional Authorities, professional associations, voluntary associations and public and private institutions. We can still consider current and applicable the general aims identified by Law no. 115 of 1987, the Deed of Intents drafted in 1991 and the aims of the 2006-2008 National Healthcare Plan which puts diabetes amongst the four most important medical conditions, alongside respiratory and car- Abstract diovascular diseases and cancer. This highlights the importance of a reorganization of the primary care system and an integration between the different levels of healthcare, at the same time promoting the role of the citizen and community in the choices and management of the Italian NHS. In addition to the indications issued by the WHO and the Saint Vincent Declaration, which place the emphasis on the development of a national diabetes program and on the importance of intervention by the state and public administration to guarantee the prevention and treatment of diabetes, national strategies cannot overlook the European recommendations. The diabetes prevention programs implemented in Italy follow various directions, including cooperating with the WHO European Region in the definition of a strategy aimed at preventing chronic diseases (Gaining Health); cooperating in the construction of a European strategy to fight obesity; the organization, through the CCM network in conjunction with the Istituto Superiore di Sanità [National Institute for Health], of the IGEA (Integration, Management and Caregiving for diabetes) project; the development and coordination of the “Gaining Health” Program and Italy’s participation in the definition of the European indications on diabetes issued by the EPSCO Council in 2006. In 2004, the Ministry of Health introduced the complications of diabetes amongst its areas of priority intervention. The Piano di Prevenzione Attiva [Active Prevention Plan] considered the prevention of diabetes complications implemented by the adoption of strategy programs for chronic disease management. 11. Clinical appropriateness The diagnostic appropriateness of diabetes is based on the correct use of the criteria that have been developed over the years and were recently further defined. Fasting glycemia or oral glucose tolerance test (OGTT) measurement and the glycosylated hemoglobin (HbA1c) test make it possible to identify subjects at risk of diabetes and cardiovascular diseases. Fasting glycemia, OGTT and HbA1c testing are currently considered equally useful for diagnosing diabetes, despite the differences between these assays. However, overall the HbA1c test is considered to be the most reliable for a number of reasons. It is an expression of mean glycemia over a longer period (2-3 months), rather than at a single moment in time. From an operative point of view, the HbA1c test should be performed at least twice a year for each diabetic patient, even when regular glycemia monitoring is performed, to achieve the treatment objective. A number of studies have clearly shown that the prevention of the development (or at least a slower progression) of the chronic complications of diabetes requires the early introduction of a suitable therapeutic strategy aimed at controlling numerous risk factors which in turn has a positive effect on patients’ life expectancy. These factors are represented, in particular, by age, sex, familiarity for coronary artery disease or sudden death, duration of diabetes, glycemic control, physical exercise, smoking, body weight and distribution of body fat, arterial pressure, plasma lipid levels and microalbuminuria. To make a positive impact on the prognosis for diabetic patients, targets must be set. It is no coincidence that in interventional studies in which the many risk factors for vascular disease were dealt with simultaneously, remarkable reductions were achieved in both cardiovascular events and mortality. Of the various therapeutic tools available, a key role is played by therapeutic education, i.e. a set of educational initiatives aimed at specific subject categories, involving the transfer of knowledge XLVII Ministero della Salute and training to acquire skills and promote behavioral changes. In diabetic subjects, therapeutic education aims to improve the efficacy of treatment through the active and responsible participation of the diabetic person in the treatment program. Improving not merely lifestyles, but also personal skills in performing the activities supporting treatment and the choices of change in the treatment plan improves the efficacy of care and the psychophysical wellbeing of the diabetic person. The Italian standards for diabetes mellitus care, drawn up by the two Italian scientific societies that deal with diabetes (AMD and SID), aim to provide suggestions for the diagnosis and treatment of diabetes and its complications and for the achievement of the treatment targets on which the diagnostic and therapeutic choices are based. Additionally, the AMD and SID provide indications on the instruments required to evaluate the quality of care, for the Italian system. 12. Structural appropriateness The tasks allocated to primary care physicians in the management of diabetic patients in a number of consensus documents and guidelines call for an evolution of the care and organizational model applied in the general medicine field. This requirement, which applies for all of the most common chronic conditions, has been highlighted in scientific literature for several years. In the management of chronic diseases (particularly diabetes), the primary care physician can no longer work through separate, uncoordinated initiatives, but needs a tool to helpverify the appropriateness and quality of the care provided (to promote an ongoing improvement in performance). This is made possible by the clinical information system, by means of the data recorded in the electronic medical chart, which is transformed XLVIII first into process and outcome indicators and then into legible information. Italy boasts an unparalleled network of specialist facilities that has been the focus of studies and appraisal by international organizations. The network of diabetology services provides specialist care that covers many aspects of disease management. This network, is particularly effective in northern and central Italy, allowing it to serve almost all diagnosed diabetics. This organization can in part explain the better care results in Italy than in other countries, as measured by various epidemiological surveys. The identity of Italian diabetology is closely connected to this network of services that over time has made a contribution to attracting to the issue students, those who are about to graduate and new graduates, keeping alive the attention for a medical question with a very high economic and social importance. Over time, Italian diabetology has undergone an historical and cultural transformation that has taken it from a discipline concerned with the treatment of the acute and subacute phases of the disease to a discipline whose main focus lies in the prevention of subsequent complications. In recent years, a great deal of attention has been dedicated to the matter of the quality of services and procedures. The hospitalization of a diabetic patient, regardless of the causal condition, can represent an opportunity to assess the efficacy of treatment and, where necessary, improve metabolic imbalances. The staging of chronic complications should also be verified during hospitalization. Appropriate and correct integration with the diabetologist, through referral for consultation, is therefore required. Upon discharge of a patient requiring home blood glucose monitoring, it is essential to provide therapeutic education on how to use devices, which should then be continued by the primary care physician and diabetology service. Abstract Approximately one in four people living in residential facilities has diabetes. Consequently, it is essential to guarantee care that suits patients’ needs and that is not inferior to that provided to other patients, in line with care standards. Medical staff must therefore receive specific training on metabolic and clinical monitoring procedures, and the therapeutic tools available for the treatment of diabetes. Elderly patients often have comorbidities and are therefore frequently exposed to an inadequate or inappropriate use of diabetes medications, with consequent hypoglycemia, which represents an important cause of emergency hospital admissions. 13. Technological appropriateness Self-monitoring of blood glucose at home is an essential part of diabetes mellitus treatment, with different approaches to suit the clinical characteristics of the disease that is subject to medical prescription and governed by applicable regulations. Regulations emphasize the right to a shared choice of treatments between patient and physician. Technological innovation increases and diversifies the characteristics and features of the instruments used and calls for a thorough evaluation of their appropriateness and usefulness. This very important aspect is evaluated by means of various, more or less restrictive, criteria and it is essential to remember that accuracy should also be assessed in direct use by patients. The key factor for an accurate determination of glycemia concentration is to convert glucose concentration into a specific signal that can be measured accurately. For this reason, the measurement techniques currently used are colorimetric (reflectometer) or electrochemical (potentiometer). In this context, despite the importance of technological factors, particularly the device’s acceptabil- ity, for the diabetologist and patient the most important aspect remains the accuracy of the information obtained on blood glucose concentration. All validated glucose meters in current use satisfy ISO criteria. Despite this, clinical studies have shown that, when these instruments are used by patients, the error rate is often over 20%. Various factors contribute to this amplification: such as the way the strips are stored, the operator’s dexterity and, last but not least, calibration. The accuracy of self-monitoring can therefore be greatly affected by procedural errorsintroduced by the patient. Of the main operator-dependent errors, lacking or incorrect calibration is undoubtedly the most common. Scientific literature provides several reports of how incorrect calibration can lead to incorrect blood glucose measurements that may influence clinical action. Continuous subcutaneous insulin infusion (CSII) using a microinfusion pump is an increasingly common method used to treat patients with type 1 diabetes. If we consider the results of the last national survey on the subject, the increase in the number of patients treated with CSII since the early 2000s is remarkable. All the pumps currently available are able to adjust daily basal insulin administration to optimally match the insulin requirements of patients at different times of the day. Of the causes that have favored the adoption of this therapeutic option we cannot overlook the technical evolution and great reliability of the tools that are now available, with a simultaneous evolution of the infusion sets. Continuous blood glucose monitoring is now possible using minimally-invasive techniques, i.e. direct, continuous monitoring of the glucose concentration present in the interstitial fluids, most specifically those that interface the subcutaneous adipose tissue. This approach, made possible by the availability of needle-shaped glucose sensors, XLIX Ministero della Salute is similar to that using blood. These devices also provide immediate data on the speed and direction of the response shift. Lastly, these systems make it possible to predict glycemia value shifts in the moments that follow and can alert patients if they pass the hypo- or hyperglycemia thresholds, allowing them to take a pro-active attitude and adjust their insulin therapy or diet. Diabetes mellitus is an example of a chronic disease whose management has long since been supported by telematic systems used in the screening of chronic complications, blood glucose monitoring and for educational purposes. Specifically, for diabetic patients, telemedicine is an important option for the management of self-monitoring of capillary blood glucose. For some time now, remote systems have been used to manage the information obtained by self-monitoring and many contributions in scientific literature confirm the clinical usefulness of these systems. The action of the medicinal products used to treat type 2 DM consists primarily in increasing peripheral sensitivity to the action of insulin, in stimulating the secretion of insulin both directly and in response to glucose and in reducing the intestinal absorption of glucose. The choice of glycemia-lowering agents to be used to treat type 2 patients depends on the patient’s individual medical requirements and treatment targets, the agent’s potency in achieving optimal glycemia control, tolerability and the potential side effects of the medication used, ease of administration, cost-benefit considerations and the presence of other extra-glycemic effects. Insulin therapy in type 2 DM can be established as basal, using synthetic human insulin or synthetic modified human insulin analogues with a half-life of almost 24 hours without action peaks or ready-mixed insulin solutions that combine, in the same syringe, fast-acting (human) insulin L or ultrarapid modified human insulin analogues, and a recombinant human insulin with an intermediate half-life. The most important results concerning the assessment of blood glucose control in type 1 DM patients was achieved with “The Diabetes Control Complication Trial” (DCCT), which was completed in 1993 and with the subsequent monitoring of the patients who took part in the study in the Epidemiology of Diabetes Intervention and Complications (EDIC) study. These results suggested that patients with type 1 DM should be treated with an intensive therapy regimen under the supervision of a specialist team, evaluating in all cases the risk-benefit ratio. In most patients, blood glucose control is difficult to achieve without using multiple daily injections combining the action of fast- and slow-acting insulin. Alternatively, continuous subcutaneous insulin infusion (CSII) using an infusion pump allows patients to adjust the dose of insulin according to the results of glycemia obtained by self-monitoring, daily dietary calorie intake and exercise. The first pancreas transplants were performed in the mid-1960s and since then over 30,000 diabetic patients have undergone the procedure. Most transplant patients, in addition to a pancreas from a deceased donor, also receive a kidney from a deceased or a live donor due to the presence of concomitant chronic renal insufficiency. In these cases, combined pancreas and kidney transplantation can simultaneously resolve both the metabolic problem and the renal one, thus freeing the patient from insulin dependence and the need for dialysis. In Italy, the first pancreas transplants were reported to the Centro Nazionale Trapianti [National Transplant Center] in 1992 and since then over 1000 transplants of this kind have been performed, of which over two thirds were combined pancreas and renal transplants. Recent data Abstract show that the 15-year survival rates post-transplantation for combined pancreas and kidney, pancreas after kidney and simple pancreas transplantations were 56%, 42% and 59%, respectively. In parallel, in the same recipient categories, the half-life of the transplanted pancreas has been established, in order, as 12, 7 and 9 years for these procedures performed in the period 1998-1999. The effect of pancreas transplantation on the chronic complications of diabetes is not easy to define, as vascular damage is often in an advanced stage in transplant patients. However, studies with a suitably long follow-up have shown that posttransplantation, retinopathy tends to regress or at least stabilize in a high percentage of cases (over 80%, according to some sources), than that observed in control groups. However the steroid therapy, which forms part of the anti-rejection strategy, can accelerate the progression of the cataract. The lesions typical of diabetic nephropathy can regress even 5-10 years after a pancreas transplant, whereas proteinuria drops significantly soon after the procedure. It must also be remembered that certain immunosuppressants are nephrotoxic and therefore, in the event of kidney then pancreas or isolated transplantation, renal function must be reasonably well preserved. Autonomic and peripheral neuropathy can improve after a pancreas transplant, an effect that, in the case of combined pancreas-renal transplantation, would appear to depend on pancreas function. As far as the effects on macrovascular complications are concerned, combined pancreas and kidney transplants are associated with a reduction in coronary or carotid atherosclerosis and a lower incidence of myocardial infarction and pulmonary edema. Pancreas transplantation entails risks associated with the surgical procedure itself (especially when performed in patients with chronic renal insufficiency) as well as risks due to the use of antirejection therapy (particularly infections and tumors). In any case, thanks to the improvements in surgical techniques and the progress made by immunosuppressant treatment, these risks are now limited. Combined pancreas and kidney transplantation is considered to be indicated in patients with type 1 DM and chronic renal insufficiency, in the absence of absolute or relative contraindications. 14. Operative appropriateness The management of diabetic patients in Italy is essentially organized on a community level. Even when diabetology teams work in hospitals, most of the care they provide is on an outpatient or day hospital basis, whereas ordinary hospitalization is used for acute episodes or complications of the disease and involves all medical and surgical speciality units. Community level diabetology treatment is therefore provided as part of a broader care setting that on the one hand interacts with general medicine, in a vision of overall disease management and, on the other, as part of a twoway hospital-to-community flow. The prevention of diabetes and metabolic diseases in the general population involves a number of professional figures in addition to physicians. A key role of these professionals is to assist in the distribution of educational messages to promote healthy lifestyles and habits, the importance of education and correct diet and appropriate physical exercise, smoking cessation, and the fight against alcoholism and substance abuse. Type 1 DM cannot currently be prevented, an issue that forms a subject for studies and clinical trial. The prevention of type 2 DM applies to subjects at a high risk of developing the disease for both family history and environmental reasons such as overeating and lack of exercise. In the field of metabolic diseases and diabetes in LI Ministero della Salute particular, which in recent years has seen the introduction of genomics, proteomics and metabolomics and the advent of new therapy protocols and innovative medications calling for a frequent updating of guidelines, the continuing education issue is particularly urgent. This training process must involve both the staff working in specialized centers (health workers and nurses, dieticians, podologists and psychologists as well as fitness experts) and community medicine settings (general practitioners and primary care pediatricians), to guarantee that continuity of care that becomes an essential part of medical care in chronic diseases. Ongoing improvements in terms of efficiency and efficacy are only possible when based on extensive training for the various groups of professionals that is planned to suit the skills required and that is updated regularly over time. Disease management and the chronic care model, and the principles these two approaches embody have now become the logical and conceptual framework for anyone working in the field of chronic disease management. It is well known that the most effective management initiatives target the “natural history” of the disease at all levels. However, when a systemic approach is not feasible due to a shortage of resources, it would be useful to concentrate the efforts of all system players on the points considered to be most critical and appropriate for the local context. The fundamental strong point of the disease management approach is that it focuses the energies of all the system’s actors on common targets, albeit with diverse responsibilities, to avoid an inconsistent, fragmented design that is often unable to have a significant effect on the overall results of the healthcare system. In other words, disease management is a systemic approach that makes it possible to contextualize initiatives, through identification of patient targets and the critical points LII of the natural history of the disease. Thus initiatives that best match the issues, the strengths, limitations and strategies of the local system can be concentrated, allowing dedication and focusing of the energy of all the system’s players. In this perspective, integrated management is the tool used to transform the integrated systemic approach proposed by disease management into something tangible. The pathway of care is an innovative method used for the critical review and redesigning of the care program used for specific patient targets. The construction of a pathway of care must be based on a method able to bring together three different focuses: organizational considerations, clinical aspects and matters related to the management of the patient’s global needs. In short, pathways of care are useful tools for transforming integrated management into something tangible, and at the same time they are essential for building a care design suited to both the strengths and weaknesses of the local setting. This makes it possible to include into the various stages the assessment indicators, which are specifically related to the contribution of the various services and different professional figures. 15. Particular situations Hypoglycemia (glycemia < 70 mg/dl), particularly in insulin-treated patients, is the main limiting factor in the treatment of type 1 and type 2 DM. There are three degrees of hypoglycemia: mild and moderate, in which the individual is able to manage the problem autonomously, and severe, in which the individual has an altered state of consciousness and requires help or treatment from third parties to resolve the hypoglycemia. The hyperglycemic emergencies or attacks that can occur in diabetic subjects are diabetic ketoaci- Abstract dosis, which is characteristic of type 1 DM and hyperglycemic hyperosmolar syndrome, characteristic of type 2 DM. Both may have a fatal outcome unless they are treated swiftly. Although they are usually considered to be separate entities, in actual fact they belong to the same continuous spectrum of clinical emergencies caused by poor diabetic control. The transition phase between child- and adulthood, including the biological variations of puberty, pose particular problems for people with type 1 DM and the pediatric diabetology team. It is important to remember that the care required by teenagers is very different to that required by children and adults and therefore calls for a different skill set because, although in most cases the young person has achieved autonomy in managing therapy, he/she has rarely achieved true awareness of and responsibility for his/her disease. This phase requires special focus on motivation, taking into account the ambivalence typical of this age, a kind of “aggressiveness” towards their physicians and the part of the self related to the illness. The transition from the pediatric facility to the adult center should be a process rather than a single event and should take place through the gradual construction of an environment of open, full dialogue and cooperation with the young patient that starts in the very early stages. Diabetic foot is a condition that can develop in patients with diabetes mellitus and it is characterized by different pathophysiological components (peripheral polyneuropathy, peripheral arterial disease and infection). These different etiological factors can act individually or, more frequently, can coexist in the pathophysiology of the disease. The increase in mean life expectancy of the general population and in diabetic patients in particular has led to a rise in the incidence and prevalence of chronic complications with an exponential increase in macrovascular disease and its complications. Diabetic foot is the late complication of diabetes mellitus with the greatest social and economic weight, since it entails long periods of outpatient care, lengthy, repeated hospital stays and amputations, as diabetic foot is the most frequent cause of non-traumatic leg amputation. Epidemiological data shows that in Italy, diabetic foot is the primary cause of non-traumatic amputation of the lower limbs, accounting for 56% of all-cause amputation and it is a common cause of hospitalization for diabetic patients, due to the frequent flare-ups associated with the condition. Pregestational diabetes (type 1 and 2) is still related to a high frequency of maternal and fetal morbidity, despite the improvements in recent years in fetal monitoring techniques and the care available for neonates and their mothers. National prevalence data shows that every year in Italy about 40,000 pregnancies are complicated by gestational diabetes and about 1300 by pregestational diabetes. Pregnancy planning in patients with pregestational diabetes is paramount to reducing the frequency of adverse maternal and/or fetal outcomes however, unfortunately in Italy only about 50% of these pregnancies are planned. All diabetic women of childbearing potential should be informed of the importance of programming pregnancy in good glycemic control and of using effective methods of contraception. In patients with pregestational diabetes intensive home self-monitoring of blood glucose is advisable and should include pre- and postprandial as well as night time monitoring. These patients should be treated with intensive subcutaneous insulin or microinfusion pump therapy (CSII). To reach these targets, the patient should be followed by a multidisciplinary team (diabetologist, expert nurse, dietician and other professional figures) and attend monthly outpatient clinic appoint- LIII Ministero della Salute ments. As far as gestational diabetes mellitus (GDM) is concerned, customized nutritional therapy, physical exercise and self-monitoring of blood glucose are the cornerstones of treatment. On an international level, the prevalence of diabetes amongst hospitalized adults has been estimated at between 12% and 25%. In 2000, 12.4% of hospital discharges in the Unites States involved a patient with diabetes. Over 60% of diabetes-related health expenditure in Italy is attributed to the direct costs of hospitalization for acute and chronic complications. Diabetes in the hospital constitutes a multidisciplinary issue: it affects at least one in every four inpatients and two in every three patients in cardiac intensive care. Hospital admission is not always caused by metabolic events related to the illness, rather more frequently to acute events calling for emergency hospitalization (stroke, myocardial infarction, infections, fractures or trauma) or to elective surgery in diabetic subjects, which in itself entails metabolic stress. The presence of diabetes (known or newly diagnosed) increases the risk of infections and complications, worsens prognosis, lengthens the mean time to discharge and causes a significant increase in treatment costs. 16. Definition of standards About the contents of this Chapter see Part One, Chapter 6. 17. Evaluation of process and outcome indicators to confirm the validity of the operative proposal On account of the high number of medical charts and outpatient records and the difficulties in extrapolating data from these record, process and interim result indicators should be considered. LIV These indicators may form a kind of checklist to be used by the physician to analyze care processes and results, and to facilitate compliance with common guidelines: an analysis and orientation tool that works in real time, i.e. during the care process and aims to measure and improve performance. Outcome indicators most likely have marginal usefulness in terms of self-assessment: the scarcity of the individual caseloads does not make it possible to obtain a high enough number of events and the close dependency of the outcome on the case-mix prevents an appropriate use for benchmarking activities. The identification of a minimum data set, on the other hand, is the tool actually used by professionals to measure performance and should be applied to a significant number of subjects. In this case the instrument retrospectively analyses and measures what has been done and obtained in relation to the essential aspects of a specific clinical condition: the measurement of what has been done, i.e. performance, constitutes the essential and critical element from which to start in order to improve the quality of care processes. 18. Identification of strategies for the implementation of Recommendations The production of clinical practice guidelines and/or recommendations aimed at achieving health objectives represents a high point in the construction of clinical governance principles, however it is likely to remain a mere academic exercise unless it is accompanied by pragmatic programming concerning the organization of facilities set up to provide the services aimed at achieving the targets set. We therefore need to try to design an organizational framework with precise practical standards for establishing settings suited to the application of the Abstract recommendations issued and the measurement of outcome indicators that make it possible to monitor the efficacy and quality of the services rendered. The basic reference framework makes it possible to use on the broadest possible scale, the chronic care model which, when applied, seems to promise the best, longest-lasting results with regard to both health and economic objectives. The scientific community is now able to provide citizens and medical professionals with a series of Recommendations based on strong evidence. The implementation of these recommendations in clinical practicewill provide improvements for the diabetic person in terms of life expectancy and, above all, quality of life. However, in order to be able to apply success to the findings of scientific research, we need to change part of the healthcare organization system in order tofacilitate the informed collaboration and cooperation of citizens, and to provide them with more suitable clinical programs for their condition. 19. The role of the Associations The Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in progress) reiterates that greater emphasis should be placed on the role played by patient associations, highlighting the following needs: • to promote the role of the citizen and the Associations in managing and monitoring national health service performance; • for the sustainable participation of patients and their associates in decision-making bodies and processes; • for the involvement of family members and voluntary associations in caregiving programs. These requirements are essential elements for the development of patient empowerment and the degree of satisfaction with the services provided and to allow voluntary organizations to provide non-fragmented services that are interactive and coordinated with the various system nodes and with the activities of the institutions. LV Parte prima Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’obesità Si ringraziano per i contributi apportati: Nicola Basso, Anna Chiara Bernardini, Brunella Capaldo, Michele Carruba, Marco Comaschi, Paolo Di Bartolo, Maurizio Masullo, Gerardo Medea, Gianluigi Melotti, Maria Letizia Petroni, Carlo Rotella, Federico Spandonaro, Roberto Vettor Il capitolo dedicato alla chirurgia bariatrica è stato tratto interamente da “Globesità: Strategia ed interventi” di Lauro R, Basso N, Carruba M, Melotti G, Rotella C, Sbraccia P, Vettor R (2010). Inoltre, un ringraziamento per i contributi forniti va alla Direzione Generale del Sistema Informativo del Ministero della Salute e al Centro Nazionale Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 1. Definizione di obesità L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio fra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi), con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. Il grado di obesità, cioè l’eccesso di grasso, viene comunemente espresso con l’indice di massa corporea (body mass index, BMI), che si calcola dividendo il peso corporeo espresso in kg per l’altezza espressa in metri al quadrato: BMI = kg/m2. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce un individuo normopeso se ha un BMI < 25 kg/m2, in sovrappeso se ≥ 25 kg/m2 e francamente obeso se ≥ 30 kg/m2 (Tabella 1.1). Di fatto, però, il BMI non fornisce alcuna indicazione effettiva sulla composizione corporea del soggetto (un culturista risulterebbe obeso, sebbene Tabella 1.1 Grado di obesità in relazione all’indice di massa corporea (BMI) Definizione BMI (kg/m2) Sottopeso Normopeso Sovrappeso < 18,5 18,5-24,9 25,0-29,9 Obesità 30,0-34,9 35,0-39,9 ≥ 40,0 Classe di obesità I II III con una massa grassa ridotta) e sulla distribuzione della massa grassa. La diagnosi di sovrappeso o obesità stabilita con il BMI dovrebbe quindi essere integrata con l’impiego di indicatori diretti di adiposità e di distribuzione adiposa, che permettano un più agevole inquadramento nosologico dell’obesità e una classificazione descrittiva fondamentale ai fini dell’individuazione dei soggetti a maggiore rischio di morbilità; tra i più utilizzati per la semplicità vi è la circonferenza della vita, che fornisce un indice della distribuzione del grasso corporeo e delle possibili complicanze metaboliche associate. Infatti, la presenza di un eccesso di tessuto adiposo in sede intraddominale rappresenta un fattore di rischio indipendente ed è predittivo di morbilità e mortalità cardiovascolare. Inoltre, la maggiore quantità di grasso addominale si associa a una maggiore presenza di altri fattori di rischio, quali elevati livelli di trigliceridi e/o colesterolo, ipertensione e un’alterata regolazione dell’omeostasi glucidica, che può esitare in diabete franco. Una circonferenza della vita superiore a 102 cm per gli uomini e a 88 cm per le donne (per BMI compreso tra 25 kg/m2 e 35 kg/m2) viene considerata uno dei fattori di rischio cardiovascolare principali dall’American Heart Association e inserita fra i criteri per la diagnosi di sindrome metabolica, 3 Ministero della Salute mentre limiti più restrittivi (94 cm per gli uomini e 80 cm per le donne) sono stati proposti dell’International Diabetes Federation (IDF). Queste soglie di rischio della circonferenza addominale perdono tuttavia il loro potere predittivo in soggetti con BMI ≥ 35 kg/m2; in tali casi, infatti, i depositi di grasso sono comunque notevolmente rappresentati in tutto il soma, tanto da comportare un rischio comunque molto elevato di sviluppare tutte le possibili complicanze. La più antica definizione di obesità ginoide e obesità androide poggia sull’uso, oggi parzialmente abbandonato sebbene non privo di valore, del rapporto circonferenze vita/fianchi (waist hip ratio, WHR). Una classificazione dell’obesità in base a questo indice divideva la popolazione obesa in tre categorie: 4 a) obesità ginoide (< 0,78); b) obesità intermedia (0,79-0,84); c) obesità androide (> 0,55). Metodiche di misurazione più sofisticate come la Dual Energy X-ray Absorptiometry (DEXA), pur essendo estremamente precise nella valutazione quantitativa e qualitativa della composizione corporea (massa magra e massa grassa), per la loro difficile ripetibilità, per i costi e i rischi legati all’esposizione ai raggi X non sono entrate nella pratica quotidiana in qualità di tecniche di misurazione dell’obesità e non risultano indispensabili per la definizione della sindrome clinica. Lo stesso dicasi per lo studio della distribuzione regionale del grasso corporeo determinata utilizzando la tomografia computerizzata (TC) o la risonanza magnetica (RM). Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 2. La situazione attuale Epidemiologia e costi dell’obesità Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2005 circa 1,6 miliardi di adulti (età maggiore di 15 anni) erano in sovrappeso, almeno 400 milioni erano obesi e almeno 20 milioni di bambini di età inferiore a 5 anni erano in sovrappeso. Le proiezioni dell’OMS mostrano che, per il 2015, gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi e gli obesi più di 700 milioni. Obesità e sovrappeso, prima considerati problemi solo dei Paesi ricchi, sono ora drammaticamente in crescita anche nei Paesi a basso e medio reddito, specialmente negli insediamenti urbani, e sono ormai riconosciuti come veri e propri problemi di salute pubblica. L’obesità è stata giustamente definita dall’OMS come l’epidemia del XXI secolo; nel suo “Rapporto sulla salute in Europa 2002”, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come “un’epidemia estesa a tutta la Regione europea”, tanto che circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso e il 20-30% degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Questa situazione desta particolare preoccupazione per l’elevata morbilità associata, specie di tipo cardiovascolare, oltre al diabete di tipo 2, in genere preceduto dalle varie componenti della sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi e aumentato rischio di eventi cardio- e cerebrovascolari. Chi pesa il 20% in più del proprio peso ideale aumenta del 25%, rispetto alla popolazione normopeso, il rischio di morire di infarto e del 10% quello di morire di ictus. Ma se il peso supera del 40% quello consigliato, il rischio di morte per qualsiasi causa aumenta di oltre il 50%, per ischemia cerebrale del 75% e per infarto miocardico del 70%. In queste condizioni anche la mortalità per diabete aumenta del 400%. La prevalenza dell’obesità nei Paesi industrializzati ha iniziato progressivamente ad aumentare dalla prima metà del XX secolo. La diffusione ha riguardato inizialmente soprattutto i Paesi sviluppati, come Stati Uniti ed Europa, in cui è diventata un problema primario di sanità pubblica. Successivamente, i dati hanno indicato un incremento importante delle prevalenze anche in Paesi in via di sviluppo, come Messico, Cina e Thailandia. Nel mondo la prevalenza di obesità negli adulti, in entrambi i sessi, raggiunge i valori più elevati in alcune isole dell’Oceania, come Tonga, Nauru e Cook Islands (anche oltre il 60% della popolazione); a seguire, nei maschi, Stati Uniti (44,2%) e Argentina (37,4%) e, nelle femmine, alcune isole del Mar dei Caraibi e Giordania (oltre il 5 Ministero della Salute 50%), Stati Uniti ed Egitto (circa il 48%). Sempre nelle donne, valori che oscillano intorno al 40% si registrano in Paesi dell’America Centro-Meridionale (Bolivia, Messico, Nicaragua, Cile, Argentina, Perù). Nella Regione europea dell’OMS, la prevalenza dell’obesità è triplicata negli ultimi vent’anni. Sovrappeso e obesità sono poi responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive tra gli adulti che vivono in Europa. Tra i Paesi europei in cui sono state effettuate le misurazioni, la prevalenza del sovrappeso varia dal 32% al 79% nell’uomo e dal 28% al 78% nella donna, mentre quella dell’obesità varia dal 5% al 23% fra gli uomini e dal 7% al 36% fra le donne. Nei Paesi più poveri ma con uno sviluppo rapido si riscontra un veloce aumento dell’obesità, mentre nei Paesi più avanzati, con le maggiori disparità di reddito tra ricchi e poveri, si misurano in genere livelli più alti di obesità. Per quanto riguarda gli uomini, le prevalenze maggiori si rilevano in Albania e Regno Unito (rispettivamente, 22,8% e 22%); anche nelle donne, i valori più alti si registrano in Albania (35,6%), seguita da Regno Unito (Scozia), Israele e Bosnia Erzegovina (26%, 25,8% e 25,2%). Secondo misure antropometriche autoriferite, le prevalenze variano dal 6,4% negli uomini e 5,9% nelle donne in Norvegia al 26,6% negli uomini e 20,4% nelle donne a Malta. A seguire, per quanto riguarda le prevalenze più alte, Grecia, Ungheria e Regno Unito (Galles). I dati, in genere autoriferiti, tendono a sottostimare la dimensione del fenomeno. Sembra non esserci un pattern uniforme nella distribuzione dell’obesità nei due sessi; globalmente, le prevalenze tendono a essere più alte nelle donne, anche se questo non si verifica in tutti i Paesi. Le proiezioni per alcuni Paesi europei ed extraeu- 6 ropei (Australia, Austria, Canada, Inghilterra, Francia, Ungheria, Italia, Corea, Spagna, Svezia e Stati Uniti), riferite alla popolazione adulta, indicano due modalità di evoluzione del fenomeno, che si basano sui trend recenti osservati. In Paesi considerati storicamente ad alta prevalenza di obesità come Australia, Canada, Inghilterra e Stati Uniti, è previsto un ulteriore incremento della diffusione, con valori di sovrappeso che invece si manterranno sostanzialmente stabili o in lento declino. Viceversa, in Paesi in cui l’obesità è meno diffusa, come Austria, Francia, Italia e Spagna, si prevede che i tassi cresceranno più lentamente, mentre più importante sarà la crescita del sovrappeso. Le ricerche indicano che nei Paesi a basso reddito vi è un’associazione positiva fra ricchezza e obesità; questo trend si appiattisce in quelli a medio reddito, per trasformarsi in un’associazione negativa nei Paesi più ricchi, dove il rischio di obesità è maggiore nei gruppi socioeconomicamente più svantaggiati. Inoltre, le evidenze suggeriscono che le differenze osservate nelle diverse classi socioeconomiche stanno diventando sempre più ampie. All’interno dei soggetti di più basso livello socioeconomico, la prevalenza di obesità tende a essere più alta nelle donne rispetto agli uomini. Disparità nella diffusione dell’obesità sono state evidenziate anche rispetto al livello di istruzione, con prevalenze più alte nei meno istruiti; questa relazione è, inoltre, particolarmente evidente per le donne. In Italia La rilevazione annuale l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) “Aspetti della vita quotidiana”, che raccoglie tra le altre informazioni le misure autoriferite di peso e altezza, indica che dal 2001 al 2009 la prevalenza dell’obesità nei soggetti adulti (età maggiore o uguale a 18 anni) ha mostrato un trend temporale in lieve aumento, dall’8,3% al Parte Prima – La situazione attuale 10,1%. Questo andamento si osserva in entrambi i sessi, ma più marcatamente nei maschi. Nel 2009, l’obesità ha interessato l’11,1% dei maschi e il 9,2% delle femmine. La percentuale di soggetti obesi è più alta nel Sud e nelle Isole (11,1%). Nel Nord e nel Centro Italia le percentuali si equivalgono (rispettivamente, 9,7% e 9,6%). La prevalenza negli adulti cresce con l’età fino alla fascia di 65-74 anni, in cui si hanno i valori più elevati (15,6%); successivamente, risulta sempre meno diffusa (l’11,7% negli ultraottantaquattrenni). Nei soggetti con livello di istruzione familiare basso l’obesità è maggiormente diffusa, con una percentuale del 15,5% (13,3% nei maschi e 17,2% nelle femmine). Al crescere del livello di istruzione familiare, la prevalenza di obesità progressivamente diminuisce, per arrivare al 7,3% nei soggetti che vivono in contesti con più alto grado di istruzione (8,7% negli uomini e 5,9% nelle donne). Anche per quanto riguarda la classe sociale familiare, si osserva una relazione inversa con la diffusione di obesità, con prevalenze più alte nelle classi più svantaggiate (circa il 12% nella classe sociale familiare bassa e medio-bassa; circa l’8% nella classe sociale familiare medio-alta e alta). Sovrappeso e obesità, quindi, affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minore reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. Gli individui che vivono in condizioni disagiate devono far fronte a limitazioni strutturali, sociali, organizzative, finanziarie e di altro genere, che rendono difficile compiere scelte adeguate sulla propria dieta e attività fisica. Le persone a basso reddito, di solito, hanno meno accesso a palestre e centri benessere, oltre a vivere in zone che tendenzialmente incoraggiano meno l’attività fisica. Netta è poi la relazione tra livello di istruzione ed 2 eccesso ponderale. In Italia, fra gli adulti la percentuale degli obesi triplica fra le persone che hanno conseguito al massimo la licenza elementare. La tendenza si conferma anche controllando il fenomeno per fasce d’età. Anche per le persone in sovrappeso si mantiene la relazione inversa tra livello d’istruzione ed eccesso di peso, seppure con differenze meno marcate rispetto all’obesità. All’opposto, la percentuale delle persone normopeso o sottopeso cresce all’aumentare del titolo di studio fra le persone di 18-44 anni. Evidentemente, il grado di informazione su questi argomenti aiuta a frenare l’attuale tendenza all’aumento del peso corporeo, con correzione dei comuni errori nello stile di vita e nell’alimentazione in particolare. Tutto ciò è confermato anche dal sistema di sorveglianza PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), che fornisce un quadro dei dati riferiti alle ASL partecipanti all’indagine durante un’intervista telefonica da un campione di residenti di età compresa fra i 18 e i 69 anni. Secondo quanto raccolto nel 2009 dal pool delle ASL che partecipano al PASSI (Figura 2.1), circa Valori % 46,6-50,8 41,9-46,6 38,1-41,9 ≤ 38,1 Nessun dato Figura 2.1 Eccesso ponderale (sovrappeso/obesi) [pool di ASL, PASSI 2009]. 7 Ministero della Salute 3 adulti su 10 (32%) risultano in sovrappeso, mentre 1 su 10 è obeso (11%): complessivamente, quindi, circa 4 adulti su 10 (42%) sono in eccesso ponderale. Il sovrappeso è una condizione diffusa e che tende ad aumentare con l’età, è più frequente negli uomini, nelle persone con basso livello di istruzione e in quelle che dichiarano di avere molti problemi economici. Dal confronto con le stime dei due anni precedenti, nel triennio 2007-2009 si nota che la percentuale delle persone in eccesso ponderale è rimasta stabile: 43% nel 2007 e nel 2008, 42% nel 2009. Le differenze rilevate sul territorio sono considerevoli e nel confronto inter-regionale si osserva un gradiente Nord-Sud: la Provincia Autonoma di Trento è il territorio con la percentuale più bassa di persone in sovrappeso o obese (35%), mentre la Calabria (con le ASL di Cosenza e Vibo Valentia) è l’area con la percentuale più alta (51%). I dati del sistema di sorveglianza PASSI confermano l’impressione secondo cui le persone in sovrappeso spesso – e le persone chiaramente obese a volte – non hanno l’esatta consapevolezza della propria condizione. Tra le persone in sovrappeso, infatti, ben il 46% ritiene il proprio peso giusto e 1 obeso su 10 lo percepisce addirittura come adeguato. Inoltre, poco più della metà (54%) delle persone in eccesso ponderale dice di avere ricevuto, da un medico o altro operatore sanitario, il consiglio di fare una dieta per perdere peso. E solo il 38% dichiara di aver ricevuto il consiglio di fare regolarmente attività fisica. Il PASSI riesce a stimare anche la proporzione di grandi obesi, cioè coloro che hanno un indice di massa corporea (body mass index, BMI) maggiore o uguale a 40 kg/m2. Questa percentuale, nel 2008, era dello 0,5%. La percentuale di diabetici tra i grandi obesi è di oltre il 24% (Tabella 2.1). La recente sperimentazione, realizzata in 7 Regioni italiane, di un sistema di sorveglianza della salute 8 Tabella 2.1 Distribuzione di obesi e grandi obesi per sesso (pool di ASL, PASSI 2008) Obesi Grandi obesi Per sesso Uomini Donne 10,8% 8,8% 0,4% 0,7% Per età 18-24 anni 25-34 anni 35-49 anni 50-69 anni 3% 4,9% 9% 15,4% 0,2% 0,3% 0,4% 1% Per istruzione Nessuna/elementare Media inferiore Media superiore Laurea 20,8% 12,1% 6,7% 5,4% 1,3% 0,7% 0,3% 0,2% Per difficoltà economiche Molte Qualche Nessuna 15,4% 10,8% 7,4% 1,3% 0,6% 0,3% della popolazione anziana (PASSI d’Argento) riporta i dati relativi alla situazione nutrizionale nelle persone con 65 e più anni. Questi indicano un aumento della popolazione in eccesso di peso fino a 75 anni di età: in questa fascia d’età, infatti, sovrappeso e obesità sono pari al 60%. Poi inizia una diminuzione tra i 75 e gli 84 anni (53%) e ancora di più negli ultra 85enni (42%). L’eccesso di peso appare più frequente nelle persone con bassa istruzione e con molte difficoltà economiche. Superati i 65 anni di età, il BMI è soggetto a variazioni legate a fattori biologici e patologici. Progressivamente, infatti, aumenta la percentuale di persone che perdono peso (più del 5% del peso o più di 4,5 kg negli ultimi 12 mesi) indipendentemente dalla loro volontà. Questo aspetto, che è un fattore potenzialmente fragilizzante, si verifica più spesso nelle donne, con l’avanzare dell’età e con il crescere delle difficoltà economiche (Tabella 2.2). Le prevalenze standardizzate che si registrano nella popolazione straniera residente in Italia di 18-64 Parte Prima – La situazione attuale 2 Tabella 2.2 Situazione nutrizionale nelle persone di età ≥ 65 anni (PASSI d’Argento, 2008/2010) Sottopeso Normopeso Sovrappeso Obesi Nei due sessi Uomini Donne 1% 4% 39% 46% 46% 37% 13% 14% Nelle classi di età 64-74 anni > 74-85 anni ≥ 85 anni 1% 3% 7% 39% 44% 51% 44% 41% 33% 16% 12% 9% In base all’istruzione Bassa Alta 3% 2% 40% 48% 42% 39% 15% 11% Nelle diverse situazioni economiche Molte difficoltà Alcune difficoltà Poche difficoltà 3% 2% 3% 43% 40% 45% 33% 43% 41% 20% 14% 11% anni d’età sembrano complessivamente in linea con quelle stimate nella popolazione italiana di tale fascia d’età, riproducendo le medesime differenze di genere: tra i maschi stranieri la percentuale di persone obese raggiunge il 9,5% e quella sovrappeso il 39,2%, per le donne invece la prevalenza delle persone obese si attesta al 7,6% e quella sovrappeso al 24,9%. Anche questo fattore di rischio presenta connotazioni peculiari rispetto al Paese di provenienza, che lasciano trasparire specificità dovute non solo a fattori culturali, ma anche di status sociale: tra gli uomini sono quelli di origine albanese a presentare maggiori problemi di eccesso di peso, con un tasso di obesità dell’11,3% e di sovrappeso del 44,2%; tra le donne, invece, sono quelle di origine marocchina, con un tasso di obesità del 19,8% e di sovrappeso del 32,8%; seguono poi le donne provenienti dagli altri Paesi africani (12,5%, 36,5%) e dall’Albania, rispettivamente, con il 10,2% e il 27,1% [Indagine multiscopo Istat “Salute e ricorso ai servizi sanitari della popolazione straniera residente in Italia” (2005)]. Le differenze di genere riguardano anche il diverso comportamento rispetto alla frequenza del controllo del peso. Quest’ultimo rientra tra i comportamenti che pongono in primo piano la responsabilità in- dividuale nella tutela della salute. Sembra quindi rilevante evidenziare che controlla il proprio peso almeno una volta al mese il 52,6% delle persone di 18 anni e più. La percentuale è più alta tra i sottopeso e i normopeso (54,8% e 54,1%) e più bassa tra le persone in sovrappeso (50,2%) e tra gli obesi (52,0%). Le donne controllano il proprio peso almeno una volta al mese e in misura maggiore rispetto agli uomini (60,1% contro il 44,5%), ma le differenze di comportamento si riducono molto tra gli anziani. Fino ai 44 anni si fa più attenzione al proprio peso: fra le donne la percentuale raggiunge il 67,4% e si mantiene costante in tutte le condizioni di peso, fra gli uomini fino a 44 anni il 45,8% controlla il proprio peso almeno una volta al mese, con una percentuale più alta tra gli obesi (48,8%). Ben il 13,9% delle persone obese e il 13,7% di quelle sovrappeso non hanno mai controllato il loro peso, contro il 12,9% dei normopeso. L’obesità infantile L’obesità infantile è una delle più gravi questioni del XXI secolo. La prevalenza ha raggiunto livelli preoccupanti: secondo l’OMS, in tutto il mondo, nel 2005, ben 20 milioni di bambini sotto i 5 9 Ministero della Salute anni erano in sovrappeso. Il problema è globale: si stima che nel 2010 i bambini con meno di 5 anni di età in eccesso di peso siano stati oltre 42 milioni e, di questi, quasi 35 milioni in Paesi in via di sviluppo. La gravità della diffusione dell’obesità infantile sta anche nel fatto che i bambini obesi rischiano di diventare adulti obesi e l’obesità è un fattore di rischio per serie condizioni e patologie croniche. Analizzando i dati disponibili dagli anni Ottanta, è stato osservato un incremento della prevalenza dell’obesità in generale nei Paesi industrializzati e anche, in maniera meno marcata, in alcuni a basso reddito. Le stime indicano che, a partire dal 2010, la prevalenza in bambini e adolescenti raggiungerà valori compresi tra il 5,3% nella Regione OMS del Sud-Est Asiatico e il 15,2% nella Regione America, escludendo la Regione Africa, per la quale non sono stati ricavati dati sufficienti. Considerando le indagini che hanno rilevato nei Paesi della Regione europea dell’OMS la prevalenza di obesità in base a dati misurati nei bambini di varie fasce d’età fino a 11 anni, le percentuali più elevate in entrambi i sessi si osservano in Grecia (maschi: 11,2%; femmine: 11,4%), Spagna (maschi: 10,3%; femmine: 10,5%) e Portogallo (maschi: 10,3%; femmine 12,3%). Le percentuali più basse nei maschi si sono osservate in Serbia/Montenegro (3,9%), Francia (3,9%) e Svizzera (4,1%); nelle femmine, in Francia (3,6%), Svizzera (4,0%) e Slovacchia (4,2%). Globalmente si stima che l’obesità nel 2010 abbia interessato almeno 15 milioni di bambini e adolescenti (il 10% della popolazione). In Europa non esistono ancora sistemi di sorveglianza per bambini e adulti. Per i ragazzi in età scolare (11, 13 e 15 anni), invece, è attivo lo studio HBSC (Health Behaviour in School-aged Children) [vedi oltre]. Secondo i dati presentati nel 2008 nella pubblicazione “Inequalities In Young People’s Health” 10 a cura dell’Ufficio regionale europeo dell’OMS, la prevalenza dell’eccesso ponderale (inclusa l’obesità) tra i ragazzi di 11-15 anni è molto alta, variando dal 6% a quasi il 31% in alcuni Paesi. I dati presentati sono tratti dall’indagine HBSC 2005-2006. All’interno della Regione, la prevalenza di obesità e sovrappeso varia tra il 6% e il 28% nei bambini di 11 anni, tra il 6% e il 31% nei ragazzi di 13 anni e dal 6% al 30% nei giovani di 15 anni. I ragazzi hanno una prevalenza maggiore rispetto alle ragazze. In media, la prevalenza di obesità e sovrappeso fra gli undicenni è del 16% nei bambini e del 12% nelle bambine, fra i tredicenni è del 16% tra i maschi e del 10% tra le femmine, mentre fra i quindicenni è, rispettivamente, del 17% e del 10%. Secondo la ricerca dell’OMS Europa, se la prevalenza dell’obesità continua ad aumentare allo stesso tasso degli anni Novanta, si stima che, a partire dal 2010, circa 150 milioni di adulti e 15 milioni di bambini e adolescenti saranno obesi. Il parametro fornito dall’obesità tra i giovani è importante, perché si valuta che oltre il 60% dei bambini in sovrappeso prima della pubertà sarà in sovrappeso anche da adulto. In Italia, la sorveglianza in età infantile effettuata dal sistema di monitoraggio OKkio alla SALUTE fornisce dati misurati sullo stato ponderale dei bambini delle scuole primarie (6-10 anni), sugli stili nutrizionali, sull’abitudine all’esercizio fisico e sulle eventuali iniziative scolastiche che favoriscono una sana alimentazione e l’attività fisica (Figura 2.2). Avviato per la prima volta nel 2008, OKkio alla SALUTE ha una periodicità di raccolta dati biennale e fa parte del progetto dell’OMS Europa “Childhood Obesity Surveillance Initiative”. Nell’ottobre 2010 sono stati resi noti i risultati del progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età 6-17 anni” promosso dal Ministero della Salute/Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) e co- Parte Prima – La situazione attuale Campania 28 Molise 26 16 Calabria 26 16 Sicilia 21 13 26 Puglia 14 25 Lazio 26 13 Abruzzo 26 13 Italia 24 Umbria 24 12 11 23 Marche 10 22 Toscana 7 20 Emilia Romagna 9 22 Liguria 7 20 Veneto Piemonte 19 Sardegna 19 7 8 7 21 Friuli Venezia Giulia 0 10 Sovrappeso Obeso 4 6 17 Valle d’Aosta 49% 17 25 Basilicata 2 20 23% 30 40 50 60 Percentuale Figura 2.2 Percentuale di sovrappeso e obesità per Regione nei bambini di 8-9 anni delle classi terze della scuola primaria (Italia, OKkio alla SALUTE 2008). ordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). La seconda raccolta di dati, avvenuta a due anni di distanza dalla prima, ha misurato oltre 42.000 bambini della terza classe delle scuole primarie e ha fornito risultati non molto dissimili da quanto rilevato nel 2008. Nel 2010, la prevalenza di sovrappeso e obesità è risultata pari al 23% e all’11%, rispettivamente; nel 2008 le percentuali erano del 24% per il sovrappeso e del 12% per l’obesità. Lo studio ha messo in luce la grande diffusione tra i bambini di abitudini alimentari che predispon- gono all’aumento di peso. In particolare, è emerso che: il 9% dei bambini non fa colazione, il 30% la fa in maniera non adeguata, circa il 50% consuma bevande zuccherate e/o gassate nell’arco della giornata e 1 bambino su 4 non mangia quotidianamente frutta e/o verdura. Inoltre, quasi 1 bambino su 2 ha la televisione in camera e 1 bambino su 5 pratica sport per non più di un’ora a settimana. Secondo le informazioni fornite da OKkio alla SALUTE, gli stessi genitori sembrano sottovalutare il problema: quasi 4 mamme su 10 (36%) di 11 Ministero della Salute bambini con eccesso ponderale non ritengono che il proprio figlio abbia un peso eccessivo rispetto all’altezza. Nato dall’esigenza di approfondire alcune informazioni sui bambini della scuola primaria, nell’ambito dello stesso progetto è stato sviluppato lo studio Zoom8, condotto nel 2009 dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), che ha esaminato un campione di 2100 bambini delle classi terze primarie (8-9 anni) selezionato in base alla classificazione preliminare delle Regioni italiane in tre aree: a bassa, media e alta prevalenza di sovrappeso e obesità. Tra i risultati dello studio si è evidenziato che il tempo che i bambini dedicano alle attività outdoor risulta molto scarso, specialmente al Sud; è correlato alla sicurezza dell’ambiente circostante l’abitazione e alla mancanza di strutture adeguate. Circa il 70% dei bambini, infatti, non ha l’abitudine di andare a scuola a piedi e nei giorni feriali solamente poco più di 1 bambino su 4 (26,8%) gioca per oltre 2 ore al giorno all’aria aperta. Per quanto riguarda la raccolta di informazioni sulla corretta alimentazione, lo studio Zoom8 ha rilevato che i genitori fanno riferimento perlopiù agli operatori sanitari e ai pediatri e che risultano più aggiornati quelli residenti al Nord e con titolo di studio elevato. Secondo i genitori interpellati, il benessere dei propri figli può essere migliorato: • riducendo la pubblicità sugli alimenti confezionati; • aumentando le ore di attività fisica svolte a scuola; • potenziando le strutture sportive pubbliche. Nel 2000, l’Italia ha aderito allo studio HBSC, uno studio multicentrico internazionale che ha lo scopo di incrementare le conoscenze sulla salute dei giovani (11, 13 e 15 anni), con particolare attenzione a: abitudini alimentari, immagine corporea, attività fisica e tempo libero, comportamenti 12 a rischio, salute e benessere percepito, contesto familiare, gruppo di pari e ambiente scolastico. L’indagine, che ha una periodicità di raccolta dati quadriennale, è coordinata dalle Università di Torino, Siena e Padova e nel 2010, come parte del progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età 6-17 anni”, è stata realizzata, per la prima volta, su un campione di circa 4000 ragazzi in ciascuna Regione. La conduzione della raccolta dati dello studio 2009-2010 ha previsto l’utilizzo di due questionari somministrati all’interno delle scuole campionate in ciascuna Regione e ha preso in esame un totale di 77.000 ragazzi. I dati relativi allo studio HBSC hanno finora evidenziato che: • l’eccesso ponderale diminuisce al crescere dell’età ed è maggiore nei maschi. La frequenza dei ragazzi in sovrappeso e obesi è più elevata negli undicenni (29,3% nei maschi e 19,5% nelle femmine) che nei quindicenni (25,6% nei maschi e 12,3% nelle femmine); • i giovani di 15 anni (47,5% dei maschi e 26,6% delle femmine) fanno meno attività fisica rispetto ai ragazzi di 13 anni (50,9% dei maschi e 33,7% delle femmine); • tra i quindicenni, il 40% dei maschi e il 24% delle femmine dichiarano di consumare alcool almeno una volta a settimana; • dichiara di fumare almeno una volta a settimana il 19% dei quindicenni (sia maschi che femmine); • si riscontra un minore consumo quotidiano di verdura nelle Regioni del Sud e tra i maschi. La ricostruzione dello stato nutrizionale della popolazione italiana per fasce di età attraverso i dati ricavabili dalle diverse fonti – indagine OKkio alla SALUTE 2010, HBSC 2005-2006 e Istat 2009 – è riportata nella Figura 2.3. La percentuale di soggetti obesi, in particolare, si riduce dall’infanzia (11%) all’adolescenza, per arrivare a un 2 Parte Prima – La situazione attuale ≥ 85 37,4 50,9 75-84 41,2 65-74 37,2 55-64 45,8 38,7 Istat 45-54 15,6 46,2 15,1 39,8 58,6 11,8 33,8 25-34 69,8 16,7 2,6 80,7 15,9 2,7 81,4 15 18,5 2,7 78,8 13 20,0 3,6 76,4 11 23,0 66,0 8-9 0 10 20 30 50 40 60 7,6 25,5 4,7 18-24 OKkio alla SALUTE 13,0 47,2 48,4 35-44 HBSC 11,7 70 80 11,0 90 100 Percentuale Sotto-normopeso Sovrappeso Obesità Figura 2.3 Distribuzione dei soggetti secondo classi di indice di massa corporea e classe d’età. Italia – ricomposizione di più fonti informative: OKkio alla SALUTE 2010 (dati misurati), HBSC 2005-2006 (dati autoriferiti), Istat 2009 (dati autoriferiti). minimo nei giovani adulti di 18-24 anni (2,6%). La prevalenza di obesità cresce poi con l’età, raggiungendo le percentuali più elevate (circa il 16%) tra i 65 e i 74 anni. Successivamente, nei più anziani, la percentuale di obesi si riduce. L’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare Nell’ambito del Progetto Cuore del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute (CNESPS)/ISS, viene effettuata periodicamente la misurazione dei fattori di rischio cardiovascolari su campioni di popolazione, attraverso esami fisici standardizzati, rigorosi e accurati. I dati sono raccolti nell’ambito dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare (OEC), costituito da una rete di centri ospedalieri pubblici dislocati in modo omogeneo su tutto il territorio italiano e che rappresenta una delle linee di ricerca del Progetto Cuore. Fra il 1998 e il 2002, la prima indagine dell’Osservatorio ha fornito stime dei rischi per l’Italia a livello nazionale e per macroaree geografiche (Nord-Est, Nord-Ovest, Centro, Sud e Isole). Secondo l’OEC, tra il 1998 e il 2002 (I indagine), in Italia: • nella popolazione generale (uomini e donne di età compresa fra 35 e 74 anni), il 17% degli uomini e il 21% delle donne sono obesi. Il 50% degli uomini e il 34% delle donne sono in sovrappeso; • nella popolazione anziana (uomini e donne di età compresa fra 65 e 74 anni), il 20% degli uomini e il 32% delle donne sono obesi. Il 50% degli uomini e il 40% delle donne sono in sovrappeso; 13 Ministero della Salute • nelle donne in menopausa il 30% è obeso e il 39% è in sovrappeso. Dal 2008 è iniziato un nuovo esame della popolazione (II indagine). Pertanto, per le Regioni in cui è già stata svolta la raccolta dei dati è possibile consultare i nuovi dati (www.cuore.iss.it/fattori/ italia.asp). Mortalità per/associata a obesità Sono state utilizzate le basi di dati Istat sulle cause di morte, la fonte ufficiale delle cause di morte 50 con la sola causa iniziale codificata e l’archivio dei certificati di decesso contenente tutte le diagnosi riportate, come stringhe alfanumeriche, dal medico necroscopo al momento del decesso. L’analisi è stata condotta sull’ultimo anno disponibile dei dati, il 2006 (Figura 2.4). Sono stati selezionati tutti i decessi attribuiti all’obesità (ICD-10 E66) o a essa associati, ovvero con menzione di obesità, e ne è stata fatta una prima descrittiva classificazione per sesso, età e residenza. La selezione dei certificati con menzione di obesità è stata fatta cercando fra tutte le diagnosi riportate Uomini Donne Tassi × 100.000 40 30 20 10 0 0 1-4 5-9 10-14 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 65-69 70-74 75-79 80-84 ≥ 85 Classe di età Regione di residenza Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Uomini Donne 5,69 14,76 3,95 0,64 5,00 8,81 4,49 6,85 3,79 7,61 4,11 6,91 8,51 5,66 0,23 6,01 7,27 5,91 6,44 4,33 7,80 4,56 Regione di residenza Uomini Donne Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna 4,46 4,98 10,87 5,02 7,22 5,47 5,30 5,06 5,96 8,07 7,74 9,41 6,89 9,96 7,70 5,27 7,69 6,93 Italia (residenti) 5,15 6,59 La frequenza della menzione di obesità tra le cause di morte aumenta all’aumentare dell’età. Figura 2.4 Mortalità per/associata a obesità. Tassi standardizzati × 100.000 (residenti in Italia 2006). 14 Parte Prima – La situazione attuale sul certificato (siano esse iniziali, intermedie e finali o concomitanti) le stringhe “obesi” ed “eccesso ponderale”. Dei 554.805 decessi avvenuti nel 2006 sul territorio italiano, 692 vengono attribuiti al codice ICD-10:E66 (obesità), ma l’analisi, seppure preliminare, dei certificati di decesso quintupla questa stima e i decessi per obesità o a essa associati salgono complessivamente a 3809. Dei 3809 decessi per obesità o associati a obesità avvenuti in Italia (22 dei quali residenti all’estero o con residenza sconosciuta), a parte i 692, pari al 18%, attribuiti al codice ICD-10:E66 dell’obesità, il restante 82% è attribuito ad altre cause e fra queste le più rappresentate sono le malattie del sistema circolatorio (per lo più cardiopatie ischemiche e malattie ipertensive) con il 42% dei decessi, le malattie dell’apparato respiratorio con il 10% e il diabete, al quale è attribuito circa il 9% dei decessi associati a obesità. L’analisi descrittiva per sesso, età e residenza evidenzia un tasso maggiore per le donne, pari a 6,59 per 100.000 anni-persona, mentre fra gli uomini il tasso è di 5,15, ma il differenziale di genere aumenta fra gli anziani. Per le donne i tassi più elevati si registrano nelle Puglie (9,96), nel Molise (9,41), in Valle d’Aosta (8,51), nel Lazio (8,07), in Umbria (7,8); fra gli uomini i tassi più alti si osservano in Valle d’Aosta (14,76) [che malgrado il numero esiguo di casi produce un tasso significativamente più elevato della media nazionale, sia per gli uomini sia per le donne], nel Molise (10,87), nel Friuli Venezia Giulia (8,81), in Umbria (7,61) e in Puglia (7,22). In sintesi, sebbene nelle Regioni del Centro-Sud si osservino tassi mediamente più elevati, soprattutto per le donne, un chiaro gradiente NordSud non sembra evidenziarsi, come si riscontra per altre patologie e in alcune Regioni settentrionali i tassi sono tra i più elevati. 2 Costi dell’obesità Ogni malattia comporta degli effetti negativi più o meno gravi non solo sulle condizioni di vita dei pazienti, ma anche su quella dei familiari e, indirettamente, sulla collettività. L’obesità, in particolare, ha un impatto significativo sulla società. L’impatto economico negativo deriva dai costi dei sistemi sanitari (farmaci e ospedalizzazioni), dall’assenteismo nel lavoro e dalla ridotta performance lavorativa. L’obesità è responsabile del 2-8% dei costi sanitari e del 10-13% dei decessi in diverse parti della Regione europea dell’OMS, dove, ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile di più di 1 milione di decessi e della perdita di 12 milioni di DALY (Disability-Adjusted Life Years, anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). L’obesità influenza pesantemente anche lo sviluppo economico e sociale; secondo la Carta Europea sull’Azione di Contrasto all’Obesità (Conferenza Ministeriale della Regione Europea dell’OMS, Istanbul, novembre 2006), l’obesità e il sovrappeso negli adulti sono responsabili della spesa sanitaria nella Regione europea per una percentuale che arriva fino all’8%; per di più, comportano costi indiretti, conseguenti alla perdita di vite umane, di produttività e guadagni correlati, che sono almeno il doppio dei costi diretti (ospedalizzazioni e cure mediche). Difficile, poi, calcolare i costi dovuti a minore rendimento scolastico, discriminazione lavorativa, problemi psicosociali. Inoltre, ogni anno per obesità muoiono 390 persone ogni 100.000 abitanti e i giovani adulti con BMI > 35 kg/m2 hanno una riduzione nell’aspettativa di vita fino a 10 anni. Negli Stati Uniti, Ricci et al. hanno stimato nel 2002 i costi di assenteismo e ridotta performance lavorativa conseguenti all’obesità intorno agli 11,7 15 Ministero della Salute miliardi di dollari. Nel nostro Paese, nel 2005 è stato calcolato che i costi diretti e indiretti annui per le condizioni di sovrappeso/obesità ammonterebbero a 22,8 miliardi di euro, dei quali il 64% per ospedalizzazioni (Studio SPESA, Università degli Studi di Milano). L’epidemia di obesità potrebbe essere reversibile solo implementando azioni complessive, dal momento che la radice del problema risiede nel rapido cambiamento dei determinanti sociali, economici e ambientali degli stili di vita delle persone. È necessario creare una società in cui gli stili di vita salutari, per dieta e attività fisica, siano la norma e dove gli obiettivi culturali, sociali, di salute ed economici siano allineati e le scelte salutari siano facilitate e rese più accessibili per gli individui. Le strategie per contrastare questa epidemia dovrebbero incoraggiare abitudini alimentari corrette, attraverso la riduzione del consumo di grassi e zuccheri, incentivando le persone a mangiare più frutta e verdura, oltre che mirare a un aumento dei livelli di attività fisica. Le opportunità di svolgere quotidianamente attività fisica, come il trasporto attivo, dovrebbero essere rese accessibili e disponibili per tutta la popolazione mediante programmi a livello scolastico e lavorativo. È quindi essenziale coinvolgere tutti i gruppi sociali e avere il sostegno degli enti locali, fino a raggiungere governi e organizzazioni internazionali [Carta Europea sull’Azione di Contrasto all’Obesità (Conferenza Ministeriale della Regione Europea dell’OMS, Istanbul, novembre 2006)]. Strategie internazionali e nazionali Le iniziative internazionali La Conferenza Europea sull’obesità di Copenaghen (11-12 settembre 2002) ha evidenziato che l’incidenza dell’obesità è aumentata in Europa del 16 10-50% nell’ultimo decennio a seconda del Paese considerato e che circa il 4% di tutti i bambini europei è affetto da obesità. Sovrappeso e obesità sono inoltre responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive fra gli adulti che vivono in Europa. In Europa non esistono ancora sistemi di sorveglianza per bambini e adulti. Per i ragazzi in età scolare (11, 13 e 15 anni), invece, è attivo lo studio HBSC (vedi paragrafo “L’obesità infantile”). Nel marzo 2005 è stata lanciata la EU Platform for Action on Diet, Physical Activity and Health, un programma destinato a tutti gli attori interessati alla lotta all’obesità e alla promozione dell’attività fisica e di un’alimentazione sana, con lo scopo di una strategia coordinata a livello internazionale, che unisca interventi, legislativi e non, centrati soprattutto sui temi dell’attività fisica e di un’alimentazione sana e della creazione di uno spazio comune europeo di discussione e aggiornamento. Alla piattaforma, che agisce sotto l’autorità della Commissione Europea, prendono parte come osservatori anche l’OMS e l’EFSA (European Food Safety Authority). La Piattaforma ha prodotto nel 2006 due documenti (First Monitoring Progress Report e Second Monitoring Progress Report) e nel marzo 2007 un nuovo rapporto (Synopsis Commitments – Annual Report 2007). I report esaminano le misure legate agli scopi della piattaforma: la promozione delle informazioni nutrizionali e dell’attività fisica, le iniziative per influenzare le decisioni politiche, le questioni legate all’etichettatura e alle porzioni dei prodotti alimentari, la pubblicità e il marketing e, infine, la diffusione del lavoro della piattaforma. In risposta all’epidemia di obesità, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS ha tenuto a Istanbul una Conferenza nel novembre 2006, dove tutti Parte Prima – La situazione attuale gli Stati membri hanno adottato la Carta europea sull’azione di contrasto all’obesità, che elenca principi guida e aree d’azione chiare a livello locale, regionale, nazionale e internazionale per un’ampia gamma di parti interessate. Le pubblicazioni della Conferenza analizzano i programmi e le politiche efficaci nei vari settori, come per esempio l’educazione, la salute, l’agricoltura e il commercio, la pianificazione urbana e i trasporti. Tali documenti descrivono anche come progettare politiche e programmi per la prevenzione dell’obesità e come monitorare i progressi. Per quanto riguarda l’azione delle parti interessate, si sollecitano per esempio il settore privato, inclusi l’industria alimentare, pubblicitari e commercianti, a revisionare le proprie politiche, sia volontariamente, sia come risultato di un’apposita legislazione. Le organizzazioni professionali devono sostenere la prevenzione e il trattamento dell’obesità e della relativa morbilità. Le organizzazioni di consumatori dovrebbero collaborare fornendo informazioni e tenendo alta la consapevolezza del pubblico. Gli attori intergovernativi devono assicurare che l’azione concordata sia applicata oltre i confini nazionali, istituendo adeguate direttive e fornendo orientamenti politici. La conferenza si inserisce nel processo di implementazione della Strategia globale su dieta, attività 2 fisica e salute concordata all’Assemblea mondiale sulla salute del maggio 2004 (Risoluzione WHA57.17), della Strategia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili (approvata dal Comitato regionale per l’Europa dell’OMS alla sua quinta-sesta sessione nel 2006) e della Strategia globale sull’alimentazione dei neonati e dei bambini, concordata all’Assemblea mondiale sulla salute del maggio 2002 (Risoluzione WHA55.25). La situazione italiana Per quanto riguarda la situazione italiana, un contributo interessante al dato epidemiologico viene fornito da due sistemi di sorveglianza: “PASSI”1 e “OKkio alla SALUTE”2, che hanno lo scopo di fornire alle Aziende Sanitarie Locali una robusta base di dati sui principali rischi per la salute, sulle frequenze e su come questi si modificano nel tempo, sui gruppi di popolazione particolarmente a rischio e sulle differenze tra popolazioni che abitano in aree diverse. L’integrazione tra le diverse sorveglianze di popolazione rafforza e motiva gli interventi realizzati dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) per la promozione della salute e consente di monitorarne i progressi. Inoltre, contribuisce a rafforzare la col- 1 Sistema di sorveglianza PASSI Nel 2006, il Ministero della Salute ha affidato al Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità il compito di sperimentare un sistema di sorveglianza della popolazione adulta (PASSI, Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia). L’obiettivo è stimare la frequenza e l’evoluzione dei fattori di rischio per la salute, legati ai comportamenti individuali, oltre alla diffusione delle misure di prevenzione. La raccolta continua permette di verificare quanti italiani adottano corretti stili di vita per prevenire le maggiori malattie cronico-degenerative e quindi di monitorare l’effetto delle attività di prevenzione. Dalla popolazione di età compresa tra 18 e 69 anni, infatti, PASSI raccoglie conoscenze, atteggiamenti e pratiche su molti importanti aspetti legati alla prevenzione. 2 OKkio alla SALUTE OKkio alla SALUTE è un sistema di monitoraggio finalizzato alla raccolta di informazioni sulle abitudini alimentari e sull’attività fisica nei bambini di 6-10 anni ed è parte del progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età 6-17 anni”. 17 Ministero della Salute laborazione interistituzionale, promossa dal programma nazionale “Guadagnare Salute”, finalizzata alla realizzazione di azioni che facilitino scelte di vita salutari. I programmi di contrasto all’obesità del Ministero della Salute fanno in particolare riferimento a diverse linee di attività, quali: la Collaborazione con la Regione europea dell’OMS alla definizione di una Strategia di contrasto alle malattie croniche denominata Gaining Health; la Cooperazione con l’OMS alla costruzione di una Strategia europea di contrasto all’obesità; le Indicazioni Europee da parte del Consiglio EPSCO nel 2006; il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008; il Piano di Prevenzione 2010-2012, lo Sviluppo e coordinamento del Piano Guadagnare. In particolare, vanno ricordati gli Indirizzi Europei che valorizzano le azioni tese a un approccio globale ai fattori determinanti per la salute a livello europeo, compresa una politica coerente e universale in materia di alimentazione e di attività fisica, e all’impatto esercitato sulla salute pubblica, in particolare nei bambini, dalla promozione, commercializzazione e presentazione di alimenti a elevato tenore energetico e di bevande edulcorate. Inoltre, il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 enfatizza la necessità di promuovere la salute attraverso interventi da attuarsi nell’ambito individuale finalizzati a modificare i comportamenti soggettivi (es. promuovendo l’adozione da parte dei cittadini di corretti stili di vita) e a livello delle collettività, migliorando i contesti e le condizioni di vita rilevanti ai fini della salute. Evidenzia anche la necessità di un’ampia trasversalità di interventi tra operatori sanitari e non sanitari, perché gli interventi possono essere all’interno del servizio sanitario, ma spesso richiedono azioni intersettoriali che vedono coinvolte altre Istituzioni. Il Programma interministeriale “Guadagnare Salute” parte dall’identificazione dei fattori di rischio (ali- 18 mentazione, fumo, alcool, sedentarietà) che possono essere modificati e i principali determinanti delle malattie croniche più frequenti, identificando 4 aree settoriali: • promozione di comportamenti alimentari salutari (relativo al fattore di rischio “scorretta alimentazione”); • lotta al tabagismo (relativo al fattore di rischio “fumo”); • lotta all’abuso di alcool (relativo al fattore di rischio “alcool”); • promozione dell’attività fisica (relativo al fattore di rischio “sedentarietà”). “Guadagnare Salute” ha previsto la definizione di protocolli d’intesa tra il Ministero e i rappresentanti di varie organizzazioni del sindacato, delle imprese e dell’associazionismo. Questi accordi sono la base per dare concretezza al programma, rappresentando quindi un punto di partenza, con l’individuazione di vari step di un processo in continua evoluzione, avendo come obiettivo la necessità di determinare un profondo cambiamento culturale che pone al centro dell’attenzione che un corretto stile di vita determina una buona qualità della vita. In particolare, sono stati firmati protocolli di intesa con Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali – Inran, Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, Produttori e Gestori dei pubblici servizi, Asl, Enti locali, Responsabili personale settore privato e Associazioni della panificazione. Tali protocolli evidenziano la necessità che le strategie devono prevedere azioni che coinvolgano diversi interlocutori, anche fuori dal sistema sanitario, in quanto per agire sui fattori ambientali e sui determinanti socioeconomici delle malattie croniche sono necessarie alleanze tra forze diverse, esterne alla capacità di intervento del SSN, ma necessarie per contrastare i fattori di rischio e promuovere la salute, adottando politiche di intersettorialità. Parte Prima – La situazione attuale In coerenza con il programma “Guadagnare salute”, con il Decreto Ministeriale 26 aprile 2007 è stata istituita, presso il Ministero della Salute, la Piattaforma nazionale sull’alimentazione, l’attività fisica e il tabagismo, con il compito di formulare proposte e attuare iniziative. La Piattaforma prevede la partecipazione di rappresentanti delle amministrazioni centrali interessate, delle Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano e delle associazioni firmatarie dei protocolli di intesa. Il Piano Nazionale Prevenzione 2010-2012 distingue quattro macro-aree di intervento: • la medicina predittiva, che si rivolge agli individui sani, ricercando la fragilità o il difetto che conferisce loro una certa predisposizione a sviluppare una malattia; • i programmi di prevenzione collettiva, che mirano ad affrontare rischi diffusi nella popolazione generale, sia con l’introduzione di politiche favorevoli alla salute o interventi di tipo regolatorio, sia con programmi di promozione della salute o di sanità pubblica (come programmi di sorveglianza e controllo delle malattie infettive), sia con interventi rivolti agli ambienti di vita e di lavoro (come controlli nel settore alimentare, delle acque potabili, prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali ecc.); • i programmi di prevenzione rivolti a gruppi di popolazione a rischio e finalizzati a impedire l’insorgenza di malattie (es. i programmi di vaccinazione in gruppi a rischio) o a diagnosticare precocemente altre malattie (es. gli screening oncologici), o ancora a introdurre nella pratica clinica la valutazione del rischio individuale e interventi successivi di counseling o di diagnosi precoce e trattamento clinico (es. la prevenzione cardiovascolare); 2 • i programmi volti a prevenire complicanze e recidive di malattia e che promuovano il disegno e l’implementazione di percorsi che garantiscano la continuità della presa in carico, attraverso il miglioramento dell’integrazione all’interno dei servizi sanitari e tra questi e i servizi sociali, di fasce di popolazione particolarmente fragili, come anziani, malati cronici, portatori di polipatologie, disabili ecc. Il 25 marzo 2009, la Conferenza Stato-Regioni ha approvato l’Accordo per la realizzazione degli obiettivi prioritari di Piano per l’anno 2009. Tra gli obiettivi di Piano va ricordato quello riguardante “gli effetti positivi, solidamente documentati, dell’attività fisica sulla patologia cronica non trasmissibile, da quella cardiovascolare al diabete, all’obesità, all’osteoporosi e ad alcune patologie neoplastiche quali il cancro del colon e della mammella”. L’obiettivo evidenzia “l’esistenza di relazioni positive fra regolare attività fisica aerobica e riduzione di alcune patologie quali quelle cardiovascolari, il diabete, l’obesità e inoltre enfatizza il concetto che praticare un’attività fisica costante può divenire uno strumento per prevenire l’insorgenza di molte patologie”. A tale proposito l’Accordo evidenzia che, “nonostante le solidissime evidenze scientifiche, il tema della promozione dell’attività fisica nella popolazione generale e della ‘prescrizione dell’attività fisica’ per le persone a rischio più elevato resta una delle aree di intervento più sottovalutate in seno al SSN; è pertanto necessario sviluppare sperimentazioni relative all’introduzione di tale pratica in aree del Paese in cui esistono condizioni favorevoli per avviare tale percorso, sottoponendo i risultati raggiunti a una rigorosa valutazione di efficacia e di costo-efficacia in vista di un’eventuale estensione di tali programmi”. 19 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 3. Appropriatezza clinica Criteri diagnostici L’esecuzione di un’anamnesi accurata è la parte più delicata del procedimento che, se non compiuta in maniera completa e adeguata, può pregiudicare le decisioni terapeutiche e alla fine vanificare gli investimenti terapeutici compiuti. L’anamnesi familiare deve evidenziare in maniera esaustiva la presenza dell’obesità, del diabete mellito di tipo 2, dell’ipertensione arteriosa e delle iperlipoproteinemie nei parenti di primo grado (e in taluni casi anche di secondo grado, se possibile). L’anamnesi alimentare deve essere molto accurata, per valutare sia le abitudini attuali sia quelle precedenti. La presenza (attuale o storica) dei disturbi del comportamento alimentare (DCA) clinici o subclinici deve ugualmente essere ricercata con meticolosità. L’interrogatorio deve vertere anche sulla modalità della richiesta di intervento, per cercare di capire i motivi della richiesta di cura. Se l’intervento avviene in centri ospedalieri con competenze multidisciplinari o in centri di eccellenza, queste ultime parti dell’anamnesi vanno completate mediante l’applicazione di alcuni test psicometrici specifici. La storia delle modificazioni del peso (tempo d’insorgenza, numero e tipo di diete, interventi con farmaci antiobesità, entità delle eventuali oscillazioni del peso) deve essere sempre messa in cor- relazione con gli eventi affettivi, lavorativi, sociali occorsi durante la vita del paziente per cercare di identificare dei nessi causali con la modificazione dello stile di vita. Nell’effettuare l’anamnesi patologica particolare attenzione va riservata alla valutazione della presenza di ansia, depressione e ogni altra patologia psichiatrica. La consulenza psichiatrica può e deve essere richiesta a ogni livello di intervento, ma è mandatoria nei centri ospedalieri con competenze multidisciplinari. Nell’inquadramento clinico del paziente affetto da obesità il metodo più semplice, scientificamente corretto e pratico per valutare quantitativamente l’eccesso ponderale è rappresentato dal calcolo dell’indice di massa corporea (body mass index, BMI) [kg/m2]. Tuttavia, l’enorme impulso ricevuto dalla ricerca in campo medico a causa della diffusione epidemica della malattia ha sottolineato l’importanza di una definizione non soltanto quantitativa, ma anche qualitativa, dell’eccesso ponderale. La presenza, infatti, di una prevalente localizzazione addominale (obesità centrale), più frequente nel sesso maschile e legata all’eccesso di tessuto adiposo viscerale, comporta un aumento significativo del rischio aterosclerotico, di malattie cardiovascolari e metaboliche. Nell’obesità periferica invece, più caratteristica del sesso femminile, la prevalente localizzazione a 21 Ministero della Salute livello dei fianchi e della radice delle cosce comporta una sostanziale ininfluenza sul profilo di rischio cardiovascolare del soggetto. Insieme al BMI è quindi necessario eseguire la misurazione della circonferenza vita, direttamente correlata alla presenza di grasso viscerale, e la misurazione della circonferenza dei fianchi. La valutazione della composizione corporea del paziente mediante esecuzione della bioimpedenziometria corporea è di indubbia utilità nell’inquadramento e nel follow-up del paziente obeso e deve essere ritenuta mandatoria nei centri di secondo e terzo livello. Si tratta, infatti, di un esame rapido, non invasivo, relativamente non costoso, che consente di diagnosticare correttamente anche i casi di obesità sarcopenica ipometabolica. Oltre alla doverosa attenzione riguardo alle malattie cardiovascolari, non va mai dimenticata la ricerca accurata di altre malattie legate a stati di infiammazione di basso grado, quali per esempio le malattie reumatiche o la psoriasi. La ricerca delle patologie endocrine non deve limitarsi alla valutazione anamnestica e all’esame obiettivo, ma vanno ricercate sistematicamente, anche con valutazioni ormonali e/o strumentali, le patologie della tiroide e della surrene, così come uno stato di insulino-resistenza o di disglicidemia. Tutti i disordini metabolici riconducibili all’obesità viscerale (diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemia, obesità) dovranno essere attentamente valutati rientrando nella definizione di sindrome metabolica. Allo stato attuale, nel valutare la diagnosi di sindrome metabolica è necessario fare riferimento ai criteri diagnostici proposti nel 2005 dal National Cholesterol Education Program-Adult Treatment Panel (NCEP-ATP III). Oltre a un’accurata anamnesi e valutazione clinica (pressione arteriosa, circonferenza vita), tale definizione richiede l’esecuzione di semplici esami di routine come glicemia e profilo lipidico. 22 Per porre diagnosi di sindrome metabolica sono necessari almeno tre dei seguenti criteri: • glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl; • circonferenza addominale > 88 cm nella donna e > 102 cm nel maschio; • colesterolo HDL < 50 mg/dl nella donna e < 40 mg/dl nel maschio; • livelli di trigliceridi ≥ 150 mg/dl; • valori di pressione arteriosa ≥ 130/85 mmHg. Obiettivi e strumenti terapeutici Alla base dei dibattiti sul significato dello stile di vita nella terapia dell’obesità sta l’ineluttabile necessità di considerare l’obesità una malattia cronica, concetto che, al momento, non è generalmente accettato dall’intera comunità medica. L’obesità ha un’eziologia multifattoriale con fattori genetici, ambientali e individuali che concorrono nel determinare un’alterazione del bilancio fra introito calorico e dispendio energetico, con conseguente accumulo di tessuto adiposo in eccesso. La prevalenza dell’obesità è in drammatico incremento in tutto il mondo, arrivando a interessare in numerosi Paesi fino a un terzo della popolazione, con un’incidenza in costante aumento soprattutto nella popolazione pediatrica. Vi sono ampie evidenze in letteratura che l’utilizzo della sola prescrizione dietetica porta a una riduzione del peso con conseguente sindrome di oscillazione del peso. Nel parlare di dieta, nel trattamento dell’obesità, è necessario intendere non soltanto un regime alimentare ipocalorico, ma uno stile di vita corretto. Lo stile di vita rappresenta, infatti, un modo di vivere che può essere modificato nel corso della vita e che include, secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 2002, oltre a un’alimentazione sana e varia una regolare attività fisica, il moderato consumo di alcool e la cessazione dell’eventuale abitudine tabagica o dell’uso di droghe. Parte Prima – Appropriatezza clinica È evidente, pertanto, che nel trattamento dell’obesità, insieme alla restrizione alimentare occorre introdurre un esercizio fisico di bassa intensità (aerobico) e di lunga durata (dai 30’ ai 60’ in base alle condizioni metaboliche del paziente). Tale attività fisica va eseguita almeno 4 giorni a settimana, meglio se tutti i giorni. L’esecuzione di un programma di questo tipo corrisponde di fatto a un cambiamento radicale dello stile di vita del paziente, che va mantenuto anche dopo il raggiungimento del peso desiderabile; il cessare di fare ciò comporta, anche in questo caso, un nuovo aumento di peso. La consapevolezza attiva della persona Il cambiamento permanente dello stile di vita può essere raggiunto con tecniche di derivazione cognitivo-comportamentale che aiutino il paziente a compiere le scelte su base quotidiana, rinforzando la volontà di proseguire nel percorso intrapreso, cercando al tempo stesso di far mettere in relazione i sentimenti che precedono, accompagnano e se- 3 guono l’assunzione del cibo e l’esecuzione dell’attività fisica, con la qualità della performance che il paziente si è proposto di raggiungere. Anche queste abilità comportamentali vanno rinforzate nel tempo, affinché non si perda quella tensione emotiva positiva che si è venuta a creare. In altre parole, si deve aiutare il paziente ad allontanare da sé i pensieri disfunzionali che impediscono di raggiungere un adeguato livello di assertività. È evidente, infine, che il percorso delineato, sui dettagli del quale non è questa la sede per entrare, viene compiuto più facilmente da quei pazienti che sono realmente motivati e pronti a perdere peso; per valutare questa condizione esistono strumenti clinici idonei e di facile esecuzione che vanno sempre applicati nelle fasi iniziali della valutazione del paziente. I pazienti che non sono motivati e/o pronti a intraprendere il percorso integrato di cambiamento dello stile di vita vanno, in via preliminare, aiutati mediante una serie di colloqui motivazionali strutturati. Lo schema di valutazione e decisione è riassunto nella Figura 3.1. 23 Ministero della Salute In caso di Adeguata motivazione, compliance alle indicazioni terapeutiche fornite con adeguata risposta in termini di calo ponderale (–10% del peso corporeo iniziale a un anno) Il paziente continua il percorso multidisciplinare in atto per il trattamento dell’obesità In caso di Non adeguata motivazione e/o disturbi psicotici, depressione severa, alterazioni della personalità, disturbi del comportamento alimentare in atto Percorso terapeutico psichiatrico individuale o di gruppo (es. gruppi BED) In caso di Adeguata motivazione e adeguata compliance, fallimento alla terapia multidisciplinare per obesità, scarso o mancato mantenimento del calo ponderale ottenuto oppure Adeguata motivazione, BMI ≥ 40 kg/m2 o 35 < BMI < 40 kg/m2 con comorbilità associate (patologie cardiorespiratorie, malattie articolari gravi, gravi problemi psicologici, malattie del metabolismo) con Valutazione multispecialistica collegiale POSITIVA Valutazione chirurgica per obesità Rivalutazione delle comorbidità, specie di tipo endocrinologico, della concomitante terapia farmacologica e della compliance al percorso postoperatorio. Illustrazione e scelta del tipo di intervento Esami di preospedalizzazione • FT3, FT4, TSH, insulinemia, cortisolo urinario, ACTH, glicemia a digiuno e postprandiale, HbA1c, HDL, colesterolemia, creatininemia, trigliceridemia, elettroliti, prolattinemia • Rx del torace • Esofagogastroduodenoscopia • Ecografia addominale • PFR + visita pneumologica; polisonnografia in caso di OSAS • Valutazione cardiologica Intervento in regime di ricovero Follow-up multidisciplinare (chirurgo, endocrinologo, dietista) Istruzione ad adeguate regole alimentari (eventuale terapia con inibitori di pompa protonica) in caso di chirurgia restrittiva e valutazione del possibile sviluppo di deficit vitaminici (che possono manifestarsi fino a un anno dopo l’intervento). Rinforzo delle modifiche dello stile di vita compatibilmente con il quadro clinico. Controllo bioimpedenziometrico periodico ed esecuzione della MOC lombare e femorale Figura 3.1 Schema di valutazione dell’obesità. 24 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 4. Appropriatezza strutturale e tecnologica Requisiti strutturali, tecnologici e strumentali per la diagnosi e la cura L’esplosione epidemica dell’obesità nei Paesi a elevato sviluppo economico-sociale è pervenuta a una dimensione tale da costituire, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), uno dei più importanti settori di intervento per la tutela della salute pubblica. Il fenomeno è diffuso in varia misura in tutte le Regioni del nostro Paese, dove la prevalenza dell’obesità è in costante aumento, con una preoccupante espansione nell’età infantile. L’obesità incide profondamente sullo stato di salute, poiché si accompagna a importanti malattie quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica e altre condizioni morbose che in varia misura peggiorano la qualità di vita e ne riducono la durata. Per le sue conseguenze e per la sua vasta diffusione l’obesità comporta un altissimo costo sociale ed economico. La raccomandazione di ridurre il peso corporeo quando elevato è quindi cogente ed è in ultima analisi fondata sull’evidenza della relazione che lega l’obesità a una minore aspettativa di vita. Tuttavia, il trattamento a lungo termine è assai problematico e richiede un approccio integrato, che utilizzi gli strumenti a disposizione in modo complementare, avvalendosi spesso di competenze professionali di- verse, le quali condividano l’obiettivo terapeutico rappresentato da una riduzione percentuale di peso corporeo, mantenuta per 5 anni dalla fine del trattamento, compresa tra il 5% e il 10%, con parallelo miglioramento della qualità della vita. I centri di riferimento I centri di elevata specializzazione devono disporre di ampi locali facilmente accessibili ai disabili, a norma per quanto riguarda caratteristiche igrotermiche, impianto elettrico, caratteristiche illuminotecniche, norme di sicurezza, piano di manutenzione ordinaria e straordinaria delle attrezzature, suddivisi in: area di attesa proporzionata all’afflusso; ambulatori idonei e attrezzati che dispongano di sedie, lettini, servizi igienici e sollevatori in grado di reggere pesi almeno fino a 250 kg; devono inoltre disporre di tutte le apparecchiature atte a garantire il corretto inquadramento e la corretta assistenza del grande obeso. Ogni ambulatorio deve disporre di: computer, statimetro, bilancia per obesi (fino a 300 kg), sfigmomanometro con bracciale per obesi, oftalmoscopio, reflettometro per glicemia, materiale educativo. L’area dedicata agli ambulatori deve disporre di: impedenziometro [ed eventualmente DEXA (Dual Energy X-ray Absorptiometry) e calorimetro indiretto. 25 Ministero della Salute Tabella 4.1 Definizioni di Health Technology Assessment (HTA) Organismo Anno Definizione OTA 1972 Un dettagliato tipo di analisi politica che esamina le conseguenze sociali a breve e a lungo termine dell’applicazione della tecnologia Institute of Medicine (IOM) 1985 Qualunque processo che esamina e riporta le proprietà di una tecnologia medica utilizzata nella cura della salute, quali sicurezza, efficacia, fattibilità e indicazioni per l’uso, costi e costoefficacia, oltre a conseguenze sociali, economiche ed etiche, volute o involontarie Canadian Coordinating 1995 Office for Health Technology Assessment (CCOHTA) La valutazione delle tecnologie mediche – inclusi procedure, dispositivi e farmaci –, la quale richiede un approccio interdisciplinare che comprenda l’analisi della sicurezza, dei costi, della validità, dell’efficacia, dell’etica e della qualità degli stili di vita INAHTA 2006 La sistematica valutazione di proprietà, effetti e/o impatto delle tecnologie per la cura della salute. Potrebbe rivolgersi alle conseguenze dirette e volute delle tecnologie, nonché a quelle indirette e involontarie. Il suo scopo principale è fornire informazioni nell’elaborazione di politiche sanitarie relative all’uso della tecnologia. L’HTA è condotta da gruppi interdisciplinari che utilizzano esplicite e analitiche basi da una varietà di metodi EUnetHTA 2008 L’HTA è un processo multidisciplinare che, in modo sistematico, trasparente, obiettivo e robusto, riassume informazioni circa le questioni mediche, sociali, economiche ed etiche correlate all’uso della tecnologia in ambito sanitario. Il suo obiettivo è fornire informazioni per la formulazione di politiche della salute sicure ed efficaci, che mettano il paziente al centro e che mirino a ottenere i migliori risultati. Malgrado i suoi obiettivi politici, l’HTA deve sempre essere fermamente radicato nella ricerca e nel metodo scientifico SIHTA 2006 La complessiva e sistematica valutazione multidisciplinare (descrizione, esame e giudizio) delle conseguenze assistenziali, economiche, sociali ed etiche provocate in modo diretto e indiretto, nel breve e nel lungo periodo, dalle tecnologie sanitarie esistenti e da quelle di nuova introduzione (Carta di Trento) AgeNaS 2007 Approccio multidimensionale e multidisciplinare per l’analisi delle implicazioni medico-cliniche, sociali, organizzative, economiche, etiche e legali di una tecnologia (apparecchiature biomedicali, dispositivi medici, farmaci, procedure cliniche, modelli organizzativi, programmi di prevenzione e promozione della salute), attraverso la valutazione di più dimensioni quali l’efficacia, la sicurezza, i costi, l’impatto sociale e organizzativo Il ruolo dell’Health Technology Assessment e le evidenze disponibili sul trattamento dell’obesità Gli organismi nazionali e internazionali che si occupano di Health Technology Assessment (HTA) hanno formulato, nel corso degli anni, differenti e numerose definizioni (Tabella 4.1). L’acronimo HTA indica i tre termini inglesi: Health = salute; Technology = procedura, tecnica, struttura; Assessment = valutazione. Mentre non ci sono dubbi 1 sul primo termine, deputato a circoscrivere il campo d’azione, sugli altri va fatta chiarezza. Per quanto concerne il termine tecnologie, esso deve essere inteso in senso ampio: si definiscono tecnologie biomediche i farmaci, le attrezzature, le procedure mediche e chirurgiche utilizzate nei sistemi sanitari e i sistemi organizzativi e di supporto all’interno dei quali si provvede alle cure1. Analogamente, la Carta di Trento sulla “Valutazione delle tecnologie sanitarie in Italia” si riferisce tanto alle attrezzature sanitarie, che ai dispositivi medici, ai farmaci, ai si- USA Congress, Office of Technology Assessment (OTA), 1978. 26 Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica stemi diagnostici, alle procedure mediche e chirurgiche, ai percorsi assistenziali e, non ultimo, agli assetti strutturali, organizzativi e manageriali nei quali viene erogata l’assistenza sanitaria. Il termine valutazione, come appare evidente dall’origine dell’approccio decritta nel paragrafo seguente, va intesa come “supporto tecnico alle decisioni politiche”, e per estensione “supporto tecnico alle decisioni aziendali” e/o “supporto tecnico alle decisioni cliniche”. In Italia, a livello istituzionale, l’HTA viene esplicitamente menzionato nel Piano Sanitario Nazionale (PSN) 2006-2008: “La valutazione delle tecnologie sanitarie, intesa come insieme di metodi e strumenti per supportare le decisioni, si rivolge ai diversi livelli decisionali secondo modelli operativi differenziati, rivolti a fornire supporto a: • decisioni di politica sanitaria (adozione, diffusione e finanziamento di nuove tecnologie); • decisioni ‘manageriali’ di investimento in nuove tecnologie a livello aziendale e per la promozione di un utilizzo appropriato delle tecnologie medesime tramite l’elaborazione di protocolli; • decisioni cliniche, per la diffusione di ‘modelli di governo (governance)’ individuati da strutture centrali e da adottare a livello organizzativo, quali la definizione e diffusione degli standard qualitativi e quantitativi”. In definitiva, la peculiarità dell’HTA può essere ricondotta a due aspetti principali: la multidimensionalità della valutazione e la sua sistematicità. Entrambe sono legate alla finalità di supporto alle decisioni, politiche o aziendali che siano, le quali implicano l’adozione di un’ottica quanto più ampia possibile (rappresentanza dei diversi interessi in gioco, ovvero dei cosiddetti stakeholders) e un processo di definizione delle scelte quanto più possibile codificato e quindi trasparente. 2 4 Il processo di HTA è, quindi, per sua natura multidisciplinare e, di conseguenza, multiprofessionale. Come anche è tipicamente formalizzato, separando funzioni e ruoli: per esempio, prevedendo attori diversi a livello di ruolo strategico (cosa valutare), ruolo tecnico (assessment), sintesi valutativa (appraisal). Trattandosi di un approccio che vuole essere sistematico e, quindi, per definizione riproducibile, utilizza delle varie discipline le migliori pratiche e standard metodologici (vedi oltre i core models EUnetHTA). Le principali sfide che l’HTA deve oggi affrontare sono quella della trasferibilità dei risultati (trasferibilità a contesti diversi delle valutazioni), quella dell’impatto sulla pratica clinica (diffusione), ritenuta ancora insufficiente, e infine quella della capacità di sintesi dei diversi approcci logici e metodologici che sono tipici delle diverse discipline coinvolte. Cenni storici A livello internazionale le prime esperienze di Technology Assessment (TA) si trovano in settori differenti da quello sanitario. Il TA nasce alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti: in particolare, nel 1965 il Congresso istituì il “Committee on Science and Astronautics” con il compito di supportare le decisioni politiche in ambito astronautico. Il termine fu adottato per la prima volta nel 1967 da un italiano, Emilio Daddario, membro della succitata Commissione, il quale chiese al Congresso degli Stati Uniti di introdurre la valutazione di aspetti etici, sociali, economici e organizzativi a sostegno delle decisioni di policy maker. Per quanto concerne l’HTA, benché l’acronimo compaia già in un documento ufficiale del Congresso degli Stati Uniti del 19672, storicamente US Congress, House of Representatives. Committee on Science and Astronautics. Technology Assessment. Statement of Emilio Q. Daddario, Chairman, Subcommittee on Science Research and Development. 90th Cong., 1st session. Washington, DC 1967. 27 Ministero della Salute l’atto di nascita della nuova metodologia può essere fatto coincidere con due eventi verificatisi nel 1972: la pubblicazione da parte di Archibald Cochrane del volume Effectiveness and Efficiency, nel quale viene proposto un nuovo metodo di valutazione dell’efficacia terapeutica, e la fondazione da parte del Congresso statunitense dell’Office of Technology Assessment (OTA), operativo dal 1972 al 19953. Successivamente, dagli anni Novanta in poi, numerose Agenzie dedicate all’HTA, con compiti simili, sono nate in America e in Europa, a livello sia nazionale sia locale4. Un’ulteriore spinta al consolidamento e alla diffusione dell’HTA è giunta dalla nascita di alcuni organismi e progetti sovranazionali e dall’azione di network internazionali; si ricordano: l’International Network of Agencies for Health Technology Assessment (INAHTA), nata nel 1993 come rete internazionale delle Agenzie di valutazione delle tecnologie sanitarie con compito di promuovere la cooperazione e la condivisione della metodologia dell’HTA; l’International Society of Technology Assessment in Health Care (ISTAHC); e, da ultimo, la European Network for Health Technology Assessment (EUnetHTA), nata nel 2005. Ciononostante, le prime applicazioni istituzionali dell’HTA in Sanità si possono far risalire al 1982 in Francia con l’istituzione del CEDIT (Comité d’Évaluation et de Diffusion des Innovations Technologiques), un organo di supporto al Direttore Generale della rete ospedaliera pubblica di Parigi relativamente a decisioni inerenti le tecnologie sanitarie e l’innovazione organizzativa, e quindi un organismo che si è interessato alla valutazione 3 4 degli investimenti in tecnologie nuove e costose. In Italia, la valutazione delle tecnologiche in ambito sanitario ha una storia piuttosto recente. Si possono far risalire i primi approcci sistematici al 2003, con la costituzione del Network Italiano (NI-HTA) che ha formulato nel 2006 la Carta dei principi “Carta di Trento” sulla valutazione delle tecnologie sanitarie in Italia, e quindi la costituzione della Società Italiana di HTA (SIHTA). A livello istituzionale, il PSN 2006-2008 ha evidenziato la necessità di riconoscere l’HTA come una priorità e ha previsto lo sviluppo della funzione di coordinamento delle attività di valutazione condotte a livello regionale (o inter-regionale) da parte di organi tecnici centrali del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), quali l’Istituto Superiore di Sanità e l’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (oggi Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, AgeNaS). Con la delibera n. 73/CU del 20.09.2007, la Conferenza Unificata Stato-Regioni ha attribuito all’AgeNaS, tra gli obiettivi strategici, la funzione di “Supporto alle Regioni per la promozione di attività stabili a livello regionale e locale di programmazione e valutazione dell’introduzione e gestione delle innovazioni tecnologiche (HTA) e diffusione in ambito regionale dei risultati degli studi e delle valutazioni effettuate a livello centrale, favorendo l’adozione di comportamenti coerenti con tali risultati”. Va altresì ricordata l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che, nella fase di registrazione dei farmaci, di definizione del prezzo adeguato [negoziazione con l’Azienda titolare dell’autorizzazione all’immisione in commercio (AIC)] e delle condizioni di rimborso, coniuga la valutazione di efficacia, Nel 1994 i repubblicani votarono contro il finanziamento dell’OTA. Senza pretesa alcuna di esaustività, si ricorda che il CEDIT è attivo in Francia con compiti di HTA sin dal 1982, l’SBU (Swedish Council on Health Technology Assessment) in Svezia dal 1987; si ricorda poi, sempre a livello nazionale, il NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) in UK (1999) e l’IQWiG (Institut für Qualität und Wirtschaftlichkeit im Gesundheitswesen) in Germania (2005). 28 Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica 4 Tabella 4.2 Principi condivisi dalla “Carta di Trento” Chi La valutazione delle tecnologie sanitarie deve coinvolgere tutte le parti interessate all’assistenza sanitaria Che cosa La valutazione delle tecnologie sanitarie deve riguardare tutti gli elementi che concorrono all’assistenza sanitaria Dove La valutazione delle tecnologie sanitarie deve riguardare tutti i livelli gestionali dei sistemi sanitari e delle strutture che ne fanno parte Quando La valutazione delle tecnologie sanitarie deve essere un’attività continua che deve essere condotta prima della loro introduzione e durante l’intero ciclo di vita Perché La valutazione delle tecnologie sanitarie è una necessità e un’opportunità per la governance integrata dei sistemi sanitari e delle strutture che ne fanno parte Come La valutazione delle tecnologie sanitarie è un processo multidisciplinare che deve svolgersi in modo coerente con gli altri processi assistenziali e tecnico-amministrativi dei sistemi sanitari e delle strutture che ne fanno parte Fonte: Carta di Trento 28/03/2006. sicurezza e qualità di un medicinale con l’HTA. L’Agenzia svolge, quindi, le seguenti attività riconducibili all’ambito dell’HTA5: • valutazione dei nuovi farmaci e attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical efficacy); • raccomandazioni sull’uso appropriato dei farmaci (Note AIFA) correlate alle attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical effectiveness); • partecipazione alle decisioni sul rimborso dei farmaci, correlate alle attività di valutazione del rapporto costo-efficacia e di budget impact; • generazione di dati epidemiologici originati da flussi OsMed (relativi all’utilizzo dei farmaci in ambito territoriale e ospedaliero). AIFA e AgeNaS sono state indicate dal Ministro della Salute come amministrazioni di riferimento per la Joint Initiative della Commissione Europea sull’HTA e l’Efficacia relativa dei farmaci (EUnetHTA JA). Le indicazioni per l’HTA in Italia Le organizzazioni aderenti al Network Italiano di HTA (NI-HTA), al termine di un processo di con5 6 sultazione che ha coinvolto i partecipanti al “1° Forum italiano per la valutazione delle tecnologie sanitarie”6, hanno condiviso i seguenti principi che sono stati pubblicati e diffusi in un documento al quale è stato dato il nome di “Carta di Trento”. I principi concordati e stabiliti nella Carta rispondono all’esigenza di individuare e definire in maniera univoca il chi, che cosa, dove, quando e perché e il come della valutazione (Tabella 4.2). Le esperienze regionali Lo sviluppo di sistemi di HTA a livello regionale, a oggi, è stato attivato in modo esplicito (normato), seppure con tempi e modalità differenti, in 6 Regioni: Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Sicilia, Toscana, Veneto. L’Emilia-Romagna ha definito gli attori del processo, strutturato su due livelli e con il coinvolgimento di un apposito Centro regionale (Centro Regionale di Valutazione e Informazione sui Farmaci, CREVIF), senza una specializzazione dei ruoli in funzione della tecnologia, stressando piut- http://www.agenziafarmaco.gov.it/. Ultima consultazione: giugno 2011. Forum organizzato a Trento dal 19 al 21 gennaio 2006 dall’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, dall’Università di Trento e da NI HTA. 29 Ministero della Salute tosto la sua multidisciplinarità; non appare chiaramente esplicitata l’attribuzione del ruolo strategico, come anche la cogenza del processo valutativo, tranne che per le grandi attrezzature. La Lombardia stressa la finalità della valutazione dell’appropriatezza attraverso un processo strutturato su 3 fasi, a loro volta suddivise in numerosi e complessi step. Il Piemonte ha strutturato il processo su tre livelli, senza peraltro una specializzazione dei ruoli in funzione della tecnologia; appare chiaramente separato il ruolo strategico e quello tecnico; la cogenza del processo valutativo è legata ad apposita lista delle tecnologie da monitorare. La Sicilia ha iniziato il processo di definizione dell’HTA definendo l’esigenza di separare il ruolo tecnico (Nucleo, peraltro non ancora costituito) e quello strategico (Gruppo); il focus del processo è sulla promozione delle attività formative e di diffusione (fra i clinici). È presente anche una funzione di controllo, mediante la realizzazione di una banca dati delle principali attrezzature. La Toscana ha, invece, concentrato l’attenzione sulle specificità delle tecnologie, individuando varie aree di intervento: dispositivi medici, farmaci, apparecchiature, organizzazione, protocolli, edilizia ospedaliera. Il Veneto ha una struttura di HTA consolidata, essendo storicamente partner di EUnetHTA; il processo è organizzato su tre livelli, e coinvolge una struttura regionale (CREVIF) per gli aspetti tecnici, che si occupa indistintamente di farmaci e dispositivi medici; appare chiaramente separato il ruolo strategico da quello tecnico; non è, invece, esplicitata la cogenza del processo valutativo. In definitiva, è comune nelle Regioni considerate una focalizzazione verso le esigenze di programmazione e controllo delle tecnologie a livello locale (aziendale) e, in seconda istanza, sui processi di diffusione di pratiche cliniche e assistenziali appropriate. 30 Nessuna Regione esplicita criteri e metodologie di valutazione da adottare, demandandone la definizione a Centri regionali, ovvero commissioni tecniche; da questo punto di vista sembra esserci una diffusa disattenzione verso gli standard internazionali e quindi la trasferibilità dei risultati. Analogamente, i modelli sembrano in larga misura orientati all’autarchia, sebbene in alcuni casi si preveda l’integrazione in reti sovraordinate. HTA relativo al trattamento dell’obesità Nel seguente paragrafo si descrivono le principali aree di evidenza sviluppate in un contesto di HTA per il trattamento dell’obesità. Si precisa che non si tratta di una revisione sistematica della letteratura, né si è proceduto con metanalisi, in quanto entrambi gli ambiti esulano dagli obiettivi del presente lavoro. La ricerca è stata quindi limitata ai report HTA delle Agenzie “ufficiali”, ovvero agenti nell’ambito delle reti INAHTA e EUnetHTA. La strategia di ricerca adottata è stata la seguente: • database: INAHTA e EUnetHTA; • parole chiave utilizzate: obesity; • periodo: 2000-2010; • numero report individuati: 9. Seppure con diversa enfasi nei vari report, le aree che sono state oggetto di assessment possono essere riassunte come segue: • interventi multidisciplinari di tipo preventivo, agenti sui comportamenti e stili di vita; • chirurgica bariatrica (per l’obesità patologica); • approcci farmacologici; • residenzializzazione (un caso belga per soggetti di età pediatrica gravemente obesi). I criteri di assessment utilizzati sono vari: tutti i report affrontano la questione dell’efficacia dei trattamenti e, nella quasi totalità dei casi, della sicurezza, con particolare riferimento all’approccio chirurgico. Valutazioni economiche (costo-efficacia Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica o costo-utilità) sono citate, ma in generale ritenute di scarsa qualità; risulta frequente la valutazione della necessità di un maggiore sviluppo della ricerca in questo ambito. Un aspetto rilevante è considerato quello organizzativo, in particolare in relazione ai requisiti per l’attività chirurgica. Infine, vengono presi in considerazioni aspetti legali ed etici, i primi legati soprattutto al consenso informato. I risultati mostrano che la prevalenza dell’obesità è in crescita in tutti i Paesi considerati: nei report più recenti, si stima che in Belgio sia del 13% della popolazione adulta [indice di massa corporea (body mass index, BMI) ≥ 30 kg/m2], mentre in Canada raggiunge il 23,1%, con un 2,7% di obesità patologica (BMI ≥ 40 kg/m2 o BMI ≥ 35 kg/m2 con cociuto di rischio sia per il diabete sia per le malattie cardiovascolari. Anche la correlazione fra obesità e alcuni tipi di cancro è forte. L’impatto dell’obesità è rilevante anche sui costi del sistema: si stima sia responsabile del 2,4% dei costi sanitari in Canada; analogamente incide in 4 modo significativo sulla qualità della vita dei soggetti interessati. Nei report analizzati appare ampiamente consolidata la considerazione che si tratta di un problema sociale e che vada, quindi, prioritariamente affrontato con approcci multisettoriali, tesi a favorire una dieta corretta e l’attività fisica. Sebbene con diversi gradi di evidenza (maggiore per bambini e adolescenti, grado 1, che per gli adulti, grado 2), gli interventi preventivi si sono dimostrati efficaci nel ridurre il peso, mentre il problema principale rimane la persistenza della riduzione (dopo un anno). La Tabella 4.3 riporta le principali evidenze disponibili. Con riferimento all’approccio farmacologico è stato calcolato per orlistat, sibutramina, rimonabant il NNT (numero di pazienti con riduzione di peso da trattare affinché uno mantenga la riduzione per 2 anni, o 1 anno per sibutramina), con l’esito riportato nella Tabella 4.4. Non emerge, quindi, evidenza di superiorità del- Tabella 4.3 Interventi preventivi: principali evidenze disponibili Trattamento Dieta Attività fisica Fibre Dieta a ridottissime calorie Terapia comportamentale Orlistat Sibutramina Medicine alternative Studi (N) Peso perso a 1 anno (kg) Grado di evidenza 25 4 3 8 4 6 3 11 3-10 4 1-2 ? 2 1-2 ? 3 4-5 – 1 1 – 3 – 2 2 – Fonte: SBU, 2002. Tabella 4.4 NNT a 2 anni e sicurezza di orlistat, sibutramina e rimonabant Molecola Orlistat Sibutramina Rimonabant NNT a 2 anni Sicurezza 6-17 3-8 (a 1 anno); 10 a 18 mesi 7-25 Nessun problema a 4 anni Aumento pressione e tachicardia Non si possono trarre conclusioni NNT, numero di pazienti con riduzione di peso da trattare affinché uno mantenga la riduzione per 2 anni, o 1 anno per sibutramina. Fonte: KCE, 2006. 31 Ministero della Salute l’approccio farmacologico rispetto a quelli sugli stili di vita, anche in considerazione del fatto che la riduzione di peso non appare persistente dopo l’interruzione della somministrazione; mancano, inoltre, studi su endpoint primari, quali riduzione di mortalità ed eventi cardiovascolari. Da un punto di vista farmacoeconomico, pur esistendo studi costo-efficacia per orlistat e sibutramina, le conclusioni non si possono ritenere attendibili, per la scarsa qualità degli studi. Infine, si consideri che, data la potenziale estensione dei possibili soggetti trattabili, gli elementi di sicurezza non possono essere trascurati, in quanto si possono osservare eventi avversi rari, ma gravi, non rinvenibili nei trials. Nel caso dell’obesità severa, l’intervento chirurgico si dimostra più efficace a lungo termine (SBU, 2002: 25% di riduzione del peso a 5 anni, 16% a 10; NCCHTA, 2002: 23-27 kg a 8 anni), sebbene comporti rischi non irrilevanti. Si consideri che in generale le procedure più invasive si dimostrano più efficaci. Dai report pubblicati si evince che in Belgio il LAGB [Laparascopic Adjustable Gastric Banding (bendaggio gastrico)] è la procedura più frequente: tra i vantaggi la minore invasività, la facilità di esecuzione e la reversibilità; l’efficacia a lungo termine e la sicurezza sono però scarsamente documentate; per il Canada, il RYGB (bypass gastrico Rouex-en-Y) è invece considerato il gold standard. Altre opzioni sono la VBG [Vertical Banden Gastroplasty (gastroplastica verticale)], il BJ (bypass di Jejunoile), oltre al BPD-DS [Biliopancreatic Diversion (diversione biliopancreatica con switch duodenale)], che avendo dimostrato risultati positivi può essere considerato un’ulteriore opzione specialmente per pazienti super-obesi. Secondo il report NCCHTA (2002) il RYGB sarebbe più efficace della VBG e del BJ, con l’approccio laparoscopico che implicherebbe minori complicazioni. 32 Anche secondo il report di ASERNIP-S (2003), il LAGB sarebbe nel breve periodo più sicuro in termini di mortalità; rispetto a VBG e RYGB (ROUX-en Y Gastric Bypass) il tasso di mortalità sarebbe dello 0,05% (mediana del tasso complessivo di morbidità pari all’11,3%), contro, rispettivamente, lo 0,50% (23.6%) per RYGB e lo 0,31% (25,7%) per VBG. Rimanendo nell’approccio laparoscopico, il LAGB richiederebbe minore tempo operatorio e degenza ospedaliera rispetto al LVBG (Laparoscopic Vertical Banded Gastroplasty) e al LRYGB (Laparoscopic Roux-En-Y Gastric Bypass), ma con più frequenti complicazione e ri-operazioni a lungo termine, in particolare per i pazienti con obesità più severa. Il LAGB produce significativa perdita di peso nei pazienti obesi severi, ma meno che il LRYGB e la LVBG. Analogamente, il LRYGB sembra migliorare maggiormente la qualità della vita dei pazienti e alcune comorbidità. I rischi della chirurgia bariatrica rimangono, in generale, elevati: è stato stimato un tasso del 20% di riospedalizzazioni; è stato, altresì, stimato il 4,6% di mortalità a un anno da RYGB e il 24% di casi di malassorbimento a lungo termine. In ogni caso la specializzazione dello staff chirurgico è ritenuta un fattore fondamentale, essendosi dimostrata cruciale la curva di apprendimento, che produce un netto miglioramento della mortalità e morbidità oltre le 100 procedure annue. Molti report suggeriscono l’adozione di specifici registri nazionali. In generale, gli studi di valutazione economica ritengono che la chirurgia bariatrica sia costo-efficace, ma la qualità degli studi è minata sia dal non accordo su quale sia il comparatore rilevante, sia dalle incertezze sull’efficacia e sicurezza delle diverse procedure a lungo termine. In ogni caso è stato stimato che il RYGB ha un costo netto per QALY (Quality Adjusted Life Years) Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica di £ 6289, seguito dal LAGB con £ 8527 e dalla VBG con £ 10.237. Il RYGB avrebbe un costo netto per QALY guadagnato modesto rispetto alla VBG (£ 742 per QALY), mentre il LAGB ha un costo netto per QALY guadagnato molto alto rispetto al RYGB (£ 256.856 per QALY). Il LAGB, considerando l’alto costo del device, non è evidente che abbia un profilo rischio-beneficio migliore di procedure più invasive, come il RYGB. In generale, dati i profili di rischio, tutti i report concordano che l’approccio chirurgico andrebbe riservato ai casi di obesità molto severa, sebbene i criteri normalmente utilizzati (BMI ≥ 40 kg/m2 o BMI ≥ 35 kg/m2 con comorbidità) appaiano ampiamente arbitrari e necessiterebbero di approfondimenti di ricerca. Un report del KCE (2006) affronta, infine, anche una valutazione dell’opzione di residenzializzazione per bambini obesi severi: non viene analizzata, per la scarsa evidenza disponibile e per la scarsa rilevanza nel caso italiano. Le nuove tecnologie per la prevenzione e il follow-up delle complicanze o delle condizioni associate all’obesità Presidi diagnostici Misurazione della composizione corporea Analisi di impedenza bioelettrica (BIA) a corpo intero. Mediante un apposito modello matematico è possibile il calcolo sia dell’acqua corporea totale (total body water, TBW) espressa in litri, sia della massa magra totale (fat free mass, FFM) espressa in kg e, per differenza, della massa grassa (fat mass, FM). L’accuratezza di questo metodo è messa in discussione nel caso di grave obesità, in cui si è constatata un’alterazione nella distribuzione dei fluidi corporei con un notevole incremento del normale rapporto tra acqua extra- e intracellulare. 4 Tale tecnica, consentendo l’esecuzione delle misure in modo rapido, non invasivo, ripetibile, a basso costo, rappresenta un’importante risorsa nel follow-up del calo ponderale. Apparecchio DEXA (densitometria a doppio raggio X). Rappresenta attualmente il golden standard per una corretta valutazione della composizione corporea, soprattutto nelle situazioni (es. obesità grave) in cui altre metodiche di misurazione risultano meno affidabili. Consiste nell’esplorazione dell’intero corpo, o parte di esso, mediante raggi X a due diversi livelli di energia. Tramite la differenza del rapporto tra l’attenuazione dei fotoni a bassa e ad alta energia, è possibile determinare la massa grassa e la massa magra. Infatti, il tessuto magro e il tessuto adiposo hanno diverse densità, l’idratazione dei tessuti è un parametro pressoché costante, così come il contenuto della componente ossea di un corpo. Esistono casi in cui la determinazione dell’adipe sul peso corporeo non è facile, come per esempio nei soggetti con prominente muscolatura; in questo caso si utilizza la misurazione della massa grassa attraverso l’identificazione dello spessore di quest’ultima a livello sottocutaneo tramite tomografia computerizzata (TC), ultrasuoni o ecografia. TC con scansione a livello lombare (L4-L5, range di attenuazione: –30-190 Unità Hounsfield). Rappresenta attualmente l’indagine di riferimento per la valutazione distrettuale della distribuzione adiposa. Il rapporto tra lo spessore del grasso sottocutaneo e di quello viscerale rispecchia la distribuzione del grasso nell’organismo. Recentemente sono emerse evidenze sull’impatto metabolico dell’infiltrazione adiposa del tessuto muscolare scheletrico. Tale infiltrazione può essere anch’essa misurata mediante scansione TC, anche se la risonanza magnetica (RM) fornisce informazioni più accurate, soprattutto riguardo all’infiltrazione intracellulare di trigliceridi. La struttura radiologica nei centri di riferimento 33 Ministero della Salute regionali dovrebbe disporre di apparecchi dedicati per obesi gravi e superobesi (es. RM a cielo aperto). Valutazione del dispendio energetico La valutazione con calorimetria diretta, che rappresenta il golden standard, è stata ormai abbandonata a causa della sua dispendiosità. Attualmente si preferisce la misurazione con sistema per calorimetria indiretta, più economico, di più facile e rapida esecuzione e pertanto facilmente ripetibile. Sono attualmente in commercio apparecchiature che, oltre a tale valutazione nutrizionale, sono in grado di fornire un’analisi della funzionalità polmonare (spirometria, volumi polmonari, capacità di diffusione) e della funzione cardiopolmonare sotto sforzo. Recentemente si è reso disponibile l’Armband®, un sistema di monitoraggio tipo “Holter metabolico” che consente di registrare e analizzare informazioni accurate del dispendio energetico, dell’attività fisica e dello stile di vita durante la normale vita quotidiana. Il sistema comprende uno strumento da indossare sul braccio, che registra in continuo una serie di dati fisiologici corporei, come dispendio energetico del paziente (calorie bruciate), durata e livello dell’attività fisica, numero di passi e stato sonno/veglia. Valutazione delle comorbidità Screening bioumorale. Lo screening ematochimico comprende: analisi dei fattori di rischio cardiovascolare [profilo lipidico, hs-PCR (high-sensitivity C-reactive protein), indici di flogosi], OGTT (oral glucose tolerance test) per glicemia e insulinemia, funzionalità epatica e renale, screening ormonale per escludere cause secondarie di obesità (ipotiroidismo, ipercorticismo). Importante inoltre, nei centri di riferimento regionale, la possibilità di 34 uno screening genetico dell’obesità nei casi di obesità a esordio infantile, familiarità importante, obesità grave. Tecniche di imaging. Importante l’indagine ecografica internistica (tiroidea, tronchi sovra-aortici, venosa arti inferiori, addome completo), per il suo costo relativamente basso, la non invasività e la possibilità di indagare la vasta gamma di comorbidità spesso associate all’obesità. Rx tubo digerente prime vie, EGDS (esofagogastroduodenoscopia), eventuale pH manometria 24 h sono utili al fine di valutare eventuali patologie intercorrenti sensibili di trattamento chirurgico contestuale all’intervento bariatrico. Valutazione della funzione cardiopolmonare La parte senza dubbio fondamentale nella valutazione internistica del paziente obeso è rappresentata dalla stadiazione della funzione cardiopolmonare e del rischio cardiovascolare. Nella valutazione complessiva del rischio cardiovascolare va ricercata la presenza di fattori di rischio aggiuntivi, danno d’organo, presenza di patologie o di condizioni cliniche associate. Le procedure diagnostiche comprendono quindi più livelli: • registrazioni pressorie ambulatoriali o secondo Holter delle 24 h (apparecchiature fornite di bracciali per adulti obesi); • elettrocardiografia; • ECG delle 24 h secondo Holter; • ecocardiografia standard con valutazione della disfunzione diastolica; • eventuali indagini di secondo livello nella patologia ischemica associata (eco-stress, RM, scintigrafia miocardica). L’ecocardiografia standard è stata recentemente integrata dalla possibilità di valutare anche il grasso epicardico e la riserva coronarica. È ormai noto che il tessuto adiposo epicardico rappresenta un indice importante di adiposità viscerale e, inoltre, Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica la valutazione della riserva di flusso coronarico (coronary flow reserve, CFR) per mezzo di un test da sforzo farmacologico ecocardiografico permette di identificare già in fase preclinica la presenza di alterazioni di flusso coronarico, predittive di una disfunzione circolatoria in atto. Si tratta di una metodica di relativa recente introduzione, semplice, facilmente disponibile, non invasiva e riproducibile, che si è dimostrata in grado di predire in fase precoce un danno microangiopatico a livello coronarico. La tecnica consiste nella misurazione del flusso sanguigno diastolico con il color-doppler nella porzione distale dell’arteria coronaria discendente anteriore in condizioni basali e dopo infusione di adenosina (140 mg/kg/min per 5 minuti). La CFR viene calcolata come il rapporto fra la velocità massima di picco nella fase diastolica e il flusso a livello basale. Negli individui normali, l’aumento del lavoro cardiaco in condizioni di sforzo determina un aumento del flusso a livello distale delle coronarie di 4-5 volte rispetto al flusso in condizioni basali. Per la non invasività e il basso costo rispetto ai test standard (RM, TC, coronarografia), tali metodiche rappresentano un importante possibile sviluppo nella diagnostica precoce di primo livello delle complicanze cardiovascolari. Tuttavia, attualmente tali indagini sono ancora sperimentali e necessitano di ulteriore validazione scientifica prima di proporne l’uso routinario. Prove di funzionalità respiratoria e polisonnografia. L’eventuale presenza e severità di OSAS (obstruction sleep apnea syndrome) deve essere diagnosticata se possibile prima di procedere a trattamenti (soprattutto se invasivi-bariatrici) dell’obesità, al fine di identificare i pazienti a rischio di sviluppare complicanze di OSAS e di intraprendere una terapia adeguata. È ormai provato che l’OSAS si associa e/o è un importante fattore di rischio e aggravamento per insufficienza respiratoria ipos- 4 siemica-ipercapnica, ipertensione arteriosa sistemica (mancanza del “dipping” notturno e dello scarso controllo farmacologico), cardiopatia ischemica e scompenso cardiaco, aritmie cardiache, patologie cerebrovascolari, sindrome metabolica. Recenti studi eseguiti su pazienti OSAS hanno inoltre dimostrato un’alterazione dei fattori di coagulazione in senso trombofilico e un’alterazione della parete endoteliale in senso proinfiammatorio. Tutti questi fattori rendono il paziente obeso affetto da OSAS ad alto rischio cardiovascolare. I criteri diagnostici di OSAS si basano su sintomi e segni clinici e test standard sul sonno. La diagnosi di OSAS non può prescindere da una valutazione strumentale per l’intera durata della notte; prima di avviare un paziente con sospetto OSAS al percorso diagnostico strumentale, devono essere ricercati i segni e i sintomi di sospetto (russamento abituale, pause respiratorie, risvegli con senso di soffocamento, BMI, circonferenza collo > 43 cm ecc.). Nell’attuazione del percorso diagnostico andranno inoltre valutati i livelli di priorità. In particolare, il livello di priorità nell’esecuzione dell’esame strumentale andrà graduato su: sintomatologia clinica e severità del quadro; presenza di insufficienza respiratoria ipossiemica e/o ipercapnica; comprovata comorbidità cardiovascolare; occupazioni e professioni a rischio di incidenti. La valutazione strumentale notturna, definita polisonnografia, può essere eseguita con diverse metodiche di registrazione ambulatoriali o domiciliari, con o senza personale tecnico di sorveglianza: • monitoraggio notturno cardiorespiratorio ridotto (permette l’identificazione indiretta degli eventi respiratori attraverso l’ossimetria); • monitoraggio notturno cardiorespiratorio completo (permette l’identificazione diretta degli eventi respiratori); • polisonnografia con sistema portatile (permette 35 Ministero della Salute la stadiazione del sonno, oltre all’identificazione diretta degli eventi respiratori); • polisonnografia notturna in laboratorio. Questo esame va eseguito in un laboratorio del sonno sotto diretto controllo del tecnico per tutto il tempo di registrazione. Va precisato che la polisonnografia notturna in laboratorio per la diagnosi di OSAS è obbligatoria solo in caso di risultati dubbi dopo monitoraggio cardiorespiratorio o polisonnografia portatile. La scelta del tipo di esame strumentale dovrà essere valutata dal personale medico sulla base di un’attenta valutazione clinico/anamnestica secondo le Linee guida nazionali e internazionali. Una volta istituiti i provvedimenti terapeutici [calo ponderale, terapia comportamentale/posizionale, protesi ventilatoria con C-PAP (continuous positive airway pressure) o in casi selezionati con B-level] bisognerà provvedere a un adeguato programma di followup, con particolare riguardo agli effetti di un importante calo ponderale (es. in caso di intervento di chirurgia bariatrica). La telemedicina per il paziente grande obeso La telemedicina è la pratica della medicina a distanza attraverso reti di comunicazione, linea telefonica, intranet, internet. Secondo l’Advanced Informatics in Medicine (AIM 1990), la telemedicina è definita come “Il monitoraggio e la gestione dei pazienti, nonché l’educazione dei pazienti e del personale, usando sistemi che consentano un pronto accesso alla consulenza di esperti e alle informazioni del paziente, indipendentemente da dove il paziente o le informazioni risiedano”. Il suo potenziale utilizzo nel paziente grande obeso con gravi problemi di mobilità potrebbe risultare di notevole utilità. Si rimanda al Capitolo 13 Parte Seconda “Appropriatezza tecnologica” pa- 36 ragrafo “La telemedicina in diabetologia” per gli aspetti tecnici e di fattibilità. I farmaci Lo scopo primario del trattamento dell’obesità dovrebbe essere quello di ottenere e di mantenere una perdita di peso utile a ridurre il rischio di complicanze, e di fatto i trattamenti attualmente approvati per l’obesità, assieme ad alcuni dei presidi terapeutici in sviluppo, inducono perdita di peso e quindi rappresentano potenzialmente strumenti di prevenzione delle complicanze dell’obesità. Tuttavia, tali terapie mostrano il limite di indurre solo una modesta perdita di peso nel tempo e sono inoltre seguite, all’interruzione del trattamento, da un rapido riguadagno ponderale. Quindi, un fattore chiave nel trattamento dell’obesità è l’ottenimento di una perdita di peso significativa e mantenuta nel tempo quale, purtroppo, a oggi, si riesce a ottenere solo ricorrendo alla chirurgia bariatrica. I farmaci antiobesità (Tabella 4.5) possono avere un ruolo nella riduzione del peso in pazienti la cui condizione è refrattaria alle misure non farmacologiche, oltre che per il mantenimento a lungo termine del peso perduto. Finora questi farmaci si sono dimostrati limitati nell’efficacia e non soddisfacenti per le reazioni avverse. Per esempio, l’amfetamina possiede significative proprietà euforizzanti ed è gravata da sviluppo di abuso. La fentermina ha effetti stimolanti e simpaticomimetici. Gli anoressizzanti che contengono fenilpropanolamina sono stati associati ad aumentato rischio di emorragia cerebrale nelle donne e questo ne ha determinato la sospensione. L’utilizzo di fenfluramina e di dexfenfluramina è stato bloccato e i farmaci ritirati dal commercio per un’associazione con lo sviluppo di ipertensione polmonare e danno alle valvole cardiache. Sibutramina e orlistat, i due farmaci più recenti per i loro profili Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica 4 Tabella 4.5 Farmaci antiobesità Farmaco Bersaglio Meccanismo Effetti collaterali Status Lieve aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa Ritirata Anoressizzanti Sibutramina Neuroni serotoninergici e noradrenergici ↓ ricaptazione Inibitori dell’assorbimento dei grassi Orlistat Lipasi pancreatiche Inibisce l’assorbimento dei grassi di efficacia e di sicurezza, sono stati approvati per la terapia a lungo termine in associazione a modificazioni dello stile di vita. La sibutramina agisce a livello del sistema nervoso centrale, favorendo l’insorgere dei segnali di sazietà e attivando il dispendio energetico attraverso una maggiore produzione di calore (termogenesi). È controindicata nei pazienti affetti da gravi patologie cardiovascolari e per questa controindicazione è stata ritirata dal commercio. L’orlistat agisce, invece, a livello del tubo digerente, dove inibisce un enzima (lipasi pancreatica) la cui attività è indispensabile all’assorbimento dei lipidi assunti con la dieta. Tale farmaco deve essere assunto nell’ambito di una dieta ipolipidica: ogni trasgressione da tale dieta, infatti, può comportare reazioni avverse legate all’eccessiva presenza di grassi nella parte terminale dell’intestino con formazione di feci oleose e, pertanto, difficili da trattenere. Questi farmaci, comunque, restano farmaci “sintomatici” e “non curativi”. Farmaci inibitori dell’introito calorico (anoressizzanti) Si definiscono anoressizzanti quei farmaci che, inibendo la sensazione di fame o favorendo la sazietà, sono in grado di ridurre il consumo di cibo. Il trattamento farmacologico con anoressizzanti è indicato in pazienti che abbiano difficoltà ad at- Steatorrea Disponibile tenersi alla dieta ipocalorica o che siano “refrattari” al trattamento dietetico, comportamentale e alla terapia fisica, ed è utile esclusivamente al paziente motivato a ridurre il peso corporeo in eccesso, ma poco tollerante di fronte al disagio creato dalle restrizioni dietetiche. I farmaci anoressizzanti oggi disponibili agiscono principalmente sui meccanismi di fame e di sazietà. Queste sostanze riducono la sensazione di fame o aumentano la sazietà, agendo, a livello del sistema nervoso centrale, su alcune vie neuronali, specificatamente quelle noradrenergiche o serotoninergiche, aumentando la quantità di neurotrasmettitore liberata a questo livello e potenziando, così, l’attività normale e fisiologica di tali vie. Attualmente il farmaco a disposizione agisce sui meccanismi di ricaptazione sinaptica della noradrenalina e della serotonina. Sibutramina Disponibilità della sibutramina nella pratica clinica. Il 21 gennaio 2010 l’EMA (European Medicine Agency, già EMEA) ha diffuso un comunicato stampa nel quale raccomanda, come misura cautelativa, la sospensione delle autorizzazioni all’immissione in commercio di questi medicinali in tutta l’Unione Europea. Tale decisione è stata motivata dal fatto che i dati provenienti dallo studio SCOUT hanno mostrato un aumentato rischio di eventi 37 Ministero della Salute cardiovascolari gravi, non fatali, come ictus o infarto, con sibutramina rispetto al placebo. Sebbene il Committee for Medicinal Products for Human Use (CHMP) dell’EMA abbia osservato che la maggior parte dei pazienti dello studio SCOUT non avrebbe avuto accesso al farmaco nella comune pratica clinica perché a elevato rischio cardiovascolare e che la durata del trattamento nello studio è stata più lunga di quanto di solito raccomandato, poiché anche i pazienti obesi senza storia di patologia cardiovascolare sono potenzialmente più a rischio di eventi cardiovascolari, il Comitato ha ritenuto che i dati dello studio SCOUT sono rilevanti per l’uso del farmaco nella pratica clinica. La sibutramina è una β-feniletilamina con potenti effetti inibitori sulla ricaptazione sia di serotonina sia di noradrenalina. La sibutramina è ben assorbita dal tratto gastrointestinale e a livello epatico viene trasformata nei due principali metaboliti attivi che compaiono in circolo circa 30 minuti dopo l’assunzione orale del farmaco. Al contrario della dexfenfluramina, la sibutramina non stimola il rilascio di serotonina a livello delle terminazioni sinaptiche. Una significativa riduzione nell’assunzione di cibo in seguito a trattamento con sibutramina è stata dimostrata da diversi studi. Soggetti affetti da obesità hanno sperimentato una significativa riduzione nell’assunzione di cibo (espressa sia in grammi sia in energia) rispetto ai soggetti trattati con placebo, dopo aver ricevuto 10-30 mg/die di sibutramina per 14 giorni. Diversi studi hanno dimostrato anche effetti termogenetici acuti e cronici del farmaco, misurati sia sulla spesa energetica basale sia sulla termogenesi indotta dalla dieta. In particolare, in uno studio randomizzato, in doppio cieco, contro placebo, è stato riportato che la sibutramina (30 mg/die) determina un significativo aumento del metabolismo basale rispetto al placebo. Altri autori hanno dimostrato che il farmaco (15 mg/die per 38 8 o 12 settimane) limita la riduzione della spesa energetica associata alla perdita di peso che si verifica con una terapia dietetica. Le principali reazioni avverse, anche se di grado limitato, evidenziate nei diversi trials clinici sono: secchezza delle fauci, insonnia, stipsi, vertigini, infezioni, faringiti e cefalea. Nei test sulle azioni a carico del sistema nervoso centrale, la sibutramina non ha mostrato alcun effetto sedativo, ma solo qualche effetto leggermente stimolante. Non sono stati riportati casi di ipertensione polmonare primaria o valvulopatie dopo assunzione del farmaco. Attenzione particolare va posta nel trattamento di soggetti obesi con ipertensione arteriosa e tachicardia o, ancora, con pregresse patologie cardiovascolari, dal momento che la sibutramina si è dimostrata in grado di incrementare sia la pressione arteriosa sia la frequenza cardiaca. La pressione e il polso andrebbero, comunque, monitorati nei pazienti obesi che iniziano la terapia, affetti o meno da ipertensione. Aumenti della pressione arteriosa e tachicardia sono di solito evidenti nelle prime 8 settimane di terapia. Un aggiornamento dei dati raccolti e una valutazione approfondita di tutti i trials clinici hanno indotto le autorità sanitarie sia nazionali sia europee a ritenere che i benefici che si ottengono con l’utilizzo del farmaco nei soggetti obesi siano superiori alle eventuali reazioni avverse anche gravi. Controindicazioni all’utilizzo della sibutramina sono: • anoressia nervosa; • aritmie cardiache; • somministrazione contemporanea di agenti serotoninergici [inclusi gli SSRI (selective serotonin reuptake inhibitors)] o di antidepressivi triciclici o di inibitori delle monoaminossidasi (MAO); • somministrazione di altri anoressizzanti ad azione centrale; • insufficienza cardiaca congestizia; Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica • • • • • • • coronaropatie; ipersensibilità al farmaco; grave insufficienza epatica; grave insufficienza renale; ictus; ipertensione arteriosa incontrollabile; malattia occlusiva delle arterie periferiche. Farmaci inibitori dell’assorbimento dei grassi La riduzione dell’assunzione di cibi ricchi in grassi è l’indicazione dietetica principale e anche la più frequentemente disattesa dai pazienti obesi; agenti che inibiscono l’assorbimento dei grassi possono quindi essere di aiuto nel facilitare l’induzione di un bilancio energetico negativo che faciliti il calo ponderale. Le lipasi gastriche e pancreatiche idrolizzano i trigliceridi in glicerolo e acidi grassi; questi ultimi formano con gli acidi biliari delle micelle e vengono assorbiti dalla mucosa intestinale insieme a colesterolo e vitamine liposolubili (A, D, E, K). I farmaci in questione inibiscono l’assorbimento dei grassi mediante l’inibizione delle lipasi; i trigliceridi indigeriti non vengono assorbiti e trascinano nel loro transito intestinale una quota di molecole liposolubili. Orlistat Deriva per idrogenazione dalla lipstatina, molecola estratta dal microrganismo Streptomyces toxyricini. È un inibitore potente e irreversibile delle lipasi gastriche e pancreatiche che non viene assorbito ed è quindi privo di effetti sistemici. Riduce l’assorbimento intestinale di circa il 30% dei grassi ingeriti, del colesterolo e delle vitamine liposolubili; determina calo ponderale e provoca steatorrea. Sono stati condotti numerosi trials clinici randomizzati, in doppio cieco, contro placebo, che dimostrano l’efficacia terapeutica di orlistat nella de- 4 terminazione del calo di peso e nel mantenimento nel lungo termine del peso perso. In particolare, si vogliono ricordare i risultati dei trials condotti somministrando 120 mg 3 volte al giorno del farmaco o il placebo per un periodo di 2 anni. I risultati dimostrano una riduzione percentuale media del 5-7% del peso iniziale nel gruppo dei soggetti trattati con orlistat (n = 210) rispetto a una riduzione dell’1-4% nel gruppo placebo. Un ampio studio ha in seguito esteso il follow-up fino a 4 anni (lo studio XENDOS). Questo trial ha studiato un possibile effetto di orlistat nel prevenire il diabete di tipo 2 in soggetti obesi. Sono stati selezionati pazienti con intolleranza glucidica basale (i pazienti con diabete sono stati esclusi). I pazienti sono stati randomizzati in due gruppi: placebo o orlistat (120 mg 3 volte al giorno) per 4 anni (n = 3304). I valori medi ottenuti per i due gruppi a 4 anni sono stati: –4,1 kg e –6,9 kg di peso corporeo con placebo e orlistat, rispettivamente. La percentuale dei soggetti che hanno perso almeno il 5% (o il 10%) del peso iniziale è stata del 53% (o il 26%) nel gruppo trattato con orlistat rispetto al 37% (o il 16%) nel gruppo placebo. L’incidenza cumulativa del diabete mellito di tipo 2 è stata del 18,8% nel gruppo trattato con orlistat rispetto al 28,8% rispetto al gruppo placebo (p < 0,002). Le reazioni avverse associate all’utilizzo di orlistat comprendono: feci molli e/o grasse, urgenza alla defecazione, perdita incontrollata di feci oleose, incontinenza fecale, meteorismo con dolori addominali, nausea, vomito. Queste reazioni avverse, nella maggior parte dei casi, sono transitorie, leggere o moderate come intensità, soprattutto evidenti all’inizio del trattamento e si risolvono spontaneamente. Nessun trial ha evidenziato alterazioni della densità ossea o modificazioni minerali ossee. Il meccanismo d’azione del farmaco predice potenziali deficit nell’assorbimento di vitamine li- 39 Ministero della Salute posolubili (A, D, E e K) e di betacarotene. Nei trials clinici condotti finora nessuno dei pazienti trattati ha mostrato evidenti segni di deficienza vitaminica. Non sembrano sussistere significative interazioni fra orlistat e altri farmaci come digossina, warfarin, antipertensivi (furosemide, captopril, nifedipina e atenololo) e contraccettivi orali. Sibutramina e orlistat si sono dimostrati superiori al placebo nel ridurre il peso corporeo e migliorare il profilo glicemico e lipidico dei soggetti obesi. Sono anche i primi farmaci ad aver dimostrato una buona tollerabilità ed efficacia per periodi prolungati di utilizzo: fino a due anni per sibutramina e fino a quattro anni per orlistat. Quantunque, come si accennava in precedenza, anche questi due non sono altro che farmaci sintomatici per la cura dell’obesità. L’aumento delle conoscenze, accumulatesi negli ultimi dieci anni, sui meccanismi molecolari e neurotrasmettitoriali riguardanti i processi centrali e periferici che regolano l’omeostasi energetica ha suggerito l’analisi di importanti nuovi bersagli farmacologici. Nuovi promettenti farmaci antiobesità sono, infatti, all’orizzonte, anche se la complessità dei sistemi regolatori coinvolti impone un’attenzione particolarmente elevata in questo che resta l’ambito sanitario più rilevante della nostra epoca. Oltre alla specialità medicinale che prevede l’obbligo di ricettazione, è stata recentemente autorizzata una formulazione del farmaco a dosaggio inferiore per la quale non sussiste l’obbligo di ricettazione (over the counter, OTC: farmaci da banco), ma non è permessa la pubblicità (senza obbligo di prescrizione, SOP). Si segnala, infine, che recentemente è stato introdotto il primo agonista del glucagon-like peptide (GLP)-1, exenatide, affiancato dall’analogo acilato del GLP-1 umano (liraglutide), per la terapia del diabete di tipo 2. Tali molecole hanno effetti positivi sulla funzionalità delle beta-cellule, stimo- 40 lando la sintesi e il rilascio di insulina in modo glucosio-dipendente e promuovendo sia la fase precoce della secrezione insulinica sia quella tardiva. È interessante notare che, mentre i trattamenti antidiabetici comunemente impiegati, a eccezione di quello con metformina, si associano a incremento ponderale, il trattamento con analoghi del GLP-1 è accompagnato da un consistente e duraturo calo ponderale. Su tali basi, sono stati avviati trials clinici su pazienti obesi per verificare se tali farmaci possano in futuro essere utilizzati anche in pazienti con solo eccesso ponderale. La chirurgia bariatrica La chirurgia dell’obesità tendenzialmente modifica l’anatomia del tratto digestivo. I meccanismi attraverso i quali essa agisce sono di due tipi: • meccanico-restrittivi, che permettono più facilmente di diminuire la quantità di alimenti assunti e quindi di osservare più facilmente le diete ipocaloriche; • metabolico-malassorbitivi che, più o meno selettivamente, alterano la digestione e l’assorbimento degli alimenti, in particolare degli alimenti grassi, diminuendo così l’apporto calorico. Le tecniche chirurgiche possono essere classificate in tre gruppi: • restrittive pure: - bendaggio gastrico regolabile, - gastroplastica verticale; • malassorbitive: - derivazione bilio-pancreatica classica, - derivazione bilio-pancreatica con DS; • cosiddette metaboliche: - bypass gastrico, - sleeve gastrectomia. L’intervento è realizzato in anestesia generale. La laparoscopia è la tecnica da preferire, gold standard sia per la maggiore compliance del paziente, sia Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica perché ha una minore percentuale di complicanze connesse all’accesso chirurgico: in particolare, il laparocele o l’ernia postoperatoria. Va sottolineato, inoltre, che la precoce mobilizzazione e la più rapida ripresa funzionale sono dei grandi vantaggi in questi pazienti, che sono da considerare ad alto rischio. L’efficacia sulla perdita di peso è in genere parallela alla complessità dell’intervento. Il bendaggio gastrico, per esempio, è l’intervento sicuramente meno rischioso, ma anche il meno efficace. All’opposto, la derivazione bilio-pancreatica è sicuramente l’intervento più efficace, ma anche il più complesso. Al raggiungimento della perdita di peso attesa, molto frequentemente saranno necessari uno o più interventi di chirurgia plastica volti a correggere gli inevitabili inestetismi. Requisiti per beneficiare della chirurgia bariatrica • BMI ≥ 40 kg/m2 oppure BMI ≥ 35 kg/m2 in presenza di almeno una copatologia suscettibile di miglioramento dopo chirurgia (ipertensione arteriosa, sindrome delle apnee notturne, diabete mellito di tipo 2, malattie osteoarticolari invalidanti, steatosi epatica non alcolica ecc.). • Fallimento di un trattamento medico, dietetico-nutrizionale e psicoterapeutico ben condotto per un periodo da 6 a 12 mesi (insufficiente o incostante calo ponderale). • Corretta ed esauriente informazione del paziente. • Valutazione multidisciplinare preoperatoria di alcuni mesi. • Necessità compresa e accettata dal paziente di una sorveglianza medico-chirurgica postoperatoria per tutta la vita. • Accettabile rischio operatorio. Esistono altresì controindicazioni, delle quali alcune possono essere temporanee: • disturbi cognitivi o mentali gravi; 4 • disturbi gravi e non stabilizzati del comportamento alimentare; • dipendenza da alcool e da droghe; • malattie con prognosi infausta a breve termine; • controindicazioni all’anestesia generale; • assenza di valutazione medica multidisciplinare preliminare; • prevedibile incapacità del paziente di sottoporsi a sorveglianza medico-chirurgica postoperatoria a lungo termine. Sintesi delle principali Linee guida e indicazioni alla chirurgia bariatrica Le prime Linee guida internazionali sulla chirurgia bariatrica sono state emanate dai National Institutes of Health (NIH) americani nel 1991 nella Consensus Development Conference on Gastrointestinal Surgery for Severe Obesity. Esse prendevano in considerazione il ricorso alla chirurgia bariatrica nei seguenti casi: • pazienti adulti con BMI ≥ 40 kg/m2 in seguito a precedenti fallimenti dietoterapici e medici; • pazienti adulti con BMI ≥ 35 kg/m2 con una o più comorbilità, come diabete di tipo 2, complicanze cardiorespiratorie, articolari e ridotta qualità della vita, quando la procedura chirurgica non presentava eccessivi rischi. Nessuna raccomandazione è stata invece formulata per i giovani e gli adolescenti obesi, anche con BMI > 40 kg/m2, per l’insufficienza degli studi clinici. Tali indicazioni sono state successivamente adottate dalle principali Società scientifiche statunitensi (Institute for Clinical Systems Improvement, American Society for Bariatric Surgery) e non (European Association for Endoscopic Surgery, Società Italiana dell’Obesità ecc.). Dal 1991 a oggi è stata prodotta un’ampia mole di dati ed evidenze scientifiche che, oltre a validare la chirurgia bariatrica per l’obesità grave, hanno 41 Ministero della Salute sottolineato gli importanti e durevoli effetti sulla “risoluzione” o miglioramento delle manifestazioni cliniche del diabete mellito di tipo 2. Le Linee guida emanate successivamente dalle maggiori Società scientifiche americane ed europee, oltre a confermare i criteri NIH, hanno ampliato l’indicazione alla chirurgia bariatrica in casi selezionati di adolescenti e anziani e confermato che non vi sono sufficienti prove per raccomandare l’intervento con BMI < 35 kg/m2. Nel 2009, per la prima volta anche una Società di diabetologia quale l’American Diabetes Association (ADA) ha inserito il capitolo della chirurgia bariatrica nei propri standard di cura con le seguenti raccomandazioni: • la chirurgia bariatrica dovrebbe essere considerata in pazienti con BMI ≥ 35 kg/m2 e diabete di tipo 2, in particolare se il raggiungimento di un buon controllo metabolico risulta difficoltoso con lo stile di vita e la terapia farmacologica; • i pazienti con diabete di tipo 2 che si sottopongono alla chirurgia bariatrica devono essere seguiti per tutta la vita, indipendentemente dall’eventuale risoluzione del diabete; • nei pazienti con diabete di tipo 2 e BMI < 35 kg/m2, allo stato attuale non vi sono sufficienti evidenze scientifiche tali da raccomandare l’intervento, sebbene piccoli trials abbiano dimostrato un miglioramento del controllo glicemico dopo chirurgia bariatrica. In modo analogo, la Società Italiana di Diabetologia ha inserito nei propri standard di cura indicazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dell’ADA. Andare oltre le Linee guida NIH e ridiscutere l’appropriatezza dei criteri di selezione dei pazienti è oggetto di ampia discussione nella comunità scientifica. In un recente articolo basato su interviste semistrutturate (secondo il metodo Delphi) a un panel di esperti, è emersa la necessità di ampliare 42 il range del BMI e dell’età soprattutto in relazione alla gravità delle patologie associate. In particolare, è confermato che la chirurgia bariatrica è sempre indicata nei pazienti con BMI ≥ 40 kg/m2 senza comorbilità e BMI < 35 kg/m2 con morbilità di età compresa tra 19 e 64 anni, mentre nelle fasce di età fino a 12 anni e oltre 65 anni l’indicazione è prevista, fino a un limite di 35 kg/m2 di BMI, se le comorbilità, specie il diabete, sono particolarmente mal controllate nonostante la terapia medica al massimo dosaggio consentito. Nella fascia di età tra i 12 e i 18 anni l’intervento è indicato anche in presenza di prediabete. In pazienti con BMI compreso tra 32 e 34 kg/m2 (età compresa tra 19 e 64 anni), l’unica condizione che indica la chirurgia bariatrica è il diabete con un alto grado di scompenso glicemico (HbA1c > 9%), al massimo della terapia medica, anche se occorre sottolineare che per il diabete insulino-trattato non esiste un limite al dosaggio utilizzabile, ma eventualmente un limite legato alla scarsa compliance o al rischio di ipoglicemie. Di recente sono stati pubblicati dati molto incoraggianti, derivati da uno dei rari studi randomizzati controllati, relativamente all’applicazione del bendaggio gastrico in adolescenti (14-18 anni) obesi (BMI > 35 kg/m2) in termini di calo ponderale e riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare. Recentemente sono state inoltre pubblicate le raccomandazioni dell’International Diabetes Federation (IDF) sull’applicazione della chirurgia bariatrica nel diabete di tipo 2, nelle quali si rimarca la possibilità nei pazienti con BMI fra 30 e 35 kg/m2 altamente a rischio (HbA1c > 7,5% non controllabile con la terapia medica) di ricorrere a un intervento di chirurgia bariatrica. Nella popolazione italiana, come annotato nel registro della Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche (SICOB), le percentuali complessive di interventi in età inferiore Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica a 18 anni e superiori a 60 anni sono basse (rispettivamente 0,4% per adolescenti < 18 anni, 1,8% tra 60 e 65 anni e 0,3% per soggetti con età superiore a 65 anni), e questo riflette una differente epidemiologia e gravità dell’obesità, soprattutto in età adolescenziale, rispetto alla popolazione statunitense. Di recente sono state pubblicate anche le ponderose Linee guida dell’American Association of Clinical Endocrinologists, The Obesity Society e American Society for Metabolic & Bariatric Surgery relative alla gestione pratica e al supporto nutrizionale e metabolico nel periodo perioperatorio, le quali tuttavia non entrano nel merito delle indicazioni relativamente ai limiti di BMI. Le controindicazioni specifiche per la chirurgia bariatrica includono: • rischio operatorio estremamente elevato; • disturbi psicotici non stabilizzati; • abuso e dipendenze da alcool e/o droghe; • incapacità a partecipare a un follow-up medico prolungato. La valutazione per l’intervento chirurgico e il follow-up deve essere effettuata da un team multidisciplinare con comprovata esperienza nella gestione dell’obesità e della chirurgia bariatrica. Per il diabete di tipo 2, numerose evidenze dimostrano che la chirurgia bariatrica è estremamente efficace, sebbene sia difficile stabilire se si tratti di risoluzione, remissione o addirittura cura della malattia. Dalle evidenze presenti in letteratura, il diabete di tipo 2 viene risolto nella maggior parte dei pazienti obesi sottoposti a chirurgia bariatrica, in misura proporzionale alla perdita di peso e quindi in funzione dell’intervento eseguito. Inoltre, gli effetti della chirurgia bariatrica sul diabete sono legati al miglioramento sia della sensibilità sia della secrezione insulinica e potrebbero variare in base alla durata della malattia e al grado di obesità. Sono tuttavia necessari ulteriori studi cli- 4 nici, randomizzati e controllati, e soprattutto con follow-up adeguato per durata e completezza, al fine di stabilire se la risoluzione del diabete rappresenti una semplice remissione o addirittura la cura della malattia, in altri termini se gli effetti sul diabete siano conseguenti al ridotto introito calorico/perdita di peso, oppure a un effetto intrinseco dell’intervento bariatrico. Quest’ultima ipotesi si è fatta strada anche grazie ad alcuni studi di chirurgia sperimentale effettuata sugli animali, che avrebbero dimostrato un effetto antidiabetico indipendente dal calo ponderale. Su tali basi sono state recentemente pubblicate le raccomandazioni della Diabetes Surgery Summit Consensus Conference, prodotte mediante una sorta di votazione alla quale ha partecipato un gruppo internazionale di esperti. Tale Consensus conclude riconoscendo alla chirurgia bariatrica un importante ruolo terapeutico nei pazienti diabetici con BMI > 35 kg/m2, ma anche, e in tal senso superando tutte le soglie precedentemente considerate, in pazienti attentamente selezionati con obesità moderata (BMI 30-35 kg/m2) e diabete scompensato nonostante terapia medica massimale. È indubbio che la sola misura del BMI non consente di identificare i pazienti a maggiore rischio cardiovascolare, e che questa andrebbe integrata con la misura della circonferenza vita. Sono infatti ponderosi i dati di studi prospettici che dimostrano come la circonferenza vita si associ a un aumento del rischio relativo di incorrere in eventi cardiovascolari, mentre in tal senso la circonferenza dei fianchi conferirebbe una protezione (INTERHEART ecc.). In quest’ottica sarebbe più appropriato sottoporre a chirurgia bariatrica un paziente maschio con BMI 34 kg/m2, circonferenza vita 125 cm e diabete scompensato, piuttosto che una donna con BMI 36 kg/m2, circonferenza vita 98 cm con altre comorbilità ma non il diabete, sempre natural- 43 Ministero della Salute mente che tutti gli approcci usuali abbiano ripetutamente fallito. È quindi evidente, come connaturato nel concetto stesso di Linea guida, che le attuali indicazioni e limiti di BMI dovranno essere rivalutati inserendo anche altri parametri antropometrici e marcatori di rischio cardiovascolari. Follow-up del paziente sottoposto a chirurgia bariatrica Il paziente va seguito con molta attenzione, perché dalla precisione del metodo di implementazione delle tecniche di intervento dipende il successo terapeutico nel lungo termine. È fondamentale sottolineare che il follow-up dura tutta la vita. Dopo l’inizio del trattamento le visite di controllo non possono essere eseguite con una frequenza inferiore a un mese e almeno per i primi tre mesi; successivamente gli intervalli dei controlli possono essere portati a due mesi per altri sei mesi. Durante il primo anno dall’intervento il paziente deve essere seguito sia dal chirurgo sia dall’endocrinologo/internista; in seguito, l’esigenza di affrontare problematiche di tipo chirurgico diverrà sempre più limitata. La frequenza dei successivi controlli deve essere stabilita sulla base delle risultanze cliniche ottenute. A ogni visita di controllo devono essere accuratamente indagate l’aderenza del paziente alle indicazioni terapeutiche ricevute, la valutazione soggettiva del benessere psicofisico raggiunto, la ricerca e la valutazione degli ostacoli incontrati. L’aiuto più rilevante che può essere dato al paziente è la sicurezza che il medico non lo giudicherà, ma cercherà di stabilire un’“alleanza terapeutica” attraverso un “empirismo collaborativo”. Dopo la valutazione soggettiva si dovrà rilevare lo stato biometrico attuale del paziente (peso, altezza, circonferenza vita e fianchi, esecuzione della bioim- 44 pedenziometria), allo scopo di valutare se le percezioni del vissuto di malattia del paziente corrispondono, o meno, a modificazioni biometriche reali. In altre parole, anche se il paziente ha perso peso, se non ha perso prevalentemente massa grassa non è realmente dimagrito. Le eventuali discrepanze vanno discusse e interpretate allo scopo di riuscire a mettere in atto le strategie idonee per il singolo paziente a proseguire nel percorso terapeutico. In accordo con le attuali Linee guida SICOB e le attuali Linee guida americane e della Endocrine Society, devono essere inviati a una valutazione specialistica per chirurgia bariatrica i pazienti che presentano i seguenti requisiti: BMI ≥ 40 kg/m2 o 35 < BMI < 40 kg/m2 con comorbilità associate (patologie cardiorespiratorie, malattie articolari gravi, gravi problemi psicologici, malattie del metabolismo). I pazienti selezionati devono inoltre presentare fallimento al trattamento medico multidisciplinare dell’obesità, mancato o insufficiente calo ponderale, scarso o mancato mantenimento del risultato raggiunto a lungo termine. Non dovrebbero essere indirizzati alla valutazione specialistica per chirurgia bariatrica i pazienti: • che non presentano fallimento alla terapia medica dell’obesità; • che hanno incapacità nel seguire i follow-up periodici necessari; • che risultano affetti da disturbi psicotici, depressione severa, alterazioni della personalità e del comportamento alimentare; • che risultano tossicodipendenti o affetti da alcolismo; • che presentano una riduzione significativa dell’aspettativa di vita. Gli interventi di chirurgia bariatrica possono essere distinti in interventi che presentano un’azione meccanica (bendaggio gastrico, gastroplastica ver- Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica ticale, sleeve gastrectomy, bypass gastrico), interventi con azione meccanica temporanea quale il palloncino intragastrico e interventi con azione malassorbitiva (diversione bileopancreatica, variante duodenal switch). Il palloncino intragastrico può essere utilizzato come test di tollerabilità per lo schema alimentare a cui il paziente si dovrà attenere dopo un intervento di chirurgia bariatrica maggiore, è maggiormente indicato nei pazienti che presentano un significativo aumento del rischio operatorio e risulta gravato da una maggiore probabilità di recupero ponderale rispetto agli altri interventi maggiori. Il paziente identificato come idoneo a sottoporsi a chirurgia bariatrica non dovrebbe subire un percorso di follow-up molto diverso dal punto di vista strategico da quello degli altri pazienti. Occorre spiegare preventivamente a questi pazienti che l’evento chirurgico non è altro che un punto di partenza per un percorso virtuoso di dimagrimento e che durante i mesi successivi occorre impegnarsi per ottenere una reale perdita consistente di massa grassa; pertanto, le procedure di follow-up, incluse le metodiche educative al cambiamento dello stile di vita, devono essere ugualmente eseguite. Oltre a questo, nei confronti dei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica devono essere eseguiti quei controlli regolari specifici. In seguito a un corretto inquadramento che deve portare alla scelta del tipo di intervento a cui sottoporre il paziente, è necessario ricordare che deve essere condotto un rigoroso e periodico follow-up finalizzato a educare il paziente ad adeguate regole alimentari, per limitare l’insorgenza di ulcere/erosioni gastroduodenali (anche mediante adeguato trattamento farmacologico con inibitori di pompa protonica), vomito o di dumping syndrome in caso di chirurgia restrittiva, e alla valutazione della comparsa di eventi avversi legati, per esempio, al possibile sviluppo di deficit 4 vitaminici (che possono manifestarsi fino a un anno dopo l’intervento). La riduzione degli eventi avversi legati alla chirurgia per obesità trova fondamento in un’adeguata selezione ed educazione dei pazienti, ma anche in un’adeguata terapia medica successiva all’intervento, anche questa da eseguire in maniera coordinata tra le due Strutture Operative: per esempio, il trattamento con inibitori di pompa protonica, la somministrazione di ferro e vitamina C alla dimissione o eventuali altre terapie di supplementazione che devono essere periodicamente valutate (mediante dosaggio di calcemia, fosforemia, vitamina D, vitamina A, vitamina E, vitamina B12, magnesio). Nel corso del follow-up il paziente dovrà essere inoltre sottoposto a indagini strumentali quali la mineralometria ossea computerizzata (MOC) femorale e lombare per la valutazione del quadro densitometrico osseo e la bioimpedenziometria corporea. La valutazione della composizione corporea durante il periodo di follow-up postintervento è indispensabile al fine di prevenire una perdita prevalente di massa magra che finisce per limitare l’efficacia dell’intervento chirurgico. Qualora il grado di massa grassa perduto fosse insufficiente, il medico deve attuare tutte quelle tecniche atte a implementare l’esecuzione assidua di un’attività fisica consistente in un esercizio aerobico di bassa intensità e di lunga durata da eseguirsi almeno 5 giorni a settimana, meglio se tutti i giorni. Occorre infine sottolineare come il follow-up del paziente operato, nel lungo periodo, abbia un costo per il SSN di gran lunga inferiore rispetto alla cura del paziente obeso non operato, in considerazione delle numerose complicanze croniche dell’obesità (il costo del trattamento farmacologico di un paziente obeso non operato pesa sul SSN 10 volte di più rispetto al costo del follow-up di un paziente obeso operato). 45 Ministero della Salute Attuali criticità nel trattamento e nel follow-up post-chirurgico del paziente obeso Criticità organizzative Liste di attesa In Italia, i pazienti obesi sono aumentati del 9% negli ultimi 5 anni e proprio all’obesità sono attribuiti 52.000 decessi l’anno. Eppure, di oltre 5 milioni di italiani obesi solo lo 0,1% viene sottoposto a intervento chirurgico e nel Sud Italia, che vede un tasso di obesità tra i più alti in Europa, viene effettuato solo il 14% di tutti gli interventi di chirurgia bariatrica. Quali possono essere le cause di questo fenomeno? • Una difficoltà di accesso alle strutture e una difficoltà delle strutture stesse a sopportare il carico notevole e crescente dei costi per gli interventi per obesità. • La maggior parte dei centri per il trattamento chirurgico dell’obesità non è in grado di rispondere, nelle condizioni attuali con un ulteriore aumento, alle richieste di tutti i pazienti obesi. • Le liste di attesa per intervento chirurgico di pazienti “pronti per intervento”, che hanno cioè già effettuato tutti gli studi preoperatori, sono spesso lunghissime, addirittura quantificate in “anni”; bisogna inoltre considerare che molti di questi pazienti sono diabetici, ipertesi, affetti da apnee notturne e necessitano di terapia intensiva postoperatoria. Questo significa un ulteriore allungamento dei tempi di attesa in pazienti ad alto rischio. Criticità mediche Qualificazione e certificazione degli operatori La chirurgia bariatrica è una branca molto specialistica della chirurgia, richiedendo notevole esperienza non soltanto chirurgica e laparoscopica, ma soprattutto nella scelta della strategia di trattamento e nel management delle complicanze. 46 Un team chirurgico dedicato consente sicuramente una gestione delle complicanze secondo le Linee guida internazionali, evitando spesso inutili atteggiamenti interventistici. Indipendentemente dalla tipologia della complicanza, è necessario tenere presente tre peculiarità: • le complicanze postoperatorie comuni nella chirurgia addominale nel paziente superobeso possono sfociare in drammi clinici imprevedibili; • la capacità di “resistenza” di un paziente obeso a un evento postoperatorio è sensibilmente più bassa del paziente normopeso; • le caratteristiche stesse del paziente spesso impediscono l’esecuzione di indagini diagnostiche che nella pratica clinica costituiscono un punto di riferimento (es. ecografia). Anche il follow-up deve essere affidato a personale medico specializzato. Spesso, infatti, sia il medico di medicina generale sia il “chirurgo generale” non bariatrico hanno scarsa dimestichezza con le procedure e il management del paziente sottoposto a chirurgia dell’obesità. Attualmente in Italia, nonostante siano presenti alcune scuole di formazione e aggiornamento, non esistono certificazioni riconosciute per gli operatori sanitari. Sarebbe auspicabile che chi ricopre o debba ricoprire un ruolo in centri per il trattamento dell’obesità patologica sia fornito di una certificazione attestante la sua preparazione e competenza. Scelta del trattamento La criticità nel trattamento chirurgico del paziente obeso è legata alla natura stessa della malattia da curare: si tratta di una patologia non di organo ma dell’organismo, cronica, evolutiva e recidivante, strettamente connessa e dipendente al vissuto del paziente sia per quanto riguarda le abitudini di vita e alimentari, sia per quanto riguarda la sfera emozionale e psicologica. Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica Non esiste l’intervento bariatrico “ideale” e che vada bene per tutti i pazienti. Esistono, invece, interventi diversi per meccanismo d’azione e tecnica chirurgica, che devono essere adattati di volta in volta alle caratteristiche specifiche del paziente. In generale, i parametri presi in considerazione per la scelta sono il BMI, il sesso, le comorbidità (soprattutto diabete) e il comportamento alimentare. In ogni caso, la decisione va effettuata in accordo con il paziente, che deve essere accuratamente informato dei rischi, delle possibilità di insuccesso, delle modificazioni delle sue abitudini alimentari. Il colloquio con il paziente è fondamentale per fugare aspettative irreali e per chiarire sempre che si tratta di interventi di chirurgia addominale maggiore, solo collateralmente a fine estetico. Indicazioni che tengano conto di affidabili indici di comportamento, di precisi indici metabolici e di adeguati e completi indici genetici sarebbero assolutamente auspicabili e si spera ottenibili in un prossimo futuro. Visite preoperatorie e follow-up Il follow-up a lungo termine è un elemento indispensabile per garantire il successo della terapia chirurgica dell’obesità, sia per ottimizzarne i risultati, sia per prevenire le possibili complicanze. La durata del follow-up sarà un tempo potenzialmente illimitato, vista la cronicità della patologia di base. Farsi carico del follow-up del paziente obeso è un impegno notevole in termini sia di tempo sia di spazi e di risorse. È sufficiente fare qualche calcolo: ammettendo che in un centro si eseguano in un anno 100 interventi e che ciascun paziente esegua in media 3 visite di controllo/anno, dopo il primo anno le visite annue di controllo saranno 300, dopo 5 anni 1500, dopo 8 anni 2400. A parte vanno considerate le visite preoperatorie, per le quali le richieste aumentano in modo espo- 4 nenziale. Queste comprendono sia la visita preliminare per prescrivere la tipologia degli esami diagnostici da eseguire, sia la rivalutazione preoperatoria successiva allo studio diagnostico. Al paziente candidato a trattamento chirurgico vengono infatti richiesti esami diagnostici, ematochimici e consulenze specialistiche per escludere patologie endocrinologiche, psichiatriche o internistiche che controindicano la chirurgia bariatrica. Spesso proprio questa fase risulta lunga e indaginosa [prenotazione e accesso a esami con lunga lista di attesa: polisonnografia, esofagogastroduodenoscopia (EGDS), visita psichiatrica ecc.) tanto da scoraggiare il paziente e farlo desistere dal prosieguo del suo percorso curativo. Forse una revisione degli esami necessari e una razionalizzazione dello studio preoperatorio potrebbero essere un modo per facilitare i pazienti e rendere più semplice il sistema organizzativo. Necessità di un intervento integrato specialistico Le caratteristiche di alta specializzazione della gestione medica e chirurgica di questi pazienti richiedono, tra l’altro, un inquadramento psicocomportamentale ai fini delle opportune decisioni terapeutiche, nonché di specifiche competenze di nursing riabilitativo. La terapia dell’obesità di alto grado è sempre una terapia integrata e interdisciplinare, che necessita di un’elaborata fase diagnostica per la definizione dell’intervento da effettuare: medico; medico e psicocomportamentale; medico, psicocomportamentale e chirurgico. La stessa scelta del tipo di intervento chirurgico da effettuare richiede una valutazione collegiale anche per la definizione del successivo controllo medico-nutrizionale a lungo termine. L’assistenza o nursing del paziente obeso, spesso un vero e proprio invalido, richiede, infatti, una particolare professionalità di tipo riabilitativo, se 47 Ministero della Salute il paziente ha una vera e propria invalidità motoria, come, anche per esempio, per la gestione di piaghe e ulcere cutanee, fino all’igiene personale. Per queste necessità sarebbe utile anche l’apporto di personale medico specializzato in vulnologia. Ruolo del medico di medicina generale A monte dell’intervento di ogni centro interdisciplinare per la gestione della terapia medica e chirurgica della grande obesità, è da sottolineare come il ruolo del medico di medicina generale nel dare inizio e nel collaborare attivamente al percorso diagnostico-terapeutico, a volte particolarmente complesso per questi pazienti, sia di primaria importanza. Inoltre, il centro interdisciplinare potrà fornire al medico di medicina generale le indicazioni necessarie per migliorare l’assistenza dei pazienti che siano già stati sottoposti a interventi di chirurgia bariatrica presso centri la cui distanza rende poco probabile o impossibile un corretto follow-up. Criteri di valutazione del successo terapeutico La valutazione del reale successo o meno di un intervento di chirurgia bariatrica dovrebbe prendere in considerazione diversi parametri. Il successo non può basarsi, come è stato fatto per molti anni, solo sul calo ponderale, ma deve tenere conto anche di altri fattori: mortalità; complicanze perioperatorie e a distanza; miglioramento delle comorbilità; qualità di vita ed effetti collaterali; stato nutrizionale; mantenimento del risultato. La valutazione del risultato basata sull’entità del calo ponderale in kg dovrebbe essere assolutamente proscritta. Il criterio di valutazione di successo per tale parametro deve adottare almeno il cosiddetto Excess Weight Loss in percentuale (EW%L). Un criterio di successo è considerato un EW%L almeno del 50%. Un criterio più severo di valuta- 48 zione è quello di Reinhold. Tale criterio, molto diffuso anni fa, è allo stato attuale, purtroppo e ingiustificatamente, poco impiegato. La valutazione di Reinhold, infatti, è l’unica che, anziché tenere conto del punto di partenza, scarsamente rilevante soprattutto per il paziente, tiene conto del punto di arrivo, che dovrebbe appunto essere la cosa più importante. Tale classificazione non si basa sull’entità del sovrappeso perso e non tiene conto del sovrappeso residuo del paziente, ma esprime, viceversa, il successo o l’insuccesso in base al risultato finale, proprio in relazione al sovrappeso residuo. Le 5 categorie di risultato indicate sono le seguenti: eccellente, se il sovrappeso residuo è < 25%; buono, se il sovrappeso residuo è 26-50%; modesto, se il sovrappeso residuo è 51-75%; scarso, se il sovrappeso residuo è 76-100%; fallimento, se il sovrappeso residuo è > 100%. La percentuale dei vari pazienti in ciascuna classe esprime il vero risultato in termini di calo ponderale. Pertanto, il successo è basato sull’elevata percentuale di pazienti appartenenti alle prime 2 classi, cioè con sovrappeso residuo, al follow-up, inferiore al 50% e, quindi, esenti dai rischi di comorbilità legati all’obesità. Un sovrappeso inferiore al 50% corrisponde approssimativamente a un BMI < 35 kg/m2. Ultimamente, pertanto, si è anche adottato il valore del BMI residuo quale criterio di valutazione del risultato, che dovrebbe essere, appunto, < 35 kg/m2 per definire il successo di una procedura. Ancora più recentemente, infine, si sta affermando il criterio di valutazione basato sulla riduzione percentuale del BMI. Il miglioramento delle comorbilità dovrebbe essere considerato uno dei parametri più validi per determinare un criterio di successo, dal momento che la chirurgia bariatrica ha, tra i suoi scopi principali, proprio la riduzione dei rischi di mortalità precoce e di morbilità dell’obeso grave e del superobeso. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 5. Appropriatezza operativa Modelli assistenziali In Italia, il concetto di “assistenza dedicata” al paziente con grande obesità presso centri specializzati e organizzati in rete non è stato mai riportato a livello di provvedimenti legislativi nazionali o regionali, ma solo come documento di indirizzo in alcune Regioni per la definizione del percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti. Il modello Hub & Spoke, promosso per la gestione di patologie ad andamento cronico di particolare impegno sanitario ed economico, prevede la concentrazione dell’assistenza in relazione alla diversa criticità del paziente in centri di eccellenza (Hub) e l’invio dei pazienti ai centri periferici (Spoke) in relazione alla prosecuzione/integrazione del percorso terapeutico/riabilitativo. La rete che viene a crearsi in tal modo ha l’obiettivo di assicurare una coordinata azione d’intervento, garantendo al paziente un’assistenza ottimale nella struttura più adeguata in termini di appropriatezza clinica e organizzativa. L’accesso a uno qualsiasi dei nodi della rete dovrebbe poter avvenire attraverso i medici di medicina generale (MMG) o i centri specialistici pubblici o privati accreditati (ambulatori, day-hospital, day-service, ricoveri ordinari) che si trovino ad assistere pazienti obesi. Trattandosi di una patologia ad andamento cro- nico, tale rete assistenziale dovrebbe prendere in carico il paziente e seguirlo nel tempo, inserendolo, sempre nell’ambito di un programma di follow-up condiviso, in percorsi a vario grado di intensità diagnostico-terapeutica. Centro Hub – Centro Ospedaliero di Alta Specializzazione L’Hub si propone di coordinare gli aspetti fisiopatologici, clinici ed epidemiologici nel campo del trattamento dell’obesità, creando un database/registro regionale/nazionale della grande obesità. L’identificazione di tali centri Hub intende fornire una risposta appropriata e complessiva coordinando l’attività di tutte le strutture convergenti, in percorsi diagnostico-terapeutici concordati e riferibili alle correnti Linee guida nazionali e internazionali per la gestione del paziente affetto da obesità. Tali centri Hub saranno composti da Unità Operative aventi figure professionali mediche e infermieristiche con specifiche competenze ed esperienze nell’ambito dei diversi aspetti clinici dell’obesità e delle comorbilità a essa collegate, con un ruolo di eccellenza nel campo internistico (in particolare nel campo del metabolismo, dell’endocrinologia, della nutrizione clinica) e della chirurgia bariatrica. 49 Ministero della Salute Per garantire un adeguato livello di assistenza e giustificare l’uso H24 delle risorse l’Hub deve fornire presumibilmente almeno 600 nuovi casi/anno, 150 interventi di chirurgia bariatrica, 3000 prestazioni ambulatoriali/anno. L’Hub dovrà inoltre garantire programmi di istruzione e di formazione di alta specialità per gli operatori sanitari delle strutture ospedaliere della rete sede di Spoke, allo scopo di contribuire allo sviluppo delle conoscenze avanzate, in conformità agli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale e delle Società scientifiche del settore. Sostenendo e completando l’azione formativa istituzionale, tali centri si prefiggono di aumentare gli standard qualitativi di conoscenza e competenza nei settori della medicina interna, dell’endocrinologia, delle malattie metaboliche, della nutrizione clinica, della chirurgia generale e bariatrica e della gestione sanitaria dell’obesità. L’Hub dovrà anche garantire la raccolta e la rielaborazione dei dati clinici, di esito/outcome provenienti dalle strutture ospedaliere sede di Spoke, promuovendo un continuo aggiornamento epidemiologico della patologia obesità (registro). attivare un’unità nell’area funzionale di chirurgia bariatrica. I requisiti comuni ai due livelli di assistenza (Hub e Spoke) sono: • presenza di un team multidisclipinare per la gestione del paziente composto da medici e infermieri esperti nella gestione del paziente obeso; • raccolta sistematica delle informazioni cliniche mediante cartella clinica informatizzata, al fine dicondividere il processo assistenziale del paziente e per la valutazione di qualità delle cure erogate; • attivazione di collegamenti telematici per consentire attività di teleconsulto a distanza tra i reparti interessati; • attivazione del processo riabilitativo in team (attivazione della riabilitazione precoce); • incontri multidisciplinari settimanali; • stretta collaborazione tra assistenza infermieristica e altre forme di assistenza multidisciplinare. Centro Spoke Il paziente obeso è visto troppo spesso dalla classe medica come un problema da reindirizzare il prima possibile verso uno specialista, spesso il dietologo, che possa alleviare non tanto le pene del paziente quanto quelle del medico (MMG o altro specialista) al quale il paziente si è rivolto in prima istanza. D’altro canto, realisticamente non si può pretendere che il MMG possa prendersi in carico un paziente che, come si è detto ampiamente, necessita di un approccio multidisciplinare. Questo atteggiamento si associa a un senso di impotenza per una condizione considerata non aggredibile in modo appropriato. La chirurgia bariatrica viene considerata un’estrema ratio da utilizzare solo in casi di obesità estrema. È un centro deputato alla gestione di: • pazienti con obesità di vario grado che non presentano condizioni di criticità; • attuazione dei provvedimenti terapeutici (riabilitativi motori/nutrizionali) più adeguati per la gestione del paziente in una fase subacuta; • trasferimento al livello superiore di cure dei pazienti che dovessero presentare condizioni cliniche di criticità mediante accordi condivisi con il centro Hub. A seconda delle necessità territoriali e quindi del numero di interventi di chirurgia bariatrica da dover eseguire, anche il centro Spoke potrebbe 50 La formazione Parte Prima – Appropriatezza operativa È indispensabile che i MMG siano correttamente informati di tutti gli aspetti diagnostico-terapeutici che ruotano intorno all’obesità, ma anche, allo stesso tempo, che essi possano contare su centri di elevata specializzazione ai quali fare riferimento. D’altro canto, anche la formazione del chirurgo che intende indirizzarsi alla cura dell’obesità dovrà includere non solo un aggiornamento costante delle tecniche e degli strumenti chirurgici, ma anche dare un più ampio respiro alla cultura della cronicità, che comporta l’inserimento della propria attività in una catena di interventi medici che accompagneranno il paziente per tutta la vita. Si auspica, quindi, che vengano organizzati corsi ECM professionalizzanti nel settore obesità, mediante piattaforme di formazione a distanza (FAD), o corsi residenziali, indirizzati ai MMG, ai chirurghi (in particolare per questi ultimi utilizzando sessioni che prevedano l’esecuzione diretta da parte di tutti i partecipanti di attività pratiche o tecniche in sala operatoria) e ad altri specialisti (internisti, endocrinologi, nutrizionisti, psichiatri ecc.). La prevenzione La formazione scolastica nell’età evolutiva La realtà sociale e culturale della popolazione italiana è estremamente eterogenea e a questo contribuiscono, da un lato, le tradizioni regionali e le realtà sociali, mentre dall’altro vi sono messaggi di tipo più uniforme che provengono dalla pubblicità delle aziende del settore agroalimentare e dai media. Pertanto, i nostri figli si trovano a dover gestire contemporaneamente diversi tipi di messaggi, speso in contraddizione fra sé, mentre la forza unificante della famiglia viene in qualche modo a risultare indebolita, nella misura in cui i genitori, che spesso trascorrono molto tempo fuori 5 casa per lavoro, hanno minore capacità di ascolto nei confronti delle istanze dei figli. Un ulteriore problema risiede nella frammentazione dei nuclei familiari, con una conseguente minore capacità di intervento da parte di figure ancillari quali i nonni o gli zii. Un’ultima considerazione va anche fatta a proposito della realtà multietnica della nostra popolazione, che contribuisce a rendere ancora più disomogeneo il background delle tradizioni familiari. Date queste premesse, si può immaginare uno scenario nel quale la scuola rivesta veramente un importante ruolo unificante e quindi è caricata dell’onere di dare messaggi tecnicamente corretti, utilizzando anche strumenti didattici innovativi, che riescano a colpire la fantasia e la capacità di imitazione degli allievi. È altrettanto evidente che la scuola non possa compiere operazioni culturali in ambito preventivo senza che gli insegnanti non vengano adeguatamente preparati e le famiglie non vengano informate del tenore dei messaggi trasmessi ai loro figli. Tutto questo è possibile solo se tecnici del settore, quali agronomi, medici specialisti, dietisti e laureati in scienze motorie saranno coinvolti nel disegno del progetto e nella verifica degli obiettivi raggiunti. Per quanto concerne l’età dei discenti da coinvolgere nei singoli progetti, occorre subito precisare che vi è una notevole differenza sui tipi di messaggi da trasmettere agli alunni delle elementari rispetto a quelli delle medie inferiori. Gli alunni delle scuole medie inferiori sono nella fascia di età peripuberale e sono, perciò, molto sensibili a temi di dieta e magrezza, soprattutto se femmine. Se coesistono disturbi dell’immagine corporea, anche minori, il parlare di alimentazione potrebbe favorire la comparsa di un disturbo del comportamento alimentare; in poche parole, se si interviene troppo tardi si rischia di fare più male che bene. Gli alunni delle elementari sono quindi il terreno più fertile 51 Ministero della Salute dove fare arrivare i nostri messaggi di prevenzione, in quanto sono più facilitati nel ricevere messaggi educativi senza incorrere in fraintesi. Il metodo che si è rivelato più efficace nel trasmettere i concetti relativi a una corretta alimentazione si basa sulla spiegazione delle differenti classi di alimenti e del loro ruolo fondamentale nel periodo dell’accrescimento e nel mantenere un buono stato di salute anche nell’età adulta. Le lezioni teoriche in quella fascia di età lasciano un segno non duraturo, ma se vengono integrate con attività pratiche, che hanno anche una valenza ludica, si può catturare più facilmente l’attenzione degli alunni. Gli alimenti vegetali sono in genere poco appetibili per i bambini, ma se si faranno degli orti “sperimentali” in piccole porzioni dei giardini delle scuole, si potrà coinvolgere gli alunni nei processi di produzione degli alimenti, con tutte le difficoltà che questo comporta. La partecipazione attiva degli alunni a questo gioco di vita lascerà impresso nella loro memoria un patrimonio culturale ancestrale che sembra destinato all’estinzione. Questa attività dovrà essere associata a un’adeguata cultura nella refezione scolastica, così che i pasti distribuiti seguano rigorosamente i criteri della costruzione di una dieta mediterranea basata su abbondante frutta e verdura, carboidrati complessi con moderazione, pochissimi dolci, predilezione per pesce e carni bianche, condimento con olio di oliva crudo. Agli alunni dovranno essere concesse minime facoltà di scelta, a meno di particolari esigenze alimentari per patologia, e non dovranno mai essere offerti in alternativa cibi ricchi di acidi grassi saturi o trans. Un programma di educazione di questo tipo dovrà essere verificato con rigorosi criteri che determinino quanto sia efficace il sistema operativo nel modificare le scelte alimentari degli allievi delle scuole elementari. L’educazione a un procedimento educativo globale 52 per condurre un corretto stile di vita dovrà ovviamente tenere conto che una corretta educazione alimentare non dovrà mai essere disgiunta da una costante raccomandazione a condurre una costante attività fisica e questo verrà trattato in dettaglio nei paragrafi seguenti. Attività fisica La restrizione calorica induce una riduzione del dispendio energetico. Quando la quantità complessiva di cibo assunta si riduce, si verifica una diminuzione della termogenesi indotta dal cibo; inoltre, si osserva una riduzione del dispendio energetico basale, che si protrae per molte settimane dopo la cessazione della restrizione. Il meccanismo attraverso il quale si realizza questo fenomeno è complesso e sono coinvolti vari sistemi endocrini e metabolici. Innanzitutto, la deprivazione calorica protratta provoca una riduzione della secrezione di ormoni, come la leptina e gli ormoni tiroidei, che stimolano (direttamente o tramite l’attivazione simpatoadrenergica) la termogenesi a livello del tessuto muscolare e adiposo. Inoltre, la perdita di peso conseguente alla restrizione alimentare si accompagna inevitabilmente alla riduzione della massa magra che, come visto in precedenza, è uno dei principali determinanti del dispendio energetico a riposo. Non sono stati valutati, sino a oggi, gli effetti della restrizione calorica protratta sul dispendio energetico indotto dall’esercizio fisico. La diminuzione del consumo di energia a riposo e della termogenesi indotta dal cibo è uno dei motivi alla base del fallimento terapeutico della prescrizione dietetica nel trattamento dell’obesità. Proprio per tale motivo, i pazienti obesi che si sottopongono a ripetute diete ipocaloriche mostrano spesso una riduzione cospicua del dispendio energetico, che ostacola i successivi tentativi di perdere peso. Al contrario, l’esercizio fisico induce un aumento, Parte Prima – Appropriatezza operativa anche rilevante, del dispendio energetico complessivo. È ovvio che l’incremento dell’attività fisica si accompagna a un aumento del dispendio energetico indotto dall’esercizio, soprattutto nel caso che si scelgano attività aerobiche di bassa intensità e lunga durata. Allo stesso tempo, l’attività fisica regolare induce anche un incremento del dispendio energetico a riposo, la cui entità è discussa. Si può osservare che l’esercizio fisico regolare provoca una modificazione della composizione corporea, con aumento della massa muscolare e quindi della massa magra, metabolicamente attiva, che si associa a un incremento del dispendio energetico a riposo. Dei due maggiori approcci al trattamento dell’obesità, restrizione calorica ed esercizio fisico, il primo induce una riduzione del dispendio energetico che tende a limitare la perdita di peso, mentre il secondo provoca un incremento del consumo di energia, che favorisce il mantenimento dei risultati terapeutici a lungo termine. In generale, soltanto approcci terapeutici integrati, che prevedano allo stesso tempo una riduzione dell’introito calorico e un aumento del dispendio di energia, sono efficaci per la perdita di peso; le attuali conoscenze fisiopatologiche suggeriscono, però, che soltanto l’esercizio fisico regolare garantisce la possibilità di mantenere i risultati raggiunti a lungo termine. Dieta Con il termine “dieta” si può intendere sia uno stile di vita sia un regime alimentare. Il primo è un modo di vivere, risentendo del proprio bagaglio culturale, delle proprie tradizioni e delle abitudini e può essere modificato nel corso della vita, mentre l’altro è un modo di alimentarsi scelto dalla persona o imposto da altri, e che viene effettuato per un periodo di tempo limitato. I gusti alimentari rappresentano un effetto del contesto socioculturale di appartenenza, per cui gusto 5 e disgusto non dipendono dalla natura, ma sono spesso determinati dalla cultura e quindi dalle abitudini. Come ha sostenuto Fishler “La variabilità delle scelte alimentari umane procede forse in gran parte dalla variabilità dei sistemi culturali: se non mangiamo tutto quello che è biologicamente commestibile, è perché non tutto ciò che si può biologicamente mangiare è culturalmente commestibile”. Sempre secondo Fishler, “ogni cultura possiede una cucina specifica che implica delle classificazioni, delle tassonomie particolari e un complesso di regole fondato non solo sulla preparazione e sulla combinazione degli alimenti, ma anche sulla loro raccolta e sul loro consumo. Possiede anche dei significati, che sono strettamente dipendenti dal modo in cui le regole culinarie vengono applicate: come gli errori di grammatica possono danneggiare o annullare il significato di una frase, gli errori di ‘grammatica culinaria’ possono determinare degli effetti negativi sulla salute di chi mangia”. La maggior parte degli studi scientifici effettuati nell’ambito dell’alimentazione e della nutrizione ha cercato di individuare un regime alimentare in grado di ottimizzare lo stato nutrizionale dell’uomo per un’aspettativa di vita maggiore, insieme a una migliore qualità della vita. Secondo il rapporto del 2002 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), esistono alcuni fattori di rischio in grado di influenzare concretamente e in modo negativo la durata della vita di un uomo. Alcuni di questi fattori di rischio derivano da comportamenti del soggetto (vedi l’abitudine tabagica), altri (come ipertensione e ipercolesterolemia) possono avere una componente genetica. Da queste considerazioni si può dedurre che ha un corretto stile di vita chi: • non fuma; • non beve abitualmente alcolici; • non fa uso di droghe e/o di sostanze stupefacenti; 53 Ministero della Salute • non è in sovrappeso; • non fa una vita sedentaria; • segue un’alimentazione varia ed equilibrata. Non vi è dubbio, allora, che non è solamente una particolare dieta che riduce i fattori di rischio nel lungo termine, quanto appunto uno stile di vita, un comportamento adeguato alla condizione del soggetto. Allo stato attuale è scientificamente provato, anche in studi clinici a lungo termine, il ruolo fondamentale della dieta mediterranea sulla durata e sulla qualità della vita, nonostante la variabilità delle abitudini alimentari dei vari Paesi. Lo stile alimentare mediterraneo, infatti, non è un “atto” dietetico, ma un insieme di fattori o di circostanze che in un certo senso vincolano la popolazione ad avere un particolare tipo di alimentazione per tutta la vita: fra questi, primi fra tutti sono la tradizione agricola del Paese, il clima e l’economia. Il concetto di dieta mediterranea risale agli anni Sessanta, quando Ancel Keys, della School of Public Health presso l’Università del Minnesota, analizzò per primo il ruolo dell’alimentazione nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. Già nel 1952, Ancel Keys aveva intuito la relazione esistente fra la dieta e i valori di colesterolo nel sangue. Analizzando gli abitanti di due quartieri di Madrid agli inizi degli anni Cinquanta, si rese conto che gli abitanti del quartiere a basso tenore economico non bevevano quasi mai latte, non consumavano quasi mai né carne o burro e avevano bassi valori di colesterolo, con un’incidenza molto bassa di cardiopatie coronariche; gli abitanti dell’altro quartiere, invece, con una dieta più ricca di grassi saturi, avevano valori di colesterolo molto più elevati, e tra essi i casi di infarto del miocardio erano molto più frequenti. Nel corso degli anni sono state elaborate numerose raccomandazioni nutrizionali caratterizzate da una presentazione grafica della distribuzione dei cibi 54 sotto forma di “piramidi alimentari”. L’aforisma tedesco “Der Mensch ist, was er isst” (l’uomo è ciò che mangia) sottolinea l’importanza del cibo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva, e non certo solo a causa del legame intimo con il sacro e la religione. Questo problema ha portato a cercare di identificare degli strumenti più idonei alle singole popolazioni. Anche il nostro gruppo ha realizzato uno schema di piramide della dieta mediterranea toscana che più si avvicina alle tradizioni alimentari della popolazione italiana. Se fino ad allora l’epidemiologia nutrizionale ha contato principalmente sugli studi circa il rapporto fra parametri biochimici di rischio di malattia e un singolo o pochi nutrienti, oggi si è passati allo studio del profilo dietetico, cioè della condotta alimentare, ovvero allo studio dell’aderenza alla dieta mediterranea in relazione alle malattie cardiovascolari (e neoplastiche), in termini di incidenza, di progressione della malattia e di mortalità. Recentemente, Sofi et al. hanno effettuato per la prima volta una metanalisi prendendo in considerazione oltre 60 studi prospettici che hanno valutato l’aderenza alla dieta mediterranea attraverso un punteggio numerico e lo stato di salute. I risultati di questo studio dimostrano che l’adeguamento della propria alimentazione a una dieta mediterranea comporta una riduzione della mortalità totale (–9%), della mortalità cardiovascolare (–9%), dell’incidenza e mortalità per cancro (–6%), dell’incidenza del morbo di Parkinson (–13%) e dell’incidenza della malattia di Alzheimer (–13%). Vista l’elevata incidenza di queste malattie, così come il sovrappeso, l’obesità e il diabete di tipo 2, derivati principalmente dal fatto che i consumi alimentari si stanno allontanando da tale modello, vi è da parte dei principali enti scientifici una forte promozione verso questo modello alimentare. La raccomandazione di utilizzare una distribuzione calorica in macronutrienti di circa il 55% Parte Prima – Appropriatezza operativa 5 di carboidrati, 15% di proteine e 30% di grassi, caratteristica dello stile alimentare mediterraneo, è ampiamente riconosciuta e basata su approfondite ricerche scientifiche effettuate per più di 30 anni. Bisogna altresì ricordare che una semplice modificazione qualitativa dell’alimentazione non è un intervento sufficiente a ottenere la perdita del peso; è infatti indispensabile mettere in atto uno squilibrio nel bilancio energetico di circa 250-300 kcal al giorno e questo deve essere effettuato in parte aumentando il dispendio energetico, attraverso l’incremento dell’attività fisica, e in parte riducendo l’introito calorico tramite la restrizione alimentare. Per quanto riguarda le diete ipocaloriche designate per la perdita di peso, Stunkard nel 1959 affermava “Tra tutti gli obesi, la maggior parte non inizierà neppure un trattamento; tra quelli che ne incominceranno uno, la maggior parte non lo porterà a termine; tra quelli che lo termineranno, la maggior parte non perderà peso; tra quelli che ne perderanno, la maggior parte lo recupererà rapidamente”. Questo può essere dovuto al fatto che molti tipi di diete non sono sostenibili a lungo termine, pertanto cadono gli eventuali effetti benefici nel tempo. La dieta mediterranea, al contrario, è molto più vicina a uno stile di vita più facilmente seguibile nel lungo termine. di specialisti. Ricadono, invece, nelle competenze specifiche della medicina generale i pazienti in sovrappeso (se non gravemente complicati). In linea generale, la medicina generale deve modificare gli “atteggiamenti di consuetudine” basati sulle solite raccomandazioni (“mangia meno…, muoviti di più, …migliora il tuo stile di vita…”) e privilegiarne di nuovi quali il suggerimento di una corretta metodologia di approccio, la motivazione del paziente con il quale condividere gli obiettivi di cura, il mantenimento dei risultati ottenuti. Tutto ciò passa naturalmente attraverso la necessità di fornire al MMG una preparazione specifica, anche per favorire il dialogo con lo specialista di riferimento. A tutto ciò si devono associare una razionale azione di inquadramento dell’obesità, una giusta valutazione dei fattori di rischio e un’analisi degli errori alimentari. Altri possibili obiettivi perseguibili in medicina generale nella gestione dei pazienti con problemi di eccesso ponderale sono elencati nella Tabella 5.1. È onesto, tuttavia, sottolineare che i risultati possono essere soddisfacenti a livello individuale, ma deludenti a livello di popolazione, poiché l’obesità La medicina generale • Migliorare la consapevolezza del problema e la motivazione delle cure • Ridurre in modo “minimo” ma accettabile il peso corporeo e stabilizzarlo • Ridurre e trattare i fattori di rischio cardiovascolare di morbilità e di mortalità • Affrontare e discutere con il paziente il disturbo dell’immagine corporea • Migliorare la capacità motoria e lavorativa • Affrontare e discutere con il paziente degli “ego deficit” (autostima, paura del giudizio altrui, senso d’inefficacia, fobia sociale) • Migliorare il tono dell’umore, l’equilibrio emotivo e le capacità relazionali È innanzitutto fondamentale da parte del MMG l’attenzione al problema obesità, vista come l’espressione di una patologia autonoma. È ovvio, inoltre, che l’attenzione del MMG deve essere rivolta in prima istanza alla prevenzione primaria dell’obesità (nei soggetti normopeso), mentre è opinione condivisa che i soggetti obesi (in particolare quelli con obesità severa e/o morbigena) devono essere cogestiti con equipe multidisciplinari Tabella 5.1 Possibili obiettivi clinici, psicologici e sociali nella cura dell’obesità in medicina generale 55 Ministero della Salute è soprattutto un problema di sanità pubblica, che implica una politica sanitaria disponibile a sviluppare programmi di prevenzione dell’obesità, mediante alcune modifiche radicali dell’ambiente. Infine, bisogna considerare che è elevatissimo il numero di soggetti in sovrappeso in carico mediamente a ciascun MMG (anche 300-400 soggetti) e che, pertanto, l’intervento può essere sistematico e capillare, ma non intensivo o tale da impegnare tempi non compatibili con la restante attività assistenziale della medicina generale. Le azioni concrete che il MMG può attuare nella gestione dei pazienti obesi/sovrappeso, ai fini dell’appropriatezza, sono le seguenti. • Pesare gli altri fattori di rischio cardiovascolare e valutare la presenza di diabete mellito di tipo 2. È necessario richiedere almeno la glicemia basale, l’assetto lipidico completo, la creatinina, gli elettroliti, le urine e l’uricemia. L’iperglicemia > 100 mg/dl, ma < 126 mg/dl, richiede l’esecuzione di una curva di carico orale con 75 g di glucosio con valutazione alla 2a ora (oral glucose tolerance test, OGTT), per verificare la presenza di diabete mellito di tipo 2, di un’intolleranza glucidica (impaired glucose tolerance, IGT) o di un’alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG). Infatti, l’eventuale presenza di una qualsiasi di queste condizioni aggraverebbe ulteriormente il rischio cardiovascolare del paziente e richiederebbe adeguati interventi farmacologici (statine, antiaggreganti), oltre alle necessarie modificazioni dello stile di vita. È superfluo ricordare che la perdita di peso incide favorevolmente su tutti i fattori di rischio cardiovascolare. Eventuali esami ormonali si devono richiedere per indagare su cause secondarie dell’obesità in caso di sospetto clinico o di obesità refrattaria a ogni tipo di trattamento. • Ricercare i sintomi/segni di insufficienza respiratoria in caso di obesità severa. Quest’ultima, 56 infatti, provoca una diminuzione del volume di riserva espiratoria che peggiora consensualmente all’accrescersi del peso corporeo, specie in posizione supina, quando il grasso addominale ostacola l’espansione polmonare. In questi casi è indicata l’esecuzione di: ECG, radiografia del torace, ecocardiogramma, spirometria ed eventualmente emogasanalisi, poiché l’obesità grave comporta anche un’alterazione del rapporto ventilazione/perfusione responsabile di ipossiemia. L’obesità di grado moderato o grave, inoltre, può causare frequentemente un’ostruzione delle vie aeree superiori durante il sonno (obstructive sleep apnea), che è un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare. È necessario chiedere ai familiari se il paziente russa durante il sonno e/o ha episodi di apnea e proporre, nel caso, l’esecuzione di una polisonnografia (eseguibile, su richiesta specialistica, con una sola notte di ricovero). • Discutere con il paziente le motivazioni a intraprendere un trattamento per perdere peso (determinazione, false credenze, storia di precedenti tentativi, supporto negativo o positivo di altri familiari, disponibilità a modifiche di comportamenti errati, considerazioni economiche). Il paziente deve essere edotto dei rischi, soprattutto cardiovascolari, e degli eventuali rischi (o danni) a livello respiratorio. • Inviare allo specialista i soggetti con obesità. Specie se BMI > 35 kg/m2 e/o obesità morbigena e/o con complicanze cardiovascolari/respiratorie e/o con gravi turbe del comportamento alimentare e/o con storia di precedenti e ripetuti episodi fallimentari di terapia dietetica (sindrome dello yo-yo o sindrome ciclica del peso). Gli specialisti coinvolgibili, a seconda della necessità del paziente, possono essere: il dietologo/dietista, l’endocrinologo/diabetologo (se presenza di diabete mellito), il chirurgo (se ne- Parte Prima – Appropriatezza operativa cessità di interventi), lo psichiatra/psicologo (se disturbi gravi del comportamento alimentare). Interventi multidisciplinari sono necessari in caso di pazienti particolarmente complessi o di gravi patologie coesistenti (ortopedico, pneumologo, otorinolaringoiatra, dermatologo ecc.). • Sostenere e rinforzare l’eventuale trattamento. Pur non essendo la terapia nutrizionale un compito specifico del MMG, è importante discutere e ricordare al paziente gli obiettivi terapeutici concordati (eventualmente coinvolgendo anche i suoi familiari). Il MMG deve sapere che un primo obiettivo ragionevole è una diminuzione del 10% rispetto al peso iniziale e che, al contrario, perdite troppo rapide del peso non sono in genere durature. La restrizione calorica deve essere contenuta entro le 500-600 kcal/die; riduzioni maggiori (800-1000 kcal/die), se protratte, possono provocare squilibri metabolici e nutrizionali. L’aumento dell’attività fisica è parte integrante del programma terapeutico e più importante delle stesse restrizioni dietetiche. Il ricorso alla terapia farmacologica deve essere integrato all’interno di programmi multidisciplinari che prevedano, oltre alla dieta, la terapia comportamentale e un’attività fisica regolare. I farmaci antiobesità dovrebbero essere utilizzati per il controllo a lungo termine del peso, piuttosto che per una sua drastica diminuzione o per meri fini “estetici” e comunque vanno riservati all’obesità severa e/o morbigena. Se il paziente raggiunge l’obiettivo minimo, il passo successivo è mantenere il peso perduto, cosa che purtroppo è molto difficile e indipendente dal tipo di terapia attuata. • Sconsigliare con convinzione le diete e le terapie “fai da te”. Sconsigliare soprattutto le diete sbilanciate e/o drastiche e l’impiego di prodotti galenici contenenti una o più delle seguenti sostanze: amfepramone, fendimetrazina, fentermina, benzfetamina, fenfluramina o benfluorex 5 sia pur in associazione con altri principi farmacologicamente attivi, ivi compresi gli ormoni tiroidei. • Effettuare il follow-up dei pazienti obesi/in sovrappeso (in trattamento o meno). Ciò comporta ogni 6-12 mesi e/o in modo opportunistico: la misurazione del BMI e della circonferenza addominale, la valutazione della glicemia a digiuno ed eventualmente di un’OGTT annuale per cogliere l’eventuale viraggio verso un diabete di tipo 2, la misurazione della pressione arteriosa e del rischio cardiovascolare con la carta del Progetto Cuore-ISS, nonché il rinforzo dei messaggi sullo stile di vita. Per una gestione razionale del cibo è importante preferire e insegnare la misura dei volumi (dietetica per volumi) rispetto alla pesatura in grammi e decilitri, perché essa migliora la capacità di autogestione da parte del paziente. Per l’attuazione di queste semplici operazioni è necessaria un’organizzazione-strumentazione minima: metro a nastro, bilancia e statimetro, cartella clinica elettronica. I servizi specialistici: territoriali e ospedalieri Le Unità Operative ospedaliere La rete regionale per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’obesità si articola attraverso i diversi livelli di intervento: ambito territoriale e ospedaliero. Nell’ambito territoriale si possono individuare: i MMG, i pediatri di famiglia e i centri ambulatoriali di riferimento. Nell’ambito ospedaliero esistono varie possibilità: ricovero in regime di day-hospital o di ricovero ordinario; disponibilità di molteplici strumenti terapeutici inclusa la chirurgia bariatrica; accesso facilitato ai centri di elevata specializzazione per il trattamento delle gravi obesità; possibilità di accesso alle strutture di riabilitazione dell’obesità. 57 Ministero della Salute Il ricovero in day-hospital o in regime ordinario si rende necessario quando l’obesità è di grado elevato e sono presenti complicanze metaboliche, cardiovascolari, respiratorie e gastroenterologiche che richiedano indagini approfondite e difficilmente eseguibili in regime ambulatoriale. A tale proposito è necessario sottolineare che il paziente obeso ha spesso difficoltà di deambulazione e richiede apparecchiature diagnostiche particolari, adatte alle sue dimensioni. Le indicazioni per il ricovero sono date dalla necessità di valutare la presenza di endocrinopatie, sindrome metabolica, disfunzioni respiratorie e cardiocircolatorie o altre patologie che richiedano interventi specifici oltre a quelli rivolti a ottenere un calo ponderale. Ogni ospedale di zona dovrebbe attivare un’equipe multidisciplinare con competenze specifiche, attingendo alle risorse professionali esistenti e, ove necessario, adeguandole alla richiesta, delegando a tal fine un coordinatore. L’attività diagnostica prevede una valutazione interdisciplinare comprensiva di visita medica, valutazione psicologica e valutazione dietetica, indagini ematochimiche e strumentali, consulenze specialistiche secondo necessità. Deve essere rivolta a riconoscere i casi di obesità secondaria a cause specifiche e a valutare la presenza e la gravità delle patologie associate. In caso di diagnosi di malattie particolari responsabili dell’incremento ponderale viene impostata una terapia volta alla correzione della patologia specifica. L’attuazione della terapia può essere delegata alle strutture territoriali di competenza o, in casi complessi, si può fare riferimento ai centri di elevata specializzazione. Le strutture ospedaliere hanno facilità di accesso alle strutture dedicate alla riabilitazione dell’obeso. Tali centri ospedalieri sono in collegamento con i centri di elevata specializzazione per l’invio dei pazienti affetti da superobesità. I centri di elevata specializzazione costituiscono un punto di aggregazione e di riferi- 58 mento per i centri di chirurgia bariatrica esistenti nella propria area. I centri di riferimento I modelli assistenziali proposti evidenziano l’utilità dell’istituzione di centri altamente specializzati e integrati per fare fronte alla gravità e vastità epidemica del fenomeno obesità. Tali centri saranno composti da Unità Operative aventi figure professionali mediche e infermieristiche con specifiche competenze ed esperienze nell’ambito dei diversi aspetti clinici dell’obesità e delle comorbilità a essa collegate, con un ruolo di eccellenza nel campo internistico (in particolare nel campo del metabolismo, dell’endocrinologia, della nutrizione clinica) e della chirurgia bariatrica. Essi prevedono la centralità del paziente obeso per avere ricadute socioeconomiche che riducano i “volani” di spesa rappresentati dalle gravi complicanze di tale patologia. Secondo tali modelli: • i centri di elevata specializzazione devono agire in stretta collaborazione con le altre strutture sanitarie operanti sul territorio, con i MMG, i pediatri di famiglia e con i centri ospedalieri situati sul territorio che richiedano consulenza. Il team interdisciplinare deve essere costituito da personale che garantisca la continuità delle molteplici attività del centro; • le figure professionali che fanno parte del team sono: medico internista/endocrinologo/diabetologo/nutrizionista, psicologo/psicoterapeuta, dietista, psichiatra. Il personale deve possedere competenze professionali specifiche e capacità di lavoro interdisciplinare di gruppo; • il centro deve potersi avvalere di consulenti in ambito cardiologico, pneumologico, radiologico, neurologico, ortopedico, anestesiologico, chirurgico generale e chirurgico plastico, che Parte Prima – Appropriatezza operativa possiedano competenze specifiche nel campo dell’obesità; • deve essere fornito di ambienti idonei dedicati e di tutte le apparecchiature atte a garantire il corretto inquadramento e la corretta assistenza del grande obeso. I centri di elevata specializzazione attivano ambulatori interdisciplinari, ricoveri in day-hospital e in regime ordinario. Presso i centri di elevata specializzazione sono attivi protocolli specifici per la diagnosi e la terapia delle obesità gravi e complicate. A tale scopo i centri si attivano per la preparazione e l’esecuzione di interventi di chirurgia bariatrica adeguati alla risoluzione delle grandi obesità complicate; • i centri di elevata specializzazione dovrebbero attivare centri dedicati alla riabilitazione del paziente obeso e facilitare l’accesso ai pazienti seguiti presso ambulatori territoriali e ospedali. I centri di elevata specializzazione dovrebbero avere un ruolo di coordinamento per quanto riguarda le attività formative e di aggiornamento. Infine, in tali centri deve essere sviluppata l’attività di ricerca con il coinvolgimento della rete regionale per la raccolta dei dati, il reclutamento dei pazienti e l’attuazione di studi di popolazione. Rappresentano attività specialistiche integrate: • la cardiologia: - ECG sotto sforzo, - ecocardiografia; • la pneumologia: - prove di funzionalità respiratoria, - polisonnografia, - terapia del paziente obeso con sindrome delle apnee notturne con CPAP (continuous positive airways pressure); • la psichiatria: - valutazione psicologica e psicometria del comportamento alimentare, 5 - eventuale approccio cognitivo-comportamentale di sostegno alla terapia medica con possibilità di terapia di gruppo; • la chirurgia bariatrica (il volume operatorio deve essere ≥ 100 interventi annui): - endoscopia digestiva e applicazione del palloncino intragastrico preoperatorio, - possibilità di diversificare l’approccio chirurgico a seconda delle caratteristiche del paziente: bendaggio gastrico, bypass gastrico, diversione bilio-pancreatica. In tali modelli si evidenzia che il gruppo interdisciplinare ha il compito di prendere in cura il paziente garantendo: • la valutazione clinico-strumentale per determinare le cause dell’obesità e l’esistenza e la gravità delle condizioni morbose associate; • il percorso assistenziale e gli interventi specifici che garantiscano la continuità dell’assistenza; • il trattamento integrato con l’utilizzo di protocolli specifici per la terapia medica, psicologico/psichiatrica e l’educazione nutrizionale; • la stipula di protocolli operativi con i presidi ospedalieri di riferimento, in modo da assicurare la disponibilità di posti letto e l’avvio alla valutazione presso i centri ospedalieri che praticano la chirurgia bariatrica, ove necessario. Il gruppo interdisciplinare propone interventi educativi anche per i familiari. Il modello assistenziale prevede che il centro selezioni i pazienti dopo attenta valutazione psichiatrica, cardiorespiratoria e metabolica e provveda al follow-up postchirurgico a breve e lungo termine. Affinché il trattamento dell’obesità risulti efficace, in termini sia di risultati sia di mantenimento degli stessi, è necessario affiancare all’intervento medico, inteso in senso stretto, un intervento educativo che consenta al soggetto di comprendere le cause del problema e di mettere in atto, nella 59 Ministero della Salute vita di tutti i giorni, i comportamenti idonei a raggiungere gli obiettivi prefissati. Il mantenimento di un sufficiente livello di esercizio motorio viene considerato il momento primario della rieducazione, da affiancare alla riabilitazione nutrizionale e comportamentale. A tal fine è fondamentale la collaborazione con centri di rieducazione e riabilitazione del paziente obeso che utilizzano l’opera di personale qualificato. L’attività motoria deve essere intesa come riabilitazione e rieducazione in piscina, in palestra e in percorsi esterni. Gli incontri psicologici di gruppo sono volti al recupero del controllo sull’alimentazione, al miglioramento della compliance alla dieta, al recupero dell’autostima e all’acquisizione di capacità di problem solving. La terapia di gruppo dietologica è volta all’insegnamento di strategie per il controllo dell’alimentazione e per l’apprendimento di metodi corretti di gestione in proprio della dieta. Modelli di gestione integrata del follow-up I percorsi assistenziali per la gestione integrata (chronic care model ) Le peculiari caratteristiche della grande obesità come patologia cronica, le sue comorbilità e la disabilità conseguente con un impatto sulla qualità della vita e sui costi sanitari impongono di assumere una prospettiva non solo di tipo terapeutico, ma soprattutto riabilitativo. È quindi importante prevedere e definire percorsi terapeutici con una squisita valenza multidisciplinare che affrontino in una prospettiva temporale di lunga durata il problema del peso, ma soprattutto la prevenzione e la cura delle complicanze. L’approccio multidisciplinare e multidimensionale dovrà essere affidato al lavoro integrato di diverse figure professionali. Va ribadito che, anche nel 60 contesto della terapia della grande obesità, il lavoro di equipe non deve essere inteso come la semplice somma di diverse competenze, ma come una perfetta integrazione funzionale delle stesse. Tutte le recenti Linee guida prevedono che la selezione e la cura preoperatoria e postoperatoria dei pazienti con grande obesità debbano essere svolte da un team multidisciplinare composto: • dallo specialista in medicina interna o in endocrinologia e malattie metaboliche con provata esperienza nel campo della clinica e terapia dell’obesità; • dallo psichiatra (coadiuvato da uno psicologo) esperto nella diagnosi e nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare; • dal nutrizionista o dietista con esperienza specifica; • dal fisioterapista o medico dello sport con esperienza nello specifico settore; • dal chirurgo con comprovata esperienza di chirurgia generale e bariatrica. Anche il personale infermieristico dovrebbe ricevere una formazione specifica. Figure di supporto che dovrebbero collaborare con il team, qualora non vi fossero specifiche competenze già al suo interno, sono il cardiologo e lo pneumologo. Data la complessità della gestione domiciliare del paziente con grande obesità nel lungo periodo, la collaborazione con il MMG è indispensabile. Nella rete assistenziale per la gestione dell’obesità e del progetto terapeutico riabilitativo sono coinvolti, oltre al MMG, come primo livello, l’ambulatorio specialistico interdisciplinare (internisticoendocrino-metabolico-psicologico-nutrizionaledietologico), servizi quali il day-hospital diagnostico-terapeutico-riabilitativo, il day-service diagnostico o terapeutico-riabilitativo, oltre ai ricoveri ordinari in reparti di medicina e chirurgia ed eventuali programmi di riabilitazione intensiva residenziale. Parte Prima – Appropriatezza operativa In relazione al grado di obesità, al numero e alla gravità delle comorbilità e al grado di disabilità, la riabilitazione intensiva pre- e postchirurgica rappresenta un nodo cruciale nella rete assistenziale. Il percorso riabilitativo può svolgere un ruolo essenziale nella preparazione di pazienti alla chirurgia bariatrica e nel follow-up degli stessi, al fine di ridurre i rischi perioperatori e per consentire un adeguato ed efficace adattamento funzionale alla nuova situazione (Linee guida del Ministero della Sanità per le attività di Riabilitazione – GU 30 maggio 1998, n. 124; Piano d’Indirizzo del Ministero della Salute per la riabilitazione, 2010). Criteri di appropriatezza dell’equipe multidisciplinare e del setting di cura È assolutamente indispensabile che l’attività di un centro specializzato nel trattamento medico e 5 chirurgico dell’obesità non sia sporadica e che gli operatori abbiano ricevuto una formazione specifica e un grado di competenza certificata. Questo vale in particolare per gli aspetti della chirurgia bariatrica, che va praticata in centri interdisciplinari di I e II livello, come raccomandato nell’opuscolo “Linee guida e stato dell’arte della chirurgia bariatrica e metabolica in Italia” pubblicato, nell’aprile 2008, dalla Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche (SICOB). Una problematica di grandissima rilevanza sociale è che, almeno nei centri di alta specializzazione, siano operativi chirurghi plastici che possano portare a compimento il rimodellamento corporeo a dimagrimento avvenuto. È assolutamente superfluo rilevare che questi interventi non sono estetici, ma funzionali, e che fanno parte integrante del trattamento interdisciplinare. 61 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 6. Indicatori e standard: definizioni e tipologie Gli indicatori L’indicatore è un’informazione, quantitativa o qualitativa, numerica e quindi “misurabile”, che ragguaglia sullo stato di successo raggiunto lavorando sui fattori critici e fornisce un quadro significativo relativamente al raggiungimento di strategie e obiettivi. Si riporta di seguito la definizione di “indicatore sanitario” espressa dalla Commissione Europea per lo stato di salute della popolazione: “An indicator is a quantitative or qualitative measure of how close we are to achieving a set goal (policy outcome). They help us analyse and compare performance across population groups or geographic areas, and can be useful for determining policy priorities. Health indicators based on reliable, comparable data are essential for designing strategies and policies to improve the health of Europeans, and then monitoring their implementation”. Uno degli obiettivi principali del programma comunitario in materia di salute (2008-2013) consiste nel fornire informazioni comparabili sulla salute dei cittadini europei attraverso lo sviluppo di indicatori sanitari e la raccolta di dati. Le informazioni da raccogliere riguardano il comportamento della popolazione in relazione alla salute (dati sullo stile di vita e altri determinanti della salute), le malattie (incidenza delle malattie cro- niche, gravi e rare e modalità di controllo delle stesse) e i sistemi sanitari (informazioni sull’accesso ai servizi e sulla qualità dell’assistenza prestata, dati relativi alle risorse umane e alla capacità finanziaria dei sistemi sanitari). La raccolta dei dati si fonda su indicatori sanitari comparabili, applicabili in tutta Europa, nonché su definizioni e metodi di raccolta e utilizzo concordati. Gli indicatori esprimono una valutazione/misurazione di un/a fenomeno/evento/attività/oggetto/ realtà/ecc. correttamente rilevati ed elaborati; si distinguono in due grandi categorie: sintetici e analitici. Gli indicatori devono essere elaborati basandosi prevalentemente su dati elementari. Peraltro, per chiarezza metodologica e per una loro maggiore comprensione, è necessario in fase operativa precisare le modalità di rilevazione e di elaborazione dei dati di base. Per raggiungere un buon grado di affidabilità degli indicatori è necessario raggiungere un livello di disponibilità di dati interni congruente con la normativa. Gli indicatori devono possedere alcune caratteristiche di facile reperibilità dei dati: • affidabilità nel misurare un fenomeno; • comprensibilità; • costo sostenibile; • assenza di ambiguità. 63 Ministero della Salute L’indicatore, per definizione, descrive soltanto un aspetto di un processo complesso e che, raramente, è possibile condensare in una sola misura. La scelta dell’indicatore è quindi importante, ma soprattutto lo è in funzione della sua capacità di “marcare” un processo, invitando alla revisione e al miglioramento della qualità del processo stesso. Gli elementi considerati costituiscono il cruscotto di indicatori, ciascuno con nome e metrica chiari, oggettivi, comprensibili, poco costosi da misurare e rappresentativi di un processo critico. L’indicatore rappresenta uno strumento fondamentale per supportare i processi decisionali. Per l’effettiva ricaduta di tali strumenti sul miglioramento continuo e sulla qualità dei servizi è necessario che siano conosciuti e condivisi da tutto il personale sanitario, infatti la performance globale è il risultato delle singole performance collegate da influenze reciproche. Nella pratica delle valutazioni degli indicatori vengono considerate tre categorie diverse di informazioni. • Indicatori di struttura. Comprendono i requisiti strutturali, tecnologici, organizzativi e professionali (STOP) delle strutture sanitarie, previsti dalle normative regionali per l’accreditamento istituzionale. Oltre a sottolineare le notevoli differenze tra i requisiti minimi definiti dalle varie Regioni, va rilevato che – anche nei modelli di accreditamento più avanzati (Emilia Romagna) – la componente professionale è ancora “ipotrofica”. Infatti, la mancata standardizzazione dei criteri di competence professionale e l’assenza di periodiche procedure di valutazione costituiscono l’anello debole della catena: in una struttura accreditata che eroga processi appropriati, una limitata competence professionale può compromettere la qualità dell’assistenza. In definitiva, gli indicatori strutturali definiscono le “caratteristiche del conte- 64 nitore” in cui viene erogata l’assistenza e la loro conformità ai requisiti di accreditamento è conditio sine qua non per garantire la qualità dell’assistenza sanitaria. • Indicatori di processo. Misurano l’appropriatezza del processo assistenziale in relazione a standard di riferimento: Linee guida, percorsi assistenziali. Considerato che non forniscono informazioni sui risultati dell’assistenza (esiti), gli indicatori di processo vengono definiti proxy (sostitutivi), perché potenzialmente in grado di prevedere un miglioramento degli esiti assistenziali. Tale predittività – definita robustezza – è strettamente correlata alla forza della raccomandazione clinica su cui viene costruito l’indicatore. In altre parole, tanto più robuste sono le evidenze che documentano l’efficacia di un intervento sanitario, più forte sarà la raccomandazione clinica e più robusto il corrispondente indicatore di processo. In altri termini, la robustezza di un indicatore di processo diminuisce parallelamente alla forza della raccomandazione clinica: le raccomandazioni forti (A, B) generano indicatori molto robusti; quelle deboli (C, D) indicatori poco robusti che, in genere, non è opportuno monitorare, tranne se strettamente correlati a ottimizzazione delle risorse e/o ad aspetti organizzativi. • Indicatori di esito. Documentano una modifica di esiti assistenziali: clinici (mortalità, morbilità), economici (costi diretti e indiretti) e umanistici (qualità di vita, soddisfazione dell’utente). Considerato che gli esiti clinici, oltre che dalla qualità dell’assistenza, sono influenzati da numerose determinanti (patrimonio genetico, fattori ambientali, condizioni socioeconomiche), il principale elemento che condiziona la loro robustezza è il tempo trascorso dall’erogazione del processo. Per esempio, nell’assistenza ospedaliera, gli indicatori di esito Parte Prima – Indicatori e standard: definizioni e tipologie sono molto robusti se misurati entro la dimissione, moderatamente robusti sino a 4 settimane, quindi si “indeboliscono” progressivamente in misura variabile, anche in relazione al numero di potenziali determinanti. Un elemento ulteriore che condiziona la loro robustezza è una documentata relazione volumeesiti, solitamente determinata da un elevato livello di competence tecnica e da un setting assistenziale d’eccellenza. In numerose forme morbose ad andamento cronico evolutivo, in cui siano identificabili marker biologici, clinici o strumentali di evoluzione e controllo della malattia stessa, possono essere codificati degli indicatori di “esito intermedio”, non rappresentativi in realtà del vero esito, ma solo di un’aderenza temporanea agli standard definiti. Gli standard Il termine inglese standard deriva dal vocabolo francese antico estendart, avente il significato di stendardo, insegna. Il termine italiano che più si avvicina a standard è “norma”. Uno standard è infatti una norma accettata, un modello di riferimento a cui ci si uniforma affinché sia ripetuto successivamente. In campo sanitario, gli standard sono gli obiettivi clinici da raggiungere, basati sulle evidenze della letteratura scientifica; sono i riferimenti a cui pun- 6 tare per ottenere la migliore efficacia terapeutica e assistenziale. La maggior parte degli Stati europei ha compiuto progressi nello stabilire norme di qualità per l’assistenza sanitaria. La consapevolezza sempre più diffusa che l’utilizzo delle risorse per finanziare cure e tecnologie inefficienti comporta una riduzione delle opportunità, a scapito di altri pazienti, ha contribuito ad aumentare l’esigenza di documentare l’impatto di bilancio e il rapporto costoefficacia degli interventi. La definizione di standard sanitari comuni, almeno a livello nazionale, diviene fondamentale per il dialogo e la pianificazione fra tutti i livelli di responsabilità in ambito sanitario. Ai problemi di elaborazione di una politica e di tecniche di razionamento, infatti, si aggiungono quelli derivanti da un processo decisionale articolato, disgiunto e diffuso su diversi livelli di autonomia e responsabilità istituzionale e professionale: sono necessari principi e temi comuni per la salvaguardia stessa del carattere di universalità e di globalità delle garanzie offerte dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN). L’esempio più classico di standard sanitari, in Italia come negli altri Paesi sviluppati, è quello dei cosiddetti LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che rappresentano appunto la “norma” irrinunciabile di raggiungimento di erogazioni assistenziali ai cittadini in tutela della loro salute. 65 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 7. La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa Si definiscono indicatori di processo e di esito (o di outcome) quelle misure specifiche del processo di diagnosi, terapia e riabilitazione idonee a valutare, rispettivamente, l’efficienza organizzativa e l’esito dell’intervento diagnostico-terapeutico effettuato. Una doverosa premessa è rappresentata dal fatto che, a differenza di altre patologie croniche, nella letteratura scientifica riguardante l’obesità il problema degli indicatori di esito, ma soprattutto di processo, è stato poco trattato. Questo è sicuramente dovuto al ritardo culturale che solo in tempi relativamente recenti è arrivato ad attribuire all’obesità la categoria di malattia cronica associata all’aumento di morbidità e mortalità nella popolazione generale, nonché una delle principali cause di disabilità e di spesa sanitaria. Inoltre, la relativamente ridotta efficacia delle terapie disponibili rispetto a quanto ottenuto per altre malattie croniche e la relativa giovinezza di quelle di maggiore efficacia, quali la chirurgia bariatrica e la riabilitazione multidisciplinare, rendono il campo della terapia dell’obesità ancora in buona parte sperimentale e in attesa di Linee guida ben definite. Nella trattazione di questo argomento il problema degli indicatori di processo e di esito verrà riferito ai diversi livelli (setting assistenziali) nei quali si svolge il disease management del paziente obeso. Standard di processo e di outcome in ambito territoriale (inclusa la medicina generale) A questo proposito occorre distinguere tra programmi aventi come obiettivo la perdita di peso e quelli, più ambiziosi, riguardanti la gestione complessiva del paziente obeso, quindi che non si limitano a focalizzarsi sull’eccesso ponderale, bensì considerano anche le comorbidità e la riduzione della qualità della vita del paziente obeso. Per quanto riguarda i modelli di erogazione dei programmi per la perdita di peso in ambito territoriale, questi fondamentalmente possono essere di due tipi: • programmi erogati direttamente dai servizi di cure primarie; • programmi erogati da enti terzi (cosiddetti “commercial programmes”), ma secondo standard qualitativi definiti, generalmente configurabili come gruppi di auto-aiuto guidato o educazionali svolti da personale adeguatamente formato, rimborsati in tutto o in parte dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Per quanto riguarda i programmi erogati da servizi di cure primarie, il modello più studiato è quello del programma britannico Counterweight. Questo programma è svolto dagli infermieri operanti presso gli ambulatori dei medici di medicina generale 67 Ministero della Salute (MMG) [practice nurses], adeguatamente formati e supervisionati da un team multidisciplinare, nel quale il MMG ha il compito di effettuare lo screening e l’invio dei pazienti, nonché di effettuare l’eventuale terapia farmacologica dell’obesità e delle sue complicanze. I risultati a 12 mesi mostrano una perdita di peso uguale o superiore al 5% in una percentuale pari al 13,9% di tutti i pazienti trattati, pari al 17,6% in quelli complianti al trattamento. Il Counterweight Project Team ha recentemente stimato che i progetti di terapia dell’obesità svolti nell’ambito delle cure primarie, volti sia a contrastare l’aumento di peso con il passare del tempo sia a ridurre l’eccesso ponderale, siano in grado di ridurre dell’8% a 1 anno e del 18% a 2 anni la spesa farmacologica dei pazienti obesi e in sovrappeso. Quando si consideravano i costi totali associati con tre complicanze chiave dell’obesità (diabete di tipo 2, cardiopatia ischemica, carcinoma colonrettale), il guadagno ottenuto dal SSN in termini economici (senza considerare quello in termini di qualità di vita) risulta ampiamente superiore ai costi sostenuti per l’erogazione del programma stesso. La Cochrane Collaboration ha valutato l’efficacia degli interventi educazionali mirati ai MMG, concludendo che non possono essere ancora effettuate raccomandazioni in merito alla loro efficacia e al metodo migliore per erogarli. Gli autori, tuttavia, segnalavano la probabile maggiore efficacia degli interventi qualora presente un dietista a supporto del MMG. I programmi commerciali per la perdita di peso, soprattutto quando utilizzano gruppi di autoaiuto guidato, sono potenzialmente in grado di indurre, in pazienti motivati, decrementi ponderali ancora superiori, ma non vi sono studi in merito al costo-efficacia dell’erogazione di questi programmi a carico totale o parziale del SSN. Per quanto riguarda gli standard di processo nel disease management nell’ambito delle cure primarie, 68 i dati di letteratura sono limitati a due studi. Nel lavoro di Chang et al., volto a rilevare possibili differenze in senso negativo nella qualità assistenziale erogata a diabetici obesi vs normopeso, gli autori, contrariamente a quanto da loro originariamente ipotizzato, hanno rilevato migliori performance da parte dei medici nell’assistenza ai pazienti obesi diabetici rispetto ai diabetici normopeso. Il secondo lavoro, di maggiore interesse in quanto specificamente mirato agli standard di processo in medicina generale, si riferisce alla ricerca condotta negli Stati Uniti da Ma et al. nell’ambito del National Ambulatory Medical Care Survey (NAMCS). Gli autori hanno esaminato la prevalenza di screening per obesità, diagnosi e counseling durante le visite effettuate a pazienti adulti afferenti ad ambulatori dell’equivalente statunitense del MMG e di specialisti in malattie cardiovascolari; inoltre, hanno esaminato la performance di 15 indicatori di qualità ambulatoriali precedentemente identificati per le patologie croniche in genere. In questo studio, quasi il 50% delle visite non riportava la rilevazione di peso e altezza necessaria per lo screening dell’obesità utilizzando l’indice di massa corporea (body mass index, BMI). Limitatamente al gruppo di pazienti obesi (BMI ≥ 30 kg/m2), nel 70% non veniva segnalata in cartella ambulatoriale la diagnosi di obesità e il 63% non riceveva counseling per dieta, esercizio fisico o riduzione ponderale. Anche nei pazienti con note comorbidità dell’obesità, la percentuale di coloro nei quali non veniva rilevato il BMI (48%), segnalata l’obesità come diagnosi (66%) o sottoposti a counseling (54%) per obesità, era pure molto elevata. La performance (definita come la percentuale di visite nelle quali veniva erogata un’assistenza appropriata sugli indicatori di qualità) era complessivamente subottimale. In particolare, la performance non era superiore al 50% per diversi indicatori di qualità riferibili Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa alla prevenzione e al trattamento delle comorbidità dell’obesità e precisamente: corretta scelta della classe farmacologica nella terapia delle complicanze cardiovascolari e respiratorie dell’obesità; counseling nella cessazione del fumo; di poco superiore al 50% risultava, invece, il trattamento della depressione. La performance non variava secondo il livello di obesità; tuttavia, la mancata rilevazione di peso e altezza era costantemente associata a una scarsa performance, quindi una cattiva qualità di assistenza al paziente obeso. Un indicatore utile per quanto riguarda il counseling è fornito dalla US Preventive Services Task Force, che definisce l’intensità di counseling per obesità in termini di frequenza di contatto. Un intervento è definito di alta intensità se comprende più di una seduta (individuale o di gruppo) al mese per almeno 3 mesi. Per quanto riguarda l’ambito nazionale, vi sono alcune esperienze in corso da parte di nuclei di cure primarie. Inoltre, presso alcuni SIAN (Servizio Igiene Alimenti Nutrizione) sono svolti anche programmi di prevenzione secondaria su base territoriale. Pur in assenza di una validazione sul campo, è possibile estrapolare alcuni indicatori di qualità dal documento “Obesità, sindrome plurimetabolica e rischio cardiovascolare: Consensus sull’inquadramento diagnostico-terapeutico. Raccomandazioni per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’eccesso di peso e delle patologie a esso associate” sottoscritto nel 2004 da 13 Società scientifiche italiane. Queste Linee guida hanno in larga parte ripreso e aggiornato le precedenti Linee Guida Italiane Obesità (LiGIO ’99) ed è a queste che si farà principalmente riferimento nel presente capitolo. Tale Consensus raccomanda al MMG, nonché ai medici specialisti in malattie cardiovascolari, la rilevazione di peso e altezza e calcolo del BMI in tutti i pazienti. Una volta diagnosticato l’eccesso 7 di peso, è raccomandato nella Consensus che il MMG effettui un approfondimento anamnestico, nonché una valutazione del rischio di patologie associate mediante esame obiettivo mirato ed esami bioumorali e strumentali. Sempre secondo il testo della Consensus, il MMG dovrebbe anche proporre un intervento terapeutico in tutti i pazienti con eccesso di peso, integrandosi con gli specialisti di riferimento, in particolare quando il grado dell’obesità è più severo e più grave il quadro delle patologie associate. Secondo la Consensus si adatterebbero in particolare all’intervento terapeutico diretto del MMG: • la correzione della sedentarietà; • il counseling sulle abitudini di vita. Negli ambulatori di cure primarie deve essere prevista la presenza di strumentazioni atte alla diagnosi e al monitoraggio dei pazienti affetti da sovrappeso e obesità: • bilancia (si consiglia una portata massima non inferiore a 200 kg, ove possibile con pedana per la rilevazione del peso in pazienti disabili); • altimetro; • regolo o altro strumento per il calcolo del BMI; • nastro centimetrato per la misurazione della circonferenza addominale; • sfigmomanometro con bracciale di larghezza adeguata alla corretta rilevazione della pressione arteriosa anche in soggetti con obesità di grado elevato. Sulla base del documento della Consensus italiana, nonché di quanto riportato dallo studio del National Ambulatory Medical Care Survey, è possibile definire i seguenti indicatori di processo riguardanti i MMG e i medici specialisti in cardiologia e discipline affini. Per quanto riguarda i valori-soglia si è fatto riferimento a quelli statunitensi, ove disponibili, ovvero in assenza di dati basati sull’evidenza questi sono stati suggeriti dagli autori (expert opinion) [Tabella 7.1]. 69 Ministero della Salute Per quanto riguarda gli indicatori di outcome, occorre tenere presente l’elevato tasso di recidiva ponderale dopo perdita di peso, che è massima nei primi 2 anni dall’inizio del programma, con rischio di recidiva – sia pure di entità molto minore – sino a 5-8 anni. Dal momento che la maggior parte dei pazienti che tendono a recuperare peso lo fa entro 12 mesi dall’inizio del programma Tabella 7.1 Indicatori di processo in medicina generale o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari Target: tutti i pazienti afferenti all’ambulatorio di cure primarie o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari Indicatore Valore soglia proposto Peso Altezza BMI Presenza nel > 50% delle cartelle ambulatoriali o referto visita specialistica Idem Idem Target: tutti i pazienti con BMI ≥ 30 kg/m2 (o ≥ 25 kg/m2 se complicanze sospette o accertate) afferenti all’ambulatorio di cure primarie o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari Indicatore Valore soglia proposto Circonferenza addome Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG o referto visita specialista Pressione arteriosa Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG (> 90% referto visita specialista) Frequenza cardiaca Idem Glicemia a digiuno Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG (se circonferenza vita > 88 cm nelle donne, > 102 cm nell’uomo o in assenza di questo indicatore) Profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, trigliceridi) Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG Riportata abitudine o meno al fumo Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG (> 90% referto visita specialista) Riportate abitudini motorie Idem Riportato consumo di alcool Idem Valori soglia da definire. Complicanze più frequenti in pazienti con BMI elevato Valutazione dei sintomi suggestivi per complicanze cardiorespiratorie (dispnea, cardiopalmo, angina), inclusa sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (ipersonnia, disturbi del sonno) Screening per neoplasia dell’endometrio, della mammella, colonrettale Da definire eventuali modifiche dei programmi di screening rispetto a quanto previsto nella popolazione generale sulla base dell’aumentato rischio nel paziente obeso e relativi valori soglia Peso (aggiornamento) Almeno una volta ogni 12 mesi nel > 15% delle cartelle ambulatoriali o referto visita Circonferenza addominale (aggiornamento) Idem Nei fumatori, cadenza annuale nel > 10% delle cartelle ambulatoriali o referto visita Intervento motivazionale breve sulla cessazione del fumo Nei sedentari, cadenza annuale nel > 10% delle cartelle ambulatoriali o referto visita Intervento motivazionale breve sulla riduzione della sedentarietà > 5% dei pazienti su base annuale (sino a 3 incontri individuali o di gruppo nell’arco di Counseling sulle abitudini di vita 3 mesi) (intensità bassa o media) Da definire sulla base della disponibilità di programmi territoriali erogati dai servizi di Counseling sulle abitudini di vita cure primarie o con essi convenzionati (intensità elevata) BMI, indice di massa corporea; HDL, lipoproteine ad alta intensità; MMG, medico di medicina generale. 70 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa e stante la difficoltà di ottenere dati di follow-up, vi è generale accordo sul fatto che 12 mesi di follow-up rappresentino il periodo minimo per valutare l’efficacia a lungo termine di un programma per la perdita di peso. La Consensus su obesità, sindrome plurimetabolica e rischio cardiovascolare identifica il calo ponderale più efficace in termini clinici, realistico e compatibile con un successivo mantenimento a lungo termine sulla base del grado di sovrappeso/obesità e del livello di motivazione del paziente. Le più recenti Linee guida europee sulla gestione dell’obesità nell’adulto si discostano dal documento italiano per quanto riguarda alcuni degli obiettivi di riduzione ponderale: nella Tabella 7.2 sono riportati entrambi. 7 Il documento della Consensus – così come le Linee guida europee – fissa degli obiettivi in merito al calo ponderale più efficace, senza però indicare valori soglia. Per quanto riguarda i programmi erogati dai servizi di cure primarie sono stati quindi indicati come valori soglia quelli evidenziati dal Counterweight Project. Per quanto riguarda il counseling erogato direttamente dal MMG, viene fatto riferimento all’esperienza di un gruppo di MMG italiani che, utilizzando il counseling motivazionale breve, sono riusciti a prevenire l’aumento di peso o a indurre una riduzione ponderale dopo 18 mesi in oltre l’85% dei loro pazienti sovrappeso e obesi (Tabella 7.3). Ulteriori indicatori di processo, nonché di out- Tabella 7.2 Obiettivi di riduzione del peso secondo le Linee guida italiane ed europee Livelli di BMI Linee guida italiane Linee guida europee 25-29,9 kg/m2 30-34,9 kg/m2 5-10% in 6 mesi 5-10% in 12 mesi Perdita del 5-15% di peso a 6 mesi o prevenzione di un ulteriore incremento 35-39,9 kg/m2 40 kg/m2 e superiore* 5-10% in 12 mesi 10-15% in 12 mesi Considerare anche le perdite di peso di entità maggiore (> 20%) Nei pazienti con una storia pregressa di frequenti insuccessi terapeutici e/o con un livello molto basso di motivazione, il trattamento da proporre è una terapia di mantenimento del peso, in attesa di poterne iniziare una per il calo ponderale In alcuni pazienti, in particolare quelli in sovrappeso (BMI 25,0-29,9 kg/m2), la prevenzione di un ulteriore incremento ponderale (attraverso consigli nutrizionali e aumento dell’attività fisica) piuttosto che la perdita di peso di per sé può essere un obiettivo appropriato * Raccomandata la gestione da parte del medico specialista, in collaborazione con il MMG. BMI, indice di massa corporea; MMG, medico di medicina generale. Tabella 7.3 Indicatori di outcome in medicina generale o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari. Target: tutti i pazienti con BMI ≥ 30.0 kg/m2 afferenti all’ambulatorio di cure primarie Intervento Indicatore di outcome Valore soglia proposto Counseling motivazionale breve effettuato dal MMG Arresto dell’aumento ponderale o decremento ponderale a lungo termine 85% dei pazienti trattati a 18 mesi Counseling nutrizionale, motorio, psicologico svolto da un infermiere con il supporto del MMG % pazienti con riduzione ponderale ≥ 5% del peso iniziale a 12 mesi 13% sul totale dei pazienti trattati (intention-to-treat analysis) BMI, indice di massa corporea; MMG, medico di medicina generale. 71 Ministero della Salute come intermedio, inerenti i pazienti obesi e affetti da diabete di tipo 2 possono essere mutuati da quelli sviluppati per i pazienti diabetici. Standard di processo e outcome in ambito specialistico ambulatoriale In Italia, i centri specialistici fanno per lo più riferimento alla rete dei servizi di dietetica e nutrizione clinica ospedalieri, nonché ad ambulatori specialistici svolti nell’ambito dell’endocrinologia e della diabetologia. I documenti di riferimento sono rappresentati dalle Linee guida europee sulla terapia dell’obesità [che a loro volta riprendono ampiamente le Linee guida britanniche NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence)] e dalla “Consensus sull’inquadramento diagnostico-terapeutico – raccomandazioni per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’eccesso di peso e delle patologie a esso associate”. Tuttavia, anche in questo caso occorre utilizzare – come citato testualmente dalle Linee guida europee – “un approccio basato sull’evidenza, ma che al contempo permetta flessibilità al medico clinico in quelle aree dove al momento le evidenze non sono disponibili”. Nello sviluppo di un team di gestione clinico-assistenziale per i programmi di gestione del peso, le Linee guida europee raccomandano lo sviluppo di reti assistenziali costituite dal MMG, dal medico specialista obesiologo, dal dietista, dal laureato in scienze motorie (“exercise physiologist”) [o dal medico fisiatra], dal terapista comportamentale (o dallo psicologo/medico psichiatra) con incoraggiamento allo sviluppo di gruppi di supporto ai pazienti. Le stesse Linee guida sottolineano come nessun servizio sanitario possa trattare tutti coloro che sono obesi o sovrappeso ed enfatizzano l’importanza dei gruppi di supporto ai pazienti, delle organizzazioni commerciali e non, dei ma- 72 nuali di auto-aiuto e di altri media nel fornire utile aiuto e supporto, purché i loro contenuti siano conformi alle Linee guida europee. Dalle due Linee guida è possibile evincere diversi indicatori di processo inerenti la raccolta anamnestica, l’esame obiettivo, l’esecuzione di test diagnostici. Purtroppo, non vengono forniti valori soglia per gli stessi. Sempre a questo riguardo, l’ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) è da tempo attiva in merito all’individuazione degli standard di qualità sull’attività dei servizi di dietetica e nutrizione clinica, inclusi quelli inerenti la diagnosi e la terapia dell’obesità. È auspicabile che – analogamente a quanto avvenuto per il diabete – venga messa a punto una cartella clinica informatizzata contenente gli indicatori clinici suggeriti dalle Linee guida e vengano effettuate rilevazioni epidemiologiche su base multicentrica che coinvolgano tutti i servizi specialistici per l’obesità, allo scopo di definire sul campo i valori soglia degli indicatori di assistenza obesiologica in Italia e un’eventuale ridefinizione degli stessi sulla base delle specificità assistenziali del nostro Paese. In assenza di questa validazione, gli autori hanno posto valori soglia arbitrari sulla base di quanto indicato nei documenti ADI ove disponibili, ovvero sulla base della propria esperienza e di quella dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano. Nella valutazione degli standard di qualità occorre anche inserire il tempo raccomandato per la prima visita e per la visita di controllo. I tempi raccomandati dall’ADI sono 60-80 minuti per la prima visita (medico e dietista) e 15-20 minuti per la visita di controllo (solo dietista), 30-40 minuti se eseguita congiuntamente da medico e dietista. Da rilevare come l’attuale tariffa di rimborso delle prestazioni ambulatoriali da parte del SSN sia ampiamente insufficiente a coprire il costo degli operatori coinvolti nel caso di rispetto della tempistica raccomandata (Tabella 7.4). Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa 7 Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico Indicatori di processo della raccolta anamnestica Indicatore Valore soglia proposto Familiarità per eccesso di peso Presenza nel > 50% delle cartelle ambulatoriali o referto 1a visita Epoca di insorgenza dell’obesità Idem Pregresse terapie per l’obesità e andamento ponderale Idem Valutazione anamnestica di cause pregresse o attuali di eccesso di peso secondario (es. genetiche, farmaci, disturbi endocrini) Idem Valutazione anamnestica di altri possibili determinanti dell’obesità (es. fattori psicosociali, stress cronico, cessazione del fumo) Idem Attività fisica attuale e pregressa Idem Abitudini alimentari e frequenza dei pasti (anamnesi alimentare) Idem Assunzione di farmaci Idem Atteggiamento del paziente rispetto al peso (valutare come il paziente vive il suo aspetto fisico; indagare se sente di limitarsi in modo rilevante nella sua vita sociale, lavorativa e sessuale per evitare situazioni che vivrebbe con disagio a causa del suo peso) Valori soglia da definire (non ancora disponibili standard di valutazione) Aspettative verso il calo ponderale e motivazione del paziente al cambiamento Da definire (non ancora disponibili standard di valutazione) Valutazione della possibile presenza di un disturbo del comportamento alimentare (bingeeating, binge-eating disorder, night eating syndrome, bulimia nervosa) Si raccomanda di valutare se il paziente con eccesso di peso: • assume elevate quantità di cibo in poco tempo con sensazione di perdita di controllo dell’introito alimentare • ricorre al vomito, all’assunzione di lassativi o ad altri provvedimenti simili per prevenire l’aumento di peso in occasione di episodi di assunzione incontrollata di cibo • prova disgusto per se stesso e si sente colpevole e depresso dopo episodi di assunzione incontrollata di cibo • mangia anche quando non sente una fisiologica sensazione di fame • mangia in occasione di particolari sollecitazioni emotive • si alza durante la notte per mangiare Presenza nel > 50% delle cartelle ambulatoriali o referto 1a visita Valutazione della possibile presenza di depressione e di altri disturbi dell’umore Verificare se il paziente: • ha mai sofferto di episodi depressivi (eventualmente con desideri di morte o gesti autolesivi) • assume o ha assunto in passato psicofarmaci: neurolettici, antidepressivi, stabilizzatori del tono dell’umore ecc. • ha un’anamnesi di numerosi tentativi di perdita di peso seguiti da recupero ponderale (sindrome dello yo-yo: si associa con maggiore frequenza a sintomatologia depressiva o distress psichico) Idem Valutazione anamnestica di patologie, presenti o pregresse, comunemente associate all’eccesso di peso Idem Abitudine o meno al fumo Idem Consumo di alcool Idem Russamento notturno Idem Ipersonnia diurna (continua) 73 Ministero della Salute (segue) Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico Indicatori di processo dell’esamo obiettivo Indicatore Valore soglia proposto Peso Presenza nel > 90% delle cartelle ambulatoriali o referto 1a visita Altezza Idem BMI Idem Circonferenza addominale Idem Circonferenza del collo (se pazienti con BMI ≥ 35,0 kg/m2 oppure con riferito russamento notturno o ipersonnia diurna) Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali o referto 1a visita Pressione arteriosa (con bracciale di larghezza appropriata) Idem Frequenza cardiaca Presenza nel > 90% delle cartelle ambulatoriali Rilevazione della presenza o meno di acanthosis nigricans (come segno di insulino-resistenza) Presenza nel > 50% delle cartelle ambulatoriali Esame obiettivo mirato alle complicanze dell’obesità note o sospette Da definire (citato ma non chiaramente definito dalle Linee guida) Indicatori di processo della valutazione bioumorale Indicatore Valore soglia proposto Glicemia a digiuno Presenza > 90% delle cartelle ambulatoriali Profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, trigliceridi) Idem Uricemia Idem TSH (come indice di funzionalità tiroidea) Idem Transaminasi Idem Valutazione endocrina se sospettata sindrome di Cushing o patologie ipotalamiche Idem Indicatori di processo nella valutazione della composizione corporea Le Linee guida europee riportano che la valutazione della composizione corporea – fatta salvo la misurazione della circonferenza addominale per la stima del grasso viscerale – non è essenziale per la gestione dell’obesità nella pratica clinica. Inoltre, sempre secondo le Linee guida europee vi sono incertezze sulla validità della composizione corporea e/o delle modifiche misurate nella perdita di peso di tecniche come la bioimpedenziometria, soprattutto nei pazienti obesi. Riportano che la DEXA (Dual Energy X-ray Absorptiometry) rappresenta il metodo più rilevante per la valutazione della valutazione clinica dell’obesità associata con una marcata riduzione della massa magra (obesità associata a malattie genetiche, endocrine o neurologiche e nel follow-up della chirurgia bariatrica) Secondo, invece, le Linee guida italiane sarebbe opportuno che fossero disponibili, nella dotazione di un centro specializzato nella gestione dell’eccesso di peso: • l’impedenziometria e/o DEXA • la calorimetria indiretta Sulla base di quanto sopra esposto, non si ritiene che – almeno a livello ambulatoriale – la valutazione della composizione corporea al momento sia da ritenere una modalità diagnostica opzionale e che non debba rientrare, in assenza di ulteriori aggiornamenti delle Linee guida, nella definizione degli indicatori di qualità (continua) 74 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa 7 (segue) Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico Indicatori di processo nella diagnosi delle patologie associate all’obesità Indicatore Specifiche e valore soglia proposto Valutazione della presenza e dell’impatto del diabete di tipo 2 Si rimanda al capitolo sugli indicatori di qualità nel diabete di tipo 2 Valutazione dell’impatto dell’ipertensione arteriosa Se presente ipertensione arteriosa, devono essere presenti • nel > 50% delle cartelle ambulatoriali: - raccolta di informazioni dettagliate su eventuali sintomi attuali (tipo, durata, localizzazione, tempo di insorgenza), per esempio angina - ECG (segni di ipertrofia ventricolare sx e altre alterazioni) • nel > 90% delle cartelle ambulatoriali: - profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, trigliceridi) - uricemia - numero di sigarette/die - presenza di diabete Valutazione della presenza e dell’impatto di dislipidemia Se presente dislipidemia, devono essere presenti i valori di colesterolo LDL nel > 50% delle cartelle ambulatoriali Valutazione della presenza o assenza di sindrome metabolica secondo i criteri ATP-III Presenza > 90% delle cartelle ambulatoriali Alterazione delle transaminasi suggestiva per NAFLD o altra patologia epatica Se alterazione delle transaminasi: • fosfatasi alcalina, gamma-GT, ecografia epatica nel 50% delle cartelle ambulatoriali • biopsia epatica (valore soglia da definire) Sospetta litiasi colecistica Se litiasi colecistica sospetta: • ecografia epatica (valore soglia da definire) Sospetta cardiopatia ischemica Se sospettata cardiopatia ischemica: • raccolta di informazioni dettagliate su eventuali sintomi attuali di dolore anginoso (tipo, durata, localizzazione, tempo di insorgenza) • ECG • consulenza cardiologica • ECG da sforzo (valori soglia da definire) Oltre a profilo lipidico, uricemia, presenza o meno di diabete (> 90% delle cartelle ambulatoriali) Sospetta insufficienza cardiaca Se sospettata insufficienza cardiaca: • raccolta di informazioni più dettagliate su sintomi e segni di insufficienza cardiaca • ecocardiografia • consulenza cardiologica (valori soglia da definire) Sospetta sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (Linee guida AIPO-AISM) Sintomi: • russamento abituale (tutte le notti) e persistente (da almeno 6 mesi) • pause respiratorie nel sonno riferite dal partner • risvegli con sensazione di soffocamento in soggetto russatore (non necessariamente abituale) • sonnolenza diurna (punteggio al questionario di Epworth – versione italiana di Vignatelli > 10) Segni: • BMI > 29 kg/m2 • circonferenza collo > 43 cm (maschi) o 41 cm (femmine) (continua) 75 Ministero della Salute (segue) Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico • dismorfismi craniofacciali e anomalie orofaringee (tutte quelle situazioni anatomiche che determinano una riduzione del calibro delle prime vie aeree) Se il paziente presenta: • russamento abituale e persistente da solo o con altri sintomi o segni • almeno 2 degli altri sintomi, diversi dal russamento abituale e persistente (pause respiratorie + risvegli con soffocamento o pause respiratorie + sonnolenza diurna o risvegli con soffocamento + sonnolenza diurna) • presenza di un sintomo diverso dal russamento abituale e persistente + almeno 2 segni • presenza di un sintomo diverso dal russamento abituale e persistente + almeno un segno in soggetti in cui il russamento non è accertabile (il paziente dorme solo) È indicata la consulenza pneumologica e/o neurologica, ovvero l’approfondimento diagnostico mediante monitoraggio cardiorespiratorio notturno o esame polisonnografico [secondo le Linee guida AIPO/AISM (Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri/Associazione Italiana Medicina del Sonno) Da definire i valori soglia Insufficienza respiratoria sospetta o accertata Se sospettata insufficienza respiratoria: • raccolta di informazioni più dettagliate su sintomi e segni di insufficienza respiratoria • consulenza pneumologica • prove di funzionalità respiratoria • saturimetria • emogasanalisi arteriosa Da definire i valori soglia Osteoartrosi sospetta o accertata Ridotta autonomia delle attività della vita quotidiana Se sospettata osteoartrosi e/o ridotta autonomia delle attività della vita quotidiana: • raccolta di informazioni dettagliate su dolori articolari, funzionalità delle articolazioni e altri sintomi • raccolta di informazioni dettagliate sull’autonomia delle attività della vita quotidiana • consulenza fisiatrica e/o ortopedica Da definire le scale di valutazione e i valori soglia Disturbo del comportamento alimentare sospetto Disturbo depressivo sospetto Se sulla base della valutazione anamnestica sopraindicata si può ipotizzare una diagnosi di disturbo del comportamento alimentare e/o di depressione, associata all’eccesso di peso, somministrazione di uno o due dei seguenti test autosomministrati: • BES (Binge Eating Scale) per la valutazione psicometrica del sintomo abbuffate compulsive: la diagnosi di BES è molto probabile se il punteggio complessivo è > 27; la presenza di sintomi di binge eating è possibile se è > 17; improbabile se è < 17 • BDI (Beck Depression Inventory) per la valutazione psicometrica della depressione dell’umore. Un punto di cutoff clinicamente significativo è 15/16: punteggi > 15 indicano la probabile presenza di sintomi depressivi. Più in dettaglio: sintomi depressivi sono probabilmente assenti se il punteggio è < 10; sono lievi se è fra 10 e 19; medi se è fra 20 e 29; gravi se il punteggio è > 30 Valore soglia: test effettuati > 50% dei pazienti con sospetta diagnosi Disturbo del comportamento alimentare probabile o accertato Disturbo depressivo probabile o accertato Se non già in terapia psichiatrica o psicoterapeutica, consulenza psicologica clinica o psichiatrica Valore soglia: > 50% dei pazienti BMI, indice di massa corporea; HDL, lipoproteine ad alta intensità; LDL, proteine a bassa densità; NAFLD, steatosi epatica non alcolica; TSH, ormone stimolante la tiroide. 76 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa Indicatori di processo e di outcome nel trattamento dell’obesità a livello ambulatoriale specialistico Sia le Linee guida italiane sia quelle europee raccomandano che il trattamento dell’obesità debba consistere nell’insieme di: • restrizione calorica; • riduzione della sedentarietà; • terapia cognitivo-comportamentale; • eventuale terapia farmacologica dell’obesità e terapia farmacologica delle complicanze, entrambe da utilizzare secondo le indicazioni e le restrizioni appropriate. Sia le Linee guida italiane sia quelle europee pongono enfasi sul fatto che, essendo l’obesità una malattia cronica, siano necessari un follow-up e una continua supervisione sia per prevenire il recupero di peso, sia per monitorare il rischio di malattia e trattare le comorbidità. Secondo le Linee guida italiane, un protocollo terapeutico che riduca al minimo il rischio di dropout e di perdita della compliance del paziente dovrebbe prevedere una frequenza di controlli, in media, durante la fase di calo ponderale di 1 visita al mese e durante la fase di mantenimento di 1 visita ogni 3-4 mesi. Per impostare il programma di trattamento per il calo ponderale, le Linee guida italiane raccomandano di raccogliere informazioni e dati sulle abitudini alimentari e sull’introito calorico, in termini sia quantitativi sia qualitativi, mediante diario delle abitudini di vita, dei comportamenti e dell’alimentazione. Sempre le Linee guida italiane raccomandano di raccogliere informazioni e dati sul metabolismo energetico mediante tabelle del dispendio energetico (vs peso, peso/altezza ecc.) e di eseguire una prova da sforzo nei pazienti a rischio, per valutare la riserva funzionale cardiovascolare prima di impostare un programma per la riduzione della sedentarietà. 7 Le Linee guida europee pongono una maggiore enfasi sul controllo delle comorbidità in aggiunta alla gestione ponderale e precisamente: • controllo della dislipidemia; • ottimizzazione del controllo glicemico nel diabete di tipo 2; • normalizzazione dei valori pressori nell’ipertensione arteriosa; • gestione delle complicanze respiratorie, inclusa la sindrome da apnee ostruttive nel sonno; • attenzione al controllo del dolore e dei bisogni in termini di mobilità nell’osteoartrosi; • gestione dei disturbi psicosociali, inclusi i disturbi dell’umore, i disturbi del comportamento alimentare, la bassa autostima, i disturbi dell’immagine corporea. Nella Tabella 7.5 vengono riassunti gli indicatori di processo desumibili dalle Linee guida citate. Ove non vengono indicati valori soglia, si presume che questi debbano essere raggiunti nella pressoché totalità dei casi (> 90%). Indicatori di outcome intermedio e di lungo termine nel trattamento dell’obesità a livello specialistico ambulatoriale Per quanto riguarda la riduzione ponderale, valgono gli stessi criteri identificati per gli interventi erogati in ambito territoriale di medicina generale. Tuttavia, le Linee guida europee stabiliscono con chiarezza che, a fianco degli indicatori sopracitati, configurabili come di outcome intermedio, i criteri di successo a lungo termine sono rappresentati da: • mantenimento del peso perso; • prevenzione e trattamento delle comorbidità. Anche se non esplicitamente trattata dalle Linee guida, in analogia con quanto previsto da altre patologie croniche per i setting di ambulatorio specialistico, è raccomandabile una valutazione 77 Ministero della Salute Tabella 7.5 Indicatori di processo nel trattamento dell’obesità e delle sue complicanze in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico Indicatore Specifiche Consigli dietetici individualizzati atti a conseguire una restrizione calorica Nella cartella ambulatoriale presente evidenza dell’erogazione degli stessi in forma scritta, generalmente da parte del dietista. Possono essere erogati come dietoterapia grammata, dietoterapia a porzioni, ovvero come suggerimenti sulle modifiche dello stile alimentare. A ogni visita di controllo dovrà essere valutata l’adesione del paziente al programma e, in caso di compliance inadeguata, ne dovranno essere valutate le cause (difficoltà pratiche, insufficiente comprensione, iperfagia ecc.) e messi in atto gli adeguati correttivi Elementi di CBT La CBT non dovrebbe essere effettuata solo da psicologi abilitati e psichiatri, ma anche da altri professionisti formati quali medici, dietisti, esperti di scienze motorie. Gli elementi di CBT devono fare parte della gestione nutrizionale e motoria di routine, oppure fare parte di un programma più strutturato, da erogare individualmente, in gruppo (un operatore ogni 8-10 pazienti) oppure mediante manuali di auto-aiuto. Presente in cartella evidenza di trattamento con almeno uno dei seguenti: diario di automonitoraggio; tecniche di controllo degli stimoli; tecniche di rinforzo della motivazione; tecniche di ristrutturazione cognitiva; tecniche di rilassamento Programma di riduzione della sedentarietà Evidenza in cartella di indicazioni in merito a come iniziare (o aumentare) l’attività motoria (salvo i casi nella quale la stessa sia evidentemente controindicata). Gli esercizi devono essere individualizzati sulla base delle possibilità e delle condizioni cliniche del paziente e focalizzarsi su un aumento graduale a livelli di sicurezza. A ogni visita di controllo dovrà essere valutata l’adesione del paziente al programma e, in caso di compliance inadeguata, ne dovranno essere valutate le cause (difficoltà pratiche, insufficiente comprensione, comparsa e/o peggioramento di sintomatologia osteoarticolare o di intolleranza allo sforzo) e messi in atto gli adeguati correttivi Test cardiopolmonare da sforzo Consigliato dalle Linee guida italiane ove presente almeno uno dei seguenti: • età oltre 50 anni (valore soglia > 10%) • presenza di patologie cardiovascolari associate (valore soglia > 50%) • presenza di diabete (valore soglia > 20%) Frequenza dei controlli ambulatoriali Almeno una volta al mese (media) nei primi 6 mesi o comunque nella fase di calo ponderale (valore soglia > 50%). Il controllo ambulatoriale con cadenza mensile può essere effettuato dal solo dietista. In caso di presenza di comorbidità dell’obesità almeno una visita medica di controllo ogni 3 mesi (valore soglia > 50%) Terapia farmacologica dell’obesità Da utilizzare secondo le indicazioni e le restrizioni previste in scheda tecnica. Valutarne l’indicazione alla prescrizione sin dalla prima visita medica, soprattutto in caso di precedenti anamnestici per fallimenti dietetici, presenza di comorbidità, elevato rischio di drop-out. Valutarne l’indicazione alla prescrizione in tempi successivi in caso di insufficiente decremento ponderale o tendenza al recupero del peso. L’efficacia della farmacoterapia dovrebbe essere valutata dopo i primi 3 mesi di trattamento. Se la perdita di peso è soddisfacente (> 5% perdita di peso nei non diabetici e > 3% nei diabetici), la terapia dovrebbe essere continuata. Il trattamento farmacologico dovrebbe invece essere sospeso nei non responders. Il monitoraggio dell’efficacia della farmacoterapia e di eventuali effetti collaterali deve essere eseguito dal medico specialista in collaborazione con il MMG Rilevazione del peso e della circonferenza A ogni visita di controllo ambulatoriale effettuata dal medico o dal dietista o dall’infermiere (valore soglia > 90%) addominale Gestione dell’ipertensione arteriosa Nel paziente iperteso, rilevazione della pressione arteriosa a ogni visita medica di controllo. Se valori inferiori al target terapeutico, evidenza di counseling sull’introito di sodio e/o modifica della terapia farmacologica (effettuata direttamente dallo specialista o mediante informativa al MMG). Valutazione delle complicanze (fundus oculi, microalbuminuria ecc.) in co-gestione con il MMG (continua) 78 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa 7 (segue) Tabella 7.5 Indicatori di processo nel trattamento dell’obesità e delle sue complicanze in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico Indicatore Specifiche Gestione del diabete di tipo 2 Nel paziente diabetico, a ogni visita medica valutazione dei target terapeutici per Hb glicata, pressione arteriosa, colesterolo LDL e altri previsti dalle cogenti Linee guida. Se compenso insoddisfacente, evidenza di counseling nutrizionale e motorio e/o modifica della terapia farmacologica (effettuata direttamente dallo specialista o mediante informativa al MMG). Valutazione delle complicanze (fundus oculi, microalbuminuria, neuropatia diabetica ecc.) in co-gestione con il MMG Gestione della dislipidemia Nel paziente dislipidemico non in terapia farmacologica valutare dopo 3 mesi dall’inizio del trattamento per l’obesità il raggiungimento dei valori desiderabili (a seconda del rischio cardiovascolare complessivo) di colesterolo totale, HDL, LDL, trigliceridi. In caso di mancato raggiungimento degli stessi, valutare l’opportunità di una terapia farmacologica per l’obesità (se decremento ponderale/riduzione della circonferenza addominale insufficiente) o di una terapia farmacologica per la dislipidemia (secondo le cogenti Linee guida). Nel paziente dislipidemico in terapia farmacologica, rivalutare dopo 3 mesi dall’inizio della terapia i target terapeutici e l’eventuale riduzione posologica/sospensione della terapia in caso di significativa riduzione ponderale o della circonferenza addominale. Se persiste dislipidemia, monitorare almeno annualmente i livelli di colesterolo LDL, HDL e trigliceridi e collaborare con il MMG nella gestione della terapia Gestione delle complicanze respiratorie Nel paziente con OSAS, con o senza insufficienza respiratoria, si consiglia di valutare a ogni visita di controllo la presenza di ipersonnia diurna e l’effettiva compliance ai dispositivi ventilatori notturni (c-PAP o b-PAP) ove prescritti. In caso di decremento/incremento ponderale il paziente dovrà essere rinviato allo specialista pneumologo per una rivalutazione delle pressioni di esercizio del dispositivo ventilatorio. In caso di insufficienza respiratoria è consigliata a ogni visita di controllo la valutazione della saturazione periferica di ossigeno e della necessità/modifica dell’erogazione di ossigenoterapia mediante dispositivo portatile. Nel paziente affetto da BPCO e/o asma bronchiale è opportuno valutare – direttamente o tramite consulenza pneumologica – l’opportunità di cicli di fisiokinesiterapia respiratoria o altri presidi terapeutici Gestione delle complicanze osteoarticolari Nel paziente con complicanze osteoarticolari si raccomanda a ogni visita di controllo la valutazione dei livelli di dolore e di funzionalità articolare, nonché la compliance e l’effetto sugli stessi degli interventi di riduzione della sedentarietà. In caso di mancato miglioramento o addirittura peggioramento dei sintomi si consiglia consulenza fisiatrica e/o ortopedica, sia per l’impostazione di una terapia specifica per la patologia, sia per la revisione degli esercizi di attività motoria consigliabili Gestione delle complicanze psichiatriche Nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare o disturbi del tono dell’umore deve essere presente in cartella evidenza dell’intervento da parte dello specialista psichiatra e/o dello psicoterapeuta e/o della prescrizione di terapia antidepressiva. Il monitoraggio dell’efficacia della psicofarmacoterapia e di eventuali effetti collaterali deve essere eseguito dal medico specialista in collaborazione con il MMG. Il medico specialista deve valutare – in collaborazione con il MMG – l’effettiva adesione del paziente al programma proposto in ambito psicologico-psichiatrico come parte integrante della gestione del paziente e rivalutare con l’equipe terapeutica eventuali modifiche dello stesso o coinvolgimento dei servizi psichiatrici territoriali in caso di risposta inadeguata Invio a livelli superiori di trattamento nei Dopo un follow-up massimo di 12 mesi, se la risposta è assente o insufficiente al trattamento dell’obesità e delle sue complicanze e se BMI ≥ 35 kg/m2 (in presenza di complicanze) ovvero poor responders BMI ≥ 40 kg/m2 (in presenza di significativa riduzione della qualità di vita) considerare l’invio a livelli superiori di trattamento: (continua) 79 Ministero della Salute (segue) Tabella 7.5 Indicatori di processo nel trattamento dell’obesità e delle sue complicanze in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico Indicatore Specifiche • riabilitazione intensiva multidisciplinare in day-hospital • riabilitazione intensiva multidisciplinare in degenza residenziale • chirurgia bariatrica secondo i criteri e le indicazioni appropriate definite dalle Linee guida cogenti (Società Italiana dell’Obesità per la riabilitazione metabolico-nutrizionale e Società Italiana di Chirurgia Bariatrica) considerando anche il grado di autoefficacia del paziente, il livello di motivazione e il rapporto rischio-beneficio Valori soglia: • evidenza della revisione di esito a 12 mesi dall’inizio del trattamento in almeno il 50% delle cartelle • invio a livelli superiori di trattamento in almeno il 15% dei pazienti aventi i requisiti per gli stessi BMI, indice di massa corporea; BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; CBT, terapia cognitivo-comportamentale; Hb, emoglobina; HDL, lipoproteine a elevata densità; LDL, lipoproteine a bassa intensità; MMG, medico di medicina generale; OSAS, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno. periodica degli esiti (audit) almeno in un campione rappresentativo, realisticamente configurabile nell’ordine del 15%, dei pazienti trattati. Come ricordato in precedenza, 12 mesi di follow-up rappresentano il periodo minimo per valutare l’efficacia a lungo termine di un programma per la perdita di peso. Tuttavia, una valutazione a tempi più lunghi, ove possibile, sarebbe indicata per valutare le migliori strategie di prevenzione nei pazienti che tendono a recidivare in tempi successivi. Uno dei principali ostacoli allo svolgimento di un audit sugli outcome in un setting specialistico è rappresentato dall’elevata frequenza di drop-out (circa 50% a 12 mesi e circa 80% a 3 anni nello studio multicentrico italiano Quovadis). Il dropout non è necessariamente sinonimo di fallimento, dal momento che una percentuale significativa (16% nello studio Quovadis) sospende il trattamento ambulatoriale in quanto soddisfatta dei risultati raggiunti o ritenendo di essere in grado di autogestirsi. Il recall dei pazienti andati incontro a drop-out mediante intervista telefonica o que- 80 stionario postale è scarsamente attendibile in merito al dato “peso” (che tende a essere sottostimato), mentre non vi sono indicazioni in letteratura contrarie all’attendibilità di questionari o test psicometrici sulla qualità di vita o sulle comorbidità autosomministrati. Tuttavia, la scarsità di risorse umane ed economiche rende difficile ipotizzare un follow-up a distanza nei pazienti drop-out. Per quanto riguarda la valutazione di outcome nella comorbidità, questo è sicuramente più semplice a realizzarsi per quelle patologie ove gli indicatori di esito siano rappresentati da dati bioumorali (come nel diabete di tipo 2 o nelle dislipidemie) o da rilevazioni strumentali di facile esecuzione (come nell’ipertensione arteriosa). Più difficoltosa è la valutazione in ambito ambulatoriale degli esiti riguardanti le patologie osteoarticolari, cardiovascolari, psichiatriche, respiratorie, valutabili mediante accertamenti strumentali costosi o comunque di difficoltosa esecuzione in un setting ambulatoriale (test ergometrico da sforzo, polisonnografia ecc.), ovvero mediante test di valutazione effettuati da Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa personale altamente specializzato quali psicologi, fisioterapisti, medici fisiatri, che è difficile ipotizzare possano effettuare routinariamente valutazioni di esito a un elevato numero di pazienti obesi quale è quello che afferisce al setting ambulatoriale. Di questi si parlerà più estesamente nel prossimo paragrafo sul trattamento in regime di degenza. Una modalità di valutazione di outcome a lungo termine innovativa e sicuramente rilevante per il SSN è quella rappresentata dall’analisi dei costi per la terapia farmacologica delle complicanze – almeno quella a carico del SSN e di altre prestazioni, ambulatoriali o di degenza, inerenti le complicanze dell’obesità. La progressiva informatizzazione delle prescrizioni farmacologiche, l’utilizzo obbligatorio della tessera sanitaria regionale o nazionale per le prestazioni a carico del SSN e l’informatizzazione delle schede di dimissione ospedaliera (SDO) rendono possibile – nel rispetto della normativa della privacy – l’elaborazione in forma anonima, da parte dei Servizi di Epidemiologia delle singole ASL o regionali, dell’andamento della spesa inerente i pazienti affetti da obesità e afferenti ad ambulatori specialistici identificati mediante il codice fiscale. Sulla base dei dati di letteratura è ipotizzabile che, dopo una prima fase di aumento dei costi legati alle procedure diagnostico-terapeutiche, nei pazienti trattati in modo efficace si abbia una riduzione – o almeno una mancata progressione – dei costi inerenti le complicanze dell’obesità. Di seguito sono riportati possibili indicatori di outcome monitorabili mediante audit da parte degli operatori degli ambulatori specialistici ovvero dai servizi epidemiologici della ASL. I valori soglia sono riferiti agli studi di esito della letteratura nazionale e internazionale in precedenza citati (Tabella 7.6). 7 Standard di processo e di outcome in regime di degenza specialistica (acuzie e riabilitazione) Acuzie La degenza in regime di acuzie di pazienti affetti da obesità, soprattutto di grado elevato, in strutture ospedaliere opportunamente attrezzate dal punto di vista strumentale, strutturale, organizzativo e dotate delle adeguate competenze specialistiche e tecnico-assistenziali (vedi relativi capitoli del presente documento) rappresenta uno dei cardini della gestione clinica del paziente obeso. Il ricovero in regime di acuzie è da considerarsi appropriato: a) indipendentemente dal livello di obesità, in presenza di condizioni patologiche che mettano il paziente a rischio di vita a breve termine; b) nei casi di obesità di grado intermedio ed elevato qualora siano presenti comorbidità in condizioni di scompenso clinico e richiedenti un’intensità di cure non realizzabile in ambito ambulatoriale o non realizzabile con i tempi e l’efficacia da queste richieste; c) nei casi di obesità di grado elevato con comorbidità sospette o accertate ovvero con disabilità significativa che richiedano per la loro diagnosi e la definizione dell’intervento terapeutico-riabilitativo accertamenti non effettuabili ambulatorialmente o valutazioni multidisciplinari complesse. Per quanto riguarda il caso (a) è opportuno che il paziente affetto da obesità di grado elevato venga indirizzato, possibilmente già in corso di triage da parte degli operatori dei servizi di emergenza-urgenza territoriali, alle strutture ospedaliere di alta specializzazione presenti sul territorio regionale ovvero, una volta stabilizzate le condizioni cliniche del paziente in modo da consentirne il trasferimento, che venga colà trasferito. La mortalità e/o 81 Ministero della Salute Tabella 7.6 Indicatori di outcome in ambito specialistico ambulatoriale monitorabili mediante audit Indicatore % casistica da valutare sul totale Valore soglia proposto Esecutore % drop-out a 12 mesi ≥ 15% dei pazienti arruolati nell’anno solare < 50% di tutti i pazienti valutati in 1a visita Equipe ambulatoriale % pazienti con perdita di peso ≥ 5% del peso iniziale a 12 mesi Idem > 20% di tutti i pazienti valutati in 1a visita (intention-to-treat-analysis) Idem Idem % pazienti con perdita di peso ≥ 10% del peso iniziale a 12 mesi Idem > 10% di tutti i pazienti valutati in 1a visita (intention-to-treat-analysis) % pazienti con perdita di peso ≥ 15% del peso iniziale a 12 mesi (se BMI iniziale ≥ 40 kg/m2) ≥ 15% dei pazienti con BMI iniziale ≥ 40 kg/m2 arruolati nell’anno solare > 10% di tutti i pazienti con obesità di 3 grado valutati in 1a visita (intention-to-treat-analysis) Idem % raggiungimento target terapeutici ≥ 15% dei pazienti affetti nei pazienti obesi diabetici da diabete di tipo 2 arruolati (cfr. specifiche Linee guida) nell’anno solare Non inferiore a quello previsto per il setting ambulatoriale specialistico dai documenti di riferimento per la specifica patologia Idem % raggiungimento target terapeutici ≥ 15% dei pazienti affetti nei pazienti obesi ipertesi da ipertensione arteriosa (cfr. specifiche Linee guida) arruolati nell’anno solare Idem Idem % raggiungimento target terapeutici ≥ 15% dei pazienti affetti nei pazienti obesi dislipidemici da dislipidemia arruolati (cfr. specifiche Linee guida) nell’anno solare Idem Idem Valutazione della spesa farmacologica a carico del SSN > 90% della casistica arruolata Riduzione media del 20% della spesa per farmaci a carico del SSN a 2 anni dall’inizio della presa in carico Servizio epidemiologia ASL o regionale Valutazione altri costi a carico del SSN > 90% della casistica arruolata Da definire mediante studi prospettici controllati Servizio epidemiologia ASL o regionale BMI, indice di massa corporea; SSN, Servizio Sanitaro Nazionale. la morbidità associate a diverse procedure medicochirurgiche effettuate in pazienti affetti da obesità di grado elevato sono significativamente superiori a quelle di pazienti non obesi o affetti da gradi minori di obesità e con una maggiore durata dell’ospedalizzazione. Anche se non sono ancora disponibili studi controllati al proposito, è altamente probabile che il miglioramento degli standard inerenti la gestione ospedaliera del paziente affetto da obesità di grado elevato si ripercuota in una riduzione significativa della mortalità e della morbidità 82 degli stessi. È quindi auspicabile che, una volta identificate le strutture ospedaliere ad alta specializzazione o comunque con i requisiti per la gestione a ogni livello del paziente obeso, vengano effettuati – oltre alle valutazioni inerenti gli indicatori di processo e di outcome inerenti la gestione clinica delle condizioni richiedenti ospedalizzazione – anche audit inerenti l’effettivo rispetto dell’invio preferenziale del paziente affetto da obesità di grado elevato con complicanze sia mediche sia chirurgiche presso le suddette strutture, nonché l’effettivo ri- Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa spetto degli standard strutturali e organizzativi per obesità all’interno delle stesse, per i quali si rimanda ad altri capitoli del presente documento. Per quanto riguarda i casi (b) e (c) il ricovero avviene generalmente in un reparto di medicina. La valutazione riguarda indicatori di processo, indicatori di appropriatezza e indicatori di outcome. Questi sono stati definiti dall’IRCCS Istituto Au- 7 xologico Italiano, struttura di eccellenza riconosciuta dal Ministero della Salute per la diagnosi, il trattamento e la riabilitazione dell’obesità, e riportati nella Tabella 7.7. Per quanto riguarda gli indicatori di appropriatezza, sono stati definiti criteri di appropriatezza del ricovero in regime di acuzie elencati nella Tabella 7.8. Tabella 7.7 Indicatori di processo nel ricovero in regime di acuzie per pazienti adulti (Medicina) nel PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Indicatore Durata media della degenza Rispetto dei protocolli diagnostico-terapeutico-assistenziale (codificati) inerenti l’obesità e le sue principali comorbidità Specificità di diagnosi (% di ricoveri con codice ICD-IX CM che termini per .9) Tempo di attesa per il trasferimento in Riabilitazione (se applicabile) Valore soglia ≤ 8,5 giorni > 90% < 10% ≤ 2 giorni Tabella 7.8 Criteri di appropriatezza per il ricovero in regime di acuzie di pazienti affetti da obesità nel PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano BMI ≥ 45 kg/m2 anche in assenza di complicanze documentate BMI compreso tra 35 a 44,9 kg/m2 in presenza di almeno 1 comorbidità tra quelle sottoelencate (nei pazienti con età > 65 anni anche livelli più lievi di comorbidità): • Diabete mellito in scompenso metabolico cronico, valutato con i livelli di HbA1c (> 8%) o con complicanze • Insufficienza renale cronica, valutata con i livelli di proteinuria e creatinina • Cirrosi epatica • Ulcere vascolari croniche • Broncopatia cronica e BPCO, insufficienza respiratoria cronica, fibrosi polmonare, sindrome bronchiectasica, esiti di TBC, asma bronchiale (intrinseco/misto) • OSAS già diagnosticate o associate a malattia respiratoria cronica o fortemente sospette sulla base dei criteri AIPO-AIMS • Cardiopatia ischemica, dilatativa, ipertrofica, valvolare, ipertensiva con frazione di eiezione ridotta (< 40%) o sintomatologia fortemente suggestiva (angor, dispnea dopo sforzi lievi, edemi) per insufficienza cardiaca • Episodi di tachicardia ventricolare • Patologie osteoarticolari a elevato impatto sulle ADL • Psicopatologie gravi con possibilità di intervento in acuto ed eventuale possibilità di intervento mediante programma riabilitativo • Obesità ipotalamica (esiti neurochirurgici in regione ipotalamo-ipofisaria) • Recente (< 30 giorni) intervento cardiochirurgico di qualunque tipo • Recente scompenso cardiaco • Recente infarto miocardico • Recente PTCA • Recente intervento neurochirurgico ortopedico • Valvulopatia con indicazione chirurgica associata a obesità con necessità di riduzione ponderale prima dell’intervento Pazienti con BMI compreso tra 40 e 44,5 kg/m2 già in trattamento ambulatoriale senza risultati significativi Nota: i criteri elencati vengono utilizzati anche per l’appropriatezza del ricovero in Riabilitazione. ADL, attività della vita quotidiana; AIMS, Associazione Italiana Medicina del Sonno; AIPO, Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri: BMI, indice di massa corporea; BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; HbA1c, emoglobina glicata; OSAS, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno; PTCA, angioplastica coronarica transluminale percutanea; TBC, tubercolosi. 83 Ministero della Salute Tabella 7.9 Indicatori di appropriatezza nel ricovero in regime di acuzie (Medicina) nel PDTA (Protocollo DiagnosticoTerapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Indicatore Valore soglia proposto • Rispetto dei criteri di appropriatezza per il ricovero • Specificità di diagnosi (% di ricoveri con codice ICD-IX CM che termini per .9) > 90% < 10% Tabella 7.10 Possibili indicatori di esito nel ricovero in regime di acuzie (Medicina) Indicatore Valore soglia proposto • Nuovo ricovero in acuzie entro 30 giorni dalla dimissione • Nuovo ricovero in acuzie entro 12 mesi dalla dimissione Gli indicatori di appropriatezza sono quindi definiti nella Tabella 7.9. Per quanto riguarda gli indicatori di esito si può fare riferimento al lavoro di Migliore et al., ove si è evidenziato che i pazienti affetti da obesità grave o complicata vanno incontro in media a 0,8 ricoveri in regime di acuzie/anno. Si possono pertanto ipotizzare due livelli di indicatori di esito, con monitoraggio a cura dei Servizi epidemiologici della ASL o regionali: il tasso di riospedalizzazione in regime di acuzie a 30 giorni, frequentemente utilizzato in letteratura come indicatore di efficienza delle cure a breve termine, e il tasso di riospedalizzazione in regime di acuzie a 12 mesi come indicatore di efficacia a lungo termine. Ovviamente, quest’ultimo indicatore risentirà anche della qualità delle cure fornite nel periodo postricovero e può pertanto essere utilizzato come indicatore di qualità generico per le diverse tipologie di cura (ricovero riabilitativo, chirurgia bariatrica ecc.) [Tabella 7.10]. Da sottolineare come il lavoro di Migliore et al. metta anche in evidenza un aumento della durata media delle degenze nei pazienti obesi a causa della coesistenza di polipatologia e di una maggiore incidenza di complicanze di interventi chirurgici. Questo induce alla considerazione della necessità della revisione delle tariffe dei DRG (Di- 84 < 5% < 80% sease Related-Groups) quando concomiti una condizione di obesità grave per adeguare i rimborsi all’aumentato assorbimento di risorse. Riabilitazione Negli ultimi anni si è resa più evidente la relazione, indipendente dalla presenza di patologie croniche, tra BMI e diversi gradi di disabilità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’obesità è al sesto posto tra le cause di disabilità a livello mondiale e sono stati identificati – utilizzando la classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) diversi fattori chiave. Gli obesi vanno inoltre incontro a una riduzione significativa del numero di anni esenti da disabilità (5,7 per gli uomini e 5,02 per le donne). Ne consegue un aumento del numero di richieste di intervento, soprattutto riabilitativo e sociale, che affiancano i tentativi di trattamento medico (dietoterapia, farmaci e chirurgia bariatrica). Si è visto, infatti, che la sola perdita di peso non è sufficiente a recuperare le disabilità presenti e quindi l’essere stato obeso è un fattore inibitorio per il recupero funzionale completo. Negli ultimi anni il tasso di mortalità si è ridotto, Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa ma la possibilità di una disabilità persistente è aumentata. Alcuni studi hanno dimostrato che l’obesità aumenta il rischio di sviluppare disabilità gravi indipendentemente dalla presenza di comorbidità e riduce la possibilità di recupero di una disabilità severa. È infine da sottolineare come la prevalenza dell’obesità stia aumentando in misura notevole anche fra gli anziani (> 65 anni), fascia di età in cui gli effetti sulle disabilità dell’obesità e dell’invecchiamento finiscono per sommarsi. Nello specifico, la riabilitazione del paziente obeso o con disturbo del comportamento alimentare è basata, secondo i principali documenti di riferimento sull’argomento quali le Linee guida, su: • approccio multidisciplinare integrato che coinvolge diverse figure professionali (fisiatri, internisti, endocrinologi, cardiologi, pneumologi, gastroenterologi, nutrizionisti, psichiatri, psicologi, dietisti, fisioterapisti e infermieri) che attuano differenti metodi d’intervento; • gestione a più livelli assistenziali (setting multipli) dall’ambulatorio a lungo temine alla riabilitazione intensiva (semiresidenziale e residenziale) in relazione agli stati gravi di malnutrizione sia per eccesso che per difetto (es. esiti di chirurgia), alle fasi di instabilità e scompenso delle comorbidità somatiche e psichiatriche. In particolare, dalla Consensus SIO-SISDCA 2009 si legge: “La riabilitazione intensiva rappresenta un nodo cruciale nella rete assistenziale quando: a) il livello di gravità e/o comorbidità medica e/o psichiatrica è elevato; b) l’impatto sulla disabilità e sulla qualità della vita del paziente è pesante; c) gli interventi da mettere in atto diventano numerosi ed è opportuno – per ragioni cliniche ed economiche – concentrarli in tempi relativamente brevi secondo un progetto coordinato; d) precedenti percorsi a minore intensità non hanno dato i risultati sperati e il rischio per lo stato di salute del paziente tende ad aumentare”. 7 In relazione alla tipologia degli interventi, l’applicazione di una corretta riabilitazione metabolica presenta alcuni problemi organizzativi, quali per esempio il monitoraggio dell’appropriatezza dei ricoveri, che passa attraverso un corretto inquadramento delle disabilità del paziente e delle sue necessità socioassistenziali. La Consensus SIO-SISDCA 2009 ha anche proposto uno strumento per la valutazione dell’appropriatezza dell’accesso in riabilitazione metabolico-nutrizionale: la Scheda SIO di Appropriatezza della Riabilitazione Metabolico Nutrizionale Psicologica del paziente obeso (SSA-RMNP-O). Il cut-off di appropriatezza per i ricoveri in riabilitazione intensiva in regime di degenza ordinaria corrisponde a un punteggio uguale o maggiore a 25; per i ricoveri in regime di day-hospital a un punteggio uguale o maggiore di 20. Per quanto riguarda l’IRCCS Istituto Auxologico Italiano, i criteri di appropriatezza definiti per il ricovero in acuzie valgono anche per l’accesso in riabilitazione intensiva. Per l’avvio degli interventi riabilitativi è essenziale la valutazione delle disabilità presenti che si manifestano in diversi ambiti, nella qualità della vita in generale (Quality of Life, QoL), nelle attività quotidiane e in quelle funzionali (Activities of Daily Life, Instrumental Activities of Daily Life, ADL/IADL). Non esiste, purtroppo, una scala di uso comune per la valutazione delle disabilità correlate. Sulla base della letteratura, la Consensus SIO-SISDCA 2009 ha proposto come strumento il test SIO per le disabilità obesità-correlate (TSD-OC). Ulteriori studi saranno comunque necessari per mettere a punto nuove scale di valutazione della disabilità correlata all’obesità, che tengano conto delle diverse fasce di età, del grado stesso di malattia e delle complicanze eventualmente presenti. In particolare, dovranno essere messi a punto criteri di valutazione della disabilità, che possano anche re- 85 Ministero della Salute gistrare cambiamenti a breve termine del paziente indotti dal trattamento/riabilitazione. Al momento, vengono utilizzati presso le strutture che si occupano di riabilitazione integrata dell’obesità strumenti sviluppati per altre patologie, sia di tipo soggettivo (qualità della vita, sensazione di fatica ecc.), ma anche parametri funzionali motori oggettivi di facile raccolta (test di salita della scala, 6-minute-walking-test ecc.), non invasivi e di basso costo. Ulteriori test potranno auspicabilmente essere sviluppati utilizzando il modello dell’ICF per la valutazione delle disabilità basata sul modello bio-psico-sociale, che può rappresentare un ausilio alla gestione integrata degli aspetti clinici e sociali del percorso riabilitativo. Stante la complessità dell’intervento riabilitativo nei vari ambiti nei quali si sviluppa la disabilità inerente l’obesità (motorio, psicologico, respiratorio, metabolico-nutrizionale ecc.), il documento della Consensus SIO-SISDCA ritiene che la riabilitazione debba configurarsi come intensiva (cod. 56 o ex art. 26), in quanto la riabilitazione estensiva utilizzata per altri ambiti (es. geriatrico, ortopedico) non consente l’approccio multidimensionale e l’intensità di cura (almeno 180 minuti/die) necessari. La riabilitazione intensiva può essere erogata in Tabella 7.11 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione metabolico-nutrizionalepsicologica dell’obesità secondo la Consensus SIO-SISDCA Intervento nutrizionale • Regimi dietetici che rispettino i canoni della dieta mediterranea e siano in grado di assicurare un apporto calorico pari al metabolismo basale ± 10% • L’apporto proteico sarà pari a 0,8-1 g/kg di peso corporeo ideale • I carboidrati, prevalentemente di tipo complesso, forniranno il 65-70% dell’apporto calorico non proteico • La restante quota energetica sarà coperta dai grassi, di cui meno del 30% di tipo saturo • Nei pazienti ipertesi sarà ridotto l’apporto di sodio a meno di 3 g/die • Laddove non siano presenti segni di malnutrizione per difetto e in ambito ospedaliero (riabilitazione intensiva di tipo residenziale) è possibile adottare schemi terapeutici con un più basso apporto di calorie (low calorie diets, LCD) Programma di riabilitazione motoria e ricondizionamento fisico, finalizzato a: • Restituire la mobilità articolare • Migliorare la performance cardiocircolatoria e respiratoria • Aumentare la spesa energetica • Modificare il rapporto massa magra/massa grassa • Riattivare le strutture muscolari divenute ipotoniche e ipotrofiche per l’inattività Interventi educazionali (educazione terapeutica), diretti a: • Informare sui comportamenti corretti nell’ambito dell’alimentazione e dell’attività fisica • Promuovere una gestione utile dello stress e dell’ansia • Allenare alla gestione e all’autocontrollo dell’attività fisica, dell’alimentazione, dei momenti di stress e ansia, di semplici parametri clinici (glicemia, pressione arteriosa) • Aumentare il senso di responsabilità nella malattia e nella cura (illness behaviour) • Favorire la compliance terapeutica Interventi psicologici, con applicazione di: • Tecniche cognitivo-comportamentali di automonitoraggio, controllo degli stimoli, ristrutturazione cognitiva, gestione delle ricadute, assertive training, problem solving • Danza-movimento-terapia • Training autogeno o di rilassamento • Intervista motivazionale Terapia farmacologica per l’obesità e per le sue complicanze metaboliche e psichiatriche 86 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa regime di day-hospital ove realizzabile dal punto logistico e qualora le condizioni generali del paziente lo consentano, oppure in regime di riabilitazione intensiva residenziale. Il documento della Consensus SIO-SISDCA indica una serie di standard qualitativi di processo (in parte sotto forma di obiettivi, in parte sotto forma di procedure terapeutiche) per la fase sia diagnostica (ove non presenti i criteri di appropriatezza per il ricovero in regime di acuzie) sia di trattamento. Dal momento che la Consensus SIO-SISDCA (Tabella 7.11) fa riferimento ai soli indicatori inerenti la riabilitazione metabolico-nutrizionale-psicologica, per quanto riguarda gli indicatori inerenti la riabilitazione osteoarticolare, cardiologica e respiratoria si fa invece riferimento a quelli del PDTA (Protocollo Diagnostico-TerapeuticoAssistenziale) in essere presso l’IRCCS Istituto Auxologico Italiano. A quest’ultimo si fa riferimento anche per gli indicatori di outcome a breve termine (Tabella 7.12). Gli indicatori di processo sono pertanto rappresentati dal rispetto dei sopracitati protocolli diagnostico-terapeutico-assistenziali inerenti l’obesità e le sue principali comorbidità (valore soglia proposto: > 90%). Per quanto riguarda gli indicatori di esito che valutino l’efficacia del percorso riabilitativo effettuato, per lo meno a breve e medio termine, nella Tabella 7.13 ne vengono suggeriti alcuni. Essendo gli strumenti valutativi della disabilità attualmente in uso scarsamente specifici e sensibili per il paziente obeso, la condivisione su scala nazionale degli indicatori di esito e di processo con la relativa valorizzazione specifici per l’obesità è auspicabile. Sulla base della letteratura, il TSDOC è stato proposto sia per la valutazione in ingresso sia nella fase di follow-up riabilitativo. Il paziente obeso deve essere seguito con regolarità all’interno di un follow-up ambulatoriale per ve- 7 rificare l’adesione al programma proposto. Gli obiettivi del follow-up sono: • mantenimento/calo del peso; • controllo delle abitudini alimentari e dell’attività fisica; • miglioramento delle disabilità; • riduzione delle complicanze, della terapia farmacologica e dei ricoveri. La frequenza del follow-up non dovrà essere inferiore a quella prevista per il setting ambulatoriale specialistico. Nel caso in cui il paziente risieda a distanza dalla struttura ove è stato effettuato l’intervento riabilitativo, lo stesso dovrà essere indirizzato per il follow-up a centri specialistici accreditati nella zona di residenza. Per quanto riguarda gli indicatori di esito a lungo termine (12 mesi o superiore), questi non sono citati né dal documento di Consensus né dal PDTA dell’Istituto Auxologico Italiano. Si ritiene opportuno, quindi, fare riferimento a quanto già suggerito per gli altri livelli di trattamento, in particolare – ove realizzabile – la valutazione dell’andamento della spesa farmacologica e dei ricoveri medico-chirurgici in acuzie. Resta aperta la questione dei ricoveri ripetuti in ambito riabilitativo. Da notare come la Scheda SIO di Appropriatezza della Riabilitazione Metabolico-Nutrizionale-Psicologica del paziente obeso (SSA-RMNP-O) preveda criteri più severi per i ricoveri successivi al primo (–5 punti per un secondo ricovero riabilitativo e –10 punti per i successivi). Gli autori ritengono che l’adesione a un regolare e documentato follow-up ambulatoriale debba costituire criterio preferenziale per ulteriori cicli riabilitativi dopo il primo e che dopo un massimo di tre cicli riabilitativi, ove non vi siano controindicazioni assolute (età, comorbidità psichiatriche, elevatissimo rischio anestesiologico), il paziente debba essere indirizzato a un percorso chirurgico-bariatrico. 87 Ministero della Salute Tabella 7.12 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione cardiologica, pneumologica, del diabete di tipo 2, osteoarticolare, postchirurgia bariatrica, dei disturbi del comportamento alimentare associati all’obesità secondo il PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Riabilitazione nel paziente obeso con cardiopatia Obiettivi • Riduzione ponderale, della massa grassa, del giro vita (per soggetti con BMI < 35 kg/m2) • Miglioramento del profilo di rischio (glicemia, insulino-resistenza, profilo lipidico) • Miglioramento del controllo pressorio e della FC (per soggetti non in terapia beta-bloccante) • Miglioramento della tolleranza allo sforzo • Miglioramento della risposta cronotropa all’esercizio • Miglioramento della qualità della vita • Riduzione del rischio di progressione della malattia Interventi • Attività motorie: tipo e quantità di attività motoria definita mediante Physical Activity Scale, Clinical Global Impression (CGI) relativa alle limitazioni funzionali in rapporto al movimento, Visual Analogue Scale (VAS), test ergometrico; intensità dello sforzo basato sulla riserva cronotropa valutata durante il test ergometrico • Ottimizzazione della terapia farmacologica cardiovascolare • Incontri di educazione sanitaria • Supporto psicologico Riabilitazione nel paziente obeso con complicanze pneumologiche Obiettivi • Perseguire la stabilità clinica • Limitare le conseguenze fisiologiche e psicologiche della malattia respiratoria • Ridurre i fattori di rischio e dominare la progressione • Ottimizzazione dei farmaci, ossigenoterapia e prescrizione CPAP o ventilazione non invasiva • Migliorare l’autonomia motoria e la disabilità • Migliorare la tolleranza all’esercizio fisico • Attivazione di sedute educazionali per la gestione domiciliare • Definizione di protocolli riabilitativi e dietetici volti all’ottimizzazione del peso corporeo Interventi • Interventi sulle modificazioni nello stile di vita, in particolare: - riduzione/sospensione del fumo - attività fisica controllata - partecipazione attiva alla terapia (educazione del paziente all’impiego ottimale dei farmaci) - prevenzione (educazione sanitaria su continuità della terapia, situazioni da evitare) - misure di igiene del sonno • Per i pazienti affetti da disturbi respiratori del sonno le indicazioni riabilitative dipendono dal quadro di OSAS diagnosticato e comprendono: - misure di igiene del sonno - ventiloterapia con CPAP/BiPAP - utilizzo di protesi ortodontiche - valutazione e preparazione a interventi di chirurgia bariatrica - valutazione e preparazione a interventi di chirurgia ORL e/o maxillo-facciale • In caso di associazione con BPCO o asma: - trattamento farmacologico basato su farmaci di fondo che devono essere assunti quotidianamente e per lungo tempo per ottenere e mantenere il controllo sull’infiammazione bronchiale e sull’ostruzione - supplementazione di O2 e ventilazione meccanica non invasiva possono essere strumenti di ausilio durante il riallenamento allo sforzo Riabilitazione nel paziente obeso con diabete di tipo 2 Obiettivi • Mantenere la perdita di peso raggiunta, anche se modesta, per un lungo periodo • Praticare regolare attività fisica (150’/settimana) a carico medio (50% della massima FC) (continua) 88 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa 7 (segue) Tabella 7.12 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione cardiologica, pneumologica, del diabete di tipo 2, osteoarticolare, postchirurgia bariatrica, dei disturbi del comportamento alimentare associati all’obesità secondo il PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano • Mantenere un adeguato controllo della pressione arteriosa con valori ≤ 130/85 mmHg • Mantenere una riduzione dei livelli di glicemia basali (90-130 mg/dl) e postprandiali (< 180 mg/dl), dell’HbA1c (< 7%), colesterolo LDL (< 100 mg/dl), colesterolo HDL (> 40 mg/dl negli uomini, > 50 mg/dl nelle donne) e trigliceridi (< 150 mg/dl) Interventi • Educazione nutrizionale • Educazione sanitaria con aspetti di sicurezza del paziente (l’autocontrollo della glicemia, la conoscenza dei farmaci utilizzati in particolare per la terapia insulinica, le emergenze metaboliche e le possibili complicanze a lungo termine) • Ricondizionamento fisico con indicazioni alla gestione dell’attività fisica nel diabetico ma anche a eventuali altre patologie presenti • Supporto psicologico Riabilitazione nel paziente obeso con complicanze osteoarticolari Obiettivi • Recupero nell’autonomia delle attività della vita quotidiana • Riduzione delle quote algiche a carico dei distretti interessati Interventi • Mobilizzazione attiva dell’articolazione per recupero articolarità • Potenziamento muscolatura arti superiori, cingolo pelvico e arti inferiori • Potenziamento muscolare erettori rachide e addominali • Correzione di eventuali deficit di equilibrio e coordinazione • Eventuali terapie fisiche a scopo antalgico-antiflogistico • Training di miglioramento dello schema di deambulazione, ginnastica posturale • Esercizi per il miglioramento del controllo propriocettivo • Esercizi di allungamento muscolare, massoterapia, attività aerobica • Bendaggio elastocompressivo degli arti inferiori • Linfodrenaggio manuale o strumentale Riabilitazione nel paziente obeso postchirurgia bariatrica Obiettivi • Prevenzione e correzione della malnutrizione calorico-proteica e di micronutrienti • Prevenzione e correzione di ipotonia/ipotrofia muscolare da perdita di massa magra • Correzione dei pattern maladattativi alimentari • Prevenzione e terapia del cosiddetto “post-surgical eating avoidance disorder” (vomito autoindotto, eccessiva restrizione dietetica mirata al raggiungimento e al mantenimento di un peso inferiore rispetto a quello atteso) • Rinforzo della capacità di coping da parte del paziente alle modifiche a lungo termine del pattern alimentare e motorio • Miglioramento e prevenzione della psicopatologia dovuta a una variazione repentina dell’immagine corporea Interventi • Terapia nutrizionale individualizzata con graduale svezzamento da un’alimentazione semiliquida a un’alimentazione semisolida e successivamente solida (interventi restrittivi gastrici) ovvero con contenuto idrico, in macro- e micronutrienti e carico osmolare idoneo a ridurre la diarrea da malassorbimento e il rischio di squilibri idro-elettrolitici (interventi malassorbitivi) più supplementazioni nutrizionali per os o, nei casi più gravi, nutrizione artificiale per via enterale o parenterale • Counseling nutrizionale individuale • Gruppi educazionali • Diario alimentare e dei sintomi gastrointestinali • Controlli bioumorali e strumentali • Integrazioni proteiche, vitaminiche, minerali • Ricondizionamento motorio e fisiokinesiterapia atta alla prevenzione della perdita di massa magra metabolicamente attiva • Ricondizionamento cardiorespiratorio • Counseling psicologico di supporto • Psicoterapia individuale, psicofarmacoterapia (ove indicato) (continua) 89 Ministero della Salute (segue) Tabella 7.12 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione cardiologica, pneumologica, del diabete di tipo 2, osteoarticolare, postchirurgia bariatrica, dei disturbi del comportamento alimentare associati all’obesità secondo il PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Riabilitazione nel paziente obeso con associato disturbo del comportamento alimentare NAS (tipo binge-eating disorder o altri) Obiettivi • Favorire il recupero funzionale fisico, psichico e metabolico del paziente con obesità di grado medio-elevato complicata da disturbo del comportamento alimentare, che possa permettere, accanto alla riduzione del rischio cardiovascolare e metabolico, la rimozione di possibili fattori perpetuanti, favorenti e scatenanti la condizione di disturbo del comportamento alimentare, in particolare nell’errata restrizione dietetica e negli stati emotivi (emotional eating) • Aumentare la motivazione del paziente al trattamento, in particolare al recupero di abitudini alimentari fisiologiche e alla partecipazione alla terapia • Fornire le competenze per il controllo delle crisi alimentari compulsive • Fornire educazione su alimentazione e adeguati pattern nutrizionali • Correggere i pensieri disfunzionali, le attitudini e le emozioni negative strettamente legate alla perpetuazione del disturbo alimentare • Intervenire su fattori di comorbilità psichiatrica eventualmente presenti • Trattare e ove possibile risolvere le comorbidità mediche • Offrire counseling mirato a prevenire le ricadute • Determinare un cambiamento significativo e duraturo nello stile di vita, applicando strategie cognitivo-comportamentali per il controllo del peso corporeo che consentano di sviluppare metodologie operative per modificare l’atteggiamento mentale • Prevenire le recidive del recupero ponderale mediante l’analisi delle situazioni a elevato rischio di perdita del controllo e l’acquisizione di specifiche abilità • Operare una ristrutturazione cognitiva in merito all’accettazione di un peso “ragionevole” compatibile con un buono stato di salute anche se non necessariamente corrispondente ai criteri estetici propugnati dai mass-media Interventi • Stesura “piramide dell’ansia da cibo” • Pasto assistito con dietista • Elaborazione dietoterapia speciale con inserimento graduale degli alimenti maggiormente legati alle compulsioni • Counseling nutrizionale individuale • Discussione diario di automonitoraggio del comportamento alimentare • Psicoterapia individuale • Gruppi psicoeducazionali • Colloqui psichiatrici • Psicofarmacoterapia • Fisioterapia e attività motoria • Lavoro sull’immagine corporea con tecniche varie (es. Feldenkreis, danza-terapia ecc.) BiPAP, ventilazione a pressione positiva intermittente; BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; CPAP, pressione positiva continua; FC, frequenza cardiaca; HbA1c, emoglobina glicata; HDL, lipoproteine a elevata densità; LDL, lipoproteine a bassa densità; OSAS, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno. Riabilitazione metabolica dell’obesità infanto-giovanile Essendo l’obesità infanto-giovanile di competenza pediatrica, si rimanda alle Linee guida della Società Italiana di Pediatria per la definizione dei percorsi e dei livelli di intervento a livello ambulatoriale. Di seguito si riporta quanto previsto per tale condizione nel PDTA dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano per il setting riabilitativo metabolico. 90 Percorso terapeutico-riabilitativo dell’obesità infanto-giovanile Il programma di intervento prevede due momenti fondamentali: • una fase diagnostica e valutativa, relativa all’obesità e alle patologie associate, che comprende: - valutazione clinica e strumentale generale, - valutazione specifica dello stato nutrizionale, - valutazione della funzionalità motoria, 7 Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa Tabella 7.13 Indicatori di esito nella riabilitazione del paziente obeso secondo la Consensus SIO-SISDCA e il PDTA (Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Obiettivo Indicatore Migliorare lo stato di nutrizione Peso, BMI, circonferenza addominale, composizione corporea, comportamento alimentare Recupero funzionale: performance fisica in generale, segmentale o d’organo, recupero delle disabilità presenti • Scale specifiche di performance fisica: - resistenza (6-minute-walking-test ) - percezione dello sforzo (scala di Borg) - forza: la dinamometria (hand-grip dynamometry ) consente di valutare l’esistenza di sarcopenia e gli effetti della perdita di peso e dell’efficacia della riabilitazione su questi indicatori - flessibilità e mobilità articolare: test di flessione del tronco e dell’anca, mobilità articolare del cingolo scapolo-omerale (flessione, estensione, abduzione) • Scale di misura della disabilità: - ADL/IADL - TSD-OC Migliorare lo status psichico • Test specifici di valutazione dei disturbi dell’alimentazione, disturbi dell’immagine del corpo, indici plurimi di psicopatologia: - disturbi dell’alimentazione [es. Eating Disorder Examination (EDE-12.0D), Binge Eating Scale (BES)] - ansia [es. State Trait Anxiety Inventory (STAI X1, STAI X2)] - depressione [es. Beck Depression Inventory (BDI)] - disturbi dell’immagine del corpo [es. Body Uneasiness Test (BUT)] - declino cognitivo [es. Mini-Mental State Examination (MMSE)] - profili e disturbi di personalità [es. Millon Clinical Multiaxial Inventory (MCM-III), Cloninger Temperament and Character Inventory (TCI)] - indici plurimi di psicopatologia [es. Derogatis Symptom Check List (SCL90R)] Migliorare la qualità della vita Questionari specifici o validati in soggetti obesi: Obesity Related Well-Being (ORWELL 97), Psychological General Well Being Index (PGWBI) e SF-36 Health Survey Migliorare il controllo della glicemia Glicemia, HbA1c, microalbuminuria Migliorare il profilo lipidico Colesterolo LDL, trigliceridi Migliorare il rischio cardiovascolare globale Carte di rischio cardiovascolare Migliorare il quadro cardiocircolatorio Pressione arteriosa, frequenza cardiaca, test ergometrico Migliorare la funzionalità respiratoria 6-minute-walking-test, saturimetria, emogasanalisi arteriosa, spirometria ADL, Activities of Daily Life; BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; IADL, Instrumental Activities of Daily Life; LDL, lipoproteine a bassa densità; TSD-OC, test SIO per le disabilità obesità-correlate. - valutazione del profilo psicologico e/o neuropsichiatrico; • programma d’intervento riabilitativo, composto da: - intervento nutrizionale sia sul paziente sia, dove possibile, con i familiari (corsi di educazione alimentare, questionari di valutazione delle conoscenze alimentari pre-/post- intervento, dietoterapia, incontri individuali e di gruppo con nutrizionista e/o dietista) finalizzato alla riduzione lenta e progressiva del BMI, a mantenere la massa magra e a instaurare un corretto e duraturo comportamento alimentare (sia da parte del paziente sia della famiglia), - programma di rieducazione funzionale mo- 91 Ministero della Salute Tabella 7.14 Indicatori di esito nella fase di trattamento inerente la riabilitazione dell’obesità in età infanto-giovanile nel PDTA (Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Obiettivi Indicatore BMI < 82° percentile BMI Circonferenza vita < 90° percentile Circonferenza vita Normalizzazione dei parametri metabolici Glicemia, insulinemia, quadro lipidico, uricemia, ALT, VES, proteina C reattiva Normalizzazione della pressione arteriosa Pressione arteriosa < 95° centile Mantenimento della perdita di massa grassa Plicometria tricipitale, BIA Mantenimento di un adeguato comportamento alimentare Valutato con il diario alimentare Mantenimento di adeguata attività motoria 30’ di attività fisica moderata/die (tutti) + 3 sessioni settimanali di 20’ di attività moderato-intensa (solo adolescenti) Miglioramento della qualità di vita Questionari psicometrici Risoluzione di eventuali disturbi del sonno Epworth Sleepiness Scale (Vignatelli) ALT, alanina aminotransferasi; BIA, valutazione della composizione corporea; BMI, indice di massa corporea; VES, velocità di eritrosedimentazione. toria [informazione sulla corretta attività fisica, attività di palestra e attività aerobica all’aria aperta (iniziando con bassi livelli di intensità, quindi non oltre il 60% della frequenza cardiaca massimale o il 50-55% della VO2max), fisiokinesiterapia], avente lo scopo di aumentare il dispendio energetico, potenziare la massa muscolare, recuperare la mobilità articolare e migliorare la performance cardiorepiratoria, nonché di rendere consapevoli il paziente e la sua famiglia circa la necessità di mantenere nel tempo un’adeguata attività fisica, - interventi psicopedagogici e psicoterapeutici, da programmare secondo l’età del paziente sia attraverso il coinvolgimento della famiglia sia mediante tecniche individuali e/o di gruppo (terapia comportamentale a prevalente coinvolgimento familiare, diario alimentare, automonitoraggio, controllo degli stimoli, rinforzo positivo, ristrutturazione cognitiva, training autogeno, danza-movimento-terapia), con lo scopo di migliorare 92 l’autostima e il rapporto con la propria immagine corporea, di contribuire al controllo e alla gestione dell’alimentazione, nonché di aumentare la consapevolezza della malattia e la compliance al percorso di cura e riabilitazione (sia del paziente sia della famiglia), - nursing riabilitativo svolto da infermieri, operatori sociosanitari e terapisti occupazionali allo scopo di migliorare le risposte dei pazienti alla disabilità, a modificare gli stili di vita morbigeni, incrementare i compensi ambientali e sociali, potenziare le capacità funzionali e relazionali, ottimizzando di conseguenza la partecipazione ai programmi riabilitativi (Tabella 7.14). Per quanto riguarda gli indicatori di esito è utilizzato presso la Divisione di Riabilitazione Auxologica dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano un sistema a punteggio graduato. Tale sistema stabilisce un livello soglia per definire il raggiungimento di un livello di soddisfacente riabilitazione, sulla base del cambiamento pre-post dei parametri di cui sopra (Tabella 7.15). Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa 7 Tabella 7.15 Punteggi specifici per i singoli indicatori di riferimento e griglia riassuntiva di efficacia riabilitativa per l’obesità infanto-giovanile nel PDTA (Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano Parametro Punteggi FSS (Fatigue Severity Scale) –1: 0: +1: +2: SCT (Stair Climbing Test ) –1: valore di SCT post superiore al valore di SCT pre 0: valore di SCT post uguale al valore di SCT pre +1: valore di SCT post inferiore al valore di SCT pre Colesterolo totale (CT) –1: 0: +1: +2: Pressione arteriosa sistolica (PAS) –1: valore di PAS post superiore al valore di PAS pre 0: valore di PAS post uguale al valore di PAS pre +1: valore di PAS post inferiore al valore di PAS pre BMI (body mass index) –1: 0: + 1: + 2: valore di FSS post superiore al valore di FSS pre valore di FSS post uguale al valore di FSS pre valore di FSS post inferiore al valore di FSS pre valore di FSS post inferiore al valore di FSS pre (≥ 5 punti) valore di CT post superiore al valore di CT pre valore di CT post uguale al valore di CT pre valore di CT post inferiore al valore di CT pre valore di CT post inferiore a 180 mg/dl valore di BMI post superiore al valore di BMI pre valore di BMI post uguale al valore di BMI pre valore di BMI post inferiore al valore di BMI pre valore di BMI post inferiore al valore di BMI pre (≥ 1,5 punti) Il punteggio di 0 viene attribuito anche nei casi di non esecuzione e/o di esecuzione parziale del test per impedimento del paziente e/o cause di altra natura. L’efficacia riabilitativa viene considerata raggiunta in presenza di un punteggio totale > 2, ottenuto dalla somma dei punteggi attribuiti ai singoli indicatori. 93 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 8. Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni L’esplosione epidemica dell’obesità e le sue conseguenze economiche e sociosanitarie rendono necessaria un’azione di contrasto efficace basata sulla sinergia fra tutti gli organismi (istituzioni, comitati di esperti, rappresentanti della società civile, settore privato) operanti nel campo della prevenzione e cura di tale patologia. Tutti i Paesi industrializzati si sono dotati di Linee guida per la prevenzione, diagnosi e cura dell’obesità; tali Linee guida, elaborate sulla base delle più aggiornate evidenze scientifiche, indicano le misure più efficaci per contrastare questa patologia e sviluppano sia interventi di prevenzione dell’obesità nella popolazione generale, sia interventi volti al trattamento delle persone con sovrappeso o obesità. Per il raggiungimento di tali obiettivi è indispensabile mettere in atto strategie che facilitino comportamenti salutari sia in termini di alimentazione sia di promozione dell’attività fisica. Tutto questo può essere realizzato soltanto se si ha chiara la consapevolezza che l’obesità non è un problema o una responsabilità del singolo individuo, ma un problema sociale e che le scelte salutari possono essere orientate attraverso appropriate politiche economiche, agricole, urbanistiche e dei trasporti. Processo necessario a diffondere, applicare e monitorare l’efficacia degli interventi contenuti nelle Linee guida è la loro “implementazione”. Tale processo consiste nell’introdurre nella pratica corrente le Linee guida utilizzando strategie di intervento appropriate, atte cioè a favorirne l’utilizzo e a rimuovere i fattori di ostacolo al cambiamento. L’implementazione delle Linee guida è un processo complesso che si snoda attraverso fasi successive: • il primo, propedeutico, passo è analizzare e identificare i fattori o le azioni (comportamenti individuali, collettivi, economici e sanitari) che possono limitare o, viceversa, favorire il processo di implementazione; • il secondo passo è selezionare le Linee guida in relazione allo specifico contesto nel quale dovranno essere applicate. È intuitivo che le strategie saranno differenti a seconda che riguardino la prevenzione dell’obesità nella popolazione generale o il trattamento delle persone con sovrappeso/obesità, e se la popolazione interessata è costituita da adulti o bambini/adolescenti; • il terzo punto riguarda la scelta delle tecniche d’implementazione. Dovranno essere adottati strumenti formativi specifici per le diverse figure coinvolte nella strategia d’implementazione. Inoltre, sarà scelta la metodologia di preparazione e diffusione del processo di implementazione che dovrà essere commisurata al contesto, allo scopo e alle risorse destinate a tale fine; 95 Ministero della Salute • il quarto punto consiste nella valutazione del piano d’implementazione. A tale scopo dovrà essere istituito un sistema di feedback necessario per monitorare, rafforzare ed eventualmente rivedere il processo d’implementazione. Di seguito, i diversi punti saranno esaminati in relazione all’obiettivo specifico dell’implementazione delle raccomandazioni per la prevenzione e la cura dell’obesità. Analizzare e identificare i fattori o le azioni che possono limitare o favorire il processo di implementazione Dovranno essere attentamente valutate tutte le cause, le azioni culturali, economiche o normative che possono ostacolare o, viceversa, favorire l’attuazione delle Linee guida per la prevenzione e la cura dell’obesità. Ipotizzando come scenario la prevenzione dell’obesità in età pediatrica, sarà indispensabile analizzare: • le normative nazionali ed europee che possono limitare o al contrario favorire l’adozione di stili di vita più salutari (aspetti normativi); • la rigidità o al contrario la duttilità della promozione di una corretta alimentazione in ambito scolastico (aspetti strutturali); • la disponibilità del personale docente e non docente a favorire l’attuazione delle Linee guida (aspetti organizzativi); • la disponibilità del personale scolastico e delle famiglie a recepire i cambiamenti dello stile di vita (aspetti culturali). Ipotizzando, invece, uno scenario di implementazione delle Linee guida riguardanti la terapia dell’obesità sarà indispensabile analizzare: • la normativa riguardante la gestione del paziente con sovrappeso/obesità nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN); • la possibilità di promuovere stili di vita salutari 96 da parte degli operatori sanitari coinvolti nel processo di implementazione, primo fra tutti il medico di medicina generale (MMG); • l’accessibilità dei pazienti a strutture e/o figure specialistiche coinvolte nelle attività di promozione di stili di vita salutari. Selezionare le Linee guida in relazione allo specifico contesto nel quale dovranno essere adottate Questa metodologia dipenderà dalla strategia generale e dal contesto in cui si andrà a operare, poiché è intuitivo che la prevenzione dell’obesità nella popolazione generale dovrà adottare Linee guida applicabili su popolazioni, mentre se il contesto sarà la cura del sovrappeso/obesità le Linee guida verteranno sugli aspetti diagnostici e terapeutici (nutrizionali, comportamentali e farmacologici) di questa patologia. Le strategie di prevenzione dell’obesità nella popolazione generale prevedono il coinvolgimento di una molteplicità di attori: • i Settori dei Ministeri dell’Agricoltura, dell’Industria, dei Trasporti, delle Politiche Sociali e dell’Istruzione competenti in materia di prevenzione dell’obesità possono, attraverso interventi appropriati, indirizzare la popolazione verso stili di vita più salutari; • gli Enti locali hanno la responsabilità di creare per i cittadini ambienti e opportunità per l’attività fisica attraverso iniziative attuate nelle scuole, nelle comunità, nei luoghi di lavoro; • il settore privato (industrie agro-alimentari, reti di distribuzione, strutture di ristorazione collettiva, turismo) deve impegnarsi nella produzione di prodotti alimentari salutari e a basso contenuto calorico; • i media hanno la responsabilità di organizzare campagne di informazione volte a diffondere Parte Prima – Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni modelli di alimentazione sana e stili di vita salutari. L’implementazione dei percorsi di cura per le persone affette da obesità è affidata alle diverse figure professionali del SSN: il MMG e i medici specialisti (internista, nutrizionista, chirurgo, psicologo) che dovrebbero operare nell’ambito di un team multidisciplinare. Scelta delle tecniche d’implementazione Questo aspetto, di natura più propriamente organizzativa, non è meno importante dei precedenti, in quanto il successo del processo di implementazione delle Linee guida dipenderà in larga parte da una scelta corretta delle tecniche di implementazione. L’analisi della letteratura sull’efficacia delle tecniche e strategie di intervento ha consentito di suddividere gli interventi in: • inefficaci (materiale informativo, lezioni frontali ecc.); • probabilmente efficaci (audit e feedback; uso di opinion leader, processi di consenso locali; interventi mediati dai pazienti); • efficaci (visite educative, promemoria manuali o computerizzati; interventi multipli, combinazione che include due o più dei seguenti: audit e feedback, promemoria, processi di consenso locali, marketing, incontri formativi interattivi). Se, per esempio, si intendesse adottare una campagna di prevenzione dell’obesità mediante la diffusione di materiale informativo riguardante la promozione di salutari stili di vita (sia nella popolazione generale, sia in ambiti specifici come quello pediatrico), tale strategia risulterebbe poco efficace anche se il materiale prodotto fosse ben curato e di facile lettura. Al contrario, risultati 8 più efficaci potrebbero essere raggiunti attraverso interventi educativi da parte di personale formato ad hoc, promemoria computerizzati da inserire nei programmi di assistenza del MMG, processi di consenso e marketing o attraverso tutti questi processi adeguatamente programmati. Ovviamente, la maggiore probabilità di successo degli interventi considerati efficaci dipenderà dalle risorse e dal personale impiegato e sarà inversamente proporzionale al numero dei destinatari coinvolti. Valutazione del piano d’implementazione L’ultima tappa del processo di implementazione delle Linee guida per la prevenzione e cura dell’obesità riguarda la verifica degli effetti in termini di accettabilità e praticabilità da parte degli operatori e dei pazienti, oltre che di sostenibilità e compatibilità con gli assetti organizzativi. La valutazione sarà effettuata mediante l’applicazione di adeguati sistemi di feedback e di monitoraggio di appropriati indicatori. A essa dovrà fare seguito la disponibilità/capacità di rimodulare i processi in relazione ai risultati raggiunti. Per attuare questo piano strategico occorre programmare gli interventi in maniera coordinata. L’azione di coordinamento è fondamentale in quanto, a causa della complessità del problema, sarà chiamata ad agire una molteplicità di soggetti: le istituzioni nazionali, gli amministratori locali, il settore privato, la famiglia, la scuola, i servizi sanitari, i mezzi di informazione, i club sportivi e sociali, le strutture di ristorazione. Al fine di evitare dispersioni, sarebbe utile che i diversi stakeholders, impegnati ognuno nel proprio campo d’azione, fossero coordinati da un’Agenzia Nazionale che assuma la leadership dell’azione e svolga funzione d’indirizzo, monitoraggio e verifica degli interventi. 97 Parte seconda Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, la diagnosi e la terapia del diabete Si ringraziano per i contributi apportati: Graziella Bruno, Emanuele Bosi, Brunella Capaldo, Marco Comaschi, Carlo Bruno Giorda, Giorgio Grassi, Annunziata Lapolla, Renata Giuseppina Lorini, Marina Maggini, Giulio Marchesini Reggiani, Maurizio Masullo, Gerardo Medea, Andrea Mosca, Giuseppe Noto Si ringraziano l’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e la Società Italiana di Diabetologia (SID), per aver gentilmente messo a disposizione del Gruppo di Lavoro il documento “Standard di Cura per il Diabete Mellito 2009-2010”, che è stato preso come riferimento in molti capitoli. Inoltre, un ringraziamento per i contributi forniti va alla Direzione Generale del Sistema Informativo del Ministero della Salute e al Centro Nazionale Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità. Per il capitolo sui percorsi assistenziali si ringraziano Marina Maggini (Centro Nazionale di Epidemiologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma) e Giuseppe Noto (Assessorato Regionale alla Sanità, Regione Sicilia, Palermo), che ci hanno consentito di riportare un documento da loro elaborato sui “percorsi assistenziali per la gestione integrata”. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 9. Classificazione e definizione di diabete mellito Concetti generali, diagnosi e definizione Il diabete mellito, ormai comunemente definito diabete, è un gruppo di malattie metaboliche in cui la persona ha come difetto principale un aumento delle concentrazioni ematiche di glucosio – iperglicemia. Il termine diabete deriva dal greco (διαβήτης, diabētēs) ed è stato introdotto da Aretaeus di Cappadocia nel 1° secolo dopo Cristo. Il termine deriva dal verbo greco diabainen, formato dal prefisso dia “attraverso, oltre” e dal verbo bainein che significa “andare/passare” e, quindi, il termine può tradursi con passare attraverso, riferito alla poliuria e alla glicosuria. Nel 1675, Thomas Willis ha aggiunto il termine mellitus, dal latino che significa dolce, con riferimento al sapore dolce delle urine. Il diabete può essere causato da un deficit assoluto di secrezione insulinica, o da una ridotta risposta all’azione dell’insulina a livello degli organi bersaglio (insulino-resistenza), o da una combinazione dei due difetti. L’iperglicemia cronica del diabete si associa con un danno d’organo a lungo termine (complicanze croniche), che porta alla disfunzione e all’insufficienza di differenti organi, specialmente gli occhi, il rene, il sistema nervoso autonomo e periferico, il cuore e i vasi sanguigni. I processi che portano allo sviluppo del diabete variano da una distruzione autoimmunitaria delle cellule beta del pancreas nelle isole di Langerhans e conseguente insulino-deficienza a difetti dell’azione insulinica causati da un’aumentata insulino-resistenza nei tessuti periferici. Sono presenti anche fenomeni di glucotossicità e lipotossicità a carico tissutale, che portano a distruzione della cellula beta pancreatica per fenomeni di apoptosi. Le basi delle alterazioni del metabolismo dei carboidrati, degli acidi grassi e delle proteine sono causate da una ridotta azione dell’insulina nei tessuti bersaglio, principalmente a livello epatico, nella fibra muscolare scheletrica, nel tessuto adiposo e nelle cellule vascolari. L’insufficiente azione insulinica può essere causata da una non adeguata secrezione insulinica e/o da una diminuita risposta periferica all’azione dell’insulina in uno o più punti della complessa via di trasmissione del segnale insulinico a livello cellulare. Nel paziente con diabete di tipo 2 spesso coesistono sia la riduzione della secrezione insulinica in risposta al glucosio, sia un difetto dell’azione insulinica, anche se non è chiaro quale delle due anomalie sia la causa iniziale e/o principale del processo fisiopatologico che porta all’insorgenza del diabete. I sintomi clinici di una marcata iperglicemia includono la poliuria, la polidipsia, la perdita di peso, alcune volte l’iperfagia o polifagia e una riduzione della vista. Un difetto dell’accrescimento 101 Ministero della Salute e un’aumentata suscettibilità ad alcune infezioni possono associarsi con l’iperglicemia cronica. Le conseguenze acute dell’iperglicemia sono associate alla chetoacidosi o alla sindrome iperosmolare non chetosica e, qualora non trattate rapidamente, possono portare a coma ed eventualmente a morte del paziente. Il diabete comprende quattro categorie principali: il diabete di tipo 1 (DT1), il diabete di tipo 2 (DT2), il diabete gestazionale (DG) e, infine, un gruppo eterogeneo definibile come “altre forme di diabete”. Classificazione (Tabella 9.1) Il DT1 è una patologia caratterizzata da un difetto assoluto della secrezione insulinica da parte delle cellule beta del pancreas e a sua volta è suddiviso in due categorie: DT1A con eziologia autoimmunitaria (caratterizzato dalla presenza di autoanticorpi anti-pancreas endocrino) e DT1B idiopatico, meno frequente, in cui si riscontra una distruzione delle cellule beta del pancreas senza, comunque, la presenza di una risposta autoimmunitaria. Questa forma di diabete è presente soltanto nel 5-10% dei casi di diabete; in precedenza il DT1 era stato chiamato diabete insulino-dipendente o diabete a insorgenza giovanile. Il DT1A è innescato da una risposta autoimmunitaria cellulo-mediata con conseguente distruzione delle cellule beta del pancreas. I marcatori della distruzione delle cellule beta comprendono autoanticorpi contro le isole di Langerhans, l’insulina e il GAD65 e anticorpi contro le tirosine fosfatasi IA-2 e IA-2beta. Uno o più anticorpi sono presenti nell’85-90% dei pazienti quando è presente iperglicemia conclamata. Il DT1A è associato a un’elevata predisposizione genetica e la concordanza fra gemelli monozigoti è fra il 30% e il 60%. La regione HLA, sul braccio corto del cromosoma 6, è il principale determinante genetico identificato e sembra contribuire per oltre il 50% al rischio genetico per il DT1A. I loci genici che codificano per le molecole DQ (aplotipo DQA e DQB) e DRB risultano fondamentali per la valutazione del rischio genetico associato alla patologia. I loci HLA-DR/DQ possono essere predisponenti o protettivi. Alcune forme di DT1 hanno un’eziologia sconosciuta e sono dette idiopatiche, poiché non è nota la causa che le determinano; questa forma di diabete è chiamata DT1B, poiché è presente la distruzione, quasi totale, delle cellule beta del pancreas. Questi pazienti hanno una grave insulinopenia e sono pronti a sviluppare chetoacidosi, ma non hanno evidenze della presenza di una risposta autoimmunitaria. Soltanto una piccola minoranza di pazienti affetti ha questa forma di diabete e la maggior parte di questi pazienti ha antenati del gruppo etnico di origine africana o asiatica. Esiste un’ultima forma di DT1 che insorge nell’adulto; l’eziologia è sempre autoimmunitaria, ma il processo è di lenta insorgenza e progressione e la malattia si sviluppa Tabella 9.1 Le differenti forme di diabete mellito Classificazione Caratteristiche I. Tipo 1A Tipo 1B II. Tipo 2 III. Diabete gestazionale IV. Altre forme specifiche Immunomediato Insulino-deficiente, non autoimmune Insulino-resistenza + deficit della secrezione insulinica Intolleranza al glucosio con primo riscontro o inizio durante la gravidanza Mitocondriale, diabete a insorgenza precoce del giovane (MODY), lipoatrofico, insulino-resistenza tipo A, endocrinopatie ecc. 102 Parte Seconda – Classificazione e definizione di diabete mellito nell’adulto. Il DT1 nell’adulto è chiamato noninsulin requiring autoimmune diabetes (NIRAD) o latent autoimmune diabetes in adults (LADA). Il DT2 è la forma di diabete che è responsabile di circa l’85-95% di tutti i casi di diabete; in precedenza era chiamato diabete non insulino-dipendente, o diabete dell’adulto. I pazienti affetti da questa forma di diabete presentano un aumento dei livelli d’insulino-resistenza periferica associato a una ridotta secrezione insulinica che è relativa, ma non completa, almeno nella fase iniziale della patologia. La maggior parte dei pazienti con DT2 è obesa o in sovrappeso e l’obesità stessa, o un aumento dei depositi di grasso a livello viscerale (aumento della circonferenza vita) nelle persone in sovrappeso, causa un aumento dei livelli d’insulino-resistenza negli organi bersaglio all’azione dell’insulina. In questi pazienti la chetoacidosi è rara e quando occorre, generalmente, è per la presenza di altre patologie e/o condizioni che aumentano lo stress fisico e/o psicologico. Questa forma di diabete spesso non è diagnosticata all’insorgenza della malattia, poiché l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e, nelle prime fasi della patologia, non è severa e non sono presenti i sintomi clinici dell’iperglicemia. Il grado di iperglicemia può variare nel tempo e non essere così elevata da causare la malattia. Il processo patologico può causare un’alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG) e/o un’alterata tolleranza al glucosio (impaired glucose tolerance, IGT) senza comunque raggiungere i criteri diagnostici per il diabete. Tuttavia, questi pazienti hanno un rischio aumentato di sviluppare complicanze croniche associate soprattutto a malattia microvascolare e macrovascolare. In questi pazienti possono essere presenti sia iperinsulinemia sia iperglicemia; questo difetto è causato da una ridotta secrezione insulinica che non è in grado di compensare per gli aumentati livelli d’insulino-resistenza periferica. L’insulino- 9 resistenza può migliorare con la riduzione del peso e/o con il trattamento farmacologico dell’iperglicemia, ma raramente ritorna a valori normali. Il rischio di sviluppare diabete aumenta con l’età, con l’obesità e con la ridotta o assente attività fisica. È più frequente nelle persone ipertese e dislipidemiche e in alcuni gruppi etnici. La predisposizione genetica è importante e un incremento del rischio di patologia si riscontra in gemelli monozigotici con una concordanza che in alcuni studi è intorno al 100%. Il DT2 è considerato una patologia poligenica multifattoriale causata dall’associazione di polimorfismi genetici predisponenti alla patologia con fattori ambientali, “il cosiddetto fenotipo patologico”, quali una dieta ipercalorica ricca in acidi grassi e una ridotta o assente attività fisica. Questo errato stile di vita porta a un aumento del peso corporeo caratterizzato da sovrappeso o obesità, con incremento dei depositi di tessuto adiposo soprattutto a livello viscerale. La terza forma più comune di diabete è quella gestazionale. Il diabete gestazionale è caratterizzato dall’insorgenza d’iperglicemia durante la gravidanza, in una donna che prima del concepimento non era affetta da diabete, indipendentemente dal tipo di trattamento utilizzato e dalla possibilità che tale condizione possa persistere dopo il parto. La prevalenza del diabete gestazionale è di circa il 3-4% di tutte le gravidanze e compare generalmente durante il 2° o il 3° trimestre. Questa condizione normalmente regredisce dopo la gravidanza, anche se è aumentato il rischio di sviluppare DT2, con una percentuale d’insorgenza di circa il 40% dopo 20 anni dal riscontro di diabete gestazionale. Le altre forme di diabete Difetti genetici della cellula beta Differenti forme di diabete sono causate da difetti monogenici che portano a una disfunzione della 103 Ministero della Salute cellula beta pancreatica. Queste forme di diabete sono frequentemente caratterizzate da insorgenza di iperglicemia in giovane età, generalmente prima dei 25 anni, e sono chiamate maturity onset diabetes of the young (MODY). Le differenti forme di MODY sono caratterizzate da un difetto della secrezione insulinica, in assenza o con minimi difetti dell’azione insulinica; le mutazioni genetiche sono ereditate in forma autosomica dominante. A oggi sono state identificate sei mutazioni genetiche in loci di differenti cromosomi (MODY 1-6). Difetti genetici dell’azione dell’insulina Sono presenti delle forme rare di mutazione genetiche che causano diabete e sono determinate da difetti dell’azione insulinica. Le mutazioni genetiche del recettore dell’insulina possono causare una patologia caratterizzata da una modesta iperglicemia e iperinsulinemia, fino a diabete conclamato e severo. Alcuni pazienti con questa mutazione possono avere l’acanthosis nigricans; in alcune forme severe le donne hanno segni di virilizzazione e l’ovaio è ingrandito con presenza di cisti; in passato questa condizione clinica era chiamata sindrome da insulino-resistenza di tipo A. Esistono altre due forme rare di sindromi associate a mu- 104 tazione del recettore dell’insulina, quali la sindrome di Rabson-Mendenhall e il leprecaunismo. Sono patologie a insorgenza pediatrica con valori estremamente elevati d’insulino-resistenza, associata ad anomalie sia scheletriche sia a livello tissutale; queste patologie possono avere anche un esito fatale precoce. Il diabete secondario ad altre patologie • Malattie del pancreas esocrino: pancreatiti, traumi/ pancreatectomia, neoplasia, fibrosi cistica, emocromatosi ecc. • Endocrinopatie: acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma, ipertiroidismo ecc. • Farmaci o reagenti chimici: glucocorticoidi, acido nicotinico, agonisti beta-adrenergici, interferone gamma ecc. • Infezioni: citomegalovirus, rosolia congenita. • Forme non comuni di diabete immunomediato: anticorpi antinsulina, sindrome di “Stiff-man”. • Altre sindromi genetiche che possono essere associate con il diabete: sindrome di Down, sindrome di Klinefelter, sindrome di Turner, sindrome di Wolfram ecc. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 10. La situazione attuale Epidemiologia e costi del diabete Si sta assistendo a un’epidemia mondiale di diabete, con una prevalenza che arriverà fino al 6,3% nel 2025, coinvolgendo 333 milioni di persone in tutto il mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha quindi inserito il diabete tra le patologie croniche su cui maggiormente investire per la prevenzione, dato il crescente peso assunto da questa patologia anche nei Paesi in via di sviluppo e vista la possibilità di attuare misure preventive efficaci e di basso costo. Questo fenomeno non è secondario all’azione di agenti infettivi, come il termine lascerebbe supporre, bensì alle modificate abitudini di vita della popolazione mondiale. Il rischio di diabete di tipo 2 (DT2) è in larga parte determinato da età, obesità, familiarità ed etnia. In Italia, l’allungamento della vita media e il cambiamento dello stile di vita (sedentarietà, obesità) sono in larga parte responsabili dell’aumento atteso nella prevalenza del DT2. Gli studi di popolazione di Casale Monferrato e di Torino indicano un aumento dal 2,8% al 4,9% dal 1988 al 2003. In pratica, si è verificato il raddoppio dei casi affetti nell’arco di 25 anni. L’incremento più rilevante è stato registrato negli anziani (età > 65 anni), che attualmente rappresentano i due terzi della popolazione diabetica italiana; in questa fascia di età la prevalenza è pari al 14%. Si stima, inoltre, che una percentuale pari all’1,5-2% della popolazione sia affetta da diabete non diagnosticato (glicemia > 126 mg/dl o glicemia 2h dopo test da carico del glucosio (oral glucose tolerance test, OGTT) ≥ 200 mg/dl). L’incremento temporale nella prevalenza di DT2 riconosce cause diverse: aumentata incidenza di malattia (secondaria all’aumento dei suoi fattori di rischio), più giovane età d’esordio e di diagnosi della malattia (estensione più ampia dello screening opportunistico dei soggetti asintomatici, con riduzione, quindi, del rapporto diabetici noti/non noti), aumentata sopravvivenza dei diabetici e, soprattutto, invecchiamento della popolazione generale. Quest’ultimo fattore è, verosimilmente, quello di maggiore impatto nelle zone industrializzate quali l’Italia. In Italia, per il 2009, l’Istat ha stimato una prevalenza del diabete diagnosticato pari al 4,8% (Figura 10.1); in base a questi dati le persone con diabete in Italia sono circa 2.900.000, ai quali si aggiunge una quota stimabile in circa un milione di persone che, pur avendo la malattia, non ne è a conoscenza. La prevalenza del diabete aumenta con l’età fino al 18,9% nelle persone con età uguale o superiore ai 75 anni. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, la prevalenza è più alta nel Sud e nelle Isole, con un valore del 105 Ministero della Salute Prevalenza (%) 5 Valori % 5,2-10 4,9-5,2 4,2-4,9 ≤ 4,2 Nessun dato 4,5 4,2 4 3,9 3,9 3,9 3,9 4,0 3,9 4,3 4,6 4,4 4,8 4,5 4,8 4,4 4,0 Tasso grezzo Tasso standardizzato 3 2001 2002 2003 2005 2006 2007 2008 2009 Anno Figura 10.2 Prevalenza del diabete in Italia dal 2001 al 2009. Figura 10.1 Diabete: stima Istat Italia 2009 (tutte le età). 5,5%, seguita dal Centro con il 4,9% e dal Nord con il 4,2%. I dati di prevalenza per area geografica e per regione non sono standardizzati, quindi le differenze osservate potrebbero dipendere da una diversa composizione per età della popolazione nelle diverse aree geografiche. Tuttavia, elaborazioni effettuate sui dati del 2005 hanno mostrato che le differenze permangono anche dopo la standardizzazione per età e sesso. Nella Figura 10.2 è riportata la prevalenza del diabete in Italia dal 2001 al 2009. Attualmente, vi sono quindi in Italia almeno tre milioni di soggetti con diabete, oltre ai quali si aggiunge una quota stimabile in circa un milione di persone che, pur avendo la malattia, non ne è a conoscenza. Le disuguaglianze sociali agiscono fortemente sul rischio di contrarre il diabete: la prevalenza della malattia è, infatti, più elevata nelle donne e nelle classi sociali più basse e tale effetto è evidente in tutte le classi di età. La classe sociale più bassa è un indicatore di obesità e ridotta attività fisica e si associa, quindi, a un maggiore rischio di diabete. L’attività di prevenzione tramite 106 strategie di screening dovrebbe, quindi, essere rivolta soprattutto a questa fascia della popolazione. Non sono disponibili stime nazionali d’incidenza del diabete, ma sono disponibili dati derivati da studi su popolazioni selezionate. I dati italiani sull’incidenza della malattia sono molto limitati. Il problema metodologico principale è dato dall’inadeguata completezza delle rilevazioni epidemiologiche nell’età adulta, mentre nell’età pediatrica la quasi totalità dei diabetici è regolarmente seguita sin dalla diagnosi dai servizi di diabetologia; vi sono, inoltre, difficoltà diagnostiche legate alla necessità di eseguire il test da carico orale di glucosio per stimare i casi di diabete asintomatico a livello di popolazione. Il registro di Torino ha stimato nell’età 30-49 anni un’incidenza di diabete noto pari a 0,5/1000 casi anno/persona. Lo studio di Brunico, basato invece sulla rivalutazione della glicemia a digiuno in una coorte di popolazione, ha stimato nell’età 40-79 anni un tasso pari a 7,6/1000 anni-persona. Questo dato indica che ogni anno circa 8 persone su 1000 di età compresa tra 40 e 79 anni sviluppano la malattia. Confermato il ruolo dell’obesità che, rispetto alla condizione di normopeso, aumenta il rischio di sviluppare il diabete, i predittori di diabete sono risultati, infatti, un’alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG) [OR = 11], un’alterata tolleranza al glucosio (im- Parte Seconda – La situazione attuale paired glucose tolerance, IGT) [OR = 3,9], il peso (sovrappeso OR = 3,4 e obesità OR = 9,9), la dislipidemia (OR = 1,6), l’ipertensione arteriosa (OR = 2,3). Verosimilmente, pertanto, l’incremento della prevalenza del diabete registrato finora si manterrà nel tempo se non saranno messe in atto strategie di educazione di massa volte a modificare abitudini e atteggiamenti nocivi alla salute. Il DT2 è una malattia cronica a elevato impatto sulla qualità di vita dei soggetti affetti. La malattia, inoltre, compare sempre più frequentemente in età giovanile, presentando quindi un maggiore rischio di complicanze invalidanti in età lavorativa piuttosto che in quella senile. La diagnosi è preceduta mediamente da una fase della durata di circa 7 anni, durante la quale la malattia è asintomatica; in questa fase, tuttavia, il rischio cardiovascolare è già comparabile a quello del diabete diagnosticato. La nefropatia diabetica rappresenta nel DT2 il più importante fattore di rischio cardiovascolare, superiore a quello d’insufficienza renale terminale. Ogni anno 4 diabetici con microalbuminuria su 100 evolvono verso la macroalbuminuria e, di questi, 3 su 100 verso l’insufficienza renale cronica. Sei diabetici macroalbuminurici su 1000 rischiano ogni anno di dover ricorrere alla dialisi, mentre ben 70 su 1000 muoiono di malattie cardiovascolari, rispetto a 22 su 1000 tra i diabetici normoalbuminurici. Il diabete determina il 50% delle amputazioni degli arti inferiori. La retinopatia diabetica, inoltre, costituisce la principale causa di cecità legale fra i soggetti in età lavorativa. I diabetici neuropatici hanno un rischio di complicanze vascolari 20-40 volte superiori. Le complicanze agli arti inferiori, legate sia al danno vascolare sia a quello neurologico, aumentano con l’età, fino a interessare più del 10% dei pazienti con oltre 70 anni. Il 15% dei diabetici sviluppa nel corso della vita un’ulcera agli arti inferiori e un terzo di questi pazienti va incontro ad amputazione. Il 50% dei 10 soggetti sottoposti ad amputazione non traumatica è affetto da diabete e il 50% di questi ha una sopravvivenza inferiore a 2 anni. In Italia sono stati condotti alcuni studi per la valutazione della qualità di vita e delle cure mediche e per la prevalenza delle complicanze croniche. Lo studio Quadri condotto nel 2004 dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) è uno degli studi disponibili più completo presente in letteratura. La rilevazione dei dati è stata compiuta attraverso un questionario standardizzato somministrato tramite intervista diretta. Sono state intervistate 3426 persone (58% uomini) con un’età mediana di 57 anni (18-64). Nella Figura 10.3 sono riportate le incidenze per complicanze croniche del diabete nella popolazione italiana esaminata. Il diabete di tipo 1 (DT1), seppure meno frequente rispetto al DT2 (1 caso su 10 diabetici italiani), presenta un elevato impatto sociale, poiché interessa soggetti in giovane età. L’incidenza è compresa tra i 6 e i 10 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6,72 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 15 a 29 anni, con forti differenze geografiche. Il rischio, infatti, è circa 4 volte superiore in Sardegna – verosimilmente su base genetica, come dimostrato dagli studi sugli emigranti –, che ha un’incidenza di diabete giovanile tra le più alte del mondo, pari a 34 casi per 100.000 per anno nella fascia di età di 0-14 anni; nella provincia di Trento l’incidenza è aumentata con valori di 18,67 per 100.000 persone/anno. Sebbene il picco d’incidenza sia evidente nell’età pediatrica, il rischio permane alto almeno fino ai 30 anni di età, con una prevalenza maggiore nei maschi. Le caratteristiche cliniche dei pazienti all’esordio della malattia sono diverse nei bambini rispetto ai giovani adulti, con una secrezione pancreatica residua meglio conservata in questi ultimi, tale da consentire spesso un esordio meno acuto della malattia. L’analisi dei dati dei registri italiani 107 Ministero della Salute Valori % > 32 28-32 < 28 72 Sovrappeso o obesità 44 Ipercolesterolemia 54 Ipertensione 13 Cardiopatia ischemica 19 Retinopatia diabetica 30 Una complicanza 0 20 40 60 80 Incidenza (%) Figura 10.3 Studio Quadri – 2004: prevalenza delle complicanze croniche in Italia. (studio RIDI) ha evidenziato come sia presente un trend temporale d’aumento d’incidenza pari al 3% per anno, comparabile a quanto messo in evidenza in altre aree geografiche. Il trend è evidente nel Registro di Torino anche nei giovani adulti. L’insieme dei dati italiani, quindi, non è compatibile con l’ipotesi che l’età all’esordio sia anticipata come spiegazione dell’incremento d’incidenza registrato nei bambini. L’incremento lineare nel tempo e l’assenza di picchi d’incidenza suggeriscono, invece, l’effetto di determinanti ambientali a distribuzione uniforme, tuttora ignoti. Il DT1 è una delle più frequenti malattie croniche dell’infanzia e l’incidenza del DT1 è in aumento. Un’indagine condotta dall’International Diabetes Federation (IDF) ha calcolato un’incidenza di DT1 nel mondo di circa 65.000 nuovi casi/anno. Il corrispondente incremento calcolato per gruppi di età è risultato di 4,8% per i bambini nella fascia 0-4 anni, 3,7% per i bambini di 5-9 anni e 2,1% per i bambini di 10-14 anni, il che evidenzia come il maggiore tasso d’incidenza si verifichi nel gruppo d’età più giovane. In Italia vi sono tassi d’incidenza 108 da 6,2/100.000 (Campania e Italia meridionale) a 38,8/100.000 per anno in Sardegna. Nel 1996 è stato istituito nell’ambito del Gruppo di Studio sul diabete della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) il RIDI (Registro Italiano del Diabete di tipo 1), che include il 43% del totale della popolazione italiana a rischio in soggetti di 0-14 anni valutati dal 1990 al 1999. L’incidenza del DT1 ha presentato nei 10 anni dello studio un incremento del 3,7% e del 3,6% per anno, rispettivamente, in Sardegna e nell’Italia Peninsulare. I dati epidemiologici italiani degli studi “Casale Monferrato Study” e del “Verona Study” indicano come l’eccesso di mortalità dei diabetici rispetto alla popolazione generale sia pari al 35-40%. Le complicanze cardiovascolari sono responsabili principalmente dell’aumentata morbilità e mortalità associate al diabete; l’aspettativa di vita si riduce di 5-10 anni rispetto ai non diabetici. Le malattie cardiovascolari sono, infatti, responsabili di oltre il 50% dei decessi, soprattutto per infarto, ictus, scompenso cardiaco e morte improvvisa. 10 Parte Seconda – La situazione attuale L’eccesso, tuttavia, è nettamente più marcato tra i diabetici più giovani, che rappresentano quindi il target privilegiato per la prevenzione, rispetto all’età senile. I pazienti con DT1 presentano un aumento del rischio di mortalità di circa 2 volte a breve distanza dalla diagnosi, rispetto a non diabetici di pari età, principalmente per coma chetoacidosico e ipoglicemico, il che indica la necessità di un miglioramento nel livello di assistenza erogato in Italia. L’epidemia di diabete ha anche importanti risvolti economici: in Italia, attualmente, i diabetici sono responsabili di un consumo di risorse sanitarie (costi diretti) 2,5 volte superiori rispetto a quello delle persone non diabetiche di pari età e sesso. Ogni anno ci sono in Italia più di 70.000 ricoveri per diabete principalmente causati da complicanze quali ictus cerebrale e infarto del miocardio, retinopatia diabetica, insufficienza renale e amputazioni degli arti inferiori. Lo studio di popolazione di Torino ha mostrato come il costo diretto annuo del diabetico sia pari a € 3348,6, mentre nel non diabetico sia mediamente pari a € 831,9; l’eccesso di costo, dopo aggiustamento per età e sesso – i principali confondenti – è pari a 2,5 volte nel diabetico rispetto al non diabetico. L’incremento (Tabella 10.1) è di circa due volte per tutte le voci di spesa esaminate. Oltre il 50% dei costi diretti è attribuibile ai ricoveri ospe- dalieri. I diabetici hanno un consumo di farmaci pari a 3 volte i non diabetici di pari età e sesso, attribuibile alle comorbidità associate alla malattia. Per quanto riguarda i farmaci, la quota principale del costo è imputabile al trattamento delle complicanze cardiovascolari. Tutte le categorie farmacologiche, tuttavia, mostrano un aumentato utilizzo nei diabetici rispetto ai non diabetici, a rilevare l’interessamento multiorgano della malattia. Nei dieci anni di studio dell’Osservatorio ARNO Diabete, nel quale sono stati valutati i costi dei farmaci sottoposti a monitoraggio AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), è emerso come solo il 18% del costo dei farmaci sia attribuibile ai medicinali antidiabetici e come questa percentuale sia sostanzialmente rimasta invariata nel corso del tempo, mentre il consumo di farmaci e il relativo costo siano raddoppiati nel corso del tempo, a sottolineare come l’incremento globale della spesa sia imputabile alle comorbidità associate piuttosto che al controllo dell’iperglicemia. Il costo del trattamento delle complicanze (macroangiopatia, retinopatia, nefropatia e neuropatia), poi, è particolarmente elevato. Nel 2010 il diabete ha determinato il 10-15% dei costi dell’assistenza sanitaria in Italia. L’impatto sociale del diabete si avvia, quindi, a essere sempre più difficile da sostenere per la comunità, in assenza di un’efficace prevenzione. Tabella 10.1 Costi diretti per la cura di pazienti diabetici e non diabetici – Lo Studio Torino • Ospedalizzazione • Cura in acuto • Paziente ambulatoriale • Farmaci • Articoli di consumo Pazienti diabetici Pazienti non diabetici Costi (€) per persona/anno Costi (€) per persona/anno 1909,8 30,9 418,2 831,0 158,7 496,1 16,5 135,9 183,0 0,4 Rapporto di tassi* 2,3 (2,2-2,4) 1,7 (1,6-1,7) 2,1 (2,0-2,1) 2,7 (2,7-2,8) * Derivato da modelli lineari logaritmici, aggiustati per età e sesso. 109 Ministero della Salute Il diabete come problema di salute sociale Nelle persone con diabete è elevata la presenza di fattori di rischio per le malattie cardiovascolari e la frequenza di queste patologie è più elevata rispetto alla popolazione non diabetica. Secondo i dati del sistema di sorveglianza PASSI (Progressi nelle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), relativi a un campione di 57.059 persone di età compresa tra 18 e 69 anni, il 17% delle persone con diabete dichiara di aver avuto un infarto del miocardio o altra malattia cardiaca, mentre nei non diabetici la prevalenza è del 4%. Ancora più marcata è la differenza per la presenza d’insufficienza renale: 8% nei diabetici contro 1% nei non diabetici. L’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia sono anche condizioni molto diffuse nella popolazione diabetica (53% e 45% rispetto al 19% e 24% nei non diabetici). L’eccesso ponderale e la sedentarietà sono i fattori di rischio cardiovascolare significativamente più presenti nei diabetici rispetto ai non diabetici. I tre quarti circa delle persone con diabete presentano un eccesso ponderale (74% rispetto al 41% dei non diabetici) e un terzo è obeso (29% rispetto al 10% dei non diabetici); il 39% è inoltre sedentario (29% nei non diabetici). L’abitudine al fumo e il consumo a rischio di alcool non sono significativamente più frequenti nei diabetici; tuttavia, quasi 1 diabetico su 4 è fumatore (il 18% fuma più di 20 sigarette al giorno) e l’8% è un bevitore a rischio. È noto che i principali indicatori dello stato di salute generale (mortalità, attesa di vita) delle popolazioni europee e occidentali siano in continuo miglioramento. Che questo fenomeno virtuoso sia distribuito eterogeneamente nella popolazione, differenziandosi per livello sociale, è un dato meno conosciuto. Il miglioramento delle condizioni di vita per tutti gli strati sociali non ha condotto a una riduzione delle diseguaglianze di salute: ricerche svolte in diversi Paesi hanno rilevato come il 110 miglioramento generale dello stato di salute nelle classi sociali più svantaggiate risulti di entità minore rispetto a quello delle classi sociali più elevate, con conseguente accentuazione delle diseguaglianze. Il DT2 è un esempio paradigmatico di malattia cronica, in parte evitabile, che colpisce soprattutto le classi economicamente e socialmente più svantaggiate, chiamando in causa fattori legati al contesto politico e socioeconomico, alle condizioni di vita e lavoro, a fattori psicosociali. Nel mondo globalizzato delle abitudini alimentari e comportamentali, si sta assistendo a una crescente diffusione dell’obesità e del diabete, che coinvolge sia i Paesi economicamente sviluppati, sia quelli in via di sviluppo; in questo contesto è particolarmente rilevante la diffusione dell’obesità infantile, che interessa principalmente le famiglie socialmente povere. Uno studio che ha analizzato i dati provenienti da studi di sorveglianza nazionali svolti in otto Paesi europei ha stimato un rischio di diabete nelle persone meno istruite mediamente superiore del 60%, con un’alta variabilità tra Paesi (dal 16% della Danimarca al 99% della Spagna). L’Alameda County Study ha mostrato una prevalenza di DT2 del 4,5%, 2,5% e 1,6% tra chi aveva, rispettivamente, bassa, media e alta istruzione. Il Third National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) ha riportato un maggiore rischio di diabete nei gruppi a basso reddito, con un’associazione più forte tra le donne. In Italia, anche le persone meno istruite (senza titolo di studio o con licenza elementare) hanno una maggiore probabilità di essere affette da diabete rispetto a chi possiede un’istruzione più elevata, con un eccesso di rischio stimato pari a circa il 60%. Secondo i dati del sistema di sorveglianza PASSI, nel 2008 la prevalenza di diabete era 2,1% nelle persone laureate, rispetto al 14,1% nelle persone senza titolo di studio. Inoltre, le persone con Parte Seconda – La situazione attuale diabete socialmente deprivate si trovano in uno stato di vulnerabilità accentuato dalla difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari, nel seguire le terapie adeguate e nell’autogestione della malattia con evidenti conseguenze sulla prognosi della malattia. Numerosi sono gli studi che documentano l’associazione tra deprivazione socioeconomica e inadeguato controllo metabolico con una maggiore frequenza di complicanze micro- e macrovascolari nelle classi sociali più svantaggiate. In uno studio inglese di prevalenza è risultato che le persone socioeconomicamente svantaggiate hanno un rischio di circa 4 volte superiore di essere affette da patologia cardiaca o neuropatia e di 9 volte superiore di avere una retinopatia diabetica rispetto alle classi di livello socioeconomico più alto. I risultati di uno studio condotto dalla Commissione regionale per l’assistenza diabetologica del Piemonte mostrano come i diabetici con nessuna istruzione o licenza elementare riportino un rischio di subire un ricovero in emergenza o non programmato superiore del 90% rispetto ai laureati (al netto di alcuni fattori di rischio diversamente distribuiti tra i due gruppi). La maggiore prevalenza della malattia e la sua peggiore gestione si traducono in una maggiore mortalità per diabete nelle persone socialmente vulnerabili: a Torino, nel periodo 2004-2008, il tasso standardizzato di mortalità per diabete nelle persone con basso livello d’istruzione è stato 26/100.000, rispetto a 16/100.000 nelle persone con alto titolo di studio. Le normative nazionali e internazionali Le strategie internazionali specifiche sul diabete, di cui si deve tenere conto oggi, riguardano, in particolar modo, le indicazioni definite a livello europeo nel Consiglio EPSCO (Occupazione, Politica Sociale, Salute e Consumatori) del giugno 2006, i contenuti della Risoluzione ONU del di- 10 cembre 2006, le conclusioni del Forum di New York del marzo 2007 e i lavori della Commissione europea su “Information to patient”, che evidenziano la necessità di sviluppare politiche nazionali per la prevenzione, il trattamento e la cura del diabete. Questo deve essere in accordo con lo sviluppo sostenibile dei vari sistemi di assistenza sanitaria, nonché con l’elaborazione di strumenti adeguati per il raggiungimento di livelli di assistenza appropriati che abbiano l’obiettivo di stabilizzare la situazione patologica e migliorare la qualità di vita del paziente. In particolare, i due contributi più significativi, a livello europeo, sul tema del diabete rimangono ancora quelli della Presidenza irlandese (I semestre del 2004) e della Presidenza austriaca (I semestre del 2006). • Presidenza irlandese: durante il Consiglio della Sanità [il forum d’incontro dei Ministri della Sanità dell’Unione Europea (UE)], la Presidenza irlandese ha informato i colleghi dell’UE della necessità di riconoscere il crescente tasso di diffusione del diabete come questione d’interesse per la sanità pubblica europea. Ha suggerito che una strategia europea per il diabete potrebbe contribuire alla riduzione della spesa pubblica sanitaria in tutta l’UE. Il consenso ottenuto dall’Irlanda è stato il primo passo per collocare il diabete nell’ordine del giorno europeo. • Presidenza austriaca: gli austriaci hanno annunciato che il diabete avrebbe rappresentato una delle priorità del loro mandato alla Presidenza. La Presidenza austriaca ha organizzato di conseguenza una conferenza di alto livello sul diabete (Vienna, febbraio 2006) e ha incluso il diabete come voce formale nell’ordine del giorno dell’assemblea del Consiglio della Sanità nel giugno 2006. La conferenza ha portato a una serie di raccomandazioni – conosciute sotto il nome collettivo di “Dichiarazione di Vienna” 111 Ministero della Salute – che trattano numerosi aspetti del diabete, quali per esempio la prevenzione primaria e secondaria, la formazione degli operatori sanitari e l’attenzione particolare per gruppi vulnerabili come bambini, anziani e settori della popolazione socialmente svantaggiati. La Dichiarazione di Vienna ha posto l’accento sulla necessità di elaborare e attuare programmi nazionali sul diabete e una chiara strategia UE sul diabete e ha portato alle Raccomandazioni del Consiglio per la prevenzione, la diagnosi e il controllo del diabete. Le indicazioni europee spingono per un’“elaborazione di misure di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di prevenzione primaria e per una definizione di misure di prevenzione secondaria”, ponendo in particolare l’accento sull’utilità dell’adozione di un approccio gestionale globale, multisettoriale e pluridisciplinare nei confronti dei diabetici e sull’implementazione della formazione per il personale sanitario. In particolare, le conclusioni del Consiglio EPSCO sulla promozione di stili di vita e la prevenzione del DT2 e delle sue complicanze hanno evidenziato che il DT2 e le relative complicanze (cardiovascolari, renali, oftalmologiche e podologiche) sono spesso diagnosticati tardivamente e che le misure preventive, una diagnosi precoce e un’efficace gestione della malattia possono comportare una riduzione della mortalità dovuta al diabete, nonché un aumento dell’aspettativa e della qualità di vita nelle popolazioni europee. Pertanto, gli Stati membri sono stati invitati a ipotizzare interventi che, tenuto conto delle risorse disponibili, favoriscano la raccolta, la registrazione, il monitoraggio, la diffusione a livello nazionale di dati epidemiologici ed economici completi sul diabete e l’elaborazione e l’attuazione di piani quadro per la lotta contro il diabete. Inoltre, il Consiglio ha invitato la Commissione Europea a sostenere gli sforzi compiuti dagli Stati 112 membri per prevenire il diabete e a promuovere uno stile di vita sano, definendo il diabete come “una sfida di salute pubblica in Europa” e incoraggiando lo scambio d’informazioni tra gli Stati, con un’azione che rafforzi il coordinamento delle politiche e dei programmi di promozione e di prevenzione a favore, soprattutto, dei gruppi ad alto rischio, riducendo, al tempo stesso, le disuguaglianze e ottimizzando le risorse. È posta particolare attenzione all’utilità di “agevolare e sostenere la ricerca generale e clinica sul diabete a livello europeo”, con la necessità di attuare un’ampia diffusione dei risultati a livello dei Paesi europei e creando strumenti che permettano la comparabilità dei dati epidemiologici sul diabete e metodi corretti per il monitoraggio e la sorveglianza. La Risoluzione (61/225) adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU sul diabete nel dicembre 2006 ha riconosciuto altresì che il diabete è una malattia cronica, invalidante e costosa, associata a gravi complicanze, e che rappresenta un serio rischio per la famiglia, gli Stati membri e il mondo intero e che mette a repentaglio il raggiungimento degli obiettivi condivisi a livello internazionale, che includono i Millennium Development Goals. Inoltre, richiamando la risoluzione WHA 42.36 del 19 maggio 1989 della World Health Assembly sulla prevenzione e il controllo del diabete e quella WHA 57.17 del 22 maggio 2004 sulla strategia globale su dieta, attività fisica e salute, decide di designare il 14 novembre, l’attuale Giornata Mondiale del Diabete, come Giorno delle Nazioni Unite, da osservare ogni anno a partire dal 2007. Invita tutti gli Stati membri, le organizzazioni di rilievo del sistema delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, come pure le società civili, includendo le organizzazioni non governative e quelle del settore privato, a osservare la Giornata Mondiale del Diabete in maniera appropriata, in modo da aumentare la consapevo- Parte Seconda – La situazione attuale lezza pubblica sul diabete e le relative complicanze, così come la sua prevenzione e terapia, anche mediante l’educazione e i mass-media. Incoraggia gli Stati membri a sviluppare politiche nazionali per la prevenzione, il trattamento e la cura del diabete, in linea con lo sviluppo sostenibile dei propri sistemi sanitari, prendendo in considerazione gli obiettivi su cui sussiste un accordo internazionale, che includono i Millennium Development Goals. L’impegno del Ministero della Salute italiano in questi ultimi anni è stato quello di rendere attuali e innovativi i contenuti delle norme specifiche sul diabete, individuando strategie che richiedessero regole operative basate su un ampio dialogo e collaborazione fra tutti i principali protagonisti dell’assistenza al diabete, in una reale sinergia fra le Regioni, le Associazioni professionali, il Volontariato, le Istituzioni pubbliche e private. Il Servizio Sanitario oggi è considerato un “complesso di funzioni esercitate dai Servizi Sanitari Regionali, dagli Enti e dalle Istituzioni di rilievo nazionale, nonché dallo Stato, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione” e, come conseguenza, l’impegno richiesto per migliorare l’assistenza alla persona con diabete dovrà essere in linea con il contesto istituzionale e normativo attuale, caratterizzato dalla modifica del titolo V della Costituzione e dall’individuazione dei livelli essenziali di assistenza con il DPCM del 29 novembre 2001 e successive integrazioni. In tale assetto ordinamentale si possono ritenere tuttora attuali le finalità generali individuate dalla Legge n. 115 del 1987 e dall’Atto d’Intesa del 1991 e gli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale 20062008, che pone il diabete fra le quattro grandi patologie, insieme a malattie respiratorie, malattie cardiovascolari e tumori, evidenziando l’importanza della riorganizzazione delle cure primarie, dell’integrazione tra i diversi livelli di assistenza, esaltando al tempo stesso il ruolo del cittadino e della società 10 civile nelle scelte e nella gestione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Le strategie nazionali differentemente non possono non tenere conto, oltre che delle indicazioni dell’OMS e della Dichiarazione di Saint Vincent – che ponevano l’accento sullo sviluppo di un programma nazionale per il diabete e sull’importanza dell’intervento pubblico di governi e amministrazioni per assicurare la prevenzione e la cura della patologia diabetica – anche delle indicazioni europee. In particolare, le strategie nazionali, con le relative iniziative avviate dal Ministero della Salute, tengono conto delle disposizioni italiane specifiche esistenti sulla malattia (Legge n. 115 del 16 marzo 1987, Atto di Intesa del 1991, Decreto Ministeriale 8 febbraio 1982 e successive integrazioni) che già garantiscono un’adeguata tutela alle persone affette da malattia diabetica. Infatti, un miglioramento della qualità dell’assistenza potrebbe essere già assicurato sia con la completa applicazione di tali provvedimenti, sia con l’attuazione d’interventi organizzativi adeguati piuttosto che con modifiche legislative. L’Italia è stata il primo Paese al mondo a dotarsi di una specifica Legge (n. 115/87) che disciplina e identifica i criteri per l’assistenza alle persone affette da diabete e ne proclama i diritti anche dal punto di vista della discriminazione sul lavoro e nello studio. La Legge 115, poi resa in parte operativa dal Protocollo d’Intesa fra lo Stato e le Regioni del 1991, resta un esempio unico al mondo, che ha fortemente contribuito alla consapevolezza delle problematiche legate alla cura di soggetti affetti da una malattia di lunga durata e gravata da importanti complicanze. La Legge n. 115 del 16 marzo 1987 e il successivo Atto d’Intesa Stato-Regioni del 1991 rappresentano, quindi, la base legislativa di riferimento specifica per la programmazione dell’assistenza al paziente con diabete in Italia, in accordo con i diversi Piani Sanitari o disposizioni regionali. Queste norme 113 Ministero della Salute stabiliscono i canoni dell’assistenza, demandando alle Regioni l’applicazione delle norme al fine di promuovere modalità uniformi di assistenza. Entrambi i provvedimenti forniscono indicazioni per un’organizzazione dell’assistenza al soggetto con diabete, tenendo conto di alcune considerazioni importanti: • il diabete è una malattia cronica; • il diabete è una patologia cui va riconosciuto carattere di particolare rilievo sociale e che incide significatamene sulla spesa sanitaria; • ottimizzare l’assistenza al diabetico significa determinare un incremento dell’aspettativa di vita e un miglioramento della qualità della stessa. In particolare, l’Atto d’Intesa, definito ai sensi dell’art. 2 della Legge n. 115/1987, indica gli interventi idonei per l’individuazione delle fasce di popolazione a rischio per l’insorgenza di diabete, prevede la programmazione di specifici interventi sanitari e definisce criteri di uniformità riguardanti gli aspetti strutturali e organizzativi dei servizi diabetologici. I programmi di prevenzione che riguardano il diabete in Italia fanno riferimento a diverse linee d’attività, quali la Collaborazione con la Regione europea dell’OMS alla definizione di una strategia di contrasto alle malattie croniche, denominata Gaining Health. Questa cooperazione con l’OMS ha portato alla costruzione di una strategia europea di contrasto all’obesità: la predisposizione, attraverso il CCM e in collaborazione con l’ISS, del progetto IGEA (Integrazione, Gestione e Assistenza per la malattia diabetica), lo sviluppo e coordinamento del Piano Guadagnare Salute e la partecipazione dell’Italia alla definizione delle indicazioni europee sul diabete da parte del Consiglio EPSCO nel 2006. Il Ministero della Salute ha introdotto nel 2004 le complicanze del diabete tra le aree d’intervento prioritarie. Il documento è stato oggetto di accordo tra lo Stato e le Regioni 114 in data 6 aprile 2004 per l’erogazione delle quote vincolate agli obiettivi de Piano Santitario Nazionale 2003-2005, e infine modificato e integrato come Piano Nazionale della Prevenzione 20052007, allegato 2 all’Intesa Stato Regioni del 23 marzo 2005. Con tale Piano il SSN si è posto l’obiettivo di promuovere attivamente l’adesione consapevole dei cittadini agli interventi per la prevenzione delle principali patologie (malattie cardiovascolari, diabete, tumori, malattie infettive). Il Piano di Prevenzione Attiva considerava la prevenzione delle complicanze del diabete attuata tramite l’adozione di programmi di disease management, intendendosi con questo termine la strategia di gestione delle malattie croniche che prevede: • la partecipazione attiva del paziente nella gestione attiva della malattia (attraverso programmi di educazione e di supporto dello stesso, svolti a livello della rete primaria di assistenza); • l’attivazione di una catalogazione di sistemi atti a garantire la regolare esecuzione di una serie di controlli periodici da parte del paziente; • l’attivazione di un sistema di monitoraggio, su base informatizzata. Nella riunione del 29 aprile 2010 della Conferenza Stato-Regioni è stata sottoscritta l’Intesa sul Piano Nazionale della Prevenzione 2010-2012, che individua le seguenti macro-aree d’intervento: la medicina predittiva, i programmi di prevenzione sia collettiva sia rivolti a gruppi di popolazione a rischio, i programmi volti a prevenire le complicanze e le recidive di malattia. Monitoraggio dei provvedimenti regionali di recepimento e attuazione della Legge 115/1987 e dell’Atto di Intesa Stato-Regioni del 1991 L’analisi dei provvedimenti regionali pervenuti presso la Direzione Generale della Programma- Parte Seconda – La situazione attuale zione di questo Ministero, aggiornata al 31 dicembre 2010, ha evidenziato come la regolamentazione a livello locale dell’assistenza diabetologica sia abbastanza omogenea per quanto riguarda la parte sanitaria, meno per quanto riguarda l’impatto sociale della patologia. Quasi tutte le Regioni hanno recepito la Legge n. 115 del 1987, ma in diversi casi si è trattato solo di un semplice riferimento contenuto nei piani sanitari triennali o in leggi di portata più generale. Solo alcune hanno accolto il provvedimento nazionale con specifiche delibere di giunta regionale contenenti, altresì, indicazioni attuative. La maggior parte delle Regioni ha, tuttavia, adottato in materia ulteriori provvedimenti, dedicati in alcuni casi all’organizzazione generale della rete assistenziale, in altri a specifici settori della stessa. Per quanto concerne, in particolare, la rete d’assistenza, quasi tutte le Regioni hanno previsto l’istituzione di servizi specialistici diabetologici, sia a livello ospedaliero, nell’ambito di un sistema dipartimentale interdisciplinare e polispecialistico, sia a livello territoriale. Non sempre, tuttavia, si è riuscito a definirne con esattezza il ruolo. È previsto da quasi tutte le Regioni l’affidamento degli stessi ai diabetologi pediatri nei servizi di diabetologia pediatrica, mentre mancano in molti casi le indicazioni sull’istituzione delle equipe pediatriche di diabetologia con attribuzione di personale dedicato. Appaiono altresì scarse le indicazioni relative alla definizione del ruolo svolto dai medici di medicina generale (MMG), né si è provveduto alla definizione di specifici programmi di assistenza da parte degli stessi MMG e pediatri di libera scelta (PLS), 10 secondo quanto previsto dai DPR e dai contratti decentrati. La definizione di un collegamento organizzativo tra ospedale e territorio per assicurare un’adeguata continuità assistenziale è contenuta in quasi tutti i provvedimenti regionali, come pure la previsione e istituzione di specifiche commissioni di esperti. Non appare ancora chiaro, invece, il ruolo svolto dai distretti nell’ambito della rete assistenziale per il paziente con diabete mellito. Le Regioni che hanno fornito indicazioni sulla formazione del personale sanitario, così come sugli interventi di educazione sanitaria rivolti alla popolazione diabetica, sono poche. Con riferimento a questo ultimo aspetto, appaiono altresì scarse le indicazioni fornite dalle Regioni sui campi scuola. Per quanto concerne la regolamentazione di specifici aspetti legati alla materia in oggetto, tutte le Regioni hanno fornito, seppure spesso in maniera contrastante, indicazioni sull’erogazione dei presidi sanitari. Poche sono le Regioni che hanno fornito indicazioni sull’inserimento dei diabetici nelle attività scolastiche, nelle attività sportive e in quelle lavorative. Del tutto assenti, del resto, sono le indicazioni sul reinserimento sociale dei cittadini colpiti da gravi complicanze postdiabetiche. L’importanza dell’attività svolta dalle Associazioni di Volontariato è riconosciuta dalla maggior parte delle Regioni. Sotto il profilo della prevenzione, infine, sono poche le Regioni che individuano fasce di popolazione a rischio diabete e ancora meno sono quelle che prevedono specifici interventi operativi sulle stesse. 115 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 11. Appropriatezza clinica Appropriatezza diagnostica L’appropriatezza diagnostica del diabete si basa sull’utilizzo corretto di criteri che sono maturati nel corso degli anni e che sono stati di recente ulteriormente definiti. Tali criteri sono riportati nella Tabella 11.1. La misurazione della glicemia a digiuno o durante test da carico orale di glucosio (oral glucose tolerance test, OGTT), nonché il dosaggio dell’HbA1c consentono anche di individuare soggetti a rischio di diabete e di malattia cardiovascolare. Si parla, in- Tabella 11.1 Criteri diagnostici per il diabete In presenza dei sintomi tipici della malattia (poliuria, polidipsia, calo ponderale), la diagnosi di diabete si pone con il riscontro, anche in una sola occasione, di glicemia casuale ≥ 200 mg/dl (indipendentemente dall’assunzione di cibo) A prescindere dai sintomi tipici della malattia, la diagnosi di diabete si pone con il riscontro, confermato in almeno due diverse occasioni di: • HbA1c ≥ 6,5% (solo con dosaggio allineato con il metodo DCCT/UKPDS) oppure • glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (con dosaggio dopo almeno 8 ore di digiuno) oppure • glicemia ≥ 200 mg/dl 2 ore dopo carico orale di glucosio (eseguito con 75 g) DCCT, Diabetes Control and Complications Trial ; UKPDS, UK Prospective Diabetes Study. fatti, di alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG) in caso di valori di glicemia a digiuno tra 100 e 125 mg/dl e di ridotta tolleranza al glucosio (impaired glucose tolerance, IGT) quando la glicemia a 2 ore dopo carico orale di glucosio è di 140-199 mg/dl. Quest’ultima condizione è diagnosticata anche in caso di valori di HbA1c da 5,7% a 6,4 % o da 6,00% a 6,49% secondo la voce bibliografica. In tutte queste situazioni (precedentemente definite come prediabete) deve essere ricercata la presenza di altri fattori di rischio per l’insorgenza del diabete (obesità, familiarità ecc.) al fine di programmare interventi per ridurre l’incidenza della malattia. Si dovrà inoltre accertare la presenza di aggiuntivi fattori di rischio cardiovascolare (dislipidemia, ipertensione ecc.) per definire il rischio cardiovascolare globale e instaurare gli opportuni provvedimenti terapeutici. Infine, nei soggetti con alterata glicemia a digiuno, soprattutto in presenza di altri fattori di rischio per l’insorgenza del diabete, è utile l’esecuzione del test con OGTT per una migliore definizione diagnostica e prognostica del disturbo metabolico. In conclusione, si ricorda come, ora, il dosaggio della glicemia a digiuno, l’esecuzione dell’OGTT o la misurazione dell’HbA1c siano ritenuti ugualmente utili per la diagnosi di diabete, pur nella consapevolezza delle differenze fra tali valutazioni. 117 Ministero della Salute Per esempio, la glicemia a digiuno può evidentemente identificare una condizione di IFG mentre l’OGTT può individuare sia l’IFG sia l’IGT. Tuttavia, la valutazione dell’HbA1c è considerata, nel complesso, più affidabile, purché si utilizzi un metodo allineato con lo standard DCCT/UKPDS (Diabetes Control and Complications Trial/UK Prospective Diabetes Study) e non sussistano condizioni che rendano problematica l’interpretazione del suo valore (in particolare emoglobinopatie, malaria, anemia cronica o emolitica, recente emorragia o trasfusione, splenectomia, uremia, marcata iperbilirubinemia, marcata ipertrigliceridemia, marcata leucocitosi, alcolismo). I motivi di questa maggiore affidabilità HbA1c sono molteplici e includono una migliore standardizzazione del dosaggio, una minore instabilità preanalitica e variabilità biologica, la non necessità di un prelievo dopo 8 ore di digiuno o dopo glucosio orale, la mancanza d’influenza da parte di perturbazioni acute (es. stress da prelievo). Inoltre, come ben noto, l’HbA1c è espressione della glicemia media di un lungo periodo (2-3 mesi) e non di un singolo momento. Alla luce di quanto finora discusso, è evidente come il percorso diagnostico del diabete sia ben stabilito. Tuttavia, si ritiene che, in Italia, circa un terzo di tutti i casi di diabete (pari a 1-2 milioni di persone) sia misconosciuto e che, in generale, la diagnosi clinica di questa malattia sia mediamente preceduta da una fase asintomatica della durata di circa 7 anni. Durante questo periodo l’iperglicemia esercita effetti deleteri a livello dei tessuti bersaglio [tant’è vero che, per esempio, alla diagnosi di diabete di tipo 2 (DT2) sono spesso già presenti le complicanze croniche del diabete]; è verosimile che una diagnosi precoce della malattia consenta di ridurre il rischio d’insorgenza di complicanze croniche. Questo implica la necessità di programmare azioni di screening, tramite le quali valutare soggetti 118 asintomatici e identificare quelli più probabilmente affetti dalla malattia d’interesse. In linea generale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito i criteri che rendono un test di screening appropriato. Tale condizione si realizza se il test è semplice da eseguire, facile da interpretare, accettabile dalla persona cui è proposto, di elevata accuratezza diagnostica, ripetibile nel tempo e dotato di un favorevole rapporto costo-beneficio. Lo screening di massa è al momento sconsigliato per quanto riguarda il DT2, mentre l’adozione di strategie di prevenzione secondaria rivolte a soggetti ad alto rischio consente di ottenere vantaggi in misura superiore ai potenziali svantaggi. I criteri per l’individuazione dei soggetti da valutare sono riportati nella Tabella 11.2. Per quanto riguarda eventuali controlli successivi, se i test eseguiti sono negativi, possono essere ripetuti ogni 3 anni, mentre in caso di aumentato rischio il follow-up dovrà essere consequenzialmente più stringente, in relazione al quadro clinico emerso. Tabella 11.2 Criteri per l’individuazione dei soggetti a rischio per l’insorgenza di diabete di tipo 2 Adulti di ogni età, se il BMI è ≥ 25 kg/m2 e in presenza di fattori di rischio aggiuntivi quali: • Precedente IFG e/o IGT • Pregresso diabete gestazionale • Inattività fisica • Familiarità di primo grado con pazienti affetti da DT2 (genitori, fratelli) • Appartenenza a gruppo etnico ad alto rischio • Ipertensione arteriosa (≥ 140/90 mmHg) o terapia antipertensiva in atto • Livelli di colesterolo HDL ≤ 35 mg/dl e/o di trigliceridi ≥ 250 mg/dl • Nella donna, parto di un neonato di peso > 4 kg • Sindrome dell’ovaio policistico o altre condizioni d’insulinoresistenza come l’acanthosis nigricans • Adulti di età ≥ 45 anni, in assenza dei fattori di rischio elencati al punto precedente BMI, indice di massa corporea; DT2, diabete di tipo 2; HDL, lipoproteine a elevata densità; IFG, alterata glicemia a digiuno; IGT, alterata tolleranza al glucosio. Parte Seconda – Appropriatezza clinica Obiettivi terapeutici Numerosi studi d’intervento hanno ormai chiaramente dimostrato come la prevenzione dello sviluppo delle complicanze croniche (macro- e microvascolari) del diabete (o almeno una loro più lenta progressione) passi attraverso una precoce e attenta strategia terapeutica volta al controllo di molteplici fattori di rischio, e come tutto questo abbia poi anche effetti positivi sull’aspettativa di vita dei pazienti. Tali fattori di rischio (alcuni non modificabili, altri direttamente aggredibili) sono rappresentati, in particolare, da età, sesso, familiarità per coronaropatia o morte improvvisa, durata del diabete, controllo glicemico, attività fisica, fumo, peso corporeo e distribuzione del grasso corporeo, pressione arteriosa, lipidi plasmatici, microalbuminuria. La Tabella 11.3 riporta le raccomandazioni attualmente condivise circa alcuni degli obiettivi terapeutici da perseguire nei pazienti diabetici per quanto riguarda il controllo glicemico, la pressione arteriosa e i lipidi plasmatici. Tabella 11.3 Obiettivi terapeutici da raggiungere nel trattamento del diabete di tipo 2 per il controllo della glicemia, della pressione arteriosa e dei lipidi plasmatici Parametro Obiettivo Glicemia a digiuno e preprandiale Glicemia postprandiale* HbA1c# Pressione arteriosa$ Colesterolo LDL§ Colesterolo HDL 70-130 mg/dl < 180 mg/dl < 7,0% < 130/80 mmHg < 100 mg/dl > 40 mg/dl nell’uomo > 50 mg/dl nella donna < 150 mg/dl Trigliceridi * Misurata 2 ore dopo l’inizio del pasto; valori < 140 mg/dl nei pazienti con diabete di tipo 2. # Vedi testo per discussione circa i casi in cui perseguire HbA < 6,5%. 1c $ < 125/75 mmHg nei pazienti con proteinuria > 1 g/die. § Nei pazienti con malattia cardiovascolare valori < 70 mg/dl possono essere un obiettivo opzionale. 11 Il controllo glicemico è di fondamentale importanza nella gestione del diabete. Studi clinici randomizzati controllati come il DCCT, condotto in soggetti con diabete di tipo 1 (DT1), l’UKPDS e lo studio ADVANCE, condotti in soggetti con DT2, hanno dimostrato come il miglioramento del compenso glicemico sia associato alla riduzione dell’incidenza di complicanze microangiopatiche. Lo studio DCCTEDIC (follow-up osservazionale dei pazienti reclutati nel DCCT) ha dimostrato, inoltre, come gli effetti protettivi del trattamento intensivo sul rischio di malattia microvascolare si mantengano nei diabetici tipo 1 anche dopo alcuni anni dal termine del trial, malgrado il controllo glicemico nel gruppo in trattamento intensivo fosse divenuto equivalente a quello del trattamento standard durante i quattro anni di osservazione. Analogamente a quanto osservato nello studio DCCT-EDIC, il follow-up a distanza di 10 anni dalla conclusione dell’UKPDS ha confermato, nei pazienti con diabete di tipo 2, i benefici sulle complicanze microvascolari osservati nel gruppo in trattamento intensivo durante la prima fase dello studio, sebbene il controllo glicemico fosse divenuto, anche in questo caso, equivalente a quello dei pazienti in trattamento standard. Per quanto riguarda il ruolo del controllo glicemico sulla riduzione degli eventi cardiovascolari, i dati a disposizione non sono univoci. Diversi studi osservazionali prospettici e metanalisi hanno dimostrato che il rischio di complicanze macrovascolari nel diabete correla con i valori di HbA1c, il che suggerisce che il miglioramento dei livelli glicemici possa prevenire o comunque ridurre l’incidenza degli eventi cardiovascolari. Questa ipotesi ha ritrovato finora solo parziale supporto negli studi clinici d’intervento. Nel già ricordato studio DCCT, è stata osservata una tendenza verso la riduzione degli eventi cardiovascolari nel gruppo di pazienti con DT1 in trattamento intensivo rispetto al gruppo con terapia standard, senza però che ciò 119 Ministero della Salute fosse confortato da significatività statistica. Tuttavia, il follow-up del trial ha dimostrato che gli effetti protettivi del trattamento intensivo sul rischio di malattia cardiovascolare nei pazienti con DT1 diventano significativi a 11 anni di distanza dal termine della fase d’intervento. Nei pazienti con DT2, lo studio UKPDS riporta nei pazienti in trattamento intensivo, e quindi meglio controllati, una riduzione dell’infarto del miocardio del 16% (al limite della significatività statistica). La differenza è tuttavia divenuta significativa durante il successivo studio osservazionale, dal quale è anche emerso che il migliore controllo glicemico si associava a riduzione della mortalità totale e per malattie cardiovascolari. Tre studi d’intervento più recenti hanno invece dimostrato che l’ottimizzazione del controllo glicemico (HbA1c < 6,5% o < 7,0%) non ha portato a una riduzione significativa degli eventi cardiovascolari. Anzi, in uno di essi è stato riportato un aumento della mortalità totale e cardiovascolare nel gruppo a controllo glicemico ottimizzato. Tali risultati, tuttavia, sono almeno in parte riconducibili ai limiti intrinseci negli studi disponibili (inclusione di diabetici con lunga durata di malattia, alta percentuale di pazienti con neuropatia e altre complicanze croniche, eccessiva e forse troppo rapida riduzione dell’HbA1c, aumento di frequenza dell’ipoglicemia, insufficiente durata del follow-up). Si evince quindi, dai dati disponibili, come l’ottimizzazione del controllo glicemico così da avere valori di HbA1c intorno a 6,5-7,0% sia appropriata al fine di ridurre il rischio di microangiopatia (in particolare retinopatia e nefropatia) nei pazienti con DT1 e DT2. Si devono perseguire, differentemente, il raggiungimento e il mantenimento di valori di HbA1c ≤ 7,0% per quanto riguarda la prevenzione dello sviluppo e/o della progressione delle complicanze macrovascolari. Tuttavia, nel DT2 gli obiettivi glicemici più stringenti (HbA1c 120 ≤ 6,5%) possono essere perseguiti in tutti quei soggetti in cui l’ottimizzazione dei valori della glicemia può essere ottenuta senza eccessivi rischi di ipoglicemie o altri effetti collaterali, in assenza di patologie cardiache, e specialmente se il trattamento intensivo è iniziato al momento della diagnosi. Peraltro, in pazienti anziani e fragili, con lunga durata della malattia, con storia clinica di gravi ipoglicemie, con ridotta aspettativa di vita, così come in presenza di complicanze micro- e macrovascolari avanzate o comorbilità, ci si dovrà limitare a perseguire un compenso glicemico meno ambizioso (HbA1c 7,0-7,5%). Dal punto di vista operativo, il dosaggio dell’HbA1c deve essere effettuato almeno due volte l’anno in ogni paziente diabetico, anche allorquando il controllo glicemico sia stabilmente nell’ambito dell’obiettivo terapeutico. Nei pazienti in cui è stata modificata la terapia antidiabetica, oppure l’obiettivo non è stato ancora raggiunto o stabilizzato, il dosaggio dell’HbA1c deve essere effettuato ogni 3 mesi. Un altro aspetto importante è quello riguardante la pressione arteriosa. È ben noto, infatti, come l’ipertensione arteriosa sia una comorbilità comune del DT2 e rappresenti un importantissimo fattore di rischio per lo sviluppo di patologia cardiovascolare e complicanze microvascolari. È stato dimostrato, in studi d’intervento, che valori di pressione arteriosa < 130 mmHg per la sistolica e < 80 mmHg per la diastolica si associano a riduzione di eventi coronarici, ictus e incidenza di nefropatia. Questi studi supportano anche la raccomandazione di un livello target di pressione diastolica di 80 mmHg, in quanto ciò comporta una significativa riduzione delle complicanze micro- e macrovascolari, nonché della mortalità cardiovascolare e diabete-correlata. Il conseguimento di una pressione arteriosa sistolica di circa 130 mmHg è associato a una ridotta mortalità totale e a una minore incidenza di ictus. Un obiettivo pressorio ≤ 125/75 mmHg è invece raccomandato Parte Seconda – Appropriatezza clinica per i soggetti diabetici con proteinuria ≥ 1 g/die. È da notare che, a differenza di quanto osservato per il controllo glicemico, per il quale persistono effetti positivi anche alcuni anni dopo il perseguimento dell’ottimizzazione dei valori di glicemia, nei pazienti con DT2 l’azione benefica del buon controllo pressorio sussiste fintanto che tale buon controllo è mantenuto, mentre scompare rapidamente in caso di ritorno a valori pressori non adeguati. La pressione arteriosa va misurata a ogni visita medica e la diagnosi di ipertensione arteriosa in un paziente con DT2 va posta in caso di riscontro, in due occasioni separate, di valori ≥ 130 mmHg per la sistolica e/o ≥ 80 mmHg per la diastolica. In caso di trattamento farmacologico, i pazienti dovrebbero essere monitorati frequentemente e la dose del farmaco aggiustata finché non siano raggiunti gli obiettivi pressori raccomandati. Di fondamentale importanza è anche il controllo adeguato dei parametri lipidici. Numerosi studi clinici hanno fornito evidenze scientifiche molto forti sull’efficacia del trattamento ipocolesterolemizzante, in particolare con le statine, nella popolazione generale, in prevenzione sia primaria sia secondaria. Sebbene gli studi effettuati nella popolazione diabetica siano in numero inferiore, le conclusioni vanno nella medesima direzione. Due recenti metanalisi dimostrano che la riduzione di 1 mmol di colesterolo LDL induce, nei pazienti con DT2, una riduzione significativa della mortalità totale, di quella cardiovascolare e di tutti gli eventi cardiovascolari. Inoltre, la riduzione del rischio relativo e di quello assoluto è significativamente presente, indipendentemente dal livello di colesterolo LDL iniziale, in prevenzione sia primaria sia secondaria. I risultati di numerosi studi epidemiologici riportano che anche l’ipertrigliceridemia e i bassi livelli di colesterolo HDL sono da considerarsi fattori di rischio cardiovascolare indipendenti. Mancano, tuttavia, evidenze scientifiche solide sul ruolo del 11 trattamento di queste due alterazioni nel ridurre gli eventi cardiovascolari, in particolare in prevenzione primaria. Nella pratica clinica, la riduzione del colesterolo LDL rimane il primo obiettivo terapeutico; tuttavia, nei casi in cui i trigliceridi e/o il colesterolo HDL non siano entro gli intervalli raccomandati, vanno prese in considerazione terapie aggiuntive (fibrati, acido nicotinico). I dati sulla sicurezza dell’associazione delle statine con altri farmaci antidislipidemici, specie in relazione al rischio di miosite, non sono definitivi, sebbene i risultati disponibili indichino che, in particolare, l’aggiunta di fenofibrato alle statine non aumenta il rischio di eventi avversi. I controlli dei parametri lipidici vanno misurati almeno una volta l’anno. Tuttavia, nei soggetti in cui (in assenza di terapia antidislipidemica) il profilo è particolarmente buono (colesterolo LDL < 100 mg/dl, colesterolo HDL > 50 mg/dl, trigliceridi < 150 mg/dl), è sufficiente eseguire il controllo ogni 2 anni. Da quanto esposto, emerge chiaramente come sia necessario avere obiettivi precisi da perseguire se si vuole intervenire favorevolmente sulla prognosi dei pazienti diabetici. Non a caso, negli studi d’intervento in cui i molteplici fattori di rischio per patologia vascolare erano aggrediti simultaneamente si sono raggiunte impressionanti riduzioni degli eventi cardiovascolari e della mortalità. Educazione terapeutica Premessa metodologica L’educazione terapeutica va distinta dall’educazione sanitaria e dall’informazione sanitaria. Per educazione sanitaria s’intende l’insieme d’informazioni generali sulle norme di comportamento, conoscenze, atteggiamenti, abitudini, valori che contribuiscono a esporre a (o a proteggere da) un danno 121 Ministero della Salute alla salute. Si riferiscono specificamente a soggetti sani e non possono comprendere norme generali che si apprendono in ambiente familiare, scolastico, sociale e non solo medico. Un esempio può essere rappresentato dai “consigli” forniti in farmacia direttamente o attraverso opuscoli, manifesti, libretti. Per informazione sanitaria s’intende la diffusione di qualsiasi informazione di carattere sanitario senza verifica dell’effetto che la trasmissione dei messaggi informativi provoca nei destinatari. Può essere attuata mediante messaggi verbali diretti, filmati, opuscoli, manifesti. Un esempio può essere fornito da opuscoli, poster e video presenti nelle sale d’attesa delle strutture sanitarie. Un altro esempio può essere fornito dalla campagna di spot televisivi promossi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per educazione terapeutica s’intende un complesso di attività educative che si rivolge a specifiche categorie di soggetti e che si esplica attraverso la trasmissione di conoscenze, l’addestramento a conseguire abilità e a promuovere modifiche dei comportamenti. Per sua natura presuppone specifiche competenze degli educatori non solo di tipo scientifico, ma anche comunicativo, l’utilizzo di specifiche metodologie e la verifica dei risultati ottenuti per ciascuno dei tre campi dell’educazione. Alcuni esempi di educazione terapeutica strutturata sono offerti dagli approcci in equipe oggetto di pubblicazione da parte dell’Università degli Studi di Torino e del Gruppo di Studio ETS (Educazione Terapeutica Strutturata) dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD). Scopo dell’educazione terapeutica L’educazione terapeutica ha come scopo quello di migliorare l’efficacia delle cure del diabete mellito attraverso la partecipazione attiva e responsabile delle persone con diabete al programma delle cure. Il miglioramento non solo degli stili di vita, ma anche delle abilità personali nelle attività di 122 supporto alle cure e alle scelte di modifiche concordate dei trattamenti (es. modifiche delle dosi dell’insulina da praticare dopo opportuno counting dei carboidrati), è responsabile della maggiore efficacia delle cure stesse e del benessere psicofisico delle persone con diabete. Metodologia didattica L’approccio didattico attualmente considerato più efficace è rivolto a potenziare le capacità delle persone con diabete a operare scelte informate di autogestione. La terminologia “educazione all’autogestione del diabete” [Diabetes Self-Management Education (DSME), adottata sia dall’American Diabetes Association (ADA) sia dall’International Diabetes Federation (IDF)] riflette il riconoscimento che il 95% delle cure del diabete è fornito dalle persone con diabete e dalle loro famiglie. L’educazione è stata una parte integrante della cura intensiva del DT1 nel DCCT, così come l’educazione alimentare ha avuto un impatto significativo nell’UKPDS (DT2) prima della randomizzazione; come conseguenza di questi dati, l’educazione è considerata una parte essenziale della cura del diabete. Evidenza sull’efficacia Molti studi hanno riscontrato che l’educazione all’autogestione del diabete è associata a: miglioramento della conoscenza del diabete, miglioramento nelle modalità di autocura, miglioramento negli esiti, come la riduzione dell’HbA1c, calo ponderale riferito e miglioramento della qualità della vita. I migliori esiti nel medio termine sono stati riferiti con l’educazione all’autogestione del diabete di più lunga durata, che includeva un rinforzo educativo nel follow-up, era adattata alle esigenze e preferenze individuali e indirizzata ai problemi psicosociali. Parte Seconda – Appropriatezza clinica 11 L’evidenza attualmente disponibile in merito a specifici modelli educativi, tecniche e frequenza degli incontri indica nel modello educativo-terapeutico di gruppo di lunga durata un approccio che ha dimostrato per il DT2 efficacia nel migliorare alcuni parametri di controllo come l’HbA1c e la pressione arteriosa, oltre che le conoscenze sul diabete. La presenza di un’attività infermieristica nel coordinamento degli interventi educativi e l’inserimento nell’attività clinica quotidiana, coordinata da infermieri e dietisti, di modelli educativo-terapeutici di gruppo sono efficaci a breve e medio termine, anche in pazienti con DT1. Modelli applicativi Il Gruppo Italiano Studio Educazione Diabete (GISED), equivalente italiano del Gruppo di Studio europeo DESG (Diabetes Education Study Group), è attivo in ambito di ricerca e formazione per l’educazione terapeutica della persona con diabete. In ambito di formazione continua sono attive la Scuola di Formazione permanente dell’AMD, la Scuola di Formazione Permanente dell’associazione infermieristica OSDI (Associazione Operatori Sanitari di Diabetologia Italiani) e il Gruppo di Lavoro Educazione Terapeutica Strutturata. Un’indagine promossa dal GISED nel 2004 su 650 strutture diabetologiche censite dall’AMD fornisce le seguenti informazioni: • l’applicazione nella realtà clinica secondo il modello organizzativo attuale presenta difficoltà; • il tempo dedicato dai diversi operatori sanitari all’attività educativa copre una parte minima dell’orario settimanale; • l’educazione viene svolta in molti casi in maniera non strutturata; • gli interventi di gruppo sono attuati solo in poco più della metà dei centri e non sempre si hanno orari e/o spazi dedicati; • è presente un diminuito utilizzo di tecniche metodologicamente adeguate; • la valutazione e/o la registrazione dell’attività educativa spesso non sono eseguite, per carenze di organico o strutturali. Una corretta implementazione di attività di educazione terapeutica va attuata in equipe, da personale formato, mediante l’uso di metodologia rigorosa, linguaggio omogeneo e verifica dei risultati a breve e medio termine. L’efficacia di questo tipo di attività educativa va tradotta in verifiche dei comportamenti dei destinatari e in outcome clinici misurabili. L’attività di educazione terapeutica va rinforzata periodicamente in funzione dei percorsi diagnostico-terapeutici attuati, della tipologia e dei bisogni delle persone con diabete. Il modello assistenziale ed educativo che ha permesso di migliorare il compenso clinico-metabolico nel paziente con DT2 e la qualità di vita è quello della terapia di gruppo o “Group Care”, che risulta avere un beneficio costo-efficace. Secondo la rassegna del NICE, il rapporto costo-efficacia dipende dal tipo di programma educativo; nonostante la scarsità delle evidenze riguardanti il costo dell’educazione in generale, si conclude che, dati i costi relativamente contenuti associati ai programmi, anche modesti miglioramenti in termini di morbilità giustificano ampiamente gli interventi educativi strutturati. Gli interventi educativi sono più efficaci se strutturati in un sistema integrato d’interventi diversificati di formazione degli operatori sanitari e sull’organizzazione, così com’è avvenuto nel modello educativo-terapeutico della “Group Care”. Esperienze italiane ed evidenze 123 Ministero della Salute Strumenti formativi disponibili Gli strumenti di formazione degli operatori sanitari all’educazione terapeutica messi a disposizione dal GISED, della Scuola di Formazione dell’AMD e dell’OSDI sono: • pacchetti educativi per equipe diabetologiche (primo pacchetto: Prevenzione delle lesioni al piede); • corsi di formazione per operatori sanitari di diabetologia basati sul Curriculum del DESG [Diabetes Education Study Group dell’EASD (European Association for the Study of Diabetes)]; • corsi di formazione per equipe diabetologiche per l’educazione del paziente alla terapia con microinfusore; • manuali sull’educazione terapeutica strutturata AMD. Alcuni ulteriori strumenti di formazione sono: • Master Universitari e Interuniversitari di II livello in Diabetologia rivolti al medico specialista e al medico di medicina generale che hanno uno specifico interesse nel diabete mellito [con il patrocinio AMD e SID (Società Italiana di Diabetologia)]; • Simposi OSDI (Operatori Sanitari di Diabetologia Italiani) di aggiornamento nei congressi nazionali dell’AMD (Congresso Nazionale) e SID (Panorama Diabete e Congresso Nazionale); • pubblicazioni di riviste periodiche come Il Diabete e relativo sito web (organo ufficiale della SID); • organizzazione di stand per la divulgazione informativa e lo screening della glicemia nella giornata Mondiale del Diabete (14 novembre) ed eventi regionali organizzati da AMD e SID per sensibilizzare la popolazione sulla problematica preventiva e clinico-diagnostica del diabete mellito. 124 Ricadute di una carente o assente azione educativa Come detto nella premessa metodologica, lo scopo dell’educazione terapeutica strutturata è modificare comportamenti sbagliati o potenzialmente dannosi alla salute: se l’azione di addestramento dei pazienti si ferma all’“informazione” e non evolve verso la vera educazione terapeutica strutturata confortata da verifiche di efficacia, allora possono essere vanificati molti degli sforzi organizzativi e dei progressi tecnologici realizzati negli ultimi anni come presupposti per un’appropriatezza clinica e organizzativa. L’esempio concreto più eclatante di questo concetto è offerto da un’azione apparentemente banale come la modalità d’iniezione corretta dell’insulina. Se non viene insegnata ai diabetici la corretta procedura d’iniezione e non ne viene verificata la corretta esecuzione, possono prodursi lesioni cutanee ben visibili, come lipoipertrofie, ecchimosi, noduli ecc. (Figure 11.1, 11.2, 11.3, 11.4 e 11.5) che modificano sostanzialmente la farmacocinetica dell’insulina, provocando un cattivo controllo del diabete e un elevato rischio di ipoglicemie, che causerà due importanti effetti: 1) i pazienti avranno paura dell’insulina e di conseguenza si avrà un drastico calo dell’aderenza al trattamento; 2) le ipoglicemie comporteranno aggravio dei costi per aumento dei ricoveri in emergenza per complicanze come severe ipoglicemie ed eventi cardio- e cerebrovascolari altrettanto pericolosi e costosi per il sistema (per ulteriori approfondimenti vedi Appendice 1). Gli standard di cura italiani e loro applicabilità Gli standard italiani per la cura del diabete mellito qui proposti sono stati redatti dalle due Società scientifiche di diabetologia italiane (AMD e SID) Parte Seconda – Appropriatezza clinica 11 Figura 11.1 Lesioni lipoipertrofiche nelle sedi di iniezione di insulina. Figura 11.2 Grosso nodulo lipoipertrofico al terzo medio della coscia sinistra da ripetute iniezioni di insulina nella stessa sede. Figura 11.3 Lesioni ecchimotiche causate da ripetute iniezioni di insulina fatte sempre nella stessa sede. Fase prodtomica di lipoipertrofia. 125 Ministero della Salute Figura 11.4 Lesioni ecchimotiche e stravasi ematici estesi, nelle sedi di iniezione di insulina. Paziente senza turbe coagulative da altra patologia o da farmaci antiaggreganti/anticoagulanti. Essi costituiscono il modello di riferimento scientifico per la cura del diabete, sia per gli obiettivi, sia per i processi. Possono essere utilizzati da tutte le figure professionali coinvolte nella cura delle persone con diabete, quale riferimento scientifico per la gestione integrata, il disease management, l’accreditamento professionale, la necessità quotidiana negli ambiti aziendali di creare percorsi diagnostici terapeutici efficaci ed efficienti. Il livello delle prove scientifiche alla base di ogni raccomandazione è stato classificato secondo quanto previsto dal Piano Nazionale delle Linee Guida (Tabella 11.4). Il documento riporta gli obiettivi ritenuti “desiderabili” nella gestione della maggior parte delle persone affette da diabete, pur nel rispetto di preferenze individuali (equità) e tenendo conto di comorbilità in una logica di condivisione con altri specialisti (multidisciplinarità). Metodologia Figura 11.5 Noduli lipoipertrofici in sede periombelicale con l’intento di fornire ai clinici, ai pazienti, ai ricercatori e a quanti sono coinvolti nella cura del diabete raccomandazioni per la diagnosi, il trattamento del diabete e delle sue complicanze e per il raggiungimento di obiettivi di trattamento – suffragati dal grado di evidenza scientifica – sui quali basare le scelte diagnostico-terapeutiche, fornendo anche indicazioni su strumenti di valutazione della qualità della cura, riferiti alla realtà italiana. 126 Esistono diverse Linee guida internazionali sul diabete mellito: in particolare, gli Standards of medical care dell’ADA rappresentano da molti anni un riferimento per i diabetologi per la loro pragmaticità e l’aggiornamento sistematico, corredato per ogni Raccomandazione dai Livelli dell’Evidenza. Non sempre, tuttavia, standard di cura creati per altre popolazioni e altre situazioni sociosanitarie sono applicabili alla realtà italiana. È quindi opportuno che su alcune divergenze esistenti nell’ambito della comunità diabetologia internazionale venga assunta una posizione nazionale per l’applicazione nella clinica pur nel rispetto delle fonti primarie disponibili in letteratura, adattandole e finalizzandole alla realtà italiana, con il fine di fornire strumenti di verifica mediante indicatori di processo e di esito, già sperimentati nella realtà clinica italiane rappresentati dai File Dati AMD e SID. Parte Seconda – Appropriatezza clinica 11 Box 11.1 Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito AMD-SID 2009-2010 (www.aemmedi.it) • Le persone affette da diabete devono ricevere un’educazione all’autogestione del diabete al momento della diagnosi, mantenuta in seguito per ottenere il maggiore beneficio. (Livello della Prova I, Forza della Raccomandazione A) • L’educazione è più efficace se pianificata e organizzata per piccoli gruppi di pazienti. (Livello della Prova I, Forza della Raccomandazione A) • L’educazione all’autogestione del diabete va garantita all’interno del team da parte delle diverse figure professionali (medico, infermiere, dietista, educatore sociosanitario) specificamente qualificate sulla base di una formazione professionale continua all’attività educativa. (Livello della Prova I, Forza della Raccomandazione A) • Nel lavoro di team è importante che la pianificazione e la conduzione dell’attività educativa siano svolte mediante metodologie basate sui principi dell’educazione dell’adulto, che tengano conto dell’esperienza di vita della persona e della sua personale motivazione al cambiamento. (Livello della Prova IV, Forza della Raccomandazione B) • L’educazione all’autogestione del diabete va rivolta anche ai problemi psicosociali, poiché il benessere emotivo è fortemente associato con gli esiti positivi per il diabete. (Livello della Prova III, Forza della Raccomandazione B) • L’educazione all’autogestione del diabete deve essere adeguatamente riconosciuta e remunerata nell’ambito delle prestazioni fornite dal SSN, nell’ambito di un sistema integrato di interventi. (Livello della Prova VI, Forza della Raccomandazione B) Tabella 11.4 Livelli di Prova e Forza delle Raccomandazioni Livelli di Prova I Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati II Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato III Prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi IV Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi V Prove ottenute da studi di casistica (“serie di casi”) senza gruppo di controllo VI Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato o basate su opinioni dei membri del gruppo di lavoro responsabile di queste Linee guida Forza delle Raccomandazioni Forza A L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II Forza B Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba sempre essere raccomandata/o, ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata Forza C Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento Forza D L’esecuzione della procedura non è raccomandata Forza E Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura Il processo Il processo che ha portato alla definizione degli standard italiani per la cura del diabete può essere così sinteticamente descritto: • i committenti del progetto sono le due Società scientifiche nazionali di diabetologia AMD e SID, che hanno richiesto la stesura di un do- 127 Ministero della Salute cumento di riferimento scientifico redatto da esperti e discusso da una giuria multidisciplinare, come documento ufficiale di posizione delle due Società scientifiche; • il Gruppo di Redazione era costituto da venticinque esperti con un Comitato di Coordinamento formato da quattro diabetologi. Per garantire la migliore efficacia applicativa del documento è stata istituita una giuria interdisciplinare, costituita da diabetologi, da altri medici generalisti e specialisti, oltre a membri di altre professioni sanitarie comunque implicati della cura delle persone con diabete e da membri laici. La prima stesura del testo è stata pubblicata per 20 giorni online sui website di AMD e SID e un indirizzo di posta elettronica cui fare riferimento per le comunicazioni sul tema è stato messo a disposizione di chiunque volesse intervenire con critiche, suggerimenti, integrazioni. Questi suggerimenti e critiche hanno ampiamente integrato le osservazioni e i suggerimenti forniti dai membri della giuria. Per la stesura del documento finale da parte del Gruppo di Redazione sono stati ricevuti e valutati analiticamente e criticamente per integrazioni o modifiche del testo i suggerimenti di trenta persone che hanno fornito un prezioso contributo con dati di letteratura, idee, suggerimenti. Il Gruppo di Redazione ha curato la versione tecnica finale del documento. È previsto un aggiornamento del documento ogni 2 anni. Aspetti peculiari degli standard di cura italiani per il diabete mellito riguardano specifiche azioni indirizzate all’implementazione dell’attività in campo applicativo, sintetizzate in capitoli che affrontano temi specifici in considerazione dei documenti di riferimento esistenti nel contesto italiano: • assistenza integrata del paziente diabetico, tenendo conto delle pubblicazioni del Progetto 128 • • • • IGEA, dell’accordo tra le Società scientifiche di diabetologia e della medicina generale “Assistenza integrata alla persona con diabete di tipo 2” e della più recente letteratura; cura del diabete in popolazioni specifiche: - cura del diabete in bambini e adolescenti: terapia insulinica (MDI e microinfusori), - cura del diabete prima e durante la gravidanza: preconcepimento, diabete pregestazionale e gestazionale (in considerazione di: documento ADA sul pre-existing diabetes, HAPO Study, Clinical Guidelines 2008 NICE); uso dell’acido folico in prevenzione e uso del monitoraggio continuo del glucosio; grading delle evidenze per insulina aspart e lispro (per la disponibilità di evidenze sul loro uso sicuro in gravidanza); cura del diabete in contesti specifici: - cura del diabete in ospedale: definizione di obiettivi glicemici specifici sia per i pazienti critici, sia per i pazienti non critici, - raccomandazione sulla gestione dei pazienti trattati con farmaci potenzialmente iperglicemizzanti (steroidi ecc.), - specifiche e distinte raccomandazioni per le Unità Coronariche e le Unità di Terapia Intensiva mediche; diabete mellito e normative: - farmaci con prescrizione soggetta a piano terapeutico, - piano terapeutico e monitoraggio AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) per le incretine e gli inibitori del DPP-IV; indicatori di processo e di esito: - il capitolo è dedicato alle più estese considerazioni sulla qualità dei database e sulle modalità per ottimizzarla e con l’analisi di un’esperienza italiana che ha permesso di valutare i risultati professionali di un gruppo di servizi di diabetologia utilizzando alcuni indicatori di struttura, processo ed esito prodotti a partire da Parte Seconda – Appropriatezza clinica un set di dati (File Dati AMD) estraibile da cartelle cliniche informatizzate, - viene fornita una tabella degli indicatori. Commento sull’applicabilità degli standard di cura Secondo i dati dell’IDF, il diabete mellito è ai primi posti tra le cause di morte al mondo per le malattie non trasmissibili ed è stato riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) come la prima pandemia mondiale senza la presenza di un agente trasmissibile, quindi, contagio. Le complicanze croniche del diabete mellito, quali infarto e angina, arteriopatia periferica, ictus, neuropatia diabetica, nefropatia, amputazioni e cecità, causano uno straordinario numero di disabilità e decessi, riducendo sia l’aspettativa sia la qualità della vita, e rappresentano un enorme carico economico e un problema di sanità pubblica di straordinaria portata. Questa situazione rischia di determinare gravi problemi nei sistemi sanitari, anche perché la malattia è in rapido aumento a livello mondiale, coinvolgendo sia Paesi industrializzati sia Paesi in via di sviluppo. Prima del ricorso all’ospedalizzazione, il sistema pubblico delle cure per il diabete in Italia prevede un primo livello, rappresentato dalle cure primarie, oggi in rapida riorganizzazione, e la rete dei servizi di diabetologia distribuiti su tutto il territorio nazionale. I due sistemi stanno rapidamente integrandosi, sostenuti dal disegno ministeriale e da quello dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), quale cerniera destinata alla riduzione del tasso di ospedalizzazione. I sistemi d’integrazione tra i due livelli sono al momento operanti solo in alcune realtà regionali e in modo molto promettente, come ampiamente documentato da studi di settore. Dati Istat indicano una frequenza elevatissima di complicanze micro- e macrovascolari correlate al diabete, contro cui i medici di medicina generale 11 (MMG) e i servizi di diabetologia si riorganizzano seguendo Linee guida dettate dalle Società scientifiche, condivise anche dalle organizzazioni sindacali di categoria e attualmente in fase di ulteriore aggiornamento, rifondando un’alleanza destinata a produrre una razionalizzazione del sistema delle cure, in cui ciascuno ha un ruolo definito nel tempo e nei contenuti, anche grazie a una comunicazione costante tra i vari livelli. Il sistema non è ancora a regime, sebbene l’ISS, attraverso il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM), abbia contribuito a delineare i fondamenti di una concreta gestione integrata con la pubblicazione di documenti d’indirizzo, descrittivi della qualità tecnico-organizzativa, dei requisiti minimi necessari allo sviluppo del sistema informativo per i vari livelli assistenziali e della formazione degli operatori. In questo sistema, destinato a evolvere, il tasso medio delle prime visite per i pazienti diabetici presso la rete dei servizi di diabetologia è oggi del 17% sul totale delle prestazioni erogate, con un valore d’ingresso dell’ HbA1c di 11 ± 3% e una durata nota di malattia di 7 ± 3 anni. La frequenza di complicanze di questi pazienti è altissima e ben superiore a quella di pazienti all’esordio di malattia, con differenze evidenti in termini di costi. Questo semplice dato giustifica l’utilità di un trattamento precoce fin dalla diagnosi di diabete e la letteratura scientifica consente di documentare in modo preciso l’utilità di un trattamento precoce ed efficace sia per il DT1 sia per il DT2. Per quanto concerne il problema del diabetico ricoverato in ospedale, la letteratura scientifica indica chiaramente che la presenza della malattia allunga i tempi di degenza, accresce la complessità degli interventi sanitari da eseguire, aumenta il rischio di complicanze infettive e cardiovascolari, peggiora la prognosi quoad vitam, rende più frequente la ricorrenza di nuovi ricoveri dopo la di- 129 Ministero della Salute missione. Tutti questi problemi connessi alla diagnosi di diabete nel percorso intraospedaliero impegnano profondamente l’organizzazione sanitaria e assorbono ingenti risorse economiche. Anche nel percorso intraospedaliero l’ottimizzazione precoce del controllo glicemico rappresenta un obiettivo necessario, dimostratosi efficace nel ridurre i tempi di degenza, le complicanze infettive e non, il peso sull’organizzazione e i costi. Queste osservazioni devono indurre a considerare con molta attenzione come il sistema delle cure nel nostro Paese debba concentrarsi sulla necessità di passare da una medicina di attesa a una d’iniziativa, volto alla ricerca dei casi a rischio di diabete o di soggetti già diabetici, ma non diagnosticati, nonché al trattamento precoce per l’ottimizzazione del controllo metabolico a tutti i livelli. La ricerca di nuovi casi, così come il trattamento precoce dei casi neodiagnosticati, deve partire da un corretto inquadramento del paziente all’esordio e da un’altrettanto attenta pianificazione del percorso di cura successivo, volto al raggiungimento di un livello di controllo 130 metabolico ottimale, secondo un preciso algoritmo terapeutico fin dall’inizio, senza latenze e senza scuse, perché da questo dipenderanno il futuro e la vita stessa delle persone diabetiche. Da questo dipenderà la possibilità di risparmiare risorse e di destinarle alla cura dei nuovi casi previsti per i prossimi anni. L’applicazione dei principi di appropriatezza clinica espressi dagli standard di cura italiani consentono di realizzare un’efficace opera di prevenzione e cura precoce del diabete e delle sue complicanze, tale da permettere di ridurre il carico economico relativo all’ospedalizzazione, al trattamento farmacologico e all’assistenza domiciliare. Il Documento d’indirizzo strategico per la buona assistenza alle persone con diabete sottoscritto quest’anno dalle Società scientifiche di diabetologia, quali l’AMD, la SID e la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), rappresenta la modalità operativa dell’implementazione degli standard di cura al contesto clinico del nostro Paese (vedi anche Capitolo 14 “L’organizzazione diabetologica attuale” e l’Allegato). Parte Seconda – Appropriatezza clinica 11 Box 11.2 Linee guida e raccomandazioni italiane di riferimento sul diabete mellito • Linee guida per lo screening, la diagnostica e il trattamento della retinopatia diabetica in Italia. A cura di: AMD, ANAAO-ASSOMED, Consorzio Mario Negri Sud, FAND-AID, FIMMG, Gruppo di Studio Complicanze Oculari della Società Italiana di Diabetologia, SID, SIR, SOI-APIMO-AMOI, Tribunale dei Diritti del Malato. 2002. http://www.google.it/url?sa=t&source=web&cd=3&ved=0CCYQFjAC&url= http%3A %2F%2Fwww.siditalia.it%2Findex.php%2Fpubblicazioni%2F245-25032003-prevenzione-delle-malattie-cardiovascolari-nel-diabete-tipo-1-e-tipo-2%2Fdownload.html&rct=j&q=%22Linee%20guida% 20per%20la%20prevenzione%20cardiovascolare%20nel%20paziente%20diabetico%22%20AMD%2C %20SID%2C%20FAND&ei=jvcNTtDGH4vFswbor8DJDg&usg=AFQjCNFJXcCl998B4uhHmN-aATINpOEe7A • Linee guida per la prevenzione cardiovascolare nel paziente diabetico. A cura di AMD, SID, FAND, SIIA, FIC, SIMG, Forum per la prevenzione delle Malattie Cardiovascolari, SISA, Gruppo Cochrane Collaboration Italia. 2002. http://www.siditalia.it/DownLoad/Gruppi_di_Studio/Pubblicazioni/linee% 20guida%20aterosclerosi.pdf • AMD, SIMG, SID. L’assistenza al paziente diabetico: raccomandazioni cliniche e organizzative di AMD-SID-SIMG. 2001. http://www.aemmedi.it/files/Linee-guida_Raccomandazioni/2001/2001-assistenza-paziente-diabetico.pdf • ISS, CCM GESTIONE INTEGRATA del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto. Documento di indirizzo. Il Pensiero Scientifico Editore, 2008. http://www.aemmedi.it/files/Linee-giuda_Raccomandazioni/2010 /2010-documento_indirizzo.pdf • AMD, SID, FIMMG, SIMG, SNAMI, SNAMID. L’assistenza integrata alla persona con diabete mellito di tipo 2. http://www.fimmg.org/c/document_library/get_file?p_l_id=10523&folderId=12137&name=DLFE 7.pdf • AMD, SID. Raccomandazioni sull’uso dell’autocontrollo domiciliare della glicemia. 2003. http://www.aemmedi.it/files/Linee-giuda_Raccomandazioni/2003/2003-raccomandazioni-autocontrollo-glicemia.pdf • Documento di Consenso Internazionale sul Piede Diabetico. Seconda Edizione Italiana. A cura del Gruppo di studio Interassociativo “Piede Diabetico” della Società Italiana di Diabetologia e dell’Associazione Medici Diabetologi. 2005. http://www.aemmedi.it/files/Linee-guida_Raccomandazioni/2005/2005piede-diabetico.pdf • Gruppo di Studio SID “Nefropatia Diabetica”. Linee guida per lo screening, il monitoraggio, la prevenzione e il trattamento della nefropatia diabetica. Il Diabete 2006; 18: 30-52. http://www.thesaurus-amd.it/pdf/lg_SID_2006_nefropatia_diabetica.pdf • AMD, ADI, SID. La terapia dietetica nella gravidanza diabetica. Raccomandazioni. 2006. http://www. aemmedi.it/files/Linee-giuda_Raccomandazioni/2010/2010-documento_indirizzo.pdf • Gruppo di Studio SID “Diabete e Gravidanza”. Diabete gestazionale: aspetti critici dello screening e della diagnosi. Il Diabete 2000; 12: 309-19. http://www.thesaurus-amd.it/pdf/lg_itagestazionale.pdf • Gruppo di Studio SID “Diabete e Gravidanza”. Programmazione della gravidanza nelle donne affette da diabete. Il Diabete 2000; 12: 164-7. http://www.thesaurus-amd.it/pdf/lg_itaprogrammazione.pdf 131 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 12. Appropriatezza strutturale La medicina primaria Il compito assegnato al medico di medicina generale (MMG) nella gestione dei pazienti diabetici è stato delineato da numerosi documenti di consenso e Linee guida (Progetto IGEA. Gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 dell’adulto. Documento d’indirizzo; l’assistenza al paziente diabetico: raccomandazioni cliniche ed organizzative di AMD-SID-SIMG) [Tabella 12.1]. Essi richiedono un’evoluzione del modello assi- stenziale e organizzativo da parte della medicina generale. Questa esigenza, comune a tutte le principali patologie croniche, è ben evidenziata in letteratura da diversi anni. Gli elementi più rilevanti di questo nuovo modello di gestione della cronicità in medicina generale possono essere riassunti in: • lavoro multidisciplinare con il centro diabetologico per coordinare e garantire la continuità del processo assistenziale; • coinvolgimento attivo del paziente e del suo contesto familiare; Tabella 12.1 Compiti del MMG nella gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 (Progetto IGEA) • Effettuare lo screening dei soggetti ad alto rischio per individuare: - casi di diabete non diagnosticati - gravide a rischio per diabete mellito e casi di diabete gestazionale - casi di IGT • Effettuare l’educazione sanitaria e il follow-up dei soggetti a rischio per diabete mellito • Diagnosticare la malattia diabetica • Effettuare l’educazione sanitaria e il counseling del paziente diabetico e dei suoi familiari • Correggere i comportamenti alimentari errati dei pazienti diabetici e gestire la dieta prescritta dal centro diabetologico • Impostare la terapia farmacologica con ipoglicemizzanti orali • Sorvegliare sugli effetti collaterali e sulle interferenze della terapia ipoglicemizzante (ipoglicemizzanti orali e insulina) • Gestire il follow-up del paziente diabetico, in collaborazione con il centro diabetologico e gli specialisti • Effettuare la visita medica periodica al paziente diabetico • Sospettare e diagnosticare precocemente le complicanze della malattia diabetica • Attivare il servizio di diabetologia per: - l’inquadramento dei diabetici neodiagnosticati - le visite di controllo periodiche, in diabetici ben compensati e senza complicanze acute e/o rapidamente evolutive - situazioni che, a giudizio del medico di medicina generale, lo richiedono, per consulenze IGT, alterata tolleranza al glucosio; MMG, medico di medicina generale. 133 Ministero della Salute • elaborazione del piano di cura con il coinvolgimento attivo del paziente e la condivisione e l’utilizzo di strumenti di comunicazione routinari per il richiamo attivo rispetto alle scadenze concordate; • utilizzo di sistemi informativi avanzati in grado di orientare e monitorare le attività assistenziali e i percorsi diagnostico-terapeutici e di follow-up; • routinaria attività di audit su indicatori di performance e risultato derivanti da Linee guida EBM (Evidence Based Medicine) di riferimento, svolta con gli stessi strumenti informativi della pratica professionale quotidiana. L’attuazione di questo nuovo modello richiede: • un’adeguata organizzazione e integrazione con il sistema di cure centrato sul paziente; • un’operatività standardizzata per ridurre quella variabilità che attualmente caratterizza e determina livelli assistenziali non uniformi da parte della medicina generale; • una sistematica attività di audit. Standardizzazione dell’operatività e organizzazione in medicina generale nell’assistenza al paziente diabetico Screening ed educazione sanitaria dei soggetti a rischio. Diagnosi di diabete Il diabete mellito di tipo 2 (DT2) è una patologia la cui diagnosi, con una certa frequenza, avviene con l’insorgere di complicazioni proprie della malattia e si stima una mancata diagnosi in circa un terzo dei soggetti diabetici. La diagnosi di diabete e prediabete dovrebbe quindi essere il più possibile precoce e a questo proposito si può pensare a un modello assistenziale in cui il MMG si avvalga di un’attività di screening attivo sulla propria popolazione di assistiti, ottenendo la determinazione della glicemia a digiuno nei pazienti che rispon- 134 dono a determinati criteri (fattori di rischio) ben individuati dalle recenti Linee guida dell’American Diabetes Association (ADA). A questo proposito è utile anche adottare le funzioni di ricerca del proprio software gestionale per selezionare la popolazione di assistiti in cui porre la diagnosi di DT2. La ricerca va eseguita sia sulle diagnosi già individuate (codici ICD 9), sia sui risultati degli esami di laboratorio per individuare soggetti con valori glicemici diagnostici per diabete e nei quali la diagnosi non è stata posta e codificata. L’identificazione della propria popolazione di pazienti affetti da diabete fornisce il dato della prevalenza e il confronto con i dati di colleghi della stessa area geografica o con quanto evidenziato dal campione di MMG a livello nazionale (Health Search) costituisce un primo elemento di valutazione sull’efficacia dello screening operato dal MMG sui propri assistiti. Per tutti i soggetti a rischio di sviluppare la malattia diabetica è importante avere a disposizione del materiale informativo per la prevenzione del diabete e per la conoscenza della sua storia naturale e dei rischi connessi alla patologia (in primis il rischio cardiovascolare). I pazienti con IGT (impaired glucose tolerance) o IFG (impaired fasting glycaemia) vanno sottoposti a counseling periodico al fine di raggiungere una perdita del 5-10% del peso corporeo e un incremento dell’attività fisica moderata, come il camminare a passo veloce, per circa 150 minuti a settimana. Il controllo dei valori glicemici a digiuno va ripetuto annualmente. Valutazione del paziente La valutazione del paziente diabetico è fondamentale e da pianificare accuratamente al momento della diagnosi. Un nuovo modello, attivo, di gestione, dovrebbe prevedere, dopo la creazione del registro di patologia, la standardizzazione di un giudizio completo con la valutazione e verifica di un set di dati opportunamente registrati nella scheda sanitaria Parte Seconda – Appropriatezza strutturale individuale informatizzata. La revisione progressiva dei soggetti diabetici e la pratica di un approccio completo ai nuovi casi costituiscono un vero e proprio audit caratterizzato da un impegno professionale notevole, ma che può condurre a un miglioramento dell’appropriatezza ed efficienza assistenziale e da cui, probabilmente, può derivare una successiva riduzione quantitativa del carico assistenziale. Gli elementi che fanno parte di questa valutazione complessiva devono essere registrati e rivalutabili nella scheda informatizzata in quanto fonte di informazioni per il medico stesso, per i componenti dell’equipe assistenziale e per il rapporto con altri livelli assistenziali. Questo tipo di valutazione e la registrazione dei diversi item informativi, apparentemente complessa e difficile da inserire nella routine professionale, possono essere facilitati in misura rilevante da appositi protocolli e segnalazioni attive presenti nel software gestionale, così come la verifica della compliance terapeutica può essere compito affidato al personale di studio sfruttando le apposite e semplici funzioni di monitoraggio presenti nei sistemi informativi migliori. Lo stesso personale di studio ha un ruolo importante nella pianificazione delle valutazioni complessive e nella revisione del piano assistenziale frutto dell’interazione avanzata tra medico e paziente. Questo è un concetto importante; dalla valutazione globale devono derivare informazioni educative al paziente e la condivisione di un vero e proprio piano di assistenza che è compito e responsabilità comune portare avanti con regolarità. Gestione del paziente e target terapeutici La gestione del paziente con DT2 (inclusa la terapia) è un atto complesso che prevede l’integrazione con il centro specialistico di riferimento e la condivisione di un piano terapeutico personalizzato. Questo obiettivo è raggiungibile solo se gli attori sono coinvolti all’interno di un percorso 12 assistenziale di diagnosi e cura del paziente (altrimenti detto Percorso Diagnostico-Terapeutico, PDT), che infatti è finalizzato proprio a integrare le peculiarità dei professionisti incaricati per la cura del diabete con le necessità delle persone e delle loro famiglie all’interno di un programma condiviso di gestione della malattia. I PDT sono strumenti gestionali multidisciplinari e interprofessionali creati per favorire l’implementazione in uno specifico contesto locale delle Linee guida relative alla gestione di una categoria di pazienti e la cui attuazione è valutata mediante indicatori di processo ed esito. Il PDT è, dunque, un processo di integrazione professionale tipo botton-up, centrato sul paziente, che riguarda sia la gestione clinica sia l’organizzazione ed è uno strumento indispensabile per modificare in modo consensuale e progressivo, secondo obiettivi definiti, le motivazioni dei professionisti coinvolti e i comportamenti clinici. Un PDT può garantire la continuità assistenziale, il follow-up sistematico a seconda della gravità clinica e presumibilmente favorire anche un risparmio. Un PDT, dunque, dovrebbe fare “naturalmente” parte delle strategie di comunità, al fine di facilitare i processi di interazione fra tutti gli attori coinvolti nella gestione delle malattie croniche e che desiderano migliorare la qualità dei servizi erogati. La ricaduta clinica più importante di un PDT in diabetologia è il miglioramento della qualità delle cure, degli esiti e dell’appropriatezza terapeutica. Altri possibili effetti collaterali positivi sono elencati nella Tabella 12.2. In questo modello, la programmazione delle visite, compreso il richiamo telefonico periodico del paziente, sono elementi fondamentali per migliorare la loro compliance ai suggerimenti comportamentali e terapeutici. In questo senso, l’introduzione di nuove figure professionali come quella del case e/o del care manager potrebbe stimolare la con- 135 Ministero della Salute Tabella 12.2 Possibili effetti collaterali positivi riscontrabili nella fase applicativa di un Percorso Diagnostico-Terapeutico (PDT) • • • • • • • • • • Garanzia della continuità assistenziale Applicazione delle Linee guida cliniche Riduzione del rischio clinico Miglioramento della comunicazione multidisciplinare e del lavoro in team Definizione di standard di cura Riduzione della variabilità nella cura dei pazienti Miglioramento della documentazione del paziente Orientamento della formazione degli operatori Ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse (soprattutto attraverso la riduzione dei ricoveri impropri) Sostegno all’empowerment del paziente divisione delle informazioni e la maggiore integrazione fra gli attori del processo di cura. Il case manager è un professionista che ha il compito di prendere in carico il paziente e supervisionare e coordinare l’intero iter assistenziale. L’esigenza di un case manager è, in generale, direttamente proporzionale alla complessità del percorso da gestire (scarsa compliance, presenza di complicanze, molte figure professionali coinvolte ecc.). Il case manager ha il controllo delle fasi operative dell’assistenza, è il garante del piano di cura individualizzato e rappresenta il primo riferimento organizzativo per l’assistito, la sua famiglia e tutti gli operatori coinvolti nel programma di cura. Solitamente il ruolo di case manager viene svolto da una figura che, pur non dovendo necessariamente possedere competenze specialistiche, è in grado di interagire con specialisti diversi. Nella realtà del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN), questo compito potrebbe essere convenientemente affidato a personale infermieristico o, comunque, sanitario opportunamente addestrato, operante nel centro di diabetologia o nel Distretto sanitario o, nel caso di un gruppo ampio e organizzato di MMG, al personale infermieristico dell’ambulatorio di medicina generale. 136 I compiti del case manager sono: • svolgere una funzione di richiamo attivo del paziente; • governare il caso-paziente, sulla base di obiettivi di salute concordati, monitorando attivamente lo stato di salute del malato al fine di un intervento tempestivo; • coordinare i diversi interventi sanitari di cui il paziente necessita; • monitorare e verificare in maniera sistematica i risultati ottenuti al fine di suggerire/apportare eventuali correzioni al piano di cura individuale. Il supervisore del programma locale o care manager (un infermiere o un amministrativo dell’ASL opportunamente addestrato) ha il compito, invece, di intervenire con più ampie strategie di popolazione su un gruppo di pazienti diabetici (es. a livello di Distretto o ASL). Il care manager dovrebbe infatti: • favorire l’incontro, gli accordi, il coordinamento e la comunicazione tra rappresentanti di MMG e diabetologi; • monitorare l’andamento sulla casistica di una zona; • individuare gli interventi strutturali al fine di migliorare l’organizzazione dell’assistenza; • facilitare l’adattamento locale e la diffusione dei PDT per la gestione del diabete; • sostenere e organizzare i processi di audit clinico. Un altro strumento utile alla buona riuscita di un programma di gestione integrata del paziente diabetico è il teleconsulto. Si tratta di un’innovativa modalità di interazione e comunicazione tra i MMG e il centro diabetologico, che consente l’analisi del “caso” attraverso la consultazione via internet della cartella clinica, anche quale atto sostitutivo della visita del paziente presso il centro diabetologico. Il teleconsulto potrebbe favorire una reale gestione integrata dei pazienti diabetici Parte Seconda – Appropriatezza strutturale attraverso la concreta condivisione delle strategie di cura, migliorando l’appropriatezza di accesso presso il centro diabetologico e favorendo la risoluzione di alcune criticità tipiche della gestione del paziente diabetico (soprattutto il mancato raggiungimento dei goal terapeutici). Dalla descrizione di tutti questi strumenti gestionali si evince che uno dei luoghi ottimali per la realizzazione di un sistema integrato di assistenza al paziente diabetico è il Distretto sanitario. L’ambito territoriale del Distretto, infatti, consentirebbe non solo di ospitare le funzioni di case management e di supervisione del programma locale ma, soprattutto, di gestire direttamente i servizi di assistenza primaria (di medicina generale, farmaceutica, specialistica ambulatoriale extraospedaliera, residenziale, domiciliare), garantendo la necessaria continuità assistenziale. Visita al paziente La visita al paziente diabetico è l’aspetto fondamentale per la corretta valutazione globale e necessita di un’adeguata sistematizzazione e organizzazione per la sua regolare effettuazione (almeno una volta l’anno) e registrazione. Dal punto di vista organizzativo richiede una gestione in spazi predeterminati, la possibile interazione con altre figure professionali di supporto, infermiere, podologo, assistente sanitaria (qualora disponibili), una dotazione strumentale minima (bilancia, metro a nastro, diapason 128 Hz, monofilamento, martelletto per riflessi, sonda doppler, misuratore di pressione, fonendoscopio). Sistematica attività di audit Nella gestione delle patologie croniche (diabete soprattutto) il MMG non può più lavorare attraverso interventi “puntuali e tra loro scoordinati”, ma ha bisogno di chiedersi e di sapere, per esem- 12 pio, quanti sono i pazienti con particolari patologie, le loro comorbilità, come essi sono trattati, se hanno raggiunto determinati obiettivi di salute, se hanno criticità gestionali (e quindi se corrono particolari rischi clinici) e tra essi quali sottogruppi generano costi elevati e/o comprimibili con una migliore strategia assistenziale. In questo complesso contesto è evidente che il MMG avrà (o meglio “ha già”) sempre più bisogno di strumenti che lo aiutino e quindi che gli semplifichino le procedure di verifica di appropriatezza e qualità delle cure erogate (per una spinta verso il miglioramento continuo delle performance) e contestualizzino il suo operato all’interno della sostenibilità del SSN. A tutto ciò serve un “sistema informativo clinico” (uno dei fondamenti del chronic care model), che mediante i dati registrati nella cartella clinica informatica, trasformati prima in indicatori di processo ed esito e poi in informazioni leggibili, permetta ai MMG di operare nella consapevolezza delle proprie azioni e in piena trasparenza rispetto all’amministratore (accountability). Per tali motivi i MMG devono essere dotati di strumenti di governo del sistema in grado di: • elaborare indicatori di performance per monitorare e valutare (clinical audit) l’efficacia e l’appropriatezza degli interventi; • registrare ed estrarre i dati in conformità a precisi obiettivi di cura (es. i PDT); • facilitare l’audit singolo o di gruppo; • fare emergere criticità clinico-gestionali che potrebbero mettere a rischio i pazienti per interventi carenti, inappropriati o errati al fine di aumentare la sicurezza dei pazienti (risk management); • ottimizzare le terapie, le procedure, il followup dei malati cronici e il rispetto delle note dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA); • simulare risultati clinici e/o farmacoeconomici 137 Ministero della Salute in funzione di modifiche (migliorative o peggiorative) comportamentali/organizzative; • mettere in relazione qualità, risultati di salute e costi. I servizi specialistici di diabetologia territoriale e ospedaliera La rete dei servizi di diabetologia in Italia: peculiarità e pregi Nell’analisi dell’assistenza al diabete in Italia non può mancare un riferimento all’unicità della rete nazionale dei servizi di diabetologia. Nel nostro Paese esiste una rete di strutture specialistiche che non ha confronto con altri Paesi e che è stata oggetto di studi e riferimenti da parte di organizzazioni internazionali, inclusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La rete dei servizi di diabetologia eroga un’assistenza di tipo specialistico che si fa carico di molti aspetti della gestione della malattia, in particolare, pur con le dovute differenze, dell’educazione del malato. Tale rete, organizzata soprattutto al Nord e al Centro, ha una diffusione di tipo capillare, pertanto riesce a raggiungere la maggior parte dei diabetici diagnosticati. Le caratteristiche di questo tipo di assistenza si differenziano molto da quelle di altri Paesi, dove il diabetico è in massima parte affidato alle cure del MMG e si rivolge ai centri specialistici soltanto in occasioni particolari. Questa organizzazione può in parte spiegare i migliori risultati assistenziali rilevati in Italia da varie indagini epidemiologiche nel campo del diabete rispetto ad altri Paesi. L’identità della diabetologia italiana è fortemente legata a questa rete di servizi, che ha contribuito nel tempo ad avvicinare al problema studenti, laureandi e neolaureati, e a formarli, mantenendo viva l’attenzione per un problema sanitario di elevata rilevanza economica e sociale. 138 L’identità legislativa: la Legge 115/87 e il riconoscimento istituzionale del diabetologo Una pietra miliare nell’identificazione dell’identità, del ruolo e della funzione del diabetologo è rappresentata dalla Legge 115/87. In essa, innanzitutto, viene riconosciuto che il diabete mellito è una malattia di elevato interesse sociale, come riportato all’art. 5. Per la prima volta, per legge, viene riconosciuto che il diabetologo non è tanto il medico che cura il diabete o che possiede un bagaglio di conoscenze tecniche superiori per il trattamento della malattia, ma è il medico di riferimento delle cure, della prevenzione e dell’educazione del cittadino diabetico. Viene definita per legge la peculiarità formativa di chi opera nelle strutture diabetologiche, dal momento che le Regioni sono tenute a provvedere alla preparazione e all’aggiornamento professionale del personale sanitario addetto ai servizi. Si tratta di concetti fondamentali in quanto le strutture di diabetologia, da ambulatori specialistici analoghi ad altre specialità mediche, assumono la caratteristica di servizi di riferimento continuativo per una patologia cronica invalidante. La legge prevede anche la distribuzione gratuita dei presidi diagnostici e terapeutici, vincolandone la prescrizione ai servizi, e l’istituzione di un registro dei diabetici in ogni Regione. È evidente come il dedicarsi all’educazione del malato, a organizzare screening per le complicanze e revisioni periodiche dello stato di malattia e, soprattutto, l’investire in prevenzione accentuino progressivamente le differenze tra i medici dei reparti o degli ambulatori per patologie acute, come quelli delle divisioni di medicina, e la nascente figura specialistica. Le legge viene recepita in leggi regionali che ne normano l’attuazione in alcune Regioni italiane. Parte Seconda – Appropriatezza strutturale Il DPR 484/97: da diabetologo a metabolista e diabetologo Se con la Legge 115/87 la disciplina di diabetologia viene definitivamente istituzionalizzata, dopo dieci anni si assiste a un’importante modifica legislativa del suo assetto ospedaliero. Il DPR 484, emanato il 10 dicembre 1997, riordina le discipline ospedaliere e stabilisce i nuovi criteri di accesso alla dirigenza di II livello. Per i diabetologi, in particolare, il nuovo regolamento di accesso alle dirigenze di I e II livello contiene novità basilari: • viene abolita la disciplina di diabetologia e viene introdotta in sua sostituzione quella di malattie metaboliche e diabetologia. Si tratta di una modifica epocale, in quanto viene esteso il campo d’azione e di competenza di chi si occupa di diabetologia; • viene mantenuta l’equipollenza con l’endocrinologia, dove tuttavia non costituisce titolo preferenziale l’avere effettuato servizi di diabetologia. Vi sono alcune considerazioni da tenere presenti per capire quanto il DPR 484/97 incida sull’evoluzione della figura del diabetologo. Innanzitutto viene ufficializzato per legge che il vasto settore delle malattie metaboliche diviene patrimonio professionale della disciplina, allargandone i confini. L’impostazione generale del decreto è quella di privilegiare il lavoro continuativo nelle strutture di diabetologia, infatti alla dirigenza di II livello può accedere soltanto chi già opera nella disciplina. L’inquadramento legislativo La “riforma sanitaria-ter” (D.Lgs. n. 229 del 19 giugno 1999) istituisce un livello di dirigenza unico con articolazione delle strutture ospedaliere, e di conseguenza degli incarichi di direzione, in dipartimenti, strutture complesse e strutture non complesse. 12 Nulla cambia, tuttavia, per quanto riguarda l’apicalità, in quanto viene appositamente ribadito che per la direzione di dipartimento o di struttura complessa, ovvero dei precedenti reparti o divisioni, il direttore generale dell’azienda deve scegliere tra dirigenti che siano in possesso dei requisiti stabiliti dal DPR 484/97. L’identità professionale e culturale del metabolista diabetologo: da diabetologia a malattie metaboliche e diabetologia La modifica della disciplina da diabetologia a malattie metaboliche e diabetologia, attuata dal DPR 484/97, può essere considerata, in ordine di tempo, l’ultima fondamentale acquisizione di chi si occupa di diabetologia. Alla base di tale decisione sta in primo luogo l’evoluzione delle conoscenze scientifiche. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta sempre di più si sono accumulati dati su come il DT2 sia in realtà una sindrome plurimetabolica in cui ipertensione, dislipidemia e obesità viscerale hanno un ruolo prognostico non meno importante del controllo glicemico. L’iperglicemia ha un ruolo determinante nella prevenzione delle complicanze microangiopatiche, ma gli altri fattori metabolici entrano in gioco nella genesi delle complicanze cardiovascolari, responsabili della prima causa di mortalità del diabetico. La possibilità di trattare con una terapia farmacologica aggressiva le dislipidemie – oltre all’ipertensione – e i grandi trials, che hanno dimostrato l’efficacia di tali trattamenti soprattutto nel sottogruppo dei pazienti diabetici, hanno progressivamente avvicinato la diabetologia a problematiche diverse dal solo controllo glicemico. Nella Tabella 12.3 si riporta l’evoluzione della diabetologia. 139 Ministero della Salute Tabella 12.3 Evoluzione della diabetologia Struttura Riferimenti di legge Inquadramento Legge 115/87 DPR 484/97 Medico di corsia medica Medico di medicina generale o di geriatria o di endocrinologia Diabetologo Specialista in malattie metaboliche e diabetologia Corsia ospedaliera Centro antidiabetico Servizio di diabetologia Strutture semplici e complesse malattie metaboliche e diabetologia La diabetologia pediatrica Il diabete giovanile è la più frequente malattia endocrina dell’infanzia e, certamente, una delle più impegnative sul piano assistenziale. A differenza dell’assistenza agli adulti, non esiste una specializzazione apposita per i pediatri che si dedicano a tale patologia. Tuttavia, in considerazione dell’enorme carico assistenziale che comporta tale settore, i pediatri diabetologi spesso tendono a dedicare la quasi totalità dell’attività professionale ai bambini diabetici. La diabetologia degli adulti, come ampiamente detto in precedenza, tende progressivamente a estendersi in campo metabolico, mentre la diabetologia pediatrica rimane più circoscritta, anche perché le malattie metaboliche su base genetica dell’infanzia hanno aspetti organizzativi diversi, a se stanti, non facilmente gestibili in parallelo al diabete. In diabetologia pediatrica si investe molto nella ricerca di un buon compenso glicemico senza compromettere troppo la qualità della vita del bambino, evento che potrebbe avere ripercussioni formative e caratteriali gravi qualora si ingenerasse un atteggiamento permanentemente conflittuale con la malattia e con la terapia insulinica. Le complicanze, che molto assillano i medici degli adulti, sono rare in età pediatrica e richiedono un’attenzione meno pressante. Il diabetologo pediatrico ha delle caratteristiche professionali del tutto peculiari, le quali, sebbene siano insite nella pediatria stessa, sono enorme- 140 mente amplificate dalle caratteristiche di cronicità della malattia. Uno degli aspetti assistenziali che più contraddistingue questa figura medica, e lo differenzia dal collega degli adulti, è il difficile rapporto con i genitori del bambino. Quand’anche il paziente pediatrico, più facilmente nell’infanzia e un po’ meno nell’adolescenza, venga ad accettare e a trovare un modus vivendi con il diabete, difficilmente nei genitori si riesce a raggiungere un livello di serenità o di accettazione dello stato di malattia. Tutto questo è fonte di angosce e incertezze che vengono comprensibilmente a ricadere sul medico. L’abilità a gestire questo doppio rapporto medicopaziente, allo stesso tempo con il bambino e con i genitori, è una delle caratteristiche più forti dell’identità professionale del diabetologo pediatra. La capacità di educare e trasmettere messaggi è propria della diabetologia, ma nell’infanzia, dove la logica troppo stretta dà scarsi risultati e tutto deve essere ricondotto a una sfera di gioco, questa dote professionale diviene fondamentale e assume caratteristiche del tutto peculiari. La prevenzione e l’impatto dei servizi su morbilità e mortalità Come già accennato, la diabetologia ha subito una trasformazione storica e culturale che l’ha portata, da disciplina impegnata nella cura delle fasi acute e subacute della malattia, a disciplina in cui il Parte Seconda – Appropriatezza strutturale carico maggiore è nella prevenzione delle complicanze tardive. Il diabetologo ha sempre di più dedicato il proprio tempo e ha sempre di più organizzato i servizi, in senso interventistico-preventivo. In analogia, in campo metabolico i grandi trials di prevenzione cardiovascolare primaria e secondaria hanno evidenziato l’importanza del controllo dei fattori di rischio, soprattutto dei lipidi. In quest’ottica, merita infine ricordare un dato che induce a importanti riflessioni, ovvero che alcune ricerche, quali gli studi di Verona e Casale Monferrato, hanno evidenziato che è proprio l’intervento di strutture organizzate come i servizi di diabetologia che riduce la morbilità e la mortalità dei pazienti. Dati italiani recenti dimostrano che la sinergia tra l’assistenza specialistica dei servizi di diabetologia e la medicina generale riduce del 65% i ricoveri ospedalieri del paziente diabetico, voce primaria nell’analisi dei costi della malattia, e triplica la probabilità che il paziente sia seguito secondo le Linee guida. Pertanto, il metabolista diabetologo odierno, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, ha ben chiaro che il suo ruolo è quello di prevenire, in senso sia primario sia secondario, e per attuare questo deve curare al meglio i metabolismi glicidico e lipidico, l’ipertensione e il sovrappeso del suo paziente. La qualità e l’accreditamento Negli ultimi anni alcune specialità mediche hanno perseguito con particolare attenzione il tema della qualità dei servizi e delle prestazioni. La diabetologia è una delle specialità che si è più distinta per la produzione di materiale e per la vivacità delle iniziative in tale senso. Non è un caso che proprio gli specialisti di malattie metaboliche e diabetologia siano sensibili al problema della qualità di un servizio: il servizio di diabetologia ha una sua orga- 12 nizzazione articolata in senso curativo e preventivo, è tenuto alla gestione di una mole notevole di dati, si relaziona con un bacino di utenza elevato, lavora in equipe, pertanto la necessità di aggiornamento continuo in questo settore è molto sentita. In altre parole, è la dinamica dei flussi quotidiani che rende il metabolista diabetologo particolarmente interessato e recettivo a procedure che migliorino la qualità delle prestazioni e che rivedano ciclicamente i percorsi organizzativi all’interno dell’unità operativa. Negli ultimi anni Novanta, vi è stato un forte impulso culturale della diabetologia e progressivamente è stato messo a punto un processo di ricerca della qualità delle prestazioni che ha coinvolto tutto il Paese. Parallelamente si è dato inizio a quell’iter di verifica e di misura esterna “di quel che si fa e di come lo si fa” che è detto accreditamento. Nel 1996 è stato prodotto il primo manuale di accreditamento italiano per servizi di diabetologia, uno dei primi in assoluto fra tutte le specialità mediche, e, successivamente, è stata avviata una campagna di autoaccreditamento dei servizi su tutto il territorio nazionale. Ogni servizio ha misurato la propria attività tramite il manuale e ha inviato il risultato a un centro di raccolta centralizzato. Per la prima volta, nel 1999, grazie a questa campagna nazionale, è stato possibile elaborare una fotografia credibile dell’attività organizzativa e di alcuni parametri di qualità dei servizi italiani. Si tratta del punto di partenza fondamentale per un processo di miglioramento proiettato in avanti. Questo viaggio verso la ricerca della qualità continua, ha precorso alcune direttive di legge che si ritrovano nella riforma sanitaria-ter e ha posto la diabetologia italiana in una posizione di assoluta avanguardia. L’ultimo prodotto, gli Annali AMD (Associazione Medici Diabetologi), rappresentano il risultato dello sforzo congiunto di 130 Servizi di diabetologia italiani, che si sono dotati in questi anni di sistemi informativi (cartella clinica infor- 141 Ministero della Salute matizzata) in grado di garantire, oltre alla normale gestione dei pazienti in carico, l’estrazione standardizzata delle informazioni necessarie alla costituzione del File Dati AMD. Grazie all’analisi degli indicatori degli Annali AMD è stato possibile descrivere e monitorare l’assistenza specialistica al diabete in Italia negli ultimi quattro anni. I risultati, di rilevanza internazionale, sono stati presi come esempio dall’International Diabetes Federation (IDF) come migliore esempio di standard di raccolta del dato da proporre per la diabetologia mondiale. L’equipe diabetologica Lo specialista diabetologo potrà riunire in sé molte delle caratteristiche essenziali sinora descritte, ma difficilmente riuscirà a produrre risultati se opererà individualmente. Per poter veramente mettere in pratica un’assistenza diabetologica efficace, egli deve riuscire a ottenere il meglio dall’insieme delle figure professionali che lavorano nella sua struttura. Valorizzando le competenze di ognuno, integrandole, sapendo fare tesoro dei pregi e allo stesso tempo smussando gli aspetti negativi di ogni operatore, deve riuscire a dare alla sua struttura un’impronta di coesione che si tradurrà in risultati pratici importanti. Per fare questo gli sono richieste doti di leadership e di managerialità di elevato livello. Il suo ruolo e la sua identità si evidenzieranno al meglio se saprà dare quell’impulso per cui un gruppo di lavoro si trasforma in un’equipe, ovvero in un’entità che si aggrega attorno al problema dell’assistenza al diabetico dandosi delle regole, operando in modo coordinato, elaborando procedure condivise e revisionate periodicamente. La capacità di dare vita a un’equipe, di gestire operatori sanitari con caratteristiche diverse tra loro è un’altra faccia, di certo non la meno im- 142 portante, del poliedro che definisce la figura del metabolista diabetologo (per ulteriori approfondimenti vedi Appendice 2). UO ospedaliere La gestione della persona con diabete ricoverata per altra patologia Si stima che almeno 1 paziente su 4 fra quelli che si ricoverano è affetto da diabete, pur essendo stato ricoverato per affezioni diverse e quindi in reparti differenti. Spesso la diagnosi di diabete viene fatta per la prima volta proprio in occasione di un ricovero, indipendentemente dal motivo per il quale il paziente è stato accolto in ospedale. È necessario che vi sia un’attenta cura del diabete durante l’ospedalizzazione, perché il buon controllo glicemico influenza in maniera importante l’esito della malattia che lo ha reso necessario. Pertanto, è importante che tutti gli operatori ospedalieri conoscano i vari aspetti di gestione di questa malattia, dalla dieta alla terapia, all’interazione dei farmaci, al monitoraggio glicemico, alle crisi ipoglicemiche. La ristorazione deve prevedere menù bilanciati nel rispetto delle raccomandazioni nutrizionali, con protocolli specifici di tipo assistenziale e nutrizionale elaborati dal dietista (riguardanti numero, tipologia e orari dei pasti). Il ricovero in ospedale di un diabetico, al di là della condizione che ha richiesto il ricovero, può essere un momento per verificare l’efficacia della terapia antidiabetica e migliorare, laddove necessario, il grado di compenso metabolico. Inoltre, durante il ricovero si deve verificare la stadiazione delle complicanze croniche. Pertanto, è necessaria un’opportuna e corretta integrazione con il diabetologo, mediante la richiesta di una consulenza. Inoltre, al momento della dimissione del paziente Parte Seconda – Appropriatezza strutturale con diabete nel quale è stata avviata terapia insulinica e si rende necessario un automonitoraggio glicemico domiciliare, è indispensabile svolgere attività di educazione terapeutica sull’uso dei presidi [siringhe classiche e pre-riempite (iniettori a penna), glucometri ecc.]. Tale istruzione deve poi continuare presso il MMG e il servizio di diabetologia. Gestione della persona con diabete che vive in strutture residenziali non domiciliari Circa 1 persona su 4 ospitata in strutture residenziali è affetta da diabete. Pertanto, a esse deve essere garantita un’assistenza al diabete adeguata alle necessità e non inferiore a quella che viene fornita agli altri pazienti, nel rispetto degli standard di cura. Il personale sanitario deve avere una formazione specifica in merito alle procedure di monitoraggio metabolico e clinico e agli strumenti terapeutici del diabete. I pazienti di età avanzata sono spesso affetti da comorbidità, pertanto sono spesso esposti all’impiego inadeguato di farmaci antidiabetici, con conseguente ipoglicemia, che rappresenta una causa importante nei ricoveri d’urgenza presso le strutture ospedaliere. Il laboratorio Il laboratorio di analisi biomediche ha un ruolo fondamentale nella diagnostica e nella sorveglianza del diabete mellito. Vengono presi in considerazione solo alcuni degli esami di maggiore rilievo [glicemia e OGTT (oral glucose tolerance test), emoglobina glicata, microalbuminuria], rimandando ad altri documenti già pubblicati quanto di pertinenza per gli altri numerosi esami di laboratorio utilizzati per tale patologia. Lo scopo è dettagliare i requisiti minimi che i professionisti devono soddisfare per questi esami, sia per gli aspetti strettamente analitici, sia per quelli pre- e postanalitici. 12 Glicemia e OGTT La misura della glicemia a digiuno e dopo carico orale di glucosio è di fondamentale importanza per la diagnosi del diabete. In tale ottica i traguardi analitici per la misura del glucosio nel plasma, sviluppati sulla base dei dati di variabilità biologica, sono rispettivamente ≤ 3,3% (come CV) per l’imprecisione, ±2,5% per il bias (inesattezza) e ±7,9% per l’errore totale (inaccuratezza). È pertanto importante che si privilegi l’accuratezza piuttosto che la riproducibilità, cercando di minimizzare l’errore totale analitico. Dai dati dei programmi di Valutazione Esterna di Qualità (VEQ) disponibili sembra che la maggior parte dei laboratoristi soddisfi i criteri sopra menzionati. Tuttavia, di recente è emerso chiaramente che spesso le insidie nella misura della glicemia riguardano più l’aspetto preanalitico che quello strettamente analitico. Dal momento che la stabilità del glucosio nel plasma raccolto in presenza di sodio fluoruro (2,5 mg/ml di sangue) è decisamente superiore a quella del siero, l’ADA ha raccomandato che la misura della glicemia a fini diagnostici sia effettuata su plasma. La misura del glucosio nel siero è accettabile solo se il siero è preparato rapidamente (entro 1 ora), separato dal coagulo nelle apposite provette dotate di tappo separatore. In realtà, è stato provato che la glicemia diminuisce sensibilmente nella prima ora dal momento del prelievo, sia in presenza sia in assenza di NaF, probabilmente perché deve comunque passare un po’ di tempo per bloccare la glicolisi nelle cellule, soprattutto se il numero dei leucociti è elevato. La stabilità del campione di sangue raccolto quindi in presenza di NaF (da solo o con altri anticoagulanti quali EDTA, litio-eparina, citrato o ossalato di potassio) è di 72 h a temperatura ambiente. Nel siero sterile, non emolizzato e subito separato dal 143 Ministero della Salute coagulo il glucosio è stabile almeno 8 h a 25 °C e 72 h a +4 °C. Il professionista di laboratorio deve quindi essere in grado di provare che le procedure per la raccolta e conservazione del campione di plasma garantiscano una sufficiente stabilità della glicemia come se il campione di sangue fosse subito trattato, separando globuli rossi dal plasma per centrifugazione e conservato quindi in bagno di ghiaccioacqua (0 °C) fino al momento dell’analisi. Un’alternativa possibile prevede l’utilizzo di una miscela di citrato-NaF-EDTA, che garantirebbe una perfetta stabilità della concentrazione di glucosio nella provetta fino al momento dell’analisi. Un possibile indicatore della bontà delle procedure di trattamento dei campioni per la misura della glicemia può essere ricavato dal numero di ipoglicemie riscontrate nel corso di un definito periodo di tempo. È verosimile pensare che molti episodi di ipoglicemia possano essere causati da un abbassamento della concentrazione del glucosio nel campione, che potrebbe capitare tra il momento del prelievo e il momento di analisi, se il campione viene raccolto in assenza di inibitori della glicolisi o conservato a una temperatura non controllata. Per quanto riguarda l’OGTT, il laboratorio è tenuto a osservare le raccomandazioni prodotte, limitandosi a eseguire le misure di glicemia basale e 2 ore dopo carico orale standard da 75 g, tranne quando l’esame viene richiesto per sospetto di diabete gestazionale o per altre condizioni al di là della diagnosi di diabete (es. per sospetta ridotta sensibilità insulinica). L’esame va eseguito in condizioni rigorosamente standardizzate, per quanto riguarda la preparazione del paziente, le modalità di preparazione e somministrazione del carico orale di glucosio e la rapidità nell’interpretazione della glicemia basale per proseguire l’esame solo se indicato (evitando quindi di somministrare un carico orale di glucosio a un soggetto diabetico). 144 Il valore di glicemia basale refertato non può essere ottenuto da sistemi Point Of Care Testing (POCT). Se per la valutazione preliminare della glicemia basale, per motivi di organizzazione del laboratorio, fosse necessario utilizzare un glucometro da POCT, il professionista di laboratorio deve fissare il proprio cut-off per la prosecuzione del test in base alle prestazioni tecnico-analitiche dello strumento. Si raccomanda che tali prestazioni vengano monitorate con periodicità adeguata. Per quanto riguarda, infine, l’utilizzo dei glucometri portatili in ambito ospedaliero, il professionista di laboratorio dovrebbe condividere ed essere disponibile a valutare le seguenti caratteristiche: • replicabilità: l’imprecisione del metodo, valutata su almeno 20 replicati dello stesso campione, deve essere inferiore al 2,9% (espressa in termini di coefficiente di variazione) per almeno tre livelli diversi di glicemia (tipicamente attorno a 60, 250 e 400 mg/dl); • accuratezza: lo scostamento medio (bias) delle misure effettuate dal glucometro, valutato su almeno 60 campioni di sangue con valori diversi di glicemia nell’intervallo tra 50 e 400 mg/dl, rispetto alle misure effettuate con metodo enzimatico in laboratorio sui plasmi degli stessi campioni, deve essere contenuto entro il 2,2% del valore assoluto di glicemia media (es. deve essere inferiore a 2,2 mg/dl dei campioni con glicemia media di 100 mg/dl). Inoltre, in non più del 5% dei campioni analizzati il valore di glicemia deve discostarsi di non oltre il 20% rispetto ai valori di glicemia misurata con il metodo di riferimento enzimatico in laboratorio; • linearità: è opportuno utilizzare dispositivi con linearità molto ampia, in genere compresa fra 30 e 400 mg/dl; • allineamento con il risultato della glicemia misurata su plasma presso il laboratorio: è oppor- Parte Seconda – Appropriatezza strutturale tuno controllare periodicamente che i risultati delle misurazioni siano allineati rispetto a quelli ottenuti da un laboratorio centralizzato che impiega, per la misurazione della glicemia, il metodo basato sull’esochinasi. Emoglobina glicata (HbA1c) A oggi sono disponibili oltre 70 kit per misurare l’HbA1c, ed è difficile avere un quadro aggiornato delle loro prestazioni e limiti, anche perché in continuazione ne vengono alla luce di nuovi, sopratutto per il POCT. A grandi linee possono essere raggruppate in: • metodiche cromatografiche basate sulla differenza di punto isoelettrico tra HbA1c e HbA [scambio ionico, high-performance liquid chromatography (HPLC) e simili], o sulla presenza di glucosio (affinità); • metodiche immunochimiche; • metodiche enzimatiche (riconoscono la presenza di chetoammine). Generalmente i risultati ottenuti con metodi basati su diversi principi sono molto ben correlati, a dispetto di quanto si sarebbe tentati a immaginare, perché evidentemente i diversi metodi sono sensibili alle differenze strutturali tra HbA1c e HbA nelle medesime zone della molecola emoglobinica (verosimilmente i dintorni dei residui terminali delle catene beta globiniche) e non vi sono evidenze che i dati ottenuti con un metodo siano, da un punto di vista clinico, superiori a quelli ottenuti con un altro. Da un punto di vista analitico è stato recentemente raggiunto un consenso nazionale sulla definizione dell’errore totale accettabile per la misura dell’HbA1c, nonché su altri vari punti importanti per l’implementazione della standardizzazione internazionale dell’HbA1c in Italia (vedi Appendice 3). Il professionista di laboratorio deve essere in grado di dimostrare l’utilizzo di un metodo analitico al- 12 lineato al sistema internazionale di riferimento (non necessariamente un metodo in HPLC), chiedendo al produttore di diagnostici di esibire il relativo attestato (un esempio di attestato è riportato nell’Appendice 3). Deve inoltre essere in grado di provare che l’imprecisione del metodo stesso, valutata nel lungo periodo attraverso la pratica del controllo interno di qualità, sia contenuta entro il limite del 2,0% (espresso in termini di coefficiente di variazione). Per quanto riguarda il rispetto dell’errore totale accettabile (pari al 6,7% del valore dell’HbA1c), è importante che tale parametro sia periodicamente valutato attraverso la partecipazione ad adeguati programmi di VEQ. In Italia, attualmente, esistono diversi programmi di VEQ (CRB Castelfranco Veneto, Azienda Ospedaliera S. Orsola di Bologna, Azienda Ospedaliera Careggi di Firenze), come anche all’estero (es. UKNEQAS) e la partecipazione attiva a questi programmi è uno dei requisiti per l’accreditamento dei laboratori secondo la norma ISO 15189. Per quanto riguarda la raccolta e la conservazione dei campioni, non vi sono particolari criticità da segnalare; può essere utilizzato prelievo sia venoso sia di sangue capillare tramite apparecchio pungidito. L’anticoagulante varia a seconda dei metodi, ma generalmente l’EDTA è quello più utilizzato. La stabilità del campione di sangue intero è di almeno 5 giorni a 4 °C e di almeno 6 mesi a –80 °C. Nel caso del congelamento a –80 °C, possono essere congelate direttamente le provette primarie, purché di materiale resistente al congelamento e con volume di sangue non elevato (circa 2 ml). Si raccomandano un congelamento rapido e uno scongelamento lento a temperatura ambiente (circa 1 ora) con susseguente delicato rimescolamento. Una volta scongelati, i campioni devono essere analizzati entro breve tempo. Alcuni produttori di diagnostici hanno recentemente introdotto sistemi di raccolta del sangue capillare che garantiscono una stabilità di circa una 145 Ministero della Salute o due settimane a temperatura ambiente. Questi sistemi sono estremamente dipendenti dal metodo utilizzato e non possono essere adattati, senza opportune verifiche, ad altri sistemi analitici. Per quanto riguarda gli intervalli di riferimento per soggetti adulti non obesi e senza familiarità diabetica, questi sono compresi tra 4,0% e 6,0%. Nel 2010, l’ADA ha abbassato il limite superiore portandolo a 5,6%, ma su questo punto in Italia attualmente non c’è consenso. Nelle donne in gravidanza i valori sono lievemente ma significativamente spostati più in basso, con intervalli tra 4,0% e 5,5%. L’utilizzo di intervalli di riferimento diversi da quelli sopra riportati deve essere giustificato da adeguata documentazione. Infine, è sempre utile tenere anche presenti le possibili limitazioni dell’utilizzo dell’HbA1c (vedi Appendice 3). Il professionista di laboratorio deve quindi conoscere le limitazioni dell’esame ed essere in grado di commentare un risultato di un’HbA1c che contrasti visibilmente con il quadro clinico del paziente alla luce di queste ultime. In tali casi è possibile richiedere la ripetizione dell’esame, ma utilizzando una metodica di diverso principio analitico, oppure consigliare la valutazione del controllo glicemico dosando altri parametri non basati sull’analisi di componenti eritrocitarie (es. la determinazione della glicemia media ricavata dai dati clinici a disposizione, o la misura dell’albumina glicata, oggi effettuabile con grande affidabilità mediante metodo enzimatico-colorimetrico). Misura dell’albuminuria per l’accertamento della nefropatia diabetica (microalbuminuria) La misura quantitativa dell’albumina nelle urine non va effettuata se è in corso un’infezione urina- 146 ria, oppure se è presente ematuria (anche se micro-), o se il paziente ha svolto attività fisica intensa nei 2-3 giorni prima dell’esame. Il professionista di laboratorio deve poter verificare queste importanti fonti di variabilità preanalitica. Il campione raccomandato è quello delle urine fresche (meglio se del primo mattino), sul quale eseguire le misure di albumina e creatina e calcolarne il rapporto. Possono essere utilizzati anche altri tipi di campioni, quali quello delle 24 ore o il campione temporizzato notturno. Al fine dell’esecuzione dell’esame, le urine devono essere conservate refrigerate per evitare la crescita microbica. In condizioni di sterilità le urine sono stabili diversi giorni in frigorifero, mentre va evitato il congelamento a –20 °C. Anche questi altri aspetti preanalitici devono essere tenuti presenti dal professionista di laboratorio. Per quanto riguarda la parte analitica il laboratorista deve utilizzare metodi immunochimici in nefelometria/turbidimetria, caratterizzati da un’imprecisione contenuta (CV < 7%) e da un limite di rilevabilità pari ad almeno 3 mg/L. Il professionista di laboratorio deve assicurare adeguate procedure di controllo di qualità interno (a ogni seduta analitica) ed esterno (partecipazione a programmi di VEQ). I metodi in chimica secca possono essere utilizzati come screening dopo verifica delle loro caratteristiche analitiche e purché i risultati positivi siano sottoposti a test di conferma in laboratorio. L’utilizzo dei test qualitativi in POCT è ragionevole solo quando sia dimostrabile una consistente riduzione dei dosaggi quantitativi e per garantire l’individuazione dei pazienti a uno stadio precoce di insufficienza renale (per ulteriori approfondimenti vedi Appendici 3 e 4). Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 13. Appropriatezza tecnologica Il ruolo dell’Health Technology Assessment e le evidenze disponibili sul trattamento del diabete Gli organismi nazionali e internazionali che si occupano di Health Technology Assessment (HTA) hanno formulato, nel corso degli anni, differenti e numerose definizioni (vedi Tabella 4.1 a pagina 26). L’acronimo HTA indica i tre termini inglesi: Health = salute; Technology = procedura, tecnica, struttura; Assessment = valutazione. Mentre non ci sono dubbi sul primo termine, deputato a circoscrivere il campo d’azione, sugli altri va fatta chiarezza. Per quanto concerne il termine tecnologie, esso deve essere inteso in senso ampio: si definiscono tecnologie biomediche i farmaci, le attrezzature, le procedure mediche e chirurgiche utilizzate nei sistemi sanitari e i sistemi organizzativi e di supporto all’interno dei quali si provvede alle cure. Analogamente, la Carta di Trento sulla “valutazione delle tecnologie sanitarie in Italia” si riferisce tanto alle attrezzature sanitarie, quanto ai dispositivi medici, ai farmaci, ai sistemi diagnostici, alle procedure mediche e chirurgiche, ai percorsi assistenziali e non ultimo agli assetti strutturali, organizzativi e manageriali nei quali viene erogata l’assistenza sanitaria. Il termine valutazione, come appare evidente dall’origine dell’approccio decritta nel paragrafo seguente, va inteso come “supporto tecnico alle decisioni politiche”, e per estensione “supporto tecnico alle decisioni aziendali” e/o “supporto tecnico alle decisioni cliniche”. In Italia, a livello istituzionale, l’HTA viene esplicitamente menzionato nel Piano Sanitario Nazionale (PSN) 2006-2008: “La valutazione delle tecnologie sanitarie, intesa come insieme di metodi e strumenti per supportare le decisioni, si rivolge ai diversi livelli decisionali secondo modelli operativi differenziati, rivolti a fornire supporto a: • decisioni di politica sanitaria (adozione, diffusione e finanziamento di nuove tecnologie); • decisioni ‘manageriali’ di investimento in nuove tecnologie a livello aziendale e per la promozione di un utilizzo appropriato delle tecnologie medesime tramite l’elaborazione di protocolli; • decisioni cliniche, per la diffusione di ‘modelli di governo (governance)’ individuati da strutture centrali e da adottare a livello organizzativo, quali la definizione e diffusione degli standard qualitativi e quantitativi”. In definitiva, la peculiarità dell’HTA può essere ricondotta a due aspetti principali: la multidimensionalità della valutazione e la sua sistematicità. Entrambe sono legate alla finalità di supporto alle 147 Ministero della Salute decisioni, politiche o aziendali che siano, le quali implicano l’adozione di un’ottica quanto più ampia possibile (rappresentanza dei diversi interessi in gioco, ovvero dei cosiddetti stakeholders) e un processo di definizione delle scelte quanto più possibile codificato e quindi trasparente. Il processo di HTA è, quindi, per sua natura multidisciplinare e, di conseguenza, multiprofessionale. Come anche è tipicamente formalizzato, separando funzioni e ruoli: per esempio prevedendo attori diversi a livello di ruolo strategico (che cosa valutare), ruolo tecnico (assessment), sintesi valutativa (appraisal). Trattandosi di un approccio che vuole essere sistematico e, quindi, per definizione riproducibile, utilizza delle varie discipline le migliori pratiche e standard metodologici (vedi oltre i core models EUnetHTA). Le principali sfide che l’HTA deve oggi affrontare sono: quella della trasferibilità dei risultati (trasferibilità a contesti diversi delle valutazioni); quella dell’impatto sulla pratica clinica (diffusione), ritenuta ancora insufficiente; infine, quella della capacità di sintesi dei diversi approcci logici e metodologici che sono tipici delle diverse discipline coinvolte. Cenni storici A livello internazionale le prime esperienze di Technology Assessment (TA) si trovano in settori differenti da quello sanitario. Il TA nasce alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti: in particolare, nel 1965 il Congresso istituì il “Committee on Science and Astronautics” con il compito di supportare le decisioni politiche in ambito astronautico. Il termine fu adottato per la prima volta nel 1967 da un italiano, Emilio Daddario, membro della succitata Commissione, il quale chiese al Congresso degli Stati Uniti di introdurre la valutazione di aspetti etici, sociali, economici e orga- 148 nizzativi a sostegno delle decisioni di policy maker. Per quanto concerne l’HTA, benché l’acronimo compaia già in un documento ufficiale del Congresso degli Stati Uniti del 1967, storicamente l’atto di nascita della nuova metodologia può essere fatto coincidere con due eventi verificatisi nel 1972: la pubblicazione da parte di Archibald Cochrane del volume Effectiveness and Efficiency, nel quale viene proposto un nuovo metodo di valutazione dell’efficacia terapeutica, e la fondazione da parte del Congresso statunitense dell’Office of Technology Assessment (OTA), operativo dal 1972 al 1995. Successivamente, dagli anni Novanta in poi, numerose Agenzie dedicate all’HTA, con compiti simili, sono nate in America e in Europa, a livello sia nazionale sia locale. Un’ulteriore spinta al consolidamento e alla diffusione dell’HTA è giunta dalla nascita di alcuni organismi e progetti sovranazionali e dall’azione di network internazionali: si ricorda l’International Network of Agencies for Health Technology Assessment (INAHTA), nata nel 1993 come rete internazionale delle Agenzie di valutazione delle tecnologie sanitarie con compito di promuovere la cooperazione e la condivisione della metodologia dell’HTA, l’International Society of Technology Assessment in Health Care (ISTAHC) e, da ultimo, lo European network for Health Technology Assessment (EUnetHTA) nato nel 2005. Nonostante ciò, le prime applicazioni istituzionali dell’HTA in Sanità si possono far risalire al 1982 in Francia con l’istituzione del CEDIT (Comité d’Évaluation et de Diffusion des Innovations Technologiques), un organo di supporto al Direttore Generale della rete ospedaliera pubblica di Parigi relativamente a decisioni inerenti le tecnologie sanitarie e l’innovazione organizzativa, e quindi un organismo che si è interessato alla valutazione degli investimenti in tecnologie nuove e costose. In Italia, la valutazione delle tecnologie in ambito Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica sanitario ha una storia piuttosto recente. Si possono far risalire i primi approcci sistematici al 2003 con la costituzione del Network Italiano (NIHTA) che ha formulato nel 2006 la Carta dei principi “Carta di Trento” sulla valutazione delle tecnologie sanitarie in Italia, e quindi la costituzione della Società Italiana di HTA (SIHTA). A livello istituzionale, il PSN 2006-2008 ha evidenziato la necessità di riconoscere l’HTA come una priorità e ha previsto lo sviluppo della funzione di coordinamento delle attività di valutazione condotte a livello regionale (o inter-regionale) da parte di organi tecnici centrali del Sevizio Sanitario Nazionale (SSN), quali l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e l’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (oggi Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, AgeNaS). Con la delibera n. 73/CU del 20.09.2007, la Conferenza Unificata Stato-Regioni ha attribuito all’AgeNaS, tra gli obiettivi strategici, la funzione di “Supporto alle Regioni per la promozione di attività stabili a livello regionale e locale di programmazione e valutazione dell’introduzione e gestione delle innovazioni tecnologiche (HTA) e diffusione in ambito regionale dei risultati degli studi e delle valutazioni effettuate a livello centrale, favorendo l’adozione di comportamenti coerenti con tali risultati”. Va altresì ricordata l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) che, nella fase di registrazione dei farmaci, di definizione del prezzo adeguato [negoziazione con l’Azienda titolare dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC)] e delle condizioni di rimborso, coniuga la valutazione di efficacia, sicurezza e qualità di un medicinale con l’HTA. L’Agenzia svolge, quindi, le seguenti attività riconducibili all’ambito dell’HTA: • valutazione dei nuovi farmaci e attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical efficacy); • raccomandazioni sull’uso appropriato dei far- 13 maci (Note AIFA) correlate alle attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical effectiveness); • partecipazione alle decisioni sul rimborso dei farmaci, correlate alle attività di valutazione del rapporto costo-efficacia e di budget impact; • generazione di dati epidemiologici originati da flussi OsMed (relativi all’utilizzo dei farmaci in ambito territoriale e ospedaliero). AIFA e AgeNaS sono state indicate dal Ministro della Salute come amministrazioni di riferimento per la Joint Initiative della Commissione Europea sull’HTA e l’Efficacia relativa dei farmaci (EUnetHTA JA). Le indicazioni per l’HTA in Italia Le organizzazioni aderenti al Network Italiano di HTA (NIHTA), al termine di un processo di consultazione che ha coinvolto i partecipanti al “1° Forum italiano per la valutazione delle tecnologie sanitarie”, hanno condiviso i seguenti principi che sono stati pubblicati e diffusi in un documento al quale è stato dato il nome di “Carta di Trento” (vedi Tabella 4.2 a pagina 29). I principi concordati e stabiliti nella Carta rispondono all’esigenza di individuare e definire in maniera univoca il chi, che cosa, dove, quando, perché e il come della valutazione. Le esperienze regionali Lo sviluppo di sistemi di HTA a livello regionale, a oggi, è stato attivato in modo esplicito (normato), seppure con tempi e modalità differenti, in poche Regioni e, quindi, servirebbe un maggiore coinvolgimento di tutte le istituzioni regionali italiane per regolamentare e attivare il sistema. Alcuni esempi di HTA a livello regionale sono riportati di seguito. 149 Ministero della Salute L’Emilia Romagna ha definito gli attori del processo, strutturato su due livelli, e con il coinvolgimento di un apposito Centro regionale (Centro Regionale di Valutazione e Informazione sui Farmaci, CReVIF), senza una specializzazione dei ruoli in funzione della tecnologia, stressando piuttosto la sua multidisciplinarietà; non appare chiaramente esplicitata l’attribuzione del ruolo strategico, come anche la cogenza del processo valutativo, tranne che per le grandi attrezzature. La Lombardia stressa la finalità della valutazione dell’appropriatezza attraverso un processo strutturato su 3 fasi, a loro volta suddivise in numerosi e complessi step. Il Piemonte ha strutturato il processo su tre livelli, senza peraltro una specializzazione dei ruoli in funzione della tecnologia; appare chiaramente separato il ruolo strategico e quello tecnico; la cogenza del processo valutativo è legata ad apposita lista delle tecnologie da monitorare. La Sicilia ha iniziato il processo di definizione dell’HTA definendo l’esigenza di separare il ruolo tecnico (Nucleo, peraltro non ancora costituito) e quello strategico (Gruppo); il focus del processo è sulla promozione delle attività formative e di diffusione (fra i clinici). È presente anche una funzione di controllo, mediante la realizzazione di una banca dati delle principali attrezzature. La Toscana ha invece concentrato l’attenzione sulle specificità delle tecnologie, individuando varie aree di intervento: dispositivi medici, farmaci, apparecchiature, organizzazione, protocolli, edilizia ospedaliera. Il Veneto ha una struttura di HTA consolidata, essendo storicamente partner di EUnetHTA; il processo è organizzato su tre livelli e coinvolge una struttura regionale (CReVIF) per gli aspetti tecnici, che si occupa indistintamente di farmaci e dispositivi medici; appare chiaramente separato il ruolo strategico da quello tecnico; non è, invece, 150 esplicitata la cogenza del processo valutativo. In definitiva, è comune nelle Regioni considerate una focalizzazione verso le esigenze di programmazione e controllo delle tecnologie a livello locale (aziendale) e, in seconda istanza, sui processi di diffusione di pratiche cliniche e assistenziali appropriate. Nessuna Regione esplicita criteri e metodologie di valutazione da adottare, demandandone la definizione a Centri regionali, ovvero commissioni tecniche; da questo punto di vista sembra esserci una diffusa disattenzione verso gli standard internazionali e quindi la trasferibilità dei risultati. Analogamente, i modelli sembrano in larga misura orientati all’autarchia, sebbene in alcuni casi si preveda l’integrazione in reti sovraordinate. HTA relativo al trattamento del diabete Nel seguente paragrafo si descrivono le principali aree di evidenza sviluppate in un contesto di HTA per il trattamento del diabete. Si precisa che non si tratta di una revisione sistematica della letteratura, né si è proceduto con metanalisi, in quanto entrambi gli ambiti esulano dagli obiettivi del presente lavoro. La ricerca è stata quindi limitata ai report HTA delle Agenzie “ufficiali”, ovvero agenti nell’ambito delle reti INAHTA ed EUnetHTA. La strategia di ricerca adottata è stata la seguente: database INAHTA ed EUnetHTA; parole chiave utilizzate: Diabetes; periodo: 2000-2010; numero report individuati: 19; numero report esclusi: 1 (perché superato dalle indicazioni della Conferenza nazionale di consenso per raccomandazioni e implementazione delle nuove linee guida per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale). Si evince immediatamente come i report ufficiali di HTA siano un numero molto limitato rispetto alla moltitudine di studi esistenti sul tema. Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica Le aree oggetto di assessment Seppure con diversa enfasi nei vari report, le aree che sono state oggetto di assessment possono essere riassunte come segue: • screening di popolazione per il diabete; • interventi su comportamenti e stili di vita; • comparazione dei farmaci; • device di somministrazione e terapia. Criteri di assessment I criteri di assessment utilizzati sono vari: tutti i report affrontano la questione dell’efficacia dei trattamenti e, in molti casi, della sicurezza. Valutazioni economiche (costo-efficacia o costo-utilità) sono citate, ma in generale ritenute di scarsa qualità; risulta frequente la valutazione della necessità di un maggiore sviluppo della ricerca in questo ambito, specie per quanto concerne le evidenze di lungoperiodo.Un aspetto rilevante più volte citato è quello della compliance alla terapia. Discussione Lo screening della popolazione over 45 anni con almeno un fattore di rischio per diabete di tipo 2 (DT2) è stato considerato costo-efficace su dati riferiti alla popolazione francese. Il test utilizzato è la glicemia a digiuno (su sangue venoso o capillare). È altresì stato raccomandato lo screening simultaneo per fattori di rischio cardiovascolare. Analogamente, lo screening sistematico per la retinopatia diabetica è stato ritenuto costoso, ma complessivamente costo-efficace; i pazienti con DT2 dovrebbero, quindi, essere regolarmente controllati per la presenza di retinopatia, mediante analisi del fondo dell’occhio. Inoltre, è stato raccomandato che i pazienti con DT2 e aterosclerosi o albuminuria siano indirizzati a una terapia polifarmacologica individualizzata e intensiva. Di contro, l’evidenza sugli interventi non farmacologici è povera e non conclusiva. 13 Peraltro, un report dell’INAHTA (2007) mostra come il trattamento polifarmacologico intensivo trovi delle barriere di applicazione, dovute alla difficoltà da parte dei medici di famiglia e degli specialisti a convincere il paziente della gravità della malattia. A tal fine è raccomandata la massima diffusione delle informazioni sulle medicine, sulla cooperazione fra medici di famiglia e centri specialistici, sulla relazione fra terapia farmacologica e stili di vita, sulla compliance e l’autocura, nonché sull’uso delle tecnologie nell’assistenza alla cronicità. Per quanto concerne gli interventi di tipo educativo sui pazienti, l’evidenza è limitata e manca un consenso, specialmente per quanto concerne gli impatti di lungo periodo. È stata raccolta un’evidenza di qualità da bassa a media per gli interventi educativi e di supporto psicologico indirizzati agli adolescenti con diabete di tipo 1 (DT1). In un ambito collaterale, sono state valutate la sicurezza e la capacità prognostica dei test da sforzo nel predire gli eventi cardiovascolari nei pazienti con diabete; sebbene gli studi disponibili evidenzino vari indicatori indipendenti con significativo potere predittivo della mortalità cardiovascolare e anche degli eventi non fatali, si osserva che mancano studi che comparino questi risultati con quelli ottenibili con il semplice giudizio del medico basato sulla storia clinica e l’esame del paziente. Nell’ambito delle valutazioni concernenti l’HTA della terapia farmacologica, la metformina è raccomandata come prima linea nel trattamento dell’iperglicemia nel DT2, insieme al trattamento sullo stile di vita, cosiddetto convenzionale, alla diagnosi di malattia; solamente nei pazienti intolleranti alla metformina si deve utilizzare un’altra classe di farmaci antiglicemici. La seconda linea di trattamento è l’utilizzo di una seconda classe di molecole antiglicemiche per il trattamento dell’iperglicemia che non è compensata con il solo 151 Ministero della Salute trattamento farmacologico della metformina e delle modifiche dello stile di vita. Si possono utilizzare le sulfoniluree, preferibilmente di terza generazione, o le meglitinidi o gli inibitori dell’alfa glicosidasi o i tiazolidinedioni (vedi paragrafo “I farmaci”). Esistono evidenze maggiormente consolidate per il trattamento con metformina in associazione con le sulfoniluree o con i tiazolidinedioni; attualmente è disponibile in commercio solamente pioglitazone, mentre l’altra molecola, rosiglitazone, è stata ritirata dal commercio per l’associazione con complicanze cardiovascolari. Attualmente non esistono dati sufficienti per la valutazione dell’associazione di tre farmaci antiglicemici rispetto al costo-beneficio e alla valutazione sull’impatto economico della terapia a lungo termine. Esistono evidenze di un miglioramento del compenso glicemico nel co-trattamento con metformina + sulfoniluree o pioglitazone, anche se è presente un fallimento a lungo termine del trattamento combinato di queste differenti classi di farmaci. Nuovi farmaci, gli incretino-mimetici e gli inibitori della dipeptidil peptidasi (DDP-IV), sono stati recentemente proposti nel trattamento del DT2 in associazione con metformina e/o sulfaniluree e/o pioglitazone. A causa della loro recente introduzione nel mercato, le informazioni disponibili sulla sicurezza a lungo termine sono poche. Nel 2007, la Food and Drug Administration (FDA) ha riportato la segnalazione post-commercializzazione di 30 casi di pancreatite acuta nei pazienti che prendevano l’agonista del GLP-1 exenatide, sei dei quali con pancreatite emorragica o necrotizzante. Nel settembre 2009 la FDA aveva ricevuto 88 segnalazioni di pancreatite nei pazienti che prendevano l’inibitore della DPP-IV sitagliptin, 2 delle quali erano emorragiche o necrotizzanti. I produttori di exenatide hanno reso noto che la terapia con questa molecola era associata a 1,7 casi di pancreatite per migliaia di pazienti-anno durante lo 152 sviluppo clinico del prodotto, rispetto a 3,0 e 2,0 casi per migliaia di paziente-anno per il placebo e l’insulina, rispettivamente. Inoltre, sono stati presentati i dati di uno studio su una numerosa coorte, in cui non sono state riscontrate differenze nel rischio di pancreatite tra i pazienti che avevano iniziato la terapia con exenatide [rischio relativo (RR) 1,0, 0,6], o con l’inibitore della DPP-IV sitagliptin (RR 1,0, 0,5-2,0), rispetto alla popolazione che aveva iniziato il trattamento con metformina o gliburide. Sono stati riportati altri casi di danno d’organo, ma senza un aumento significativo rispetto alla popolazione di controllo. In molti studi, la valutazione dei costi annuali della terapia con regimi di terapia non insulinica è stata effettuata in persone con indice di massa corporea (body mass index, BMI) di circa 30 kg/m2. Le gliptine sono risultate le più economiche tra i nuovi farmaci, con un costo fra 482,50 e 575,00 euro, un costo simile a quello di pioglitazione. Exenatide, differentemente, è risultata la terapia più cara, con un costo di circa 1037,5 euro. Gli analoghi dell’insulina e gli analoghi a breve durata d’azione, quali l’insulina lispro (ILis), l’insulina aspart (IAsp) e l’insulina glulisina (IGlu), sono stati sottoposti a HTA assessment. L’evidenza mostra che per i pazienti con DT1 il trattamento con ILis or IAsp riduce in modo significativo i livelli dell’HbA1c rispetto all’insulina umana (HI), mentre l’occorrenza di ipoglicemia severa è simile nei trattamenti, anche se quella notturna risulta meno frequente con ILis rispetto all’HI. Per i pazienti con DT2, i livelli dell’HbA1c, i casi di ipoglicemia e la qualità della vita sarebbero sovrapponibili fra insulina umana e analoghi a breve durata d’azione. Rimangono dubbi sull’utilizzo degli analoghi per il diabete gestazionale e le donne diabetiche in gravidanza. L’evidenza disponibile (solo su dati USA) suggerisce che i costi incrementali degli analoghi del- Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica l’insulina umana siano compensati da risparmi in altre spese sanitarie in un orizzonte di 12 mesi. Altresì è stato rilevato che i pazienti preferiscono l’ILis all’HI e Mix25 a HI 30/70. Non sono invece disponibili sufficienti dati sulla mortalità e sulla qualità della vita, come anche sull’impatto degli “analoghi” sui costi, in un orizzonte di medio-lungo periodo (oltre 12 mesi). Passando agli analoghi dell’insulina a lunga durata d’azione, e in particolare all’insulina glargine (IGlar) e all’insulina detemir (IDet), non è stata raccolta evidenza significativa di un miglioramento nei valori dell’HbA1c: IGlar sembra poter diminuire i rischi di ipoglicemia severa nei pazienti con DT1 rispetto a HI. IGlar ridurrebbe, inoltre, i casi di ipoglicemia notturna, ma non severa, nei pazienti con DT2. IDet ridurrebbe, poi, il rischio di ipoglicemia severa e notturna per i pazienti con DT1, mentre non si sono apprezzate differenze per i pazienti con DT2. Allo stato attuale non si hanno, quindi, sufficienti evidenze per giustificare il costo incrementale di queste terapie ai fini dell’erogazione da parte dei servizi sanitari pubblici. Un altro tema oggetto ripetutamente di report HTA è quello delle modalità di somministrazione. In particolare, è stata analizzata l’efficacia clinica e il costo-beneficio dell’impiego dei microinfusori (continuous subcutaneous insulin infusion, CSII) rispetto alla terapia insulinica multi-iniettiva (multiple daily injections, MDI), nei casi di terapia insulinica intensiva nel diabete mellito. La qualità dei venti studi analizzati è stata ritenuta mediamente scarsa. In ogni caso, per i pazienti con DT1, gli studi a lungo termine indicano una riduzione dell’HbA1c (non significativa) e quelli a breve termine una riduzione (non significativa) della dose d’insulina somministrata con la CSII. Per quanto riguarda gli eventi ipoglicemici, nella maggior parte dei trials non si mostrano differenze apprezzabili con le due modalità di somministra- 13 zione. Nella CSII gli analoghi rapidi dell’insulina sono associati con un’HbA1c più bassa rispetto all’insulina umana. Per le donne in gravidanza non si apprezzano differenze di efficacia, mentre i pochi studi sugli adolescenti non sono conclusivi. Non sono peraltro disponibili studi di valutazione economica che comparino le due modalità. I costi annui (2004), comprensivi del materiale di consumo e dell’istruzione iniziale ai pazienti, variano (popolazione UK) da £ 1091 a £ 1680, secondo il tipo di pompa e della sua durata stimata. In ogni caso i materiali di consumo, ovvero i set d’infusione, rappresentano la voce di costo predominante. I vantaggi della CSII su una terapia MDI ottimizzata appaiano quindi modesti, ma va considerato che, in assenza di rischi, gli utilizzatori ritengono l’utilizzo delle pompe importante dal punto di vista della minore interferenza con le attività quotidiane di vita: questo porta a suggerirne un uso mirato a popolazioni selezionate di pazienti con DT1. Un’altra tecnologia, attualmente non in commercio in Italia, che è stata valutata è l’insulina per inalazione. Sono stati individuati 9 trials che ne dimostrano l’efficacia: essa risulta avere almeno la stessa capacità dell’insulina solubile nel controllo del glucosio nel sangue. Il disegno degli studi non permette, però, di trarre conclusioni definitive, se non per la preferenza dei pazienti, la quale va all’insulina per inalazione; si osservi, però, che la maggior parte dei pazienti utilizzava aghi e siringhe e non le penne. Non sono stati individuati problemi di safety, sebbene non sia ancora possibile valutare gli effetti di lungo periodo dell’inalazione a livello polmonare. È stata valutata anche la costo-efficacia della tecnologia, ma le assunzioni dei modelli sembrano condizionare fortemente i risultati, probabilmente sovrastimando i benefici, in particolare quelli sulla qualità della vita; va considerato, inoltre, che la 153 Ministero della Salute quantità di insulina da somministrare per inalazione è molto maggiore di quella iniettata, comportando costi aggiuntivi (dati UK) dell’ordine di £ 600-1000/anno per paziente: non si propende, quindi, per un’inclusione della tecnologia nell’ambito delle opportunità terapeutiche rimborsate dai sistemi sanitari pubblici. Un’ulteriore questione che ha ricevuto ampia attenzione è quella dell’autocontrollo (selfmonitoring, SMBG) dei livelli di glucosio nel sangue o nelle urine. Già nel 2000, per pazienti con DT2 è stata valutata una carenza di evidenze sull’efficacia della tecnica nel migliorare il controllo del glucosio nel sangue, come anche altri outcome clinici e non, portando alla conclusione che sia piuttosto da estendere l’uso dell’HbA 1c. Ad analoghe conclusioni giunge il NETSCC (NIHR Evaluation, Trials and Studies Coordinating Centre) [2009], aggiungendo che il SMBG risulta significativamente più costoso delle forme assistenziali standard e con un profilo iniziale negativo in termini d’impatto sulla qualità della vita (Health-Related Quality of Life, HQoL), oltre che con qualche evidenza di aumento dei casi di ipoglicemia nei pazienti che lo adottano: è pertanto dubbio che la tecnica possa risultare costo-efficace utilizzando approcci del tipo costo-utilità. Di contro, è ritenuto appropriato analizzare l’approccio per i fattori di motivazione che comporta e nei casi ove è probabile che possa essere richiesto un trattamento insulinico. Sempre il NETSCC (2009) ha valutato l’efficacia clinica, l’accettabilità e l’impatto economico, a lungo e medio termine, di due miniapparati per il controllo continuo della glicemia, in pazienti in cattivo controllo metabolico. Non sono state trovate differenze significative nella capacità di controllo (misurato in termini di HbA1c), sebbene con l’utilizzo del device GlucoWatch® si siano registrate una minore modifica nell’HbA1c e una minore percentuale di pazienti giunti a target. 154 Anche l’analisi economica non ha evidenziato vantaggi nell’uso dei device. A livello di accettabilità da parte dei pazienti si evidenzia come, complessivamente, il device GlucoWatch® sia stato utilizzato meno (20% vs 57% nei 18 mesi considerati), con maggiori effetti collaterali, ed è stato altresì percepito come di più complesso utilizzo rispetto ai sistemi di monitoraggio continuo del glucosio standard. Il NETSSC (2009) ha analizzato un RCT (Randomized Controlled Trial) dove due gruppi hanno utilizzato un device per il monitoraggio continuo, minimamente invasivo, del glucosio: rispettivamente, il GlucoWatch® Biographer e il MiniMed® Continuous Glucose Monitoring System. Questi due gruppi sono stati comparati con un gruppo di controllo che ha, invece, ricevuto il trattamento standard (assistenza infermieristica con la stessa frequenza dei pazienti con device). Per entrambi i gruppi, a 18 mesi, si è registrato un declino nei livelli dell’HbA1c, ma in proporzione (variazione relativa) minore che nel gruppo di controllo. Inoltre, non è stata riportata una significativa modifica dei trattamenti da parte degli infermieri a seguito delle informazioni aggiuntive fornite dai device. Quindi, la valutazione economica registra minori costi e maggiori benefici nel ramo di controllo, ovvero nei pazienti che hanno ricevuto assistenza tradizionale. Si conferma, altresì, l’inferiorità del device GlucoWatch® per le ragioni sopra esposte. Un ultimo report di interesse riguarda la sicurezza e l’efficacia del trapianto di isole pancreatiche (ITA), verso la terapia insulinica intensiva o il trapianto di pancreas, in pazienti con DT1 non uremici, con ipoglicemia grave. Nessuno studio ha registrato decessi da mettere in relazione con l’ITA, ma il 25% dei pazienti ha registrato sanguinamenti intraperitoneali e il 17% trombosi portale; inoltre, la maggior parte dei pazienti ha registrato alti livelli di transaminasi, che Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica sono tornati normali entro un mese; quasi il 50% dei pazienti ha registrato un declino nella funzionalità renale, correlato all’immunosoppressione. Si evidenzia che trapiantando un’adeguata massa d’isole pancreatiche (da due o tre donatori di pancreas), si re-instaura l’indipendenza insulinica a breve termine (≤ 1 anno), ottenendo un adeguato controllo glicemico nel 30-69% dei pazienti; tuttavia, la funzione betacellulare si deteriora con il tempo e solo il 14% dei pazienti risulta ancora insulinoindipendente a 2 anni (meno del 10% a 5 anni). L’ITA, quindi, può essere considerato relativamente sicuro ed efficace per il gruppo ristretto dei pazienti con DT1 non uremici con ipoglicemia severa e non controllata, in quanto i benefici di stabilizzazione della glicemia e o indipendenza compensano i rischi potenziali del trapianto. È peraltro prematuro considerare la tecnica una terapia “standard”, in quanto incontra difficoltà rilevanti connesse alla disponibilità di isole umane e alla necessità di terapia cronica immunosoppressiva. Affinché possa essere considerata un’opzione di trattamento a lungo termine (> 1 anno), è necessaria ulteriore ricerca per identificare le cause della perdita di funzione delle cellule trapiantate, per trovare il modo di conservare la massa betacellulare nel tempo, ridurre le isole necessarie per far regredire il diabete e, infine, per diminuire la tossicità delle terapie immunosoppressive. Studi a più lungo termine (> 5 anni) sono quindi necessari per testare la durabilità nel tempo degli effetti e l’eventuale insorgenza di complicanze secondarie, come anche per raccogliere informazioni adeguate sulla HQoL. Indicazioni normative e procedurali nell’impiego delle tecnologie L’automonitoraggio glicemico domiciliare è parte integrante della terapia del diabete mellito con 13 modalità differenti in relazione alle caratteristiche cliniche della malattia ed è soggetto a una prescrizione medica e regolato dalla normativa esistente. Le norme sanciscono il diritto alla scelta condivisa dei presidi tra paziente e medico. L’innovazione tecnologica aumenta e diversifica caratteristiche e funzioni degli strumenti e richiede un’attenta valutazione dell’appropriatezza e utilità. Gli Standard di Cura Italiani per il Diabete (edizione 2010) sono il riferimento attuale per questo aspetto di cura del diabete. Molte considerazioni contenute in questo nota tecnica derivano dal Documento Tecnico AMD-SID-OSDI Lombardo (aprile 2010). Gli aspetti da prendere in considerazioni sono: • accuratezza e precisione; • caratteristiche basilari degli strumenti; • funzioni avanzate. Accuratezza e precisione Questo aspetto di notevole importanza è valutato con criteri differenti e più o meno restrittivi; si deve anche considerare che le valutazioni di accuratezza dovrebbero essere fatte anche nell’utilizzo diretto dei pazienti. Le indicazioni fornite dall’Organizzazione Internazionale per la Standardizzazioni (ISO) e contenute nell’ISO 15195 suggeriscono che per valori inferiori a 75 mg/dl lo scostamento non sia superiore a 15 mg/dl rispetto al metodo enzimatico su plasma dello stesso campione; per valori uguali o superiori a 75 mg/dl lo scostamento non deve superare il 20%. Questi limiti possono essere superati solo nel 5% dei campioni esaminati. Come proposto nel documento tecnico AMDSID-OSDI: “Lo scostamento medio (bias) delle misure effettuate dal glucometro, valutato su almeno 60 campioni di sangue con valori diversi di glicemia nell’intervallo tra 50 e 400 mg/dl, rispetto alle misure 155 Ministero della Salute effettuate con metodo enzimatico in laboratorio sui plasmi degli stessi campioni, deve essere contenuto entro il 2,2% del valore assoluto di glicemia media (es. deve essere inferiore a 2,2 mg/dl per un campione con glicemia media di 100 mg/dl). Specificità: assenza di interferenza da parte dell’ematocrito (per lo meno nel range dal 30% al 60%); interferenza minima da parte di bilirubina, lattato, beta-idrossibutirrato, acido urico, galattosio-xilosio-maltosio-icodextrina, acetaminofene e acido ascorbico. Replicabilità: l’imprecisione del metodo, valutata su almeno 20 replicati dello stesso campione, deve essere inferiore al 2,9% (espressa in termini di coefficiente di variazione) per almeno tre livelli diversi di glicemia (tipicamente attorno a 60, 250 e 400 mg/dl)”. Caratteristiche degli strumenti I seguenti punti possono servire per disegnare una griglia di valutazione dei singoli strumenti, non sono vincolanti, ma descrivono le qualità degli stessi, l’idoneità per l’utilizzo in tipologie diverse di pazienti (diabete del bambino, dell’anziano) e l’idoneità all’uso in situazioni e ambienti particolari (temperatura, ospedale, attività sportiva): • dimensioni dello strumento; • principio di misurazione: elettrochimico/colorimetrico; • tipo di enzima e interferenze; • plasma calibrazione (sì/no); • influenza dell’ematocrito (variabile da strumento a strumento; correzione automatica); • intervallo di lavoro (da 50 a 500 mg/dl); • range di temperatura (variabile) e possibilità di blocco temperatura; • conservazione delle strisce (variabili range di temperatura); • durata del test (da 3 a 30 s); • volume del campione (da 0,3 a 2 ml); 156 • durata delle batterie; • calibrazione (automatico/assente/chip code); • inserzione ed esplusione della striscia (manuale/con pulsante/automatica); • display: leggibilità (tipo di display, caratteri, retroilluminazione); • caratteritistiche del pungidito associato e smaltimento dello stesso; • possibile determinazione della chetonemia. Funzioni avanzate Valutare l’autocontrollo nel tempo da parte sia del medico sia del paziente (in particolare DT1 in terapia insulinica intensiva) richiede che le informazioni siano recuperabili con semplicità dalla memoria e analizzabili sullo strumento o meglio dopo download in diversi formati analitici (grafici, indici di variabilità glicemica: media DS, altri indici). La memoria base dei dati (valore, data, ora) è indispensabile; caratteristiche più avanzate sono da considerarsi importanti in relazione all’intensità della terapia e al grado di autogestione richiesto al paziente. Si ritiene che l’autocontrollo quotidiano (almeno 3-4 controlli/die) sia fondamentala per la persona affetta da DT1 in terapia insulinica intensiva. L’autocontrollo glicemico continuativo, con frequenza e modalità differenti secondo il trattamento insulinico effettuato, è utile per la persona con DT2 insulino-trattato. L’autocontrollo glicemico non continuativo è potenzialmente utile per la persona con DT2 in terapia orale o dietetica, ma in questo caso non sono disponibili chiare evidenze di efficacia sul controllo glicemico. La memoria e la trasmissione dei dati devono prevedere: • il numero di dati memorizzabili; • la possibilità di marcare il dato glicemico in relazione al pasto o ad altri eventi; Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica • la possibilità di scarico dei dati e formato degli stessi per l’utilizzo in cartelle cliniche informatizzate; • la disponibilità di software per la rappresentazione grafica e l’analisi degli indici glicemici di variabilità; • la possibilità di comunicare dati a infusori di insulina; • la possibilità di inviare dati con sistemi di telecomunicazione. Aspetti tecnici Il fattore chiave per una determinazione accurata della concentrazione della glicemia è convertire la concentrazione del glucosio in uno specifico segnale che possa essere misurato con precisione. A questo scopo, a oggi le tecniche di misurazione sono colorimetriche (reflettometro) o elettrochimiche (potenziometro). La tecnologia reflettometrica utilizza un metodo indiretto. Per mezzo di un enzima (la glucosioossidasi) e in presenza dell’ossigeno dell’aria, il glucosio contenuto nel campione è ossidato a perossido di idrogeno. Questo, in presenza di altro enzima, una perossidasi, ossida un indicatore cromogeno che cambia il colore della striscia. Un rapido fascio di luce, emesso dallo strumento, sarà in parte assorbito dal colore del composto formatosi nella reazione e in parte rifratto. Lo strumento misura la luce rifratta che è inversamente proporzionale al contenuto di glucosio presente nel campione. L’accuratezza di questo approccio è ampiamente determinata dal design della striscia reattiva. Questo approccio è caratterizzato dalla necessità di calibrazione del sistema e dalla necessità di porre la goccia di sangue con buona precisione in corrispondenza del reagente ottico. Altresì è importante garantire un’accurata pulizia della finestra ottica dello strumento per la possibilità di 13 una lettura alterata per l’accumulo di residui di sangue sulla finestra ottica. Con la tecnologia potenziometrica, ugualmente un enzima catalizza l’ossidazione del glucosio. Ciò comporta l’acquisto di elettroni da parte dell’enzima. Un “mediatore” chimico, riducendosi, ossida nuovamente l’enzima; il “mediatore” ridotto ossidato nuovamente cede gli elettroni a un elettrodo. La corrente elettrica generata è direttamente proporzionale alla concentrazione di glucosio. Il sistema è caratterizzato da alcuni vantaggi rispetto al metodo colorimetrico: aspirazione automatica del campione (maggiore standardizzazione del campione); maggiore praticità e comodità per la realizzazione del test; tempi di risposta minori; minore volume di campione di sangue richiesto (anche siti alternativi); maggiore igienicità e sicurezza del sistema con maggiore possibilità di impiego in ambienti dove il sistema è utilizzato da più pazienti. Accuratezza La tecnologia ha consentito enormi passi in avanti nel campo dell’autocontrollo glicemico. Le dimensioni degli strumenti sono diventate via via sempre più contenute, le forme degli strumenti sempre più ammiccanti per i pazienti e il download dei dati sempre più semplice e immediato. Nonostante gli elementi sopramenzionati abbiano importanza, soprattutto nell’accettabilità del device da parte del paziente, per il diabetologo e per la persona con diabete l’aspetto più importante rimane l’accuratezza dell’informazione ottenuta sulla concentrazione glicemica. Le norme definite dalle FDA nel 1987 prevedevano un errore complessivo nelle letture < 10%, successivamente rivisto e portato al 5%. A oggi nessuno strumento pare avere ottenuto tali performance, mentre tutti i glucometri attualmente sul mercato ampiamente soddisfano i criteri di ac- 157 Ministero della Salute curatezza e ripetibilità secondo le norme ISO (UNI EN ISO 15197). Tali norme prevedono come criteri minimi di accettabilità che il 95% dei risultati ottenuti con il glucometro cadano entro un intervallo di 15 mg/dl per glicemie < 75 mg/dl ed entro i 20 mg/dl per glicemie ≥ 75 mg /dl. Di questi giorni è la segnalazione della volontà della FDA di creare norme più stringenti, perché se è vero che il 95% dei test deve essere nei range sopradescritti, non pare invece definito quali siano i margini di errore definito per il 5% dei risultati non veri. Inoltre, visto l’importante numero di pazienti esposto al SMBG, il 5% potrebbe essere rappresentativo di un numero importante di soggetti. Soprattutto per alcune popolazioni, si pensi alle donne trattate con insulina per diabete gravidico e i pazienti ricoverati in terapia intensiva, un errore causato da un’errata lettura potrebbe diventare causa di eventi avversi seri. Da ciò la necessità di identificare metodi più adeguati per la definizione dell’accuratezza, quali la griglia degli errori di Clarke, che ci permette di vedere raffigurati i dati appaiati in un grafico a griglia. In tale griglia i dati che cadono nella zona A o B si definiscono accurati, i risultati nelle zone C non accurati ma non pericolosi, i dati che cadono nelle zone D ed E sono invece quelli che clinicamente potrebbero essere causa di eventi avversi seri. In particolare, si potrebbero poi definire score qualitativi che indichino la percentuale di dati presenti nelle diverse aree della griglia e identificare gli score più appropriati per strumenti da affidare ad alcune tipologie di pazienti. Possibili interferenze sulla qualità del dato I glucometri oggi in uso ai pazienti soddisfano tutti i criteri ISO. Nonostante ciò, studi clinici documentano come, nel mondo reale, quando questi strumenti arrivano nelle mani dei pazienti 158 l’errore spesso superi il 20%. Molti elementi contribuiscono a tale amplificazione dell’errore insito nella tecnologia: la conservazione delle strisce, che se esposte all’umidità compromettono l’accuratezza del test, la manualità dell’operatore (pulizia delle mani, dimensione della goccia, punto dove si applica la goccia, depositi di sangue sullo strumento ecc.) e infine il coding. L’accuratezza dell’autocontrollo può essere, quindi, ampiamente influenzata da errori di procedura del paziente. Fra gli errori operatore-dipendenti più rilevanti, la mancata o errata calibrazione è senza dubbio il più comune. Più segnalazioni sono disponibili in letteratura che dimostrano come l’errata calibrazione porti a letture glicemiche inaccurate fino a influenzare l’azione clinica. I sistemi per l’automonitoraggio glicemico si distinguono, inoltre, per l’enzima utilizzato. È importante precisare come i due approcci, gluco-ossidasi (GOD) o glucosio deidrogenasi (GDH), possano garantire entrambi buona accuratezza. I vantaggi della GOD sono l’alta specificità e stabilità e il minore costo, lo svantaggio più consistente è rappresentato dalle limitazioni nella misura dovute alla concentrazione di ossigeno. I vantaggi dell’impiego della GDH sono rappresentati dall’assenza di alcuna limitazione dovuta alla concentrazione di ossigeno e alla possibilità di ottenere un tempo di lettura più basso. Gli svantaggi della GDH sono principalmente rappresentati dalla minore specificità e dalla possibilità, quindi, di interferenze (maltosio, galattosio e xilosio). Nei sistemi che utilizzano la GDH, l’utilizzo come coenzima del flavin adenina dinucleotide-glucosio deidrogenasi (FAD-GDH) permette di minimizzare le possibili interferenze con maltosio e galattosio; permangono invece le possibili interferenze con lo xilosio. Quando si parla di possibili interferenze occorre distinguere le interferenze biologiche da quelle elettrochimiche. Le prime sono Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica dovute alla non elevata selettività dell’enzima verso il glucosio, che può ossidare anche altri substrati, determinando in genere una sovrastima del dato. Le interferenze elettrochimiche sono, invece, dovute a sostanze elettroattive presenti nel sangue, sia endogene (acido ascorbico, bilirubina, glutatione, cisteina, acido urico), sia esogene (farmaci). Anche in questo caso il risultato corrisponderà a una possibile sovrastima della lettura glicemica. Gli errori di sottostima si possono verificare nei sistemi basati sulla GOD generalmente in altitudine o stati di ipossiemia. Nell’Appendice 3 si riportano alcune fra le più importanti interferenze secondo il tipo di enzima o co-enzima utilizzato nei differenti sistemi. Vale la pena accennare al possibile ruolo dell’ematocrito (Hct). La concentrazione dell’Hct fa variare l’area disponibile della superficie di lavoro dell’elettrodo. In pratica, elevate concentrazioni di Hct determinano una sottostima del risultato, mentre, viceversa, basse concentrazioni di Hct determinano una sovrastima. Oggi sono disponibili sistemi in grado di correggere automaticamente il dato glicemico per la concentrazione di Hct; ciò ovviamente consente una maggiore affidabilità della lettura, soprattutto nei pazienti ove l’Hct può fluttuare o ove lo strumento è utilizzato da più pazienti. Raccomandazioni per i clinici Data la centralità del SMBG, nel guidare la terapia i clinici dovrebbero essere focalizzati sul controllo della qualità del dato: • verificando che i pazienti utilizzino periodicamente la soluzione di controllo per il controllo della qualità del dato; • verificando la regolare codifica dello strumento da parte dei pazienti e prediligere, nei più anziani o nei non affidabili, device no coding; 13 • ricordando ai pazienti di pulire adeguatamente lo strumento periodicamente; • riverificando, ogni 6 mesi, la manualità del paziente e le procedure da questo adottate durante la misurazione; • verificando periodicamente l’ematocrito del paziente per escludere possibili interferenze, o nei pazienti a rischio, identificando device in grado di correggere tale aspetto; • allertando i pazienti che alle basse temperature o in altitudine vi possono essere false iper o ipo; • verificando la lista dei farmaci in uso al paziente per escludere la presenza di sostanze in grado di interferire sulla qualità del dato del SMBG. Definizione dei setting tecnologici dei vari nodi La terapia insulinica sottocutanea continuativa tramite microinfusore La CSII è una proposta terapeutica che sempre più frequentemente è oggi presentata alle persone con DT1. Purtroppo, mancano dati controllati recenti, relativamente al nostro Paese, ma se si considerano i risultati dell’ultima survey nazionale sull’argomento, pubblicata nel 2006, si ottiene un dato pari a circa 3000 pazienti trattati con il microinfusore nel periodo dell’osservazione. Questi dati evidenziavano delle “rate” di crescita nel numero di soggetti in trattamento con CSII impressionante rispetto all’inizio degli anni 2000. I “pump users” fra il 1999 e il 2005 risultavano, infatti, aumentati del 468%. Questo incremento non pare essersi esaurito, in base ai dati pubblicati in un recentissimo editoriale sulla prescrizione della “pump therapy” in Europa, basato su dati di vendita resi disponibili dalle aziende impegnate nella commercializzazione dei device; oggi, in Ita- 159 Ministero della Salute lia, risulta in trattamento con microinfusore il 12% della popolazione con DT1. Il microinfusore è una micropompa di peso non superiore ai 100 g, che porta insulina al paziente attraverso un catetere di lunghezza variabile (60-100 cm), che termina con un ago cannula di teflon inserito nel sottocute, generalmente in regione addominale. Questo device è un sistema ad ansa aperta, che infonde analoghi ad azione rapida dell’insulina con due modalità contemporanee, una continua, infusione basale, e una intermittente, bolo pre-prandiale. Fra le possibili terapie del DT1, la CSII è, grazie a queste caratteristiche, quella che meglio permette di separare e personalizzare queste due componenti. Tutte le pompe oggi disponibili possono, infatti, modulare l’insulinizzazione basale giornaliera abbinandola al meglio con il fabbisogno insulinico dei pazienti nelle differenti fasi giornaliere. I boli insulinici pre-prandiali, inoltre, possono essere di diverso tipo in funzione della velocità con la quale questi sono infusi: boli standard (tutto l’ammontare d’insulina in una breve frazione di tempo), bolo a onda quadra (bolo “spalmato” in un periodo di tempo prolungato), o bolo a onda doppia (infusione insulinica pre-prandiale dove i due tipi di bolo precedentemente descritti si combinano). Fra le cause che hanno favorito la diffusione di questa opzione terapeutica non si può dimenticare, inoltre, l’evoluzione tecnica e la grande affidabilità delle micropompe oggi disponibili per la CSII. Contestualmente importante è stata l’evoluzione nei set d’infusione. Oggi sono scomparsi gli aghi metallici, sostituiti da aghi morbidi in teflon inclinati a 90 o 45 gradi. Gli aghi disponibili sono di dimensioni variabili, riuscendo quindi a soddisfare anche le esigenze dei pazienti pediatrici, o con scarso tessuto adiposo sottocutaneo. In tale senso è doveroso, infine, menzionare l’imminente arrivo sul mercato di microinfusori di dimensioni 160 ulteriormente ridimensionate. Questi device sono definiti pompe cerotto, perché ospitate su un cerotto di pochi centimetri (3 x 4 cm), attraverso il quale la micropompa aderirà alla cute, e sono caratterizzati dall’assoluta mancanza di cateteri. L’intero sistema – motore, serbatoio per insulina e ago – è ospitato all’interno di questo minuscolo device, scomparendo così alla vista e regalando al paziente i vantaggi della CSII e l’indipendenza da tubi e/o cateteri. I criteri di eleggibilità e, quindi, di elezione dei pazienti alla terapia con CSII dovrebbero emergere, per quanto detto sopra, dall’attenta valutazione della letteratura disponibile, in termini di RCT, nel confronto fra CSII e la best option fra le terapie insuliniche multidose nel DT1, ovvero la MDI con glargine e analoghi rapidi dell’insulina. In tale senso, nel luglio 2008 il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) ha pubblicato una Technology Assesment sulla terapia con microinfusore. Il gruppo di autori del NICE ha potuto valutare solo 4 RCT. Di questi uno evidenziava una significativa differenza fra la CSII e la MDI, mentre nei 3 rimanenti l’evidenza di una superiorità della terapia con microinfusore appariva molto scarna. Quando però l’osservazione si allargava ai 48 studi osservazionali disponibili sull’argomento, emergeva come nella maggior parte di questi alla fine del periodo di osservazione l’HbA1c apparisse significativamente inferiore nel gruppo trattato con CSII. A supporto di tale evidenza gli autori sottolineavano come il ricorso a studi osservazionali potesse comportare un rischio d’errore superiore rispetto agli RCT, ma come d’altra parte questi studi fossero di maggiore durata, considerassero un numero maggiore di soggetti, che peraltro risultavano avere maggiori probabilità di essere rappresentativi delle persone che nella pratica clinica quotidiana sono selezionate per l’avvio alla terapia con microinfusore. Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica Come la selezione del paziente sia un elemento critico per il successo della terapia è stato confermato da un trial multicentrico internazionale, pubblicato alla fine del 2009, che confrontava l’effetto di un trattamento MDI (lispro + glargine) vs CSII in un gruppo di 43 soggettivi naïve sia alla terapia con microinfusore, sia alla terapia con analoghi rapidi e lenti dell’insulina. Le conclusioni degli autori sottolineavano come in un gruppo “non selezionato” di soggetti con DT1 la CSII non presentasse vantaggi in termini di miglioramento del compenso glicemico, anzi come questa apparisse più costosa rispetto al trattamento insulinico multidose. Peraltro, come osservato in una revisione pubblicata all’inizio del 2009, negli studi di confronto diretto fra MDI con analoghi lenti e rapidi dell’insulina e trattamento con microinfusore, quando sia presente una differenza significativa in termini di miglioramento del controllo glicemico, questa sia sempre a favore della CSII, mentre negli altri casi le due terapie sono risultate sovrapponibili (in altre parole non è mai stato riscontrato un vantaggio terapeutico, nella riduzione dell’HbA1c, a favore della MDI). Inoltre, la categoria di pazienti nei quali i dubbi sulla superiorità della CSII paiono sparire è quella dei pazienti in modesto controllo glicemico. In tali pazienti, infatti, la CSII, anche se confrontata con la migliore MDI possibile, risulta sempre significativamente più efficace nella riduzione dell’HbA1c. L’ipoglicemia è stata per lungo tempo ritenuta una delle indicazioni elettive all’uso della CSII. Da questo punto di vista, in alcune osservazioni il rischio di ipoglicemia e la variabilità glicemica appaiono non dissimili nei due trattamenti, mentre in altri studi risulta evidente un effetto favorevole del trattamento insulinico con micropompa. Infine, per quanto riguarda la qualità della vita, lo studio caso-controllo italiano “Equality One”, 13 il più ampio studio realizzato finora sull’argomento, ha dimostrato che, nonostante il gruppo trattato con CSII fosse caratterizzato da una maggiore durata del diabete e da una più alta frequenza di complicanze microangiopatiche, la qualità della vita e la soddisfazione sul trattamento insulinico erano significativamente superiori nei pazienti trattati con microinfusore. A fronte di quanto finora scritto, è doveroso ricordare che il costo delle due alternative terapeutiche è considerevolmente differente non solo in termini di device e materiali di consumo, ma anche in termini di impianto organizzativo dei necessari percorsi assistenziali dedicati. Se si confrontano i costi “grezzi” delle due terapie, la CSII ha un impatto economico annuo 4 volte superiore alla MDI con glargine + analoghi rapidi. La revisione più volte citata realizzata dal NICE sull’“Insulin Pump Therapy” ha considerato, inoltre, anche la costo-efficacia di tale approccio terapeutico. Considerando un valore di HbA1c al basale, rispettivamente, di 9,4% o 8,11%, il costo incrementale per il sistema sanitario inglese appariva essere rispettivamente di £ 16.442 o £ 34.300 per QALY (Quality Adjusted Life Years). Alla luce di quanto detto, pare appropriata come indicazione alla prescrizione della terapia con microinfusore quanto identificato dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e dalla Società Italiana di Diabetologia (SID) negli “Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito”. In tale documento la raccomandazione all’uso della CSII nelle persone con DT1 è stata così descritta: “In soggetti selezionati che, nonostante un regime basal-bolus ottimale, presentino scarso controllo glicemico e/o ipoglicemie ricorrenti, può essere considerata l’indicazione all’uso del microinfusore da parte di un team esperto nel suo utilizzo (Livello della Prova II, Forza della Raccomandazione B)”. 161 Ministero della Salute Non sono al momento disponibili evidenze per altre indicazioni cliniche alla prescrizione della CSII, quali il DT2 e la gravidanza. In quest’ultimo caso, l’uso del microinfusore pare giustificato solo ove una MDI con analoghi rapidi e lenti dell’insulina abbia fallito al raggiungimento degli obiettivi glicemici. In questa delicata situazione pare importante sottolineare come l’eventuale inizio della terapia insulinica con micropompa dovrebbe avvenire nella fase della programmazione della gravidanza e come, se tale terapia dovesse essere iniziata nella gravidanza già in corso, questa debba essere avviata solo in servizi di diabetologia ad altissima esperienza in tale ambito. Accuratezza e vantaggi clinici nell’utilizzo dei sistemi dei microinfusori Al momento non esistono norme ISO specifiche che identificano il profilo di accuratezza delle pompe per infusione sottocutanea continua di insulina. In termini di sicurezza e affidabilità si fa riferimento al documento ISO 14971, che definisce le situazioni di rischio alle quali gli utilizzatori di dispositivi medicali sono esposti. Il database della FDA (Manufacturer and User Facility Device Experience) segnala oltre 5000 incidenti nel 2008. Gli incidenti riportati sembrano prevalentemente attribuibili a errori dell’operatore o del paziente, che si ricorda ha in carico la gestione del device 24 ore al giorno per 7 giorni la settimana, mentre più rari sembrano gli eventi avversi causati da sovrainfusione o sottoinfusione. In tale senso il centro della FDA per i device e il rischio radiologico sta indagando la fattibilità di un modello ingegneristico di riferimento per i software che gestiscono i dispositivi medicali. La pompa insulinica è stata selezionata come primo ambito di ricerca, in quanto presenta un grado di complessità adeguato nella sua modellistica e rap- 162 presenta, inoltre, una sfida regolatoria per il prossimo futuro. Lo sforzo è quello di identificare i possibili elementi di rischio correlati a tale approccio terapeutico e quindi definire dei set minimi qualitativi che non interessino esclusivamente il software e la componentistica meccanica/elettronica, ma anche l’interfaccia con l’utilizzatore per offrire al paziente la possibilità di avere indicazioni chiare e un sostegno decisionale per la definizione dell’adeguata dose di insulina da iniettare. Occorre comunque ancora sottolineare l’importanza dell’esperienza del centro che offre al paziente l’educazione terapeutica prima dell’inizio della terapia con microinfusore. Tale programma educazionale ha il significato non solo di trasferire al paziente tutte le competenze tecniche per la gestione del device, ma soprattutto quella dell’abilità nel prevenire, identificare e adeguatamente trattare tutte le possibili situazioni di emergenza. Infine, è utile ricordare che tutti i microinfusori sono dotati di allarmi per la segnalazione di eventuali occlusioni nel set di infusione e di allarmi per la segnalazione dell’imminente termine della riserva insulinica. Le caratteristiche tecniche degli infusori in uso sono descritte nell’Appendice 4. Il monitoraggio continuo della glicemia real-time Il monitoraggio continuo della glicemia (continuous glucose monitoring, CGM) è oggi possibile attraverso metodiche mini-invasive, ovvero attraverso la misurazione diretta e continua della concentrazione del glucosio presente nei liquidi interstiziali, più specificatamente nei liquidi che bagnano il tessuto adiposo sottocutaneo. Tale approccio, possibile grazie alla disponibilità di sensori del glucosio a forma di ago, consente il monitoraggio continuo del glucosio partendo dal Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica presupposto che la concentrazione del glucosio nei liquidi interstiziali è sovrapponibile a quella nel versante ematico. Tali device sono inoltre in grado di fornire dati immediati sulla velocità e sulla direzione di spostamento della glicemia. Sulla base dell’osservazione dei “trend”, infine, questi sistemi consentono di prevedere gli spostamenti delle glicemie nei minuti a venire e possono anche allertare il paziente in caso di superamento della soglia dell’ipo- o dell’iperglicemia, rendendo così possibile un atteggiamento pro-attivo del paziente stesso che può, sulla base delle escursioni glicemiche, immediatamente aggiustare la terapia insulinica, o la dieta. L’impatto del monitoraggio continuo “real-time” della glicemia sul controllo metabolico, misurato in termini di miglioramento dell’HbA1c, è ben documentato nelle persone con DT1 adulte, ma non negli adolescenti e nei bambini. In questo senso si esprimono anche gli standard assistenziali AMD/SID e l’American Diabetes Association (ADA). Il monitoraggio continuo della glicemia, come accennato in precedenza, è possibile grazie alla misurazione in continuo della concentrazione del glucosio nei liquidi interstiziali. Tale concentrazione è in stretta relazione con la glicemia, ma affinché avvenga l’equilibrio fra la concentrazione del glucosio nei due compartimenti decorre un tempo, detto lag time, che oscilla fra i 7 e i 20 minuti. Ciò fa sì che, se si confrontano i dati rilevati nello stesso momento con il CGM o con il SMBG, le informazioni ottenute possano essere differenti. Dati pubblicati sull’accuratezza dei sistemi CGM derivano dal confronto dei dati appaiati CGM e SMBG ricavati dagli RCT di confronto fra i due approcci fino a oggi disponibili. Valutando oltre 60.000 dati appaiati ottenuti dallo studio STAR1 si ricava come le % dei risultati ottenuti dai sensori che risultano compresi nel 20% o nel 30% di con- 13 cordanza con i dati del SMBG siano, rispettivamente, del 75,6% e dell’86,8%. La media assoluta della differenza relativa risulta essere del 15,8% e il “bias” pari a –2,13 mg/dl. Il medesimo studio ha evidenziato come il 95,6% dei dati risultasse nella zona A + B della griglia degli errori di Clarke. Ovviamente queste performance del CGM non paiono ancora adeguate per l’utilizzo di tali device per la chiusura dell’ansa, ma l’utilizzo più immediato ai quali questi sistemi sono chiamati è profondamente differente. Questo è, infatti, quello di informare continuativamente i pazienti sulle oscillazioni glicemiche. In tale senso ciò che è importante sottolineare è come i dati ottenuti dal CGM non debbano e non siano utilizzati come puntiformi, ovvero come si utilizza il dato ricavato dal SMBG, ma vengano, invece, interpretati integrandoli con le informazioni relative alla direzione e alla velocità di spostamento della glicemia. Ciò rende così possibile una previsione sulle future escursioni glicemiche e un intervento finalizzato alla prevenzione delle ipo- o delle severe iperglicemie. È inoltre doveroso ricordare come i pazienti, tutte le volte che devono iniettare una dose di insulina sotto forma di bolo pre-prandiale o di correzione di eventuale iperglicemia, siano invitati a controllare la glicemia con i tradizionali glucometri. Ciò spiega perché gli episodi di ipoglicemia severa siano sempre risultati significativamente diminuiti negli RCT fino a oggi disponibili e perché nessun incidente da erroneo sovradosaggio del bolo insulinico sia stato riportato negli utilizzatori del CGM. L’implementazione nella pratica clinica dei sistemi real-time per il monitoraggio continuo della glicemia determinerebbe un costo grezzo per paziente trattato nell’anno non molto dissimile da quello necessario per l’adozione della CSII. Tale spesa corrisponde a un costo addizionale annuo pari a circa $ 4380 contro i $ 550-2740 in funzione della frequenza del solo automonitoraggio glice- 163 Ministero della Salute mico domiciliare. Un solo studio sulla costo-efficacia è stato recentemente pubblicato. Tale valutazione, condotta negli Stati Uniti, ha documentato come nei primi sei mesi l’adozione di tale approccio non sia costo-efficace, ma come, se si proiettasse la medesima valutazione in un periodo prolungato, life-time, la costo-efficacia di tale intervento risulti adeguata, $ 100.000/QALY. Quale modalità organizzativa assistenziale per l’equità di accesso alle nuove tecnologie? La survey sull’uso della CSII in Italia pubblicata nel 2006 aveva evidenziato come i microinfusori fossero prescritti in solo 165 servizi di diabetologia sul territorio nazionale, ovvero come solo il 26% dei servizi censiti dall’AMD sul territorio nazionale nel 2003 offra ai propri pazienti questa possibilità terapeutica. La situazione non è molto differente per quanto concerne l’uso del CGM. L’introduzione di una nuova tecnologia potrebbe rappresentare l’occasione ideale per definire e testare una modalità organizzativa che consenta equità di accesso alla tecnologia stessa, valorizzando al tempo stesso le competenze e l’esperienza dei centri più specializzati e ad alto livello di organizzazione. Tale modello (modello Hub & Spoke) è già stato utilizzato in altre realtà assistenziali e prevede l’esistenza di centri specializzati nell’educazione all’uso della nuova tecnologia (Hub), cui fa riferimento una rete di centri periferici (Spoke) non dotati delle necessarie competenze o modalità organizzative atte a gestire direttamente tutti gli aspetti legati all’introduzione della tecnologia. Dopo l’avvenuta condivisione, fra tutti i clinici che operano nel network, delle indicazioni cliniche per la prescrizione appropriata delle tecnologie alla diagnosi e terapia del DT1, i pazienti candidati all’uso della tecnologia, identificati presso gli Spoke, sono inviati all’Hub dove ricevono la for- 164 mazione e il training necessari per una corretta utilizzazione del device e per essere, infine, reinviati al centro Spoke di provenienza. La telemedicina in diabetologia La telemedicina è la pratica della medicina a distanza attraverso reti di comunicazione, linea telefonica, intranet, internet. Secondo l’Advanced Informatics in Medicine (AIM), la telemedicina è definita come “il monitoraggio e la gestione dei pazienti, nonché l’educazione dei pazienti e del personale, usando sistemi che consentano un pronto accesso alla consulenza di esperti e alle informazioni del paziente, indipendentemente da dove il paziente o le informazioni risiedano”. Le tecnologie generalmente utilizzate sono semplici e di facile accesso e ciò ha permesso un utilizzo sempre più ampio della telemedicina. Nel 2001 sono stati censiti più di 450 sistemi di telemedicina in tutto il mondo, di cui 360 negli Stati Uniti. Molto interessante è l’applicazione dei sistemi telematici all’assistenza a distanza e al monitoraggio delle persone con patologie croniche. È stato dimostrato che questi sistemi di monitoraggio e di assistenza a distanza possono aumentare la capacità del paziente cronico di correggere lo stile di vita, di aderire in maniera più precisa e attenta alle terapie. Un tale approccio ha dimostrato di determinare, inoltre, un risparmio delle risorse utilizzate. Il diabete mellito è un esempio di malattia cronica la cui gestione da tempo è supportata da sistemi telematici che sono utilizzati nell’ambito dello screening delle complicanze croniche, dell’automonitoraggio della glicemia capillare e in ambito educativo. In particolare, nella persona con diabete la telemedicina rappresenta un’importante opzione per la gestione dell’automonitoraggio della glicemia capillare. Importanti RCT, DCCT, DAFNE e UKPDS hanno dimostrato come il regolare con- Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica trollo della glicemia capillare e l’adeguata gestione dei risultati siano fondamentali per un’efficace cura del diabete. Tali studi hanno inoltre evidenziato come l’empowerment della persona con diabete e il contatto frequente con il team diabetologico migliorino gli esiti degli interventi terapeutici. In questo contesto la telemedicina può intervenire con efficacia su due aspetti da sempre problematici: • se non è sottoposta a un programma di educazione terapeutica finalizzata alla gestione del dato glicemico, la persona con diabete non sa come utilizzare le informazioni ottenute per la gestione della terapia ipoglicemizzante; • durante un programma di educazione terapeutica il necessario contatto frequente fra team di diabetologia e persona con diabete incontra spesso ostacoli logistici, di tempo, di risorse. Sono da tempo in uso diversi sistemi di gestione a distanza delle informazioni derivate dall’autocontrollo e la letteratura offre diversi documenti che testimoniano l’applicabilità clinica di questi sistemi. In genere, i risultati dell’autocontrollo della glicemia capillare sono trasmessi dal glucometro a dispositivi di vario tipo che, via web, oppure attraverso la rete telefonica, inviano i dati allo specialista. Nel DT2 sono disponibili informazioni derivate da alcuni RCT che confermano come l’utilizzo della telemedicina possa determinare un migliore controllo glicemico in pazienti sia in terapia insulinica, sia in terapia con ipoglicemizzanti orali. Oltre agli outcome sul controllo glicemico esistono informazioni sulla possibilità di gestire al meglio, grazie a tale approccio, anche il profilo lipidico e pressorio dei pazienti con DT2 seguiti attraverso la webmedicine. Nel DT1 esistono diverse segnalazioni e in particolare una metanalisi di RCT che dimostra come si possa ottenere un miglioramento del controllo gli- 13 cemico più rilevante, in termini di variazione dell’HbA1c rispetto al valore basale, nei pazienti seguiti con telemedicina rispetto ai gruppi di controllo. Queste esperienze positive possono verosimilmente essere messe in relazione con l’aumentata frequenza dei contatti tra medico e paziente offerta dai sistemi di telemedicina. Inoltre, il consiglio terapeutico che arriva in tempo reale in risposta all’andamento dei dati clinici delle glicemie può aumentare la motivazione del paziente verso un più attento e regolare monitoraggio della glicemia e migliorare la sua aderenza alle raccomandazioni per il cambiamento delle abitudini di vita. Oltre ai dati relativi agli outcome clinici della gestione telematica, alcuni studi hanno dato qualche risultato anche in termici di costi. Uno studio pubblicato nel 2003 ha seguito per sei mesi 63 adolescenti con DT1, 30 randomizzati all’invio delle glicemie via modem ogni due settimane al posto delle visite ambulatoriali. Il gruppo di controllo, 33 pazienti, effettuava tradizionali visite trimestrali. Al termine dello studio non c’era differenza tra i due gruppi in termini di miglioramento dell’HbA1c, mentre i costi erano maggiori nel gruppo con visite ambulatoriali ($ 305) rispetto al gruppo di intervento ($ 163). Inoltre, nel gruppo di intervento si evidenziava una riduzione del 50% dei giorni di scuola e di lavoro persi. Tuttavia, nonostante la numerosità dei sistemi di telemedicina implementati in varie parti del mondo, è un dato di fatto che la telemedicina non è ancora estesamente applicata nella pratica clinica di routine. Gli stessi “Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito” o le “clinical practice recommendations” prodotte dall’ADA non hanno affrontato l’argomento producendo raccomandazioni specifiche. Sono chiaramente necessarie maggiori informazioni circa la valutazione degli outcome clinici e i costi di questo approccio. 165 Ministero della Salute I farmaci Il diabete mellito è una malattia cronica che richiede un trattamento medico continuo e un persistente autocontrollo della patologia (glicemia) da parte del paziente, il quale deve quindi essere educato e aiutato nella prevenzione delle complicanze acute e nella riduzione del rischio associato allo sviluppo delle complicanze croniche. La cura del diabete è complessa e richiede che molti aspetti, oltre al controllo medico della glicemia, siano chiariti, quali la dieta, l’attività fisica e il trattamento e/o prevenzione delle complicanze croniche associate. Numerose evidenze esistono in favore di differenti scelte d’intervento terapeutico che possono essere utilizzate per ridurre il numero e la gravità degli esiti acuti e cronici della patologia diabetica. I pazienti affetti da diabete devono ricevere cure mediche che siano condivise da una squadra coordinata dal medico specialista in diabetologia. La squadra o team deve essere composta/o da medici specialisti, medici di famiglia, infermieri professionisti esperti nella gestione del paziente diabetico, dietisti, farmacisti e psicologi con una particolare esperienza nel diabete. Il piano d’intervento terapeutico deve essere concordato in collaborazione, istaurando un’alleanza terapeutica tra il paziente, la famiglia del paziente, il medico specialista in diabetologia e gli altri membri del team che devono gestire la patologia complessa del diabete. Una varietà di differenti strategie e tecniche può essere utilizzata nel fornire un’adeguata educazione e nello sviluppare l’abilità individuale (del paziente) nella gestione, nella risoluzione dei problemi e dei molteplici aspetti legati all’autogestione della terapia. Il miglioramento del piano di coordinazione richiede che ciascun aspetto sia compreso e che la cura sia concordata fra il medico e il paziente. È importante che gli obiettivi terapeutici e il trat- 166 tamento siano ragionevolmente raggiungibili ed eseguibili dal paziente; è inutile programmare una terapia e obiettivi terapeutici che non possono essere raggiunti dal paziente. Nello sviluppare il piano d’intervento, particolare considerazione deve essere data all’età del paziente, all’attività fisica svolta durante il lavoro, all’attività scolastica, alle caratteristiche dell’alimentazione, alle condizioni sociali e alle abitudini culturali del paziente, alla presenza di complicanze croniche associate al diabete o di altre patologie concomitanti. Nella decisione della scelta terapeutica da intraprendere nella cura del diabete mellito l’obiettivo principale è quello della protezione a lungo termine dall’insorgenza di complicanze croniche e acute associate alla patologia. Nel trattamento del paziente diabetico il controllo della glicemia deve essere monitorato con l’autocontrollo della glicemia ematica (SMBG) da parte del paziente, o con il dosaggio della glicemia interstiziale e dei valori di HbA1c. Gli obiettivi terapeutici da raggiungere nei pazienti diabetici affetti sia da DT1 sia da DT2 sono il raggiungimento di concentrazioni ematiche di HbA1c inferiori a 7%, valori di glicemia a digiuno e pre-prandiale compresi tra 70 e 130 mg/dl e di glicemia postprandiale inferiori a 180 mg/dl. Diabete di tipo 2 L’azione dei farmaci utilizzati nel trattamento del DT2 si manifesta principalmente nell’aumentare la sensibilità periferica all’azione dell’insulina, nella stimolazione della secrezione insulinica sia direttamente sia in risposta al glucosio e nella riduzione dell’assorbimento del glucosio a livello intestinale (Figura 13.1). La scelta dell’agente ipoglicemizzante da utilizzare nel DT2 dovrebbe essere condotta in base alle esigenze mediche del paziente e agli obiettivi del trat- 13 Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica Diagnosi Interventi sullo stile di vita Metformina + glitazone Metformina + sulfonilurea o glicide + glitazone Metformina + analogo GLP1 Metformina + sulfonilurea o glicide + analogo GLP1 Metformina + gliptina Metformina + sulfonilurea + gliptina Metformina + sulfanilurea o glicide Metformina + insulina basale Metformina Metformina + insulina basale Metformina + sulfonilurea o glicide + insulina basale Metformina + insulina basal-bolus Figura 13.1 Flow-chart per la terapia del diabete di tipo 2 (AMD-SID: Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito 2009-2010). tamento, alla potenza dell’agente nel raggiungere l’ottimo controllo glicemico, alla tollerabilità e agli effetti collaterali potenziali del farmaco utilizzato, alla facilità di somministrazione, alla convenienza costo-beneficio e alla presenza di eventuali altri effetti benefici extraglicemici. La singola monoterapia con un farmaco ipoglicemizzante può abbassare i livelli della HbA1c dello 0,5-2%, mentre l’insulina può ridurre del 3% i valori dell’HbA1c. La somministrazione di farmaci ipoglicemizzanti con differente meccanismo d’azione può avere un effetto sinergico e ridurre le concentrazioni di HbA1c di circa il 3,5%. Differenti classi di farmaci possono essere utilizzate, quali le biguanidi; attualmente la metformina è l’unica molecola in commercio in Italia e in Europa; in Canada è stata introdotta per il trattamento del DT2 nel 1957, mentre negli Stati Uniti è stata autorizzata solamente nel 1995. La metformina migliora la secrezione d’insulina in risposta al glucosio, poiché riduce l’effetto della glucotossicità. La metfomina favorisce la captazione di glucosio a livello della fibra muscolare striata e riduce la gluconeogenesi a livello epatico. La metformina può essere utilizzata in associazione con tutte le altre classi di ipoglicemizzanti orali e con l’insulina. Gli effetti collaterali principali associati a questa terapia sono disturbi gastrointestinali, diarrea e raramente acidosi lattica, con una percentuale di 1 caso ogni 100.000 pazienti trattati. La metformina è considerata la terapia iniziale nel DT2 sia per l’ottimo rapporto costo-beneficio, sia per l’efficcacia e la sicurezza nel trattamento a lungo termine; la somministrazione avviene dopo i pasti a un dosaggio di 500 o 1000 mg. I tiazolidinedioni 167 Ministero della Salute o PPAR-gamma agonisti sono una classe di farmaci ipoglicemizzanti orali che aumenta la sensibilità periferica all’azione dell’insulina. Esistono due molecole di questa classe: rosiglitazone, che è stato ritirato dal commercio per l’elevato rischio associato all’insorgenza di insufficienza cardiocircolatoria, e pioglitazone, in commercio in Italia, che è un PPAR-gamma e alfa-agonista. Gli effetti collaterali associati a questa terapia sono l’incremento del peso corporeo, l’aumento della ritenzione idrica, l’insufficienza cardiaca e l’aumento del rischio di frattura per l’insorgenza dell’osteoporosi, raramente l’insufficienza renale. È sconsigliato l’utilizzo di pioglitazone nei pazienti nella classe 3 e 4 per disfunzione cardiocircolatoria secondo la classificazione della New York Heart Association (NYHA). L’azione di pioglitazone si ha principalmente a livello del tessuto adiposo, dove potenzia l’effetto antilipolitico dell’insulina e favorisce la captazione del glucosio nel tessuto adiposo e nel muscolo scheletrico striato e in misura minore riduce la gluconeogenesi epatica. Le sulfoniluree sono la classe di ipoglicemizzanti orali detti insulino-secretagoghi come le meglitinidi. poiché aumentano la secrezione dell’insulina dirrettamente legandosi ai propri recettori SUR1. Esistono due recettori per le sulfoniluree: il SUR1, presente nella cellula beta pancreatica, e il SUR2, che è invece espresso a livello della cellula miocardica. L’effetto delle sulfoniluree sul miocardio è potenzialmente dannoso e, attualmente, sono raccomandate le sulfoniluree di terza generazione nel trattamento dell’iperglicemia, poiché hanno una ridotta affinità di legame con il recettore SUR2. Il loro utilizzo nella terapia antidiabetica orale è molto comune, poiché sono facilmente disponibili, con un basso costo, anche se è stato dimostrato il fallimento a lungo termine in monoterapia. Le sulfoniluree hanno come effetto collaterale il rischio di crisi ipoglicemiche, particolamente nell’anziano e specialmente con l’utilizzo 168 di sulfoniluree con una lunga emivita; si somministrano prima dei pasti. Le meglitinidi sono un’altra classe do ipoglicemizzanti orali che si lega al recettore delle sulfoniluree, ma in un dominio differente rispetto a quello delle sulfoniluree e potenzialmente il rischio d’insorgenza di patologia cardiovascolare è minore. Hanno una potenza minore rispetto alle sulfoniluree, ma hanno un rischio ridotto di crisi ipoglicemica; devono essere somministrate prima dei pasti. La repaglinide è la molecola di questa classe autorizzata in Italia; inoltre sono presenti nateglinide e mitiglinide, che non sono disponibili in Italia. Gli incretino-mimetici e gli inibitori della DPP-IV rappresentano una nuova classe di farmaci anti-iperglicemici di recente autorizzazione per il trattamento del DT2 (Tabella 13.1). Gli incretinomimetici sono gli analoghi sintetici dell’ormone GLP-1 (glucagon-like peptide-1), modificati nella struttura proteica per essere resistenti all’azione di degradazione mediata dalla DPP-IV. La principale azione degli incretino-mimetici è stimolare la secrezione insulinica, solamente in risposta al glucosio. Questa caratteristica rende maggiormente sicuro ed efficace il trattamento del paziente diabetico; inoltre, possono ridurre lo svuotamento gastrico, aumentare il senso di sazietà e ridurre l’apporto calorico giornaliero; questi farmaci possono migliorare il profilo lipidico della dislipidemia diabetica, ridurre il peso corporeo e avere altre azioni che migliorano il compenso metabolico del paziente. Gli effetti collaterali più frequenti associati a questa terapia sono la nausea e il vomito. È possibile avere un aumento del rischio di ipoglicemia quando questa terapia è associata al trattamento con farmaci secratagoghi dell’insulina. Attualmente sono in commercio exenatide, che prevede la somministrazione del farmaco due volte al giorno con un’iniezione sottocutanea, e liraglutide, che può essere somministrata una sola volta al giorno sempre mediante somministrazione sottocutanea del far- 13 Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica Tabella 13.1 Caratteristiche degli incretino-mimetici e degli inibitori della dipeptidil peptidasi IV (DPP-IV) Incretino-mimetici Inibitori della DPP-IV Somministrazione parenterale (sc) Somministrazione orale Azione intermedia (exenatide), azione lunga (liraglutide) Azione lunga Selettivi per il recettore GLP-1 Effetti meno potenti rispetto agli incretino-mimetici (esclusa la riduzione dell’HBA1c) Non selettivi (altre molecole possono essere substrati della DDP-IV) Aumentano i livelli di GLP-1 esogeno a valori sopra-fisiologici Aumentano le concentrazioni del GLP-1 e del GIP a valori fisiologici Stimolano la secrezione insulinica, riducono la secrezione di glucagone Stimolano la secrezione insulinica e inibiscono la secrezione di glucagone Riducono i valori di HBA1c dello 0,8-1,8% Riducono i valori di HBA1c dello 0,7-1,2% Inibiscono lo svuotamento gastrico, inducono sazietà Non hanno effetti sullo svuotamento gastrico e sulla sazietà Riducono il peso corporeo Non hanno effetti sul peso corporeo Problematico il sovradosaggio del farmaco Il sovradosaggio non è tossico Probabili casi di pancreatite Non sono segnalati rischi specifici a lungo termine Rischi di ipoglicemia specialmente in associazione con le sulfoniluree Ridotto rischio di ipoglicemia Nausea e/o vomito No nausea e no vomito Non consigliati nei pazienti con insufficienza renale grave Aggiustamento del dosaggio in caso d’insufficienza renale grave maco, entrambe indipendentemente dai pasti. Gli inibitori della DPP-IV riducono la degradazione del GLP-1 endogeno, la cui secrezione è diminuita nel paziente con DT2, e hanno un’azione neutra nell’indurre sazietà e perdita di peso, ma favoriscono la secrezione insulinica in risposta al glucosio. Le molecole approvate attualmente in Italia sono vildagliptin, sitagliptin e saxagliptin. Sitagliptin e saxagliptin possono essere somministrati con terapia orale in una singola dose giornaliera, rispettivamente con un dosaggio di 100 mg e 5 mg, mentre vildagliptin è assunto con un dosaggio massimo giornaliero di 100 mg suddiviso in due somministrazioni; la terapia è orale ed è indipendente dai pasti. In ultimo, si ricordano gli inibitori dell’α-glucosidasi; la molecola di questa classe in commercio in Italia è l’acarbosio, mentre l’altra molecola, miglitol, non è commercializzata in Italia. L’inibizione dell’α-glucosidasi riduce l’assorbi- mento del glucosio e, come conseguenza, il picco iperglicemico postprandiale, migliorando la funzionalità della cellula beta pancreatica. La molecola deve essere somministrata prima dei pasti; l’effetto collaterale principale deriva dall’elevato carico di glucosio a livello del colon, che porta a una distensione gassosa del colon e a conseguenti fenomeni di flautulenza; questi effetti collaterali possono essere marcatamente manifesti e scarsamente tollerati da alcuni pazienti. Differenti regimi terapeutici di associazione con farmaci ipoglicemizzanti orali e insulina possono essere proposti; per un approfondimento dell’argomento si rinvia alla consultazione delle Linee guida dell’AMD-SID, dell’ADA ecc. La terapia insulinica nel DT2 può essere istituita come basale, in cui si utilizzano insuline sintetiche umane o analoghi sintetici modificati dell’insulina umana che hanno un’emivita di quasi 24 ore senza 169 Ministero della Salute picco d’azione, o come soluzioni d’insulina premiscelata in cui si combinano nella stessa siringa un’insulina ad azione rapida (umana) o “ultrarapida” (analoghi modificati dell’insulina umana) con un’insulina ricombinante umana con emivita intermedia. Si possono inoltre utilizzare regimi di trattamento insulinico prima dei pasti (“trattamento prandiale”), o in alternativa un regime “intensivo” che consiste nella somministrazione d’insulina basale normalmente la sera prima di coricarsi e preprandiale, utilizzando insuline sintetiche rapide o analoghi sintetici ultrarapidi; questo regime terapeutico è definito “basal-bolus”. Maggiori dettagli sulle differenti strategie terapeutiche utilizzate sono riportati nel paragrafo “Diabete di tipo 1”. La terapia con insulina può essere associata con la somministrazione di ipoglicemizzanti orali insulino-sensibilizzanti come la metformina, che è sempre la molecola da preferire tranne quando il paziente è intollerante al farmaco; in questo caso può essere utilizzata un’altra classe di ipoglicemizzanti orali sempre insulino-sensibilizzanti. Esistono differenti algoritmi terapeutici proposti per il trattamento del DT2 con l’insulina in associazione o meno con ipoglicemizzanti orali e per un approfondimento dell’argomento si consiglia di consultare le Linee guida dell’AMD/SID, dell’ADA ecc. Negli Stati Uniti è disponibile come molecola pramlintide, che è un analogo dell’ormone amilina co-secreto con l’insulina dalla cellula beta pancreatica. La pramlintide ha effetti specifici ipoglicemici ed extraglicemici che favoriscono il compenso metabolico del paziente affetto da DT2 e DT1; comunque, la difficile manegevolezza del farmaco e frequenti crisi ipoglicemiche ne limitano l’utilizzo. Nel prossimo futuro differenti molecole e nuove classi di ipoglicemizzanti sono attese; fra questi si ricordano gli inibitori selettivi del cotrasportatore del sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) che inibiscono il riassorbimento del glucosio a li- 170 vello renale e riducono i livelli sierici di glucosio aumentandone l’escrezione renale. Diabete di tipo 1 I risultati più importanti nella valutazione del controllo glicemico nel DT1 sono stati ottenuti con lo studio Diabetes Control and Complication Trial (DCCT), completato nel 1993, e con il successivo monitoraggio dei pazienti che avevano partecipato allo studio nell’Epidemiology of Diabetes Intervention and Complications (EDIC) study. Nel DCCT sono stati confrontati due gruppi di studio d’intervento, uno con trattamento intensivo o con tre o più somministrazioni giornaliere d’insulina, o con pompa esterna per l’infusione d’insulina, e il secondo con trattamento “convenzionale” con una o due somministrazioni d’insulina. Sono stati valutati gli effetti a lungo termine sulle complicanze croniche associate al diabete come la retinopatia diabetica, la nefropatia, la neuropatia e anche le complicanze macrovascolari, riscontrando un effetto importante del trattamento intensivo nella riduzione sia della prevalenza sia della severità della patologia d’organo specifica. Da questi risultati è emerso come raccomandazione che il paziente affetto da DT1 deve essere trattato con un regime di terapia intesivo sotto la supervisione di un team di medici, come sopra riportato. Comunque, deve essere sempre valutato il rischio-beneficio della terapia intensiva, che non sempre può essere applicata a tutte le popolazioni di pazienti con DT1 e gli effetti possono non essere così favorevoli come nella popolazione studiata nel DCCT che aveva modeste o assenti complicanze. Le popolazioni in cui applicare con prudenza o non applicare un regime di terapia insulinico intensivo sono i bambini con un’età inferiore ai 13 anni, le persone anziane e i pazienti all’ultimo stadio dell’insufficienza renale e in dialisi o con un’importante patologia cardiovascolare o cerebrovascolare. Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica Recentemente l’utilizzo degli analoghi dell’insulina ha permesso una riduzione considerevole delle crisi ipoglicemiche severe per le peculiari caratteristiche farmacodinamiche di questa classe farmacologica, che ha un più facile impiego e una maggiore sicurezza. L’avanzare della tecnologia del DNA ricombinante ha permesso la produzione di elevate quantità d’insulina sia con una struttura di aminoacidi identica a quella dell’insulina, sia modificate nella sequenza proteica per ottenere delle insuline sintetiche con specifiche proprietà farmacodinamiche maggiormente efficaci nella strategia di trattamento del DT1. Nella Tabella 13.2 si riportano le caretteristiche delle insuline sintetiche e analoge in commercio in Italia. Strategia I livelli di controllo della glicemia, simili a quelli ottenuti nel DCCT con il trattamento intensivo, sono molto difficilmente raggiungibili nella maggior parte dei pazienti senza l’utilizzo di un tratta- 13 mento d’insulina con multiple iniezioni giornaliere (MIG) combinando l’utilizzo di insuline ad azione rapida insieme con insuline ad azione lenta, o con infusione continua sottocutanea d’insulina (ICSI), mediante l’utilizzo di pompe che permettono ai pazienti di modificare la dose d’insulina in funzione dei risultati della glicemia ottenuti con l’automonitoraggio, l’apporto calorico giornaliero con la dieta e l’attività fisica. La ragione di questo tipo d’approccio terapeutico nei pazienti affetti da DT1 è molto semplice e consiste nel tentativo di riprodurre il profilo multifasico della secrezione insulinica in risposta ai pasti principali e all’assunzione di merende durante la giornata. Per ottenere questo risultato sono stati proposti differenti regimi d’assunzione di terapia insulinica e alcune volte la strategia terapeutica deve essere individualizzata in funzione delle caratteristiche peculiari dello stile di vita e/o dello stato di salute del paziente stesso. I regimi terapeutici maggiormente utilizzati e che si possono raccomandare nei pazienti affetti da DT1, ma non esclusivi, sono: • il regime più comunemene utilizzato nella te- Tabella 13.2 Caratteristiche delle insuline sintetiche e analoghe in commercio in Italia Insulina Inizio d’azione (ora) Picco (ora) Durata (ore) Azione rapida Regolare 0,5-1 2-4 6-8 Azione ultrarapida Lispro Aspart Glulisina 0,25 0,25 0,25 1 1 1 3-4 3-4 3-4 Azione intermedia NPH 1-3 6-8 12-16 Azione lunga (“long-acting”) Glargina Detemir 1 1 NA 3-9 11-24 6-23 171 Ministero della Salute rapia insulinica del DT1, con l’avvento delle insuline sintetiche, è il regime con quattro somministrazioni giornaliere d’insulina, caratterizzato dalla combinazione di tre insuline ad azione rapida somministrate prima dei pasti principali e un’insulina ad azione lenta somministrata prima di andare a dormire. L’utilizzo d’insulina ad azione lenta prima di andare a dormire consente un eccellente controllo della glicemia a digiuno. L’utilizzo d’insulina ad azione rapida preprandiale riduce il picco di iperglicemia postprandiale e l’utilizzo di insuline sintetiche con una ridotta emivita riduce il rischio di crisi ipoglicemiche. La somministrazione d’insulina ultrarapida preprandiale, comunque, può essere effettuata sia utilizzando il metodo della conta dei carboidrati, ove venga utilizzato, sia con il monitoraggio della glicemia preprandiale, almeno nella fase di titolazione della terapia insulinica; • la somministrazione d’insulina può essere eseguita utilizzando pompe d’infusione esterne. Questo regime di terapia prevede l’utilizzo prevalente di insuline ad azione ultrarapida quali gli analoghi rapidi, somministrate mediante l’infusione sottocutanea con un catetere usualmente inserito nel tessuto sottocutaneo della parete addominale anteriore. Il rilascio di insulina è preprogrammato con un’infusione basale e con boli infusi direttamente dal paziente prima dei pasti principali e delle merende. Questo tipo di terapia con l’utilizzo di insulina ad azione ultrarapida permette rapide variazioni d’insulina in risposta ai valori di glicemia raggiunti consentendo un’ampia flessibilità nella strategia terapeutica. Lo svantaggio di questo tipo di trattamento è rappresentato dai costi, dalla frequente sostituzione dei tubi d’infusione e dal rischio d’infezione nel sito in cui viene somministrata l’insulina stessa; 172 • in alcune particolari tipologie di pazienti, quali pazienti anziani, pazienti con deficit intellettivi o non collaboranti, può essere utilizzata la combinazione di insuline ad azione rapida e intermedia premiscelate a colazione e a cena. Il razionale di questo tipo di terapia è che l’insulina rapida della mattina e della sera riduce il picco di glicemia postprandiale della colazione e della cena, mentre le insuline intermedie somministrate prima di colazione, cena e prima di andare a letto riducono, rispettivamente, le glicemie del pomeriggio e nelle prime ore della mattina. Il limite di questo trattamento è la difficoltà nel raggiungere delle glicemie a digiuno normali o vicino alla norma e il rischio di crisi ipoglicemiche quando si aumenta la quantità d’insulina intermedia somministrata per ottenere glicemie a digiuno nella norma o vicino alla norma. Trapianto di pancreas I primi trapianti di pancreas sono stati eseguiti a metà degli anni Sessanta e da allora oltre 30.000 pazienti diabetici hanno usufruito di tale procedura. La maggior parte dei pazienti trapiantati ha ricevuto, oltre al pancreas, proveniente da donatore morto, anche un rene, proveniente da donatore morto o donatore vivente, per la concomitante presenza d’insufficienza renale cronica. In questi casi, il trapianto combinato pancreas e rene può così risolvere contemporaneamente il problema metabolico e quello renale e, quindi, riscattare dall’insulino-dipendenza e dalla necessità del trattamento dialitico (o dalla sua incombenza, quando il trapianto venga eseguito prima dell’ingresso in dialisi). Il trapianto di pancreas può inoltre essere eseguito in pazienti che siano già portatori di un trapianto di rene funzionante (pancreas dopo rene) o anche in soggetti diabetici con funzione renale Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica ancora ragionevolmente conservata (pancreas isolato). In Italia, i primi casi di trapianto di pancreas sono stati segnalati al Centro Nazionale Trapianti nel 1992 e, a oggi, tali trapianti risultano essere oltre 1000, di cui oltre due terzi rappresentati da trapianto combinato pancreas e rene. La sopravvivenza dei pazienti in caso di trapianto combinato pancreas e rene, pancreas dopo rene o pancreas isolato è, rispettivamente, del 95%, 95% e 98% a un anno dal trapianto e del 90%, 89% e 94% a tre anni. Nelle medesime categorie, la sopravvivenza del pancreas (che equivale a una condizione di normoglicemia in assenza di terapia insulinica) è risultata dell’85%, 78% e 78% a un anno e dell’80%, 63% e 63% a tre anni. Va altresì ricordato che nel caso di trapianto combinato pancreas e rene anche la sopravvivenza del rene è molto buona (91,6% a un anno). Dati più recenti evidenziano che la sopravvivenza attuale dei pazienti trapiantati di pancreas e rene, pancreas dopo rene e pancreas isolato è, a 15 anni dal trapianto, rispettivamente, del 56%, 42% e 59%. Al contempo, nelle suddette categorie di riceventi l’emivita del pancreas trapiantato è risultata, nell’ordine, di 12, 7 e 9 anni (interventi eseguiti nel periodo 1998-1999). Il trapianto combinato di pancreas e rene si associa, nei soggetti con DT1, a migliore sopravvivenza rispetto a quella dei pazienti in lista di attesa (o comunque in trattamento dialitico) e al trapianto di rene da cadavere, anche se tale procedura non sembra ottenere risultati migliori rispetto al trapianto di rene da donatore vivente. Dal canto loro, il trapianto di pancreas dopo rene e quello di pancreas isolato sembrano avere un effetto neutro sulla mortalità nel tempo. Dal punto di vista metabolico, il trapianto di pancreas, nelle sue varie accezioni, ripristina la secrezione endogena di insulina e i meccanismi della sua regolazione, normalizzando stabilmente e nel lungo periodo i va- 13 lori glicemici e l’HbA1c, nonché eliminando il rischio di ipoglicemie. Vengono anche ripristinati la secrezione di glucagone e, almeno in parte, il sistema della controregolazione insulinica. La produzione epatica di glucosio si normalizza, il profilo lipidico migliora e si hanno effetti positivi sul metabolismo proteico. L’effetto del trapianto di pancreas sulle complicanze croniche del diabete non è semplice da definire, poiché nei pazienti sottoposti a trapianto il danno vascolare è spesso avanzato. Tuttavia, negli studi con follow-up sufficientemente prolungato è stato osservato che la retinopatia tende a regredire o almeno a stabilizzarsi in una percentuale elevata di casi (fino a oltre l’80%), e comunque più frequentemente rispetto a quanto osservato nei gruppi di controllo. La terapia con steroidi, che fa parte delle strategie antirigetto, può peraltro accelerare la progressione della cataratta. Le lesioni tipiche della nefropatia diabetica (alterazioni glomerulari, ispessimento delle membrane, proliferazione dell’interstizio) possono regredire a distanza di 5-10 anni dal trapianto di pancreas e la proteinuria si riduce significativamente e in tempi brevi dopo il trapianto. È tuttavia da tenere presente che alcuni farmaci immunosoppressori (in particolare gli inibitori della calcineurina) sono nefrotossici e pertanto in caso di trapianto di pancreas dopo rene o trapianto isolato la funzione renale deve essere ragionevolmente ben conservata (filtrato glomerulare di almeno 60 ml/min nel trapianto di pancreas isolato). Anche la neuropatia autonomica e quella periferica possono migliorare dopo trapianto di pancreas, un effetto che, in caso di trapianto combinato con il rene, sembra comunque dipendere dalla funzione del pancreas. Per quanto riguarda gli effetti sulle complicanze macrovascolari, il trapianto combinato di pancreas e rene è associato a riduzione dell’aterosclerosi co- 173 Ministero della Salute ronarica e di quella carotidea, nonché a minore incidenza di infarto del miocardio ed edema polmonare. Sebbene i dati attualmente disponibili al riguardo siano pochi, anche il trapianto di pancreas isolato sembra avere conseguenze favorevoli sull’apparato cardiocircolatorio, come dimostrato dal miglioramento di alcuni parametri funzionali miocardici (valutati mediante ecocardiografia) e dalla diminuzione della pressione arteriosa. Peraltro, l’arteriopatia periferica agli arti inferiori non viene favorevolmente influenzata dal trapianto di pancreas. Il trapianto di pancreas comporta rischi relativi alla procedura chirurgica in sé (soprattutto quando eseguito nei pazienti con insufficienza renale cronica), nonché rischi dovuti all’utilizzo della terapia antirigetto (in particolare infezioni e rischio neoplastico). Tuttavia, grazie al miglioramento delle procedure chirurgiche e ai progressi del trattamento immunosoppressivo, tali rischi appaiono contenuti. In uno studio eseguito su oltre 9000 pazienti è stato osservato che la mortalità nei primi 90 giorni dal trapianto era pari a 3,6%, 2,3% e 1,5% rispettivamente nel trapianto di pancreas e rene, pancreas dopo rene e pancreas isolato. Nel medesimo studio veniva riportato che nel periodo da 1 a 4 anni dopo il trapianto la mortalità complessiva era del 4,4%: in tale gruppo, le infezioni e le neoplasie rappresentavano non trascurabili cause di morte (rispettivamente, 24% e 7,8%). Nel complesso, si ritiene che la mortalità per neoplasie nei pazienti trapiantati di pancreas sia dello 0,6%. Si ritiene, pertanto, che il trapianto combinato di pancreas e rene sia indicato nei pazienti con DT1 e insufficienza renale cronica, in assenza delle controindicazioni assolute o relative riportate oltre. Nel caso di trapianto di pancreas dopo rene, la 174 scelta si basa sulla necessità di normalizzare la glicemia per meglio preservare il rene trapiantato, nonché sulle indicazioni valide in caso di trapianto di pancreas isolato. Quest’ultima tipologia di intervento può essere indicata nei pazienti con marcata instabilità metabolica, ipoglicemie gravi e inavvertite, complicanze croniche in evoluzione, purché con funzione renale ragionevolmente conservata (filtrato glomerulare > 60 ml/min). In particolare, si ricorda che le indicazioni al trapianto di pancreas isolato, così come definite dall’ADA e confermate dalla SID, sono rappresentate dalla presenza di DT1 instabile, con ripetuti episodi di ipoglicemia alternati a iperglicemia, difficilmente controllabili con la terapia insulinica esogena, oppure dalla presenza di problemi clinici e psicologici legati alla terapia insulinica esogena, tanto gravi da risultare invalidanti. Peraltro, la SID e vari autori includono, tra le indicazioni per il trapianto di pancreas isolato, anche la presenza di complicanze croniche del diabete in evoluzione. Si ricorda, infine, che le controindicazioni al trapianto di pancreas sono sostanzialmente le stesse che devono essere tenute presenti in ogni tipologia di trapianto. Data la complessità delle procedure necessarie all’espletamento del trapianto di pancreas (selezione dei pazienti, reperimento dell’organo, intervento, follow-up), tale approccio terapeutico deve essere eseguito soltanto in centri di alta specializzazione, attivi anche nell’ambito del trapianto di rene e in grado di fornire adeguata integrazione tra le varie competenze coinvolte (tra cui, evidentemente, quelle diabetologiche, nefrologiche, chirurgiche, anestesiologiche, cardiovascolari, altre specialistiche come necessario). Dovranno altresì essere garantite strutture ambulatoriali e di degenza medica e chirurgica, con personale medico e infermieristico dedicato. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 14. Appropriatezza operativa L’organizzazione diabetologica attuale e modelli organizzativi per la gestione del follow-up e la prevenzione delle complicanze: percorsi assistenziali e gestione integrata (chronic care model) L’organizzazione delle cure alla persona con diabete in Italia è attualmente posizionata essenzialmente a livello territoriale. Anche quando le equipe diabetologiche operano in ambio ospedaliero offrono assistenza prevalentemente di tipo ambulatoriale o in day-hospital, mentre i ricoveri ordinari sono dedicati a episodi acuti o complicanze della malattia e coinvolgono reparti di tutte le specialità mediche e chirurgiche. A livello territoriale, quindi, le equipe diabetologiche si trovano a operare in una continuità assistenziale, da un lato con la medicina generale, in una visione di disease management, e dall’altro in continuità ospedale-territorio, con un flusso bidirezionale. In altri termini, i servizi di diabetologia, cooperando strettamente con i medici di medicina generale (MMG) operano in una logica di rete, che risulta efficace per ridurre il numero di ricoveri ospedalieri, come dimostrato dalle esperienze del Piemonte (Figura 14.1). In particolare, sul fronte ospedaliero, in base al dato che il diabete aumenta frequenza e lunghezza dei ricoveri ospedalieri, la disponibilità di ore di diabetologia riduce sino al 70% i ricoveri (soprattutto urgenti) e la durata della degenza e l’effetto della diabetologia è il determinante più forte, superiore a età del malato e gravità della malattia. La presenza di persone diabetiche in tutti i reparti ospedalieri sia medici sia chirurgici, dall’area dell’emergenza a quella della terapia intensiva, necessita delle competenze specialistiche in ambito diabetologico. A livello territoriale, le attività e le competenze dei MMG e dei diabetologi sono regolate attualmente da un protocollo di intesa sottoscritto dalle Società scientifiche di diabetologia, Associazione Medici Diabetologi (AMD) e Società Italiana di Diabetologia (SID) con la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), riportato in allegato al Quaderno. La prevenzione La prevenzione del diabete e delle malattie metaboliche sulla popolazione generale coinvolge molti più attori rispetto ai soli professionisti della salute. La diffusione dei messaggi educativi sugli stili di vita salutari riguarda le abitudini, l’educazione e i consumi alimentari, la pratica di attività motoria, l’astensione dal fumo, la lotta all’alcolismo e al consumo di sostanze d’abuso. 175 Ministero della Salute Paziente con diabete mellito neodiagnosticato dal MMG Codici di priorità di accesso Invio alla struttura diabetologica per valutazione diabetologica complessiva Scheda 2 Definizione degli obiettivi terapeutici e del piano terapeutico da parte della struttura diabetologica Follow-up da parte del MMG per il periodo concordato e registrazione degli accertamenti eseguiti No Situazione di allarme? No Codici di priorità di accesso Sì Invio alla struttura diabetologica per ridefinizione degli obiettivi terapeutici e/o del piano terapeutico Scheda 1 Scadenza del periodo concordato? Sì Scheda 1 Invio alla struttura diabetologica per valutazione diabetologica complessiva Figura 14.1 Modello di gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 – Regione Piemonte. È evidente che per realizzare interventi di prevenzione sulla popolazione generale è necessario il coinvolgimento di scuole, farmacie, produzione, distribuzione e pubblicità di alimenti e dei rispettivi Ministeri, Enti locali, Associazioni di categoria in una complessa e articolata riorganizzazione. Per esempio, sarebbero necessari programmi scolastici fin dalle classi elementari sulla sana alimentazione, palestre in ogni ordine di scuola, orga- 176 nizzazione di servizi di refezione scolastica realizzati secondo le regole della sana alimentazione, allontanamento di distributori di alimenti e bevande ipercaloriche dalle scuole. Nei supermercati dovrebbero essere reperibili sempre alimenti regionali freschi, cibi con etichette leggibili e chiare, linee di prodotti a basso contenuto di sale, grassi saturi o ipocalorici e così via. Nelle città dovrebbero essere sempre presenti spazi attrezzati per Parte Seconda – Appropriatezza operativa l’attività fisica e piste ciclabili, palestre pubbliche. La pubblicità ingannevole dovrebbe essere bandita e perseguita. L’utilizzo di slogan come “senza zucchero aggiunto” o come “con meno grassi” o “formaggi magri” dovrebbe essere bandito e adeguatamente integrato da spiegazioni comprensibili e corrette. Sarebbe necessario indirizzare le rubriche gastronomiche dei programmi televisivi d’intrattenimento verso tipologie premianti scelte alimentari salutari, spiegando le differenze fra tipi di cottura, utilizzo di ingredienti a basso tenore calorico, di grassi saturi e sale. Invece, i prodotti più reclamizzati nelle fasce orarie dedicate ai bambini sono snack e gelati (23%), giochi e giocattoli (15,2%) e alimenti confezionati (8,9%). Esiste una sovraesposizione mediatica su temi nutrizionali. È stato calcolato che ora, in quattro settimane prese a campione, la stessa rete televisiva ha trasmesso circa 500 spot sul cibo. Su una fascia oraria di 2 ore al giorno di visione televisiva, in un anno vanno in onda 5500 messaggi pubblicitari di alimenti, spuntini, bibite, biscotti e gelati. Negli Stati Uniti sono stati spesi nel 2009 undici miliardi di dollari per fare pubblicità a cibi pronti, spuntini e bevande alcoliche. Prevenzione nella popolazione generale Gli interventi sulla popolazione generale sono stati recentemente realizzati mediante progetti e protocolli d’intesa di vari Ministeri. • Protocollo d’intesa “Guadagnare Salute”, realizzato dal Ministero della Pubblica Istruzione con il Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, con le Ferrovie dello Stato ed Enti di Promozione Sportiva, Associazioni, Imprese e Sindacati. • Progetto “Pagine della Salute”, realizzato dai Ministeri del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, che aveva come obiettivi quelli 14 di: a) far capire quanto sia importante la prevenzione per la tutela della salute; b) come siano fondamentali le “azioni” che ogni persona può compiere responsabilmente durante la propria vita per non ammalarsi o, comunque, per ritardare la comparsa di una malattia o anche per ridurne la gravità. Il progetto prevedeva la realizzazione di una guida a colori con una grafica esplicativa di immediata lettura, pubblicata nei volumi delle Pagine Bianche distribuiti da maggio 2009 in tutta Italia, disponibile sul sito delle Pagine Gialle, Tutto città e Pagine Bianche, alla voce Pagine della salute. • Progetto “Frutta snack” del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali (2008): basato sulla sperimentazione di varie azioni, tra cui l’installazione nelle scuole di distributori automatici di merende a base di frutta fresca e trasformata. Il progetto pilota nazionale coinvolge 80 scuole superiori nelle province di Roma, Bologna e Bari, circa 60.000 ragazzi, gli insegnanti e le famiglie. • Progetto “Pane, Sale e Salute” del Ministero della Salute, grazie al quale 150 panificatori romani su base volontaria sperimentano la produzione e la vendita di pane con ridotto contenuto di sale (dal 2% sul totale della farina all’1,8%) in una campagna di prevenzione dell’ipertensione arteriosa e dell’ictus cerebrale. • Progetto Prevenzione Provincia di Cosenza: è promosso dalla Presidenza della Provincia di Cosenza e viene realizzato nei 5 Comuni più popolosi (Cosenza, Castrovillari, Rossano, Corigliano, Paola); è iniziato nel 2010 ed è in fase di attuazione; coinvolge farmacisti, scuole, MMG, Assessorati alla salute, sindaci e diabetologi. Ha come obiettivo quello di realizzare una campagna di informazione-formazione a tutta la popolazione generale sui fattori di rischio per malattie metaboliche e diabete. 177 Ministero della Salute Prevenzione nella popolazione a rischio Questi interventi sono realizzati su specifiche popolazioni a rischio. Seguono alcuni esempi. • “OKkio alla salute”, realizzato attraverso il censimento di bambini in sovrappeso o obesi su un campione di 45.450 bambini in età scolare controllati in tutta Italia. • Comunicato n. 149 - 30 aprile 2010, del Ministero della Salute su “Linee Guida di Indirizzo Nazionale per la Ristorazione Scolastica”: obiettivo del documento, approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, è quello di contribuire a migliorare la qualità dei pasti nelle scuole e ridurre sovrappeso e obesità infantile e giovanile nel nostro Paese; è basato sull’esigenza di facilitare, sin dall’infanzia, l’adozione di abitudini alimentari corrette per la promozione della salute e la prevenzione delle patologie cronicodegenerative (diabete, malattie cardiovascolari, obesità, osteoporosi ecc.) di cui l’alimentazione scorretta è uno dei principali fattori di rischio, per contrastare i profondi cambiamenti dello stile di vita delle famiglie e dei singoli che determinano, per un numero sempre crescente di individui, la necessità di consumare almeno un pasto fuori casa utilizzando i servizi della ristorazione collettiva e commerciale. Prevenzione del diabete di tipo 1 La prevenzione del diabete di tipo 1 (DT1) non è al momento realizzabile e rappresenta un argomento di studio e sperimentazione clinica. Gli studi sulla storia naturale del DT1 hanno dimostrato come la comparsa di autoanticorpi contro antigeni della beta-cellula (anti-insulina, GAD, IA-2, ZnT8) sia indicativa di un processo autoimmune e predittiva del futuro sviluppo della malattia. Un’accurata predizione del DT1 è oggi possibile 178 mediante lo screening per autoanticorpi in combinazione con l’impiego di marcatori genetici (tipizzazione HLA) e metabolici (risposta al carico orale e/o endovena di glucosio). La prevenzione primaria è quella da realizzarsi in epoca antecedente allo sviluppo del processo autoimmune, sostanzialmente in età neonatale o nella prima infanzia. La prevenzione secondaria è quella che interviene a processo autoimmune già avviato e si applica a soggetti identificati come positivi allo screening per autoanticorpi. La prevenzione terziaria si identifica nella preservazione della funzione beta-cellulare residua ancora presente all’esordio della malattia, misurabile come secrezione di peptide C. La preservazione della funzione beta-cellulare residua migliora la prognosi del DT1, facilitandone il buon controllo glicemico e riducendo il rischio di complicanze a lungo termine. Quando potrà essere ottenuta con strumenti terapeutici sicuri, la preservazione della funzione beta-cellulare residua diventerà un obiettivo primario della terapia del DT1, al pari del controllo glicemico. Prevenzione del diabete di tipo 2 Soggetti a rischio La prevenzione del diabete di tipo 2 (DT2) si applica ai soggetti a elevato rischio di sviluppare la malattia, appartenenti a una tra le seguenti categorie: • alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG), ridotta tolleranza al glucosio (impaired glucose tolerance, IGT), pregresso diabete gestazionale, HbA1c 6-6,49%; • età ≥ 45 anni con indice di massa corporea (body mass index, BMI) ≥ 25 kg/m2; • età ≤ 45 anni e una o più tra le seguenti condizioni: inattività fisica, familiarità di primo grado Parte Seconda – Appropriatezza operativa per DT2 (genitori, fratelli); appartenenza a gruppo etnico a elevato rischio; ipertensione arteriosa (≥ 140/90 mmHg) o terapia antipertensiva in atto; bassi livelli di colesterolo HDL (≤ 35 mg/dl) e/o elevati valori di trigliceridi (≥ 250 mg/dl); nella donna, parto di un neonato di peso ≥ 4 kg; basso peso alla nascita (≤ 2,5 kg); sindrome dell’ovaio policistico o altre condizioni di insulino-resistenza quali l’acanthosis nigricans; evidenza clinica di malattie cardiovascolari; • ragazzi/e di età > 10 anni, con BMI > 85° percentile e due tra le seguenti condizioni: familiarità di primo o secondo grado per DT2; madre con diabete gestazionale; segni di insulino-resistenza o condizioni associate (ipertensione, dislipidemia, acanthosis nigricans, ovaio policistico, basso peso alla nascita); appartenenza a gruppo etnico ad alto rischio. Raccomandazioni Evitare il sovrappeso e svolgere un’attività fisica regolare (20-30 minuti al giorno o 150 minuti a settimana) rappresentano i mezzi più appropriati per prevenire il DT2 nei soggetti a rischio. I soggetti a rischio devono essere incoraggiati a modificare le abitudini alimentari secondo le seguenti indicazioni: ridurre l’apporto totale di grassi (< 30% dell’apporto energetico giornaliero) e particolarmente degli acidi grassi saturi (meno del 10% dell’apporto calorico giornaliero); aumentare l’apporto di fibre vegetali (almeno 15 g/1000 kcal). Nei soggetti con IGT, nei quali l’intervento sullo stile di vita non abbia prodotto calo ponderale e/o incremento dell’attività fisica o non sia applicabile, la terapia farmacologica con metformina, acarbosio o glitazoni può essere presa in considerazione in virtù della dimostrata efficacia in studi clinici, anche se risulta generalmente meno efficace rispetto all’intervento sullo stile di vita. Quando altre strategie si siano rivelate inefficaci, 14 la chirurgia bariatrica può essere considerata un’opzione in grado di prevenire lo sviluppo di DT2 in soggetti con obesità severa e IGT. Nei bambini e adolescenti a elevato rischio di DT2 è indicato un intervento sullo stile di vita, facendo attenzione a che il calo ponderale non sia eccessivo e venga mantenuto un BMI appropriato per l’età e il sesso. Modelli applicativi di prevenzione del DT2 Al progetto “Alleanza per il Diabete” partecipano nove Cooperative campane, aderenti al Consorzio Campania Medica, per un totale di 441 MMG, 62 diabetologi e 640.000 assistiti, di cui 45.389 diabetici; ha avuto inizio nel 2009 ed è tutt’ora in corso di svolgimento. Ha lo scopo di identificare i soggetti a rischio di diabete applicando il Questionario di Tuomilehto a tutti i soggetti in carico a ciascun MMG e applicando nei nuovi casi i principi di gestione integrata utilizzando il Documento di Indirizzo Politico AMD-SIDSIMG tra la medicina generale e i diabetologi (vedi Capitolo 5 “Appropriatezza Operativa”). L’attività fisica Al fine di migliorare il controllo glicemico, favorire il mantenimento di un peso corporeo ottimale e ridurre il rischio di malattia cardiovascolare, sono consigliati almeno 150 minuti/settimana di attività fisica aerobica di intensità moderata (50-70% della frequenza cardiaca massima) e/o almeno 90 minuti/settimana di esercizio fisico intenso (> 70% della frequenza cardiaca massima). L’attività fisica deve essere distribuita in almeno 3 giorni/settimana e non ci devono essere più di 2 giorni consecutivi senza attività. Nei pazienti con DT2 l’esercizio fisico contro resistenza ha dimostrato di essere efficace nel migliorare il controllo glicemico, così come la combinazione 179 Ministero della Salute di attività aerobica e contro resistenza. I pazienti con DT2 devono essere incoraggiati a eseguire esercizio fisico contro resistenza secondo un programma definito con il diabetologo per tutti i maggiori gruppi muscolari, 3 volte/settimana. È opportuno intensificare l’automonitoraggio glicemico prima, possibilmente durante (esercizio di durata > 1 ora) e dopo l’esercizio fisico. Devono essere fornite indicazioni relative alla necessità di integrazione con carboidrati e alla gestione della terapia antidiabete, specie se basata sull’insulina, al fine di ridurre il rischio di ipoglicemia. La dieta La dieta, più correttamente definita come terapia medica nutrizionale, è una componente fondamentale della gestione del diabete e dell’educazione all’autogestione. Oltre al suo ruolo nel controllo del diabete, ne viene universalmente riconosciuta l’importanza come componente essenziale di uno stile di vita salutare complessivo. La terapia medica nutrizionale: • riduce il rischio di diabete nelle persone in sovrappeso e obese o con alterazioni glicemiche come IFG e IGT; • favorisce il raggiungimento e il mantenimento di un appropriato controllo metabolico, glucidico, lipidico e pressorio nelle persone già affette da diabete nelle quali contribuisce, inoltre, a prevenire, o quanto meno ritardare, lo sviluppo delle complicanze croniche del diabete. A livello internazionale non esiste consenso circa la componente dei carboidrati che dovrebbe essere rappresentata nella dieta delle persone con diabete e il possibile beneficio derivante dall’uso dell’indice glicemico rispetto alla più semplice valutazione del solo apporto calorico totale. Le indicazioni generali circa la composizione ottimale della dieta in persone con diabete sono riassunte nella Tabella 14.1. La formazione In una medicina che cambia, il problema della formazione continua del personale sanitario in Tabella 14.1 Indicazioni generali circa la composizione ottimale della dieta in persone con diabete Componenti Quantità complessiva della dieta consigliata Quantità consigliata dei singoli componenti Consigli pratici Carboidrati 45-60% delle kcal totali (III, B) Saccarosio e altri zuccheri aggiunti < 10% (I, A) Vegetali, legumi, frutta, cereali preferibilmente integrali, alimenti della dieta mediterranea (III, B) Fibre > 40 g/die (o 20 g/1000 kcal/die), soprattutto solubili (I, A) Proteine 10-20% delle kcal totali (VI, B) Grassi 35% delle kcal totali (III, B) Sale < 6 g/die (I, A) 180 5 porzioni a settimana di vegetali o frutta e 4 porzioni a settimana di legumi (I, A) Saturi < 7-8% (I, A) Tra i grassi da condimento preferire quelli vegetali MUFA 10-20% (III, B) (tranne olio di palma e di cocco) PUFA < 10% (III, B) Evitare acidi grassi trans (VI, B) Colesterolo < 200 mg/die (III, B) Limitare il consumo di sale e di alimenti conservati sotto sale (insaccati, formaggi, scatolame) Parte Seconda – Appropriatezza operativa 14 Box 14.1 Questionario per scoprire se si è a rischio di diabete Età ❒ 0 ❒ 2 ❒ 3 ❒ 4 Meno di 45 anni 45-54 anni 55-64 anni Più di 64 anni Fai esercizio fisico per almeno 30 minuti quasi tutti i giorni? ❒ 0 Sì ❒ 2 No Quanto spesso mangi frutta o verdura? ❒ 0 Tutti i giorni ❒ 1 Non tutti i giorni Hai mai utilizzato farmaci per la pressione alta? ❒ 0 No ❒ 2 Sì Un medico o altro operatore sanitario ti ha mai detto che avevi la glicemia alta (in un esame medico, durante una malattia o una gravidanza)? ❒ 0 No ❒ 5 Sì A qualcuno della tua famiglia è stato diagnosticato il diabete? ❒ 0 No ❒ 3 Sì: nonni, zii, cugini ❒ 5 Genitori, fratelli o sorelle o proprio figlio Indice di massa corporea (BMI) ❒ 0 Meno di 25 kg/m2 ❒ 1 25-30 kg/m2 ❒ 3 Più di 30 kg/m2 Circonferenza vita (in centimetri, misurata all’altezza dell’ombelico) Uomini Donne ❒ 0 Meno di 94 Meno di 80 ❒ 3 94-102 80-88 Più di 88 ❒ 4 Più di 102 RISULTATI (punteggio complessivo) punteggio rischio a 10 anni 0 0 basso 1 0,1 basso 2 0,5 basso 3 1,1 basso 4 2,0 basso 5 3,3 medio-basso 6 5,0 medio-basso 7 7,1 medio-basso 8 9,7 medio-basso 9 12,7 medio-basso 10 16,3 medio-basso generale e del medico in particolare si pone con particolare urgenza. Nel campo delle malattie metaboliche e del dia- punteggio 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 < 20 rischio a 10 anni 20,4 alto 25,1 alto 30,4 alto 36,4 alto 43,1 alto 50,5 molto alto 18,7 molto alto 67,7 molto alto 77,5 molto alto 88,2 molto alto < 90 molto alto bete in particolare, gli ultimi anni hanno visto l’affermarsi della genomica, della proteomica e della metabolomica, fino a creare sub-specialisti 181 Ministero della Salute che devono mantenere il contatto con la pratica clinica, ove nuovi protocolli terapeutici e farmaci innovativi rendono necessario un frequente aggiornamento delle Linee guida. Il crescere esponenziale della letteratura biomedica, non sempre parallelo al crescere delle conoscenze scientifiche, rende difficile un aggiornamento personale non guidato dalle Società scientifiche del settore. Paradossalmente, la sostanziale mancanza di consenso è almeno in parte legata alla scarsità di informazioni affidabili e generalizzabili sul profilo rischio-beneficio degli interventi, al difficile confronto tra procedure e farmaci utilizzabili indifferentemente negli stessi pazienti, alla quasi totale assenza di informazioni su classi selezionate (anziani, pazienti pediatrici ecc.), per non parlare dell’autoreferenzialità che spesso caratterizza la classe medica. Questa difficoltà trova un esempio paradigmatico nel succedersi, spesso contradditorio, di proposte nel trattamento del DT2, ove i pareri degli esperti e le Linee guida delle Società scientifiche vengono continuamente proposti. L’incertezza si traduce in una totale delega alla decisione individuale nel trattamento di seconda linea dopo la metformina, come riportato nei recenti Standard Italiani per la Cura del Diabete. In questo panorama si inseriscono le attività formative realizzate in questi anni dalle due maggiori Società scientifiche di diabetologia che hanno portato alla produzione degli Standard di Cura. Lo scopo è formare e aggiornare la classe medica e gli altri operatori sanitari in campo diabetologico verso un’integrazione interdisciplinare, interprofessionale e intersettoriale, realizzata con uno sforzo congiunto di tutti gli attori del sistema. Questo processo formativo deve riguardare sia il personale dei centri specialistici (assistenti sanitari e infermieri, dietisti, podologi, ma anche psicologi, esperti di attività fisica), sia la medicina territoriale 182 (medici di medicina generale e pediatri di libera scelta), per garantire quella continuità assistenziale che diviene elemento imprescindibile dell’assistenza sanitaria nelle malattie croniche. Solo una formazione diffusa nei vari gruppi professionali, integrata con altri specialisti, progettata con riferimento alle competenze necessarie e aggiornata nel tempo, può divenire il cardine di un miglioramento continuo in efficienza ed efficacia. In campo diabetologico, la natura stessa della malattia, che copre ogni età e produce danni a ogni organo e sistema, richiede di ampliare e aggiornare il bagaglio delle conoscenze secondo una calendarizzazione predefinita e regolamentata. Il ruolo delle Società scientifiche è fondamentale per garantire un’informazione indipendente, aderente alle problematiche cliniche e fruibile da tutti gli operatori. In quanto libere associazioni di esperti, le Società scientifiche operano per favorire il trasferimento dei prodotti della ricerca alla clinica, processo lungo e difficile per un’inerzia nelle modificazioni della prassi consolidata, documentata dagli Annali dell’AMD e da molteplici pubblicazioni scientifiche. Lo stretto legame tra l’attività assistenziale degli specialisti identificati dalle Società scientifiche e le altre attività di formazione e ricerca trova nell’assistenza al paziente il suo punto di partenza e di ritorno e garantisce una diffusione capillare del processo di miglioramento della qualità ed efficacia delle prestazioni. Al di fuori di una struttura di riferimento risulta difficile per i medici ottemperare ai tre requisiti fondamentali che garantiscono l’efficacia della formazione continua, ovvero: • la possibilità di accedere in modo sistematico alle informazioni; • la capacità di analizzarle in modo critico e indipendente; • la possibilità di trasferirle compiutamente nella pratica clinica. Parte Seconda – Appropriatezza operativa Il primo nodo è legato alle limitazioni di tempo, il secondo a una spesso insufficiente formazione allo spirito critico da parte del corso di Laurea o dei corsi di specializzazione, il terzo alla differenza tra pazienti degli studi clinici e il mondo reale. A questi nodi si aggiunga il problema non minore legato all’informazione delegata alle aziende farmaceutiche del settore, ampiamente volta alla promozione dei farmaci. Anche se mantenuta entro stretti limiti di correttezza formale, essa tende a massimizzare i benefici e minimizzare rischi e dati controversi, risultando spesso insufficiente o parziale. La formazione operata dalle Società scientifiche che operano nel campo del diabete e dell’obesità, pur regolata anch’essa da precise norme tecniche ed etiche, in quanto libera e indipendente, può prendere in considerazione ogni aspetto, creare dibattiti, generare e promuovere opinioni a confronto, mettere a nudo le problematiche più nascoste nei risultati dei vari studi clinici. In particolare, le Società scientifiche appaiono gli interlocutori privilegiati per fornire agli organi competenti un’analisi degli obiettivi formativi in campo metabolico e una via per soddisfarli, secondo quanto approvato dalla Commissione nazionale per la formazione continua il 13 gennaio 2010 di cui all’Accordo Stato-Regioni del 5 novembre 2009, ove si legge al paragrafo 2.5 che “Gli obiettivi formativi, nazionali e regionali, sono lo strumento utilizzato per orientare i programmi di formazione continua rivolti agli operatori della sanità al fine di definire le adeguate priorità nell’interesse del SSN. …tali obiettivi devono poi concretamente articolarsi e armonizzarsi nel piano formativo (Dossier formativo) …in tre tipologie di obiettivi formativi: a) finalizzati allo sviluppo delle competenze e delle conoscenze tecnico-professionali individuali nel settore specifico di attività…; b) finalizzati allo sviluppo delle competenze e delle conoscenze nelle attività e nelle procedure idonee a promuovere il miglioramento 14 della qualità, efficienza, efficacia, appropriatezza e sicurezza…; c) finalizzati allo sviluppo delle conoscenze e competenze nelle attività e nelle procedure idonee a promuovere il miglioramento della qualità, efficienza, efficacia, appropriatezza e sicurezza dei sistemi sanitari”. In questa logica si pone anche la nuova regolamentazione della formazione continua, che vede accanto alla Formazione Residenziale e alla Formazione sul Campo l’implementazione della Formazione a Distanza (FAD), basata sull’uso delle tecnologie informatiche. Anche in questo campo le Società scientifiche che operano nel campo del diabete e dell’obesità possono mettere a disposizione dei loro associati, e più generalmente di tutta la comunità scientifica, un know-how e una competenza difficilmente reperibile altrove e si stanno muovendo per accreditarsi direttamente o indirettamente quali provider FAD secondo le regole dettate dalla Commissione Nazionale per la Formazione Continua in Medicina. Il ruolo delle Società scientifiche appare fondamentale per la divulgazione dei contenuti tecnico-professionali (conoscenze e competenze) specifici di ciascuna professione, ivi comprese la valutazione dei processi di gestione delle tecnologie biomediche e dei dispositivi e l’applicazione nella pratica quotidiana dei principi e delle procedure dell’evidence based practice. Il sistema appare regolato secondo precise indicazioni per escludere la possibile interferenza da parte di enti o persone che possano configurare un conflitto di interessi, con precise indicazioni per provider e sponsor quanto a: a) correttezza del sistema ECM, indirizzato a scopi esclusivamente formativi e di aggiornamento; b) progettualità delle forme di finanziamento, con forme di collaborazione stabile tra istituzioni, provider e sponsor; c) trasparenza delle attività di finanziamento e amministrative. 183 Ministero della Salute Quanto detto costituisce presupposto indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi del “Nuovo Patto per la Salute” all’interno del Piano Sanitario Nazionale relativo al triennio 2011-2013. Gran parte delle azioni promosse è rivolta al rilancio della prevenzione, alla centralità delle cure primarie, alla continuità assistenziale territorio-centri specialistici-ospedali, al rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza, alla valutazione delle nuove tecnologie (Health Technology Assessment, HTA), all’appropriatezza nell’impiego dei farmaci. Il diabete (#13.4) costituisce una delle patologie d’interesse prioritario, verosimilmente in rapporto alla sua grande diffusione, ai costi, al fiorire di farmaci innovativi, alla disomogeneità nella domanda e nell’offerta sanitaria nelle diverse Regioni, con modelli organizzativi e costi assai differenti. Analogo discorso può essere fatto per l’obesità, a cavaliere dei temi #13.1 (malattie cardiovascolari), #13.3 (malattie respiratorie croniche), #13.4 (diabete), #13.5 (salute mentale e disturbi del comportamento alimentare), ma anche #13.2 (malattie oncologiche), per il rischio aggiuntivo causato dall’obesità. Proprio sul tema dei costi solo una formazione attenta e libera può garantire al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) la partecipazione responsabile degli operatori in una gestione dell’appropriatezza dei ricoveri ospedalieri e delle prestazioni sanitarie efficace ed efficiente che garantisca la sostenibilità del sistema sanitario in funzione delle risorse disponibili. Modelli organizzativi per la gestione del follow-up e la prevenzione delle complicanze Percorsi assistenziali per la gestione integrata Per fare fronte alle “nuove epidemie”, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) defi- 184 nisce le cronicità, si affacciano nuove parole d’ordine, che impongono di ripensare l’organizzazione dei servizi, quali assistenza multidimensionale e multiprofessionale, globalità dei bisogni, gestione proattiva. Emerge, inoltre, la necessità di prendere in considerazione nuove dimensioni: malattia vissuta (illness) e non solo malattia organica (disease), salute possibile e non solo salute, mantenimento e non solo guarigione, accompagnamento e non solo cura, risorse del paziente e non solo risorse tecnico-professionali. Da ciò, l’esigenza di sperimentare nuove formule organizzative dell’assistenza basate sul concreto affermarsi di una gestione integrata, costruita sulla falsa riga di percorsi assistenziali condivisi che mettano in luce e valorizzino i contributi delle varie componenti e dei vari attori assistenziali lungo il continuum di cura del paziente. Senza questi concreti binari di interconnessione, rappresentati dalla gestione integrata e dai percorsi assistenziali, utili a governare le interfacce tra le componenti complesse di un sistema unico e unitario, l’integrazione continuerà a rimanere una semplice affermazione di principio, un terreno ipotetico e auspicabile calpestato soltanto occasionalmente. Le patologie croniche sono un grande problema per il SSN, ma allo stesso tempo possono costituire un’opportunità di revisione radicale dell’offerta sanitaria. Il presupposto per il realizzarsi di questo importante progetto di governance è, però, l’assunzione di un approccio sistemico e integrato che implichi un’azione coordinata fra tutte le componenti e fra tutti gli attori del sistema assistenziale, che, con responsabilità diverse, devono essere chiamati a sviluppare interventi mirati verso comuni obiettivi. L’ideologizzarsi dello storico contrasto ospedaleterritorio degli ultimi decenni ha generato un’impropria contrapposizione tra due componenti di uno stesso sistema unitario, determinando effetti culturali, sia tra i professionisti sia tra i cittadini, Parte Seconda – Appropriatezza operativa 14 cio sistemico tipico del disease management e mette in evidenza le componenti principali che entrano in gioco nel sistema di gestione del diabete mellito, delineato sulla falsa riga della curva della “storia naturale” della malattia e della curva della “storia dinamica dei servizi”. Con quest’ultimo concetto, la “storia dei servizi”, si vuole mettere in luce la necessaria dinamicità strutturale e organizzativa dei servizi, perché di fronte alle cronicità è utile interrogarsi anche su nuove possibili forme organizzative dell’assistenza (strutture intermedie ospedale-territorio, day-service, care- e case-management) che risultino più rispondenti alle necessità assistenziali di pazienti complessi, nei quali, nelle fasi più avanzate di ma- e scelte organizzative tra i decisori politici e gestionali, che ancora determinano l’assenza di un vero sistema integrato, nel quale ambedue queste organizzazioni complesse possano effettivamente esprimere il massimo della loro potenzialità. Chronic care model e disease management Il disease management e il chronic care model, e i principi di cui questi approcci sono portatori, sono ormai divenuti il quadro logico-concettuale di riferimento per chiunque lavori nel campo della gestione delle patologie croniche. La Figura 14.2 mostra la struttura-base dell’approc- Decidere dove agire in rapporto alla dinamica della malattia (storia naturale) e alle potenzialità del contesto: • incidenza • progressione • complicanze Prevenzione POPOLAZIONE A RISCHIO E NON DIAGNOSTICATA STADIO 1 Non-diagnosticato A rischio Ospedale Inizio malattia MMG SCREENING (case finding) Diagnosi Coinvolgimento d’organo Poliambulatorio specialistico distrettuale POPOLAZIONE DIAGNOSTICATA GESTIONE ATTIVA STADIO 1 Non-controllato STADIO 2 Compromissione d’organo Non-controllato Coinvolgimento d’organo STADIO 1 Controllato Scompenso d’organo STADIO 2 Compromissione d’organo Controllato Coinvolgimento d’organo STADIO 3 Post-scompenso d’organo Non-controllato STADIO 3 Post-scompenso d’organo Non-controllato Scompenso d’organo Figura 14.2 Struttura sistemica del disease management. 185 Ministero della Salute lattia, tende a ridursi drasticamente l’efficacia degli strumenti clinici di assistenza. È noto che gli interventi di gestione integrata più efficaci sono proprio quelli che agiscono su tutti i livelli della “storia naturale” della malattia ma, ove un disegno di portata sistemica si rendesse poco fattibile a causa di risorse limitate, sarebbe più utile concentrare gli sforzi di tutti gli attori del sistema sugli snodi ritenuti più critici e più opportuni per il contesto locale. La potenzialità fondamentale dell’approccio di disease management è quella di far convergere le energie dei vari attori del sistema su obiettivi comuni, seppure con responsabilità diversificate, evitando in tal modo una progettualità non concordata e frammentaria, spesso incapace di incidere significativamente sui risultati complessivi del sistema assistenziale. Il disease management, in altri termini, è un approccio sistemico che permette di contestualizzare gli interventi, individuando i target di pazienti e gli snodi critici della storia naturale di malattia più vicini alle problematiche, ai limiti/potenzialità e alle strategie del sistema locale, sui quali concentrare, raccordandole, le energie di tutti gli attori del sistema. In tale prospettiva, la gestione integrata, sulla quale il progetto IGEA ha imperniato la propria nascita e il proprio sviluppo, rappresenta lo strumento del concretizzarsi dell’approccio sistemico integrato proposto dal disease management. Il chronic care model ha un focus più ampio del disease management. Infatti, come delineato nella Figura 14.3, il chronic care model propone una visione d’insieme di tutte le variabili fondamentali di un sistema organizzativo orientato a gestire i pazienti con patologia a lungo termine. Il presupposto di questo modello è che per essere efficaci, efficienti e attenti ai bisogni globali dei pazienti è necessario anche l’impegno di tutto il sistema organizzativo, che deve attivare una serie di “leve” indispensabili 186 per migliorare i risultati e, più in generale, l’impegno di tutte le forze sociocomunitarie. Il disegno del chronic care model pone, quindi, in un unico quadro d’insieme tutti quei fattori organizzativi e operativi del sistema sanitario e della comunità che risultano “predisponenti” per l’azione efficace delle persone (gli operatori e i pazienti), dalle cui attività scaturiscono i risultati attesi. Il chronic care model fornisce, pertanto, un messaggio chiaro anche sull’importanza dei fattori facilitanti, rappresentati dalle “leve organizzative” (gli assetti organizzativi, il supporto ai processi decisionali, il sistema informativo) e dalle risorse comunitarie che risultano utili per creare quelle condizioni di contesto necessarie a generare risposte assistenziali (efficaci, efficienti e centrate sulla persona) ai bisogni complessi dei pazienti portatori di patologia a lungo termine. In conclusione, la gestione integrata e i percorsi assistenziali, che sono i cardini del progetto IGEA, possono rappresentare ancora una volta, nel quadro sistemico proposto dal chronic care model, gli strumenti operativi per l’affermarsi delle logiche e dei principi di cui questo modello è portatore, per consolidarne gli “assi portanti” (i team integrati), per tradurre in prassi effettiva le buone pratiche assistenziali evidence-based e per dare corpo alle prospettive di empowerment del cittadino utente. La gestione integrata L’obiettivo principale della gestione integrata, così come dichiarato all’interno del progetto IGEA, è “ottenere un miglioramento dello stato di salute del paziente… contenere/ottimizzare l’utilizzo delle risorse umane ed economiche… utilizzando strategie per modificare i comportamenti di pazienti e medici, da parte dei quali è spesso difficile ottenere rispettivamente un’adesione ai piani di cura e la condivisione e l’utilizzo di linee guida per la pratica clinica”. Parte Seconda – Appropriatezza operativa 14 Sistema sanitario (contesto, organizzazione) Comunità Supporto self management Supporto alle decisioni Sistema informativo clinico Disegno di sviluppo del sistema • Modalità di integrazione con altre risorse comunitarie (percorsi integrati) • Partnership con organizzazioni di comunità (programmi e politiche integrate) • Valutazione e documentazione dei bisogni e delle attività di self management • Supporto al self management • Risposta alle preoccupazioni del paziente e della famiglia • Interventi effettivi su comportamenti e stili di vita Paziente informato e attivo Interazione positiva Team integrato, preparato e proattivo • Linee guida Evidence-Based Medicine (EBM) • Coinvolgimento degli specialisti nel miglioramento delle cure primarie • Formazione degli operatori nella gestione delle patologie croniche • Informazione ai pazienti sulle Linee guida • Registro pazienti • Feedback report per la valutazione della performance • Piani assistenziali personalizzati Il percorso assistenziale Risultati migliorati La gestione integrata • Responsabilità (leadership) organizzativa complessiva per l’assistenza ai pazienti cronici • Obiettivi organizzativi mirati • Strategie di miglioramento mirate • Sistema di incentivi • Indirizzi strategici aziendali Figura 14.3 Struttura sistemica del chronic care model. La gestione integrata va considerata come un processo dinamico in progressiva evoluzione, strettamente correlato alla maturità culturale e organizzativa del contesto. Essa è, quindi, definibile come un processo assistenziale mirato al progressivo consolidarsi di una prassi di gestione condivisa tra il MMG, che è il riferimento primario del singolo paziente, e la rete di professionisti territoriali e ospedalieri che entrano in gioco nell’erogazione dell’assistenza. Molto importante è, in una logica di ampia integrazione, il contributo del mondo del volontariato, dei familiari e dello stesso paziente. Quest’ultimo, come ampiamente dimostrato in letteratura, ha una centralità non solo decisionale, ma anche gestionale rispetto alla patologia e alla cura e deve, quindi, essere messo nelle condizioni di divenire consapevole ed esperto della propria malattia. L’approccio sistemico di tipo disease management, ampiamente diffuso in campo internazionale, e il chronic care model, che costituisce ormai il riferimento organizzativo-operativo di tutte le esperienze più significative in Italia e all’estero, indicano la necessità di un’integrazione sistemica, che non trascuri nessun attore assistenziale (sia sanitario, sia non-sanitario) e che progressivamente prenda in carico tutti i pazienti, indipendentemente dal grado di evoluzione della patologia. È comunque ovvio che i sistemi regionali e aziendali debbano individuare le strategie ritenute più consone alle caratteristiche e alle specificità del contesto e del 187 Ministero della Salute sistema organizzativo locale, indirizzandosi verso uno sviluppo graduale della gestione integrata ed eventualmente focalizzando, inizialmente, l’intervento sui target di pazienti ritenuti prioritari. Nella gestione integrata non può esservi “distanza” tra le varie componenti e tra i diversi attori del sistema assistenziale e come premessa generale non vi sono, pertanto, pazienti affidati esclusivamente al MMG e altri esclusivamente allo specialista. La gestione integrata implica un piano personalizzato di follow-up condiviso tra i professionisti principali (MMG e specialisti) e tra questi ultimi e gli altri professionisti coinvolti nel processo di assistenza (infermieri, psicologi, dietisti, dietologi, assistenti sociali ecc.). Da ciò deriva la necessità di classificare i pazienti in sub-target in base al grado di sviluppo della patologia: vi saranno pazienti a minore complessità con una gestione del follow-up prevalentemente a carico del MMG e pazienti con patologia a uno stadio più avanzato con una gestione prevalentemente a carico dello specialista (Figura 14.4). Questa maggiore prevalenza di una figura rispetto all’altra, all’interno di un percorso assistenziale personalizzato e concordato, deve in ogni caso scaturire da una scelta condivisa tra i vari attori assistenziali coinvolti. In tal senso, la struttura del follow-up di un paziente in gestione integrata è decisa unitariamente da MMG e specialista e con il contributo degli altri attori, va rivalutata periodicamente e deve basarsi sulla scelta del setting assistenziale migliore (più appropriato, più efficace e più efficiente) per il singolo paziente. La gestione integrata implica, quindi, la necessità dello sviluppo di strumenti di comunicazione stabile all’interno della rete di professionisti che assiste il paziente, sfruttando, ove possibile, le potenzialità informatiche, senza disdegnare altri strumenti e vie di comunicazione a minore impatto economico e sin d’ora praticabili, laddove esistano problemi di reperimento di risorse specifiche. 188 I percorsi assistenziali per dare traduzione organizzativa e operativa alla gestione integrata Il percorso assistenziale è un metodo innovativo utilizzato per la revisione critica e il ridisegno degli iter assistenziali di specifici target di pazienti. Un percorso assistenziale è definibile come: “un metodo (modo di procedere razionale, o procedimento logico, per raggiungere determinati risultati), all’interno del quale è possibile allocare vari strumenti (arnesi atti all’esecuzione di determinate operazioni proprie di un’arte, di un mestiere) quali l’analisi di processo, gli indicatori ecc. e tecniche (insieme delle regole pratiche da applicare nell’esercizio di un’attività umana, intellettuale o manuale), quali le tecniche di supporto alle decisioni, di cui la più conosciuta è la medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence-Based Medicine, EBM), ma tra le quali possono annoverarsi altre tecniche basate sul giudizio ponderato quali gli audit multiprofessionali”. La costruzione di un percorso assistenziale deve basarsi su un metodo che sia in grado di mettere insieme tre diversi focus: organizzativo, buona parte dei risultati, infatti, dipende da come viene gestita l’organizzazione dell’assistenza; clinico, che include le prestazioni di tipo diagnostico-terapeutico; relativo alla presa in carico dei bisogni globali e non solo clinici del paziente-persona. È in ragione di ciò che, ancorché l’assistenza sia un processo unico per la costruzione di un percorso assistenziale, bisogna applicare strumenti analitici su: come siamo organizzati (care), come curiamo i pazienti (cure), quanta attenzione poniamo ai prodotti non-clinici (caring). Sintetizzando, la costruzione di un percorso assistenziale si basa, quindi, sull’uso dell’iter del paziente come un tracciante che, attraversando i servizi, ne mette in evidenza il funzionamento e i Parte Seconda – Appropriatezza operativa TEAM MULTIPROFESSIONALE STRATEGIE E STRUMENTI DI GOVERNO CLINICO SU TARGET STRATIFICATI DI PAZIENTI MMG Ospedale Specialista distrettuale Paziente cronico ad alta complessità assistenziale • • • • Pazienti con insufficienza d’organo e polipatologia Day-hospital Day-service ospedaliero e territoriale Follow-up attivo ad alta intensità specialistica Self care-management (comportamenti “abili” a prevenire e riconoscere i momenti di scompenso, a gestire attivamente la propria patologia, la cura, il proprio benessere) Ospedale MMG Paziente cronico a media complessità assistenziale • Follow-up attivo integrato a prevalenza specialistica • Piani di cura personalizzati • Self care-maintenance (comportamenti “abili” a mantenere lo stato di compenso e di equilibrio) Pazienti con compromissione d’organo Specialista distrettuale Infermiere distrettuale Ospedale Paziente cronico a bassa complessità assistenziale Pazienti con complicanze • Piano di gestione integrata e coordinata tra i vari attori di cura • Comunicazione della diagnosi e uso di tecniche di “ability to cope” • Attività informativo-educative PATTO DI CURA TEAM MULTIPROFESSIONALE TEAM MULTIPROFESSIONALE ORGANIZZAZIONE DEGLI ATTORI ASSISTENZIALI PER LA GESTIONE INTEGRATA DI GRUPPI E DI SINGOLI PAZIENTI 14 MMG Infermiere distrettuale Specialista distrettuale Pazienti a rischio Ospedale • Azione sulla prevenzione relativamente a: - soggetti con rischio documentabile - pazienti non ancora diagnosticati Figura 14.4 Triangolo di stratificazione del rischio. prodotti, intermedi e finali, clinici e non, erogati durante la filiera dell’iter assistenziale. L’analisi del processo assistenziale, che sta alla base della costruzione di un percorso assistenziale, permette di individuare gli snodi critici che hanno effetti significativi sui “prodotti” finali e di identificare le cause e le eventuali pratiche erronee o da migliorare (malpractice) che stanno alla base delle criticità rilevate. Questa tecnica analitica permette di intraprendere azioni mirate di mi- glioramento. Il percorso assistenziale risulta, pertanto, il metodo migliore: • per dare evidenza a tutti i “prodotti” dell’assistenza, sia clinici (diagnosi, terapia ecc.), sia non-clinici (comunicazione della diagnosi, patto di cura, educazione ecc.); • per analizzare i processi assistenziali e per rendere misurabili, attraverso specifici indicatori, i risultati generati. Alla luce di quanto detto i percorsi assistenziali 189 Ministero della Salute rappresentano strumenti utili per il concretizzarsi della gestione integrata e allo stesso tempo risultano indispensabili per costruire un disegno assistenziale adatto alle potenzialità e ai limiti dei contesti locali, permettendo di inserire, nelle diverse tappe assistenziali, indicatori di verifica specificamente correlati ai contributi dei diversi servizi e delle differenti figure professionali. La gestione integrata del diabete di tipo 2 Il modello assistenziale attuale L’attuale sistema assistenziale in Italia è di tipo settoriale-specialistico, pertanto ciascun soggetto erogatore (MMG, specialisti, ospedali ecc.) è qualificato per fornire assistenza con diversi gradi di complessità clinico-assistenziale. Per quanto riguarda la domanda di prestazioni, il paziente accede di propria iniziativa alle prestazioni di 1° livello (MMG e pediatri di libera scelta) e a quelle d’emergenza-urgenza mentre, per le prestazioni di livello superiore (prestazioni specialistiche, degenze ospedaliere, assistenza farmaceutica ecc.), il MMG è il “gatekeeper” che motiva la loro richiesta in modo relativamente autonomo e indipendente da protocolli diagnostico-terapeutici e Linee guida condivisi. La differenziazione professionale-organizzativa L’adozione dell’attuale modello è stata giustificata nel tempo da esigenze di ordine tecnico-scientifico: la rapida evoluzione delle conoscenze mediche e l’elevato grado di innovazione tecnologica rendevano di fatto necessario un processo di specializzazione delle professionalità sempre più spinto per far fronte con competenza alle continue esigenze di aggiornamento (differenziazione professionale). Le stesse 190 ragioni possono essere considerate alla base di un certo grado di differenziazione delle strutture (differenziazione organizzativa) in relazione alla complessità e tipologia della casistica trattata. Tuttavia, se da un lato un certo grado di differenziazione favorisce l’efficienza tramite l’ottimizzazione tecnico-funzionale, dall’altro produce diversità e frammentazione. L’elevata differenziazione professionale e organizzativa fa emergere il problema del coordinamento tra operatori, necessario per produrre un’azione diagnostico-terapeutica coerente ed efficace nell’interesse esclusivo della salute del paziente. Inoltre, la scarsa integrazione, soprattutto informativa, e lo scarso coordinamento delle risorse possono essere causa di problemi quali l’aumento delle prestazioni specialistiche e dei ricoveri inappropriati e l’allungamento delle liste d’attesa a carico dei livelli di assistenza più elevati. Il ruolo del “paziente” Vi è un altro aspetto dell’attuale modello assistenziale su cui occorre tuttavia riflettere ed è legato al ruolo del paziente nel percorso di cura. La pratica medica moderna è strutturata secondo una gerarchia che vede il medico al vertice della scala, al di sopra degli altri professionisti della salute, e il paziente al livello più basso con un atteggiamento sostanzialmente passivo. Nel caso delle persone con malattie croniche è fondamentale introdurre nuove forme di responsabilizzazione e di coinvolgimento attivo nel processo di cura (patient empowerment), affinché la persona stessa possa acquisire gli strumenti per autogestirsi e collaborare in forma proattiva con il proprio medico. La gestione integrata La necessità di recuperare spazi di integrazione e coordinamento nella gestione delle cure e di in- Parte Seconda – Appropriatezza operativa trodurre sistemi di partecipazione attiva del paziente al processo di cura, preservando al tempo stesso la specializzazione delle risorse professionali e la sostenibilità economica, ha visto nascere nuovi modelli assistenziali che, con un termine molto generale, si può definire di gestione integrata. Questi modelli si basano su sistemi organizzativi e tecnologici, conoscenza scientifica, incentivi e informazione per migliorare la qualità delle cure e aiutare i pazienti a gestire più efficacemente le loro condizioni di salute. L’obiettivo è ottenere un miglioramento dello stato di salute del paziente e, contemporaneamente, contenere/ottimizzare l’utilizzo delle risorse umane ed economiche impiegando strategie per modificare i comportamenti di pazienti e medici, da parte dei quali è spesso difficile ottenere rispettivamente un’adesione ai piani di cura e la condivisione e l’utilizzo di Linee guida per la pratica clinica. I requisiti minimi per un modello assistenziale di gestione integrata del DT2 nell’adulto sono stati definiti nell’ambito del progetto IGEA da un panel multidisciplinare di esperti e di rappresentanti delle persone con diabete. In particolare sono stati definiti: • le modalità organizzative per la gestione integrata del diabete mellito (Tabella 14.2); • le raccomandazioni, prodotte secondo il metodo GRADE, per migliorare la qualità della cura delle persone con diabete (Tabella 14.3); • gli indicatori minimi per il monitoraggio del processo e degli esiti della cura. Elementi essenziali dell’assistenza per le persone con diabete secondo un modello di gestione integrata Adozione di un protocollo diagnostico-terapeutico condiviso La gestione integrata prevede l’adozione di un 14 protocollo diagnostico-terapeutico condiviso da tutti i soggetti interessati (MMG, specialisti del settore, specialisti collaterali delle complicanze, infermieri, dietisti, podologi, psicologi, assistenti domiciliari, direzioni delle aziende sanitarie, farmacisti, persone con diabete o rappresentanti delle associazioni di pazienti). Il protocollo di cura concordato dovrebbe essere adattato alle singole realtà attraverso l’individuazione dei compiti e dei ruoli che ciascun operatore sarà chiamato a svolgere nell’ambito del percorso di cura stabilito. Formazione degli operatori sulla malattia diabetica e sulle sue complicanze secondo un approccio multidisciplinare integrato Tutti gli operatori devono essere informati e “formati” alla gestione del sistema. Sono auspicabili un esame dei bisogni formativi del team diabetologico e dei MMG di riferimento e la promozione di corsi sulla gestione della malattia cronica e sulla costruzione del team. Identificazione delle persone con diabete da avviare a un percorso di gestione integrata In ragione dello sforzo organizzativo sottostante l’attuazione del piano di gestione integrata, si può rendere necessario limitare il numero di persone inizialmente coinvolte a quelle classi di popolazione che, per diverse ragioni, potrebbero ottenere significativi benefici da questo modello di assistenza, tenendo presenti considerazioni di tipo epidemiologico e gestionale. Adesione informata alla gestione integrata La gestione integrata prevede un cambiamento forte delle modalità di cura e di gestione del paziente e, inoltre, la realizzazione di un sistema informativo. È indispensabile, quindi, che tutte le persone con diabete coinvolte siano adeguata- 191 Ministero della Salute Tabella 14.2 Modalità organizzative per la gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto • Il paziente è inviato al centro diabetologico per la valutazione complessiva, l’impostazione terapeutica e l’educazione strutturata alla gestione della malattia, che comprende la chiara indicazione degli obiettivi da raggiungere, dei mezzi adeguati allo scopo e delle motivazioni che rendono necessario un follow-up per tutta la vita • Il paziente viene seguito in modo attivo, secondo una medicina di iniziativa, da parte del proprio MMG, al fine di garantire il raggiungimento e il mantenimento degli obiettivi stabiliti • Il paziente effettua una visita generale almeno ogni sei mesi presso il MMG • Il paziente effettua una valutazione complessiva presso la struttura diabetologica almeno una volta l’anno, se l’obiettivo terapeutico è raggiunto e stabile e non sono presenti gravi complicanze • Il paziente accede, inoltre, al centro diabetologico per visite non programmate e/o urgenti ogni qual volta, a giudizio del MMG, se ne presenti la motivata necessità Compiti del centro diabetologico • Inquadramento delle persone con diabete neodiagnosticato con formulazione del piano di cura personalizzato e condiviso con i MMG • Presa in carico, in collaborazione con i MMG, delle persone con diabete • Gestione clinica diretta, in collaborazione con i MMG e gli altri specialisti, delle persone con: grave instabilità metabolica; complicanze croniche in fase evolutiva; trattamento mediante infusori sottocutanei continui d’insulina; diabete in gravidanza e diabete gestazionale • Impostazione della terapia nutrizionale • Effettuazione, in collaborazione con i MMG, di interventi di educazione sanitaria e counseling delle persone a rischio e delle persone con diabete, rivolti, in particolare, all’adozione di stili di vita corretti e all’autogestione della malattia • Valutazione periodica, secondo il piano di cura adottato, dei pazienti diabetici di tipo 2 seguiti con il protocollo di gestione integrata, finalizzata al buon controllo metabolico e alla diagnosi precoce delle complicanze • Raccolta dei dati clinici delle persone con diabete in maniera omogenea con il MMG di riferimento, mediante cartelle cliniche preferibilmente in formato elettronico • Attività di aggiornamento rivolta ai MMG in campo diabetologico Compiti del medico di medicina generale • Identificazione della popolazione a rischio aumentato di malattia diabetica fra i propri assistiti • Diagnosi precoce di malattia diabetica tra i propri assistiti • Identificazione, fra i propri assistiti, delle donne con diabete gestazionale • Presa in carico, in collaborazione con i centri diabetologici, dei pazienti e condivisione del piano di cura personalizzato • Valutazione periodica, mediante l’attuazione di una medicina di iniziativa, dei propri pazienti secondo il piano di cura adottato, finalizzata al buon controllo metabolico e alla diagnosi precoce delle complicanze • Effettuazione, in collaborazione con il centro diabetologico, di interventi di educazione sanitaria e counseling delle persone a rischio e delle persone con diabete rivolti, in particolare, all’adozione di stili di vita corretti e all’autogestione della malattia • Monitoraggio dei comportamenti alimentari secondo il piano di cura personalizzato • Organizzazione dello studio (accessi, attrezzature, personale) per una gestione ottimale delle persone con diabete • Raccolta dei dati clinici delle persone con diabete in maniera omogenea con il centro diabetologico di riferimento, mediante cartelle cliniche preferibilmente in formato elettronico MMG, medico di medicina generale. mente informate ed esprimano il loro consenso alla partecipazione e al trattamento dei dati. Coinvolgimento attivo delle persone nel percorso di cura –“patient empowerment” La persona con diabete è l’elemento centrale di un sistema di gestione integrata. Si rende necessaria, quindi, la programmazione di attività edu- 192 cativo-formative dirette ai pazienti, sotto forma di iniziative periodiche di educazione, e di un’assistenza ad personam da parte delle diverse figure assistenziali. Il sistema informativo e gli indicatori Uno dei fondamenti su cui poggia un sistema di gestione integrata è la realizzazione di un sistema 14 Parte Seconda – Appropriatezza operativa Tabella 14.3 Raccomandazioni per ridurre l’incidenza delle complicanze negli adulti con diabete mellito di tipo 2, in un modello di gestione integrata della malattia Raccomandazione Grading Forza Qualità complessiva delle prove Parametri di monitoraggio Frequenza di rilevazione Trattamento intensivo mirato a ottimizzare i valori di HbA1c Raccomandazione Bassa forte Misurazione di: • HbA1c • microalbuminuria Ogni 3-4 mesi (semestrale in presenza di un buon controllo) Annuale Riduzione della colesterolemia Raccomandazione Moderata forte Misurazione di: • colesterolemia totale • colesterolo HDL • colesterolo LDL calcolato • trigliceridemia Annuale Riduzione della pressione arteriosa Raccomandazione Moderata forte Misurazione della pressione arteriosa Ogni 3-4 mesi Esame del fondo oculare Raccomandazione Molto bassa forte Esame del fondo oculare Alla diagnosi e almeno ogni due anni (più frequentemente in presenza di retinopatia) Valutazione del piede ed educazione del paziente Raccomandazione Molto bassa forte Esame obiettivo del piede e stratificazione del rischio Annuale Misurazione di: • circonferenza vita • peso Semestrale Modifica degli stili di vita, Raccomandazione Molto bassa adozione di un’alimentazione forte corretta, regolare esercizio fisico Nelle persone con diabete sono consigliati, inoltre, un moderato apporto di alcool e la disassuefazione dal fumo HDL, lipoproteine a elevata densità; LDL, lipoproteine a bassa densità. informativo idoneo per i processi di identificazione della popolazione target, per la valutazione di processo e di esito, per svolgere una funzione proattiva di richiamo dei pazienti all’interno del processo, per aiutare gli operatori sanitari a condividere, efficacemente e tempestivamente, le informazioni necessarie alla gestione dei pazienti. Questi elementi devono essere parte di strategie politiche di comunità (regionali, di ASL/Distretto ecc.) che facilitino i processi di interazione fra tutti gli attori coinvolti nei programmi di gestione integrata. In riferimento alla gestione integrata va riportato come esempio di modalità operativa interdisciplinare l’accordo tra le Società scientifiche diabetologiche e la SIMG (vedi il documento condiviso nell’Allegato). 193 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 15. Situazioni particolari Emergenze metaboliche acute Ipoglicemia Inquadramento L’ipoglicemia, specialmente nei pazienti trattati con insulina, rappresenta il principale fattore limitante nella terapia del diabete di tipo 1 (DT1) e di tipo 2 (DT2). Vengono definiti tre gradi di ipoglicemia: • grado lieve, nel quale sono presenti solamente sintomi neurogenici (come tremori, palpitazione e sudorazione) e l’individuo è in grado di autogestire il problema; • grado moderato, nel quale ai sintomi del grado lieve si aggiungono sintomi neuroglicopenici (come confusione, debolezza), ma l’individuo è ancora in grado di autogestire il problema; • grado grave, nel quale l’individuo presenta uno stato di coscienza alterato e necessita dell’aiuto o della cura di terzi per risolvere l’ipoglicemia. Trattamento Il glucosio per os (15 g) è il trattamento di scelta per l’ipoglicemia di grado lieve-moderato, sebbene qualsiasi forma di carboidrati contenenti glucosio possa essere utilizzata a tale scopo, in dosi equivalenti; gli effetti del trattamento dovrebbero essere evidenti entro 15 minuti dall’ingestione. L’effetto del trattamento sull’ipoglicemia può essere solo temporaneo. Pertanto, la glicemia deve essere misurata ogni 15 minuti, fino al riscontro di almeno due valori normali in assenza di ulteriore trattamento tra le due misurazioni. Il glucosio ev in soluzioni ipertoniche (dal 20% al 33%) è il trattamento di scelta delle ipoglicemie gravi in presenza di accesso venoso. Qualora questo non sia disponibile, è indicato l’utilizzo di glucagone per via intramuscolare o sottocutanea. Il glucagone deve essere disponibile per tutti i pazienti con rischio significativo di ipoglicemia grave (diabetici in terapia insulinica e non in buon controllo per l’instabilità delle glicemie o con episodi di ipoglicemia inavvertita). La somministrazione del glucagone non richiede la presenza di un professionista sanitario. Le strategie terapeutiche successive all’episodio di ipoglicemia dovranno essere definite in base alle specifiche cause dell’evento. Iperglicemia (chetoacidosi diabetica e sindrome iperglicemica iperosmolare) Inquadramento Le emergenze o crisi iperglicemiche che si possono manifestare in persone con diabete sono la chetoacidosi diabetica, caratteristica del DT1, e la sindrome iperglicemica iperosmolare (definita an- 195 Ministero della Salute che coma o stato iperglicemico iperosmolare nonchetotico) caratteristica del DT2. Sia la chetoacidosi diabetica sia la sindrome iperglicemica iperosmolare, se non trattate tempestivamente, possono portare a morte del paziente. Benché normalmente considerate come entità distinte, rappresentano in realtà uno spettro continuo di emergenze cliniche causate dal cattivo controllo del diabete. In entrambe le crisi iperglicemiche è presente marcata disidratazione fino a oltre 10 litri di deplezione, con riduzione dei liquidi sia del comparto intracellulare, sia di quello extracellulare vascolare e interstiziale, e alterazioni del sensorio fino al coma. La chetoacidosi diabetica rappresenta la principale causa di morte nel diabete infantile, si manifesta in seguito a carenza assoluta di insulina ed è caratterizzata da iperglicemia (> 250 mg/dl), acidosi metabolica (pH < 7,3, bicarbonati < 15 mEq/L), iperchetonemia e chetonuria. Essa può rappresentare la modalità di presentazione clinica del DT1, oppure manifestarsi in persone con DT1 in seguito all’interruzione della terapia insulinica per qualunque ragione, o ancora essere precipitata da infezioni, traumi o accidenti cardiovascolari (infarto del miocardio o ictus cerebrale) intercorrenti. La sindrome iperglicemica iperosmolare si manifesta in seguito a carenza di insulina, che tuttavia non è mai assoluta, ed è caratterizzata da iperglicemia marcata (> 500 mg/dl) ed elevata osmolarità (> 340 mOm/kg; valori normali 275-295 mOm/kg); l’acidosi normalmente non è presente o, se presente, è di modesta entità. La sindrome iperglicemica iperosmolare viene abitualmente precipitata da un’infezione, accidente cardiovascolare (infarto del miocardio o ictus cerebrale) o altra malattia acuta intercorrente. Trattamento La chetoacidosi diabetica e la sindrome iperglicemica iperosmolare sono condizioni di emergenza 196 da trattare, se possibile, in ambiente ospedaliero con la possibilità di accesso agli esami di laboratorio e monitoraggio dei parametri vitali. La mortalità associata a queste condizioni è ancora significativa. Gli obiettivi della terapia delle crisi iperglicemiche comprendono la correzione della disidratazione, dell’iperglicemia e degli squilibri elettroliti associati, l’identificazione e il trattamento delle possibili condizioni precipitanti e, infine, l’attento monitoraggio del paziente. La correzione della marcata disidratazione avviene attraverso la rapida infusione di liquidi per via endovenosa (ev): normalmente si utilizza infusione di soluzione fisiologica nella misura di almeno 1 litro durante la prima ora e 250-500 ml/ora durante le ore successive. La correzione dell’iperglicemia avviene mediante somministrazione di insulina ev continua a basse dosi, normalmente circa 0,1-0,15 UI/kg/ora, fino alla discesa dei valori di glicemia a circa 200 mg/dl; proposta, ma non da tutti condivisa, l’utilità di un bolo iniziale di insulina alla dose di 0,1 UI/kg. Gli squilibri elettrolitici associati sono rappresentati soprattutto dal potassio, frequentemente elevato in associazione all’iperglicemia, ma che tende a ridursi in corso di infusione di insulina, pertanto spesso si rende necessaria la supplementazione nelle infusioni in corso. La correzione dell’iperglicemia deve avvenire gradualmente, nell’arco di alcune ore, per evitare variazioni acute degli elettroliti e scongiurare il rischio di edema cerebrale, complicanza caratteristica dell’età pediatrica, spesso fatale. La somministrazione di bicarbonati è controindicata nella chetoacidosi diabetica per possibile accentuazione dell’acidosi cerebrale con conseguente rischio di depressione cerebrale: l’impiego dei bicarbonati viene consigliato soltanto in presenza di pH < 7,0, nella misura indispensabile a riportare il pH al di sopra di questa soglia. L’acidosi metabolica viene corretta dalla terapia insulinica attraverso Parte Seconda – Situazioni particolari l’inibizione della formazione di corpi chetonici. Contemporaneamente al trattamento dell’emergenza iperglicemica, occorre trattare la condizione soggiacente (infezione, accidente cardiovascolare, malattia intercorrente) ove presente. I pazienti con chetoacidosi diabetica o sindrome iperglicemica iperosmolare devono essere trattati con insulina ev fino alla risoluzione della crisi iperglicemica. I criteri per definire risolta la chetoacidosi diabetica comprendono: glicemia < 200 mg/dl, bicarbonati ≥ 15 mEq/L, pH > 7,3; quelli per definire risolta la sindrome iperglicemica iperosmolare comprendono la normalizzazione dell’osmolarità e il recupero di un normale stato mentale. Risolta la crisi iperglicemica, la terapia insulinica deve essere proseguita per via sottocutanea. Il paziente pediatrico Gestione del passaggio dalla diabetologia pediatrica alla diabetologia dell’adulto Ai sensi della Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo (Legge n. 176 del 27 maggio 1991) si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a 18 anni. Ai minori, sempre secondo la Convenzione, deve essere garantito il diritto di avere accesso a servizi medici e di riabilitazione a loro dedicati. Nel nostro Paese, considerata la diffusione sul territorio nazionale e il livello di qualificazione uniformemente raggiunto dalle Strutture Pediatriche di Diabetologia individuate a livello regionale in conformità con quanto riportato nelle Linee guida della SIEDP (Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica) e dell’ISPAD (International Society for Pediatric and Adolescent Diabetes), è possibile garantire tale diritto ai bambini e agli adolescenti affetti da DT1. In età pediatrica, l’educazione terapeutica svolta 15 durante le visite di controllo, durante gli incontri di gruppo o i campi-scuola e il lavoro sull’empowerment devono tenere conto delle capacità cognitive e di apprendimento caratteristiche di ogni età, utilizzando strumenti pedagogici e linguaggi calibrati all’età del paziente (giochi, tecniche di apprendimento attive ecc.). È evidente che il paziente in età evolutiva può trovare una risposta alle esigenze soprariportate se affidato a un’equipe multiprofessionale con formazione pediatrica. La fase di transizione tra l’infanzia e l’età adulta, che include le variazioni biologiche della pubertà, pone particolari problemi alla persona con DT1 e al “team” di diabetologia pediatrica. Sebbene la maggior parte degli adolescenti si adatti bene alle difficili sfide della pubertà, si deve riconoscere che l’assistenza ai teen-agers e le loro caratteristiche emozionali sono molto diverse da quelle dei bambini e degli adulti e richiedono, quindi, competenze diverse. La terapia farmacologica e la necessità di un’adeguata nutrizione sono nell’adolescente con DT1 in parte simili a quelle dell’adulto affetto da DT1, mentre esistono importanti differenze in termini fisiologici, sociali ed emozionali. In questa delicata fase l’adolescente deve rispondere a richieste interne (costruzione di una propria identità, volontà di differenziarsi dal ragazzo che è stato in passato e dai modelli adulto-genitoriali) ed esterne (nuove amicizie e relazioni, la scuola, i pari età e la forza di omogeneizzazione al gruppo di riferimento); non sempre la condizione diabete trova una giusta collocazione nella vita del ragazzo, rischiando di essere dimenticata, negata, odiata e combattuta senza armi adeguate. La motivazione alla cura e a uno stile di vita corretto diminuisce o si altera, mentre, contemporaneamente, l’adolescente diventa per la prima volta l’interlocutore privilegiato al momento delle visite al centro diabetologico. Tuttavia, sebbene nella maggior parte dei casi egli 197 Ministero della Salute abbia raggiunto l’autonomia gestionale, raramente ha assunto vera consapevolezza e responsabilità nei confronti della sua malattia, dal momento che risulta anche difficile una rappresentazione futura di sé. All’equipe in questa fase è richiesto un lavoro particolare sulla motivazione alla compliance e alla collaborazione, lavoro che tenga conto delle ambivalenze tipiche dell’età, di una quota di “aggressività” nei confronti dei curanti e di quella parte di sé legata alla malattia. Il sostegno al cambiamento nella cura e nelle abitudini non può disgiungersi, allora, da un ascolto attivo e da un’attività costante di counseling adolescenziale, che dovrà occuparsi, per esempio, di tematiche quali i disturbi alimentari, le implicazioni relazionali e sessuali del diabete, fino a un eventuale discorso sulle complicanze, troppo spesso rimandato il più a lungo possibile. La competenza del pediatra diabetologo termina quando si è completato lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del paziente. Alla fine del percorso di maturazione si rende necessario il passaggio di competenze tra i medici che si fanno carico della presa in cura del giovane, da servizi con particolari competenze auxologiche, nutrizionali e relazionali a servizi più vicini alle problematiche dell’inserimento nel mondo del lavoro, alla maternità/paternità, alle complicanze tardive ecc. È necessario che il passaggio al centro dell’adulto sia preparato, motivato, condiviso e accompagnato, nella consapevolezza che l’educazione all’autonomia, parte integrante della cura, va intesa anche come educazione alla non dipendenza da un centro, da un’equipe, da un medico. Necessità del passaggio: facilitare il cambiamento Il passaggio dal centro pediatrico al centro dell’adulto deve essere un processo e non un evento cri- 198 tico nella vita degli adolescenti con patologia cronica. Il paziente deve essere aiutato nel corso degli anni di visite presso il centro pediatrico ad acquisire la consapevolezza che il passaggio è davvero necessario e che lo aiuterà a essere seguito nei modi e nelle maniere adeguate alle sue mutate esigenze, alle quali il centro pediatrico non può più rispondere nel migliore dei modi. Questo processo deve essere realizzato costruendo gradualmente, sin dalle prime fasi dopo la diagnosi, con la famiglia e, quando l’età lo consente, con il giovane stesso un clima di comunicazione e collaborazione aperte e adeguate. A tal fine è necessario concordare un’età entro la quale effettuare il passaggio. L’età dei 18 anni, che rappresenta per definizione (vedi Legge n. 176 del 27 maggio 1991) il limite dell’età pediatrica, potrebbe costituire il limite entro il quale effettuare il passaggio. Quando il team pediatrico giunge alla conclusione che lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del paziente si sono completati e che anche l’educazione terapeutica è stata completata (verosimilmente intorno ai 18 anni), il primo passo consiste nel concludere una normale visita accennando alla possibilità del futuro trasferimento al centro dell’adulto, senza dare l’idea che si tratti di qualcosa di inevitabile o scontato, per evitare che il paziente si senta abbandonato, “scaricato”. Non bisogna forzare i tempi: il passaggio deve avvenire solo quando è stata accertata la completa disponibilità del paziente. Il trasferimento dovrà avvenire in modo graduale, in maniera non traumatica e tenendo conto delle realtà locali. È indispensabile disegnare, pertanto, un percorso di transizione personalizzabile da soggetto a soggetto e adattabile alle varie realtà locali, tenendo come riferimento, condiviso dalle Società scientifiche, il modello proposto nel presente documento. Perché la transizione, intesa come processo e non come evento, sia efficace occorre che: Parte Seconda – Situazioni particolari • la famiglia, il giovane adulto e i medici siano o siano stati orientati al futuro; • la progettazione della transizione sia stata comunicata molto in anticipo; • si inizi presto a trasferire la gestione di cura dal genitore al giovane paziente (adulto); • la famiglia e i medici aiutino il giovane paziente a sviluppare indipendenza; • i giovani siano coinvolti; • si realizzi un piano di transizione scritto; • il processo sia “complesso e dinamico”. È indispensabile la comunicazione efficace tra il personale della diabetologia pediatrica e il personale della diabetologia dell’adulto, così da costituire un “team di transizione”. Il “team di transizione” ha il compito non solo di svolgere un ruolo di riferimento preciso per i singoli pazienti in “passaggio”, provenienti dal centro pediatrico, e per le loro famiglie, ma anche di discutere la situazione globale, i potenziali passaggi e i risultati dei precedenti passaggi. I “campi scuola”, dedicati specificamente ai giovani adulti, con la presenza contemporanea di personale delle strutture pediatriche e per adulti, possono rappresentare un’occasione per facilitare il percorso di transizione. Perché il rapporto fra diabetologia pediatrica e diabetologia dell’adulto si sviluppi, i centri dell’adulto devono adeguare la loro organizzazione alle esigenze dei giovani adulti che sono stati in cura presso un centro pediatrico. È inoltre indispensabile ottenere un feedback dai pazienti che hanno recentemente affrontato la transizione. Le modalità del passaggio Accennare Se il team di transizione ritiene che lo sviluppo fisico, lo sviluppo psicologico e quello sociale del paziente si siano completati e che anche l’educazione terapeutica sia stata completata, si potrà 15 dare inizio con gradualità alla fase di distacco. Nel corso di una visita usuale il pediatra invita il paziente ed eventualmente la sua famiglia a riflettere sulla possibilità di un trasferimento al centro dell’adulto, evidenziando i vantaggi che questa scelta comporta per il paziente e spiegando che questa è un’opportunità offerta a tutti i ragazzi di una determinata età. Spiegare La visita successiva sarà in buona parte dedicata ad affrontare le ansie e le remore del paziente, spiegando nel dettaglio le ragioni che consigliano il passaggio e le modalità con cui questo avverrà. Si devono specificate anche le modalità con cui il paziente può rimanere in contatto con il servizio pediatrico. Condividere Ogni team pediatrico dovrebbe creare legami stabili con una o più strutture dedicate alla cura dell’adulto, cercando di affidare i pazienti a un medico specifico al loro interno e promuovendo riunioni di coordinamento. Informare Il team pediatrico preparerà la scheda clinica con informazioni utili (anagrafica con anamnesi personale e familiare, caratteristiche dell’esordio, iter dello schema terapeutico, attuale terapia, alimentazione, complicanze, grado di educazione, compliance su autocontrollo e autogestione). Il team dell’adulto dovrà consegnare al giovane paziente, come presentazione del futuro centro di riferimento, la Carta dei Servizi del centro per adulti con dettagliato profilo organizzativo. Cooperare In caso di problematicità, il diabetologo dell’adulto potrà invitare il pediatra di riferimento a 199 Ministero della Salute presenziare anche a successivi incontri. È necessario assicurarsi che non vi sia alcuna soluzione di continuità nell’assistenza e che il giovane non sia perso al follow-up. Da parte del pediatra, prima del passaggio al centro dell’adulto Se si dispone di un servizio di psicologia, prima del passaggio si devono sottoporre i ragazzi ad alcune valutazioni, utilizzando: • Questionario per “Anamnesi psicosociale” (vedi Appendice 5, Paragrafo A); • Questionario per “Valutazione del passaggio”, distinto per ragazzi/ragazze (vedi Appendice 5, Paragrafi B, C e D); • Test delle Relazioni Interpersonali (TRI) [9/19 anni], che valuta l’adeguatezza delle relazioni interpersonali nell’ambito sociale (coetanei) e familiare (genitori); • Profile of Mood States (POMS) [adolescenti/ adulti], studio delle emozioni: ansia, depressione, aggressività, vigore, stanchezza e confusione. Se non si dispone di un servizio di psicologia, potrà essere il medico del servizio di diabetologia pediatrica a eseguire la valutazione, utilizzando: Box 15.1 Schema di protocollo di transizione I - Presso il servizio di diabetologia pediatrica Presso il servizio di diabetologia pediatrica sarà programmata la prima visita del ragazzo/a con DT1 alla presenza del personale della diabetologia pediatrica e del personale della diabetologia dell’adulto (team di transizione) in spazi/ore/giorni dedicati. Presentazione da parte del team di transizione della diabetologia pediatrica (TtDP) al team di diabetologia dell’adulto (TtDA) del ragazzo/a con diabete e della famiglia: il TtDP consegna al TtDA la scheda clinica dettagliata con informazioni utili (anagrafica con anamnesi personale e familiare, caratteristiche dell’esordio, iter dello schema terapeutico, attuale terapia, alimentazione, complicanze, grado di educazione, compliance su autocontrollo e autogestione), situazione caratteriale-psicologica-familiare (vedi Appendice 5 paragrafo A). Presentazione da parte del team di transizione della diabetologia dell’adulto (TtDA) del proprio centro e del progetto assistenziale (PA): il TtDA consegna al/alla ragazzo/a, come presentazione del futuro centro di riferimento, la Carta dei Servizi del centro per adulti con dettagliato profilo organizzativo. Sarà discusso il progetto assistenziale, da rimodellare in base alle esigenze del/della ragazzo/a, della famiglia e del team di transizione della diabetologia pediatrica (TtDP). II - Presso il servizio di diabetologia dell’adulto Presso il servizio di diabetologia dell’adulto sarà programmata la seconda visita del/della ragazzo/a con diabete alla presenza del personale della diabetologia pediatrica e del personale della diabetologia dell’adulto (team di transizione) in spazi/ore/giorni dedicati. Presentazione da parte del team di transizione della diabetologia dell’adulto (TtDA) del proprio centro e avvio del progetto assistenziale (PA): • continua il follow-up presso il servizio di diabetologia dell’adulto; • nel corso dei primi 6 mesi sono necessari contatti telefonici fra i 2 team di transizione (TtDA e TtDP) in caso di problemi particolari; sono obbligatori nel caso il/la ragazzo/a contattasse il team pediatrico. Al termine del 1° anno: • scheda del follow-up compilata dal team di transizione della diabetologia dell’adulto; • questionario di gradimento compilato da parte del/della ragazzo/a. • confronto fra i 2 team di transizione (TtDA e TtDP) per una verifica congiunta. 200 Parte Seconda – Situazioni particolari • Questionario per “Anamnesi psicosociale” (vedi Appendice 5, Paragrafo A); • Questionario per “Valutazione del passaggio”, distinto per ragazzi/ragazze (vedi Appendice 5, Paragrafi B, C e D). I questionari saranno anonimi per garantire la massima autonomia del paziente nelle risposte. Si utilizzerà un numero di codice. Gestione del diabete di tipo 1 a scuola Numerosi sono i bambini con DT1 che trascorrono molte ore della giornata in ambiente scolastico, spesso trattenendosi anche per il pranzo. È quindi importante assicurare una corretta gestione del bambino e dell’adolescente con DT1 nella scuola. Gli insegnanti devono essere informati sul DT1 e sulle particolari esigenze del controllo metabolico, della terapia e di alcune condizioni metaboliche. L’assistenza del bambino con DT1 a scuola: proposta di modello assistenziale I bambini con DT1 richiedono particolare attenzione, specialmente quando sono molto giovani. Se il bambino ha già manifestato da tempo il diabete e deve iniziare il primo anno di scuola, o se il bambino ha da poco presentato l’esordio del diabete, è importante che i genitori, prima che il bambino inizi la scuola o riprenda a frequentare la scuola, seguano i seguenti suggerimenti. • Fissare, almeno una settimana prima dell’inizio della frequenza scolastica, un appuntamento con gli insegnanti del bambino, con il direttore della scuola e il medico scolastico, se presente. Durante l’incontro si comunicherà che il bambino è affetto da DT1, che richiede terapia con insulina somministrata sc. I genitori devono illustrare la situazione e riferire che il bambino 15 con diabete e la sua famiglia sono stati educati all’autocontrollo della glicemia e della glicosuria, alla somministrazione sottocutanea di insulina, a seguire un’alimentazione equilibrata, a svolgere un’attività fisica regolare e adeguata e a controllare e risolvere le varie evenienze legate al diabete. Inoltre, si farà presente che il bambino dovrà eseguire alcuni controlli sul sangue e si chiederà dove il bambino potrà eseguirli. In alcune scuole sarà a disposizione l’infermeria, in altre saranno a disposizione stanze che devono essere adeguate. Deve essere garantito che il tutto avvenga nelle migliori condizioni igieniche. Il bambino deve partecipare a tutte le attività scolastiche e non deve essere trattato in maniera diversa dagli altri compagni. Si consiglia di consegnare agli insegnati i libretti sul diabete che i centri di diabetologia pediatrica distribuiscono gratuitamente. • Informare che il bambino dovrà fare una piccola merenda a metà mattina e a metà pomeriggio. Raccomandare che, se il bambino chiede di mangiare qualcosa, è sempre meglio assecondarlo, soprattutto quando deve iniziare un’attività fisica o subito dopo, per evitare crisi di ipoglicemia. • Chiedere l’ora esatta del pranzo, se il bambino si ferma a pranzo, in modo che si possa programmare la terapia insulinica secondo gli orari prestabiliti. In alcune scuole i bambini pranzano alle 12, in altre alle 13. È quindi importante conoscere l’orario preciso per calcolare quando fare l’insulina e lo spuntino del mattino. • Informare gli insegnanti su quali sono i sintomi dell’ipoglicemia. Anche se ogni bambino può avere comportamenti diversi, si consiglia di consegnare una breve guida sui comportamenti da tenere in questi casi. Di solito il bambino avrà sempre a disposizione dello zucchero o delle caramelle e uno snack per i casi di neces- 201 Ministero della Salute sità. Segnalare che se il bambino dà qualche manifestazione di ipoglicemia non deve essere lasciato solo e, se non possono accompagnarlo direttamente, fare in modo che ci sia qualcuno con lui; fare altrettanto se il bambino chiede di allontanarsi per controllare la glicemia. • Incontrare tutti gli insegnanti del bambino compresi l’insegnante di religione, quello di ginnastica, di educazione artistica ecc. Comunicare anche a loro che il bambino ha il diabete e fare presente che il bambino non deve essere lasciato solo in caso di sospetta ipoglicemia. Inoltre, raccomandare all’insegnante di ginnastica che il bambino non svolga attività fisica se la glicemia è uguale o inferiore a 80 mg/dl (rischio di crisi ipoglicemica) o superiore a 200 mg/dl (glicemia elevata, il che significa insufficienza insulinica) e in tal caso l’esercizio fisico può causare problemi al bambino che, non potendo utilizzare gli zuccheri, dovrà usare le riserve di grasso per produrre l’energia necessaria, con conseguente chetonuria. Il personale docente e non docente della scuola deve conoscere e avere acquisito le nozioni di base relative al diabete e al suo trattamento, deve ricevere dai genitori del bambino con diabete le informazioni su quanto il bambino deve eseguire durante l’orario scolastico, per far fronte al controllo e alla cura del diabete. In ogni caso, un medico del centro di diabetologia pediatrica sarà disponibile come punto di riferimento degli insegnanti anche per l’educazione sanitaria; con poche nozioni si può infatti provvedere alle esigenze del bambino con diabete e accorgersi se ha bisogno di qualcosa, se è in prossimità di una crisi ipoglicemica, come intervenire al fine di consentire allo scolaro di vivere serenamente e con sicurezza la scuola. Obiettivo primario da perseguire è la sicurezza del bambino in ambito scolastico, in particolare per quanto riguarda la somministrazione della terapia 202 e la gestione di eventuali emergenze metaboliche (es. l’ipoglicemia). A cura delle strutture pediatriche di diabetologia saranno predisposti, e condivisi con gli operatori scolastici, momenti formativi dedicati e specifici protocolli di intervento. Altro aspetto importante è rappresentato dalla normale partecipazione del bambino alla mensa scolastica, per la quale le strutture pediatriche di diabetologia offriranno la consulenza dietetica in linea con le raccomandazioni nutrizionali per fasce di età. I due momenti contribuiranno in maniera determinante alla piena integrazione del bambino nel suo ambito relazionale. È indispensabile non discriminare i bambini e gli adolescenti con diabete, evitando atteggiamenti negativi, di pietismo, di diffidenza o di paura nell’assumersi determinate responsabilità. È quindi importante che gli insegnanti siano informati se un alunno è affetto da diabete, soprattutto quando frequenta le elementari o le medie. Vi è la necessità di una rete efficiente e integrata sul caso, rappresentata da: • genitori; • assistenza infermieristica; • Centro Regionale di diabetologia pediatrica; • pediatri di libera scelta; • MPCEE (Medicina Preventiva di Comunità dell’Età Evolutiva) [ex Medicina Scolastica]. Inoltre, deve essere garantita la disponibilità del centro di diabetologia pediatrica di riferimento per consulenze anche in urgenza. Ipoglicemia La glicemia può ridursi eccessivamente per: dose di insulina troppo elevata, aumento dell’attività fisica, minore apporto alimentare. Quando la glicemia è troppo bassa, l’organismo sente la carenza di zucchero e manda segnali di allarme che costringono il bambino a risparmiare energia e a rimpiazzare le perdite mangiando. Parte Seconda – Situazioni particolari 15 I segnali di allarme più frequenti sono: fame eccessiva, sudorazione, pallore, mal di testa, vertigini, nervosismo, tremore, vista annebbiata, irritabilità, pianto o riso, confusione, difficoltà di concentrazione, torpore o affaticamento, difficoltà di coordinazione, grafica disordinata, formicolio alle labbra (vedi Appendice 6). Al primo segnale di uno di questi sintomi si deve somministrare immediatamente dello zucchero: zucchero (4 zollette o 2 cucchiaini da tè colmi) o succo di frutta (1 bicchiere) o aranciata o cola (1 bicchiere). Dopo che il bambino si è ripreso, prima di riprendere le attività scolastiche è bene dargli da mangiare mezzo panino o qualche biscotto (vedi Appendice 6). Se il bambino dovesse aver perso coscienza, è possibile somministrargli per via intramuscolare una fiala di glucagone. Se non è possibile somministrare il glucagone, è bene chiamare subito il 118 (vedi Appendice 6). In ogni caso i genitori dovranno essere avvertiti dell’accaduto. tualmente è necessario che mangi cinque volte al giorno (colazione, pranzo, cena, spuntini a metà mattinata e metà pomeriggio), rispettando precisi orari. Questa suddivisione è necessaria per distribuire equamente gli zuccheri della dieta in tutte le ore della giornata. È opportuno che la dietista che segue il bambino esamini il menù scolastico e consigli, se necessario, le opportune correzioni. Qualora ci fosse più di un turno per accedere alla mensa, è consigliabile che il bambino sia assegnato al primo turno. Iperglicemia Abitualmente le iniezioni sono fatte dai genitori o dal bambino a casa, ma, quando necessario, si deve permettere loro di eseguirle a scuola in un luogo appartato e seguendo le comuni norme igieniche. Determinazione della glicemia e della glicosuria Per capire meglio l’andamento del diabete nel corso della giornata è necessario che il bambino esegua periodiche determinazioni di glicemia e glicosuria. Di solito questi esami vengono fatti a casa, ma, quando necessario, si deve permettere al bambino o ai genitori di eseguirli anche a scuola. Esecuzione dell’iniezione di insulina La glicemia può innalzarsi per una riduzione della dose d’insulina o dell’attività fisica, oppure a causa di un eccesso di alimenti contenenti zuccheri nella dieta. Le conseguenze immediate sono il bisogno di urinare frequentemente, per eliminare lo zucchero passato in vescica, e di bere spesso per rimpiazzare le perdite di acqua. Allo studente deve essere quindi permesso di andare al bagno e di bere secondo i suoi bisogni. In ogni caso i genitori dovranno essere avvertiti dell’accaduto. L’insegnante di educazione fisica dovrebbe sempre coinvolgere il bambino nell’attività sportiva, preferendo sport di squadra quali calcio, pallavolo, pallacanestro. Sarebbe opportuno che l’ora di ginnastica non fosse subito prima o subito dopo il pranzo. Alimentazione Il piede diabetico Il bambino con DT1 segue un’alimentazione equilibrata concordata con il medico e il dietista. Abi- Il termine “piede diabetico” indica una patologia che può svilupparsi nei pazienti affetti da diabete Attività fisica 203 Ministero della Salute mellito ed è caratterizzata da differenti componenti fisiopatologici, quali la polineuropatia periferica, l’arteriopatia periferica e le infezioni. Questi differenti fattori eziologici possono agire singolarmente o più frequentemente coesistere. L’incremento dell’aspettativa di vita nella popolazione generale e in particolare nei pazienti diabetici ha aumentato l’incidenza e la prevalenza delle complicanze croniche, con un aumento esponenziale della patologia macrovascolare e delle sue complicanze come l’insufficienza vascolare degli arti periferici e il “piede diabetico”, che è causato da una complicanza sia vascolare sia neuronale. Il “piede diabetico” è la complicanza tardiva del diabete mellito con più rilevante peso sociale ed economico, poiché è causa di lunghi periodi di cure ambulatoriali, di prolungati e ripetuti ricoveri ospedalieri e d’amputazioni, essendo il piede diabetico la causa più frequente di amputazione non traumatica degli arti inferiori. Differenti studi epidemiologici sulla prevalenza delle amputazioni per patologia ischemica degli arti inferiori hanno confermato l’entità di questa complicanza. Nei cinque anni di osservazione del Basel Study sono state eseguite amputazioni maggiori nel 6,8% dei pazienti diabetici, rispetto allo 0,6% fra i soggetti non diabetici. Nei dati ottenuti dal Danish Amputation Register è stato riportato che, in una popolazione di cinque milioni di persone, la prevalenza delle amputazioni è di circa il 3% nei diabetici rispetto allo 0,28% nei soggetti non diabetici. Negli Stati Uniti le amputazioni per cause ischemiche sono circa 200 per milione di abitanti per anno tra i non diabetici, circa 3900 per milione per anno tra i diabetici. Tra il 1986 e il 1990 il 50% circa delle amputazioni non traumatiche degli arti inferiori è stato eseguito su pazienti diabetici. Il piede diabetico, ovvero quel quadro di lesioni neuropatiche e vascolari che porta allo sviluppo di lesioni trofiche delle estremità inferiori, rappresenta anche in Italia una rilevante causa di morbilità che 204 porta al ricovero dei pazienti diabetici. Dati epidemiologici di amputazione degli arti inferiori indicherebbero che in Italia il diabete è la prima causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori nella popolazione, arrivando al 56% di tutte le cause di patologia. L’incidenza di amputazione maggiore desunta dall’analisi delle dimissioni ospedaliere varia tra i 15 e i 22 casi ogni 10.000 pazienti diabetici; nelle casistiche dei servizi di diabetologia la prevalenza di amputazioni è dell’1% negli uomini e dello 0,4% nelle donne. Rappresenta la prima causa di amputazione non traumatica degli arti ed è un frequente motivo di ricovero in ospedale per il paziente diabetico. Clinica Il piede diabetico può essere definito come una patologia caratterizzata dalla presenza di un’ulcerazione o da distruzione dei tessuti profondi che si associa ad anomalie neurologiche e a differenti gradi di vasculopatia periferica. La diagnosi e il trattamento delle ulcere infette del piede diabetico è problematica. È stato recentemente enfatizzato nelle Linee guida del “Diabetic Foot Infection (DFI)” che i criteri diagnostici dovrebbero essere fondati su segni e sintomi clinici, ma le manifestazioni principali dell’infiammazione possono essere mitigate dalle complicanze diabetiche con particolare riferimento alla neuropatia e all’ischemia diabetica. Differentemente, le culture batteriche effettuate sui frammenti di ferita e i successivi riscontri d’infezione possono solamente suggerire, ma non provare, la presenza dell’infezione, poiché tutte le ferite croniche aperte sono ricoperte da una flora batterica residente o di colonizzazione. L’appropriato trattamento antibiotico richiede la realizzazione di test di sensibilità antibiotica che devono essere effettuati su culture ottenute da frammenti della ferita. La possibilità che vi siano dei casi di falsi positivi è Parte Seconda – Situazioni particolari molto alta se non vengono utilizzate procedure molto rigide e validate per la diagnosi dell’infezione del piede diabetico. L’ischemia, la neuropatia e le infezioni sono le tre componenti patologiche che portano alle complicanze del piede diabetico e possono essere considerate come la triade eziologica. Il principio più importante nel trattamento dell’ischemia nel piede diabetico è la consapevolezza che l’eziologia della lesione ischemica è causata da un’occlusione a carico dei grandi vasi, cioè macrovascolare delle arterie delle gambe per la presenza di una placca aterosclerotica che genera l’insufficienza vascolare degli arti inferiori. Questa è una delle caratteristiche della sindrome aterosclerotica nel diabete mellito. In passato i medici credevano che il problema vascolare del piede diabetico fosse caratterizzato da “una malattia dei piccoli vasi” o occlusione microvascolare delle arteriole, con la convinzione errata che i pazienti con diabete e ferite ulcerative al piede necessitavano assolutamente dell’amputazione del piede stesso; questo concetto era nato dai dati di un singolo studio istologico in cui si dimostrava che materiale positivo alla colorazione con acido di Schiff occludeva le arteriole. È tuttavia ormai ampiamente documentato e riconosciuto che i pazienti diabetici con patologia del piede hanno una caratteristica malattia vascolare occlusiva dell’arteria poplitea e/o peritoneale con relativo interessamento delle arterie del piede e l’ischemia è il risultato della malattia aterosclerotica macrovascolare. La neuropatia diabetica ha manifestazioni multiple nel piede e comprende le fibre sensorie, motorie e autonomiche e l’esatta patogenesi della neuropatia diabetica non è stata ancora chiarita. Vi sono alcune ipotesi che sottolineano l’importanza della compromissione dei vasi nervorum, o le alterazione del metabolismo. La teoria vascolare si correla all’ispessimento dei piccoli vasi nutrienti delle fibre nervose, che possono essere successivamente 15 occlusi con la progressione della malattia e portare a un insulto ischemico del nervo. Una seconda teoria associa il danno neuronale a un’aumentata produzione di polioli e nello specifico di sorbitolo. Un eccesso di sorbitolo può avere differenti effetti tossici, risultando nella demielinizzazione e nell’alterata velocità della conduzione dei nervi periferici. La neuropatia sensoriale colpisce le fibre di piccolo diametro che percepiscono il dolore e la temperatura. Questo favorisce la suscettibilità all’insulto, poiché questi pazienti sono meno sensibili ai traumi associati alla pressione, o ad altri piccoli insulti della pelle. La neuropatia motoria colpisce le fibre lunghe che innervano il piede, colpendo i muscoli intrinseci del piede e i muscoli della gamba. La neuropatia autonomica causa una secchezza della pelle con la perdita della sudorazione e della secrezione del sebo da parte delle ghiandole sebacee. La pelle secca porta a un incremento della suscettibilità alla rottura e alla fessurazione (che creano una porta per l’ingresso dei batteri), nondimeno la neuropatia risulta in una serie di cambiamenti strutturali prevedibili del piede che predispone all’ulcerazione. Le manifestazioni cliniche della malattia delle arterie periferiche (peripheral artery disease, PAD) comprendono la “claudicatio intermittens”, il dolore a riposo e le ulcere con o senza gangrena. Il paziente diabetico può esibire questi specifici sintomi, ma più spesso si presenta con una ferita che non riesce a guarire o con un dolore a uno specifico punto del piede come callo, o punto di pressione, o presenza di altre prominenze ossee. Quantunque il diabete da solo aumenta la prevalenza di una PAD sintomatica di 3,5 volte negli uomini e di 8,6 volte nelle donne; il rischio maggiore attribuito ai pazienti diabetici è in relazione all’amputazione non traumatica, che aumenta di circa 8 volte in tutti i pazienti con un’età superiore a 45 anni, di 12 volte in pazienti di età superiore a 205 Ministero della Salute 65 anni e 23 volte per quelli con un’età compresa fra 65 e 74 anni. Un accurato esame clinico delle ulcere del piede è necessario per valutare la profondità e l’estensione dell’area interessata, la localizzazione anatomica, l’eziologia e la presenza di ischemia e/o di infezioni. Per la valutazione della gravità dell’ulcera si può utilizzare il sistema elaborato presso l’Università del Texas in cui si valutano sia le caratteristiche locali della lesione, sia i fattori maggiormente condizionanti l’evoluzione delle lesioni stesse (Tabella 15.1). Sono comunque presenti differenti sistemi di classificazione che possono essere utilizzati per la valutazione dell’ulcera del piede diabetico. È importante ricordare che l’inquadramento, la misurazione e la stadiazione delle lesioni sono indispensabili per garantire un approccio scientificamente corretto e orientare successivamente la terapia e il monitoraggio della lesione stessa nel tempo. Le ulcere possono anche definirsi come neuropatiche, ischemiche, neuroischemiche, tutte con possibile sovrapposizione infettiva. Le lesioni preulcerative sono rappresentate dall’ipercheratosi, dalle onicodistrofie, dall’ipotrofia cutanea, dalla disidrosi cutanea. Le lesioni postulcerative sono le cicatrici e le lesioni cosiddette di trasferimento, secondarie alle modificazioni della struttura del piede indotte dagli interventi terapeutici. La stadiazione delle lesioni del piede non è semplice sia per le peculiarità anatomiche locali sia per la complessa patogenesi multifattoriale e sono state proposte differenti classificazioni per la stadiazione delle ulcere cutanee. La classificazione maggiormente utilizzata è quella di Wagner, che consiste in 6 differenti classi di stadiazione della malattia del piede diabetico (Tabella 15.2). L’incidenza e la prevalenza delle complicazioni del piede nei pazienti diabetici sono le seguenti: neuropatia diabetica 20-40%, malattia vascolare periferica 20-40%, ulcerazione del piede diabetico 5% dei pazienti con diabete per anno, infezione del piede e osteomielite 22-66% di tutte le ulcerazioni Tabella 15.1 Ulcera: classificazione secondo l’Università del Texas Grado 0 Grado I Grado II Grado III A Lesione pre- o post-ulcerativa Ulcera superficiale non coinvolgente Ulcera profonda fino al tendine Ulcera profonda fino all’osso completamente epitelizzata tendine, capsula o osso o alla capsula articolare o all’articolazione B Infezione Infezione Infezione Infezione C Ischemia Ischemia Ischemia Ischemia D Infezione + ischemia Infezione + ischemia Infezione + ischemia Infezione + ischemia Tabella 15.2 Piede diabetico: classificazione di Wagner Classe 0 Non ulcerazioni, presenza di eventuali deformità, edema, cellulite ecc. Classe 1 Ulcera superficiale Classe 2 Ulcera profonda fino al tendine, alla capsula articolare, all’osso, senza infezione Classe 3 Ulcera profonda con ascesso, osteomielite, artrite settica Classe 4 Gangrena localizzata alle dita o al tallone Classe 5 Gangrena di tutto il piede o di una porzione significativa 206 Parte Seconda – Situazioni particolari del piede, amputazioni 0,5% dei pazienti diabetici per anno, neuropatia di Charcot 0,1-0,4% dei pazienti diabetici per anno. La presenza della neuropatia è normalmente determinata da un’attenta storia ed esame fisico. La perdita della sensibilità pressoria, sensazione della puntura con uno spillo, può essere determinata dall’impiego del monofilamento di Semmes-Weinstein, un monofilamento di nylon attaccato a un manico di plastica, che è applicato sotto pressione al piede di un paziente e misura il livello di sensazione in 10 differenti punti dermatomeri; la sensibilità va dal 66% al 91% e la specificità dal 34% all’86% nell’identificare il rischio di ulcerazione. La sensazione vibratoria è misurata con un diapason, sebbene questa misurazione sia meno predittiva per la valutazione del rischio di ulcerazione. Si verificano un netto aumento della soglia di sensibilità propriocettiva (biotesiometro) e una riduzione della discriminazione caldo/freddo. L’osteomielite occorre dopo la diffusione di infezioni superficiali dei tessuti molli all’adiacente osso o midollo osseo. Una semplice sonda metallica permette normalmente di fare la diagnosi. Misurando la profondità dell’ulcera con la sonda si determina la profondità della lesione e l’eventuale coinvolgimento dell’osso quando la sonda colpisce le strutture ossee. Utilizzando questa semplice metodica si ottiene una sensibilità del 66% e una specificità dell’85% con un valore predittivo positivo dell’89%. La radiografia del piede dovrebbe essere ottenuta in ogni paziente con un sospetto di infezione del piede. L’immagine a raggi X può rilevare la presenza di un corpo estraneo, di gas, dell’osteolisi, o di versamento delle articolazioni, oltre che delineare la necessità di un eventuale trattamento chirurgico. La scintigrafia ossea o la scintigrafia con leucociti marcati dovrebbe essere riservata ai casi in cui il test con la sonda metallica è dubbio, quando vi è il sospetto di un ascesso o 15 di una malattia multifocale, o nei pazienti con il piede di Charcot, poiché l’associazione con i cambiamenti ossei e la risposta infiammatoria può essere interpretata come osteomielite. La risonanza magnetica è un mezzo altamente sensibile fino al 100%, ma con una specificità dell’80%, poiché l’osteomielite e le fratture possono avere un aspetto simile. La diagnosi conclusiva di osteomielite può essere ottenuta con una biopsia ossea, ma questo è raramente necessario. Un esame vascolare completo è imperativo in qualsiasi paziente che riporta i sintomi della claudicatio o di dolore a riposo, sebbene molti pazienti diabetici che richiedono la rivascolarizzazione per la presenza di un malattia vascolare ischemica importante degli arti inferiori non abbiano sintomi vascolari pregressi. Questi pazienti si presenteranno con un’ulcera che non guarisce con o senza la concomitante presenza di gangrena o infezione. Quando l’eziologia del dolore al piede non è chiara, può essere utile la valutazione non invasiva, come la misurazione dell’indice di Winsor (rapporto della pressione caviglia/braccio). Pazienti con una severa ischemia hanno usualmente un rapporto < 0,4 e la presenza di ischemia può essere confermata per valori < 0,9. In alcuni casi il valore può essere normale in alcuni pazienti che presentano claudicatio, anche se questi pazienti hanno una riduzione dell’indice di Winsor dopo attività fisica. L’arteriografia digitale con sottrazione d’immagine è il metodo più accurato per valutare la circolazione arteriosa delle estremità inferiori, tecnica attualmente utilizzata anche nei pazienti che hanno un’insufficienza renale; in alternativa, nei pazienti con una severa insufficienza renale è stata proposta la risonanza magnetica con angiografia. La prevenzione dovrebbe essere il primo principio nel trattamento del piede diabetico, anche se la prevenzione secondaria con un meticoloso trattamento delle ulcere può essere un obiettivo più realistico. La prevenzione primaria prevede un 207 Ministero della Salute controllo glicemico molto accurato e il trattamento di altri fattori di rischio come il fumo di sigaretta, l’ipertensione, l’iperlipidemia e l’obesità. L’esame fisico periodico include un esame vascolare accurato e la valutazione con cui il paziente cura l’igiene del proprio piede. Queste strategie sono importanti nella prevenzione dell’insorgenza sia delle ulcere sia delle amputazioni. Il primo gradino nel trattamento di qualsiasi ulcera neuropatica è la restrizione del carico a livello dell’arto interessato. I pazienti con infezioni severe delle estremità a rischio per le successive sequele cliniche e che non rispettano la terapia richiedono l’ospedalizzazione. Le ulcere neuropatiche non complicate si curano spesso con terapia topica e con lo scarico del peso del piede mediante, per esempio, l’utilizzo di gambaletti o tutori di scarico. La terapia iperbarica con ossigeno ha ricevuto un discreto interesse negli ultimi anni in aggiunta alla terapia classica per facilitare il processo di riparazione delle ulcere del piede diabetico, e quindi la percentuale di amputazioni delle estremità. Gli obiettivi della terapia del piede di Charcot sono quelli di scaricare le estremità coinvolte per evitare un ulteriore collasso e deformità del piede coinvolto e proteggere il piede opposto non interessato al processo. Il primo passo da eseguire nel trattamento è un prolungato periodo di non carico e immobilizzazione con una fibra sintetica o con una doccia gessata, per promuovere la cura delle articolazioni. L’utilizzo di calzature appropriate è essenziale per un trattamento a lungo termine. L’amputazione è riservata per quei rari pazienti con una severa e non correggibile deformità con ulcere invasive associata a un processo estensivo di osteomielite o dopo un fallimento di un intervento per la ricostruzione del piede. I pazienti con un’infezione severa dell’arto richiedono un’immediata ospedalizzazione, immobilizzazione e un trattamento parenterale con antibiotici dopo l’identificazione dell’agente patogeno 208 mediante lo screening della sua sensibilità antibiotica. Numerosi regimi di antibioticoterapia sono stati utilizzati per le infezioni severe degli arti inferiori. Dato l’aumento della prevalenza delle infezioni con stafilococco meticillino-resistente (methicillinresistant Staphylococcus aureus, MRSA) sia come infezione nosocomiale sia in comunità isolate, è consigliata la terapia empirica con vancomicina. Differenti regimi di terapia antibiotica sono attualmente proposti, anche se attualmente sono consigliati regimi di terapia con antibiotici ad ampio spettro d’azione verso batteri sia Gram-positivi sia Gram-negativi. Regimi di terapia antibiotica parenterale per 3-6 settimane e in alcuni casi anche per periodi prolungati sono raccomandati specialmente in pazienti con osteomielite. I pazienti con formazioni ascessuali e fascite necrotizzante devono eseguire un’immediata incisione, drenaggio e debridement della lesione. La guaina tendinea dovrebbe essere esaminata ed escissa quando infetta; se necessario si deve ricorrere ad amputazioni minori che risolvono in un ampio numero di casi la malattia, evitando l’amputazione dell’arto. Esistono differenti modalità con cui curare e intervenire per risolvere la patologia infettiva del piede. Nella terapia di rivascolarizzazione dell’arto, necessaria in caso di ridotta circolazione ematica per patologia aterosclerotica, è importante valutare la localizzazione anatomica e la distribuzione della lesione aterosclerotica. La terapia di rivascolarizzazione può essere eseguita con maggiore sicurezza quando la patologia infettiva del piede è controllata con la terapia medica. Sono stati ottenuti ottimi risultati con la rivascolarizzazione mediante tecnica chirurgica di bypass. Ogni operazione deve essere individualizzata in accordo con la capacità di conduttanza venosa del paziente e con l’anatomia della circolazione arteriosa. Un’alternativa possibile e attualmente utilizzata in differenti centri è la procedura di terapia endovascolare con minore invasività, che è rappre- Parte Seconda – Situazioni particolari sentata dall’angioplastica con palloncino e con stent sia medicati sia non medicati (per l’approfondimento del percorso clinico vedi Appendice 7). La gestione del diabete in gravidanza (diabete pregravidico e gestazionale) Diabete pregravidico Il diabete pregravidico (tipo 1 e 2) è ancora oggi gravato da un’elevata frequenza di morbilità materna (ipertensione gravidica, pre-eclampsia, eclampsia, poliidramnios, parto pretermine, taglio cesareo, ipoglicemia, chetoacidosi) e fetale (malformazioni, ritardo di crescita, eritremia, ipoglicemia, ipocalcemia, iperbilirubinemia, sindrome da distress respiratorio, macrosomia, ipomagnesemia, morte intrauterina), nonostante il miglioramento, negli ultimi anni, delle tecniche di sorveglianza fetale e di assistenza al neonato e alla madre. Dati di prevalenza nazionali riportano che ogni anno in Italia si verificano circa 40.000 gravidanze complicate da diabete gestazionale e circa 1300 da diabete pregestazionale. La programmazione della gravidanza nelle pazienti con diabete pregestazionale è molto importante per ridurre la frequenza di outcome materno e fetale avverso, ma, purtroppo, anche in Italia solo circa il 50% di tali gravidanze è programmato. Programmazione della gravidanza Tutte le donne con diabete in età fertile devono essere informate sull’importanza di programmare la gravidanza in buon controllo glicemico e di pianificare il concepimento utilizzando metodi contraccettivi efficaci. In fase preconcepimento vanno valutati: • lo stato di salute della paziente, con valutazione del controllo glicemico e della presenza e gravità 15 delle complicanze croniche legate al diabete. In questo contesto è utile ricordare che sono considerate controindicazioni alla gravidanza le seguenti condizioni: retinopatia in fase attiva non trattata, ipertensione arteriosa grave, insufficienza renale (creatinina > 3 mg/dl, clearance della creatinina > 30 ml/min), gastroparesi diabetica, malattia ischemica coronarica; • la capacità di eseguire correttamente il monitoraggio delle glicemie e di adattare la terapia ai valori delle stesse; • lo stato psicosociale della paziente; • il controllo metabolico della paziente: al concepimento i valori di HbA1c devono essere più vicino possibile al range di normalità. Monitoraggio e gestione prima della gravidanza Nelle pazienti con diabete pregravidico è consigliabile l’autocontrollo domiciliare intensivo delle glicemie, con valutazioni sia pre- sia postprandiali e notturne (6-8 punti/die). Nelle stesse va instaurata una terapia insulinica intensiva con plurisomministrazioni sottocutanee o con microinfusore (CSII). Al concepimento e durante la gravidanza possono essere utilizzati gli analoghi dell’insulina ad azione rapida aspart e lispro; non è consigliato, invece, l’uso degli analoghi ad azione rapida glulisina e ad azione ritardata glargine e detemir, in quanto non ancora considerati sicuri in gravidanza. Nelle pazienti con DT2 sono consigliabili la sospensione degli ipoglicemizzanti orali e l’instaurazione di una terapia insulinica. Infatti, non ci sono ancora oggi evidenze chiare sull’innocuità di tali farmaci nella fase dell’organogenesi, anche se metformina e acarbose sono farmaci classificati in categoria B. Infine, si consiglia di sospendere i farmaci potenzialmente tossici quali ACE-inibitori, sartani, sta- 209 Ministero della Salute tine. In fase di preconcepimento è consigliata l’assunzione di acido folico, al dosaggio di almeno 400 mg/die, da proseguire poi per tutta la gravidanza vista l’efficacia di tale supplementazione nel ridurre il rischio di malformazioni del tubo neurale. Per il raggiungimento di tali obiettivi è auspicabile che la paziente venga seguita da un’equipe multidisciplinare di cura che comprenda, oltre al diabetologo, un infermiere esperto, un dietista e altre figure professionali richieste dalla situazione specifica. Sono infine raccomandate valutazioni ambulatoriali mensili. Monitoraggio e gestione durante la gravidanza Obiettivi metabolici È raccomandato un autocontrollo domiciliare della glicemia intensificato, con valutazioni sia pre- sia postprandiali e notturne (6-8 punti/die). Gli obiettivi glicemici raccomandati in tutte le gravide diabetiche sono: • < 95 mg/dl a digiuno; • < 140 mg/dl un’ora dopo i pasti; • < 120 mg/dl due ore dopo i pasti; • i valori di HbA1c da ottenere in corso di gravidanza dovrebbero essere < 6%. Al fine di evitare la chetosi, spia di uno scompenso metabolico e potenzialmente dannosa per il feto, si raccomanda di monitorare la chetonuria ogni giorno al risveglio e/o in presenza di glicemia > 200 mg/dl. In tutte le donne con diabete in gravidanza a ogni controllo ambulatoriale vanno controllati il peso corporeo e i valori di pressione arteriosa omerale (PAO). Nelle stesse devono essere effettuati ogni mese il dosaggio dell’HbA1c, utilizzando una metodica standardizzata, e l’esame completo delle urine. La presenza di piuria significativa richiede l’effettuazione di un’urinocoltura. 210 Il diabete pregravidico richiede poi una serie di ulteriori valutazioni: • controllo della funzionalità tiroidea (T4 libera, TSH) a inizio gravidanza, da ripetere secondo le necessità; • controllo delle complicanze croniche: valutazione, a ogni trimestre, della clearance della creatinina e della microalbuminuria e/o proteinuria. Attenzione particolare deve essere posta se compaiono ipertensione e/o proteinuria, che sono spia di successiva comparsa di pre-eclampsia, complicanza più frequente nella gravida diabetica rispetto alla non diabetica. Sono necessari il controllo del fundus oculi nel primo trimestre e, successivamente, secondo necessità la valutazione della funzione cardiaca al primo trimestre e poi con frequenza da stabilire secondo necessità. Terapia nutrizionale Nelle gravide diabetiche la dieta deve essere personalizza tenendo conto delle abitudini alimentari e dell’indice di massa corporea (body mass index, BMI) pregravidico. In gravidanza non è raccomandato l’utilizzo di diete fortemente ipocaloriche, perciò l’apporto calorico non deve essere < 1500 kcal/die anche nelle gravide obese. In generale, la distribuzione dei nutrienti prevede il 50% di carboidrati (complessi, a basso indice glicemico), il 20% di proteine, il 30% di lipidi (mono-poliinsaturi) e 28 g/die di fibre. Per ridurre le iperglicemie postprandiali può essere valutata la riduzione della percentuale di carboidrati, che comunque non è consigliabile ridurre al di sotto del 40%. L’apporto calorico giornaliero va suddiviso in 3 pasti principali e 3 spuntini (metà mattino, metà pomeriggio e prima di coricarsi); è importante che lo spuntino serale contenga 25 g di carboidrati e 10 g di proteine. L’impiego di aspartame, sacca- Parte Seconda – Situazioni particolari 15 rina, acesulfame e sucralosio in moderate quantità non è controindicato. Screening e diagnosi del diabete gestazionale (GDM) Terapia insulinica Il fabbisogno insulinico giornaliero in gravidanza varia durante la gestazione: spesso si osservano una riduzione del fabbisogno insulinico nel primo trimestre di gestazione e un aumento progressivo nel corso della gestazione, che raggiunge un “plateau” intorno alla 36a settimana. Le donne con diabete pregravidico di tipo 1 devono essere trattate con plurisomministrazioni di insulina con schemi di tipo basal-bolus o con microinfusore (CSII). Nelle pazienti con diabete pregravidico di tipo 2 sono raccomandate la sospensione della terapia ipoglicemizzante orale e l’instaurazione di una terapia insulinica intensiva, con il consiglio di iniziare con una dose di 0,7 UI/kg del peso attuale. Per quanto riguarda l’utilizzo degli analoghi dell’insulina si rimanda al capitolo monitoraggio e gestione prima della gravidanza. Durante le fasi del travaglio e del parto è molto importante mantenere un buon controllo glicemico per evitare le ipoglicemie neonatali. I valori glicemici devono essere pertanto mantenuti tra 70 e 120 mg/dl e sono necessari controlli frequenti della glicemia e l’infusione di insulina e glucosio secondo algoritmi predefiniti. Nel post-parto si ha una rapida e brusca diminuzione del fabbisogno insulinico; la terapia insulinica va effettuata quando i valori glicemici sono costantemente superiori a 140 mg/dl; nelle pazienti con DT1 il fabbisogno insulinico va ricalcolato sulla base del fabbisogno pregravidico. È noto che lo screening, la diagnosi e il trattamento del diabete gestazionale sono in grado di ridurre le complicanze materne (ipertensione gravidica, preeclampsia, eclampsia, polidramnios, parto pretermine, taglio cesareo) e fetali (eritremia, ipoglicemia, ipocalcemia, iperbilirubinemia, sindrome da distress respiratorio, macrosomia, ipomagnesemia) legate a tale patologia e sono quindi efficaci in termini di costi-benefici. I criteri sinora utilizzati per lo screening e la diagnosi del GDM non sono univoci e i più noti sono stati stabiliti sulla base del rischio di sviluppare diabete dopo il parto nelle donne affette da GDM e non sulla base dell’outcome materno e fetale. In questo contesto, recentemente lo studio HAPO (Hyperglycemia and Adverse Pregnancy Outcome), condotto in cieco su circa 25.000 donne in 15 centri distribuiti nelle varie Nazioni del mondo, ha messo in evidenza che vi è una relazione lineare tra i livelli di glicemia registrati a digiuno e dopo 1 e 2 ore dal carico orale con 75 grammi di glucosio e l’aumento della frequenza degli outcome primari e secondari avversi. Sulla base di tali risultati, l’International Association of Diabetes and Pregnancy Study Groups (IADPSG) ha dato mandato, nel giugno 2008, a un panel, il Consensus Panel, di stabilire nuovi criteri diagnostici del GDM sulla base dei risultati dell’HAPO Study, criteri che sono stati recentemente pubblicati. Tali raccomandazioni sono state fatte proprie anche dall’ADA. Tali criteri proposti sono stati condivisi nel marzo 2010 da una Conferenza Nazionale di Consenso per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale, convocata dal Gruppo di Studio “Diabete e Gravidanza” SID-AMD, composta dai delegati di tutte le Società scientifiche e professionali e dagli esperti interessati alla cura e allo studio del diabete gestazionale. Recentemente il Ministero della Salute ha tuttavia prodotto un documento sulla gestione della Controlli ambulatoriali I controlli ambulatoriali diabetologici devono essere effettuati ogni 2 settimane o più spesso in caso di controllo metabolico non ottimale. 211 Ministero della Salute gravidanza fisiologica, redatto dal Sistema Nazionale Linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità (SNLGISS) in collaborazione con il Centro per la Valutazione dell’Efficacia dell’Assistenza Sanitaria (CeVEAS) nell’ambito del quale, e precisamente nel capitolo relativo allo screening e diagnosi del diabete gestazionale, gli autori del documento, pur prendendo in considerazione i risultati dello studio HAPO e la Conferenza di Consenso Italiana tenutasi a Roma nel marzo 2010, raccomandano lo screening del diabete gestazionale alla 24a-28a settimana di gravidanza solo nelle donne con fattori di rischio, utilizzando la curva da carico orale con 75 grammi di glucosio, interpretata secondo i criteri dell’OMS. Ciò ha creato disorientamento e tensioni tra professionisti, ginecologi e diabetologi in particolare. Per superare, a livello nazionale, le criticità derivanti da raccomandazioni discordanti tra loro, il SNLGISS, con il supporto del CeVEAS, ha organizzato un tavolo di confronto fra Società Italiana di Diabetologia (SID), Associazione Medici Diabetologi (AMD) e membri del Panel della Linea guida Gravidanza Fisiologica. Utilizzando quali strumenti di confronto le posizioni di agenzie nazionali, le principali Linee guida e consensus statements nazionali e internazionali, le revisioni sistematiche dei lavori scientifici pubblicati e i lavori scientifici pubblicati sull’argomento, il gruppo ha concluso i propri lavori con una posizione comune che sarà adottata da tutte le diverse Linee guida sia diabetologiche sia ostetriche. Tali nuove raccomandazioni condivise per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale vengono di seguito riassunte. • In occasione della prima visita in gravidanza, identificazione delle donne con diabete preesistente, diagnosticato con valori di glicemia plasmatica a digiuno ≥ 126 mg/dl o glicemia random ≥ 200 mg/dl o HbA1c ≥ 6,5% (standardizzata), confermati da un secondo prelievo. 212 È utile sottolineare l’utilità della diagnosi precoce del diabete preesistente alla gravidanza, condizione sinora compresa nel GDM; l’identificazione di queste donne è di particolare importanza perché, essendo iperglicemiche già prima della gravidanza, hanno un rischio più elevato di outcome avversi sia fetali, tra i quali anche le malformazioni, che materni; esse necessitano, pertanto, di un trattamento intensivo e adeguato che deve essere instaurato il più precocemente possibile. • A 16-18 settimane di età gestazionale, curva da carico con 75 g di glucosio (OGTT 75 g) e un ulteriore OGTT 75 g a 28 settimane di età gestazionale, se la prima determinazione è risultata normale, alle donne con almeno una delle seguenti condizioni: - diabete gestazionale in una gravidanza precedente; - BMI pregravidico ≥ 30 kg/m2; - riscontro, precedentemente o all’inizio della gravidanza, di valori di glicemia plasmatica compresi fra 100 e 125 mg/dl. • A 24-28 settimane di età gestazionale, OGTT 75 g alle donne con almeno una delle seguenti condizioni: - età ≥ 35 anni; - BMI pregravidico ≥ 25 kg/m2; - macrosomia fetale pregressa (≥ 4,5 kg); - diabete gestazionale in una gravidanza precedente (anche se con determinazione normale a 16-18 settimane); - anamnesi familiare di diabete (parente di primo grado con diabete di tipo 2); - famiglia originaria di aree ad alta prevalenza di diabete. Sia nelle determinazioni a 16-18 settimane che in quelle a 24-28 settimane, sono definite affette da diabete gestazionale le donne con uno o più valori di glicemia plasmatica superiori alle soglie proposte dall’IADPSG e riportate nella Tabella 15.3. Parte Seconda – Situazioni particolari Tabella 15.3 Diagnosi di diabete gestazionale Glicemia plasmatica Digiuno Dopo 1 ora Dopo 2 ore Valori soglia di concentrazioni di glucosio mg/dl mmol/L 92 180 153 5,1 10 8,5 • Per lo screening del diabete gestazionale non devono essere utilizzati la glicemia plasmatica a digiuno, glicemie random, minicarico di glucosio (GCT) e OGTT 100 g. • Le donne affette da diabete gestazionale dovranno rivalutare la tolleranza glucidica mediante OGTT (2 ore-75 grammi) a distanza di 8-12 settimane dal parto. La cura del diabete in ospedale Dimensioni del problema A livello internazionale la prevalenza del diabete negli adulti ospedalizzati è stimata tra il 12% e il 25%. Nel 2000, il 12,4% delle dimissioni negli Stato Uniti era riferito a pazienti con diabete. Nel 1999, in Italia il tasso di dimissione ospedaliero/1000 abitanti con codice DRG 250**, riferibile al diabete, come diagnosi di dimissione principale, è risultato pari al 2,5% su tutto il territorio nazionale, con una grande variabilità inter-regionale: dall’1,3% in Friuli-Venezia Giulia al 2,30% in Regioni come Piemonte, Lombardia e Lazio, fino al 4,6% in Molise, Puglia e Basilicata. L’utilizzo della diagnosi principale e secondaria di dimissione ha consentito di stimare una prevalenza di diabete pari al 6,0% in Campania e Piemonte e al 21% in Emilia-Romagna. Della spesa sanitaria correlata a diabete in Italia, oltre il 60% è dovuto a costi diretti, attribuibili 15 all’ospedalizzazione per complicanze acute e croniche. In ospedale il diabete costituisce una realtà trasversale a tutti i reparti: è presente, infatti, almeno in un paziente su quattro tra i degenti e in un paziente su due/tre in terapia intensiva cardiologica. Il tasso standardizzato di ospedalizzazione è del 23,8% nei dati dell’Osservatorio Arno e del 23,2% nel Dossier 179-2009 della Regione Emilia-Romagna dedicato al diabete, rispetto al 12,5% della popolazione non diabetica. La presenza di diabete determina un aumento di spesa per assistito di circa € 2000/anno, soprattutto legata a ricoveri ospedalieri. Caratteristiche del ricovero ospedaliero del paziente con diabete Il ricovero ospedaliero non è sempre dovuto a eventi metabolici legati alla malattia (crisi iperglicemiche o ipoglicemiche), ma più frequentemente a eventi acuti che richiedono un ricovero urgente (ictus, infarto miocardico, infezioni, frattura o trauma) o a interventi chirurgici in elezione in persone con diabete, che comportano per sé uno stress metabolico. La presenza di diabete (noto o di nuova diagnosi) aumenta il rischio d’infezioni e complicanze, peggiora la prognosi, allunga la degenza media e determina un incremento significativo dei costi assistenziali. L’iperglicemia è un indicatore prognostico negativo in qualunque setting assistenziale, ma le evidenze scientifiche da ormai 15 anni dimostrano che la sua gestione ottimale migliora l’outcome dei pazienti e riduce la mortalità e i costi. È quindi irrinunciabile gestire l’iperglicemia nei pazienti ospedalizzati con algoritmi di trattamento insulinico intensivo validati e condivisi, ma semplici e sicuri. La gestione ottimale del paziente diabetico in ospedale richiede per questo una formazione continua rivolta a tutti gli operatori sanitari coinvolti 213 Ministero della Salute per migliorare la loro conoscenza sulle modalità di gestione, trattamento e cura delle persone con diabete e richiede interventi educativi rivolti ai pazienti per favorire l’autogestione della malattia: il ricovero ospedaliero che rappresenta una criticità nella vita del diabetico può così diventare un’opportunità per migliorare l’assistenza al paziente stesso e per migliorarne l’outcome. Il paziente diabetico è un paziente fragile, che richiede un’attenta e competente “continuità di cura” e una “dimissione protetta” dall’ospedale al territorio: occorrono la presa in carico da parte del team diabetologico di riferimento, per la sua gestione ottimale, e la consulenza infermieristica strutturata, per addestrare i pazienti all’uso della terapia insulinica e dell’autocontrollo glicemico domiciliare. Per garantire la sicurezza, l’appropriatezza degli interventi terapeutici e la continuità del percorso assistenziale e ridurre i costi delle degenze è indispensabile che la Struttura Specialistica Diabetologica sia coinvolta fin dall’inizio nel percorso di cura del paziente con diabete in ospedale attraverso percorsi assistenziali condivisi di presa in carico, definiti a livello locale e approvati e sostenuti a livello aziendale. Organizzazione e responsabilità nella gestione del paziente diabetico ricoverato Lo specialista diabetologo deve essere il “care-manager” del paziente diabetico nel processo di cura multidisciplinare e multiprofessionale all’interno dell’ospedale. In considerazione del ruolo prioritario che ha la gestione dell’iperglicemia in ospedale, corollario dei dati epidemiologi sopra riportati, è fondamentale che in ogni presidio sia attiva una consulenza diabetologia intraospedaliera. Nelle realtà periferiche ove non sussista un servizio di diabetologia interno, tale supporto deve essere garantito con accesso esterno o con apposita for- 214 mazione di medici di area medica (internisti, geriatri) dell’organico. Si possono individuare quattro profili fondamentali del passaggio delle persone con diabete in ospedale. • Preospedalizzazione del paziente diabetico: percorsi preoperatori. La preospedalizzazione (o percorso preoperatorio) è caratterizzata da una fase di accesso del paziente all’interno della struttura ospedaliera per l’espletamento delle prestazioni utili a valutare l’idoneità del paziente a essere sottoposto a intervento chirurgico (ECG, Rx del torace, esami di laboratorio, consulenze ecc.), che possono essere gestite in day-service con pacchetti di prestazioni definite. Il percorso preoperatorio permette di eseguire le indagini necessarie per la valutazione del rischio operatorio e di preparare l’intervento. Nel caso del paziente diabetico, la preospedalizzazione è indispensabile, inoltre, per consentire la consulenza strutturata presso il servizio di diabetologia per: - ottimizzare la cura; - programmare l’intervento in una fase di controllo metabolico ottimale; - programmare il tipo di trattamento dell’iperglicemia nel perioperatorio. Questa gestione consente di: - azzerare le giornate di degenza preintervento; - ridurre la degenza media; - ottimizzare le liste d’attesa; - migliorare gli esiti. • Accesso dei pazienti diabetici in pronto soccorso. Il paziente diabetico può accedere in urgenza al pronto soccorso per problemi connessi alla malattia, quali crisi ipoglicemiche o iperglicemiche, ulcere infette del piede, o in corso di accesso al pronto soccorso può esserci un riscontro di diabete di nuova insorgenza. È indispensabile che siano predisposti e condivisi percorsi di presa Parte Seconda – Situazioni particolari in carico da parte del servizio di diabetologia e dei protocolli di gestione delle urgenze per: - ridurre i ricoveri inappropriati; - fornire continuità assistenziale al paziente con diabete; - prendere in carico il paziente neodiagnosticato da parte del team diabetologico; - educare e addestrare all’utilizzo di insulina e all’autocontrollo pazienti nei quali è necessaria una modifica terapeutica; - gestire in team multidisciplinare le urgenze del piede diabetico, riducendo al minimo il rischio di amputazioni; - gestire con competenza il paziente critico con iperglicemia con protocolli di trattamento insulinico intensivo condivisi. • Assistenza al paziente diabetico ricoverato. In tutti i pazienti con diabete – già noto o neodiagnosticato – che accedono al ricovero ospedaliero per qualunque causa, è opportuno il coinvolgimento della struttura diabetologica di competenza per la presa in carico del paziente e la gestione della fase acuta da parte del team diabetologico. Devono essere previsti percorsi assistenziali condivisi per: - il paziente critico; - la gestione del paziente in degenza ordinaria; - l’educazione terapeutica strutturata. La funzione dell’ospedale diviene in questo modo complessiva, riuscendo a fornire al paziente con diabete l’assistenza di cui ha bisogno, garantendogli un trattamento adeguato del compenso metabolico e indicazioni sul prosieguo dell’assistenza, e nel caso del paziente neodiagnosticato la presa in carico e l’educazione terapeutica strutturata necessaria per renderlo autonomo e in grado di autogestirsi, prima della dimissione. • Dimissione “protetta” o presa in carico predimissione. In qualunque contesto assistenziale sia 15 ricoverato il paziente con diabete, deve essere condiviso con il servizio di diabetologia (sia ospedaliero sia territoriale) un percorso di dimissione protetta, che garantisca: - la presa in carico predimissione da parte del team diabetologico; - l’educazione terapeutica del paziente da parte del personale infermieristico. In questo modo si assicura una continuità assistenziale tra ospedale e territorio che mantiene il paziente al centro di una rete di servizi efficiente ed efficace, evitando gli abbandoni del paziente dimesso senza gli strumenti e senza la formazione idonea per eseguire la terapia insulinica e l’autocontrollo glicemico domiciliare in sicurezza. La struttura specialistica di diabetologia ospedaliera si fa carico della costruzione dei percorsi assistenziali con il pronto soccorso, il day-hospital, il day-service, i reparti di degenza medica e chirurgica. al fine di garantire al soggetto con diabete i trattamenti appropriati alla situazione clinica e la continuità di cura alla dimissione. • La diagnosi di diabete mellito deve essere chiaramente riportata nella cartella clinica di tutti i pazienti diabetici ricoverati in ospedale (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • Qualora sia occasionalmente riscontrata iperglicemia durante un ricovero ospedaliero, è opportuno eseguire la determinazione dell’HbA1c, allo scopo di identificare uno stato di diabete misconosciuto (Livello di Prova V, Forza della Raccomandazione B). • In tutti i pazienti diabetici ricoverati deve essere monitorata la glicemia capillare e i risultati riportati in cartella, in modo da renderli accessibili a tutti i membri dell’equipe curante (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). 215 Ministero della Salute • Per ogni paziente deve essere definito un programma di trattamento dell’ipoglicemia. Gli episodi occorsi durante il ricovero ospedaliero devono essere registrati sulla cartella clinica (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • Il ricovero non è il momento più idoneo all’impostazione di un programma educativo organico sulla malattia diabetica. Tuttavia, un intervento educativo su alcuni aspetti essenziali, quali le modalità di iniezione dell’insulina e i principi dell’autocontrollo, deve essere fornito al diabetico prima della dimissione (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • I pazienti non noti come diabetici che manifestano iperglicemia in occasione di un ricovero ospedaliero devono essere avviati a una valutazione presso il servizio diabetologico di riferimento (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). Gli obiettivi glicemici Gli obiettivi glicemici durante un ricovero ospedaliero possono essere differenziati in funzione delle diverse situazioni cliniche: • pazienti in situazione critica, ricoverati in terapia intensiva, medica o chirurgica: valori glicemici < 140-180 mg/dl, in funzione del rischio stimato di ipoglicemia (Livello di Prova II, Forza della Raccomandazione B); • pazienti in situazione critica in ambito chirurgico: valori glicemici il più possibile vicini a 110 mg/dl, e in ogni caso < 140 mg/dl (Livello di Prova II, Forza della Raccomandazione B); • pazienti in situazione critica in ambito medico: valori glicemici < 140 mg/dl (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B); • pazienti in situazione non critica: valori glicemici preprandiali < 126 mg/dl, postprandiali < 180-200 mg/dl, se ottenibili senza rischi ele- 216 vati di ipoglicemia (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B); • in alcune situazioni cliniche a elevato rischio di ipoglicemia è opportuno un innalzamento degli obiettivi glicemici (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). Il trattamento • L’utilizzo dei principali farmaci ipoglicemizzanti orali (secretagoghi, biguanidi, tiazolidinedioni) presenta notevoli limitazioni in ambito ospedaliero. La somministrazione d’insulina è pertanto la terapia di scelta nel paziente diabetico ospedalizzato non stabilizzato (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • La terapia insulinica per via sottocutanea deve seguire uno schema programmato. Questo schema può essere integrato da un algoritmo di correzione basato sulla glicemia al momento dell’iniezione. Il metodo di praticare insulina solamente “al bisogno” (sliding scale) deve essere abbandonato (Livello di Prova IV, Forza della Raccomandazione B). • In tutti i pazienti non noti come diabetici sottoposti a trattamenti che comportano un rischio elevato di iperglicemia (corticosteroidi ad alte dosi, nutrizione enterale o parenterale, farmaci come octreotide o immunosoppressori) deve essere praticato monitoraggio glicemico, prevedendo eventuale somministrazione di dosi correttive di insulina. In caso di iperglicemia persistente, si può rendere necessaria l’impostazione di terapia insulinica basal-bolus, con gli stessi obiettivi glicemici utilizzati nei pazienti con diabete noto (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • In pazienti critici e/o che non si alimentano per os, nel periodo perioperatorio e in situazioni di grave instabilità metabolica la terapia Parte Seconda – Situazioni particolari insulinica deve essere effettuata in infusione venosa continua, applicando algoritmi basati su frequenti controlli dei valori glicemici e validati nel contesto di applicazione (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • I pazienti non critici, esperti nell’autosomministrazione d’insulina e nell’autocontrollo glicemico, possono essere autorizzati a proseguire l’autogestione anche durante il ricovero, concordandone le modalità con l’equipe curante (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). • Nei pazienti già in trattamento con microinfusore (CSII) può essere utile proseguire tale modalità di somministrazione della terapia anche durante il ricovero ospedaliero, purché ne sia possibile la corretta gestione nella specifica situazione clinica (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B). Tipologia dei pazienti È possibile suddividere i pazienti nei quali si riscontrano valori glicemici in range patologico durante la degenza ospedaliera in almeno tre categorie diverse: • diabete mellito noto preesistente al ricovero; • diabete mellito diagnosticato durante la degenza e persistente dopo la dimissione; • iperglicemia correlata alla degenza: si tratta di persone non note come diabetiche, con un’iperglicemia comparsa per la prima volta durante il ricovero e regredita alla dimissione. La distinzione tra queste forme non è sempre immediata. È di grande utilità a questo scopo il dosaggio dell’HbA1c, che andrebbe sempre eseguito al momento del ricovero in ospedale. 15 ospedaliera e l’esito della degenza stessa. Conseguentemente, si è cercato di definire obiettivi glicemici utilizzabili nelle diverse situazioni cliniche. Medicina e chirurgia generale (pazienti non critici) Alcuni studi hanno evidenziato nei reparti di terapia non intensiva un’associazione fra livelli glicemici e mortalità intraospedaliera, frequenza di trasferimento in terapia intensiva, durata della degenza, frequenza di infezioni nosocomiali. Questo rilievo vale anche per soggetti con iperglicemia di nuovo riscontro, la cui evoluzione clinica, secondo alcuni, è più sfavorevole di quella riscontrata in pazienti diabetici noti. In ambito sia chirurgico sia medico è stato segnalato un aumento delle complicanze infettive in presenza di valori glicemici > 220 mg/dl; al contrario, un esito migliore si riscontra in pazienti con glicemie a digiuno all’ingresso < 126 mg/dl, e comunque < 200 mg/dl rilevate in modo random. Purtroppo, sono carenti trials clinici in grado di definire gli obiettivi glicemici nei degenti non critici. Pur essendo ormai acquisito l’effetto negativo di valori glicemici elevati sull’esito della degenza, negli ultimi anni l’obiettivo di mantenere anche durante il ricovero target glicemici sovrapponibili a quelli utilizzati nella gestione ambulatoriale ha lasciato il posto a un atteggiamento di maggiore prudenza, in considerazione delle particolari condizioni ospedaliere (iperglicemia da stress, irregolarità nell’alimentazione ecc.). In quest’ottica, le posizioni attuali dell’American Diabetes Association (ADA), che indicano un obiettivo glicemico < 126 mg/dl a digiuno e < 180-200 mg/dl nel corso della giornata, paiono sostanzialmente condivisibili. Controllo glicemico e prognosi ospedaliera Numerose evidenze si sono accumulate sull’associazione tra i livelli glicemici durante la degenza Unità coronariche Una relazione stretta fra iperglicemia ed esito finale in pazienti ricoverati in unità coronarica 217 Ministero della Salute era già emersa in passato in studi osservazionali: una metanalisi relativa a 15 studi, pubblicata nel 2000, aveva segnalato che il rischio relativo di mortalità intraospedaliera era aumentato significativamente nei soggetti non noti come diabetici, con glicemia al momento del ricovero > 110 mg/dl e nei diabetici con glicemia > 180 mg/dl. In uno studio del 2001 anche la mortalità un anno dopo infarto miocardico acuto risultava associata alla glicemia all’ingresso. Nel 1999, lo studio DIGAMI aveva evidenziato come in diabetici con infarto miocardico acuto l’infusione di insulina e glucosio per 48 h, seguita da terapia insulinica intensiva per 3 mesi, fosse associata alla riduzione della mortalità a breve e a lungo termine (–30% a 1 anno e –11% a 3,4 anni) e alla riduzione del rischio di reinfarto non fatale e di scompenso cardiaco. Rimaneva indefinito, tuttavia, se il beneficio fosse attribuibile al migliore controllo glicemico in fase acuta, al compenso metabolico mantenuto anche dopo la dimissione con terapia insulinica per via sottocutanea o a entrambi. Il trial DIGAMI-2, disegnato al fine di dirimere questo quesito, non ha tuttavia evidenziato differenze significative fra terapia convenzionale e intensiva, verosimilmente a causa di problemi metodologici. Anche altri studi recenti, pur confermando una correlazione positiva fra concentrazioni glicemiche e mortalità, non sono riusciti a dimostrare una riduzione della mortalità nei gruppi sottoposti a trattamento intensivo. È inoltre da sottolineare il potenziale effetto negativo delle crisi ipoglicemiche nella fase critica: uno studio osservazionale svedese in pazienti diabetici con infarto miocardico acuto ha evidenziato come sia l’iperglicemia al momento del ricovero sia l’ipoglicemia durante il ricovero fossero indipendentemente associate a un aumentato rischio di morte in un follow-up di due anni. Questo aspetto si ricollega a editoriali recenti sulla 218 necessità di valutare con attenzione il rapporto rischio-beneficio di obiettivi glicemici così stringenti durante il ricovero ospedaliero. Stroke Unit L’iperglicemia e il diabete conclamato sono frequenti in pazienti con ictus e ne condizionano sia l’outcome a breve termine sia i risultati riabilitativi. Una metanalisi di 26 studi ha mostrato che, tanto nelle forme ischemiche quanto in quelle emorragiche, rispetto a valori di glicemia all’ingresso < 108 mg/dl, valori compresi fra 108 e 144 mg/dl si associano ad aumento della mortalità intraospedaliera e a 30 giorni. Travaglio di parto Anche nelle fasi conclusive della gravidanza il controllo glicemico materno è essenziale per evitare un’iperinsulinizzazione fetale e una conseguente ipoglicemia neonatale. I range raccomandati variano da 70-120 a 70-90 mg/dl; mancano tuttavia studi controllati a questo proposito. Cardiochirurgia In ambito cardiochirurgico il mantenimento di valori glicemici strettamente controllati si associa a ridotta mortalità e minore rischio di infezioni sternali profonde; questo rilievo rafforza la convinzione che l’iperglicemia perioperatoria sia un predittore indipendente di infezione. La mortalità più bassa si osserva nei pazienti con glicemia < 150 mg/dl. Terapia intensiva L’approccio terapeutico al paziente iperglicemico all’interno dell’area critica è da anni al centro di un confronto serrato, con posizioni in continua evoluzione. Nel primo trial di Van den Berghe un gruppo di soggetti ricoverati in Unità di Cura Intensiva Chirurgica (Intensive Care Unit, ICU) era stato ran- Parte Seconda – Situazioni particolari domizzato a trattamento insulinico intensivo (target glicemico 80-110 mg/dl) o a trattamento convenzionale (target glicemico 180-200 mg/dl). Sia la mortalità durante la degenza in ICU sia la mortalità ospedaliera complessiva sono risultate minori nel gruppo trattato intensivamente. La sopravvivenza in ospedale e in ICU era associata linearmente con i livelli glicemici e con la più alta sopravvivenza nei pazienti che raggiungevano una glicemia media < 110 mg/dl. Altri studi sono stati condotti in ICU mediche, su casistiche miste, prevalentemente respiratorie. In quest’ambito, i range glicemici proposti sono stati variabili, da 100-139 a 80-110 mg/dl: quest’ultimo trial randomizzato, ancora del gruppo di Van den Berghe, ha ottenuto una riduzione della morbilità nel gruppo a trattamento intensificato, ma non ha potuto evidenziare un effetto complessivamente positivo sulla mortalità, se non nei pazienti trattati per periodi superiori ai 3 giorni. Utilizzando target analoghi, nel 2008 Brunkhorst, su pazienti ricoverati per sepsi, non ha rilevato differenze di mortalità rispetto a un gruppo a trattamento convenzionale, mentre ha registrato una maggiore frequenza di ipoglicemia e di eventi avversi. I dubbi sollevati da questi risultati nei confronti dell’utilità di un approccio molto aggressivo nel paziente critico, già autorevolmente avanzati negli scorsi anni, sono stati confermati e ampliati dalla pubblicazione su JAMA, nel maggio 2008, di una metanalisi di Wiener, relativa a 29 studi, per un totale di oltre 8000 pazienti, trattati con target variabili da < 110 mg/dl a livelli glicemici meno stringenti. I risultati non hanno mostrato alcuna associazione fra stretto controllo glicemico e riduzione della mortalità, o della necessità di dialisi, evidenziando invece un marcato aumento del rischio di ipoglicemia. Solamente nelle ICU chirurgiche è stata rilevata una minore incidenza di sepsi nei pazienti trattati in modo intensivo. 15 Infine, l’ampio studio randomizzato prospettico multicentrico NICE-SUGAR, che ha interessato oltre 6000 pazienti ricoverati in ICU sia chirurgiche sia mediche, ha sostanzialmente ribaltato i risultati del gruppo belga di Lovanio, riportando risultati significativamente più sfavorevoli, con più elevata mortalità a 90 giorni, nei soggetti sottoposti a trattamento intensivo (target glicemico 81-108 mg/dl), rispetto a quelli mantenuti su livelli glicemici meno stringenti (inferiori a 180 mg/dl). Come prevedibile, anche l’incidenza di ipoglicemia è risultata significativamente maggiore nei pazienti in terapia intensificata. A fronte di risultati così contrastanti, pur dando per acquisita l’esigenza di evitare un’iperglicemia marcata nei pazienti ricoverati in area critica, è evidentemente necessaria una riconsiderazione dell’atteggiamento di grande aggressività terapeutica adottato negli ultimi anni. In accordo con un recente editoriale del New England Journal of Medicine, pertanto, in attesa di nuove evidenze, un obiettivo di 140-180 mg/dl, di poco inferiore a quello indicato per le degenze ordinarie, pare al momento ragionevole. Gestione terapeutica Un inquadramento complessivo della gestione dell’iperglicemia nel paziente ospedalizzato in condizioni non critiche è stato delineato in una messa a punto pubblicata sul New England Journal of Medicine nel 2006. Misurazione della glicemia Il controllo della glicemia capillare sul “punto di cura” è ormai divenuto un componente insostituibile della gestione clinica, consentendo di adattare in tempi molto rapidi gli schemi di terapia ipoglicemizzante. A questo scopo, i risultati devono essere facilmente reperibili nella cartella clinica del 219 Ministero della Salute paziente. In situazioni non critiche si può orientativamente indicare una valutazione ogni 4-6 ore per i pazienti che non si alimentano per os, mentre in chi assume regolarmente i pasti le determinazioni dovranno essere almeno preprandiali e al momento di coricarsi, con la possibilità di aggiungere controlli postprandiali ed eventualmente notturni. In corso di infusione insulinica endovenosa continua, invece, il controllo dovrà essere più serrato, con determinazioni ogni 1-2 ore, secondo le necessità cliniche. Antidiabetici orali Non si dispone di studi sistematici sul ruolo delle principali categorie di ipoglicemizzanti orali in ambito ospedaliero. Tutti questi farmaci, tuttavia, hanno caratteristiche che potrebbero renderli poco adatti all’impiego nel paziente non stabilizzato, e comunque in situazione critica. • Secretagoghi. La lunga durata d’azione delle molecole e la predisposizione all’ipoglicemia in pazienti che non si alimentano regolarmente costituiscono controindicazioni relative all’utilizzo ospedaliero delle sulfoniluree. Questi farmaci non permettono, infatti, il rapido adattamento posologico richiesto dalle mutevoli necessità dei pazienti ospedalizzati. Anche se le meglitinidi (in Italia è disponibile la sola repaglinide) teoricamente dovrebbero causare ipoglicemia con minore frequenza delle sulfoniluree, la mancanza di dati derivanti da trials clinici dovrebbe sconsigliarne l’uso. • Insulino-sensibilizzanti - Metformina. La principale limitazione all’uso della metformina in ospedale è costituita dal rischio di acidosi lattica, complicazione potenzialmente mortale. Questa condizione, rara in ambiente extraospedaliero, si verifica con maggiore frequenza in presenza di scom- 220 penso cardiaco congestizio, ipoperfusione periferica, insufficienza renale, età avanzata e malattie polmonari croniche, tutte situazioni di frequente riscontro fra i pazienti ricoverati. Data la relazione segnalata fra acidosi lattica e terapia con metformina, sembra pertanto prudente limitarne l’uso durante la degenza. - Tiazolidinedioni. In considerazione della latenza con la quale si sviluppa il loro effetto clinico, non è indicato iniziare il trattamento con questi farmaci durante il ricovero ospedaliero. Oltre a ciò, essi aumentano il volume intravascolare; questo rappresenta un problema particolarmente nei pazienti predisposti allo scompenso congestizio e in quelli con alterazioni emodinamiche, quali l’ischemia coronarica acuta o sottoposti a interventi chirurgici. - Farmaci che agiscono sul sistema delle incretine. Vi è ancora scarsa esperienza, e nessun dato pubblicato, sull’utilizzo ospedaliero di questa nuova categoria di farmaci. Tuttavia, anche se non sembrano esserci problemi di sicurezza, pare difficile individuare uno spazio rilevante per gli incretino-mimetici nella cura del paziente ospedalizzato. L’azione principale di exenatide, di liraglutide e degli inibitori del DPPIV consiste in una riduzione dell’iperglicemia postprandiale: la loro utilizzazione sarebbe quindi chiaramente inappropriata in degenti che non si alimentano, o si alimentano poco. Inoltre, inappetenza e nausea sono tra gli effetti collaterali più frequenti dell’exenatide, soprattutto nelle prime fasi del trattamento; vi è quindi una specifica controindicazione a iniziare la somministrazione del farmaco in un ambito come quello ospedaliero, dove sono frequenti problemi nella regolare assunzione di cibo. Parte Seconda – Situazioni particolari Insulina Alla luce dei limiti degli ipoglicemizzanti orali, la terapia di scelta nel paziente ospedalizzato non stabilizzato deve oggi essere considerata la somministrazione d’insulina. • Insulina per via sottocutanea. L’insulina per via sottocutanea può essere utilizzata nella maggior parte dei pazienti ospedalizzati in situazioni non critiche, quando non siano presenti indicazioni all’infusione continua endovenosa. Gli schemi di somministrazioni possono essere diversi: - schemi al bisogno. L’uso di somministrare la terapia insulinica “al bisogno” (sliding scale), cioè iniettare insulina regolare a intervalli fissi (ogni 4-6 ore) solo se la glicemia supera una soglia prefissata, è tuttora diffuso anche nel nostro Paese, ma è ormai considerato un metodo inadeguato e inefficace. Questo approccio, infatti, oltre a non affrontare il problema dell’insulinizzazione basale, non previene l’iperglicemia, intervenendo solamente dopo il suo verificarsi, e comporta un rischio di ipoglicemia successiva; - schemi programmati di plurisomministrazioni. Nella maggior parte dei pazienti diabetici, una corretta terapia insulinica richiede il ricorso a schemi programmati, frequentemente aggiornati sulla base del monitoraggio glicemico, con controlli sia pre- sia postprandiali. A questo programma di base si aggiunge spesso un algoritmo di correzione che tiene conto del valore glicemico misurato, utile sia per evitare eccessive escursioni glicemiche, sia per guidare la modificazione dello schema nei giorni successivi. Gli schemi possono comprendere sia insuline rapide sia analoghi rapidi dell’insulina ai pasti, in aggiunta a insuline ritardate o ad analoghi 15 lenti, una o più volte al giorno. Non sono disponibili studi sull’impiego degli analoghi dell’insulina negli schemi terapeutici ospedalieri. Tuttavia, dal punto di vista pratico essi presentano indubbi vantaggi; in particolare, l’utilizzo degli analoghi rapidi nella correzione delle iperglicemie dovrebbe comportare minore rischio di ipoglicemia rispetto all’insulina regolare. Utilizzo del microinfusore Nonostante la crescente diffusione dell’utilizzo del microinfusore (CSII) nei pazienti con diabete di tipo 1, mancano studi sul suo impiego in ambito ospedaliero. I pazienti trattati con microinfusori hanno solitamente un’elevata capacità di autogestione della malattia e, se non presentano condizioni critiche, richiedono solitamente di mantenere in funzione lo strumento anche durante la degenza. Sono state pubblicate raccomandazioni sull’argomento; tuttavia, in attesa di una più precisa definizione del problema, questa scelta deve essere valutata nelle diverse situazioni, considerando: • le condizioni cliniche del paziente; • l’esperienza dello staff medico, infermieristico e dietistico; • la possibilità di pronta consulenza da parte di uno specialista esperto nella gestione del microinfusore; • la disponibilità di materiale d’uso e di assistenza tecnica per il tipo specifico di infusore. Queste indicazioni si applicano, evidentemente, in soggetti in condizioni non critiche, che si dimostrano in grado di gestire correttamente questa forma di terapia. In caso di ricovero ospedaliero per complicazioni metaboliche acute, è invece preferibile rimuovere il microinfusore, procedendo al riequilibrio metabolico con gli abituali protocolli 221 Ministero della Salute insulinici sc o ev. Prima della dimissione, in questi pazienti è poi opportuna un’attenta rivalutazione dell’indicazione all’utilizzo dello strumento. Insulina in infusione endovenosa: algoritmi Nella terapia con insulina ev per infusione continua viene sempre utilizzata insulina regolare. La terapia infusionale ev trova una sua precisa indicazione nell’ambito dei reparti di terapia intensiva, ma anche nei reparti di degenza ordinaria, medici e chirurgici; spesso si preferisce optare per questo tipo di approccio terapeutico, necessario nel paziente che non si alimenta per os e nel paziente critico in generale. Oltre alla chetoacidosi diabetica e allo scompenso iperosmolare non chetosico, le indicazioni principali comprendono l’iperglicemia nelle seguenti condizioni: • periodo perioperatorio; • interventi di cardiochirurgia; • trapianto d’organo; • shock cardiogeno; • terapia steroidea ad alte dosi; • necessità di definizione della dose insulinica totale prima dell’inizio della terapia insulinica per via sottocutanea. Negli ultimi anni sono stati proposti diversi algoritmi, gestibili direttamente dallo staff infermieristico, che prevedono un adeguamento delle dosi d’insulina infusa guidato dai valori glicemici misurati ogni 1-2 ore. A tutt’oggi, però, mancano studi di confronto fra algoritmi diversi, così che non è possibile raccomandare un protocollo specifico. Particolarmente interessanti sembrano i più recenti algoritmi dinamici, che prevedono la determinazione della dose insulinica non solamente sulla base dei valori glicemici assoluti, ma anche dell’andamento glicemico, cioè della direzione e della velocità delle modificazioni glicemiche. Fra questi si può ricordare quello proposto dalla Yale 222 University, che negli ultimi anni ha avuto una notevole diffusione anche nel nostro Paese. Molto promettente pare anche la possibilità di gestire gli algoritmi insulinici utilizzando i sistemi di monitoraggio continuo sottocutaneo del glucosio. In considerazione della varietà di valide opzioni disponibili, tuttavia, più che il modello di algoritmo scelto pare importante il metodo di lavoro seguito per la sua definizione; per garantire un’applicazione corretta, ogni realtà ospedaliera dovrebbe pertanto adottare un protocollo adeguato condiviso e validato in loco. Ripristino della terapia sottocutanea nella fase postcritica Superata la fase critica, il passaggio dalla terapia insulinica endovenosa a quella sottocutanea richiede la somministrazione d’insulina NPH (Neutral Protamine Hagedorn) o basale 2-3 ore prima, e di insulina regolare o analoghi rapidi 1-2 ore prima dell’interruzione dell’infusione endovenosa. Autogestione terapeutica Il mantenimento dell’autogestione anche durante la degenza ospedaliera può essere consentito nei diabetici adulti che abbiano già raggiunto un’adeguata competenza nell’autogestione domiciliare, con un fabbisogno insulinico noto e relativamente stabile, in grado di praticare l’iniezione insulinica e di alimentarsi per os. Tale procedura deve, tuttavia, essere concordata tra diabetico, medico curante e personale infermieristico. Alimentazione È indicata un’individualizzazione del programma alimentare, basata su obiettivi terapeutici, parametri fisiologici e terapia farmacologica conco- Parte Seconda – Situazioni particolari 15 mitante. È pertanto auspicabile che la prescrizione nutrizionale sia effettuata da un dietista, membro del team diabetologico ed esperto in terapia medica nutrizionale. finale. Un approccio di team è necessario per definire i percorsi ospedalieri. Prevenzione dell’ipoglicemia Educare all’autogestione della malattia diabetica in ospedale è un compito difficile e impegnativo. I pazienti ospedalizzati sono sofferenti, stressati e, inoltre, si trovano in un ambiente che spesso non favorisce l’apprendimento. Durante la degenza è tuttavia necessario fornire un’educazione di base, con informazioni sufficienti a rendere il paziente in grado di non correre rischi al rientro al proprio domicilio. I diabetici di nuova diagnosi e quelli che hanno iniziato il trattamento insulinico o l’autocontrollo della glicemia devono essere addestrati in modo da garantirne una gestione sicura in ambiente extraospedaliero e avviati, al momento della dimissione, al servizio diabetologico di riferimento. L’ipoglicemia, soprattutto nei pazienti insulinotrattati, è il principale fattore limitante la gestione del controllo glicemico nel diabete. Anche pazienti non diabetici possono andare incontro a ipoglicemia durante la degenza ospedaliera, in presenza di malnutrizione, scompenso cardiaco, insufficienza renale o epatica, neoplasie, infezioni o sepsi. Le stesse condizioni possono aggravare il rischio di ipoglicemia nei soggetti diabetici, aggiungendosi alle consuete cause di ipoglicemia iatrogena. Va quindi posta attenzione a una riduzione troppo rapida della dose di corticosteroidi, a impreviste diminuzioni dell’introito calorico, a episodi di emesi. È da considerare la capacità di riportare correttamente i sintomi premonitori; anche l’alterazione dello stato di coscienza dovuta all’anestesia può mascherare i tipici sintomi dell’ipoglicemia. Figure professionali coinvolte: ruolo dello specialista diabetologo La gestione del paziente diabetico in ospedale può essere condotta efficacemente dal medico di reparto, tuttavia il coinvolgimento di uno specialista o di un team specialistico può ridurre i tempi di degenza, migliorare il controllo glicemico e l’esito Educazione del paziente Formazione aziendale L’Azienda – in collaborazione con la struttura diabetologica – nell’ambito della programmazione della formazione aziendale, organizza la formazione degli operatori sanitari medici e non medici di area medica e chirurgica, al fine di garantire alle persone con diabete un’uniformità di comportamento soprattutto nella gestione della terapia e dell’autocontrollo glicemico, nella diffusione e applicazione dei protocolli per le emergenze e nelle informazioni sanitarie fornite. 223 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 16. Definizione di standard Per i contenuti del Capitolo si rimanda alla Parte Prima, Capitolo 6. 225 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 17. La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa In questi ultimi tempi è stato redatto, a cura di un Gruppo di Ricerca privato che ha riunito alcuni riconosciuti esperti appartenenti a diverse Società scientifiche italiane di diversi settori disciplinari, un documento di “Best Practices” per la prevenzione, diagnosi, cura e assistenza delle persone affette da diabete mellito. Tale documento comprende una serie di indicatori di valutazione delle performance, che si ritiene di riportare in questa sede per la completezza e facilità di applicazione. Gli indicatori si raggruppano in diverse tipologie: indicatori di processo, indicatori di esito intermedio, indicatori di outcome. Da questo ampio elenco è stato poi tratto un minimum data set. Ognuna di queste tipologie di indicatori può avere utilizzi diversi. Gli indicatori di processo e di risultato intermedio, per il loro numero elevato e per le difficoltà di estrazione dei dati dalle cartelle cliniche/schede ambulatoriali, dovrebbero essere intesi come una check list per mezzo della quale il medico possa analizzare i suoi processi di cura e i risultati che ne conseguono e allinearli alle Linee guida condivise: si tratta di uno strumento di analisi e di indirizzo che si svolge in tempo reale, cioè mentre avviene il processo di cura, ed è volto insieme a misurare e a migliorare la performance. È prevedibile che tale attività, per il tempo e le risorse che richiede, possa essere applicata solo a un campione della casistica, ovviamente non selezionato (es. i primi 5-10 pazienti consecutivi di ogni mesetrimestre); essa appare indicata per avere un quadro molto generale delle performance, ma soprattutto per evidenziare anomalie, errori e scostamenti sistematici rispetto alle indicazioni delle Linee guida. Gli indicatori di esito sono riportati per completezza, ma la loro utilità è probabilmente marginale in un’ottica di autovalutazione: infatti, l’esiguità delle singole casistiche non consente di raggiungere un numero di eventi adeguato e la stretta dipendenza dell’outcome dal case mix ne impedisce un utilizzo appropriato per attività di benchmarking. Il minimum data set costituisce, invece, il vero strumento affidato ai professionisti per misurare la loro performance e va applicato a una percentuale più significativa di soggetti (se possibile al 100% della casistica, ma è possibile prevedere anche una percentuale minore, selezionata con scelta randomizzata): in questo caso lo strumento analizza e misura retrospettivamente ciò che è stato fatto e ottenuto relativamente agli aspetti essenziali di una specifica condizione clinica: la misura di ciò che è stato fatto, cioè della performance, costituisce l’elemento essenziale e critico da cui partire per migliorare la qualità dei processi di cura. 227 Ministero della Salute Indicatori di processo Sono rappresentati dal rapporto tra soggetti con la presenza del parametro (indicativo di un’attività realizzata nell’attività di cura) sul totale dei soggetti analizzati. Per esempio, in quanti soggetti con diabete mellito vengono rilevate o eseguite le seguenti procedure: • informazione al paziente sulla patologia; • informazione su alimentazione a ogni visita; • informazione su attività fisica a ogni visita; • informazione sul fumo per i fumatori a ogni visita; • determinazione della glicemia a digiuno almeno 2 volte l’anno; • determinazione dell’HbA1c almeno 2 volte l’anno; • automonitoraggio glicemico se indicato; • misurazione della pressione arteriosa a ogni visita; • valutazione dei polsi arteriosi almeno 1 volta l’anno; • determinazione dell’indice caviglia-braccio (ankle-brachial index, ABI) almeno ogni 3 anni; • controllo clinico del piede almeno una volta l’anno; • misurazione del peso corporeo, circonferenza addominale e indice di massa corporea (body mass index, BMI) a ogni visita e almeno 1 volta l’anno; • valutazione del profilo lipidico (colesterolo totale, colesterolo-LDL, colesterolo-HDL, trigliceridi) almeno una volta l’anno; • determinazione della microalbuminuria/proteinuria almeno una volta l’anno; • determinazione della creatininemia e calcolo del filtrato glomerulare (MDRD o CockroftGault) almeno una volta l’anno; • ECG almeno una volta l’anno; • fundus oculi almeno ogni 2 anni; 228 • terapia con statina se colesterolo LDL > 100 mg/dl; • terapia con ACE-inibitore o ARB (angiotensin receptor blockers) se microalbuminuria/proteinuria; • valutazione del rischio cardiovascolare [carta o software dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS)]; • trattamento antiaggregante in soggetti con rischio cardiovascolare > 20%; • vaccinazione antinfluenzale. Indicatori di risultato intermedio Sono rappresentati dal rapporto tra soggetti con un certo risultato conseguito sul totale dei soggetti il cui il parametro è stato misurato. Per esempio: • soggetti con HbA1c [dosaggio allineato allo standard DCCT (Diabetes Control and Complication Trial)] < 7%; • soggetti con HbA1c (dosaggio allineato allo standard DCCT) > 9%; • soggetti con ipoglicemie severe (che richiedono intervento esterno); • soggetti con colesterolo LDL < 100 mg/dl; • soggetti con colesterolo LDL > 160 mg/dl; • soggetti con pressione arteriosa < 130/80 mmHg; • soggetti con pressione arteriosa > 160 e/o 100 mmHg; • soggetti in eccesso ponderale (BMI > 25 kg/m2) con calo ponderale rispetto alla visita precedente; • soggetti in eccesso ponderale (BMI > 25 kg/m2) con aumento ponderale rispetto alla visita precedente; • soggetti fumatori che hanno smesso di fumare. Indicatori di esito Sono rappresentati dal rapporto tra soggetti in cui è presente l’esito sul totale dei soggetti il cui il parametro è stato misurato. Per esempio: Parte Seconda – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare la validità della proposta operativa • numero dei soggetti con macroalbuminuria; • numero dei soggetti con filtrato glomerulare < 30 ml/min/1,73; • numero dei soggetti con ulcera del piede; • numero dei soggetti con necessità di fotocoagulazione retinica; • numero dei soggetti con eventi cardiovascolari [STEMI (ST segment elevation myocardial infarction), NSTEMI (non-ST segment elevation myocardial infarction), angina instabile, rivascolarizzazione, angina stabile, malattia cerebrovascolare, arteriopatia periferica]. Minimum data set • Soggetti fumatori che hanno smesso di fumare. • Determinazione dell’HbA1c almeno 2 volte l’anno. • Soggetti con HbA1c a target. • Valutazione della pressione arteriosa almeno una volta l’anno. • Soggetti con pressione arteriosa a target. • Valutazione del profilo lipidico (colesterolo totale, colesterolo-LDL, colesterolo-HDL, trigliceridi) almeno una volta l’anno. • Soggetti con LDL a target. • Determinazione della microalbuminuria/proteinuria almeno una volta l’anno. 17 • Fundus oculi almeno ogni 2 anni. • Controllo clinico del piede almeno una volta l’anno. Recentemente, la Regione Piemonte ha ufficializzato un suo documento per la realizzazione di un sistema di Gestione Integrata del Diabete Mellito sul suo territorio. La definizione degli indicatori e dei relativi standard emessa dalla Regione Piemonte, peraltro desunti dal File Indicatori dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD), sembra molto funzionale anche per tutto il territorio nazionale. Si ritiene pertanto utile riportarla qui, a fianco della precedente indicazione, che è invece il frutto di una valutazione di esperti di varie discipline, non ufficiale e assolutamente autonoma (Tabelle 17.1, 17.2 e 17.3). Per gli indicatori di processo lo standard è ovviamente il 100%, dal momento che questi indicatori si riferiscono ad attività di dimostrata efficacia. La terza colonna riporta il livello di performance rilevato a livello nazionale dall’indagine sopramenzionata. Per gli indicatori di risultato intermedio non è possibile definire standard, e quindi il riferimento è costituito esclusivamente dai livelli di performance rilevati a livello nazionale dall’indagine sopramenzionata. Agli indicatori di processo e risultato intermedio desunti dal File Dati AMD sono stati aggiunti alcuni indicatori di miglioramento, sulla base di Tabella 17.1 Indicatori di processo Indicatore e Standard P1 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione di HbA1c nell’anno (100%) P2 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione del profilo lipidico nell’anno (100%) P3 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione della PA nell’anno (100%) P4 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione del BMI nell’anno (100%) P5 Percentuale di pazienti valutati per l’abitudine al fumo (100%) P6 Percentuale di pazienti valutati per nefropatia (2) (100%) P7 Percentuale di pazienti valutati per retinopatia (3) (100%) P8 Percentuale di pazienti con esame dei piedi/anno (100%) Performance nazionale 98% 89% 97% 86% 43% BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; PA, pressione arteriosa. 229 Ministero della Salute Tabella 17.2 Indicatori di risultato intermedio Indicatore e Standard Performance nazionale R1 Percentuale di pazienti con HbA1c < 7,0% R2 Percentuale di pazienti con valori di colesterolo LDL < 100 mg/dl R3 Percentuale di pazienti con valori pressori < 130/85 mmHg R4 Percentuale di pazienti con BMI < 25 kg/m2 R5 Percentuale di pazienti non fumatori R6 Percentuale di pazienti con valori di LDL ≥ 130 mg/dl non in trattamento con statine R7 Percentuale di pazienti con valori pressori > 140/90 mmHg non in trattamento antipertensivo 43,1% 29,8% 36,6% 19,2% 82,2% 36,4% 53,1% BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; LDL, lipoproteine a bassa densità. Tabella 17.3 Indicatori di miglioramento Indicatore M1 Distribuzione in quintili del valore di HbA1c M2 Distribuzione in quartili del valore di colesterolo LDL M3 Distribuzione in quintili del valore della pressione arteriosa sistolica M4 Distribuzione in quintili del valore della pressione arteriosa diastolica M5 Distribuzione in quintili del valore di BMI BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; LDL, lipoproteine a bassa densità. quanto proposto dal progetto DQIP (Diabetes Quality Improvement Project). Tali indicatori vengono calcolati sui dati espressi da variabili continue (suddivisi in quartili o quintili) già presi in considerazione per calcolare gli indicatori di processo e risultato intermedio. Gli indicatori di migliora- 230 mento servono per valutare la capacità di miglioramento di tali variabili nell’anno indice rispetto all’anno precedente (spostamento verso sinistra della frequenza dei dati); per tale motivo questi indicatori potranno essere calcolati solo dalla fine del secondo anno di raccolta dei dati. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 18. Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni La produzione di Linee guida e/o Raccomandazioni di pratica clinica tese al raggiungimento di obiettivi di salute, se rappresenta un momento molto importante nella costruzione dei principi del Governo Clinico, rischia di restare un mero esercizio accademico, se non è accompagnata da una programmazione pragmatica relativa all’organizzazione dei servizi deputati a erogare quelle prestazioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi posti. È quindi necessario tentare di disegnare un quadro organizzativo di riferimento, con precisi riferimenti pratici per realizzare setting idonei all’applicazione delle Raccomandazioni espresse e alla rilevazione degli indicatori di outcome che consentiranno di monitorare l’efficacia e la qualità delle prestazioni rese. Il quadro di riferimento di principio è quello che permette di applicare sulla più vasta scala possibile il modello di assistenza delle malattie croniche (chronic care model ), che, ove applicato, sembra promettere i migliori e più duraturi risultati sia relativamente agli obiettivi di salute sia a quelli economici. Tale modello prevede alcuni elementi indispensabili: • la responsabilizzazione consapevole e informata della persona affetta da cronicità; • la disponibilità di sistemi di comunicazione e informazione omogenei o comunque compatibili tra loro; • la presenza di team multiprofessionali e multi- • • • • disciplinari di operatori della sanità e del terzo settore; un sistema di formazione continua degli operatori della sanità; un sistema a “rete” dei vari livelli di erogazione delle prestazioni, non concorrenziale e articolato sul modello degli Hubs & Spokes; un programma incentivante in base al raggiungimento degli obiettivi e delle performance; una politica legislativa extrasanitaria relativa al sistema di welfare responsabile (istruzione, previdenza, trasporti, fiscalità). La responsabilizzazione consapevole e informata della persona affetta da cronicità La necessità primaria di assolvere a questo impegno nasce da una considerazione tanto ovvia quanto reale: nessuna figura professionale sarà mai in grado di farsi carico completo, in modo oggettivo, di tutti i bisogni e i rimedi di una persona affetta da una malattia cronica evolutiva. L’unico soggetto in grado di contenere e ridurre i disagi della convivenza con la patologia cronica è la persona stessa. Ciò è ancora più evidente in una malattia come il diabete, in cui gli stili di vita e i comportamenti quotidiani sono in grado di incidere in modo significativo sull’evoluzione naturale della malattia. Con- 231 Ministero della Salute dizione indispensabile, tuttavia, affinché la persona sia in grado di interagire con la propria condizione è l’informazione esaustiva e non autoritaria, che conduce a obiettivi e a programmazioni condivise. Quindi, il primo e più importante compito della società, e in particolare di tutti i soggetti direttamente impegnati nei servizi di tutela della salute, è produrre informazioni fruibili e comprensibili e assicurarsi che siano state trasmesse e comprese. A quel punto la persona oggetto del servizio diventa corresponsabile al pari di tutto il team sanitario ed entra di diritto a farne parte come soggetto attivo. Diventa quindi prioritario che gli operatori deputati alla cura delle cronicità apprendano metodologie e tecniche della comunicazione interpersonale e siano messi in grado di rafforzare continuamente la consapevolezza del loro assistito (empowerment) e di valutare, con adeguati feedback, l’apprendimento delle informazioni date. Appare oggi più importante orientare in questo senso la formazione del personale sanitario piuttosto che nell’acquisizione di specifiche competenze scientifiche, che potranno seguire canali paralleli e diversificati [Formazione a Distanza (FAD)]. Un ruolo rilevante in questa direzione sarà da attribuirsi al terzo settore, che può svolgere un’utilissima opera di informazione e tutoraggio, affiancata al Servizio Pubblico secondo i principi della sussidiarietà. La disponibilità di sistemi di comunicazione e informazione omogenei o comunque compatibili tra loro In un sistema pensato secondo il modello e i concetti della rete non concorrenziale, la mancanza di un flusso informativo e di comunicazione all’interno della rete stessa vanificherebbe qualsiasi significato. La possibilità di registrazione di tutte le informazioni di carattere sanitario sulla singola persona e la disponibilità delle informazioni stesse 232 per tutti gli attori del sistema, compreso il cittadino, permettono invece di fornire prestazioni appropriate e corrette e di valutare nel tempo gli indicatori di efficacia e qualità del servizio stesso. L’obiettivo, ambizioso, è quello di giungere al “Patient Record ”, che non è solo il “Fascicolo Sanitario Personale”, mera raccolta di documenti, ma un sistema interattivo a uso di ogni professionista e del cittadino, strumento e tramite di comunicazione fra i nodi del sistema. Gli esempi applicati sono numerosi: dall’esperienza americana della Kaiser Permanente (un unico modello in uso presso tutti gli operatori) a quella, sempre americana, del Massachussets (compatibilità di scambio tra database ospedalieri e territoriali), a quella, infine, molto avanzata, ma non ancora completata, della Regione Lombardia (Personal Card). Molte Regioni italiane hanno già compiuto importanti passi in questo senso, incrociando i dati presenti nei diversi database amministrativi e clinici e ottenendo in tal modo una fotografia dell’esistente, che consente di vedere con buona precisione lo scostamento dalle Linee guida di appropriatezza nelle singole condizioni di patologia. Un ulteriore elemento di notevole utilità è rappresentato dalla possibilità di inserire in questo sistema anche le agende elettroniche delle prenotazioni di prestazioni sanitarie (CUP), al fine di programmare i percorsi clinici dei singoli pazienti inscrivendoli fin dall’inizio nel contratto di cura annuale, concordato con il team assistenziale. La presenza di team multiprofessionali e multidisciplinari di operatori della sanità e del terzo settore Tutte le patologie croniche, e il diabete in particolare, necessitano di un approccio omogeneo da parte di più figure professionali, coordinate tra loro. Le esperienze europee (Regno Unito, Fran- Parte Seconda – Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni cia) e quelle statunitensi (California, Minnesota) hanno individuato alcune figure chiave all’interno di equipe anche più ampie: • il medico di medicina generale (MMG): è il soggetto garante della regolarità e aderenza del percorso clinico del paziente; organizza la sua attività, preferibilmente in associazione con altri colleghi, al fine di provvedere a controlli regolari e periodici degli assistiti. È altresì l’operatore che più facilmente individua soggetti di nuova diagnosi e che cura la prevenzione dei soggetti a rischio di contrarre la malattia; • il team specialistico: composto dal medico specialista diabetologo, dall’infermiere specialista e, accessoriamente, da tecnici dedicati (dietista, podologo), rappresenta contemporaneamente il soggetto di consulenza per il MMG nella gestione dei nuovi casi e il soggetto di “presa in carico” temporanea dei pazienti con problematiche emergenti correlate all’insorgenza di complicanze acute o croniche della malattia. È inoltre il soggetto di presa in carico completa dei pazienti con diabete di tipo 1, sia nel periodo dell’età evolutiva (team pediatrico), sia nell’età adulta; • l’infermiere “care manager” delle cronicità: si tratta di una figura presente nella maggior parte dei sistemi sanitari europei, ma assente nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano. Deve essere un professionista appositamente formato, che segue i pazienti nei loro percorsi clinici e che funziona da “ponte” fra le strutture della primary care (MMG, Distretti) e quelle della secondary care (Centri Specialistici, Ospedali). Ogni infermiere può prendersi cura in media di 100 pazienti affetti da cronicità; • il terzo settore: l’attività prevalente dell’associazionismo va vista nell’incremento dell’informazione e consapevolezza delle persone affette da diabete. L’azione dell’“empowerment” è cruciale per la finalità dell’applicazione del chronic care model. 18 Un sistema di formazione continua degli operatori della sanità Il sistema italiano dell’Educazione Continua in Medicina (ECM) è stato recentemente modificato e oggi pare corrispondere alle necessità espresse dagli operatori. Stante il quadro epidemiologico fortemente orientato al prevalere delle patologie croniche evolutive, appare opportuno prevedere una quota sensibile di aggiornamento e formazione di tutte le figure professionali indirizzata verso i sistemi organizzativi del disease management e del chronic care model. La parte legata alle strette competenze cliniche e scientifiche delle singole patologie può efficacemente essere sviluppata e ampliata attraverso il sistema della FAD. Un sistema a “rete” dei vari livelli di erogazione delle prestazioni, non concorrenziale e articolato sul modello degli Hubs & Spokes L’attuale conformazione del sistema sanitario è fondata sull’erogazione di prestazioni tariffate, fornite da aziende in concorrenza tra loro, del tutto svincolate da sistemi di controllo dell’appropriatezza. Ciò crea di fatto la spinta al moltiplicarsi delle prestazioni e dell’offerta, che genera un eccesso ulteriore della domanda. Le malattie croniche, e il diabete in particolare, hanno invece una solida base di evidenze che consente di individuare percorsi clinici diagnosticoterapeutici-assistenziali standardizzabili in buona misura, fatte salve le differenze individuali, e programmabili. Ciò consente di individuare un sistema “a rete” entro il quale il cittadino si muove secondo un iter determinato a priori, con un riferimento “principale” (Hub) e dei riferimenti secondari (Spokes) tra loro coordinati e legati da flussi informativi omo- 233 Ministero della Salute genei. A seconda del momento evolutivo della patologia, o della tipologia della stessa (diabete di tipo 1 o 2; complicanze presenti e attive o assenti o inattive), l’Hub sarà rappresentato di volta in volta dal soggetto di “presa in carico” (MMG, team specialistico), sempre con l’ausilio del soggetto care manager. Le ricadute organizzative di un sistema “a rete” sono importanti per la massima efficientizzazione delle risorse: è infatti intuitivo che non tutti dovranno fare tutto, ma che ogni singolo centro, oltre a un minimo comune denominatore, dovrà indirizzare la propria attività per fornire quelle prestazioni e quelle tecnologie necessarie all’intero sistema. L’esempio più classico è quello relativo al “piede diabetico”: se tutti i MMG dovranno eseguire almeno l’ispezione del piede, tutti i centri specialistici dovranno fornire le pratiche diagnostiche minime (ABI, monofilamento); solo alcuni centri, però, dovranno eseguire tecniche diagnostiche e terapeutiche di secondo e terzo livello [angiografia, velocità di conduzione motoria (VCM), velocità di conduzione sensitiva (VCS), chirurgia, medicazioni avanzate]. Un programma incentivante in base al raggiungimento degli obiettivi e delle performance Questo punto è cruciale. Il sistema britannico e, in minor misura, quello francese, hanno da tempo applicato un sistema di incentivazioni (e anche di disincentivazioni) che premia gli operatori che dimostrano il raggiungimento di obiettivi di salute, attraverso la valutazione di appositi indicatori e standard. Ciò ha permesso, nell’arco di un triennio, di vedere migliorare gli outcome intermedi in maniera sensibile. L’applicabilità in Italia di un siffatto sistema non è irraggiungibile: lo stato giuridico della medicina primaria, legata al SSN da convenzioni, consente di orientare i contratti collettivi nazionali e le parti contrattuali locali verso obiettivi ben defi- 234 nibili. Sul versante degli operatori dipendenti dalle Aziende Sanitarie appare invece necessario superare il pagamento a prestazione (nomenclatore tariffario), per virare verso emolumenti correlati all’aderenza ai processi dei percorsi clinici e al raggiungimento di obiettivi intermedi. Una politica legislativa extrasanitaria relativa al sistema di welfare responsabile (istruzione, previdenza, trasporti, fiscalità) L’ultimo punto esula dai compiti di questo documento, ma appare utile ricordare che nell’ambito della prevenzione e della cura delle malattie croniche il ruolo giocato dall’organizzazione sociale è di primaria importanza. Il mondo della scuola è fondamentale per la modificazione di stili di vita impropri e forieri di problematiche di grande importanza come l’obesità, il fumo e altre condizioni di rischio. I trasporti pubblici possono essere un elemento focale per l’introduzione di modelli comportamentali più salutari. La leva della fiscalità può tradursi in stimoli incentivanti o disincentivanti. Conclusioni La comunità scientifica è oggi in grado di fornire ai cittadini e agli operatori sanitari una serie di Raccomandazioni basate su forti evidenze; l’implementazione di queste Raccomandazioni nella pratica clinica è certamente in grado di fornire al cittadino affetto da diabete un notevole valore aggiunto in termini di spettanza e soprattutto di qualità di vita. È tuttavia necessario, per poter applicare con buon successo quanto stabilito dalla ricerca scientifica, modificare in parte il sistema organizzativo sanitario, per avviarsi sulla strada della corresponsabilizzazione informata dei cittadini e fornire loro i più adeguati percorsi clinici relativi alla patologia da cui sono affetti. Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 19. Il ruolo delle Associazioni Gli ultimi Piani Sanitari Nazionali pongono la necessità di soddisfare una domanda crescente di assistenza di natura diversa, basata sull’integrazione fra prestazioni sanitarie e sociali e sulla continuità delle cure per periodi di lunga durata, evidenziando al tempo stesso la necessità di utilizzare adeguati modelli di gestione della cronicità, che migliorino la compliance operatore sanitario-paziente, il vissuto psicologico e l’impatto sociale della malattia. Inoltre, pongono l’accento sulla necessità di individuare una linea di sviluppo che identifichi la famiglia, come un nodo della rete, nel doppio ruolo di espressione di richiesta assistenziale e di risorsa e inoltre coinvolga il Volontariato come attore del processo decisionale, cercando al tempo stesso di fornirgli degli strumenti per fargli acquisire una cultura manageriale ed etica che lo porti a operare con affidabilità, chiarezza ed efficienza. In particolare, il Piano Sanitario Nazionale 20032005 identifica il Volontariato come elemento fondamentale in quella rete di relazioni che devono legare, in un rapporto di partnership, tutti i protagonisti del mondo della salute, e che viene identificato come “capitale sociale”. Il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 enfatizza la necessità di favorire le varie forme di partecipazione del cittadino, in particolare attraverso il coinvolgimento dei pazienti e delle associazioni dei familiari. Inoltre, prevede un ruolo attivo di queste organizzazioni, in modo da dare valore alle loro esperienze e conoscenze, ai fini di un’adeguata programmazione dell’offerta sanitaria. Il coinvolgimento deve prevedere non solo la partecipazione del malato reso “empowered ” e la valorizzazione del Volontariato, ma anche la presenza di quest’ultimo nella determinazione delle politiche assistenziali. Il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in progress) ripropone un’ulteriore attenzione nei confronti del ruolo delle Associazioni dei pazienti, enfatizzando la necessità: • della promozione del ruolo del cittadino e delle Associazioni nella gestione e controllo delle prestazioni del servizio sanitario; • della partecipazione sostenibile dei pazienti e delle loro associazioni negli organismi e nei processi decisionali, • del coinvolgimento dei familiari e delle Associazioni di Volontariato nei percorsi sanitari. Tale coinvolgimento è elemento essenziale per sviluppare l’empowerment del paziente e il grado di soddisfazione nei confronti dei servizi erogati e per consentire al Volontariato di effettuare interventi non parcellizzati, ma sinergici e coordinati con i vari nodi del sistema e con le attività delle istituzioni. 235 Ministero della Salute In particolare, per quanto riguarda il Volontariato nel mondo della diabetologia va ricordato che per Associazioni Diabetici si devono intendere le Organizzazioni di Volontariato costituite da persone con diabete o, per i minori, dai loro familiari, che rispondono ai requisiti delle leggi vigenti, tra le quali vanno riportate: • Associazioni di Volontariato Legge n. 266 dell’11 agosto 1991, legge quadro; • Associazioni ONLUS Legge n. 460 del 4 dicembre 1997; • Associazioni di promozione sociale Legge n. 383 del 7 dicembre 2000. Inoltre, la Legge n. 115 del 16 marzo 1987 prevede che le “Unità sanitarie locali si avvalgano della collaborazione e dell’aiuto delle Associazioni di Volontariato nelle forme e nei limiti previsti dall’art. 45 della Legge n. 833 del 23 dicembre 1978”. Le Associazioni Diabetici sono molto diffuse su tutto il territorio italiano e si differenziano spesso per le attività che svolgono e per gli ambiti di intervento. La rappresentatività dei diabetici “Soci” è molto variabile con organizzazioni che, pur svolgendo attività molto utili, hanno pochi iscritti fino a organizzazioni che contemplano un considerevole numero di soci. Una delle criticità rilevate dalle stesse Associazioni di pazienti è spesso la limitazione nelle conoscenze, tecniche e amministrative, che impedisce di intervenire efficacemente nelle attività previste dall’organizzazione, con una riduzione dell’efficienza e dell’efficacia dell’impegno sia nei confronti del paziente, sia nei rapporti con il sistema sanitario e le istituzioni. Pertanto, risulta fondamentale implementare il processo di formazione, che deve riguardare in particolar modo la capacità di comunicazione e 236 ascolto, la relazione d’aiuto, la conoscenza di leggi e normative nazionali, regionali, locali riferite al diabete e complicanze, la gestione amministrativa e contabile dell’Associazione, la capacità organizzativa e programmatoria. In quest’ottica, le Associazioni dei pazienti possono contribuire al miglioramento dell’educazione del paziente e del contesto sociale in cui egli vive e opera e, inoltre, facilitare l’accettazione della malattia e l’adesione alla terapia farmacologica e a uno stile di vita corretto, nel rispetto di quanto definito dal medico di medicina generale (MMG), dal pediatra di libera scelta (PLS) o dal servizio di diabetologia. Per quanto riguarda questo particolare aspetto, l’Associazione può diventare un punto di riferimento per varie attività tra le quali: • informazioni relative al diabete, all’assistenza, alle normative di legge, ai diritti e doveri del diabetico; • raccolta e segnalazione di problematiche o difficoltà riscontrate nella gestione e cura del diabete e delle complicanze, nelle difficoltà o discriminazioni incontrate nella vita sociale; • aiuto alla risoluzione dei problemi; • intermediazione Territorio-Istituzioni; • sensibilizzazione della popolazione al problema diabete; • formazione/informazione alla popolazione per la diagnosi precoce del diabete (di tipo 1 e di tipo 2); • proposta di soluzioni e/o di miglioramenti necessari per ridurre i disagi; • verifica dell’efficacia delle azioni correttive-migliorative effettuate; • verifica dell’applicazione delle normative nazionali, regionali e locali emanate e loro congruità e adeguatezza. Appendici Parte Seconda Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Appendice 1 Manuali e pacchetti didattici sull’educazione terapeutica strutturata Scaricabili dal sito www.aemmedi.it (sezione biblioteca) Manuali Pacchetti didattici • • • • • • • • • • Autocontrollo (Manuale per il paziente). Rischio cardiovascolare (Manuale per il medico). Rischio cardiovascolare (Manuale per il paziente). Ipoglicemia (Manuale per il medico). Ipoglicemia (Manuale per il paziente). Alimentazione e stile di vita (Manuale per il medico). • Alimentazione e stile di vita (Manuale per il paziente). • Il piede diabetico (Manuale per il medico). • Il piede diabetico (Manuale per il paziente). • • • • • Presentazione dei Pacchetti didattici. Note per le equipe. Questionari: prevenzione. Importanza dell’autoanalisi nel paziente diabetico. Autocontrollo Corso ETS: Storyboard. Autocontrollo Questionario. Corso ETS per pazienti su piede diabetico: esercitazioni. Esercitazioni pratiche. Storyboard piede. 239 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Appendice 2 Livelli di intervento e appropriatezza nella cura del diabete in ambito specialistico Per tutti i soggetti affetti da diabete di tipo 1 e di tipo 2 l’assistenza dovrebbe concentrarsi su: • una valutazione metabolica completa al momento della diagnosi e a intervalli regolari; • una valutazione dei fattori di rischio cardiovascolari al momento della diagnosi e a intervalli regolari; • un’informazione corretta e completa sul diabete, sulle sue complicanze, sull’efficacia della modificazione degli stili di vita e dei trattamenti nel modificare la storia naturale della patologia; • la definizione e la gestione di un piano terapeutico personalizzato, finalizzato a ottenere il migliore compenso metabolico possibile; • un approccio dietetico personalizzato; • l’educazione sanitaria come parte integrante del piano terapeutico che comprenda, a seconda delle esigenze, la gestione dell’ipoglicemia, la gestione del diabete in caso di patologie intercorrenti, la cura dei piedi, il counseling sulla cessazione del fumo, la gestione dell’attività fisica, l’autogestione della terapia sulla base del monitoraggio domiciliare della glicemia; • la fornitura dei dispositivi medici per l’attuazione della terapia, quali le penne per insulina e gli infusori, quando indicati; • l’addestramento al monitoraggio domiciliare 240 • • • • • • • • • • • della glicemia e la prescrizione del relativo materiale di consumo nei casi che lo richiedano; il trattamento degli altri fattori di rischio cardiovascolare quali il sovrappeso, l’ipertensione e le dislipidemie; una corretta informazione sulla contraccezione nelle donne diabetiche in età fertile, quando indicato; una corretta informazione sulla pianificazione della gravidanza in tutte le donne diabetiche in età fertile; lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della retinopatia diabetica; lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della nefropatia diabetica; lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della neuropatia diabetica; lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della disfunzione erettile; lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento del piede diabetico; lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della cardiopatia ischemica e delle altre complicanze vascolari; un’assistenza qualificata nel corso dei ricoveri ordinari; la definizione e l’applicazione di protocolli clinici per le emergenze diabetologiche e per il Appendici Parte Seconda trattamento ospedaliero dei pazienti diabetici acuti (paziente critico in Terapia Intensiva, infarto miocardio acuto, ictus). Per tutte le donne in gravidanza a rischio di diabete gestazionale (pregresso diabete gestazionale, obesità addominale ecc.) l’assistenza dovrebbe concentrarsi: • sullo screening di diabete gestazionale; • sul counseling su corretta alimentazione e attività fisica. Per tutte le donne diabetiche in gravidanza e per tutte le donne con diabete gestazionale è utile mettere in atto: • una corretta informazione sulla gestione del diabete in gravidanza; • la terapia medica e nutrizionale adeguata, con frequenti rivalutazioni; • l’emissione dell’attestato di patologia mediante l’inserimento nel Registro Regionale Diabetici (diabete gestazionale); • l’addestramento al monitoraggio domiciliare della glicemia e la prescrizione del relativo materiale di consumo (diabete gestazionale); • lo screening periodico della retinopatia diabetica (diabete pregravidico); • l’assistenza metabolica specialistica durante il travaglio e il parto; • la rivalutazione metabolica dopo il parto (diabete gestazionale). L’obiettivo di una corretta informazione deve prevedere le attività integrate di: • servizi di diabetologia dell’AS; • servizi di diabetologia di secodo livello per aree vaste; • medici di medicina generale; • operatori dei Distretti; • medici specialisti delle specialità coinvolte. In linea con l’assistenza al diabete da erogarsi in team, e non come sola visita medica, è necessario garantire un adeguato rapporto medico/personale sanitario. Per quanto attiene ai servizi di diabetologia è possibile ipotizzare i seguenti livelli organizzativi. Tipologia della struttura Attività Note particolari Servizi di primo livello, intraospedalieri Operanti “a ponte” sia sul territorio sia nell’ospedale, per la consulenza del paziente ricoverato Per migliorare gli esiti e ridurre le degenze è fondamentale l’assistenza al diabetico in ospedale (1 su 5 di tutti i ricoveri) Servizi ospedalieri di primo livello territoriali* Operanti sul territorio ma coordinati con l’ospedale tramite percorsi concordati e condivisi Reti di diabetologi specialisti ambulatoriali organizzati come servizi di primo livello Operanti sul territorio ma coordinati con l’ospedale tramite percorsi concordati e condivisi Servizi di secondo livello per prestazioni a elevata specializzazione e richiesta assistenziale pluridisciplinare Ospedalieri, finalizzati al ricovero con indirizzo di cura per situazioni complesse (piede diabetico, trapianti, centri per la retinopatia, chirurgia bariatrica) Fondamentale il lavoro in team. È da prevedere adeguata dotazione di personale non medico * Sono i servizi ospedalieri che operano a livello ambulatoriale aperti al territorio, anche con sedi distaccate in periferia. 241 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Appendice 3 Raccomandazioni per l’implementazione della standardizzazione internazionale per l’HbA1c in Italia N. 1 Raccomandazione 1.1 1.2 1.3 2 3 Il traguardo dell'errore totale è ±6,7% (espresso in termini di frazione percentuale sul valore assoluto di HbA1c) L’imprecisione del metodo (CV), valutata sul lungo periodo, deve essere contenuta entro il 2% La partecipazione a programmi di Valutazioni Esterne di Qualità (VEQ), nei quali sono utilizzati materiali commutabili e con valori di HbA1c assegnati mediante il metodo di riferimento IFCC, rappresenta il modo corretto per poter valutare quanto le misure effettuate rispondano ai requisiti di errore totale sopra definiti La refertazione dell’eAG sulla base dell’HbA1c, attraverso l'equazione proposta a conclusione dello studio ADAG, è soggetta a troppe limitazioni perché se ne possa consigliare l’utilizzo sistematico 3.1 3.2 3.3 4 L’HbA1c deve essere misurata con metodi calibrati al sistema di riferimento IFCC Il risultato deve essere riportato in mmol/mol e in unità % derivate, utilizzando l’equazione di conversione sopra riportata Nel referto di laboratorio, per comodità degli utilizzatori, il valore di HbA1c sarà espresso, per un periodo limitato di tempo, mediante le unità convenzionali (%) seguite dalle unità IFCC (mmol/mol). Successivamente, le unità convenzionali saranno abbandonate A partire dal 01.01.2010 i risultati dell’HbA1c saranno espressi sia in unità allineate al sistema DCCT (%), sia in unità standardizzate IFCC (mmol/mol). A partire dal 01.01.2012 i risultati dell’HbA1c saranno refertati solamente in unità IFCC (mmol/mol) DCCT, Diabetes Control and Complications Trial ; eAG, glicemia media stimata; IFCC, International Federation of Clinical Chemistry. 242 Appendici Parte Seconda Limitazioni dell’esame dell’HbA1c Interferenze analitiche (possono essere superate da un opportuno trattamento del campione o dalla scelta di un metodo analitico più specifico) Fattori influenti Effetto sul risultato finale • Iperbilirubinemia • Ipertrigliceridemia • Innalzamento dei globuli bianchi • Presenza di alcune varianti emoglobiniche (HbS, HbC, HbD, HbE) Sovrastima Sovrastima Sovrastima Sovrastima o sottostima Effetti in vivo dovuti a particolari condizioni fisiologiche (generalmente note a priori) Fattori influenti Effetto sul risultato finale • Gravidanza • Variabilità stagionale • Età del soggetto • Fattori genetici (es. etnia) • Presenza di altre varianti emoglobiniche e/o di talassemia major Sottostima Sovrastima o sottostima Sovrastima Sovrastima o sottostima Sovrastima o sottostima Effetti in vivo dovuti a particolari condizioni patologiche (generalmente non note a priori) Fattori influenti Effetto sul risultato finale • Diabete di tipo 1 in rapida evoluzione • Malaria • Anemia emolitica • Anemia sideropenica • Recenti perdite di sangue o trasfusioni • Splenectomia • Insufficienza renale • Pazienti HIV-positivi in terapia antiretrovirale • Trattamento con eritropoietina o con altri farmaci che interagiscono con l'eritropoiesi • Etilismo Sottostima Sottostima Sottostima Sovrastima Sottostima Sovrastima Sovrastima Sovrastima Sottostima Sottostima Interpretazione dei risultati della misura quantitativa dell'albumina nelle urine (microalbuminuria) Campione fresco Creatinina (mg/mg) Creatinina (mg/mmol) Normoalbuminuria Microalbuminuria Macroalbuminuria < 30 30-300 > 300 < 3,4 3,4-34 > 34 Campione 24 h mg/24 h Normoalbuminuria Microalbuminuria Macroalbuminuria < 30 30-300 > 300 Campione temporizzato mg/min Normoalbuminuria Microalbuminuria Macroalbuminuria < 20 20-200 > 200 < 3,4 3,4-34 > 34 243 Ministero della Salute Esempio di attestato di allineamento al sistema internazionale IFCC per la standardizzazione dell’emoglobina glicata 244 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Appendice 4 Raccomandazioni per l’applicazione delle tecnologie applicate al miglioramento del controllo glicemico e alla prevenzione delle ipoglicemie nel diabete di tipo 1 secondo gli “Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito” Raccomandazione Livello di Prova Forza della Raccomandazione CSII In soggetti selezionati che, malgrado un regime basal-bolus ottimale, presentino scarso controllo glicemico e/o ipoglicemie ricorrenti, può essere considerata l’indicazione all’uso del microinfusore da parte di un team esperto nel suo utilizzo II B CGM real-time Adulti Il CGM nei diabetici di età superiore ai 25 anni in terapia insulinica intensiva è uno strumento utile per ridurre l’HbA1c I B CGM real-time Il CGM può essere di utilità nel ridurre l’HbA1c in diabetici di tipo 1 in Adolescenti e Bambini altre classi di età, in particolare nei bambini e comunque nei soggetti che dimostrano una buona aderenza all’utilizzo continuativo dello strumento II B CGM real-time Ipoglicemie VI B Il CGM può contribuire a ridurre le ipoglicemie e può essere utile nel trattamento di soggetti proni all’ipoglicemica o con sindrome da ipoglicemia inavvertita CGM, monitoraggio glicemico continuo; CSII, terapia iniettiva insulinica sottocutanea continuativa tramite micropompa. 245 246 0,05-30 UI/ora con incrementi di 0,05 UI 0,0-16 UI/ora con incrementi di 0,1 UI 0,05-35 UI/ora con incrementi di 0,05 UI IPX8 Backlight Energy Saving A colori Sleep mode sul controllo remoto Propietario Resistente alla caduta in acqua Backlight Propietario Integrato con sistema Interfaccia per il monitoraggio con l’utilizzatore continuo della glicemia. con icone Medtronic Paradigm Real Time. Allarmi vibratori o sonori. Possibilità di telecomando Fino a 4 metri per 12 ore Colori Standard Luer-Lock Include il glucometro nel telecomando, che permette la programmazione a distanza dell’infusore. Allarmi vibratori o sonori. Database con elenco cibi più comuni integrato nel software per il suggerimento di boli IPX8 (60 minuti a 2,5 metri) Backlight Resistenza all’acqua Caratteristiche del display Pulsanti in rilievo tattile. Menù personalizzabile standard o avanzato. Allarmi vibratori o sonori. Possibilità di download dati via infrarossi. Include nella sua versione combo il glucometro nel telecomando, che permette la programmazione a distanza dell’infusore La FDA ha già approvato la pompa Solo MicroPump (Medino Ltd), in questo momento non ancora in distribuzione. Caratteristiche aggiuntive Connessione al Standard Luer-Lock set di infusione No. Sistemi di sicurezza nel controllo dell’infusione Sì. Controlli incrociati interni Sì. Sistema di prevenzione della sovrainfusione attraverso selftest Sì No Allarme di sovrainfusione Tube free. Sistema applicabile direttamente sul corpo attraverso un cerotto. Controllato a distanza da telecomando per la programmazione dell’infusione. Database con elenco dei cibi più comuni Set di infusione integrato. No tubing IPX8 (30 minuti a 2,5 metri) 0,05 UI 0,1 UI 0,05 UI 0,05 UI 0,1 UI Bolo minimo 7 profili di 24 ore con 24 possibili differenti velocità basali. Velocità basale temporanea con incrementi % dell’infusione e incrementi nel tempo di 30 minuti fino a 24 ore Insulet 0,025-25 UI/ora con incrementi di 0,025 UI 4 profili di 24 ore con 24 possibili differenti velocità basali. Velocità basale temporanea con incrementi del 25%, da 0% al 100% Sooil Development Range di basali 0,1-25 UI/ora con incrementi di 0,1 UI Roche 48 velocità basali e 3 profili personalizzabili. Velocità basale temporanea modificabile con aumenti in % rispetto all’infusione in atto o assoluti in termine di UI/ora Azienda Medtronic Omnipod 12 velocità basali e 4 profili personalizzabili. Velocità basale temporanea con incrementi del 10% e incrementi nel tempo di 30 minuti fino a 24 ore DANA Animas Minimed 522/722 5 profili con 24 possibili Programmi di insulinizzazione differenti velocità basali. Velocità basale basale temporanea con incrementi del 10%, da 0% al 200% e incrementi nel tempo di 15 minuti fino a 24 ore Microinfusore Accu-Check Spirit-Combo One Touch Ping Caratteristiche tecniche e di sicurezza dei principali microinfusori Pulsanti in rilievo tattile. Menù personalizzabile standard o avanzato. Allarmi vibratori o sonori Standard Luer-Lock Backlight IPX8 (30 minuti a 1 metro) Sì. Sistema di prevenzione della sovrainfusione attraverso continui selftest 0,05 UI 0,0-30 UI/ora con incrementi di 0,05 UI 4 profili di 24 con 24 possibili differenti velocità basali. Velocità basale temporanea con incrementi del 10%, da 0% al 200% e incrementi nel tempo di 15 minuti fino a 24 ore Nipro Diabetes System Nipro Amigo Ministero della Salute Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Appendice 5 Paragrafo A Passaggio dell’adolescente con diabete dal pediatra al diabetologo per l’adulto Anamnesi psicosociale che li ha avuti in carico fino al quel momento. Il profilo può essere di tipo narrativo oppure contenere valutazioni con prove standardizzate, se in carico a un’equipe con all’interno la figura dello psicologo. Nel passaggio ad altro servizio i giovani possono essere presentati da una breve relazione scritta a cura del pediatra oppure dell’equipe di pediatria A) Il paziente e il proprio nucleo familiare 1. Dati anagrafici: nucleo familiare (composizione) Relazioni di parentela Nome Anni Scolarizzazione Professione Padre Madre Figlio/a Figlio/a Altro 2. Preoccupazione rispetto al diabete da 1 a 10 per ciascun membro della famiglia: 1 = per nulla...; 10 = molto preoccupato 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Padre Madre Figlio/a Figlio/a Altro 247 Ministero della Salute 3. Qualità del supporto intrafamiliare 1 = non efficace...; 10 = molto efficace 1 2 3 4 5 6 7 8 9 4. Ci sono stati eventi nella storia della famiglia prima e/o dopo la scoperta del diabete, quali e quando? 5. Chi è la persona di riferimento per il/la ragazzo/a in casa o fuori casa attualmente? In casa Padre Madre Fratello/sorella Nonno/a Zio/a Insegnante Altra persona (specificare) È sempre stata la stessa o è cambiata nel tempo? ❒ Sì, è sempre stata la stessa ❒ No, è cambiata Se la persona di riferimento è cambiata, chi l’ha sostituita? ❒ Un genitore ❒ Uno zio ❒ Un amico ❒ Altro ___________________________________________ Da quanto è cambiata? ❒ Da meno di sei mesi ❒ Da meno di un anno ❒ Da più di due anni B) Il paziente e il mondo extrafamiliare 6. ll paziente ha comunicato il suo diabete al di fuori della sua famiglia? ❒ Sì ❒ No Se sì, a chi ha comunicato il suo diabete? ❒ _______________________________________________ In quale circostanza? ❒ _______________________________________________ 248 Fuori casa 10 Appendici Parte Seconda 7. Autonomia personale Qual è il grado di autonomia personale che il/la ragazzo/a riesce a esprimere? Intesa non solo in riferimento alla gestione del diabete ma anche, per quanto noto, al grado di interazione con la famiglia e i pari coetanei 1 = non autonomo, ha bisogno che un adulto o familiare gli ricordi quello che deve fare; 2 = parzialmente autonomo; 3 = autonomo 1 2 3 Cura personale Alimentazione Organizzazione della giornata 8. Autonomia nella gestione del diabete 0 = frequenti dimenticanze di fare controlli e somministrare l’insulina; 1 = non ancora autonomo; 2 = parzialmente autonomo (il controllo glicemico e l’autosomministrazione di insulina richiedono talvolta l’assistenza dell’adulto di riferimento); 3 = totalmente autonomo (controllo glicemico e autosomministrazione sempre da solo) 0 1 2 3 Controllo glicemico Autosomministrazione di insulina 9. Risorse Come si è evoluta questa autonomia nel tempo e con quali modalità e risorse. Da chi è stato aiutato? ❒ Nessuno/completa indipendenza ❒ Genitori ❒ Fratelli ❒ Altri familiari ❒ Amici ❒ Insegnanti ❒ Servizio di diabetologia ❒ Altri (specificare) __________________________________ Su chi sente di poter contare attualmente il/la ragazzo/a diabetico/a se volesse aiuto/conforto/sostegno? ❒ Nessuno ❒ Genitori ❒ Fratelli ❒ Altri familiari ❒ Amici ❒ Insegnanti ❒ Servizio di diabetologia ❒ Altri (specificare) __________________________________ 249 Ministero della Salute 10. Interessi culturali Interessi culturali, sportivi e abilità nelle prestazioni, scolastiche e sociali Vi si dedica: 1 = mai; 2 = qualche volta; 3 = regolarmente 1 2 3 1 2 3 Lettura Musica (ascolto) Uso di uno strumento musicale Teatro/cinema Volontariato Altro (specificare) Interessi sportivi Vi si dedica: 1 = mai; 2 = qualche volta; 3 = regolarmente Pratica di uno sport Interesse per uno sport Interessi scolastici Promozioni o ripetenze scolastiche, progetti per il futuro e aspettative di realizzazione dei propri progetti e sogni nel cassetto ❒ Promozioni o ripetenze: _______________________________________________________________________________ ❒ Progetti per il futuro: _________________________________________________________________________________ ❒ Sogni nel cassetto: ___________________________________________________________________________________ 11. Caratteristiche di personalità principali del/della giovane: è una persona comunicativa, socievole, disponibile ad accogliere suggerimenti e consigli? Oppure è inibita, chiusa, timorosa del giudizio altrui? ❒ ❒ ❒ ❒ ❒ ❒ ❒ Estroverso/a, socievole Comunicativo/a Disponibile verso gli altri Timido/a Inibito/a Timoroso/a del giudizio degli altri Immaturo/a 250 Appendici Parte Seconda Paragrafo B Questionario per la valutazione del passaggio dal servizio diabetologico pediatrico a quello degli adulti (ragazzi) Molto Abbastanza Poco Per niente 1) Frequenti regolarmente il servizio pediatrico? 2 ) Ascolti e metti in pratica i consigli del pediatra? 3 ) Ti soddisfa il rapporto instaurato con l’equipe pediatrica? 4 ) Il medico che ti segue è in grado di capire i tuoi bisogni e le tue motivazioni? 5) Ritieni che nel servizio pediatrico si presti attenzione ai tuoi bisogni (orari di visita, disponibilità del personale ecc.) 6) Sei soddisfatto delle relazioni tra la tua famiglia e il servizio pediatrico? 7) Ti preoccupa il trasferimento nel servizio di diabetologia dell’adulto? 8) Ti senti e sei stato preparato al trasferimento? 9) Sono esaurienti le informazioni che hai ricevuto riguardo: Non ne ho ricevute • la scuola? • l’idoneità sportiva? • i viaggi? • la patente di guida? • il lavoro? • la sessualità? • la previdenza? 10) Ritieni che il passaggio al servizio degli adulti sia un momento di crescita personale? 11) Senti il bisogno di lasciare il servizio pediatrico per trasferirti al servizio degli adulti? 12) Hai mai pensato di passare al servizio degli adulti? Sempre Spesso Qualche volta Mai 251 Ministero della Salute Paragrafo C Questionario per la valutazione del passaggio dal servizio diabetologico pediatrico a quello degli adulti (ragazze) Molto Abbastanza Poco Per niente 1) Frequenti regolarmente il servizio pediatrico? 2 ) Ascolti e metti in pratica i consigli del pediatra? 3 ) Ti soddisfa il rapporto instaurato con l’equipe pediatrica? 4 ) Il medico che ti segue è in grado di capire i tuoi bisogni e le tue motivazioni? 5) Ritieni che nel servizio pediatrico si presti attenzione ai tuoi bisogni (orari di visita, disponibilità del personale ecc.)? 6) Sei soddisfatta delle relazioni tra la tua famiglia e il servizio pediatrico? 7) Ti preoccupa il trasferimento nel servizio di diabetologia dell’adulto? 8) Ti senti e sei stata preparata al trasferimento? 9) Sono esaurienti le informazioni che hai ricevuto riguardo: Non ne ho ricevute • la scuola? • l’idoneità sportiva? • i viaggi? • la patente di guida? • il lavoro? • la sessualità/la gravidanza? • la previdenza? 10) Ritieni che il passaggio al servizio degli adulti sia un momento di crescita personale? 11) Senti il bisogno di lasciare il servizio pediatrico per trasferirti al servizio degli adulti? 12) Hai mai pensato di passare al servizio degli adulti? 252 Sempre Spesso Qualche volta Mai Appendici Parte Seconda Paragrafo D Questionario di gradimento per la valutazione del passaggio dal servizio diabetologico pediatrico a quello degli adulti Molto Abbastanza Poco Per niente 1) Ti ha preoccupato il trasferimento nel servizio di diabetologia dell’adulto? 2) Ti eri sentito preparato al trasferimento? 3) Sei soddisfatto del servizio che frequenti ora? 4) Ti soddisfa il rapporto instaurato con l’equipe diabetologica? 5) Ritieni che nel servizio che frequenti ora si presti attenzione ai tuoi bisogni (orari di visita, disponibilità del personale ecc.) 6) Il medico che ti segue è in grado di capire i tuoi bisogni e le tue motivazioni? 7) Il tempo di attesa nel servizio è lungo? 8) Sono esaurienti le informazioni che hai ricevuto riguardo: Non ne ho ricevute • la patente di guida? • l’idoneità sportiva? • i viaggi? • la scuola? • il lavoro? • la previdenza? • la sessualità? 9) Ritieni che il passaggio al servizio degli adulti sia un momento di crescita personale? 10) Durante il tempo d’attesa hai occasione di incontrare tuoi coetanei? Sempre Spesso Qualche volta Mai 11) Hai mai pensato di tornare al servizio pediatrico? 12) Pensi che il programma del Centro che frequenti attualmente possa essere migliorato o modificato? Se sì, che cosa cambieresti? 253 Ministero della Salute Lettera al medico di famiglia Gentile Collega, desidero informarLa che il Suo assistito Signor/a __________________________ , avendo raggiunto l’età adulta, afferirà per la cura del diabete al nostro centro di diabetologia dell’adulto dell’Ospedale /Università ________________________ che prenderà in carico il paziente nell’ottica di garantire la piena continuità di cura con la struttura diabetologica pediatrica di provenienza. Il nostro centro ha dedicato ai giovani con diabete di tipo 1 uno specifico spazio ambulatoriale in cui opera un’equipe multidisciplinare (diabetologo, psicologo, dietista, infermiere professionale), con l’obiettivo di affrontare le diverse problematiche clinico-psicologiche-nutrizionali inerenti al diabete mellito in età giovanile. Il percorso assistenziale prevede, inoltre, che il paziente venga sottoposto periodicamente a esami clinico-strumentali per la valutazione delle complicanze croniche del diabete. Allego copia della Carta dei Servizi del nostro centro diabetologico e i recapiti telefonici ai quali può rivolgersi tutte le volte che lo ritiene opportuno. Sarà mia cura inviarLe periodicamente un aggiornamento sul percorso diagnostico-terapeutico del Signor/a _______________________________________________________________________ Il medico di riferimento è il Dott. __________________________________________________ I.P. di riferimento _______________________________________________________________ N. tel. _______________________________________________________________________ e-mail________________________________________________________________________ RingraziandoLa per la collaborazione, Le invio cordiali saluti Data ____________________ 254 Firma ___________________________________________ Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Appendice 6 Sintomi dell’ipoglicemia Ipoglicemia (valori di glicemia < 80 mg/dl) In presenza di un eccesso di insulino-terapia possono verificarsi malesseri ipoglicemici, diversi da un soggetto all’altro, che si ripetono nello stesso soggetto, ma sono suscettibili di variazioni nelle diverse età della vita. Ogni bambino presenterà solo alcuni di questi sintomi e il bambino stesso saprà riconoscerli e descriverli. Poiché sono sostanzialmente stabili e la variazione avviene in tempi molto lunghi, i genitori, attraverso la richiesta di intervento, specificheranno quali particolari sintomi interessano il loro bambino. I sintomi che usualmente si presentano durante l’ipoglicemia sono distinti in sintomi iniziali e tardivi. Sintomi iniziali Sintomi tardivi Mal di testa Pallore Crampi Nausea Dolori addominali Fame Ansia Irrequietezza Palpitazioni Tachicardia Sudorazione (fredda) Tremori Brividi Sensazione di caldo Sensazione di freddo Confusione Incapacità a concentrarsi Debolezza Sonnolenza Fatica Sensazione di testa vuota Sensazione di instabilità Irritabilità Variazione della personalità Difficoltà nel parlare Difficoltà nel camminare Mancanza di coordinamento muscolare Disturbi visivi (visione doppia, annebbiata) Tremori (parestesie) Convulsioni Dai sintomi iniziali, se non trattati, si passa ai sintomi tardivi per i quali si riscontra una maggiore difficoltà a far risalire la glicemia. Non è possibile indicare un valore sotto il quale si perde coscienza, in quanto questo valore varia da bambino a bambino. 255 Ministero della Salute Trattamento dell’ipoglicemia lieve-moderata 1. Individuato il sintomo: interrompere ogni attività. Se fa freddo coprirsi. Nel dubbio misurare la glicemia 2. Assumere cola o succo di frutta o caramelle fondenti alla frutta (circa 3 grammi di glucosio) Peso (kg) Succo di frutta o cola (in ml) Quantità di succo di frutta o cola nel bicchiere 10 20 30 40 50 60 70 25 50 75 100 125 150 175 Un dito Due dita scarse Due dita ½ bicchiere 2/3 di bicchiere Un bicchiere quasi pieno Un bicchiere pieno all’orlo Caramelle (n.) 1 2 3 4 5 6 7 L’utilizzo del bicchiere è molto pratico, anche se non così preciso come l’uso dei millilitri Per bicchiere s’intende un comune bicchiere da cucina di 200 ml. Le dita: quelle di un adulto 3. Attendere l’effetto; se dopo 10 minuti il sintomo non è scomparso e la glicemia non è salita ripetere l’assunzione 4. Se il pasto successivo è lontano, consolidare l’effetto con cereali e/o frutta 5. Ricordare di avvisare la famiglia dell’episodio per adeguare la terapia insulinica In caso di difficoltà nell’assumere le caramelle o il succo: a) se il bambino è cosciente e ha difficoltà a deglutire, somministrare miele liquido b) se il bambino è non cosciente o ha convulsioni, iniettare glucagone Mai dare a un soggetto privo di coscienza bevande o cibi, in quanto potrebbero essere inalati, con rischio di soffocamento o conseguente polmonite! Dopo la correzione dell’ipoglicemia: 1) astenersi dall’attività fisica fino a quando i sintomi non siano scomparsi. Attendere almeno 15 minuti prima di svolgere qualsiasi attività che richieda piena attenzione o prontezza di riflessi (esame scolastico, macchinari, guida ecc.) 2) non lasciare mai il bambino da solo dopo un episodio di ipoglicemia. L’alunno deve essere accompagnato o affidato a un adulto anche all’uscita di scuola perché, in casi eccezionali, l’episodio potrebbe ripresentarsi durante il tragitto 256 Appendici Parte Seconda Trattamento dell’ipoglicemia grave La condizione più rischiosa per la salute del bambino è ovviamente l’ipoglicemia grave, caratterizzata da stato confusionale, non orientamento nello spazio e nel tempo, da incapacità o difficoltà di deglutire (rischio di soffocamento), perdita di coscienza, stato convulsivo. Per la somministrazione del farmaco è sufficiente la presenza anche di uno solo dei sintomi descritti Questa è un’evenienza rarissima ed è sempre preceduta da altri sintomi (vedi ipoglicemia lieve-moderata) che consentono un intervento quando il soggetto è ancora cosciente Tuttavia, è bene sapere come gestire tale situazione ed è necessario predisporre un protocollo di comportamento che deve essere appreso da tutto il personale che abitualmente segue il bambino a scuola Che cosa fare 1. Se il bambino è in uno degli stati sopra descritti non spaventarsi, mantenere la calma e agire secondo una procedura di intervento preordinata: - chiamare in aiuto uno o due colleghi (uno si occupa del bambino, l’altro contatta i genitori e il personale sanitario secondo quanto stabilito dal protocollo) - evitare il panico, spiegare agli alunni che la cosa non è grave e invitarli a uscire rapidamente dall’aula; ovviamente, in precedenza si sarà stabilito dove dovranno andare e chi li prenderà in custodia - non somministrare alimenti o liquidi per bocca in stato di semi-incoscienza (rischio di soffocamento) 2. Personale sanitario a cui telefonare: - 118 (in modo da ottenere un intervento entro 2-3 minuti) - centro di diabetologia pediatrica di riferimento (telefono…..….) - eventualmente, un medico che presta la sua opera nelle vicinanze della scuola, precedentemente contattato 3. I genitori devono essere sempre avvertiti 4. I numeri di telefono saranno tenuti in evidenza nella classe e vicino al telefono Somministrazione di glucagone Alla comparsa dei sintomi sopra descritti e nel più breve tempo possibile (entro 5/10 minuti), gestire l’ipoglicemia autonomamente mediante la somministrazione del glucagone per via intramuscolare o sottocutanea (sostanza che accelera la liberazione delle riserve epatiche di glucosio). Questa terapia ristabilisce di solito un normale livello di coscienza in circa 5-10 minuti; successivamente bisogna insistere con le caramelle o con succo di frutta o cola, che assicureranno il completo ristabilimento del bambino Modalità di somministrazione 1. Dopo aver aspirato in siringa il glucagone, porre la siringa con l’ago rivolto verso l’alto per fare uscire l’aria 2. Prevedere per: - bambini di età inferiore ai 10 anni: 0,5 mg di glucagone (metà flacone) - bambini di età superiore ai 10 anni: 1 mg (flacone intero) Il dosaggio è comunque specificato sul certificato medico; ne va presa visione e scritta la dose da somministrare sul piano di emergenza della glicemia 3. Iniettare il glucagone per via sottocutanea o intramuscolare possibilmente nelle seguenti zone: - regione deltoidea (parte supero-laterale delle braccia) - regione laterale delle cosce - addome 257 Ministero della Salute Appendice 7 Piede diabetico In seguito all’analisi delle Linee guida regionali, nazionali e internazionali, viene proposta la pianificazione della sequenza logica e cronologica di tutti gli interventi assistenziali riguardanti la diagnosi e il follow-up del paziente con sospetto e diagnosi di piede diabetico. Nella pianificazione del percorso identificato si cerca di ottimizzare i processi, evitando ridondanze e prestazioni inutili e mantenendo l’obiettivo dell’appropriatezza delle prestazioni. Un esempio di percorso di riferimento adottato dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, che individua i ruoli e le responsabilità dei processi, è riportato nella Figura a pagina 257. Il percorso proposto per la cura del paziente con piede diabetico Identificazione dei soggetti a rischio 1. Screening e prevenzione attiva delle lesioni del piede. 2. Diagnosi delle lesioni in fase attiva. 3. Terapia delle lesioni in fase attiva. 4. Riabilitazione dei pazienti in fase post-ulcerativa - Ortesi e fisioterapia riabilitativa. I fattori di rischio del piede diabetico sono: • età > 65 anni; • lunga durata del diabete; 258 • vasculopatia e/o neuropatia; • deformità del piede e lesioni preulcerose; • altre complicanze del diabete: nefropatia, retinopatia; • pregressa lesione del piede; • scompenso metabolico, obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo; • scarsa igiene personale; • scarso supporto familiare. Una volta che il diabetologo ha identificato il paziente a rischio, è necessario classificarlo, e allo scopo è stata seguita l’indicazione proposta nelle Linee guida, con piccole varianti per quello che riguarda la frequenza del controllo. Sono state individuate 4 classi. Sebbene nessun sistema di stratificazione del rischio sia stato universalmente adottato per predire l’insorgenza di un’ulcera, i pazienti si possono suddividere, secondo le indicazioni dell’International Working Group of Diabetic Foot, come segue: • rischio 0: assenza di neuropatia; frequenza di valutazione annuale; • rischio 1: neuropatia; frequenza di valutazione semi-annuale; • rischio 2: neuropatia, vasculopatia e/o deformità; frequenza di valutazione trimestrale; • rischio 3: precedenti ulcere o amputazioni; frequenza di valutazione mensile o trimestrale. Appendici Parte Seconda AMMISSIONE Presa in carico presso ambulatorio del “piede diabetico” UO di Diabetologia Visita medica e impostazione diagnostica per grado di rischio (0, 1, 2, 3) Diagnostica per vasculopatia Valutazione polsi periferici Diagnostica per neuropatia diabetica DIAGNOSI Assenti o dubbi? Valutazione indice di Winsor Diabetologo Biotesiometro + Filamento Diabetologo EMG Neurologo Consulenza ortopedica Ortopedico Rx del piede Radiologo Podologo Ecocolordoppler arterioso o venoso? Chirurgia vascolare No Follow-up Diabetologo Test con vasoattivi (iloprost) Day-hospital terapeutico Diabetologia Rivascolarizzazione Radiologia interventistica/ Chirurgia vascolare Ischemia clinica? TERAPIA Precedente rivascolarizzazione Sì Esempio di percorso di diagnosi e cura del piede diabetico adottato dall’Azienda Ospedaliera Università Senese PDTA piede diabetico e integrato dal gruppo di lavoro con modelli nazionali e internazionali. Come intervenire sui fattori di rischio • Educazione (pazienti, familiari, operatori sanitari). Oltre ai pazienti, occorre educare anche i familiari e gli operatori sanitari (adeguati corsi periodici di aggiornamento da promuovere da parte del personale dell’UO di Diabetologia). È importante dare un ruolo nella prevenzione a operatori sanitari non 259 Ministero della Salute medici, quali gli infermieri professionali e i podologi, i quali, opportunamente istruiti, possono contribuire fattivamente sia alla fase istruttiva sia a quella educativa. La compilazione di una scheda finalizzata di screening del piede diabetico è uno strumento di approccio immediato che individua due categorie semplificate di pazienti – a basso e ad alto rischio – e permette di inserire il paziente in un idoneo programma di educazione sanitaria atto a svolgere la sorveglianza multidisciplinare delle recidive di ulcera. Torna anche a questo livello l’importanza della presenza di varie figure di professionisti che orbitano intorno al paziente in esame. • Utilizzo di calzature adeguate. Diagnostica per neuropatia Diagnostica per vasculopatia Lo screening periodico delle eventuali complicanze viene effettuato come segue: • per tutti i pazienti diabetici ogni 24 mesi: ecocolordoppler degli arti inferiori; • per tutti i pazienti diabetici con fattori di rischio aggiuntivo (ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo, scarse compliance) ogni 12 mesi: ecocolordoppler degli arti inferiori. Competenze e responsabilità Screening per vasculapatia → Diabetologo • Esame obiettivo. • Indice di Winsor (seppure gravato da molti limiti per il paziente diabetico). Osteoartropatia neuropatica Lo screening periodico delle eventuali complicanze viene effettuato come segue: • per tutti i pazienti diabetici ogni 24 mesi: valutazione neuropatia sensitiva, motoria e autonomia; • per tutti i pazienti diabetici con fattori di rischio aggiuntivo (ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo, scarse compliance) ogni 12 mesi: valutazione neuropatia sensitiva, motoria e autonomica. Competenze e responsabilità Diabetologo • Monofilamento di Semmes-Weinstein. • Biotesiometria. • Esame obiettivo e questionario per sintomi. Neurologo • Elettromiografia. 260 Approfondimento diagnostico → Chirurgia vascolare/radiologo interventista • Ecocolordoppler arterioso degli arti inferiori. • Consulenza specialistica. Consulenza cardiologica → Cardiologo • Valutazione del rischio cardiovascolare anche in vista di interventi successivi. • Valutazione per eventuale rivascolarizzazione miocardica in paziente affetto da arteriopatia periferica coesistente. a) Invio Radiologia Interventista/Chirurgia Vascolare: • cardiopatia ischemica: no; • arteriopatia periferica: sì (più eventuali alterazioni carotidee). b) Invio emodinamica: • cardiopatia ischemica: sì; • arteriopatia periferica: sì. Allegato Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Documento di indirizzo politico e strategico per la buona assistenza alle persone con diabete sottoscritto da Associazione Medici Diabetologi (AMD), Società Italiana di Diabetologia (SID) e Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) Questo documento nasce dalla storica collaborazione fra la diabetologia e la medicina generale iniziata negli anni Novanta e orientata a creare le condizioni necessarie per migliorare la qualità dell’assistenza alle persone con diabete integrando i diversi livelli assistenziali. L’assistenza diabetologica su tutto il territorio nazionale non può prescindere dalla presa d’atto che essa è il prodotto dell’integrazione fra assistenza sanitaria di base e specialistica, in cui sono fondamentali il riconoscimento del ruolo professionale del medico di medicina generale (MMG), cardine dell’assistenza sanitaria di base, e di quello della rete italiana dei servizi di diabetologia, ospedalieri e territoriali, più volte oggetto di studi internazionali. Discende da questa premessa la necessità prioritaria di un’adeguata allocazione di risorse per il potenziamento di questo assetto organizzativo, che sta alla base del percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale e del modello di gestione inte- grata e che si è dimostrato efficace nel ridurre morbilità, ricoveri e contenere la spesa complessiva. Indice 1. Obiettivi 2. Presupposti 3. Strumenti per migliorare l’assistenza al paziente diabetico 4. Azioni che le Società scientifiche intendono attuare per raggiungere gli obiettivi dichiarati 5. Documenti di riferimento e allegati Parole chiave Assistenza specialistica diabetologica, team multiprofessionale dedicato, cure primarie, presa in carico, stadiazione e triage del paziente diabetico, gestione integrata, misurazione dei risultati, telemedicina. 263 Ministero della Salute 1. Obiettivi • Descrivere il razionale e le motivazioni che rendono indispensabile l’alleanza strategica fra la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), l’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e la Società Italiana di Diabetologia (SID) per risolvere alcune criticità nell’assistenza alle persone con diabete. • Presentare le strategie, i ruoli e le responsabilità, i metodi e gli strumenti, che concordemente le Società scientifiche intendono condividere e utilizzare per migliorare l’assistenza alle persone con diabete. • Dichiarare gli obiettivi e i risultati professionali che le Società scientifiche intendono concordemente perseguire e raggiungere. • Dichiarare le azioni che le Società scientifiche intendono attuare per raggiungere gli obiettivi medesimi. • Condividere e realizzare gli obiettivi descritti nel documento coinvolgendo il più ampio numero di soggetti interessati alla buona assistenza alle persone con diabete. 2. Presupposti La cura delle persone con diabete, come stabilito dalla Legge 115/87, garantisce a tutti i diabetici l’assistenza specialistica diabetologica e identifica, in base all’art. 2, i servizi di diabetologia per l’erogazione delle prestazioni e dei presidi necessari, il PNP 2005-2007 e il Progetto IGEA come offerta per le Regioni di un modello per l’integrazione con l’assistenza di base. La malattia diabetica è caratterizzata da: • un’elevata prevalenza: dati recenti di studi di popolazione effettuati a Torino, Firenze, Venezia, così come l’annuario statistico Istat 2006, indicano che è diabetico il 4,5% degli 264 italiani (4,6% le donne e 4,3% gli uomini). Una recente analisi epidemiologica effettuata sugli archivi di 400 MMG ricercatori facenti parte dell’Istituto di ricerca Health Search riporta una prevalenza della malattia, nell’anno 2006, pari al 6,68% nella fascia di età maggiore di 14 anni. La previsione è di un aumento drammatico della prevalenza e quindi anche dei costi; • un’elevata incidenza: nello studio di Brunico l’incidenza di diabete di tipo 2 è del 7,6 per mille nei soggetti di 40-79 anni d’età; • un carico assistenziale importante: i dati di 120 centri specialistici italiani (Annali AMD) riportano, per quanto riguarda il diabete di tipo 1, che i primi accessi nel corso del 2007 sono stati pari all’11,3%, mentre per il diabete di tipo 2 sono stati del 16,7%. Ogni anno un numero crescente di persone con diabete si rivolge al medico di famiglia e alle strutture specialistiche, con una frequenza che è in funzione della complessità e gravità del quadro clinico; • alti costi sanitari, che sono pari a circa il 710% dei costi sanitari totali nei Paesi europei (13% USA) e in progressivo aumento (attualmente la malattia diabetica è la seconda patologia per i più alti costi diretti). I costi sono determinati dai ricoveri ospedalieri e dalle complicanze croniche: in assenza di complicanze i costi diretti sono pari a circa € 800/anno, mentre in presenza di una complicanza salgono a circa € 3000/anno (studio CODE-2. Diabetologia, 2002). L’elevata incidenza e prevalenza del diabete richiedono una profonda rivisitazione dei modelli assistenziali-gestionali, anche in considerazione della non ottimale efficacia dei modelli esistenti per quanto attiene alla prevenzione delle complicanze croniche (Vaccaro et al., 2008), che hanno un impatto significativo non solo sui costi per la gestione Allegato della malattia, ma anche sulla qualità di vita e sulla sua durata. Dati italiani dimostrano che la sinergia tra l’assistenza specialistica dei servizi di diabetologia e la medicina generale riduce del 65% i ricoveri ospedalieri del paziente diabetico (Giorda et al., 2006), triplica la probabilità che il paziente sia seguito secondo le Linee guida (Gnavi et al., 2009) e riduce significativamente la mortalità cardiovascolare (Zoppini et al., 1999). La variabilità dei diversi quadri clinici (determinati dalla combinazione dei fattori di rischio e delle complicanze in vario stadio evolutivo) determina la presenza delle persone con diabete in tutti i livelli assistenziali con i più disparati quadri clinici (dalla fase iniziale “assenza di complicanze e loro prevenzione” fino allo stadio “cura in terapia intensiva”). Vi sono, quindi, molteplici punti di erogazione delle prestazioni (ospedale, ambulatorio del MMG e del pediatra di famiglia, ambulatori specialistici) e pazienti con diverso grado di complessità, pertanto è difficile coordinare e integrare le diverse figure sanitarie (MMG e pediatra di famiglia, diabetologo, cardiologo, oculista) se non si condivide una comune base scientifica e operativa. È certamente dimostrato come le complicanze del diabete (causa degli elevati costi diretti e indiretti) siano prevenibili, o quantomeno sia possibile ridurne l’incidenza e soprattutto la gravità, attraverso un programma di interventi che comprende la diagnosi precoce, il trattamento tempestivo, lo stretto controllo del compenso metabolico e dei parametri di rischio cardiovascolare associati. Per ottenere tutto ciò è necessario un modello gestionale delle persone con diabete che realizzi i seguenti risultati: • trattamenti efficaci e tempestivi; • continuità dell’assistenza; • terapia educazionale per raggiungere la massima autogestione possibile; • follow-up sistematici secondo la gravità clinica. Devono essere perciò pianificate le seguenti attività: • educare il paziente a un’autogestione consapevole della malattia e del percorso di cura; • creare un’organizzazione dell’assistenza adeguata, diversa da quella per l’acuto (come nel chronic care model di Wagner); • stabilire una comunicazione efficace tra i diversi livelli assistenziali per realizzare concretamente la continuità assistenziale; • monitorare i processi di cura definiti dall’implementazione delle Linee guida di riferimento, realizzando banche dati cliniche e amministrative (informatiche) che permettano di seguire nel tempo il paziente. In pratica, una delle esigenze prioritarie di questo cambiamento è il superamento dell’organizzazione attuale “a compartimenti stagni”, per realizzare un modello organizzativo trasversale capace di governare l’intero processo di cura integrando al meglio le competenze e le risorse disponibili. I prevedibili vantaggi che derivano da questo sistema di cura riguardano sia i singoli professionisti sia gli Amministratori. In particolare, le strutture specialistiche diabetologiche potranno assumere un nuovo ruolo di coordinamento nella gestione manageriale della malattia diabetica più coerente con i compiti consulenziali e di 2° livello dell’assistenza; i MMG miglioreranno la comunicazione e l’integrazione con lo specialista, acquisendo professionalità e capacità operative; l’Amministratore vedrà ridotta l’inefficienza del sistema e migliorata la qualità delle cure e la soddisfazione del paziente. Saranno però i pazienti dabietici a beneficiarne maggiormente, che acquisiranno un miglioramento della qualità delle cure, una maggiore consapevolezza della malattia e dell’intero processo di cura, un migliore accesso ai servizi e, in definitiva, un miglioramento della qualità di vita. 265 Ministero della Salute 3. Strumenti per migliorare l’assistenza alle persone con diabete Per ottenere i migliori risultati possibili nella cura delle persone con diabete attraverso la forte integrazione tra i diversi punti di erogazione dell’assistenza è necessario dare concreta realizzazione ai seguenti strumenti/processi, attraverso una definizione organizzativa istituzionalizzata delle attività e dei ruoli dei servizi di diabetologia e della medicina generale. 3.1 Rendere autonoma la persona con diabete nella cura e nella gestione del percorso assistenziale. 3.2 Percorsi assistenziali condivisi. 3.3 Rete assistenziale con forte integrazione professionale e una buona comunicazione con le Associazioni di Volontariato. 3.4 Servizi di diabetologia con team multiprofessionale dedicato che prendano in carico, sempre in integrazione con il MMG, i pazienti secondo livelli diversi di intensità di cura e fungano da consulenti per i MMG. 3.5 Organizzazione dell’ambulatorio del MMG orientata alle gestione delle malattie croniche. 3.6 Sistemi di misura e di monitoraggio della qualità delle cure erogate volti al miglioramento professionale e organizzativo continuo. 3.7 Sistemi efficaci di comunicazione e di integrazione multidisciplinare. 3.8 Coinvolgimento del Distretto e delle Direzioni Sanitarie ospedaliere e presa in carico della persona con diabete attraverso la valutazione dell’intensità di cura (triage). 3.9 Rimozione degli ostacoli amministrativi che rendono difficile e/o diseguale l’accesso alle cure delle persone con diabete. 266 3.1. Rendere autonoma la persona con diabete (educazione terapeutica, empowerment ) Nella cronicità il medico controlla e cura la malattia attraverso il paziente: la terapia più avanzata e costosa può diventare poco efficace se il paziente non è coinvolto nella gestione della malattia. La persona con diabete è una risorsa ineludibile per ottenere il migliore risultato possibile. È quindi indispensabile coinvolgerla nel processo di cura attraverso: • una corretta informazione; • la formazione all’autogestione della malattia; • la condivisione del programma di cura; • la disponibilità a comunicare in modo strutturato. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, stimolare e formare i professionisti sanitari affinché essi coinvolgano, sfruttando ogni momento del processo di cura, tutte le persone con diabete nel processo di empowerment e di acquisizione di autonomia. 3.2. Percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) I PDTA, che derivano dalle Linee guida, rappresentano un metodo di lavoro sistemico e integrato, finalizzato al miglioramento della qualità dell’assistenza, in grado di produrre risultati significativi in termini di efficacia ed efficienza. L’obiettivo principale è l’appropriatezza, considerato che essa è in grado di incidere anche sull’economicità, cioè sull’utilizzo adeguato delle risorse. L’applicazione del PDTA è rappresentata da profili di cura, diversificati a seconda delle caratteristiche e delle esigenze assistenziali dei pazienti, da tradurre in piani di cura personalizzati. I pazienti vengono assistiti in funzione della complessità della malattia e del livello di autosuffi- Allegato cienza: ai gradi più bassi di complessità assistenziale le figure di riferimento più appropriate per la gestione del paziente sono i professionisti non ospedalieri e viceversa. La diversificazione delle funzioni implica profili di cura condivisi tra i differenti attori coinvolti (ospedale, specialistica ambulatoriale, assistenza primaria), ma personalizzati rispetto alle necessità di ogni paziente. Tale diversificazione deve però realizzarsi in una logica di unitarietà del disegno di sistema. Il presupposto è, infatti, che tutti i professionisti che contribuiscono all’assistenza a ogni specifico livello di complessità dei pazienti condividano una mentalità, una cultura e una strategia comune. Quest’ultima deve essere costruita nel rispetto delle specificità di ognuno, mettendo al centro il paziente e i suoi bisogni e articolando le risposte assistenziali più adeguate. Il PDTA, dunque, deve diventare parte integrante di strategie politiche di comunità (regionali, di ASL/distretto ecc.) per facilitare i processi di interazione fra tutti gli attori coinvolti nella gestione delle persone con diabete, al fine di migliorare la qualità dei servizi erogati. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere la realizzazione in ogni realtà locale di un PDTA in diabetologia sempre con il coinvolgimento dell’Amministrazione locale (Direzioni Sanitarie Ospedaliere, Distretti e ASL), prevedendo un sistema di monitoraggio con indicatori di processo ed esito. I punti di partenza per tutte le realtà devono essere gli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito (www.aemmedi.it, www.siditalia.it) e il PDTA. 3.3. Rete assistenziale La strategia terapeutica del diabete mellito necessita di un approccio sistematico che non può essere affidato a una sola tipologia di operatore della Sanità; un’organizzazione sanitaria non integrata e legata a un sistema esclusivamente basato sull’erogazione di prestazioni da strutture diverse e scollegate non è in grado di realizzare un’efficace ed efficiente cura del diabete. È pertanto necessario implementare un modello di integrazione plurispecialistico e pluriprofessionale che possa realizzare il piano di cura del singolo paziente (case management) e contemporaneamente il processo di cura della popolazione affetta dalla patologia (disease management). La verifica e il monitoraggio devono essere attuati mediante indicatori di processo e di esito, ricavabili solo da dati condivisi residenti in archivi accessibili a tutti gli attori coinvolti. È quindi necessario: • passare da un sistema basato sulla singola prestazione a richiesta a un processo di cura predeterminato e condiviso tra i diversi operatori; • passare dai “compartimenti stagni” al “network per patologia” che privilegi la continuità assistenziale e il rispetto dell’appropriatezza e cronicità dei trattamenti, per rafforzare l’aderenza e la continuità terapeutica. La persona con diabete si muove nel percorso assistenziale in funzione del proprio stato di malattia e soddisfa i bisogni di salute nei diversi livelli di cura in funzione della gravità della stessa; • passare da una medicina di attesa, quale oggi è la medicina generale e in parte la specialistica, a un sistema attivo, con registri dei pazienti e appuntamenti di ricontrollo prefissati e richiamo periodico del paziente in caso di abbandono del percorso. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere la realizzazione, in ogni realtà locale, di un network della patologia diabetica, utilizzando tutti gli strumenti descritti in questo docu- 267 Ministero della Salute mento, ma in particolare mirando a un archivio condiviso dei dati clinici sistematicamente raccolti dai diversi attori del processo di cura e a un sistema di richiamo concordato, eventualmente automatizzato, dei pazienti. 3.4. Servizio di diabetologia con team multiprofessionale dedicato L’assistenza diabetologica specialistica è svolta da un servizio di diabetologia con team multiprofessionale dedicato, formato da medici, infermieri e dietisti (integrati anche da psicologi e podologi) e permette di soddisfare le esigenze della persona con diabete. Le funzioni del team sono: • assistenziali, in rapporto ai vari livelli di intensità di cura in ambito sia territoriale sia ospedaliero; • di educazione terapeutica strutturata; • epidemiologiche (raccolta di dati clinici); • di formazione dei MMG e più in generale delle figure sanitarie coinvolte nella cura delle persone con diabete. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, sostenere nelle sedi opportune a livello sia scientifico sia politico la nascita e il sostegno economico a modelli organizzativi di servizi di diabetologia con team multiprofessionale dedicato, in grado di erogare assistenza specialistica in funzione dei diversi bisogni complessi della persona con diabete, in ambito sia ospedaliero sia territoriale. 3.5. Organizzazione dell’ambulatorio del MMG per le malattie croniche L’assunzione in carico di un paziente con patologia cronica (e il diabete mellito è una delle più complesse) esige un processo di cambiamento radicale 268 dal punto di vista sia dell’approccio clinico sia organizzativo-gestionale e ciò vale anche per il MMG. Sia che lavori in gruppo o singolarmente, è necessario che il MMG si doti di un’adeguata (sia pur non complessa) strumentazione diagnostica e che il suo modello organizzativo preveda: • l’utilizzo di sistemi informativi avanzati in grado di monitorare i percorsi diagnostico-terapeutici e migliorare l’appropriatezza assistenziale; • l’elaborazione di un piano di cura con il coinvolgimento dei pazienti e con l’utilizzo di strumenti di comunicazione routinari per il richiamo attivo degli stessi rispetto alle scadenze concordate; • una routinaria attività di audit basata su indicatori di processo ed esito derivanti da Linee guida o EBM (Evidence-Based Medicine); • il potenziamento degli strumenti di comunicazione e scambio informativo con il livello specialistico per realizzare una reale comunicazione bidirezionale; • la figura del case manager. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, sostenere nelle sedi opportune a livello sia scientifico sia politico la nascita e il sostegno economico a modelli organizzativi della medicina generale idonei a un’efficace gestione della malattia diabetica. 3.6. Sistemi di misura e di miglioramento della qualità Un metodo innovativo capace di guidare gli operatori sanitari in un percorso di miglioramento professionale continuo è quello di vedere il loro operato tradotto in indicatori di processo e di esito, offrendo loro l’opportunità di individuare i punti virtuosi, le criticità nel percorso di cura e le aree di ragionevole miglioramento. Allegato L’audit clinico è in grado di innescare il “circolo virtuoso” del miglioramento, stimolando i professionisti verso l’accountability e l’aggiornamento continuo delle conoscenze (education and training). L’analisi di report periodici consente a ciascun medico di realizzare un benchmarking. Il medico (o il team-gruppo) potrà valutare nel tempo le proprie performance, in modo da “calibrare” al meglio il comportamento futuro; in secondo luogo, egli potrà confrontare i propri risultati con quelli disponibili in letteratura. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, diffondere e far utilizzare gli indicatori elaborati da AMD e SIMG ai fini del monitoraggio della patologia diabetica e sostenere a livello locale i processi di audit e di clinical governance. molti casi sostituire la visita del paziente presso le strutture specialistiche, in particolare per pazienti difficili e/o con riduzione del livello di autonomia. Il teleconsulto può favorire una reale gestione integrata delle persone con diabete attraverso la concreta condivisione degli obiettivi di cura, migliorando l’appropriatezza di accesso presso la struttura specialistica e favorendo la risoluzione di alcune criticità nella gestione delle persone con diabete. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere nelle realtà locali, in base alle risorse disponibili, l’attivazione di strumenti tradizionali e avanzati di comunicazione tra la medicina generale e i team specialistici diabetologici. 3.8. Coinvolgimento del distretto e delle Direzioni Sanitarie Ospedaliere 3.7. Sistemi efficaci di comunicazione Per favorire un’efficace comunicazione fra team specialistico diabetologico e MMG è fondamentale promuovere al massimo ogni tipo di comunicazione fra gli operatori coinvolti, inclusi contatti telefonici, e-mail e riunioni periodiche. Deve altresì essere potenziata la diffusione di altri strumenti oggi disponibili, come sistemi di electronic health record, sistemi di comunicazione audiovisiva (sincroni e asincroni) quale per esempio il teleconsulto. È fondamentale una revisione del Nomenclatore Tariffario che valorizzi tale attività per i servizi di diabetologia. Il teleconsulto è un’innovativa modalità di interazione e comunicazione tra i MMG e il team specialistico diabetologico che consente l’analisi del “caso” attraverso la consultazione via internet della sua cartella clinica. L’analisi può avvenire on-line oppure in modalità off-line e potrebbe in Nell’attuale organizzazione delle Aziende Sanitarie, il Distretto Sanitario ha un ruolo fondamentale per la realizzazione di un sistema integrato di assistenza diabetologica, ruolo che deve essere svolto in stretta collaborazione con le strutture ospedaliere (Direzioni Sanitarie e servizi di diabetologia intraospedalieri) al fine di ridurre la frequenza e la degenza media dei ricoveri. L’ambito territoriale del Distretto consente non solo di ospitare le funzioni di care management e di supervisione del programma locale ma, soprattutto, di gestire direttamente i servizi di assistenza primaria (di medicina generale, farmaceutica, specialistica ambulatoriale extraospedaliera, residenziale, domiciliare), garantendo la necessaria continuità assistenziale. Il supervisore del programma locale o care manager ha funzioni di coordinamento per il monitoraggio sia delle attività erogate al singolo paziente, sia di quelle volte a favorire una comunicazione efficace 269 Ministero della Salute e un coordinamento fra i diversi attori (medici e altri professionisti sanitari). Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere nelle realtà locali, in base alle risorse disponibili, il coinvolgimento dei Distretti e delle Direzioni Sanitarie Ospedaliere nel processo di assistenza diabetologica per favorire l’integrazione sociosanitaria. 3.9. Presa in carico La presa in carico di una persona diabetica si può definire come: “l’accettazione e la capacità del MMG e/o del team specialistico multiprofessionale di farsi carico dell’assistenza alla persona con diabete in un determinato momento del processo di cura, sulla base delle proprie funzioni, conoscenze e ruolo, in coerenza con i PDTA locali e le raccomandazioni clinico-organizzative delle Società scientifiche”. Essa si concretizza attraverso: • il coinvolgimento attivo della persona con diabete; • la definizione del programma terapeutico, degli obiettivi e delle strategie della cura; • la programmazione del monitoraggio della malattia e dei controlli: visite ambulatoriali, esami strumentali e bioumorali, verifica dei risultati; • la disponibilità ad attivare una comunicazione efficace con gli altri operatori sanitari della rete assistenziale (anche attraverso consulti telefonici, e-mail). La presa in carico delle persone con diabete da parte di uno degli attori coinvolti presume che sia stata effettuata la stratificazione delle persone con diabete in classi crescenti di intensità di cura (triage). Le classi di intensità di cura identificate sono 7, per ognuna delle quali si possono indicare le caratteristiche cliniche, gli interventi prevedibili, la 270 prevalenza, l’attore dell’assistenza maggiormente coinvolto (responsabile della presa in carico), le interazioni, gli indicatori e gli standard per il monitoraggio (Tabella 1). Classe 1: pazienti critici e/o fragili, con complicanza e/o una situazione clinica per cui vi è un serio e grave pericolo per la vita o l’autosufficienza (es. infarto acuto, coma, intervento di bypass, sepsi, amputazione; comunque ogni situazione che comporti un ricovero ospedaliero urgente). Classe 2: pazienti che presentano una complicanza acuta in atto e che necessitano di un intervento specialistico urgente, anche in regime di ricovero, ma che non sono in immediato pericolo di vita e/o di disabilità (es. piede in gangrena, dialisi, angioplastica, grave scompenso metabolico senza coma, recente e grave episodio di ipoglicemia con perdita di coscienza ma successivo recupero, paziente diabetico ricoverato in reparto non di terapia intensiva ecc.). Classe 3: pazienti che richiedono un intervento specialistico o multidisciplinare non urgente, ma comunque indifferibile: • diabetico di nuova diagnosi per il quale è necessaria/o la definizione diagnostica e/o l’inquadramento terapeutico e/o un intervento di educazione terapeutica strutturata; • diabete in gravidanza (diabete gestazionale e gravidanza in paziente diabetica nota); • paziente con complicanza acuta in atto [es. ulcera del piede senza infezione, retinopatia proliferante (PDR), controllo metabolico molto instabile]; • pazienti diabetici da sottoporre allo screening annuale delle complicanze micro- e macrovascolari. Classe 4: pazienti diabetici con compenso metabolico instabile; non a target per i vari fattori di rischio cardiovascolare; ad alto rischio di evoluzione rapida verso una qualsiasi complicanza; pa- 1. Tempi di degenza media 2. % exitus 3. Grado residuo di disabilità 4. Incidenza di complicanze gravi 1. Incidenza di complicanze gravi 2. % guarigioni 3. % recidive 4. % ospedalizzazioni 5. Grado residuo di disabilità 6. Tempi di attesa 7. Numero rework Servizio di diabetologia • Altri specialisti con team multiprofessionale dedicato Servizio di diabetologia • Altri specialisti con team multiprofessionale dedicato Prevalenza di ulcere diabetiche: Assistenza diabetologica 0,6-0,8% di tutti diabetici complessa: day-service, (circa 20.000 persone); day-hospital, ricovero 25-50% di tutti i casi di SCA; ipoglicemia grave: 1 per diabetico tipo 1/anno; nel tipo 2 circa il 10% di quelle del tipo 1 (da 0,02 a 0,35 episodi/anno/paziente in terapia insulinica; 0,009 episodi/anno/paziente in terapia con sulfoniluree); diabetici ricoverati in ospedale per altre patologie (8-10% di tutti i ricoveri) Prevalenza di ulcere diabetiche: Assistenza diabetologica 0,6-0,8% di tutti diabetici; complessa: day-service, PDR: 23% nei pazienti con day-hospital, ricovero diabete di tipo 1 (35.000 circa in Italia), 14% nei diabetici di tipo 2 insulino-trattati e 3% nei diabetici di tipo 2 non insulino-trattati (250-300.000 complessivamente); edema maculare rispettivamente nell’11%, 15% e 4% nei gruppi sopra menzionati; 2 3 1. Tempi di degenza media 2. % di exitus 3. Grado di disabilità residuo 4. Destino dopo il ricovero (domicilio, RSA, riabilitazione) • Servizio di diabetologia con team multiprofessionale dedicato Reparto di degenza Ricovero in unità di cure intensive Dal 10% al 25% di tutti i ricoveri. La stima del 10% significa circa 1.000.000 di ricoveri/anno; in particolare, è diabetico il 25-50% dei ricoverati per sindrome coronarica acuta 1 Indicatori Interazione primaria Responsabile della presa in carico Intervento Classe Prevalenza Tabella 1 CUP ASL SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO SDO Fonte dati (continua) Variabili da registrare Allegato 271 272 • Servizio Incidenza del diabete di diabetologia di tipo 2 con team multiprofessionale dedicato Tutti i soggetti a rischio in carico al MMG non già diabetici 7 MMG Educazione sanitaria ai corretti stili di vita, screening opportunistico del diabete di tipo 2 Assistenza domiciliare 1-2 casi per MMG 6 • Servizio 1. Incidenza di ricoveri di diabetologia 2. Incidenza di ulcere con team da decubito multiprofessionale dedicato • Altri specialisti (ADI) Monitoraggio adherence e compliance ai trattamenti farmacologici e non farmacologici, follow-up sistematici, farmacovigilanza 30-50% di tutti i diabetici (1.500.000-2.500.000) 5 MMG Assistenza diabetologica complessa: day-service, day-hospital, educazione terapeutica strutturata 30-50% di tutti i diabetici (1.500.000-2.500.000) • Altri specialisti 1. Incidenza complicanze 2. Numero di rework, 3. % rientro negli obiettivi terapeutici 4. % ospedalizzazioni Indicatori MMG con Gestione Integrata con il Servizio di diabetologia (Modello IGEA) Interazione primaria • MMG • Altri specialisti Responsabile presa in carico Servizio di diabetologia con team multiprofessionale dedicato Intervento 4 neo-diagnosi: nel tipo 1 è circa 2000 casi/anno, nel tipo 2 circa 230.000 casi/anno; diabete in gravidanza: circa il 6-7% delle gravidanze Classe Prevalenza Tabella 1 (segue) MMG SDO e cartelle cliniche MMG e UD Cartella UD e diabetologica Cartella UD Fonte dati Variabili da registrare Ministero della Salute Allegato zienti che hanno avuto un evento cardiovascolare recente; piede diabetico senza ulcera. Classe 5: pazienti diabetici stabili, in buon compenso metabolico (HbA1c < 7,0%) e a target per i vari fattori di rischio cardiovascolare, senza complicanze evolutive in atto. Classe 6: pazienti diabetici caratterizzati dalla coesistenza di cronicità multiple e riduzione dell’autosufficienza (in molti casi allettati in modo permanente o prevalente). Classe 7: comprende tutta la popolazione generale sulla quale sono necessari interventi generali o specifici sullo stile di vita per ridurre il rischio di comparsa di diabete mellito di tipo 2. Comprende anche i soggetti a rischio per diabete, sui quali il MMG deve attuare interventi di screening opportunistico per la diagnosi precoce di diabete mellito di tipo 2. Le eventuali neodiagnosi rimandano alla Classe 3. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, stimolare i professionisti sanitari a un’effettiva presa in carico delle persone con diabete in base alle rispettive competenze e al proprio ruolo, dopo una stratificazione per classi di intensità di cura, avendo come punto di riferimento il programma di assistenza concordato per il singolo paziente senza eccessi e carenze non giustificate. 3.9. Rimozione degli ostacoli amministrativi che rendono diseguale l’accesso alle cure Non ci sono ragioni per cui a causa del federalismo sanitario le prestazioni e i livelli di assistenza erogati nei confronti delle persone con diabete siano diversi nelle varie Regioni. È pertanto necessario armonizzare, ove possibile, gli interventi di ciascuna Regione e Provincia Autonoma alle prestazioni minime previste nell’Accordo Stato-Regioni sui Livelli Essenziali di Assi- stenza, garantendo un’omogenea assistenza ai cittadini diabetici su tutto il territorio nazionale. È necessario che, in una logica di rigorosa appropriatezza prescrittiva, sia assicurata un’armonica distribuzione territoriale dei servizi di diabetologia atta a garantire la disponibilità di visite specialistiche (diabetologiche e legate alla cura delle complicanze) ed esami diagnostici (es. FAG, ecocolordoppler, test da sforzo per cardiopatia ischemica), sufficiente a permettere un accesso rapido e la conclusione tempestiva delle procedure diagnostico-terapeutiche necessarie ai singoli pazienti. La permanenza di alcuni farmaci nell’attuale regime prescrittivo con piano terapeutico presenta alcune criticità: i MMG, infatti, sono vincolati a prescrivere farmaci che non conoscono e per i quali manca spesso un’adeguata informazione scientifica. D’altra parte, seppure gestiti inizialmente dallo specialista, tali farmaci devono essere utilizzati anche dal MMG nel rispetto del concetto della “continuità terapeutica”, tipica delle patologie croniche. È pertanto urgente garantire ai medici di famiglia una formazione al corretto uso di quei farmaci soggetti a normativa AIFA, privilegiando l’integrazione culturale e operativa con gli specialisti. Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, sostenere a livello sia scientifico sia politico e nelle sedi opportune la rimozione degli ostacoli organizzativi e amministrativi, per un’omogenea assistenza alle persone con diabete su tutto il territorio nazionale e una formazione comune fra MMG e team specialistici diabetologici. Documenti di riferimento Giorda C, Petrelli A, Gnavi R; the Regional Board for Diabetes Care of Piemonte. The impact of secondlevel specialized care on hospitalization in persons with diabetes: a multilevel population-based study. Diabetic Med 2006; 23: 377-83 273 Ministero della Salute Gnavi R, Picariello R, Karaghisoff L, et al. Determinats of quality in diabetes care process: the population-based Torino Study. Diabetes Care 2009; 32: 1986-92 IGEA. Documento di indirizzo sulla Gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto. www.epicentro.iss.it/igea/doc_indirizzo.asp. Ultima consultazione: giugno 2011 Jönsson B; CODE-2 Advisory Board. Revealing the cost of Type II diabetes in Europe. Diabetologia 2002; 45: S5-12 Koopmanschap M; CODE-2 Advisory Board. Coping with Type II diabetes: the patient’s perspective. Diabetologia 2002; 45: S18-22 Liebl A, Neiss A, Spannheimer A, et al. Complications, co-morbidity, and blood glucose control in type 2 diabetes mellitus patients in Germany—results from the CODE-2 study. Exp Clin Endocrinol Diabetes 2002; 110: 10-6 Liebl A, Spannheimer A, Reitberger U, Görtz A. Costs of long-term complications in type 2 diabetes patients in Germany. Results of the CODE-2 Study. Med Klin (Munich) 2002; 97: 713-9 Massi-Benedetti M; CODE-2 Advisory Board. The cost of diabetes Type II in Europe: the CODE-2 Study. Diabetologia 2002; 45: S1-4 Mata M, Antoñanzas F, Tafalla M, Sanz P. The cost of type 2 diabetes in Spain: the CODE-2 study. Gac Sanit 2002; 16: 511-20 Raccomandazioni nazionali sulla gestione integrata del paziente diabetico AMD-SID-SIMG. L’Assistenza al Paziente Diabetico. Raccomandazioni Cliniche e Organizzative di AMD-SID-SIMG. Dall’Assistenza Integrata al Team Diabetologico e al Disease Management del Diabete. Il Diabete 2001; 13: 81-99 Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito. www.aemmedi.it, www.siditalia.it. Ultima consultazione: giugno 2011 Vaccaro O, Boemi M, Cavalot F, et al.; MIND-IT Study Group. The clinical reality of guidelines for primary prevention of cardiovascular disease in type 2 274 diabetes in Italy. Atherosclerosis 2008; 198: 396-402 Williams R, Van Gaal L, Lucioni C; CODE-2 Advisory Board. Assessing the impact of complications on the costs of Type II diabetes. Diabetologia 2002; 45: S13-7 Zoppini G, Verlato G, Bonora E, Muggeo M. Attending the diabetes center is associated with reduced cardiovascular mortality in type 2 diabetic patients: the Verona Diabetes Study. Diabetes Metab Res Rev 1999; 15: 170-4 Azioni che le Società scientifiche intendono attuare per raggiungere gli obiettivi e le strategie dichiarate • Diffusione ampia del documento con tutti i mezzi disponibili (conferenza stampa, riviste societarie, consegna brevi manu agli Amministratori locali, congressi ecc.). • Audizione in Commissione Sanità al Parlamento e Conferenza Stato-Regioni per presentare il documento di indirizzo. • Presentazione del documento di indirizzo agli Assessorati alla Salute e alle Direzioni Aziendali da parte di delegazioni locali di diabetologi e MMG. • Promuovere in ogni Regione e/o Azienda Sanitaria Locale l’analisi del rapporto tra MMG e personale dei servizi di diabetologia con adeguamento delle strutture e degli operatori in caso di carenze. • Art. 5 della Legge 115/87, parametri risorse popolazione/incidenza diabete. • Versione short degli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito. • Inserimento di queste proposte operative e degli Standard Short nei piani formativi regionali IGEA laddove esistono, oppure iniziative autogestite dalle Società scientifiche dirette a diabetologi e MMG. • Progetto pilota sulle modalità per far confluire Allegato in un archivio condiviso i dati clinici sistematicamente raccolti dai diversi attori del processo di cura. • Progetto pilota sull’utilizzo del teleconsulto in diabetologia. • Progetto pilota su efficacia/utilità del care/case manager in diabetologia. • Studio pilota su attività dell’infermiere di stu- dio in medicina generale sulla prevenzione del piede diabetico. • Workshop tra MMG e diabetologici per discutere delle strategie comuni. • Studi di monitoraggio su nuovi farmaci per la cura del diabete in ambito di modelli di gestione integrata con prescrizione, vincolata da nota di appropriatezza, paritetica tra MMG. 275 Ministero della Salute n. 10, luglio-agosto 2011 Bibliografia matic Review of Laparoscopic Adjustable Gastric Banding for the Treatment of Obesity (Update and re-appraisal), 2002. 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