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Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la
ISSN 2038-5293
10
n. 10, luglio-agosto 2011
Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica
e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia
dell’obesità e del diabete mellito
n. 10, luglio-agosto 2011
Ministro d e lla S a lut e : Fe r r uccio Fa zio
Direttore S cie nt ifico: Gio v a nni S imo ne t t i
Direttore Re sp o nsa b ile: Pa o lo Ca so la r i
Direttore E d it o r ia le : D a nie la Ro d o r ig o
Vicedirettore esecutivo: Ennio Di Paolo
Comitato d i D ire zio ne
Francesca Basilico (con funzioni di coordinamento); Massimo Aquili (Direttore Ufficio V Direzione Generale Comunicazione e Relazioni Istituzionali);
Francesco Bevere (Direttore Generale Programmazione Sanitaria, Livelli di Assistenza e Principi Etici di Sistema); Silvio Borrello (Direttore Generale
Sicurezza degli Alimenti e della Nutrizione); Massimo Casciello (Direttore Generale Ricerca Scientifica e Tecnologica); Giuseppe Celotto (Direttore
Generale Personale, Organizzazione e Bilancio); Gaetana Ferri (Direttore Generale Sanità Animale e del Farmaco Veterinario); Giovanni Leonardi
(Direttore Generale Risorse Umane e Professioni Sanitarie); Romano Marabelli (Capo Dipartimento Sanità Pubblica Veterinaria, Nutrizione e Sicurezza
degli Alimenti ); Marcella Marletta (Direttore Generale Farmaci e Dispositivi Medici); Concetta Mirisola (Segretario Generale del Consiglio Superiore
di Sanità); Fabrizio Oleari (Capo Dipartimento Prevenzione e Comunicazione ); Filippo Palumbo (Capo Dipartimento Qualità); Daniela Rodorigo
(Direttore Generale della Comunicazione e Relazioni Istituzionali); Giuseppe Ruocco (Direttore Generale Rapporti con l’Unione Europea e Rapporti
Internazionali ); Francesco Schiavone (Direttore Ufficio II Direzione Generale Comunicazione e Relazioni Istituzionali); Rossana Ugenti (Direttore
Generale Sistema Informativo); Giuseppe Viggiano (Direttore Generale Rappresentante del Ministero presso la SISAC)
Comitato S cie nt ifico
Giampaolo Biti (Direttore del Dipartimento di Oncologia e Radioterapia dell'Università di Firenze); Alessandro Boccanelli (Direttore del Dipartimento
dell’Apparato Cardiocircolatorio dell’Azienda Ospedaliera S. Giovanni Addolorata – Roma); Lucio Capurso (Direttore Generale degli Istituti Fisioterapici
Ospitalieri – Roma); Francesco Cognetti (Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena Irccs – Roma);
Alessandro Del Maschio (Direttore del Dipartimento di Radiologia delI’Ospedale San Raffaele Irccs – Milano); Vincenzo Denaro (Preside delIa Facoltà
di Medicina e Chirurgia e Responsabile delI’Unità Operativa Ortopedia e Traumatologia del Policlinico Universitario Campus Biomedico – Roma); Massimo
Fini (Direttore Scientifico delI’Irccs S. Raffaele Pisana – Roma); Enrico Garaci (Presidente delI’Istituto Superiore di Sanità – Roma); Enrico Gherlone
(Direttore del Servizio di Odontoiatria delI’Ospedale San Raffaele Irccs – Milano); Maria Carla Gilardi (Ordinario di Bioingegneria Elettronica
e Informatica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia delI’Università di Milano – Bicocca); Renato Lauro (Rettore dell’Università Tor Vergata – Roma);
Gian Luigi Lenzi (Ordinario di Clinica Neurologica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia delI’Università la Sapienza – Roma); Francesco Antonio
Manzoli (Direttore Scientifico delI’Istituto Ortopedico Rizzoli – Bologna); Attilio Maseri (Presidente delIa Fondazione “Per il Tuo cuore - Heart Care
Foundation Onlus” per la Lotta alle Malattie Cardiovascolari – Firenze); Maria Cristina Messa (Ordinario del Dipartimento di Scienze Chirurgiche presso
la Facoltà di Medicina e Chirurgia delI’Università di Milano – Bicocca); Sergio Ortolani (Coordinatore dell’Unità di Malattie del Metabolismo Osseo e
Reumatologia – Irccs Istituto Auxologico Italiano – Milano); Roberto Passariello (Direttore dell’Istituto di Radiologia – Università La Sapienza – Roma);
Antonio Rotondo (Direttore del Dipartimento di Diagnostica per Immagini – 2a Università di Napoli); Armando Santoro (Direttore del Dipartimento
di Oncologia Medica ed Ematologia – Irccs Istituto Clinico Humanitas – Rozzano, Mi); Antonio Emilio Scala (Preside delIa Facoltà di Medicina e
Chirurgia dell’Università Vita/Salute San Raffaele – Milano); Giovanni Simonetti (Direttore del Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Imaging
Molecolare, Radioterapia e Radiologia Interventistica del Policlinico Universitario Tor Vergata – Roma); Alberto Zangrillo (Ordinario di Anestesiologia e
Rianimazione dell’Università Vita/Salute San Raffaele e Direttore dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Cardiochirurgica dell’Ospedale San Raffaele Irccs – Milano)
Comitato d i Re d a zio ne
Simonetta Antonelli, Massimo Ausanio, Carla Capitani, Amelia Frattali, Francesca Furiozzi, Milena Maccarini, Carmela Paolillo, Alida Pitzulu,
Claudia Spicola (Direzione Generale della Comunicazione e Relazioni Istituzionali del Ministero della Salute), Antonietta Pensiero (Direzione Generale
Personale, Organizzazione e Bilancio del Ministero della Salute)
Quaderni del Ministero della Salute
© 2011 - Testata di proprietà del Ministero della Salute
A cura della Direzione Generale Comunicazione e Relazioni Istituzionali
Viale Ribotta 5 - 00144 Roma - www.salute.gov.it
Consulenza editoriale e grafica: Wolters Kluwer Health Italy S.r.l.
Stampa: Poligrafico dello Stato
Registrato dal Tribunale di Roma - Sezione per la Stampa e l'Informazione - al n. 82/2010 del Registro con Decreto del 16 marzo 2010
ISSN 2038-5293
Pubblicazione fuori commercio
Tutti i diritti sono riservati, compresi quelli di traduzione in altre lingue. Nessuna parte di questa pubblicazione potrà essere riprodotta o trasmessa in
qualsiasi forma o per mezzo di apparecchiature elettroniche o meccaniche, compresi fotocopiatura, registrazione o sistemi di archiviazione di informazioni,
senza il permesso scritto da parte dell’Editore
Le ragioni di una scelta e gli obiettivi
Perché nascono i Quaderni
U
niformare e fissare, nel tempo e nella memoria, i criteri di appropriatezza del nostro Sistema salute.
È l’ambizioso progetto-obiettivo dei Quaderni del Ministero della Salute, la
nuova pubblicazione bimestrale edita dal dicastero e fortemente voluta dal
Ministro Ferruccio Fazio per promuovere un processo di armonizzazione
nella definizione degli indirizzi guida che nascono, si sviluppano e procedono nelle diverse articolazioni del Ministero.
I temi trattati, numero per numero, con taglio monografico, affronteranno
i campi e le competenze più importanti, ove sia da ricercare e conseguire la
definizione di standard comuni di lavoro.
La novità è nel metodo, inclusivo e olistico, che addensa e unifica i diversi
contributi provenienti da organi distinti e consente quindi una verifica
unica del criterio, adattabile volta per volta alla communis res. La forma
dunque diventa sostanza, a beneficio di tutti e ciò che è sciolto ora coagula.
Ogni monografia della nuova collana è curata e stilata da un ristretto e identificato Gruppo di Lavoro, responsabile della qualità e dell’efficacia degli
studi. Garante dell’elaborazione complessiva è, insieme al Ministro, il prestigio dei Comitati di Direzione e Scientifico.
Alla pubblicazione è affiancata anche una versione telematica integrale sfogliabile in rete ed edita sul portale internet del Ministero www.salute.gov.it;
qui è possibile il costante approfondimento dei temi trattati grazie alla semplicità del sistema di ricerca e alla scaricabilità dei prodotti editoriali; tra
questi spiccano le risultanze dei pubblici convegni mirati che, volta per
volta, accompagnano l’uscita delle monografie nell’incontro con le articolazioni territoriali del nostro qualificato Sistema salute.
Non ultimo, il profilo assegnato alla Rivista, riconoscibile dall’assenza di
paternità del singolo elaborato, che testimonia la volontà di privilegiare,
sempre e comunque, la sintesi di sistema.
Paolo Casolari
Direttore Responsabile
Giovanni Simonetti
Direttore Scientifico
10
Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica
e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia
dell’obesità e del diabete mellito
GRUPPO DI LAVORO
Francesco Bevere, Francesco Dotta, Alba Fava, Sandro Gentile, Davide Lauro,
Renato Lauro, Piero Marchetti, Fabrizio Oleari, Filippo Palumbo, Paola Pisanti,
Gabriele Riccardi, Paolo Sbraccia, Giovanni Simonetti
ISSN 2038-5293
10
n. 10, luglio-agosto 2011
Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica
e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia
dell’obesità e del diabete mellito
Appropriatezza clinica,
strutturale, tecnologica
e operativa per la prevenzione,
diagnosi e terapia dell’obesità
e del diabete mellito
Indice
Prefazione
pag.
IX
Foreword
pag.
XII
Premessa
pag.
XV
Introduction
pag. XIX
Sintesi dei contributi
pag. XXIII
Abstract
pag.
XL
Parte Prima – Appropriatezza clinica, strutturale,
tecnologica e operativa per la prevenzione, la diagnosi
e la terapia dell’obesità
pag.
1
1.
Definizione di obesità
pag.
3
2.
La situazione attuale
pag.
5
3.
Appropriatezza clinica
pag.
21
4.
Appropriatezza strutturale e tecnologica
pag.
25
5.
Appropriatezza operativa
pag.
49
6.
Indicatori e standard: definizioni e tipologie
pag.
63
7.
La valutazione degli indicatori di processo e outcome
per confermare la validità della proposta operativa
pag.
67
8.
Individuazione di strategie di implementazione
delle Raccomandazioni
pag.
95
Parte Seconda – Appropriatezza clinica, strutturale,
tecnologica e operativa per la prevenzione, la diagnosi
e la terapia del diabete
pag.
99
9.
pag. 101
Classificazione e definizione di diabete mellito
10. La situazione attuale
pag. 105
11. Appropriatezza clinica
pag. 117
12. Appropriatezza strutturale
pag. 133
13. Appropriatezza tecnologica
pag. 147
14. Appropriatezza operativa
pag. 175
15. Situazioni particolari
pag. 195
16. Definizione di standard
pag. 225
17. La valutazione degli indicatori di processo e outcome
per confermare la validità della proposta operativa
pag. 227
18. Individuazione di strategie di implementazione
delle Raccomandazioni
pag. 231
19. Il ruolo delle Associazioni
pag. 235
Appendici Parte Seconda
pag. 237
Allegato
pag. 261
Bibliografia
pag. 277
Ministero della Salute
Prefazione
S
ebbene esistano diversi tipi di diabete, è indubbio che la diffusione mondiale
di questa condizione patologica interessa quasi esclusivamente il cosiddetto
tipo 2 ed è strettamente legata all’altrettanto allarmante epidemia di obesità.
Questa è la ragione principale per la quale il Ministero della Salute ha deciso
di pubblicare un unico Quaderno che affronti congiuntamente i criteri di appropriatezza per la prevenzione, diagnosi e cura di obesità e diabete.
Le proiezioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mostrano
che, per il 2015, gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi e gli obesi
più di 700 milioni. Parallelamente, la prevalenza del diabete arriverà fino al
6,3% nel 2025, coinvolgendo 333 milioni di persone in tutto il mondo. L’OMS
ha quindi inserito il diabete tra le patologie croniche su cui maggiormente investire per la prevenzione. In Italia l’allungamento della vita media e il cambiamento dello stile di vita (sedentarietà, obesità) sono in larga parte
responsabili dell’aumento atteso nella prevalenza del diabete di tipo 2. In effetti,
l’incremento più rilevante è stato registrato negli anziani (età > 65 anni), che
attualmente rappresentano i due terzi della popolazione diabetica italiana; in
questa fascia di età la prevalenza è pari al 14%.
È evidente che in assenza di iniziative volte alla prevenzione dell’obesità e del
diabete e all’ottimizzazione dell’assistenza per le persone con obesità e diabete,
le risorse disponibili in termini sia umani sia economici potrebbero, presto, non
essere più sufficienti a garantire le cure più adeguate. Infine, l’enorme peso clinico e sociale di obesità e diabete si traducono in un altrettanto drammatico
impatto economico. È su tali basi che, il 20 dicembre 2006 in occasione della
Giornata mondiale del diabete, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha
approvato una risoluzione sulla minaccia rappresentata dall’attuale diffusione
globale di diabete, nella quale, tra l’altro, si incoraggiano gli Stati membri a
impegnarsi in politiche nazionali volte alla prevenzione, al trattamento e alla
cura del diabete.
Questo Quaderno testimonia, da un lato, la piena consapevolezza del Ministero
della Salute dell’estrema rilevanza della tematica e, dall’altro, l’intenzione di
IX
Ministero della Salute
fornire gli elementi necessari a definire i criteri di appropriatezza (clinica, strutturale, tecnologica e operativa) per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità
e del diabete.
In linea con quanto enunciato dal Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in
progress), questo documento, partendo dalla situazione attuale, delinea i rapporti
tra medicina primaria e centri specialistici territoriali e ospedalieri; indica i modelli organizzativi per la gestione integrata del follow-up (chronic care model)
e i criteri di appropriatezza dell’equipe multidisciplinare e del setting di cura.
Particolare attenzione è data al ruolo dell’“Health Technology Assessment”
come strumento di analisi delle evidenze disponibili sul trattamento dell’obesità
e del diabete. Nell’ottica di fornire i riferimenti a cui puntare per ottenere la migliore efficacia terapeutica e assistenziale, vengono segnalati gli indicatori di processo e di risultato intermedio e gli indicatori di esito. Non mancano, infine, precisi
riferimenti per l’individuazione di strategie di implementazione delle raccomandazioni. Merita infine sottolineare che, nella parte dedicata al diabete (che ovviamente affronta le problematiche legate al tipo 1 e al tipo 2 indipendentemente
dalla loro differente prevalenza), uno spazio non trascurabile è dedicato all’automonitoraggio glicemico domiciliare, alla terapia insulinica sottocutanea continuativa tramite microinfusore, alla telemedicina, al trapianto di pancreas e, non
ultimo, all’educazione terapeutica.
Destinatari principali di questo documento sono tutte le Autorità Regionali che
a vario titolo si occupano di assistenza: Assessorati Regionali, Provinciali e Comunali. Ma anche Direttori Generali, Direttori Sanitari e imprenditori di sanità. In tal senso, vengono anche fornite precise indicazioni circa i requisiti
strutturali e organizzativi dei servizi specialistici territoriali e ospedalieri. Tuttavia, le informazioni e i dati contenuti in questo Quaderno potranno essere
utili anche a diabetologi, internisti e medici di medicina generale. Questi ultimi
vi troveranno utili riferimenti al loro ruolo, nell’ambito di programmi di gestione integrata, specie delle persone con diabete.
Inevitabilmente le due parti, obesità e diabete, sono state declinate in modo
differente; se infatti per il diabete esistono strumenti legislativi ad hoc, come la
Legge 115/87 “Disposizioni per la prevenzione e la cura del diabete mellito”,
che rappresenta certamente una conquista civile e giuridica, per l’obesità il con-
X
Prefazione
cetto di “assistenza dedicata” presso centri specializzati e organizzati in rete non
è stato mai riportato a livello di provvedimenti legislativi nazionali o regionali,
ma solo come documento di indirizzo in alcune Regioni per la definizione del
percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti. Ciò è probabilmente legato
a criticità “storiche” nella gestione del paziente obeso; infatti, l’obesità non è
mai stata considerata una vera e propria entità patologica e conseguentemente
non è stata mai delineata la figura dell’esperto nella cura dell’obesità. Il “percorso
assistenziale” più frequente è quello del medico di medicina generale (ma anche
dello specialista) che invia il paziente per una visita dietologica. Infine, l’assenza
di precisi modelli assistenziali ha favorito la presenza di “realtà monovalenti”,
dedicate cioè all’utilizzo prevalente, quando non esclusivo, di una delle varie
opzioni terapeutiche; questa situazione ha contribuito, insieme alle oggettive
difficoltà di trattamento dell’obesità, al proliferare di sedicenti “centri dimagranti”, che tanto danno fanno e continuano a fare. In tal senso, in questo Quaderno vengono indicati modelli di gestione globale del paziente, in particolar
modo del paziente affetto da grande obesità, in “aree/strutture dedicate” da
parte di equipe multidisciplinari specializzate. La concentrazione dell’assistenza, in relazione alla diversa criticità del paziente, in centri di eccellenza
con l’invio dei pazienti ai centri periferici in relazione alla prosecuzione/integrazione del percorso terapeutico/riabilitativo è stata strutturata secondo il modello “Hub & Spoke”.
Prof. Ferruccio Fazio
Ministro della Salute
XI
Ministero della Salute
Foreword
A
lthough there are several types of diabetes, the world spread of this disease
almost exclusively involves type 2 diabetes and is closely related to the
equally alarming epidemic of obesity. This is why the Italian Ministry of Health
has decided to publish a single Quaderno treating together the appropriateness
criteria for the prevention, diagnosis and treatment of diabetes and obesity.
According to the projections of the World Health Organization (WHO), by
2015 the number of overweight adults will reach about 2.3 billion, and that
of obese people will be over 700 million. At the same time, the prevalence of
diabetes will touch 6.3% in 2025, with more than 333 million people affected
worldwide. Diabetes has therefore been classified by the WHO among the
chronic diseases that warrant the highest investments for prevention. In Italy,
increased mean life expectancy and life style changes (physical inactivity, obesity)
are largely responsible for the expected rise in the prevalence of type 2 diabetes.
The most relevant increase was indeed observed among elderly people (> 65
years old) who currently make up two-thirds of the Italian diabetic population;
in this age group the prevalence is 14%.
Clearly, without initiatives to prevent obesity and diabetes and to optimize the
management of obese and diabetic people, the available resources, both human
and economic, may be soon insufficient for ensuring the best care. The huge
clinical and social burden of obesity and diabetes translates into an equally
dramatic economic impact. Based on these facts, on 20 December 2006 in
occasion of the World Diabetes Day, the General Assembly of the United Nations
passed a resolution that recognizes the current spread of diabetes as a serious
global health threat. The resolution also encourages UN Member States to adopt
national policies for the prevention, management and treatment of diabetes.
The present Quaderno testifies to the Ministry of Health’s full awareness of the
extreme relevance of the issue, as well as the intention to provide all the elements
necessary to define the appropriateness criteria (clinical, structural, technological
and operational) for prevention, diagnosis and treatment of obesity and diabetes.
In line with the content of the Piano Sanitario Nazionale 2011-2013, this
XII
Foreword
document outlines the relationship between primary medicine and hospital,
community and specialized centres, based on the current situation; it indicates
organizational models for the integrated management of the follow-up (chronic
care model) and the criteria of appropriateness of the multidisciplinary team
and setting of care. Particular attention is given to the role of the Health
Technology Assessment as a tool for analyzing the available evidence on the
treatment of obesity and diabetes. With the objective of providing targets for
achieving the best therapeutic and management efficacy, the document mentions
the process-, the intermediate outcome-, and the outcome-indicators. Also given
are suggestions on how to follow the recommendations. Finally, it is noteworthy
that the section on diabetes (in which both type 1 and type 2 diabetes are
discussed regardless of their different prevalence) is largely dedicated to blood
glucose self-monitoring at home, to continuous subcutaneous insulin infusion
therapy, to telemedicine, to pancreas transplantation and, not least, to
therapeutic education.
This document is addressed primarily to Italian healthcare Regional Authorities:
Assessorati Regionali, Provinciali and Comunali (regional, provincial and
municipal health departments), but also to general and medical directors and
to healthcare entrepreneurs. In this context, precise indications are provided
regarding the structural and organization requirements of community and
hospital specialized services. However, the information and the data contained
in this Quaderno will be useful also for diabetologists, internists and general
practitioners. General practicioners will find useful information on their role
within programs of integrated management, particularly for diabetic patients.
The two parts – diabetes and obesity – were necessarily treated in different ways;
while for diabetes a number of ad hoc legal tools are available, including Legge
115/87 “Disposizioni per la prevenzione e la cura del diabete mellito”
(regulations for the prevention and management of diabetes mellitus), which is
no doubt an important civil and legal breakthrough, for obesity the concept of
“dedicated care” at specialized centres organized as a network has never been
considered, nationally or regionally, from the legal point of view, with the
exception of a guideline document issued by some Regions and indicating the
pathway of care for this type of patient. This is probably due to “historical”
XIII
Ministero della Salute
reasons related to the management of obese patients. In fact, obesity has never
been considered, so far, as a true disease entity and consequently the role of the
obesity expert has never been outlined. According to the most common “pathway
of care” the patient is directed to the dietitian by the general practitioner (and
by the specialist as well). Finally, the lack of precise care models has favored
approaches that use predominantly, if not exclusively, only one of the various
therapeutic options available. This situation, along with the objective difficulty
posed by the treatment of obesity, has contributed to the proliferation of so called
“diet centres”, which still cause extensive harm. In this respect, the present
Quaderno suggests models for the comprehensive management of patients, in
particular of those with major obesity, in “dedicated centres” by a specialized
multidisciplinary team. Care has been concentrated in centres of excellence,
according to patient needs, and patients have been referred to peripheral centres
for the continuation/integration of the therapeutic/rehabilitation pathway based
on the Hub & Spoke model.
Prof. Ferruccio Fazio
Minister of Health
XIV
Ministero della Salute
Premessa
Il concetto di appropriatezza e le finalità del documento
Il Servizio Sanitario Nazionale garantisce la tutela della salute dei cittadini,
e pertanto lo Stato e le Regioni dedicano una parte consistente delle risorse
pubbliche per realizzare e mantenere i servizi, le attività e le prestazioni che
contribuiscono al conseguimento di tale obiettivo, unitamente a interventi
indiretti verso altri fattori importanti, come i comportamenti dei singoli
cittadini.
In tale situazione, di particolare importanza è il concetto di appropriatezza,
stante esprimere la misura dell’adeguatezza delle azioni intraprese per trattare uno specifico stato patologico, secondo criteri di efficacia ed efficienza
che coniugano l’aspetto sanitario a quello economico. Con l’appropriatezza,
quindi, si valutano insieme gli standard clinici e quelli economici, con l’intento di individuare gli interventi nell’ambito di criteri il più possibile certi.
Si tratta evidentemente di un concetto dinamico, condizionato dall’evoluzione della domanda (a sua volta legata al modificarsi, per esempio, del profilo delle patologie note, al comparire di malattie nuove, al progresso
tecnologico) e dalla variabilità della disponibilità della spesa sanitaria, soggetta alle mutazioni dell’economia mondiale e nazionale.
Il significato di appropriatezza ha rappresentato il filo conduttore dei principali documenti di programmazione sanitaria: dal Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000, PSN 2006-2008, PSN 2011-2013 (in progress)
attraverso il DL 229/99, il PSN 2003-2005 e la normativa sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), dove si legge che “le prestazioni che fanno
parte dell’assistenza erogata non possono essere considerate essenziali, se
non sono appropriate”. In generale, si può affermare che un intervento sanitario è appropriato quando è di efficacia provata da variabili livelli di evidenza, è prescritto appropriatamente al paziente, nel momento giusto e per
un’adeguata durata, e gli effetti sfavorevoli sono accettabili rispetto ai be-
XV
Ministero della Salute
nefici. L’appropriatezza professionale deve inoltre, come visto in precedenza,
coniugarsi a un’appropriatezza organizzativa, intesa come utilizzazione della
giusta quantità di risorse professionali e logistiche, inclusi le componenti
tecnologiche, gli adeguati indicatori qualitativi e quantitativi e gli strumenti
per la formazione. In altre parole, l’appropriatezza professionale (o clinica)
garantisce che i benefici per il paziente superino significativamente gli eventuali rischi o svantaggi, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili. A
sua volta, l’appropriatezza organizzativa consente che le modalità di erogazione della prestazione (es. ambulatoriale o ricovero diurno o ordinario)
utilizzino il giusto e l’adeguato impiego di risorse professionali ed economiche, a parità di sicurezza ed efficacia terapeutica.
L’appropriatezza clinica, professionale e organizzativa sono elementi che finiscono per influenzarsi reciprocamente.
Il concetto di appropriatezza è pertanto di fondamentale importanza, tant’è
che soltanto quando le prestazioni sanitarie soddisfano tale principio esse
sono incluse nei LEA, e quindi a carico del Servizio Sanitario Nazionale.
Infatti, nell’individuazione dei LEA si è fatto riferimento al principio dell’efficacia e dell’appropriatezza degli interventi, principio dell’efficienza e
dell’equità.
A livello operativo questi concetti si rendono concreti nello sviluppo di un
vero governo clinico che renda i professionisti responsabili e partecipi al
processo, all’interno di sistemi di eccellenza.
Molti e tra loro interconnessi sono i determinanti dell’appropriatezza, tra
cui la formazione, la gestione del rischio, l’audit, la medicina basata sull’evidenza (EBM ed EBHC), le linee guida cliniche e i percorsi assistenziali,
la gestione dei reclami e dei contenziosi, la comunicazione e gestione della
documentazione, la ricerca e lo sviluppo, la valutazione degli esiti, la collaborazione multidisciplinare, il coinvolgimento dei pazienti, l’informazione
corretta e trasparente e la gestione del personale.
Nel nostro sistema sanitario, che tiene conto, oltre che dell’universalità,
anche dell’equità delle prestazioni, ancora di più diventa necessaria l’implementazione dell’appropriatezza, che diventa l’elemento inderogabile per
realizzare l’una e l’altra.
XVI
Premessa
Alla luce di queste considerazioni, il presente documento intende:
• dare agli operatori e ai decisori istituzionali conoscenze aggiornate sulle
tematiche in oggetto;
• fornire gli strumenti affinché le scelte organizzative e i comportamenti
professionali siano omogenei;
• individuare percorsi integrati e condivisi per un appropriato uso delle risorse disponibili.
Questo per consentire che il cittadino ottenga un inquadramento clinico
precoce con tempestivo e continuo controllo della condizione clinica e delle
complicanze, basato su protocolli definiti e condivisi da tutta la classe medica.
Il Quaderno fornisce anche indicazioni sui percorsi di cura, evidenziando
l’importanza del territorio quale luogo di analisi dei bisogni e dell’integrazione tra vari livelli di assistenza, con la centralità del paziente.
Inoltre, si è inteso approfondire la parte che si riferisce all’appropriatezza
tecnologica per evidenziare la necessità che gli operatori siano preparati a
un confronto con nuovi strumenti e procedure di alto livello tecnologico.
Infatti, al corretto utilizzo della strumentazione è necessario abbinare un
valido apprendimento e un utilizzo di competenze che rafforzino la relazione tra il sanitario e il paziente, attraverso un’azione concordata tra i bisogni di cura e quelli della persona.
Le finalità del Quaderno sono in linea con il contesto istituzionale e normativo attuale, caratterizzato dalla modifica del titolo V della Costituzione,
mediante il quale il Governo centrale si trasforma da una funzione preminente di organizzatore e gestore di servizi a quella di garante dell’equità sul
territorio nazionale, e l’individuazione dei LEA con il DPCM del 29 novembre 2001 e successive integrazioni.
Il legislatore costituzionale ha posto con grande chiarezza in capo allo Stato
“la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante
un forte sistema di garanzie attraverso i livelli di assistenza”, affidando al
tempo stesso alle Regioni la diretta responsabilità della realizzazione del governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese.
Alla base di questa scelta vi è il principio di sussidiarietà costituzionale, che
XVII
Ministero della Salute
vede la necessità di porre le decisioni il più possibile vicino al luogo dove
nasce il bisogno e quindi al cittadino e alla comunità locale.
L’introduzione dei LEA costituisce l’avvio di una nuova fase per la tutela
sanitaria: garantire ai cittadini un servizio sanitario omogeneo in termini
di qualità e quantità delle prestazioni erogate, dotandosi contemporaneamente di uno strumento di governo dell’assistenza.
Infine, le indicazioni contenute nel Quaderno hanno l’obiettivo di implementare a livello locale, sia per la persona con diabete sia per quella con obesità, il principio di uniformità, articolato all’interno del federalismo sanitario,
e di indicare, attraverso la definizione delle appropriatezze cliniche, strutturali e operative, gli strumenti per una corretta razionalizzazione delle risorse,
con una sinergia e condivisione d’intenti nel rispetto delle competenze.
XVIII
Ministero della Salute
Introduction
The concept of appropriateness and aims of the document
The Servizio Sanitario Nazionale (SNN, Italian national health service)
guarantees the protection of public health. As a consequence, State and Regions dedicate a substantial part of their resources to the creation and maintenance of services, activities and performances that contribute to the
achievement of this objective, along with indirect interventions on other
important factors, including the behaviour of individual citizens.
In such a context, the concept of appropriateness which defines how adequate the applied interventions are for the treatment of a specific pathological condition, according to criteria of efficacy and effectiveness that combine
medical and economic issues, is extremely important. Therefore, by means
of the appropriateness, clinical standards are assessed along with economic
standards, so as to identify interventions that satisfy the most robust criteria.
This is no doubt a dynamic concept, influenced by an evolving demand
(which in turn depends on the changes in the profile of known diseases, on
the appearance of new diseases, or on technological progresses) and by the
variability, arising from changes in global and national economies, of the resources available for covering healthcare costs.
The definition of appropriateness was the underlying theme of the most
important documents of healthcare planning: from the Piano Sanitario
Nazionale (PSN) 1998-2000, PSN 2006-2008, PSN 2011-2013 (in
progress) to DL 229/99, PSN 2003-2005 and the legislation on the Livelli
Essenziali di Assistenza (LEAs, essential levels of care), which states that “interventions belonging to the healthcare service provided can not be considered essential if they are not appropriate”. In general, a healthcare
intervention is appropriate when its efficacy is proven at various levels of
evidence, when it is appropriately prescribed, at the right moment and for
an adequate duration, and when the adverse effects are acceptable and
XIX
Ministero della Salute
counterbalanced by the benefit. As we have seen earlier, professional appropriateness should be combined with organizational appropriateness, to
be intended as the correct use of professional and logistic resources, including technological components, adequate qualitative and quantitative indicators and training tools. In other words, professional (or clinical)
appropriateness ensures that the benefits for the patient are significantly
superior to potential risks or disadvantages, based on the available scientific
evidence. In turn, the organizational appropriateness makes sure that services (e.g. out patient or day hospital o regular hospitalization) are allocated
according to the proper and adequate use of professional and economic resources, provided safety and efficacy are equivalent.
Clinical, professional and organizational appropriateness are bound to be
mutually influenced.
The concept of appropriateness is therefore extremely important, so much
that healthcare services are included in the LEAs, and are covered by the
Italian SSN only if they comply with this concept.
In fact, the LEAs were defined based on the efficacy and appropriateness
of the interventions, thus based on a principle of efficiency and equity.
At the operational level, these concepts are implemented with the development of a true clinical governance by which professionals are made responsible and can take part in the process, within systems of excellence.
There are several determinants of appropriateness, many of which are interconnected, including training, risk management, audit, evidence based
medicine (EBM and EBHC), clinical guidelines and pathways of care,
management of complaints and litigations, communication and organization of records, research and development, outcome assessment, multidisciplinary collaboration, patient involvement, correct and transparent
information and personnel management.
In our healthcare system, which takes into account not only the comprehensiveness of the service provided but also its equity, the implementation
of the appropriateness, essential for the accomplishment of both, is even
more critical.
Based on these considerations, the present document intends to:
XX
Introduction
• provide operators and regulatory decision makers with updated information on the issues discussed;
• provide the tools needed to standardize organizational choices and professional behaviours;
• indicate integrated and shared pathways to the appropriate use of the
available resources.
All this to allow an early clinical classification of the citizen with the timely
and continuous control of the clinical condition and its complications,
based on protocols defined and shared by all healthcare professionals.
This Quaderno also indicates the pathways of care, with an emphasis on the
importance of community as a setting for the analysis of the needs and the
integration between the various levels of care, with the patient at the centre.
The part related to technological appropriateness is treated more in depth
to highlight the fact that healthcare operators need to be ready to deal with
novel tools and procedure of high technological complexity.
As a matter of fact, the correct use of medical instrumentation should be combined with rigorous learning and with the use of skills directed to the consolidation of the relationship between healthcare professionals and patients, by
taking into account both the necessity to treat and the needs of the person.
The objectives of this Quaderno are in line with the current political and
regulatory context, characterized by the revision of title V of the Italian
Constitution, by which the central government no longer acts predominantly as organizer and manager of services, but rather as guarantor of the
equity throughout the national territory, and the identification of LEAs by
means of the DPCM of 29 November 2001 and following integrations.
The constitutional legislator has clearly assigned to the State “the responsibility of ensuring the right to health to all citizens, by means of a solid
system of guarantees, through the levels of care”, while the responsibility
of implementing governance and the expenses to achieve the health objectives of the Country have been delegated to the Regions.
This choice is based on the principle of constitutional subsidiarity, whereby
decisions should be as close as possible to where the need originated and
therefore to the citizen and to the local community.
XXI
Ministero della Salute
With the introduction of the LEAs a new phase of health protection has
begun: a healthcare system, homogenous in terms of quality and quantity of
the delivered services, and provided at the same time with a tool for healthcare
governance.
Finally, the indications contained in the present Quaderno are intended to
implement locally, for diabetics as well as for obese people, the principle of
uniformity developed within the healthcare federalism, and to indicate, by
defining clinical, structural and operational appropriateness, the tools for
a correct rationalization of resources, with synergic and common goals in
the full respect of competences.
XXII
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Sintesi dei contributi
PARTE PRIMA
1. Definizione di obesità
L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio fra
introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi), con conseguente accumulo dell’eccesso di
calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto
adiposo. Il grado di obesità, cioè l’eccesso di grasso,
viene comunemente espresso con l’indice di massa
corporea (BMI), che si calcola dividendo il peso
corporeo espresso in kg per l’altezza espressa in metri al quadrato: BMI = kg/m2. L’OMS definisce un
individuo normopeso se ha un BMI < 25 kg/m2,
in sovrappeso se ≥ 25 kg/m2 e francamente obeso
se ≥ 30 kg/m2. Il limite del BMI è quello di non
fornire alcuna indicazione effettiva sulla composizione corporea reale del soggetto, in quanto non
distingue se l’incremento sia dovuto a un aumento
della massa grassa o della massa magra (un culturista risulterebbe obeso, sebbene abbia una massa
grassa ridotta), e sulla distribuzione della massa
grassa. La diagnosi di sovrappeso o obesità stabilita
con il BMI, quindi, dovrebbe essere integrata dall’impiego di indicatori diretti dell’adiposità e della
distribuzione adiposa che permettano un più agevole inquadramento nosologico dell’obesità e una
classificazione descrittiva fondamentale ai fini dell’individuazione dei soggetti a maggiore rischio di
morbilità; tra i più utilizzati per la semplicità vi è
la misurazione della circonferenza della vita, che
fornisce un indice della distribuzione del grasso
corporeo e delle possibili complicanze metaboliche
associate.
2. La situazione attuale
Le proiezioni dell’OMS mostrano che, per il 2015,
gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi
e gli obesi più di 700 milioni. Obesità e sovrappeso,
prima considerati problemi solo dei Paesi ricchi,
sono ora drammaticamente in crescita anche nei
Paesi a basso e medio reddito, specialmente negli
insediamenti urbani, e sono ormai riconosciuti
come veri e propri problemi di salute pubblica.
L’obesità è stata giustamente definita dell’OMS
come l’epidemia del XXI secolo. Nel suo “Rapporto sulla salute in Europa 2002”, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come
“un’epidemia estesa a tutta la Regione europea”,
tanto che circa la metà della popolazione adulta è
in sovrappeso e il 20-30% degli individui, in molti
Paesi, è definibile come clinicamente obeso.
Questa situazione desta particolare preoccupazione
per l’elevata morbilità associata, specie di tipo cardiovascolare, oltre al diabete di tipo 2, in genere
preceduto dalle varie componenti della sindrome
metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia
aterogena) con progressiva aterosclerosi e aumentato rischio di eventi cardio- e cerebrovascolari.
Nella Regione Europea dell’OMS, la prevalenza
dell’obesità è triplicata negli ultimi vent’anni. Sovrappeso e obesità sono poi responsabili dell’80%
dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di
malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi
di malattie ipertensive fra gli adulti che vivono in
Europa. Nei Paesi più poveri ma con uno sviluppo
rapido si riscontra un veloce aumento dell’obesità,
mentre nei Paesi più avanzati, con le maggiori disparità di reddito tra ricchi e poveri, si misurano
in genere livelli più alti di obesità.
In Italia, nel 2009, l’obesità ha interessato l’11,1%
dei maschi e il 9,2% delle femmine. La percentuale di soggetti obesi è più elevata nel Sud e nelle
Isole (11,1%). Nel Nord e nel Centro Italia le
XXIII
Ministero della Salute
percentuali si equivalgono (rispettivamente, 9,7%
e 9,6%). La prevalenza negli adulti cresce con
l’età fino alla fascia di età 65-74 anni, in cui si
hanno i valori più elevati (15,6%); successivamente, risulta sempre meno diffusa. Sovrappeso
e obesità affliggono principalmente le categorie
sociali svantaggiate che hanno minore reddito e
istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso
alle cure. L’obesità riflette e si accompagna, dunque, alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso.
L’obesità infantile è una delle più gravi questioni
del XXI secolo. La prevalenza ha raggiunto livelli
preoccupanti: secondo l’OMS, in tutto il mondo,
nel 2005, ben 20 milioni di bambini di età < 5
anni erano in sovrappeso. Il problema è globale:
si stima che nel 2010 i bambini con meno di 5
anni di età in eccesso di peso siano stati oltre 42
milioni e, di questi, quasi 35 milioni in Paesi in
via di sviluppo. La gravità della diffusione dell’obesità infantile sta anche nel fatto che i bambini
obesi rischiano di diventare adulti obesi. E l’obesità è un fattore di rischio per serie condizioni e
patologie croniche.
L’obesità è responsabile del 2-8% dei costi sanitari
e del 10-13% dei decessi in diverse parti della
Regione Europea dell’OMS, dove, ogni anno,
l’eccesso di peso è responsabile di più di 1 milione
di decessi e della perdita di 12 milioni di DALY
(anni di vita in salute persi per disabilità o morte
prematura). L’obesità influenza pesantemente anche lo sviluppo economico e sociale.
I programmi di contrasto all’obesità del Ministero
della Salute fanno in particolare riferimento a diverse linee di attività, quali la collaborazione con
la Regione Europea dell’OMS alla definizione di
una strategia di contrasto alle malattie croniche
denominata Gaining Health, la cooperazione con
l’OMS alla costruzione di una strategia europea
di contrasto all’obesità, le indicazioni europee da
XXIV
parte del Consiglio EPSCO nel 2006, il Piano
Sanitario Nazionale 2006-2008, il Piano di Prevenzione 2010-2012, lo sviluppo e coordinamento
del Programma interministeriale “Guadagnare Salute”, che parte dall’identificazione dei fattori di
rischio (alimentazione, fumo, alcool, sedentarietà)
che possono essere modificati e dai principali determinanti delle malattie croniche più frequenti.
3. Appropriatezza clinica
L’esecuzione di un’anamnesi accurata è la parte
più delicata del procedimento che, se non compiuta in maniera completa e adeguata, può pregiudicare le decisioni terapeutiche e alla fine vanificare gli investimenti terapeutici compiuti.
L’anamnesi familiare deve evidenziare in maniera
esaustiva la presenza dell’obesità, del diabete mellito di tipo 2, dell’ipertensione arteriosa e delle
iperlipoproteinemie nei parenti di 1° grado (e in
taluni casi anche di 2° grado, se possibile). L’anamnesi alimentare deve essere molto accurata, per
valutare sia le abitudini attuali sia quelle precedenti. Nell’effettuare l’anamnesi patologica, particolare attenzione va riservata alla valutazione
della presenza di ansia, depressione e ogni altra
patologia psichiatrica.
Nell’inquadramento clinico del paziente affetto
da obesità il metodo più semplice, scientificamente corretto e pratico, per valutare quantitativamente l’eccesso ponderale è rappresentato dal
calcolo del BMI. Sono comunque necessarie, oltre
alla valutazione del BMI, la misurazione della circonferenza vita, direttamente correlata alla presenza di grasso viscerale, e la misurazione della
circonferenza dei fianchi. La valutazione della
composizione corporea del paziente mediante esecuzione della bioimpedenziometria corporea è di
indubbia utilità nell’inquadramento e nel followup del paziente obeso.
Sintesi dei contributi
Oltre alla doverosa attenzione riguardo alle malattie cardiovascolari, non va mai dimenticata la
ricerca accurata di altre malattie legate a stati d’infiammazione di basso grado e alla ricerca di patologie endocrine, anche con valutazioni ormonali
e/o strumentali: le patologie della tiroide e del
surrene, così come uno stato di insulino-resistenza
o di disglicemia.
Nel parlare di dieta, nel trattamento dell’obesità,
è necessario intendere non soltanto un regime alimentare ipocalorico, ma uno stile di vita corretto.
Lo stile di vita rappresenta, infatti, un modo di
vivere che può essere modificato nel corso della
vita e che include, secondo il rapporto OMS del
2002, oltre a un’alimentazione sana e varia, una
regolare attività fisica, il moderato consumo di
alcool e la cessazione dell’eventuale abitudine tabagica o del consumo di droghe.
Il cambiamento permanente dello stile di vita può
essere raggiunto con tecniche di derivazione cognitivo-comportamentale che aiutino il paziente
a compiere le scelte su base quotidiana, rinforzando
la volontà di proseguire nel percorso intrapreso,
cercando al tempo stesso di far mettere in relazione
i sentimenti che precedono, accompagnano e seguono l’assunzione del cibo e l’esecuzione dell’attività fisica con la qualità della performance che il
paziente si è proposto di raggiungere.
4. Appropriatezza strutturale e tecnologica
Un modello d’assistenza adeguato alle caratteristiche del paziente obeso patologico dovrebbe prevedere centri di elevata specializzazione che devono agire in stretta collaborazione con le altre
strutture sanitarie operanti sul territorio, con i
medici di medicina generale, i pediatri di famiglia
e i centri ospedalieri situati sul territorio che richiedano consulenza.
Affinché il trattamento dell’obesità risulti efficace,
in termini sia di risultati sia di mantenimento degli
stessi, è necessario affiancare all’intervento medico
un intervento educativo che consenta al soggetto
di comprendere le cause del problema e di mettere
in atto nella vita di tutti i giorni i comportamenti
idonei a raggiungere gli obiettivi prefissati.
In Italia, a livello istituzionale, l’HTA viene esplicitamente menzionato nel Piano Sanitario Nazionale 2006-2008: “La valutazione delle tecnologie
sanitarie, intesa come insieme di metodi e strumenti per supportare le decisioni, si rivolge ai diversi livelli decisionali secondo modelli operativi
differenziati, rivolti a fornire supporto a:
• decisioni di politica sanitaria;
• decisioni “manageriali” d’investimento in
nuove tecnologie a livello aziendale e per la
promozione di un utilizzo appropriato delle
tecnologie medesime tramite l’elaborazione di
protocolli;
• decisioni cliniche, per la diffusione di “modelli
di governo (governance)” individuati da strutture centrali, e da adottare a livello organizzativo,
quali la definizione e diffusione degli standard
qualitativi e quantitativi.
In definitiva, la peculiarità dell’HTA può essere
ricondotta a due aspetti principali: la multidimensionalità della valutazione e la sua sistematicità.
Per quanto riguarda le tecnologie per la prevenzione e il follow-up delle complicanze o delle condizioni associate all’obesità, in questo Capitolo
vengono elencati alcuni presidi diagnostici riguardanti la misurazione della composizione corporea
con la descrizione dell’analisi di impedenza bioelettrica (BIA) a corpo intero, dell’apparecchiatura
DEXA (densitometria a doppio raggio X) e della
TC con scansione a livello lombare. Inoltre, viene
evidenziata l’importanza della valutazione del dispendio energetico, delle comorbilità e della funzione cardiopolmonare.
Lo scopo primario del trattamento dell’obesità
XXV
Ministero della Salute
dovrebbe essere quello di ottenere e mantenere
una perdita di peso utile a ridurre il rischio di
complicanze, e di fatto i trattamenti attualmente
approvati per l’obesità, assieme ad alcuni dei presidi terapeutici in sviluppo, inducono perdita di
peso e quindi rappresentano potenzialmente strumenti di prevenzione delle complicanze dell’obesità. Tuttavia, tali terapie mostrano il limite di indurre solo una modesta perdita di peso nel tempo
e sono inoltre seguite, all’interruzione del trattamento, da un rapido riguadagno ponderale.
La chirurgia dell’obesità tendenzialmente modifica
l’anatomia del tratto digestivo. I meccanismi attraverso i quali essa agisce sono di due tipi: a)
meccanico-restrittivi, che permettono più facilmente di diminuire la quantità di alimenti assunti
e quindi di osservare più facilmente le diete ipocaloriche; b) metabolico-malassorbitivi che, più
o meno selettivamente, alterano la digestione e
l’assorbimento degli alimenti, in particolare degli
alimenti grassi, diminuendo così l’apporto calorico. La laparoscopia è la tecnica da preferire, gold
standard sia per la maggiore compliance del paziente, sia perché ha una minore percentuale di
complicanze connesse all’accesso chirurgico; la
precoce mobilizzazione e la più rapida ripresa funzionale rappresentano grandi vantaggi in questi
pazienti, che sono da considerare ad alto rischio.
5. Appropriatezza operativa
In Italia, il concetto di “assistenza dedicata” al paziente con grande obesità presso centri specializzati
e organizzati in rete non è stato mai riportato a
livello di provvedimenti legislativi nazionali o regionali, ma solo come documento di indirizzo in
alcune Regioni per la definizione del percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti. Il modello Hub & Spoke, promosso per la gestione di
patologie ad andamento cronico di particolare
XXVI
impegno sanitario ed economico, prevede la concentrazione dell’assistenza, in relazione alla diversa
criticità del paziente, in centri di eccellenza (Hub)
e l’invio dei pazienti ai centri periferici (Spoke),
in relazione alla prosecuzione/integrazione del
percorso terapeutico/riabilitativo. La rete che viene
a crearsi in tal modo ha l’obiettivo di assicurare
una coordinata azione d’intervento, garantendo
al paziente un’assistenza ottimale nella struttura
più adeguata in termini di appropriatezza clinica
e organizzativa.
Per quanto riguarda la formazione è indispensabile
che i MMG siano correttamente informati di tutti
gli aspetti diagnostico-terapeutici che ruotano intorno all’obesità, ma anche, allo stesso tempo, che
essi possano contare su centri di elevata specializzazione ai quali fare riferimento.
D’altro canto, anche la formazione del chirurgo
che intende indirizzarsi alla cura dell’obesità dovrà
non solo includere un aggiornamento costante
delle tecniche e degli strumenti chirurgici, ma anche dare un più ampio respiro alla cultura della
cronicità, che comporta l’inserimento della propria
attività in una catena di interventi medici che accompagneranno il paziente per tutta la vita.
La prevenzione dell’obesità si fonda sulla formazione scolastica nell’età evolutiva, sull’educazione
sanitaria, sull’attività fisica e sulla dieta. La scuola
è caricata dell’onere di dare messaggi tecnicamente
corretti, utilizzando anche strumenti didattici innovativi, che riescano a colpire la fantasia e la capacità d’imitazione degli allievi.
Si può osservare che l’esercizio fisico regolare provoca una modificazione della composizione corporea, con aumento della massa muscolare e
quindi della massa magra, metabolicamente attiva,
che si associa a un incremento del dispendio energetico a riposo.
Non vi è dubbio che non è solamente una particolare dieta che riduce i fattori di rischio nel lungo
Sintesi dei contributi
termine, quanto appunto uno stile di vita, un comportamento adeguato alla condizione del soggetto.
Le peculiari caratteristiche della grande obesità
come patologia cronica, le sue comorbilità e la
disabilità conseguente con un impatto sulla qualità
della vita e sui costi sanitari impongono di assumere una prospettiva non solo di tipo terapeutico,
ma soprattutto riabilitativo. È importante, quindi,
prevedere e definire percorsi terapeutici con una
squisita valenza multidisciplinare, che affrontino
in una prospettiva temporale di lunga durata il
problema del peso, ma soprattutto la prevenzione
e cura delle complicanze.
La rete regionale per la prevenzione, la diagnosi e la
terapia dell’obesità si articola attraverso i diversi
livelli di intervento: ambito territoriale e ospedaliero.
6. Indicatori e standard:
definizioni e tipologie
L’indicatore è un’informazione, quantitativa o qualitativa, numerica e quindi “misurabile”, che ragguaglia sullo stato di successo raggiunto lavorando
sui fattori critici e fornisce un quadro efficace sul
raggiungimento di strategie e obiettivi. Uno degli
obiettivi principali del programma comunitario in
materia di salute (2008-2013) consiste nel fornire
informazioni comparabili sulla salute dei cittadini
europei attraverso lo sviluppo di indicatori sanitari
e la raccolta di dati. Le informazioni da raccogliere
riguardano il comportamento della popolazione in
relazione alla salute (dati sullo stile di vita e altri
determinanti della salute), le malattie (incidenza
delle malattie croniche, gravi e rare e modalità di
controllo delle stesse) e i sistemi sanitari (informazioni sull’accesso ai servizi e sulla qualità dell’assistenza prestata, dati relativi alle risorse umane e
alla capacità finanziaria dei sistemi sanitari). La raccolta dei dati si fonda su indicatori sanitari comparabili, applicabili in tutta Europa, nonché su de-
finizioni e metodi di raccolta e utilizzo concordati.
Gli indicatori esprimono una valutazione/misurazione di un fenomeno/un evento/un’attività/un oggetto/una realtà/ecc. correttamente rilevati ed elaborati; si distinguono in due grandi categorie: sintetici e analitici.
Gli indicatori devono essere elaborati basandosi
prevalentemente su dati elementari e devono possedere alcune caratteristiche di facile reperibilità
dei dati: affidabilità nel misurare un fenomeno,
comprensibilità, costo sostenibile, assenza di ambiguità. L’indicatore, per definizione, descrive soltanto un aspetto di un processo complesso e che,
raramente, è possibile condensare in una sola misura. La scelta dell’indicatore è quindi importante,
ma soprattutto lo è in funzione della sua capacità
di “marcare” un processo, invitando alla revisione
e al miglioramento della qualità del processo stesso.
7. La valutazione degli indicatori
di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
A differenza di altre patologie croniche, nella letteratura scientifica riguardante l’obesità il problema
degli indicatori di esito, ma soprattutto di processo,
è stato poco trattato. Questo è sicuramente dovuto
al ritardo culturale che solo in tempi relativamente
recenti è arrivato ad attribuire all’obesità la categoria di malattia cronica associata all’aumento di
morbidità e mortalità nella popolazione generale,
nonché una delle principali cause di disabilità e di
spesa sanitaria. Inoltre, la relativamente ridotta efficacia delle terapie disponibili rispetto a quanto
ottenuto per altre malattie croniche e la relativa
giovinezza di quelle di maggiore efficacia, quali la
chirurgia bariatrica e la riabilitazione multidisciplinare, rendono il campo della terapia dell’obesità
ancora in buona parte sperimentale e in attesa di
Linee guida ben definite.
XXVII
Ministero della Salute
Nella trattazione di questo argomento il problema
degli indicatori di processo e di esito è stato riferito
ai diversi livelli (setting assistenziali) nei quali si
svolge il disease management del paziente obeso.
PARTE SECONDA
8. Individuazione di strategie
di implementazione delle Raccomandazioni
Il diabete mellito, comunemente definito diabete,
è un gruppo di malattie metaboliche in cui la persona ha come difetto principale un aumento delle
concentrazioni ematiche di glucosio (iperglicemia). Il diabete può essere causato da un deficit
assoluto di secrezione insulinica, o da una ridotta
risposta all’azione dell’insulina a livello degli organi
bersaglio (insulino-resistenza), o dalla combinazione dei due difetti. L’iperglicemia cronica del
diabete si associa a un danno d’organo a lungo
termine (complicanze croniche), che porta alla
disfunzione e all’insufficienza di differenti organi
come gli occhi, il rene, il sistema nervoso centrale,
autonomo e periferico, il cuore e i vasi sanguigni.
I processi che portano allo sviluppo del diabete
variano dalla distruzione autoimmunitaria delle
cellule beta del pancreas e conseguente insulinodeficienza a difetti causati da un’aumentata insulino-resistenza nei tessuti periferici. Le basi delle
alterazioni del metabolismo dei carboidrati, degli
acidi grassi e delle proteine sono provocate da un
difetto della secrezione dell’insulina in risposta al
glucosio associato o meno a un difetto dell’azione
insulinica nei tessuti bersaglio, principalmente a
livello epatico, nella fibra muscolare scheletrica,
nel tessuto adiposo e nelle cellule vascolari. L’insufficiente azione insulinica può essere provocata
da una non adeguata secrezione insulinica e/o da
una diminuita risposta periferica all’azione dell’insulina in uno o più punti della complessa via
di trasmissione a livello cellulare.
Le forme più comuni di diabete, che comprendono la quasi totalità dei casi, ricadono in tre
principali categorie: il diabete di tipo 1 (DT1), il
diabete di tipo 2 (DT2) e il diabete gestazionale.
L’esplosione epidemica dell’obesità e le sue conseguenze economiche e sociosanitarie rendono
necessaria un’azione di contrasto efficace basata
sulla sinergia fra tutti gli organismi (istituzioni,
comitati di esperti, rappresentanti della società
civile, settore privato) operanti nel campo della
prevenzione e cura di tale patologia.
Tutti i Paesi industrializzati si sono dotati di Linee
guida per la prevenzione, diagnosi e cura dell’obesità; le Linee guida, elaborate sulla base delle più
aggiornate evidenze scientifiche, indicano le misure
più efficaci per contrastare questa patologia e sviluppano sia interventi di prevenzione dell’obesità
nella popolazione generale, sia interventi volti al
trattamento delle persone con sovrappeso o obesità.
Per il raggiungimento degli obiettivi è indispensabile mettere in atto strategie che facilitino comportamenti salutari in termini sia di alimentazione
sia di promozione dell’attività fisica. Tutto questo
può essere realizzato soltanto se si ha chiara la consapevolezza che l’obesità non è un problema o una
responsabilità del singolo individuo, ma un problema sociale, e che le scelte salutari possono essere
orientate attraverso appropriate politiche economiche, agricole, urbanistiche e dei trasporti.
Processo necessario a diffondere, applicare e monitorare l’efficacia degli interventi contenuti nelle
Linee guida è la loro “implementazione”. Tale
processo consiste nell’introdurre nella pratica corrente le Linee guida utilizzando strategie di intervento appropriate, atte cioè a favorirne l’utilizzo
e a rimuovere i fattori di ostacolo al cambiamento.
XXVIII
9. Classificazione e definizione
di diabete mellito
Sintesi dei contributi
10. La situazione attuale
Si sta assistendo a un’epidemia mondiale di diabete, con una prevalenza che arriverà fino al 6,3%
nel 2025, coinvolgendo 333 milioni di persone
in tutto il mondo. L’OMS ha quindi inserito il
diabete fra le patologie croniche su cui maggiormente investire per la prevenzione, dato il crescente peso assunto da questa patologia anche nei
Paesi in via di sviluppo e vista la possibilità di attuare misure preventive efficaci e di basso costo.
Il rischio d’insorgenza del DT2 è in larga parte
determinato da età, obesità, familiarità ed etnia.
In Italia, l’allungamento della vita media e il cambiamento dello stile di vita (sedentarietà, obesità)
sono in larga parte responsabili dell’aumento atteso nella prevalenza del DT2.
L’incremento temporale nella prevalenza del DT2
riconosce cause diverse: aumentata incidenza di
malattia, più giovane età d’esordio e di diagnosi,
aumentata sopravvivenza dei pazienti e, soprattutto,
invecchiamento della popolazione generale. Quest’ultimo fattore è, verosimilmente, quello di maggiore impatto nei Paesi industrializzati. In Italia,
per il 2009, l’Istat stimava una prevalenza del diabete diagnosticato pari al 4,8%. La prevalenza del
diabete aumenta con l’età fino al 18,9% nelle persone con età uguale o superiore ai 75 anni. La prevalenza è più alta nel Sud e nelle Isole, con un
valore del 5,5%, seguita dal Centro con il 4,9% e
dal Nord con il 4,2%. Attualmente, vi sono in
Italia almeno tre milioni di soggetti con diabete,
oltre ai quali si aggiunge una quota stimabile in
circa un milione di persone che, pur avendo la malattia, non ne sono a conoscenza. Le disuguaglianze
sociali agiscono fortemente sul rischio di contrarre
il diabete: la prevalenza della malattia è, infatti, più
elevata nelle donne e nelle classi sociali più basse e
tale effetto è evidente in tutte le classi di età.
I dati italiani sull’incidenza della malattia sono
molto limitati. Il problema metodologico principale è dato dall’inadeguata completezza delle rilevazioni epidemiologiche nell’età adulta, mentre
nell’età pediatrica la quasi totalità dei diabetici è
regolarmente seguita sin dalla diagnosi dai servizi
di diabetologia; vi sono, inoltre, difficoltà diagnostiche legate alla necessità di eseguire il test
da carico orale di glucosio per stimare i casi di
diabete asintomatico a livello di popolazione.
Il DT1 è una delle più frequenti malattie croniche
dell’infanzia e la sua incidenza è in aumento.
Un’indagine condotta dall’International Diabetes
Federation ha calcolato un’incidenza di DT1 nel
mondo di circa 65.000 nuovi casi/anno. Il DT1,
seppure meno frequente rispetto al DT2 (1 caso
su 10 diabetici), presenta nel nostro Paese un elevato impatto sociale, in quanto interessa soggetti
in giovane età. L’incidenza è compresa tra i 6 e i
10 casi per 100.000 per anno nella fascia di età
da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6,72 casi per
100.000 per anno nella fascia di età da 15 a 29
anni, con forti differenze geografiche.
L’epidemia di diabete ha anche importanti risvolti
economici; in Italia, attualmente, i diabetici sono
responsabili di un consumo di risorse sanitarie 2,5
volte superiore rispetto a quello delle persone non
diabetiche di pari età e sesso. Ogni anno, ci sono
in Italia più di 70.000 ricoveri per diabete, principalmente causati da complicanze quali ictus cerebrale e infarto del miocardio, retinopatia diabetica,
insufficienza renale e amputazioni degli arti inferiori. Per quanto riguarda i farmaci, la quota principale del costo è imputabile al trattamento delle
complicanze cardiovascolari. Tutte le categorie farmacologiche, tuttavia, mostrano un aumentato
utilizzo nei diabetici rispetto ai non diabetici, a rilevare l’interessamento multiorgano della malattia.
Il costo del trattamento delle complicanze è inoltre
particolarmente elevato. Nel 2010, il diabete ha
determinato il 10-15% dei costi dell’assistenza sa-
XXIX
Ministero della Salute
nitaria in Italia. L’impatto sociale del diabete si
avvia, quindi, a essere sempre più difficile da sostenere per la comunità, in assenza di un’efficace
prevenzione.
Le strategie internazionali specifiche sul diabete
riguardano, in particolar modo, le indicazioni definite a livello europeo nel Consiglio EPSCO del
giugno 2006, i contenuti della Risoluzione ONU
del dicembre 2006, le conclusioni del Forum di
New York del marzo 2007 e i lavori della Commissione europea su “Information to patient”, che
evidenziano la necessità di sviluppare politiche
nazionali per la prevenzione, il trattamento e la
cura del diabete.
L’impegno del Ministero della Salute in questi ultimi anni è stato quello di rendere attuali e innovativi i contenuti delle norme specifiche sul diabete, individuando strategie che richiedessero regole operative basate su un ampio dialogo e collaborazione fra tutti i principali protagonisti dell’assistenza al diabete, in una reale sinergia fra le
Regioni, le Associazioni professionali, il Volontariato, le Istituzioni pubbliche e private. Si possono
ritenere tuttora attuali le finalità generali individuate dalla Legge n. 115 del 1987 e dall’Atto
d’Intesa del 1991 e gli obiettivi del Piano Sanitario
Nazionale 2006-2008 che pone il diabete fra le
quattro grandi patologie, assieme a malattie respiratorie, cardiovascolari e tumori, evidenziando
l’importanza della riorganizzazione delle cure primarie, dell’integrazione tra i diversi livelli di assistenza, esaltando al tempo stesso il ruolo del cittadino e della società civile nelle scelte e nella gestione del SSN.
Le strategie nazionali differentemente non possono non tenere conto, oltre che delle indicazioni
dell’OMS e della Dichiarazione di Saint Vincent –
che ponevano l’accento sullo sviluppo di un programma nazionale per il diabete e sull’importanza
dell’intervento pubblico di governi e amministra-
XXX
zioni per assicurare la prevenzione e la cura della
patologia diabetica – anche delle indicazioni europee. I programmi di prevenzione che riguardano
il diabete in Italia fanno riferimento a diverse
linee di attività, quali la collaborazione con la Regione Europea dell’OMS alla definizione di una
strategia di contrasto alle malattie croniche (Gaining Health), la Cooperazione alla costruzione di
una strategia europea di contrasto all’obesità, la
predisposizione, attraverso il CCM e in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità (ISS),
del progetto IGEA (Integrazione, Gestione e Assistenza per la malattia diabetica), lo sviluppo e il
coordinamento del Programma “Guadagnare Salute” e la partecipazione dell’Italia alla definizione
delle indicazioni europee sul diabete da parte del
Consiglio EPSCO nel 2006.
Nel 2004, il Ministero della Salute ha introdotto
le complicanze del diabete fra le aree d’intervento
prioritarie. Il Piano di Prevenzione Attiva considerava la prevenzione delle complicanze del diabete attuata tramite l’adozione di programmi di
strategia di gestione delle malattie croniche (disease
management).
11. Appropriatezza clinica
L’appropriatezza diagnostica del diabete si basa
sull’uso corretto di criteri che sono maturati nel
corso degli anni, di recente ulteriormente definiti.
La misurazione della glicemia a digiuno o durante
OGTT, nonché il dosaggio dell’HbA1c consentono anche di individuare soggetti a rischio di
diabete e di malattia cardiovascolare.
Il dosaggio della glicemia a digiuno, l’esecuzione
dell’OGTT o la misurazione dell’HbA1c sono attualmente ritenuti egualmente utili per la diagnosi
di diabete, pur nella consapevolezza delle differenze fra tali valutazioni. Tuttavia, la valutazione
dell’HbA1c è considerata, nel complesso, più affi-
Sintesi dei contributi
dabile. I motivi di questa maggiore affidabilità
dell’HbA1c sono molteplici; inoltre, come ben
noto, essa è espressione della glicemia media di
un lungo periodo (2-3 mesi) e non di un singolo
momento. Dal punto di vista operativo, il dosaggio dell’HbA1c deve essere effettuato almeno due
volte l’anno in ogni paziente diabetico, anche allorquando il controllo glicemico sia stabilmente
nell’ambito dell’obiettivo terapeutico.
Numerosi studi hanno ormai chiaramente dimostrato come la prevenzione dello sviluppo delle
complicanze croniche del diabete (o almeno una
loro più lenta progressione) passi attraverso una
precoce e attenta strategia terapeutica volta al
controllo di molteplici fattori di rischio, e come
tutto questo abbia poi anche effetti positivi sull’aspettativa di vita dei pazienti. Tali fattori sono
rappresentati, in particolare, da età, sesso, familiarità per coronaropatia o morte improvvisa, durata del diabete, controllo glicemico, attività fisica, fumo, peso corporeo e distribuzione del
grasso corporeo, pressione arteriosa, lipidi plasmatici, microalbuminuria. Se si vuole intervenire
favorevolmente sulla prognosi dei pazienti diabetici, è necessario precisare gli obiettivi; non a
caso, negli studi d’intervento in cui i molteplici
fattori di rischio per patologia vascolare erano
aggrediti simultaneamente si sono ottenute impressionanti riduzioni sia degli eventi cardiovascolari sia della mortalità.
Fra gli strumenti terapeutici un ruolo di assoluto
rilievo riveste l’educazione terapeutica, cioè il complesso d’attività educative che si rivolge a specifiche
categorie di soggetti, che si esplica attraverso la
trasmissione di conoscenze e l’addestramento a
conseguire abilità e a promuovere modifiche dei
comportamenti. Nei diabetici l’educazione terapeutica ha come scopo migliorare l’efficacia delle
cure attraverso la partecipazione attiva e responsabile della persona con diabete al programma
delle cure. Il miglioramento non solo degli stili
di vita, ma anche delle abilità personali nelle attività di supporto alle cure e alle scelte di modifiche
concordate dei trattamenti, è responsabile della
maggiore efficacia delle cure stesse e del benessere
psicofisico delle persone con diabete.
Gli standard italiani per la cura del diabete mellito,
redatti dalle due Società scientifiche diabetologiche italiane (AMD e SID), hanno l’intento di
fornire raccomandazioni per la diagnosi, il trattamento del diabete e delle sue complicanze e per il
raggiungimento degli obiettivi di trattamento sui
quali basare le scelte diagnostico-terapeutiche, fornendo anche indicazioni sugli strumenti di valutazione della qualità della cura, riferiti alla realtà
italiana.
12. Appropriatezza strutturale
I compiti assegnati al MMG nella gestione dei
pazienti diabetici da numerosi documenti di consenso e Linee guida richiedono un’evoluzione del
modello assistenziale e organizzativo da parte della
medicina generale. Questa esigenza, comune alle
principali patologie croniche, è ben evidenziata
in letteratura da diversi anni.
Nella gestione delle patologie croniche (diabete
soprattutto), il MMG non può lavorare attraverso
interventi “puntuali e tra loro scoordinati”, ma
ha bisogno di strumenti che lo aiutino nelle procedure di verifica di appropriatezza e qualità delle
cure erogate (per una spinta verso il miglioramento continuo delle performance). A tutto ciò
serve il sistema informativo clinico, mediante i
dati registrati nella cartella clinica informatica,
trasformati prima in indicatori di processo e di
esito e poi in informazioni leggibili.
In Italia esiste una rete di strutture specialistiche
che non ha confronto con altri Paesi e che è stata
oggetto di studi e riferimenti da parte di organiz-
XXXI
Ministero della Salute
zazioni internazionali. La rete dei servizi di diabetologia eroga un’assistenza di tipo specialistico
che si fa carico di molti aspetti della gestione della
malattia. Tale rete, organizzata soprattutto al Nord
e al Centro, ha una diffusione di tipo capillare,
pertanto riesce a raggiungere la maggior parte dei
diabetici diagnosticati. Questa organizzazione può
in parte spiegare i migliori risultati assistenziali
rilevati da varie indagini epidemiologiche rispetto
ad altri Paesi. L’identità della diabetologia italiana
è fortemente legata a questa rete di servizi, che
nel tempo ha contribuito ad avvicinare al problema studenti, laureandi e neolaureati, e a formarli, mantenendo viva l’attenzione per un problema sanitario di elevata rilevanza economica e
sociale.
La diabetologia italiana ha subito nel tempo una
trasformazione storica e culturale che l’ha portata,
da disciplina impegnata nella cura delle fasi acute
e subacute della malattia, a disciplina in cui il carico maggiore è nella prevenzione delle complicanze tardive. Negli ultimi anni essa ha perseguito
con particolare attenzione il tema della qualità
dei servizi e delle prestazioni.
Il ricovero in ospedale di un diabetico, al di là
della condizione che lo ha richiesto, può essere
un momento per verificare l’efficacia della terapia
e migliorare, laddove necessario, il grado di compenso metabolico. Inoltre, durante il ricovero si
deve verificare la stadiazione delle complicanze
croniche. Pertanto, è necessaria un’opportuna e
corretta integrazione con il diabetologo, mediante
la richiesta di una consulenza. Al momento della
dimissione del paziente in cui si rende necessario
un monitoraggio glicemico domiciliare è indispensabile svolgere attività di educazione terapeutica sull’uso dei presidi, che deve poi continuare
presso il MMG e il servizio di diabetologia.
Circa una persona su 4 ospitata in strutture residenziali è affetta da diabete. Pertanto, deve essere
XXXII
garantita un’assistenza adeguata alle necessità e
non inferiore a quella che viene fornita agli altri
pazienti, nel rispetto degli standard di cura. Il
personale sanitario deve quindi avere una formazione specifica in merito alle procedure di monitoraggio metabolico e clinico e agli strumenti terapeutici del diabete. I pazienti di età avanzata
sono spesso affetti da comorbidità, pertanto sono
spesso esposti all’uso inadeguato di farmaci antidiabetici, con conseguente ipoglicemia, che rappresenta una causa importante nei ricoveri d’urgenza presso le strutture ospedaliere.
13. Appropriatezza tecnologica
L’automonitoraggio glicemico domiciliare è parte
integrante della terapia del diabete mellito con
modalità differenti in relazione alle caratteristiche
cliniche della malattia ed è soggetto a una prescrizione medica e regolato dalla normativa esistente. Le norme sanciscono il diritto alla scelta
condivisa dei presidi tra paziente e medico. L’innovazione tecnologica aumenta e diversifica caratteristiche e funzioni degli strumenti e richiede
un’attenta valutazione dell’appropriatezza e utilità.
Questo aspetto di notevole importanza è valutato
con criteri differenti e più o meno restrittivi; si
deve anche considerare che le valutazioni di accuratezza dovrebbero essere fatte anche nell’utilizzo diretto dei pazienti.
Il fattore chiave per una determinazione accurata
della concentrazione della glicemia è convertire
la concentrazione del glucosio in uno specifico
segnale che possa essere misurato con precisione.
A questo scopo, a oggi, le tecniche di misurazione
sono colorimetriche (reflettometro) o elettrochimiche (potenziometro). In tale ambito, nonostante gli elementi tecnologici abbiano importanza, soprattutto nell’accettabilità del device, per
il diabetologo e per il paziente l’aspetto più im-
Sintesi dei contributi
portante rimane l’accuratezza dell’informazione
ottenuta sulla concentrazione glicemica.
I glucometri oggi in uso soddisfano tutti i criteri
ISO. Nonostante ciò, studi clinici documentano
come, quando questi strumenti arrivano nelle
mani dei pazienti, l’errore spesso superi il 20%.
Molti elementi contribuiscono a tale amplificazione; la conservazione delle strisce, la manualità
dell’operatore e infine il coding. L’accuratezza dell’autocontrollo può essere, quindi, ampiamente
influenzata da errori di procedura del paziente.
Fra gli errori operatore-dipendenti più rilevanti,
la mancata o errata calibrazione è senza dubbio il
più comune. Più segnalazioni sono disponibili in
letteratura che dimostrano come l’errata calibrazione porti a letture glicemiche non accurate fino
a influenzare l’azione clinica.
La terapia iniettiva insulinica sottocutanea continuativa tramite micropompa (CSII) è una proposta terapeutica che sempre più frequentemente
è oggi presentata alle persone con DT1. Se si considerano i risultati dell’ultima survey nazionale
sull’argomento, si evidenzia un “rate” di crescita
nel numero di soggetti in trattamento con CSII
impressionante rispetto all’inizio degli anni 2000.
Tutte le pompe oggi disponibili possono, infatti,
modulare l’insulinizzazione basale giornaliera abbinandola al meglio con il fabbisogno insulinico
dei pazienti nelle differenti fasi giornaliere. Tra le
cause che hanno favorito la diffusione di quest’opzione terapeutica si devono citare l’evoluzione
tecnica e la grande affidabilità degli strumenti
oggi disponibili, con contestuale evoluzione dei
set d’infusione.
Il monitoraggio continuo della glicemia è oggi
possibile attraverso metodiche mini-invasive, ovvero attraverso la misurazione diretta e continua
della concentrazione del glucosio presente nei liquidi interstiziali, più specificatamente nei liquidi
che bagnano il tessuto adiposo sottocutaneo. Tale
approccio, possibile grazie alla disponibilità di sensori del glucosio a forma di ago, è sovrapponibile
a quello nel versante ematico. Tali device sono
inoltre in grado di fornire dati immediati sulla velocità e sulla direzione di spostamento della glicemia. Infine, questi sistemi consentono di prevedere
gli spostamenti dei valori glicemici nei minuti a
venire e possono anche allertare il paziente in caso
di superamento della soglia d’ipo- o iperglicemia,
rendendo così possibile un atteggiamento pro-attivo del paziente stesso, che può immediatamente
aggiustare la terapia insulinica o la dieta.
Il diabete mellito è un esempio di malattia cronica
la cui gestione da tempo è supportata da sistemi
telematici utilizzati nell’ambito dello screening
delle complicanze croniche e del monitoraggio
della glicemia e in ambito educativo. In particolare, nella persona con diabete la telemedicina
rappresenta un’importante opzione per la gestione
dell’automonitoraggio della glicemia capillare.
Sono da tempo in uso diversi sistemi di gestione
a distanza delle informazioni derivate dall’autocontrollo e la letteratura offre diversi documenti
che testimoniano l’applicabilità clinica di questi
sistemi.
L’azione dei farmaci utilizzati nel trattamento del
DT2 si manifesta principalmente nell’aumentare
la sensibilità periferica all’azione dell’insulina, nella
stimolazione della secrezione insulinica sia direttamente sia in risposta al glucosio e nella riduzione
dell’assorbimento del glucosio a livello intestinale.
La scelta dell’agente ipoglicemizzante da utilizzare
nel DT2 dovrebbe essere condotta in base alle
esigenze mediche del paziente e agli obiettivi del
trattamento, alla potenza dell’agente nel raggiungere l’ottimo controllo glicemico, alla tollerabilità
e agli effetti collaterali potenziali del farmaco utilizzato, alla facilità di somministrazione, alla convenienza costo-beneficio e alla presenza di eventuali altri effetti benefici extraglicemici.
XXXIII
Ministero della Salute
La terapia insulinica nel DT2 può essere istituita
come basale, in cui si utilizzano insuline sintetiche
umane o analoghi sintetici modificati dell’insulina
umana che hanno un’emivita di quasi 24 ore senza
picco d’azione, o soluzioni d’insulina premiscelata
in cui si combinano nella stessa siringa un’insulina
ad azione rapida (umana) o “ultrarapida” (analoghi
modificati dell’insulina umana) con un’insulina
ricombinante umana con emivita intermedia.
I risultati più importanti nella valutazione del controllo glicemico nel DT1 sono stati ottenuti con
lo studio Diabetes Control Complication Trial
(DCCT) completato nel 1993 e con il successivo
monitoraggio dei pazienti che avevano partecipato
allo studio nell’Epidemiology of Diabetes Intervention and Complications (EDIC) study. Da questi
risultati è emerso come raccomandazione che il
paziente affetto da DT1 deve essere trattato con
un regime di terapia intensivo sotto la supervisione
di un team specialistico, valutando sempre e comunque il rapporto rischio-beneficio. Nella maggior parte dei pazienti i livelli di controllo della
glicemia sono difficilmente raggiungibili senza
l’utilizzo di un trattamento d’insulina con multiple
iniezioni giornaliere (MIG) combinando l’utilizzo
d’insuline ad azione rapida insieme con insuline
ad azione lenta. In alternativa, si può utilizzare
l’infusione continua sottocutanea d’insulina (ICSI)
mediante l’utilizzo di pompe che permettono ai
pazienti di modificare la dose d’insulina in funzione dei risultati della glicemia ottenuti con l’automonitoraggio, l’apporto calorico giornaliero con
la dieta e l’attività fisica.
I primi trapianti di pancreas sono stati eseguiti a
metà degli anni Sessanta e da allora oltre 30.000
pazienti diabetici hanno usufruito di tale procedura. La maggior parte dei trapiantati ha ricevuto,
oltre al pancreas, proveniente da donatore morto,
anche un rene, proveniente da donatore morto o
vivente, per la concomitante presenza d’insuffi-
XXXIV
cienza renale cronica. In questi casi, il trapianto
combinato pancreas e rene può così risolvere contemporaneamente il problema metabolico e quello
renale e, quindi, riscattare dall’insulino-dipendenza e dalla necessità del trattamento dialitico.
In Italia, i primi casi di trapianto di pancreas sono
stati segnalati al Centro Nazionale Trapianti nel
1992 e, a oggi, tali trapianti risultano essere oltre
1000, di cui oltre due terzi rappresentati da trapianto combinato pancreas e rene. Dati recenti
evidenziano che la sopravvivenza attuale dei pazienti trapiantati di pancreas e rene, pancreas dopo
rene e pancreas isolato è, a 15 anni dal trapianto,
rispettivamente del 56%, 42% e 59%. Al contempo, nelle suddette categorie di riceventi, l’emivita del pancreas trapiantato è risultata, nell’ordine, di 12, 7 e 9 anni per interventi eseguiti nel
periodo 1998-1999.
L’effetto del trapianto di pancreas sulle complicanze
croniche del diabete non è semplice da definire,
essendo il danno vascolare spesso avanzato nei pazienti sottoposti a trapianto. Tuttavia, negli studi
con follow-up sufficientemente prolungato è stato
osservato che la retinopatia tende a regredire o almeno a stabilizzarsi in una percentuale elevata di
casi (fino a oltre l’80%), e comunque più frequentemente rispetto a quanto osservato nei gruppi di
controllo. La terapia con steroidi, che fa parte delle
strategie antirigetto, può tuttavia accelerare la progressione della cataratta. Le lesioni tipiche della
nefropatia diabetica possono regredire a distanza
di 5-10 anni dal trapianto di pancreas, mentre la
proteinuria si riduce significativamente e in tempi
brevi dopo il trapianto. Occorre tuttavia tenere
presente che alcuni farmaci immunosoppressori
sono nefrotossici e, pertanto, in caso di trapianto
di pancreas dopo rene o trapianto isolato la funzione renale deve essere ragionevolmente ben conservata. Anche la neuropatia autonomica e quella
periferica possono migliorare dopo trapianto di
Sintesi dei contributi
pancreas, un effetto che, in caso di trapianto combinato con il rene, sembra comunque dipendere
dalla funzione del pancreas. Per quanto riguarda
gli effetti sulle complicanze macrovascolari, il trapianto combinato di pancreas e rene è associato a
riduzione dell’aterosclerosi coronarica e di quella
carotidea, nonché a minore incidenza d’infarto del
miocardio ed edema polmonare.
Il trapianto di pancreas comporta rischi che sono
associati alla procedura chirurgica in sé (soprattutto quando eseguito nei pazienti con insufficienza renale cronica), nonché rischi dovuti all’uso
della terapia antirigetto (in particolare infezioni e
rischio neoplastico). Tuttavia, grazie al miglioramento delle procedure chirurgiche e ai progressi
del trattamento immunosoppressivo, tali rischi
appaiono contenuti.
Si ritiene che il trapianto combinato di pancreas
e rene sia indicato nei pazienti con DT1 e insufficienza renale cronica, in assenza di controindicazioni assolute o relative.
14. Appropriatezza operativa
L’organizzazione delle cure alla persona con diabete
in Italia è essenzialmente a livello territoriale. Anche quando le equipe diabetologiche operano in
ambito ospedaliero offrono assistenza prevalentemente di tipo ambulatoriale o in day-hospital,
mentre i ricoveri ordinari sono dedicati a episodi
acuti o complicanze della malattia e coinvolgono
reparti di tutte le specialità mediche e chirurgiche.
A livello territoriale, quindi, ci si trova a operare
in una continuità assistenziale da un lato con la
medicina generale, in una visione di disease management, e dall’altro in continuità ospedale-territorio con flusso bidirezionale.
La prevenzione del diabete e delle malattie metaboliche sulla popolazione generale coinvolge molti
più attori rispetto ai soli professionisti della salute.
La diffusione dei messaggi educativi su stili di
vita salutari riguarda le abitudini, l’educazione e i
consumi alimentari, la pratica di attività motoria,
l’astensione dal fumo, la lotta all’alcolismo e al
consumo di sostanze d’abuso.
La prevenzione del DT1 non è al momento realizzabile e rappresenta un argomento di studio e sperimentazione clinica. La prevenzione del DT2 si
applica ai soggetti a elevato rischio di sviluppare la
malattia sia su base familiare sia su base ambientale
(sovralimentazione e riduzione dell’attività fisica).
Nel campo delle malattie metaboliche e del diabete in particolare, che negli ultimi anni hanno
visto l’affermarsi della genomica, della proteomica
e della metabolomica fino a creare sub-specialisti
che devono mantenere il contatto con la pratica
clinica, ove nuovi protocolli terapeutici e farmaci
innovativi rendono necessario un aggiornamento
frequente delle Linee guida, il problema della formazione continua si pone con particolare urgenza.
Questo processo formativo deve riguardare sia il
personale dei centri specialistici (assistenti sanitari
e infermieri, dietisti, podologi, ma anche psicologi,
esperti di attività fisica), sia la medicina territoriale
(medici di medicina generale e pediatri di libera
scelta), per garantire quella continuità assistenziale
che diviene elemento imprescindibile dell’assistenza sanitaria nelle malattie croniche. Solo una
formazione diffusa nei vari gruppi professionali,
progettata con riferimento alle competenze necessarie e aggiornata nel tempo, può divenire il
cardine di un miglioramento continuo in efficienza ed efficacia.
Il disease management e il chronic care model, e i
principi di cui questi approcci sono portatori,
sono ormai divenuti il quadro logico-concettuale
di riferimento per chiunque lavori nel campo della
gestione delle patologie croniche. È noto che gli
interventi di gestione integrata più efficaci sono
proprio quelli che agiscono su tutti i livelli della
XXXV
Ministero della Salute
“storia naturale” della malattia ma, ove un disegno
di portata sistemica si rendesse poco fattibile a
causa di risorse limitate, sarebbe più utile concentrare gli sforzi di tutti gli attori del sistema
sugli snodi ritenuti più critici e più opportuni per
il contesto locale.
La potenzialità fondamentale dell’approccio al disease management è quella di far convergere le energie
dei vari attori del sistema su obiettivi comuni, seppure con responsabilità diversificate, evitando in
tal modo una progettualità non concordata e frammentaria, spesso incapace di incidere significativamente sui risultati complessivi del sistema assistenziale. Il disease management, in altri termini, è un
approccio sistemico che permette di contestualizzare
gli interventi, individuando i target dei pazienti e
gli snodi critici della storia naturale di malattia più
vicini alle problematiche, ai limiti/potenzialità e
alle strategie del sistema locale, sui quali concentrare, raccordandole, le energie di tutti gli attori
del sistema. In tale prospettiva, la gestione integrata
rappresenta lo strumento del concretizzarsi dell’approccio sistemico integrato proposto dal disease
management.
Il percorso assistenziale è un metodo innovativo
utilizzato per la revisione critica e il ridisegno
degli iter assistenziali di specifici target di pazienti.
La costruzione di un percorso assistenziale deve
basarsi su un metodo che sia in grado di mettere
insieme tre diversi focus: organizzativo, clinico e
relativo alla presa in carico dei bisogni globali del
paziente. Sintetizzando, i percorsi assistenziali rappresentano strumenti utili per il concretizzarsi
della gestione integrata e allo stesso tempo risultano indispensabili per costruire un disegno assistenziale adatto alle potenzialità e ai limiti dei
contesti locali, permettendo di inserire, nelle diverse tappe, indicatori di verifica specificamente
correlati ai contributi dei diversi servizi e delle
differenti figure professionali.
XXXVI
15. Situazioni particolari
L’ipoglicemia (glicemia < 70 mg/dl), specialmente
nei pazienti trattati con insulina, rappresenta il
principale fattore limitante nella terapia del DT1
e del DT2. Sono definiti tre gradi di ipoglicemia:
lieve e moderato, nel quale l’individuo è in grado
di autogestire il problema; grave, nel quale l’individuo presenta uno stato di coscienza alterato e
necessita dell’aiuto o della cura di terzi per risolvere
l’ipoglicemia.
Le emergenze o crisi iperglicemiche che si possono
manifestare in persone con diabete sono la chetoacidosi diabetica, caratteristica del DT1, e la
sindrome iperglicemica iperosmolare, caratteristica
del DT2. Entrambe, se non trattate tempestivamente, possono causare la morte del paziente.
Benché normalmente considerate come entità distinte, rappresentano in realtà uno spettro continuo di emergenze cliniche causate dal cattivo controllo del diabete.
La fase di transizione tra l’infanzia e l’età adulta,
che include le variazioni biologiche della pubertà,
pone particolari problemi alla persona con DT1
e al “team” di diabetologia pediatrica. Si deve riconoscere che l’assistenza ai teen-ager è molto
diversa da quella dei bambini e degli adulti e richiede quindi competenze diverse perché, sebbene nella maggior parte dei casi il giovane abbia
raggiunto l’autonomia gestionale, raramente egli
ha vera consapevolezza e responsabilità nei confronti della sua malattia. In questa fase è quindi
richiesto un lavoro particolare sulla motivazione,
che tenga conto delle ambivalenze tipiche dell’età,
di una quota di “aggressività” nei confronti dei
curanti e di quella parte di sé legata alla malattia.
Il passaggio dal centro pediatrico al centro dell’adulto deve essere un processo e non un evento
critico e deve essere realizzato costruendo gradualmente, sin dalle prime fasi, con il giovane
Sintesi dei contributi
stesso un clima di comunicazione e collaborazione
aperte e adeguate.
Il piede diabetico è una patologia che può svilupparsi nei pazienti affetti da diabete mellito ed
è caratterizzata da differenti componenti fisiopatologici (polineuropatia periferica, arteriopatia
periferica e infezioni). Questi differenti fattori
eziologici possono agire singolarmente o, più frequentemente, coesistere nella fisiopatologia della
malattia. L’aumento medio dell’aspettativa di vita
nella popolazione generale e in particolare nei
pazienti diabetici ha incrementato l’incidenza e
la prevalenza delle complicanze croniche con un
aumento esponenziale della patologia macrovascolare e delle sue complicanze. Il piede diabetico
è la complicanza tardiva del diabete mellito con
più rilevante peso sociale ed economico, poiché
è causa di lunghi periodi di cure ambulatoriali,
di prolungati e ripetuti ricoveri ospedalieri e di
amputazioni, essendo il piede diabetico la causa
più frequente di amputazione non traumatica
degli arti inferiori. Dati epidemiologici indicherebbero che in Italia il diabete è la prima causa
di amputazione non traumatica degli arti inferiori
nella popolazione, arrivando al 56% di tutte le
cause di patologia, ed è un frequente motivo di
ricovero in ospedale per il paziente diabetico a
causa dei frequenti fenomeni d’acuzie associati
alla patologia.
Il diabete pregravidico (tipo 1 e 2) è ancora oggi
gravato da un’elevata frequenza di morbilità materna e fetale nonostante il miglioramento, negli
ultimi anni, delle tecniche di sorveglianza fetale e
di assistenza al neonato e alla madre. Dati di prevalenza nazionali riportano che ogni anno in Italia
si hanno circa 40.000 gravidanze complicate da
diabete gestazionale e circa 1300 da diabete pregestazionale. La programmazione della gravidanza
nelle pazienti con diabete pregestazionale è molto
importante per ridurre la frequenza di outcome
materno e fetale avverso ma, purtroppo, anche in
Italia solo circa il 50% di tali gravidanze è programmato.
Tutte le donne con diabete in età fertile devono
essere informate sull’importanza di programmare
la gravidanza in buon controllo glicemico e di
pianificare il concepimento utilizzando metodi
contraccettivi efficaci. Nelle pazienti con diabete
pregravidico è consigliabile l’autocontrollo domiciliare intensivo della glicemia, con valutazioni
sia pre- sia postprandiali e notturne. Nelle stesse
va instaurata una terapia insulinica intensiva sottocutanea o con microinfusore (CSII). Per il raggiungimento di tali obiettivi è auspicabile che la
paziente venga seguita da un’equipe multidisciplinare (diabetologo, infermiere esperto, dietista
e altre figure professionali); sono infine raccomandate valutazioni ambulatoriali mensili. Per
quanto attiene al diabete gestazionale (GDM), la
terapia medica nutrizionale personalizzata, l’attività fisica e l’autocontrollo glicemico sono i cardini
del trattamento.
A livello internazionale la prevalenza di diabete
negli adulti ospedalizzati è stimata tra il 12% e il
25%. Nel 2000, il 12,4% delle dimissioni negli
Stati Uniti era riferito a pazienti con diabete. Della
spesa sanitaria correlata a diabete in Italia, oltre il
60% è dovuto a costi diretti, attribuibili all’ospedalizzazione per complicanze acute e croniche. Il
diabete in ospedale costituisce una realtà trasversale a tutti i reparti: è presente, infatti, almeno in
un paziente su quattro tra i degenti e in un paziente su due/tre in terapia intensiva cardiologica.
Il ricovero ospedaliero non è sempre dovuto a
eventi metabolici legati alla malattia, ma più frequentemente a eventi acuti che richiedono un ricovero urgente (ictus, infarto miocardico, infezioni, frattura o trauma) o a interventi chirurgici
in elezione in persone con diabete, che comportano per sé uno stress metabolico. La presenza di
XXXVII
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diabete (noto o di nuova diagnosi) aumenta il rischio di infezioni e complicanze, peggiora la prognosi, allunga la degenza media e determina un
incremento significativo dei costi assistenziali.
16. Definizione di standard
Per i contenuti del Capitolo si rimanda alla Parte
Prima, Capitolo 6.
17. La valutazione degli indicatori
di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
Gli indicatori di processo e di risultato intermedio,
per il loro numero elevato e per le difficoltà di
estrazione dei dati dalle cartelle cliniche/schede
ambulatoriali, dovrebbero essere intesi come una
check list per mezzo della quale il medico possa
analizzare i suoi processi di cura e i risultati che
ne conseguono e allinearli alle Linee guida condivise: si tratta di uno strumento di analisi e d’indirizzo che si svolge in tempo reale, cioè mentre
avviene il processo di cura, ed è volto a misurare
e a migliorare la performance.
Gli indicatori di esito hanno un’utilità probabilmente marginale in un’ottica di autovalutazione:
infatti, l’esiguità delle singole casistiche non consente di raggiungere un numero di eventi adeguato
e la stretta dipendenza dell’outcome dal case mix
ne impedisce un utilizzo appropriato per attività
di benchmarking.
L’individuazione di un minimum data set costituisce, invece, il vero strumento affidato ai professionisti per misurare la loro performance e va
applicato a una percentuale più significativa di
soggetti; in questo caso lo strumento analizza e
misura retrospettivamente ciò che è stato fatto e
ottenuto relativamente agli aspetti essenziali di
una specifica condizione clinica: la misura di ciò
XXXVIII
che è stato fatto, cioè della performance, costituisce l’elemento essenziale e critico da cui partire
per migliorare la qualità dei processi di cura.
18. Individuazione di strategie
di implementazione delle Raccomandazioni
La produzione di Linee guida e/o Raccomandazioni di pratica clinica tese al raggiungimento di
obiettivi di salute rappresenta un momento molto
importante nella costruzione dei principi del Governo Clinico, ma rischia di restare un mero esercizio accademico se non è accompagnata da una
programmazione pragmatica relativa all’organizzazione dei servizi deputati a erogare quelle prestazioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi posti.
È quindi necessario tentare di disegnare un quadro
organizzativo di riferimento, con precisi riferimenti pratici per realizzare setting idonei all’applicazione delle Raccomandazioni espresse e alla
rilevazione degli indicatori di esito che consentiranno di monitorare l’efficacia e la qualità delle
prestazioni rese.
Il quadro di riferimento di principio è quello che
permette di applicare sulla più vasta scala possibile
il modello di assistenza delle malattie croniche
(chronic care model), che, ove applicato, sembra
promettere i migliori e più duraturi risultati sia
relativamente agli obiettivi di salute sia a quelli
economici.
La comunità scientifica è oggi in grado di fornire
ai cittadini e agli operatori sanitari una serie di
Raccomandazioni basate su forti evidenze; l’implementazione di queste Raccomandazioni nella
pratica clinica è certamente in grado di fornire al
cittadino affetto da diabete un notevole valore aggiunto in termini di spettanza e soprattutto di
qualità di vita.
È tuttavia necessario, per poter applicare con buon
Sintesi dei contributi
successo quanto stabilito dalla ricerca scientifica,
modificare in parte il sistema organizzativo sanitario, per avviarsi sulla strada della corresponsabilizzazione informata dei cittadini e fornire loro
i più adeguati percorsi clinici relativi alla patologia
da cui sono affetti.
19. Il ruolo delle Associazioni
Il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in progress) ripropone ulteriore attenzione nei confronti
del ruolo delle Associazioni dei pazienti, enfatizzando la necessità:
• della promozione del ruolo del cittadino e delle
Associazioni nella gestione e nel controllo delle
prestazioni del SSN;
• della partecipazione sostenibile dei pazienti e
delle loro Associazioni negli organismi e nei
processi decisionali;
• del coinvolgimento dei familiari e delle Associazioni di Volontariato nei percorsi sanitari.
Tali necessità sono elementi essenziali per sviluppare l’empowerment del paziente e il grado di soddisfazione nei confronti dei servizi erogati e per
consentire al Volontariato di effettuare interventi
non parcellizzati, ma sinergici e coordinati con i
vari nodi del sistema e con le attività delle istituzioni.
XXXIX
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Abstract
PART ONE
1. Definition of obesity
Obesity occurs due to an unbalance between calorie
intake (from food) and energy expenditure (resulting from basal metabolism, physical exercise and
thermogenesis), leading to a build-up of excess
calories in the form of triglycerides in adipose tissue
deposits. The degree of obesity, i.e. excess fat, is
commonly expressed using the body mass index
(BMI), which is calculated by dividing body weight,
expressed in kg, by height, expressed in square meters. BMI = kg/m2. According to the WHO, an
individual is of a normal weight if he/she has a
BMI < 25 kg/m2, is overweight if BMI ≥ 25 kg/m2
and is obese if BMI ≥ 30 kg/m2. The limitation of
BMI as a measurement is that it does not provide
any effective information about the subject’s actual
body composition, since it makes no distinction
between body fat or lean body mass (for instance,
despite having very little body fat, a weightlifter
would be considered obese), nor does it provide
information on the distribution of body fat. The
diagnosis of being overweight or obese established
using the BMI therefore needs to be complemented
by the use of direct indicators of adipose deposits
and the distribution of body fat that allow a more
straightforward clinical classification of obesity and
fundamental descriptive classification in order to
identify those subjects at the greatest risk of morbidity. One of the most commonly used measurements is waist circumference, which gives an indication of how body fat is distributed and of the
possible related metabolic complications.
XL
2. The current situation
According to WHO forecasts, by 2015, there will
be about 2.3 billion overweight adults and over
700 million obese adults worldwide. Originally
considered a problem facing rich countries alone,
obesity and overweightness are currently growing
dramatically also in poorer countries, particularly
in urban areas, and have come to be recognized
as significant public health problems.
The WHO has rightly defined obesity as the epidemic of the 21st century. In its “Report on Health
in Europe 2002”, the WHO’s Regional Office
for Europe defined obesity as “an epidemic affecting the whole of Europe”, to the extent that
about half the adult population is overweight and,
in many countries, 20-30% of individuals can be
defined as clinically obese.
The situation is particularly worrying because of
the high morbidity related to this condition, particularly that of a cardiovascular nature, as well as
type 2 diabetes, which is usually preceded by the
various components of metabolic syndrome (arterial hypertension and atherogenic dyslipidemia)
with progressive atherosclerosis and increased risk
of cardio- and cerebrovascular events.
In the WHO European Region, the prevalence
of obesity has tripled over the past twenty years.
Overweightness and obesity are responsible for
80% of type 2 diabetes, 35% of ischemic heart
disease and 55% of hypertensive diseases amongst
Europe’s adult population. Poor but rapidly evolving countries are experiencing a fast increase in
obesity, whereas the more advanced countries,
where the difference in income between rich and
poor is greatest, usually have the highest absolute
levels of obesity.
In 2009, 11.1% of Italian men and 9.2% of Italian
women were obese. The percentage of obese subjects is highest in the south of the country and
Abstract
the islands (11.1%). The rates for the northern
and central parts of the country are practically
identical (9.7% and 9.6%, respectively). Prevalence amongst adults increases with age up to the
65-74 year bracket, in which peak values are found
(15.6%), and subsequently decreases. Overweightness and obesity primarily affect socially disadvantaged categories, which have the lowest income
and poorest schooling, as well as the greatest difficulties in accessing treatment. Obesity therefore
reflects and accompanies inequality, favoring the
onset of an authentic vicious circle.
Infantile obesity is one of the most pressing issues
of the 21st century. Prevalence has reached alarming levels: according to the WHO, in 2005 a staggering 20 million children under 5 years of age
were overweight worldwide. The problem is a
global one: it has been estimated that in 2010,
more than 42 million children under 5 years of
age were overweight and of these, almost 35 million live in developing countries. The severity of
the spread of infantile obesity lies in the fact that
obese children are likely to become obese adults.
Obesity is a risk factor for many serious conditions
and chronic diseases.
It accounts for 2-8% of spending on healthcare
and 10-13% of deaths in various parts of the
WHO European Region in which, every year excess weight causes more than 1 million deaths
and the loss of 12 million DALY (disability-adjusted life years). Obesity also takes a hefty toll
on economic and social development.
Obesity prevention programs run by the Italian
Ministry of Health follow various directions, including cooperating with the WHO European
Region to define a strategy to fight chronic diseases called Gaining Health; cooperating with the
WHO to devise a European strategy to fight obesity; the European indications issued by the EPSCO Council in 2006; the Piano Sanitario
Nazionale [National Health Plan] 2006-2008;
the Piano di Prevenzione [Prevention Plan] 20102012; and the development and coordination of
the “Guadagnare Salute” [Gaining Health] Interministerial program based on the identification
of correctable risk factors (diet, smoking, alcohol
consumption, lack of exercise) and the main
causes of common health complaints.
3. Clinical appropriateness
Accurate history taking is the most delicate part
of a procedure that, if it is not performed in a
complete and adequate manner, can prejudice
therapeutic decisions and ultimately vanquish investments in treatments. The family history must
fully investigate the presence of obesity, type 2
diabetes, arterial hypertension and hyperlipoproteinemia in 1st degree relatives (and in some cases
also 2nd degree relatives, where possible). Dietary
history taking must be very thorough, to evaluate
both current and previous eating habits. When
taking the patient’s pathological history, it is important to assess the presence of anxiety, depression and other mental illnesses correctly.
In the clinical assessment of patients with obesity,
the most simple, scientifically correct and practical
way to quantitatively evaluate excess weight is the
calculation of the patient’s BMI. However, BMI
calculation should be complemented by measuring the waist circumference, which is directly related to the presence of abdominal fat, and the
hip circumference. Evaluation of the patient’s
body composition by bioelectrical impedance
analysis (BIA) is undoubtedly useful in the assessment and follow-up of the obese patient.
In addition to due attention to cardiovascular diseases, it is important to thoroughly investigate
other conditions related to lower degrees of inflammation and endocrine diseases, also with hor-
XLI
Ministero della Salute
monal and/or instrumental investigations: thyroid
and adrenal gland disorders, insulin-resistance or
dysglycemia.
With regard to diet, when dealing with obesity, it
is essential not to talk merely in terms of a low
calorie diet, but rather of a correct lifestyle. Lifestyle
is a set of habits that can be altered throughout an
individual’s life and, according to the WHO’s 2002
report, in addition to a healthy, varied diet, it should
also include regular exercise, moderate alcohol consumption and no smoking or substance abuse.
Permanent lifestyle change can be achieved using
cognitive and behavioral techniques that help the
patient to make the decisions he/she faces every
day, thus promoting their resolve to continue the
program undertaken, whilst trying to establish a
relationship between the feelings that precede, accompany and follow eating and physical exercise
with the performance quality that the patient
aims to achieve.
4. Structural and technological
appropriateness
A healthcare model suited to the characteristics
of the obese patient necessarily involves highly
specialized centers that cooperate closely with
other community medicine facilities, general practitioners, primary care pediatricians and local hospital facilities that request consultations.
For obesity treatment to be effective, in terms of
both results and maintenance, medical intervention must be accompanied by educational initiatives that allow the subject to understand the
causes of the problem and to make the necessary
changes to daily life to achieve the targets set.
On an institutional level in Italy, healthcare technology assessment (HTA) received an explicit
mention in the Piano Sanitario Nazionale 20062008: “Healthcare technology assessment, in-
XLII
tended as a set of methods and tools that support
decisions, focuses on different levels of decisionmaking in relation to differentiated operational
models aimed at lending support to:
• healthcare policy decisions;
• “managerial” decisions concerning hospital investments in new technologies and the promotion of an appropriate use of the same technologies through the drafting of protocols;
• clinical decisions, for the distribution of “governance models” identified by central facilities
to be adopted on an organizational level, such
as the definition and distribution of qualitative
and quantitative standards.
Ultimately, the novelty of HTA is linked to two
main aspects: the multidimensionality of assessment and its systematic nature.
As far as the technologies for the prevention and
follow-up of obesity-related complications is concerned, this chapter lists a number of diagnostic
aids for measuring body composition, with the
description of full-body BIA, DEXA (dual-energy
x-ray absorptiometry) and CT scanning of the
lumbar spine. It also deals with the importance
of assessing energy expenditure, comorbidity and
cardiopulmonary function.
The primary purpose of obesity treatment should
be to achieve and maintain weight loss in order
to reduce the risk of complications. Although the
treatments currently approved for obesity, and
some of the treatments being developed, do lead
to weight loss and therefore potentially represent
tools for preventing the complications of obesity,
they are nevertheless limited by the fact that they
only allow modest weight loss over time and that
they are followed, when treatment is discontinued,
by rapid weight gain.
The surgical treatment of obesity usually consists
in altering the anatomy of the digestive tract. This
acts by means of two mechanisms: a) mechanical
Abstract
and restrictive mechanisms that facilitate a reduction in the amount of food eaten and therefore
make it easier to follow a low-calorie diet and b)
metabolic and absorption mechanisms that, more
or less selectively, alter the digestion and absorption
of food, particularly fatty foods, to reduce calorie
intake. Laparoscopy is the technique of choice and
the gold standard in terms of patient compliance,
the procedure also has a lower complication rate
related to the less-invasive surgical incision/access.
Early mobilization and a faster functional recovery
are great advantages in these high risk patients.
5. Operative appropriateness
In Italy, the concept of “dedicated care” for very
obese patients in specialized centers organized into
networks has never been introduced into national
or regional legislation, remaining relegated to Guidelines in some Regions for the definition of the pathways of care for this kind of patient. The hub and
spoke model put forward for the management of
chronic conditions of special healthcare and economic interest, involves the concentration of tailored
care,, in centers of excellence (hub) and the referral
of patients to peripheral centers (spokes), for the
continuation/integration of their treatment/rehabilitation program. Networks created using this approach aim to guarantee a coordinated action of
intervention, thus assuring patients optimum
healthcare in the best suited facility in terms of clinical and organizational appropriateness.
With regard to training, it is essential for GPs to
be correctly informed of all the diagnostic and
therapeutic aspects related to obesity, but also in
concert, to be able to count on highly specialized
centers for patient referral.
Moreover, the training of surgeons who regularly
treat obese patients must not merely include continuing updates on surgical techniques and tools,
but also dedicate greater attention to the concept
of chronicity, incorporating a chain of medical
procedures that will accompany the patient for
the rest of his/her life.
The prevention of obesity is based on school education during the developmental age, including
education on health, exercise and diet. It is the
school’s responsibility to give technically-correct
messages, including using innovative teaching aids
that are able to stimulate the students’ imagination
and imitation skills.
It should be pointed out that regular physical exercise causes a change in body composition, with
an increase in muscle mass and therefore lean,
metabolically active mass, which is associated with
an increase in resting energy expenditure.
There can be no doubt that it is not just a particular diet that reduces risk factors in the long-term,
rather lifestyle as a whole, intended as a way of
behaving that suits the subject’s condition.
The particular characteristics of morbid obesity as
a chronic disease, its comorbidities and consequential disabilities that negatively impact both quality
of life and health expenditure. This calls for an approach that also involves rehabilitation and not
just treatment alone. It is therefore important to
devise and develop pathways of care based on a
multidisciplinary approach that not only deal with
the weight issue over a longer period, but, above
all, prevent and treat its complications.
Regional obesity prevention, diagnosis and treatment networks are structured into various levels
including both community and hospital facilities.
6. Indicators and standards:
definitions and types
An indicator is a piece of quantitative or qualitative
information that is numerical and therefore “measurable”, that provides feedback on the level of suc-
XLIII
Ministero della Salute
cess obtained by working on critical factors and
provides an efficacious picture of the achievement
of strategies and objectives. One of the main aims
of the EU health program (2008-2013) is the provision of comparable information on the health of
Europe’s citizens by developing healthcare indicators and collecting data. The information to be
collected observes the way the population behaves
in relation to health (data on lifestyle and other
health determinants), diseases (the incidence of severe, rare and chronic diseases and how they can
be monitored) and healthcare systems (information
on access to services and the quality of care provided, data on human resources and the financial
capacity of our healthcare systems). Data collection
is based on comparable health indicators that can
be applied across Europe and on common definitions and methods of collection and use. Indicators
express an evaluation of a situation that if correctly
measured and processed, can be broken down into
two macro-categories: synthetic and analytical.
Indicators must be processed primarily using elementary data and must possess certain characteristics related to the accessibility of the data: reliability
in the measurement of a situation, comprehensibility, sustainable cost, and absence of ambiguity.
By definition, an indicator only describes one aspect
of a complex process that can rarely be condensed
into a single measurement. The choice of indicator
is therefore important, above all in terms of its
ability to rate a process, suggesting a review and
improvement in the quality of that same process.
7. Evaluation of process and outcome
indicators concerning obesity to confirm the
validity of the operative proposal
Unlike other chronic diseases, little attention in
scientific literature on obesity has been dedicated
to the issue of outcome and, above all, process
XLIV
indicators. This is undoubtedly due to the fact
that it was only in relatively recent times that besity was categorized as a chronic disease, which is
associated with an increase in the morbidity and
mortality in the general population, and one of
the main causes of disability and spending on
healthcare. On the other hand, the relatively poor
efficacy of the treatments available compared to
that achieved for other chronic illnesses and the
relatively recent advent of more effective therapies,
such as bariatric or weight loss surgery and multidisciplinary rehabilitation, make the field of obesity therapy one that is still largely experimental
and lacking in well-defined guidelines.
When dealing with this topic, the issue of process
and outcome indicators has been considered according to the different levels within the healthcare setting in which the management of the obese
patient takes place.
8. Identification of strategies for the
implementation of recommendations
The explosion of the obesity epidemic and its
economic, social and health-related repercussions
call for effective counter measures based on an
interaction between all the various players (institutions, expert panels, representatives of civil society and the private sector) with a role to play in
the prevention and treatment of this condition.
All industrialized countries have adopted Guidelines for the prevention, diagnosis and treatment
of obesity. These guidelines, based on the latest
scientific evidence, identify the most effective
measures for dealing with the condition and develop initiatives aimed at preventing obesity in
the general population and at treating individuals
who are overweight or obese.
To achieve these targets it is essential to implement
strategies that facilitate healthy behavior in terms
Abstract
of both diet and the promotion of physical exercise.
This is only possible if we are fully aware that obesity
is not the problem or responsibility of a single individual, rather a social issue, and that healthy choices
can be directed through appropriate economic,
farming, town planning and transport policy.
The implementation of the initiatives detailed in
the guidelines is essential to distributing, applying
and monitoring their efficacy. This process consists
of introducing the Guidelines into current practice
using appropriate intervention strategies that aim
to encourage their use and to remove the factors
that hinder change.
metabolic alterations may or may not be associated
with a defect in the way the insulin acts in the
target tissues, primarily in the liver, skeletal muscular fibers, adipose tissue and vascular cells. Insufficient insulin activity can be caused by inadequate insulin secretion and/or a reduced peripheral
response to the action of insulin at one or more
points in the complex cell transmission pathway.
The most common forms of diabetes, which account for almost all cases of the disease, fall into
three main categories: type 1 diabetes (type 1
DM), type 2 diabetes (type 2 DM) and gestational
diabetes.
10. The current situation
PART TWO
9. Classification and definition
of diabetes mellitus
Diabetes mellitus, commonly known as diabetes,
is a group of metabolic diseases in which the main
defect is an increase in blood glucose levels (hyperglycemia). Diabetes can be caused by an absolute
deficiency of insulin secretion or a reduced response
to insulin in the target organs (insulin resistance)
or a combination of both. The chronic hyperglycemia of diabetes is associated with long-term
organ damage (chronic complications) leading to
the dysfunction and failure of various organs such
as the eyes, kidneys, autonomous, peripheral and
central nervous systems, heart and blood vessels.
The processes that lead to the development of diabetes range from the autoimmune destruction of
pancreatic beta cells and consequent insulin deficiency, to defects caused by increased insulin resistance in the peripheral tissues. The basic alterations in the metabolism of carbohydrates, fatty
acids and proteins are caused by a deficiency in the
secretion of insulin in response to glucose. These
We are currently experiencing a global diabetes
epidemic, with a prevalence that will reach a peak
of 6.3% in 2025, involving 333 million people
worldwide. The WHO has consequently classified
diabetes amongst the chronic diseases warranting
the highest investments for prevention, considering the growing importance the condition has
taken on in developing countries and the possibility of implementing effective and affordable
measures of prevention.
The risk of developing type 2 DM depends largely
on age, obesity, family history and ethnic origin.
In Italy, the increase in mean life expectancy and
change in lifestyle (lack of exercise, obesity) are
to a great extent responsible for the expected increase in the prevalence of type 2 DM.
The temporal increase in the prevalence of type 2
DM has a number of causes: increased incidence
of the disease, earlier age of onset and diagnosis,
increased patient survival and, above all, the ageing
of the general population. This last factor is most
likely that of greatest impact in industrialized
countries. In Italy, for 2009, Istat estimated a
prevalence of diagnosed diabetes of 4.8%. The
XLV
Ministero della Salute
prevalence of diabetes increases with age up to
18.9% in people aged 75 or over. Prevalence is
highest in southern Italy and the islands, with a
value of 5.5%, followed by Central Italy with
4.9% and the North with 4.2%. There are currently at least three million diabetic people in
Italy, to which we can add an estimated further
one million who are unaware that they have diabetes. Social inequality greatly affects the risk of
diabetes: the prevalence of the disease is higher in
women and the lower social classes, an effect that
can be observed in all age brackets.
Italian data on the incidence of the disease is very
limited. The main methodological problem is the
incompleteness of epidemiological data for the
adult population, whereas in the pediatric age almost all diabetics are followed regularly by diabetes centers from the time of diagnosis. To this
we can add diagnostic difficulties connected with
the need to perform the oral glucose tolerance
test in order to estimate the number of cases of
asymptomatic diabetes in the population.
Type 1 DM is one of the most frequent chronic
diseases of childhood and its incidence is on the
increase. A survey conducted by the International
Diabetes Federation calculated that the incidence
of type 1 DM worldwide is about 65,000 new
cases/year. Type 1 DM, although less frequent
than type 2 (1 case every 10 diabetics), has a high
social impact, as it affects young subjects. The incidence is between 6 and 10 cases per 100,000
per year in the 0 to 14 years age bracket, and the
incidence of cases between 15 to 29 years is estimated at 6.72 cases per 100,000, with significant
geographical differences.
The diabetes epidemic also has considerable economic repercussions. In Italy, diabetics are currently responsible for health resource consumption
2.5 times that of non-diabetics of the same age
and sex. Each year in Italy there are more than
XLVI
70,000 hospital admissions for diabetes, most of
which are due to complications such as stroke
and myocardial infarction, diabetic retinopathy,
renal insufficiency and lower limb amputation.
As far as medicinal products are concerned, costs
are primarily attributable to the treatment of cardiovascular complications. In any case, all categories of medicinal product are used to a greater
extent by diabetics than non-diabetics, demonstrating the condition’s multiorgan involvement.
The cost of treatment for complications is also
particularly high. In 2010, diabetes was responsible
for 10-15% of all healthcare costs in Italy. The social cost of diabetes therefore looks set to become
increasingly difficult for the community to support, in the absence of efficacious prevention.
The main specific international strategies on diabetes are: the indications defined on a European
level by the EPSCO Council in June 2006; the
contents of the UN Resolution of December
2006; the conclusions of the New York Forum
held in March 2007 and the work of the European
Commission on “Information to patient”, which
highlights the need to develop national policies
for the prevention, treatment and care of diabetes.
The Italian Ministry of Health’s commitment over
the past few years has focused on updating and innovating the contents of specific regulations on diabetes, identifying strategies that require operative
rules based on extensive dialogue and cooperation
between the main players involved in providing
diabetes care and effective interaction between the
Regional Authorities, professional associations, voluntary associations and public and private institutions. We can still consider current and applicable
the general aims identified by Law no. 115 of 1987,
the Deed of Intents drafted in 1991 and the aims
of the 2006-2008 National Healthcare Plan which
puts diabetes amongst the four most important
medical conditions, alongside respiratory and car-
Abstract
diovascular diseases and cancer. This highlights the
importance of a reorganization of the primary care
system and an integration between the different
levels of healthcare, at the same time promoting
the role of the citizen and community in the choices
and management of the Italian NHS.
In addition to the indications issued by the WHO
and the Saint Vincent Declaration, which place
the emphasis on the development of a national
diabetes program and on the importance of intervention by the state and public administration to
guarantee the prevention and treatment of diabetes, national strategies cannot overlook the European recommendations. The diabetes prevention
programs implemented in Italy follow various directions, including cooperating with the WHO
European Region in the definition of a strategy
aimed at preventing chronic diseases (Gaining
Health); cooperating in the construction of a European strategy to fight obesity; the organization,
through the CCM network in conjunction with
the Istituto Superiore di Sanità [National Institute
for Health], of the IGEA (Integration, Management and Caregiving for diabetes) project; the development and coordination of the “Gaining
Health” Program and Italy’s participation in the
definition of the European indications on diabetes
issued by the EPSCO Council in 2006.
In 2004, the Ministry of Health introduced the
complications of diabetes amongst its areas of priority intervention. The Piano di Prevenzione Attiva [Active Prevention Plan] considered the prevention of diabetes complications implemented
by the adoption of strategy programs for chronic
disease management.
11. Clinical appropriateness
The diagnostic appropriateness of diabetes is based
on the correct use of the criteria that have been
developed over the years and were recently further
defined. Fasting glycemia or oral glucose tolerance
test (OGTT) measurement and the glycosylated
hemoglobin (HbA1c) test make it possible to identify subjects at risk of diabetes and cardiovascular
diseases.
Fasting glycemia, OGTT and HbA1c testing are
currently considered equally useful for diagnosing
diabetes, despite the differences between these assays. However, overall the HbA1c test is considered
to be the most reliable for a number of reasons. It
is an expression of mean glycemia over a longer
period (2-3 months), rather than at a single moment in time. From an operative point of view,
the HbA1c test should be performed at least twice
a year for each diabetic patient, even when regular
glycemia monitoring is performed, to achieve the
treatment objective.
A number of studies have clearly shown that the
prevention of the development (or at least a slower
progression) of the chronic complications of diabetes
requires the early introduction of a suitable therapeutic strategy aimed at controlling numerous risk
factors which in turn has a positive effect on patients’
life expectancy. These factors are represented, in
particular, by age, sex, familiarity for coronary artery
disease or sudden death, duration of diabetes,
glycemic control, physical exercise, smoking, body
weight and distribution of body fat, arterial pressure,
plasma lipid levels and microalbuminuria. To make
a positive impact on the prognosis for diabetic patients, targets must be set. It is no coincidence that
in interventional studies in which the many risk
factors for vascular disease were dealt with simultaneously, remarkable reductions were achieved in
both cardiovascular events and mortality.
Of the various therapeutic tools available, a key
role is played by therapeutic education, i.e. a set
of educational initiatives aimed at specific subject
categories, involving the transfer of knowledge
XLVII
Ministero della Salute
and training to acquire skills and promote behavioral changes. In diabetic subjects, therapeutic education aims to improve the efficacy of treatment
through the active and responsible participation
of the diabetic person in the treatment program.
Improving not merely lifestyles, but also personal
skills in performing the activities supporting treatment and the choices of change in the treatment
plan improves the efficacy of care and the psychophysical wellbeing of the diabetic person.
The Italian standards for diabetes mellitus care,
drawn up by the two Italian scientific societies
that deal with diabetes (AMD and SID), aim to
provide suggestions for the diagnosis and treatment of diabetes and its complications and for
the achievement of the treatment targets on which
the diagnostic and therapeutic choices are based.
Additionally, the AMD and SID provide indications on the instruments required to evaluate the
quality of care, for the Italian system.
12. Structural appropriateness
The tasks allocated to primary care physicians in
the management of diabetic patients in a number
of consensus documents and guidelines call for
an evolution of the care and organizational model
applied in the general medicine field. This requirement, which applies for all of the most common chronic conditions, has been highlighted in
scientific literature for several years.
In the management of chronic diseases (particularly diabetes), the primary care physician can no
longer work through separate, uncoordinated initiatives, but needs a tool to helpverify the appropriateness and quality of the care provided (to
promote an ongoing improvement in performance). This is made possible by the clinical information system, by means of the data recorded in
the electronic medical chart, which is transformed
XLVIII
first into process and outcome indicators and then
into legible information.
Italy boasts an unparalleled network of specialist
facilities that has been the focus of studies and
appraisal by international organizations. The network of diabetology services provides specialist
care that covers many aspects of disease management. This network, is particularly effective in
northern and central Italy, allowing it to serve almost all diagnosed diabetics. This organization
can in part explain the better care results in Italy
than in other countries, as measured by various
epidemiological surveys. The identity of Italian
diabetology is closely connected to this network
of services that over time has made a contribution
to attracting to the issue students, those who are
about to graduate and new graduates, keeping
alive the attention for a medical question with a
very high economic and social importance.
Over time, Italian diabetology has undergone an
historical and cultural transformation that has taken
it from a discipline concerned with the treatment
of the acute and subacute phases of the disease to a
discipline whose main focus lies in the prevention
of subsequent complications. In recent years, a
great deal of attention has been dedicated to the
matter of the quality of services and procedures.
The hospitalization of a diabetic patient, regardless
of the causal condition, can represent an opportunity to assess the efficacy of treatment and,
where necessary, improve metabolic imbalances.
The staging of chronic complications should also
be verified during hospitalization. Appropriate
and correct integration with the diabetologist,
through referral for consultation, is therefore required. Upon discharge of a patient requiring
home blood glucose monitoring, it is essential to
provide therapeutic education on how to use devices, which should then be continued by the primary care physician and diabetology service.
Abstract
Approximately one in four people living in residential facilities has diabetes. Consequently, it is
essential to guarantee care that suits patients’ needs
and that is not inferior to that provided to other
patients, in line with care standards. Medical staff
must therefore receive specific training on metabolic and clinical monitoring procedures, and the
therapeutic tools available for the treatment of
diabetes. Elderly patients often have comorbidities
and are therefore frequently exposed to an inadequate or inappropriate use of diabetes medications, with consequent hypoglycemia, which represents an important cause of emergency hospital
admissions.
13. Technological appropriateness
Self-monitoring of blood glucose at home is an
essential part of diabetes mellitus treatment, with
different approaches to suit the clinical characteristics of the disease that is subject to medical
prescription and governed by applicable regulations. Regulations emphasize the right to a shared
choice of treatments between patient and physician. Technological innovation increases and diversifies the characteristics and features of the instruments used and calls for a thorough evaluation
of their appropriateness and usefulness. This very
important aspect is evaluated by means of various,
more or less restrictive, criteria and it is essential
to remember that accuracy should also be assessed
in direct use by patients.
The key factor for an accurate determination of
glycemia concentration is to convert glucose concentration into a specific signal that can be measured accurately. For this reason, the measurement
techniques currently used are colorimetric (reflectometer) or electrochemical (potentiometer). In
this context, despite the importance of technological factors, particularly the device’s acceptabil-
ity, for the diabetologist and patient the most important aspect remains the accuracy of the information obtained on blood glucose concentration.
All validated glucose meters in current use satisfy
ISO criteria. Despite this, clinical studies have
shown that, when these instruments are used by
patients, the error rate is often over 20%. Various
factors contribute to this amplification: such as
the way the strips are stored, the operator’s dexterity and, last but not least, calibration. The accuracy of self-monitoring can therefore be greatly
affected by procedural errorsintroduced by the
patient. Of the main operator-dependent errors,
lacking or incorrect calibration is undoubtedly
the most common. Scientific literature provides
several reports of how incorrect calibration can
lead to incorrect blood glucose measurements that
may influence clinical action.
Continuous subcutaneous insulin infusion (CSII)
using a microinfusion pump is an increasingly
common method used to treat patients with type
1 diabetes. If we consider the results of the last
national survey on the subject, the increase in the
number of patients treated with CSII since the
early 2000s is remarkable. All the pumps currently
available are able to adjust daily basal insulin administration to optimally match the insulin requirements of patients at different times of the
day. Of the causes that have favored the adoption
of this therapeutic option we cannot overlook the
technical evolution and great reliability of the
tools that are now available, with a simultaneous
evolution of the infusion sets.
Continuous blood glucose monitoring is now
possible using minimally-invasive techniques, i.e.
direct, continuous monitoring of the glucose concentration present in the interstitial fluids, most
specifically those that interface the subcutaneous
adipose tissue. This approach, made possible by
the availability of needle-shaped glucose sensors,
XLIX
Ministero della Salute
is similar to that using blood. These devices also
provide immediate data on the speed and direction of the response shift. Lastly, these systems
make it possible to predict glycemia value shifts
in the moments that follow and can alert patients
if they pass the hypo- or hyperglycemia thresholds,
allowing them to take a pro-active attitude and
adjust their insulin therapy or diet.
Diabetes mellitus is an example of a chronic disease whose management has long since been supported by telematic systems used in the screening
of chronic complications, blood glucose monitoring and for educational purposes. Specifically,
for diabetic patients, telemedicine is an important
option for the management of self-monitoring of
capillary blood glucose. For some time now, remote systems have been used to manage the information obtained by self-monitoring and many
contributions in scientific literature confirm the
clinical usefulness of these systems.
The action of the medicinal products used to treat
type 2 DM consists primarily in increasing peripheral sensitivity to the action of insulin, in
stimulating the secretion of insulin both directly
and in response to glucose and in reducing the
intestinal absorption of glucose. The choice of
glycemia-lowering agents to be used to treat type
2 patients depends on the patient’s individual
medical requirements and treatment targets, the
agent’s potency in achieving optimal glycemia
control, tolerability and the potential side effects
of the medication used, ease of administration,
cost-benefit considerations and the presence of
other extra-glycemic effects.
Insulin therapy in type 2 DM can be established
as basal, using synthetic human insulin or synthetic modified human insulin analogues with a
half-life of almost 24 hours without action peaks
or ready-mixed insulin solutions that combine,
in the same syringe, fast-acting (human) insulin
L
or ultrarapid modified human insulin analogues,
and a recombinant human insulin with an intermediate half-life.
The most important results concerning the assessment of blood glucose control in type 1 DM
patients was achieved with “The Diabetes Control
Complication Trial” (DCCT), which was completed in 1993 and with the subsequent monitoring of the patients who took part in the study
in the Epidemiology of Diabetes Intervention and
Complications (EDIC) study. These results suggested that patients with type 1 DM should be
treated with an intensive therapy regimen under
the supervision of a specialist team, evaluating in
all cases the risk-benefit ratio. In most patients,
blood glucose control is difficult to achieve without using multiple daily injections combining the
action of fast- and slow-acting insulin. Alternatively, continuous subcutaneous insulin infusion
(CSII) using an infusion pump allows patients to
adjust the dose of insulin according to the results
of glycemia obtained by self-monitoring, daily dietary calorie intake and exercise.
The first pancreas transplants were performed in
the mid-1960s and since then over 30,000 diabetic patients have undergone the procedure. Most
transplant patients, in addition to a pancreas from
a deceased donor, also receive a kidney from a
deceased or a live donor due to the presence of
concomitant chronic renal insufficiency. In these
cases, combined pancreas and kidney transplantation can simultaneously resolve both the metabolic problem and the renal one, thus freeing the
patient from insulin dependence and the need
for dialysis. In Italy, the first pancreas transplants
were reported to the Centro Nazionale Trapianti
[National Transplant Center] in 1992 and since
then over 1000 transplants of this kind have been
performed, of which over two thirds were combined pancreas and renal transplants. Recent data
Abstract
show that the 15-year survival rates post-transplantation for combined pancreas and kidney,
pancreas after kidney and simple pancreas transplantations were 56%, 42% and 59%, respectively. In parallel, in the same recipient categories,
the half-life of the transplanted pancreas has been
established, in order, as 12, 7 and 9 years for these
procedures performed in the period 1998-1999.
The effect of pancreas transplantation on the
chronic complications of diabetes is not easy to
define, as vascular damage is often in an advanced
stage in transplant patients. However, studies with
a suitably long follow-up have shown that posttransplantation, retinopathy tends to regress or at
least stabilize in a high percentage of cases (over
80%, according to some sources), than that observed in control groups. However the steroid therapy, which forms part of the anti-rejection strategy,
can accelerate the progression of the cataract. The
lesions typical of diabetic nephropathy can regress
even 5-10 years after a pancreas transplant, whereas
proteinuria drops significantly soon after the procedure. It must also be remembered that certain
immunosuppressants are nephrotoxic and therefore, in the event of kidney then pancreas or isolated transplantation, renal function must be reasonably well preserved. Autonomic and peripheral
neuropathy can improve after a pancreas transplant, an effect that, in the case of combined pancreas-renal transplantation, would appear to depend on pancreas function. As far as the effects
on macrovascular complications are concerned,
combined pancreas and kidney transplants are associated with a reduction in coronary or carotid
atherosclerosis and a lower incidence of myocardial
infarction and pulmonary edema.
Pancreas transplantation entails risks associated
with the surgical procedure itself (especially when
performed in patients with chronic renal insufficiency) as well as risks due to the use of antirejection
therapy (particularly infections and tumors). In
any case, thanks to the improvements in surgical
techniques and the progress made by immunosuppressant treatment, these risks are now limited.
Combined pancreas and kidney transplantation
is considered to be indicated in patients with type
1 DM and chronic renal insufficiency, in the absence of absolute or relative contraindications.
14. Operative appropriateness
The management of diabetic patients in Italy is
essentially organized on a community level. Even
when diabetology teams work in hospitals, most
of the care they provide is on an outpatient or
day hospital basis, whereas ordinary hospitalization is used for acute episodes or complications
of the disease and involves all medical and surgical
speciality units. Community level diabetology
treatment is therefore provided as part of a broader
care setting that on the one hand interacts with
general medicine, in a vision of overall disease
management and, on the other, as part of a twoway hospital-to-community flow.
The prevention of diabetes and metabolic diseases
in the general population involves a number of
professional figures in addition to physicians. A
key role of these professionals is to assist in the
distribution of educational messages to promote
healthy lifestyles and habits, the importance of
education and correct diet and appropriate physical exercise, smoking cessation, and the fight
against alcoholism and substance abuse.
Type 1 DM cannot currently be prevented, an issue that forms a subject for studies and clinical
trial. The prevention of type 2 DM applies to
subjects at a high risk of developing the disease
for both family history and environmental reasons
such as overeating and lack of exercise.
In the field of metabolic diseases and diabetes in
LI
Ministero della Salute
particular, which in recent years has seen the introduction of genomics, proteomics and metabolomics and the advent of new therapy protocols
and innovative medications calling for a frequent
updating of guidelines, the continuing education
issue is particularly urgent. This training process
must involve both the staff working in specialized
centers (health workers and nurses, dieticians,
podologists and psychologists as well as fitness
experts) and community medicine settings (general practitioners and primary care pediatricians),
to guarantee that continuity of care that becomes
an essential part of medical care in chronic diseases. Ongoing improvements in terms of efficiency and efficacy are only possible when based
on extensive training for the various groups of
professionals that is planned to suit the skills required and that is updated regularly over time.
Disease management and the chronic care model,
and the principles these two approaches embody
have now become the logical and conceptual
framework for anyone working in the field of
chronic disease management. It is well known
that the most effective management initiatives
target the “natural history” of the disease at all
levels. However, when a systemic approach is not
feasible due to a shortage of resources, it would
be useful to concentrate the efforts of all system
players on the points considered to be most critical
and appropriate for the local context.
The fundamental strong point of the disease management approach is that it focuses the energies
of all the system’s actors on common targets, albeit
with diverse responsibilities, to avoid an inconsistent, fragmented design that is often unable to
have a significant effect on the overall results of
the healthcare system. In other words, disease management is a systemic approach that makes it possible to contextualize initiatives, through identification of patient targets and the critical points
LII
of the natural history of the disease. Thus initiatives that best match the issues, the strengths,
limitations and strategies of the local system can
be concentrated, allowing dedication and focusing
of the energy of all the system’s players. In this
perspective, integrated management is the tool
used to transform the integrated systemic approach proposed by disease management into
something tangible.
The pathway of care is an innovative method used
for the critical review and redesigning of the care
program used for specific patient targets. The
construction of a pathway of care must be based
on a method able to bring together three different
focuses: organizational considerations, clinical aspects and matters related to the management of
the patient’s global needs. In short, pathways of
care are useful tools for transforming integrated
management into something tangible, and at the
same time they are essential for building a care
design suited to both the strengths and weaknesses
of the local setting. This makes it possible to include into the various stages the assessment indicators, which are specifically related to the contribution of the various services and different professional figures.
15. Particular situations
Hypoglycemia (glycemia < 70 mg/dl), particularly
in insulin-treated patients, is the main limiting
factor in the treatment of type 1 and type 2 DM.
There are three degrees of hypoglycemia: mild
and moderate, in which the individual is able to
manage the problem autonomously, and severe,
in which the individual has an altered state of
consciousness and requires help or treatment from
third parties to resolve the hypoglycemia.
The hyperglycemic emergencies or attacks that
can occur in diabetic subjects are diabetic ketoaci-
Abstract
dosis, which is characteristic of type 1 DM and
hyperglycemic hyperosmolar syndrome, characteristic of type 2 DM. Both may have a fatal outcome unless they are treated swiftly. Although
they are usually considered to be separate entities,
in actual fact they belong to the same continuous
spectrum of clinical emergencies caused by poor
diabetic control.
The transition phase between child- and adulthood, including the biological variations of puberty, pose particular problems for people with
type 1 DM and the pediatric diabetology team.
It is important to remember that the care required
by teenagers is very different to that required by
children and adults and therefore calls for a different skill set because, although in most cases
the young person has achieved autonomy in managing therapy, he/she has rarely achieved true
awareness of and responsibility for his/her disease.
This phase requires special focus on motivation,
taking into account the ambivalence typical of
this age, a kind of “aggressiveness” towards their
physicians and the part of the self related to the
illness. The transition from the pediatric facility
to the adult center should be a process rather than
a single event and should take place through the
gradual construction of an environment of open,
full dialogue and cooperation with the young patient that starts in the very early stages.
Diabetic foot is a condition that can develop in
patients with diabetes mellitus and it is characterized by different pathophysiological components
(peripheral polyneuropathy, peripheral arterial disease and infection). These different etiological factors can act individually or, more frequently, can
coexist in the pathophysiology of the disease. The
increase in mean life expectancy of the general
population and in diabetic patients in particular
has led to a rise in the incidence and prevalence of
chronic complications with an exponential increase
in macrovascular disease and its complications.
Diabetic foot is the late complication of diabetes
mellitus with the greatest social and economic
weight, since it entails long periods of outpatient
care, lengthy, repeated hospital stays and amputations, as diabetic foot is the most frequent cause
of non-traumatic leg amputation. Epidemiological
data shows that in Italy, diabetic foot is the primary
cause of non-traumatic amputation of the lower
limbs, accounting for 56% of all-cause amputation
and it is a common cause of hospitalization for
diabetic patients, due to the frequent flare-ups associated with the condition.
Pregestational diabetes (type 1 and 2) is still related
to a high frequency of maternal and fetal morbidity, despite the improvements in recent years
in fetal monitoring techniques and the care available for neonates and their mothers. National
prevalence data shows that every year in Italy
about 40,000 pregnancies are complicated by gestational diabetes and about 1300 by pregestational
diabetes. Pregnancy planning in patients with
pregestational diabetes is paramount to reducing
the frequency of adverse maternal and/or fetal
outcomes however, unfortunately in Italy only
about 50% of these pregnancies are planned.
All diabetic women of childbearing potential
should be informed of the importance of programming pregnancy in good glycemic control
and of using effective methods of contraception.
In patients with pregestational diabetes intensive
home self-monitoring of blood glucose is advisable
and should include pre- and postprandial as well
as night time monitoring. These patients should
be treated with intensive subcutaneous insulin or
microinfusion pump therapy (CSII). To reach
these targets, the patient should be followed by a
multidisciplinary team (diabetologist, expert
nurse, dietician and other professional figures)
and attend monthly outpatient clinic appoint-
LIII
Ministero della Salute
ments. As far as gestational diabetes mellitus
(GDM) is concerned, customized nutritional therapy, physical exercise and self-monitoring of blood
glucose are the cornerstones of treatment.
On an international level, the prevalence of diabetes
amongst hospitalized adults has been estimated at
between 12% and 25%. In 2000, 12.4% of hospital discharges in the Unites States involved a patient
with diabetes. Over 60% of diabetes-related health
expenditure in Italy is attributed to the direct costs
of hospitalization for acute and chronic complications. Diabetes in the hospital constitutes a multidisciplinary issue: it affects at least one in every
four inpatients and two in every three patients in
cardiac intensive care. Hospital admission is not
always caused by metabolic events related to the
illness, rather more frequently to acute events calling
for emergency hospitalization (stroke, myocardial
infarction, infections, fractures or trauma) or to
elective surgery in diabetic subjects, which in itself
entails metabolic stress. The presence of diabetes
(known or newly diagnosed) increases the risk of
infections and complications, worsens prognosis,
lengthens the mean time to discharge and causes a
significant increase in treatment costs.
16. Definition of standards
About the contents of this Chapter see Part One,
Chapter 6.
17. Evaluation of process and outcome
indicators to confirm the validity
of the operative proposal
On account of the high number of medical charts
and outpatient records and the difficulties in extrapolating data from these record, process and
interim result indicators should be considered.
LIV
These indicators may form a kind of checklist to
be used by the physician to analyze care processes
and results, and to facilitate compliance with common guidelines: an analysis and orientation tool
that works in real time, i.e. during the care process
and aims to measure and improve performance.
Outcome indicators most likely have marginal
usefulness in terms of self-assessment: the scarcity
of the individual caseloads does not make it possible to obtain a high enough number of events
and the close dependency of the outcome on the
case-mix prevents an appropriate use for benchmarking activities.
The identification of a minimum data set, on the
other hand, is the tool actually used by professionals
to measure performance and should be applied to
a significant number of subjects. In this case the
instrument retrospectively analyses and measures
what has been done and obtained in relation to
the essential aspects of a specific clinical condition:
the measurement of what has been done, i.e. performance, constitutes the essential and critical element from which to start in order to improve the
quality of care processes.
18. Identification of strategies
for the implementation of Recommendations
The production of clinical practice guidelines
and/or recommendations aimed at achieving
health objectives represents a high point in the
construction of clinical governance principles,
however it is likely to remain a mere academic
exercise unless it is accompanied by pragmatic
programming concerning the organization of facilities set up to provide the services aimed at
achieving the targets set.
We therefore need to try to design an organizational
framework with precise practical standards for establishing settings suited to the application of the
Abstract
recommendations issued and the measurement of
outcome indicators that make it possible to monitor
the efficacy and quality of the services rendered.
The basic reference framework makes it possible
to use on the broadest possible scale, the chronic
care model which, when applied, seems to promise
the best, longest-lasting results with regard to
both health and economic objectives.
The scientific community is now able to provide
citizens and medical professionals with a series of
Recommendations based on strong evidence. The
implementation of these recommendations in
clinical practicewill provide improvements for the
diabetic person in terms of life expectancy and,
above all, quality of life.
However, in order to be able to apply success to
the findings of scientific research, we need to change
part of the healthcare organization system in order
tofacilitate the informed collaboration and cooperation of citizens, and to provide them with more
suitable clinical programs for their condition.
19. The role of the Associations
The Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in
progress) reiterates that greater emphasis should
be placed on the role played by patient associations, highlighting the following needs:
• to promote the role of the citizen and the Associations in managing and monitoring national health service performance;
• for the sustainable participation of patients
and their associates in decision-making bodies
and processes;
• for the involvement of family members and
voluntary associations in caregiving programs.
These requirements are essential elements for the
development of patient empowerment and the
degree of satisfaction with the services provided
and to allow voluntary organizations to provide
non-fragmented services that are interactive and
coordinated with the various system nodes and
with the activities of the institutions.
LV
Parte prima
Appropriatezza clinica, strutturale,
tecnologica e operativa per la prevenzione,
la diagnosi e la terapia dell’obesità
Si ringraziano per i contributi apportati:
Nicola Basso, Anna Chiara Bernardini, Brunella Capaldo, Michele Carruba,
Marco Comaschi, Paolo Di Bartolo, Maurizio Masullo, Gerardo Medea, Gianluigi Melotti,
Maria Letizia Petroni, Carlo Rotella, Federico Spandonaro, Roberto Vettor
Il capitolo dedicato alla chirurgia bariatrica è stato tratto interamente da
“Globesità: Strategia ed interventi” di Lauro R, Basso N, Carruba M, Melotti G, Rotella C, Sbraccia P, Vettor R (2010).
Inoltre, un ringraziamento per i contributi forniti va alla Direzione Generale del Sistema Informativo del Ministero della Salute
e al Centro Nazionale Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
1. Definizione di obesità
L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio
fra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa
energetica (metabolismo basale, attività fisica e
termogenesi), con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi
di tessuto adiposo.
Il grado di obesità, cioè l’eccesso di grasso, viene
comunemente espresso con l’indice di massa corporea (body mass index, BMI), che si calcola dividendo il peso corporeo espresso in kg per l’altezza
espressa in metri al quadrato: BMI = kg/m2. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce un individuo normopeso se ha un BMI < 25
kg/m2, in sovrappeso se ≥ 25 kg/m2 e francamente
obeso se ≥ 30 kg/m2 (Tabella 1.1).
Di fatto, però, il BMI non fornisce alcuna indicazione effettiva sulla composizione corporea del
soggetto (un culturista risulterebbe obeso, sebbene
Tabella 1.1 Grado di obesità in relazione all’indice di
massa corporea (BMI)
Definizione
BMI (kg/m2)
Sottopeso
Normopeso
Sovrappeso
< 18,5
18,5-24,9
25,0-29,9
Obesità
30,0-34,9
35,0-39,9
≥ 40,0
Classe di obesità
I
II
III
con una massa grassa ridotta) e sulla distribuzione
della massa grassa.
La diagnosi di sovrappeso o obesità stabilita con
il BMI dovrebbe quindi essere integrata con l’impiego di indicatori diretti di adiposità e di distribuzione adiposa, che permettano un più agevole
inquadramento nosologico dell’obesità e una classificazione descrittiva fondamentale ai fini dell’individuazione dei soggetti a maggiore rischio
di morbilità; tra i più utilizzati per la semplicità
vi è la circonferenza della vita, che fornisce un indice della distribuzione del grasso corporeo e delle
possibili complicanze metaboliche associate. Infatti, la presenza di un eccesso di tessuto adiposo
in sede intraddominale rappresenta un fattore di
rischio indipendente ed è predittivo di morbilità
e mortalità cardiovascolare. Inoltre, la maggiore
quantità di grasso addominale si associa a una
maggiore presenza di altri fattori di rischio, quali
elevati livelli di trigliceridi e/o colesterolo, ipertensione e un’alterata regolazione dell’omeostasi
glucidica, che può esitare in diabete franco.
Una circonferenza della vita superiore a 102 cm
per gli uomini e a 88 cm per le donne (per BMI
compreso tra 25 kg/m2 e 35 kg/m2) viene considerata uno dei fattori di rischio cardiovascolare
principali dall’American Heart Association e inserita
fra i criteri per la diagnosi di sindrome metabolica,
3
Ministero della Salute
mentre limiti più restrittivi (94 cm per gli uomini
e 80 cm per le donne) sono stati proposti dell’International Diabetes Federation (IDF). Queste soglie di rischio della circonferenza addominale perdono tuttavia il loro potere predittivo in soggetti
con BMI ≥ 35 kg/m2; in tali casi, infatti, i depositi
di grasso sono comunque notevolmente rappresentati in tutto il soma, tanto da comportare un
rischio comunque molto elevato di sviluppare
tutte le possibili complicanze.
La più antica definizione di obesità ginoide e obesità
androide poggia sull’uso, oggi parzialmente abbandonato sebbene non privo di valore, del rapporto
circonferenze vita/fianchi (waist hip ratio, WHR).
Una classificazione dell’obesità in base a questo indice divideva la popolazione obesa in tre categorie:
4
a) obesità ginoide (< 0,78); b) obesità intermedia
(0,79-0,84); c) obesità androide (> 0,55).
Metodiche di misurazione più sofisticate come la
Dual Energy X-ray Absorptiometry (DEXA), pur
essendo estremamente precise nella valutazione
quantitativa e qualitativa della composizione corporea (massa magra e massa grassa), per la loro
difficile ripetibilità, per i costi e i rischi legati all’esposizione ai raggi X non sono entrate nella
pratica quotidiana in qualità di tecniche di misurazione dell’obesità e non risultano indispensabili
per la definizione della sindrome clinica. Lo stesso
dicasi per lo studio della distribuzione regionale
del grasso corporeo determinata utilizzando la tomografia computerizzata (TC) o la risonanza magnetica (RM).
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
2. La situazione attuale
Epidemiologia e costi dell’obesità
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS), nel 2005 circa 1,6 miliardi di
adulti (età maggiore di 15 anni) erano in sovrappeso, almeno 400 milioni erano obesi e almeno
20 milioni di bambini di età inferiore a 5 anni
erano in sovrappeso.
Le proiezioni dell’OMS mostrano che, per il 2015,
gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi
e gli obesi più di 700 milioni. Obesità e sovrappeso,
prima considerati problemi solo dei Paesi ricchi,
sono ora drammaticamente in crescita anche nei
Paesi a basso e medio reddito, specialmente negli
insediamenti urbani, e sono ormai riconosciuti
come veri e propri problemi di salute pubblica.
L’obesità è stata giustamente definita dall’OMS
come l’epidemia del XXI secolo; nel suo “Rapporto
sulla salute in Europa 2002”, l’Ufficio regionale
europeo dell’OMS la definisce come “un’epidemia
estesa a tutta la Regione europea”, tanto che circa
la metà della popolazione adulta è in sovrappeso
e il 20-30% degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso.
Questa situazione desta particolare preoccupazione
per l’elevata morbilità associata, specie di tipo cardiovascolare, oltre al diabete di tipo 2, in genere
preceduto dalle varie componenti della sindrome
metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia
aterogena) con progressiva aterosclerosi e aumentato rischio di eventi cardio- e cerebrovascolari.
Chi pesa il 20% in più del proprio peso ideale
aumenta del 25%, rispetto alla popolazione normopeso, il rischio di morire di infarto e del 10%
quello di morire di ictus. Ma se il peso supera del
40% quello consigliato, il rischio di morte per
qualsiasi causa aumenta di oltre il 50%, per ischemia cerebrale del 75% e per infarto miocardico
del 70%. In queste condizioni anche la mortalità
per diabete aumenta del 400%.
La prevalenza dell’obesità nei Paesi industrializzati
ha iniziato progressivamente ad aumentare dalla
prima metà del XX secolo. La diffusione ha riguardato inizialmente soprattutto i Paesi sviluppati, come Stati Uniti ed Europa, in cui è diventata
un problema primario di sanità pubblica. Successivamente, i dati hanno indicato un incremento
importante delle prevalenze anche in Paesi in via
di sviluppo, come Messico, Cina e Thailandia.
Nel mondo la prevalenza di obesità negli adulti,
in entrambi i sessi, raggiunge i valori più elevati
in alcune isole dell’Oceania, come Tonga, Nauru
e Cook Islands (anche oltre il 60% della popolazione); a seguire, nei maschi, Stati Uniti (44,2%)
e Argentina (37,4%) e, nelle femmine, alcune
isole del Mar dei Caraibi e Giordania (oltre il
5
Ministero della Salute
50%), Stati Uniti ed Egitto (circa il 48%). Sempre
nelle donne, valori che oscillano intorno al 40%
si registrano in Paesi dell’America Centro-Meridionale (Bolivia, Messico, Nicaragua, Cile, Argentina, Perù).
Nella Regione europea dell’OMS, la prevalenza
dell’obesità è triplicata negli ultimi vent’anni. Sovrappeso e obesità sono poi responsabili dell’80%
dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di
malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi
di malattie ipertensive tra gli adulti che vivono in
Europa.
Tra i Paesi europei in cui sono state effettuate le
misurazioni, la prevalenza del sovrappeso varia
dal 32% al 79% nell’uomo e dal 28% al 78%
nella donna, mentre quella dell’obesità varia dal
5% al 23% fra gli uomini e dal 7% al 36% fra le
donne. Nei Paesi più poveri ma con uno sviluppo
rapido si riscontra un veloce aumento dell’obesità,
mentre nei Paesi più avanzati, con le maggiori disparità di reddito tra ricchi e poveri, si misurano
in genere livelli più alti di obesità.
Per quanto riguarda gli uomini, le prevalenze maggiori si rilevano in Albania e Regno Unito (rispettivamente, 22,8% e 22%); anche nelle donne,
i valori più alti si registrano in Albania (35,6%),
seguita da Regno Unito (Scozia), Israele e Bosnia
Erzegovina (26%, 25,8% e 25,2%). Secondo misure antropometriche autoriferite, le prevalenze
variano dal 6,4% negli uomini e 5,9% nelle donne
in Norvegia al 26,6% negli uomini e 20,4% nelle
donne a Malta. A seguire, per quanto riguarda le
prevalenze più alte, Grecia, Ungheria e Regno
Unito (Galles). I dati, in genere autoriferiti, tendono a sottostimare la dimensione del fenomeno.
Sembra non esserci un pattern uniforme nella distribuzione dell’obesità nei due sessi; globalmente,
le prevalenze tendono a essere più alte nelle donne,
anche se questo non si verifica in tutti i Paesi.
Le proiezioni per alcuni Paesi europei ed extraeu-
6
ropei (Australia, Austria, Canada, Inghilterra, Francia, Ungheria, Italia, Corea, Spagna, Svezia e Stati
Uniti), riferite alla popolazione adulta, indicano
due modalità di evoluzione del fenomeno, che si
basano sui trend recenti osservati. In Paesi considerati storicamente ad alta prevalenza di obesità
come Australia, Canada, Inghilterra e Stati Uniti,
è previsto un ulteriore incremento della diffusione,
con valori di sovrappeso che invece si manterranno
sostanzialmente stabili o in lento declino. Viceversa, in Paesi in cui l’obesità è meno diffusa, come
Austria, Francia, Italia e Spagna, si prevede che i
tassi cresceranno più lentamente, mentre più importante sarà la crescita del sovrappeso.
Le ricerche indicano che nei Paesi a basso reddito
vi è un’associazione positiva fra ricchezza e obesità;
questo trend si appiattisce in quelli a medio reddito, per trasformarsi in un’associazione negativa
nei Paesi più ricchi, dove il rischio di obesità è
maggiore nei gruppi socioeconomicamente più
svantaggiati. Inoltre, le evidenze suggeriscono che
le differenze osservate nelle diverse classi socioeconomiche stanno diventando sempre più ampie.
All’interno dei soggetti di più basso livello socioeconomico, la prevalenza di obesità tende a essere
più alta nelle donne rispetto agli uomini. Disparità
nella diffusione dell’obesità sono state evidenziate
anche rispetto al livello di istruzione, con prevalenze più alte nei meno istruiti; questa relazione
è, inoltre, particolarmente evidente per le donne.
In Italia
La rilevazione annuale l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) “Aspetti della vita quotidiana”, che
raccoglie tra le altre informazioni le misure autoriferite di peso e altezza, indica che dal 2001 al
2009 la prevalenza dell’obesità nei soggetti adulti
(età maggiore o uguale a 18 anni) ha mostrato un
trend temporale in lieve aumento, dall’8,3% al
Parte Prima – La situazione attuale
10,1%. Questo andamento si osserva in entrambi
i sessi, ma più marcatamente nei maschi.
Nel 2009, l’obesità ha interessato l’11,1% dei maschi
e il 9,2% delle femmine. La percentuale di soggetti
obesi è più alta nel Sud e nelle Isole (11,1%). Nel
Nord e nel Centro Italia le percentuali si equivalgono
(rispettivamente, 9,7% e 9,6%). La prevalenza negli
adulti cresce con l’età fino alla fascia di 65-74 anni,
in cui si hanno i valori più elevati (15,6%); successivamente, risulta sempre meno diffusa (l’11,7%
negli ultraottantaquattrenni).
Nei soggetti con livello di istruzione familiare basso
l’obesità è maggiormente diffusa, con una percentuale del 15,5% (13,3% nei maschi e 17,2% nelle
femmine). Al crescere del livello di istruzione familiare, la prevalenza di obesità progressivamente
diminuisce, per arrivare al 7,3% nei soggetti che
vivono in contesti con più alto grado di istruzione
(8,7% negli uomini e 5,9% nelle donne).
Anche per quanto riguarda la classe sociale familiare, si osserva una relazione inversa con la diffusione di obesità, con prevalenze più alte nelle classi
più svantaggiate (circa il 12% nella classe sociale
familiare bassa e medio-bassa; circa l’8% nella
classe sociale familiare medio-alta e alta).
Sovrappeso e obesità, quindi, affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che
hanno minore reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette
e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso.
Gli individui che vivono in condizioni disagiate
devono far fronte a limitazioni strutturali, sociali,
organizzative, finanziarie e di altro genere, che
rendono difficile compiere scelte adeguate sulla
propria dieta e attività fisica. Le persone a basso
reddito, di solito, hanno meno accesso a palestre
e centri benessere, oltre a vivere in zone che tendenzialmente incoraggiano meno l’attività fisica.
Netta è poi la relazione tra livello di istruzione ed
2
eccesso ponderale. In Italia, fra gli adulti la percentuale degli obesi triplica fra le persone che
hanno conseguito al massimo la licenza elementare.
La tendenza si conferma anche controllando il fenomeno per fasce d’età. Anche per le persone in
sovrappeso si mantiene la relazione inversa tra livello d’istruzione ed eccesso di peso, seppure con
differenze meno marcate rispetto all’obesità. All’opposto, la percentuale delle persone normopeso
o sottopeso cresce all’aumentare del titolo di studio
fra le persone di 18-44 anni. Evidentemente, il
grado di informazione su questi argomenti aiuta a
frenare l’attuale tendenza all’aumento del peso corporeo, con correzione dei comuni errori nello stile
di vita e nell’alimentazione in particolare.
Tutto ciò è confermato anche dal sistema di sorveglianza PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie
per la Salute in Italia), che fornisce un quadro dei
dati riferiti alle ASL partecipanti all’indagine durante un’intervista telefonica da un campione di
residenti di età compresa fra i 18 e i 69 anni.
Secondo quanto raccolto nel 2009 dal pool delle
ASL che partecipano al PASSI (Figura 2.1), circa
Valori %
46,6-50,8
41,9-46,6
38,1-41,9
≤ 38,1
Nessun dato
Figura 2.1 Eccesso ponderale (sovrappeso/obesi) [pool
di ASL, PASSI 2009].
7
Ministero della Salute
3 adulti su 10 (32%) risultano in sovrappeso,
mentre 1 su 10 è obeso (11%): complessivamente,
quindi, circa 4 adulti su 10 (42%) sono in eccesso
ponderale. Il sovrappeso è una condizione diffusa
e che tende ad aumentare con l’età, è più frequente
negli uomini, nelle persone con basso livello di
istruzione e in quelle che dichiarano di avere molti
problemi economici. Dal confronto con le stime
dei due anni precedenti, nel triennio 2007-2009
si nota che la percentuale delle persone in eccesso
ponderale è rimasta stabile: 43% nel 2007 e nel
2008, 42% nel 2009.
Le differenze rilevate sul territorio sono considerevoli e nel confronto inter-regionale si osserva
un gradiente Nord-Sud: la Provincia Autonoma
di Trento è il territorio con la percentuale più
bassa di persone in sovrappeso o obese (35%),
mentre la Calabria (con le ASL di Cosenza e Vibo
Valentia) è l’area con la percentuale più alta (51%).
I dati del sistema di sorveglianza PASSI confermano
l’impressione secondo cui le persone in sovrappeso
spesso – e le persone chiaramente obese a volte –
non hanno l’esatta consapevolezza della propria
condizione. Tra le persone in sovrappeso, infatti,
ben il 46% ritiene il proprio peso giusto e 1 obeso
su 10 lo percepisce addirittura come adeguato.
Inoltre, poco più della metà (54%) delle persone
in eccesso ponderale dice di avere ricevuto, da un
medico o altro operatore sanitario, il consiglio di
fare una dieta per perdere peso. E solo il 38% dichiara di aver ricevuto il consiglio di fare regolarmente attività fisica.
Il PASSI riesce a stimare anche la proporzione di
grandi obesi, cioè coloro che hanno un indice di
massa corporea (body mass index, BMI) maggiore
o uguale a 40 kg/m2. Questa percentuale, nel
2008, era dello 0,5%. La percentuale di diabetici
tra i grandi obesi è di oltre il 24% (Tabella 2.1).
La recente sperimentazione, realizzata in 7 Regioni
italiane, di un sistema di sorveglianza della salute
8
Tabella 2.1 Distribuzione di obesi e grandi obesi per
sesso (pool di ASL, PASSI 2008)
Obesi
Grandi obesi
Per sesso
Uomini
Donne
10,8%
8,8%
0,4%
0,7%
Per età
18-24 anni
25-34 anni
35-49 anni
50-69 anni
3%
4,9%
9%
15,4%
0,2%
0,3%
0,4%
1%
Per istruzione
Nessuna/elementare
Media inferiore
Media superiore
Laurea
20,8%
12,1%
6,7%
5,4%
1,3%
0,7%
0,3%
0,2%
Per difficoltà economiche
Molte
Qualche
Nessuna
15,4%
10,8%
7,4%
1,3%
0,6%
0,3%
della popolazione anziana (PASSI d’Argento) riporta i dati relativi alla situazione nutrizionale nelle
persone con 65 e più anni. Questi indicano un aumento della popolazione in eccesso di peso fino a
75 anni di età: in questa fascia d’età, infatti, sovrappeso e obesità sono pari al 60%. Poi inizia una
diminuzione tra i 75 e gli 84 anni (53%) e ancora
di più negli ultra 85enni (42%). L’eccesso di peso
appare più frequente nelle persone con bassa istruzione e con molte difficoltà economiche.
Superati i 65 anni di età, il BMI è soggetto a variazioni legate a fattori biologici e patologici. Progressivamente, infatti, aumenta la percentuale di persone che perdono peso (più del 5% del peso o più
di 4,5 kg negli ultimi 12 mesi) indipendentemente
dalla loro volontà. Questo aspetto, che è un fattore
potenzialmente fragilizzante, si verifica più spesso
nelle donne, con l’avanzare dell’età e con il crescere
delle difficoltà economiche (Tabella 2.2).
Le prevalenze standardizzate che si registrano nella
popolazione straniera residente in Italia di 18-64
Parte Prima – La situazione attuale
2
Tabella 2.2 Situazione nutrizionale nelle persone di età ≥ 65 anni (PASSI d’Argento, 2008/2010)
Sottopeso
Normopeso
Sovrappeso Obesi
Nei due sessi
Uomini
Donne
1%
4%
39%
46%
46%
37%
13%
14%
Nelle classi di età
64-74 anni
> 74-85 anni
≥ 85 anni
1%
3%
7%
39%
44%
51%
44%
41%
33%
16%
12%
9%
In base all’istruzione
Bassa
Alta
3%
2%
40%
48%
42%
39%
15%
11%
Nelle diverse situazioni economiche
Molte difficoltà
Alcune difficoltà
Poche difficoltà
3%
2%
3%
43%
40%
45%
33%
43%
41%
20%
14%
11%
anni d’età sembrano complessivamente in linea
con quelle stimate nella popolazione italiana di
tale fascia d’età, riproducendo le medesime differenze di genere: tra i maschi stranieri la percentuale
di persone obese raggiunge il 9,5% e quella sovrappeso il 39,2%, per le donne invece la prevalenza delle persone obese si attesta al 7,6% e quella
sovrappeso al 24,9%.
Anche questo fattore di rischio presenta connotazioni peculiari rispetto al Paese di provenienza,
che lasciano trasparire specificità dovute non solo
a fattori culturali, ma anche di status sociale: tra
gli uomini sono quelli di origine albanese a presentare maggiori problemi di eccesso di peso, con
un tasso di obesità dell’11,3% e di sovrappeso del
44,2%; tra le donne, invece, sono quelle di origine
marocchina, con un tasso di obesità del 19,8% e
di sovrappeso del 32,8%; seguono poi le donne
provenienti dagli altri Paesi africani (12,5%,
36,5%) e dall’Albania, rispettivamente, con il
10,2% e il 27,1% [Indagine multiscopo Istat “Salute e ricorso ai servizi sanitari della popolazione
straniera residente in Italia” (2005)].
Le differenze di genere riguardano anche il diverso
comportamento rispetto alla frequenza del controllo
del peso. Quest’ultimo rientra tra i comportamenti
che pongono in primo piano la responsabilità in-
dividuale nella tutela della salute. Sembra quindi
rilevante evidenziare che controlla il proprio peso
almeno una volta al mese il 52,6% delle persone
di 18 anni e più. La percentuale è più alta tra i
sottopeso e i normopeso (54,8% e 54,1%) e più
bassa tra le persone in sovrappeso (50,2%) e tra
gli obesi (52,0%). Le donne controllano il proprio
peso almeno una volta al mese e in misura maggiore rispetto agli uomini (60,1% contro il
44,5%), ma le differenze di comportamento si riducono molto tra gli anziani. Fino ai 44 anni si
fa più attenzione al proprio peso: fra le donne la
percentuale raggiunge il 67,4% e si mantiene costante in tutte le condizioni di peso, fra gli uomini
fino a 44 anni il 45,8% controlla il proprio peso
almeno una volta al mese, con una percentuale
più alta tra gli obesi (48,8%). Ben il 13,9% delle
persone obese e il 13,7% di quelle sovrappeso
non hanno mai controllato il loro peso, contro il
12,9% dei normopeso.
L’obesità infantile
L’obesità infantile è una delle più gravi questioni
del XXI secolo. La prevalenza ha raggiunto livelli
preoccupanti: secondo l’OMS, in tutto il mondo,
nel 2005, ben 20 milioni di bambini sotto i 5
9
Ministero della Salute
anni erano in sovrappeso. Il problema è globale:
si stima che nel 2010 i bambini con meno di 5
anni di età in eccesso di peso siano stati oltre 42
milioni e, di questi, quasi 35 milioni in Paesi in
via di sviluppo. La gravità della diffusione dell’obesità infantile sta anche nel fatto che i bambini
obesi rischiano di diventare adulti obesi e l’obesità
è un fattore di rischio per serie condizioni e patologie croniche.
Analizzando i dati disponibili dagli anni Ottanta,
è stato osservato un incremento della prevalenza
dell’obesità in generale nei Paesi industrializzati e
anche, in maniera meno marcata, in alcuni a basso
reddito. Le stime indicano che, a partire dal 2010,
la prevalenza in bambini e adolescenti raggiungerà
valori compresi tra il 5,3% nella Regione OMS
del Sud-Est Asiatico e il 15,2% nella Regione
America, escludendo la Regione Africa, per la
quale non sono stati ricavati dati sufficienti.
Considerando le indagini che hanno rilevato nei
Paesi della Regione europea dell’OMS la prevalenza di obesità in base a dati misurati nei bambini
di varie fasce d’età fino a 11 anni, le percentuali
più elevate in entrambi i sessi si osservano in Grecia (maschi: 11,2%; femmine: 11,4%), Spagna
(maschi: 10,3%; femmine: 10,5%) e Portogallo
(maschi: 10,3%; femmine 12,3%). Le percentuali
più basse nei maschi si sono osservate in
Serbia/Montenegro (3,9%), Francia (3,9%) e Svizzera (4,1%); nelle femmine, in Francia (3,6%),
Svizzera (4,0%) e Slovacchia (4,2%). Globalmente
si stima che l’obesità nel 2010 abbia interessato
almeno 15 milioni di bambini e adolescenti (il
10% della popolazione).
In Europa non esistono ancora sistemi di sorveglianza per bambini e adulti. Per i ragazzi in età
scolare (11, 13 e 15 anni), invece, è attivo lo studio
HBSC (Health Behaviour in School-aged Children)
[vedi oltre]. Secondo i dati presentati nel 2008 nella
pubblicazione “Inequalities In Young People’s Health”
10
a cura dell’Ufficio regionale europeo dell’OMS, la
prevalenza dell’eccesso ponderale (inclusa l’obesità)
tra i ragazzi di 11-15 anni è molto alta, variando
dal 6% a quasi il 31% in alcuni Paesi. I dati presentati sono tratti dall’indagine HBSC 2005-2006. All’interno della Regione, la prevalenza di obesità e
sovrappeso varia tra il 6% e il 28% nei bambini di
11 anni, tra il 6% e il 31% nei ragazzi di 13 anni e
dal 6% al 30% nei giovani di 15 anni. I ragazzi
hanno una prevalenza maggiore rispetto alle ragazze.
In media, la prevalenza di obesità e sovrappeso fra
gli undicenni è del 16% nei bambini e del 12%
nelle bambine, fra i tredicenni è del 16% tra i maschi
e del 10% tra le femmine, mentre fra i quindicenni
è, rispettivamente, del 17% e del 10%.
Secondo la ricerca dell’OMS Europa, se la prevalenza dell’obesità continua ad aumentare allo
stesso tasso degli anni Novanta, si stima che, a
partire dal 2010, circa 150 milioni di adulti e 15
milioni di bambini e adolescenti saranno obesi.
Il parametro fornito dall’obesità tra i giovani è
importante, perché si valuta che oltre il 60% dei
bambini in sovrappeso prima della pubertà sarà
in sovrappeso anche da adulto.
In Italia, la sorveglianza in età infantile effettuata
dal sistema di monitoraggio OKkio alla SALUTE
fornisce dati misurati sullo stato ponderale dei
bambini delle scuole primarie (6-10 anni), sugli
stili nutrizionali, sull’abitudine all’esercizio fisico
e sulle eventuali iniziative scolastiche che favoriscono una sana alimentazione e l’attività fisica (Figura 2.2). Avviato per la prima volta nel 2008,
OKkio alla SALUTE ha una periodicità di raccolta
dati biennale e fa parte del progetto dell’OMS Europa “Childhood Obesity Surveillance Initiative”.
Nell’ottobre 2010 sono stati resi noti i risultati
del progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età 6-17 anni” promosso dal Ministero della Salute/Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) e co-
Parte Prima – La situazione attuale
Campania
28
Molise
26
16
Calabria
26
16
Sicilia
21
13
26
Puglia
14
25
Lazio
26
13
Abruzzo
26
13
Italia
24
Umbria
24
12
11
23
Marche
10
22
Toscana
7
20
Emilia Romagna
9
22
Liguria
7
20
Veneto
Piemonte
19
Sardegna
19
7
8
7
21
Friuli Venezia Giulia
0
10
Sovrappeso
Obeso
4
6
17
Valle d’Aosta
49%
17
25
Basilicata
2
20
23%
30
40
50
60
Percentuale
Figura 2.2 Percentuale di sovrappeso e obesità per Regione nei bambini di 8-9 anni delle classi terze della scuola primaria
(Italia, OKkio alla SALUTE 2008).
ordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). La
seconda raccolta di dati, avvenuta a due anni di
distanza dalla prima, ha misurato oltre 42.000
bambini della terza classe delle scuole primarie e
ha fornito risultati non molto dissimili da quanto
rilevato nel 2008. Nel 2010, la prevalenza di sovrappeso e obesità è risultata pari al 23% e all’11%,
rispettivamente; nel 2008 le percentuali erano del
24% per il sovrappeso e del 12% per l’obesità.
Lo studio ha messo in luce la grande diffusione tra
i bambini di abitudini alimentari che predispon-
gono all’aumento di peso. In particolare, è emerso
che: il 9% dei bambini non fa colazione, il 30% la
fa in maniera non adeguata, circa il 50% consuma
bevande zuccherate e/o gassate nell’arco della giornata e 1 bambino su 4 non mangia quotidianamente frutta e/o verdura. Inoltre, quasi 1 bambino
su 2 ha la televisione in camera e 1 bambino su 5
pratica sport per non più di un’ora a settimana.
Secondo le informazioni fornite da OKkio alla
SALUTE, gli stessi genitori sembrano sottovalutare il problema: quasi 4 mamme su 10 (36%) di
11
Ministero della Salute
bambini con eccesso ponderale non ritengono
che il proprio figlio abbia un peso eccessivo rispetto all’altezza.
Nato dall’esigenza di approfondire alcune informazioni sui bambini della scuola primaria, nell’ambito dello stesso progetto è stato sviluppato
lo studio Zoom8, condotto nel 2009 dall’Istituto
Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), che ha esaminato un campione
di 2100 bambini delle classi terze primarie (8-9
anni) selezionato in base alla classificazione preliminare delle Regioni italiane in tre aree: a bassa,
media e alta prevalenza di sovrappeso e obesità.
Tra i risultati dello studio si è evidenziato che il
tempo che i bambini dedicano alle attività outdoor
risulta molto scarso, specialmente al Sud; è correlato alla sicurezza dell’ambiente circostante l’abitazione e alla mancanza di strutture adeguate.
Circa il 70% dei bambini, infatti, non ha l’abitudine di andare a scuola a piedi e nei giorni feriali
solamente poco più di 1 bambino su 4 (26,8%)
gioca per oltre 2 ore al giorno all’aria aperta.
Per quanto riguarda la raccolta di informazioni
sulla corretta alimentazione, lo studio Zoom8 ha
rilevato che i genitori fanno riferimento perlopiù
agli operatori sanitari e ai pediatri e che risultano
più aggiornati quelli residenti al Nord e con titolo
di studio elevato. Secondo i genitori interpellati,
il benessere dei propri figli può essere migliorato:
• riducendo la pubblicità sugli alimenti confezionati;
• aumentando le ore di attività fisica svolte a
scuola;
• potenziando le strutture sportive pubbliche.
Nel 2000, l’Italia ha aderito allo studio HBSC,
uno studio multicentrico internazionale che ha lo
scopo di incrementare le conoscenze sulla salute
dei giovani (11, 13 e 15 anni), con particolare attenzione a: abitudini alimentari, immagine corporea, attività fisica e tempo libero, comportamenti
12
a rischio, salute e benessere percepito, contesto familiare, gruppo di pari e ambiente scolastico.
L’indagine, che ha una periodicità di raccolta dati
quadriennale, è coordinata dalle Università di Torino, Siena e Padova e nel 2010, come parte del
progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età 6-17 anni”, è stata realizzata, per
la prima volta, su un campione di circa 4000 ragazzi in ciascuna Regione. La conduzione della
raccolta dati dello studio 2009-2010 ha previsto
l’utilizzo di due questionari somministrati all’interno delle scuole campionate in ciascuna Regione
e ha preso in esame un totale di 77.000 ragazzi.
I dati relativi allo studio HBSC hanno finora evidenziato che:
• l’eccesso ponderale diminuisce al crescere dell’età ed è maggiore nei maschi. La frequenza
dei ragazzi in sovrappeso e obesi è più elevata
negli undicenni (29,3% nei maschi e 19,5%
nelle femmine) che nei quindicenni (25,6%
nei maschi e 12,3% nelle femmine);
• i giovani di 15 anni (47,5% dei maschi e
26,6% delle femmine) fanno meno attività fisica rispetto ai ragazzi di 13 anni (50,9% dei
maschi e 33,7% delle femmine);
• tra i quindicenni, il 40% dei maschi e il 24%
delle femmine dichiarano di consumare alcool
almeno una volta a settimana;
• dichiara di fumare almeno una volta a settimana il 19% dei quindicenni (sia maschi che
femmine);
• si riscontra un minore consumo quotidiano
di verdura nelle Regioni del Sud e tra i maschi.
La ricostruzione dello stato nutrizionale della popolazione italiana per fasce di età attraverso i dati
ricavabili dalle diverse fonti – indagine OKkio
alla SALUTE 2010, HBSC 2005-2006 e Istat
2009 – è riportata nella Figura 2.3. La percentuale
di soggetti obesi, in particolare, si riduce dall’infanzia (11%) all’adolescenza, per arrivare a un
2
Parte Prima – La situazione attuale
≥ 85
37,4
50,9
75-84
41,2
65-74
37,2
55-64
45,8
38,7
Istat
45-54
15,6
46,2
15,1
39,8
58,6
11,8
33,8
25-34
69,8
16,7 2,6
80,7
15,9 2,7
81,4
15
18,5 2,7
78,8
13
20,0 3,6
76,4
11
23,0
66,0
8-9
0
10
20
30
50
40
60
7,6
25,5 4,7
18-24
OKkio alla SALUTE
13,0
47,2
48,4
35-44
HBSC
11,7
70
80
11,0
90
100
Percentuale
Sotto-normopeso
Sovrappeso
Obesità
Figura 2.3 Distribuzione dei soggetti secondo classi di indice di massa corporea e classe d’età. Italia – ricomposizione
di più fonti informative: OKkio alla SALUTE 2010 (dati misurati), HBSC 2005-2006 (dati autoriferiti), Istat
2009 (dati autoriferiti).
minimo nei giovani adulti di 18-24 anni (2,6%).
La prevalenza di obesità cresce poi con l’età, raggiungendo le percentuali più elevate (circa il 16%)
tra i 65 e i 74 anni. Successivamente, nei più anziani, la percentuale di obesi si riduce.
L’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare
Nell’ambito del Progetto Cuore del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione
della Salute (CNESPS)/ISS, viene effettuata periodicamente la misurazione dei fattori di rischio
cardiovascolari su campioni di popolazione, attraverso esami fisici standardizzati, rigorosi e accurati. I dati sono raccolti nell’ambito dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare (OEC),
costituito da una rete di centri ospedalieri pubblici
dislocati in modo omogeneo su tutto il territorio
italiano e che rappresenta una delle linee di ricerca
del Progetto Cuore.
Fra il 1998 e il 2002, la prima indagine dell’Osservatorio ha fornito stime dei rischi per l’Italia a
livello nazionale e per macroaree geografiche
(Nord-Est, Nord-Ovest, Centro, Sud e Isole).
Secondo l’OEC, tra il 1998 e il 2002 (I indagine),
in Italia:
• nella popolazione generale (uomini e donne
di età compresa fra 35 e 74 anni), il 17% degli
uomini e il 21% delle donne sono obesi. Il
50% degli uomini e il 34% delle donne sono
in sovrappeso;
• nella popolazione anziana (uomini e donne di
età compresa fra 65 e 74 anni), il 20% degli
uomini e il 32% delle donne sono obesi. Il
50% degli uomini e il 40% delle donne sono
in sovrappeso;
13
Ministero della Salute
• nelle donne in menopausa il 30% è obeso e il
39% è in sovrappeso.
Dal 2008 è iniziato un nuovo esame della popolazione (II indagine). Pertanto, per le Regioni in
cui è già stata svolta la raccolta dei dati è possibile
consultare i nuovi dati (www.cuore.iss.it/fattori/
italia.asp).
Mortalità per/associata a obesità
Sono state utilizzate le basi di dati Istat sulle cause
di morte, la fonte ufficiale delle cause di morte
50
con la sola causa iniziale codificata e l’archivio
dei certificati di decesso contenente tutte le diagnosi riportate, come stringhe alfanumeriche, dal
medico necroscopo al momento del decesso.
L’analisi è stata condotta sull’ultimo anno disponibile dei dati, il 2006 (Figura 2.4).
Sono stati selezionati tutti i decessi attribuiti all’obesità (ICD-10 E66) o a essa associati, ovvero
con menzione di obesità, e ne è stata fatta una prima
descrittiva classificazione per sesso, età e residenza.
La selezione dei certificati con menzione di obesità
è stata fatta cercando fra tutte le diagnosi riportate
Uomini
Donne
Tassi × 100.000
40
30
20
10
0
0
1-4
5-9 10-14 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 65-69 70-74 75-79 80-84 ≥ 85
Classe di età
Regione di residenza
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Uomini
Donne
5,69
14,76
3,95
0,64
5,00
8,81
4,49
6,85
3,79
7,61
4,11
6,91
8,51
5,66
0,23
6,01
7,27
5,91
6,44
4,33
7,80
4,56
Regione di residenza
Uomini
Donne
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
4,46
4,98
10,87
5,02
7,22
5,47
5,30
5,06
5,96
8,07
7,74
9,41
6,89
9,96
7,70
5,27
7,69
6,93
Italia (residenti)
5,15
6,59
La frequenza della menzione di obesità tra le cause di morte aumenta all’aumentare dell’età.
Figura 2.4 Mortalità per/associata a obesità. Tassi standardizzati × 100.000 (residenti in Italia 2006).
14
Parte Prima – La situazione attuale
sul certificato (siano esse iniziali, intermedie e finali o concomitanti) le stringhe “obesi” ed “eccesso
ponderale”.
Dei 554.805 decessi avvenuti nel 2006 sul territorio italiano, 692 vengono attribuiti al codice
ICD-10:E66 (obesità), ma l’analisi, seppure preliminare, dei certificati di decesso quintupla questa
stima e i decessi per obesità o a essa associati salgono complessivamente a 3809.
Dei 3809 decessi per obesità o associati a obesità
avvenuti in Italia (22 dei quali residenti all’estero
o con residenza sconosciuta), a parte i 692, pari
al 18%, attribuiti al codice ICD-10:E66 dell’obesità, il restante 82% è attribuito ad altre cause e
fra queste le più rappresentate sono le malattie
del sistema circolatorio (per lo più cardiopatie
ischemiche e malattie ipertensive) con il 42% dei
decessi, le malattie dell’apparato respiratorio con
il 10% e il diabete, al quale è attribuito circa il
9% dei decessi associati a obesità.
L’analisi descrittiva per sesso, età e residenza evidenzia un tasso maggiore per le donne, pari a
6,59 per 100.000 anni-persona, mentre fra gli
uomini il tasso è di 5,15, ma il differenziale di
genere aumenta fra gli anziani. Per le donne i tassi
più elevati si registrano nelle Puglie (9,96), nel
Molise (9,41), in Valle d’Aosta (8,51), nel Lazio
(8,07), in Umbria (7,8); fra gli uomini i tassi più
alti si osservano in Valle d’Aosta (14,76) [che malgrado il numero esiguo di casi produce un tasso
significativamente più elevato della media nazionale, sia per gli uomini sia per le donne], nel Molise (10,87), nel Friuli Venezia Giulia (8,81), in
Umbria (7,61) e in Puglia (7,22).
In sintesi, sebbene nelle Regioni del Centro-Sud
si osservino tassi mediamente più elevati, soprattutto per le donne, un chiaro gradiente NordSud non sembra evidenziarsi, come si riscontra
per altre patologie e in alcune Regioni settentrionali i tassi sono tra i più elevati.
2
Costi dell’obesità
Ogni malattia comporta degli effetti negativi più
o meno gravi non solo sulle condizioni di vita dei
pazienti, ma anche su quella dei familiari e, indirettamente, sulla collettività. L’obesità, in particolare, ha un impatto significativo sulla società.
L’impatto economico negativo deriva dai costi dei
sistemi sanitari (farmaci e ospedalizzazioni), dall’assenteismo nel lavoro e dalla ridotta performance lavorativa.
L’obesità è responsabile del 2-8% dei costi sanitari
e del 10-13% dei decessi in diverse parti della
Regione europea dell’OMS, dove, ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile di più di 1 milione di
decessi e della perdita di 12 milioni di DALY (Disability-Adjusted Life Years, anni di vita in salute
persi per disabilità o morte prematura). L’obesità
influenza pesantemente anche lo sviluppo economico e sociale; secondo la Carta Europea sull’Azione di Contrasto all’Obesità (Conferenza Ministeriale della Regione Europea dell’OMS, Istanbul, novembre 2006), l’obesità e il sovrappeso negli adulti sono responsabili della spesa sanitaria
nella Regione europea per una percentuale che
arriva fino all’8%; per di più, comportano costi
indiretti, conseguenti alla perdita di vite umane,
di produttività e guadagni correlati, che sono almeno il doppio dei costi diretti (ospedalizzazioni
e cure mediche).
Difficile, poi, calcolare i costi dovuti a minore
rendimento scolastico, discriminazione lavorativa,
problemi psicosociali. Inoltre, ogni anno per obesità muoiono 390 persone ogni 100.000 abitanti
e i giovani adulti con BMI > 35 kg/m2 hanno
una riduzione nell’aspettativa di vita fino a 10
anni.
Negli Stati Uniti, Ricci et al. hanno stimato nel
2002 i costi di assenteismo e ridotta performance
lavorativa conseguenti all’obesità intorno agli 11,7
15
Ministero della Salute
miliardi di dollari. Nel nostro Paese, nel 2005 è
stato calcolato che i costi diretti e indiretti annui
per le condizioni di sovrappeso/obesità ammonterebbero a 22,8 miliardi di euro, dei quali il 64%
per ospedalizzazioni (Studio SPESA, Università
degli Studi di Milano).
L’epidemia di obesità potrebbe essere reversibile
solo implementando azioni complessive, dal momento che la radice del problema risiede nel rapido
cambiamento dei determinanti sociali, economici
e ambientali degli stili di vita delle persone. È necessario creare una società in cui gli stili di vita salutari, per dieta e attività fisica, siano la norma e
dove gli obiettivi culturali, sociali, di salute ed economici siano allineati e le scelte salutari siano facilitate e rese più accessibili per gli individui.
Le strategie per contrastare questa epidemia dovrebbero incoraggiare abitudini alimentari corrette, attraverso la riduzione del consumo di grassi
e zuccheri, incentivando le persone a mangiare
più frutta e verdura, oltre che mirare a un aumento
dei livelli di attività fisica. Le opportunità di svolgere quotidianamente attività fisica, come il trasporto attivo, dovrebbero essere rese accessibili e
disponibili per tutta la popolazione mediante programmi a livello scolastico e lavorativo. È quindi
essenziale coinvolgere tutti i gruppi sociali e avere
il sostegno degli enti locali, fino a raggiungere
governi e organizzazioni internazionali [Carta Europea sull’Azione di Contrasto all’Obesità (Conferenza Ministeriale della Regione Europea dell’OMS, Istanbul, novembre 2006)].
Strategie internazionali e nazionali
Le iniziative internazionali
La Conferenza Europea sull’obesità di Copenaghen (11-12 settembre 2002) ha evidenziato che
l’incidenza dell’obesità è aumentata in Europa del
16
10-50% nell’ultimo decennio a seconda del Paese
considerato e che circa il 4% di tutti i bambini
europei è affetto da obesità. Sovrappeso e obesità
sono inoltre responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie
ipertensive fra gli adulti che vivono in Europa.
In Europa non esistono ancora sistemi di sorveglianza per bambini e adulti. Per i ragazzi in età
scolare (11, 13 e 15 anni), invece, è attivo lo studio
HBSC (vedi paragrafo “L’obesità infantile”).
Nel marzo 2005 è stata lanciata la EU Platform
for Action on Diet, Physical Activity and Health,
un programma destinato a tutti gli attori interessati alla lotta all’obesità e alla promozione dell’attività fisica e di un’alimentazione sana, con lo
scopo di una strategia coordinata a livello internazionale, che unisca interventi, legislativi e non,
centrati soprattutto sui temi dell’attività fisica e
di un’alimentazione sana e della creazione di uno
spazio comune europeo di discussione e aggiornamento.
Alla piattaforma, che agisce sotto l’autorità della
Commissione Europea, prendono parte come osservatori anche l’OMS e l’EFSA (European Food
Safety Authority).
La Piattaforma ha prodotto nel 2006 due documenti (First Monitoring Progress Report e Second
Monitoring Progress Report) e nel marzo 2007 un
nuovo rapporto (Synopsis Commitments – Annual
Report 2007). I report esaminano le misure legate
agli scopi della piattaforma: la promozione delle
informazioni nutrizionali e dell’attività fisica, le
iniziative per influenzare le decisioni politiche, le
questioni legate all’etichettatura e alle porzioni
dei prodotti alimentari, la pubblicità e il marketing
e, infine, la diffusione del lavoro della piattaforma.
In risposta all’epidemia di obesità, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS ha tenuto a Istanbul
una Conferenza nel novembre 2006, dove tutti
Parte Prima – La situazione attuale
gli Stati membri hanno adottato la Carta europea
sull’azione di contrasto all’obesità, che elenca principi guida e aree d’azione chiare a livello locale,
regionale, nazionale e internazionale per un’ampia
gamma di parti interessate.
Le pubblicazioni della Conferenza analizzano i
programmi e le politiche efficaci nei vari settori,
come per esempio l’educazione, la salute, l’agricoltura e il commercio, la pianificazione urbana e
i trasporti. Tali documenti descrivono anche come
progettare politiche e programmi per la prevenzione dell’obesità e come monitorare i progressi.
Per quanto riguarda l’azione delle parti interessate,
si sollecitano per esempio il settore privato, inclusi
l’industria alimentare, pubblicitari e commercianti, a revisionare le proprie politiche, sia volontariamente, sia come risultato di un’apposita
legislazione. Le organizzazioni professionali devono sostenere la prevenzione e il trattamento
dell’obesità e della relativa morbilità. Le organizzazioni di consumatori dovrebbero collaborare
fornendo informazioni e tenendo alta la consapevolezza del pubblico. Gli attori intergovernativi
devono assicurare che l’azione concordata sia applicata oltre i confini nazionali, istituendo adeguate direttive e fornendo orientamenti politici.
La conferenza si inserisce nel processo di implementazione della Strategia globale su dieta, attività
2
fisica e salute concordata all’Assemblea mondiale
sulla salute del maggio 2004 (Risoluzione
WHA57.17), della Strategia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili (approvata dal Comitato regionale per l’Europa dell’OMS alla sua quinta-sesta sessione nel
2006) e della Strategia globale sull’alimentazione
dei neonati e dei bambini, concordata all’Assemblea mondiale sulla salute del maggio 2002 (Risoluzione WHA55.25).
La situazione italiana
Per quanto riguarda la situazione italiana, un contributo interessante al dato epidemiologico viene
fornito da due sistemi di sorveglianza: “PASSI”1
e “OKkio alla SALUTE”2, che hanno lo scopo di
fornire alle Aziende Sanitarie Locali una robusta
base di dati sui principali rischi per la salute, sulle
frequenze e su come questi si modificano nel
tempo, sui gruppi di popolazione particolarmente
a rischio e sulle differenze tra popolazioni che abitano in aree diverse.
L’integrazione tra le diverse sorveglianze di popolazione rafforza e motiva gli interventi realizzati
dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) per la promozione della salute e consente di monitorarne i
progressi. Inoltre, contribuisce a rafforzare la col-
1
Sistema di sorveglianza PASSI
Nel 2006, il Ministero della Salute ha affidato al Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della
Salute dell’Istituto Superiore di Sanità il compito di sperimentare un sistema di sorveglianza della popolazione adulta
(PASSI, Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia). L’obiettivo è stimare la frequenza e l’evoluzione dei fattori
di rischio per la salute, legati ai comportamenti individuali, oltre alla diffusione delle misure di prevenzione. La raccolta
continua permette di verificare quanti italiani adottano corretti stili di vita per prevenire le maggiori malattie cronico-degenerative e quindi di monitorare l’effetto delle attività di prevenzione. Dalla popolazione di età compresa tra 18 e 69 anni,
infatti, PASSI raccoglie conoscenze, atteggiamenti e pratiche su molti importanti aspetti legati alla prevenzione.
2
OKkio alla SALUTE
OKkio alla SALUTE è un sistema di monitoraggio finalizzato alla raccolta di informazioni sulle abitudini alimentari e
sull’attività fisica nei bambini di 6-10 anni ed è parte del progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età
6-17 anni”.
17
Ministero della Salute
laborazione interistituzionale, promossa dal programma nazionale “Guadagnare Salute”, finalizzata alla realizzazione di azioni che facilitino scelte
di vita salutari.
I programmi di contrasto all’obesità del Ministero
della Salute fanno in particolare riferimento a diverse linee di attività, quali: la Collaborazione con
la Regione europea dell’OMS alla definizione di
una Strategia di contrasto alle malattie croniche
denominata Gaining Health; la Cooperazione con
l’OMS alla costruzione di una Strategia europea
di contrasto all’obesità; le Indicazioni Europee da
parte del Consiglio EPSCO nel 2006; il Piano
Sanitario Nazionale 2006-2008; il Piano di Prevenzione 2010-2012, lo Sviluppo e coordinamento del Piano Guadagnare.
In particolare, vanno ricordati gli Indirizzi Europei
che valorizzano le azioni tese a un approccio globale
ai fattori determinanti per la salute a livello europeo, compresa una politica coerente e universale
in materia di alimentazione e di attività fisica, e
all’impatto esercitato sulla salute pubblica, in particolare nei bambini, dalla promozione, commercializzazione e presentazione di alimenti a elevato
tenore energetico e di bevande edulcorate.
Inoltre, il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008
enfatizza la necessità di promuovere la salute attraverso interventi da attuarsi nell’ambito individuale finalizzati a modificare i comportamenti
soggettivi (es. promuovendo l’adozione da parte
dei cittadini di corretti stili di vita) e a livello delle
collettività, migliorando i contesti e le condizioni
di vita rilevanti ai fini della salute. Evidenzia anche
la necessità di un’ampia trasversalità di interventi
tra operatori sanitari e non sanitari, perché gli interventi possono essere all’interno del servizio sanitario, ma spesso richiedono azioni intersettoriali
che vedono coinvolte altre Istituzioni.
Il Programma interministeriale “Guadagnare Salute”
parte dall’identificazione dei fattori di rischio (ali-
18
mentazione, fumo, alcool, sedentarietà) che possono essere modificati e i principali determinanti
delle malattie croniche più frequenti, identificando
4 aree settoriali:
• promozione di comportamenti alimentari salutari (relativo al fattore di rischio “scorretta
alimentazione”);
• lotta al tabagismo (relativo al fattore di rischio
“fumo”);
• lotta all’abuso di alcool (relativo al fattore di
rischio “alcool”);
• promozione dell’attività fisica (relativo al fattore di rischio “sedentarietà”).
“Guadagnare Salute” ha previsto la definizione di
protocolli d’intesa tra il Ministero e i rappresentanti
di varie organizzazioni del sindacato, delle imprese
e dell’associazionismo. Questi accordi sono la base
per dare concretezza al programma, rappresentando quindi un punto di partenza, con l’individuazione di vari step di un processo in continua
evoluzione, avendo come obiettivo la necessità di
determinare un profondo cambiamento culturale
che pone al centro dell’attenzione che un corretto
stile di vita determina una buona qualità della vita.
In particolare, sono stati firmati protocolli di intesa
con Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero
delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali –
Inran, Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, Produttori e Gestori dei pubblici
servizi, Asl, Enti locali, Responsabili personale settore privato e Associazioni della panificazione. Tali
protocolli evidenziano la necessità che le strategie
devono prevedere azioni che coinvolgano diversi
interlocutori, anche fuori dal sistema sanitario, in
quanto per agire sui fattori ambientali e sui determinanti socioeconomici delle malattie croniche
sono necessarie alleanze tra forze diverse, esterne
alla capacità di intervento del SSN, ma necessarie
per contrastare i fattori di rischio e promuovere la
salute, adottando politiche di intersettorialità.
Parte Prima – La situazione attuale
In coerenza con il programma “Guadagnare salute”, con il Decreto Ministeriale 26 aprile 2007 è
stata istituita, presso il Ministero della Salute, la
Piattaforma nazionale sull’alimentazione, l’attività
fisica e il tabagismo, con il compito di formulare
proposte e attuare iniziative. La Piattaforma prevede la partecipazione di rappresentanti delle amministrazioni centrali interessate, delle Regioni e
Province Autonome di Trento e Bolzano e delle
associazioni firmatarie dei protocolli di intesa.
Il Piano Nazionale Prevenzione 2010-2012 distingue quattro macro-aree di intervento:
• la medicina predittiva, che si rivolge agli individui sani, ricercando la fragilità o il difetto
che conferisce loro una certa predisposizione
a sviluppare una malattia;
• i programmi di prevenzione collettiva, che mirano ad affrontare rischi diffusi nella popolazione generale, sia con l’introduzione di politiche favorevoli alla salute o interventi di tipo
regolatorio, sia con programmi di promozione
della salute o di sanità pubblica (come programmi di sorveglianza e controllo delle malattie infettive), sia con interventi rivolti agli
ambienti di vita e di lavoro (come controlli
nel settore alimentare, delle acque potabili,
prevenzione degli infortuni e delle malattie
professionali ecc.);
• i programmi di prevenzione rivolti a gruppi
di popolazione a rischio e finalizzati a impedire
l’insorgenza di malattie (es. i programmi di
vaccinazione in gruppi a rischio) o a diagnosticare precocemente altre malattie (es. gli
screening oncologici), o ancora a introdurre
nella pratica clinica la valutazione del rischio
individuale e interventi successivi di counseling
o di diagnosi precoce e trattamento clinico (es.
la prevenzione cardiovascolare);
2
• i programmi volti a prevenire complicanze e
recidive di malattia e che promuovano il disegno e l’implementazione di percorsi che garantiscano la continuità della presa in carico,
attraverso il miglioramento dell’integrazione
all’interno dei servizi sanitari e tra questi e i
servizi sociali, di fasce di popolazione particolarmente fragili, come anziani, malati cronici,
portatori di polipatologie, disabili ecc.
Il 25 marzo 2009, la Conferenza Stato-Regioni
ha approvato l’Accordo per la realizzazione degli
obiettivi prioritari di Piano per l’anno 2009. Tra
gli obiettivi di Piano va ricordato quello riguardante “gli effetti positivi, solidamente documentati, dell’attività fisica sulla patologia cronica non
trasmissibile, da quella cardiovascolare al diabete,
all’obesità, all’osteoporosi e ad alcune patologie
neoplastiche quali il cancro del colon e della mammella”. L’obiettivo evidenzia “l’esistenza di relazioni positive fra regolare attività fisica aerobica e
riduzione di alcune patologie quali quelle cardiovascolari, il diabete, l’obesità e inoltre enfatizza il
concetto che praticare un’attività fisica costante
può divenire uno strumento per prevenire l’insorgenza di molte patologie”.
A tale proposito l’Accordo evidenzia che, “nonostante le solidissime evidenze scientifiche, il tema
della promozione dell’attività fisica nella popolazione generale e della ‘prescrizione dell’attività fisica’ per le persone a rischio più elevato resta una
delle aree di intervento più sottovalutate in seno
al SSN; è pertanto necessario sviluppare sperimentazioni relative all’introduzione di tale pratica
in aree del Paese in cui esistono condizioni favorevoli per avviare tale percorso, sottoponendo i
risultati raggiunti a una rigorosa valutazione di
efficacia e di costo-efficacia in vista di un’eventuale
estensione di tali programmi”.
19
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
3. Appropriatezza clinica
Criteri diagnostici
L’esecuzione di un’anamnesi accurata è la parte
più delicata del procedimento che, se non compiuta in maniera completa e adeguata, può pregiudicare le decisioni terapeutiche e alla fine vanificare gli investimenti terapeutici compiuti.
L’anamnesi familiare deve evidenziare in maniera
esaustiva la presenza dell’obesità, del diabete mellito
di tipo 2, dell’ipertensione arteriosa e delle iperlipoproteinemie nei parenti di primo grado (e in
taluni casi anche di secondo grado, se possibile).
L’anamnesi alimentare deve essere molto accurata,
per valutare sia le abitudini attuali sia quelle precedenti. La presenza (attuale o storica) dei disturbi
del comportamento alimentare (DCA) clinici o
subclinici deve ugualmente essere ricercata con meticolosità. L’interrogatorio deve vertere anche sulla
modalità della richiesta di intervento, per cercare
di capire i motivi della richiesta di cura. Se l’intervento avviene in centri ospedalieri con competenze
multidisciplinari o in centri di eccellenza, queste
ultime parti dell’anamnesi vanno completate mediante l’applicazione di alcuni test psicometrici specifici. La storia delle modificazioni del peso (tempo
d’insorgenza, numero e tipo di diete, interventi
con farmaci antiobesità, entità delle eventuali oscillazioni del peso) deve essere sempre messa in cor-
relazione con gli eventi affettivi, lavorativi, sociali
occorsi durante la vita del paziente per cercare di
identificare dei nessi causali con la modificazione
dello stile di vita. Nell’effettuare l’anamnesi patologica particolare attenzione va riservata alla valutazione della presenza di ansia, depressione e ogni
altra patologia psichiatrica. La consulenza psichiatrica può e deve essere richiesta a ogni livello di intervento, ma è mandatoria nei centri ospedalieri
con competenze multidisciplinari.
Nell’inquadramento clinico del paziente affetto
da obesità il metodo più semplice, scientificamente corretto e pratico per valutare quantitativamente l’eccesso ponderale è rappresentato dal
calcolo dell’indice di massa corporea (body mass
index, BMI) [kg/m2]. Tuttavia, l’enorme impulso
ricevuto dalla ricerca in campo medico a causa
della diffusione epidemica della malattia ha sottolineato l’importanza di una definizione non soltanto quantitativa, ma anche qualitativa, dell’eccesso ponderale. La presenza, infatti, di una prevalente localizzazione addominale (obesità centrale), più frequente nel sesso maschile e legata
all’eccesso di tessuto adiposo viscerale, comporta
un aumento significativo del rischio aterosclerotico, di malattie cardiovascolari e metaboliche.
Nell’obesità periferica invece, più caratteristica
del sesso femminile, la prevalente localizzazione a
21
Ministero della Salute
livello dei fianchi e della radice delle cosce comporta una sostanziale ininfluenza sul profilo di rischio cardiovascolare del soggetto.
Insieme al BMI è quindi necessario eseguire la
misurazione della circonferenza vita, direttamente
correlata alla presenza di grasso viscerale, e la misurazione della circonferenza dei fianchi. La valutazione della composizione corporea del paziente
mediante esecuzione della bioimpedenziometria
corporea è di indubbia utilità nell’inquadramento
e nel follow-up del paziente obeso e deve essere
ritenuta mandatoria nei centri di secondo e terzo
livello. Si tratta, infatti, di un esame rapido, non
invasivo, relativamente non costoso, che consente
di diagnosticare correttamente anche i casi di obesità sarcopenica ipometabolica.
Oltre alla doverosa attenzione riguardo alle malattie cardiovascolari, non va mai dimenticata la
ricerca accurata di altre malattie legate a stati di
infiammazione di basso grado, quali per esempio
le malattie reumatiche o la psoriasi. La ricerca
delle patologie endocrine non deve limitarsi alla
valutazione anamnestica e all’esame obiettivo, ma
vanno ricercate sistematicamente, anche con valutazioni ormonali e/o strumentali, le patologie
della tiroide e della surrene, così come uno stato
di insulino-resistenza o di disglicidemia.
Tutti i disordini metabolici riconducibili all’obesità
viscerale (diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemia, obesità) dovranno essere attentamente valutati rientrando nella definizione di sindrome
metabolica. Allo stato attuale, nel valutare la diagnosi di sindrome metabolica è necessario fare riferimento ai criteri diagnostici proposti nel 2005
dal National Cholesterol Education Program-Adult
Treatment Panel (NCEP-ATP III). Oltre a un’accurata anamnesi e valutazione clinica (pressione
arteriosa, circonferenza vita), tale definizione richiede l’esecuzione di semplici esami di routine
come glicemia e profilo lipidico.
22
Per porre diagnosi di sindrome metabolica sono
necessari almeno tre dei seguenti criteri:
• glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl;
• circonferenza addominale > 88 cm nella donna
e > 102 cm nel maschio;
• colesterolo HDL < 50 mg/dl nella donna e < 40
mg/dl nel maschio;
• livelli di trigliceridi ≥ 150 mg/dl;
• valori di pressione arteriosa ≥ 130/85 mmHg.
Obiettivi e strumenti terapeutici
Alla base dei dibattiti sul significato dello stile di
vita nella terapia dell’obesità sta l’ineluttabile necessità di considerare l’obesità una malattia cronica, concetto che, al momento, non è generalmente accettato dall’intera comunità medica.
L’obesità ha un’eziologia multifattoriale con fattori
genetici, ambientali e individuali che concorrono
nel determinare un’alterazione del bilancio fra introito calorico e dispendio energetico, con conseguente accumulo di tessuto adiposo in eccesso.
La prevalenza dell’obesità è in drammatico incremento in tutto il mondo, arrivando a interessare in
numerosi Paesi fino a un terzo della popolazione,
con un’incidenza in costante aumento soprattutto
nella popolazione pediatrica. Vi sono ampie evidenze
in letteratura che l’utilizzo della sola prescrizione
dietetica porta a una riduzione del peso con conseguente sindrome di oscillazione del peso. Nel parlare
di dieta, nel trattamento dell’obesità, è necessario
intendere non soltanto un regime alimentare ipocalorico, ma uno stile di vita corretto. Lo stile di
vita rappresenta, infatti, un modo di vivere che può
essere modificato nel corso della vita e che include,
secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) del 2002, oltre a un’alimentazione sana e varia una regolare attività fisica, il moderato consumo di alcool e la cessazione dell’eventuale abitudine tabagica o dell’uso di droghe.
Parte Prima – Appropriatezza clinica
È evidente, pertanto, che nel trattamento dell’obesità, insieme alla restrizione alimentare occorre introdurre un esercizio fisico di bassa intensità (aerobico) e di lunga durata (dai 30’ ai 60’ in base alle
condizioni metaboliche del paziente). Tale attività
fisica va eseguita almeno 4 giorni a settimana, meglio se tutti i giorni. L’esecuzione di un programma
di questo tipo corrisponde di fatto a un cambiamento radicale dello stile di vita del paziente, che
va mantenuto anche dopo il raggiungimento del
peso desiderabile; il cessare di fare ciò comporta,
anche in questo caso, un nuovo aumento di peso.
La consapevolezza attiva della persona
Il cambiamento permanente dello stile di vita può
essere raggiunto con tecniche di derivazione cognitivo-comportamentale che aiutino il paziente
a compiere le scelte su base quotidiana, rinforzando
la volontà di proseguire nel percorso intrapreso,
cercando al tempo stesso di far mettere in relazione
i sentimenti che precedono, accompagnano e se-
3
guono l’assunzione del cibo e l’esecuzione dell’attività fisica, con la qualità della performance che
il paziente si è proposto di raggiungere.
Anche queste abilità comportamentali vanno rinforzate nel tempo, affinché non si perda quella tensione emotiva positiva che si è venuta a creare. In
altre parole, si deve aiutare il paziente ad allontanare
da sé i pensieri disfunzionali che impediscono di
raggiungere un adeguato livello di assertività. È
evidente, infine, che il percorso delineato, sui dettagli del quale non è questa la sede per entrare,
viene compiuto più facilmente da quei pazienti
che sono realmente motivati e pronti a perdere
peso; per valutare questa condizione esistono strumenti clinici idonei e di facile esecuzione che vanno
sempre applicati nelle fasi iniziali della valutazione
del paziente. I pazienti che non sono motivati e/o
pronti a intraprendere il percorso integrato di cambiamento dello stile di vita vanno, in via preliminare, aiutati mediante una serie di colloqui motivazionali strutturati. Lo schema di valutazione e
decisione è riassunto nella Figura 3.1.
23
Ministero della Salute
In caso di
Adeguata motivazione, compliance alle indicazioni terapeutiche fornite con adeguata risposta in termini di calo ponderale
(–10% del peso corporeo iniziale a un anno)
Il paziente continua il percorso multidisciplinare in atto per il trattamento dell’obesità
In caso di
Non adeguata motivazione e/o disturbi psicotici, depressione severa, alterazioni della personalità, disturbi del comportamento alimentare in atto
Percorso terapeutico psichiatrico individuale o di gruppo (es. gruppi BED)
In caso di
Adeguata motivazione e adeguata compliance, fallimento alla terapia multidisciplinare per obesità, scarso o mancato mantenimento
del calo ponderale ottenuto
oppure
Adeguata motivazione, BMI ≥ 40 kg/m2 o 35 < BMI < 40 kg/m2 con comorbilità associate
(patologie cardiorespiratorie, malattie articolari gravi, gravi problemi psicologici, malattie del metabolismo)
con
Valutazione multispecialistica collegiale POSITIVA
Valutazione chirurgica per obesità
Rivalutazione delle comorbidità, specie di tipo endocrinologico, della concomitante terapia farmacologica e della compliance al percorso postoperatorio.
Illustrazione e scelta del tipo di intervento
Esami di preospedalizzazione
• FT3, FT4, TSH, insulinemia, cortisolo urinario, ACTH, glicemia a digiuno e postprandiale, HbA1c, HDL, colesterolemia, creatininemia, trigliceridemia,
elettroliti, prolattinemia
• Rx del torace
• Esofagogastroduodenoscopia
• Ecografia addominale
• PFR + visita pneumologica; polisonnografia in caso di OSAS
• Valutazione cardiologica
Intervento in regime di ricovero
Follow-up multidisciplinare (chirurgo, endocrinologo, dietista)
Istruzione ad adeguate regole alimentari (eventuale terapia con inibitori di pompa protonica) in caso di chirurgia restrittiva e valutazione del possibile
sviluppo di deficit vitaminici (che possono manifestarsi fino a un anno dopo l’intervento). Rinforzo delle modifiche dello stile di vita compatibilmente
con il quadro clinico. Controllo bioimpedenziometrico periodico ed esecuzione della MOC lombare e femorale
Figura 3.1 Schema di valutazione dell’obesità.
24
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
4. Appropriatezza strutturale
e tecnologica
Requisiti strutturali, tecnologici
e strumentali per la diagnosi e la cura
L’esplosione epidemica dell’obesità nei Paesi a elevato sviluppo economico-sociale è pervenuta a
una dimensione tale da costituire, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), uno dei
più importanti settori di intervento per la tutela
della salute pubblica. Il fenomeno è diffuso in varia misura in tutte le Regioni del nostro Paese,
dove la prevalenza dell’obesità è in costante aumento, con una preoccupante espansione nell’età
infantile. L’obesità incide profondamente sullo
stato di salute, poiché si accompagna a importanti
malattie quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica e altre condizioni
morbose che in varia misura peggiorano la qualità
di vita e ne riducono la durata. Per le sue conseguenze e per la sua vasta diffusione l’obesità comporta un altissimo costo sociale ed economico.
La raccomandazione di ridurre il peso corporeo
quando elevato è quindi cogente ed è in ultima
analisi fondata sull’evidenza della relazione che lega
l’obesità a una minore aspettativa di vita. Tuttavia,
il trattamento a lungo termine è assai problematico
e richiede un approccio integrato, che utilizzi gli
strumenti a disposizione in modo complementare,
avvalendosi spesso di competenze professionali di-
verse, le quali condividano l’obiettivo terapeutico
rappresentato da una riduzione percentuale di peso
corporeo, mantenuta per 5 anni dalla fine del trattamento, compresa tra il 5% e il 10%, con parallelo
miglioramento della qualità della vita.
I centri di riferimento
I centri di elevata specializzazione devono disporre
di ampi locali facilmente accessibili ai disabili, a
norma per quanto riguarda caratteristiche igrotermiche, impianto elettrico, caratteristiche illuminotecniche, norme di sicurezza, piano di manutenzione ordinaria e straordinaria delle attrezzature, suddivisi in: area di attesa proporzionata
all’afflusso; ambulatori idonei e attrezzati che dispongano di sedie, lettini, servizi igienici e sollevatori in grado di reggere pesi almeno fino a 250
kg; devono inoltre disporre di tutte le apparecchiature atte a garantire il corretto inquadramento
e la corretta assistenza del grande obeso.
Ogni ambulatorio deve disporre di: computer, statimetro, bilancia per obesi (fino a 300 kg), sfigmomanometro con bracciale per obesi, oftalmoscopio,
reflettometro per glicemia, materiale educativo. L’area
dedicata agli ambulatori deve disporre di: impedenziometro [ed eventualmente DEXA (Dual Energy
X-ray Absorptiometry) e calorimetro indiretto.
25
Ministero della Salute
Tabella 4.1 Definizioni di Health Technology Assessment (HTA)
Organismo
Anno
Definizione
OTA
1972
Un dettagliato tipo di analisi politica che esamina le conseguenze sociali a breve e a lungo termine dell’applicazione della tecnologia
Institute of Medicine (IOM)
1985
Qualunque processo che esamina e riporta le proprietà di una tecnologia medica utilizzata
nella cura della salute, quali sicurezza, efficacia, fattibilità e indicazioni per l’uso, costi e costoefficacia, oltre a conseguenze sociali, economiche ed etiche, volute o involontarie
Canadian Coordinating
1995
Office for Health Technology
Assessment (CCOHTA)
La valutazione delle tecnologie mediche – inclusi procedure, dispositivi e farmaci –, la quale richiede un approccio interdisciplinare che comprenda l’analisi della sicurezza, dei costi, della
validità, dell’efficacia, dell’etica e della qualità degli stili di vita
INAHTA
2006
La sistematica valutazione di proprietà, effetti e/o impatto delle tecnologie per la cura della
salute. Potrebbe rivolgersi alle conseguenze dirette e volute delle tecnologie, nonché a quelle
indirette e involontarie. Il suo scopo principale è fornire informazioni nell’elaborazione di politiche sanitarie relative all’uso della tecnologia. L’HTA è condotta da gruppi interdisciplinari che
utilizzano esplicite e analitiche basi da una varietà di metodi
EUnetHTA
2008
L’HTA è un processo multidisciplinare che, in modo sistematico, trasparente, obiettivo e robusto,
riassume informazioni circa le questioni mediche, sociali, economiche ed etiche correlate all’uso
della tecnologia in ambito sanitario. Il suo obiettivo è fornire informazioni per la formulazione
di politiche della salute sicure ed efficaci, che mettano il paziente al centro e che mirino a ottenere i migliori risultati. Malgrado i suoi obiettivi politici, l’HTA deve sempre essere fermamente
radicato nella ricerca e nel metodo scientifico
SIHTA
2006
La complessiva e sistematica valutazione multidisciplinare (descrizione, esame e giudizio) delle
conseguenze assistenziali, economiche, sociali ed etiche provocate in modo diretto e indiretto,
nel breve e nel lungo periodo, dalle tecnologie sanitarie esistenti e da quelle di nuova introduzione (Carta di Trento)
AgeNaS
2007
Approccio multidimensionale e multidisciplinare per l’analisi delle implicazioni medico-cliniche,
sociali, organizzative, economiche, etiche e legali di una tecnologia (apparecchiature biomedicali, dispositivi medici, farmaci, procedure cliniche, modelli organizzativi, programmi di prevenzione e promozione della salute), attraverso la valutazione di più dimensioni quali l’efficacia,
la sicurezza, i costi, l’impatto sociale e organizzativo
Il ruolo dell’Health Technology Assessment
e le evidenze disponibili sul trattamento
dell’obesità
Gli organismi nazionali e internazionali che si occupano di Health Technology Assessment (HTA)
hanno formulato, nel corso degli anni, differenti
e numerose definizioni (Tabella 4.1). L’acronimo
HTA indica i tre termini inglesi: Health = salute;
Technology = procedura, tecnica, struttura; Assessment = valutazione. Mentre non ci sono dubbi
1
sul primo termine, deputato a circoscrivere il
campo d’azione, sugli altri va fatta chiarezza.
Per quanto concerne il termine tecnologie, esso deve
essere inteso in senso ampio: si definiscono tecnologie biomediche i farmaci, le attrezzature, le procedure mediche e chirurgiche utilizzate nei sistemi
sanitari e i sistemi organizzativi e di supporto all’interno dei quali si provvede alle cure1. Analogamente,
la Carta di Trento sulla “Valutazione delle tecnologie
sanitarie in Italia” si riferisce tanto alle attrezzature
sanitarie, che ai dispositivi medici, ai farmaci, ai si-
USA Congress, Office of Technology Assessment (OTA), 1978.
26
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
stemi diagnostici, alle procedure mediche e chirurgiche, ai percorsi assistenziali e, non ultimo, agli assetti strutturali, organizzativi e manageriali nei quali
viene erogata l’assistenza sanitaria. Il termine valutazione, come appare evidente dall’origine dell’approccio decritta nel paragrafo seguente, va intesa
come “supporto tecnico alle decisioni politiche”, e
per estensione “supporto tecnico alle decisioni aziendali” e/o “supporto tecnico alle decisioni cliniche”.
In Italia, a livello istituzionale, l’HTA viene esplicitamente menzionato nel Piano Sanitario Nazionale (PSN) 2006-2008: “La valutazione delle tecnologie sanitarie, intesa come insieme di metodi
e strumenti per supportare le decisioni, si rivolge
ai diversi livelli decisionali secondo modelli operativi differenziati, rivolti a fornire supporto a:
• decisioni di politica sanitaria (adozione, diffusione e finanziamento di nuove tecnologie);
• decisioni ‘manageriali’ di investimento in nuove
tecnologie a livello aziendale e per la promozione
di un utilizzo appropriato delle tecnologie medesime tramite l’elaborazione di protocolli;
• decisioni cliniche, per la diffusione di ‘modelli
di governo (governance)’ individuati da strutture centrali e da adottare a livello organizzativo, quali la definizione e diffusione degli
standard qualitativi e quantitativi”.
In definitiva, la peculiarità dell’HTA può essere
ricondotta a due aspetti principali: la multidimensionalità della valutazione e la sua sistematicità.
Entrambe sono legate alla finalità di supporto alle
decisioni, politiche o aziendali che siano, le quali
implicano l’adozione di un’ottica quanto più ampia
possibile (rappresentanza dei diversi interessi in
gioco, ovvero dei cosiddetti stakeholders) e un processo di definizione delle scelte quanto più possibile
codificato e quindi trasparente.
2
4
Il processo di HTA è, quindi, per sua natura multidisciplinare e, di conseguenza, multiprofessionale. Come anche è tipicamente formalizzato, separando funzioni e ruoli: per esempio, prevedendo
attori diversi a livello di ruolo strategico (cosa valutare), ruolo tecnico (assessment), sintesi valutativa
(appraisal). Trattandosi di un approccio che vuole
essere sistematico e, quindi, per definizione riproducibile, utilizza delle varie discipline le migliori pratiche e standard metodologici (vedi oltre
i core models EUnetHTA).
Le principali sfide che l’HTA deve oggi affrontare
sono quella della trasferibilità dei risultati (trasferibilità a contesti diversi delle valutazioni), quella dell’impatto sulla pratica clinica (diffusione), ritenuta
ancora insufficiente, e infine quella della capacità
di sintesi dei diversi approcci logici e metodologici
che sono tipici delle diverse discipline coinvolte.
Cenni storici
A livello internazionale le prime esperienze di Technology Assessment (TA) si trovano in settori differenti da quello sanitario. Il TA nasce alla fine
degli anni Sessanta negli Stati Uniti: in particolare,
nel 1965 il Congresso istituì il “Committee on
Science and Astronautics” con il compito di supportare le decisioni politiche in ambito astronautico. Il termine fu adottato per la prima volta nel
1967 da un italiano, Emilio Daddario, membro
della succitata Commissione, il quale chiese al
Congresso degli Stati Uniti di introdurre la valutazione di aspetti etici, sociali, economici e organizzativi a sostegno delle decisioni di policy maker.
Per quanto concerne l’HTA, benché l’acronimo
compaia già in un documento ufficiale del Congresso degli Stati Uniti del 19672, storicamente
US Congress, House of Representatives. Committee on Science and Astronautics. Technology Assessment. Statement of Emilio
Q. Daddario, Chairman, Subcommittee on Science Research and Development. 90th Cong., 1st session. Washington, DC 1967.
27
Ministero della Salute
l’atto di nascita della nuova metodologia può essere
fatto coincidere con due eventi verificatisi nel 1972:
la pubblicazione da parte di Archibald Cochrane
del volume Effectiveness and Efficiency, nel quale
viene proposto un nuovo metodo di valutazione
dell’efficacia terapeutica, e la fondazione da parte
del Congresso statunitense dell’Office of Technology
Assessment (OTA), operativo dal 1972 al 19953.
Successivamente, dagli anni Novanta in poi, numerose Agenzie dedicate all’HTA, con compiti
simili, sono nate in America e in Europa, a livello
sia nazionale sia locale4.
Un’ulteriore spinta al consolidamento e alla diffusione dell’HTA è giunta dalla nascita di alcuni
organismi e progetti sovranazionali e dall’azione
di network internazionali; si ricordano: l’International Network of Agencies for Health Technology
Assessment (INAHTA), nata nel 1993 come rete
internazionale delle Agenzie di valutazione delle
tecnologie sanitarie con compito di promuovere
la cooperazione e la condivisione della metodologia dell’HTA; l’International Society of Technology
Assessment in Health Care (ISTAHC); e, da ultimo,
la European Network for Health Technology Assessment (EUnetHTA), nata nel 2005.
Ciononostante, le prime applicazioni istituzionali
dell’HTA in Sanità si possono far risalire al 1982
in Francia con l’istituzione del CEDIT (Comité
d’Évaluation et de Diffusion des Innovations Technologiques), un organo di supporto al Direttore
Generale della rete ospedaliera pubblica di Parigi
relativamente a decisioni inerenti le tecnologie sanitarie e l’innovazione organizzativa, e quindi un
organismo che si è interessato alla valutazione
3
4
degli investimenti in tecnologie nuove e costose.
In Italia, la valutazione delle tecnologiche in ambito
sanitario ha una storia piuttosto recente. Si possono
far risalire i primi approcci sistematici al 2003, con
la costituzione del Network Italiano (NI-HTA) che
ha formulato nel 2006 la Carta dei principi “Carta
di Trento” sulla valutazione delle tecnologie sanitarie
in Italia, e quindi la costituzione della Società Italiana di HTA (SIHTA). A livello istituzionale, il
PSN 2006-2008 ha evidenziato la necessità di riconoscere l’HTA come una priorità e ha previsto
lo sviluppo della funzione di coordinamento delle
attività di valutazione condotte a livello regionale
(o inter-regionale) da parte di organi tecnici centrali
del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), quali l’Istituto Superiore di Sanità e l’Agenzia per i Servizi
Sanitari Regionali (oggi Agenzia Nazionale per i
Servizi Sanitari Regionali, AgeNaS).
Con la delibera n. 73/CU del 20.09.2007, la Conferenza Unificata Stato-Regioni ha attribuito all’AgeNaS, tra gli obiettivi strategici, la funzione di
“Supporto alle Regioni per la promozione di attività
stabili a livello regionale e locale di programmazione
e valutazione dell’introduzione e gestione delle innovazioni tecnologiche (HTA) e diffusione in ambito regionale dei risultati degli studi e delle valutazioni effettuate a livello centrale, favorendo l’adozione di comportamenti coerenti con tali risultati”.
Va altresì ricordata l’Agenzia Italiana del Farmaco
(AIFA) che, nella fase di registrazione dei farmaci,
di definizione del prezzo adeguato [negoziazione
con l’Azienda titolare dell’autorizzazione all’immisione in commercio (AIC)] e delle condizioni
di rimborso, coniuga la valutazione di efficacia,
Nel 1994 i repubblicani votarono contro il finanziamento dell’OTA.
Senza pretesa alcuna di esaustività, si ricorda che il CEDIT è attivo in Francia con compiti di HTA sin dal 1982, l’SBU
(Swedish Council on Health Technology Assessment) in Svezia dal 1987; si ricorda poi, sempre a livello nazionale, il NICE
(National Institute for Health and Clinical Excellence) in UK (1999) e l’IQWiG (Institut für Qualität und Wirtschaftlichkeit
im Gesundheitswesen) in Germania (2005).
28
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
4
Tabella 4.2 Principi condivisi dalla “Carta di Trento”
Chi
La valutazione delle tecnologie sanitarie deve coinvolgere tutte le parti interessate all’assistenza sanitaria
Che cosa
La valutazione delle tecnologie sanitarie deve riguardare tutti gli elementi che concorrono all’assistenza sanitaria
Dove
La valutazione delle tecnologie sanitarie deve riguardare tutti i livelli gestionali dei sistemi sanitari e delle strutture che ne
fanno parte
Quando
La valutazione delle tecnologie sanitarie deve essere un’attività continua che deve essere condotta prima della loro introduzione e durante l’intero ciclo di vita
Perché
La valutazione delle tecnologie sanitarie è una necessità e un’opportunità per la governance integrata dei sistemi sanitari
e delle strutture che ne fanno parte
Come
La valutazione delle tecnologie sanitarie è un processo multidisciplinare che deve svolgersi in modo coerente con gli altri
processi assistenziali e tecnico-amministrativi dei sistemi sanitari e delle strutture che ne fanno parte
Fonte: Carta di Trento 28/03/2006.
sicurezza e qualità di un medicinale con l’HTA.
L’Agenzia svolge, quindi, le seguenti attività riconducibili all’ambito dell’HTA5:
• valutazione dei nuovi farmaci e attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical efficacy);
• raccomandazioni sull’uso appropriato dei farmaci
(Note AIFA) correlate alle attività di valutazione
dell’efficacia clinica (clinical effectiveness);
• partecipazione alle decisioni sul rimborso dei
farmaci, correlate alle attività di valutazione
del rapporto costo-efficacia e di budget impact;
• generazione di dati epidemiologici originati
da flussi OsMed (relativi all’utilizzo dei farmaci
in ambito territoriale e ospedaliero).
AIFA e AgeNaS sono state indicate dal Ministro della
Salute come amministrazioni di riferimento per la
Joint Initiative della Commissione Europea sull’HTA
e l’Efficacia relativa dei farmaci (EUnetHTA JA).
Le indicazioni per l’HTA in Italia
Le organizzazioni aderenti al Network Italiano di
HTA (NI-HTA), al termine di un processo di con5
6
sultazione che ha coinvolto i partecipanti al “1°
Forum italiano per la valutazione delle tecnologie
sanitarie”6, hanno condiviso i seguenti principi
che sono stati pubblicati e diffusi in un documento
al quale è stato dato il nome di “Carta di Trento”.
I principi concordati e stabiliti nella Carta rispondono all’esigenza di individuare e definire in maniera univoca il chi, che cosa, dove, quando e perché e il come della valutazione (Tabella 4.2).
Le esperienze regionali
Lo sviluppo di sistemi di HTA a livello regionale,
a oggi, è stato attivato in modo esplicito (normato), seppure con tempi e modalità differenti,
in 6 Regioni: Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Sicilia, Toscana, Veneto.
L’Emilia-Romagna ha definito gli attori del processo, strutturato su due livelli e con il coinvolgimento di un apposito Centro regionale (Centro
Regionale di Valutazione e Informazione sui Farmaci, CREVIF), senza una specializzazione dei
ruoli in funzione della tecnologia, stressando piut-
http://www.agenziafarmaco.gov.it/. Ultima consultazione: giugno 2011.
Forum organizzato a Trento dal 19 al 21 gennaio 2006 dall’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, dall’Università
di Trento e da NI HTA.
29
Ministero della Salute
tosto la sua multidisciplinarità; non appare chiaramente esplicitata l’attribuzione del ruolo strategico, come anche la cogenza del processo valutativo, tranne che per le grandi attrezzature.
La Lombardia stressa la finalità della valutazione
dell’appropriatezza attraverso un processo strutturato su 3 fasi, a loro volta suddivise in numerosi
e complessi step.
Il Piemonte ha strutturato il processo su tre livelli,
senza peraltro una specializzazione dei ruoli in
funzione della tecnologia; appare chiaramente separato il ruolo strategico e quello tecnico; la cogenza del processo valutativo è legata ad apposita
lista delle tecnologie da monitorare.
La Sicilia ha iniziato il processo di definizione
dell’HTA definendo l’esigenza di separare il ruolo
tecnico (Nucleo, peraltro non ancora costituito)
e quello strategico (Gruppo); il focus del processo
è sulla promozione delle attività formative e di
diffusione (fra i clinici). È presente anche una
funzione di controllo, mediante la realizzazione
di una banca dati delle principali attrezzature.
La Toscana ha, invece, concentrato l’attenzione
sulle specificità delle tecnologie, individuando varie aree di intervento: dispositivi medici, farmaci,
apparecchiature, organizzazione, protocolli, edilizia ospedaliera.
Il Veneto ha una struttura di HTA consolidata,
essendo storicamente partner di EUnetHTA; il
processo è organizzato su tre livelli, e coinvolge
una struttura regionale (CREVIF) per gli aspetti
tecnici, che si occupa indistintamente di farmaci
e dispositivi medici; appare chiaramente separato
il ruolo strategico da quello tecnico; non è, invece,
esplicitata la cogenza del processo valutativo.
In definitiva, è comune nelle Regioni considerate
una focalizzazione verso le esigenze di programmazione e controllo delle tecnologie a livello locale
(aziendale) e, in seconda istanza, sui processi di diffusione di pratiche cliniche e assistenziali appropriate.
30
Nessuna Regione esplicita criteri e metodologie
di valutazione da adottare, demandandone la definizione a Centri regionali, ovvero commissioni
tecniche; da questo punto di vista sembra esserci
una diffusa disattenzione verso gli standard internazionali e quindi la trasferibilità dei risultati.
Analogamente, i modelli sembrano in larga misura
orientati all’autarchia, sebbene in alcuni casi si
preveda l’integrazione in reti sovraordinate.
HTA relativo al trattamento dell’obesità
Nel seguente paragrafo si descrivono le principali
aree di evidenza sviluppate in un contesto di HTA
per il trattamento dell’obesità. Si precisa che non si
tratta di una revisione sistematica della letteratura,
né si è proceduto con metanalisi, in quanto entrambi
gli ambiti esulano dagli obiettivi del presente lavoro.
La ricerca è stata quindi limitata ai report HTA
delle Agenzie “ufficiali”, ovvero agenti nell’ambito
delle reti INAHTA e EUnetHTA. La strategia di
ricerca adottata è stata la seguente:
• database: INAHTA e EUnetHTA;
• parole chiave utilizzate: obesity;
• periodo: 2000-2010;
• numero report individuati: 9.
Seppure con diversa enfasi nei vari report, le aree
che sono state oggetto di assessment possono essere
riassunte come segue:
• interventi multidisciplinari di tipo preventivo,
agenti sui comportamenti e stili di vita;
• chirurgica bariatrica (per l’obesità patologica);
• approcci farmacologici;
• residenzializzazione (un caso belga per soggetti
di età pediatrica gravemente obesi).
I criteri di assessment utilizzati sono vari: tutti i report affrontano la questione dell’efficacia dei trattamenti e, nella quasi totalità dei casi, della sicurezza, con particolare riferimento all’approccio chirurgico. Valutazioni economiche (costo-efficacia
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
o costo-utilità) sono citate, ma in generale ritenute
di scarsa qualità; risulta frequente la valutazione
della necessità di un maggiore sviluppo della ricerca
in questo ambito. Un aspetto rilevante è considerato quello organizzativo, in particolare in relazione
ai requisiti per l’attività chirurgica. Infine, vengono
presi in considerazioni aspetti legali ed etici, i primi
legati soprattutto al consenso informato.
I risultati mostrano che la prevalenza dell’obesità
è in crescita in tutti i Paesi considerati: nei report
più recenti, si stima che in Belgio sia del 13%
della popolazione adulta [indice di massa corporea
(body mass index, BMI) ≥ 30 kg/m2], mentre in
Canada raggiunge il 23,1%, con un 2,7% di obesità patologica (BMI ≥ 40 kg/m2 o BMI ≥ 35
kg/m2 con cociuto di rischio sia per il diabete sia
per le malattie cardiovascolari. Anche la correlazione fra obesità e alcuni tipi di cancro è forte.
L’impatto dell’obesità è rilevante anche sui costi
del sistema: si stima sia responsabile del 2,4% dei
costi sanitari in Canada; analogamente incide in
4
modo significativo sulla qualità della vita dei soggetti interessati.
Nei report analizzati appare ampiamente consolidata la considerazione che si tratta di un problema sociale e che vada, quindi, prioritariamente
affrontato con approcci multisettoriali, tesi a favorire una dieta corretta e l’attività fisica.
Sebbene con diversi gradi di evidenza (maggiore
per bambini e adolescenti, grado 1, che per gli
adulti, grado 2), gli interventi preventivi si sono
dimostrati efficaci nel ridurre il peso, mentre il
problema principale rimane la persistenza della
riduzione (dopo un anno). La Tabella 4.3 riporta
le principali evidenze disponibili.
Con riferimento all’approccio farmacologico è
stato calcolato per orlistat, sibutramina, rimonabant il NNT (numero di pazienti con riduzione
di peso da trattare affinché uno mantenga la riduzione per 2 anni, o 1 anno per sibutramina),
con l’esito riportato nella Tabella 4.4.
Non emerge, quindi, evidenza di superiorità del-
Tabella 4.3 Interventi preventivi: principali evidenze disponibili
Trattamento
Dieta
Attività fisica
Fibre
Dieta a ridottissime calorie
Terapia comportamentale
Orlistat
Sibutramina
Medicine alternative
Studi (N)
Peso perso a 1 anno (kg)
Grado di evidenza
25
4
3
8
4
6
3
11
3-10
4
1-2 ?
2
1-2 ?
3
4-5
–
1
1
–
3
–
2
2
–
Fonte: SBU, 2002.
Tabella 4.4 NNT a 2 anni e sicurezza di orlistat, sibutramina e rimonabant
Molecola
Orlistat
Sibutramina
Rimonabant
NNT a 2 anni
Sicurezza
6-17
3-8 (a 1 anno); 10 a 18 mesi
7-25
Nessun problema a 4 anni
Aumento pressione e tachicardia
Non si possono trarre conclusioni
NNT, numero di pazienti con riduzione di peso da trattare affinché uno mantenga la riduzione per 2 anni, o 1 anno per sibutramina.
Fonte: KCE, 2006.
31
Ministero della Salute
l’approccio farmacologico rispetto a quelli sugli
stili di vita, anche in considerazione del fatto che
la riduzione di peso non appare persistente dopo
l’interruzione della somministrazione; mancano,
inoltre, studi su endpoint primari, quali riduzione
di mortalità ed eventi cardiovascolari. Da un punto
di vista farmacoeconomico, pur esistendo studi costo-efficacia per orlistat e sibutramina, le conclusioni non si possono ritenere attendibili, per la
scarsa qualità degli studi. Infine, si consideri che,
data la potenziale estensione dei possibili soggetti
trattabili, gli elementi di sicurezza non possono essere trascurati, in quanto si possono osservare eventi
avversi rari, ma gravi, non rinvenibili nei trials.
Nel caso dell’obesità severa, l’intervento chirurgico
si dimostra più efficace a lungo termine (SBU,
2002: 25% di riduzione del peso a 5 anni, 16% a
10; NCCHTA, 2002: 23-27 kg a 8 anni), sebbene
comporti rischi non irrilevanti.
Si consideri che in generale le procedure più invasive si dimostrano più efficaci. Dai report pubblicati
si evince che in Belgio il LAGB [Laparascopic Adjustable Gastric Banding (bendaggio gastrico)] è la
procedura più frequente: tra i vantaggi la minore
invasività, la facilità di esecuzione e la reversibilità;
l’efficacia a lungo termine e la sicurezza sono però
scarsamente documentate; per il Canada, il RYGB
(bypass gastrico Rouex-en-Y) è invece considerato il
gold standard.
Altre opzioni sono la VBG [Vertical Banden Gastroplasty (gastroplastica verticale)], il BJ (bypass
di Jejunoile), oltre al BPD-DS [Biliopancreatic
Diversion (diversione biliopancreatica con switch
duodenale)], che avendo dimostrato risultati positivi può essere considerato un’ulteriore opzione
specialmente per pazienti super-obesi.
Secondo il report NCCHTA (2002) il RYGB sarebbe più efficace della VBG e del BJ, con l’approccio laparoscopico che implicherebbe minori
complicazioni.
32
Anche secondo il report di ASERNIP-S (2003),
il LAGB sarebbe nel breve periodo più sicuro in
termini di mortalità; rispetto a VBG e RYGB
(ROUX-en Y Gastric Bypass) il tasso di mortalità
sarebbe dello 0,05% (mediana del tasso complessivo di morbidità pari all’11,3%), contro, rispettivamente, lo 0,50% (23.6%) per RYGB e lo
0,31% (25,7%) per VBG.
Rimanendo nell’approccio laparoscopico, il LAGB
richiederebbe minore tempo operatorio e degenza
ospedaliera rispetto al LVBG (Laparoscopic Vertical
Banded Gastroplasty) e al LRYGB (Laparoscopic
Roux-En-Y Gastric Bypass), ma con più frequenti
complicazione e ri-operazioni a lungo termine, in
particolare per i pazienti con obesità più severa.
Il LAGB produce significativa perdita di peso nei
pazienti obesi severi, ma meno che il LRYGB e la
LVBG. Analogamente, il LRYGB sembra migliorare maggiormente la qualità della vita dei pazienti
e alcune comorbidità.
I rischi della chirurgia bariatrica rimangono, in
generale, elevati: è stato stimato un tasso del 20%
di riospedalizzazioni; è stato, altresì, stimato il
4,6% di mortalità a un anno da RYGB e il 24%
di casi di malassorbimento a lungo termine.
In ogni caso la specializzazione dello staff chirurgico è ritenuta un fattore fondamentale, essendosi
dimostrata cruciale la curva di apprendimento,
che produce un netto miglioramento della mortalità e morbidità oltre le 100 procedure annue.
Molti report suggeriscono l’adozione di specifici
registri nazionali.
In generale, gli studi di valutazione economica
ritengono che la chirurgia bariatrica sia costo-efficace, ma la qualità degli studi è minata sia dal
non accordo su quale sia il comparatore rilevante,
sia dalle incertezze sull’efficacia e sicurezza delle
diverse procedure a lungo termine.
In ogni caso è stato stimato che il RYGB ha un
costo netto per QALY (Quality Adjusted Life Years)
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
di £ 6289, seguito dal LAGB con £ 8527 e dalla
VBG con £ 10.237. Il RYGB avrebbe un costo
netto per QALY guadagnato modesto rispetto alla
VBG (£ 742 per QALY), mentre il LAGB ha un
costo netto per QALY guadagnato molto alto rispetto al RYGB (£ 256.856 per QALY). Il LAGB,
considerando l’alto costo del device, non è evidente che abbia un profilo rischio-beneficio migliore di procedure più invasive, come il RYGB.
In generale, dati i profili di rischio, tutti i report
concordano che l’approccio chirurgico andrebbe
riservato ai casi di obesità molto severa, sebbene i
criteri normalmente utilizzati (BMI ≥ 40 kg/m2
o BMI ≥ 35 kg/m2 con comorbidità) appaiano
ampiamente arbitrari e necessiterebbero di approfondimenti di ricerca.
Un report del KCE (2006) affronta, infine, anche
una valutazione dell’opzione di residenzializzazione per bambini obesi severi: non viene analizzata, per la scarsa evidenza disponibile e per la
scarsa rilevanza nel caso italiano.
Le nuove tecnologie per la prevenzione
e il follow-up delle complicanze
o delle condizioni associate all’obesità
Presidi diagnostici
Misurazione della composizione corporea
Analisi di impedenza bioelettrica (BIA) a corpo intero. Mediante un apposito modello matematico
è possibile il calcolo sia dell’acqua corporea totale
(total body water, TBW) espressa in litri, sia della
massa magra totale (fat free mass, FFM) espressa
in kg e, per differenza, della massa grassa (fat mass,
FM). L’accuratezza di questo metodo è messa in
discussione nel caso di grave obesità, in cui si è
constatata un’alterazione nella distribuzione dei
fluidi corporei con un notevole incremento del
normale rapporto tra acqua extra- e intracellulare.
4
Tale tecnica, consentendo l’esecuzione delle misure
in modo rapido, non invasivo, ripetibile, a basso
costo, rappresenta un’importante risorsa nel follow-up del calo ponderale.
Apparecchio DEXA (densitometria a doppio raggio
X). Rappresenta attualmente il golden standard per
una corretta valutazione della composizione corporea, soprattutto nelle situazioni (es. obesità grave)
in cui altre metodiche di misurazione risultano
meno affidabili. Consiste nell’esplorazione dell’intero corpo, o parte di esso, mediante raggi X a due
diversi livelli di energia. Tramite la differenza del
rapporto tra l’attenuazione dei fotoni a bassa e ad
alta energia, è possibile determinare la massa grassa
e la massa magra. Infatti, il tessuto magro e il tessuto
adiposo hanno diverse densità, l’idratazione dei tessuti è un parametro pressoché costante, così come
il contenuto della componente ossea di un corpo.
Esistono casi in cui la determinazione dell’adipe
sul peso corporeo non è facile, come per esempio
nei soggetti con prominente muscolatura; in questo
caso si utilizza la misurazione della massa grassa attraverso l’identificazione dello spessore di quest’ultima a livello sottocutaneo tramite tomografia computerizzata (TC), ultrasuoni o ecografia.
TC con scansione a livello lombare (L4-L5, range
di attenuazione: –30-190 Unità Hounsfield). Rappresenta attualmente l’indagine di riferimento per
la valutazione distrettuale della distribuzione adiposa. Il rapporto tra lo spessore del grasso sottocutaneo e di quello viscerale rispecchia la distribuzione del grasso nell’organismo. Recentemente
sono emerse evidenze sull’impatto metabolico
dell’infiltrazione adiposa del tessuto muscolare
scheletrico. Tale infiltrazione può essere anch’essa
misurata mediante scansione TC, anche se la risonanza magnetica (RM) fornisce informazioni
più accurate, soprattutto riguardo all’infiltrazione
intracellulare di trigliceridi.
La struttura radiologica nei centri di riferimento
33
Ministero della Salute
regionali dovrebbe disporre di apparecchi dedicati
per obesi gravi e superobesi (es. RM a cielo
aperto).
Valutazione del dispendio energetico
La valutazione con calorimetria diretta, che rappresenta il golden standard, è stata ormai abbandonata a causa della sua dispendiosità. Attualmente si preferisce la misurazione con sistema per
calorimetria indiretta, più economico, di più facile
e rapida esecuzione e pertanto facilmente ripetibile. Sono attualmente in commercio apparecchiature che, oltre a tale valutazione nutrizionale,
sono in grado di fornire un’analisi della funzionalità polmonare (spirometria, volumi polmonari,
capacità di diffusione) e della funzione cardiopolmonare sotto sforzo.
Recentemente si è reso disponibile l’Armband®,
un sistema di monitoraggio tipo “Holter metabolico” che consente di registrare e analizzare informazioni accurate del dispendio energetico,
dell’attività fisica e dello stile di vita durante la
normale vita quotidiana. Il sistema comprende
uno strumento da indossare sul braccio, che registra in continuo una serie di dati fisiologici corporei, come dispendio energetico del paziente (calorie bruciate), durata e livello dell’attività fisica,
numero di passi e stato sonno/veglia.
Valutazione delle comorbidità
Screening bioumorale. Lo screening ematochimico
comprende: analisi dei fattori di rischio cardiovascolare [profilo lipidico, hs-PCR (high-sensitivity
C-reactive protein), indici di flogosi], OGTT (oral
glucose tolerance test) per glicemia e insulinemia,
funzionalità epatica e renale, screening ormonale
per escludere cause secondarie di obesità (ipotiroidismo, ipercorticismo). Importante inoltre, nei
centri di riferimento regionale, la possibilità di
34
uno screening genetico dell’obesità nei casi di obesità a esordio infantile, familiarità importante,
obesità grave.
Tecniche di imaging. Importante l’indagine ecografica internistica (tiroidea, tronchi sovra-aortici,
venosa arti inferiori, addome completo), per il
suo costo relativamente basso, la non invasività e
la possibilità di indagare la vasta gamma di comorbidità spesso associate all’obesità.
Rx tubo digerente prime vie, EGDS (esofagogastroduodenoscopia), eventuale pH manometria
24 h sono utili al fine di valutare eventuali patologie intercorrenti sensibili di trattamento chirurgico contestuale all’intervento bariatrico.
Valutazione della funzione cardiopolmonare
La parte senza dubbio fondamentale nella valutazione internistica del paziente obeso è rappresentata dalla stadiazione della funzione cardiopolmonare e del rischio cardiovascolare. Nella valutazione complessiva del rischio cardiovascolare va
ricercata la presenza di fattori di rischio aggiuntivi,
danno d’organo, presenza di patologie o di condizioni cliniche associate. Le procedure diagnostiche comprendono quindi più livelli:
• registrazioni pressorie ambulatoriali o secondo
Holter delle 24 h (apparecchiature fornite di
bracciali per adulti obesi);
• elettrocardiografia;
• ECG delle 24 h secondo Holter;
• ecocardiografia standard con valutazione della
disfunzione diastolica;
• eventuali indagini di secondo livello nella patologia ischemica associata (eco-stress, RM,
scintigrafia miocardica).
L’ecocardiografia standard è stata recentemente integrata dalla possibilità di valutare anche il grasso
epicardico e la riserva coronarica. È ormai noto
che il tessuto adiposo epicardico rappresenta un
indice importante di adiposità viscerale e, inoltre,
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
la valutazione della riserva di flusso coronarico
(coronary flow reserve, CFR) per mezzo di un test
da sforzo farmacologico ecocardiografico permette
di identificare già in fase preclinica la presenza di
alterazioni di flusso coronarico, predittive di una
disfunzione circolatoria in atto. Si tratta di una
metodica di relativa recente introduzione, semplice, facilmente disponibile, non invasiva e riproducibile, che si è dimostrata in grado di predire
in fase precoce un danno microangiopatico a livello coronarico. La tecnica consiste nella misurazione del flusso sanguigno diastolico con il color-doppler nella porzione distale dell’arteria coronaria discendente anteriore in condizioni basali
e dopo infusione di adenosina (140 mg/kg/min
per 5 minuti). La CFR viene calcolata come il
rapporto fra la velocità massima di picco nella
fase diastolica e il flusso a livello basale. Negli individui normali, l’aumento del lavoro cardiaco in
condizioni di sforzo determina un aumento del
flusso a livello distale delle coronarie di 4-5 volte
rispetto al flusso in condizioni basali. Per la non
invasività e il basso costo rispetto ai test standard
(RM, TC, coronarografia), tali metodiche rappresentano un importante possibile sviluppo nella
diagnostica precoce di primo livello delle complicanze cardiovascolari. Tuttavia, attualmente tali
indagini sono ancora sperimentali e necessitano
di ulteriore validazione scientifica prima di proporne l’uso routinario.
Prove di funzionalità respiratoria e polisonnografia.
L’eventuale presenza e severità di OSAS (obstruction sleep apnea syndrome) deve essere diagnosticata
se possibile prima di procedere a trattamenti (soprattutto se invasivi-bariatrici) dell’obesità, al fine
di identificare i pazienti a rischio di sviluppare
complicanze di OSAS e di intraprendere una terapia adeguata. È ormai provato che l’OSAS si
associa e/o è un importante fattore di rischio e
aggravamento per insufficienza respiratoria ipos-
4
siemica-ipercapnica, ipertensione arteriosa sistemica (mancanza del “dipping” notturno e dello
scarso controllo farmacologico), cardiopatia ischemica e scompenso cardiaco, aritmie cardiache,
patologie cerebrovascolari, sindrome metabolica.
Recenti studi eseguiti su pazienti OSAS hanno
inoltre dimostrato un’alterazione dei fattori di
coagulazione in senso trombofilico e un’alterazione
della parete endoteliale in senso proinfiammatorio.
Tutti questi fattori rendono il paziente obeso affetto da OSAS ad alto rischio cardiovascolare.
I criteri diagnostici di OSAS si basano su sintomi
e segni clinici e test standard sul sonno.
La diagnosi di OSAS non può prescindere da una
valutazione strumentale per l’intera durata della
notte; prima di avviare un paziente con sospetto
OSAS al percorso diagnostico strumentale, devono essere ricercati i segni e i sintomi di sospetto
(russamento abituale, pause respiratorie, risvegli
con senso di soffocamento, BMI, circonferenza
collo > 43 cm ecc.). Nell’attuazione del percorso
diagnostico andranno inoltre valutati i livelli di
priorità. In particolare, il livello di priorità nell’esecuzione dell’esame strumentale andrà graduato su: sintomatologia clinica e severità del quadro; presenza di insufficienza respiratoria ipossiemica e/o ipercapnica; comprovata comorbidità
cardiovascolare; occupazioni e professioni a rischio
di incidenti. La valutazione strumentale notturna,
definita polisonnografia, può essere eseguita con
diverse metodiche di registrazione ambulatoriali
o domiciliari, con o senza personale tecnico di
sorveglianza:
• monitoraggio notturno cardiorespiratorio ridotto (permette l’identificazione indiretta degli
eventi respiratori attraverso l’ossimetria);
• monitoraggio notturno cardiorespiratorio completo (permette l’identificazione diretta degli
eventi respiratori);
• polisonnografia con sistema portatile (permette
35
Ministero della Salute
la stadiazione del sonno, oltre all’identificazione diretta degli eventi respiratori);
• polisonnografia notturna in laboratorio. Questo esame va eseguito in un laboratorio del
sonno sotto diretto controllo del tecnico per
tutto il tempo di registrazione.
Va precisato che la polisonnografia notturna in
laboratorio per la diagnosi di OSAS è obbligatoria
solo in caso di risultati dubbi dopo monitoraggio
cardiorespiratorio o polisonnografia portatile. La
scelta del tipo di esame strumentale dovrà essere
valutata dal personale medico sulla base di un’attenta valutazione clinico/anamnestica secondo le
Linee guida nazionali e internazionali. Una volta
istituiti i provvedimenti terapeutici [calo ponderale, terapia comportamentale/posizionale, protesi
ventilatoria con C-PAP (continuous positive airway
pressure) o in casi selezionati con B-level] bisognerà
provvedere a un adeguato programma di followup, con particolare riguardo agli effetti di un importante calo ponderale (es. in caso di intervento
di chirurgia bariatrica).
La telemedicina per il paziente grande obeso
La telemedicina è la pratica della medicina a distanza attraverso reti di comunicazione, linea telefonica, intranet, internet. Secondo l’Advanced
Informatics in Medicine (AIM 1990), la telemedicina è definita come “Il monitoraggio e la gestione dei pazienti, nonché l’educazione dei pazienti e del personale, usando sistemi che consentano un pronto accesso alla consulenza di
esperti e alle informazioni del paziente, indipendentemente da dove il paziente o le informazioni
risiedano”.
Il suo potenziale utilizzo nel paziente grande obeso
con gravi problemi di mobilità potrebbe risultare
di notevole utilità. Si rimanda al Capitolo 13
Parte Seconda “Appropriatezza tecnologica” pa-
36
ragrafo “La telemedicina in diabetologia” per gli
aspetti tecnici e di fattibilità.
I farmaci
Lo scopo primario del trattamento dell’obesità dovrebbe essere quello di ottenere e di mantenere
una perdita di peso utile a ridurre il rischio di
complicanze, e di fatto i trattamenti attualmente
approvati per l’obesità, assieme ad alcuni dei presidi
terapeutici in sviluppo, inducono perdita di peso
e quindi rappresentano potenzialmente strumenti
di prevenzione delle complicanze dell’obesità. Tuttavia, tali terapie mostrano il limite di indurre solo
una modesta perdita di peso nel tempo e sono
inoltre seguite, all’interruzione del trattamento,
da un rapido riguadagno ponderale. Quindi, un
fattore chiave nel trattamento dell’obesità è l’ottenimento di una perdita di peso significativa e mantenuta nel tempo quale, purtroppo, a oggi, si riesce
a ottenere solo ricorrendo alla chirurgia bariatrica.
I farmaci antiobesità (Tabella 4.5) possono avere
un ruolo nella riduzione del peso in pazienti la
cui condizione è refrattaria alle misure non farmacologiche, oltre che per il mantenimento a
lungo termine del peso perduto. Finora questi
farmaci si sono dimostrati limitati nell’efficacia e
non soddisfacenti per le reazioni avverse. Per esempio, l’amfetamina possiede significative proprietà
euforizzanti ed è gravata da sviluppo di abuso. La
fentermina ha effetti stimolanti e simpaticomimetici. Gli anoressizzanti che contengono fenilpropanolamina sono stati associati ad aumentato
rischio di emorragia cerebrale nelle donne e questo
ne ha determinato la sospensione.
L’utilizzo di fenfluramina e di dexfenfluramina è
stato bloccato e i farmaci ritirati dal commercio per
un’associazione con lo sviluppo di ipertensione polmonare e danno alle valvole cardiache. Sibutramina
e orlistat, i due farmaci più recenti per i loro profili
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
4
Tabella 4.5 Farmaci antiobesità
Farmaco
Bersaglio
Meccanismo
Effetti collaterali
Status
Lieve aumento
della frequenza cardiaca
e della pressione arteriosa
Ritirata
Anoressizzanti
Sibutramina
Neuroni serotoninergici
e noradrenergici
↓ ricaptazione
Inibitori dell’assorbimento dei grassi
Orlistat
Lipasi pancreatiche
Inibisce l’assorbimento dei grassi
di efficacia e di sicurezza, sono stati approvati per la
terapia a lungo termine in associazione a modificazioni dello stile di vita. La sibutramina agisce a
livello del sistema nervoso centrale, favorendo l’insorgere dei segnali di sazietà e attivando il dispendio
energetico attraverso una maggiore produzione di
calore (termogenesi). È controindicata nei pazienti
affetti da gravi patologie cardiovascolari e per questa
controindicazione è stata ritirata dal commercio.
L’orlistat agisce, invece, a livello del tubo digerente,
dove inibisce un enzima (lipasi pancreatica) la cui
attività è indispensabile all’assorbimento dei lipidi
assunti con la dieta. Tale farmaco deve essere assunto
nell’ambito di una dieta ipolipidica: ogni trasgressione da tale dieta, infatti, può comportare reazioni
avverse legate all’eccessiva presenza di grassi nella
parte terminale dell’intestino con formazione di feci
oleose e, pertanto, difficili da trattenere. Questi farmaci, comunque, restano farmaci “sintomatici” e
“non curativi”.
Farmaci inibitori dell’introito calorico
(anoressizzanti)
Si definiscono anoressizzanti quei farmaci che,
inibendo la sensazione di fame o favorendo la sazietà, sono in grado di ridurre il consumo di cibo.
Il trattamento farmacologico con anoressizzanti è
indicato in pazienti che abbiano difficoltà ad at-
Steatorrea
Disponibile
tenersi alla dieta ipocalorica o che siano “refrattari”
al trattamento dietetico, comportamentale e alla
terapia fisica, ed è utile esclusivamente al paziente
motivato a ridurre il peso corporeo in eccesso,
ma poco tollerante di fronte al disagio creato dalle
restrizioni dietetiche.
I farmaci anoressizzanti oggi disponibili agiscono
principalmente sui meccanismi di fame e di sazietà. Queste sostanze riducono la sensazione di
fame o aumentano la sazietà, agendo, a livello del
sistema nervoso centrale, su alcune vie neuronali,
specificatamente quelle noradrenergiche o serotoninergiche, aumentando la quantità di neurotrasmettitore liberata a questo livello e potenziando, così, l’attività normale e fisiologica di tali
vie. Attualmente il farmaco a disposizione agisce
sui meccanismi di ricaptazione sinaptica della noradrenalina e della serotonina.
Sibutramina
Disponibilità della sibutramina nella pratica clinica.
Il 21 gennaio 2010 l’EMA (European Medicine
Agency, già EMEA) ha diffuso un comunicato
stampa nel quale raccomanda, come misura cautelativa, la sospensione delle autorizzazioni all’immissione in commercio di questi medicinali in tutta
l’Unione Europea. Tale decisione è stata motivata
dal fatto che i dati provenienti dallo studio SCOUT
hanno mostrato un aumentato rischio di eventi
37
Ministero della Salute
cardiovascolari gravi, non fatali, come ictus o infarto, con sibutramina rispetto al placebo. Sebbene
il Committee for Medicinal Products for Human Use
(CHMP) dell’EMA abbia osservato che la maggior
parte dei pazienti dello studio SCOUT non avrebbe
avuto accesso al farmaco nella comune pratica clinica perché a elevato rischio cardiovascolare e che
la durata del trattamento nello studio è stata più
lunga di quanto di solito raccomandato, poiché
anche i pazienti obesi senza storia di patologia cardiovascolare sono potenzialmente più a rischio di
eventi cardiovascolari, il Comitato ha ritenuto che
i dati dello studio SCOUT sono rilevanti per l’uso
del farmaco nella pratica clinica.
La sibutramina è una β-feniletilamina con potenti
effetti inibitori sulla ricaptazione sia di serotonina
sia di noradrenalina. La sibutramina è ben assorbita dal tratto gastrointestinale e a livello epatico
viene trasformata nei due principali metaboliti
attivi che compaiono in circolo circa 30 minuti
dopo l’assunzione orale del farmaco. Al contrario
della dexfenfluramina, la sibutramina non stimola
il rilascio di serotonina a livello delle terminazioni
sinaptiche. Una significativa riduzione nell’assunzione di cibo in seguito a trattamento con sibutramina è stata dimostrata da diversi studi. Soggetti affetti da obesità hanno sperimentato una
significativa riduzione nell’assunzione di cibo
(espressa sia in grammi sia in energia) rispetto ai
soggetti trattati con placebo, dopo aver ricevuto
10-30 mg/die di sibutramina per 14 giorni.
Diversi studi hanno dimostrato anche effetti termogenetici acuti e cronici del farmaco, misurati
sia sulla spesa energetica basale sia sulla termogenesi indotta dalla dieta. In particolare, in uno studio randomizzato, in doppio cieco, contro placebo, è stato riportato che la sibutramina (30
mg/die) determina un significativo aumento del
metabolismo basale rispetto al placebo. Altri autori
hanno dimostrato che il farmaco (15 mg/die per
38
8 o 12 settimane) limita la riduzione della spesa
energetica associata alla perdita di peso che si verifica con una terapia dietetica.
Le principali reazioni avverse, anche se di grado
limitato, evidenziate nei diversi trials clinici sono:
secchezza delle fauci, insonnia, stipsi, vertigini, infezioni, faringiti e cefalea. Nei test sulle azioni a
carico del sistema nervoso centrale, la sibutramina
non ha mostrato alcun effetto sedativo, ma solo
qualche effetto leggermente stimolante. Non sono
stati riportati casi di ipertensione polmonare primaria o valvulopatie dopo assunzione del farmaco.
Attenzione particolare va posta nel trattamento
di soggetti obesi con ipertensione arteriosa e tachicardia o, ancora, con pregresse patologie cardiovascolari, dal momento che la sibutramina si è
dimostrata in grado di incrementare sia la pressione arteriosa sia la frequenza cardiaca. La pressione e il polso andrebbero, comunque, monitorati
nei pazienti obesi che iniziano la terapia, affetti o
meno da ipertensione. Aumenti della pressione
arteriosa e tachicardia sono di solito evidenti nelle
prime 8 settimane di terapia. Un aggiornamento
dei dati raccolti e una valutazione approfondita
di tutti i trials clinici hanno indotto le autorità
sanitarie sia nazionali sia europee a ritenere che i
benefici che si ottengono con l’utilizzo del farmaco
nei soggetti obesi siano superiori alle eventuali
reazioni avverse anche gravi.
Controindicazioni all’utilizzo della sibutramina
sono:
• anoressia nervosa;
• aritmie cardiache;
• somministrazione contemporanea di agenti serotoninergici [inclusi gli SSRI (selective serotonin
reuptake inhibitors)] o di antidepressivi triciclici
o di inibitori delle monoaminossidasi (MAO);
• somministrazione di altri anoressizzanti ad
azione centrale;
• insufficienza cardiaca congestizia;
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
•
•
•
•
•
•
•
coronaropatie;
ipersensibilità al farmaco;
grave insufficienza epatica;
grave insufficienza renale;
ictus;
ipertensione arteriosa incontrollabile;
malattia occlusiva delle arterie periferiche.
Farmaci inibitori dell’assorbimento dei grassi
La riduzione dell’assunzione di cibi ricchi in grassi
è l’indicazione dietetica principale e anche la più
frequentemente disattesa dai pazienti obesi; agenti
che inibiscono l’assorbimento dei grassi possono
quindi essere di aiuto nel facilitare l’induzione di
un bilancio energetico negativo che faciliti il calo
ponderale.
Le lipasi gastriche e pancreatiche idrolizzano i trigliceridi in glicerolo e acidi grassi; questi ultimi
formano con gli acidi biliari delle micelle e vengono assorbiti dalla mucosa intestinale insieme a
colesterolo e vitamine liposolubili (A, D, E, K).
I farmaci in questione inibiscono l’assorbimento
dei grassi mediante l’inibizione delle lipasi; i trigliceridi indigeriti non vengono assorbiti e trascinano nel loro transito intestinale una quota di
molecole liposolubili.
Orlistat
Deriva per idrogenazione dalla lipstatina, molecola
estratta dal microrganismo Streptomyces toxyricini.
È un inibitore potente e irreversibile delle lipasi
gastriche e pancreatiche che non viene assorbito
ed è quindi privo di effetti sistemici. Riduce l’assorbimento intestinale di circa il 30% dei grassi
ingeriti, del colesterolo e delle vitamine liposolubili;
determina calo ponderale e provoca steatorrea.
Sono stati condotti numerosi trials clinici randomizzati, in doppio cieco, contro placebo, che dimostrano l’efficacia terapeutica di orlistat nella de-
4
terminazione del calo di peso e nel mantenimento
nel lungo termine del peso perso. In particolare, si
vogliono ricordare i risultati dei trials condotti
somministrando 120 mg 3 volte al giorno del farmaco o il placebo per un periodo di 2 anni. I risultati dimostrano una riduzione percentuale media del 5-7% del peso iniziale nel gruppo dei soggetti trattati con orlistat (n = 210) rispetto a una
riduzione dell’1-4% nel gruppo placebo.
Un ampio studio ha in seguito esteso il follow-up
fino a 4 anni (lo studio XENDOS). Questo trial
ha studiato un possibile effetto di orlistat nel prevenire il diabete di tipo 2 in soggetti obesi. Sono
stati selezionati pazienti con intolleranza glucidica
basale (i pazienti con diabete sono stati esclusi).
I pazienti sono stati randomizzati in due gruppi:
placebo o orlistat (120 mg 3 volte al giorno) per
4 anni (n = 3304). I valori medi ottenuti per i
due gruppi a 4 anni sono stati: –4,1 kg e –6,9 kg
di peso corporeo con placebo e orlistat, rispettivamente. La percentuale dei soggetti che hanno
perso almeno il 5% (o il 10%) del peso iniziale è
stata del 53% (o il 26%) nel gruppo trattato con
orlistat rispetto al 37% (o il 16%) nel gruppo
placebo. L’incidenza cumulativa del diabete mellito di tipo 2 è stata del 18,8% nel gruppo trattato
con orlistat rispetto al 28,8% rispetto al gruppo
placebo (p < 0,002).
Le reazioni avverse associate all’utilizzo di orlistat
comprendono: feci molli e/o grasse, urgenza alla
defecazione, perdita incontrollata di feci oleose,
incontinenza fecale, meteorismo con dolori addominali, nausea, vomito. Queste reazioni avverse,
nella maggior parte dei casi, sono transitorie, leggere o moderate come intensità, soprattutto evidenti all’inizio del trattamento e si risolvono spontaneamente. Nessun trial ha evidenziato alterazioni
della densità ossea o modificazioni minerali ossee.
Il meccanismo d’azione del farmaco predice potenziali deficit nell’assorbimento di vitamine li-
39
Ministero della Salute
posolubili (A, D, E e K) e di betacarotene. Nei
trials clinici condotti finora nessuno dei pazienti
trattati ha mostrato evidenti segni di deficienza
vitaminica. Non sembrano sussistere significative
interazioni fra orlistat e altri farmaci come digossina, warfarin, antipertensivi (furosemide, captopril, nifedipina e atenololo) e contraccettivi orali.
Sibutramina e orlistat si sono dimostrati superiori
al placebo nel ridurre il peso corporeo e migliorare
il profilo glicemico e lipidico dei soggetti obesi.
Sono anche i primi farmaci ad aver dimostrato
una buona tollerabilità ed efficacia per periodi
prolungati di utilizzo: fino a due anni per sibutramina e fino a quattro anni per orlistat. Quantunque, come si accennava in precedenza, anche
questi due non sono altro che farmaci sintomatici
per la cura dell’obesità.
L’aumento delle conoscenze, accumulatesi negli
ultimi dieci anni, sui meccanismi molecolari e
neurotrasmettitoriali riguardanti i processi centrali
e periferici che regolano l’omeostasi energetica ha
suggerito l’analisi di importanti nuovi bersagli farmacologici. Nuovi promettenti farmaci antiobesità
sono, infatti, all’orizzonte, anche se la complessità
dei sistemi regolatori coinvolti impone un’attenzione particolarmente elevata in questo che resta
l’ambito sanitario più rilevante della nostra epoca.
Oltre alla specialità medicinale che prevede l’obbligo di ricettazione, è stata recentemente autorizzata una formulazione del farmaco a dosaggio
inferiore per la quale non sussiste l’obbligo di ricettazione (over the counter, OTC: farmaci da
banco), ma non è permessa la pubblicità (senza
obbligo di prescrizione, SOP).
Si segnala, infine, che recentemente è stato introdotto il primo agonista del glucagon-like peptide
(GLP)-1, exenatide, affiancato dall’analogo acilato
del GLP-1 umano (liraglutide), per la terapia del
diabete di tipo 2. Tali molecole hanno effetti positivi sulla funzionalità delle beta-cellule, stimo-
40
lando la sintesi e il rilascio di insulina in modo
glucosio-dipendente e promuovendo sia la fase
precoce della secrezione insulinica sia quella tardiva. È interessante notare che, mentre i trattamenti antidiabetici comunemente impiegati, a eccezione di quello con metformina, si associano a
incremento ponderale, il trattamento con analoghi
del GLP-1 è accompagnato da un consistente e
duraturo calo ponderale. Su tali basi, sono stati
avviati trials clinici su pazienti obesi per verificare
se tali farmaci possano in futuro essere utilizzati
anche in pazienti con solo eccesso ponderale.
La chirurgia bariatrica
La chirurgia dell’obesità tendenzialmente modifica
l’anatomia del tratto digestivo. I meccanismi attraverso i quali essa agisce sono di due tipi:
• meccanico-restrittivi, che permettono più facilmente di diminuire la quantità di alimenti
assunti e quindi di osservare più facilmente le
diete ipocaloriche;
• metabolico-malassorbitivi che, più o meno selettivamente, alterano la digestione e l’assorbimento degli alimenti, in particolare degli alimenti
grassi, diminuendo così l’apporto calorico.
Le tecniche chirurgiche possono essere classificate
in tre gruppi:
• restrittive pure:
- bendaggio gastrico regolabile,
- gastroplastica verticale;
• malassorbitive:
- derivazione bilio-pancreatica classica,
- derivazione bilio-pancreatica con DS;
• cosiddette metaboliche:
- bypass gastrico,
- sleeve gastrectomia.
L’intervento è realizzato in anestesia generale. La
laparoscopia è la tecnica da preferire, gold standard
sia per la maggiore compliance del paziente, sia
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
perché ha una minore percentuale di complicanze
connesse all’accesso chirurgico: in particolare, il
laparocele o l’ernia postoperatoria. Va sottolineato,
inoltre, che la precoce mobilizzazione e la più rapida ripresa funzionale sono dei grandi vantaggi
in questi pazienti, che sono da considerare ad alto
rischio. L’efficacia sulla perdita di peso è in genere
parallela alla complessità dell’intervento. Il bendaggio gastrico, per esempio, è l’intervento sicuramente meno rischioso, ma anche il meno efficace. All’opposto, la derivazione bilio-pancreatica
è sicuramente l’intervento più efficace, ma anche
il più complesso. Al raggiungimento della perdita
di peso attesa, molto frequentemente saranno necessari uno o più interventi di chirurgia plastica
volti a correggere gli inevitabili inestetismi.
Requisiti per beneficiare
della chirurgia bariatrica
• BMI ≥ 40 kg/m2 oppure BMI ≥ 35 kg/m2 in
presenza di almeno una copatologia suscettibile
di miglioramento dopo chirurgia (ipertensione
arteriosa, sindrome delle apnee notturne, diabete mellito di tipo 2, malattie osteoarticolari
invalidanti, steatosi epatica non alcolica ecc.).
• Fallimento di un trattamento medico, dietetico-nutrizionale e psicoterapeutico ben condotto per un periodo da 6 a 12 mesi (insufficiente o incostante calo ponderale).
• Corretta ed esauriente informazione del paziente.
• Valutazione multidisciplinare preoperatoria di
alcuni mesi.
• Necessità compresa e accettata dal paziente di
una sorveglianza medico-chirurgica postoperatoria per tutta la vita.
• Accettabile rischio operatorio.
Esistono altresì controindicazioni, delle quali alcune possono essere temporanee:
• disturbi cognitivi o mentali gravi;
4
• disturbi gravi e non stabilizzati del comportamento alimentare;
• dipendenza da alcool e da droghe;
• malattie con prognosi infausta a breve termine;
• controindicazioni all’anestesia generale;
• assenza di valutazione medica multidisciplinare
preliminare;
• prevedibile incapacità del paziente di sottoporsi
a sorveglianza medico-chirurgica postoperatoria a lungo termine.
Sintesi delle principali Linee guida
e indicazioni alla chirurgia bariatrica
Le prime Linee guida internazionali sulla chirurgia
bariatrica sono state emanate dai National Institutes of Health (NIH) americani nel 1991 nella
Consensus Development Conference on Gastrointestinal Surgery for Severe Obesity. Esse prendevano
in considerazione il ricorso alla chirurgia bariatrica
nei seguenti casi:
• pazienti adulti con BMI ≥ 40 kg/m2 in seguito
a precedenti fallimenti dietoterapici e medici;
• pazienti adulti con BMI ≥ 35 kg/m2 con una
o più comorbilità, come diabete di tipo 2,
complicanze cardiorespiratorie, articolari e ridotta qualità della vita, quando la procedura
chirurgica non presentava eccessivi rischi.
Nessuna raccomandazione è stata invece formulata
per i giovani e gli adolescenti obesi, anche con BMI
> 40 kg/m2, per l’insufficienza degli studi clinici.
Tali indicazioni sono state successivamente adottate dalle principali Società scientifiche statunitensi
(Institute for Clinical Systems Improvement, American Society for Bariatric Surgery) e non (European
Association for Endoscopic Surgery, Società Italiana
dell’Obesità ecc.).
Dal 1991 a oggi è stata prodotta un’ampia mole
di dati ed evidenze scientifiche che, oltre a validare
la chirurgia bariatrica per l’obesità grave, hanno
41
Ministero della Salute
sottolineato gli importanti e durevoli effetti sulla
“risoluzione” o miglioramento delle manifestazioni cliniche del diabete mellito di tipo 2. Le
Linee guida emanate successivamente dalle maggiori Società scientifiche americane ed europee,
oltre a confermare i criteri NIH, hanno ampliato
l’indicazione alla chirurgia bariatrica in casi selezionati di adolescenti e anziani e confermato che
non vi sono sufficienti prove per raccomandare
l’intervento con BMI < 35 kg/m2. Nel 2009, per
la prima volta anche una Società di diabetologia
quale l’American Diabetes Association (ADA) ha
inserito il capitolo della chirurgia bariatrica nei
propri standard di cura con le seguenti raccomandazioni:
• la chirurgia bariatrica dovrebbe essere considerata in pazienti con BMI ≥ 35 kg/m2 e diabete
di tipo 2, in particolare se il raggiungimento di
un buon controllo metabolico risulta difficoltoso
con lo stile di vita e la terapia farmacologica;
• i pazienti con diabete di tipo 2 che si sottopongono alla chirurgia bariatrica devono essere
seguiti per tutta la vita, indipendentemente
dall’eventuale risoluzione del diabete;
• nei pazienti con diabete di tipo 2 e BMI < 35
kg/m2, allo stato attuale non vi sono sufficienti
evidenze scientifiche tali da raccomandare l’intervento, sebbene piccoli trials abbiano dimostrato un miglioramento del controllo glicemico dopo chirurgia bariatrica.
In modo analogo, la Società Italiana di Diabetologia ha inserito nei propri standard di cura indicazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle
dell’ADA.
Andare oltre le Linee guida NIH e ridiscutere l’appropriatezza dei criteri di selezione dei pazienti è
oggetto di ampia discussione nella comunità scientifica. In un recente articolo basato su interviste
semistrutturate (secondo il metodo Delphi) a un
panel di esperti, è emersa la necessità di ampliare
42
il range del BMI e dell’età soprattutto in relazione
alla gravità delle patologie associate. In particolare,
è confermato che la chirurgia bariatrica è sempre
indicata nei pazienti con BMI ≥ 40 kg/m2 senza
comorbilità e BMI < 35 kg/m2 con morbilità di
età compresa tra 19 e 64 anni, mentre nelle fasce
di età fino a 12 anni e oltre 65 anni l’indicazione
è prevista, fino a un limite di 35 kg/m2 di BMI, se
le comorbilità, specie il diabete, sono particolarmente mal controllate nonostante la terapia medica
al massimo dosaggio consentito. Nella fascia di
età tra i 12 e i 18 anni l’intervento è indicato
anche in presenza di prediabete. In pazienti con
BMI compreso tra 32 e 34 kg/m2 (età compresa
tra 19 e 64 anni), l’unica condizione che indica la
chirurgia bariatrica è il diabete con un alto grado
di scompenso glicemico (HbA1c > 9%), al massimo
della terapia medica, anche se occorre sottolineare
che per il diabete insulino-trattato non esiste un
limite al dosaggio utilizzabile, ma eventualmente
un limite legato alla scarsa compliance o al rischio
di ipoglicemie. Di recente sono stati pubblicati
dati molto incoraggianti, derivati da uno dei rari
studi randomizzati controllati, relativamente all’applicazione del bendaggio gastrico in adolescenti
(14-18 anni) obesi (BMI > 35 kg/m2) in termini
di calo ponderale e riduzione dei fattori di rischio
cardiovascolare.
Recentemente sono state inoltre pubblicate le raccomandazioni dell’International Diabetes Federation (IDF) sull’applicazione della chirurgia bariatrica nel diabete di tipo 2, nelle quali si rimarca la
possibilità nei pazienti con BMI fra 30 e 35 kg/m2
altamente a rischio (HbA1c > 7,5% non controllabile con la terapia medica) di ricorrere a un intervento di chirurgia bariatrica.
Nella popolazione italiana, come annotato nel registro della Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche (SICOB), le percentuali complessive di interventi in età inferiore
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
a 18 anni e superiori a 60 anni sono basse (rispettivamente 0,4% per adolescenti < 18 anni, 1,8%
tra 60 e 65 anni e 0,3% per soggetti con età superiore a 65 anni), e questo riflette una differente
epidemiologia e gravità dell’obesità, soprattutto
in età adolescenziale, rispetto alla popolazione statunitense.
Di recente sono state pubblicate anche le ponderose Linee guida dell’American Association of Clinical Endocrinologists, The Obesity Society e American Society for Metabolic & Bariatric Surgery relative alla gestione pratica e al supporto nutrizionale e metabolico nel periodo perioperatorio, le
quali tuttavia non entrano nel merito delle indicazioni relativamente ai limiti di BMI.
Le controindicazioni specifiche per la chirurgia
bariatrica includono:
• rischio operatorio estremamente elevato;
• disturbi psicotici non stabilizzati;
• abuso e dipendenze da alcool e/o droghe;
• incapacità a partecipare a un follow-up medico
prolungato.
La valutazione per l’intervento chirurgico e il follow-up deve essere effettuata da un team multidisciplinare con comprovata esperienza nella gestione dell’obesità e della chirurgia bariatrica.
Per il diabete di tipo 2, numerose evidenze dimostrano che la chirurgia bariatrica è estremamente
efficace, sebbene sia difficile stabilire se si tratti di
risoluzione, remissione o addirittura cura della
malattia. Dalle evidenze presenti in letteratura, il
diabete di tipo 2 viene risolto nella maggior parte
dei pazienti obesi sottoposti a chirurgia bariatrica,
in misura proporzionale alla perdita di peso e
quindi in funzione dell’intervento eseguito. Inoltre, gli effetti della chirurgia bariatrica sul diabete
sono legati al miglioramento sia della sensibilità
sia della secrezione insulinica e potrebbero variare
in base alla durata della malattia e al grado di
obesità. Sono tuttavia necessari ulteriori studi cli-
4
nici, randomizzati e controllati, e soprattutto con
follow-up adeguato per durata e completezza, al
fine di stabilire se la risoluzione del diabete rappresenti una semplice remissione o addirittura la
cura della malattia, in altri termini se gli effetti
sul diabete siano conseguenti al ridotto introito
calorico/perdita di peso, oppure a un effetto intrinseco dell’intervento bariatrico. Quest’ultima
ipotesi si è fatta strada anche grazie ad alcuni studi
di chirurgia sperimentale effettuata sugli animali,
che avrebbero dimostrato un effetto antidiabetico
indipendente dal calo ponderale.
Su tali basi sono state recentemente pubblicate le
raccomandazioni della Diabetes Surgery Summit
Consensus Conference, prodotte mediante una sorta
di votazione alla quale ha partecipato un gruppo
internazionale di esperti. Tale Consensus conclude
riconoscendo alla chirurgia bariatrica un importante ruolo terapeutico nei pazienti diabetici con
BMI > 35 kg/m2, ma anche, e in tal senso superando tutte le soglie precedentemente considerate,
in pazienti attentamente selezionati con obesità
moderata (BMI 30-35 kg/m2) e diabete scompensato nonostante terapia medica massimale. È
indubbio che la sola misura del BMI non consente
di identificare i pazienti a maggiore rischio cardiovascolare, e che questa andrebbe integrata con
la misura della circonferenza vita. Sono infatti
ponderosi i dati di studi prospettici che dimostrano come la circonferenza vita si associ a un
aumento del rischio relativo di incorrere in eventi
cardiovascolari, mentre in tal senso la circonferenza dei fianchi conferirebbe una protezione
(INTERHEART ecc.).
In quest’ottica sarebbe più appropriato sottoporre
a chirurgia bariatrica un paziente maschio con
BMI 34 kg/m2, circonferenza vita 125 cm e diabete scompensato, piuttosto che una donna con
BMI 36 kg/m2, circonferenza vita 98 cm con altre
comorbilità ma non il diabete, sempre natural-
43
Ministero della Salute
mente che tutti gli approcci usuali abbiano ripetutamente fallito.
È quindi evidente, come connaturato nel concetto
stesso di Linea guida, che le attuali indicazioni e
limiti di BMI dovranno essere rivalutati inserendo
anche altri parametri antropometrici e marcatori
di rischio cardiovascolari.
Follow-up del paziente sottoposto
a chirurgia bariatrica
Il paziente va seguito con molta attenzione, perché
dalla precisione del metodo di implementazione
delle tecniche di intervento dipende il successo
terapeutico nel lungo termine. È fondamentale
sottolineare che il follow-up dura tutta la vita.
Dopo l’inizio del trattamento le visite di controllo
non possono essere eseguite con una frequenza
inferiore a un mese e almeno per i primi tre mesi;
successivamente gli intervalli dei controlli possono
essere portati a due mesi per altri sei mesi. Durante
il primo anno dall’intervento il paziente deve essere seguito sia dal chirurgo sia dall’endocrinologo/internista; in seguito, l’esigenza di affrontare
problematiche di tipo chirurgico diverrà sempre
più limitata.
La frequenza dei successivi controlli deve essere
stabilita sulla base delle risultanze cliniche ottenute. A ogni visita di controllo devono essere accuratamente indagate l’aderenza del paziente alle
indicazioni terapeutiche ricevute, la valutazione
soggettiva del benessere psicofisico raggiunto, la
ricerca e la valutazione degli ostacoli incontrati.
L’aiuto più rilevante che può essere dato al paziente
è la sicurezza che il medico non lo giudicherà, ma
cercherà di stabilire un’“alleanza terapeutica” attraverso un “empirismo collaborativo”. Dopo la
valutazione soggettiva si dovrà rilevare lo stato
biometrico attuale del paziente (peso, altezza, circonferenza vita e fianchi, esecuzione della bioim-
44
pedenziometria), allo scopo di valutare se le percezioni del vissuto di malattia del paziente corrispondono, o meno, a modificazioni biometriche
reali. In altre parole, anche se il paziente ha perso
peso, se non ha perso prevalentemente massa
grassa non è realmente dimagrito. Le eventuali
discrepanze vanno discusse e interpretate allo
scopo di riuscire a mettere in atto le strategie idonee per il singolo paziente a proseguire nel percorso terapeutico.
In accordo con le attuali Linee guida SICOB e le
attuali Linee guida americane e della Endocrine
Society, devono essere inviati a una valutazione
specialistica per chirurgia bariatrica i pazienti che
presentano i seguenti requisiti: BMI ≥ 40 kg/m2
o 35 < BMI < 40 kg/m2 con comorbilità associate
(patologie cardiorespiratorie, malattie articolari
gravi, gravi problemi psicologici, malattie del metabolismo).
I pazienti selezionati devono inoltre presentare
fallimento al trattamento medico multidisciplinare
dell’obesità, mancato o insufficiente calo ponderale, scarso o mancato mantenimento del risultato
raggiunto a lungo termine.
Non dovrebbero essere indirizzati alla valutazione
specialistica per chirurgia bariatrica i pazienti:
• che non presentano fallimento alla terapia medica dell’obesità;
• che hanno incapacità nel seguire i follow-up
periodici necessari;
• che risultano affetti da disturbi psicotici, depressione severa, alterazioni della personalità
e del comportamento alimentare;
• che risultano tossicodipendenti o affetti da alcolismo;
• che presentano una riduzione significativa
dell’aspettativa di vita.
Gli interventi di chirurgia bariatrica possono essere
distinti in interventi che presentano un’azione
meccanica (bendaggio gastrico, gastroplastica ver-
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
ticale, sleeve gastrectomy, bypass gastrico), interventi
con azione meccanica temporanea quale il palloncino intragastrico e interventi con azione malassorbitiva (diversione bileopancreatica, variante
duodenal switch). Il palloncino intragastrico può
essere utilizzato come test di tollerabilità per lo
schema alimentare a cui il paziente si dovrà attenere dopo un intervento di chirurgia bariatrica
maggiore, è maggiormente indicato nei pazienti
che presentano un significativo aumento del rischio operatorio e risulta gravato da una maggiore
probabilità di recupero ponderale rispetto agli
altri interventi maggiori.
Il paziente identificato come idoneo a sottoporsi
a chirurgia bariatrica non dovrebbe subire un
percorso di follow-up molto diverso dal punto
di vista strategico da quello degli altri pazienti.
Occorre spiegare preventivamente a questi pazienti che l’evento chirurgico non è altro che un
punto di partenza per un percorso virtuoso di
dimagrimento e che durante i mesi successivi
occorre impegnarsi per ottenere una reale perdita
consistente di massa grassa; pertanto, le procedure di follow-up, incluse le metodiche educative
al cambiamento dello stile di vita, devono essere
ugualmente eseguite. Oltre a questo, nei confronti dei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica devono essere eseguiti quei controlli regolari
specifici. In seguito a un corretto inquadramento
che deve portare alla scelta del tipo di intervento
a cui sottoporre il paziente, è necessario ricordare
che deve essere condotto un rigoroso e periodico
follow-up finalizzato a educare il paziente ad
adeguate regole alimentari, per limitare l’insorgenza di ulcere/erosioni gastroduodenali (anche
mediante adeguato trattamento farmacologico
con inibitori di pompa protonica), vomito o di
dumping syndrome in caso di chirurgia restrittiva,
e alla valutazione della comparsa di eventi avversi
legati, per esempio, al possibile sviluppo di deficit
4
vitaminici (che possono manifestarsi fino a un
anno dopo l’intervento). La riduzione degli
eventi avversi legati alla chirurgia per obesità
trova fondamento in un’adeguata selezione ed
educazione dei pazienti, ma anche in un’adeguata
terapia medica successiva all’intervento, anche
questa da eseguire in maniera coordinata tra le
due Strutture Operative: per esempio, il trattamento con inibitori di pompa protonica, la somministrazione di ferro e vitamina C alla dimissione o eventuali altre terapie di supplementazione che devono essere periodicamente valutate
(mediante dosaggio di calcemia, fosforemia, vitamina D, vitamina A, vitamina E, vitamina B12,
magnesio). Nel corso del follow-up il paziente
dovrà essere inoltre sottoposto a indagini strumentali quali la mineralometria ossea computerizzata (MOC) femorale e lombare per la valutazione del quadro densitometrico osseo e la
bioimpedenziometria corporea. La valutazione
della composizione corporea durante il periodo
di follow-up postintervento è indispensabile al
fine di prevenire una perdita prevalente di massa
magra che finisce per limitare l’efficacia dell’intervento chirurgico. Qualora il grado di massa
grassa perduto fosse insufficiente, il medico deve
attuare tutte quelle tecniche atte a implementare
l’esecuzione assidua di un’attività fisica consistente in un esercizio aerobico di bassa intensità
e di lunga durata da eseguirsi almeno 5 giorni a
settimana, meglio se tutti i giorni.
Occorre infine sottolineare come il follow-up del
paziente operato, nel lungo periodo, abbia un costo per il SSN di gran lunga inferiore rispetto alla
cura del paziente obeso non operato, in considerazione delle numerose complicanze croniche
dell’obesità (il costo del trattamento farmacologico
di un paziente obeso non operato pesa sul SSN
10 volte di più rispetto al costo del follow-up di
un paziente obeso operato).
45
Ministero della Salute
Attuali criticità nel trattamento e nel follow-up
post-chirurgico del paziente obeso
Criticità organizzative
Liste di attesa
In Italia, i pazienti obesi sono aumentati del 9%
negli ultimi 5 anni e proprio all’obesità sono attribuiti 52.000 decessi l’anno. Eppure, di oltre 5
milioni di italiani obesi solo lo 0,1% viene sottoposto a intervento chirurgico e nel Sud Italia, che
vede un tasso di obesità tra i più alti in Europa,
viene effettuato solo il 14% di tutti gli interventi
di chirurgia bariatrica.
Quali possono essere le cause di questo fenomeno?
• Una difficoltà di accesso alle strutture e una
difficoltà delle strutture stesse a sopportare il
carico notevole e crescente dei costi per gli interventi per obesità.
• La maggior parte dei centri per il trattamento
chirurgico dell’obesità non è in grado di rispondere, nelle condizioni attuali con un ulteriore
aumento, alle richieste di tutti i pazienti obesi.
• Le liste di attesa per intervento chirurgico di
pazienti “pronti per intervento”, che hanno
cioè già effettuato tutti gli studi preoperatori,
sono spesso lunghissime, addirittura quantificate in “anni”; bisogna inoltre considerare che
molti di questi pazienti sono diabetici, ipertesi,
affetti da apnee notturne e necessitano di terapia intensiva postoperatoria. Questo significa
un ulteriore allungamento dei tempi di attesa
in pazienti ad alto rischio.
Criticità mediche
Qualificazione e certificazione degli operatori
La chirurgia bariatrica è una branca molto specialistica della chirurgia, richiedendo notevole
esperienza non soltanto chirurgica e laparoscopica,
ma soprattutto nella scelta della strategia di trattamento e nel management delle complicanze.
46
Un team chirurgico dedicato consente sicuramente una gestione delle complicanze secondo le
Linee guida internazionali, evitando spesso inutili
atteggiamenti interventistici.
Indipendentemente dalla tipologia della complicanza, è necessario tenere presente tre peculiarità:
• le complicanze postoperatorie comuni nella chirurgia addominale nel paziente superobeso possono sfociare in drammi clinici imprevedibili;
• la capacità di “resistenza” di un paziente obeso
a un evento postoperatorio è sensibilmente più
bassa del paziente normopeso;
• le caratteristiche stesse del paziente spesso impediscono l’esecuzione di indagini diagnostiche
che nella pratica clinica costituiscono un punto
di riferimento (es. ecografia).
Anche il follow-up deve essere affidato a personale
medico specializzato. Spesso, infatti, sia il medico
di medicina generale sia il “chirurgo generale”
non bariatrico hanno scarsa dimestichezza con le
procedure e il management del paziente sottoposto
a chirurgia dell’obesità.
Attualmente in Italia, nonostante siano presenti
alcune scuole di formazione e aggiornamento,
non esistono certificazioni riconosciute per gli
operatori sanitari. Sarebbe auspicabile che chi ricopre o debba ricoprire un ruolo in centri per il
trattamento dell’obesità patologica sia fornito di
una certificazione attestante la sua preparazione e
competenza.
Scelta del trattamento
La criticità nel trattamento chirurgico del paziente
obeso è legata alla natura stessa della malattia da
curare: si tratta di una patologia non di organo
ma dell’organismo, cronica, evolutiva e recidivante, strettamente connessa e dipendente al vissuto del paziente sia per quanto riguarda le abitudini di vita e alimentari, sia per quanto riguarda
la sfera emozionale e psicologica.
Parte Prima – Appropriatezza strutturale e tecnologica
Non esiste l’intervento bariatrico “ideale” e che
vada bene per tutti i pazienti. Esistono, invece,
interventi diversi per meccanismo d’azione e tecnica chirurgica, che devono essere adattati di volta
in volta alle caratteristiche specifiche del paziente.
In generale, i parametri presi in considerazione
per la scelta sono il BMI, il sesso, le comorbidità
(soprattutto diabete) e il comportamento alimentare. In ogni caso, la decisione va effettuata in accordo con il paziente, che deve essere accuratamente informato dei rischi, delle possibilità di insuccesso, delle modificazioni delle sue abitudini
alimentari. Il colloquio con il paziente è fondamentale per fugare aspettative irreali e per chiarire
sempre che si tratta di interventi di chirurgia addominale maggiore, solo collateralmente a fine
estetico.
Indicazioni che tengano conto di affidabili indici
di comportamento, di precisi indici metabolici e
di adeguati e completi indici genetici sarebbero
assolutamente auspicabili e si spera ottenibili in
un prossimo futuro.
Visite preoperatorie e follow-up
Il follow-up a lungo termine è un elemento indispensabile per garantire il successo della terapia
chirurgica dell’obesità, sia per ottimizzarne i risultati, sia per prevenire le possibili complicanze. La
durata del follow-up sarà un tempo potenzialmente
illimitato, vista la cronicità della patologia di base.
Farsi carico del follow-up del paziente obeso è un
impegno notevole in termini sia di tempo sia di
spazi e di risorse. È sufficiente fare qualche calcolo:
ammettendo che in un centro si eseguano in un
anno 100 interventi e che ciascun paziente esegua
in media 3 visite di controllo/anno, dopo il primo
anno le visite annue di controllo saranno 300,
dopo 5 anni 1500, dopo 8 anni 2400.
A parte vanno considerate le visite preoperatorie,
per le quali le richieste aumentano in modo espo-
4
nenziale. Queste comprendono sia la visita preliminare per prescrivere la tipologia degli esami
diagnostici da eseguire, sia la rivalutazione preoperatoria successiva allo studio diagnostico. Al paziente candidato a trattamento chirurgico vengono
infatti richiesti esami diagnostici, ematochimici e
consulenze specialistiche per escludere patologie
endocrinologiche, psichiatriche o internistiche che
controindicano la chirurgia bariatrica. Spesso proprio questa fase risulta lunga e indaginosa [prenotazione e accesso a esami con lunga lista di attesa: polisonnografia, esofagogastroduodenoscopia
(EGDS), visita psichiatrica ecc.) tanto da scoraggiare il paziente e farlo desistere dal prosieguo del
suo percorso curativo. Forse una revisione degli
esami necessari e una razionalizzazione dello studio
preoperatorio potrebbero essere un modo per facilitare i pazienti e rendere più semplice il sistema
organizzativo.
Necessità di un intervento integrato
specialistico
Le caratteristiche di alta specializzazione della gestione medica e chirurgica di questi pazienti richiedono, tra l’altro, un inquadramento psicocomportamentale ai fini delle opportune decisioni
terapeutiche, nonché di specifiche competenze di
nursing riabilitativo. La terapia dell’obesità di alto
grado è sempre una terapia integrata e interdisciplinare, che necessita di un’elaborata fase diagnostica per la definizione dell’intervento da effettuare: medico; medico e psicocomportamentale;
medico, psicocomportamentale e chirurgico. La
stessa scelta del tipo di intervento chirurgico da
effettuare richiede una valutazione collegiale anche
per la definizione del successivo controllo medico-nutrizionale a lungo termine.
L’assistenza o nursing del paziente obeso, spesso
un vero e proprio invalido, richiede, infatti, una
particolare professionalità di tipo riabilitativo, se
47
Ministero della Salute
il paziente ha una vera e propria invalidità motoria, come, anche per esempio, per la gestione di
piaghe e ulcere cutanee, fino all’igiene personale.
Per queste necessità sarebbe utile anche l’apporto
di personale medico specializzato in vulnologia.
Ruolo del medico di medicina generale
A monte dell’intervento di ogni centro interdisciplinare per la gestione della terapia medica e
chirurgica della grande obesità, è da sottolineare
come il ruolo del medico di medicina generale
nel dare inizio e nel collaborare attivamente al
percorso diagnostico-terapeutico, a volte particolarmente complesso per questi pazienti, sia di primaria importanza. Inoltre, il centro interdisciplinare potrà fornire al medico di medicina generale
le indicazioni necessarie per migliorare l’assistenza
dei pazienti che siano già stati sottoposti a interventi di chirurgia bariatrica presso centri la cui
distanza rende poco probabile o impossibile un
corretto follow-up.
Criteri di valutazione del successo terapeutico
La valutazione del reale successo o meno di un
intervento di chirurgia bariatrica dovrebbe prendere in considerazione diversi parametri. Il successo non può basarsi, come è stato fatto per molti
anni, solo sul calo ponderale, ma deve tenere
conto anche di altri fattori: mortalità; complicanze
perioperatorie e a distanza; miglioramento delle
comorbilità; qualità di vita ed effetti collaterali;
stato nutrizionale; mantenimento del risultato.
La valutazione del risultato basata sull’entità del
calo ponderale in kg dovrebbe essere assolutamente
proscritta. Il criterio di valutazione di successo per
tale parametro deve adottare almeno il cosiddetto
Excess Weight Loss in percentuale (EW%L). Un
criterio di successo è considerato un EW%L almeno del 50%. Un criterio più severo di valuta-
48
zione è quello di Reinhold. Tale criterio, molto
diffuso anni fa, è allo stato attuale, purtroppo e
ingiustificatamente, poco impiegato. La valutazione di Reinhold, infatti, è l’unica che, anziché
tenere conto del punto di partenza, scarsamente
rilevante soprattutto per il paziente, tiene conto
del punto di arrivo, che dovrebbe appunto essere
la cosa più importante. Tale classificazione non si
basa sull’entità del sovrappeso perso e non tiene
conto del sovrappeso residuo del paziente, ma
esprime, viceversa, il successo o l’insuccesso in base
al risultato finale, proprio in relazione al sovrappeso
residuo. Le 5 categorie di risultato indicate sono
le seguenti: eccellente, se il sovrappeso residuo è
< 25%; buono, se il sovrappeso residuo è 26-50%;
modesto, se il sovrappeso residuo è 51-75%; scarso,
se il sovrappeso residuo è 76-100%; fallimento, se
il sovrappeso residuo è > 100%. La percentuale
dei vari pazienti in ciascuna classe esprime il vero
risultato in termini di calo ponderale. Pertanto, il
successo è basato sull’elevata percentuale di pazienti
appartenenti alle prime 2 classi, cioè con sovrappeso residuo, al follow-up, inferiore al 50% e,
quindi, esenti dai rischi di comorbilità legati all’obesità. Un sovrappeso inferiore al 50% corrisponde approssimativamente a un BMI < 35
kg/m2. Ultimamente, pertanto, si è anche adottato
il valore del BMI residuo quale criterio di valutazione del risultato, che dovrebbe essere, appunto,
< 35 kg/m2 per definire il successo di una procedura. Ancora più recentemente, infine, si sta affermando il criterio di valutazione basato sulla riduzione percentuale del BMI. Il miglioramento
delle comorbilità dovrebbe essere considerato uno
dei parametri più validi per determinare un criterio
di successo, dal momento che la chirurgia bariatrica
ha, tra i suoi scopi principali, proprio la riduzione
dei rischi di mortalità precoce e di morbilità dell’obeso grave e del superobeso.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
5. Appropriatezza operativa
Modelli assistenziali
In Italia, il concetto di “assistenza dedicata” al paziente con grande obesità presso centri specializzati
e organizzati in rete non è stato mai riportato a
livello di provvedimenti legislativi nazionali o regionali, ma solo come documento di indirizzo in
alcune Regioni per la definizione del percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti.
Il modello Hub & Spoke, promosso per la gestione di patologie ad andamento cronico di particolare impegno sanitario ed economico, prevede
la concentrazione dell’assistenza in relazione alla
diversa criticità del paziente in centri di eccellenza
(Hub) e l’invio dei pazienti ai centri periferici
(Spoke) in relazione alla prosecuzione/integrazione
del percorso terapeutico/riabilitativo. La rete che
viene a crearsi in tal modo ha l’obiettivo di assicurare una coordinata azione d’intervento, garantendo al paziente un’assistenza ottimale nella struttura più adeguata in termini di appropriatezza
clinica e organizzativa. L’accesso a uno qualsiasi
dei nodi della rete dovrebbe poter avvenire attraverso i medici di medicina generale (MMG) o i
centri specialistici pubblici o privati accreditati
(ambulatori, day-hospital, day-service, ricoveri ordinari) che si trovino ad assistere pazienti obesi.
Trattandosi di una patologia ad andamento cro-
nico, tale rete assistenziale dovrebbe prendere in
carico il paziente e seguirlo nel tempo, inserendolo, sempre nell’ambito di un programma di
follow-up condiviso, in percorsi a vario grado di
intensità diagnostico-terapeutica.
Centro Hub – Centro Ospedaliero
di Alta Specializzazione
L’Hub si propone di coordinare gli aspetti fisiopatologici, clinici ed epidemiologici nel campo del
trattamento dell’obesità, creando un database/registro regionale/nazionale della grande obesità.
L’identificazione di tali centri Hub intende fornire
una risposta appropriata e complessiva coordinando
l’attività di tutte le strutture convergenti, in percorsi
diagnostico-terapeutici concordati e riferibili alle
correnti Linee guida nazionali e internazionali per
la gestione del paziente affetto da obesità.
Tali centri Hub saranno composti da Unità Operative aventi figure professionali mediche e infermieristiche con specifiche competenze ed esperienze nell’ambito dei diversi aspetti clinici dell’obesità e delle comorbilità a essa collegate, con
un ruolo di eccellenza nel campo internistico (in
particolare nel campo del metabolismo, dell’endocrinologia, della nutrizione clinica) e della chirurgia bariatrica.
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Ministero della Salute
Per garantire un adeguato livello di assistenza e
giustificare l’uso H24 delle risorse l’Hub deve fornire presumibilmente almeno 600 nuovi casi/anno,
150 interventi di chirurgia bariatrica, 3000 prestazioni ambulatoriali/anno.
L’Hub dovrà inoltre garantire programmi di istruzione e di formazione di alta specialità per gli
operatori sanitari delle strutture ospedaliere della
rete sede di Spoke, allo scopo di contribuire allo
sviluppo delle conoscenze avanzate, in conformità
agli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale e delle
Società scientifiche del settore. Sostenendo e completando l’azione formativa istituzionale, tali centri
si prefiggono di aumentare gli standard qualitativi
di conoscenza e competenza nei settori della medicina interna, dell’endocrinologia, delle malattie
metaboliche, della nutrizione clinica, della chirurgia generale e bariatrica e della gestione sanitaria dell’obesità.
L’Hub dovrà anche garantire la raccolta e la rielaborazione dei dati clinici, di esito/outcome provenienti dalle strutture ospedaliere sede di Spoke,
promuovendo un continuo aggiornamento epidemiologico della patologia obesità (registro).
attivare un’unità nell’area funzionale di chirurgia
bariatrica.
I requisiti comuni ai due livelli di assistenza (Hub
e Spoke) sono:
• presenza di un team multidisclipinare per la
gestione del paziente composto da medici e
infermieri esperti nella gestione del paziente
obeso;
• raccolta sistematica delle informazioni cliniche
mediante cartella clinica informatizzata, al fine
dicondividere il processo assistenziale del paziente e per la valutazione di qualità delle cure
erogate;
• attivazione di collegamenti telematici per consentire attività di teleconsulto a distanza tra i
reparti interessati;
• attivazione del processo riabilitativo in team
(attivazione della riabilitazione precoce);
• incontri multidisciplinari settimanali;
• stretta collaborazione tra assistenza infermieristica e altre forme di assistenza multidisciplinare.
Centro Spoke
Il paziente obeso è visto troppo spesso dalla classe
medica come un problema da reindirizzare il
prima possibile verso uno specialista, spesso il dietologo, che possa alleviare non tanto le pene del
paziente quanto quelle del medico (MMG o altro
specialista) al quale il paziente si è rivolto in prima
istanza. D’altro canto, realisticamente non si può
pretendere che il MMG possa prendersi in carico
un paziente che, come si è detto ampiamente, necessita di un approccio multidisciplinare. Questo
atteggiamento si associa a un senso di impotenza
per una condizione considerata non aggredibile
in modo appropriato. La chirurgia bariatrica viene
considerata un’estrema ratio da utilizzare solo in
casi di obesità estrema.
È un centro deputato alla gestione di:
• pazienti con obesità di vario grado che non
presentano condizioni di criticità;
• attuazione dei provvedimenti terapeutici (riabilitativi motori/nutrizionali) più adeguati per
la gestione del paziente in una fase subacuta;
• trasferimento al livello superiore di cure dei
pazienti che dovessero presentare condizioni
cliniche di criticità mediante accordi condivisi
con il centro Hub.
A seconda delle necessità territoriali e quindi del
numero di interventi di chirurgia bariatrica da
dover eseguire, anche il centro Spoke potrebbe
50
La formazione
Parte Prima – Appropriatezza operativa
È indispensabile che i MMG siano correttamente
informati di tutti gli aspetti diagnostico-terapeutici
che ruotano intorno all’obesità, ma anche, allo
stesso tempo, che essi possano contare su centri
di elevata specializzazione ai quali fare riferimento.
D’altro canto, anche la formazione del chirurgo
che intende indirizzarsi alla cura dell’obesità dovrà
includere non solo un aggiornamento costante
delle tecniche e degli strumenti chirurgici, ma anche dare un più ampio respiro alla cultura della
cronicità, che comporta l’inserimento della propria
attività in una catena di interventi medici che accompagneranno il paziente per tutta la vita.
Si auspica, quindi, che vengano organizzati corsi
ECM professionalizzanti nel settore obesità, mediante piattaforme di formazione a distanza
(FAD), o corsi residenziali, indirizzati ai MMG,
ai chirurghi (in particolare per questi ultimi utilizzando sessioni che prevedano l’esecuzione diretta da parte di tutti i partecipanti di attività pratiche o tecniche in sala operatoria) e ad altri specialisti (internisti, endocrinologi, nutrizionisti,
psichiatri ecc.).
La prevenzione
La formazione scolastica nell’età evolutiva
La realtà sociale e culturale della popolazione italiana è estremamente eterogenea e a questo contribuiscono, da un lato, le tradizioni regionali e le
realtà sociali, mentre dall’altro vi sono messaggi
di tipo più uniforme che provengono dalla pubblicità delle aziende del settore agroalimentare e
dai media. Pertanto, i nostri figli si trovano a
dover gestire contemporaneamente diversi tipi di
messaggi, speso in contraddizione fra sé, mentre
la forza unificante della famiglia viene in qualche
modo a risultare indebolita, nella misura in cui i
genitori, che spesso trascorrono molto tempo fuori
5
casa per lavoro, hanno minore capacità di ascolto
nei confronti delle istanze dei figli.
Un ulteriore problema risiede nella frammentazione dei nuclei familiari, con una conseguente
minore capacità di intervento da parte di figure
ancillari quali i nonni o gli zii. Un’ultima considerazione va anche fatta a proposito della realtà
multietnica della nostra popolazione, che contribuisce a rendere ancora più disomogeneo il background delle tradizioni familiari.
Date queste premesse, si può immaginare uno
scenario nel quale la scuola rivesta veramente un
importante ruolo unificante e quindi è caricata
dell’onere di dare messaggi tecnicamente corretti,
utilizzando anche strumenti didattici innovativi,
che riescano a colpire la fantasia e la capacità di
imitazione degli allievi. È altrettanto evidente che
la scuola non possa compiere operazioni culturali
in ambito preventivo senza che gli insegnanti non
vengano adeguatamente preparati e le famiglie
non vengano informate del tenore dei messaggi
trasmessi ai loro figli. Tutto questo è possibile solo
se tecnici del settore, quali agronomi, medici specialisti, dietisti e laureati in scienze motorie saranno coinvolti nel disegno del progetto e nella
verifica degli obiettivi raggiunti.
Per quanto concerne l’età dei discenti da coinvolgere nei singoli progetti, occorre subito precisare
che vi è una notevole differenza sui tipi di messaggi
da trasmettere agli alunni delle elementari rispetto
a quelli delle medie inferiori. Gli alunni delle scuole
medie inferiori sono nella fascia di età peripuberale
e sono, perciò, molto sensibili a temi di dieta e
magrezza, soprattutto se femmine. Se coesistono
disturbi dell’immagine corporea, anche minori, il
parlare di alimentazione potrebbe favorire la comparsa di un disturbo del comportamento alimentare; in poche parole, se si interviene troppo tardi
si rischia di fare più male che bene. Gli alunni
delle elementari sono quindi il terreno più fertile
51
Ministero della Salute
dove fare arrivare i nostri messaggi di prevenzione,
in quanto sono più facilitati nel ricevere messaggi
educativi senza incorrere in fraintesi.
Il metodo che si è rivelato più efficace nel trasmettere i concetti relativi a una corretta alimentazione
si basa sulla spiegazione delle differenti classi di alimenti e del loro ruolo fondamentale nel periodo
dell’accrescimento e nel mantenere un buono stato
di salute anche nell’età adulta. Le lezioni teoriche
in quella fascia di età lasciano un segno non duraturo, ma se vengono integrate con attività pratiche,
che hanno anche una valenza ludica, si può catturare più facilmente l’attenzione degli alunni. Gli
alimenti vegetali sono in genere poco appetibili per
i bambini, ma se si faranno degli orti “sperimentali”
in piccole porzioni dei giardini delle scuole, si potrà
coinvolgere gli alunni nei processi di produzione
degli alimenti, con tutte le difficoltà che questo
comporta. La partecipazione attiva degli alunni a
questo gioco di vita lascerà impresso nella loro memoria un patrimonio culturale ancestrale che sembra destinato all’estinzione.
Questa attività dovrà essere associata a un’adeguata
cultura nella refezione scolastica, così che i pasti
distribuiti seguano rigorosamente i criteri della
costruzione di una dieta mediterranea basata su
abbondante frutta e verdura, carboidrati complessi
con moderazione, pochissimi dolci, predilezione
per pesce e carni bianche, condimento con olio
di oliva crudo. Agli alunni dovranno essere concesse minime facoltà di scelta, a meno di particolari esigenze alimentari per patologia, e non dovranno mai essere offerti in alternativa cibi ricchi
di acidi grassi saturi o trans.
Un programma di educazione di questo tipo dovrà
essere verificato con rigorosi criteri che determinino quanto sia efficace il sistema operativo nel
modificare le scelte alimentari degli allievi delle
scuole elementari.
L’educazione a un procedimento educativo globale
52
per condurre un corretto stile di vita dovrà ovviamente tenere conto che una corretta educazione
alimentare non dovrà mai essere disgiunta da una
costante raccomandazione a condurre una costante
attività fisica e questo verrà trattato in dettaglio
nei paragrafi seguenti.
Attività fisica
La restrizione calorica induce una riduzione del dispendio energetico. Quando la quantità complessiva di cibo assunta si riduce, si verifica una diminuzione della termogenesi indotta dal cibo; inoltre,
si osserva una riduzione del dispendio energetico
basale, che si protrae per molte settimane dopo la
cessazione della restrizione. Il meccanismo attraverso il quale si realizza questo fenomeno è complesso e sono coinvolti vari sistemi endocrini e metabolici. Innanzitutto, la deprivazione calorica protratta provoca una riduzione della secrezione di ormoni, come la leptina e gli ormoni tiroidei, che
stimolano (direttamente o tramite l’attivazione simpatoadrenergica) la termogenesi a livello del tessuto
muscolare e adiposo. Inoltre, la perdita di peso
conseguente alla restrizione alimentare si accompagna inevitabilmente alla riduzione della massa
magra che, come visto in precedenza, è uno dei
principali determinanti del dispendio energetico a
riposo. Non sono stati valutati, sino a oggi, gli
effetti della restrizione calorica protratta sul dispendio energetico indotto dall’esercizio fisico. La diminuzione del consumo di energia a riposo e della
termogenesi indotta dal cibo è uno dei motivi alla
base del fallimento terapeutico della prescrizione
dietetica nel trattamento dell’obesità. Proprio per
tale motivo, i pazienti obesi che si sottopongono a
ripetute diete ipocaloriche mostrano spesso una riduzione cospicua del dispendio energetico, che
ostacola i successivi tentativi di perdere peso.
Al contrario, l’esercizio fisico induce un aumento,
Parte Prima – Appropriatezza operativa
anche rilevante, del dispendio energetico complessivo. È ovvio che l’incremento dell’attività fisica si
accompagna a un aumento del dispendio energetico
indotto dall’esercizio, soprattutto nel caso che si
scelgano attività aerobiche di bassa intensità e lunga
durata. Allo stesso tempo, l’attività fisica regolare
induce anche un incremento del dispendio energetico a riposo, la cui entità è discussa. Si può osservare che l’esercizio fisico regolare provoca una
modificazione della composizione corporea, con
aumento della massa muscolare e quindi della massa
magra, metabolicamente attiva, che si associa a un
incremento del dispendio energetico a riposo.
Dei due maggiori approcci al trattamento dell’obesità, restrizione calorica ed esercizio fisico, il primo
induce una riduzione del dispendio energetico che
tende a limitare la perdita di peso, mentre il secondo
provoca un incremento del consumo di energia,
che favorisce il mantenimento dei risultati terapeutici a lungo termine. In generale, soltanto approcci terapeutici integrati, che prevedano allo
stesso tempo una riduzione dell’introito calorico e
un aumento del dispendio di energia, sono efficaci
per la perdita di peso; le attuali conoscenze fisiopatologiche suggeriscono, però, che soltanto l’esercizio
fisico regolare garantisce la possibilità di mantenere
i risultati raggiunti a lungo termine.
Dieta
Con il termine “dieta” si può intendere sia uno
stile di vita sia un regime alimentare. Il primo è
un modo di vivere, risentendo del proprio bagaglio
culturale, delle proprie tradizioni e delle abitudini
e può essere modificato nel corso della vita, mentre
l’altro è un modo di alimentarsi scelto dalla persona o imposto da altri, e che viene effettuato per
un periodo di tempo limitato.
I gusti alimentari rappresentano un effetto del contesto socioculturale di appartenenza, per cui gusto
5
e disgusto non dipendono dalla natura, ma sono
spesso determinati dalla cultura e quindi dalle abitudini. Come ha sostenuto Fishler “La variabilità
delle scelte alimentari umane procede forse in gran
parte dalla variabilità dei sistemi culturali: se non
mangiamo tutto quello che è biologicamente commestibile, è perché non tutto ciò che si può biologicamente mangiare è culturalmente commestibile”.
Sempre secondo Fishler, “ogni cultura possiede una
cucina specifica che implica delle classificazioni,
delle tassonomie particolari e un complesso di regole fondato non solo sulla preparazione e sulla
combinazione degli alimenti, ma anche sulla loro
raccolta e sul loro consumo. Possiede anche dei significati, che sono strettamente dipendenti dal
modo in cui le regole culinarie vengono applicate:
come gli errori di grammatica possono danneggiare
o annullare il significato di una frase, gli errori di
‘grammatica culinaria’ possono determinare degli
effetti negativi sulla salute di chi mangia”.
La maggior parte degli studi scientifici effettuati
nell’ambito dell’alimentazione e della nutrizione
ha cercato di individuare un regime alimentare
in grado di ottimizzare lo stato nutrizionale dell’uomo per un’aspettativa di vita maggiore, insieme a una migliore qualità della vita. Secondo
il rapporto del 2002 dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS), esistono alcuni fattori di rischio in grado di influenzare concretamente e in
modo negativo la durata della vita di un uomo.
Alcuni di questi fattori di rischio derivano da
comportamenti del soggetto (vedi l’abitudine tabagica), altri (come ipertensione e ipercolesterolemia) possono avere una componente genetica.
Da queste considerazioni si può dedurre che ha
un corretto stile di vita chi:
• non fuma;
• non beve abitualmente alcolici;
• non fa uso di droghe e/o di sostanze stupefacenti;
53
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• non è in sovrappeso;
• non fa una vita sedentaria;
• segue un’alimentazione varia ed equilibrata.
Non vi è dubbio, allora, che non è solamente una
particolare dieta che riduce i fattori di rischio nel
lungo termine, quanto appunto uno stile di vita,
un comportamento adeguato alla condizione del
soggetto.
Allo stato attuale è scientificamente provato, anche
in studi clinici a lungo termine, il ruolo fondamentale della dieta mediterranea sulla durata e
sulla qualità della vita, nonostante la variabilità
delle abitudini alimentari dei vari Paesi. Lo stile
alimentare mediterraneo, infatti, non è un “atto”
dietetico, ma un insieme di fattori o di circostanze
che in un certo senso vincolano la popolazione ad
avere un particolare tipo di alimentazione per tutta
la vita: fra questi, primi fra tutti sono la tradizione
agricola del Paese, il clima e l’economia.
Il concetto di dieta mediterranea risale agli anni
Sessanta, quando Ancel Keys, della School of Public
Health presso l’Università del Minnesota, analizzò
per primo il ruolo dell’alimentazione nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. Già nel
1952, Ancel Keys aveva intuito la relazione esistente fra la dieta e i valori di colesterolo nel sangue. Analizzando gli abitanti di due quartieri di
Madrid agli inizi degli anni Cinquanta, si rese
conto che gli abitanti del quartiere a basso tenore
economico non bevevano quasi mai latte, non
consumavano quasi mai né carne o burro e avevano bassi valori di colesterolo, con un’incidenza
molto bassa di cardiopatie coronariche; gli abitanti
dell’altro quartiere, invece, con una dieta più ricca
di grassi saturi, avevano valori di colesterolo molto
più elevati, e tra essi i casi di infarto del miocardio
erano molto più frequenti.
Nel corso degli anni sono state elaborate numerose
raccomandazioni nutrizionali caratterizzate da una
presentazione grafica della distribuzione dei cibi
54
sotto forma di “piramidi alimentari”. L’aforisma
tedesco “Der Mensch ist, was er isst” (l’uomo è
ciò che mangia) sottolinea l’importanza del cibo
nella costruzione dell’identità individuale e collettiva, e non certo solo a causa del legame intimo
con il sacro e la religione. Questo problema ha
portato a cercare di identificare degli strumenti
più idonei alle singole popolazioni. Anche il nostro
gruppo ha realizzato uno schema di piramide della
dieta mediterranea toscana che più si avvicina alle
tradizioni alimentari della popolazione italiana.
Se fino ad allora l’epidemiologia nutrizionale ha
contato principalmente sugli studi circa il rapporto
fra parametri biochimici di rischio di malattia e un
singolo o pochi nutrienti, oggi si è passati allo
studio del profilo dietetico, cioè della condotta alimentare, ovvero allo studio dell’aderenza alla dieta
mediterranea in relazione alle malattie cardiovascolari (e neoplastiche), in termini di incidenza, di
progressione della malattia e di mortalità.
Recentemente, Sofi et al. hanno effettuato per la
prima volta una metanalisi prendendo in considerazione oltre 60 studi prospettici che hanno valutato
l’aderenza alla dieta mediterranea attraverso un
punteggio numerico e lo stato di salute. I risultati
di questo studio dimostrano che l’adeguamento
della propria alimentazione a una dieta mediterranea comporta una riduzione della mortalità totale
(–9%), della mortalità cardiovascolare (–9%), dell’incidenza e mortalità per cancro (–6%), dell’incidenza del morbo di Parkinson (–13%) e dell’incidenza della malattia di Alzheimer (–13%). Vista
l’elevata incidenza di queste malattie, così come il
sovrappeso, l’obesità e il diabete di tipo 2, derivati
principalmente dal fatto che i consumi alimentari
si stanno allontanando da tale modello, vi è da
parte dei principali enti scientifici una forte promozione verso questo modello alimentare.
La raccomandazione di utilizzare una distribuzione calorica in macronutrienti di circa il 55%
Parte Prima – Appropriatezza operativa
5
di carboidrati, 15% di proteine e 30% di grassi,
caratteristica dello stile alimentare mediterraneo,
è ampiamente riconosciuta e basata su approfondite ricerche scientifiche effettuate per più di 30
anni. Bisogna altresì ricordare che una semplice
modificazione qualitativa dell’alimentazione non
è un intervento sufficiente a ottenere la perdita
del peso; è infatti indispensabile mettere in atto
uno squilibrio nel bilancio energetico di circa
250-300 kcal al giorno e questo deve essere effettuato in parte aumentando il dispendio energetico,
attraverso l’incremento dell’attività fisica, e in
parte riducendo l’introito calorico tramite la restrizione alimentare. Per quanto riguarda le diete
ipocaloriche designate per la perdita di peso, Stunkard nel 1959 affermava “Tra tutti gli obesi, la
maggior parte non inizierà neppure un trattamento; tra quelli che ne incominceranno uno, la
maggior parte non lo porterà a termine; tra quelli
che lo termineranno, la maggior parte non perderà
peso; tra quelli che ne perderanno, la maggior
parte lo recupererà rapidamente”.
Questo può essere dovuto al fatto che molti tipi
di diete non sono sostenibili a lungo termine,
pertanto cadono gli eventuali effetti benefici nel
tempo. La dieta mediterranea, al contrario, è
molto più vicina a uno stile di vita più facilmente
seguibile nel lungo termine.
di specialisti. Ricadono, invece, nelle competenze
specifiche della medicina generale i pazienti in sovrappeso (se non gravemente complicati).
In linea generale, la medicina generale deve modificare gli “atteggiamenti di consuetudine” basati
sulle solite raccomandazioni (“mangia meno…,
muoviti di più, …migliora il tuo stile di vita…”)
e privilegiarne di nuovi quali il suggerimento di
una corretta metodologia di approccio, la motivazione del paziente con il quale condividere gli
obiettivi di cura, il mantenimento dei risultati ottenuti. Tutto ciò passa naturalmente attraverso la
necessità di fornire al MMG una preparazione
specifica, anche per favorire il dialogo con lo specialista di riferimento.
A tutto ciò si devono associare una razionale azione
di inquadramento dell’obesità, una giusta valutazione dei fattori di rischio e un’analisi degli errori
alimentari. Altri possibili obiettivi perseguibili in
medicina generale nella gestione dei pazienti con
problemi di eccesso ponderale sono elencati nella
Tabella 5.1.
È onesto, tuttavia, sottolineare che i risultati possono essere soddisfacenti a livello individuale, ma
deludenti a livello di popolazione, poiché l’obesità
La medicina generale
• Migliorare la consapevolezza del problema e la motivazione
delle cure
• Ridurre in modo “minimo” ma accettabile il peso corporeo e
stabilizzarlo
• Ridurre e trattare i fattori di rischio cardiovascolare di morbilità
e di mortalità
• Affrontare e discutere con il paziente il disturbo dell’immagine
corporea
• Migliorare la capacità motoria e lavorativa
• Affrontare e discutere con il paziente degli “ego deficit” (autostima, paura del giudizio altrui, senso d’inefficacia, fobia sociale)
• Migliorare il tono dell’umore, l’equilibrio emotivo e le capacità
relazionali
È innanzitutto fondamentale da parte del MMG
l’attenzione al problema obesità, vista come
l’espressione di una patologia autonoma. È ovvio,
inoltre, che l’attenzione del MMG deve essere rivolta in prima istanza alla prevenzione primaria
dell’obesità (nei soggetti normopeso), mentre è
opinione condivisa che i soggetti obesi (in particolare quelli con obesità severa e/o morbigena)
devono essere cogestiti con equipe multidisciplinari
Tabella 5.1 Possibili obiettivi clinici, psicologici e sociali nella cura dell’obesità in medicina generale
55
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è soprattutto un problema di sanità pubblica, che
implica una politica sanitaria disponibile a sviluppare programmi di prevenzione dell’obesità,
mediante alcune modifiche radicali dell’ambiente.
Infine, bisogna considerare che è elevatissimo il
numero di soggetti in sovrappeso in carico mediamente a ciascun MMG (anche 300-400 soggetti) e che, pertanto, l’intervento può essere sistematico e capillare, ma non intensivo o tale da
impegnare tempi non compatibili con la restante
attività assistenziale della medicina generale.
Le azioni concrete che il MMG può attuare nella
gestione dei pazienti obesi/sovrappeso, ai fini dell’appropriatezza, sono le seguenti.
• Pesare gli altri fattori di rischio cardiovascolare e
valutare la presenza di diabete mellito di tipo 2.
È necessario richiedere almeno la glicemia basale, l’assetto lipidico completo, la creatinina,
gli elettroliti, le urine e l’uricemia. L’iperglicemia
> 100 mg/dl, ma < 126 mg/dl, richiede l’esecuzione di una curva di carico orale con 75 g di
glucosio con valutazione alla 2a ora (oral glucose
tolerance test, OGTT), per verificare la presenza
di diabete mellito di tipo 2, di un’intolleranza
glucidica (impaired glucose tolerance, IGT) o di
un’alterata glicemia a digiuno (impaired fasting
glycaemia, IFG). Infatti, l’eventuale presenza di
una qualsiasi di queste condizioni aggraverebbe
ulteriormente il rischio cardiovascolare del paziente e richiederebbe adeguati interventi farmacologici (statine, antiaggreganti), oltre alle
necessarie modificazioni dello stile di vita. È
superfluo ricordare che la perdita di peso incide
favorevolmente su tutti i fattori di rischio cardiovascolare. Eventuali esami ormonali si devono richiedere per indagare su cause secondarie
dell’obesità in caso di sospetto clinico o di obesità refrattaria a ogni tipo di trattamento.
• Ricercare i sintomi/segni di insufficienza respiratoria in caso di obesità severa. Quest’ultima,
56
infatti, provoca una diminuzione del volume
di riserva espiratoria che peggiora consensualmente all’accrescersi del peso corporeo, specie
in posizione supina, quando il grasso addominale ostacola l’espansione polmonare. In questi
casi è indicata l’esecuzione di: ECG, radiografia
del torace, ecocardiogramma, spirometria ed
eventualmente emogasanalisi, poiché l’obesità
grave comporta anche un’alterazione del rapporto ventilazione/perfusione responsabile di
ipossiemia. L’obesità di grado moderato o
grave, inoltre, può causare frequentemente
un’ostruzione delle vie aeree superiori durante
il sonno (obstructive sleep apnea), che è un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare. È necessario chiedere ai familiari se il paziente russa
durante il sonno e/o ha episodi di apnea e proporre, nel caso, l’esecuzione di una polisonnografia (eseguibile, su richiesta specialistica,
con una sola notte di ricovero).
• Discutere con il paziente le motivazioni a intraprendere un trattamento per perdere peso (determinazione, false credenze, storia di precedenti
tentativi, supporto negativo o positivo di altri
familiari, disponibilità a modifiche di comportamenti errati, considerazioni economiche). Il
paziente deve essere edotto dei rischi, soprattutto cardiovascolari, e degli eventuali rischi (o
danni) a livello respiratorio.
• Inviare allo specialista i soggetti con obesità. Specie
se BMI > 35 kg/m2 e/o obesità morbigena e/o
con complicanze cardiovascolari/respiratorie
e/o con gravi turbe del comportamento alimentare e/o con storia di precedenti e ripetuti
episodi fallimentari di terapia dietetica (sindrome dello yo-yo o sindrome ciclica del peso).
Gli specialisti coinvolgibili, a seconda della necessità del paziente, possono essere: il dietologo/dietista, l’endocrinologo/diabetologo (se
presenza di diabete mellito), il chirurgo (se ne-
Parte Prima – Appropriatezza operativa
cessità di interventi), lo psichiatra/psicologo (se
disturbi gravi del comportamento alimentare).
Interventi multidisciplinari sono necessari in
caso di pazienti particolarmente complessi o
di gravi patologie coesistenti (ortopedico, pneumologo, otorinolaringoiatra, dermatologo ecc.).
• Sostenere e rinforzare l’eventuale trattamento. Pur
non essendo la terapia nutrizionale un compito
specifico del MMG, è importante discutere e ricordare al paziente gli obiettivi terapeutici concordati (eventualmente coinvolgendo anche i
suoi familiari). Il MMG deve sapere che un primo
obiettivo ragionevole è una diminuzione del 10%
rispetto al peso iniziale e che, al contrario, perdite
troppo rapide del peso non sono in genere durature. La restrizione calorica deve essere contenuta
entro le 500-600 kcal/die; riduzioni maggiori
(800-1000 kcal/die), se protratte, possono provocare squilibri metabolici e nutrizionali. L’aumento dell’attività fisica è parte integrante del
programma terapeutico e più importante delle
stesse restrizioni dietetiche. Il ricorso alla terapia
farmacologica deve essere integrato all’interno di
programmi multidisciplinari che prevedano, oltre
alla dieta, la terapia comportamentale e un’attività
fisica regolare. I farmaci antiobesità dovrebbero
essere utilizzati per il controllo a lungo termine
del peso, piuttosto che per una sua drastica diminuzione o per meri fini “estetici” e comunque
vanno riservati all’obesità severa e/o morbigena.
Se il paziente raggiunge l’obiettivo minimo, il
passo successivo è mantenere il peso perduto,
cosa che purtroppo è molto difficile e indipendente dal tipo di terapia attuata.
• Sconsigliare con convinzione le diete e le terapie
“fai da te”. Sconsigliare soprattutto le diete sbilanciate e/o drastiche e l’impiego di prodotti
galenici contenenti una o più delle seguenti sostanze: amfepramone, fendimetrazina, fentermina, benzfetamina, fenfluramina o benfluorex
5
sia pur in associazione con altri principi farmacologicamente attivi, ivi compresi gli ormoni
tiroidei.
• Effettuare il follow-up dei pazienti obesi/in sovrappeso (in trattamento o meno). Ciò comporta
ogni 6-12 mesi e/o in modo opportunistico: la
misurazione del BMI e della circonferenza addominale, la valutazione della glicemia a digiuno
ed eventualmente di un’OGTT annuale per cogliere l’eventuale viraggio verso un diabete di
tipo 2, la misurazione della pressione arteriosa
e del rischio cardiovascolare con la carta del
Progetto Cuore-ISS, nonché il rinforzo dei messaggi sullo stile di vita. Per una gestione razionale
del cibo è importante preferire e insegnare la
misura dei volumi (dietetica per volumi) rispetto
alla pesatura in grammi e decilitri, perché essa
migliora la capacità di autogestione da parte del
paziente. Per l’attuazione di queste semplici operazioni è necessaria un’organizzazione-strumentazione minima: metro a nastro, bilancia e statimetro, cartella clinica elettronica.
I servizi specialistici:
territoriali e ospedalieri
Le Unità Operative ospedaliere
La rete regionale per la prevenzione, la diagnosi e la
terapia dell’obesità si articola attraverso i diversi
livelli di intervento: ambito territoriale e ospedaliero.
Nell’ambito territoriale si possono individuare: i
MMG, i pediatri di famiglia e i centri ambulatoriali
di riferimento. Nell’ambito ospedaliero esistono varie possibilità: ricovero in regime di day-hospital o
di ricovero ordinario; disponibilità di molteplici
strumenti terapeutici inclusa la chirurgia bariatrica;
accesso facilitato ai centri di elevata specializzazione
per il trattamento delle gravi obesità; possibilità di
accesso alle strutture di riabilitazione dell’obesità.
57
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Il ricovero in day-hospital o in regime ordinario
si rende necessario quando l’obesità è di grado
elevato e sono presenti complicanze metaboliche,
cardiovascolari, respiratorie e gastroenterologiche
che richiedano indagini approfondite e difficilmente eseguibili in regime ambulatoriale. A tale
proposito è necessario sottolineare che il paziente
obeso ha spesso difficoltà di deambulazione e richiede apparecchiature diagnostiche particolari,
adatte alle sue dimensioni. Le indicazioni per il
ricovero sono date dalla necessità di valutare la
presenza di endocrinopatie, sindrome metabolica,
disfunzioni respiratorie e cardiocircolatorie o altre
patologie che richiedano interventi specifici oltre
a quelli rivolti a ottenere un calo ponderale. Ogni
ospedale di zona dovrebbe attivare un’equipe multidisciplinare con competenze specifiche, attingendo alle risorse professionali esistenti e, ove necessario, adeguandole alla richiesta, delegando a
tal fine un coordinatore. L’attività diagnostica prevede una valutazione interdisciplinare comprensiva
di visita medica, valutazione psicologica e valutazione dietetica, indagini ematochimiche e strumentali, consulenze specialistiche secondo necessità. Deve essere rivolta a riconoscere i casi di obesità secondaria a cause specifiche e a valutare la
presenza e la gravità delle patologie associate.
In caso di diagnosi di malattie particolari responsabili dell’incremento ponderale viene impostata
una terapia volta alla correzione della patologia
specifica. L’attuazione della terapia può essere delegata alle strutture territoriali di competenza o,
in casi complessi, si può fare riferimento ai centri
di elevata specializzazione. Le strutture ospedaliere
hanno facilità di accesso alle strutture dedicate
alla riabilitazione dell’obeso. Tali centri ospedalieri
sono in collegamento con i centri di elevata specializzazione per l’invio dei pazienti affetti da superobesità. I centri di elevata specializzazione costituiscono un punto di aggregazione e di riferi-
58
mento per i centri di chirurgia bariatrica esistenti
nella propria area.
I centri di riferimento
I modelli assistenziali proposti evidenziano l’utilità
dell’istituzione di centri altamente specializzati e
integrati per fare fronte alla gravità e vastità epidemica del fenomeno obesità. Tali centri saranno
composti da Unità Operative aventi figure professionali mediche e infermieristiche con specifiche
competenze ed esperienze nell’ambito dei diversi
aspetti clinici dell’obesità e delle comorbilità a
essa collegate, con un ruolo di eccellenza nel
campo internistico (in particolare nel campo del
metabolismo, dell’endocrinologia, della nutrizione
clinica) e della chirurgia bariatrica.
Essi prevedono la centralità del paziente obeso
per avere ricadute socioeconomiche che riducano
i “volani” di spesa rappresentati dalle gravi complicanze di tale patologia.
Secondo tali modelli:
• i centri di elevata specializzazione devono agire
in stretta collaborazione con le altre strutture
sanitarie operanti sul territorio, con i MMG, i
pediatri di famiglia e con i centri ospedalieri
situati sul territorio che richiedano consulenza.
Il team interdisciplinare deve essere costituito
da personale che garantisca la continuità delle
molteplici attività del centro;
• le figure professionali che fanno parte del team
sono: medico internista/endocrinologo/diabetologo/nutrizionista, psicologo/psicoterapeuta,
dietista, psichiatra. Il personale deve possedere
competenze professionali specifiche e capacità
di lavoro interdisciplinare di gruppo;
• il centro deve potersi avvalere di consulenti in
ambito cardiologico, pneumologico, radiologico, neurologico, ortopedico, anestesiologico,
chirurgico generale e chirurgico plastico, che
Parte Prima – Appropriatezza operativa
possiedano competenze specifiche nel campo
dell’obesità;
• deve essere fornito di ambienti idonei dedicati
e di tutte le apparecchiature atte a garantire il
corretto inquadramento e la corretta assistenza
del grande obeso. I centri di elevata specializzazione attivano ambulatori interdisciplinari,
ricoveri in day-hospital e in regime ordinario.
Presso i centri di elevata specializzazione sono
attivi protocolli specifici per la diagnosi e la
terapia delle obesità gravi e complicate. A tale
scopo i centri si attivano per la preparazione e
l’esecuzione di interventi di chirurgia bariatrica
adeguati alla risoluzione delle grandi obesità
complicate;
• i centri di elevata specializzazione dovrebbero
attivare centri dedicati alla riabilitazione del
paziente obeso e facilitare l’accesso ai pazienti
seguiti presso ambulatori territoriali e ospedali.
I centri di elevata specializzazione dovrebbero
avere un ruolo di coordinamento per quanto
riguarda le attività formative e di aggiornamento. Infine, in tali centri deve essere sviluppata l’attività di ricerca con il coinvolgimento
della rete regionale per la raccolta dei dati, il
reclutamento dei pazienti e l’attuazione di studi
di popolazione.
Rappresentano attività specialistiche integrate:
• la cardiologia:
- ECG sotto sforzo,
- ecocardiografia;
• la pneumologia:
- prove di funzionalità respiratoria,
- polisonnografia,
- terapia del paziente obeso con sindrome delle
apnee notturne con CPAP (continuous positive airways pressure);
• la psichiatria:
- valutazione psicologica e psicometria del
comportamento alimentare,
5
- eventuale approccio cognitivo-comportamentale di sostegno alla terapia medica con
possibilità di terapia di gruppo;
• la chirurgia bariatrica (il volume operatorio
deve essere ≥ 100 interventi annui):
- endoscopia digestiva e applicazione del palloncino intragastrico preoperatorio,
- possibilità di diversificare l’approccio chirurgico a seconda delle caratteristiche del paziente: bendaggio gastrico, bypass gastrico,
diversione bilio-pancreatica.
In tali modelli si evidenzia che il gruppo interdisciplinare ha il compito di prendere in cura il paziente garantendo:
• la valutazione clinico-strumentale per determinare le cause dell’obesità e l’esistenza e la
gravità delle condizioni morbose associate;
• il percorso assistenziale e gli interventi specifici
che garantiscano la continuità dell’assistenza;
• il trattamento integrato con l’utilizzo di protocolli specifici per la terapia medica, psicologico/psichiatrica e l’educazione nutrizionale;
• la stipula di protocolli operativi con i presidi
ospedalieri di riferimento, in modo da assicurare la disponibilità di posti letto e l’avvio alla
valutazione presso i centri ospedalieri che praticano la chirurgia bariatrica, ove necessario.
Il gruppo interdisciplinare propone interventi
educativi anche per i familiari.
Il modello assistenziale prevede che il centro selezioni i pazienti dopo attenta valutazione psichiatrica, cardiorespiratoria e metabolica e provveda
al follow-up postchirurgico a breve e lungo termine.
Affinché il trattamento dell’obesità risulti efficace,
in termini sia di risultati sia di mantenimento
degli stessi, è necessario affiancare all’intervento
medico, inteso in senso stretto, un intervento educativo che consenta al soggetto di comprendere
le cause del problema e di mettere in atto, nella
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vita di tutti i giorni, i comportamenti idonei a
raggiungere gli obiettivi prefissati. Il mantenimento di un sufficiente livello di esercizio motorio
viene considerato il momento primario della rieducazione, da affiancare alla riabilitazione nutrizionale e comportamentale.
A tal fine è fondamentale la collaborazione con
centri di rieducazione e riabilitazione del paziente
obeso che utilizzano l’opera di personale qualificato. L’attività motoria deve essere intesa come
riabilitazione e rieducazione in piscina, in palestra
e in percorsi esterni. Gli incontri psicologici di
gruppo sono volti al recupero del controllo sull’alimentazione, al miglioramento della compliance alla dieta, al recupero dell’autostima e all’acquisizione di capacità di problem solving. La
terapia di gruppo dietologica è volta all’insegnamento di strategie per il controllo dell’alimentazione e per l’apprendimento di metodi corretti di
gestione in proprio della dieta.
Modelli di gestione integrata del follow-up
I percorsi assistenziali per la gestione
integrata (chronic care model )
Le peculiari caratteristiche della grande obesità
come patologia cronica, le sue comorbilità e la
disabilità conseguente con un impatto sulla qualità
della vita e sui costi sanitari impongono di assumere una prospettiva non solo di tipo terapeutico,
ma soprattutto riabilitativo. È quindi importante
prevedere e definire percorsi terapeutici con una
squisita valenza multidisciplinare che affrontino
in una prospettiva temporale di lunga durata il
problema del peso, ma soprattutto la prevenzione
e la cura delle complicanze.
L’approccio multidisciplinare e multidimensionale
dovrà essere affidato al lavoro integrato di diverse
figure professionali. Va ribadito che, anche nel
60
contesto della terapia della grande obesità, il lavoro
di equipe non deve essere inteso come la semplice
somma di diverse competenze, ma come una perfetta integrazione funzionale delle stesse.
Tutte le recenti Linee guida prevedono che la selezione e la cura preoperatoria e postoperatoria
dei pazienti con grande obesità debbano essere
svolte da un team multidisciplinare composto:
• dallo specialista in medicina interna o in endocrinologia e malattie metaboliche con provata esperienza nel campo della clinica e terapia
dell’obesità;
• dallo psichiatra (coadiuvato da uno psicologo)
esperto nella diagnosi e nel trattamento dei
disturbi del comportamento alimentare;
• dal nutrizionista o dietista con esperienza specifica;
• dal fisioterapista o medico dello sport con esperienza nello specifico settore;
• dal chirurgo con comprovata esperienza di chirurgia generale e bariatrica.
Anche il personale infermieristico dovrebbe ricevere una formazione specifica. Figure di supporto
che dovrebbero collaborare con il team, qualora
non vi fossero specifiche competenze già al suo
interno, sono il cardiologo e lo pneumologo. Data
la complessità della gestione domiciliare del paziente con grande obesità nel lungo periodo, la
collaborazione con il MMG è indispensabile.
Nella rete assistenziale per la gestione dell’obesità
e del progetto terapeutico riabilitativo sono coinvolti, oltre al MMG, come primo livello, l’ambulatorio specialistico interdisciplinare (internisticoendocrino-metabolico-psicologico-nutrizionaledietologico), servizi quali il day-hospital diagnostico-terapeutico-riabilitativo, il day-service diagnostico o terapeutico-riabilitativo, oltre ai ricoveri
ordinari in reparti di medicina e chirurgia ed eventuali programmi di riabilitazione intensiva residenziale.
Parte Prima – Appropriatezza operativa
In relazione al grado di obesità, al numero e alla
gravità delle comorbilità e al grado di disabilità, la
riabilitazione intensiva pre- e postchirurgica rappresenta un nodo cruciale nella rete assistenziale.
Il percorso riabilitativo può svolgere un ruolo essenziale nella preparazione di pazienti alla chirurgia
bariatrica e nel follow-up degli stessi, al fine di ridurre i rischi perioperatori e per consentire un
adeguato ed efficace adattamento funzionale alla
nuova situazione (Linee guida del Ministero della
Sanità per le attività di Riabilitazione – GU 30
maggio 1998, n. 124; Piano d’Indirizzo del Ministero della Salute per la riabilitazione, 2010).
Criteri di appropriatezza dell’equipe
multidisciplinare e del setting di cura
È assolutamente indispensabile che l’attività di
un centro specializzato nel trattamento medico e
5
chirurgico dell’obesità non sia sporadica e che gli
operatori abbiano ricevuto una formazione specifica e un grado di competenza certificata.
Questo vale in particolare per gli aspetti della chirurgia bariatrica, che va praticata in centri interdisciplinari di I e II livello, come raccomandato
nell’opuscolo “Linee guida e stato dell’arte della
chirurgia bariatrica e metabolica in Italia” pubblicato, nell’aprile 2008, dalla Società Italiana di
Chirurgia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche (SICOB).
Una problematica di grandissima rilevanza sociale
è che, almeno nei centri di alta specializzazione,
siano operativi chirurghi plastici che possano portare a compimento il rimodellamento corporeo a
dimagrimento avvenuto. È assolutamente superfluo rilevare che questi interventi non sono estetici,
ma funzionali, e che fanno parte integrante del
trattamento interdisciplinare.
61
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
6. Indicatori e standard:
definizioni e tipologie
Gli indicatori
L’indicatore è un’informazione, quantitativa o qualitativa, numerica e quindi “misurabile”, che ragguaglia sullo stato di successo raggiunto lavorando
sui fattori critici e fornisce un quadro significativo
relativamente al raggiungimento di strategie e
obiettivi. Si riporta di seguito la definizione di
“indicatore sanitario” espressa dalla Commissione
Europea per lo stato di salute della popolazione:
“An indicator is a quantitative or qualitative measure of how close we are to achieving a set goal (policy
outcome). They help us analyse and compare performance across population groups or geographic
areas, and can be useful for determining policy priorities. Health indicators based on reliable, comparable
data are essential for designing strategies and policies
to improve the health of Europeans, and then monitoring their implementation”.
Uno degli obiettivi principali del programma comunitario in materia di salute (2008-2013) consiste nel fornire informazioni comparabili sulla
salute dei cittadini europei attraverso lo sviluppo
di indicatori sanitari e la raccolta di dati. Le informazioni da raccogliere riguardano il comportamento della popolazione in relazione alla salute
(dati sullo stile di vita e altri determinanti della
salute), le malattie (incidenza delle malattie cro-
niche, gravi e rare e modalità di controllo delle
stesse) e i sistemi sanitari (informazioni sull’accesso
ai servizi e sulla qualità dell’assistenza prestata,
dati relativi alle risorse umane e alla capacità finanziaria dei sistemi sanitari). La raccolta dei dati
si fonda su indicatori sanitari comparabili, applicabili in tutta Europa, nonché su definizioni e
metodi di raccolta e utilizzo concordati.
Gli indicatori esprimono una valutazione/misurazione di un/a fenomeno/evento/attività/oggetto/
realtà/ecc. correttamente rilevati ed elaborati; si
distinguono in due grandi categorie: sintetici e
analitici.
Gli indicatori devono essere elaborati basandosi
prevalentemente su dati elementari. Peraltro, per
chiarezza metodologica e per una loro maggiore
comprensione, è necessario in fase operativa precisare le modalità di rilevazione e di elaborazione
dei dati di base. Per raggiungere un buon grado
di affidabilità degli indicatori è necessario raggiungere un livello di disponibilità di dati interni
congruente con la normativa.
Gli indicatori devono possedere alcune caratteristiche di facile reperibilità dei dati:
• affidabilità nel misurare un fenomeno;
• comprensibilità;
• costo sostenibile;
• assenza di ambiguità.
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Ministero della Salute
L’indicatore, per definizione, descrive soltanto un
aspetto di un processo complesso e che, raramente,
è possibile condensare in una sola misura. La
scelta dell’indicatore è quindi importante, ma soprattutto lo è in funzione della sua capacità di
“marcare” un processo, invitando alla revisione e
al miglioramento della qualità del processo stesso.
Gli elementi considerati costituiscono il cruscotto
di indicatori, ciascuno con nome e metrica chiari,
oggettivi, comprensibili, poco costosi da misurare
e rappresentativi di un processo critico.
L’indicatore rappresenta uno strumento fondamentale per supportare i processi decisionali. Per
l’effettiva ricaduta di tali strumenti sul miglioramento continuo e sulla qualità dei servizi è necessario che siano conosciuti e condivisi da tutto
il personale sanitario, infatti la performance globale è il risultato delle singole performance collegate da influenze reciproche.
Nella pratica delle valutazioni degli indicatori vengono considerate tre categorie diverse di informazioni.
• Indicatori di struttura. Comprendono i requisiti
strutturali, tecnologici, organizzativi e professionali (STOP) delle strutture sanitarie, previsti
dalle normative regionali per l’accreditamento
istituzionale. Oltre a sottolineare le notevoli
differenze tra i requisiti minimi definiti dalle
varie Regioni, va rilevato che – anche nei modelli di accreditamento più avanzati (Emilia
Romagna) – la componente professionale è
ancora “ipotrofica”. Infatti, la mancata standardizzazione dei criteri di competence professionale e l’assenza di periodiche procedure di
valutazione costituiscono l’anello debole della
catena: in una struttura accreditata che eroga
processi appropriati, una limitata competence
professionale può compromettere la qualità
dell’assistenza. In definitiva, gli indicatori strutturali definiscono le “caratteristiche del conte-
64
nitore” in cui viene erogata l’assistenza e la
loro conformità ai requisiti di accreditamento
è conditio sine qua non per garantire la qualità
dell’assistenza sanitaria.
• Indicatori di processo. Misurano l’appropriatezza
del processo assistenziale in relazione a standard
di riferimento: Linee guida, percorsi assistenziali. Considerato che non forniscono informazioni sui risultati dell’assistenza (esiti), gli
indicatori di processo vengono definiti proxy
(sostitutivi), perché potenzialmente in grado
di prevedere un miglioramento degli esiti assistenziali. Tale predittività – definita robustezza
– è strettamente correlata alla forza della raccomandazione clinica su cui viene costruito
l’indicatore. In altre parole, tanto più robuste
sono le evidenze che documentano l’efficacia
di un intervento sanitario, più forte sarà la raccomandazione clinica e più robusto il corrispondente indicatore di processo. In altri termini, la robustezza di un indicatore di processo
diminuisce parallelamente alla forza della raccomandazione clinica: le raccomandazioni forti
(A, B) generano indicatori molto robusti;
quelle deboli (C, D) indicatori poco robusti
che, in genere, non è opportuno monitorare,
tranne se strettamente correlati a ottimizzazione delle risorse e/o ad aspetti organizzativi.
• Indicatori di esito. Documentano una modifica
di esiti assistenziali: clinici (mortalità, morbilità), economici (costi diretti e indiretti) e umanistici (qualità di vita, soddisfazione dell’utente). Considerato che gli esiti clinici, oltre
che dalla qualità dell’assistenza, sono influenzati da numerose determinanti (patrimonio
genetico, fattori ambientali, condizioni socioeconomiche), il principale elemento che condiziona la loro robustezza è il tempo trascorso
dall’erogazione del processo. Per esempio, nell’assistenza ospedaliera, gli indicatori di esito
Parte Prima – Indicatori e standard: definizioni e tipologie
sono molto robusti se misurati entro la dimissione, moderatamente robusti sino a 4 settimane, quindi si “indeboliscono” progressivamente in misura variabile, anche in relazione
al numero di potenziali determinanti. Un elemento ulteriore che condiziona la loro robustezza è una documentata relazione volumeesiti, solitamente determinata da un elevato
livello di competence tecnica e da un setting assistenziale d’eccellenza.
In numerose forme morbose ad andamento cronico
evolutivo, in cui siano identificabili marker biologici,
clinici o strumentali di evoluzione e controllo della
malattia stessa, possono essere codificati degli indicatori di “esito intermedio”, non rappresentativi in
realtà del vero esito, ma solo di un’aderenza temporanea agli standard definiti.
Gli standard
Il termine inglese standard deriva dal vocabolo
francese antico estendart, avente il significato di
stendardo, insegna. Il termine italiano che più si
avvicina a standard è “norma”. Uno standard è
infatti una norma accettata, un modello di riferimento a cui ci si uniforma affinché sia ripetuto
successivamente.
In campo sanitario, gli standard sono gli obiettivi
clinici da raggiungere, basati sulle evidenze della
letteratura scientifica; sono i riferimenti a cui pun-
6
tare per ottenere la migliore efficacia terapeutica
e assistenziale.
La maggior parte degli Stati europei ha compiuto
progressi nello stabilire norme di qualità per l’assistenza sanitaria. La consapevolezza sempre più
diffusa che l’utilizzo delle risorse per finanziare
cure e tecnologie inefficienti comporta una riduzione delle opportunità, a scapito di altri pazienti,
ha contribuito ad aumentare l’esigenza di documentare l’impatto di bilancio e il rapporto costoefficacia degli interventi.
La definizione di standard sanitari comuni, almeno a livello nazionale, diviene fondamentale
per il dialogo e la pianificazione fra tutti i livelli
di responsabilità in ambito sanitario. Ai problemi
di elaborazione di una politica e di tecniche di
razionamento, infatti, si aggiungono quelli derivanti da un processo decisionale articolato, disgiunto e diffuso su diversi livelli di autonomia e
responsabilità istituzionale e professionale: sono
necessari principi e temi comuni per la salvaguardia stessa del carattere di universalità e di globalità
delle garanzie offerte dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
L’esempio più classico di standard sanitari, in Italia
come negli altri Paesi sviluppati, è quello dei cosiddetti LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che
rappresentano appunto la “norma” irrinunciabile
di raggiungimento di erogazioni assistenziali ai
cittadini in tutela della loro salute.
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Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
7. La valutazione degli indicatori
di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
Si definiscono indicatori di processo e di esito (o
di outcome) quelle misure specifiche del processo
di diagnosi, terapia e riabilitazione idonee a valutare, rispettivamente, l’efficienza organizzativa e
l’esito dell’intervento diagnostico-terapeutico effettuato. Una doverosa premessa è rappresentata
dal fatto che, a differenza di altre patologie croniche, nella letteratura scientifica riguardante l’obesità il problema degli indicatori di esito, ma soprattutto di processo, è stato poco trattato.
Questo è sicuramente dovuto al ritardo culturale
che solo in tempi relativamente recenti è arrivato
ad attribuire all’obesità la categoria di malattia
cronica associata all’aumento di morbidità e mortalità nella popolazione generale, nonché una delle
principali cause di disabilità e di spesa sanitaria.
Inoltre, la relativamente ridotta efficacia delle terapie disponibili rispetto a quanto ottenuto per
altre malattie croniche e la relativa giovinezza di
quelle di maggiore efficacia, quali la chirurgia bariatrica e la riabilitazione multidisciplinare, rendono il campo della terapia dell’obesità ancora in
buona parte sperimentale e in attesa di Linee
guida ben definite.
Nella trattazione di questo argomento il problema
degli indicatori di processo e di esito verrà riferito
ai diversi livelli (setting assistenziali) nei quali si
svolge il disease management del paziente obeso.
Standard di processo e di outcome in ambito
territoriale (inclusa la medicina generale)
A questo proposito occorre distinguere tra programmi aventi come obiettivo la perdita di peso
e quelli, più ambiziosi, riguardanti la gestione
complessiva del paziente obeso, quindi che non
si limitano a focalizzarsi sull’eccesso ponderale,
bensì considerano anche le comorbidità e la riduzione della qualità della vita del paziente obeso.
Per quanto riguarda i modelli di erogazione dei
programmi per la perdita di peso in ambito territoriale, questi fondamentalmente possono essere
di due tipi:
• programmi erogati direttamente dai servizi di
cure primarie;
• programmi erogati da enti terzi (cosiddetti
“commercial programmes”), ma secondo standard qualitativi definiti, generalmente configurabili come gruppi di auto-aiuto guidato o
educazionali svolti da personale adeguatamente
formato, rimborsati in tutto o in parte dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Per quanto riguarda i programmi erogati da servizi
di cure primarie, il modello più studiato è quello
del programma britannico Counterweight. Questo
programma è svolto dagli infermieri operanti presso
gli ambulatori dei medici di medicina generale
67
Ministero della Salute
(MMG) [practice nurses], adeguatamente formati e
supervisionati da un team multidisciplinare, nel
quale il MMG ha il compito di effettuare lo screening e l’invio dei pazienti, nonché di effettuare
l’eventuale terapia farmacologica dell’obesità e delle
sue complicanze. I risultati a 12 mesi mostrano una
perdita di peso uguale o superiore al 5% in una
percentuale pari al 13,9% di tutti i pazienti trattati,
pari al 17,6% in quelli complianti al trattamento.
Il Counterweight Project Team ha recentemente stimato che i progetti di terapia dell’obesità svolti
nell’ambito delle cure primarie, volti sia a contrastare l’aumento di peso con il passare del tempo sia
a ridurre l’eccesso ponderale, siano in grado di ridurre dell’8% a 1 anno e del 18% a 2 anni la spesa
farmacologica dei pazienti obesi e in sovrappeso.
Quando si consideravano i costi totali associati con
tre complicanze chiave dell’obesità (diabete di tipo
2, cardiopatia ischemica, carcinoma colonrettale),
il guadagno ottenuto dal SSN in termini economici
(senza considerare quello in termini di qualità di
vita) risulta ampiamente superiore ai costi sostenuti
per l’erogazione del programma stesso.
La Cochrane Collaboration ha valutato l’efficacia
degli interventi educazionali mirati ai MMG, concludendo che non possono essere ancora effettuate
raccomandazioni in merito alla loro efficacia e al
metodo migliore per erogarli. Gli autori, tuttavia,
segnalavano la probabile maggiore efficacia degli
interventi qualora presente un dietista a supporto
del MMG.
I programmi commerciali per la perdita di peso,
soprattutto quando utilizzano gruppi di autoaiuto guidato, sono potenzialmente in grado di
indurre, in pazienti motivati, decrementi ponderali ancora superiori, ma non vi sono studi in merito al costo-efficacia dell’erogazione di questi programmi a carico totale o parziale del SSN.
Per quanto riguarda gli standard di processo nel
disease management nell’ambito delle cure primarie,
68
i dati di letteratura sono limitati a due studi. Nel
lavoro di Chang et al., volto a rilevare possibili differenze in senso negativo nella qualità assistenziale
erogata a diabetici obesi vs normopeso, gli autori,
contrariamente a quanto da loro originariamente
ipotizzato, hanno rilevato migliori performance da
parte dei medici nell’assistenza ai pazienti obesi
diabetici rispetto ai diabetici normopeso.
Il secondo lavoro, di maggiore interesse in quanto
specificamente mirato agli standard di processo
in medicina generale, si riferisce alla ricerca condotta negli Stati Uniti da Ma et al. nell’ambito
del National Ambulatory Medical Care Survey
(NAMCS). Gli autori hanno esaminato la prevalenza di screening per obesità, diagnosi e counseling durante le visite effettuate a pazienti adulti
afferenti ad ambulatori dell’equivalente statunitense del MMG e di specialisti in malattie cardiovascolari; inoltre, hanno esaminato la performance
di 15 indicatori di qualità ambulatoriali precedentemente identificati per le patologie croniche
in genere. In questo studio, quasi il 50% delle visite non riportava la rilevazione di peso e altezza
necessaria per lo screening dell’obesità utilizzando
l’indice di massa corporea (body mass index, BMI).
Limitatamente al gruppo di pazienti obesi (BMI
≥ 30 kg/m2), nel 70% non veniva segnalata in
cartella ambulatoriale la diagnosi di obesità e il
63% non riceveva counseling per dieta, esercizio
fisico o riduzione ponderale. Anche nei pazienti
con note comorbidità dell’obesità, la percentuale
di coloro nei quali non veniva rilevato il BMI
(48%), segnalata l’obesità come diagnosi (66%)
o sottoposti a counseling (54%) per obesità, era
pure molto elevata. La performance (definita come
la percentuale di visite nelle quali veniva erogata
un’assistenza appropriata sugli indicatori di qualità)
era complessivamente subottimale.
In particolare, la performance non era superiore
al 50% per diversi indicatori di qualità riferibili
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
alla prevenzione e al trattamento delle comorbidità
dell’obesità e precisamente: corretta scelta della
classe farmacologica nella terapia delle complicanze cardiovascolari e respiratorie dell’obesità;
counseling nella cessazione del fumo; di poco superiore al 50% risultava, invece, il trattamento
della depressione. La performance non variava secondo il livello di obesità; tuttavia, la mancata rilevazione di peso e altezza era costantemente associata a una scarsa performance, quindi una cattiva qualità di assistenza al paziente obeso.
Un indicatore utile per quanto riguarda il counseling è fornito dalla US Preventive Services Task
Force, che definisce l’intensità di counseling per
obesità in termini di frequenza di contatto. Un
intervento è definito di alta intensità se comprende
più di una seduta (individuale o di gruppo) al
mese per almeno 3 mesi.
Per quanto riguarda l’ambito nazionale, vi sono
alcune esperienze in corso da parte di nuclei di
cure primarie. Inoltre, presso alcuni SIAN (Servizio Igiene Alimenti Nutrizione) sono svolti anche programmi di prevenzione secondaria su base
territoriale. Pur in assenza di una validazione sul
campo, è possibile estrapolare alcuni indicatori
di qualità dal documento “Obesità, sindrome plurimetabolica e rischio cardiovascolare: Consensus
sull’inquadramento diagnostico-terapeutico. Raccomandazioni per la prevenzione, la diagnosi e la
terapia dell’eccesso di peso e delle patologie a esso
associate” sottoscritto nel 2004 da 13 Società
scientifiche italiane. Queste Linee guida hanno
in larga parte ripreso e aggiornato le precedenti
Linee Guida Italiane Obesità (LiGIO ’99) ed è a
queste che si farà principalmente riferimento nel
presente capitolo.
Tale Consensus raccomanda al MMG, nonché ai
medici specialisti in malattie cardiovascolari, la
rilevazione di peso e altezza e calcolo del BMI in
tutti i pazienti. Una volta diagnosticato l’eccesso
7
di peso, è raccomandato nella Consensus che il
MMG effettui un approfondimento anamnestico,
nonché una valutazione del rischio di patologie
associate mediante esame obiettivo mirato ed
esami bioumorali e strumentali.
Sempre secondo il testo della Consensus, il MMG
dovrebbe anche proporre un intervento terapeutico in tutti i pazienti con eccesso di peso, integrandosi con gli specialisti di riferimento, in particolare quando il grado dell’obesità è più severo
e più grave il quadro delle patologie associate.
Secondo la Consensus si adatterebbero in particolare all’intervento terapeutico diretto del MMG:
• la correzione della sedentarietà;
• il counseling sulle abitudini di vita.
Negli ambulatori di cure primarie deve essere prevista la presenza di strumentazioni atte alla diagnosi e al monitoraggio dei pazienti affetti da sovrappeso e obesità:
• bilancia (si consiglia una portata massima non
inferiore a 200 kg, ove possibile con pedana
per la rilevazione del peso in pazienti disabili);
• altimetro;
• regolo o altro strumento per il calcolo del BMI;
• nastro centimetrato per la misurazione della
circonferenza addominale;
• sfigmomanometro con bracciale di larghezza
adeguata alla corretta rilevazione della pressione
arteriosa anche in soggetti con obesità di grado
elevato.
Sulla base del documento della Consensus italiana,
nonché di quanto riportato dallo studio del National Ambulatory Medical Care Survey, è possibile
definire i seguenti indicatori di processo riguardanti
i MMG e i medici specialisti in cardiologia e discipline affini. Per quanto riguarda i valori-soglia
si è fatto riferimento a quelli statunitensi, ove disponibili, ovvero in assenza di dati basati sull’evidenza questi sono stati suggeriti dagli autori (expert
opinion) [Tabella 7.1].
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Ministero della Salute
Per quanto riguarda gli indicatori di outcome, occorre tenere presente l’elevato tasso di recidiva
ponderale dopo perdita di peso, che è massima
nei primi 2 anni dall’inizio del programma, con
rischio di recidiva – sia pure di entità molto minore – sino a 5-8 anni. Dal momento che la maggior parte dei pazienti che tendono a recuperare
peso lo fa entro 12 mesi dall’inizio del programma
Tabella 7.1 Indicatori di processo in medicina generale o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari
Target: tutti i pazienti afferenti all’ambulatorio di cure primarie o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari
Indicatore
Valore soglia proposto
Peso
Altezza
BMI
Presenza nel > 50% delle cartelle ambulatoriali o referto visita specialistica
Idem
Idem
Target: tutti i pazienti con BMI ≥ 30 kg/m2 (o ≥ 25 kg/m2 se complicanze sospette o accertate) afferenti all’ambulatorio di cure primarie
o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari
Indicatore
Valore soglia proposto
Circonferenza addome
Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG o referto visita specialista
Pressione arteriosa
Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG (> 90% referto visita specialista)
Frequenza cardiaca
Idem
Glicemia a digiuno
Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG (se circonferenza vita > 88 cm
nelle donne, > 102 cm nell’uomo o in assenza di questo indicatore)
Profilo lipidico (colesterolo totale, HDL,
trigliceridi)
Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG
Riportata abitudine o meno al fumo
Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali del MMG (> 90% referto visita specialista)
Riportate abitudini motorie
Idem
Riportato consumo di alcool
Idem
Valori soglia da definire. Complicanze più frequenti in pazienti con BMI elevato
Valutazione dei sintomi suggestivi
per complicanze cardiorespiratorie
(dispnea, cardiopalmo, angina), inclusa
sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
(ipersonnia, disturbi del sonno)
Screening per neoplasia dell’endometrio,
della mammella, colonrettale
Da definire eventuali modifiche dei programmi di screening rispetto a quanto previsto
nella popolazione generale sulla base dell’aumentato rischio nel paziente obeso e relativi valori soglia
Peso (aggiornamento)
Almeno una volta ogni 12 mesi nel > 15% delle cartelle ambulatoriali o referto visita
Circonferenza addominale (aggiornamento) Idem
Nei fumatori, cadenza annuale nel > 10% delle cartelle ambulatoriali o referto visita
Intervento motivazionale breve
sulla cessazione del fumo
Nei sedentari, cadenza annuale nel > 10% delle cartelle ambulatoriali o referto visita
Intervento motivazionale breve
sulla riduzione della sedentarietà
> 5% dei pazienti su base annuale (sino a 3 incontri individuali o di gruppo nell’arco di
Counseling sulle abitudini di vita
3 mesi)
(intensità bassa o media)
Da definire sulla base della disponibilità di programmi territoriali erogati dai servizi di
Counseling sulle abitudini di vita
cure primarie o con essi convenzionati
(intensità elevata)
BMI, indice di massa corporea; HDL, lipoproteine ad alta intensità; MMG, medico di medicina generale.
70
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
e stante la difficoltà di ottenere dati di follow-up,
vi è generale accordo sul fatto che 12 mesi di follow-up rappresentino il periodo minimo per valutare l’efficacia a lungo termine di un programma
per la perdita di peso.
La Consensus su obesità, sindrome plurimetabolica
e rischio cardiovascolare identifica il calo ponderale
più efficace in termini clinici, realistico e compatibile
con un successivo mantenimento a lungo termine
sulla base del grado di sovrappeso/obesità e del
livello di motivazione del paziente. Le più recenti
Linee guida europee sulla gestione dell’obesità nell’adulto si discostano dal documento italiano per
quanto riguarda alcuni degli obiettivi di riduzione
ponderale: nella Tabella 7.2 sono riportati entrambi.
7
Il documento della Consensus – così come le Linee
guida europee – fissa degli obiettivi in merito al
calo ponderale più efficace, senza però indicare
valori soglia. Per quanto riguarda i programmi
erogati dai servizi di cure primarie sono stati
quindi indicati come valori soglia quelli evidenziati
dal Counterweight Project. Per quanto riguarda il
counseling erogato direttamente dal MMG, viene
fatto riferimento all’esperienza di un gruppo di
MMG italiani che, utilizzando il counseling motivazionale breve, sono riusciti a prevenire l’aumento di peso o a indurre una riduzione ponderale
dopo 18 mesi in oltre l’85% dei loro pazienti sovrappeso e obesi (Tabella 7.3).
Ulteriori indicatori di processo, nonché di out-
Tabella 7.2 Obiettivi di riduzione del peso secondo le Linee guida italiane ed europee
Livelli di BMI
Linee guida italiane
Linee guida europee
25-29,9 kg/m2
30-34,9 kg/m2
5-10% in 6 mesi
5-10% in 12 mesi
Perdita del 5-15% di peso a 6 mesi o prevenzione di
un ulteriore incremento
35-39,9 kg/m2
40 kg/m2 e superiore*
5-10% in 12 mesi
10-15% in 12 mesi
Considerare anche le perdite di peso di entità maggiore (> 20%)
Nei pazienti con una storia pregressa di frequenti
insuccessi terapeutici e/o con un livello molto basso
di motivazione, il trattamento da proporre è una
terapia di mantenimento del peso, in attesa di poterne iniziare una per il calo ponderale
In alcuni pazienti, in particolare quelli in sovrappeso
(BMI 25,0-29,9 kg/m2), la prevenzione di un ulteriore
incremento ponderale (attraverso consigli nutrizionali e aumento dell’attività fisica) piuttosto che la
perdita di peso di per sé può essere un obiettivo appropriato
* Raccomandata la gestione da parte del medico specialista, in collaborazione con il MMG.
BMI, indice di massa corporea; MMG, medico di medicina generale.
Tabella 7.3 Indicatori di outcome in medicina generale o ambulatorio specialistico in malattie cardiovascolari.
Target: tutti i pazienti con BMI ≥ 30.0 kg/m2 afferenti all’ambulatorio di cure primarie
Intervento
Indicatore di outcome
Valore soglia proposto
Counseling motivazionale breve
effettuato dal MMG
Arresto dell’aumento ponderale
o decremento ponderale a lungo termine
85% dei pazienti trattati a 18 mesi
Counseling nutrizionale, motorio,
psicologico svolto da un infermiere
con il supporto del MMG
% pazienti con riduzione ponderale ≥ 5%
del peso iniziale a 12 mesi
13% sul totale dei pazienti trattati
(intention-to-treat analysis)
BMI, indice di massa corporea; MMG, medico di medicina generale.
71
Ministero della Salute
come intermedio, inerenti i pazienti obesi e affetti
da diabete di tipo 2 possono essere mutuati da
quelli sviluppati per i pazienti diabetici.
Standard di processo e outcome in ambito
specialistico ambulatoriale
In Italia, i centri specialistici fanno per lo più riferimento alla rete dei servizi di dietetica e nutrizione clinica ospedalieri, nonché ad ambulatori
specialistici svolti nell’ambito dell’endocrinologia
e della diabetologia. I documenti di riferimento
sono rappresentati dalle Linee guida europee sulla
terapia dell’obesità [che a loro volta riprendono
ampiamente le Linee guida britanniche NICE
(National Institute for Health and Clinical Excellence)] e dalla “Consensus sull’inquadramento diagnostico-terapeutico – raccomandazioni per la
prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’eccesso
di peso e delle patologie a esso associate”.
Tuttavia, anche in questo caso occorre utilizzare
– come citato testualmente dalle Linee guida europee – “un approccio basato sull’evidenza, ma
che al contempo permetta flessibilità al medico
clinico in quelle aree dove al momento le evidenze
non sono disponibili”.
Nello sviluppo di un team di gestione clinico-assistenziale per i programmi di gestione del peso,
le Linee guida europee raccomandano lo sviluppo
di reti assistenziali costituite dal MMG, dal medico specialista obesiologo, dal dietista, dal laureato in scienze motorie (“exercise physiologist”) [o
dal medico fisiatra], dal terapista comportamentale
(o dallo psicologo/medico psichiatra) con incoraggiamento allo sviluppo di gruppi di supporto
ai pazienti. Le stesse Linee guida sottolineano
come nessun servizio sanitario possa trattare tutti
coloro che sono obesi o sovrappeso ed enfatizzano
l’importanza dei gruppi di supporto ai pazienti,
delle organizzazioni commerciali e non, dei ma-
72
nuali di auto-aiuto e di altri media nel fornire
utile aiuto e supporto, purché i loro contenuti
siano conformi alle Linee guida europee.
Dalle due Linee guida è possibile evincere diversi
indicatori di processo inerenti la raccolta anamnestica, l’esame obiettivo, l’esecuzione di test diagnostici. Purtroppo, non vengono forniti valori
soglia per gli stessi. Sempre a questo riguardo,
l’ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) è da tempo attiva in merito all’individuazione degli standard di qualità sull’attività
dei servizi di dietetica e nutrizione clinica, inclusi
quelli inerenti la diagnosi e la terapia dell’obesità.
È auspicabile che – analogamente a quanto avvenuto per il diabete – venga messa a punto una
cartella clinica informatizzata contenente gli indicatori clinici suggeriti dalle Linee guida e vengano
effettuate rilevazioni epidemiologiche su base multicentrica che coinvolgano tutti i servizi specialistici
per l’obesità, allo scopo di definire sul campo i valori soglia degli indicatori di assistenza obesiologica
in Italia e un’eventuale ridefinizione degli stessi
sulla base delle specificità assistenziali del nostro
Paese. In assenza di questa validazione, gli autori
hanno posto valori soglia arbitrari sulla base di
quanto indicato nei documenti ADI ove disponibili, ovvero sulla base della propria esperienza e di
quella dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano.
Nella valutazione degli standard di qualità occorre
anche inserire il tempo raccomandato per la prima
visita e per la visita di controllo. I tempi raccomandati dall’ADI sono 60-80 minuti per la prima
visita (medico e dietista) e 15-20 minuti per la
visita di controllo (solo dietista), 30-40 minuti se
eseguita congiuntamente da medico e dietista. Da
rilevare come l’attuale tariffa di rimborso delle
prestazioni ambulatoriali da parte del SSN sia
ampiamente insufficiente a coprire il costo degli
operatori coinvolti nel caso di rispetto della tempistica raccomandata (Tabella 7.4).
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
7
Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale
afferenti all’ambulatorio specialistico
Indicatori di processo della raccolta anamnestica
Indicatore
Valore soglia proposto
Familiarità per eccesso di peso
Presenza nel > 50% delle cartelle
ambulatoriali o referto 1a visita
Epoca di insorgenza dell’obesità
Idem
Pregresse terapie per l’obesità e andamento ponderale
Idem
Valutazione anamnestica di cause pregresse o attuali di eccesso di peso secondario (es. genetiche, farmaci, disturbi endocrini)
Idem
Valutazione anamnestica di altri possibili determinanti dell’obesità (es. fattori psicosociali,
stress cronico, cessazione del fumo)
Idem
Attività fisica attuale e pregressa
Idem
Abitudini alimentari e frequenza dei pasti (anamnesi alimentare)
Idem
Assunzione di farmaci
Idem
Atteggiamento del paziente rispetto al peso (valutare come il paziente vive il suo aspetto
fisico; indagare se sente di limitarsi in modo rilevante nella sua vita sociale, lavorativa e
sessuale per evitare situazioni che vivrebbe con disagio a causa del suo peso)
Valori soglia da definire (non ancora
disponibili standard di valutazione)
Aspettative verso il calo ponderale e motivazione del paziente al cambiamento
Da definire (non ancora disponibili
standard di valutazione)
Valutazione della possibile presenza di un disturbo del comportamento alimentare (bingeeating, binge-eating disorder, night eating syndrome, bulimia nervosa)
Si raccomanda di valutare se il paziente con eccesso di peso:
• assume elevate quantità di cibo in poco tempo con sensazione di perdita di controllo dell’introito alimentare
• ricorre al vomito, all’assunzione di lassativi o ad altri provvedimenti simili per prevenire
l’aumento di peso in occasione di episodi di assunzione incontrollata di cibo
• prova disgusto per se stesso e si sente colpevole e depresso dopo episodi di assunzione incontrollata di cibo
• mangia anche quando non sente una fisiologica sensazione di fame
• mangia in occasione di particolari sollecitazioni emotive
• si alza durante la notte per mangiare
Presenza nel > 50% delle cartelle
ambulatoriali o referto 1a visita
Valutazione della possibile presenza di depressione e di altri disturbi dell’umore
Verificare se il paziente:
• ha mai sofferto di episodi depressivi (eventualmente con desideri di morte o gesti autolesivi)
• assume o ha assunto in passato psicofarmaci: neurolettici, antidepressivi, stabilizzatori del
tono dell’umore ecc.
• ha un’anamnesi di numerosi tentativi di perdita di peso seguiti da recupero ponderale (sindrome dello yo-yo: si associa con maggiore frequenza a sintomatologia depressiva o distress
psichico)
Idem
Valutazione anamnestica di patologie, presenti o pregresse, comunemente associate all’eccesso di peso
Idem
Abitudine o meno al fumo
Idem
Consumo di alcool
Idem
Russamento notturno
Idem
Ipersonnia diurna
(continua)
73
Ministero della Salute
(segue)
Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale
afferenti all’ambulatorio specialistico
Indicatori di processo dell’esamo obiettivo
Indicatore
Valore soglia proposto
Peso
Presenza nel > 90% delle cartelle
ambulatoriali o referto 1a visita
Altezza
Idem
BMI
Idem
Circonferenza addominale
Idem
Circonferenza del collo (se pazienti con BMI ≥ 35,0 kg/m2 oppure con riferito russamento notturno o ipersonnia diurna)
Presenza > 50% delle cartelle ambulatoriali o referto 1a visita
Pressione arteriosa (con bracciale di larghezza appropriata)
Idem
Frequenza cardiaca
Presenza nel > 90% delle cartelle
ambulatoriali
Rilevazione della presenza o meno di acanthosis nigricans (come segno di insulino-resistenza)
Presenza nel > 50% delle cartelle
ambulatoriali
Esame obiettivo mirato alle complicanze dell’obesità note o sospette
Da definire (citato ma non chiaramente definito dalle Linee guida)
Indicatori di processo della valutazione bioumorale
Indicatore
Valore soglia proposto
Glicemia a digiuno
Presenza > 90% delle cartelle ambulatoriali
Profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, trigliceridi)
Idem
Uricemia
Idem
TSH (come indice di funzionalità tiroidea)
Idem
Transaminasi
Idem
Valutazione endocrina se sospettata sindrome di Cushing o patologie ipotalamiche
Idem
Indicatori di processo nella valutazione della composizione corporea
Le Linee guida europee riportano che la valutazione della composizione corporea – fatta salvo la misurazione della circonferenza addominale per la stima del grasso viscerale – non è essenziale per la gestione dell’obesità nella pratica clinica. Inoltre, sempre secondo
le Linee guida europee vi sono incertezze sulla validità della composizione corporea e/o delle modifiche misurate nella perdita di peso
di tecniche come la bioimpedenziometria, soprattutto nei pazienti obesi. Riportano che la DEXA (Dual Energy X-ray Absorptiometry)
rappresenta il metodo più rilevante per la valutazione della valutazione clinica dell’obesità associata con una marcata riduzione della
massa magra (obesità associata a malattie genetiche, endocrine o neurologiche e nel follow-up della chirurgia bariatrica)
Secondo, invece, le Linee guida italiane sarebbe opportuno che fossero disponibili, nella dotazione di un centro specializzato nella gestione dell’eccesso di peso:
• l’impedenziometria e/o DEXA
• la calorimetria indiretta
Sulla base di quanto sopra esposto, non si ritiene che – almeno a livello ambulatoriale – la valutazione della composizione corporea al
momento sia da ritenere una modalità diagnostica opzionale e che non debba rientrare, in assenza di ulteriori aggiornamenti delle
Linee guida, nella definizione degli indicatori di qualità
(continua)
74
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
7
(segue)
Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale
afferenti all’ambulatorio specialistico
Indicatori di processo nella diagnosi delle patologie associate all’obesità
Indicatore
Specifiche e valore soglia proposto
Valutazione della presenza e dell’impatto del
diabete di tipo 2
Si rimanda al capitolo sugli indicatori di qualità nel diabete di tipo 2
Valutazione dell’impatto dell’ipertensione arteriosa
Se presente ipertensione arteriosa, devono essere presenti
• nel > 50% delle cartelle ambulatoriali:
- raccolta di informazioni dettagliate su eventuali sintomi attuali (tipo, durata, localizzazione, tempo di insorgenza), per esempio angina
- ECG (segni di ipertrofia ventricolare sx e altre alterazioni)
• nel > 90% delle cartelle ambulatoriali:
- profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, trigliceridi)
- uricemia
- numero di sigarette/die
- presenza di diabete
Valutazione della presenza e dell’impatto di
dislipidemia
Se presente dislipidemia, devono essere presenti i valori di colesterolo LDL nel > 50%
delle cartelle ambulatoriali
Valutazione della presenza o assenza di sindrome metabolica secondo i criteri ATP-III
Presenza > 90% delle cartelle ambulatoriali
Alterazione delle transaminasi suggestiva per
NAFLD o altra patologia epatica
Se alterazione delle transaminasi:
• fosfatasi alcalina, gamma-GT, ecografia epatica nel 50% delle cartelle ambulatoriali
• biopsia epatica (valore soglia da definire)
Sospetta litiasi colecistica
Se litiasi colecistica sospetta:
• ecografia epatica (valore soglia da definire)
Sospetta cardiopatia ischemica
Se sospettata cardiopatia ischemica:
• raccolta di informazioni dettagliate su eventuali sintomi attuali di dolore anginoso
(tipo, durata, localizzazione, tempo di insorgenza)
• ECG
• consulenza cardiologica
• ECG da sforzo (valori soglia da definire)
Oltre a profilo lipidico, uricemia, presenza o meno di diabete (> 90% delle cartelle ambulatoriali)
Sospetta insufficienza cardiaca
Se sospettata insufficienza cardiaca:
• raccolta di informazioni più dettagliate su sintomi e segni di insufficienza cardiaca
• ecocardiografia
• consulenza cardiologica (valori soglia da definire)
Sospetta sindrome delle apnee ostruttive nel
sonno
(Linee guida AIPO-AISM)
Sintomi:
• russamento abituale (tutte le notti) e persistente (da almeno 6 mesi)
• pause respiratorie nel sonno riferite dal partner
• risvegli con sensazione di soffocamento in soggetto russatore (non necessariamente
abituale)
• sonnolenza diurna (punteggio al questionario di Epworth – versione italiana di Vignatelli > 10)
Segni:
• BMI > 29 kg/m2
• circonferenza collo > 43 cm (maschi) o 41 cm (femmine)
(continua)
75
Ministero della Salute
(segue)
Tabella 7.4 Indicatori di processo in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale
afferenti all’ambulatorio specialistico
• dismorfismi craniofacciali e anomalie orofaringee (tutte quelle situazioni anatomiche
che determinano una riduzione del calibro delle prime vie aeree)
Se il paziente presenta:
• russamento abituale e persistente da solo o con altri sintomi o segni
• almeno 2 degli altri sintomi, diversi dal russamento abituale e persistente (pause respiratorie + risvegli con soffocamento o pause respiratorie + sonnolenza diurna o
risvegli con soffocamento + sonnolenza diurna)
• presenza di un sintomo diverso dal russamento abituale e persistente + almeno 2
segni
• presenza di un sintomo diverso dal russamento abituale e persistente + almeno un
segno in soggetti in cui il russamento non è accertabile (il paziente dorme solo)
È indicata la consulenza pneumologica e/o neurologica, ovvero l’approfondimento diagnostico mediante monitoraggio cardiorespiratorio notturno o esame polisonnografico [secondo le Linee guida AIPO/AISM (Associazione Italiana Pneumologi
Ospedalieri/Associazione Italiana Medicina del Sonno)
Da definire i valori soglia
Insufficienza respiratoria sospetta o accertata
Se sospettata insufficienza respiratoria:
• raccolta di informazioni più dettagliate su sintomi e segni di insufficienza respiratoria
• consulenza pneumologica
• prove di funzionalità respiratoria
• saturimetria
• emogasanalisi arteriosa
Da definire i valori soglia
Osteoartrosi sospetta o accertata
Ridotta autonomia delle attività della vita
quotidiana
Se sospettata osteoartrosi e/o ridotta autonomia delle attività della vita quotidiana:
• raccolta di informazioni dettagliate su dolori articolari, funzionalità delle articolazioni
e altri sintomi
• raccolta di informazioni dettagliate sull’autonomia delle attività della vita quotidiana
• consulenza fisiatrica e/o ortopedica
Da definire le scale di valutazione e i valori soglia
Disturbo del comportamento alimentare
sospetto
Disturbo depressivo sospetto
Se sulla base della valutazione anamnestica sopraindicata si può ipotizzare una diagnosi di disturbo del comportamento alimentare e/o di depressione, associata all’eccesso di peso, somministrazione di uno o due dei seguenti test autosomministrati:
• BES (Binge Eating Scale) per la valutazione psicometrica del sintomo abbuffate compulsive: la diagnosi di BES è molto probabile se il punteggio complessivo è > 27; la
presenza di sintomi di binge eating è possibile se è > 17; improbabile se è < 17
• BDI (Beck Depression Inventory) per la valutazione psicometrica della depressione
dell’umore. Un punto di cutoff clinicamente significativo è 15/16: punteggi > 15 indicano la probabile presenza di sintomi depressivi. Più in dettaglio: sintomi depressivi
sono probabilmente assenti se il punteggio è < 10; sono lievi se è fra 10 e 19; medi
se è fra 20 e 29; gravi se il punteggio è > 30
Valore soglia: test effettuati > 50% dei pazienti con sospetta diagnosi
Disturbo del comportamento alimentare
probabile o accertato
Disturbo depressivo probabile o accertato
Se non già in terapia psichiatrica o psicoterapeutica, consulenza psicologica clinica
o psichiatrica
Valore soglia: > 50% dei pazienti
BMI, indice di massa corporea; HDL, lipoproteine ad alta intensità; LDL, proteine a bassa densità; NAFLD, steatosi epatica non alcolica; TSH, ormone stimolante la tiroide.
76
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
Indicatori di processo e di outcome
nel trattamento dell’obesità a livello
ambulatoriale specialistico
Sia le Linee guida italiane sia quelle europee raccomandano che il trattamento dell’obesità debba
consistere nell’insieme di:
• restrizione calorica;
• riduzione della sedentarietà;
• terapia cognitivo-comportamentale;
• eventuale terapia farmacologica dell’obesità e
terapia farmacologica delle complicanze, entrambe da utilizzare secondo le indicazioni e
le restrizioni appropriate.
Sia le Linee guida italiane sia quelle europee pongono enfasi sul fatto che, essendo l’obesità una
malattia cronica, siano necessari un follow-up e
una continua supervisione sia per prevenire il recupero di peso, sia per monitorare il rischio di
malattia e trattare le comorbidità.
Secondo le Linee guida italiane, un protocollo terapeutico che riduca al minimo il rischio di dropout e di perdita della compliance del paziente dovrebbe prevedere una frequenza di controlli, in
media, durante la fase di calo ponderale di 1 visita
al mese e durante la fase di mantenimento di 1
visita ogni 3-4 mesi. Per impostare il programma
di trattamento per il calo ponderale, le Linee guida
italiane raccomandano di raccogliere informazioni
e dati sulle abitudini alimentari e sull’introito calorico, in termini sia quantitativi sia qualitativi,
mediante diario delle abitudini di vita, dei comportamenti e dell’alimentazione. Sempre le Linee
guida italiane raccomandano di raccogliere informazioni e dati sul metabolismo energetico mediante tabelle del dispendio energetico (vs peso,
peso/altezza ecc.) e di eseguire una prova da sforzo
nei pazienti a rischio, per valutare la riserva funzionale cardiovascolare prima di impostare un
programma per la riduzione della sedentarietà.
7
Le Linee guida europee pongono una maggiore
enfasi sul controllo delle comorbidità in aggiunta
alla gestione ponderale e precisamente:
• controllo della dislipidemia;
• ottimizzazione del controllo glicemico nel diabete di tipo 2;
• normalizzazione dei valori pressori nell’ipertensione arteriosa;
• gestione delle complicanze respiratorie, inclusa
la sindrome da apnee ostruttive nel sonno;
• attenzione al controllo del dolore e dei bisogni
in termini di mobilità nell’osteoartrosi;
• gestione dei disturbi psicosociali, inclusi i disturbi dell’umore, i disturbi del comportamento alimentare, la bassa autostima, i disturbi
dell’immagine corporea.
Nella Tabella 7.5 vengono riassunti gli indicatori
di processo desumibili dalle Linee guida citate.
Ove non vengono indicati valori soglia, si presume
che questi debbano essere raggiunti nella pressoché
totalità dei casi (> 90%).
Indicatori di outcome intermedio e di lungo
termine nel trattamento dell’obesità
a livello specialistico ambulatoriale
Per quanto riguarda la riduzione ponderale, valgono gli stessi criteri identificati per gli interventi
erogati in ambito territoriale di medicina generale. Tuttavia, le Linee guida europee stabiliscono
con chiarezza che, a fianco degli indicatori sopracitati, configurabili come di outcome intermedio, i criteri di successo a lungo termine sono
rappresentati da:
• mantenimento del peso perso;
• prevenzione e trattamento delle comorbidità.
Anche se non esplicitamente trattata dalle Linee
guida, in analogia con quanto previsto da altre
patologie croniche per i setting di ambulatorio
specialistico, è raccomandabile una valutazione
77
Ministero della Salute
Tabella 7.5 Indicatori di processo nel trattamento dell’obesità e delle sue complicanze in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico
Indicatore
Specifiche
Consigli dietetici individualizzati atti
a conseguire una restrizione calorica
Nella cartella ambulatoriale presente evidenza dell’erogazione degli stessi in forma scritta,
generalmente da parte del dietista. Possono essere erogati come dietoterapia grammata,
dietoterapia a porzioni, ovvero come suggerimenti sulle modifiche dello stile alimentare.
A ogni visita di controllo dovrà essere valutata l’adesione del paziente al programma e, in
caso di compliance inadeguata, ne dovranno essere valutate le cause (difficoltà pratiche,
insufficiente comprensione, iperfagia ecc.) e messi in atto gli adeguati correttivi
Elementi di CBT
La CBT non dovrebbe essere effettuata solo da psicologi abilitati e psichiatri, ma anche da altri
professionisti formati quali medici, dietisti, esperti di scienze motorie. Gli elementi di CBT devono
fare parte della gestione nutrizionale e motoria di routine, oppure fare parte di un programma
più strutturato, da erogare individualmente, in gruppo (un operatore ogni 8-10 pazienti) oppure
mediante manuali di auto-aiuto. Presente in cartella evidenza di trattamento con almeno uno
dei seguenti: diario di automonitoraggio; tecniche di controllo degli stimoli; tecniche di rinforzo
della motivazione; tecniche di ristrutturazione cognitiva; tecniche di rilassamento
Programma di riduzione
della sedentarietà
Evidenza in cartella di indicazioni in merito a come iniziare (o aumentare) l’attività motoria
(salvo i casi nella quale la stessa sia evidentemente controindicata). Gli esercizi devono essere individualizzati sulla base delle possibilità e delle condizioni cliniche del paziente e focalizzarsi su un aumento graduale a livelli di sicurezza. A ogni visita di controllo dovrà essere
valutata l’adesione del paziente al programma e, in caso di compliance inadeguata, ne dovranno essere valutate le cause (difficoltà pratiche, insufficiente comprensione, comparsa
e/o peggioramento di sintomatologia osteoarticolare o di intolleranza allo sforzo) e messi
in atto gli adeguati correttivi
Test cardiopolmonare da sforzo
Consigliato dalle Linee guida italiane ove presente almeno uno dei seguenti:
• età oltre 50 anni (valore soglia > 10%)
• presenza di patologie cardiovascolari associate (valore soglia > 50%)
• presenza di diabete (valore soglia > 20%)
Frequenza dei controlli ambulatoriali
Almeno una volta al mese (media) nei primi 6 mesi o comunque nella fase di calo ponderale
(valore soglia > 50%). Il controllo ambulatoriale con cadenza mensile può essere effettuato
dal solo dietista. In caso di presenza di comorbidità dell’obesità almeno una visita medica
di controllo ogni 3 mesi (valore soglia > 50%)
Terapia farmacologica dell’obesità
Da utilizzare secondo le indicazioni e le restrizioni previste in scheda tecnica. Valutarne l’indicazione alla prescrizione sin dalla prima visita medica, soprattutto in caso di precedenti
anamnestici per fallimenti dietetici, presenza di comorbidità, elevato rischio di drop-out. Valutarne l’indicazione alla prescrizione in tempi successivi in caso di insufficiente decremento
ponderale o tendenza al recupero del peso. L’efficacia della farmacoterapia dovrebbe essere
valutata dopo i primi 3 mesi di trattamento. Se la perdita di peso è soddisfacente (> 5%
perdita di peso nei non diabetici e > 3% nei diabetici), la terapia dovrebbe essere continuata.
Il trattamento farmacologico dovrebbe invece essere sospeso nei non responders. Il monitoraggio dell’efficacia della farmacoterapia e di eventuali effetti collaterali deve essere eseguito dal medico specialista in collaborazione con il MMG
Rilevazione del peso e della circonferenza A ogni visita di controllo ambulatoriale effettuata dal medico o dal dietista o dall’infermiere
(valore soglia > 90%)
addominale
Gestione dell’ipertensione arteriosa
Nel paziente iperteso, rilevazione della pressione arteriosa a ogni visita medica di controllo.
Se valori inferiori al target terapeutico, evidenza di counseling sull’introito di sodio e/o modifica della terapia farmacologica (effettuata direttamente dallo specialista o mediante informativa al MMG). Valutazione delle complicanze (fundus oculi, microalbuminuria ecc.) in
co-gestione con il MMG
(continua)
78
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
7
(segue)
Tabella 7.5 Indicatori di processo nel trattamento dell’obesità e delle sue complicanze in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico
Indicatore
Specifiche
Gestione del diabete di tipo 2
Nel paziente diabetico, a ogni visita medica valutazione dei target terapeutici per Hb glicata,
pressione arteriosa, colesterolo LDL e altri previsti dalle cogenti Linee guida. Se compenso
insoddisfacente, evidenza di counseling nutrizionale e motorio e/o modifica della terapia
farmacologica (effettuata direttamente dallo specialista o mediante informativa al MMG).
Valutazione delle complicanze (fundus oculi, microalbuminuria, neuropatia diabetica ecc.)
in co-gestione con il MMG
Gestione della dislipidemia
Nel paziente dislipidemico non in terapia farmacologica valutare dopo 3 mesi dall’inizio del
trattamento per l’obesità il raggiungimento dei valori desiderabili (a seconda del rischio
cardiovascolare complessivo) di colesterolo totale, HDL, LDL, trigliceridi. In caso di mancato
raggiungimento degli stessi, valutare l’opportunità di una terapia farmacologica per l’obesità
(se decremento ponderale/riduzione della circonferenza addominale insufficiente) o di una
terapia farmacologica per la dislipidemia (secondo le cogenti Linee guida). Nel paziente dislipidemico in terapia farmacologica, rivalutare dopo 3 mesi dall’inizio della terapia i target
terapeutici e l’eventuale riduzione posologica/sospensione della terapia in caso di significativa riduzione ponderale o della circonferenza addominale. Se persiste dislipidemia, monitorare almeno annualmente i livelli di colesterolo LDL, HDL e trigliceridi e collaborare con
il MMG nella gestione della terapia
Gestione delle complicanze respiratorie
Nel paziente con OSAS, con o senza insufficienza respiratoria, si consiglia di valutare a ogni
visita di controllo la presenza di ipersonnia diurna e l’effettiva compliance ai dispositivi ventilatori notturni (c-PAP o b-PAP) ove prescritti. In caso di decremento/incremento ponderale il
paziente dovrà essere rinviato allo specialista pneumologo per una rivalutazione delle pressioni
di esercizio del dispositivo ventilatorio. In caso di insufficienza respiratoria è consigliata a ogni
visita di controllo la valutazione della saturazione periferica di ossigeno e della necessità/modifica dell’erogazione di ossigenoterapia mediante dispositivo portatile. Nel paziente affetto
da BPCO e/o asma bronchiale è opportuno valutare – direttamente o tramite consulenza pneumologica – l’opportunità di cicli di fisiokinesiterapia respiratoria o altri presidi terapeutici
Gestione delle complicanze
osteoarticolari
Nel paziente con complicanze osteoarticolari si raccomanda a ogni visita di controllo la valutazione dei livelli di dolore e di funzionalità articolare, nonché la compliance e l’effetto
sugli stessi degli interventi di riduzione della sedentarietà. In caso di mancato miglioramento
o addirittura peggioramento dei sintomi si consiglia consulenza fisiatrica e/o ortopedica,
sia per l’impostazione di una terapia specifica per la patologia, sia per la revisione degli
esercizi di attività motoria consigliabili
Gestione delle complicanze psichiatriche
Nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare o disturbi del tono dell’umore deve
essere presente in cartella evidenza dell’intervento da parte dello specialista psichiatra e/o
dello psicoterapeuta e/o della prescrizione di terapia antidepressiva. Il monitoraggio dell’efficacia della psicofarmacoterapia e di eventuali effetti collaterali deve essere eseguito
dal medico specialista in collaborazione con il MMG. Il medico specialista deve valutare –
in collaborazione con il MMG – l’effettiva adesione del paziente al programma proposto in
ambito psicologico-psichiatrico come parte integrante della gestione del paziente e rivalutare con l’equipe terapeutica eventuali modifiche dello stesso o coinvolgimento dei servizi
psichiatrici territoriali in caso di risposta inadeguata
Invio a livelli superiori di trattamento nei Dopo un follow-up massimo di 12 mesi, se la risposta è assente o insufficiente al trattamento
dell’obesità e delle sue complicanze e se BMI ≥ 35 kg/m2 (in presenza di complicanze) ovvero
poor responders
BMI ≥ 40 kg/m2 (in presenza di significativa riduzione della qualità di vita) considerare l’invio
a livelli superiori di trattamento:
(continua)
79
Ministero della Salute
(segue)
Tabella 7.5 Indicatori di processo nel trattamento dell’obesità e delle sue complicanze in ambito specialistico ambulatoriale. Target: tutti i pazienti con eccesso ponderale afferenti all’ambulatorio specialistico
Indicatore
Specifiche
• riabilitazione intensiva multidisciplinare in day-hospital
• riabilitazione intensiva multidisciplinare in degenza residenziale
• chirurgia bariatrica
secondo i criteri e le indicazioni appropriate definite dalle Linee guida cogenti (Società Italiana dell’Obesità per la riabilitazione metabolico-nutrizionale e Società Italiana di Chirurgia
Bariatrica) considerando anche il grado di autoefficacia del paziente, il livello di motivazione
e il rapporto rischio-beneficio
Valori soglia:
• evidenza della revisione di esito a 12 mesi dall’inizio del trattamento in almeno il 50%
delle cartelle
• invio a livelli superiori di trattamento in almeno il 15% dei pazienti aventi i requisiti per
gli stessi
BMI, indice di massa corporea; BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; CBT, terapia cognitivo-comportamentale; Hb, emoglobina; HDL, lipoproteine
a elevata densità; LDL, lipoproteine a bassa intensità; MMG, medico di medicina generale; OSAS, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno.
periodica degli esiti (audit) almeno in un campione rappresentativo, realisticamente configurabile nell’ordine del 15%, dei pazienti trattati.
Come ricordato in precedenza, 12 mesi di follow-up rappresentano il periodo minimo per valutare l’efficacia a lungo termine di un programma
per la perdita di peso. Tuttavia, una valutazione a
tempi più lunghi, ove possibile, sarebbe indicata
per valutare le migliori strategie di prevenzione
nei pazienti che tendono a recidivare in tempi
successivi.
Uno dei principali ostacoli allo svolgimento di
un audit sugli outcome in un setting specialistico
è rappresentato dall’elevata frequenza di drop-out
(circa 50% a 12 mesi e circa 80% a 3 anni nello
studio multicentrico italiano Quovadis). Il dropout non è necessariamente sinonimo di fallimento,
dal momento che una percentuale significativa
(16% nello studio Quovadis) sospende il trattamento ambulatoriale in quanto soddisfatta dei risultati raggiunti o ritenendo di essere in grado di
autogestirsi. Il recall dei pazienti andati incontro
a drop-out mediante intervista telefonica o que-
80
stionario postale è scarsamente attendibile in merito al dato “peso” (che tende a essere sottostimato), mentre non vi sono indicazioni in letteratura contrarie all’attendibilità di questionari o test
psicometrici sulla qualità di vita o sulle comorbidità autosomministrati.
Tuttavia, la scarsità di risorse umane ed economiche rende difficile ipotizzare un follow-up a distanza nei pazienti drop-out. Per quanto riguarda
la valutazione di outcome nella comorbidità, questo è sicuramente più semplice a realizzarsi per
quelle patologie ove gli indicatori di esito siano
rappresentati da dati bioumorali (come nel diabete
di tipo 2 o nelle dislipidemie) o da rilevazioni
strumentali di facile esecuzione (come nell’ipertensione arteriosa). Più difficoltosa è la valutazione
in ambito ambulatoriale degli esiti riguardanti le
patologie osteoarticolari, cardiovascolari, psichiatriche, respiratorie, valutabili mediante accertamenti strumentali costosi o comunque di difficoltosa esecuzione in un setting ambulatoriale
(test ergometrico da sforzo, polisonnografia ecc.),
ovvero mediante test di valutazione effettuati da
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
personale altamente specializzato quali psicologi,
fisioterapisti, medici fisiatri, che è difficile ipotizzare possano effettuare routinariamente valutazioni di esito a un elevato numero di pazienti
obesi quale è quello che afferisce al setting ambulatoriale. Di questi si parlerà più estesamente nel
prossimo paragrafo sul trattamento in regime di
degenza.
Una modalità di valutazione di outcome a lungo
termine innovativa e sicuramente rilevante per
il SSN è quella rappresentata dall’analisi dei costi
per la terapia farmacologica delle complicanze –
almeno quella a carico del SSN e di altre prestazioni, ambulatoriali o di degenza, inerenti le
complicanze dell’obesità. La progressiva informatizzazione delle prescrizioni farmacologiche,
l’utilizzo obbligatorio della tessera sanitaria regionale o nazionale per le prestazioni a carico
del SSN e l’informatizzazione delle schede di dimissione ospedaliera (SDO) rendono possibile
– nel rispetto della normativa della privacy –
l’elaborazione in forma anonima, da parte dei
Servizi di Epidemiologia delle singole ASL o regionali, dell’andamento della spesa inerente i pazienti affetti da obesità e afferenti ad ambulatori
specialistici identificati mediante il codice fiscale.
Sulla base dei dati di letteratura è ipotizzabile
che, dopo una prima fase di aumento dei costi
legati alle procedure diagnostico-terapeutiche,
nei pazienti trattati in modo efficace si abbia
una riduzione – o almeno una mancata progressione – dei costi inerenti le complicanze dell’obesità.
Di seguito sono riportati possibili indicatori di
outcome monitorabili mediante audit da parte
degli operatori degli ambulatori specialistici ovvero
dai servizi epidemiologici della ASL. I valori soglia
sono riferiti agli studi di esito della letteratura nazionale e internazionale in precedenza citati (Tabella 7.6).
7
Standard di processo e di outcome in regime
di degenza specialistica (acuzie e riabilitazione)
Acuzie
La degenza in regime di acuzie di pazienti affetti
da obesità, soprattutto di grado elevato, in strutture ospedaliere opportunamente attrezzate dal
punto di vista strumentale, strutturale, organizzativo e dotate delle adeguate competenze specialistiche e tecnico-assistenziali (vedi relativi capitoli
del presente documento) rappresenta uno dei cardini della gestione clinica del paziente obeso. Il
ricovero in regime di acuzie è da considerarsi appropriato:
a) indipendentemente dal livello di obesità, in
presenza di condizioni patologiche che mettano
il paziente a rischio di vita a breve termine;
b) nei casi di obesità di grado intermedio ed elevato qualora siano presenti comorbidità in
condizioni di scompenso clinico e richiedenti
un’intensità di cure non realizzabile in ambito
ambulatoriale o non realizzabile con i tempi e
l’efficacia da queste richieste;
c) nei casi di obesità di grado elevato con comorbidità sospette o accertate ovvero con disabilità
significativa che richiedano per la loro diagnosi
e la definizione dell’intervento terapeutico-riabilitativo accertamenti non effettuabili ambulatorialmente o valutazioni multidisciplinari
complesse.
Per quanto riguarda il caso (a) è opportuno che il
paziente affetto da obesità di grado elevato venga
indirizzato, possibilmente già in corso di triage da
parte degli operatori dei servizi di emergenza-urgenza territoriali, alle strutture ospedaliere di alta
specializzazione presenti sul territorio regionale ovvero, una volta stabilizzate le condizioni cliniche
del paziente in modo da consentirne il trasferimento, che venga colà trasferito. La mortalità e/o
81
Ministero della Salute
Tabella 7.6 Indicatori di outcome in ambito specialistico ambulatoriale monitorabili mediante audit
Indicatore
% casistica da valutare sul totale Valore soglia proposto
Esecutore
% drop-out a 12 mesi
≥ 15% dei pazienti arruolati
nell’anno solare
< 50% di tutti i pazienti
valutati in 1a visita
Equipe ambulatoriale
% pazienti con perdita di peso
≥ 5% del peso iniziale a 12 mesi
Idem
> 20% di tutti i pazienti
valutati in 1a visita
(intention-to-treat-analysis)
Idem
Idem
% pazienti con perdita di peso
≥ 10% del peso iniziale a 12 mesi
Idem
> 10% di tutti i pazienti
valutati in 1a visita
(intention-to-treat-analysis)
% pazienti con perdita di peso
≥ 15% del peso iniziale a 12 mesi
(se BMI iniziale ≥ 40 kg/m2)
≥ 15% dei pazienti con BMI
iniziale ≥ 40 kg/m2 arruolati
nell’anno solare
> 10% di tutti i pazienti
con obesità di 3 grado
valutati in 1a visita
(intention-to-treat-analysis)
Idem
% raggiungimento target terapeutici ≥ 15% dei pazienti affetti
nei pazienti obesi diabetici
da diabete di tipo 2 arruolati
(cfr. specifiche Linee guida)
nell’anno solare
Non inferiore a quello
previsto per il setting
ambulatoriale specialistico
dai documenti di riferimento
per la specifica patologia
Idem
% raggiungimento target terapeutici ≥ 15% dei pazienti affetti
nei pazienti obesi ipertesi
da ipertensione arteriosa
(cfr. specifiche Linee guida)
arruolati nell’anno solare
Idem
Idem
% raggiungimento target terapeutici ≥ 15% dei pazienti affetti
nei pazienti obesi dislipidemici
da dislipidemia arruolati
(cfr. specifiche Linee guida)
nell’anno solare
Idem
Idem
Valutazione della spesa
farmacologica a carico del SSN
> 90% della casistica arruolata
Riduzione media del 20%
della spesa per farmaci
a carico del SSN a 2 anni
dall’inizio della presa
in carico
Servizio epidemiologia
ASL o regionale
Valutazione altri costi
a carico del SSN
> 90% della casistica arruolata
Da definire mediante studi
prospettici controllati
Servizio epidemiologia
ASL o regionale
BMI, indice di massa corporea; SSN, Servizio Sanitaro Nazionale.
la morbidità associate a diverse procedure medicochirurgiche effettuate in pazienti affetti da obesità
di grado elevato sono significativamente superiori
a quelle di pazienti non obesi o affetti da gradi minori di obesità e con una maggiore durata dell’ospedalizzazione. Anche se non sono ancora disponibili studi controllati al proposito, è altamente
probabile che il miglioramento degli standard inerenti la gestione ospedaliera del paziente affetto da
obesità di grado elevato si ripercuota in una riduzione significativa della mortalità e della morbidità
82
degli stessi. È quindi auspicabile che, una volta
identificate le strutture ospedaliere ad alta specializzazione o comunque con i requisiti per la gestione
a ogni livello del paziente obeso, vengano effettuati
– oltre alle valutazioni inerenti gli indicatori di processo e di outcome inerenti la gestione clinica delle
condizioni richiedenti ospedalizzazione – anche
audit inerenti l’effettivo rispetto dell’invio preferenziale del paziente affetto da obesità di grado elevato con complicanze sia mediche sia chirurgiche
presso le suddette strutture, nonché l’effettivo ri-
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
spetto degli standard strutturali e organizzativi per
obesità all’interno delle stesse, per i quali si rimanda
ad altri capitoli del presente documento.
Per quanto riguarda i casi (b) e (c) il ricovero avviene generalmente in un reparto di medicina. La
valutazione riguarda indicatori di processo, indicatori di appropriatezza e indicatori di outcome.
Questi sono stati definiti dall’IRCCS Istituto Au-
7
xologico Italiano, struttura di eccellenza riconosciuta dal Ministero della Salute per la diagnosi,
il trattamento e la riabilitazione dell’obesità, e riportati nella Tabella 7.7.
Per quanto riguarda gli indicatori di appropriatezza, sono stati definiti criteri di appropriatezza
del ricovero in regime di acuzie elencati nella Tabella 7.8.
Tabella 7.7 Indicatori di processo nel ricovero in regime di acuzie per pazienti adulti (Medicina) nel PDTA (Protocollo
Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Indicatore
Durata media della degenza
Rispetto dei protocolli diagnostico-terapeutico-assistenziale (codificati) inerenti l’obesità e le sue principali comorbidità
Specificità di diagnosi (% di ricoveri con codice ICD-IX CM che termini per .9)
Tempo di attesa per il trasferimento in Riabilitazione (se applicabile)
Valore soglia
≤ 8,5 giorni
> 90%
< 10%
≤ 2 giorni
Tabella 7.8 Criteri di appropriatezza per il ricovero in regime di acuzie di pazienti affetti da obesità nel PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano
BMI ≥ 45 kg/m2 anche in assenza di complicanze documentate
BMI compreso tra 35 a 44,9 kg/m2 in presenza di almeno 1 comorbidità tra quelle sottoelencate (nei pazienti con età > 65
anni anche livelli più lievi di comorbidità):
• Diabete mellito in scompenso metabolico cronico, valutato con i livelli di HbA1c (> 8%) o con complicanze
• Insufficienza renale cronica, valutata con i livelli di proteinuria e creatinina
• Cirrosi epatica
• Ulcere vascolari croniche
• Broncopatia cronica e BPCO, insufficienza respiratoria cronica, fibrosi polmonare, sindrome bronchiectasica, esiti di TBC, asma bronchiale
(intrinseco/misto)
• OSAS già diagnosticate o associate a malattia respiratoria cronica o fortemente sospette sulla base dei criteri AIPO-AIMS
• Cardiopatia ischemica, dilatativa, ipertrofica, valvolare, ipertensiva con frazione di eiezione ridotta (< 40%) o sintomatologia fortemente
suggestiva (angor, dispnea dopo sforzi lievi, edemi) per insufficienza cardiaca
• Episodi di tachicardia ventricolare
• Patologie osteoarticolari a elevato impatto sulle ADL
• Psicopatologie gravi con possibilità di intervento in acuto ed eventuale possibilità di intervento mediante programma riabilitativo
• Obesità ipotalamica (esiti neurochirurgici in regione ipotalamo-ipofisaria)
• Recente (< 30 giorni) intervento cardiochirurgico di qualunque tipo
• Recente scompenso cardiaco
• Recente infarto miocardico
• Recente PTCA
• Recente intervento neurochirurgico ortopedico
• Valvulopatia con indicazione chirurgica associata a obesità con necessità di riduzione ponderale prima dell’intervento
Pazienti con BMI compreso tra 40 e 44,5 kg/m2 già in trattamento ambulatoriale senza risultati significativi
Nota: i criteri elencati vengono utilizzati anche per l’appropriatezza del ricovero in Riabilitazione.
ADL, attività della vita quotidiana; AIMS, Associazione Italiana Medicina del Sonno; AIPO, Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri: BMI, indice di
massa corporea; BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; HbA1c, emoglobina glicata; OSAS, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno; PTCA, angioplastica coronarica transluminale percutanea; TBC, tubercolosi.
83
Ministero della Salute
Tabella 7.9 Indicatori di appropriatezza nel ricovero in regime di acuzie (Medicina) nel PDTA (Protocollo DiagnosticoTerapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Indicatore
Valore soglia proposto
• Rispetto dei criteri di appropriatezza per il ricovero
• Specificità di diagnosi (% di ricoveri con codice ICD-IX CM che termini per .9)
> 90%
< 10%
Tabella 7.10 Possibili indicatori di esito nel ricovero in regime di acuzie (Medicina)
Indicatore
Valore soglia proposto
• Nuovo ricovero in acuzie entro 30 giorni dalla dimissione
• Nuovo ricovero in acuzie entro 12 mesi dalla dimissione
Gli indicatori di appropriatezza sono quindi definiti nella Tabella 7.9.
Per quanto riguarda gli indicatori di esito si può
fare riferimento al lavoro di Migliore et al., ove si è
evidenziato che i pazienti affetti da obesità grave o
complicata vanno incontro in media a 0,8 ricoveri
in regime di acuzie/anno. Si possono pertanto ipotizzare due livelli di indicatori di esito, con monitoraggio a cura dei Servizi epidemiologici della ASL
o regionali: il tasso di riospedalizzazione in regime
di acuzie a 30 giorni, frequentemente utilizzato in
letteratura come indicatore di efficienza delle cure
a breve termine, e il tasso di riospedalizzazione in
regime di acuzie a 12 mesi come indicatore di efficacia a lungo termine. Ovviamente, quest’ultimo
indicatore risentirà anche della qualità delle cure
fornite nel periodo postricovero e può pertanto essere utilizzato come indicatore di qualità generico
per le diverse tipologie di cura (ricovero riabilitativo,
chirurgia bariatrica ecc.) [Tabella 7.10].
Da sottolineare come il lavoro di Migliore et al.
metta anche in evidenza un aumento della durata
media delle degenze nei pazienti obesi a causa
della coesistenza di polipatologia e di una maggiore incidenza di complicanze di interventi chirurgici. Questo induce alla considerazione della
necessità della revisione delle tariffe dei DRG (Di-
84
< 5%
< 80%
sease Related-Groups) quando concomiti una condizione di obesità grave per adeguare i rimborsi
all’aumentato assorbimento di risorse.
Riabilitazione
Negli ultimi anni si è resa più evidente la relazione,
indipendente dalla presenza di patologie croniche,
tra BMI e diversi gradi di disabilità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’obesità è al sesto posto tra le cause di disabilità a
livello mondiale e sono stati identificati – utilizzando la classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) diversi fattori chiave. Gli obesi vanno inoltre incontro a una riduzione significativa del numero
di anni esenti da disabilità (5,7 per gli uomini e
5,02 per le donne).
Ne consegue un aumento del numero di richieste
di intervento, soprattutto riabilitativo e sociale,
che affiancano i tentativi di trattamento medico
(dietoterapia, farmaci e chirurgia bariatrica). Si è
visto, infatti, che la sola perdita di peso non è
sufficiente a recuperare le disabilità presenti e
quindi l’essere stato obeso è un fattore inibitorio
per il recupero funzionale completo.
Negli ultimi anni il tasso di mortalità si è ridotto,
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
ma la possibilità di una disabilità persistente è aumentata. Alcuni studi hanno dimostrato che l’obesità aumenta il rischio di sviluppare disabilità gravi
indipendentemente dalla presenza di comorbidità
e riduce la possibilità di recupero di una disabilità
severa. È infine da sottolineare come la prevalenza
dell’obesità stia aumentando in misura notevole
anche fra gli anziani (> 65 anni), fascia di età in
cui gli effetti sulle disabilità dell’obesità e dell’invecchiamento finiscono per sommarsi.
Nello specifico, la riabilitazione del paziente obeso
o con disturbo del comportamento alimentare è
basata, secondo i principali documenti di riferimento sull’argomento quali le Linee guida, su:
• approccio multidisciplinare integrato che coinvolge diverse figure professionali (fisiatri, internisti, endocrinologi, cardiologi, pneumologi,
gastroenterologi, nutrizionisti, psichiatri, psicologi, dietisti, fisioterapisti e infermieri) che
attuano differenti metodi d’intervento;
• gestione a più livelli assistenziali (setting multipli) dall’ambulatorio a lungo temine alla riabilitazione intensiva (semiresidenziale e residenziale) in relazione agli stati gravi di malnutrizione sia per eccesso che per difetto (es. esiti
di chirurgia), alle fasi di instabilità e scompenso
delle comorbidità somatiche e psichiatriche.
In particolare, dalla Consensus SIO-SISDCA 2009
si legge: “La riabilitazione intensiva rappresenta
un nodo cruciale nella rete assistenziale quando:
a) il livello di gravità e/o comorbidità medica e/o
psichiatrica è elevato; b) l’impatto sulla disabilità
e sulla qualità della vita del paziente è pesante; c)
gli interventi da mettere in atto diventano numerosi ed è opportuno – per ragioni cliniche ed economiche – concentrarli in tempi relativamente
brevi secondo un progetto coordinato; d) precedenti percorsi a minore intensità non hanno dato
i risultati sperati e il rischio per lo stato di salute
del paziente tende ad aumentare”.
7
In relazione alla tipologia degli interventi, l’applicazione di una corretta riabilitazione metabolica
presenta alcuni problemi organizzativi, quali per
esempio il monitoraggio dell’appropriatezza dei
ricoveri, che passa attraverso un corretto inquadramento delle disabilità del paziente e delle sue
necessità socioassistenziali.
La Consensus SIO-SISDCA 2009 ha anche proposto uno strumento per la valutazione dell’appropriatezza dell’accesso in riabilitazione metabolico-nutrizionale: la Scheda SIO di Appropriatezza della Riabilitazione Metabolico Nutrizionale
Psicologica del paziente obeso (SSA-RMNP-O).
Il cut-off di appropriatezza per i ricoveri in riabilitazione intensiva in regime di degenza ordinaria
corrisponde a un punteggio uguale o maggiore a
25; per i ricoveri in regime di day-hospital a un
punteggio uguale o maggiore di 20. Per quanto
riguarda l’IRCCS Istituto Auxologico Italiano, i
criteri di appropriatezza definiti per il ricovero in
acuzie valgono anche per l’accesso in riabilitazione
intensiva.
Per l’avvio degli interventi riabilitativi è essenziale
la valutazione delle disabilità presenti che si manifestano in diversi ambiti, nella qualità della vita in
generale (Quality of Life, QoL), nelle attività quotidiane e in quelle funzionali (Activities of Daily Life,
Instrumental Activities of Daily Life, ADL/IADL).
Non esiste, purtroppo, una scala di uso comune
per la valutazione delle disabilità correlate. Sulla
base della letteratura, la Consensus SIO-SISDCA
2009 ha proposto come strumento il test SIO per
le disabilità obesità-correlate (TSD-OC). Ulteriori
studi saranno comunque necessari per mettere a
punto nuove scale di valutazione della disabilità
correlata all’obesità, che tengano conto delle diverse fasce di età, del grado stesso di malattia e
delle complicanze eventualmente presenti. In particolare, dovranno essere messi a punto criteri di
valutazione della disabilità, che possano anche re-
85
Ministero della Salute
gistrare cambiamenti a breve termine del paziente
indotti dal trattamento/riabilitazione.
Al momento, vengono utilizzati presso le strutture
che si occupano di riabilitazione integrata dell’obesità strumenti sviluppati per altre patologie,
sia di tipo soggettivo (qualità della vita, sensazione
di fatica ecc.), ma anche parametri funzionali motori oggettivi di facile raccolta (test di salita della
scala, 6-minute-walking-test ecc.), non invasivi e
di basso costo. Ulteriori test potranno auspicabilmente essere sviluppati utilizzando il modello dell’ICF per la valutazione delle disabilità basata sul
modello bio-psico-sociale, che può rappresentare
un ausilio alla gestione integrata degli aspetti clinici
e sociali del percorso riabilitativo.
Stante la complessità dell’intervento riabilitativo
nei vari ambiti nei quali si sviluppa la disabilità
inerente l’obesità (motorio, psicologico, respiratorio, metabolico-nutrizionale ecc.), il documento
della Consensus SIO-SISDCA ritiene che la riabilitazione debba configurarsi come intensiva (cod.
56 o ex art. 26), in quanto la riabilitazione estensiva
utilizzata per altri ambiti (es. geriatrico, ortopedico)
non consente l’approccio multidimensionale e l’intensità di cura (almeno 180 minuti/die) necessari.
La riabilitazione intensiva può essere erogata in
Tabella 7.11 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione metabolico-nutrizionalepsicologica dell’obesità secondo la Consensus SIO-SISDCA
Intervento nutrizionale
• Regimi dietetici che rispettino i canoni della dieta mediterranea e siano in grado di assicurare un apporto calorico pari al metabolismo
basale ± 10%
• L’apporto proteico sarà pari a 0,8-1 g/kg di peso corporeo ideale
• I carboidrati, prevalentemente di tipo complesso, forniranno il 65-70% dell’apporto calorico non proteico
• La restante quota energetica sarà coperta dai grassi, di cui meno del 30% di tipo saturo
• Nei pazienti ipertesi sarà ridotto l’apporto di sodio a meno di 3 g/die
• Laddove non siano presenti segni di malnutrizione per difetto e in ambito ospedaliero (riabilitazione intensiva di tipo residenziale) è
possibile adottare schemi terapeutici con un più basso apporto di calorie (low calorie diets, LCD)
Programma di riabilitazione motoria e ricondizionamento fisico, finalizzato a:
• Restituire la mobilità articolare
• Migliorare la performance cardiocircolatoria e respiratoria
• Aumentare la spesa energetica
• Modificare il rapporto massa magra/massa grassa
• Riattivare le strutture muscolari divenute ipotoniche e ipotrofiche per l’inattività
Interventi educazionali (educazione terapeutica), diretti a:
• Informare sui comportamenti corretti nell’ambito dell’alimentazione e dell’attività fisica
• Promuovere una gestione utile dello stress e dell’ansia
• Allenare alla gestione e all’autocontrollo dell’attività fisica, dell’alimentazione, dei momenti di stress e ansia, di semplici parametri clinici
(glicemia, pressione arteriosa)
• Aumentare il senso di responsabilità nella malattia e nella cura (illness behaviour)
• Favorire la compliance terapeutica
Interventi psicologici, con applicazione di:
• Tecniche cognitivo-comportamentali di automonitoraggio, controllo degli stimoli, ristrutturazione cognitiva, gestione delle ricadute, assertive training, problem solving
• Danza-movimento-terapia
• Training autogeno o di rilassamento
• Intervista motivazionale
Terapia farmacologica per l’obesità e per le sue complicanze metaboliche e psichiatriche
86
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
regime di day-hospital ove realizzabile dal punto
logistico e qualora le condizioni generali del paziente lo consentano, oppure in regime di riabilitazione intensiva residenziale.
Il documento della Consensus SIO-SISDCA indica
una serie di standard qualitativi di processo (in
parte sotto forma di obiettivi, in parte sotto forma
di procedure terapeutiche) per la fase sia diagnostica (ove non presenti i criteri di appropriatezza
per il ricovero in regime di acuzie) sia di trattamento. Dal momento che la Consensus SIO-SISDCA (Tabella 7.11) fa riferimento ai soli indicatori inerenti la riabilitazione metabolico-nutrizionale-psicologica, per quanto riguarda gli indicatori
inerenti la riabilitazione osteoarticolare, cardiologica e respiratoria si fa invece riferimento a quelli
del PDTA (Protocollo Diagnostico-TerapeuticoAssistenziale) in essere presso l’IRCCS Istituto Auxologico Italiano. A quest’ultimo si fa riferimento
anche per gli indicatori di outcome a breve termine
(Tabella 7.12).
Gli indicatori di processo sono pertanto rappresentati dal rispetto dei sopracitati protocolli diagnostico-terapeutico-assistenziali inerenti l’obesità
e le sue principali comorbidità (valore soglia proposto: > 90%).
Per quanto riguarda gli indicatori di esito che valutino l’efficacia del percorso riabilitativo effettuato, per lo meno a breve e medio termine, nella
Tabella 7.13 ne vengono suggeriti alcuni.
Essendo gli strumenti valutativi della disabilità
attualmente in uso scarsamente specifici e sensibili
per il paziente obeso, la condivisione su scala nazionale degli indicatori di esito e di processo con
la relativa valorizzazione specifici per l’obesità è
auspicabile. Sulla base della letteratura, il TSDOC è stato proposto sia per la valutazione in ingresso sia nella fase di follow-up riabilitativo.
Il paziente obeso deve essere seguito con regolarità
all’interno di un follow-up ambulatoriale per ve-
7
rificare l’adesione al programma proposto. Gli
obiettivi del follow-up sono:
• mantenimento/calo del peso;
• controllo delle abitudini alimentari e dell’attività fisica;
• miglioramento delle disabilità;
• riduzione delle complicanze, della terapia farmacologica e dei ricoveri.
La frequenza del follow-up non dovrà essere inferiore a quella prevista per il setting ambulatoriale
specialistico. Nel caso in cui il paziente risieda a
distanza dalla struttura ove è stato effettuato l’intervento riabilitativo, lo stesso dovrà essere indirizzato per il follow-up a centri specialistici accreditati nella zona di residenza.
Per quanto riguarda gli indicatori di esito a lungo
termine (12 mesi o superiore), questi non sono
citati né dal documento di Consensus né dal PDTA
dell’Istituto Auxologico Italiano. Si ritiene opportuno, quindi, fare riferimento a quanto già suggerito per gli altri livelli di trattamento, in particolare – ove realizzabile – la valutazione dell’andamento della spesa farmacologica e dei ricoveri
medico-chirurgici in acuzie. Resta aperta la questione dei ricoveri ripetuti in ambito riabilitativo.
Da notare come la Scheda SIO di Appropriatezza
della Riabilitazione Metabolico-Nutrizionale-Psicologica del paziente obeso (SSA-RMNP-O) preveda criteri più severi per i ricoveri successivi al
primo (–5 punti per un secondo ricovero riabilitativo e –10 punti per i successivi). Gli autori ritengono che l’adesione a un regolare e documentato follow-up ambulatoriale debba costituire criterio preferenziale per ulteriori cicli riabilitativi
dopo il primo e che dopo un massimo di tre cicli
riabilitativi, ove non vi siano controindicazioni
assolute (età, comorbidità psichiatriche, elevatissimo rischio anestesiologico), il paziente debba
essere indirizzato a un percorso chirurgico-bariatrico.
87
Ministero della Salute
Tabella 7.12 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione cardiologica, pneumologica,
del diabete di tipo 2, osteoarticolare, postchirurgia bariatrica, dei disturbi del comportamento alimentare
associati all’obesità secondo il PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto
Auxologico Italiano
Riabilitazione nel paziente obeso con cardiopatia
Obiettivi
• Riduzione ponderale, della massa grassa, del giro vita (per soggetti con BMI < 35 kg/m2)
• Miglioramento del profilo di rischio (glicemia, insulino-resistenza, profilo lipidico)
• Miglioramento del controllo pressorio e della FC (per soggetti non in terapia beta-bloccante)
• Miglioramento della tolleranza allo sforzo
• Miglioramento della risposta cronotropa all’esercizio
• Miglioramento della qualità della vita
• Riduzione del rischio di progressione della malattia
Interventi
• Attività motorie: tipo e quantità di attività motoria definita mediante Physical Activity Scale, Clinical Global Impression (CGI) relativa
alle limitazioni funzionali in rapporto al movimento, Visual Analogue Scale (VAS), test ergometrico; intensità dello sforzo basato sulla riserva cronotropa valutata durante il test ergometrico
• Ottimizzazione della terapia farmacologica cardiovascolare
• Incontri di educazione sanitaria
• Supporto psicologico
Riabilitazione nel paziente obeso con complicanze pneumologiche
Obiettivi
• Perseguire la stabilità clinica
• Limitare le conseguenze fisiologiche e psicologiche della malattia respiratoria
• Ridurre i fattori di rischio e dominare la progressione
• Ottimizzazione dei farmaci, ossigenoterapia e prescrizione CPAP o ventilazione non invasiva
• Migliorare l’autonomia motoria e la disabilità
• Migliorare la tolleranza all’esercizio fisico
• Attivazione di sedute educazionali per la gestione domiciliare
• Definizione di protocolli riabilitativi e dietetici volti all’ottimizzazione del peso corporeo
Interventi
• Interventi sulle modificazioni nello stile di vita, in particolare:
- riduzione/sospensione del fumo
- attività fisica controllata
- partecipazione attiva alla terapia (educazione del paziente all’impiego ottimale dei farmaci)
- prevenzione (educazione sanitaria su continuità della terapia, situazioni da evitare)
- misure di igiene del sonno
• Per i pazienti affetti da disturbi respiratori del sonno le indicazioni riabilitative dipendono dal quadro di OSAS diagnosticato e comprendono:
- misure di igiene del sonno
- ventiloterapia con CPAP/BiPAP
- utilizzo di protesi ortodontiche
- valutazione e preparazione a interventi di chirurgia bariatrica
- valutazione e preparazione a interventi di chirurgia ORL e/o maxillo-facciale
• In caso di associazione con BPCO o asma:
- trattamento farmacologico basato su farmaci di fondo che devono essere assunti quotidianamente e per lungo tempo per ottenere e
mantenere il controllo sull’infiammazione bronchiale e sull’ostruzione
- supplementazione di O2 e ventilazione meccanica non invasiva possono essere strumenti di ausilio durante il riallenamento allo sforzo
Riabilitazione nel paziente obeso con diabete di tipo 2
Obiettivi
• Mantenere la perdita di peso raggiunta, anche se modesta, per un lungo periodo
• Praticare regolare attività fisica (150’/settimana) a carico medio (50% della massima FC)
(continua)
88
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
7
(segue)
Tabella 7.12 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione cardiologica, pneumologica,
del diabete di tipo 2, osteoarticolare, postchirurgia bariatrica, dei disturbi del comportamento alimentare
associati all’obesità secondo il PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto
Auxologico Italiano
• Mantenere un adeguato controllo della pressione arteriosa con valori ≤ 130/85 mmHg
• Mantenere una riduzione dei livelli di glicemia basali (90-130 mg/dl) e postprandiali (< 180 mg/dl), dell’HbA1c (< 7%), colesterolo LDL
(< 100 mg/dl), colesterolo HDL (> 40 mg/dl negli uomini, > 50 mg/dl nelle donne) e trigliceridi (< 150 mg/dl)
Interventi
• Educazione nutrizionale
• Educazione sanitaria con aspetti di sicurezza del paziente (l’autocontrollo della glicemia, la conoscenza dei farmaci utilizzati in particolare
per la terapia insulinica, le emergenze metaboliche e le possibili complicanze a lungo termine)
• Ricondizionamento fisico con indicazioni alla gestione dell’attività fisica nel diabetico ma anche a eventuali altre patologie presenti
• Supporto psicologico
Riabilitazione nel paziente obeso con complicanze osteoarticolari
Obiettivi
• Recupero nell’autonomia delle attività della vita quotidiana
• Riduzione delle quote algiche a carico dei distretti interessati
Interventi
• Mobilizzazione attiva dell’articolazione per recupero articolarità
• Potenziamento muscolatura arti superiori, cingolo pelvico e arti inferiori
• Potenziamento muscolare erettori rachide e addominali
• Correzione di eventuali deficit di equilibrio e coordinazione
• Eventuali terapie fisiche a scopo antalgico-antiflogistico
• Training di miglioramento dello schema di deambulazione, ginnastica posturale
• Esercizi per il miglioramento del controllo propriocettivo
• Esercizi di allungamento muscolare, massoterapia, attività aerobica
• Bendaggio elastocompressivo degli arti inferiori
• Linfodrenaggio manuale o strumentale
Riabilitazione nel paziente obeso postchirurgia bariatrica
Obiettivi
• Prevenzione e correzione della malnutrizione calorico-proteica e di micronutrienti
• Prevenzione e correzione di ipotonia/ipotrofia muscolare da perdita di massa magra
• Correzione dei pattern maladattativi alimentari
• Prevenzione e terapia del cosiddetto “post-surgical eating avoidance disorder” (vomito autoindotto, eccessiva restrizione dietetica mirata
al raggiungimento e al mantenimento di un peso inferiore rispetto a quello atteso)
• Rinforzo della capacità di coping da parte del paziente alle modifiche a lungo termine del pattern alimentare e motorio
• Miglioramento e prevenzione della psicopatologia dovuta a una variazione repentina dell’immagine corporea
Interventi
• Terapia nutrizionale individualizzata con graduale svezzamento da un’alimentazione semiliquida a un’alimentazione semisolida e successivamente solida (interventi restrittivi gastrici) ovvero con contenuto idrico, in macro- e micronutrienti e carico osmolare idoneo a
ridurre la diarrea da malassorbimento e il rischio di squilibri idro-elettrolitici (interventi malassorbitivi) più supplementazioni nutrizionali
per os o, nei casi più gravi, nutrizione artificiale per via enterale o parenterale
• Counseling nutrizionale individuale
• Gruppi educazionali
• Diario alimentare e dei sintomi gastrointestinali
• Controlli bioumorali e strumentali
• Integrazioni proteiche, vitaminiche, minerali
• Ricondizionamento motorio e fisiokinesiterapia atta alla prevenzione della perdita di massa magra metabolicamente attiva
• Ricondizionamento cardiorespiratorio
• Counseling psicologico di supporto
• Psicoterapia individuale, psicofarmacoterapia (ove indicato)
(continua)
89
Ministero della Salute
(segue)
Tabella 7.12 Standard qualitativi di processo nella fase di trattamento nella riabilitazione cardiologica, pneumologica,
del diabete di tipo 2, osteoarticolare, postchirurgia bariatrica, dei disturbi del comportamento alimentare
associati all’obesità secondo il PDTA (Protocollo Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto
Auxologico Italiano
Riabilitazione nel paziente obeso con associato disturbo del comportamento alimentare NAS (tipo binge-eating disorder o altri)
Obiettivi
• Favorire il recupero funzionale fisico, psichico e metabolico del paziente con obesità di grado medio-elevato complicata da disturbo del
comportamento alimentare, che possa permettere, accanto alla riduzione del rischio cardiovascolare e metabolico, la rimozione di possibili
fattori perpetuanti, favorenti e scatenanti la condizione di disturbo del comportamento alimentare, in particolare nell’errata restrizione
dietetica e negli stati emotivi (emotional eating)
• Aumentare la motivazione del paziente al trattamento, in particolare al recupero di abitudini alimentari fisiologiche e alla partecipazione
alla terapia
• Fornire le competenze per il controllo delle crisi alimentari compulsive
• Fornire educazione su alimentazione e adeguati pattern nutrizionali
• Correggere i pensieri disfunzionali, le attitudini e le emozioni negative strettamente legate alla perpetuazione del disturbo alimentare
• Intervenire su fattori di comorbilità psichiatrica eventualmente presenti
• Trattare e ove possibile risolvere le comorbidità mediche
• Offrire counseling mirato a prevenire le ricadute
• Determinare un cambiamento significativo e duraturo nello stile di vita, applicando strategie cognitivo-comportamentali per il controllo
del peso corporeo che consentano di sviluppare metodologie operative per modificare l’atteggiamento mentale
• Prevenire le recidive del recupero ponderale mediante l’analisi delle situazioni a elevato rischio di perdita del controllo e l’acquisizione
di specifiche abilità
• Operare una ristrutturazione cognitiva in merito all’accettazione di un peso “ragionevole” compatibile con un buono stato di salute
anche se non necessariamente corrispondente ai criteri estetici propugnati dai mass-media
Interventi
• Stesura “piramide dell’ansia da cibo”
• Pasto assistito con dietista
• Elaborazione dietoterapia speciale con inserimento graduale degli alimenti maggiormente legati alle compulsioni
• Counseling nutrizionale individuale
• Discussione diario di automonitoraggio del comportamento alimentare
• Psicoterapia individuale
• Gruppi psicoeducazionali
• Colloqui psichiatrici
• Psicofarmacoterapia
• Fisioterapia e attività motoria
• Lavoro sull’immagine corporea con tecniche varie (es. Feldenkreis, danza-terapia ecc.)
BiPAP, ventilazione a pressione positiva intermittente; BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; CPAP, pressione positiva continua; FC, frequenza cardiaca;
HbA1c, emoglobina glicata; HDL, lipoproteine a elevata densità; LDL, lipoproteine a bassa densità; OSAS, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno.
Riabilitazione metabolica dell’obesità
infanto-giovanile
Essendo l’obesità infanto-giovanile di competenza
pediatrica, si rimanda alle Linee guida della Società
Italiana di Pediatria per la definizione dei percorsi
e dei livelli di intervento a livello ambulatoriale.
Di seguito si riporta quanto previsto per tale condizione nel PDTA dell’IRCCS Istituto Auxologico
Italiano per il setting riabilitativo metabolico.
90
Percorso terapeutico-riabilitativo dell’obesità
infanto-giovanile
Il programma di intervento prevede due momenti
fondamentali:
• una fase diagnostica e valutativa, relativa all’obesità e alle patologie associate, che comprende:
- valutazione clinica e strumentale generale,
- valutazione specifica dello stato nutrizionale,
- valutazione della funzionalità motoria,
7
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
Tabella 7.13 Indicatori di esito nella riabilitazione del paziente obeso secondo la Consensus SIO-SISDCA e il PDTA
(Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Obiettivo
Indicatore
Migliorare lo stato di nutrizione
Peso, BMI, circonferenza addominale, composizione corporea, comportamento alimentare
Recupero funzionale:
performance fisica in generale,
segmentale o d’organo, recupero
delle disabilità presenti
• Scale specifiche di performance fisica:
- resistenza (6-minute-walking-test )
- percezione dello sforzo (scala di Borg)
- forza: la dinamometria (hand-grip dynamometry ) consente di valutare l’esistenza di sarcopenia e gli effetti della perdita di peso e dell’efficacia della riabilitazione su questi indicatori
- flessibilità e mobilità articolare: test di flessione del tronco e dell’anca, mobilità articolare
del cingolo scapolo-omerale (flessione, estensione, abduzione)
• Scale di misura della disabilità:
- ADL/IADL
- TSD-OC
Migliorare lo status psichico
• Test specifici di valutazione dei disturbi dell’alimentazione, disturbi dell’immagine del corpo,
indici plurimi di psicopatologia:
- disturbi dell’alimentazione [es. Eating Disorder Examination (EDE-12.0D), Binge Eating Scale
(BES)]
- ansia [es. State Trait Anxiety Inventory (STAI X1, STAI X2)]
- depressione [es. Beck Depression Inventory (BDI)]
- disturbi dell’immagine del corpo [es. Body Uneasiness Test (BUT)]
- declino cognitivo [es. Mini-Mental State Examination (MMSE)]
- profili e disturbi di personalità [es. Millon Clinical Multiaxial Inventory (MCM-III), Cloninger
Temperament and Character Inventory (TCI)]
- indici plurimi di psicopatologia [es. Derogatis Symptom Check List (SCL90R)]
Migliorare la qualità della vita
Questionari specifici o validati in soggetti obesi: Obesity Related Well-Being (ORWELL 97), Psychological General Well Being Index (PGWBI) e SF-36 Health Survey
Migliorare il controllo della glicemia
Glicemia, HbA1c, microalbuminuria
Migliorare il profilo lipidico
Colesterolo LDL, trigliceridi
Migliorare il rischio cardiovascolare
globale
Carte di rischio cardiovascolare
Migliorare il quadro
cardiocircolatorio
Pressione arteriosa, frequenza cardiaca, test ergometrico
Migliorare la funzionalità
respiratoria
6-minute-walking-test, saturimetria, emogasanalisi arteriosa, spirometria
ADL, Activities of Daily Life; BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; IADL, Instrumental Activities of Daily Life; LDL, lipoproteine a
bassa densità; TSD-OC, test SIO per le disabilità obesità-correlate.
- valutazione del profilo psicologico e/o neuropsichiatrico;
• programma d’intervento riabilitativo, composto da:
- intervento nutrizionale sia sul paziente sia,
dove possibile, con i familiari (corsi di educazione alimentare, questionari di valutazione delle conoscenze alimentari pre-/post-
intervento, dietoterapia, incontri individuali
e di gruppo con nutrizionista e/o dietista)
finalizzato alla riduzione lenta e progressiva
del BMI, a mantenere la massa magra e a
instaurare un corretto e duraturo comportamento alimentare (sia da parte del paziente
sia della famiglia),
- programma di rieducazione funzionale mo-
91
Ministero della Salute
Tabella 7.14 Indicatori di esito nella fase di trattamento inerente la riabilitazione dell’obesità in età infanto-giovanile
nel PDTA (Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Obiettivi
Indicatore
BMI < 82° percentile
BMI
Circonferenza vita < 90° percentile
Circonferenza vita
Normalizzazione dei parametri metabolici
Glicemia, insulinemia, quadro lipidico, uricemia, ALT, VES,
proteina C reattiva
Normalizzazione della pressione arteriosa
Pressione arteriosa < 95° centile
Mantenimento della perdita di massa grassa
Plicometria tricipitale, BIA
Mantenimento di un adeguato comportamento alimentare
Valutato con il diario alimentare
Mantenimento di adeguata attività motoria
30’ di attività fisica moderata/die (tutti) + 3 sessioni settimanali
di 20’ di attività moderato-intensa (solo adolescenti)
Miglioramento della qualità di vita
Questionari psicometrici
Risoluzione di eventuali disturbi del sonno
Epworth Sleepiness Scale (Vignatelli)
ALT, alanina aminotransferasi; BIA, valutazione della composizione corporea; BMI, indice di massa corporea; VES, velocità di eritrosedimentazione.
toria [informazione sulla corretta attività fisica, attività di palestra e attività aerobica all’aria aperta (iniziando con bassi livelli di intensità, quindi non oltre il 60% della frequenza cardiaca massimale o il 50-55% della
VO2max), fisiokinesiterapia], avente lo scopo
di aumentare il dispendio energetico, potenziare la massa muscolare, recuperare la mobilità articolare e migliorare la performance
cardiorepiratoria, nonché di rendere consapevoli il paziente e la sua famiglia circa la
necessità di mantenere nel tempo un’adeguata attività fisica,
- interventi psicopedagogici e psicoterapeutici,
da programmare secondo l’età del paziente
sia attraverso il coinvolgimento della famiglia
sia mediante tecniche individuali e/o di
gruppo (terapia comportamentale a prevalente coinvolgimento familiare, diario alimentare, automonitoraggio, controllo degli
stimoli, rinforzo positivo, ristrutturazione
cognitiva, training autogeno, danza-movimento-terapia), con lo scopo di migliorare
92
l’autostima e il rapporto con la propria immagine corporea, di contribuire al controllo
e alla gestione dell’alimentazione, nonché di
aumentare la consapevolezza della malattia
e la compliance al percorso di cura e riabilitazione (sia del paziente sia della famiglia),
- nursing riabilitativo svolto da infermieri,
operatori sociosanitari e terapisti occupazionali allo scopo di migliorare le risposte dei
pazienti alla disabilità, a modificare gli stili
di vita morbigeni, incrementare i compensi
ambientali e sociali, potenziare le capacità
funzionali e relazionali, ottimizzando di conseguenza la partecipazione ai programmi riabilitativi (Tabella 7.14).
Per quanto riguarda gli indicatori di esito è utilizzato presso la Divisione di Riabilitazione Auxologica dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano un
sistema a punteggio graduato. Tale sistema stabilisce un livello soglia per definire il raggiungimento di un livello di soddisfacente riabilitazione,
sulla base del cambiamento pre-post dei parametri
di cui sopra (Tabella 7.15).
Parte Prima – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
7
Tabella 7.15 Punteggi specifici per i singoli indicatori di riferimento e griglia riassuntiva di efficacia riabilitativa per
l’obesità infanto-giovanile nel PDTA (Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale) dell’IRCCS Istituto
Auxologico Italiano
Parametro
Punteggi
FSS (Fatigue Severity Scale)
–1:
0:
+1:
+2:
SCT (Stair Climbing Test )
–1: valore di SCT post superiore al valore di SCT pre
0: valore di SCT post uguale al valore di SCT pre
+1: valore di SCT post inferiore al valore di SCT pre
Colesterolo totale (CT)
–1:
0:
+1:
+2:
Pressione arteriosa sistolica (PAS)
–1: valore di PAS post superiore al valore di PAS pre
0: valore di PAS post uguale al valore di PAS pre
+1: valore di PAS post inferiore al valore di PAS pre
BMI (body mass index)
–1:
0:
+ 1:
+ 2:
valore di FSS post superiore al valore di FSS pre
valore di FSS post uguale al valore di FSS pre
valore di FSS post inferiore al valore di FSS pre
valore di FSS post inferiore al valore di FSS pre
(≥ 5 punti)
valore di CT post superiore al valore di CT pre
valore di CT post uguale al valore di CT pre
valore di CT post inferiore al valore di CT pre
valore di CT post inferiore a 180 mg/dl
valore di BMI post superiore al valore di BMI pre
valore di BMI post uguale al valore di BMI pre
valore di BMI post inferiore al valore di BMI pre
valore di BMI post inferiore al valore di BMI pre
(≥ 1,5 punti)
Il punteggio di 0 viene attribuito anche nei casi di non esecuzione e/o di esecuzione parziale del test per impedimento del paziente e/o cause di altra natura.
L’efficacia riabilitativa viene considerata raggiunta in presenza di un punteggio totale > 2, ottenuto dalla somma dei punteggi attribuiti ai singoli indicatori.
93
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
8. Individuazione di strategie
di implementazione
delle Raccomandazioni
L’esplosione epidemica dell’obesità e le sue conseguenze economiche e sociosanitarie rendono
necessaria un’azione di contrasto efficace basata
sulla sinergia fra tutti gli organismi (istituzioni,
comitati di esperti, rappresentanti della società
civile, settore privato) operanti nel campo della
prevenzione e cura di tale patologia.
Tutti i Paesi industrializzati si sono dotati di Linee
guida per la prevenzione, diagnosi e cura dell’obesità; tali Linee guida, elaborate sulla base delle più
aggiornate evidenze scientifiche, indicano le misure
più efficaci per contrastare questa patologia e sviluppano sia interventi di prevenzione dell’obesità
nella popolazione generale, sia interventi volti al
trattamento delle persone con sovrappeso o obesità.
Per il raggiungimento di tali obiettivi è indispensabile mettere in atto strategie che facilitino comportamenti salutari sia in termini di alimentazione
sia di promozione dell’attività fisica. Tutto questo
può essere realizzato soltanto se si ha chiara la
consapevolezza che l’obesità non è un problema
o una responsabilità del singolo individuo, ma
un problema sociale e che le scelte salutari possono
essere orientate attraverso appropriate politiche
economiche, agricole, urbanistiche e dei trasporti.
Processo necessario a diffondere, applicare e monitorare l’efficacia degli interventi contenuti nelle
Linee guida è la loro “implementazione”. Tale
processo consiste nell’introdurre nella pratica corrente le Linee guida utilizzando strategie di intervento appropriate, atte cioè a favorirne l’utilizzo
e a rimuovere i fattori di ostacolo al cambiamento.
L’implementazione delle Linee guida è un processo
complesso che si snoda attraverso fasi successive:
• il primo, propedeutico, passo è analizzare e
identificare i fattori o le azioni (comportamenti
individuali, collettivi, economici e sanitari) che
possono limitare o, viceversa, favorire il processo di implementazione;
• il secondo passo è selezionare le Linee guida
in relazione allo specifico contesto nel quale
dovranno essere applicate. È intuitivo che le
strategie saranno differenti a seconda che riguardino la prevenzione dell’obesità nella popolazione generale o il trattamento delle persone con sovrappeso/obesità, e se la popolazione interessata è costituita da adulti o bambini/adolescenti;
• il terzo punto riguarda la scelta delle tecniche
d’implementazione. Dovranno essere adottati
strumenti formativi specifici per le diverse figure
coinvolte nella strategia d’implementazione.
Inoltre, sarà scelta la metodologia di preparazione e diffusione del processo di implementazione che dovrà essere commisurata al contesto,
allo scopo e alle risorse destinate a tale fine;
95
Ministero della Salute
• il quarto punto consiste nella valutazione del
piano d’implementazione. A tale scopo dovrà
essere istituito un sistema di feedback necessario per monitorare, rafforzare ed eventualmente rivedere il processo d’implementazione.
Di seguito, i diversi punti saranno esaminati in
relazione all’obiettivo specifico dell’implementazione delle raccomandazioni per la prevenzione e
la cura dell’obesità.
Analizzare e identificare i fattori o le azioni
che possono limitare o favorire il processo
di implementazione
Dovranno essere attentamente valutate tutte le
cause, le azioni culturali, economiche o normative
che possono ostacolare o, viceversa, favorire l’attuazione delle Linee guida per la prevenzione e la
cura dell’obesità. Ipotizzando come scenario la
prevenzione dell’obesità in età pediatrica, sarà indispensabile analizzare:
• le normative nazionali ed europee che possono
limitare o al contrario favorire l’adozione di
stili di vita più salutari (aspetti normativi);
• la rigidità o al contrario la duttilità della promozione di una corretta alimentazione in ambito scolastico (aspetti strutturali);
• la disponibilità del personale docente e non
docente a favorire l’attuazione delle Linee guida
(aspetti organizzativi);
• la disponibilità del personale scolastico e delle
famiglie a recepire i cambiamenti dello stile di
vita (aspetti culturali).
Ipotizzando, invece, uno scenario di implementazione delle Linee guida riguardanti la terapia
dell’obesità sarà indispensabile analizzare:
• la normativa riguardante la gestione del paziente con sovrappeso/obesità nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN);
• la possibilità di promuovere stili di vita salutari
96
da parte degli operatori sanitari coinvolti nel
processo di implementazione, primo fra tutti
il medico di medicina generale (MMG);
• l’accessibilità dei pazienti a strutture e/o figure
specialistiche coinvolte nelle attività di promozione di stili di vita salutari.
Selezionare le Linee guida in relazione
allo specifico contesto nel quale dovranno
essere adottate
Questa metodologia dipenderà dalla strategia generale e dal contesto in cui si andrà a operare,
poiché è intuitivo che la prevenzione dell’obesità
nella popolazione generale dovrà adottare Linee
guida applicabili su popolazioni, mentre se il contesto sarà la cura del sovrappeso/obesità le Linee
guida verteranno sugli aspetti diagnostici e terapeutici (nutrizionali, comportamentali e farmacologici) di questa patologia.
Le strategie di prevenzione dell’obesità nella popolazione generale prevedono il coinvolgimento
di una molteplicità di attori:
• i Settori dei Ministeri dell’Agricoltura, dell’Industria, dei Trasporti, delle Politiche Sociali e
dell’Istruzione competenti in materia di prevenzione dell’obesità possono, attraverso interventi appropriati, indirizzare la popolazione
verso stili di vita più salutari;
• gli Enti locali hanno la responsabilità di creare
per i cittadini ambienti e opportunità per l’attività fisica attraverso iniziative attuate nelle
scuole, nelle comunità, nei luoghi di lavoro;
• il settore privato (industrie agro-alimentari,
reti di distribuzione, strutture di ristorazione
collettiva, turismo) deve impegnarsi nella produzione di prodotti alimentari salutari e a basso
contenuto calorico;
• i media hanno la responsabilità di organizzare
campagne di informazione volte a diffondere
Parte Prima – Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni
modelli di alimentazione sana e stili di vita salutari.
L’implementazione dei percorsi di cura per le persone affette da obesità è affidata alle diverse figure
professionali del SSN: il MMG e i medici specialisti (internista, nutrizionista, chirurgo, psicologo)
che dovrebbero operare nell’ambito di un team
multidisciplinare.
Scelta delle tecniche d’implementazione
Questo aspetto, di natura più propriamente organizzativa, non è meno importante dei precedenti, in quanto il successo del processo di implementazione delle Linee guida dipenderà in
larga parte da una scelta corretta delle tecniche di
implementazione.
L’analisi della letteratura sull’efficacia delle tecniche e strategie di intervento ha consentito di suddividere gli interventi in:
• inefficaci (materiale informativo, lezioni frontali ecc.);
• probabilmente efficaci (audit e feedback; uso
di opinion leader, processi di consenso locali;
interventi mediati dai pazienti);
• efficaci (visite educative, promemoria manuali
o computerizzati; interventi multipli, combinazione che include due o più dei seguenti: audit
e feedback, promemoria, processi di consenso
locali, marketing, incontri formativi interattivi).
Se, per esempio, si intendesse adottare una campagna di prevenzione dell’obesità mediante la diffusione di materiale informativo riguardante la
promozione di salutari stili di vita (sia nella popolazione generale, sia in ambiti specifici come
quello pediatrico), tale strategia risulterebbe poco
efficace anche se il materiale prodotto fosse ben
curato e di facile lettura. Al contrario, risultati
8
più efficaci potrebbero essere raggiunti attraverso
interventi educativi da parte di personale formato
ad hoc, promemoria computerizzati da inserire
nei programmi di assistenza del MMG, processi
di consenso e marketing o attraverso tutti questi
processi adeguatamente programmati. Ovviamente, la maggiore probabilità di successo degli
interventi considerati efficaci dipenderà dalle risorse e dal personale impiegato e sarà inversamente
proporzionale al numero dei destinatari coinvolti.
Valutazione del piano d’implementazione
L’ultima tappa del processo di implementazione
delle Linee guida per la prevenzione e cura dell’obesità riguarda la verifica degli effetti in termini
di accettabilità e praticabilità da parte degli operatori e dei pazienti, oltre che di sostenibilità e
compatibilità con gli assetti organizzativi. La valutazione sarà effettuata mediante l’applicazione
di adeguati sistemi di feedback e di monitoraggio
di appropriati indicatori. A essa dovrà fare seguito
la disponibilità/capacità di rimodulare i processi
in relazione ai risultati raggiunti.
Per attuare questo piano strategico occorre programmare gli interventi in maniera coordinata.
L’azione di coordinamento è fondamentale in
quanto, a causa della complessità del problema,
sarà chiamata ad agire una molteplicità di soggetti:
le istituzioni nazionali, gli amministratori locali,
il settore privato, la famiglia, la scuola, i servizi sanitari, i mezzi di informazione, i club sportivi e
sociali, le strutture di ristorazione. Al fine di evitare
dispersioni, sarebbe utile che i diversi stakeholders,
impegnati ognuno nel proprio campo d’azione,
fossero coordinati da un’Agenzia Nazionale che
assuma la leadership dell’azione e svolga funzione
d’indirizzo, monitoraggio e verifica degli interventi.
97
Parte seconda
Appropriatezza clinica, strutturale,
tecnologica e operativa per la prevenzione,
la diagnosi e la terapia del diabete
Si ringraziano per i contributi apportati:
Graziella Bruno, Emanuele Bosi, Brunella Capaldo, Marco Comaschi,
Carlo Bruno Giorda, Giorgio Grassi, Annunziata Lapolla, Renata Giuseppina Lorini,
Marina Maggini, Giulio Marchesini Reggiani, Maurizio Masullo, Gerardo Medea,
Andrea Mosca, Giuseppe Noto
Si ringraziano l’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e la Società Italiana di Diabetologia (SID), per aver gentilmente messo
a disposizione del Gruppo di Lavoro il documento “Standard di Cura per il Diabete Mellito 2009-2010”, che è stato preso come
riferimento in molti capitoli.
Inoltre, un ringraziamento per i contributi forniti va alla Direzione Generale del Sistema Informativo del Ministero della Salute
e al Centro Nazionale Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità.
Per il capitolo sui percorsi assistenziali si ringraziano Marina Maggini (Centro Nazionale di Epidemiologia, Istituto Superiore
di Sanità, Roma) e Giuseppe Noto (Assessorato Regionale alla Sanità, Regione Sicilia, Palermo), che ci hanno consentito
di riportare un documento da loro elaborato sui “percorsi assistenziali per la gestione integrata”.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
9. Classificazione e definizione
di diabete mellito
Concetti generali, diagnosi e definizione
Il diabete mellito, ormai comunemente definito
diabete, è un gruppo di malattie metaboliche in
cui la persona ha come difetto principale un aumento delle concentrazioni ematiche di glucosio –
iperglicemia. Il termine diabete deriva dal greco
(διαβήτης, diabētēs) ed è stato introdotto da Aretaeus di Cappadocia nel 1° secolo dopo Cristo. Il
termine deriva dal verbo greco diabainen, formato
dal prefisso dia “attraverso, oltre” e dal verbo bainein
che significa “andare/passare” e, quindi, il termine
può tradursi con passare attraverso, riferito alla poliuria e alla glicosuria. Nel 1675, Thomas Willis
ha aggiunto il termine mellitus, dal latino che significa dolce, con riferimento al sapore dolce delle
urine. Il diabete può essere causato da un deficit
assoluto di secrezione insulinica, o da una ridotta
risposta all’azione dell’insulina a livello degli organi
bersaglio (insulino-resistenza), o da una combinazione dei due difetti. L’iperglicemia cronica del diabete si associa con un danno d’organo a lungo termine (complicanze croniche), che porta alla disfunzione e all’insufficienza di differenti organi,
specialmente gli occhi, il rene, il sistema nervoso
autonomo e periferico, il cuore e i vasi sanguigni.
I processi che portano allo sviluppo del diabete
variano da una distruzione autoimmunitaria delle
cellule beta del pancreas nelle isole di Langerhans
e conseguente insulino-deficienza a difetti dell’azione insulinica causati da un’aumentata insulino-resistenza nei tessuti periferici. Sono presenti
anche fenomeni di glucotossicità e lipotossicità a
carico tissutale, che portano a distruzione della
cellula beta pancreatica per fenomeni di apoptosi.
Le basi delle alterazioni del metabolismo dei carboidrati, degli acidi grassi e delle proteine sono
causate da una ridotta azione dell’insulina nei tessuti bersaglio, principalmente a livello epatico,
nella fibra muscolare scheletrica, nel tessuto adiposo e nelle cellule vascolari. L’insufficiente azione
insulinica può essere causata da una non adeguata
secrezione insulinica e/o da una diminuita risposta
periferica all’azione dell’insulina in uno o più
punti della complessa via di trasmissione del segnale insulinico a livello cellulare. Nel paziente
con diabete di tipo 2 spesso coesistono sia la riduzione della secrezione insulinica in risposta al
glucosio, sia un difetto dell’azione insulinica, anche se non è chiaro quale delle due anomalie sia
la causa iniziale e/o principale del processo fisiopatologico che porta all’insorgenza del diabete.
I sintomi clinici di una marcata iperglicemia includono la poliuria, la polidipsia, la perdita di
peso, alcune volte l’iperfagia o polifagia e una riduzione della vista. Un difetto dell’accrescimento
101
Ministero della Salute
e un’aumentata suscettibilità ad alcune infezioni
possono associarsi con l’iperglicemia cronica. Le
conseguenze acute dell’iperglicemia sono associate
alla chetoacidosi o alla sindrome iperosmolare
non chetosica e, qualora non trattate rapidamente,
possono portare a coma ed eventualmente a morte
del paziente. Il diabete comprende quattro categorie principali: il diabete di tipo 1 (DT1), il diabete di tipo 2 (DT2), il diabete gestazionale (DG)
e, infine, un gruppo eterogeneo definibile come
“altre forme di diabete”.
Classificazione (Tabella 9.1)
Il DT1 è una patologia caratterizzata da un difetto
assoluto della secrezione insulinica da parte delle
cellule beta del pancreas e a sua volta è suddiviso
in due categorie: DT1A con eziologia autoimmunitaria (caratterizzato dalla presenza di autoanticorpi anti-pancreas endocrino) e DT1B idiopatico, meno frequente, in cui si riscontra una
distruzione delle cellule beta del pancreas senza,
comunque, la presenza di una risposta autoimmunitaria. Questa forma di diabete è presente
soltanto nel 5-10% dei casi di diabete; in precedenza il DT1 era stato chiamato diabete insulino-dipendente o diabete a insorgenza giovanile.
Il DT1A è innescato da una risposta autoimmunitaria cellulo-mediata con conseguente distruzione delle cellule beta del pancreas. I marcatori
della distruzione delle cellule beta comprendono
autoanticorpi contro le isole di Langerhans, l’insulina e il GAD65 e anticorpi contro le tirosine
fosfatasi IA-2 e IA-2beta. Uno o più anticorpi
sono presenti nell’85-90% dei pazienti quando è
presente iperglicemia conclamata. Il DT1A è associato a un’elevata predisposizione genetica e la
concordanza fra gemelli monozigoti è fra il 30%
e il 60%. La regione HLA, sul braccio corto del
cromosoma 6, è il principale determinante genetico identificato e sembra contribuire per oltre il
50% al rischio genetico per il DT1A. I loci genici
che codificano per le molecole DQ (aplotipo
DQA e DQB) e DRB risultano fondamentali per
la valutazione del rischio genetico associato alla
patologia. I loci HLA-DR/DQ possono essere
predisponenti o protettivi. Alcune forme di DT1
hanno un’eziologia sconosciuta e sono dette idiopatiche, poiché non è nota la causa che le determinano; questa forma di diabete è chiamata
DT1B, poiché è presente la distruzione, quasi totale, delle cellule beta del pancreas. Questi pazienti
hanno una grave insulinopenia e sono pronti a
sviluppare chetoacidosi, ma non hanno evidenze
della presenza di una risposta autoimmunitaria.
Soltanto una piccola minoranza di pazienti affetti
ha questa forma di diabete e la maggior parte di
questi pazienti ha antenati del gruppo etnico di
origine africana o asiatica. Esiste un’ultima forma
di DT1 che insorge nell’adulto; l’eziologia è sempre autoimmunitaria, ma il processo è di lenta
insorgenza e progressione e la malattia si sviluppa
Tabella 9.1 Le differenti forme di diabete mellito
Classificazione
Caratteristiche
I. Tipo 1A
Tipo 1B
II. Tipo 2
III. Diabete gestazionale
IV. Altre forme specifiche
Immunomediato
Insulino-deficiente, non autoimmune
Insulino-resistenza + deficit della secrezione insulinica
Intolleranza al glucosio con primo riscontro o inizio durante la gravidanza
Mitocondriale, diabete a insorgenza precoce del giovane (MODY), lipoatrofico, insulino-resistenza
tipo A, endocrinopatie ecc.
102
Parte Seconda – Classificazione e definizione di diabete mellito
nell’adulto. Il DT1 nell’adulto è chiamato noninsulin requiring autoimmune diabetes (NIRAD)
o latent autoimmune diabetes in adults (LADA).
Il DT2 è la forma di diabete che è responsabile di
circa l’85-95% di tutti i casi di diabete; in precedenza era chiamato diabete non insulino-dipendente, o diabete dell’adulto. I pazienti affetti da
questa forma di diabete presentano un aumento
dei livelli d’insulino-resistenza periferica associato
a una ridotta secrezione insulinica che è relativa,
ma non completa, almeno nella fase iniziale della
patologia. La maggior parte dei pazienti con DT2
è obesa o in sovrappeso e l’obesità stessa, o un aumento dei depositi di grasso a livello viscerale (aumento della circonferenza vita) nelle persone in
sovrappeso, causa un aumento dei livelli d’insulino-resistenza negli organi bersaglio all’azione dell’insulina. In questi pazienti la chetoacidosi è rara
e quando occorre, generalmente, è per la presenza
di altre patologie e/o condizioni che aumentano
lo stress fisico e/o psicologico. Questa forma di
diabete spesso non è diagnosticata all’insorgenza
della malattia, poiché l’iperglicemia si sviluppa
gradualmente e, nelle prime fasi della patologia,
non è severa e non sono presenti i sintomi clinici
dell’iperglicemia. Il grado di iperglicemia può variare nel tempo e non essere così elevata da causare
la malattia. Il processo patologico può causare
un’alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG) e/o un’alterata tolleranza al glucosio
(impaired glucose tolerance, IGT) senza comunque
raggiungere i criteri diagnostici per il diabete. Tuttavia, questi pazienti hanno un rischio aumentato
di sviluppare complicanze croniche associate soprattutto a malattia microvascolare e macrovascolare. In questi pazienti possono essere presenti sia
iperinsulinemia sia iperglicemia; questo difetto è
causato da una ridotta secrezione insulinica che
non è in grado di compensare per gli aumentati
livelli d’insulino-resistenza periferica. L’insulino-
9
resistenza può migliorare con la riduzione del peso
e/o con il trattamento farmacologico dell’iperglicemia, ma raramente ritorna a valori normali. Il
rischio di sviluppare diabete aumenta con l’età,
con l’obesità e con la ridotta o assente attività
fisica. È più frequente nelle persone ipertese e dislipidemiche e in alcuni gruppi etnici. La predisposizione genetica è importante e un incremento
del rischio di patologia si riscontra in gemelli monozigotici con una concordanza che in alcuni studi
è intorno al 100%. Il DT2 è considerato una patologia poligenica multifattoriale causata dall’associazione di polimorfismi genetici predisponenti
alla patologia con fattori ambientali, “il cosiddetto
fenotipo patologico”, quali una dieta ipercalorica
ricca in acidi grassi e una ridotta o assente attività
fisica. Questo errato stile di vita porta a un aumento del peso corporeo caratterizzato da sovrappeso o obesità, con incremento dei depositi di tessuto adiposo soprattutto a livello viscerale.
La terza forma più comune di diabete è quella gestazionale. Il diabete gestazionale è caratterizzato
dall’insorgenza d’iperglicemia durante la gravidanza,
in una donna che prima del concepimento non
era affetta da diabete, indipendentemente dal tipo
di trattamento utilizzato e dalla possibilità che tale
condizione possa persistere dopo il parto. La prevalenza del diabete gestazionale è di circa il 3-4%
di tutte le gravidanze e compare generalmente durante il 2° o il 3° trimestre. Questa condizione normalmente regredisce dopo la gravidanza, anche se
è aumentato il rischio di sviluppare DT2, con una
percentuale d’insorgenza di circa il 40% dopo 20
anni dal riscontro di diabete gestazionale.
Le altre forme di diabete
Difetti genetici della cellula beta
Differenti forme di diabete sono causate da difetti
monogenici che portano a una disfunzione della
103
Ministero della Salute
cellula beta pancreatica. Queste forme di diabete
sono frequentemente caratterizzate da insorgenza
di iperglicemia in giovane età, generalmente prima
dei 25 anni, e sono chiamate maturity onset diabetes
of the young (MODY). Le differenti forme di
MODY sono caratterizzate da un difetto della secrezione insulinica, in assenza o con minimi difetti
dell’azione insulinica; le mutazioni genetiche sono
ereditate in forma autosomica dominante. A oggi
sono state identificate sei mutazioni genetiche in
loci di differenti cromosomi (MODY 1-6).
Difetti genetici dell’azione dell’insulina
Sono presenti delle forme rare di mutazione genetiche che causano diabete e sono determinate
da difetti dell’azione insulinica. Le mutazioni genetiche del recettore dell’insulina possono causare
una patologia caratterizzata da una modesta iperglicemia e iperinsulinemia, fino a diabete conclamato e severo. Alcuni pazienti con questa mutazione possono avere l’acanthosis nigricans; in alcune
forme severe le donne hanno segni di virilizzazione
e l’ovaio è ingrandito con presenza di cisti; in passato questa condizione clinica era chiamata sindrome da insulino-resistenza di tipo A. Esistono
altre due forme rare di sindromi associate a mu-
104
tazione del recettore dell’insulina, quali la sindrome di Rabson-Mendenhall e il leprecaunismo.
Sono patologie a insorgenza pediatrica con valori
estremamente elevati d’insulino-resistenza, associata ad anomalie sia scheletriche sia a livello tissutale; queste patologie possono avere anche un
esito fatale precoce.
Il diabete secondario ad altre patologie
• Malattie del pancreas esocrino: pancreatiti, traumi/
pancreatectomia, neoplasia, fibrosi cistica, emocromatosi ecc.
• Endocrinopatie: acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma, ipertiroidismo ecc.
• Farmaci o reagenti chimici: glucocorticoidi,
acido nicotinico, agonisti beta-adrenergici, interferone gamma ecc.
• Infezioni: citomegalovirus, rosolia congenita.
• Forme non comuni di diabete immunomediato:
anticorpi antinsulina, sindrome di “Stiff-man”.
• Altre sindromi genetiche che possono essere associate con il diabete: sindrome di Down, sindrome di Klinefelter, sindrome di Turner, sindrome di Wolfram ecc.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
10. La situazione attuale
Epidemiologia e costi del diabete
Si sta assistendo a un’epidemia mondiale di diabete,
con una prevalenza che arriverà fino al 6,3% nel
2025, coinvolgendo 333 milioni di persone in
tutto il mondo. L’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS) ha quindi inserito il diabete tra le
patologie croniche su cui maggiormente investire
per la prevenzione, dato il crescente peso assunto
da questa patologia anche nei Paesi in via di sviluppo e vista la possibilità di attuare misure preventive efficaci e di basso costo. Questo fenomeno
non è secondario all’azione di agenti infettivi, come
il termine lascerebbe supporre, bensì alle modificate abitudini di vita della popolazione mondiale.
Il rischio di diabete di tipo 2 (DT2) è in larga
parte determinato da età, obesità, familiarità ed
etnia. In Italia, l’allungamento della vita media e
il cambiamento dello stile di vita (sedentarietà,
obesità) sono in larga parte responsabili dell’aumento atteso nella prevalenza del DT2. Gli studi
di popolazione di Casale Monferrato e di Torino
indicano un aumento dal 2,8% al 4,9% dal 1988
al 2003. In pratica, si è verificato il raddoppio dei
casi affetti nell’arco di 25 anni. L’incremento più
rilevante è stato registrato negli anziani (età > 65
anni), che attualmente rappresentano i due terzi
della popolazione diabetica italiana; in questa fascia
di età la prevalenza è pari al 14%. Si stima, inoltre,
che una percentuale pari all’1,5-2% della popolazione sia affetta da diabete non diagnosticato (glicemia > 126 mg/dl o glicemia 2h dopo test da carico del glucosio (oral glucose tolerance test, OGTT)
≥ 200 mg/dl).
L’incremento temporale nella prevalenza di DT2
riconosce cause diverse: aumentata incidenza di
malattia (secondaria all’aumento dei suoi fattori
di rischio), più giovane età d’esordio e di diagnosi
della malattia (estensione più ampia dello screening
opportunistico dei soggetti asintomatici, con riduzione, quindi, del rapporto diabetici noti/non
noti), aumentata sopravvivenza dei diabetici e, soprattutto, invecchiamento della popolazione generale. Quest’ultimo fattore è, verosimilmente,
quello di maggiore impatto nelle zone industrializzate quali l’Italia. In Italia, per il 2009, l’Istat ha
stimato una prevalenza del diabete diagnosticato
pari al 4,8% (Figura 10.1); in base a questi dati le
persone con diabete in Italia sono circa 2.900.000,
ai quali si aggiunge una quota stimabile in circa
un milione di persone che, pur avendo la malattia,
non ne è a conoscenza. La prevalenza del diabete
aumenta con l’età fino al 18,9% nelle persone con
età uguale o superiore ai 75 anni. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, la prevalenza è
più alta nel Sud e nelle Isole, con un valore del
105
Ministero della Salute
Prevalenza (%)
5
Valori %
5,2-10
4,9-5,2
4,2-4,9
≤ 4,2
Nessun dato
4,5
4,2
4
3,9
3,9
3,9
3,9
4,0
3,9
4,3
4,6
4,4
4,8
4,5
4,8
4,4
4,0
Tasso grezzo
Tasso standardizzato
3
2001
2002
2003
2005
2006
2007
2008
2009
Anno
Figura 10.2 Prevalenza del diabete in Italia dal 2001 al
2009.
Figura 10.1 Diabete: stima Istat Italia 2009 (tutte le età).
5,5%, seguita dal Centro con il 4,9% e dal Nord
con il 4,2%. I dati di prevalenza per area geografica
e per regione non sono standardizzati, quindi le
differenze osservate potrebbero dipendere da una
diversa composizione per età della popolazione
nelle diverse aree geografiche. Tuttavia, elaborazioni
effettuate sui dati del 2005 hanno mostrato che le
differenze permangono anche dopo la standardizzazione per età e sesso.
Nella Figura 10.2 è riportata la prevalenza del
diabete in Italia dal 2001 al 2009.
Attualmente, vi sono quindi in Italia almeno tre
milioni di soggetti con diabete, oltre ai quali si
aggiunge una quota stimabile in circa un milione
di persone che, pur avendo la malattia, non ne è
a conoscenza. Le disuguaglianze sociali agiscono
fortemente sul rischio di contrarre il diabete: la
prevalenza della malattia è, infatti, più elevata
nelle donne e nelle classi sociali più basse e tale
effetto è evidente in tutte le classi di età. La classe
sociale più bassa è un indicatore di obesità e ridotta
attività fisica e si associa, quindi, a un maggiore
rischio di diabete. L’attività di prevenzione tramite
106
strategie di screening dovrebbe, quindi, essere rivolta soprattutto a questa fascia della popolazione.
Non sono disponibili stime nazionali d’incidenza
del diabete, ma sono disponibili dati derivati da
studi su popolazioni selezionate.
I dati italiani sull’incidenza della malattia sono
molto limitati. Il problema metodologico principale è dato dall’inadeguata completezza delle rilevazioni epidemiologiche nell’età adulta, mentre
nell’età pediatrica la quasi totalità dei diabetici è
regolarmente seguita sin dalla diagnosi dai servizi
di diabetologia; vi sono, inoltre, difficoltà diagnostiche legate alla necessità di eseguire il test
da carico orale di glucosio per stimare i casi di
diabete asintomatico a livello di popolazione. Il
registro di Torino ha stimato nell’età 30-49 anni
un’incidenza di diabete noto pari a 0,5/1000 casi
anno/persona. Lo studio di Brunico, basato invece
sulla rivalutazione della glicemia a digiuno in una
coorte di popolazione, ha stimato nell’età 40-79
anni un tasso pari a 7,6/1000 anni-persona. Questo dato indica che ogni anno circa 8 persone su
1000 di età compresa tra 40 e 79 anni sviluppano
la malattia. Confermato il ruolo dell’obesità che,
rispetto alla condizione di normopeso, aumenta
il rischio di sviluppare il diabete, i predittori di
diabete sono risultati, infatti, un’alterata glicemia
a digiuno (impaired fasting glycaemia, IFG)
[OR = 11], un’alterata tolleranza al glucosio (im-
Parte Seconda – La situazione attuale
paired glucose tolerance, IGT) [OR = 3,9], il peso
(sovrappeso OR = 3,4 e obesità OR = 9,9), la dislipidemia (OR = 1,6), l’ipertensione arteriosa (OR
= 2,3). Verosimilmente, pertanto, l’incremento
della prevalenza del diabete registrato finora si
manterrà nel tempo se non saranno messe in atto
strategie di educazione di massa volte a modificare
abitudini e atteggiamenti nocivi alla salute.
Il DT2 è una malattia cronica a elevato impatto
sulla qualità di vita dei soggetti affetti. La malattia,
inoltre, compare sempre più frequentemente in
età giovanile, presentando quindi un maggiore rischio di complicanze invalidanti in età lavorativa
piuttosto che in quella senile. La diagnosi è preceduta mediamente da una fase della durata di circa
7 anni, durante la quale la malattia è asintomatica;
in questa fase, tuttavia, il rischio cardiovascolare è
già comparabile a quello del diabete diagnosticato.
La nefropatia diabetica rappresenta nel DT2 il più
importante fattore di rischio cardiovascolare, superiore a quello d’insufficienza renale terminale.
Ogni anno 4 diabetici con microalbuminuria su
100 evolvono verso la macroalbuminuria e, di questi, 3 su 100 verso l’insufficienza renale cronica.
Sei diabetici macroalbuminurici su 1000 rischiano
ogni anno di dover ricorrere alla dialisi, mentre
ben 70 su 1000 muoiono di malattie cardiovascolari, rispetto a 22 su 1000 tra i diabetici normoalbuminurici. Il diabete determina il 50% delle amputazioni degli arti inferiori. La retinopatia diabetica, inoltre, costituisce la principale causa di cecità
legale fra i soggetti in età lavorativa. I diabetici
neuropatici hanno un rischio di complicanze vascolari 20-40 volte superiori. Le complicanze agli
arti inferiori, legate sia al danno vascolare sia a
quello neurologico, aumentano con l’età, fino a
interessare più del 10% dei pazienti con oltre 70
anni. Il 15% dei diabetici sviluppa nel corso della
vita un’ulcera agli arti inferiori e un terzo di questi
pazienti va incontro ad amputazione. Il 50% dei
10
soggetti sottoposti ad amputazione non traumatica
è affetto da diabete e il 50% di questi ha una sopravvivenza inferiore a 2 anni. In Italia sono stati
condotti alcuni studi per la valutazione della qualità
di vita e delle cure mediche e per la prevalenza
delle complicanze croniche. Lo studio Quadri condotto nel 2004 dall’Istituto Superiore di Sanità
(ISS) è uno degli studi disponibili più completo
presente in letteratura. La rilevazione dei dati è
stata compiuta attraverso un questionario standardizzato somministrato tramite intervista diretta.
Sono state intervistate 3426 persone (58% uomini)
con un’età mediana di 57 anni (18-64). Nella Figura 10.3 sono riportate le incidenze per complicanze croniche del diabete nella popolazione italiana esaminata.
Il diabete di tipo 1 (DT1), seppure meno frequente
rispetto al DT2 (1 caso su 10 diabetici italiani),
presenta un elevato impatto sociale, poiché interessa
soggetti in giovane età. L’incidenza è compresa tra
i 6 e i 10 casi per 100.000 per anno nella fascia di
età da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6,72 casi
per 100.000 per anno nella fascia di età da 15 a 29
anni, con forti differenze geografiche. Il rischio,
infatti, è circa 4 volte superiore in Sardegna – verosimilmente su base genetica, come dimostrato
dagli studi sugli emigranti –, che ha un’incidenza
di diabete giovanile tra le più alte del mondo, pari
a 34 casi per 100.000 per anno nella fascia di età
di 0-14 anni; nella provincia di Trento l’incidenza
è aumentata con valori di 18,67 per 100.000 persone/anno. Sebbene il picco d’incidenza sia evidente
nell’età pediatrica, il rischio permane alto almeno
fino ai 30 anni di età, con una prevalenza maggiore
nei maschi. Le caratteristiche cliniche dei pazienti
all’esordio della malattia sono diverse nei bambini
rispetto ai giovani adulti, con una secrezione pancreatica residua meglio conservata in questi ultimi,
tale da consentire spesso un esordio meno acuto
della malattia. L’analisi dei dati dei registri italiani
107
Ministero della Salute
Valori %
> 32
28-32
< 28
72
Sovrappeso o obesità
44
Ipercolesterolemia
54
Ipertensione
13
Cardiopatia ischemica
19
Retinopatia diabetica
30
Una complicanza
0
20
40
60
80
Incidenza (%)
Figura 10.3 Studio Quadri – 2004: prevalenza delle complicanze croniche in Italia.
(studio RIDI) ha evidenziato come sia presente un
trend temporale d’aumento d’incidenza pari al 3%
per anno, comparabile a quanto messo in evidenza
in altre aree geografiche. Il trend è evidente nel
Registro di Torino anche nei giovani adulti. L’insieme dei dati italiani, quindi, non è compatibile
con l’ipotesi che l’età all’esordio sia anticipata come
spiegazione dell’incremento d’incidenza registrato
nei bambini. L’incremento lineare nel tempo e l’assenza di picchi d’incidenza suggeriscono, invece,
l’effetto di determinanti ambientali a distribuzione
uniforme, tuttora ignoti.
Il DT1 è una delle più frequenti malattie croniche
dell’infanzia e l’incidenza del DT1 è in aumento.
Un’indagine condotta dall’International Diabetes
Federation (IDF) ha calcolato un’incidenza di DT1
nel mondo di circa 65.000 nuovi casi/anno. Il
corrispondente incremento calcolato per gruppi
di età è risultato di 4,8% per i bambini nella fascia
0-4 anni, 3,7% per i bambini di 5-9 anni e 2,1%
per i bambini di 10-14 anni, il che evidenzia come
il maggiore tasso d’incidenza si verifichi nel gruppo
d’età più giovane. In Italia vi sono tassi d’incidenza
108
da 6,2/100.000 (Campania e Italia meridionale)
a 38,8/100.000 per anno in Sardegna. Nel 1996
è stato istituito nell’ambito del Gruppo di Studio
sul diabete della Società Italiana di Endocrinologia
e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) il RIDI (Registro Italiano del Diabete di tipo 1), che include il
43% del totale della popolazione italiana a rischio
in soggetti di 0-14 anni valutati dal 1990 al 1999.
L’incidenza del DT1 ha presentato nei 10 anni
dello studio un incremento del 3,7% e del 3,6%
per anno, rispettivamente, in Sardegna e nell’Italia
Peninsulare.
I dati epidemiologici italiani degli studi “Casale
Monferrato Study” e del “Verona Study” indicano
come l’eccesso di mortalità dei diabetici rispetto
alla popolazione generale sia pari al 35-40%. Le
complicanze cardiovascolari sono responsabili
principalmente dell’aumentata morbilità e mortalità associate al diabete; l’aspettativa di vita si
riduce di 5-10 anni rispetto ai non diabetici. Le
malattie cardiovascolari sono, infatti, responsabili
di oltre il 50% dei decessi, soprattutto per infarto,
ictus, scompenso cardiaco e morte improvvisa.
10
Parte Seconda – La situazione attuale
L’eccesso, tuttavia, è nettamente più marcato tra
i diabetici più giovani, che rappresentano quindi
il target privilegiato per la prevenzione, rispetto
all’età senile. I pazienti con DT1 presentano un
aumento del rischio di mortalità di circa 2 volte a
breve distanza dalla diagnosi, rispetto a non diabetici di pari età, principalmente per coma chetoacidosico e ipoglicemico, il che indica la necessità di un miglioramento nel livello di assistenza
erogato in Italia.
L’epidemia di diabete ha anche importanti risvolti
economici: in Italia, attualmente, i diabetici sono
responsabili di un consumo di risorse sanitarie
(costi diretti) 2,5 volte superiori rispetto a quello
delle persone non diabetiche di pari età e sesso.
Ogni anno ci sono in Italia più di 70.000 ricoveri
per diabete principalmente causati da complicanze
quali ictus cerebrale e infarto del miocardio, retinopatia diabetica, insufficienza renale e amputazioni degli arti inferiori.
Lo studio di popolazione di Torino ha mostrato
come il costo diretto annuo del diabetico sia pari a
€ 3348,6, mentre nel non diabetico sia mediamente
pari a € 831,9; l’eccesso di costo, dopo aggiustamento per età e sesso – i principali confondenti –
è pari a 2,5 volte nel diabetico rispetto al non diabetico. L’incremento (Tabella 10.1) è di circa due
volte per tutte le voci di spesa esaminate. Oltre il
50% dei costi diretti è attribuibile ai ricoveri ospe-
dalieri. I diabetici hanno un consumo di farmaci
pari a 3 volte i non diabetici di pari età e sesso, attribuibile alle comorbidità associate alla malattia.
Per quanto riguarda i farmaci, la quota principale
del costo è imputabile al trattamento delle complicanze cardiovascolari. Tutte le categorie farmacologiche, tuttavia, mostrano un aumentato utilizzo nei diabetici rispetto ai non diabetici, a rilevare l’interessamento multiorgano della malattia.
Nei dieci anni di studio dell’Osservatorio ARNO
Diabete, nel quale sono stati valutati i costi dei
farmaci sottoposti a monitoraggio AIFA (Agenzia
Italiana del Farmaco), è emerso come solo il 18%
del costo dei farmaci sia attribuibile ai medicinali
antidiabetici e come questa percentuale sia sostanzialmente rimasta invariata nel corso del
tempo, mentre il consumo di farmaci e il relativo
costo siano raddoppiati nel corso del tempo, a
sottolineare come l’incremento globale della spesa
sia imputabile alle comorbidità associate piuttosto
che al controllo dell’iperglicemia.
Il costo del trattamento delle complicanze (macroangiopatia, retinopatia, nefropatia e neuropatia), poi, è particolarmente elevato. Nel 2010 il
diabete ha determinato il 10-15% dei costi dell’assistenza sanitaria in Italia. L’impatto sociale del
diabete si avvia, quindi, a essere sempre più difficile da sostenere per la comunità, in assenza di
un’efficace prevenzione.
Tabella 10.1 Costi diretti per la cura di pazienti diabetici e non diabetici – Lo Studio Torino
• Ospedalizzazione
• Cura in acuto
• Paziente ambulatoriale
• Farmaci
• Articoli di consumo
Pazienti diabetici
Pazienti non diabetici
Costi (€) per persona/anno
Costi (€) per persona/anno
1909,8
30,9
418,2
831,0
158,7
496,1
16,5
135,9
183,0
0,4
Rapporto di tassi*
2,3 (2,2-2,4)
1,7 (1,6-1,7)
2,1 (2,0-2,1)
2,7 (2,7-2,8)
* Derivato da modelli lineari logaritmici, aggiustati per età e sesso.
109
Ministero della Salute
Il diabete come problema di salute sociale
Nelle persone con diabete è elevata la presenza di
fattori di rischio per le malattie cardiovascolari e la
frequenza di queste patologie è più elevata rispetto
alla popolazione non diabetica. Secondo i dati del
sistema di sorveglianza PASSI (Progressi nelle
Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), relativi a
un campione di 57.059 persone di età compresa
tra 18 e 69 anni, il 17% delle persone con diabete
dichiara di aver avuto un infarto del miocardio o
altra malattia cardiaca, mentre nei non diabetici la
prevalenza è del 4%. Ancora più marcata è la differenza per la presenza d’insufficienza renale: 8%
nei diabetici contro 1% nei non diabetici. L’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia sono anche
condizioni molto diffuse nella popolazione diabetica (53% e 45% rispetto al 19% e 24% nei non
diabetici). L’eccesso ponderale e la sedentarietà sono
i fattori di rischio cardiovascolare significativamente
più presenti nei diabetici rispetto ai non diabetici.
I tre quarti circa delle persone con diabete presentano un eccesso ponderale (74% rispetto al 41%
dei non diabetici) e un terzo è obeso (29% rispetto
al 10% dei non diabetici); il 39% è inoltre sedentario (29% nei non diabetici). L’abitudine al fumo
e il consumo a rischio di alcool non sono significativamente più frequenti nei diabetici; tuttavia, quasi
1 diabetico su 4 è fumatore (il 18% fuma più di
20 sigarette al giorno) e l’8% è un bevitore a rischio.
È noto che i principali indicatori dello stato di salute generale (mortalità, attesa di vita) delle popolazioni europee e occidentali siano in continuo
miglioramento. Che questo fenomeno virtuoso sia
distribuito eterogeneamente nella popolazione,
differenziandosi per livello sociale, è un dato meno
conosciuto. Il miglioramento delle condizioni di
vita per tutti gli strati sociali non ha condotto a
una riduzione delle diseguaglianze di salute: ricerche svolte in diversi Paesi hanno rilevato come il
110
miglioramento generale dello stato di salute nelle
classi sociali più svantaggiate risulti di entità minore
rispetto a quello delle classi sociali più elevate, con
conseguente accentuazione delle diseguaglianze.
Il DT2 è un esempio paradigmatico di malattia
cronica, in parte evitabile, che colpisce soprattutto
le classi economicamente e socialmente più svantaggiate, chiamando in causa fattori legati al contesto politico e socioeconomico, alle condizioni
di vita e lavoro, a fattori psicosociali. Nel mondo
globalizzato delle abitudini alimentari e comportamentali, si sta assistendo a una crescente diffusione dell’obesità e del diabete, che coinvolge sia i
Paesi economicamente sviluppati, sia quelli in via
di sviluppo; in questo contesto è particolarmente
rilevante la diffusione dell’obesità infantile, che
interessa principalmente le famiglie socialmente
povere.
Uno studio che ha analizzato i dati provenienti
da studi di sorveglianza nazionali svolti in otto
Paesi europei ha stimato un rischio di diabete
nelle persone meno istruite mediamente superiore
del 60%, con un’alta variabilità tra Paesi (dal 16%
della Danimarca al 99% della Spagna). L’Alameda
County Study ha mostrato una prevalenza di DT2
del 4,5%, 2,5% e 1,6% tra chi aveva, rispettivamente, bassa, media e alta istruzione. Il Third
National Health and Nutrition Examination Survey
(NHANES) ha riportato un maggiore rischio di
diabete nei gruppi a basso reddito, con un’associazione più forte tra le donne.
In Italia, anche le persone meno istruite (senza titolo di studio o con licenza elementare) hanno
una maggiore probabilità di essere affette da diabete rispetto a chi possiede un’istruzione più elevata, con un eccesso di rischio stimato pari a circa
il 60%. Secondo i dati del sistema di sorveglianza
PASSI, nel 2008 la prevalenza di diabete era 2,1%
nelle persone laureate, rispetto al 14,1% nelle persone senza titolo di studio. Inoltre, le persone con
Parte Seconda – La situazione attuale
diabete socialmente deprivate si trovano in uno
stato di vulnerabilità accentuato dalla difficoltà
nell’accesso ai servizi sanitari, nel seguire le terapie
adeguate e nell’autogestione della malattia con
evidenti conseguenze sulla prognosi della malattia.
Numerosi sono gli studi che documentano l’associazione tra deprivazione socioeconomica e inadeguato controllo metabolico con una maggiore
frequenza di complicanze micro- e macrovascolari
nelle classi sociali più svantaggiate. In uno studio
inglese di prevalenza è risultato che le persone socioeconomicamente svantaggiate hanno un rischio
di circa 4 volte superiore di essere affette da patologia cardiaca o neuropatia e di 9 volte superiore
di avere una retinopatia diabetica rispetto alle
classi di livello socioeconomico più alto. I risultati
di uno studio condotto dalla Commissione regionale per l’assistenza diabetologica del Piemonte
mostrano come i diabetici con nessuna istruzione
o licenza elementare riportino un rischio di subire
un ricovero in emergenza o non programmato
superiore del 90% rispetto ai laureati (al netto di
alcuni fattori di rischio diversamente distribuiti
tra i due gruppi). La maggiore prevalenza della
malattia e la sua peggiore gestione si traducono
in una maggiore mortalità per diabete nelle persone socialmente vulnerabili: a Torino, nel periodo
2004-2008, il tasso standardizzato di mortalità
per diabete nelle persone con basso livello d’istruzione è stato 26/100.000, rispetto a 16/100.000
nelle persone con alto titolo di studio.
Le normative nazionali e internazionali
Le strategie internazionali specifiche sul diabete, di
cui si deve tenere conto oggi, riguardano, in particolar modo, le indicazioni definite a livello europeo nel Consiglio EPSCO (Occupazione, Politica Sociale, Salute e Consumatori) del giugno
2006, i contenuti della Risoluzione ONU del di-
10
cembre 2006, le conclusioni del Forum di New
York del marzo 2007 e i lavori della Commissione
europea su “Information to patient”, che evidenziano la necessità di sviluppare politiche nazionali
per la prevenzione, il trattamento e la cura del
diabete. Questo deve essere in accordo con lo sviluppo sostenibile dei vari sistemi di assistenza sanitaria, nonché con l’elaborazione di strumenti
adeguati per il raggiungimento di livelli di assistenza appropriati che abbiano l’obiettivo di stabilizzare la situazione patologica e migliorare la
qualità di vita del paziente. In particolare, i due
contributi più significativi, a livello europeo, sul
tema del diabete rimangono ancora quelli della
Presidenza irlandese (I semestre del 2004) e della
Presidenza austriaca (I semestre del 2006).
• Presidenza irlandese: durante il Consiglio della
Sanità [il forum d’incontro dei Ministri della
Sanità dell’Unione Europea (UE)], la Presidenza irlandese ha informato i colleghi dell’UE
della necessità di riconoscere il crescente tasso
di diffusione del diabete come questione d’interesse per la sanità pubblica europea. Ha suggerito che una strategia europea per il diabete
potrebbe contribuire alla riduzione della spesa
pubblica sanitaria in tutta l’UE. Il consenso
ottenuto dall’Irlanda è stato il primo passo per
collocare il diabete nell’ordine del giorno europeo.
• Presidenza austriaca: gli austriaci hanno annunciato che il diabete avrebbe rappresentato una
delle priorità del loro mandato alla Presidenza.
La Presidenza austriaca ha organizzato di conseguenza una conferenza di alto livello sul diabete (Vienna, febbraio 2006) e ha incluso il
diabete come voce formale nell’ordine del
giorno dell’assemblea del Consiglio della Sanità
nel giugno 2006. La conferenza ha portato a
una serie di raccomandazioni – conosciute sotto
il nome collettivo di “Dichiarazione di Vienna”
111
Ministero della Salute
– che trattano numerosi aspetti del diabete,
quali per esempio la prevenzione primaria e secondaria, la formazione degli operatori sanitari
e l’attenzione particolare per gruppi vulnerabili
come bambini, anziani e settori della popolazione socialmente svantaggiati.
La Dichiarazione di Vienna ha posto l’accento sulla
necessità di elaborare e attuare programmi nazionali sul diabete e una chiara strategia UE sul diabete e ha portato alle Raccomandazioni del Consiglio per la prevenzione, la diagnosi e il controllo
del diabete. Le indicazioni europee spingono per
un’“elaborazione di misure di sensibilizzazione
dell’opinione pubblica, di prevenzione primaria e
per una definizione di misure di prevenzione secondaria”, ponendo in particolare l’accento sull’utilità dell’adozione di un approccio gestionale
globale, multisettoriale e pluridisciplinare nei confronti dei diabetici e sull’implementazione della
formazione per il personale sanitario.
In particolare, le conclusioni del Consiglio EPSCO
sulla promozione di stili di vita e la prevenzione
del DT2 e delle sue complicanze hanno evidenziato
che il DT2 e le relative complicanze (cardiovascolari, renali, oftalmologiche e podologiche) sono
spesso diagnosticati tardivamente e che le misure
preventive, una diagnosi precoce e un’efficace gestione della malattia possono comportare una riduzione della mortalità dovuta al diabete, nonché
un aumento dell’aspettativa e della qualità di vita
nelle popolazioni europee. Pertanto, gli Stati membri sono stati invitati a ipotizzare interventi che,
tenuto conto delle risorse disponibili, favoriscano
la raccolta, la registrazione, il monitoraggio, la diffusione a livello nazionale di dati epidemiologici
ed economici completi sul diabete e l’elaborazione
e l’attuazione di piani quadro per la lotta contro il
diabete.
Inoltre, il Consiglio ha invitato la Commissione
Europea a sostenere gli sforzi compiuti dagli Stati
112
membri per prevenire il diabete e a promuovere
uno stile di vita sano, definendo il diabete come
“una sfida di salute pubblica in Europa” e incoraggiando lo scambio d’informazioni tra gli Stati,
con un’azione che rafforzi il coordinamento delle
politiche e dei programmi di promozione e di
prevenzione a favore, soprattutto, dei gruppi ad
alto rischio, riducendo, al tempo stesso, le disuguaglianze e ottimizzando le risorse.
È posta particolare attenzione all’utilità di “agevolare
e sostenere la ricerca generale e clinica sul diabete a
livello europeo”, con la necessità di attuare un’ampia
diffusione dei risultati a livello dei Paesi europei e
creando strumenti che permettano la comparabilità
dei dati epidemiologici sul diabete e metodi corretti
per il monitoraggio e la sorveglianza.
La Risoluzione (61/225) adottata dall’Assemblea
Generale dell’ONU sul diabete nel dicembre 2006
ha riconosciuto altresì che il diabete è una malattia
cronica, invalidante e costosa, associata a gravi
complicanze, e che rappresenta un serio rischio
per la famiglia, gli Stati membri e il mondo intero
e che mette a repentaglio il raggiungimento degli
obiettivi condivisi a livello internazionale, che includono i Millennium Development Goals. Inoltre,
richiamando la risoluzione WHA 42.36 del 19
maggio 1989 della World Health Assembly sulla
prevenzione e il controllo del diabete e quella
WHA 57.17 del 22 maggio 2004 sulla strategia
globale su dieta, attività fisica e salute, decide di
designare il 14 novembre, l’attuale Giornata Mondiale del Diabete, come Giorno delle Nazioni
Unite, da osservare ogni anno a partire dal 2007.
Invita tutti gli Stati membri, le organizzazioni di
rilievo del sistema delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, come pure le società
civili, includendo le organizzazioni non governative e quelle del settore privato, a osservare la
Giornata Mondiale del Diabete in maniera appropriata, in modo da aumentare la consapevo-
Parte Seconda – La situazione attuale
lezza pubblica sul diabete e le relative complicanze,
così come la sua prevenzione e terapia, anche mediante l’educazione e i mass-media. Incoraggia gli
Stati membri a sviluppare politiche nazionali per
la prevenzione, il trattamento e la cura del diabete,
in linea con lo sviluppo sostenibile dei propri sistemi sanitari, prendendo in considerazione gli
obiettivi su cui sussiste un accordo internazionale,
che includono i Millennium Development Goals.
L’impegno del Ministero della Salute italiano in
questi ultimi anni è stato quello di rendere attuali
e innovativi i contenuti delle norme specifiche
sul diabete, individuando strategie che richiedessero regole operative basate su un ampio dialogo
e collaborazione fra tutti i principali protagonisti
dell’assistenza al diabete, in una reale sinergia fra
le Regioni, le Associazioni professionali, il Volontariato, le Istituzioni pubbliche e private.
Il Servizio Sanitario oggi è considerato un “complesso di funzioni esercitate dai Servizi Sanitari
Regionali, dagli Enti e dalle Istituzioni di rilievo
nazionale, nonché dallo Stato, nel rispetto dei
principi di sussidiarietà e leale collaborazione” e,
come conseguenza, l’impegno richiesto per migliorare l’assistenza alla persona con diabete dovrà
essere in linea con il contesto istituzionale e normativo attuale, caratterizzato dalla modifica del
titolo V della Costituzione e dall’individuazione
dei livelli essenziali di assistenza con il DPCM
del 29 novembre 2001 e successive integrazioni.
In tale assetto ordinamentale si possono ritenere
tuttora attuali le finalità generali individuate dalla
Legge n. 115 del 1987 e dall’Atto d’Intesa del 1991
e gli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale 20062008, che pone il diabete fra le quattro grandi patologie, insieme a malattie respiratorie, malattie
cardiovascolari e tumori, evidenziando l’importanza
della riorganizzazione delle cure primarie, dell’integrazione tra i diversi livelli di assistenza, esaltando
al tempo stesso il ruolo del cittadino e della società
10
civile nelle scelte e nella gestione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Le strategie nazionali differentemente non possono
non tenere conto, oltre che delle indicazioni dell’OMS e della Dichiarazione di Saint Vincent – che
ponevano l’accento sullo sviluppo di un programma
nazionale per il diabete e sull’importanza dell’intervento pubblico di governi e amministrazioni per
assicurare la prevenzione e la cura della patologia
diabetica – anche delle indicazioni europee.
In particolare, le strategie nazionali, con le relative
iniziative avviate dal Ministero della Salute, tengono conto delle disposizioni italiane specifiche
esistenti sulla malattia (Legge n. 115 del 16 marzo
1987, Atto di Intesa del 1991, Decreto Ministeriale
8 febbraio 1982 e successive integrazioni) che già
garantiscono un’adeguata tutela alle persone affette
da malattia diabetica. Infatti, un miglioramento
della qualità dell’assistenza potrebbe essere già assicurato sia con la completa applicazione di tali
provvedimenti, sia con l’attuazione d’interventi
organizzativi adeguati piuttosto che con modifiche
legislative. L’Italia è stata il primo Paese al mondo
a dotarsi di una specifica Legge (n. 115/87) che
disciplina e identifica i criteri per l’assistenza alle
persone affette da diabete e ne proclama i diritti
anche dal punto di vista della discriminazione sul
lavoro e nello studio. La Legge 115, poi resa in
parte operativa dal Protocollo d’Intesa fra lo Stato
e le Regioni del 1991, resta un esempio unico al
mondo, che ha fortemente contribuito alla consapevolezza delle problematiche legate alla cura di
soggetti affetti da una malattia di lunga durata e
gravata da importanti complicanze.
La Legge n. 115 del 16 marzo 1987 e il successivo
Atto d’Intesa Stato-Regioni del 1991 rappresentano,
quindi, la base legislativa di riferimento specifica
per la programmazione dell’assistenza al paziente
con diabete in Italia, in accordo con i diversi Piani
Sanitari o disposizioni regionali. Queste norme
113
Ministero della Salute
stabiliscono i canoni dell’assistenza, demandando
alle Regioni l’applicazione delle norme al fine di
promuovere modalità uniformi di assistenza. Entrambi i provvedimenti forniscono indicazioni
per un’organizzazione dell’assistenza al soggetto
con diabete, tenendo conto di alcune considerazioni importanti:
• il diabete è una malattia cronica;
• il diabete è una patologia cui va riconosciuto
carattere di particolare rilievo sociale e che incide significatamene sulla spesa sanitaria;
• ottimizzare l’assistenza al diabetico significa determinare un incremento dell’aspettativa di vita
e un miglioramento della qualità della stessa.
In particolare, l’Atto d’Intesa, definito ai sensi dell’art. 2 della Legge n. 115/1987, indica gli interventi idonei per l’individuazione delle fasce di popolazione a rischio per l’insorgenza di diabete,
prevede la programmazione di specifici interventi
sanitari e definisce criteri di uniformità riguardanti
gli aspetti strutturali e organizzativi dei servizi
diabetologici.
I programmi di prevenzione che riguardano il diabete in Italia fanno riferimento a diverse linee d’attività, quali la Collaborazione con la Regione europea dell’OMS alla definizione di una strategia
di contrasto alle malattie croniche, denominata
Gaining Health. Questa cooperazione con l’OMS
ha portato alla costruzione di una strategia europea
di contrasto all’obesità: la predisposizione, attraverso il CCM e in collaborazione con l’ISS, del
progetto IGEA (Integrazione, Gestione e Assistenza per la malattia diabetica), lo sviluppo e coordinamento del Piano Guadagnare Salute e la
partecipazione dell’Italia alla definizione delle indicazioni europee sul diabete da parte del Consiglio
EPSCO nel 2006. Il Ministero della Salute ha introdotto nel 2004 le complicanze del diabete tra
le aree d’intervento prioritarie. Il documento è
stato oggetto di accordo tra lo Stato e le Regioni
114
in data 6 aprile 2004 per l’erogazione delle quote
vincolate agli obiettivi de Piano Santitario Nazionale 2003-2005, e infine modificato e integrato
come Piano Nazionale della Prevenzione 20052007, allegato 2 all’Intesa Stato Regioni del 23
marzo 2005. Con tale Piano il SSN si è posto
l’obiettivo di promuovere attivamente l’adesione
consapevole dei cittadini agli interventi per la prevenzione delle principali patologie (malattie cardiovascolari, diabete, tumori, malattie infettive).
Il Piano di Prevenzione Attiva considerava la prevenzione delle complicanze del diabete attuata tramite l’adozione di programmi di disease management, intendendosi con questo termine la strategia
di gestione delle malattie croniche che prevede:
• la partecipazione attiva del paziente nella gestione attiva della malattia (attraverso programmi di educazione e di supporto dello stesso,
svolti a livello della rete primaria di assistenza);
• l’attivazione di una catalogazione di sistemi atti
a garantire la regolare esecuzione di una serie
di controlli periodici da parte del paziente;
• l’attivazione di un sistema di monitoraggio,
su base informatizzata.
Nella riunione del 29 aprile 2010 della Conferenza
Stato-Regioni è stata sottoscritta l’Intesa sul Piano
Nazionale della Prevenzione 2010-2012, che individua le seguenti macro-aree d’intervento: la
medicina predittiva, i programmi di prevenzione
sia collettiva sia rivolti a gruppi di popolazione a
rischio, i programmi volti a prevenire le complicanze e le recidive di malattia.
Monitoraggio dei provvedimenti regionali
di recepimento e attuazione
della Legge 115/1987 e dell’Atto di Intesa
Stato-Regioni del 1991
L’analisi dei provvedimenti regionali pervenuti
presso la Direzione Generale della Programma-
Parte Seconda – La situazione attuale
zione di questo Ministero, aggiornata al 31 dicembre 2010, ha evidenziato come la regolamentazione a livello locale dell’assistenza diabetologica
sia abbastanza omogenea per quanto riguarda la
parte sanitaria, meno per quanto riguarda l’impatto sociale della patologia.
Quasi tutte le Regioni hanno recepito la Legge n.
115 del 1987, ma in diversi casi si è trattato solo
di un semplice riferimento contenuto nei piani
sanitari triennali o in leggi di portata più generale.
Solo alcune hanno accolto il provvedimento nazionale con specifiche delibere di giunta regionale
contenenti, altresì, indicazioni attuative. La maggior parte delle Regioni ha, tuttavia, adottato in
materia ulteriori provvedimenti, dedicati in alcuni
casi all’organizzazione generale della rete assistenziale, in altri a specifici settori della stessa.
Per quanto concerne, in particolare, la rete d’assistenza, quasi tutte le Regioni hanno previsto l’istituzione di servizi specialistici diabetologici, sia a
livello ospedaliero, nell’ambito di un sistema dipartimentale interdisciplinare e polispecialistico,
sia a livello territoriale. Non sempre, tuttavia, si è
riuscito a definirne con esattezza il ruolo.
È previsto da quasi tutte le Regioni l’affidamento
degli stessi ai diabetologi pediatri nei servizi di
diabetologia pediatrica, mentre mancano in molti
casi le indicazioni sull’istituzione delle equipe pediatriche di diabetologia con attribuzione di personale dedicato.
Appaiono altresì scarse le indicazioni relative alla
definizione del ruolo svolto dai medici di medicina
generale (MMG), né si è provveduto alla definizione di specifici programmi di assistenza da parte
degli stessi MMG e pediatri di libera scelta (PLS),
10
secondo quanto previsto dai DPR e dai contratti
decentrati.
La definizione di un collegamento organizzativo
tra ospedale e territorio per assicurare un’adeguata
continuità assistenziale è contenuta in quasi tutti
i provvedimenti regionali, come pure la previsione
e istituzione di specifiche commissioni di esperti.
Non appare ancora chiaro, invece, il ruolo svolto
dai distretti nell’ambito della rete assistenziale per
il paziente con diabete mellito.
Le Regioni che hanno fornito indicazioni sulla
formazione del personale sanitario, così come sugli
interventi di educazione sanitaria rivolti alla popolazione diabetica, sono poche. Con riferimento
a questo ultimo aspetto, appaiono altresì scarse le
indicazioni fornite dalle Regioni sui campi scuola.
Per quanto concerne la regolamentazione di specifici aspetti legati alla materia in oggetto, tutte le
Regioni hanno fornito, seppure spesso in maniera
contrastante, indicazioni sull’erogazione dei presidi sanitari.
Poche sono le Regioni che hanno fornito indicazioni sull’inserimento dei diabetici nelle attività
scolastiche, nelle attività sportive e in quelle lavorative. Del tutto assenti, del resto, sono le indicazioni sul reinserimento sociale dei cittadini colpiti
da gravi complicanze postdiabetiche.
L’importanza dell’attività svolta dalle Associazioni
di Volontariato è riconosciuta dalla maggior parte
delle Regioni.
Sotto il profilo della prevenzione, infine, sono
poche le Regioni che individuano fasce di popolazione a rischio diabete e ancora meno sono
quelle che prevedono specifici interventi operativi
sulle stesse.
115
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
11. Appropriatezza clinica
Appropriatezza diagnostica
L’appropriatezza diagnostica del diabete si basa
sull’utilizzo corretto di criteri che sono maturati
nel corso degli anni e che sono stati di recente ulteriormente definiti. Tali criteri sono riportati
nella Tabella 11.1.
La misurazione della glicemia a digiuno o durante
test da carico orale di glucosio (oral glucose tolerance
test, OGTT), nonché il dosaggio dell’HbA1c consentono anche di individuare soggetti a rischio di
diabete e di malattia cardiovascolare. Si parla, in-
Tabella 11.1 Criteri diagnostici per il diabete
In presenza dei sintomi tipici della malattia (poliuria, polidipsia,
calo ponderale), la diagnosi di diabete si pone con il riscontro,
anche in una sola occasione, di glicemia casuale ≥ 200 mg/dl (indipendentemente dall’assunzione di cibo)
A prescindere dai sintomi tipici della malattia, la diagnosi di diabete si pone con il riscontro, confermato in almeno due diverse
occasioni di:
• HbA1c ≥ 6,5% (solo con dosaggio allineato con il metodo
DCCT/UKPDS)
oppure
• glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (con dosaggio dopo almeno 8
ore di digiuno)
oppure
• glicemia ≥ 200 mg/dl 2 ore dopo carico orale di glucosio (eseguito con 75 g)
DCCT, Diabetes Control and Complications Trial ; UKPDS, UK Prospective
Diabetes Study.
fatti, di alterata glicemia a digiuno (impaired fasting
glycaemia, IFG) in caso di valori di glicemia a digiuno tra 100 e 125 mg/dl e di ridotta tolleranza
al glucosio (impaired glucose tolerance, IGT)
quando la glicemia a 2 ore dopo carico orale di
glucosio è di 140-199 mg/dl. Quest’ultima condizione è diagnosticata anche in caso di valori di
HbA1c da 5,7% a 6,4 % o da 6,00% a 6,49% secondo la voce bibliografica.
In tutte queste situazioni (precedentemente definite
come prediabete) deve essere ricercata la presenza di
altri fattori di rischio per l’insorgenza del diabete
(obesità, familiarità ecc.) al fine di programmare interventi per ridurre l’incidenza della malattia. Si
dovrà inoltre accertare la presenza di aggiuntivi fattori
di rischio cardiovascolare (dislipidemia, ipertensione
ecc.) per definire il rischio cardiovascolare globale e
instaurare gli opportuni provvedimenti terapeutici.
Infine, nei soggetti con alterata glicemia a digiuno,
soprattutto in presenza di altri fattori di rischio per
l’insorgenza del diabete, è utile l’esecuzione del test
con OGTT per una migliore definizione diagnostica
e prognostica del disturbo metabolico.
In conclusione, si ricorda come, ora, il dosaggio
della glicemia a digiuno, l’esecuzione dell’OGTT
o la misurazione dell’HbA1c siano ritenuti ugualmente utili per la diagnosi di diabete, pur nella
consapevolezza delle differenze fra tali valutazioni.
117
Ministero della Salute
Per esempio, la glicemia a digiuno può evidentemente identificare una condizione di IFG mentre
l’OGTT può individuare sia l’IFG sia l’IGT. Tuttavia, la valutazione dell’HbA1c è considerata, nel
complesso, più affidabile, purché si utilizzi un metodo allineato con lo standard DCCT/UKPDS
(Diabetes Control and Complications Trial/UK Prospective Diabetes Study) e non sussistano condizioni
che rendano problematica l’interpretazione del suo
valore (in particolare emoglobinopatie, malaria,
anemia cronica o emolitica, recente emorragia o
trasfusione, splenectomia, uremia, marcata iperbilirubinemia, marcata ipertrigliceridemia, marcata
leucocitosi, alcolismo). I motivi di questa maggiore
affidabilità HbA1c sono molteplici e includono una
migliore standardizzazione del dosaggio, una minore instabilità preanalitica e variabilità biologica,
la non necessità di un prelievo dopo 8 ore di digiuno o dopo glucosio orale, la mancanza d’influenza da parte di perturbazioni acute (es. stress
da prelievo). Inoltre, come ben noto, l’HbA1c è
espressione della glicemia media di un lungo periodo (2-3 mesi) e non di un singolo momento.
Alla luce di quanto finora discusso, è evidente
come il percorso diagnostico del diabete sia ben
stabilito. Tuttavia, si ritiene che, in Italia, circa
un terzo di tutti i casi di diabete (pari a 1-2 milioni
di persone) sia misconosciuto e che, in generale,
la diagnosi clinica di questa malattia sia mediamente preceduta da una fase asintomatica della
durata di circa 7 anni.
Durante questo periodo l’iperglicemia esercita effetti deleteri a livello dei tessuti bersaglio [tant’è
vero che, per esempio, alla diagnosi di diabete di
tipo 2 (DT2) sono spesso già presenti le complicanze croniche del diabete]; è verosimile che una
diagnosi precoce della malattia consenta di ridurre
il rischio d’insorgenza di complicanze croniche.
Questo implica la necessità di programmare azioni
di screening, tramite le quali valutare soggetti
118
asintomatici e identificare quelli più probabilmente affetti dalla malattia d’interesse.
In linea generale, l’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS) ha definito i criteri che rendono
un test di screening appropriato. Tale condizione
si realizza se il test è semplice da eseguire, facile da
interpretare, accettabile dalla persona cui è proposto, di elevata accuratezza diagnostica, ripetibile
nel tempo e dotato di un favorevole rapporto costo-beneficio. Lo screening di massa è al momento
sconsigliato per quanto riguarda il DT2, mentre
l’adozione di strategie di prevenzione secondaria
rivolte a soggetti ad alto rischio consente di ottenere vantaggi in misura superiore ai potenziali
svantaggi. I criteri per l’individuazione dei soggetti
da valutare sono riportati nella Tabella 11.2.
Per quanto riguarda eventuali controlli successivi,
se i test eseguiti sono negativi, possono essere ripetuti ogni 3 anni, mentre in caso di aumentato
rischio il follow-up dovrà essere consequenzialmente più stringente, in relazione al quadro clinico
emerso.
Tabella 11.2 Criteri per l’individuazione dei soggetti a rischio per l’insorgenza di diabete di tipo 2
Adulti di ogni età, se il BMI è ≥ 25 kg/m2 e in presenza
di fattori di rischio aggiuntivi quali:
• Precedente IFG e/o IGT
• Pregresso diabete gestazionale
• Inattività fisica
• Familiarità di primo grado con pazienti affetti da DT2 (genitori,
fratelli)
• Appartenenza a gruppo etnico ad alto rischio
• Ipertensione arteriosa (≥ 140/90 mmHg) o terapia antipertensiva in atto
• Livelli di colesterolo HDL ≤ 35 mg/dl e/o di trigliceridi ≥ 250
mg/dl
• Nella donna, parto di un neonato di peso > 4 kg
• Sindrome dell’ovaio policistico o altre condizioni d’insulinoresistenza come l’acanthosis nigricans
• Adulti di età ≥ 45 anni, in assenza dei fattori di rischio elencati
al punto precedente
BMI, indice di massa corporea; DT2, diabete di tipo 2; HDL, lipoproteine
a elevata densità; IFG, alterata glicemia a digiuno; IGT, alterata tolleranza
al glucosio.
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
Obiettivi terapeutici
Numerosi studi d’intervento hanno ormai chiaramente dimostrato come la prevenzione dello
sviluppo delle complicanze croniche (macro- e
microvascolari) del diabete (o almeno una loro
più lenta progressione) passi attraverso una precoce e attenta strategia terapeutica volta al controllo di molteplici fattori di rischio, e come tutto
questo abbia poi anche effetti positivi sull’aspettativa di vita dei pazienti. Tali fattori di rischio
(alcuni non modificabili, altri direttamente aggredibili) sono rappresentati, in particolare, da
età, sesso, familiarità per coronaropatia o morte
improvvisa, durata del diabete, controllo glicemico, attività fisica, fumo, peso corporeo e distribuzione del grasso corporeo, pressione arteriosa,
lipidi plasmatici, microalbuminuria.
La Tabella 11.3 riporta le raccomandazioni attualmente condivise circa alcuni degli obiettivi
terapeutici da perseguire nei pazienti diabetici per
quanto riguarda il controllo glicemico, la pressione
arteriosa e i lipidi plasmatici.
Tabella 11.3 Obiettivi terapeutici da raggiungere nel
trattamento del diabete di tipo 2 per il
controllo della glicemia, della pressione
arteriosa e dei lipidi plasmatici
Parametro
Obiettivo
Glicemia a digiuno e preprandiale
Glicemia postprandiale*
HbA1c#
Pressione arteriosa$
Colesterolo LDL§
Colesterolo HDL
70-130 mg/dl
< 180 mg/dl
< 7,0%
< 130/80 mmHg
< 100 mg/dl
> 40 mg/dl nell’uomo
> 50 mg/dl nella donna
< 150 mg/dl
Trigliceridi
* Misurata 2 ore dopo l’inizio del pasto; valori < 140 mg/dl nei pazienti
con diabete di tipo 2.
# Vedi testo per discussione circa i casi in cui perseguire HbA < 6,5%.
1c
$ < 125/75 mmHg nei pazienti con proteinuria > 1 g/die.
§ Nei pazienti con malattia cardiovascolare valori < 70 mg/dl possono
essere un obiettivo opzionale.
11
Il controllo glicemico è di fondamentale importanza
nella gestione del diabete. Studi clinici randomizzati
controllati come il DCCT, condotto in soggetti con
diabete di tipo 1 (DT1), l’UKPDS e lo studio ADVANCE, condotti in soggetti con DT2, hanno dimostrato come il miglioramento del compenso glicemico sia associato alla riduzione dell’incidenza di
complicanze microangiopatiche. Lo studio DCCTEDIC (follow-up osservazionale dei pazienti reclutati nel DCCT) ha dimostrato, inoltre, come gli
effetti protettivi del trattamento intensivo sul rischio
di malattia microvascolare si mantengano nei diabetici tipo 1 anche dopo alcuni anni dal termine
del trial, malgrado il controllo glicemico nel gruppo
in trattamento intensivo fosse divenuto equivalente
a quello del trattamento standard durante i quattro
anni di osservazione. Analogamente a quanto osservato nello studio DCCT-EDIC, il follow-up a
distanza di 10 anni dalla conclusione dell’UKPDS
ha confermato, nei pazienti con diabete di tipo 2, i
benefici sulle complicanze microvascolari osservati
nel gruppo in trattamento intensivo durante la
prima fase dello studio, sebbene il controllo glicemico fosse divenuto, anche in questo caso, equivalente a quello dei pazienti in trattamento standard.
Per quanto riguarda il ruolo del controllo glicemico
sulla riduzione degli eventi cardiovascolari, i dati
a disposizione non sono univoci. Diversi studi osservazionali prospettici e metanalisi hanno dimostrato che il rischio di complicanze macrovascolari
nel diabete correla con i valori di HbA1c, il che
suggerisce che il miglioramento dei livelli glicemici
possa prevenire o comunque ridurre l’incidenza
degli eventi cardiovascolari. Questa ipotesi ha ritrovato finora solo parziale supporto negli studi
clinici d’intervento. Nel già ricordato studio
DCCT, è stata osservata una tendenza verso la riduzione degli eventi cardiovascolari nel gruppo di
pazienti con DT1 in trattamento intensivo rispetto
al gruppo con terapia standard, senza però che ciò
119
Ministero della Salute
fosse confortato da significatività statistica. Tuttavia, il follow-up del trial ha dimostrato che gli effetti protettivi del trattamento intensivo sul rischio
di malattia cardiovascolare nei pazienti con DT1
diventano significativi a 11 anni di distanza dal
termine della fase d’intervento.
Nei pazienti con DT2, lo studio UKPDS riporta
nei pazienti in trattamento intensivo, e quindi
meglio controllati, una riduzione dell’infarto del
miocardio del 16% (al limite della significatività
statistica). La differenza è tuttavia divenuta significativa durante il successivo studio osservazionale,
dal quale è anche emerso che il migliore controllo
glicemico si associava a riduzione della mortalità
totale e per malattie cardiovascolari. Tre studi d’intervento più recenti hanno invece dimostrato che
l’ottimizzazione del controllo glicemico (HbA1c
< 6,5% o < 7,0%) non ha portato a una riduzione
significativa degli eventi cardiovascolari. Anzi, in
uno di essi è stato riportato un aumento della
mortalità totale e cardiovascolare nel gruppo a
controllo glicemico ottimizzato. Tali risultati, tuttavia, sono almeno in parte riconducibili ai limiti
intrinseci negli studi disponibili (inclusione di
diabetici con lunga durata di malattia, alta percentuale di pazienti con neuropatia e altre complicanze croniche, eccessiva e forse troppo rapida
riduzione dell’HbA1c, aumento di frequenza dell’ipoglicemia, insufficiente durata del follow-up).
Si evince quindi, dai dati disponibili, come l’ottimizzazione del controllo glicemico così da avere
valori di HbA1c intorno a 6,5-7,0% sia appropriata
al fine di ridurre il rischio di microangiopatia (in
particolare retinopatia e nefropatia) nei pazienti
con DT1 e DT2. Si devono perseguire, differentemente, il raggiungimento e il mantenimento di
valori di HbA1c ≤ 7,0% per quanto riguarda la
prevenzione dello sviluppo e/o della progressione
delle complicanze macrovascolari. Tuttavia, nel
DT2 gli obiettivi glicemici più stringenti (HbA1c
120
≤ 6,5%) possono essere perseguiti in tutti quei
soggetti in cui l’ottimizzazione dei valori della glicemia può essere ottenuta senza eccessivi rischi di
ipoglicemie o altri effetti collaterali, in assenza di
patologie cardiache, e specialmente se il trattamento intensivo è iniziato al momento della diagnosi. Peraltro, in pazienti anziani e fragili, con
lunga durata della malattia, con storia clinica di
gravi ipoglicemie, con ridotta aspettativa di vita,
così come in presenza di complicanze micro- e
macrovascolari avanzate o comorbilità, ci si dovrà
limitare a perseguire un compenso glicemico
meno ambizioso (HbA1c 7,0-7,5%).
Dal punto di vista operativo, il dosaggio dell’HbA1c
deve essere effettuato almeno due volte l’anno in
ogni paziente diabetico, anche allorquando il controllo glicemico sia stabilmente nell’ambito dell’obiettivo terapeutico. Nei pazienti in cui è stata
modificata la terapia antidiabetica, oppure l’obiettivo
non è stato ancora raggiunto o stabilizzato, il dosaggio dell’HbA1c deve essere effettuato ogni 3 mesi.
Un altro aspetto importante è quello riguardante la
pressione arteriosa. È ben noto, infatti, come l’ipertensione arteriosa sia una comorbilità comune del
DT2 e rappresenti un importantissimo fattore di
rischio per lo sviluppo di patologia cardiovascolare
e complicanze microvascolari. È stato dimostrato,
in studi d’intervento, che valori di pressione arteriosa
< 130 mmHg per la sistolica e < 80 mmHg per la
diastolica si associano a riduzione di eventi coronarici, ictus e incidenza di nefropatia. Questi studi
supportano anche la raccomandazione di un livello
target di pressione diastolica di 80 mmHg, in quanto
ciò comporta una significativa riduzione delle complicanze micro- e macrovascolari, nonché della mortalità cardiovascolare e diabete-correlata. Il conseguimento di una pressione arteriosa sistolica di circa
130 mmHg è associato a una ridotta mortalità totale
e a una minore incidenza di ictus. Un obiettivo
pressorio ≤ 125/75 mmHg è invece raccomandato
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
per i soggetti diabetici con proteinuria ≥ 1 g/die. È
da notare che, a differenza di quanto osservato per
il controllo glicemico, per il quale persistono effetti
positivi anche alcuni anni dopo il perseguimento
dell’ottimizzazione dei valori di glicemia, nei pazienti
con DT2 l’azione benefica del buon controllo pressorio sussiste fintanto che tale buon controllo è
mantenuto, mentre scompare rapidamente in caso
di ritorno a valori pressori non adeguati.
La pressione arteriosa va misurata a ogni visita
medica e la diagnosi di ipertensione arteriosa in
un paziente con DT2 va posta in caso di riscontro,
in due occasioni separate, di valori ≥ 130 mmHg
per la sistolica e/o ≥ 80 mmHg per la diastolica.
In caso di trattamento farmacologico, i pazienti
dovrebbero essere monitorati frequentemente e
la dose del farmaco aggiustata finché non siano
raggiunti gli obiettivi pressori raccomandati.
Di fondamentale importanza è anche il controllo
adeguato dei parametri lipidici. Numerosi studi clinici hanno fornito evidenze scientifiche molto forti
sull’efficacia del trattamento ipocolesterolemizzante,
in particolare con le statine, nella popolazione generale, in prevenzione sia primaria sia secondaria.
Sebbene gli studi effettuati nella popolazione diabetica siano in numero inferiore, le conclusioni
vanno nella medesima direzione. Due recenti metanalisi dimostrano che la riduzione di 1 mmol di
colesterolo LDL induce, nei pazienti con DT2,
una riduzione significativa della mortalità totale,
di quella cardiovascolare e di tutti gli eventi cardiovascolari. Inoltre, la riduzione del rischio relativo
e di quello assoluto è significativamente presente,
indipendentemente dal livello di colesterolo LDL
iniziale, in prevenzione sia primaria sia secondaria.
I risultati di numerosi studi epidemiologici riportano che anche l’ipertrigliceridemia e i bassi livelli
di colesterolo HDL sono da considerarsi fattori
di rischio cardiovascolare indipendenti. Mancano,
tuttavia, evidenze scientifiche solide sul ruolo del
11
trattamento di queste due alterazioni nel ridurre
gli eventi cardiovascolari, in particolare in prevenzione primaria. Nella pratica clinica, la riduzione del colesterolo LDL rimane il primo obiettivo terapeutico; tuttavia, nei casi in cui i trigliceridi e/o il colesterolo HDL non siano entro gli
intervalli raccomandati, vanno prese in considerazione terapie aggiuntive (fibrati, acido nicotinico). I dati sulla sicurezza dell’associazione delle
statine con altri farmaci antidislipidemici, specie
in relazione al rischio di miosite, non sono definitivi, sebbene i risultati disponibili indichino
che, in particolare, l’aggiunta di fenofibrato alle
statine non aumenta il rischio di eventi avversi.
I controlli dei parametri lipidici vanno misurati almeno una volta l’anno. Tuttavia, nei soggetti in
cui (in assenza di terapia antidislipidemica) il profilo
è particolarmente buono (colesterolo LDL < 100
mg/dl, colesterolo HDL > 50 mg/dl, trigliceridi
< 150 mg/dl), è sufficiente eseguire il controllo
ogni 2 anni.
Da quanto esposto, emerge chiaramente come sia
necessario avere obiettivi precisi da perseguire se
si vuole intervenire favorevolmente sulla prognosi
dei pazienti diabetici. Non a caso, negli studi d’intervento in cui i molteplici fattori di rischio per
patologia vascolare erano aggrediti simultaneamente si sono raggiunte impressionanti riduzioni
degli eventi cardiovascolari e della mortalità.
Educazione terapeutica
Premessa metodologica
L’educazione terapeutica va distinta dall’educazione
sanitaria e dall’informazione sanitaria. Per educazione sanitaria s’intende l’insieme d’informazioni
generali sulle norme di comportamento, conoscenze, atteggiamenti, abitudini, valori che contribuiscono a esporre a (o a proteggere da) un danno
121
Ministero della Salute
alla salute. Si riferiscono specificamente a soggetti
sani e non possono comprendere norme generali
che si apprendono in ambiente familiare, scolastico,
sociale e non solo medico. Un esempio può essere
rappresentato dai “consigli” forniti in farmacia direttamente o attraverso opuscoli, manifesti, libretti.
Per informazione sanitaria s’intende la diffusione
di qualsiasi informazione di carattere sanitario senza
verifica dell’effetto che la trasmissione dei messaggi
informativi provoca nei destinatari. Può essere attuata mediante messaggi verbali diretti, filmati,
opuscoli, manifesti. Un esempio può essere fornito
da opuscoli, poster e video presenti nelle sale d’attesa
delle strutture sanitarie. Un altro esempio può essere
fornito dalla campagna di spot televisivi promossi
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Per educazione terapeutica s’intende un complesso
di attività educative che si rivolge a specifiche categorie di soggetti e che si esplica attraverso la trasmissione di conoscenze, l’addestramento a conseguire abilità e a promuovere modifiche dei comportamenti. Per sua natura presuppone specifiche
competenze degli educatori non solo di tipo scientifico, ma anche comunicativo, l’utilizzo di specifiche metodologie e la verifica dei risultati ottenuti
per ciascuno dei tre campi dell’educazione. Alcuni
esempi di educazione terapeutica strutturata sono offerti dagli approcci in equipe oggetto di pubblicazione
da parte dell’Università degli Studi di Torino e del
Gruppo di Studio ETS (Educazione Terapeutica Strutturata) dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD).
Scopo dell’educazione terapeutica
L’educazione terapeutica ha come scopo quello
di migliorare l’efficacia delle cure del diabete mellito attraverso la partecipazione attiva e responsabile delle persone con diabete al programma delle
cure. Il miglioramento non solo degli stili di vita,
ma anche delle abilità personali nelle attività di
122
supporto alle cure e alle scelte di modifiche concordate dei trattamenti (es. modifiche delle dosi
dell’insulina da praticare dopo opportuno counting
dei carboidrati), è responsabile della maggiore efficacia delle cure stesse e del benessere psicofisico
delle persone con diabete.
Metodologia didattica
L’approccio didattico attualmente considerato più
efficace è rivolto a potenziare le capacità delle persone con diabete a operare scelte informate di autogestione. La terminologia “educazione all’autogestione del diabete” [Diabetes Self-Management
Education (DSME), adottata sia dall’American
Diabetes Association (ADA) sia dall’International
Diabetes Federation (IDF)] riflette il riconoscimento che il 95% delle cure del diabete è fornito
dalle persone con diabete e dalle loro famiglie.
L’educazione è stata una parte integrante della
cura intensiva del DT1 nel DCCT, così come
l’educazione alimentare ha avuto un impatto significativo nell’UKPDS (DT2) prima della randomizzazione; come conseguenza di questi dati,
l’educazione è considerata una parte essenziale
della cura del diabete.
Evidenza sull’efficacia
Molti studi hanno riscontrato che l’educazione all’autogestione del diabete è associata a: miglioramento della conoscenza del diabete, miglioramento
nelle modalità di autocura, miglioramento negli
esiti, come la riduzione dell’HbA1c, calo ponderale
riferito e miglioramento della qualità della vita.
I migliori esiti nel medio termine sono stati riferiti
con l’educazione all’autogestione del diabete di più
lunga durata, che includeva un rinforzo educativo
nel follow-up, era adattata alle esigenze e preferenze
individuali e indirizzata ai problemi psicosociali.
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
11
L’evidenza attualmente disponibile in merito a
specifici modelli educativi, tecniche e frequenza
degli incontri indica nel modello educativo-terapeutico di gruppo di lunga durata un approccio
che ha dimostrato per il DT2 efficacia nel migliorare alcuni parametri di controllo come
l’HbA1c e la pressione arteriosa, oltre che le conoscenze sul diabete.
La presenza di un’attività infermieristica nel coordinamento degli interventi educativi e l’inserimento nell’attività clinica quotidiana, coordinata
da infermieri e dietisti, di modelli educativo-terapeutici di gruppo sono efficaci a breve e medio
termine, anche in pazienti con DT1.
Modelli applicativi
Il Gruppo Italiano Studio Educazione Diabete
(GISED), equivalente italiano del Gruppo di Studio europeo DESG (Diabetes Education Study
Group), è attivo in ambito di ricerca e formazione
per l’educazione terapeutica della persona con
diabete. In ambito di formazione continua sono
attive la Scuola di Formazione permanente dell’AMD, la Scuola di Formazione Permanente
dell’associazione infermieristica OSDI (Associazione Operatori Sanitari di Diabetologia Italiani)
e il Gruppo di Lavoro Educazione Terapeutica
Strutturata.
Un’indagine promossa dal GISED nel 2004 su
650 strutture diabetologiche censite dall’AMD
fornisce le seguenti informazioni:
• l’applicazione nella realtà clinica secondo il
modello organizzativo attuale presenta difficoltà;
• il tempo dedicato dai diversi operatori sanitari
all’attività educativa copre una parte minima
dell’orario settimanale;
• l’educazione viene svolta in molti casi in maniera non strutturata;
• gli interventi di gruppo sono attuati solo in
poco più della metà dei centri e non sempre si
hanno orari e/o spazi dedicati;
• è presente un diminuito utilizzo di tecniche
metodologicamente adeguate;
• la valutazione e/o la registrazione dell’attività
educativa spesso non sono eseguite, per carenze
di organico o strutturali.
Una corretta implementazione di attività di educazione terapeutica va attuata in equipe, da personale formato, mediante l’uso di metodologia
rigorosa, linguaggio omogeneo e verifica dei risultati a breve e medio termine. L’efficacia di questo tipo di attività educativa va tradotta in verifiche
dei comportamenti dei destinatari e in outcome
clinici misurabili. L’attività di educazione terapeutica va rinforzata periodicamente in funzione
dei percorsi diagnostico-terapeutici attuati, della
tipologia e dei bisogni delle persone con diabete.
Il modello assistenziale ed educativo che ha permesso di migliorare il compenso clinico-metabolico nel paziente con DT2 e la qualità di vita è
quello della terapia di gruppo o “Group Care”,
che risulta avere un beneficio costo-efficace. Secondo la rassegna del NICE, il rapporto costo-efficacia dipende dal tipo di programma educativo;
nonostante la scarsità delle evidenze riguardanti
il costo dell’educazione in generale, si conclude
che, dati i costi relativamente contenuti associati
ai programmi, anche modesti miglioramenti in
termini di morbilità giustificano ampiamente gli
interventi educativi strutturati. Gli interventi educativi sono più efficaci se strutturati in un sistema
integrato d’interventi diversificati di formazione
degli operatori sanitari e sull’organizzazione, così
com’è avvenuto nel modello educativo-terapeutico
della “Group Care”.
Esperienze italiane ed evidenze
123
Ministero della Salute
Strumenti formativi disponibili
Gli strumenti di formazione degli operatori sanitari all’educazione terapeutica messi a disposizione
dal GISED, della Scuola di Formazione dell’AMD
e dell’OSDI sono:
• pacchetti educativi per equipe diabetologiche
(primo pacchetto: Prevenzione delle lesioni al
piede);
• corsi di formazione per operatori sanitari di diabetologia basati sul Curriculum del DESG [Diabetes Education Study Group dell’EASD (European Association for the Study of Diabetes)];
• corsi di formazione per equipe diabetologiche
per l’educazione del paziente alla terapia con
microinfusore;
• manuali sull’educazione terapeutica strutturata
AMD.
Alcuni ulteriori strumenti di formazione sono:
• Master Universitari e Interuniversitari di II livello in Diabetologia rivolti al medico specialista e al medico di medicina generale che
hanno uno specifico interesse nel diabete mellito [con il patrocinio AMD e SID (Società
Italiana di Diabetologia)];
• Simposi OSDI (Operatori Sanitari di Diabetologia Italiani) di aggiornamento nei congressi
nazionali dell’AMD (Congresso Nazionale) e
SID (Panorama Diabete e Congresso Nazionale);
• pubblicazioni di riviste periodiche come Il Diabete e relativo sito web (organo ufficiale della
SID);
• organizzazione di stand per la divulgazione informativa e lo screening della glicemia nella
giornata Mondiale del Diabete (14 novembre)
ed eventi regionali organizzati da AMD e SID
per sensibilizzare la popolazione sulla problematica preventiva e clinico-diagnostica del diabete mellito.
124
Ricadute di una carente
o assente azione educativa
Come detto nella premessa metodologica, lo scopo
dell’educazione terapeutica strutturata è modificare comportamenti sbagliati o potenzialmente
dannosi alla salute: se l’azione di addestramento
dei pazienti si ferma all’“informazione” e non
evolve verso la vera educazione terapeutica strutturata confortata da verifiche di efficacia, allora
possono essere vanificati molti degli sforzi organizzativi e dei progressi tecnologici realizzati negli
ultimi anni come presupposti per un’appropriatezza clinica e organizzativa.
L’esempio concreto più eclatante di questo concetto è offerto da un’azione apparentemente banale
come la modalità d’iniezione corretta dell’insulina.
Se non viene insegnata ai diabetici la corretta procedura d’iniezione e non ne viene verificata la corretta esecuzione, possono prodursi lesioni cutanee
ben visibili, come lipoipertrofie, ecchimosi, noduli
ecc. (Figure 11.1, 11.2, 11.3, 11.4 e 11.5) che modificano sostanzialmente la farmacocinetica dell’insulina, provocando un cattivo controllo del diabete e un elevato rischio di ipoglicemie, che causerà
due importanti effetti: 1) i pazienti avranno paura
dell’insulina e di conseguenza si avrà un drastico
calo dell’aderenza al trattamento; 2) le ipoglicemie
comporteranno aggravio dei costi per aumento
dei ricoveri in emergenza per complicanze come
severe ipoglicemie ed eventi cardio- e cerebrovascolari altrettanto pericolosi e costosi per il sistema
(per ulteriori approfondimenti vedi Appendice 1).
Gli standard di cura italiani
e loro applicabilità
Gli standard italiani per la cura del diabete mellito
qui proposti sono stati redatti dalle due Società
scientifiche di diabetologia italiane (AMD e SID)
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
11
Figura 11.1 Lesioni lipoipertrofiche nelle sedi di iniezione di insulina.
Figura 11.2 Grosso nodulo lipoipertrofico al terzo medio della coscia sinistra da ripetute iniezioni di insulina nella stessa sede.
Figura 11.3 Lesioni ecchimotiche causate da ripetute
iniezioni di insulina fatte sempre nella
stessa sede. Fase prodtomica di lipoipertrofia.
125
Ministero della Salute
Figura 11.4 Lesioni ecchimotiche e stravasi ematici
estesi, nelle sedi di iniezione di insulina.
Paziente senza turbe coagulative da altra
patologia o da farmaci antiaggreganti/anticoagulanti.
Essi costituiscono il modello di riferimento scientifico per la cura del diabete, sia per gli obiettivi,
sia per i processi. Possono essere utilizzati da tutte
le figure professionali coinvolte nella cura delle
persone con diabete, quale riferimento scientifico
per la gestione integrata, il disease management,
l’accreditamento professionale, la necessità quotidiana negli ambiti aziendali di creare percorsi
diagnostici terapeutici efficaci ed efficienti.
Il livello delle prove scientifiche alla base di ogni
raccomandazione è stato classificato secondo
quanto previsto dal Piano Nazionale delle Linee
Guida (Tabella 11.4). Il documento riporta gli
obiettivi ritenuti “desiderabili” nella gestione della
maggior parte delle persone affette da diabete, pur
nel rispetto di preferenze individuali (equità) e tenendo conto di comorbilità in una logica di condivisione con altri specialisti (multidisciplinarità).
Metodologia
Figura 11.5 Noduli lipoipertrofici in sede periombelicale
con l’intento di fornire ai clinici, ai pazienti, ai
ricercatori e a quanti sono coinvolti nella cura del
diabete raccomandazioni per la diagnosi, il trattamento del diabete e delle sue complicanze e per
il raggiungimento di obiettivi di trattamento –
suffragati dal grado di evidenza scientifica – sui
quali basare le scelte diagnostico-terapeutiche, fornendo anche indicazioni su strumenti di valutazione della qualità della cura, riferiti alla realtà
italiana.
126
Esistono diverse Linee guida internazionali sul
diabete mellito: in particolare, gli Standards of
medical care dell’ADA rappresentano da molti
anni un riferimento per i diabetologi per la loro
pragmaticità e l’aggiornamento sistematico, corredato per ogni Raccomandazione dai Livelli
dell’Evidenza. Non sempre, tuttavia, standard di
cura creati per altre popolazioni e altre situazioni
sociosanitarie sono applicabili alla realtà italiana.
È quindi opportuno che su alcune divergenze esistenti nell’ambito della comunità diabetologia internazionale venga assunta una posizione nazionale
per l’applicazione nella clinica pur nel rispetto
delle fonti primarie disponibili in letteratura, adattandole e finalizzandole alla realtà italiana, con il
fine di fornire strumenti di verifica mediante indicatori di processo e di esito, già sperimentati
nella realtà clinica italiane rappresentati dai File
Dati AMD e SID.
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
11
Box 11.1 Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito AMD-SID 2009-2010 (www.aemmedi.it)
• Le persone affette da diabete devono ricevere un’educazione all’autogestione del diabete al momento
della diagnosi, mantenuta in seguito per ottenere il maggiore beneficio.
(Livello della Prova I, Forza della Raccomandazione A)
• L’educazione è più efficace se pianificata e organizzata per piccoli gruppi di pazienti.
(Livello della Prova I, Forza della Raccomandazione A)
• L’educazione all’autogestione del diabete va garantita all’interno del team da parte delle diverse
figure professionali (medico, infermiere, dietista, educatore sociosanitario) specificamente qualificate
sulla base di una formazione professionale continua all’attività educativa.
(Livello della Prova I, Forza della Raccomandazione A)
• Nel lavoro di team è importante che la pianificazione e la conduzione dell’attività educativa siano
svolte mediante metodologie basate sui principi dell’educazione dell’adulto, che tengano conto dell’esperienza di vita della persona e della sua personale motivazione al cambiamento.
(Livello della Prova IV, Forza della Raccomandazione B)
• L’educazione all’autogestione del diabete va rivolta anche ai problemi psicosociali, poiché il benessere
emotivo è fortemente associato con gli esiti positivi per il diabete.
(Livello della Prova III, Forza della Raccomandazione B)
• L’educazione all’autogestione del diabete deve essere adeguatamente riconosciuta e remunerata nell’ambito delle prestazioni fornite dal SSN, nell’ambito di un sistema integrato di interventi.
(Livello della Prova VI, Forza della Raccomandazione B)
Tabella 11.4 Livelli di Prova e Forza delle Raccomandazioni
Livelli di Prova
I
Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati
II
Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato
III
Prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi
IV
Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi
V
Prove ottenute da studi di casistica (“serie di casi”) senza gruppo di controllo
VI
Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato o basate su opinioni dei membri del
gruppo di lavoro responsabile di queste Linee guida
Forza delle Raccomandazioni
Forza A L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II
Forza B Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba sempre essere raccomandata/o, ma si
ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata
Forza C Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento
Forza D L’esecuzione della procedura non è raccomandata
Forza E Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura
Il processo
Il processo che ha portato alla definizione degli
standard italiani per la cura del diabete può essere
così sinteticamente descritto:
• i committenti del progetto sono le due Società
scientifiche nazionali di diabetologia AMD e
SID, che hanno richiesto la stesura di un do-
127
Ministero della Salute
cumento di riferimento scientifico redatto da
esperti e discusso da una giuria multidisciplinare, come documento ufficiale di posizione
delle due Società scientifiche;
• il Gruppo di Redazione era costituto da venticinque esperti con un Comitato di Coordinamento formato da quattro diabetologi.
Per garantire la migliore efficacia applicativa
del documento è stata istituita una giuria interdisciplinare, costituita da diabetologi, da altri
medici generalisti e specialisti, oltre a membri
di altre professioni sanitarie comunque implicati della cura delle persone con diabete e da
membri laici.
La prima stesura del testo è stata pubblicata per
20 giorni online sui website di AMD e SID e un
indirizzo di posta elettronica cui fare riferimento
per le comunicazioni sul tema è stato messo a disposizione di chiunque volesse intervenire con critiche, suggerimenti, integrazioni. Questi suggerimenti e critiche hanno ampiamente integrato le
osservazioni e i suggerimenti forniti dai membri
della giuria.
Per la stesura del documento finale da parte del
Gruppo di Redazione sono stati ricevuti e valutati
analiticamente e criticamente per integrazioni o
modifiche del testo i suggerimenti di trenta persone che hanno fornito un prezioso contributo
con dati di letteratura, idee, suggerimenti. Il
Gruppo di Redazione ha curato la versione tecnica
finale del documento. È previsto un aggiornamento del documento ogni 2 anni.
Aspetti peculiari degli standard di cura italiani per
il diabete mellito riguardano specifiche azioni indirizzate all’implementazione dell’attività in campo
applicativo, sintetizzate in capitoli che affrontano
temi specifici in considerazione dei documenti di
riferimento esistenti nel contesto italiano:
• assistenza integrata del paziente diabetico, tenendo conto delle pubblicazioni del Progetto
128
•
•
•
•
IGEA, dell’accordo tra le Società scientifiche
di diabetologia e della medicina generale “Assistenza integrata alla persona con diabete di
tipo 2” e della più recente letteratura;
cura del diabete in popolazioni specifiche:
- cura del diabete in bambini e adolescenti:
terapia insulinica (MDI e microinfusori),
- cura del diabete prima e durante la gravidanza:
preconcepimento, diabete pregestazionale e
gestazionale (in considerazione di: documento
ADA sul pre-existing diabetes, HAPO Study,
Clinical Guidelines 2008 NICE); uso dell’acido
folico in prevenzione e uso del monitoraggio
continuo del glucosio; grading delle evidenze
per insulina aspart e lispro (per la disponibilità
di evidenze sul loro uso sicuro in gravidanza);
cura del diabete in contesti specifici:
- cura del diabete in ospedale: definizione di
obiettivi glicemici specifici sia per i pazienti
critici, sia per i pazienti non critici,
- raccomandazione sulla gestione dei pazienti
trattati con farmaci potenzialmente iperglicemizzanti (steroidi ecc.),
- specifiche e distinte raccomandazioni per le
Unità Coronariche e le Unità di Terapia Intensiva mediche;
diabete mellito e normative:
- farmaci con prescrizione soggetta a piano terapeutico,
- piano terapeutico e monitoraggio AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) per le incretine e gli
inibitori del DPP-IV;
indicatori di processo e di esito:
- il capitolo è dedicato alle più estese considerazioni sulla qualità dei database e sulle modalità
per ottimizzarla e con l’analisi di un’esperienza
italiana che ha permesso di valutare i risultati
professionali di un gruppo di servizi di diabetologia utilizzando alcuni indicatori di struttura, processo ed esito prodotti a partire da
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
un set di dati (File Dati AMD) estraibile da
cartelle cliniche informatizzate,
- viene fornita una tabella degli indicatori.
Commento sull’applicabilità
degli standard di cura
Secondo i dati dell’IDF, il diabete mellito è ai primi
posti tra le cause di morte al mondo per le malattie
non trasmissibili ed è stato riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) come la
prima pandemia mondiale senza la presenza di un
agente trasmissibile, quindi, contagio. Le complicanze croniche del diabete mellito, quali infarto e
angina, arteriopatia periferica, ictus, neuropatia
diabetica, nefropatia, amputazioni e cecità, causano
uno straordinario numero di disabilità e decessi,
riducendo sia l’aspettativa sia la qualità della vita, e
rappresentano un enorme carico economico e un
problema di sanità pubblica di straordinaria portata.
Questa situazione rischia di determinare gravi problemi nei sistemi sanitari, anche perché la malattia
è in rapido aumento a livello mondiale, coinvolgendo sia Paesi industrializzati sia Paesi in via di
sviluppo. Prima del ricorso all’ospedalizzazione, il
sistema pubblico delle cure per il diabete in Italia
prevede un primo livello, rappresentato dalle cure
primarie, oggi in rapida riorganizzazione, e la rete
dei servizi di diabetologia distribuiti su tutto il territorio nazionale. I due sistemi stanno rapidamente
integrandosi, sostenuti dal disegno ministeriale e
da quello dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS),
quale cerniera destinata alla riduzione del tasso di
ospedalizzazione. I sistemi d’integrazione tra i due
livelli sono al momento operanti solo in alcune realtà regionali e in modo molto promettente, come
ampiamente documentato da studi di settore.
Dati Istat indicano una frequenza elevatissima di
complicanze micro- e macrovascolari correlate al
diabete, contro cui i medici di medicina generale
11
(MMG) e i servizi di diabetologia si riorganizzano
seguendo Linee guida dettate dalle Società scientifiche, condivise anche dalle organizzazioni sindacali
di categoria e attualmente in fase di ulteriore aggiornamento, rifondando un’alleanza destinata a
produrre una razionalizzazione del sistema delle
cure, in cui ciascuno ha un ruolo definito nel tempo
e nei contenuti, anche grazie a una comunicazione
costante tra i vari livelli. Il sistema non è ancora a
regime, sebbene l’ISS, attraverso il Centro nazionale
per la prevenzione e il controllo delle malattie
(CCM), abbia contribuito a delineare i fondamenti
di una concreta gestione integrata con la pubblicazione di documenti d’indirizzo, descrittivi della
qualità tecnico-organizzativa, dei requisiti minimi
necessari allo sviluppo del sistema informativo per
i vari livelli assistenziali e della formazione degli
operatori.
In questo sistema, destinato a evolvere, il tasso
medio delle prime visite per i pazienti diabetici
presso la rete dei servizi di diabetologia è oggi del
17% sul totale delle prestazioni erogate, con un
valore d’ingresso dell’ HbA1c di 11 ± 3% e una
durata nota di malattia di 7 ± 3 anni. La frequenza
di complicanze di questi pazienti è altissima e ben
superiore a quella di pazienti all’esordio di malattia, con differenze evidenti in termini di costi.
Questo semplice dato giustifica l’utilità di un trattamento precoce fin dalla diagnosi di diabete e la
letteratura scientifica consente di documentare in
modo preciso l’utilità di un trattamento precoce
ed efficace sia per il DT1 sia per il DT2.
Per quanto concerne il problema del diabetico ricoverato in ospedale, la letteratura scientifica indica chiaramente che la presenza della malattia
allunga i tempi di degenza, accresce la complessità
degli interventi sanitari da eseguire, aumenta il
rischio di complicanze infettive e cardiovascolari,
peggiora la prognosi quoad vitam, rende più frequente la ricorrenza di nuovi ricoveri dopo la di-
129
Ministero della Salute
missione. Tutti questi problemi connessi alla diagnosi di diabete nel percorso intraospedaliero impegnano profondamente l’organizzazione sanitaria
e assorbono ingenti risorse economiche. Anche
nel percorso intraospedaliero l’ottimizzazione precoce del controllo glicemico rappresenta un obiettivo necessario, dimostratosi efficace nel ridurre i
tempi di degenza, le complicanze infettive e non,
il peso sull’organizzazione e i costi.
Queste osservazioni devono indurre a considerare
con molta attenzione come il sistema delle cure nel
nostro Paese debba concentrarsi sulla necessità di
passare da una medicina di attesa a una d’iniziativa,
volto alla ricerca dei casi a rischio di diabete o di
soggetti già diabetici, ma non diagnosticati, nonché
al trattamento precoce per l’ottimizzazione del controllo metabolico a tutti i livelli. La ricerca di nuovi
casi, così come il trattamento precoce dei casi neodiagnosticati, deve partire da un corretto inquadramento del paziente all’esordio e da un’altrettanto
attenta pianificazione del percorso di cura successivo,
volto al raggiungimento di un livello di controllo
130
metabolico ottimale, secondo un preciso algoritmo
terapeutico fin dall’inizio, senza latenze e senza scuse,
perché da questo dipenderanno il futuro e la vita
stessa delle persone diabetiche. Da questo dipenderà
la possibilità di risparmiare risorse e di destinarle
alla cura dei nuovi casi previsti per i prossimi anni.
L’applicazione dei principi di appropriatezza clinica espressi dagli standard di cura italiani consentono di realizzare un’efficace opera di prevenzione e cura precoce del diabete e delle sue complicanze, tale da permettere di ridurre il carico
economico relativo all’ospedalizzazione, al trattamento farmacologico e all’assistenza domiciliare.
Il Documento d’indirizzo strategico per la buona
assistenza alle persone con diabete sottoscritto
quest’anno dalle Società scientifiche di diabetologia, quali l’AMD, la SID e la Società Italiana di
Medicina Generale (SIMG), rappresenta la modalità operativa dell’implementazione degli standard di cura al contesto clinico del nostro Paese
(vedi anche Capitolo 14 “L’organizzazione diabetologica attuale” e l’Allegato).
Parte Seconda – Appropriatezza clinica
11
Box 11.2 Linee guida e raccomandazioni italiane di riferimento sul diabete mellito
• Linee guida per lo screening, la diagnostica e il trattamento della retinopatia diabetica in Italia. A cura
di: AMD, ANAAO-ASSOMED, Consorzio Mario Negri Sud, FAND-AID, FIMMG, Gruppo di Studio Complicanze Oculari della Società Italiana di Diabetologia, SID, SIR, SOI-APIMO-AMOI, Tribunale dei Diritti del
Malato. 2002. http://www.google.it/url?sa=t&source=web&cd=3&ved=0CCYQFjAC&url= http%3A
%2F%2Fwww.siditalia.it%2Findex.php%2Fpubblicazioni%2F245-25032003-prevenzione-delle-malattie-cardiovascolari-nel-diabete-tipo-1-e-tipo-2%2Fdownload.html&rct=j&q=%22Linee%20guida%
20per%20la%20prevenzione%20cardiovascolare%20nel%20paziente%20diabetico%22%20AMD%2C
%20SID%2C%20FAND&ei=jvcNTtDGH4vFswbor8DJDg&usg=AFQjCNFJXcCl998B4uhHmN-aATINpOEe7A
• Linee guida per la prevenzione cardiovascolare nel paziente diabetico. A cura di AMD, SID, FAND,
SIIA, FIC, SIMG, Forum per la prevenzione delle Malattie Cardiovascolari, SISA, Gruppo Cochrane Collaboration Italia. 2002. http://www.siditalia.it/DownLoad/Gruppi_di_Studio/Pubblicazioni/linee%
20guida%20aterosclerosi.pdf
• AMD, SIMG, SID. L’assistenza al paziente diabetico: raccomandazioni cliniche e organizzative di
AMD-SID-SIMG. 2001. http://www.aemmedi.it/files/Linee-guida_Raccomandazioni/2001/2001-assistenza-paziente-diabetico.pdf
• ISS, CCM GESTIONE INTEGRATA del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto. Documento di indirizzo. Il
Pensiero Scientifico Editore, 2008. http://www.aemmedi.it/files/Linee-giuda_Raccomandazioni/2010
/2010-documento_indirizzo.pdf
• AMD, SID, FIMMG, SIMG, SNAMI, SNAMID. L’assistenza integrata alla persona con diabete mellito di tipo
2. http://www.fimmg.org/c/document_library/get_file?p_l_id=10523&folderId=12137&name=DLFE 7.pdf
• AMD, SID. Raccomandazioni sull’uso dell’autocontrollo domiciliare della glicemia. 2003. http://www.aemmedi.it/files/Linee-giuda_Raccomandazioni/2003/2003-raccomandazioni-autocontrollo-glicemia.pdf
• Documento di Consenso Internazionale sul Piede Diabetico. Seconda Edizione Italiana. A cura del
Gruppo di studio Interassociativo “Piede Diabetico” della Società Italiana di Diabetologia e dell’Associazione Medici Diabetologi. 2005. http://www.aemmedi.it/files/Linee-guida_Raccomandazioni/2005/2005piede-diabetico.pdf
• Gruppo di Studio SID “Nefropatia Diabetica”. Linee guida per lo screening, il monitoraggio, la prevenzione e il trattamento della nefropatia diabetica. Il Diabete 2006; 18: 30-52. http://www.thesaurus-amd.it/pdf/lg_SID_2006_nefropatia_diabetica.pdf
• AMD, ADI, SID. La terapia dietetica nella gravidanza diabetica. Raccomandazioni. 2006. http://www.
aemmedi.it/files/Linee-giuda_Raccomandazioni/2010/2010-documento_indirizzo.pdf
• Gruppo di Studio SID “Diabete e Gravidanza”. Diabete gestazionale: aspetti critici dello screening e
della diagnosi. Il Diabete 2000; 12: 309-19. http://www.thesaurus-amd.it/pdf/lg_itagestazionale.pdf
• Gruppo di Studio SID “Diabete e Gravidanza”. Programmazione della gravidanza nelle donne affette
da diabete. Il Diabete 2000; 12: 164-7. http://www.thesaurus-amd.it/pdf/lg_itaprogrammazione.pdf
131
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
12. Appropriatezza strutturale
La medicina primaria
Il compito assegnato al medico di medicina generale (MMG) nella gestione dei pazienti diabetici
è stato delineato da numerosi documenti di consenso e Linee guida (Progetto IGEA. Gestione
integrata del diabete mellito di tipo 2 dell’adulto.
Documento d’indirizzo; l’assistenza al paziente
diabetico: raccomandazioni cliniche ed organizzative di AMD-SID-SIMG) [Tabella 12.1].
Essi richiedono un’evoluzione del modello assi-
stenziale e organizzativo da parte della medicina
generale. Questa esigenza, comune a tutte le principali patologie croniche, è ben evidenziata in letteratura da diversi anni. Gli elementi più rilevanti
di questo nuovo modello di gestione della cronicità
in medicina generale possono essere riassunti in:
• lavoro multidisciplinare con il centro diabetologico per coordinare e garantire la continuità
del processo assistenziale;
• coinvolgimento attivo del paziente e del suo
contesto familiare;
Tabella 12.1 Compiti del MMG nella gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 (Progetto IGEA)
• Effettuare lo screening dei soggetti ad alto rischio per individuare:
- casi di diabete non diagnosticati
- gravide a rischio per diabete mellito e casi di diabete gestazionale
- casi di IGT
• Effettuare l’educazione sanitaria e il follow-up dei soggetti a rischio per diabete mellito
• Diagnosticare la malattia diabetica
• Effettuare l’educazione sanitaria e il counseling del paziente diabetico e dei suoi familiari
• Correggere i comportamenti alimentari errati dei pazienti diabetici e gestire la dieta prescritta dal centro diabetologico
• Impostare la terapia farmacologica con ipoglicemizzanti orali
• Sorvegliare sugli effetti collaterali e sulle interferenze della terapia ipoglicemizzante (ipoglicemizzanti orali e insulina)
• Gestire il follow-up del paziente diabetico, in collaborazione con il centro diabetologico e gli specialisti
• Effettuare la visita medica periodica al paziente diabetico
• Sospettare e diagnosticare precocemente le complicanze della malattia diabetica
• Attivare il servizio di diabetologia per:
- l’inquadramento dei diabetici neodiagnosticati
- le visite di controllo periodiche, in diabetici ben compensati e senza complicanze acute e/o rapidamente evolutive
- situazioni che, a giudizio del medico di medicina generale, lo richiedono, per consulenze
IGT, alterata tolleranza al glucosio; MMG, medico di medicina generale.
133
Ministero della Salute
• elaborazione del piano di cura con il coinvolgimento attivo del paziente e la condivisione e
l’utilizzo di strumenti di comunicazione routinari per il richiamo attivo rispetto alle scadenze concordate;
• utilizzo di sistemi informativi avanzati in grado
di orientare e monitorare le attività assistenziali
e i percorsi diagnostico-terapeutici e di follow-up;
• routinaria attività di audit su indicatori di performance e risultato derivanti da Linee guida
EBM (Evidence Based Medicine) di riferimento,
svolta con gli stessi strumenti informativi della
pratica professionale quotidiana.
L’attuazione di questo nuovo modello richiede:
• un’adeguata organizzazione e integrazione con
il sistema di cure centrato sul paziente;
• un’operatività standardizzata per ridurre quella
variabilità che attualmente caratterizza e determina livelli assistenziali non uniformi da
parte della medicina generale;
• una sistematica attività di audit.
Standardizzazione dell’operatività
e organizzazione in medicina generale
nell’assistenza al paziente diabetico
Screening ed educazione sanitaria dei soggetti
a rischio. Diagnosi di diabete
Il diabete mellito di tipo 2 (DT2) è una patologia
la cui diagnosi, con una certa frequenza, avviene
con l’insorgere di complicazioni proprie della malattia e si stima una mancata diagnosi in circa un
terzo dei soggetti diabetici. La diagnosi di diabete
e prediabete dovrebbe quindi essere il più possibile
precoce e a questo proposito si può pensare a un
modello assistenziale in cui il MMG si avvalga di
un’attività di screening attivo sulla propria popolazione di assistiti, ottenendo la determinazione
della glicemia a digiuno nei pazienti che rispon-
134
dono a determinati criteri (fattori di rischio) ben
individuati dalle recenti Linee guida dell’American
Diabetes Association (ADA).
A questo proposito è utile anche adottare le funzioni
di ricerca del proprio software gestionale per selezionare la popolazione di assistiti in cui porre la diagnosi di DT2. La ricerca va eseguita sia sulle diagnosi
già individuate (codici ICD 9), sia sui risultati degli
esami di laboratorio per individuare soggetti con valori glicemici diagnostici per diabete e nei quali la
diagnosi non è stata posta e codificata. L’identificazione della propria popolazione di pazienti affetti da
diabete fornisce il dato della prevalenza e il confronto
con i dati di colleghi della stessa area geografica o
con quanto evidenziato dal campione di MMG a
livello nazionale (Health Search) costituisce un primo
elemento di valutazione sull’efficacia dello screening
operato dal MMG sui propri assistiti.
Per tutti i soggetti a rischio di sviluppare la malattia diabetica è importante avere a disposizione
del materiale informativo per la prevenzione del
diabete e per la conoscenza della sua storia naturale
e dei rischi connessi alla patologia (in primis il rischio cardiovascolare). I pazienti con IGT (impaired glucose tolerance) o IFG (impaired fasting
glycaemia) vanno sottoposti a counseling periodico
al fine di raggiungere una perdita del 5-10% del
peso corporeo e un incremento dell’attività fisica
moderata, come il camminare a passo veloce, per
circa 150 minuti a settimana. Il controllo dei valori glicemici a digiuno va ripetuto annualmente.
Valutazione del paziente
La valutazione del paziente diabetico è fondamentale
e da pianificare accuratamente al momento della
diagnosi. Un nuovo modello, attivo, di gestione,
dovrebbe prevedere, dopo la creazione del registro
di patologia, la standardizzazione di un giudizio
completo con la valutazione e verifica di un set di
dati opportunamente registrati nella scheda sanitaria
Parte Seconda – Appropriatezza strutturale
individuale informatizzata. La revisione progressiva
dei soggetti diabetici e la pratica di un approccio
completo ai nuovi casi costituiscono un vero e proprio audit caratterizzato da un impegno professionale notevole, ma che può condurre a un miglioramento dell’appropriatezza ed efficienza assistenziale
e da cui, probabilmente, può derivare una successiva
riduzione quantitativa del carico assistenziale.
Gli elementi che fanno parte di questa valutazione
complessiva devono essere registrati e rivalutabili
nella scheda informatizzata in quanto fonte di informazioni per il medico stesso, per i componenti
dell’equipe assistenziale e per il rapporto con altri
livelli assistenziali. Questo tipo di valutazione e la
registrazione dei diversi item informativi, apparentemente complessa e difficile da inserire nella
routine professionale, possono essere facilitati in
misura rilevante da appositi protocolli e segnalazioni attive presenti nel software gestionale, così
come la verifica della compliance terapeutica può
essere compito affidato al personale di studio sfruttando le apposite e semplici funzioni di monitoraggio presenti nei sistemi informativi migliori.
Lo stesso personale di studio ha un ruolo importante nella pianificazione delle valutazioni complessive e nella revisione del piano assistenziale
frutto dell’interazione avanzata tra medico e paziente. Questo è un concetto importante; dalla valutazione globale devono derivare informazioni
educative al paziente e la condivisione di un vero
e proprio piano di assistenza che è compito e responsabilità comune portare avanti con regolarità.
Gestione del paziente e target terapeutici
La gestione del paziente con DT2 (inclusa la terapia) è un atto complesso che prevede l’integrazione con il centro specialistico di riferimento e
la condivisione di un piano terapeutico personalizzato. Questo obiettivo è raggiungibile solo se
gli attori sono coinvolti all’interno di un percorso
12
assistenziale di diagnosi e cura del paziente (altrimenti detto Percorso Diagnostico-Terapeutico,
PDT), che infatti è finalizzato proprio a integrare
le peculiarità dei professionisti incaricati per la
cura del diabete con le necessità delle persone e
delle loro famiglie all’interno di un programma
condiviso di gestione della malattia.
I PDT sono strumenti gestionali multidisciplinari
e interprofessionali creati per favorire l’implementazione in uno specifico contesto locale delle Linee
guida relative alla gestione di una categoria di pazienti e la cui attuazione è valutata mediante indicatori di processo ed esito.
Il PDT è, dunque, un processo di integrazione
professionale tipo botton-up, centrato sul paziente,
che riguarda sia la gestione clinica sia l’organizzazione ed è uno strumento indispensabile per modificare in modo consensuale e progressivo, secondo obiettivi definiti, le motivazioni dei professionisti coinvolti e i comportamenti clinici. Un
PDT può garantire la continuità assistenziale, il
follow-up sistematico a seconda della gravità clinica
e presumibilmente favorire anche un risparmio.
Un PDT, dunque, dovrebbe fare “naturalmente”
parte delle strategie di comunità, al fine di facilitare
i processi di interazione fra tutti gli attori coinvolti
nella gestione delle malattie croniche e che desiderano migliorare la qualità dei servizi erogati.
La ricaduta clinica più importante di un PDT in
diabetologia è il miglioramento della qualità delle
cure, degli esiti e dell’appropriatezza terapeutica.
Altri possibili effetti collaterali positivi sono elencati nella Tabella 12.2.
In questo modello, la programmazione delle visite,
compreso il richiamo telefonico periodico del paziente, sono elementi fondamentali per migliorare
la loro compliance ai suggerimenti comportamentali e terapeutici. In questo senso, l’introduzione
di nuove figure professionali come quella del case
e/o del care manager potrebbe stimolare la con-
135
Ministero della Salute
Tabella 12.2 Possibili effetti collaterali positivi riscontrabili nella fase applicativa di un Percorso
Diagnostico-Terapeutico (PDT)
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Garanzia della continuità assistenziale
Applicazione delle Linee guida cliniche
Riduzione del rischio clinico
Miglioramento della comunicazione multidisciplinare
e del lavoro in team
Definizione di standard di cura
Riduzione della variabilità nella cura dei pazienti
Miglioramento della documentazione del paziente
Orientamento della formazione degli operatori
Ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse (soprattutto
attraverso la riduzione dei ricoveri impropri)
Sostegno all’empowerment del paziente
divisione delle informazioni e la maggiore integrazione fra gli attori del processo di cura.
Il case manager è un professionista che ha il compito di prendere in carico il paziente e supervisionare e coordinare l’intero iter assistenziale. L’esigenza di un case manager è, in generale, direttamente proporzionale alla complessità del percorso
da gestire (scarsa compliance, presenza di complicanze, molte figure professionali coinvolte ecc.).
Il case manager ha il controllo delle fasi operative
dell’assistenza, è il garante del piano di cura individualizzato e rappresenta il primo riferimento
organizzativo per l’assistito, la sua famiglia e tutti
gli operatori coinvolti nel programma di cura.
Solitamente il ruolo di case manager viene svolto
da una figura che, pur non dovendo necessariamente possedere competenze specialistiche, è in
grado di interagire con specialisti diversi. Nella
realtà del nostro Servizio Sanitario Nazionale
(SSN), questo compito potrebbe essere convenientemente affidato a personale infermieristico
o, comunque, sanitario opportunamente addestrato, operante nel centro di diabetologia o nel
Distretto sanitario o, nel caso di un gruppo ampio
e organizzato di MMG, al personale infermieristico dell’ambulatorio di medicina generale.
136
I compiti del case manager sono:
• svolgere una funzione di richiamo attivo del
paziente;
• governare il caso-paziente, sulla base di obiettivi di salute concordati, monitorando attivamente lo stato di salute del malato al fine di
un intervento tempestivo;
• coordinare i diversi interventi sanitari di cui il
paziente necessita;
• monitorare e verificare in maniera sistematica
i risultati ottenuti al fine di suggerire/apportare
eventuali correzioni al piano di cura individuale.
Il supervisore del programma locale o care manager
(un infermiere o un amministrativo dell’ASL opportunamente addestrato) ha il compito, invece,
di intervenire con più ampie strategie di popolazione su un gruppo di pazienti diabetici (es. a livello di Distretto o ASL).
Il care manager dovrebbe infatti:
• favorire l’incontro, gli accordi, il coordinamento
e la comunicazione tra rappresentanti di MMG
e diabetologi;
• monitorare l’andamento sulla casistica di una
zona;
• individuare gli interventi strutturali al fine di
migliorare l’organizzazione dell’assistenza;
• facilitare l’adattamento locale e la diffusione
dei PDT per la gestione del diabete;
• sostenere e organizzare i processi di audit clinico.
Un altro strumento utile alla buona riuscita di un
programma di gestione integrata del paziente diabetico è il teleconsulto. Si tratta di un’innovativa
modalità di interazione e comunicazione tra i
MMG e il centro diabetologico, che consente
l’analisi del “caso” attraverso la consultazione via
internet della cartella clinica, anche quale atto sostitutivo della visita del paziente presso il centro
diabetologico. Il teleconsulto potrebbe favorire
una reale gestione integrata dei pazienti diabetici
Parte Seconda – Appropriatezza strutturale
attraverso la concreta condivisione delle strategie
di cura, migliorando l’appropriatezza di accesso
presso il centro diabetologico e favorendo la risoluzione di alcune criticità tipiche della gestione
del paziente diabetico (soprattutto il mancato raggiungimento dei goal terapeutici).
Dalla descrizione di tutti questi strumenti gestionali si evince che uno dei luoghi ottimali per la
realizzazione di un sistema integrato di assistenza
al paziente diabetico è il Distretto sanitario. L’ambito territoriale del Distretto, infatti, consentirebbe non solo di ospitare le funzioni di case management e di supervisione del programma locale
ma, soprattutto, di gestire direttamente i servizi
di assistenza primaria (di medicina generale, farmaceutica, specialistica ambulatoriale extraospedaliera, residenziale, domiciliare), garantendo la
necessaria continuità assistenziale.
Visita al paziente
La visita al paziente diabetico è l’aspetto fondamentale per la corretta valutazione globale e necessita di un’adeguata sistematizzazione e organizzazione per la sua regolare effettuazione (almeno una volta l’anno) e registrazione.
Dal punto di vista organizzativo richiede una gestione in spazi predeterminati, la possibile interazione con altre figure professionali di supporto,
infermiere, podologo, assistente sanitaria (qualora
disponibili), una dotazione strumentale minima
(bilancia, metro a nastro, diapason 128 Hz, monofilamento, martelletto per riflessi, sonda doppler, misuratore di pressione, fonendoscopio).
Sistematica attività di audit
Nella gestione delle patologie croniche (diabete
soprattutto) il MMG non può più lavorare attraverso interventi “puntuali e tra loro scoordinati”,
ma ha bisogno di chiedersi e di sapere, per esem-
12
pio, quanti sono i pazienti con particolari patologie, le loro comorbilità, come essi sono trattati, se
hanno raggiunto determinati obiettivi di salute,
se hanno criticità gestionali (e quindi se corrono
particolari rischi clinici) e tra essi quali sottogruppi
generano costi elevati e/o comprimibili con una
migliore strategia assistenziale.
In questo complesso contesto è evidente che il
MMG avrà (o meglio “ha già”) sempre più bisogno di strumenti che lo aiutino e quindi che gli
semplifichino le procedure di verifica di appropriatezza e qualità delle cure erogate (per una
spinta verso il miglioramento continuo delle performance) e contestualizzino il suo operato all’interno della sostenibilità del SSN.
A tutto ciò serve un “sistema informativo clinico”
(uno dei fondamenti del chronic care model), che
mediante i dati registrati nella cartella clinica informatica, trasformati prima in indicatori di processo ed esito e poi in informazioni leggibili, permetta ai MMG di operare nella consapevolezza
delle proprie azioni e in piena trasparenza rispetto
all’amministratore (accountability).
Per tali motivi i MMG devono essere dotati di
strumenti di governo del sistema in grado di:
• elaborare indicatori di performance per monitorare e valutare (clinical audit) l’efficacia e
l’appropriatezza degli interventi;
• registrare ed estrarre i dati in conformità a precisi obiettivi di cura (es. i PDT);
• facilitare l’audit singolo o di gruppo;
• fare emergere criticità clinico-gestionali che
potrebbero mettere a rischio i pazienti per interventi carenti, inappropriati o errati al fine
di aumentare la sicurezza dei pazienti (risk management);
• ottimizzare le terapie, le procedure, il followup dei malati cronici e il rispetto delle note
dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA);
• simulare risultati clinici e/o farmacoeconomici
137
Ministero della Salute
in funzione di modifiche (migliorative o peggiorative) comportamentali/organizzative;
• mettere in relazione qualità, risultati di salute
e costi.
I servizi specialistici di diabetologia
territoriale e ospedaliera
La rete dei servizi di diabetologia in Italia:
peculiarità e pregi
Nell’analisi dell’assistenza al diabete in Italia non
può mancare un riferimento all’unicità della rete
nazionale dei servizi di diabetologia. Nel nostro
Paese esiste una rete di strutture specialistiche che
non ha confronto con altri Paesi e che è stata oggetto di studi e riferimenti da parte di organizzazioni internazionali, inclusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La rete dei servizi di diabetologia eroga un’assistenza di tipo specialistico
che si fa carico di molti aspetti della gestione della
malattia, in particolare, pur con le dovute differenze, dell’educazione del malato. Tale rete, organizzata soprattutto al Nord e al Centro, ha una
diffusione di tipo capillare, pertanto riesce a raggiungere la maggior parte dei diabetici diagnosticati.
Le caratteristiche di questo tipo di assistenza si differenziano molto da quelle di altri Paesi, dove il
diabetico è in massima parte affidato alle cure del
MMG e si rivolge ai centri specialistici soltanto in
occasioni particolari.
Questa organizzazione può in parte spiegare i migliori risultati assistenziali rilevati in Italia da varie
indagini epidemiologiche nel campo del diabete
rispetto ad altri Paesi. L’identità della diabetologia
italiana è fortemente legata a questa rete di servizi,
che ha contribuito nel tempo ad avvicinare al problema studenti, laureandi e neolaureati, e a formarli,
mantenendo viva l’attenzione per un problema sanitario di elevata rilevanza economica e sociale.
138
L’identità legislativa: la Legge 115/87
e il riconoscimento istituzionale
del diabetologo
Una pietra miliare nell’identificazione dell’identità, del ruolo e della funzione del diabetologo è
rappresentata dalla Legge 115/87. In essa, innanzitutto, viene riconosciuto che il diabete mellito
è una malattia di elevato interesse sociale, come
riportato all’art. 5. Per la prima volta, per legge,
viene riconosciuto che il diabetologo non è tanto
il medico che cura il diabete o che possiede un
bagaglio di conoscenze tecniche superiori per il
trattamento della malattia, ma è il medico di riferimento delle cure, della prevenzione e dell’educazione del cittadino diabetico.
Viene definita per legge la peculiarità formativa
di chi opera nelle strutture diabetologiche, dal
momento che le Regioni sono tenute a provvedere
alla preparazione e all’aggiornamento professionale
del personale sanitario addetto ai servizi.
Si tratta di concetti fondamentali in quanto le
strutture di diabetologia, da ambulatori specialistici analoghi ad altre specialità mediche, assumono la caratteristica di servizi di riferimento
continuativo per una patologia cronica invalidante. La legge prevede anche la distribuzione
gratuita dei presidi diagnostici e terapeutici, vincolandone la prescrizione ai servizi, e l’istituzione
di un registro dei diabetici in ogni Regione.
È evidente come il dedicarsi all’educazione del
malato, a organizzare screening per le complicanze
e revisioni periodiche dello stato di malattia e,
soprattutto, l’investire in prevenzione accentuino
progressivamente le differenze tra i medici dei reparti o degli ambulatori per patologie acute, come
quelli delle divisioni di medicina, e la nascente figura specialistica.
Le legge viene recepita in leggi regionali che ne
normano l’attuazione in alcune Regioni italiane.
Parte Seconda – Appropriatezza strutturale
Il DPR 484/97: da diabetologo a metabolista
e diabetologo
Se con la Legge 115/87 la disciplina di diabetologia
viene definitivamente istituzionalizzata, dopo dieci
anni si assiste a un’importante modifica legislativa
del suo assetto ospedaliero. Il DPR 484, emanato
il 10 dicembre 1997, riordina le discipline ospedaliere e stabilisce i nuovi criteri di accesso alla dirigenza di II livello. Per i diabetologi, in particolare,
il nuovo regolamento di accesso alle dirigenze di I
e II livello contiene novità basilari:
• viene abolita la disciplina di diabetologia e
viene introdotta in sua sostituzione quella di
malattie metaboliche e diabetologia. Si tratta
di una modifica epocale, in quanto viene esteso
il campo d’azione e di competenza di chi si
occupa di diabetologia;
• viene mantenuta l’equipollenza con l’endocrinologia, dove tuttavia non costituisce titolo
preferenziale l’avere effettuato servizi di diabetologia.
Vi sono alcune considerazioni da tenere presenti
per capire quanto il DPR 484/97 incida sull’evoluzione della figura del diabetologo. Innanzitutto
viene ufficializzato per legge che il vasto settore
delle malattie metaboliche diviene patrimonio professionale della disciplina, allargandone i confini.
L’impostazione generale del decreto è quella di
privilegiare il lavoro continuativo nelle strutture
di diabetologia, infatti alla dirigenza di II livello
può accedere soltanto chi già opera nella disciplina.
L’inquadramento legislativo
La “riforma sanitaria-ter” (D.Lgs. n. 229 del 19 giugno 1999) istituisce un livello di dirigenza unico
con articolazione delle strutture ospedaliere, e di
conseguenza degli incarichi di direzione, in dipartimenti, strutture complesse e strutture non complesse.
12
Nulla cambia, tuttavia, per quanto riguarda l’apicalità, in quanto viene appositamente ribadito che
per la direzione di dipartimento o di struttura
complessa, ovvero dei precedenti reparti o divisioni, il direttore generale dell’azienda deve scegliere tra dirigenti che siano in possesso dei requisiti stabiliti dal DPR 484/97.
L’identità professionale e culturale
del metabolista diabetologo:
da diabetologia a malattie metaboliche
e diabetologia
La modifica della disciplina da diabetologia a malattie metaboliche e diabetologia, attuata dal DPR
484/97, può essere considerata, in ordine di
tempo, l’ultima fondamentale acquisizione di chi
si occupa di diabetologia.
Alla base di tale decisione sta in primo luogo
l’evoluzione delle conoscenze scientifiche. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta sempre
di più si sono accumulati dati su come il DT2 sia
in realtà una sindrome plurimetabolica in cui ipertensione, dislipidemia e obesità viscerale hanno
un ruolo prognostico non meno importante del
controllo glicemico.
L’iperglicemia ha un ruolo determinante nella prevenzione delle complicanze microangiopatiche,
ma gli altri fattori metabolici entrano in gioco
nella genesi delle complicanze cardiovascolari, responsabili della prima causa di mortalità del diabetico. La possibilità di trattare con una terapia
farmacologica aggressiva le dislipidemie – oltre
all’ipertensione – e i grandi trials, che hanno dimostrato l’efficacia di tali trattamenti soprattutto
nel sottogruppo dei pazienti diabetici, hanno progressivamente avvicinato la diabetologia a problematiche diverse dal solo controllo glicemico.
Nella Tabella 12.3 si riporta l’evoluzione della
diabetologia.
139
Ministero della Salute
Tabella 12.3 Evoluzione della diabetologia
Struttura
Riferimenti di legge
Inquadramento
Legge 115/87
DPR 484/97
Medico di corsia medica
Medico di medicina generale o di geriatria
o di endocrinologia
Diabetologo
Specialista in malattie metaboliche e diabetologia
Corsia ospedaliera
Centro antidiabetico
Servizio di diabetologia
Strutture semplici e complesse malattie
metaboliche e diabetologia
La diabetologia pediatrica
Il diabete giovanile è la più frequente malattia endocrina dell’infanzia e, certamente, una delle più
impegnative sul piano assistenziale. A differenza
dell’assistenza agli adulti, non esiste una specializzazione apposita per i pediatri che si dedicano
a tale patologia. Tuttavia, in considerazione dell’enorme carico assistenziale che comporta tale
settore, i pediatri diabetologi spesso tendono a
dedicare la quasi totalità dell’attività professionale
ai bambini diabetici. La diabetologia degli adulti,
come ampiamente detto in precedenza, tende progressivamente a estendersi in campo metabolico,
mentre la diabetologia pediatrica rimane più circoscritta, anche perché le malattie metaboliche
su base genetica dell’infanzia hanno aspetti organizzativi diversi, a se stanti, non facilmente gestibili in parallelo al diabete.
In diabetologia pediatrica si investe molto nella ricerca di un buon compenso glicemico senza compromettere troppo la qualità della vita del bambino,
evento che potrebbe avere ripercussioni formative e
caratteriali gravi qualora si ingenerasse un atteggiamento permanentemente conflittuale con la malattia
e con la terapia insulinica. Le complicanze, che molto
assillano i medici degli adulti, sono rare in età pediatrica e richiedono un’attenzione meno pressante.
Il diabetologo pediatrico ha delle caratteristiche
professionali del tutto peculiari, le quali, sebbene
siano insite nella pediatria stessa, sono enorme-
140
mente amplificate dalle caratteristiche di cronicità
della malattia.
Uno degli aspetti assistenziali che più contraddistingue questa figura medica, e lo differenzia dal
collega degli adulti, è il difficile rapporto con i
genitori del bambino. Quand’anche il paziente
pediatrico, più facilmente nell’infanzia e un po’
meno nell’adolescenza, venga ad accettare e a trovare un modus vivendi con il diabete, difficilmente
nei genitori si riesce a raggiungere un livello di
serenità o di accettazione dello stato di malattia.
Tutto questo è fonte di angosce e incertezze che
vengono comprensibilmente a ricadere sul medico.
L’abilità a gestire questo doppio rapporto medicopaziente, allo stesso tempo con il bambino e con
i genitori, è una delle caratteristiche più forti dell’identità professionale del diabetologo pediatra.
La capacità di educare e trasmettere messaggi è
propria della diabetologia, ma nell’infanzia, dove
la logica troppo stretta dà scarsi risultati e tutto
deve essere ricondotto a una sfera di gioco, questa
dote professionale diviene fondamentale e assume
caratteristiche del tutto peculiari.
La prevenzione e l’impatto dei servizi
su morbilità e mortalità
Come già accennato, la diabetologia ha subito una
trasformazione storica e culturale che l’ha portata,
da disciplina impegnata nella cura delle fasi acute
e subacute della malattia, a disciplina in cui il
Parte Seconda – Appropriatezza strutturale
carico maggiore è nella prevenzione delle complicanze tardive. Il diabetologo ha sempre di più dedicato il proprio tempo e ha sempre di più organizzato i servizi, in senso interventistico-preventivo.
In analogia, in campo metabolico i grandi trials
di prevenzione cardiovascolare primaria e secondaria hanno evidenziato l’importanza del controllo
dei fattori di rischio, soprattutto dei lipidi.
In quest’ottica, merita infine ricordare un dato
che induce a importanti riflessioni, ovvero che alcune ricerche, quali gli studi di Verona e Casale
Monferrato, hanno evidenziato che è proprio l’intervento di strutture organizzate come i servizi di
diabetologia che riduce la morbilità e la mortalità
dei pazienti. Dati italiani recenti dimostrano che
la sinergia tra l’assistenza specialistica dei servizi
di diabetologia e la medicina generale riduce del
65% i ricoveri ospedalieri del paziente diabetico,
voce primaria nell’analisi dei costi della malattia,
e triplica la probabilità che il paziente sia seguito
secondo le Linee guida.
Pertanto, il metabolista diabetologo odierno, alla
luce delle attuali conoscenze scientifiche, ha ben
chiaro che il suo ruolo è quello di prevenire, in
senso sia primario sia secondario, e per attuare
questo deve curare al meglio i metabolismi glicidico e lipidico, l’ipertensione e il sovrappeso del
suo paziente.
La qualità e l’accreditamento
Negli ultimi anni alcune specialità mediche hanno
perseguito con particolare attenzione il tema della
qualità dei servizi e delle prestazioni. La diabetologia
è una delle specialità che si è più distinta per la
produzione di materiale e per la vivacità delle iniziative in tale senso. Non è un caso che proprio gli
specialisti di malattie metaboliche e diabetologia
siano sensibili al problema della qualità di un servizio: il servizio di diabetologia ha una sua orga-
12
nizzazione articolata in senso curativo e preventivo,
è tenuto alla gestione di una mole notevole di dati,
si relaziona con un bacino di utenza elevato, lavora
in equipe, pertanto la necessità di aggiornamento
continuo in questo settore è molto sentita. In altre
parole, è la dinamica dei flussi quotidiani che rende
il metabolista diabetologo particolarmente interessato e recettivo a procedure che migliorino la qualità
delle prestazioni e che rivedano ciclicamente i percorsi organizzativi all’interno dell’unità operativa.
Negli ultimi anni Novanta, vi è stato un forte impulso culturale della diabetologia e progressivamente è stato messo a punto un processo di ricerca
della qualità delle prestazioni che ha coinvolto tutto
il Paese. Parallelamente si è dato inizio a quell’iter
di verifica e di misura esterna “di quel che si fa e di
come lo si fa” che è detto accreditamento.
Nel 1996 è stato prodotto il primo manuale di
accreditamento italiano per servizi di diabetologia,
uno dei primi in assoluto fra tutte le specialità
mediche, e, successivamente, è stata avviata una
campagna di autoaccreditamento dei servizi su
tutto il territorio nazionale. Ogni servizio ha misurato la propria attività tramite il manuale e ha
inviato il risultato a un centro di raccolta centralizzato. Per la prima volta, nel 1999, grazie a questa
campagna nazionale, è stato possibile elaborare
una fotografia credibile dell’attività organizzativa
e di alcuni parametri di qualità dei servizi italiani.
Si tratta del punto di partenza fondamentale per
un processo di miglioramento proiettato in avanti.
Questo viaggio verso la ricerca della qualità continua, ha precorso alcune direttive di legge che si
ritrovano nella riforma sanitaria-ter e ha posto la
diabetologia italiana in una posizione di assoluta
avanguardia. L’ultimo prodotto, gli Annali AMD
(Associazione Medici Diabetologi), rappresentano
il risultato dello sforzo congiunto di 130 Servizi
di diabetologia italiani, che si sono dotati in questi
anni di sistemi informativi (cartella clinica infor-
141
Ministero della Salute
matizzata) in grado di garantire, oltre alla normale
gestione dei pazienti in carico, l’estrazione standardizzata delle informazioni necessarie alla costituzione del File Dati AMD.
Grazie all’analisi degli indicatori degli Annali
AMD è stato possibile descrivere e monitorare
l’assistenza specialistica al diabete in Italia negli
ultimi quattro anni. I risultati, di rilevanza internazionale, sono stati presi come esempio dall’International Diabetes Federation (IDF) come migliore esempio di standard di raccolta del dato da
proporre per la diabetologia mondiale.
L’equipe diabetologica
Lo specialista diabetologo potrà riunire in sé molte
delle caratteristiche essenziali sinora descritte, ma
difficilmente riuscirà a produrre risultati se opererà
individualmente. Per poter veramente mettere in
pratica un’assistenza diabetologica efficace, egli
deve riuscire a ottenere il meglio dall’insieme delle
figure professionali che lavorano nella sua struttura.
Valorizzando le competenze di ognuno, integrandole, sapendo fare tesoro dei pregi e allo stesso
tempo smussando gli aspetti negativi di ogni operatore, deve riuscire a dare alla sua struttura un’impronta di coesione che si tradurrà in risultati pratici importanti.
Per fare questo gli sono richieste doti di leadership
e di managerialità di elevato livello. Il suo ruolo e
la sua identità si evidenzieranno al meglio se saprà
dare quell’impulso per cui un gruppo di lavoro si
trasforma in un’equipe, ovvero in un’entità che si
aggrega attorno al problema dell’assistenza al diabetico dandosi delle regole, operando in modo
coordinato, elaborando procedure condivise e revisionate periodicamente.
La capacità di dare vita a un’equipe, di gestire
operatori sanitari con caratteristiche diverse tra
loro è un’altra faccia, di certo non la meno im-
142
portante, del poliedro che definisce la figura del
metabolista diabetologo (per ulteriori approfondimenti vedi Appendice 2).
UO ospedaliere
La gestione della persona con diabete
ricoverata per altra patologia
Si stima che almeno 1 paziente su 4 fra quelli che
si ricoverano è affetto da diabete, pur essendo
stato ricoverato per affezioni diverse e quindi in
reparti differenti.
Spesso la diagnosi di diabete viene fatta per la
prima volta proprio in occasione di un ricovero,
indipendentemente dal motivo per il quale il paziente è stato accolto in ospedale.
È necessario che vi sia un’attenta cura del diabete
durante l’ospedalizzazione, perché il buon controllo glicemico influenza in maniera importante
l’esito della malattia che lo ha reso necessario.
Pertanto, è importante che tutti gli operatori ospedalieri conoscano i vari aspetti di gestione di questa malattia, dalla dieta alla terapia, all’interazione
dei farmaci, al monitoraggio glicemico, alle crisi
ipoglicemiche. La ristorazione deve prevedere
menù bilanciati nel rispetto delle raccomandazioni
nutrizionali, con protocolli specifici di tipo assistenziale e nutrizionale elaborati dal dietista (riguardanti numero, tipologia e orari dei pasti).
Il ricovero in ospedale di un diabetico, al di là
della condizione che ha richiesto il ricovero, può
essere un momento per verificare l’efficacia della
terapia antidiabetica e migliorare, laddove necessario, il grado di compenso metabolico. Inoltre,
durante il ricovero si deve verificare la stadiazione
delle complicanze croniche. Pertanto, è necessaria
un’opportuna e corretta integrazione con il diabetologo, mediante la richiesta di una consulenza.
Inoltre, al momento della dimissione del paziente
Parte Seconda – Appropriatezza strutturale
con diabete nel quale è stata avviata terapia insulinica e si rende necessario un automonitoraggio glicemico domiciliare, è indispensabile svolgere attività
di educazione terapeutica sull’uso dei presidi [siringhe classiche e pre-riempite (iniettori a penna),
glucometri ecc.]. Tale istruzione deve poi continuare
presso il MMG e il servizio di diabetologia.
Gestione della persona con diabete che vive
in strutture residenziali non domiciliari
Circa 1 persona su 4 ospitata in strutture residenziali è affetta da diabete. Pertanto, a esse deve
essere garantita un’assistenza al diabete adeguata
alle necessità e non inferiore a quella che viene
fornita agli altri pazienti, nel rispetto degli standard di cura. Il personale sanitario deve avere una
formazione specifica in merito alle procedure di
monitoraggio metabolico e clinico e agli strumenti
terapeutici del diabete.
I pazienti di età avanzata sono spesso affetti da
comorbidità, pertanto sono spesso esposti all’impiego inadeguato di farmaci antidiabetici, con
conseguente ipoglicemia, che rappresenta una
causa importante nei ricoveri d’urgenza presso le
strutture ospedaliere.
Il laboratorio
Il laboratorio di analisi biomediche ha un ruolo
fondamentale nella diagnostica e nella sorveglianza
del diabete mellito. Vengono presi in considerazione solo alcuni degli esami di maggiore rilievo
[glicemia e OGTT (oral glucose tolerance test), emoglobina glicata, microalbuminuria], rimandando
ad altri documenti già pubblicati quanto di pertinenza per gli altri numerosi esami di laboratorio
utilizzati per tale patologia. Lo scopo è dettagliare
i requisiti minimi che i professionisti devono soddisfare per questi esami, sia per gli aspetti strettamente analitici, sia per quelli pre- e postanalitici.
12
Glicemia e OGTT
La misura della glicemia a digiuno e dopo carico
orale di glucosio è di fondamentale importanza
per la diagnosi del diabete. In tale ottica i traguardi
analitici per la misura del glucosio nel plasma,
sviluppati sulla base dei dati di variabilità biologica, sono rispettivamente ≤ 3,3% (come CV)
per l’imprecisione, ±2,5% per il bias (inesattezza)
e ±7,9% per l’errore totale (inaccuratezza). È pertanto importante che si privilegi l’accuratezza piuttosto che la riproducibilità, cercando di minimizzare l’errore totale analitico.
Dai dati dei programmi di Valutazione Esterna
di Qualità (VEQ) disponibili sembra che la maggior parte dei laboratoristi soddisfi i criteri sopra
menzionati. Tuttavia, di recente è emerso chiaramente che spesso le insidie nella misura della glicemia riguardano più l’aspetto preanalitico che
quello strettamente analitico. Dal momento che
la stabilità del glucosio nel plasma raccolto in presenza di sodio fluoruro (2,5 mg/ml di sangue) è
decisamente superiore a quella del siero, l’ADA
ha raccomandato che la misura della glicemia a
fini diagnostici sia effettuata su plasma. La misura
del glucosio nel siero è accettabile solo se il siero
è preparato rapidamente (entro 1 ora), separato
dal coagulo nelle apposite provette dotate di tappo
separatore. In realtà, è stato provato che la glicemia
diminuisce sensibilmente nella prima ora dal momento del prelievo, sia in presenza sia in assenza
di NaF, probabilmente perché deve comunque
passare un po’ di tempo per bloccare la glicolisi
nelle cellule, soprattutto se il numero dei leucociti
è elevato.
La stabilità del campione di sangue raccolto quindi
in presenza di NaF (da solo o con altri anticoagulanti quali EDTA, litio-eparina, citrato o ossalato
di potassio) è di 72 h a temperatura ambiente. Nel
siero sterile, non emolizzato e subito separato dal
143
Ministero della Salute
coagulo il glucosio è stabile almeno 8 h a 25 °C e
72 h a +4 °C.
Il professionista di laboratorio deve quindi essere
in grado di provare che le procedure per la raccolta
e conservazione del campione di plasma garantiscano una sufficiente stabilità della glicemia come
se il campione di sangue fosse subito trattato, separando globuli rossi dal plasma per centrifugazione e conservato quindi in bagno di ghiaccioacqua (0 °C) fino al momento dell’analisi. Un’alternativa possibile prevede l’utilizzo di una miscela
di citrato-NaF-EDTA, che garantirebbe una perfetta stabilità della concentrazione di glucosio
nella provetta fino al momento dell’analisi.
Un possibile indicatore della bontà delle procedure
di trattamento dei campioni per la misura della
glicemia può essere ricavato dal numero di ipoglicemie riscontrate nel corso di un definito periodo
di tempo. È verosimile pensare che molti episodi
di ipoglicemia possano essere causati da un abbassamento della concentrazione del glucosio nel campione, che potrebbe capitare tra il momento del
prelievo e il momento di analisi, se il campione
viene raccolto in assenza di inibitori della glicolisi
o conservato a una temperatura non controllata.
Per quanto riguarda l’OGTT, il laboratorio è tenuto a osservare le raccomandazioni prodotte, limitandosi a eseguire le misure di glicemia basale
e 2 ore dopo carico orale standard da 75 g, tranne
quando l’esame viene richiesto per sospetto di
diabete gestazionale o per altre condizioni al di là
della diagnosi di diabete (es. per sospetta ridotta
sensibilità insulinica). L’esame va eseguito in condizioni rigorosamente standardizzate, per quanto
riguarda la preparazione del paziente, le modalità
di preparazione e somministrazione del carico
orale di glucosio e la rapidità nell’interpretazione
della glicemia basale per proseguire l’esame solo
se indicato (evitando quindi di somministrare un
carico orale di glucosio a un soggetto diabetico).
144
Il valore di glicemia basale refertato non può essere
ottenuto da sistemi Point Of Care Testing (POCT).
Se per la valutazione preliminare della glicemia
basale, per motivi di organizzazione del laboratorio, fosse necessario utilizzare un glucometro da
POCT, il professionista di laboratorio deve fissare
il proprio cut-off per la prosecuzione del test in
base alle prestazioni tecnico-analitiche dello strumento. Si raccomanda che tali prestazioni vengano
monitorate con periodicità adeguata.
Per quanto riguarda, infine, l’utilizzo dei glucometri portatili in ambito ospedaliero, il professionista di laboratorio dovrebbe condividere ed essere
disponibile a valutare le seguenti caratteristiche:
• replicabilità: l’imprecisione del metodo, valutata su almeno 20 replicati dello stesso campione, deve essere inferiore al 2,9% (espressa
in termini di coefficiente di variazione) per almeno tre livelli diversi di glicemia (tipicamente
attorno a 60, 250 e 400 mg/dl);
• accuratezza: lo scostamento medio (bias) delle
misure effettuate dal glucometro, valutato su
almeno 60 campioni di sangue con valori diversi di glicemia nell’intervallo tra 50 e 400
mg/dl, rispetto alle misure effettuate con metodo enzimatico in laboratorio sui plasmi degli
stessi campioni, deve essere contenuto entro il
2,2% del valore assoluto di glicemia media
(es. deve essere inferiore a 2,2 mg/dl dei campioni con glicemia media di 100 mg/dl). Inoltre, in non più del 5% dei campioni analizzati
il valore di glicemia deve discostarsi di non oltre il 20% rispetto ai valori di glicemia misurata
con il metodo di riferimento enzimatico in laboratorio;
• linearità: è opportuno utilizzare dispositivi con
linearità molto ampia, in genere compresa fra
30 e 400 mg/dl;
• allineamento con il risultato della glicemia misurata su plasma presso il laboratorio: è oppor-
Parte Seconda – Appropriatezza strutturale
tuno controllare periodicamente che i risultati
delle misurazioni siano allineati rispetto a quelli
ottenuti da un laboratorio centralizzato che
impiega, per la misurazione della glicemia, il
metodo basato sull’esochinasi.
Emoglobina glicata (HbA1c)
A oggi sono disponibili oltre 70 kit per misurare
l’HbA1c, ed è difficile avere un quadro aggiornato
delle loro prestazioni e limiti, anche perché in
continuazione ne vengono alla luce di nuovi, sopratutto per il POCT. A grandi linee possono essere raggruppate in:
• metodiche cromatografiche basate sulla differenza di punto isoelettrico tra HbA1c e HbA
[scambio ionico, high-performance liquid chromatography (HPLC) e simili], o sulla presenza
di glucosio (affinità);
• metodiche immunochimiche;
• metodiche enzimatiche (riconoscono la presenza di chetoammine).
Generalmente i risultati ottenuti con metodi basati
su diversi principi sono molto ben correlati, a dispetto di quanto si sarebbe tentati a immaginare,
perché evidentemente i diversi metodi sono sensibili
alle differenze strutturali tra HbA1c e HbA nelle
medesime zone della molecola emoglobinica (verosimilmente i dintorni dei residui terminali delle catene beta globiniche) e non vi sono evidenze che i
dati ottenuti con un metodo siano, da un punto di
vista clinico, superiori a quelli ottenuti con un altro.
Da un punto di vista analitico è stato recentemente
raggiunto un consenso nazionale sulla definizione
dell’errore totale accettabile per la misura dell’HbA1c, nonché su altri vari punti importanti per
l’implementazione della standardizzazione internazionale dell’HbA1c in Italia (vedi Appendice 3).
Il professionista di laboratorio deve essere in grado
di dimostrare l’utilizzo di un metodo analitico al-
12
lineato al sistema internazionale di riferimento
(non necessariamente un metodo in HPLC), chiedendo al produttore di diagnostici di esibire il relativo attestato (un esempio di attestato è riportato
nell’Appendice 3). Deve inoltre essere in grado di
provare che l’imprecisione del metodo stesso, valutata nel lungo periodo attraverso la pratica del
controllo interno di qualità, sia contenuta entro il
limite del 2,0% (espresso in termini di coefficiente
di variazione). Per quanto riguarda il rispetto dell’errore totale accettabile (pari al 6,7% del valore
dell’HbA1c), è importante che tale parametro sia
periodicamente valutato attraverso la partecipazione ad adeguati programmi di VEQ. In Italia,
attualmente, esistono diversi programmi di VEQ
(CRB Castelfranco Veneto, Azienda Ospedaliera
S. Orsola di Bologna, Azienda Ospedaliera Careggi
di Firenze), come anche all’estero (es. UKNEQAS)
e la partecipazione attiva a questi programmi è
uno dei requisiti per l’accreditamento dei laboratori
secondo la norma ISO 15189.
Per quanto riguarda la raccolta e la conservazione
dei campioni, non vi sono particolari criticità da
segnalare; può essere utilizzato prelievo sia venoso
sia di sangue capillare tramite apparecchio pungidito. L’anticoagulante varia a seconda dei metodi,
ma generalmente l’EDTA è quello più utilizzato.
La stabilità del campione di sangue intero è di almeno 5 giorni a 4 °C e di almeno 6 mesi a –80 °C.
Nel caso del congelamento a –80 °C, possono essere
congelate direttamente le provette primarie, purché
di materiale resistente al congelamento e con volume
di sangue non elevato (circa 2 ml). Si raccomandano
un congelamento rapido e uno scongelamento lento
a temperatura ambiente (circa 1 ora) con susseguente delicato rimescolamento. Una volta scongelati, i campioni devono essere analizzati entro breve
tempo. Alcuni produttori di diagnostici hanno recentemente introdotto sistemi di raccolta del sangue
capillare che garantiscono una stabilità di circa una
145
Ministero della Salute
o due settimane a temperatura ambiente. Questi
sistemi sono estremamente dipendenti dal metodo
utilizzato e non possono essere adattati, senza opportune verifiche, ad altri sistemi analitici.
Per quanto riguarda gli intervalli di riferimento
per soggetti adulti non obesi e senza familiarità
diabetica, questi sono compresi tra 4,0% e 6,0%.
Nel 2010, l’ADA ha abbassato il limite superiore
portandolo a 5,6%, ma su questo punto in Italia
attualmente non c’è consenso. Nelle donne in
gravidanza i valori sono lievemente ma significativamente spostati più in basso, con intervalli tra
4,0% e 5,5%. L’utilizzo di intervalli di riferimento
diversi da quelli sopra riportati deve essere giustificato da adeguata documentazione.
Infine, è sempre utile tenere anche presenti le possibili limitazioni dell’utilizzo dell’HbA1c (vedi Appendice 3). Il professionista di laboratorio deve
quindi conoscere le limitazioni dell’esame ed essere
in grado di commentare un risultato di un’HbA1c
che contrasti visibilmente con il quadro clinico
del paziente alla luce di queste ultime. In tali casi
è possibile richiedere la ripetizione dell’esame, ma
utilizzando una metodica di diverso principio analitico, oppure consigliare la valutazione del controllo glicemico dosando altri parametri non basati
sull’analisi di componenti eritrocitarie (es. la determinazione della glicemia media ricavata dai dati
clinici a disposizione, o la misura dell’albumina
glicata, oggi effettuabile con grande affidabilità
mediante metodo enzimatico-colorimetrico).
Misura dell’albuminuria per l’accertamento
della nefropatia diabetica (microalbuminuria)
La misura quantitativa dell’albumina nelle urine
non va effettuata se è in corso un’infezione urina-
146
ria, oppure se è presente ematuria (anche se micro-), o se il paziente ha svolto attività fisica intensa
nei 2-3 giorni prima dell’esame. Il professionista
di laboratorio deve poter verificare queste importanti fonti di variabilità preanalitica.
Il campione raccomandato è quello delle urine
fresche (meglio se del primo mattino), sul quale
eseguire le misure di albumina e creatina e calcolarne il rapporto. Possono essere utilizzati anche
altri tipi di campioni, quali quello delle 24 ore o
il campione temporizzato notturno. Al fine dell’esecuzione dell’esame, le urine devono essere
conservate refrigerate per evitare la crescita microbica. In condizioni di sterilità le urine sono
stabili diversi giorni in frigorifero, mentre va evitato il congelamento a –20 °C. Anche questi altri
aspetti preanalitici devono essere tenuti presenti
dal professionista di laboratorio.
Per quanto riguarda la parte analitica il laboratorista deve utilizzare metodi immunochimici in
nefelometria/turbidimetria, caratterizzati da
un’imprecisione contenuta (CV < 7%) e da un limite di rilevabilità pari ad almeno 3 mg/L. Il professionista di laboratorio deve assicurare adeguate
procedure di controllo di qualità interno (a ogni
seduta analitica) ed esterno (partecipazione a programmi di VEQ).
I metodi in chimica secca possono essere utilizzati
come screening dopo verifica delle loro caratteristiche analitiche e purché i risultati positivi siano
sottoposti a test di conferma in laboratorio. L’utilizzo dei test qualitativi in POCT è ragionevole
solo quando sia dimostrabile una consistente riduzione dei dosaggi quantitativi e per garantire
l’individuazione dei pazienti a uno stadio precoce
di insufficienza renale (per ulteriori approfondimenti vedi Appendici 3 e 4).
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
13. Appropriatezza tecnologica
Il ruolo dell’Health Technology Assessment
e le evidenze disponibili sul trattamento
del diabete
Gli organismi nazionali e internazionali che si occupano di Health Technology Assessment (HTA)
hanno formulato, nel corso degli anni, differenti
e numerose definizioni (vedi Tabella 4.1 a pagina
26). L’acronimo HTA indica i tre termini inglesi:
Health = salute; Technology = procedura, tecnica,
struttura; Assessment = valutazione. Mentre non
ci sono dubbi sul primo termine, deputato a circoscrivere il campo d’azione, sugli altri va fatta
chiarezza.
Per quanto concerne il termine tecnologie, esso
deve essere inteso in senso ampio: si definiscono
tecnologie biomediche i farmaci, le attrezzature,
le procedure mediche e chirurgiche utilizzate nei
sistemi sanitari e i sistemi organizzativi e di supporto all’interno dei quali si provvede alle cure.
Analogamente, la Carta di Trento sulla “valutazione delle tecnologie sanitarie in Italia” si riferisce
tanto alle attrezzature sanitarie, quanto ai dispositivi medici, ai farmaci, ai sistemi diagnostici,
alle procedure mediche e chirurgiche, ai percorsi
assistenziali e non ultimo agli assetti strutturali,
organizzativi e manageriali nei quali viene erogata
l’assistenza sanitaria. Il termine valutazione, come
appare evidente dall’origine dell’approccio decritta
nel paragrafo seguente, va inteso come “supporto
tecnico alle decisioni politiche”, e per estensione
“supporto tecnico alle decisioni aziendali” e/o
“supporto tecnico alle decisioni cliniche”.
In Italia, a livello istituzionale, l’HTA viene esplicitamente menzionato nel Piano Sanitario Nazionale (PSN) 2006-2008: “La valutazione delle tecnologie sanitarie, intesa come insieme di metodi
e strumenti per supportare le decisioni, si rivolge
ai diversi livelli decisionali secondo modelli operativi differenziati, rivolti a fornire supporto a:
• decisioni di politica sanitaria (adozione, diffusione e finanziamento di nuove tecnologie);
• decisioni ‘manageriali’ di investimento in
nuove tecnologie a livello aziendale e per la
promozione di un utilizzo appropriato delle
tecnologie medesime tramite l’elaborazione di
protocolli;
• decisioni cliniche, per la diffusione di ‘modelli
di governo (governance)’ individuati da strutture centrali e da adottare a livello organizzativo, quali la definizione e diffusione degli
standard qualitativi e quantitativi”.
In definitiva, la peculiarità dell’HTA può essere
ricondotta a due aspetti principali: la multidimensionalità della valutazione e la sua sistematicità.
Entrambe sono legate alla finalità di supporto alle
147
Ministero della Salute
decisioni, politiche o aziendali che siano, le quali
implicano l’adozione di un’ottica quanto più ampia
possibile (rappresentanza dei diversi interessi in
gioco, ovvero dei cosiddetti stakeholders) e un processo di definizione delle scelte quanto più possibile
codificato e quindi trasparente.
Il processo di HTA è, quindi, per sua natura multidisciplinare e, di conseguenza, multiprofessionale. Come anche è tipicamente formalizzato, separando funzioni e ruoli: per esempio prevedendo
attori diversi a livello di ruolo strategico (che cosa
valutare), ruolo tecnico (assessment), sintesi valutativa (appraisal). Trattandosi di un approccio che
vuole essere sistematico e, quindi, per definizione
riproducibile, utilizza delle varie discipline le migliori pratiche e standard metodologici (vedi oltre
i core models EUnetHTA).
Le principali sfide che l’HTA deve oggi affrontare
sono: quella della trasferibilità dei risultati (trasferibilità a contesti diversi delle valutazioni);
quella dell’impatto sulla pratica clinica (diffusione), ritenuta ancora insufficiente; infine, quella
della capacità di sintesi dei diversi approcci logici
e metodologici che sono tipici delle diverse discipline coinvolte.
Cenni storici
A livello internazionale le prime esperienze di
Technology Assessment (TA) si trovano in settori
differenti da quello sanitario. Il TA nasce alla fine
degli anni Sessanta negli Stati Uniti: in particolare,
nel 1965 il Congresso istituì il “Committee on
Science and Astronautics” con il compito di supportare le decisioni politiche in ambito astronautico. Il termine fu adottato per la prima volta nel
1967 da un italiano, Emilio Daddario, membro
della succitata Commissione, il quale chiese al
Congresso degli Stati Uniti di introdurre la valutazione di aspetti etici, sociali, economici e orga-
148
nizzativi a sostegno delle decisioni di policy maker.
Per quanto concerne l’HTA, benché l’acronimo
compaia già in un documento ufficiale del Congresso degli Stati Uniti del 1967, storicamente l’atto
di nascita della nuova metodologia può essere fatto
coincidere con due eventi verificatisi nel 1972: la
pubblicazione da parte di Archibald Cochrane del
volume Effectiveness and Efficiency, nel quale viene
proposto un nuovo metodo di valutazione dell’efficacia terapeutica, e la fondazione da parte del
Congresso statunitense dell’Office of Technology Assessment (OTA), operativo dal 1972 al 1995.
Successivamente, dagli anni Novanta in poi, numerose Agenzie dedicate all’HTA, con compiti
simili, sono nate in America e in Europa, a livello
sia nazionale sia locale.
Un’ulteriore spinta al consolidamento e alla diffusione dell’HTA è giunta dalla nascita di alcuni
organismi e progetti sovranazionali e dall’azione
di network internazionali: si ricorda l’International
Network of Agencies for Health Technology Assessment (INAHTA), nata nel 1993 come rete internazionale delle Agenzie di valutazione delle tecnologie sanitarie con compito di promuovere la
cooperazione e la condivisione della metodologia
dell’HTA, l’International Society of Technology Assessment in Health Care (ISTAHC) e, da ultimo,
lo European network for Health Technology Assessment (EUnetHTA) nato nel 2005.
Nonostante ciò, le prime applicazioni istituzionali
dell’HTA in Sanità si possono far risalire al 1982
in Francia con l’istituzione del CEDIT (Comité
d’Évaluation et de Diffusion des Innovations Technologiques), un organo di supporto al Direttore
Generale della rete ospedaliera pubblica di Parigi
relativamente a decisioni inerenti le tecnologie sanitarie e l’innovazione organizzativa, e quindi un
organismo che si è interessato alla valutazione
degli investimenti in tecnologie nuove e costose.
In Italia, la valutazione delle tecnologie in ambito
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
sanitario ha una storia piuttosto recente. Si possono far risalire i primi approcci sistematici al
2003 con la costituzione del Network Italiano
(NIHTA) che ha formulato nel 2006 la Carta dei
principi “Carta di Trento” sulla valutazione delle
tecnologie sanitarie in Italia, e quindi la costituzione della Società Italiana di HTA (SIHTA). A
livello istituzionale, il PSN 2006-2008 ha evidenziato la necessità di riconoscere l’HTA come una
priorità e ha previsto lo sviluppo della funzione
di coordinamento delle attività di valutazione condotte a livello regionale (o inter-regionale) da
parte di organi tecnici centrali del Sevizio Sanitario
Nazionale (SSN), quali l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e l’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (oggi Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari
Regionali, AgeNaS).
Con la delibera n. 73/CU del 20.09.2007, la Conferenza Unificata Stato-Regioni ha attribuito all’AgeNaS, tra gli obiettivi strategici, la funzione di
“Supporto alle Regioni per la promozione di attività stabili a livello regionale e locale di programmazione e valutazione dell’introduzione e gestione
delle innovazioni tecnologiche (HTA) e diffusione
in ambito regionale dei risultati degli studi e delle
valutazioni effettuate a livello centrale, favorendo
l’adozione di comportamenti coerenti con tali risultati”.
Va altresì ricordata l’AIFA (Agenzia Italiana del
Farmaco) che, nella fase di registrazione dei farmaci, di definizione del prezzo adeguato [negoziazione con l’Azienda titolare dell’Autorizzazione
all’Immissione in Commercio (AIC)] e delle condizioni di rimborso, coniuga la valutazione di efficacia, sicurezza e qualità di un medicinale con
l’HTA. L’Agenzia svolge, quindi, le seguenti attività riconducibili all’ambito dell’HTA:
• valutazione dei nuovi farmaci e attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical efficacy);
• raccomandazioni sull’uso appropriato dei far-
13
maci (Note AIFA) correlate alle attività di valutazione dell’efficacia clinica (clinical effectiveness);
• partecipazione alle decisioni sul rimborso dei
farmaci, correlate alle attività di valutazione
del rapporto costo-efficacia e di budget impact;
• generazione di dati epidemiologici originati
da flussi OsMed (relativi all’utilizzo dei farmaci
in ambito territoriale e ospedaliero).
AIFA e AgeNaS sono state indicate dal Ministro
della Salute come amministrazioni di riferimento
per la Joint Initiative della Commissione Europea
sull’HTA e l’Efficacia relativa dei farmaci (EUnetHTA JA).
Le indicazioni per l’HTA in Italia
Le organizzazioni aderenti al Network Italiano di
HTA (NIHTA), al termine di un processo di consultazione che ha coinvolto i partecipanti al “1°
Forum italiano per la valutazione delle tecnologie
sanitarie”, hanno condiviso i seguenti principi che
sono stati pubblicati e diffusi in un documento al
quale è stato dato il nome di “Carta di Trento”
(vedi Tabella 4.2 a pagina 29).
I principi concordati e stabiliti nella Carta rispondono all’esigenza di individuare e definire in maniera univoca il chi, che cosa, dove, quando, perché e il come della valutazione.
Le esperienze regionali
Lo sviluppo di sistemi di HTA a livello regionale,
a oggi, è stato attivato in modo esplicito (normato),
seppure con tempi e modalità differenti, in poche
Regioni e, quindi, servirebbe un maggiore coinvolgimento di tutte le istituzioni regionali italiane
per regolamentare e attivare il sistema.
Alcuni esempi di HTA a livello regionale sono riportati di seguito.
149
Ministero della Salute
L’Emilia Romagna ha definito gli attori del processo, strutturato su due livelli, e con il coinvolgimento di un apposito Centro regionale (Centro
Regionale di Valutazione e Informazione sui Farmaci, CReVIF), senza una specializzazione dei
ruoli in funzione della tecnologia, stressando piuttosto la sua multidisciplinarietà; non appare chiaramente esplicitata l’attribuzione del ruolo strategico, come anche la cogenza del processo valutativo, tranne che per le grandi attrezzature.
La Lombardia stressa la finalità della valutazione
dell’appropriatezza attraverso un processo strutturato su 3 fasi, a loro volta suddivise in numerosi
e complessi step.
Il Piemonte ha strutturato il processo su tre livelli,
senza peraltro una specializzazione dei ruoli in
funzione della tecnologia; appare chiaramente separato il ruolo strategico e quello tecnico; la cogenza del processo valutativo è legata ad apposita
lista delle tecnologie da monitorare.
La Sicilia ha iniziato il processo di definizione
dell’HTA definendo l’esigenza di separare il ruolo
tecnico (Nucleo, peraltro non ancora costituito)
e quello strategico (Gruppo); il focus del processo
è sulla promozione delle attività formative e di
diffusione (fra i clinici). È presente anche una
funzione di controllo, mediante la realizzazione
di una banca dati delle principali attrezzature.
La Toscana ha invece concentrato l’attenzione sulle
specificità delle tecnologie, individuando varie
aree di intervento: dispositivi medici, farmaci, apparecchiature, organizzazione, protocolli, edilizia
ospedaliera.
Il Veneto ha una struttura di HTA consolidata,
essendo storicamente partner di EUnetHTA; il
processo è organizzato su tre livelli e coinvolge
una struttura regionale (CReVIF) per gli aspetti
tecnici, che si occupa indistintamente di farmaci
e dispositivi medici; appare chiaramente separato
il ruolo strategico da quello tecnico; non è, invece,
150
esplicitata la cogenza del processo valutativo.
In definitiva, è comune nelle Regioni considerate
una focalizzazione verso le esigenze di programmazione e controllo delle tecnologie a livello locale
(aziendale) e, in seconda istanza, sui processi di
diffusione di pratiche cliniche e assistenziali appropriate.
Nessuna Regione esplicita criteri e metodologie
di valutazione da adottare, demandandone la definizione a Centri regionali, ovvero commissioni
tecniche; da questo punto di vista sembra esserci
una diffusa disattenzione verso gli standard internazionali e quindi la trasferibilità dei risultati.
Analogamente, i modelli sembrano in larga misura
orientati all’autarchia, sebbene in alcuni casi si
preveda l’integrazione in reti sovraordinate.
HTA relativo al trattamento del diabete
Nel seguente paragrafo si descrivono le principali
aree di evidenza sviluppate in un contesto di HTA
per il trattamento del diabete. Si precisa che non
si tratta di una revisione sistematica della letteratura, né si è proceduto con metanalisi, in quanto
entrambi gli ambiti esulano dagli obiettivi del
presente lavoro. La ricerca è stata quindi limitata
ai report HTA delle Agenzie “ufficiali”, ovvero
agenti nell’ambito delle reti INAHTA ed EUnetHTA.
La strategia di ricerca adottata è stata la seguente:
database INAHTA ed EUnetHTA; parole chiave
utilizzate: Diabetes; periodo: 2000-2010; numero
report individuati: 19; numero report esclusi: 1
(perché superato dalle indicazioni della Conferenza nazionale di consenso per raccomandazioni
e implementazione delle nuove linee guida per lo
screening e la diagnosi del diabete gestazionale).
Si evince immediatamente come i report ufficiali
di HTA siano un numero molto limitato rispetto
alla moltitudine di studi esistenti sul tema.
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
Le aree oggetto di assessment
Seppure con diversa enfasi nei vari report, le aree
che sono state oggetto di assessment possono essere riassunte come segue:
• screening di popolazione per il diabete;
• interventi su comportamenti e stili di vita;
• comparazione dei farmaci;
• device di somministrazione e terapia.
Criteri di assessment
I criteri di assessment utilizzati sono vari: tutti i
report affrontano la questione dell’efficacia dei
trattamenti e, in molti casi, della sicurezza. Valutazioni economiche (costo-efficacia o costo-utilità)
sono citate, ma in generale ritenute di scarsa qualità; risulta frequente la valutazione della necessità
di un maggiore sviluppo della ricerca in questo
ambito, specie per quanto concerne le evidenze
di lungoperiodo.Un aspetto rilevante più volte citato è quello della compliance alla terapia.
Discussione
Lo screening della popolazione over 45 anni con
almeno un fattore di rischio per diabete di tipo 2
(DT2) è stato considerato costo-efficace su dati riferiti alla popolazione francese. Il test utilizzato è la
glicemia a digiuno (su sangue venoso o capillare).
È altresì stato raccomandato lo screening simultaneo per fattori di rischio cardiovascolare.
Analogamente, lo screening sistematico per la retinopatia diabetica è stato ritenuto costoso, ma
complessivamente costo-efficace; i pazienti con
DT2 dovrebbero, quindi, essere regolarmente controllati per la presenza di retinopatia, mediante
analisi del fondo dell’occhio.
Inoltre, è stato raccomandato che i pazienti con
DT2 e aterosclerosi o albuminuria siano indirizzati
a una terapia polifarmacologica individualizzata
e intensiva. Di contro, l’evidenza sugli interventi
non farmacologici è povera e non conclusiva.
13
Peraltro, un report dell’INAHTA (2007) mostra
come il trattamento polifarmacologico intensivo
trovi delle barriere di applicazione, dovute alla difficoltà da parte dei medici di famiglia e degli specialisti a convincere il paziente della gravità della
malattia.
A tal fine è raccomandata la massima diffusione
delle informazioni sulle medicine, sulla cooperazione fra medici di famiglia e centri specialistici,
sulla relazione fra terapia farmacologica e stili di
vita, sulla compliance e l’autocura, nonché sull’uso
delle tecnologie nell’assistenza alla cronicità.
Per quanto concerne gli interventi di tipo educativo sui pazienti, l’evidenza è limitata e manca un
consenso, specialmente per quanto concerne gli
impatti di lungo periodo. È stata raccolta un’evidenza di qualità da bassa a media per gli interventi
educativi e di supporto psicologico indirizzati agli
adolescenti con diabete di tipo 1 (DT1).
In un ambito collaterale, sono state valutate la sicurezza e la capacità prognostica dei test da sforzo
nel predire gli eventi cardiovascolari nei pazienti
con diabete; sebbene gli studi disponibili evidenzino vari indicatori indipendenti con significativo
potere predittivo della mortalità cardiovascolare e
anche degli eventi non fatali, si osserva che mancano studi che comparino questi risultati con quelli
ottenibili con il semplice giudizio del medico basato sulla storia clinica e l’esame del paziente.
Nell’ambito delle valutazioni concernenti l’HTA
della terapia farmacologica, la metformina è raccomandata come prima linea nel trattamento dell’iperglicemia nel DT2, insieme al trattamento
sullo stile di vita, cosiddetto convenzionale, alla
diagnosi di malattia; solamente nei pazienti intolleranti alla metformina si deve utilizzare un’altra
classe di farmaci antiglicemici. La seconda linea di
trattamento è l’utilizzo di una seconda classe di
molecole antiglicemiche per il trattamento dell’iperglicemia che non è compensata con il solo
151
Ministero della Salute
trattamento farmacologico della metformina e delle
modifiche dello stile di vita. Si possono utilizzare
le sulfoniluree, preferibilmente di terza generazione, o le meglitinidi o gli inibitori dell’alfa glicosidasi o i tiazolidinedioni (vedi paragrafo “I farmaci”). Esistono evidenze maggiormente consolidate per il trattamento con metformina in associazione con le sulfoniluree o con i tiazolidinedioni;
attualmente è disponibile in commercio solamente
pioglitazone, mentre l’altra molecola, rosiglitazone,
è stata ritirata dal commercio per l’associazione
con complicanze cardiovascolari. Attualmente non
esistono dati sufficienti per la valutazione dell’associazione di tre farmaci antiglicemici rispetto al
costo-beneficio e alla valutazione sull’impatto economico della terapia a lungo termine. Esistono
evidenze di un miglioramento del compenso glicemico nel co-trattamento con metformina + sulfoniluree o pioglitazone, anche se è presente un
fallimento a lungo termine del trattamento combinato di queste differenti classi di farmaci. Nuovi
farmaci, gli incretino-mimetici e gli inibitori della
dipeptidil peptidasi (DDP-IV), sono stati recentemente proposti nel trattamento del DT2 in associazione con metformina e/o sulfaniluree e/o
pioglitazone. A causa della loro recente introduzione nel mercato, le informazioni disponibili sulla
sicurezza a lungo termine sono poche. Nel 2007,
la Food and Drug Administration (FDA) ha riportato la segnalazione post-commercializzazione di
30 casi di pancreatite acuta nei pazienti che prendevano l’agonista del GLP-1 exenatide, sei dei
quali con pancreatite emorragica o necrotizzante.
Nel settembre 2009 la FDA aveva ricevuto 88 segnalazioni di pancreatite nei pazienti che prendevano l’inibitore della DPP-IV sitagliptin, 2 delle
quali erano emorragiche o necrotizzanti. I produttori di exenatide hanno reso noto che la terapia
con questa molecola era associata a 1,7 casi di pancreatite per migliaia di pazienti-anno durante lo
152
sviluppo clinico del prodotto, rispetto a 3,0 e 2,0
casi per migliaia di paziente-anno per il placebo e
l’insulina, rispettivamente. Inoltre, sono stati presentati i dati di uno studio su una numerosa coorte,
in cui non sono state riscontrate differenze nel rischio di pancreatite tra i pazienti che avevano iniziato la terapia con exenatide [rischio relativo (RR)
1,0, 0,6], o con l’inibitore della DPP-IV sitagliptin
(RR 1,0, 0,5-2,0), rispetto alla popolazione che
aveva iniziato il trattamento con metformina o
gliburide. Sono stati riportati altri casi di danno
d’organo, ma senza un aumento significativo rispetto alla popolazione di controllo. In molti studi,
la valutazione dei costi annuali della terapia con
regimi di terapia non insulinica è stata effettuata
in persone con indice di massa corporea (body mass
index, BMI) di circa 30 kg/m2. Le gliptine sono
risultate le più economiche tra i nuovi farmaci,
con un costo fra 482,50 e 575,00 euro, un costo
simile a quello di pioglitazione. Exenatide, differentemente, è risultata la terapia più cara, con un
costo di circa 1037,5 euro.
Gli analoghi dell’insulina e gli analoghi a breve
durata d’azione, quali l’insulina lispro (ILis), l’insulina aspart (IAsp) e l’insulina glulisina (IGlu),
sono stati sottoposti a HTA assessment. L’evidenza
mostra che per i pazienti con DT1 il trattamento
con ILis or IAsp riduce in modo significativo i livelli dell’HbA1c rispetto all’insulina umana (HI),
mentre l’occorrenza di ipoglicemia severa è simile
nei trattamenti, anche se quella notturna risulta
meno frequente con ILis rispetto all’HI. Per i pazienti con DT2, i livelli dell’HbA1c, i casi di ipoglicemia e la qualità della vita sarebbero sovrapponibili fra insulina umana e analoghi a breve
durata d’azione. Rimangono dubbi sull’utilizzo
degli analoghi per il diabete gestazionale e le
donne diabetiche in gravidanza.
L’evidenza disponibile (solo su dati USA) suggerisce che i costi incrementali degli analoghi del-
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
l’insulina umana siano compensati da risparmi in
altre spese sanitarie in un orizzonte di 12 mesi.
Altresì è stato rilevato che i pazienti preferiscono
l’ILis all’HI e Mix25 a HI 30/70.
Non sono invece disponibili sufficienti dati sulla
mortalità e sulla qualità della vita, come anche
sull’impatto degli “analoghi” sui costi, in un orizzonte di medio-lungo periodo (oltre 12 mesi).
Passando agli analoghi dell’insulina a lunga durata
d’azione, e in particolare all’insulina glargine (IGlar)
e all’insulina detemir (IDet), non è stata raccolta
evidenza significativa di un miglioramento nei valori
dell’HbA1c: IGlar sembra poter diminuire i rischi
di ipoglicemia severa nei pazienti con DT1 rispetto
a HI. IGlar ridurrebbe, inoltre, i casi di ipoglicemia
notturna, ma non severa, nei pazienti con DT2.
IDet ridurrebbe, poi, il rischio di ipoglicemia severa
e notturna per i pazienti con DT1, mentre non si
sono apprezzate differenze per i pazienti con DT2.
Allo stato attuale non si hanno, quindi, sufficienti
evidenze per giustificare il costo incrementale di
queste terapie ai fini dell’erogazione da parte dei
servizi sanitari pubblici. Un altro tema oggetto
ripetutamente di report HTA è quello delle modalità di somministrazione. In particolare, è stata
analizzata l’efficacia clinica e il costo-beneficio
dell’impiego dei microinfusori (continuous subcutaneous insulin infusion, CSII) rispetto alla terapia
insulinica multi-iniettiva (multiple daily injections,
MDI), nei casi di terapia insulinica intensiva nel
diabete mellito.
La qualità dei venti studi analizzati è stata ritenuta
mediamente scarsa. In ogni caso, per i pazienti
con DT1, gli studi a lungo termine indicano una
riduzione dell’HbA1c (non significativa) e quelli
a breve termine una riduzione (non significativa)
della dose d’insulina somministrata con la CSII.
Per quanto riguarda gli eventi ipoglicemici, nella
maggior parte dei trials non si mostrano differenze
apprezzabili con le due modalità di somministra-
13
zione. Nella CSII gli analoghi rapidi dell’insulina
sono associati con un’HbA1c più bassa rispetto all’insulina umana.
Per le donne in gravidanza non si apprezzano differenze di efficacia, mentre i pochi studi sugli
adolescenti non sono conclusivi.
Non sono peraltro disponibili studi di valutazione
economica che comparino le due modalità. I costi
annui (2004), comprensivi del materiale di consumo e dell’istruzione iniziale ai pazienti, variano
(popolazione UK) da £ 1091 a £ 1680, secondo il
tipo di pompa e della sua durata stimata. In ogni
caso i materiali di consumo, ovvero i set d’infusione,
rappresentano la voce di costo predominante.
I vantaggi della CSII su una terapia MDI ottimizzata appaiano quindi modesti, ma va considerato
che, in assenza di rischi, gli utilizzatori ritengono
l’utilizzo delle pompe importante dal punto di vista
della minore interferenza con le attività quotidiane
di vita: questo porta a suggerirne un uso mirato a
popolazioni selezionate di pazienti con DT1.
Un’altra tecnologia, attualmente non in commercio in Italia, che è stata valutata è l’insulina per
inalazione. Sono stati individuati 9 trials che ne
dimostrano l’efficacia: essa risulta avere almeno
la stessa capacità dell’insulina solubile nel controllo
del glucosio nel sangue. Il disegno degli studi non
permette, però, di trarre conclusioni definitive,
se non per la preferenza dei pazienti, la quale va
all’insulina per inalazione; si osservi, però, che la
maggior parte dei pazienti utilizzava aghi e siringhe e non le penne.
Non sono stati individuati problemi di safety, sebbene non sia ancora possibile valutare gli effetti
di lungo periodo dell’inalazione a livello polmonare. È stata valutata anche la costo-efficacia della
tecnologia, ma le assunzioni dei modelli sembrano
condizionare fortemente i risultati, probabilmente
sovrastimando i benefici, in particolare quelli sulla
qualità della vita; va considerato, inoltre, che la
153
Ministero della Salute
quantità di insulina da somministrare per inalazione è molto maggiore di quella iniettata, comportando costi aggiuntivi (dati UK) dell’ordine
di £ 600-1000/anno per paziente: non si propende, quindi, per un’inclusione della tecnologia
nell’ambito delle opportunità terapeutiche rimborsate dai sistemi sanitari pubblici.
Un’ulteriore questione che ha ricevuto ampia attenzione è quella dell’autocontrollo (selfmonitoring,
SMBG) dei livelli di glucosio nel sangue o nelle
urine. Già nel 2000, per pazienti con DT2 è stata
valutata una carenza di evidenze sull’efficacia della
tecnica nel migliorare il controllo del glucosio nel
sangue, come anche altri outcome clinici e non,
portando alla conclusione che sia piuttosto da
estendere l’uso dell’HbA 1c.
Ad analoghe conclusioni giunge il NETSCC (NIHR
Evaluation, Trials and Studies Coordinating Centre)
[2009], aggiungendo che il SMBG risulta significativamente più costoso delle forme assistenziali
standard e con un profilo iniziale negativo in termini
d’impatto sulla qualità della vita (Health-Related
Quality of Life, HQoL), oltre che con qualche evidenza di aumento dei casi di ipoglicemia nei pazienti
che lo adottano: è pertanto dubbio che la tecnica
possa risultare costo-efficace utilizzando approcci
del tipo costo-utilità. Di contro, è ritenuto appropriato analizzare l’approccio per i fattori di motivazione che comporta e nei casi ove è probabile che
possa essere richiesto un trattamento insulinico.
Sempre il NETSCC (2009) ha valutato l’efficacia
clinica, l’accettabilità e l’impatto economico, a
lungo e medio termine, di due miniapparati per
il controllo continuo della glicemia, in pazienti
in cattivo controllo metabolico.
Non sono state trovate differenze significative nella
capacità di controllo (misurato in termini di HbA1c),
sebbene con l’utilizzo del device GlucoWatch® si
siano registrate una minore modifica nell’HbA1c e
una minore percentuale di pazienti giunti a target.
154
Anche l’analisi economica non ha evidenziato vantaggi nell’uso dei device. A livello di accettabilità da
parte dei pazienti si evidenzia come, complessivamente, il device GlucoWatch® sia stato utilizzato
meno (20% vs 57% nei 18 mesi considerati), con
maggiori effetti collaterali, ed è stato altresì percepito
come di più complesso utilizzo rispetto ai sistemi
di monitoraggio continuo del glucosio standard.
Il NETSSC (2009) ha analizzato un RCT (Randomized Controlled Trial) dove due gruppi hanno
utilizzato un device per il monitoraggio continuo,
minimamente invasivo, del glucosio: rispettivamente, il GlucoWatch® Biographer e il MiniMed®
Continuous Glucose Monitoring System.
Questi due gruppi sono stati comparati con un
gruppo di controllo che ha, invece, ricevuto il
trattamento standard (assistenza infermieristica
con la stessa frequenza dei pazienti con device).
Per entrambi i gruppi, a 18 mesi, si è registrato
un declino nei livelli dell’HbA1c, ma in proporzione (variazione relativa) minore che nel gruppo
di controllo. Inoltre, non è stata riportata una significativa modifica dei trattamenti da parte degli
infermieri a seguito delle informazioni aggiuntive
fornite dai device.
Quindi, la valutazione economica registra minori
costi e maggiori benefici nel ramo di controllo,
ovvero nei pazienti che hanno ricevuto assistenza
tradizionale. Si conferma, altresì, l’inferiorità del
device GlucoWatch® per le ragioni sopra esposte.
Un ultimo report di interesse riguarda la sicurezza
e l’efficacia del trapianto di isole pancreatiche
(ITA), verso la terapia insulinica intensiva o il trapianto di pancreas, in pazienti con DT1 non uremici, con ipoglicemia grave.
Nessuno studio ha registrato decessi da mettere
in relazione con l’ITA, ma il 25% dei pazienti ha
registrato sanguinamenti intraperitoneali e il 17%
trombosi portale; inoltre, la maggior parte dei pazienti ha registrato alti livelli di transaminasi, che
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
sono tornati normali entro un mese; quasi il 50%
dei pazienti ha registrato un declino nella funzionalità renale, correlato all’immunosoppressione.
Si evidenzia che trapiantando un’adeguata massa
d’isole pancreatiche (da due o tre donatori di pancreas), si re-instaura l’indipendenza insulinica a breve
termine (≤ 1 anno), ottenendo un adeguato controllo glicemico nel 30-69% dei pazienti; tuttavia,
la funzione betacellulare si deteriora con il tempo e
solo il 14% dei pazienti risulta ancora insulinoindipendente a 2 anni (meno del 10% a 5 anni).
L’ITA, quindi, può essere considerato relativamente sicuro ed efficace per il gruppo ristretto
dei pazienti con DT1 non uremici con ipoglicemia severa e non controllata, in quanto i benefici
di stabilizzazione della glicemia e o indipendenza
compensano i rischi potenziali del trapianto.
È peraltro prematuro considerare la tecnica una
terapia “standard”, in quanto incontra difficoltà
rilevanti connesse alla disponibilità di isole umane
e alla necessità di terapia cronica immunosoppressiva. Affinché possa essere considerata un’opzione
di trattamento a lungo termine (> 1 anno), è necessaria ulteriore ricerca per identificare le cause
della perdita di funzione delle cellule trapiantate,
per trovare il modo di conservare la massa betacellulare nel tempo, ridurre le isole necessarie per
far regredire il diabete e, infine, per diminuire la
tossicità delle terapie immunosoppressive.
Studi a più lungo termine (> 5 anni) sono quindi
necessari per testare la durabilità nel tempo degli
effetti e l’eventuale insorgenza di complicanze secondarie, come anche per raccogliere informazioni
adeguate sulla HQoL.
Indicazioni normative e procedurali
nell’impiego delle tecnologie
L’automonitoraggio glicemico domiciliare è parte
integrante della terapia del diabete mellito con
13
modalità differenti in relazione alle caratteristiche
cliniche della malattia ed è soggetto a una prescrizione medica e regolato dalla normativa esistente. Le norme sanciscono il diritto alla scelta
condivisa dei presidi tra paziente e medico.
L’innovazione tecnologica aumenta e diversifica caratteristiche e funzioni degli strumenti e richiede
un’attenta valutazione dell’appropriatezza e utilità.
Gli Standard di Cura Italiani per il Diabete (edizione
2010) sono il riferimento attuale per questo aspetto
di cura del diabete. Molte considerazioni contenute
in questo nota tecnica derivano dal Documento
Tecnico AMD-SID-OSDI Lombardo (aprile 2010).
Gli aspetti da prendere in considerazioni sono:
• accuratezza e precisione;
• caratteristiche basilari degli strumenti;
• funzioni avanzate.
Accuratezza e precisione
Questo aspetto di notevole importanza è valutato
con criteri differenti e più o meno restrittivi; si
deve anche considerare che le valutazioni di accuratezza dovrebbero essere fatte anche nell’utilizzo diretto dei pazienti.
Le indicazioni fornite dall’Organizzazione Internazionale per la Standardizzazioni (ISO) e contenute nell’ISO 15195 suggeriscono che per valori
inferiori a 75 mg/dl lo scostamento non sia superiore a 15 mg/dl rispetto al metodo enzimatico
su plasma dello stesso campione; per valori uguali
o superiori a 75 mg/dl lo scostamento non deve
superare il 20%. Questi limiti possono essere superati solo nel 5% dei campioni esaminati.
Come proposto nel documento tecnico AMDSID-OSDI:
“Lo scostamento medio (bias) delle misure effettuate dal glucometro, valutato su almeno 60 campioni di sangue con valori diversi di glicemia nell’intervallo tra 50 e 400 mg/dl, rispetto alle misure
155
Ministero della Salute
effettuate con metodo enzimatico in laboratorio
sui plasmi degli stessi campioni, deve essere contenuto entro il 2,2% del valore assoluto di glicemia
media (es. deve essere inferiore a 2,2 mg/dl per
un campione con glicemia media di 100 mg/dl).
Specificità: assenza di interferenza da parte dell’ematocrito (per lo meno nel range dal 30% al
60%); interferenza minima da parte di bilirubina,
lattato, beta-idrossibutirrato, acido urico, galattosio-xilosio-maltosio-icodextrina, acetaminofene
e acido ascorbico. Replicabilità: l’imprecisione del
metodo, valutata su almeno 20 replicati dello
stesso campione, deve essere inferiore al 2,9%
(espressa in termini di coefficiente di variazione)
per almeno tre livelli diversi di glicemia (tipicamente attorno a 60, 250 e 400 mg/dl)”.
Caratteristiche degli strumenti
I seguenti punti possono servire per disegnare una
griglia di valutazione dei singoli strumenti, non
sono vincolanti, ma descrivono le qualità degli
stessi, l’idoneità per l’utilizzo in tipologie diverse
di pazienti (diabete del bambino, dell’anziano) e
l’idoneità all’uso in situazioni e ambienti particolari (temperatura, ospedale, attività sportiva):
• dimensioni dello strumento;
• principio di misurazione: elettrochimico/colorimetrico;
• tipo di enzima e interferenze;
• plasma calibrazione (sì/no);
• influenza dell’ematocrito (variabile da strumento a strumento; correzione automatica);
• intervallo di lavoro (da 50 a 500 mg/dl);
• range di temperatura (variabile) e possibilità
di blocco temperatura;
• conservazione delle strisce (variabili range di
temperatura);
• durata del test (da 3 a 30 s);
• volume del campione (da 0,3 a 2 ml);
156
• durata delle batterie;
• calibrazione (automatico/assente/chip code);
• inserzione ed esplusione della striscia (manuale/con pulsante/automatica);
• display: leggibilità (tipo di display, caratteri,
retroilluminazione);
• caratteritistiche del pungidito associato e smaltimento dello stesso;
• possibile determinazione della chetonemia.
Funzioni avanzate
Valutare l’autocontrollo nel tempo da parte sia del
medico sia del paziente (in particolare DT1 in terapia insulinica intensiva) richiede che le informazioni siano recuperabili con semplicità dalla memoria e analizzabili sullo strumento o meglio dopo
download in diversi formati analitici (grafici, indici
di variabilità glicemica: media DS, altri indici).
La memoria base dei dati (valore, data, ora) è indispensabile; caratteristiche più avanzate sono da
considerarsi importanti in relazione all’intensità
della terapia e al grado di autogestione richiesto
al paziente.
Si ritiene che l’autocontrollo quotidiano (almeno
3-4 controlli/die) sia fondamentala per la persona
affetta da DT1 in terapia insulinica intensiva.
L’autocontrollo glicemico continuativo, con frequenza e modalità differenti secondo il trattamento insulinico effettuato, è utile per la persona
con DT2 insulino-trattato. L’autocontrollo glicemico non continuativo è potenzialmente utile per
la persona con DT2 in terapia orale o dietetica,
ma in questo caso non sono disponibili chiare
evidenze di efficacia sul controllo glicemico.
La memoria e la trasmissione dei dati devono prevedere:
• il numero di dati memorizzabili;
• la possibilità di marcare il dato glicemico in
relazione al pasto o ad altri eventi;
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
• la possibilità di scarico dei dati e formato degli
stessi per l’utilizzo in cartelle cliniche informatizzate;
• la disponibilità di software per la rappresentazione grafica e l’analisi degli indici glicemici
di variabilità;
• la possibilità di comunicare dati a infusori di
insulina;
• la possibilità di inviare dati con sistemi di telecomunicazione.
Aspetti tecnici
Il fattore chiave per una determinazione accurata
della concentrazione della glicemia è convertire
la concentrazione del glucosio in uno specifico
segnale che possa essere misurato con precisione.
A questo scopo, a oggi le tecniche di misurazione
sono colorimetriche (reflettometro) o elettrochimiche (potenziometro).
La tecnologia reflettometrica utilizza un metodo
indiretto. Per mezzo di un enzima (la glucosioossidasi) e in presenza dell’ossigeno dell’aria, il
glucosio contenuto nel campione è ossidato a perossido di idrogeno. Questo, in presenza di altro
enzima, una perossidasi, ossida un indicatore cromogeno che cambia il colore della striscia. Un rapido fascio di luce, emesso dallo strumento, sarà
in parte assorbito dal colore del composto formatosi nella reazione e in parte rifratto. Lo strumento
misura la luce rifratta che è inversamente proporzionale al contenuto di glucosio presente nel campione. L’accuratezza di questo approccio è ampiamente determinata dal design della striscia reattiva. Questo approccio è caratterizzato dalla necessità di calibrazione del sistema e dalla necessità
di porre la goccia di sangue con buona precisione
in corrispondenza del reagente ottico. Altresì è
importante garantire un’accurata pulizia della finestra ottica dello strumento per la possibilità di
13
una lettura alterata per l’accumulo di residui di
sangue sulla finestra ottica.
Con la tecnologia potenziometrica, ugualmente un
enzima catalizza l’ossidazione del glucosio. Ciò
comporta l’acquisto di elettroni da parte dell’enzima. Un “mediatore” chimico, riducendosi, ossida
nuovamente l’enzima; il “mediatore” ridotto ossidato nuovamente cede gli elettroni a un elettrodo.
La corrente elettrica generata è direttamente proporzionale alla concentrazione di glucosio. Il sistema
è caratterizzato da alcuni vantaggi rispetto al metodo colorimetrico: aspirazione automatica del campione (maggiore standardizzazione del campione);
maggiore praticità e comodità per la realizzazione
del test; tempi di risposta minori; minore volume
di campione di sangue richiesto (anche siti alternativi); maggiore igienicità e sicurezza del sistema
con maggiore possibilità di impiego in ambienti
dove il sistema è utilizzato da più pazienti.
Accuratezza
La tecnologia ha consentito enormi passi in avanti
nel campo dell’autocontrollo glicemico. Le dimensioni degli strumenti sono diventate via via
sempre più contenute, le forme degli strumenti
sempre più ammiccanti per i pazienti e il download dei dati sempre più semplice e immediato.
Nonostante gli elementi sopramenzionati abbiano
importanza, soprattutto nell’accettabilità del device da parte del paziente, per il diabetologo e per
la persona con diabete l’aspetto più importante
rimane l’accuratezza dell’informazione ottenuta
sulla concentrazione glicemica.
Le norme definite dalle FDA nel 1987 prevedevano un errore complessivo nelle letture < 10%,
successivamente rivisto e portato al 5%. A oggi
nessuno strumento pare avere ottenuto tali performance, mentre tutti i glucometri attualmente
sul mercato ampiamente soddisfano i criteri di ac-
157
Ministero della Salute
curatezza e ripetibilità secondo le norme ISO (UNI
EN ISO 15197). Tali norme prevedono come criteri minimi di accettabilità che il 95% dei risultati
ottenuti con il glucometro cadano entro un intervallo di 15 mg/dl per glicemie < 75 mg/dl ed entro
i 20 mg/dl per glicemie ≥ 75 mg /dl.
Di questi giorni è la segnalazione della volontà
della FDA di creare norme più stringenti, perché
se è vero che il 95% dei test deve essere nei range
sopradescritti, non pare invece definito quali siano
i margini di errore definito per il 5% dei risultati
non veri. Inoltre, visto l’importante numero di
pazienti esposto al SMBG, il 5% potrebbe essere
rappresentativo di un numero importante di soggetti. Soprattutto per alcune popolazioni, si pensi
alle donne trattate con insulina per diabete gravidico e i pazienti ricoverati in terapia intensiva, un
errore causato da un’errata lettura potrebbe diventare causa di eventi avversi seri. Da ciò la necessità
di identificare metodi più adeguati per la definizione dell’accuratezza, quali la griglia degli errori
di Clarke, che ci permette di vedere raffigurati i
dati appaiati in un grafico a griglia. In tale griglia
i dati che cadono nella zona A o B si definiscono
accurati, i risultati nelle zone C non accurati ma
non pericolosi, i dati che cadono nelle zone D ed
E sono invece quelli che clinicamente potrebbero
essere causa di eventi avversi seri. In particolare, si
potrebbero poi definire score qualitativi che indichino la percentuale di dati presenti nelle diverse
aree della griglia e identificare gli score più appropriati per strumenti da affidare ad alcune tipologie
di pazienti.
Possibili interferenze sulla qualità del dato
I glucometri oggi in uso ai pazienti soddisfano
tutti i criteri ISO. Nonostante ciò, studi clinici
documentano come, nel mondo reale, quando
questi strumenti arrivano nelle mani dei pazienti
158
l’errore spesso superi il 20%. Molti elementi contribuiscono a tale amplificazione dell’errore insito
nella tecnologia: la conservazione delle strisce, che
se esposte all’umidità compromettono l’accuratezza del test, la manualità dell’operatore (pulizia
delle mani, dimensione della goccia, punto dove
si applica la goccia, depositi di sangue sullo strumento ecc.) e infine il coding.
L’accuratezza dell’autocontrollo può essere, quindi,
ampiamente influenzata da errori di procedura
del paziente. Fra gli errori operatore-dipendenti
più rilevanti, la mancata o errata calibrazione è
senza dubbio il più comune. Più segnalazioni sono
disponibili in letteratura che dimostrano come
l’errata calibrazione porti a letture glicemiche inaccurate fino a influenzare l’azione clinica.
I sistemi per l’automonitoraggio glicemico si distinguono, inoltre, per l’enzima utilizzato. È importante precisare come i due approcci, gluco-ossidasi (GOD) o glucosio deidrogenasi (GDH),
possano garantire entrambi buona accuratezza.
I vantaggi della GOD sono l’alta specificità e stabilità e il minore costo, lo svantaggio più consistente è rappresentato dalle limitazioni nella misura
dovute alla concentrazione di ossigeno. I vantaggi
dell’impiego della GDH sono rappresentati dall’assenza di alcuna limitazione dovuta alla concentrazione di ossigeno e alla possibilità di ottenere
un tempo di lettura più basso. Gli svantaggi della
GDH sono principalmente rappresentati dalla minore specificità e dalla possibilità, quindi, di interferenze (maltosio, galattosio e xilosio). Nei sistemi che utilizzano la GDH, l’utilizzo come coenzima del flavin adenina dinucleotide-glucosio
deidrogenasi (FAD-GDH) permette di minimizzare le possibili interferenze con maltosio e galattosio; permangono invece le possibili interferenze
con lo xilosio. Quando si parla di possibili interferenze occorre distinguere le interferenze biologiche da quelle elettrochimiche. Le prime sono
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
dovute alla non elevata selettività dell’enzima verso
il glucosio, che può ossidare anche altri substrati,
determinando in genere una sovrastima del dato.
Le interferenze elettrochimiche sono, invece, dovute a sostanze elettroattive presenti nel sangue,
sia endogene (acido ascorbico, bilirubina, glutatione, cisteina, acido urico), sia esogene (farmaci).
Anche in questo caso il risultato corrisponderà a
una possibile sovrastima della lettura glicemica.
Gli errori di sottostima si possono verificare nei
sistemi basati sulla GOD generalmente in altitudine o stati di ipossiemia. Nell’Appendice 3 si riportano alcune fra le più importanti interferenze
secondo il tipo di enzima o co-enzima utilizzato
nei differenti sistemi.
Vale la pena accennare al possibile ruolo dell’ematocrito (Hct). La concentrazione dell’Hct fa variare
l’area disponibile della superficie di lavoro dell’elettrodo. In pratica, elevate concentrazioni di
Hct determinano una sottostima del risultato,
mentre, viceversa, basse concentrazioni di Hct determinano una sovrastima. Oggi sono disponibili
sistemi in grado di correggere automaticamente il
dato glicemico per la concentrazione di Hct; ciò
ovviamente consente una maggiore affidabilità
della lettura, soprattutto nei pazienti ove l’Hct
può fluttuare o ove lo strumento è utilizzato da
più pazienti.
Raccomandazioni per i clinici
Data la centralità del SMBG, nel guidare la terapia
i clinici dovrebbero essere focalizzati sul controllo
della qualità del dato:
• verificando che i pazienti utilizzino periodicamente la soluzione di controllo per il controllo
della qualità del dato;
• verificando la regolare codifica dello strumento
da parte dei pazienti e prediligere, nei più anziani o nei non affidabili, device no coding;
13
• ricordando ai pazienti di pulire adeguatamente
lo strumento periodicamente;
• riverificando, ogni 6 mesi, la manualità del
paziente e le procedure da questo adottate durante la misurazione;
• verificando periodicamente l’ematocrito del
paziente per escludere possibili interferenze, o
nei pazienti a rischio, identificando device in
grado di correggere tale aspetto;
• allertando i pazienti che alle basse temperature
o in altitudine vi possono essere false iper o
ipo;
• verificando la lista dei farmaci in uso al paziente
per escludere la presenza di sostanze in grado
di interferire sulla qualità del dato del SMBG.
Definizione dei setting tecnologici
dei vari nodi
La terapia insulinica sottocutanea
continuativa tramite microinfusore
La CSII è una proposta terapeutica che sempre
più frequentemente è oggi presentata alle persone
con DT1. Purtroppo, mancano dati controllati
recenti, relativamente al nostro Paese, ma se si
considerano i risultati dell’ultima survey nazionale
sull’argomento, pubblicata nel 2006, si ottiene
un dato pari a circa 3000 pazienti trattati con il
microinfusore nel periodo dell’osservazione. Questi dati evidenziavano delle “rate” di crescita nel
numero di soggetti in trattamento con CSII impressionante rispetto all’inizio degli anni 2000.
I “pump users” fra il 1999 e il 2005 risultavano,
infatti, aumentati del 468%. Questo incremento
non pare essersi esaurito, in base ai dati pubblicati
in un recentissimo editoriale sulla prescrizione
della “pump therapy” in Europa, basato su dati
di vendita resi disponibili dalle aziende impegnate
nella commercializzazione dei device; oggi, in Ita-
159
Ministero della Salute
lia, risulta in trattamento con microinfusore il
12% della popolazione con DT1.
Il microinfusore è una micropompa di peso non
superiore ai 100 g, che porta insulina al paziente
attraverso un catetere di lunghezza variabile
(60-100 cm), che termina con un ago cannula di
teflon inserito nel sottocute, generalmente in regione addominale. Questo device è un sistema ad
ansa aperta, che infonde analoghi ad azione rapida
dell’insulina con due modalità contemporanee,
una continua, infusione basale, e una intermittente, bolo pre-prandiale. Fra le possibili terapie
del DT1, la CSII è, grazie a queste caratteristiche,
quella che meglio permette di separare e personalizzare queste due componenti.
Tutte le pompe oggi disponibili possono, infatti,
modulare l’insulinizzazione basale giornaliera abbinandola al meglio con il fabbisogno insulinico
dei pazienti nelle differenti fasi giornaliere. I boli
insulinici pre-prandiali, inoltre, possono essere di
diverso tipo in funzione della velocità con la quale
questi sono infusi: boli standard (tutto l’ammontare
d’insulina in una breve frazione di tempo), bolo a
onda quadra (bolo “spalmato” in un periodo di
tempo prolungato), o bolo a onda doppia (infusione insulinica pre-prandiale dove i due tipi di
bolo precedentemente descritti si combinano).
Fra le cause che hanno favorito la diffusione di
questa opzione terapeutica non si può dimenticare, inoltre, l’evoluzione tecnica e la grande affidabilità delle micropompe oggi disponibili per la
CSII. Contestualmente importante è stata l’evoluzione nei set d’infusione. Oggi sono scomparsi
gli aghi metallici, sostituiti da aghi morbidi in teflon inclinati a 90 o 45 gradi. Gli aghi disponibili
sono di dimensioni variabili, riuscendo quindi a
soddisfare anche le esigenze dei pazienti pediatrici,
o con scarso tessuto adiposo sottocutaneo. In tale
senso è doveroso, infine, menzionare l’imminente
arrivo sul mercato di microinfusori di dimensioni
160
ulteriormente ridimensionate. Questi device sono
definiti pompe cerotto, perché ospitate su un cerotto di pochi centimetri (3 x 4 cm), attraverso il
quale la micropompa aderirà alla cute, e sono caratterizzati dall’assoluta mancanza di cateteri. L’intero sistema – motore, serbatoio per insulina e
ago – è ospitato all’interno di questo minuscolo
device, scomparendo così alla vista e regalando al
paziente i vantaggi della CSII e l’indipendenza
da tubi e/o cateteri.
I criteri di eleggibilità e, quindi, di elezione dei
pazienti alla terapia con CSII dovrebbero emergere,
per quanto detto sopra, dall’attenta valutazione
della letteratura disponibile, in termini di RCT,
nel confronto fra CSII e la best option fra le terapie
insuliniche multidose nel DT1, ovvero la MDI
con glargine e analoghi rapidi dell’insulina.
In tale senso, nel luglio 2008 il National Institute
for Health and Clinical Excellence (NICE) ha pubblicato una Technology Assesment sulla terapia con
microinfusore. Il gruppo di autori del NICE ha
potuto valutare solo 4 RCT. Di questi uno evidenziava una significativa differenza fra la CSII e
la MDI, mentre nei 3 rimanenti l’evidenza di una
superiorità della terapia con microinfusore appariva molto scarna. Quando però l’osservazione si
allargava ai 48 studi osservazionali disponibili
sull’argomento, emergeva come nella maggior
parte di questi alla fine del periodo di osservazione
l’HbA1c apparisse significativamente inferiore nel
gruppo trattato con CSII. A supporto di tale evidenza gli autori sottolineavano come il ricorso a
studi osservazionali potesse comportare un rischio
d’errore superiore rispetto agli RCT, ma come
d’altra parte questi studi fossero di maggiore durata, considerassero un numero maggiore di soggetti, che peraltro risultavano avere maggiori probabilità di essere rappresentativi delle persone che
nella pratica clinica quotidiana sono selezionate
per l’avvio alla terapia con microinfusore.
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
Come la selezione del paziente sia un elemento
critico per il successo della terapia è stato confermato da un trial multicentrico internazionale,
pubblicato alla fine del 2009, che confrontava
l’effetto di un trattamento MDI (lispro + glargine)
vs CSII in un gruppo di 43 soggettivi naïve sia
alla terapia con microinfusore, sia alla terapia con
analoghi rapidi e lenti dell’insulina. Le conclusioni
degli autori sottolineavano come in un gruppo
“non selezionato” di soggetti con DT1 la CSII
non presentasse vantaggi in termini di miglioramento del compenso glicemico, anzi come questa
apparisse più costosa rispetto al trattamento insulinico multidose.
Peraltro, come osservato in una revisione pubblicata all’inizio del 2009, negli studi di confronto
diretto fra MDI con analoghi lenti e rapidi dell’insulina e trattamento con microinfusore, quando
sia presente una differenza significativa in termini
di miglioramento del controllo glicemico, questa
sia sempre a favore della CSII, mentre negli altri
casi le due terapie sono risultate sovrapponibili (in
altre parole non è mai stato riscontrato un vantaggio terapeutico, nella riduzione dell’HbA1c, a favore
della MDI). Inoltre, la categoria di pazienti nei
quali i dubbi sulla superiorità della CSII paiono
sparire è quella dei pazienti in modesto controllo
glicemico. In tali pazienti, infatti, la CSII, anche
se confrontata con la migliore MDI possibile, risulta sempre significativamente più efficace nella
riduzione dell’HbA1c.
L’ipoglicemia è stata per lungo tempo ritenuta
una delle indicazioni elettive all’uso della CSII.
Da questo punto di vista, in alcune osservazioni
il rischio di ipoglicemia e la variabilità glicemica
appaiono non dissimili nei due trattamenti, mentre in altri studi risulta evidente un effetto favorevole del trattamento insulinico con micropompa.
Infine, per quanto riguarda la qualità della vita,
lo studio caso-controllo italiano “Equality One”,
13
il più ampio studio realizzato finora sull’argomento, ha dimostrato che, nonostante il gruppo
trattato con CSII fosse caratterizzato da una maggiore durata del diabete e da una più alta frequenza
di complicanze microangiopatiche, la qualità della
vita e la soddisfazione sul trattamento insulinico
erano significativamente superiori nei pazienti
trattati con microinfusore.
A fronte di quanto finora scritto, è doveroso ricordare che il costo delle due alternative terapeutiche è considerevolmente differente non solo in
termini di device e materiali di consumo, ma anche in termini di impianto organizzativo dei necessari percorsi assistenziali dedicati. Se si confrontano i costi “grezzi” delle due terapie, la CSII
ha un impatto economico annuo 4 volte superiore
alla MDI con glargine + analoghi rapidi.
La revisione più volte citata realizzata dal NICE
sull’“Insulin Pump Therapy” ha considerato, inoltre,
anche la costo-efficacia di tale approccio terapeutico. Considerando un valore di HbA1c al basale,
rispettivamente, di 9,4% o 8,11%, il costo incrementale per il sistema sanitario inglese appariva
essere rispettivamente di £ 16.442 o £ 34.300 per
QALY (Quality Adjusted Life Years).
Alla luce di quanto detto, pare appropriata come
indicazione alla prescrizione della terapia con microinfusore quanto identificato dall’Associazione
Medici Diabetologi (AMD) e dalla Società Italiana
di Diabetologia (SID) negli “Standard Italiani per
la Cura del Diabete Mellito”.
In tale documento la raccomandazione all’uso
della CSII nelle persone con DT1 è stata così descritta: “In soggetti selezionati che, nonostante
un regime basal-bolus ottimale, presentino scarso
controllo glicemico e/o ipoglicemie ricorrenti,
può essere considerata l’indicazione all’uso del
microinfusore da parte di un team esperto nel
suo utilizzo (Livello della Prova II, Forza della Raccomandazione B)”.
161
Ministero della Salute
Non sono al momento disponibili evidenze per
altre indicazioni cliniche alla prescrizione della
CSII, quali il DT2 e la gravidanza. In quest’ultimo
caso, l’uso del microinfusore pare giustificato solo
ove una MDI con analoghi rapidi e lenti dell’insulina abbia fallito al raggiungimento degli obiettivi glicemici. In questa delicata situazione pare
importante sottolineare come l’eventuale inizio
della terapia insulinica con micropompa dovrebbe
avvenire nella fase della programmazione della
gravidanza e come, se tale terapia dovesse essere
iniziata nella gravidanza già in corso, questa debba
essere avviata solo in servizi di diabetologia ad altissima esperienza in tale ambito.
Accuratezza e vantaggi clinici nell’utilizzo
dei sistemi dei microinfusori
Al momento non esistono norme ISO specifiche
che identificano il profilo di accuratezza delle
pompe per infusione sottocutanea continua di insulina. In termini di sicurezza e affidabilità si fa
riferimento al documento ISO 14971, che definisce le situazioni di rischio alle quali gli utilizzatori di dispositivi medicali sono esposti.
Il database della FDA (Manufacturer and User Facility Device Experience) segnala oltre 5000 incidenti nel 2008. Gli incidenti riportati sembrano
prevalentemente attribuibili a errori dell’operatore
o del paziente, che si ricorda ha in carico la gestione del device 24 ore al giorno per 7 giorni la
settimana, mentre più rari sembrano gli eventi
avversi causati da sovrainfusione o sottoinfusione.
In tale senso il centro della FDA per i device e il
rischio radiologico sta indagando la fattibilità di
un modello ingegneristico di riferimento per i
software che gestiscono i dispositivi medicali. La
pompa insulinica è stata selezionata come primo
ambito di ricerca, in quanto presenta un grado di
complessità adeguato nella sua modellistica e rap-
162
presenta, inoltre, una sfida regolatoria per il prossimo futuro.
Lo sforzo è quello di identificare i possibili elementi di rischio correlati a tale approccio terapeutico e quindi definire dei set minimi qualitativi
che non interessino esclusivamente il software e
la componentistica meccanica/elettronica, ma anche l’interfaccia con l’utilizzatore per offrire al paziente la possibilità di avere indicazioni chiare e
un sostegno decisionale per la definizione dell’adeguata dose di insulina da iniettare. Occorre
comunque ancora sottolineare l’importanza dell’esperienza del centro che offre al paziente l’educazione terapeutica prima dell’inizio della terapia
con microinfusore. Tale programma educazionale
ha il significato non solo di trasferire al paziente
tutte le competenze tecniche per la gestione del
device, ma soprattutto quella dell’abilità nel prevenire, identificare e adeguatamente trattare tutte
le possibili situazioni di emergenza.
Infine, è utile ricordare che tutti i microinfusori
sono dotati di allarmi per la segnalazione di eventuali occlusioni nel set di infusione e di allarmi
per la segnalazione dell’imminente termine della
riserva insulinica. Le caratteristiche tecniche degli
infusori in uso sono descritte nell’Appendice 4.
Il monitoraggio continuo
della glicemia real-time
Il monitoraggio continuo della glicemia (continuous glucose monitoring, CGM) è oggi possibile
attraverso metodiche mini-invasive, ovvero attraverso la misurazione diretta e continua della concentrazione del glucosio presente nei liquidi interstiziali, più specificatamente nei liquidi che bagnano il tessuto adiposo sottocutaneo.
Tale approccio, possibile grazie alla disponibilità
di sensori del glucosio a forma di ago, consente il
monitoraggio continuo del glucosio partendo dal
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
presupposto che la concentrazione del glucosio
nei liquidi interstiziali è sovrapponibile a quella
nel versante ematico.
Tali device sono inoltre in grado di fornire dati
immediati sulla velocità e sulla direzione di spostamento della glicemia. Sulla base dell’osservazione dei “trend”, infine, questi sistemi consentono di prevedere gli spostamenti delle glicemie
nei minuti a venire e possono anche allertare il
paziente in caso di superamento della soglia dell’ipo- o dell’iperglicemia, rendendo così possibile
un atteggiamento pro-attivo del paziente stesso
che può, sulla base delle escursioni glicemiche,
immediatamente aggiustare la terapia insulinica,
o la dieta.
L’impatto del monitoraggio continuo “real-time”
della glicemia sul controllo metabolico, misurato
in termini di miglioramento dell’HbA1c, è ben
documentato nelle persone con DT1 adulte, ma
non negli adolescenti e nei bambini. In questo
senso si esprimono anche gli standard assistenziali
AMD/SID e l’American Diabetes Association (ADA).
Il monitoraggio continuo della glicemia, come accennato in precedenza, è possibile grazie alla misurazione in continuo della concentrazione del
glucosio nei liquidi interstiziali. Tale concentrazione è in stretta relazione con la glicemia, ma affinché avvenga l’equilibrio fra la concentrazione
del glucosio nei due compartimenti decorre un
tempo, detto lag time, che oscilla fra i 7 e i 20 minuti. Ciò fa sì che, se si confrontano i dati rilevati
nello stesso momento con il CGM o con il SMBG,
le informazioni ottenute possano essere differenti.
Dati pubblicati sull’accuratezza dei sistemi CGM
derivano dal confronto dei dati appaiati CGM e
SMBG ricavati dagli RCT di confronto fra i due
approcci fino a oggi disponibili. Valutando oltre
60.000 dati appaiati ottenuti dallo studio STAR1
si ricava come le % dei risultati ottenuti dai sensori
che risultano compresi nel 20% o nel 30% di con-
13
cordanza con i dati del SMBG siano, rispettivamente, del 75,6% e dell’86,8%. La media assoluta
della differenza relativa risulta essere del 15,8% e
il “bias” pari a –2,13 mg/dl. Il medesimo studio
ha evidenziato come il 95,6% dei dati risultasse
nella zona A + B della griglia degli errori di Clarke.
Ovviamente queste performance del CGM non
paiono ancora adeguate per l’utilizzo di tali device
per la chiusura dell’ansa, ma l’utilizzo più immediato ai quali questi sistemi sono chiamati è profondamente differente. Questo è, infatti, quello di
informare continuativamente i pazienti sulle oscillazioni glicemiche. In tale senso ciò che è importante sottolineare è come i dati ottenuti dal CGM
non debbano e non siano utilizzati come puntiformi, ovvero come si utilizza il dato ricavato dal
SMBG, ma vengano, invece, interpretati integrandoli con le informazioni relative alla direzione e
alla velocità di spostamento della glicemia. Ciò
rende così possibile una previsione sulle future
escursioni glicemiche e un intervento finalizzato
alla prevenzione delle ipo- o delle severe iperglicemie. È inoltre doveroso ricordare come i pazienti,
tutte le volte che devono iniettare una dose di insulina sotto forma di bolo pre-prandiale o di correzione di eventuale iperglicemia, siano invitati a
controllare la glicemia con i tradizionali glucometri.
Ciò spiega perché gli episodi di ipoglicemia severa
siano sempre risultati significativamente diminuiti
negli RCT fino a oggi disponibili e perché nessun
incidente da erroneo sovradosaggio del bolo insulinico sia stato riportato negli utilizzatori del CGM.
L’implementazione nella pratica clinica dei sistemi
real-time per il monitoraggio continuo della glicemia determinerebbe un costo grezzo per paziente
trattato nell’anno non molto dissimile da quello
necessario per l’adozione della CSII. Tale spesa
corrisponde a un costo addizionale annuo pari a
circa $ 4380 contro i $ 550-2740 in funzione
della frequenza del solo automonitoraggio glice-
163
Ministero della Salute
mico domiciliare. Un solo studio sulla costo-efficacia è stato recentemente pubblicato. Tale valutazione, condotta negli Stati Uniti, ha documentato come nei primi sei mesi l’adozione di tale approccio non sia costo-efficace, ma come, se si proiettasse la medesima valutazione in un periodo
prolungato, life-time, la costo-efficacia di tale intervento risulti adeguata, $ 100.000/QALY.
Quale modalità organizzativa assistenziale
per l’equità di accesso alle nuove tecnologie?
La survey sull’uso della CSII in Italia pubblicata
nel 2006 aveva evidenziato come i microinfusori
fossero prescritti in solo 165 servizi di diabetologia
sul territorio nazionale, ovvero come solo il 26%
dei servizi censiti dall’AMD sul territorio nazionale nel 2003 offra ai propri pazienti questa possibilità terapeutica. La situazione non è molto differente per quanto concerne l’uso del CGM. L’introduzione di una nuova tecnologia potrebbe rappresentare l’occasione ideale per definire e testare
una modalità organizzativa che consenta equità
di accesso alla tecnologia stessa, valorizzando al
tempo stesso le competenze e l’esperienza dei centri più specializzati e ad alto livello di organizzazione. Tale modello (modello Hub & Spoke) è
già stato utilizzato in altre realtà assistenziali e
prevede l’esistenza di centri specializzati nell’educazione all’uso della nuova tecnologia (Hub), cui
fa riferimento una rete di centri periferici (Spoke)
non dotati delle necessarie competenze o modalità
organizzative atte a gestire direttamente tutti gli
aspetti legati all’introduzione della tecnologia.
Dopo l’avvenuta condivisione, fra tutti i clinici
che operano nel network, delle indicazioni cliniche
per la prescrizione appropriata delle tecnologie
alla diagnosi e terapia del DT1, i pazienti candidati all’uso della tecnologia, identificati presso gli
Spoke, sono inviati all’Hub dove ricevono la for-
164
mazione e il training necessari per una corretta
utilizzazione del device e per essere, infine, reinviati al centro Spoke di provenienza.
La telemedicina in diabetologia
La telemedicina è la pratica della medicina a distanza attraverso reti di comunicazione, linea telefonica, intranet, internet. Secondo l’Advanced
Informatics in Medicine (AIM), la telemedicina è
definita come “il monitoraggio e la gestione dei
pazienti, nonché l’educazione dei pazienti e del
personale, usando sistemi che consentano un
pronto accesso alla consulenza di esperti e alle informazioni del paziente, indipendentemente da
dove il paziente o le informazioni risiedano”.
Le tecnologie generalmente utilizzate sono semplici
e di facile accesso e ciò ha permesso un utilizzo
sempre più ampio della telemedicina. Nel 2001
sono stati censiti più di 450 sistemi di telemedicina
in tutto il mondo, di cui 360 negli Stati Uniti.
Molto interessante è l’applicazione dei sistemi telematici all’assistenza a distanza e al monitoraggio
delle persone con patologie croniche. È stato dimostrato che questi sistemi di monitoraggio e di
assistenza a distanza possono aumentare la capacità
del paziente cronico di correggere lo stile di vita,
di aderire in maniera più precisa e attenta alle terapie. Un tale approccio ha dimostrato di determinare, inoltre, un risparmio delle risorse utilizzate.
Il diabete mellito è un esempio di malattia cronica
la cui gestione da tempo è supportata da sistemi
telematici che sono utilizzati nell’ambito dello
screening delle complicanze croniche, dell’automonitoraggio della glicemia capillare e in ambito
educativo. In particolare, nella persona con diabete
la telemedicina rappresenta un’importante opzione
per la gestione dell’automonitoraggio della glicemia
capillare. Importanti RCT, DCCT, DAFNE e
UKPDS hanno dimostrato come il regolare con-
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
trollo della glicemia capillare e l’adeguata gestione
dei risultati siano fondamentali per un’efficace cura
del diabete. Tali studi hanno inoltre evidenziato
come l’empowerment della persona con diabete e
il contatto frequente con il team diabetologico
migliorino gli esiti degli interventi terapeutici. In
questo contesto la telemedicina può intervenire
con efficacia su due aspetti da sempre problematici:
• se non è sottoposta a un programma di educazione terapeutica finalizzata alla gestione del
dato glicemico, la persona con diabete non sa
come utilizzare le informazioni ottenute per
la gestione della terapia ipoglicemizzante;
• durante un programma di educazione terapeutica il necessario contatto frequente fra
team di diabetologia e persona con diabete incontra spesso ostacoli logistici, di tempo, di
risorse.
Sono da tempo in uso diversi sistemi di gestione
a distanza delle informazioni derivate dall’autocontrollo e la letteratura offre diversi documenti
che testimoniano l’applicabilità clinica di questi
sistemi. In genere, i risultati dell’autocontrollo
della glicemia capillare sono trasmessi dal glucometro a dispositivi di vario tipo che, via web, oppure attraverso la rete telefonica, inviano i dati
allo specialista.
Nel DT2 sono disponibili informazioni derivate
da alcuni RCT che confermano come l’utilizzo
della telemedicina possa determinare un migliore
controllo glicemico in pazienti sia in terapia insulinica, sia in terapia con ipoglicemizzanti orali.
Oltre agli outcome sul controllo glicemico esistono informazioni sulla possibilità di gestire al
meglio, grazie a tale approccio, anche il profilo lipidico e pressorio dei pazienti con DT2 seguiti
attraverso la webmedicine.
Nel DT1 esistono diverse segnalazioni e in particolare una metanalisi di RCT che dimostra come si
possa ottenere un miglioramento del controllo gli-
13
cemico più rilevante, in termini di variazione dell’HbA1c rispetto al valore basale, nei pazienti seguiti
con telemedicina rispetto ai gruppi di controllo.
Queste esperienze positive possono verosimilmente essere messe in relazione con l’aumentata
frequenza dei contatti tra medico e paziente offerta
dai sistemi di telemedicina. Inoltre, il consiglio
terapeutico che arriva in tempo reale in risposta
all’andamento dei dati clinici delle glicemie può
aumentare la motivazione del paziente verso un
più attento e regolare monitoraggio della glicemia
e migliorare la sua aderenza alle raccomandazioni
per il cambiamento delle abitudini di vita.
Oltre ai dati relativi agli outcome clinici della gestione telematica, alcuni studi hanno dato qualche
risultato anche in termici di costi. Uno studio
pubblicato nel 2003 ha seguito per sei mesi 63
adolescenti con DT1, 30 randomizzati all’invio
delle glicemie via modem ogni due settimane al
posto delle visite ambulatoriali. Il gruppo di controllo, 33 pazienti, effettuava tradizionali visite
trimestrali. Al termine dello studio non c’era differenza tra i due gruppi in termini di miglioramento dell’HbA1c, mentre i costi erano maggiori
nel gruppo con visite ambulatoriali ($ 305) rispetto al gruppo di intervento ($ 163). Inoltre,
nel gruppo di intervento si evidenziava una riduzione del 50% dei giorni di scuola e di lavoro
persi.
Tuttavia, nonostante la numerosità dei sistemi di
telemedicina implementati in varie parti del
mondo, è un dato di fatto che la telemedicina
non è ancora estesamente applicata nella pratica
clinica di routine. Gli stessi “Standard Italiani per
la Cura del Diabete Mellito” o le “clinical practice
recommendations” prodotte dall’ADA non hanno
affrontato l’argomento producendo raccomandazioni specifiche. Sono chiaramente necessarie maggiori informazioni circa la valutazione degli outcome clinici e i costi di questo approccio.
165
Ministero della Salute
I farmaci
Il diabete mellito è una malattia cronica che richiede un trattamento medico continuo e un persistente autocontrollo della patologia (glicemia)
da parte del paziente, il quale deve quindi essere
educato e aiutato nella prevenzione delle complicanze acute e nella riduzione del rischio associato
allo sviluppo delle complicanze croniche.
La cura del diabete è complessa e richiede che
molti aspetti, oltre al controllo medico della glicemia, siano chiariti, quali la dieta, l’attività fisica
e il trattamento e/o prevenzione delle complicanze
croniche associate. Numerose evidenze esistono
in favore di differenti scelte d’intervento terapeutico che possono essere utilizzate per ridurre il
numero e la gravità degli esiti acuti e cronici della
patologia diabetica. I pazienti affetti da diabete
devono ricevere cure mediche che siano condivise
da una squadra coordinata dal medico specialista
in diabetologia. La squadra o team deve essere
composta/o da medici specialisti, medici di famiglia, infermieri professionisti esperti nella gestione
del paziente diabetico, dietisti, farmacisti e psicologi con una particolare esperienza nel diabete.
Il piano d’intervento terapeutico deve essere concordato in collaborazione, istaurando un’alleanza
terapeutica tra il paziente, la famiglia del paziente,
il medico specialista in diabetologia e gli altri
membri del team che devono gestire la patologia
complessa del diabete. Una varietà di differenti
strategie e tecniche può essere utilizzata nel fornire
un’adeguata educazione e nello sviluppare l’abilità
individuale (del paziente) nella gestione, nella risoluzione dei problemi e dei molteplici aspetti legati all’autogestione della terapia. Il miglioramento
del piano di coordinazione richiede che ciascun
aspetto sia compreso e che la cura sia concordata
fra il medico e il paziente.
È importante che gli obiettivi terapeutici e il trat-
166
tamento siano ragionevolmente raggiungibili ed
eseguibili dal paziente; è inutile programmare una
terapia e obiettivi terapeutici che non possono essere raggiunti dal paziente. Nello sviluppare il
piano d’intervento, particolare considerazione
deve essere data all’età del paziente, all’attività fisica svolta durante il lavoro, all’attività scolastica,
alle caratteristiche dell’alimentazione, alle condizioni sociali e alle abitudini culturali del paziente,
alla presenza di complicanze croniche associate al
diabete o di altre patologie concomitanti.
Nella decisione della scelta terapeutica da intraprendere nella cura del diabete mellito l’obiettivo
principale è quello della protezione a lungo termine dall’insorgenza di complicanze croniche e
acute associate alla patologia.
Nel trattamento del paziente diabetico il controllo
della glicemia deve essere monitorato con l’autocontrollo della glicemia ematica (SMBG) da parte
del paziente, o con il dosaggio della glicemia interstiziale e dei valori di HbA1c.
Gli obiettivi terapeutici da raggiungere nei pazienti
diabetici affetti sia da DT1 sia da DT2 sono il
raggiungimento di concentrazioni ematiche di
HbA1c inferiori a 7%, valori di glicemia a digiuno
e pre-prandiale compresi tra 70 e 130 mg/dl e di
glicemia postprandiale inferiori a 180 mg/dl.
Diabete di tipo 2
L’azione dei farmaci utilizzati nel trattamento del
DT2 si manifesta principalmente nell’aumentare
la sensibilità periferica all’azione dell’insulina, nella
stimolazione della secrezione insulinica sia direttamente sia in risposta al glucosio e nella riduzione
dell’assorbimento del glucosio a livello intestinale
(Figura 13.1).
La scelta dell’agente ipoglicemizzante da utilizzare
nel DT2 dovrebbe essere condotta in base alle esigenze mediche del paziente e agli obiettivi del trat-
13
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
Diagnosi
Interventi
sullo stile di vita
Metformina
+ glitazone
Metformina + sulfonilurea
o glicide + glitazone
Metformina
+ analogo GLP1
Metformina + sulfonilurea
o glicide + analogo GLP1
Metformina
+ gliptina
Metformina
+ sulfonilurea + gliptina
Metformina
+ sulfanilurea o glicide
Metformina
+ insulina basale
Metformina
Metformina
+ insulina basale
Metformina
+ sulfonilurea
o glicide
+ insulina basale
Metformina + insulina basal-bolus
Figura 13.1 Flow-chart per la terapia del diabete di tipo 2 (AMD-SID: Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito
2009-2010).
tamento, alla potenza dell’agente nel raggiungere
l’ottimo controllo glicemico, alla tollerabilità e agli
effetti collaterali potenziali del farmaco utilizzato,
alla facilità di somministrazione, alla convenienza
costo-beneficio e alla presenza di eventuali altri effetti benefici extraglicemici. La singola monoterapia
con un farmaco ipoglicemizzante può abbassare i
livelli della HbA1c dello 0,5-2%, mentre l’insulina
può ridurre del 3% i valori dell’HbA1c. La somministrazione di farmaci ipoglicemizzanti con differente meccanismo d’azione può avere un effetto
sinergico e ridurre le concentrazioni di HbA1c di
circa il 3,5%. Differenti classi di farmaci possono
essere utilizzate, quali le biguanidi; attualmente la
metformina è l’unica molecola in commercio in
Italia e in Europa; in Canada è stata introdotta per
il trattamento del DT2 nel 1957, mentre negli
Stati Uniti è stata autorizzata solamente nel 1995.
La metformina migliora la secrezione d’insulina in
risposta al glucosio, poiché riduce l’effetto della
glucotossicità. La metfomina favorisce la captazione
di glucosio a livello della fibra muscolare striata e
riduce la gluconeogenesi a livello epatico. La metformina può essere utilizzata in associazione con
tutte le altre classi di ipoglicemizzanti orali e con
l’insulina. Gli effetti collaterali principali associati
a questa terapia sono disturbi gastrointestinali, diarrea e raramente acidosi lattica, con una percentuale
di 1 caso ogni 100.000 pazienti trattati. La metformina è considerata la terapia iniziale nel DT2
sia per l’ottimo rapporto costo-beneficio, sia per
l’efficcacia e la sicurezza nel trattamento a lungo
termine; la somministrazione avviene dopo i pasti
a un dosaggio di 500 o 1000 mg. I tiazolidinedioni
167
Ministero della Salute
o PPAR-gamma agonisti sono una classe di farmaci
ipoglicemizzanti orali che aumenta la sensibilità
periferica all’azione dell’insulina. Esistono due molecole di questa classe: rosiglitazone, che è stato ritirato dal commercio per l’elevato rischio associato
all’insorgenza di insufficienza cardiocircolatoria, e
pioglitazone, in commercio in Italia, che è un
PPAR-gamma e alfa-agonista. Gli effetti collaterali
associati a questa terapia sono l’incremento del
peso corporeo, l’aumento della ritenzione idrica,
l’insufficienza cardiaca e l’aumento del rischio di
frattura per l’insorgenza dell’osteoporosi, raramente
l’insufficienza renale. È sconsigliato l’utilizzo di
pioglitazone nei pazienti nella classe 3 e 4 per disfunzione cardiocircolatoria secondo la classificazione della New York Heart Association (NYHA).
L’azione di pioglitazone si ha principalmente a livello del tessuto adiposo, dove potenzia l’effetto
antilipolitico dell’insulina e favorisce la captazione
del glucosio nel tessuto adiposo e nel muscolo scheletrico striato e in misura minore riduce la gluconeogenesi epatica. Le sulfoniluree sono la classe di
ipoglicemizzanti orali detti insulino-secretagoghi
come le meglitinidi. poiché aumentano la secrezione
dell’insulina dirrettamente legandosi ai propri recettori SUR1. Esistono due recettori per le sulfoniluree: il SUR1, presente nella cellula beta pancreatica, e il SUR2, che è invece espresso a livello
della cellula miocardica. L’effetto delle sulfoniluree
sul miocardio è potenzialmente dannoso e, attualmente, sono raccomandate le sulfoniluree di terza
generazione nel trattamento dell’iperglicemia, poiché hanno una ridotta affinità di legame con il recettore SUR2. Il loro utilizzo nella terapia antidiabetica orale è molto comune, poiché sono facilmente disponibili, con un basso costo, anche se è
stato dimostrato il fallimento a lungo termine in
monoterapia. Le sulfoniluree hanno come effetto
collaterale il rischio di crisi ipoglicemiche, particolamente nell’anziano e specialmente con l’utilizzo
168
di sulfoniluree con una lunga emivita; si somministrano prima dei pasti. Le meglitinidi sono un’altra
classe do ipoglicemizzanti orali che si lega al recettore delle sulfoniluree, ma in un dominio differente
rispetto a quello delle sulfoniluree e potenzialmente
il rischio d’insorgenza di patologia cardiovascolare
è minore. Hanno una potenza minore rispetto alle
sulfoniluree, ma hanno un rischio ridotto di crisi
ipoglicemica; devono essere somministrate prima
dei pasti. La repaglinide è la molecola di questa
classe autorizzata in Italia; inoltre sono presenti nateglinide e mitiglinide, che non sono disponibili
in Italia. Gli incretino-mimetici e gli inibitori della
DPP-IV rappresentano una nuova classe di farmaci
anti-iperglicemici di recente autorizzazione per il
trattamento del DT2 (Tabella 13.1). Gli incretinomimetici sono gli analoghi sintetici dell’ormone
GLP-1 (glucagon-like peptide-1), modificati nella
struttura proteica per essere resistenti all’azione di
degradazione mediata dalla DPP-IV. La principale
azione degli incretino-mimetici è stimolare la secrezione insulinica, solamente in risposta al glucosio. Questa caratteristica rende maggiormente sicuro ed efficace il trattamento del paziente diabetico; inoltre, possono ridurre lo svuotamento gastrico, aumentare il senso di sazietà e ridurre l’apporto calorico giornaliero; questi farmaci possono
migliorare il profilo lipidico della dislipidemia diabetica, ridurre il peso corporeo e avere altre azioni
che migliorano il compenso metabolico del paziente. Gli effetti collaterali più frequenti associati
a questa terapia sono la nausea e il vomito. È possibile avere un aumento del rischio di ipoglicemia
quando questa terapia è associata al trattamento
con farmaci secratagoghi dell’insulina. Attualmente
sono in commercio exenatide, che prevede la somministrazione del farmaco due volte al giorno con
un’iniezione sottocutanea, e liraglutide, che può
essere somministrata una sola volta al giorno sempre
mediante somministrazione sottocutanea del far-
13
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
Tabella 13.1 Caratteristiche degli incretino-mimetici e degli inibitori della dipeptidil peptidasi IV (DPP-IV)
Incretino-mimetici
Inibitori della DPP-IV
Somministrazione parenterale (sc)
Somministrazione orale
Azione intermedia (exenatide), azione lunga (liraglutide)
Azione lunga
Selettivi per il recettore GLP-1
Effetti meno potenti rispetto agli incretino-mimetici (esclusa
la riduzione dell’HBA1c)
Non selettivi (altre molecole possono essere substrati
della DDP-IV)
Aumentano i livelli di GLP-1 esogeno a valori sopra-fisiologici
Aumentano le concentrazioni del GLP-1 e del GIP a valori
fisiologici
Stimolano la secrezione insulinica, riducono la secrezione
di glucagone
Stimolano la secrezione insulinica e inibiscono la secrezione
di glucagone
Riducono i valori di HBA1c dello 0,8-1,8%
Riducono i valori di HBA1c dello 0,7-1,2%
Inibiscono lo svuotamento gastrico, inducono sazietà
Non hanno effetti sullo svuotamento gastrico e sulla sazietà
Riducono il peso corporeo
Non hanno effetti sul peso corporeo
Problematico il sovradosaggio del farmaco
Il sovradosaggio non è tossico
Probabili casi di pancreatite
Non sono segnalati rischi specifici a lungo termine
Rischi di ipoglicemia specialmente in associazione
con le sulfoniluree
Ridotto rischio di ipoglicemia
Nausea e/o vomito
No nausea e no vomito
Non consigliati nei pazienti con insufficienza renale grave
Aggiustamento del dosaggio in caso d’insufficienza renale grave
maco, entrambe indipendentemente dai pasti. Gli
inibitori della DPP-IV riducono la degradazione
del GLP-1 endogeno, la cui secrezione è diminuita
nel paziente con DT2, e hanno un’azione neutra
nell’indurre sazietà e perdita di peso, ma favoriscono la secrezione insulinica in risposta al glucosio. Le molecole approvate attualmente in Italia
sono vildagliptin, sitagliptin e saxagliptin. Sitagliptin e saxagliptin possono essere somministrati
con terapia orale in una singola dose giornaliera,
rispettivamente con un dosaggio di 100 mg e 5
mg, mentre vildagliptin è assunto con un dosaggio
massimo giornaliero di 100 mg suddiviso in due
somministrazioni; la terapia è orale ed è indipendente dai pasti. In ultimo, si ricordano gli inibitori
dell’α-glucosidasi; la molecola di questa classe in
commercio in Italia è l’acarbosio, mentre l’altra
molecola, miglitol, non è commercializzata in Italia. L’inibizione dell’α-glucosidasi riduce l’assorbi-
mento del glucosio e, come conseguenza, il picco
iperglicemico postprandiale, migliorando la funzionalità della cellula beta pancreatica. La molecola
deve essere somministrata prima dei pasti; l’effetto
collaterale principale deriva dall’elevato carico di
glucosio a livello del colon, che porta a una distensione gassosa del colon e a conseguenti fenomeni di flautulenza; questi effetti collaterali possono essere marcatamente manifesti e scarsamente
tollerati da alcuni pazienti.
Differenti regimi terapeutici di associazione con
farmaci ipoglicemizzanti orali e insulina possono
essere proposti; per un approfondimento dell’argomento si rinvia alla consultazione delle Linee
guida dell’AMD-SID, dell’ADA ecc.
La terapia insulinica nel DT2 può essere istituita
come basale, in cui si utilizzano insuline sintetiche
umane o analoghi sintetici modificati dell’insulina
umana che hanno un’emivita di quasi 24 ore senza
169
Ministero della Salute
picco d’azione, o come soluzioni d’insulina premiscelata in cui si combinano nella stessa siringa un’insulina ad azione rapida (umana) o “ultrarapida”
(analoghi modificati dell’insulina umana) con
un’insulina ricombinante umana con emivita intermedia. Si possono inoltre utilizzare regimi di
trattamento insulinico prima dei pasti (“trattamento
prandiale”), o in alternativa un regime “intensivo”
che consiste nella somministrazione d’insulina basale normalmente la sera prima di coricarsi e preprandiale, utilizzando insuline sintetiche rapide o
analoghi sintetici ultrarapidi; questo regime terapeutico è definito “basal-bolus”. Maggiori dettagli
sulle differenti strategie terapeutiche utilizzate sono
riportati nel paragrafo “Diabete di tipo 1”.
La terapia con insulina può essere associata con la
somministrazione di ipoglicemizzanti orali insulino-sensibilizzanti come la metformina, che è sempre la molecola da preferire tranne quando il paziente è intollerante al farmaco; in questo caso
può essere utilizzata un’altra classe di ipoglicemizzanti orali sempre insulino-sensibilizzanti. Esistono
differenti algoritmi terapeutici proposti per il trattamento del DT2 con l’insulina in associazione o
meno con ipoglicemizzanti orali e per un approfondimento dell’argomento si consiglia di consultare le Linee guida dell’AMD/SID, dell’ADA ecc.
Negli Stati Uniti è disponibile come molecola
pramlintide, che è un analogo dell’ormone amilina
co-secreto con l’insulina dalla cellula beta pancreatica. La pramlintide ha effetti specifici ipoglicemici ed extraglicemici che favoriscono il compenso metabolico del paziente affetto da DT2 e
DT1; comunque, la difficile manegevolezza del
farmaco e frequenti crisi ipoglicemiche ne limitano
l’utilizzo. Nel prossimo futuro differenti molecole
e nuove classi di ipoglicemizzanti sono attese; fra
questi si ricordano gli inibitori selettivi del cotrasportatore del sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2)
che inibiscono il riassorbimento del glucosio a li-
170
vello renale e riducono i livelli sierici di glucosio
aumentandone l’escrezione renale.
Diabete di tipo 1
I risultati più importanti nella valutazione del controllo glicemico nel DT1 sono stati ottenuti con lo
studio Diabetes Control and Complication Trial
(DCCT), completato nel 1993, e con il successivo
monitoraggio dei pazienti che avevano partecipato
allo studio nell’Epidemiology of Diabetes Intervention
and Complications (EDIC) study. Nel DCCT sono
stati confrontati due gruppi di studio d’intervento,
uno con trattamento intensivo o con tre o più somministrazioni giornaliere d’insulina, o con pompa
esterna per l’infusione d’insulina, e il secondo con
trattamento “convenzionale” con una o due somministrazioni d’insulina. Sono stati valutati gli effetti
a lungo termine sulle complicanze croniche associate
al diabete come la retinopatia diabetica, la nefropatia, la neuropatia e anche le complicanze macrovascolari, riscontrando un effetto importante del trattamento intensivo nella riduzione sia della prevalenza sia della severità della patologia d’organo specifica. Da questi risultati è emerso come raccomandazione che il paziente affetto da DT1 deve essere
trattato con un regime di terapia intesivo sotto la
supervisione di un team di medici, come sopra riportato. Comunque, deve essere sempre valutato il
rischio-beneficio della terapia intensiva, che non
sempre può essere applicata a tutte le popolazioni
di pazienti con DT1 e gli effetti possono non essere
così favorevoli come nella popolazione studiata nel
DCCT che aveva modeste o assenti complicanze.
Le popolazioni in cui applicare con prudenza o non
applicare un regime di terapia insulinico intensivo
sono i bambini con un’età inferiore ai 13 anni, le
persone anziane e i pazienti all’ultimo stadio dell’insufficienza renale e in dialisi o con un’importante
patologia cardiovascolare o cerebrovascolare.
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
Recentemente l’utilizzo degli analoghi dell’insulina
ha permesso una riduzione considerevole delle
crisi ipoglicemiche severe per le peculiari caratteristiche farmacodinamiche di questa classe farmacologica, che ha un più facile impiego e una maggiore sicurezza. L’avanzare della tecnologia del
DNA ricombinante ha permesso la produzione
di elevate quantità d’insulina sia con una struttura
di aminoacidi identica a quella dell’insulina, sia
modificate nella sequenza proteica per ottenere
delle insuline sintetiche con specifiche proprietà
farmacodinamiche maggiormente efficaci nella
strategia di trattamento del DT1.
Nella Tabella 13.2 si riportano le caretteristiche
delle insuline sintetiche e analoge in commercio
in Italia.
Strategia
I livelli di controllo della glicemia, simili a quelli
ottenuti nel DCCT con il trattamento intensivo,
sono molto difficilmente raggiungibili nella maggior parte dei pazienti senza l’utilizzo di un tratta-
13
mento d’insulina con multiple iniezioni giornaliere
(MIG) combinando l’utilizzo di insuline ad azione
rapida insieme con insuline ad azione lenta, o con
infusione continua sottocutanea d’insulina (ICSI),
mediante l’utilizzo di pompe che permettono ai
pazienti di modificare la dose d’insulina in funzione dei risultati della glicemia ottenuti con l’automonitoraggio, l’apporto calorico giornaliero con
la dieta e l’attività fisica. La ragione di questo tipo
d’approccio terapeutico nei pazienti affetti da DT1
è molto semplice e consiste nel tentativo di riprodurre il profilo multifasico della secrezione insulinica in risposta ai pasti principali e all’assunzione
di merende durante la giornata. Per ottenere questo
risultato sono stati proposti differenti regimi d’assunzione di terapia insulinica e alcune volte la strategia terapeutica deve essere individualizzata in
funzione delle caratteristiche peculiari dello stile
di vita e/o dello stato di salute del paziente stesso.
I regimi terapeutici maggiormente utilizzati e che
si possono raccomandare nei pazienti affetti da
DT1, ma non esclusivi, sono:
• il regime più comunemene utilizzato nella te-
Tabella 13.2 Caratteristiche delle insuline sintetiche e analoghe in commercio in Italia
Insulina
Inizio d’azione (ora)
Picco (ora)
Durata (ore)
Azione rapida
Regolare
0,5-1
2-4
6-8
Azione ultrarapida
Lispro
Aspart
Glulisina
0,25
0,25
0,25
1
1
1
3-4
3-4
3-4
Azione intermedia
NPH
1-3
6-8
12-16
Azione lunga (“long-acting”)
Glargina
Detemir
1
1
NA
3-9
11-24
6-23
171
Ministero della Salute
rapia insulinica del DT1, con l’avvento delle
insuline sintetiche, è il regime con quattro
somministrazioni giornaliere d’insulina, caratterizzato dalla combinazione di tre insuline ad
azione rapida somministrate prima dei pasti
principali e un’insulina ad azione lenta somministrata prima di andare a dormire. L’utilizzo
d’insulina ad azione lenta prima di andare a
dormire consente un eccellente controllo della
glicemia a digiuno. L’utilizzo d’insulina ad
azione rapida preprandiale riduce il picco di
iperglicemia postprandiale e l’utilizzo di insuline sintetiche con una ridotta emivita riduce
il rischio di crisi ipoglicemiche. La somministrazione d’insulina ultrarapida preprandiale,
comunque, può essere effettuata sia utilizzando
il metodo della conta dei carboidrati, ove venga
utilizzato, sia con il monitoraggio della glicemia preprandiale, almeno nella fase di titolazione della terapia insulinica;
• la somministrazione d’insulina può essere eseguita utilizzando pompe d’infusione esterne.
Questo regime di terapia prevede l’utilizzo prevalente di insuline ad azione ultrarapida quali
gli analoghi rapidi, somministrate mediante
l’infusione sottocutanea con un catetere usualmente inserito nel tessuto sottocutaneo della
parete addominale anteriore. Il rilascio di insulina è preprogrammato con un’infusione basale e con boli infusi direttamente dal paziente
prima dei pasti principali e delle merende.
Questo tipo di terapia con l’utilizzo di insulina
ad azione ultrarapida permette rapide variazioni d’insulina in risposta ai valori di glicemia
raggiunti consentendo un’ampia flessibilità
nella strategia terapeutica. Lo svantaggio di
questo tipo di trattamento è rappresentato dai
costi, dalla frequente sostituzione dei tubi d’infusione e dal rischio d’infezione nel sito in cui
viene somministrata l’insulina stessa;
172
• in alcune particolari tipologie di pazienti, quali
pazienti anziani, pazienti con deficit intellettivi
o non collaboranti, può essere utilizzata la combinazione di insuline ad azione rapida e intermedia premiscelate a colazione e a cena. Il razionale di questo tipo di terapia è che l’insulina
rapida della mattina e della sera riduce il picco
di glicemia postprandiale della colazione e della
cena, mentre le insuline intermedie somministrate prima di colazione, cena e prima di andare a letto riducono, rispettivamente, le glicemie del pomeriggio e nelle prime ore della mattina. Il limite di questo trattamento è la difficoltà nel raggiungere delle glicemie a digiuno
normali o vicino alla norma e il rischio di crisi
ipoglicemiche quando si aumenta la quantità
d’insulina intermedia somministrata per ottenere glicemie a digiuno nella norma o vicino
alla norma.
Trapianto di pancreas
I primi trapianti di pancreas sono stati eseguiti a
metà degli anni Sessanta e da allora oltre 30.000
pazienti diabetici hanno usufruito di tale procedura. La maggior parte dei pazienti trapiantati ha
ricevuto, oltre al pancreas, proveniente da donatore
morto, anche un rene, proveniente da donatore
morto o donatore vivente, per la concomitante
presenza d’insufficienza renale cronica. In questi
casi, il trapianto combinato pancreas e rene può
così risolvere contemporaneamente il problema
metabolico e quello renale e, quindi, riscattare dall’insulino-dipendenza e dalla necessità del trattamento dialitico (o dalla sua incombenza, quando
il trapianto venga eseguito prima dell’ingresso in
dialisi). Il trapianto di pancreas può inoltre essere
eseguito in pazienti che siano già portatori di un
trapianto di rene funzionante (pancreas dopo rene)
o anche in soggetti diabetici con funzione renale
Parte Seconda – Appropriatezza tecnologica
ancora ragionevolmente conservata (pancreas isolato). In Italia, i primi casi di trapianto di pancreas
sono stati segnalati al Centro Nazionale Trapianti
nel 1992 e, a oggi, tali trapianti risultano essere
oltre 1000, di cui oltre due terzi rappresentati da
trapianto combinato pancreas e rene.
La sopravvivenza dei pazienti in caso di trapianto
combinato pancreas e rene, pancreas dopo rene o
pancreas isolato è, rispettivamente, del 95%, 95%
e 98% a un anno dal trapianto e del 90%, 89% e
94% a tre anni. Nelle medesime categorie, la sopravvivenza del pancreas (che equivale a una condizione di normoglicemia in assenza di terapia
insulinica) è risultata dell’85%, 78% e 78% a un
anno e dell’80%, 63% e 63% a tre anni. Va altresì
ricordato che nel caso di trapianto combinato
pancreas e rene anche la sopravvivenza del rene è
molto buona (91,6% a un anno). Dati più recenti
evidenziano che la sopravvivenza attuale dei pazienti trapiantati di pancreas e rene, pancreas dopo
rene e pancreas isolato è, a 15 anni dal trapianto,
rispettivamente, del 56%, 42% e 59%. Al contempo, nelle suddette categorie di riceventi l’emivita del pancreas trapiantato è risultata, nell’ordine, di 12, 7 e 9 anni (interventi eseguiti nel periodo 1998-1999).
Il trapianto combinato di pancreas e rene si associa, nei soggetti con DT1, a migliore sopravvivenza rispetto a quella dei pazienti in lista di attesa
(o comunque in trattamento dialitico) e al trapianto di rene da cadavere, anche se tale procedura
non sembra ottenere risultati migliori rispetto al
trapianto di rene da donatore vivente. Dal canto
loro, il trapianto di pancreas dopo rene e quello
di pancreas isolato sembrano avere un effetto neutro sulla mortalità nel tempo. Dal punto di vista
metabolico, il trapianto di pancreas, nelle sue varie
accezioni, ripristina la secrezione endogena di insulina e i meccanismi della sua regolazione, normalizzando stabilmente e nel lungo periodo i va-
13
lori glicemici e l’HbA1c, nonché eliminando il rischio di ipoglicemie. Vengono anche ripristinati
la secrezione di glucagone e, almeno in parte, il
sistema della controregolazione insulinica. La produzione epatica di glucosio si normalizza, il profilo
lipidico migliora e si hanno effetti positivi sul metabolismo proteico.
L’effetto del trapianto di pancreas sulle complicanze
croniche del diabete non è semplice da definire,
poiché nei pazienti sottoposti a trapianto il danno
vascolare è spesso avanzato. Tuttavia, negli studi
con follow-up sufficientemente prolungato è stato
osservato che la retinopatia tende a regredire o almeno a stabilizzarsi in una percentuale elevata di
casi (fino a oltre l’80%), e comunque più frequentemente rispetto a quanto osservato nei gruppi di
controllo. La terapia con steroidi, che fa parte delle
strategie antirigetto, può peraltro accelerare la progressione della cataratta.
Le lesioni tipiche della nefropatia diabetica (alterazioni glomerulari, ispessimento delle membrane,
proliferazione dell’interstizio) possono regredire
a distanza di 5-10 anni dal trapianto di pancreas
e la proteinuria si riduce significativamente e in
tempi brevi dopo il trapianto. È tuttavia da tenere
presente che alcuni farmaci immunosoppressori
(in particolare gli inibitori della calcineurina) sono
nefrotossici e pertanto in caso di trapianto di pancreas dopo rene o trapianto isolato la funzione
renale deve essere ragionevolmente ben conservata
(filtrato glomerulare di almeno 60 ml/min nel
trapianto di pancreas isolato).
Anche la neuropatia autonomica e quella periferica
possono migliorare dopo trapianto di pancreas,
un effetto che, in caso di trapianto combinato con
il rene, sembra comunque dipendere dalla funzione
del pancreas.
Per quanto riguarda gli effetti sulle complicanze
macrovascolari, il trapianto combinato di pancreas
e rene è associato a riduzione dell’aterosclerosi co-
173
Ministero della Salute
ronarica e di quella carotidea, nonché a minore
incidenza di infarto del miocardio ed edema polmonare. Sebbene i dati attualmente disponibili
al riguardo siano pochi, anche il trapianto di pancreas isolato sembra avere conseguenze favorevoli
sull’apparato cardiocircolatorio, come dimostrato
dal miglioramento di alcuni parametri funzionali
miocardici (valutati mediante ecocardiografia) e
dalla diminuzione della pressione arteriosa. Peraltro, l’arteriopatia periferica agli arti inferiori
non viene favorevolmente influenzata dal trapianto di pancreas.
Il trapianto di pancreas comporta rischi relativi
alla procedura chirurgica in sé (soprattutto
quando eseguito nei pazienti con insufficienza
renale cronica), nonché rischi dovuti all’utilizzo
della terapia antirigetto (in particolare infezioni
e rischio neoplastico). Tuttavia, grazie al miglioramento delle procedure chirurgiche e ai progressi
del trattamento immunosoppressivo, tali rischi
appaiono contenuti. In uno studio eseguito su
oltre 9000 pazienti è stato osservato che la mortalità nei primi 90 giorni dal trapianto era pari a
3,6%, 2,3% e 1,5% rispettivamente nel trapianto
di pancreas e rene, pancreas dopo rene e pancreas
isolato. Nel medesimo studio veniva riportato
che nel periodo da 1 a 4 anni dopo il trapianto
la mortalità complessiva era del 4,4%: in tale
gruppo, le infezioni e le neoplasie rappresentavano non trascurabili cause di morte (rispettivamente, 24% e 7,8%). Nel complesso, si ritiene
che la mortalità per neoplasie nei pazienti trapiantati di pancreas sia dello 0,6%.
Si ritiene, pertanto, che il trapianto combinato di
pancreas e rene sia indicato nei pazienti con DT1
e insufficienza renale cronica, in assenza delle controindicazioni assolute o relative riportate oltre.
Nel caso di trapianto di pancreas dopo rene, la
174
scelta si basa sulla necessità di normalizzare la glicemia per meglio preservare il rene trapiantato,
nonché sulle indicazioni valide in caso di trapianto
di pancreas isolato. Quest’ultima tipologia di intervento può essere indicata nei pazienti con marcata instabilità metabolica, ipoglicemie gravi e
inavvertite, complicanze croniche in evoluzione,
purché con funzione renale ragionevolmente conservata (filtrato glomerulare > 60 ml/min). In particolare, si ricorda che le indicazioni al trapianto
di pancreas isolato, così come definite dall’ADA e
confermate dalla SID, sono rappresentate dalla
presenza di DT1 instabile, con ripetuti episodi di
ipoglicemia alternati a iperglicemia, difficilmente
controllabili con la terapia insulinica esogena, oppure dalla presenza di problemi clinici e psicologici
legati alla terapia insulinica esogena, tanto gravi
da risultare invalidanti. Peraltro, la SID e vari
autori includono, tra le indicazioni per il trapianto
di pancreas isolato, anche la presenza di complicanze croniche del diabete in evoluzione. Si ricorda,
infine, che le controindicazioni al trapianto di
pancreas sono sostanzialmente le stesse che devono
essere tenute presenti in ogni tipologia di trapianto.
Data la complessità delle procedure necessarie all’espletamento del trapianto di pancreas (selezione
dei pazienti, reperimento dell’organo, intervento,
follow-up), tale approccio terapeutico deve essere
eseguito soltanto in centri di alta specializzazione,
attivi anche nell’ambito del trapianto di rene e in
grado di fornire adeguata integrazione tra le varie
competenze coinvolte (tra cui, evidentemente,
quelle diabetologiche, nefrologiche, chirurgiche,
anestesiologiche, cardiovascolari, altre specialistiche come necessario). Dovranno altresì essere garantite strutture ambulatoriali e di degenza medica
e chirurgica, con personale medico e infermieristico dedicato.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
14. Appropriatezza operativa
L’organizzazione diabetologica attuale
e modelli organizzativi per la gestione
del follow-up e la prevenzione
delle complicanze: percorsi assistenziali
e gestione integrata (chronic care model)
L’organizzazione delle cure alla persona con diabete in Italia è attualmente posizionata essenzialmente a livello territoriale. Anche quando le
equipe diabetologiche operano in ambio ospedaliero offrono assistenza prevalentemente di tipo
ambulatoriale o in day-hospital, mentre i ricoveri
ordinari sono dedicati a episodi acuti o complicanze della malattia e coinvolgono reparti di tutte
le specialità mediche e chirurgiche.
A livello territoriale, quindi, le equipe diabetologiche
si trovano a operare in una continuità assistenziale,
da un lato con la medicina generale, in una visione
di disease management, e dall’altro in continuità
ospedale-territorio, con un flusso bidirezionale. In
altri termini, i servizi di diabetologia, cooperando
strettamente con i medici di medicina generale
(MMG) operano in una logica di rete, che risulta
efficace per ridurre il numero di ricoveri ospedalieri,
come dimostrato dalle esperienze del Piemonte (Figura 14.1). In particolare, sul fronte ospedaliero, in
base al dato che il diabete aumenta frequenza e lunghezza dei ricoveri ospedalieri, la disponibilità di
ore di diabetologia riduce sino al 70% i ricoveri
(soprattutto urgenti) e la durata della degenza e l’effetto della diabetologia è il determinante più forte,
superiore a età del malato e gravità della malattia.
La presenza di persone diabetiche in tutti i reparti
ospedalieri sia medici sia chirurgici, dall’area dell’emergenza a quella della terapia intensiva, necessita delle competenze specialistiche in ambito
diabetologico.
A livello territoriale, le attività e le competenze
dei MMG e dei diabetologi sono regolate attualmente da un protocollo di intesa sottoscritto dalle
Società scientifiche di diabetologia, Associazione
Medici Diabetologi (AMD) e Società Italiana di
Diabetologia (SID) con la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), riportato in allegato al
Quaderno.
La prevenzione
La prevenzione del diabete e delle malattie metaboliche sulla popolazione generale coinvolge molti
più attori rispetto ai soli professionisti della salute.
La diffusione dei messaggi educativi sugli stili di
vita salutari riguarda le abitudini, l’educazione e i
consumi alimentari, la pratica di attività motoria,
l’astensione dal fumo, la lotta all’alcolismo e al
consumo di sostanze d’abuso.
175
Ministero della Salute
Paziente con diabete mellito neodiagnosticato dal MMG
Codici di priorità
di accesso
Invio alla struttura diabetologica
per valutazione diabetologica complessiva
Scheda 2
Definizione degli obiettivi terapeutici e del piano
terapeutico da parte della struttura diabetologica
Follow-up da parte del MMG per il periodo concordato
e registrazione degli accertamenti eseguiti
No
Situazione
di allarme?
No
Codici di priorità
di accesso
Sì
Invio alla struttura diabetologica per ridefinizione
degli obiettivi terapeutici e/o del piano terapeutico
Scheda 1
Scadenza
del periodo
concordato?
Sì
Scheda 1
Invio alla struttura diabetologica per valutazione
diabetologica complessiva
Figura 14.1 Modello di gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 – Regione Piemonte.
È evidente che per realizzare interventi di prevenzione sulla popolazione generale è necessario il
coinvolgimento di scuole, farmacie, produzione,
distribuzione e pubblicità di alimenti e dei rispettivi Ministeri, Enti locali, Associazioni di categoria
in una complessa e articolata riorganizzazione.
Per esempio, sarebbero necessari programmi scolastici fin dalle classi elementari sulla sana alimentazione, palestre in ogni ordine di scuola, orga-
176
nizzazione di servizi di refezione scolastica realizzati secondo le regole della sana alimentazione,
allontanamento di distributori di alimenti e bevande ipercaloriche dalle scuole. Nei supermercati
dovrebbero essere reperibili sempre alimenti regionali freschi, cibi con etichette leggibili e chiare,
linee di prodotti a basso contenuto di sale, grassi
saturi o ipocalorici e così via. Nelle città dovrebbero essere sempre presenti spazi attrezzati per
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
l’attività fisica e piste ciclabili, palestre pubbliche.
La pubblicità ingannevole dovrebbe essere bandita
e perseguita. L’utilizzo di slogan come “senza zucchero aggiunto” o come “con meno grassi” o “formaggi magri” dovrebbe essere bandito e adeguatamente integrato da spiegazioni comprensibili e
corrette. Sarebbe necessario indirizzare le rubriche
gastronomiche dei programmi televisivi d’intrattenimento verso tipologie premianti scelte alimentari salutari, spiegando le differenze fra tipi
di cottura, utilizzo di ingredienti a basso tenore
calorico, di grassi saturi e sale. Invece, i prodotti
più reclamizzati nelle fasce orarie dedicate ai bambini sono snack e gelati (23%), giochi e giocattoli
(15,2%) e alimenti confezionati (8,9%).
Esiste una sovraesposizione mediatica su temi nutrizionali. È stato calcolato che ora, in quattro
settimane prese a campione, la stessa rete televisiva
ha trasmesso circa 500 spot sul cibo. Su una fascia
oraria di 2 ore al giorno di visione televisiva, in
un anno vanno in onda 5500 messaggi pubblicitari di alimenti, spuntini, bibite, biscotti e gelati.
Negli Stati Uniti sono stati spesi nel 2009 undici
miliardi di dollari per fare pubblicità a cibi pronti,
spuntini e bevande alcoliche.
Prevenzione nella popolazione generale
Gli interventi sulla popolazione generale sono
stati recentemente realizzati mediante progetti e
protocolli d’intesa di vari Ministeri.
• Protocollo d’intesa “Guadagnare Salute”, realizzato dal Ministero della Pubblica Istruzione
con il Ministero per le Politiche Giovanili e le
Attività Sportive, con le Ferrovie dello Stato
ed Enti di Promozione Sportiva, Associazioni,
Imprese e Sindacati.
• Progetto “Pagine della Salute”, realizzato dai
Ministeri del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, che aveva come obiettivi quelli
14
di: a) far capire quanto sia importante la prevenzione per la tutela della salute; b) come
siano fondamentali le “azioni” che ogni persona
può compiere responsabilmente durante la
propria vita per non ammalarsi o, comunque,
per ritardare la comparsa di una malattia o anche per ridurne la gravità. Il progetto prevedeva
la realizzazione di una guida a colori con una
grafica esplicativa di immediata lettura, pubblicata nei volumi delle Pagine Bianche distribuiti da maggio 2009 in tutta Italia, disponibile sul sito delle Pagine Gialle, Tutto città e
Pagine Bianche, alla voce Pagine della salute.
• Progetto “Frutta snack” del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali
(2008): basato sulla sperimentazione di varie
azioni, tra cui l’installazione nelle scuole di distributori automatici di merende a base di
frutta fresca e trasformata. Il progetto pilota
nazionale coinvolge 80 scuole superiori nelle
province di Roma, Bologna e Bari, circa
60.000 ragazzi, gli insegnanti e le famiglie.
• Progetto “Pane, Sale e Salute” del Ministero
della Salute, grazie al quale 150 panificatori
romani su base volontaria sperimentano la produzione e la vendita di pane con ridotto contenuto di sale (dal 2% sul totale della farina
all’1,8%) in una campagna di prevenzione
dell’ipertensione arteriosa e dell’ictus cerebrale.
• Progetto Prevenzione Provincia di Cosenza: è
promosso dalla Presidenza della Provincia di
Cosenza e viene realizzato nei 5 Comuni più
popolosi (Cosenza, Castrovillari, Rossano, Corigliano, Paola); è iniziato nel 2010 ed è in
fase di attuazione; coinvolge farmacisti, scuole,
MMG, Assessorati alla salute, sindaci e diabetologi. Ha come obiettivo quello di realizzare
una campagna di informazione-formazione a
tutta la popolazione generale sui fattori di rischio per malattie metaboliche e diabete.
177
Ministero della Salute
Prevenzione nella popolazione a rischio
Questi interventi sono realizzati su specifiche popolazioni a rischio. Seguono alcuni esempi.
• “OKkio alla salute”, realizzato attraverso il censimento di bambini in sovrappeso o obesi su
un campione di 45.450 bambini in età scolare
controllati in tutta Italia.
• Comunicato n. 149 - 30 aprile 2010, del Ministero della Salute su “Linee Guida di Indirizzo
Nazionale per la Ristorazione Scolastica”: obiettivo del documento, approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, è quello di contribuire a
migliorare la qualità dei pasti nelle scuole e ridurre sovrappeso e obesità infantile e giovanile
nel nostro Paese; è basato sull’esigenza di facilitare, sin dall’infanzia, l’adozione di abitudini
alimentari corrette per la promozione della salute e la prevenzione delle patologie cronicodegenerative (diabete, malattie cardiovascolari,
obesità, osteoporosi ecc.) di cui l’alimentazione
scorretta è uno dei principali fattori di rischio,
per contrastare i profondi cambiamenti dello
stile di vita delle famiglie e dei singoli che determinano, per un numero sempre crescente
di individui, la necessità di consumare almeno
un pasto fuori casa utilizzando i servizi della
ristorazione collettiva e commerciale.
Prevenzione del diabete di tipo 1
La prevenzione del diabete di tipo 1 (DT1) non
è al momento realizzabile e rappresenta un argomento di studio e sperimentazione clinica.
Gli studi sulla storia naturale del DT1 hanno dimostrato come la comparsa di autoanticorpi contro antigeni della beta-cellula (anti-insulina, GAD,
IA-2, ZnT8) sia indicativa di un processo autoimmune e predittiva del futuro sviluppo della malattia.
Un’accurata predizione del DT1 è oggi possibile
178
mediante lo screening per autoanticorpi in combinazione con l’impiego di marcatori genetici (tipizzazione HLA) e metabolici (risposta al carico
orale e/o endovena di glucosio).
La prevenzione primaria è quella da realizzarsi in
epoca antecedente allo sviluppo del processo autoimmune, sostanzialmente in età neonatale o
nella prima infanzia.
La prevenzione secondaria è quella che interviene
a processo autoimmune già avviato e si applica a
soggetti identificati come positivi allo screening
per autoanticorpi.
La prevenzione terziaria si identifica nella preservazione della funzione beta-cellulare residua ancora presente all’esordio della malattia, misurabile
come secrezione di peptide C.
La preservazione della funzione beta-cellulare residua migliora la prognosi del DT1, facilitandone
il buon controllo glicemico e riducendo il rischio
di complicanze a lungo termine.
Quando potrà essere ottenuta con strumenti terapeutici sicuri, la preservazione della funzione
beta-cellulare residua diventerà un obiettivo primario della terapia del DT1, al pari del controllo
glicemico.
Prevenzione del diabete di tipo 2
Soggetti a rischio
La prevenzione del diabete di tipo 2 (DT2) si applica
ai soggetti a elevato rischio di sviluppare la malattia,
appartenenti a una tra le seguenti categorie:
• alterata glicemia a digiuno (impaired fasting
glycaemia, IFG), ridotta tolleranza al glucosio
(impaired glucose tolerance, IGT), pregresso diabete gestazionale, HbA1c 6-6,49%;
• età ≥ 45 anni con indice di massa corporea
(body mass index, BMI) ≥ 25 kg/m2;
• età ≤ 45 anni e una o più tra le seguenti condizioni: inattività fisica, familiarità di primo grado
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
per DT2 (genitori, fratelli); appartenenza a
gruppo etnico a elevato rischio; ipertensione arteriosa (≥ 140/90 mmHg) o terapia antipertensiva in atto; bassi livelli di colesterolo HDL
(≤ 35 mg/dl) e/o elevati valori di trigliceridi
(≥ 250 mg/dl); nella donna, parto di un neonato
di peso ≥ 4 kg; basso peso alla nascita (≤ 2,5 kg);
sindrome dell’ovaio policistico o altre condizioni
di insulino-resistenza quali l’acanthosis nigricans;
evidenza clinica di malattie cardiovascolari;
• ragazzi/e di età > 10 anni, con BMI > 85° percentile e due tra le seguenti condizioni: familiarità di primo o secondo grado per DT2;
madre con diabete gestazionale; segni di insulino-resistenza o condizioni associate (ipertensione, dislipidemia, acanthosis nigricans, ovaio
policistico, basso peso alla nascita); appartenenza a gruppo etnico ad alto rischio.
Raccomandazioni
Evitare il sovrappeso e svolgere un’attività fisica
regolare (20-30 minuti al giorno o 150 minuti a
settimana) rappresentano i mezzi più appropriati
per prevenire il DT2 nei soggetti a rischio.
I soggetti a rischio devono essere incoraggiati a
modificare le abitudini alimentari secondo le seguenti indicazioni: ridurre l’apporto totale di grassi
(< 30% dell’apporto energetico giornaliero) e particolarmente degli acidi grassi saturi (meno del
10% dell’apporto calorico giornaliero); aumentare
l’apporto di fibre vegetali (almeno 15 g/1000 kcal).
Nei soggetti con IGT, nei quali l’intervento sullo
stile di vita non abbia prodotto calo ponderale
e/o incremento dell’attività fisica o non sia applicabile, la terapia farmacologica con metformina,
acarbosio o glitazoni può essere presa in considerazione in virtù della dimostrata efficacia in studi
clinici, anche se risulta generalmente meno efficace
rispetto all’intervento sullo stile di vita.
Quando altre strategie si siano rivelate inefficaci,
14
la chirurgia bariatrica può essere considerata
un’opzione in grado di prevenire lo sviluppo di
DT2 in soggetti con obesità severa e IGT.
Nei bambini e adolescenti a elevato rischio di
DT2 è indicato un intervento sullo stile di vita,
facendo attenzione a che il calo ponderale non
sia eccessivo e venga mantenuto un BMI appropriato per l’età e il sesso.
Modelli applicativi di prevenzione del DT2
Al progetto “Alleanza per il Diabete” partecipano
nove Cooperative campane, aderenti al Consorzio
Campania Medica, per un totale di 441 MMG,
62 diabetologi e 640.000 assistiti, di cui 45.389
diabetici; ha avuto inizio nel 2009 ed è tutt’ora
in corso di svolgimento. Ha lo scopo di identificare i soggetti a rischio di diabete applicando il
Questionario di Tuomilehto a tutti i soggetti in
carico a ciascun MMG e applicando nei nuovi
casi i principi di gestione integrata utilizzando il
Documento di Indirizzo Politico AMD-SIDSIMG tra la medicina generale e i diabetologi
(vedi Capitolo 5 “Appropriatezza Operativa”).
L’attività fisica
Al fine di migliorare il controllo glicemico, favorire
il mantenimento di un peso corporeo ottimale e
ridurre il rischio di malattia cardiovascolare, sono
consigliati almeno 150 minuti/settimana di attività
fisica aerobica di intensità moderata (50-70% della
frequenza cardiaca massima) e/o almeno 90 minuti/settimana di esercizio fisico intenso (> 70%
della frequenza cardiaca massima). L’attività fisica
deve essere distribuita in almeno 3 giorni/settimana
e non ci devono essere più di 2 giorni consecutivi
senza attività.
Nei pazienti con DT2 l’esercizio fisico contro resistenza ha dimostrato di essere efficace nel migliorare
il controllo glicemico, così come la combinazione
179
Ministero della Salute
di attività aerobica e contro resistenza. I pazienti
con DT2 devono essere incoraggiati a eseguire esercizio fisico contro resistenza secondo un programma
definito con il diabetologo per tutti i maggiori
gruppi muscolari, 3 volte/settimana.
È opportuno intensificare l’automonitoraggio glicemico prima, possibilmente durante (esercizio
di durata > 1 ora) e dopo l’esercizio fisico. Devono
essere fornite indicazioni relative alla necessità di
integrazione con carboidrati e alla gestione della
terapia antidiabete, specie se basata sull’insulina,
al fine di ridurre il rischio di ipoglicemia.
La dieta
La dieta, più correttamente definita come terapia
medica nutrizionale, è una componente fondamentale della gestione del diabete e dell’educazione all’autogestione. Oltre al suo ruolo nel controllo del diabete, ne viene universalmente riconosciuta l’importanza come componente essenziale di uno stile di vita salutare complessivo.
La terapia medica nutrizionale:
• riduce il rischio di diabete nelle persone in sovrappeso e obese o con alterazioni glicemiche
come IFG e IGT;
• favorisce il raggiungimento e il mantenimento
di un appropriato controllo metabolico, glucidico, lipidico e pressorio nelle persone già affette
da diabete nelle quali contribuisce, inoltre, a
prevenire, o quanto meno ritardare, lo sviluppo
delle complicanze croniche del diabete.
A livello internazionale non esiste consenso circa
la componente dei carboidrati che dovrebbe essere
rappresentata nella dieta delle persone con diabete
e il possibile beneficio derivante dall’uso dell’indice
glicemico rispetto alla più semplice valutazione
del solo apporto calorico totale.
Le indicazioni generali circa la composizione ottimale della dieta in persone con diabete sono
riassunte nella Tabella 14.1.
La formazione
In una medicina che cambia, il problema della
formazione continua del personale sanitario in
Tabella 14.1 Indicazioni generali circa la composizione ottimale della dieta in persone con diabete
Componenti Quantità complessiva
della dieta consigliata
Quantità consigliata
dei singoli componenti
Consigli pratici
Carboidrati
45-60% delle kcal
totali (III, B)
Saccarosio e altri zuccheri
aggiunti < 10% (I, A)
Vegetali, legumi, frutta, cereali preferibilmente
integrali, alimenti della dieta mediterranea (III, B)
Fibre
> 40 g/die (o 20 g/1000 kcal/die),
soprattutto solubili (I, A)
Proteine
10-20% delle kcal totali (VI, B)
Grassi
35% delle kcal totali (III, B)
Sale
< 6 g/die (I, A)
180
5 porzioni a settimana di vegetali o frutta
e 4 porzioni a settimana di legumi (I, A)
Saturi < 7-8% (I, A)
Tra i grassi da condimento preferire quelli vegetali
MUFA 10-20% (III, B)
(tranne olio di palma e di cocco)
PUFA < 10% (III, B)
Evitare acidi grassi trans (VI, B)
Colesterolo < 200 mg/die (III, B)
Limitare il consumo di sale e di alimenti conservati
sotto sale (insaccati, formaggi, scatolame)
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
14
Box 14.1 Questionario per scoprire se si è a rischio di diabete
Età
❒ 0
❒ 2
❒ 3
❒ 4
Meno di 45 anni
45-54 anni
55-64 anni
Più di 64 anni
Fai esercizio fisico per almeno 30 minuti
quasi tutti i giorni?
❒ 0 Sì
❒ 2 No
Quanto spesso mangi frutta o verdura?
❒ 0 Tutti i giorni
❒ 1 Non tutti i giorni
Hai mai utilizzato farmaci per la pressione
alta?
❒ 0 No
❒ 2 Sì
Un medico o altro operatore sanitario ti ha
mai detto che avevi la glicemia alta (in un
esame medico, durante una malattia o una
gravidanza)?
❒ 0 No
❒ 5 Sì
A qualcuno della tua famiglia è stato diagnosticato il diabete?
❒ 0 No
❒ 3 Sì: nonni, zii, cugini
❒ 5 Genitori, fratelli o sorelle o proprio
figlio
Indice di massa corporea (BMI)
❒ 0 Meno di 25 kg/m2
❒ 1 25-30 kg/m2
❒ 3 Più di 30 kg/m2
Circonferenza vita (in centimetri, misurata
all’altezza dell’ombelico)
Uomini
Donne
❒ 0 Meno di 94
Meno di 80
❒ 3 94-102
80-88
Più di 88
❒ 4 Più di 102
RISULTATI (punteggio complessivo)
punteggio
rischio a 10 anni
0
0
basso
1
0,1
basso
2
0,5
basso
3
1,1
basso
4
2,0
basso
5
3,3
medio-basso
6
5,0
medio-basso
7
7,1
medio-basso
8
9,7
medio-basso
9
12,7
medio-basso
10
16,3
medio-basso
generale e del medico in particolare si pone con
particolare urgenza.
Nel campo delle malattie metaboliche e del dia-
punteggio
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
< 20
rischio a 10 anni
20,4
alto
25,1
alto
30,4
alto
36,4
alto
43,1
alto
50,5
molto alto
18,7
molto alto
67,7
molto alto
77,5
molto alto
88,2
molto alto
< 90
molto alto
bete in particolare, gli ultimi anni hanno visto
l’affermarsi della genomica, della proteomica e
della metabolomica, fino a creare sub-specialisti
181
Ministero della Salute
che devono mantenere il contatto con la pratica
clinica, ove nuovi protocolli terapeutici e farmaci
innovativi rendono necessario un frequente aggiornamento delle Linee guida.
Il crescere esponenziale della letteratura biomedica,
non sempre parallelo al crescere delle conoscenze
scientifiche, rende difficile un aggiornamento personale non guidato dalle Società scientifiche del
settore.
Paradossalmente, la sostanziale mancanza di consenso è almeno in parte legata alla scarsità di informazioni affidabili e generalizzabili sul profilo
rischio-beneficio degli interventi, al difficile confronto tra procedure e farmaci utilizzabili indifferentemente negli stessi pazienti, alla quasi totale
assenza di informazioni su classi selezionate (anziani, pazienti pediatrici ecc.), per non parlare
dell’autoreferenzialità che spesso caratterizza la
classe medica. Questa difficoltà trova un esempio
paradigmatico nel succedersi, spesso contradditorio, di proposte nel trattamento del DT2, ove i
pareri degli esperti e le Linee guida delle Società
scientifiche vengono continuamente proposti.
L’incertezza si traduce in una totale delega alla
decisione individuale nel trattamento di seconda
linea dopo la metformina, come riportato nei recenti Standard Italiani per la Cura del Diabete.
In questo panorama si inseriscono le attività formative realizzate in questi anni dalle due maggiori
Società scientifiche di diabetologia che hanno portato alla produzione degli Standard di Cura. Lo
scopo è formare e aggiornare la classe medica e
gli altri operatori sanitari in campo diabetologico
verso un’integrazione interdisciplinare, interprofessionale e intersettoriale, realizzata con uno
sforzo congiunto di tutti gli attori del sistema.
Questo processo formativo deve riguardare sia il
personale dei centri specialistici (assistenti sanitari
e infermieri, dietisti, podologi, ma anche psicologi,
esperti di attività fisica), sia la medicina territoriale
182
(medici di medicina generale e pediatri di libera
scelta), per garantire quella continuità assistenziale
che diviene elemento imprescindibile dell’assistenza sanitaria nelle malattie croniche. Solo una
formazione diffusa nei vari gruppi professionali,
integrata con altri specialisti, progettata con riferimento alle competenze necessarie e aggiornata
nel tempo, può divenire il cardine di un miglioramento continuo in efficienza ed efficacia. In
campo diabetologico, la natura stessa della malattia, che copre ogni età e produce danni a ogni
organo e sistema, richiede di ampliare e aggiornare
il bagaglio delle conoscenze secondo una calendarizzazione predefinita e regolamentata.
Il ruolo delle Società scientifiche è fondamentale
per garantire un’informazione indipendente, aderente alle problematiche cliniche e fruibile da tutti
gli operatori. In quanto libere associazioni di
esperti, le Società scientifiche operano per favorire
il trasferimento dei prodotti della ricerca alla clinica, processo lungo e difficile per un’inerzia nelle
modificazioni della prassi consolidata, documentata dagli Annali dell’AMD e da molteplici pubblicazioni scientifiche. Lo stretto legame tra l’attività assistenziale degli specialisti identificati dalle
Società scientifiche e le altre attività di formazione
e ricerca trova nell’assistenza al paziente il suo
punto di partenza e di ritorno e garantisce una
diffusione capillare del processo di miglioramento
della qualità ed efficacia delle prestazioni.
Al di fuori di una struttura di riferimento risulta
difficile per i medici ottemperare ai tre requisiti
fondamentali che garantiscono l’efficacia della
formazione continua, ovvero:
• la possibilità di accedere in modo sistematico
alle informazioni;
• la capacità di analizzarle in modo critico e indipendente;
• la possibilità di trasferirle compiutamente nella
pratica clinica.
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
Il primo nodo è legato alle limitazioni di tempo,
il secondo a una spesso insufficiente formazione
allo spirito critico da parte del corso di Laurea o
dei corsi di specializzazione, il terzo alla differenza
tra pazienti degli studi clinici e il mondo reale.
A questi nodi si aggiunga il problema non minore
legato all’informazione delegata alle aziende farmaceutiche del settore, ampiamente volta alla promozione dei farmaci. Anche se mantenuta entro
stretti limiti di correttezza formale, essa tende a
massimizzare i benefici e minimizzare rischi e dati
controversi, risultando spesso insufficiente o parziale. La formazione operata dalle Società scientifiche che operano nel campo del diabete e dell’obesità, pur regolata anch’essa da precise norme
tecniche ed etiche, in quanto libera e indipendente,
può prendere in considerazione ogni aspetto, creare
dibattiti, generare e promuovere opinioni a confronto, mettere a nudo le problematiche più nascoste nei risultati dei vari studi clinici.
In particolare, le Società scientifiche appaiono gli
interlocutori privilegiati per fornire agli organi
competenti un’analisi degli obiettivi formativi in
campo metabolico e una via per soddisfarli, secondo quanto approvato dalla Commissione nazionale per la formazione continua il 13 gennaio
2010 di cui all’Accordo Stato-Regioni del 5 novembre 2009, ove si legge al paragrafo 2.5 che “Gli
obiettivi formativi, nazionali e regionali, sono lo strumento utilizzato per orientare i programmi di formazione continua rivolti agli operatori della sanità
al fine di definire le adeguate priorità nell’interesse
del SSN. …tali obiettivi devono poi concretamente
articolarsi e armonizzarsi nel piano formativo (Dossier
formativo) …in tre tipologie di obiettivi formativi:
a) finalizzati allo sviluppo delle competenze e delle
conoscenze tecnico-professionali individuali nel settore
specifico di attività…; b) finalizzati allo sviluppo
delle competenze e delle conoscenze nelle attività e
nelle procedure idonee a promuovere il miglioramento
14
della qualità, efficienza, efficacia, appropriatezza e
sicurezza…; c) finalizzati allo sviluppo delle conoscenze e competenze nelle attività e nelle procedure
idonee a promuovere il miglioramento della qualità,
efficienza, efficacia, appropriatezza e sicurezza dei
sistemi sanitari”.
In questa logica si pone anche la nuova regolamentazione della formazione continua, che vede
accanto alla Formazione Residenziale e alla Formazione sul Campo l’implementazione della Formazione a Distanza (FAD), basata sull’uso delle
tecnologie informatiche. Anche in questo campo
le Società scientifiche che operano nel campo del
diabete e dell’obesità possono mettere a disposizione dei loro associati, e più generalmente di
tutta la comunità scientifica, un know-how e una
competenza difficilmente reperibile altrove e si
stanno muovendo per accreditarsi direttamente o
indirettamente quali provider FAD secondo le regole dettate dalla Commissione Nazionale per la
Formazione Continua in Medicina. Il ruolo delle
Società scientifiche appare fondamentale per la
divulgazione dei contenuti tecnico-professionali
(conoscenze e competenze) specifici di ciascuna
professione, ivi comprese la valutazione dei processi di gestione delle tecnologie biomediche e
dei dispositivi e l’applicazione nella pratica quotidiana dei principi e delle procedure dell’evidence
based practice.
Il sistema appare regolato secondo precise indicazioni per escludere la possibile interferenza da
parte di enti o persone che possano configurare
un conflitto di interessi, con precise indicazioni
per provider e sponsor quanto a: a) correttezza
del sistema ECM, indirizzato a scopi esclusivamente formativi e di aggiornamento; b) progettualità delle forme di finanziamento, con forme
di collaborazione stabile tra istituzioni, provider
e sponsor; c) trasparenza delle attività di finanziamento e amministrative.
183
Ministero della Salute
Quanto detto costituisce presupposto indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi del
“Nuovo Patto per la Salute” all’interno del Piano
Sanitario Nazionale relativo al triennio 2011-2013.
Gran parte delle azioni promosse è rivolta al rilancio della prevenzione, alla centralità delle cure primarie, alla continuità assistenziale territorio-centri
specialistici-ospedali, al rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza, alla valutazione delle nuove tecnologie (Health Technology Assessment, HTA), all’appropriatezza nell’impiego dei farmaci.
Il diabete (#13.4) costituisce una delle patologie
d’interesse prioritario, verosimilmente in rapporto
alla sua grande diffusione, ai costi, al fiorire di farmaci innovativi, alla disomogeneità nella domanda
e nell’offerta sanitaria nelle diverse Regioni, con
modelli organizzativi e costi assai differenti. Analogo
discorso può essere fatto per l’obesità, a cavaliere
dei temi #13.1 (malattie cardiovascolari), #13.3
(malattie respiratorie croniche), #13.4 (diabete),
#13.5 (salute mentale e disturbi del comportamento
alimentare), ma anche #13.2 (malattie oncologiche), per il rischio aggiuntivo causato dall’obesità.
Proprio sul tema dei costi solo una formazione
attenta e libera può garantire al Servizio Sanitario
Nazionale (SSN) la partecipazione responsabile
degli operatori in una gestione dell’appropriatezza
dei ricoveri ospedalieri e delle prestazioni sanitarie
efficace ed efficiente che garantisca la sostenibilità
del sistema sanitario in funzione delle risorse disponibili.
Modelli organizzativi per la gestione
del follow-up e la prevenzione
delle complicanze
Percorsi assistenziali per la gestione integrata
Per fare fronte alle “nuove epidemie”, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) defi-
184
nisce le cronicità, si affacciano nuove parole d’ordine, che impongono di ripensare l’organizzazione
dei servizi, quali assistenza multidimensionale e
multiprofessionale, globalità dei bisogni, gestione
proattiva. Emerge, inoltre, la necessità di prendere
in considerazione nuove dimensioni: malattia vissuta (illness) e non solo malattia organica (disease),
salute possibile e non solo salute, mantenimento
e non solo guarigione, accompagnamento e non
solo cura, risorse del paziente e non solo risorse
tecnico-professionali. Da ciò, l’esigenza di sperimentare nuove formule organizzative dell’assistenza basate sul concreto affermarsi di una gestione integrata, costruita sulla falsa riga di percorsi
assistenziali condivisi che mettano in luce e valorizzino i contributi delle varie componenti e dei
vari attori assistenziali lungo il continuum di cura
del paziente. Senza questi concreti binari di interconnessione, rappresentati dalla gestione integrata e dai percorsi assistenziali, utili a governare
le interfacce tra le componenti complesse di un
sistema unico e unitario, l’integrazione continuerà
a rimanere una semplice affermazione di principio,
un terreno ipotetico e auspicabile calpestato soltanto occasionalmente. Le patologie croniche sono
un grande problema per il SSN, ma allo stesso
tempo possono costituire un’opportunità di revisione radicale dell’offerta sanitaria.
Il presupposto per il realizzarsi di questo importante progetto di governance è, però, l’assunzione
di un approccio sistemico e integrato che implichi
un’azione coordinata fra tutte le componenti e fra
tutti gli attori del sistema assistenziale, che, con
responsabilità diverse, devono essere chiamati a
sviluppare interventi mirati verso comuni obiettivi.
L’ideologizzarsi dello storico contrasto ospedaleterritorio degli ultimi decenni ha generato un’impropria contrapposizione tra due componenti di
uno stesso sistema unitario, determinando effetti
culturali, sia tra i professionisti sia tra i cittadini,
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
14
cio sistemico tipico del disease management e mette
in evidenza le componenti principali che entrano
in gioco nel sistema di gestione del diabete mellito,
delineato sulla falsa riga della curva della “storia naturale” della malattia e della curva della “storia dinamica dei servizi”. Con quest’ultimo concetto, la
“storia dei servizi”, si vuole mettere in luce la necessaria dinamicità strutturale e organizzativa dei servizi,
perché di fronte alle cronicità è utile interrogarsi
anche su nuove possibili forme organizzative dell’assistenza (strutture intermedie ospedale-territorio,
day-service, care- e case-management) che risultino
più rispondenti alle necessità assistenziali di pazienti
complessi, nei quali, nelle fasi più avanzate di ma-
e scelte organizzative tra i decisori politici e gestionali, che ancora determinano l’assenza di un
vero sistema integrato, nel quale ambedue queste
organizzazioni complesse possano effettivamente
esprimere il massimo della loro potenzialità.
Chronic care model e disease management
Il disease management e il chronic care model, e i
principi di cui questi approcci sono portatori,
sono ormai divenuti il quadro logico-concettuale
di riferimento per chiunque lavori nel campo della
gestione delle patologie croniche.
La Figura 14.2 mostra la struttura-base dell’approc-
Decidere dove agire in rapporto alla dinamica
della malattia (storia naturale)
e alle potenzialità del contesto:
• incidenza
• progressione
• complicanze
Prevenzione
POPOLAZIONE A RISCHIO E NON DIAGNOSTICATA
STADIO 1
Non-diagnosticato
A rischio
Ospedale
Inizio malattia
MMG
SCREENING
(case finding)
Diagnosi
Coinvolgimento
d’organo
Poliambulatorio
specialistico
distrettuale
POPOLAZIONE DIAGNOSTICATA
GESTIONE ATTIVA
STADIO 1
Non-controllato
STADIO 2
Compromissione
d’organo
Non-controllato
Coinvolgimento d’organo
STADIO 1
Controllato
Scompenso d’organo
STADIO 2
Compromissione
d’organo
Controllato
Coinvolgimento d’organo
STADIO 3
Post-scompenso
d’organo
Non-controllato
STADIO 3
Post-scompenso
d’organo
Non-controllato
Scompenso d’organo
Figura 14.2 Struttura sistemica del disease management.
185
Ministero della Salute
lattia, tende a ridursi drasticamente l’efficacia degli
strumenti clinici di assistenza.
È noto che gli interventi di gestione integrata più
efficaci sono proprio quelli che agiscono su tutti i
livelli della “storia naturale” della malattia ma,
ove un disegno di portata sistemica si rendesse
poco fattibile a causa di risorse limitate, sarebbe
più utile concentrare gli sforzi di tutti gli attori
del sistema sugli snodi ritenuti più critici e più
opportuni per il contesto locale.
La potenzialità fondamentale dell’approccio di disease management è quella di far convergere le
energie dei vari attori del sistema su obiettivi comuni, seppure con responsabilità diversificate,
evitando in tal modo una progettualità non concordata e frammentaria, spesso incapace di incidere significativamente sui risultati complessivi
del sistema assistenziale.
Il disease management, in altri termini, è un approccio sistemico che permette di contestualizzare
gli interventi, individuando i target di pazienti e
gli snodi critici della storia naturale di malattia più
vicini alle problematiche, ai limiti/potenzialità e
alle strategie del sistema locale, sui quali concentrare, raccordandole, le energie di tutti gli attori
del sistema. In tale prospettiva, la gestione integrata,
sulla quale il progetto IGEA ha imperniato la propria nascita e il proprio sviluppo, rappresenta lo
strumento del concretizzarsi dell’approccio sistemico integrato proposto dal disease management.
Il chronic care model ha un focus più ampio del disease management. Infatti, come delineato nella Figura 14.3, il chronic care model propone una visione
d’insieme di tutte le variabili fondamentali di un
sistema organizzativo orientato a gestire i pazienti
con patologia a lungo termine. Il presupposto di
questo modello è che per essere efficaci, efficienti
e attenti ai bisogni globali dei pazienti è necessario
anche l’impegno di tutto il sistema organizzativo,
che deve attivare una serie di “leve” indispensabili
186
per migliorare i risultati e, più in generale, l’impegno di tutte le forze sociocomunitarie.
Il disegno del chronic care model pone, quindi, in un
unico quadro d’insieme tutti quei fattori organizzativi
e operativi del sistema sanitario e della comunità
che risultano “predisponenti” per l’azione efficace
delle persone (gli operatori e i pazienti), dalle cui attività scaturiscono i risultati attesi. Il chronic care model fornisce, pertanto, un messaggio chiaro anche
sull’importanza dei fattori facilitanti, rappresentati
dalle “leve organizzative” (gli assetti organizzativi, il
supporto ai processi decisionali, il sistema informativo) e dalle risorse comunitarie che risultano utili
per creare quelle condizioni di contesto necessarie a
generare risposte assistenziali (efficaci, efficienti e
centrate sulla persona) ai bisogni complessi dei pazienti portatori di patologia a lungo termine.
In conclusione, la gestione integrata e i percorsi
assistenziali, che sono i cardini del progetto IGEA,
possono rappresentare ancora una volta, nel quadro
sistemico proposto dal chronic care model, gli strumenti operativi per l’affermarsi delle logiche e dei
principi di cui questo modello è portatore, per
consolidarne gli “assi portanti” (i team integrati),
per tradurre in prassi effettiva le buone pratiche
assistenziali evidence-based e per dare corpo alle
prospettive di empowerment del cittadino utente.
La gestione integrata
L’obiettivo principale della gestione integrata, così
come dichiarato all’interno del progetto IGEA, è
“ottenere un miglioramento dello stato di salute
del paziente… contenere/ottimizzare l’utilizzo
delle risorse umane ed economiche… utilizzando
strategie per modificare i comportamenti di pazienti e medici, da parte dei quali è spesso difficile
ottenere rispettivamente un’adesione ai piani di
cura e la condivisione e l’utilizzo di linee guida
per la pratica clinica”.
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
14
Sistema sanitario
(contesto, organizzazione)
Comunità
Supporto
self management
Supporto
alle decisioni
Sistema informativo
clinico
Disegno di sviluppo
del sistema
• Modalità di integrazione
con altre risorse comunitarie
(percorsi integrati)
• Partnership con organizzazioni
di comunità (programmi
e politiche integrate)
• Valutazione e documentazione
dei bisogni e delle attività
di self management
• Supporto al self management
• Risposta alle preoccupazioni
del paziente e della famiglia
• Interventi effettivi
su comportamenti e stili di vita
Paziente
informato
e attivo
Interazione
positiva
Team
integrato, preparato
e proattivo
• Linee guida Evidence-Based
Medicine (EBM)
• Coinvolgimento degli specialisti
nel miglioramento delle cure primarie
• Formazione degli operatori
nella gestione delle patologie croniche
• Informazione ai pazienti
sulle Linee guida
• Registro pazienti
• Feedback report per la valutazione
della performance
• Piani assistenziali personalizzati
Il percorso
assistenziale
Risultati
migliorati
La gestione
integrata
• Responsabilità (leadership)
organizzativa complessiva
per l’assistenza ai pazienti cronici
• Obiettivi organizzativi mirati
• Strategie di miglioramento mirate
• Sistema di incentivi
• Indirizzi strategici aziendali
Figura 14.3 Struttura sistemica del chronic care model.
La gestione integrata va considerata come un processo dinamico in progressiva evoluzione, strettamente correlato alla maturità culturale e organizzativa
del contesto. Essa è, quindi, definibile come un processo assistenziale mirato al progressivo consolidarsi
di una prassi di gestione condivisa tra il MMG, che
è il riferimento primario del singolo paziente, e la
rete di professionisti territoriali e ospedalieri che entrano in gioco nell’erogazione dell’assistenza.
Molto importante è, in una logica di ampia integrazione, il contributo del mondo del volontariato,
dei familiari e dello stesso paziente. Quest’ultimo,
come ampiamente dimostrato in letteratura, ha
una centralità non solo decisionale, ma anche gestionale rispetto alla patologia e alla cura e deve,
quindi, essere messo nelle condizioni di divenire
consapevole ed esperto della propria malattia.
L’approccio sistemico di tipo disease management,
ampiamente diffuso in campo internazionale, e il
chronic care model, che costituisce ormai il riferimento organizzativo-operativo di tutte le esperienze più significative in Italia e all’estero, indicano
la necessità di un’integrazione sistemica, che non
trascuri nessun attore assistenziale (sia sanitario,
sia non-sanitario) e che progressivamente prenda
in carico tutti i pazienti, indipendentemente dal
grado di evoluzione della patologia. È comunque
ovvio che i sistemi regionali e aziendali debbano
individuare le strategie ritenute più consone alle
caratteristiche e alle specificità del contesto e del
187
Ministero della Salute
sistema organizzativo locale, indirizzandosi verso
uno sviluppo graduale della gestione integrata ed
eventualmente focalizzando, inizialmente, l’intervento sui target di pazienti ritenuti prioritari.
Nella gestione integrata non può esservi “distanza”
tra le varie componenti e tra i diversi attori del sistema assistenziale e come premessa generale non
vi sono, pertanto, pazienti affidati esclusivamente
al MMG e altri esclusivamente allo specialista.
La gestione integrata implica un piano personalizzato di follow-up condiviso tra i professionisti principali (MMG e specialisti) e tra questi ultimi e gli
altri professionisti coinvolti nel processo di assistenza
(infermieri, psicologi, dietisti, dietologi, assistenti
sociali ecc.). Da ciò deriva la necessità di classificare
i pazienti in sub-target in base al grado di sviluppo
della patologia: vi saranno pazienti a minore complessità con una gestione del follow-up prevalentemente a carico del MMG e pazienti con patologia
a uno stadio più avanzato con una gestione prevalentemente a carico dello specialista (Figura 14.4).
Questa maggiore prevalenza di una figura rispetto
all’altra, all’interno di un percorso assistenziale
personalizzato e concordato, deve in ogni caso
scaturire da una scelta condivisa tra i vari attori
assistenziali coinvolti. In tal senso, la struttura del
follow-up di un paziente in gestione integrata è
decisa unitariamente da MMG e specialista e con
il contributo degli altri attori, va rivalutata periodicamente e deve basarsi sulla scelta del setting
assistenziale migliore (più appropriato, più efficace
e più efficiente) per il singolo paziente. La gestione
integrata implica, quindi, la necessità dello sviluppo di strumenti di comunicazione stabile all’interno della rete di professionisti che assiste il
paziente, sfruttando, ove possibile, le potenzialità
informatiche, senza disdegnare altri strumenti e
vie di comunicazione a minore impatto economico e sin d’ora praticabili, laddove esistano problemi di reperimento di risorse specifiche.
188
I percorsi assistenziali per dare traduzione
organizzativa e operativa alla gestione
integrata
Il percorso assistenziale è un metodo innovativo
utilizzato per la revisione critica e il ridisegno
degli iter assistenziali di specifici target di pazienti.
Un percorso assistenziale è definibile come: “un
metodo (modo di procedere razionale, o procedimento logico, per raggiungere determinati risultati), all’interno del quale è possibile allocare vari
strumenti (arnesi atti all’esecuzione di determinate
operazioni proprie di un’arte, di un mestiere) quali
l’analisi di processo, gli indicatori ecc. e tecniche
(insieme delle regole pratiche da applicare nell’esercizio di un’attività umana, intellettuale o manuale), quali le tecniche di supporto alle decisioni,
di cui la più conosciuta è la medicina basata sulle
prove di efficacia (Evidence-Based Medicine, EBM),
ma tra le quali possono annoverarsi altre tecniche
basate sul giudizio ponderato quali gli audit multiprofessionali”.
La costruzione di un percorso assistenziale deve
basarsi su un metodo che sia in grado di mettere
insieme tre diversi focus: organizzativo, buona
parte dei risultati, infatti, dipende da come viene
gestita l’organizzazione dell’assistenza; clinico, che
include le prestazioni di tipo diagnostico-terapeutico; relativo alla presa in carico dei bisogni globali
e non solo clinici del paziente-persona. È in ragione di ciò che, ancorché l’assistenza sia un processo unico per la costruzione di un percorso assistenziale, bisogna applicare strumenti analitici
su: come siamo organizzati (care), come curiamo
i pazienti (cure), quanta attenzione poniamo ai
prodotti non-clinici (caring).
Sintetizzando, la costruzione di un percorso assistenziale si basa, quindi, sull’uso dell’iter del paziente come un tracciante che, attraversando i servizi, ne mette in evidenza il funzionamento e i
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
TEAM MULTIPROFESSIONALE
STRATEGIE E STRUMENTI DI GOVERNO CLINICO
SU TARGET STRATIFICATI DI PAZIENTI
MMG
Ospedale
Specialista
distrettuale
Paziente
cronico ad alta
complessità
assistenziale
•
•
•
•
Pazienti
con
insufficienza
d’organo
e polipatologia
Day-hospital
Day-service ospedaliero e territoriale
Follow-up attivo ad alta intensità specialistica
Self care-management (comportamenti “abili” a prevenire
e riconoscere i momenti di scompenso, a gestire attivamente
la propria patologia, la cura, il proprio benessere)
Ospedale
MMG
Paziente
cronico a media
complessità
assistenziale
• Follow-up attivo integrato a prevalenza specialistica
• Piani di cura personalizzati
• Self care-maintenance (comportamenti “abili”
a mantenere lo stato di compenso e di equilibrio)
Pazienti
con compromissione
d’organo
Specialista
distrettuale
Infermiere
distrettuale
Ospedale
Paziente
cronico a bassa
complessità
assistenziale
Pazienti con complicanze
• Piano di gestione integrata e coordinata
tra i vari attori di cura
• Comunicazione della diagnosi e uso
di tecniche di “ability to cope”
• Attività informativo-educative
PATTO DI CURA
TEAM MULTIPROFESSIONALE
TEAM MULTIPROFESSIONALE
ORGANIZZAZIONE DEGLI ATTORI ASSISTENZIALI
PER LA GESTIONE INTEGRATA DI GRUPPI E DI SINGOLI PAZIENTI
14
MMG
Infermiere
distrettuale
Specialista
distrettuale
Pazienti a rischio
Ospedale
• Azione sulla prevenzione
relativamente a:
- soggetti con rischio
documentabile
- pazienti non ancora
diagnosticati
Figura 14.4 Triangolo di stratificazione del rischio.
prodotti, intermedi e finali, clinici e non, erogati
durante la filiera dell’iter assistenziale.
L’analisi del processo assistenziale, che sta alla base
della costruzione di un percorso assistenziale, permette di individuare gli snodi critici che hanno
effetti significativi sui “prodotti” finali e di identificare le cause e le eventuali pratiche erronee o
da migliorare (malpractice) che stanno alla base
delle criticità rilevate. Questa tecnica analitica
permette di intraprendere azioni mirate di mi-
glioramento. Il percorso assistenziale risulta, pertanto, il metodo migliore:
• per dare evidenza a tutti i “prodotti” dell’assistenza, sia clinici (diagnosi, terapia ecc.), sia
non-clinici (comunicazione della diagnosi,
patto di cura, educazione ecc.);
• per analizzare i processi assistenziali e per rendere misurabili, attraverso specifici indicatori,
i risultati generati.
Alla luce di quanto detto i percorsi assistenziali
189
Ministero della Salute
rappresentano strumenti utili per il concretizzarsi
della gestione integrata e allo stesso tempo risultano indispensabili per costruire un disegno assistenziale adatto alle potenzialità e ai limiti dei
contesti locali, permettendo di inserire, nelle diverse tappe assistenziali, indicatori di verifica specificamente correlati ai contributi dei diversi servizi
e delle differenti figure professionali.
La gestione integrata del diabete di tipo 2
Il modello assistenziale attuale
L’attuale sistema assistenziale in Italia è di tipo
settoriale-specialistico, pertanto ciascun soggetto
erogatore (MMG, specialisti, ospedali ecc.) è qualificato per fornire assistenza con diversi gradi di
complessità clinico-assistenziale.
Per quanto riguarda la domanda di prestazioni, il
paziente accede di propria iniziativa alle prestazioni
di 1° livello (MMG e pediatri di libera scelta) e a
quelle d’emergenza-urgenza mentre, per le prestazioni di livello superiore (prestazioni specialistiche,
degenze ospedaliere, assistenza farmaceutica ecc.),
il MMG è il “gatekeeper” che motiva la loro richiesta in modo relativamente autonomo e indipendente da protocolli diagnostico-terapeutici e
Linee guida condivisi.
La differenziazione
professionale-organizzativa
L’adozione dell’attuale modello è stata giustificata
nel tempo da esigenze di ordine tecnico-scientifico:
la rapida evoluzione delle conoscenze mediche e
l’elevato grado di innovazione tecnologica rendevano
di fatto necessario un processo di specializzazione
delle professionalità sempre più spinto per far fronte
con competenza alle continue esigenze di aggiornamento (differenziazione professionale). Le stesse
190
ragioni possono essere considerate alla base di un
certo grado di differenziazione delle strutture (differenziazione organizzativa) in relazione alla complessità e tipologia della casistica trattata.
Tuttavia, se da un lato un certo grado di differenziazione favorisce l’efficienza tramite l’ottimizzazione tecnico-funzionale, dall’altro produce diversità e frammentazione. L’elevata differenziazione
professionale e organizzativa fa emergere il problema del coordinamento tra operatori, necessario
per produrre un’azione diagnostico-terapeutica
coerente ed efficace nell’interesse esclusivo della
salute del paziente. Inoltre, la scarsa integrazione,
soprattutto informativa, e lo scarso coordinamento
delle risorse possono essere causa di problemi quali
l’aumento delle prestazioni specialistiche e dei ricoveri inappropriati e l’allungamento delle liste
d’attesa a carico dei livelli di assistenza più elevati.
Il ruolo del “paziente”
Vi è un altro aspetto dell’attuale modello assistenziale su cui occorre tuttavia riflettere ed è legato al ruolo del paziente nel percorso di cura. La
pratica medica moderna è strutturata secondo una
gerarchia che vede il medico al vertice della scala,
al di sopra degli altri professionisti della salute, e
il paziente al livello più basso con un atteggiamento sostanzialmente passivo. Nel caso delle persone con malattie croniche è fondamentale introdurre nuove forme di responsabilizzazione e di
coinvolgimento attivo nel processo di cura (patient
empowerment), affinché la persona stessa possa acquisire gli strumenti per autogestirsi e collaborare
in forma proattiva con il proprio medico.
La gestione integrata
La necessità di recuperare spazi di integrazione e
coordinamento nella gestione delle cure e di in-
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
trodurre sistemi di partecipazione attiva del paziente al processo di cura, preservando al tempo
stesso la specializzazione delle risorse professionali
e la sostenibilità economica, ha visto nascere nuovi
modelli assistenziali che, con un termine molto
generale, si può definire di gestione integrata.
Questi modelli si basano su sistemi organizzativi
e tecnologici, conoscenza scientifica, incentivi e
informazione per migliorare la qualità delle cure
e aiutare i pazienti a gestire più efficacemente le
loro condizioni di salute. L’obiettivo è ottenere
un miglioramento dello stato di salute del paziente
e, contemporaneamente, contenere/ottimizzare
l’utilizzo delle risorse umane ed economiche impiegando strategie per modificare i comportamenti
di pazienti e medici, da parte dei quali è spesso
difficile ottenere rispettivamente un’adesione ai
piani di cura e la condivisione e l’utilizzo di Linee
guida per la pratica clinica.
I requisiti minimi per un modello assistenziale di
gestione integrata del DT2 nell’adulto sono stati
definiti nell’ambito del progetto IGEA da un panel multidisciplinare di esperti e di rappresentanti
delle persone con diabete. In particolare sono stati
definiti:
• le modalità organizzative per la gestione integrata del diabete mellito (Tabella 14.2);
• le raccomandazioni, prodotte secondo il metodo GRADE, per migliorare la qualità della
cura delle persone con diabete (Tabella 14.3);
• gli indicatori minimi per il monitoraggio del
processo e degli esiti della cura.
Elementi essenziali dell’assistenza
per le persone con diabete secondo
un modello di gestione integrata
Adozione di un protocollo
diagnostico-terapeutico condiviso
La gestione integrata prevede l’adozione di un
14
protocollo diagnostico-terapeutico condiviso da
tutti i soggetti interessati (MMG, specialisti del
settore, specialisti collaterali delle complicanze,
infermieri, dietisti, podologi, psicologi, assistenti
domiciliari, direzioni delle aziende sanitarie, farmacisti, persone con diabete o rappresentanti
delle associazioni di pazienti). Il protocollo di
cura concordato dovrebbe essere adattato alle
singole realtà attraverso l’individuazione dei compiti e dei ruoli che ciascun operatore sarà chiamato a svolgere nell’ambito del percorso di cura
stabilito.
Formazione degli operatori sulla malattia
diabetica e sulle sue complicanze secondo
un approccio multidisciplinare integrato
Tutti gli operatori devono essere informati e “formati” alla gestione del sistema. Sono auspicabili
un esame dei bisogni formativi del team diabetologico e dei MMG di riferimento e la promozione
di corsi sulla gestione della malattia cronica e sulla
costruzione del team.
Identificazione delle persone con diabete da
avviare a un percorso di gestione integrata
In ragione dello sforzo organizzativo sottostante
l’attuazione del piano di gestione integrata, si può
rendere necessario limitare il numero di persone
inizialmente coinvolte a quelle classi di popolazione che, per diverse ragioni, potrebbero ottenere
significativi benefici da questo modello di assistenza, tenendo presenti considerazioni di tipo
epidemiologico e gestionale.
Adesione informata alla gestione integrata
La gestione integrata prevede un cambiamento
forte delle modalità di cura e di gestione del paziente e, inoltre, la realizzazione di un sistema informativo. È indispensabile, quindi, che tutte le
persone con diabete coinvolte siano adeguata-
191
Ministero della Salute
Tabella 14.2 Modalità organizzative per la gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto
• Il paziente è inviato al centro diabetologico per la valutazione complessiva, l’impostazione terapeutica e l’educazione strutturata
alla gestione della malattia, che comprende la chiara indicazione degli obiettivi da raggiungere, dei mezzi adeguati allo scopo e delle
motivazioni che rendono necessario un follow-up per tutta la vita
• Il paziente viene seguito in modo attivo, secondo una medicina di iniziativa, da parte del proprio MMG, al fine di garantire il raggiungimento e il mantenimento degli obiettivi stabiliti
• Il paziente effettua una visita generale almeno ogni sei mesi presso il MMG
• Il paziente effettua una valutazione complessiva presso la struttura diabetologica almeno una volta l’anno, se l’obiettivo terapeutico
è raggiunto e stabile e non sono presenti gravi complicanze
• Il paziente accede, inoltre, al centro diabetologico per visite non programmate e/o urgenti ogni qual volta, a giudizio del MMG, se
ne presenti la motivata necessità
Compiti del centro diabetologico
• Inquadramento delle persone con diabete neodiagnosticato con formulazione del piano di cura personalizzato e condiviso con i MMG
• Presa in carico, in collaborazione con i MMG, delle persone con diabete
• Gestione clinica diretta, in collaborazione con i MMG e gli altri specialisti, delle persone con: grave instabilità metabolica; complicanze
croniche in fase evolutiva; trattamento mediante infusori sottocutanei continui d’insulina; diabete in gravidanza e diabete gestazionale
• Impostazione della terapia nutrizionale
• Effettuazione, in collaborazione con i MMG, di interventi di educazione sanitaria e counseling delle persone a rischio e delle persone
con diabete, rivolti, in particolare, all’adozione di stili di vita corretti e all’autogestione della malattia
• Valutazione periodica, secondo il piano di cura adottato, dei pazienti diabetici di tipo 2 seguiti con il protocollo di gestione integrata,
finalizzata al buon controllo metabolico e alla diagnosi precoce delle complicanze
• Raccolta dei dati clinici delle persone con diabete in maniera omogenea con il MMG di riferimento, mediante cartelle cliniche preferibilmente in formato elettronico
• Attività di aggiornamento rivolta ai MMG in campo diabetologico
Compiti del medico di medicina generale
• Identificazione della popolazione a rischio aumentato di malattia diabetica fra i propri assistiti
• Diagnosi precoce di malattia diabetica tra i propri assistiti
• Identificazione, fra i propri assistiti, delle donne con diabete gestazionale
• Presa in carico, in collaborazione con i centri diabetologici, dei pazienti e condivisione del piano di cura personalizzato
• Valutazione periodica, mediante l’attuazione di una medicina di iniziativa, dei propri pazienti secondo il piano di cura adottato, finalizzata al buon controllo metabolico e alla diagnosi precoce delle complicanze
• Effettuazione, in collaborazione con il centro diabetologico, di interventi di educazione sanitaria e counseling delle persone a rischio
e delle persone con diabete rivolti, in particolare, all’adozione di stili di vita corretti e all’autogestione della malattia
• Monitoraggio dei comportamenti alimentari secondo il piano di cura personalizzato
• Organizzazione dello studio (accessi, attrezzature, personale) per una gestione ottimale delle persone con diabete
• Raccolta dei dati clinici delle persone con diabete in maniera omogenea con il centro diabetologico di riferimento, mediante cartelle
cliniche preferibilmente in formato elettronico
MMG, medico di medicina generale.
mente informate ed esprimano il loro consenso
alla partecipazione e al trattamento dei dati.
Coinvolgimento attivo delle persone
nel percorso di cura –“patient empowerment”
La persona con diabete è l’elemento centrale di
un sistema di gestione integrata. Si rende necessaria, quindi, la programmazione di attività edu-
192
cativo-formative dirette ai pazienti, sotto forma
di iniziative periodiche di educazione, e di un’assistenza ad personam da parte delle diverse figure
assistenziali.
Il sistema informativo e gli indicatori
Uno dei fondamenti su cui poggia un sistema di
gestione integrata è la realizzazione di un sistema
14
Parte Seconda – Appropriatezza operativa
Tabella 14.3 Raccomandazioni per ridurre l’incidenza delle complicanze negli adulti con diabete mellito di tipo 2, in un modello di gestione integrata della malattia
Raccomandazione
Grading
Forza
Qualità
complessiva
delle prove
Parametri
di monitoraggio
Frequenza di rilevazione
Trattamento intensivo
mirato a ottimizzare
i valori di HbA1c
Raccomandazione Bassa
forte
Misurazione di:
• HbA1c
• microalbuminuria
Ogni 3-4 mesi (semestrale
in presenza di un buon controllo)
Annuale
Riduzione
della colesterolemia
Raccomandazione Moderata
forte
Misurazione di:
• colesterolemia
totale
• colesterolo HDL
• colesterolo LDL
calcolato
• trigliceridemia
Annuale
Riduzione della
pressione arteriosa
Raccomandazione Moderata
forte
Misurazione della
pressione arteriosa
Ogni 3-4 mesi
Esame del fondo oculare
Raccomandazione Molto bassa
forte
Esame del fondo
oculare
Alla diagnosi e almeno ogni
due anni (più frequentemente
in presenza di retinopatia)
Valutazione del piede
ed educazione del paziente
Raccomandazione Molto bassa
forte
Esame obiettivo del
piede e stratificazione
del rischio
Annuale
Misurazione di:
• circonferenza vita
• peso
Semestrale
Modifica degli stili di vita,
Raccomandazione Molto bassa
adozione di un’alimentazione forte
corretta, regolare esercizio
fisico
Nelle persone con diabete sono consigliati, inoltre, un moderato apporto di alcool e la disassuefazione dal fumo
HDL, lipoproteine a elevata densità; LDL, lipoproteine a bassa densità.
informativo idoneo per i processi di identificazione della popolazione target, per la valutazione
di processo e di esito, per svolgere una funzione
proattiva di richiamo dei pazienti all’interno del
processo, per aiutare gli operatori sanitari a condividere, efficacemente e tempestivamente, le informazioni necessarie alla gestione dei pazienti.
Questi elementi devono essere parte di strategie
politiche di comunità (regionali, di ASL/Distretto
ecc.) che facilitino i processi di interazione fra
tutti gli attori coinvolti nei programmi di gestione
integrata. In riferimento alla gestione integrata va
riportato come esempio di modalità operativa interdisciplinare l’accordo tra le Società scientifiche
diabetologiche e la SIMG (vedi il documento
condiviso nell’Allegato).
193
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
15. Situazioni particolari
Emergenze metaboliche acute
Ipoglicemia
Inquadramento
L’ipoglicemia, specialmente nei pazienti trattati
con insulina, rappresenta il principale fattore limitante nella terapia del diabete di tipo 1 (DT1)
e di tipo 2 (DT2).
Vengono definiti tre gradi di ipoglicemia:
• grado lieve, nel quale sono presenti solamente
sintomi neurogenici (come tremori, palpitazione e sudorazione) e l’individuo è in grado
di autogestire il problema;
• grado moderato, nel quale ai sintomi del grado
lieve si aggiungono sintomi neuroglicopenici
(come confusione, debolezza), ma l’individuo
è ancora in grado di autogestire il problema;
• grado grave, nel quale l’individuo presenta uno
stato di coscienza alterato e necessita dell’aiuto
o della cura di terzi per risolvere l’ipoglicemia.
Trattamento
Il glucosio per os (15 g) è il trattamento di scelta
per l’ipoglicemia di grado lieve-moderato, sebbene
qualsiasi forma di carboidrati contenenti glucosio
possa essere utilizzata a tale scopo, in dosi equivalenti; gli effetti del trattamento dovrebbero essere
evidenti entro 15 minuti dall’ingestione. L’effetto
del trattamento sull’ipoglicemia può essere solo
temporaneo. Pertanto, la glicemia deve essere misurata ogni 15 minuti, fino al riscontro di almeno
due valori normali in assenza di ulteriore trattamento tra le due misurazioni.
Il glucosio ev in soluzioni ipertoniche (dal 20% al
33%) è il trattamento di scelta delle ipoglicemie
gravi in presenza di accesso venoso. Qualora questo non sia disponibile, è indicato l’utilizzo di
glucagone per via intramuscolare o sottocutanea.
Il glucagone deve essere disponibile per tutti i pazienti con rischio significativo di ipoglicemia
grave (diabetici in terapia insulinica e non in
buon controllo per l’instabilità delle glicemie o
con episodi di ipoglicemia inavvertita). La somministrazione del glucagone non richiede la presenza di un professionista sanitario. Le strategie
terapeutiche successive all’episodio di ipoglicemia
dovranno essere definite in base alle specifiche
cause dell’evento.
Iperglicemia (chetoacidosi diabetica
e sindrome iperglicemica iperosmolare)
Inquadramento
Le emergenze o crisi iperglicemiche che si possono
manifestare in persone con diabete sono la chetoacidosi diabetica, caratteristica del DT1, e la
sindrome iperglicemica iperosmolare (definita an-
195
Ministero della Salute
che coma o stato iperglicemico iperosmolare nonchetotico) caratteristica del DT2.
Sia la chetoacidosi diabetica sia la sindrome iperglicemica iperosmolare, se non trattate tempestivamente, possono portare a morte del paziente.
Benché normalmente considerate come entità distinte, rappresentano in realtà uno spettro continuo di emergenze cliniche causate dal cattivo controllo del diabete.
In entrambe le crisi iperglicemiche è presente marcata disidratazione fino a oltre 10 litri di deplezione,
con riduzione dei liquidi sia del comparto intracellulare, sia di quello extracellulare vascolare e interstiziale, e alterazioni del sensorio fino al coma.
La chetoacidosi diabetica rappresenta la principale
causa di morte nel diabete infantile, si manifesta
in seguito a carenza assoluta di insulina ed è caratterizzata da iperglicemia (> 250 mg/dl), acidosi
metabolica (pH < 7,3, bicarbonati < 15 mEq/L),
iperchetonemia e chetonuria. Essa può rappresentare la modalità di presentazione clinica del DT1,
oppure manifestarsi in persone con DT1 in seguito
all’interruzione della terapia insulinica per qualunque ragione, o ancora essere precipitata da infezioni, traumi o accidenti cardiovascolari (infarto
del miocardio o ictus cerebrale) intercorrenti.
La sindrome iperglicemica iperosmolare si manifesta in
seguito a carenza di insulina, che tuttavia non è mai
assoluta, ed è caratterizzata da iperglicemia marcata
(> 500 mg/dl) ed elevata osmolarità (> 340 mOm/kg;
valori normali 275-295 mOm/kg); l’acidosi normalmente non è presente o, se presente, è di modesta
entità. La sindrome iperglicemica iperosmolare viene
abitualmente precipitata da un’infezione, accidente
cardiovascolare (infarto del miocardio o ictus cerebrale) o altra malattia acuta intercorrente.
Trattamento
La chetoacidosi diabetica e la sindrome iperglicemica iperosmolare sono condizioni di emergenza
196
da trattare, se possibile, in ambiente ospedaliero
con la possibilità di accesso agli esami di laboratorio
e monitoraggio dei parametri vitali. La mortalità
associata a queste condizioni è ancora significativa.
Gli obiettivi della terapia delle crisi iperglicemiche
comprendono la correzione della disidratazione,
dell’iperglicemia e degli squilibri elettroliti associati, l’identificazione e il trattamento delle possibili condizioni precipitanti e, infine, l’attento
monitoraggio del paziente.
La correzione della marcata disidratazione avviene
attraverso la rapida infusione di liquidi per via endovenosa (ev): normalmente si utilizza infusione
di soluzione fisiologica nella misura di almeno 1
litro durante la prima ora e 250-500 ml/ora durante le ore successive.
La correzione dell’iperglicemia avviene mediante
somministrazione di insulina ev continua a basse
dosi, normalmente circa 0,1-0,15 UI/kg/ora, fino
alla discesa dei valori di glicemia a circa 200 mg/dl;
proposta, ma non da tutti condivisa, l’utilità di
un bolo iniziale di insulina alla dose di 0,1 UI/kg.
Gli squilibri elettrolitici associati sono rappresentati
soprattutto dal potassio, frequentemente elevato
in associazione all’iperglicemia, ma che tende a ridursi in corso di infusione di insulina, pertanto
spesso si rende necessaria la supplementazione nelle
infusioni in corso. La correzione dell’iperglicemia
deve avvenire gradualmente, nell’arco di alcune
ore, per evitare variazioni acute degli elettroliti e
scongiurare il rischio di edema cerebrale, complicanza caratteristica dell’età pediatrica, spesso fatale.
La somministrazione di bicarbonati è controindicata nella chetoacidosi diabetica per possibile accentuazione dell’acidosi cerebrale con conseguente
rischio di depressione cerebrale: l’impiego dei bicarbonati viene consigliato soltanto in presenza di
pH < 7,0, nella misura indispensabile a riportare il
pH al di sopra di questa soglia. L’acidosi metabolica
viene corretta dalla terapia insulinica attraverso
Parte Seconda – Situazioni particolari
l’inibizione della formazione di corpi chetonici.
Contemporaneamente al trattamento dell’emergenza iperglicemica, occorre trattare la condizione
soggiacente (infezione, accidente cardiovascolare,
malattia intercorrente) ove presente.
I pazienti con chetoacidosi diabetica o sindrome
iperglicemica iperosmolare devono essere trattati
con insulina ev fino alla risoluzione della crisi iperglicemica. I criteri per definire risolta la chetoacidosi diabetica comprendono: glicemia < 200
mg/dl, bicarbonati ≥ 15 mEq/L, pH > 7,3; quelli
per definire risolta la sindrome iperglicemica iperosmolare comprendono la normalizzazione dell’osmolarità e il recupero di un normale stato mentale. Risolta la crisi iperglicemica, la terapia insulinica deve essere proseguita per via sottocutanea.
Il paziente pediatrico
Gestione del passaggio dalla diabetologia
pediatrica alla diabetologia dell’adulto
Ai sensi della Convenzione di New York sui Diritti
del Fanciullo (Legge n. 176 del 27 maggio 1991)
si intende per fanciullo ogni essere umano avente
un’età inferiore a 18 anni. Ai minori, sempre secondo la Convenzione, deve essere garantito il
diritto di avere accesso a servizi medici e di riabilitazione a loro dedicati.
Nel nostro Paese, considerata la diffusione sul territorio nazionale e il livello di qualificazione uniformemente raggiunto dalle Strutture Pediatriche
di Diabetologia individuate a livello regionale in
conformità con quanto riportato nelle Linee guida
della SIEDP (Società Italiana di Endocrinologia
e Diabetologia Pediatrica) e dell’ISPAD (International Society for Pediatric and Adolescent Diabetes),
è possibile garantire tale diritto ai bambini e agli
adolescenti affetti da DT1.
In età pediatrica, l’educazione terapeutica svolta
15
durante le visite di controllo, durante gli incontri
di gruppo o i campi-scuola e il lavoro sull’empowerment devono tenere conto delle capacità cognitive e di apprendimento caratteristiche di ogni
età, utilizzando strumenti pedagogici e linguaggi
calibrati all’età del paziente (giochi, tecniche di
apprendimento attive ecc.). È evidente che il paziente in età evolutiva può trovare una risposta
alle esigenze soprariportate se affidato a un’equipe
multiprofessionale con formazione pediatrica.
La fase di transizione tra l’infanzia e l’età adulta,
che include le variazioni biologiche della pubertà,
pone particolari problemi alla persona con DT1
e al “team” di diabetologia pediatrica.
Sebbene la maggior parte degli adolescenti si adatti
bene alle difficili sfide della pubertà, si deve riconoscere che l’assistenza ai teen-agers e le loro caratteristiche emozionali sono molto diverse da
quelle dei bambini e degli adulti e richiedono,
quindi, competenze diverse.
La terapia farmacologica e la necessità di un’adeguata nutrizione sono nell’adolescente con DT1
in parte simili a quelle dell’adulto affetto da DT1,
mentre esistono importanti differenze in termini
fisiologici, sociali ed emozionali. In questa delicata
fase l’adolescente deve rispondere a richieste interne (costruzione di una propria identità, volontà
di differenziarsi dal ragazzo che è stato in passato
e dai modelli adulto-genitoriali) ed esterne (nuove
amicizie e relazioni, la scuola, i pari età e la forza
di omogeneizzazione al gruppo di riferimento);
non sempre la condizione diabete trova una giusta
collocazione nella vita del ragazzo, rischiando di
essere dimenticata, negata, odiata e combattuta
senza armi adeguate. La motivazione alla cura e a
uno stile di vita corretto diminuisce o si altera,
mentre, contemporaneamente, l’adolescente diventa per la prima volta l’interlocutore privilegiato
al momento delle visite al centro diabetologico.
Tuttavia, sebbene nella maggior parte dei casi egli
197
Ministero della Salute
abbia raggiunto l’autonomia gestionale, raramente
ha assunto vera consapevolezza e responsabilità nei
confronti della sua malattia, dal momento che risulta
anche difficile una rappresentazione futura di sé.
All’equipe in questa fase è richiesto un lavoro particolare sulla motivazione alla compliance e alla
collaborazione, lavoro che tenga conto delle ambivalenze tipiche dell’età, di una quota di “aggressività” nei confronti dei curanti e di quella parte
di sé legata alla malattia.
Il sostegno al cambiamento nella cura e nelle abitudini non può disgiungersi, allora, da un ascolto
attivo e da un’attività costante di counseling adolescenziale, che dovrà occuparsi, per esempio, di
tematiche quali i disturbi alimentari, le implicazioni relazionali e sessuali del diabete, fino a un
eventuale discorso sulle complicanze, troppo
spesso rimandato il più a lungo possibile.
La competenza del pediatra diabetologo termina
quando si è completato lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del paziente. Alla fine del percorso
di maturazione si rende necessario il passaggio di
competenze tra i medici che si fanno carico della
presa in cura del giovane, da servizi con particolari
competenze auxologiche, nutrizionali e relazionali
a servizi più vicini alle problematiche dell’inserimento nel mondo del lavoro, alla maternità/paternità, alle complicanze tardive ecc. È necessario
che il passaggio al centro dell’adulto sia preparato,
motivato, condiviso e accompagnato, nella consapevolezza che l’educazione all’autonomia, parte
integrante della cura, va intesa anche come educazione alla non dipendenza da un centro, da
un’equipe, da un medico.
Necessità del passaggio:
facilitare il cambiamento
Il passaggio dal centro pediatrico al centro dell’adulto deve essere un processo e non un evento cri-
198
tico nella vita degli adolescenti con patologia cronica.
Il paziente deve essere aiutato nel corso degli anni
di visite presso il centro pediatrico ad acquisire la
consapevolezza che il passaggio è davvero necessario
e che lo aiuterà a essere seguito nei modi e nelle
maniere adeguate alle sue mutate esigenze, alle quali
il centro pediatrico non può più rispondere nel migliore dei modi. Questo processo deve essere realizzato costruendo gradualmente, sin dalle prime fasi
dopo la diagnosi, con la famiglia e, quando l’età lo
consente, con il giovane stesso un clima di comunicazione e collaborazione aperte e adeguate.
A tal fine è necessario concordare un’età entro la
quale effettuare il passaggio. L’età dei 18 anni,
che rappresenta per definizione (vedi Legge n.
176 del 27 maggio 1991) il limite dell’età pediatrica, potrebbe costituire il limite entro il quale
effettuare il passaggio.
Quando il team pediatrico giunge alla conclusione
che lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del
paziente si sono completati e che anche l’educazione terapeutica è stata completata (verosimilmente intorno ai 18 anni), il primo passo consiste
nel concludere una normale visita accennando
alla possibilità del futuro trasferimento al centro
dell’adulto, senza dare l’idea che si tratti di qualcosa di inevitabile o scontato, per evitare che il
paziente si senta abbandonato, “scaricato”.
Non bisogna forzare i tempi: il passaggio deve avvenire solo quando è stata accertata la completa
disponibilità del paziente. Il trasferimento dovrà
avvenire in modo graduale, in maniera non traumatica e tenendo conto delle realtà locali.
È indispensabile disegnare, pertanto, un percorso
di transizione personalizzabile da soggetto a soggetto e adattabile alle varie realtà locali, tenendo
come riferimento, condiviso dalle Società scientifiche, il modello proposto nel presente documento. Perché la transizione, intesa come processo
e non come evento, sia efficace occorre che:
Parte Seconda – Situazioni particolari
• la famiglia, il giovane adulto e i medici siano
o siano stati orientati al futuro;
• la progettazione della transizione sia stata comunicata molto in anticipo;
• si inizi presto a trasferire la gestione di cura
dal genitore al giovane paziente (adulto);
• la famiglia e i medici aiutino il giovane paziente
a sviluppare indipendenza;
• i giovani siano coinvolti;
• si realizzi un piano di transizione scritto;
• il processo sia “complesso e dinamico”.
È indispensabile la comunicazione efficace tra il
personale della diabetologia pediatrica e il personale della diabetologia dell’adulto, così da costituire un “team di transizione”.
Il “team di transizione” ha il compito non solo di
svolgere un ruolo di riferimento preciso per i singoli
pazienti in “passaggio”, provenienti dal centro pediatrico, e per le loro famiglie, ma anche di discutere
la situazione globale, i potenziali passaggi e i risultati
dei precedenti passaggi. I “campi scuola”, dedicati
specificamente ai giovani adulti, con la presenza
contemporanea di personale delle strutture pediatriche e per adulti, possono rappresentare un’occasione per facilitare il percorso di transizione.
Perché il rapporto fra diabetologia pediatrica e
diabetologia dell’adulto si sviluppi, i centri dell’adulto devono adeguare la loro organizzazione
alle esigenze dei giovani adulti che sono stati in
cura presso un centro pediatrico. È inoltre indispensabile ottenere un feedback dai pazienti che
hanno recentemente affrontato la transizione.
Le modalità del passaggio
Accennare
Se il team di transizione ritiene che lo sviluppo
fisico, lo sviluppo psicologico e quello sociale del
paziente si siano completati e che anche l’educazione terapeutica sia stata completata, si potrà
15
dare inizio con gradualità alla fase di distacco.
Nel corso di una visita usuale il pediatra invita il
paziente ed eventualmente la sua famiglia a riflettere sulla possibilità di un trasferimento al centro
dell’adulto, evidenziando i vantaggi che questa
scelta comporta per il paziente e spiegando che
questa è un’opportunità offerta a tutti i ragazzi di
una determinata età.
Spiegare
La visita successiva sarà in buona parte dedicata
ad affrontare le ansie e le remore del paziente,
spiegando nel dettaglio le ragioni che consigliano
il passaggio e le modalità con cui questo avverrà.
Si devono specificate anche le modalità con cui il
paziente può rimanere in contatto con il servizio
pediatrico.
Condividere
Ogni team pediatrico dovrebbe creare legami stabili con una o più strutture dedicate alla cura dell’adulto, cercando di affidare i pazienti a un medico specifico al loro interno e promuovendo riunioni di coordinamento.
Informare
Il team pediatrico preparerà la scheda clinica con
informazioni utili (anagrafica con anamnesi personale e familiare, caratteristiche dell’esordio, iter
dello schema terapeutico, attuale terapia, alimentazione, complicanze, grado di educazione, compliance su autocontrollo e autogestione).
Il team dell’adulto dovrà consegnare al giovane
paziente, come presentazione del futuro centro
di riferimento, la Carta dei Servizi del centro per
adulti con dettagliato profilo organizzativo.
Cooperare
In caso di problematicità, il diabetologo dell’adulto potrà invitare il pediatra di riferimento a
199
Ministero della Salute
presenziare anche a successivi incontri. È necessario assicurarsi che non vi sia alcuna soluzione
di continuità nell’assistenza e che il giovane non
sia perso al follow-up.
Da parte del pediatra, prima del passaggio
al centro dell’adulto
Se si dispone di un servizio di psicologia, prima
del passaggio si devono sottoporre i ragazzi ad alcune valutazioni, utilizzando:
• Questionario per “Anamnesi psicosociale” (vedi
Appendice 5, Paragrafo A);
• Questionario per “Valutazione del passaggio”,
distinto per ragazzi/ragazze (vedi Appendice
5, Paragrafi B, C e D);
• Test delle Relazioni Interpersonali (TRI) [9/19
anni], che valuta l’adeguatezza delle relazioni
interpersonali nell’ambito sociale (coetanei) e
familiare (genitori);
• Profile of Mood States (POMS) [adolescenti/
adulti], studio delle emozioni: ansia, depressione,
aggressività, vigore, stanchezza e confusione.
Se non si dispone di un servizio di psicologia, potrà essere il medico del servizio di diabetologia
pediatrica a eseguire la valutazione, utilizzando:
Box 15.1 Schema di protocollo di transizione
I - Presso il servizio di diabetologia pediatrica
Presso il servizio di diabetologia pediatrica sarà programmata la prima visita del ragazzo/a con DT1 alla
presenza del personale della diabetologia pediatrica e del personale della diabetologia dell’adulto
(team di transizione) in spazi/ore/giorni dedicati.
Presentazione da parte del team di transizione della diabetologia pediatrica (TtDP) al team di diabetologia dell’adulto (TtDA) del ragazzo/a con diabete e della famiglia: il TtDP consegna al TtDA la scheda
clinica dettagliata con informazioni utili (anagrafica con anamnesi personale e familiare, caratteristiche
dell’esordio, iter dello schema terapeutico, attuale terapia, alimentazione, complicanze, grado di educazione, compliance su autocontrollo e autogestione), situazione caratteriale-psicologica-familiare (vedi
Appendice 5 paragrafo A).
Presentazione da parte del team di transizione della diabetologia dell’adulto (TtDA) del proprio centro
e del progetto assistenziale (PA): il TtDA consegna al/alla ragazzo/a, come presentazione del futuro
centro di riferimento, la Carta dei Servizi del centro per adulti con dettagliato profilo organizzativo.
Sarà discusso il progetto assistenziale, da rimodellare in base alle esigenze del/della ragazzo/a, della famiglia e del team di transizione della diabetologia pediatrica (TtDP).
II - Presso il servizio di diabetologia dell’adulto
Presso il servizio di diabetologia dell’adulto sarà programmata la seconda visita del/della ragazzo/a con
diabete alla presenza del personale della diabetologia pediatrica e del personale della diabetologia
dell’adulto (team di transizione) in spazi/ore/giorni dedicati.
Presentazione da parte del team di transizione della diabetologia dell’adulto (TtDA) del proprio centro
e avvio del progetto assistenziale (PA):
• continua il follow-up presso il servizio di diabetologia dell’adulto;
• nel corso dei primi 6 mesi sono necessari contatti telefonici fra i 2 team di transizione (TtDA e TtDP)
in caso di problemi particolari; sono obbligatori nel caso il/la ragazzo/a contattasse il team pediatrico.
Al termine del 1° anno:
• scheda del follow-up compilata dal team di transizione della diabetologia dell’adulto;
• questionario di gradimento compilato da parte del/della ragazzo/a.
• confronto fra i 2 team di transizione (TtDA e TtDP) per una verifica congiunta.
200
Parte Seconda – Situazioni particolari
• Questionario per “Anamnesi psicosociale” (vedi
Appendice 5, Paragrafo A);
• Questionario per “Valutazione del passaggio”,
distinto per ragazzi/ragazze (vedi Appendice
5, Paragrafi B, C e D).
I questionari saranno anonimi per garantire la
massima autonomia del paziente nelle risposte.
Si utilizzerà un numero di codice.
Gestione del diabete di tipo 1 a scuola
Numerosi sono i bambini con DT1 che trascorrono molte ore della giornata in ambiente scolastico, spesso trattenendosi anche per il pranzo. È
quindi importante assicurare una corretta gestione
del bambino e dell’adolescente con DT1 nella
scuola. Gli insegnanti devono essere informati sul
DT1 e sulle particolari esigenze del controllo metabolico, della terapia e di alcune condizioni metaboliche.
L’assistenza del bambino con DT1 a scuola:
proposta di modello assistenziale
I bambini con DT1 richiedono particolare attenzione, specialmente quando sono molto giovani.
Se il bambino ha già manifestato da tempo il diabete e deve iniziare il primo anno di scuola, o se
il bambino ha da poco presentato l’esordio del
diabete, è importante che i genitori, prima che il
bambino inizi la scuola o riprenda a frequentare
la scuola, seguano i seguenti suggerimenti.
• Fissare, almeno una settimana prima dell’inizio
della frequenza scolastica, un appuntamento
con gli insegnanti del bambino, con il direttore
della scuola e il medico scolastico, se presente.
Durante l’incontro si comunicherà che il bambino è affetto da DT1, che richiede terapia con
insulina somministrata sc. I genitori devono
illustrare la situazione e riferire che il bambino
15
con diabete e la sua famiglia sono stati educati
all’autocontrollo della glicemia e della glicosuria, alla somministrazione sottocutanea di insulina, a seguire un’alimentazione equilibrata,
a svolgere un’attività fisica regolare e adeguata
e a controllare e risolvere le varie evenienze legate al diabete. Inoltre, si farà presente che il
bambino dovrà eseguire alcuni controlli sul
sangue e si chiederà dove il bambino potrà eseguirli. In alcune scuole sarà a disposizione l’infermeria, in altre saranno a disposizione stanze
che devono essere adeguate. Deve essere garantito che il tutto avvenga nelle migliori condizioni igieniche. Il bambino deve partecipare a
tutte le attività scolastiche e non deve essere
trattato in maniera diversa dagli altri compagni.
Si consiglia di consegnare agli insegnati i libretti
sul diabete che i centri di diabetologia pediatrica
distribuiscono gratuitamente.
• Informare che il bambino dovrà fare una piccola merenda a metà mattina e a metà pomeriggio. Raccomandare che, se il bambino
chiede di mangiare qualcosa, è sempre meglio
assecondarlo, soprattutto quando deve iniziare
un’attività fisica o subito dopo, per evitare crisi
di ipoglicemia.
• Chiedere l’ora esatta del pranzo, se il bambino
si ferma a pranzo, in modo che si possa programmare la terapia insulinica secondo gli orari
prestabiliti. In alcune scuole i bambini pranzano
alle 12, in altre alle 13. È quindi importante
conoscere l’orario preciso per calcolare quando
fare l’insulina e lo spuntino del mattino.
• Informare gli insegnanti su quali sono i sintomi
dell’ipoglicemia. Anche se ogni bambino può
avere comportamenti diversi, si consiglia di
consegnare una breve guida sui comportamenti
da tenere in questi casi. Di solito il bambino
avrà sempre a disposizione dello zucchero o
delle caramelle e uno snack per i casi di neces-
201
Ministero della Salute
sità. Segnalare che se il bambino dà qualche
manifestazione di ipoglicemia non deve essere
lasciato solo e, se non possono accompagnarlo
direttamente, fare in modo che ci sia qualcuno
con lui; fare altrettanto se il bambino chiede
di allontanarsi per controllare la glicemia.
• Incontrare tutti gli insegnanti del bambino
compresi l’insegnante di religione, quello di
ginnastica, di educazione artistica ecc. Comunicare anche a loro che il bambino ha il diabete
e fare presente che il bambino non deve essere
lasciato solo in caso di sospetta ipoglicemia.
Inoltre, raccomandare all’insegnante di ginnastica che il bambino non svolga attività fisica
se la glicemia è uguale o inferiore a 80 mg/dl
(rischio di crisi ipoglicemica) o superiore a 200
mg/dl (glicemia elevata, il che significa insufficienza insulinica) e in tal caso l’esercizio fisico
può causare problemi al bambino che, non
potendo utilizzare gli zuccheri, dovrà usare le
riserve di grasso per produrre l’energia necessaria, con conseguente chetonuria.
Il personale docente e non docente della scuola
deve conoscere e avere acquisito le nozioni di base
relative al diabete e al suo trattamento, deve ricevere
dai genitori del bambino con diabete le informazioni su quanto il bambino deve eseguire durante
l’orario scolastico, per far fronte al controllo e alla
cura del diabete. In ogni caso, un medico del centro
di diabetologia pediatrica sarà disponibile come
punto di riferimento degli insegnanti anche per
l’educazione sanitaria; con poche nozioni si può
infatti provvedere alle esigenze del bambino con
diabete e accorgersi se ha bisogno di qualcosa, se è
in prossimità di una crisi ipoglicemica, come intervenire al fine di consentire allo scolaro di vivere
serenamente e con sicurezza la scuola.
Obiettivo primario da perseguire è la sicurezza del
bambino in ambito scolastico, in particolare per
quanto riguarda la somministrazione della terapia
202
e la gestione di eventuali emergenze metaboliche
(es. l’ipoglicemia). A cura delle strutture pediatriche
di diabetologia saranno predisposti, e condivisi
con gli operatori scolastici, momenti formativi dedicati e specifici protocolli di intervento.
Altro aspetto importante è rappresentato dalla normale partecipazione del bambino alla mensa scolastica, per la quale le strutture pediatriche di diabetologia offriranno la consulenza dietetica in linea con
le raccomandazioni nutrizionali per fasce di età. I
due momenti contribuiranno in maniera determinante alla piena integrazione del bambino nel suo
ambito relazionale. È indispensabile non discriminare
i bambini e gli adolescenti con diabete, evitando atteggiamenti negativi, di pietismo, di diffidenza o di
paura nell’assumersi determinate responsabilità. È
quindi importante che gli insegnanti siano informati
se un alunno è affetto da diabete, soprattutto quando
frequenta le elementari o le medie.
Vi è la necessità di una rete efficiente e integrata
sul caso, rappresentata da:
• genitori;
• assistenza infermieristica;
• Centro Regionale di diabetologia pediatrica;
• pediatri di libera scelta;
• MPCEE (Medicina Preventiva di Comunità
dell’Età Evolutiva) [ex Medicina Scolastica].
Inoltre, deve essere garantita la disponibilità del
centro di diabetologia pediatrica di riferimento
per consulenze anche in urgenza.
Ipoglicemia
La glicemia può ridursi eccessivamente per: dose
di insulina troppo elevata, aumento dell’attività
fisica, minore apporto alimentare. Quando la glicemia è troppo bassa, l’organismo sente la carenza
di zucchero e manda segnali di allarme che costringono il bambino a risparmiare energia e a
rimpiazzare le perdite mangiando.
Parte Seconda – Situazioni particolari
15
I segnali di allarme più frequenti sono: fame eccessiva, sudorazione, pallore, mal di testa, vertigini,
nervosismo, tremore, vista annebbiata, irritabilità,
pianto o riso, confusione, difficoltà di concentrazione, torpore o affaticamento, difficoltà di coordinazione, grafica disordinata, formicolio alle labbra (vedi Appendice 6).
Al primo segnale di uno di questi sintomi si deve
somministrare immediatamente dello zucchero:
zucchero (4 zollette o 2 cucchiaini da tè colmi) o
succo di frutta (1 bicchiere) o aranciata o cola (1
bicchiere). Dopo che il bambino si è ripreso, prima
di riprendere le attività scolastiche è bene dargli
da mangiare mezzo panino o qualche biscotto
(vedi Appendice 6).
Se il bambino dovesse aver perso coscienza, è possibile somministrargli per via intramuscolare una
fiala di glucagone. Se non è possibile somministrare il glucagone, è bene chiamare subito il 118
(vedi Appendice 6).
In ogni caso i genitori dovranno essere avvertiti
dell’accaduto.
tualmente è necessario che mangi cinque volte al
giorno (colazione, pranzo, cena, spuntini a metà
mattinata e metà pomeriggio), rispettando precisi
orari. Questa suddivisione è necessaria per distribuire
equamente gli zuccheri della dieta in tutte le ore
della giornata. È opportuno che la dietista che segue
il bambino esamini il menù scolastico e consigli, se
necessario, le opportune correzioni. Qualora ci fosse
più di un turno per accedere alla mensa, è consigliabile che il bambino sia assegnato al primo turno.
Iperglicemia
Abitualmente le iniezioni sono fatte dai genitori o
dal bambino a casa, ma, quando necessario, si deve
permettere loro di eseguirle a scuola in un luogo
appartato e seguendo le comuni norme igieniche.
Determinazione della glicemia
e della glicosuria
Per capire meglio l’andamento del diabete nel
corso della giornata è necessario che il bambino
esegua periodiche determinazioni di glicemia e
glicosuria. Di solito questi esami vengono fatti a
casa, ma, quando necessario, si deve permettere
al bambino o ai genitori di eseguirli anche a scuola.
Esecuzione dell’iniezione di insulina
La glicemia può innalzarsi per una riduzione della
dose d’insulina o dell’attività fisica, oppure a causa
di un eccesso di alimenti contenenti zuccheri nella
dieta. Le conseguenze immediate sono il bisogno
di urinare frequentemente, per eliminare lo zucchero passato in vescica, e di bere spesso per rimpiazzare le perdite di acqua. Allo studente deve
essere quindi permesso di andare al bagno e di
bere secondo i suoi bisogni. In ogni caso i genitori
dovranno essere avvertiti dell’accaduto.
L’insegnante di educazione fisica dovrebbe sempre
coinvolgere il bambino nell’attività sportiva, preferendo sport di squadra quali calcio, pallavolo, pallacanestro. Sarebbe opportuno che l’ora di ginnastica
non fosse subito prima o subito dopo il pranzo.
Alimentazione
Il piede diabetico
Il bambino con DT1 segue un’alimentazione equilibrata concordata con il medico e il dietista. Abi-
Il termine “piede diabetico” indica una patologia
che può svilupparsi nei pazienti affetti da diabete
Attività fisica
203
Ministero della Salute
mellito ed è caratterizzata da differenti componenti
fisiopatologici, quali la polineuropatia periferica,
l’arteriopatia periferica e le infezioni. Questi differenti fattori eziologici possono agire singolarmente
o più frequentemente coesistere. L’incremento dell’aspettativa di vita nella popolazione generale e in
particolare nei pazienti diabetici ha aumentato l’incidenza e la prevalenza delle complicanze croniche,
con un aumento esponenziale della patologia macrovascolare e delle sue complicanze come l’insufficienza vascolare degli arti periferici e il “piede diabetico”, che è causato da una complicanza sia vascolare sia neuronale. Il “piede diabetico” è la complicanza tardiva del diabete mellito con più rilevante
peso sociale ed economico, poiché è causa di lunghi
periodi di cure ambulatoriali, di prolungati e ripetuti ricoveri ospedalieri e d’amputazioni, essendo
il piede diabetico la causa più frequente di amputazione non traumatica degli arti inferiori. Differenti studi epidemiologici sulla prevalenza delle
amputazioni per patologia ischemica degli arti inferiori hanno confermato l’entità di questa complicanza. Nei cinque anni di osservazione del Basel
Study sono state eseguite amputazioni maggiori nel
6,8% dei pazienti diabetici, rispetto allo 0,6% fra i
soggetti non diabetici. Nei dati ottenuti dal Danish
Amputation Register è stato riportato che, in una
popolazione di cinque milioni di persone, la prevalenza delle amputazioni è di circa il 3% nei diabetici rispetto allo 0,28% nei soggetti non diabetici.
Negli Stati Uniti le amputazioni per cause ischemiche sono circa 200 per milione di abitanti per
anno tra i non diabetici, circa 3900 per milione
per anno tra i diabetici. Tra il 1986 e il 1990 il
50% circa delle amputazioni non traumatiche degli
arti inferiori è stato eseguito su pazienti diabetici.
Il piede diabetico, ovvero quel quadro di lesioni
neuropatiche e vascolari che porta allo sviluppo di
lesioni trofiche delle estremità inferiori, rappresenta
anche in Italia una rilevante causa di morbilità che
204
porta al ricovero dei pazienti diabetici. Dati epidemiologici di amputazione degli arti inferiori indicherebbero che in Italia il diabete è la prima causa
di amputazione non traumatica degli arti inferiori
nella popolazione, arrivando al 56% di tutte le
cause di patologia. L’incidenza di amputazione
maggiore desunta dall’analisi delle dimissioni ospedaliere varia tra i 15 e i 22 casi ogni 10.000 pazienti
diabetici; nelle casistiche dei servizi di diabetologia
la prevalenza di amputazioni è dell’1% negli uomini
e dello 0,4% nelle donne. Rappresenta la prima
causa di amputazione non traumatica degli arti ed
è un frequente motivo di ricovero in ospedale per
il paziente diabetico.
Clinica
Il piede diabetico può essere definito come una
patologia caratterizzata dalla presenza di un’ulcerazione o da distruzione dei tessuti profondi che si
associa ad anomalie neurologiche e a differenti
gradi di vasculopatia periferica. La diagnosi e il
trattamento delle ulcere infette del piede diabetico
è problematica. È stato recentemente enfatizzato
nelle Linee guida del “Diabetic Foot Infection (DFI)”
che i criteri diagnostici dovrebbero essere fondati
su segni e sintomi clinici, ma le manifestazioni
principali dell’infiammazione possono essere mitigate dalle complicanze diabetiche con particolare
riferimento alla neuropatia e all’ischemia diabetica.
Differentemente, le culture batteriche effettuate
sui frammenti di ferita e i successivi riscontri d’infezione possono solamente suggerire, ma non provare, la presenza dell’infezione, poiché tutte le ferite
croniche aperte sono ricoperte da una flora batterica
residente o di colonizzazione. L’appropriato trattamento antibiotico richiede la realizzazione di test
di sensibilità antibiotica che devono essere effettuati
su culture ottenute da frammenti della ferita. La
possibilità che vi siano dei casi di falsi positivi è
Parte Seconda – Situazioni particolari
molto alta se non vengono utilizzate procedure
molto rigide e validate per la diagnosi dell’infezione
del piede diabetico. L’ischemia, la neuropatia e le
infezioni sono le tre componenti patologiche che
portano alle complicanze del piede diabetico e possono essere considerate come la triade eziologica.
Il principio più importante nel trattamento dell’ischemia nel piede diabetico è la consapevolezza
che l’eziologia della lesione ischemica è causata da
un’occlusione a carico dei grandi vasi, cioè macrovascolare delle arterie delle gambe per la presenza
di una placca aterosclerotica che genera l’insufficienza vascolare degli arti inferiori. Questa è una
delle caratteristiche della sindrome aterosclerotica
nel diabete mellito. In passato i medici credevano
che il problema vascolare del piede diabetico fosse
caratterizzato da “una malattia dei piccoli vasi” o
occlusione microvascolare delle arteriole, con la
convinzione errata che i pazienti con diabete e ferite
ulcerative al piede necessitavano assolutamente
dell’amputazione del piede stesso; questo concetto
era nato dai dati di un singolo studio istologico in
cui si dimostrava che materiale positivo alla colorazione con acido di Schiff occludeva le arteriole.
È tuttavia ormai ampiamente documentato e riconosciuto che i pazienti diabetici con patologia del
piede hanno una caratteristica malattia vascolare
occlusiva dell’arteria poplitea e/o peritoneale con
relativo interessamento delle arterie del piede e
l’ischemia è il risultato della malattia aterosclerotica
macrovascolare.
La neuropatia diabetica ha manifestazioni multiple
nel piede e comprende le fibre sensorie, motorie
e autonomiche e l’esatta patogenesi della neuropatia diabetica non è stata ancora chiarita. Vi sono
alcune ipotesi che sottolineano l’importanza della
compromissione dei vasi nervorum, o le alterazione del metabolismo. La teoria vascolare si correla all’ispessimento dei piccoli vasi nutrienti delle
fibre nervose, che possono essere successivamente
15
occlusi con la progressione della malattia e portare
a un insulto ischemico del nervo. Una seconda
teoria associa il danno neuronale a un’aumentata
produzione di polioli e nello specifico di sorbitolo.
Un eccesso di sorbitolo può avere differenti effetti
tossici, risultando nella demielinizzazione e nell’alterata velocità della conduzione dei nervi periferici. La neuropatia sensoriale colpisce le fibre di
piccolo diametro che percepiscono il dolore e la
temperatura. Questo favorisce la suscettibilità all’insulto, poiché questi pazienti sono meno sensibili ai traumi associati alla pressione, o ad altri
piccoli insulti della pelle. La neuropatia motoria
colpisce le fibre lunghe che innervano il piede,
colpendo i muscoli intrinseci del piede e i muscoli
della gamba. La neuropatia autonomica causa una
secchezza della pelle con la perdita della sudorazione e della secrezione del sebo da parte delle
ghiandole sebacee. La pelle secca porta a un incremento della suscettibilità alla rottura e alla fessurazione (che creano una porta per l’ingresso dei
batteri), nondimeno la neuropatia risulta in una
serie di cambiamenti strutturali prevedibili del
piede che predispone all’ulcerazione.
Le manifestazioni cliniche della malattia delle arterie periferiche (peripheral artery disease, PAD)
comprendono la “claudicatio intermittens”, il dolore a riposo e le ulcere con o senza gangrena. Il
paziente diabetico può esibire questi specifici sintomi, ma più spesso si presenta con una ferita che
non riesce a guarire o con un dolore a uno specifico punto del piede come callo, o punto di pressione, o presenza di altre prominenze ossee. Quantunque il diabete da solo aumenta la prevalenza
di una PAD sintomatica di 3,5 volte negli uomini
e di 8,6 volte nelle donne; il rischio maggiore attribuito ai pazienti diabetici è in relazione all’amputazione non traumatica, che aumenta di circa
8 volte in tutti i pazienti con un’età superiore a
45 anni, di 12 volte in pazienti di età superiore a
205
Ministero della Salute
65 anni e 23 volte per quelli con un’età compresa
fra 65 e 74 anni. Un accurato esame clinico delle
ulcere del piede è necessario per valutare la profondità e l’estensione dell’area interessata, la localizzazione anatomica, l’eziologia e la presenza di
ischemia e/o di infezioni. Per la valutazione della
gravità dell’ulcera si può utilizzare il sistema elaborato presso l’Università del Texas in cui si valutano sia le caratteristiche locali della lesione, sia i
fattori maggiormente condizionanti l’evoluzione
delle lesioni stesse (Tabella 15.1).
Sono comunque presenti differenti sistemi di classificazione che possono essere utilizzati per la valutazione dell’ulcera del piede diabetico. È importante ricordare che l’inquadramento, la misurazione e la stadiazione delle lesioni sono indispensabili per garantire un approccio scientificamente corretto e orientare successivamente la terapia e il monitoraggio della lesione stessa nel
tempo. Le ulcere possono anche definirsi come
neuropatiche, ischemiche, neuroischemiche, tutte
con possibile sovrapposizione infettiva. Le lesioni
preulcerative sono rappresentate dall’ipercheratosi,
dalle onicodistrofie, dall’ipotrofia cutanea, dalla
disidrosi cutanea. Le lesioni postulcerative sono
le cicatrici e le lesioni cosiddette di trasferimento,
secondarie alle modificazioni della struttura del
piede indotte dagli interventi terapeutici. La stadiazione delle lesioni del piede non è semplice sia
per le peculiarità anatomiche locali sia per la complessa patogenesi multifattoriale e sono state proposte differenti classificazioni per la stadiazione
delle ulcere cutanee. La classificazione maggiormente utilizzata è quella di Wagner, che consiste
in 6 differenti classi di stadiazione della malattia
del piede diabetico (Tabella 15.2).
L’incidenza e la prevalenza delle complicazioni del
piede nei pazienti diabetici sono le seguenti: neuropatia diabetica 20-40%, malattia vascolare periferica 20-40%, ulcerazione del piede diabetico 5%
dei pazienti con diabete per anno, infezione del
piede e osteomielite 22-66% di tutte le ulcerazioni
Tabella 15.1 Ulcera: classificazione secondo l’Università del Texas
Grado 0
Grado I
Grado II
Grado III
A
Lesione pre- o post-ulcerativa Ulcera superficiale non coinvolgente Ulcera profonda fino al tendine Ulcera profonda fino all’osso
completamente epitelizzata tendine, capsula o osso
o alla capsula articolare
o all’articolazione
B
Infezione
Infezione
Infezione
Infezione
C
Ischemia
Ischemia
Ischemia
Ischemia
D
Infezione + ischemia
Infezione + ischemia
Infezione + ischemia
Infezione + ischemia
Tabella 15.2 Piede diabetico: classificazione di Wagner
Classe 0
Non ulcerazioni, presenza di eventuali deformità, edema, cellulite ecc.
Classe 1
Ulcera superficiale
Classe 2
Ulcera profonda fino al tendine, alla capsula articolare, all’osso, senza infezione
Classe 3
Ulcera profonda con ascesso, osteomielite, artrite settica
Classe 4
Gangrena localizzata alle dita o al tallone
Classe 5
Gangrena di tutto il piede o di una porzione significativa
206
Parte Seconda – Situazioni particolari
del piede, amputazioni 0,5% dei pazienti diabetici
per anno, neuropatia di Charcot 0,1-0,4% dei pazienti diabetici per anno.
La presenza della neuropatia è normalmente determinata da un’attenta storia ed esame fisico. La
perdita della sensibilità pressoria, sensazione della
puntura con uno spillo, può essere determinata
dall’impiego del monofilamento di Semmes-Weinstein, un monofilamento di nylon attaccato a un
manico di plastica, che è applicato sotto pressione
al piede di un paziente e misura il livello di sensazione in 10 differenti punti dermatomeri; la sensibilità va dal 66% al 91% e la specificità dal 34%
all’86% nell’identificare il rischio di ulcerazione.
La sensazione vibratoria è misurata con un diapason, sebbene questa misurazione sia meno predittiva per la valutazione del rischio di ulcerazione.
Si verificano un netto aumento della soglia di sensibilità propriocettiva (biotesiometro) e una riduzione della discriminazione caldo/freddo.
L’osteomielite occorre dopo la diffusione di infezioni superficiali dei tessuti molli all’adiacente osso
o midollo osseo. Una semplice sonda metallica
permette normalmente di fare la diagnosi. Misurando la profondità dell’ulcera con la sonda si determina la profondità della lesione e l’eventuale
coinvolgimento dell’osso quando la sonda colpisce
le strutture ossee. Utilizzando questa semplice metodica si ottiene una sensibilità del 66% e una
specificità dell’85% con un valore predittivo positivo dell’89%. La radiografia del piede dovrebbe
essere ottenuta in ogni paziente con un sospetto
di infezione del piede. L’immagine a raggi X può
rilevare la presenza di un corpo estraneo, di gas,
dell’osteolisi, o di versamento delle articolazioni,
oltre che delineare la necessità di un eventuale
trattamento chirurgico. La scintigrafia ossea o la
scintigrafia con leucociti marcati dovrebbe essere
riservata ai casi in cui il test con la sonda metallica
è dubbio, quando vi è il sospetto di un ascesso o
15
di una malattia multifocale, o nei pazienti con il
piede di Charcot, poiché l’associazione con i cambiamenti ossei e la risposta infiammatoria può essere interpretata come osteomielite. La risonanza
magnetica è un mezzo altamente sensibile fino al
100%, ma con una specificità dell’80%, poiché
l’osteomielite e le fratture possono avere un aspetto
simile. La diagnosi conclusiva di osteomielite può
essere ottenuta con una biopsia ossea, ma questo è
raramente necessario. Un esame vascolare completo
è imperativo in qualsiasi paziente che riporta i sintomi della claudicatio o di dolore a riposo, sebbene
molti pazienti diabetici che richiedono la rivascolarizzazione per la presenza di un malattia vascolare
ischemica importante degli arti inferiori non abbiano sintomi vascolari pregressi. Questi pazienti
si presenteranno con un’ulcera che non guarisce
con o senza la concomitante presenza di gangrena
o infezione. Quando l’eziologia del dolore al piede
non è chiara, può essere utile la valutazione non
invasiva, come la misurazione dell’indice di Winsor
(rapporto della pressione caviglia/braccio). Pazienti
con una severa ischemia hanno usualmente un
rapporto < 0,4 e la presenza di ischemia può essere
confermata per valori < 0,9. In alcuni casi il valore
può essere normale in alcuni pazienti che presentano claudicatio, anche se questi pazienti hanno
una riduzione dell’indice di Winsor dopo attività
fisica. L’arteriografia digitale con sottrazione d’immagine è il metodo più accurato per valutare la
circolazione arteriosa delle estremità inferiori, tecnica attualmente utilizzata anche nei pazienti che
hanno un’insufficienza renale; in alternativa, nei
pazienti con una severa insufficienza renale è stata
proposta la risonanza magnetica con angiografia.
La prevenzione dovrebbe essere il primo principio
nel trattamento del piede diabetico, anche se la
prevenzione secondaria con un meticoloso trattamento delle ulcere può essere un obiettivo più
realistico. La prevenzione primaria prevede un
207
Ministero della Salute
controllo glicemico molto accurato e il trattamento di altri fattori di rischio come il fumo di
sigaretta, l’ipertensione, l’iperlipidemia e l’obesità.
L’esame fisico periodico include un esame vascolare accurato e la valutazione con cui il paziente
cura l’igiene del proprio piede. Queste strategie
sono importanti nella prevenzione dell’insorgenza
sia delle ulcere sia delle amputazioni. Il primo
gradino nel trattamento di qualsiasi ulcera neuropatica è la restrizione del carico a livello dell’arto
interessato. I pazienti con infezioni severe delle
estremità a rischio per le successive sequele cliniche
e che non rispettano la terapia richiedono l’ospedalizzazione. Le ulcere neuropatiche non complicate si curano spesso con terapia topica e con lo
scarico del peso del piede mediante, per esempio,
l’utilizzo di gambaletti o tutori di scarico. La terapia iperbarica con ossigeno ha ricevuto un discreto interesse negli ultimi anni in aggiunta alla
terapia classica per facilitare il processo di riparazione delle ulcere del piede diabetico, e quindi la
percentuale di amputazioni delle estremità.
Gli obiettivi della terapia del piede di Charcot sono
quelli di scaricare le estremità coinvolte per evitare
un ulteriore collasso e deformità del piede coinvolto
e proteggere il piede opposto non interessato al
processo. Il primo passo da eseguire nel trattamento
è un prolungato periodo di non carico e immobilizzazione con una fibra sintetica o con una doccia
gessata, per promuovere la cura delle articolazioni.
L’utilizzo di calzature appropriate è essenziale per
un trattamento a lungo termine. L’amputazione è
riservata per quei rari pazienti con una severa e non
correggibile deformità con ulcere invasive associata
a un processo estensivo di osteomielite o dopo un
fallimento di un intervento per la ricostruzione del
piede. I pazienti con un’infezione severa dell’arto
richiedono un’immediata ospedalizzazione, immobilizzazione e un trattamento parenterale con antibiotici dopo l’identificazione dell’agente patogeno
208
mediante lo screening della sua sensibilità antibiotica. Numerosi regimi di antibioticoterapia sono
stati utilizzati per le infezioni severe degli arti inferiori. Dato l’aumento della prevalenza delle infezioni
con stafilococco meticillino-resistente (methicillinresistant Staphylococcus aureus, MRSA) sia come
infezione nosocomiale sia in comunità isolate, è
consigliata la terapia empirica con vancomicina.
Differenti regimi di terapia antibiotica sono attualmente proposti, anche se attualmente sono consigliati regimi di terapia con antibiotici ad ampio
spettro d’azione verso batteri sia Gram-positivi sia
Gram-negativi. Regimi di terapia antibiotica parenterale per 3-6 settimane e in alcuni casi anche
per periodi prolungati sono raccomandati specialmente in pazienti con osteomielite. I pazienti con
formazioni ascessuali e fascite necrotizzante devono
eseguire un’immediata incisione, drenaggio e debridement della lesione. La guaina tendinea dovrebbe essere esaminata ed escissa quando infetta;
se necessario si deve ricorrere ad amputazioni minori
che risolvono in un ampio numero di casi la malattia, evitando l’amputazione dell’arto. Esistono
differenti modalità con cui curare e intervenire per
risolvere la patologia infettiva del piede. Nella terapia
di rivascolarizzazione dell’arto, necessaria in caso
di ridotta circolazione ematica per patologia aterosclerotica, è importante valutare la localizzazione
anatomica e la distribuzione della lesione aterosclerotica. La terapia di rivascolarizzazione può essere
eseguita con maggiore sicurezza quando la patologia
infettiva del piede è controllata con la terapia medica. Sono stati ottenuti ottimi risultati con la rivascolarizzazione mediante tecnica chirurgica di bypass. Ogni operazione deve essere individualizzata
in accordo con la capacità di conduttanza venosa
del paziente e con l’anatomia della circolazione arteriosa. Un’alternativa possibile e attualmente utilizzata in differenti centri è la procedura di terapia
endovascolare con minore invasività, che è rappre-
Parte Seconda – Situazioni particolari
sentata dall’angioplastica con palloncino e con stent
sia medicati sia non medicati (per l’approfondimento del percorso clinico vedi Appendice 7).
La gestione del diabete in gravidanza
(diabete pregravidico e gestazionale)
Diabete pregravidico
Il diabete pregravidico (tipo 1 e 2) è ancora oggi
gravato da un’elevata frequenza di morbilità materna (ipertensione gravidica, pre-eclampsia, eclampsia, poliidramnios, parto pretermine, taglio cesareo, ipoglicemia, chetoacidosi) e fetale (malformazioni, ritardo di crescita, eritremia, ipoglicemia,
ipocalcemia, iperbilirubinemia, sindrome da distress respiratorio, macrosomia, ipomagnesemia,
morte intrauterina), nonostante il miglioramento,
negli ultimi anni, delle tecniche di sorveglianza
fetale e di assistenza al neonato e alla madre. Dati
di prevalenza nazionali riportano che ogni anno
in Italia si verificano circa 40.000 gravidanze complicate da diabete gestazionale e circa 1300 da diabete pregestazionale.
La programmazione della gravidanza nelle pazienti
con diabete pregestazionale è molto importante
per ridurre la frequenza di outcome materno e
fetale avverso, ma, purtroppo, anche in Italia solo
circa il 50% di tali gravidanze è programmato.
Programmazione della gravidanza
Tutte le donne con diabete in età fertile devono
essere informate sull’importanza di programmare
la gravidanza in buon controllo glicemico e di
pianificare il concepimento utilizzando metodi
contraccettivi efficaci. In fase preconcepimento
vanno valutati:
• lo stato di salute della paziente, con valutazione
del controllo glicemico e della presenza e gravità
15
delle complicanze croniche legate al diabete. In
questo contesto è utile ricordare che sono considerate controindicazioni alla gravidanza le seguenti condizioni: retinopatia in fase attiva non
trattata, ipertensione arteriosa grave, insufficienza renale (creatinina > 3 mg/dl, clearance
della creatinina > 30 ml/min), gastroparesi diabetica, malattia ischemica coronarica;
• la capacità di eseguire correttamente il monitoraggio delle glicemie e di adattare la terapia
ai valori delle stesse;
• lo stato psicosociale della paziente;
• il controllo metabolico della paziente: al concepimento i valori di HbA1c devono essere più
vicino possibile al range di normalità.
Monitoraggio e gestione
prima della gravidanza
Nelle pazienti con diabete pregravidico è consigliabile l’autocontrollo domiciliare intensivo delle
glicemie, con valutazioni sia pre- sia postprandiali
e notturne (6-8 punti/die).
Nelle stesse va instaurata una terapia insulinica
intensiva con plurisomministrazioni sottocutanee
o con microinfusore (CSII). Al concepimento e
durante la gravidanza possono essere utilizzati gli
analoghi dell’insulina ad azione rapida aspart e lispro; non è consigliato, invece, l’uso degli analoghi
ad azione rapida glulisina e ad azione ritardata
glargine e detemir, in quanto non ancora considerati sicuri in gravidanza. Nelle pazienti con DT2
sono consigliabili la sospensione degli ipoglicemizzanti orali e l’instaurazione di una terapia insulinica.
Infatti, non ci sono ancora oggi evidenze chiare
sull’innocuità di tali farmaci nella fase dell’organogenesi, anche se metformina e acarbose sono
farmaci classificati in categoria B.
Infine, si consiglia di sospendere i farmaci potenzialmente tossici quali ACE-inibitori, sartani, sta-
209
Ministero della Salute
tine. In fase di preconcepimento è consigliata l’assunzione di acido folico, al dosaggio di almeno
400 mg/die, da proseguire poi per tutta la gravidanza vista l’efficacia di tale supplementazione nel
ridurre il rischio di malformazioni del tubo neurale.
Per il raggiungimento di tali obiettivi è auspicabile
che la paziente venga seguita da un’equipe multidisciplinare di cura che comprenda, oltre al diabetologo, un infermiere esperto, un dietista e altre
figure professionali richieste dalla situazione specifica. Sono infine raccomandate valutazioni ambulatoriali mensili.
Monitoraggio e gestione
durante la gravidanza
Obiettivi metabolici
È raccomandato un autocontrollo domiciliare
della glicemia intensificato, con valutazioni sia
pre- sia postprandiali e notturne (6-8 punti/die).
Gli obiettivi glicemici raccomandati in tutte le
gravide diabetiche sono:
• < 95 mg/dl a digiuno;
• < 140 mg/dl un’ora dopo i pasti;
• < 120 mg/dl due ore dopo i pasti;
• i valori di HbA1c da ottenere in corso di gravidanza dovrebbero essere < 6%.
Al fine di evitare la chetosi, spia di uno scompenso
metabolico e potenzialmente dannosa per il feto, si
raccomanda di monitorare la chetonuria ogni giorno
al risveglio e/o in presenza di glicemia > 200 mg/dl.
In tutte le donne con diabete in gravidanza a ogni
controllo ambulatoriale vanno controllati il peso
corporeo e i valori di pressione arteriosa omerale
(PAO).
Nelle stesse devono essere effettuati ogni mese il
dosaggio dell’HbA1c, utilizzando una metodica
standardizzata, e l’esame completo delle urine. La
presenza di piuria significativa richiede l’effettuazione di un’urinocoltura.
210
Il diabete pregravidico richiede poi una serie di
ulteriori valutazioni:
• controllo della funzionalità tiroidea (T4 libera,
TSH) a inizio gravidanza, da ripetere secondo
le necessità;
• controllo delle complicanze croniche: valutazione, a ogni trimestre, della clearance della
creatinina e della microalbuminuria e/o proteinuria.
Attenzione particolare deve essere posta se compaiono ipertensione e/o proteinuria, che sono spia
di successiva comparsa di pre-eclampsia, complicanza più frequente nella gravida diabetica rispetto
alla non diabetica. Sono necessari il controllo del
fundus oculi nel primo trimestre e, successivamente, secondo necessità la valutazione della funzione cardiaca al primo trimestre e poi con frequenza da stabilire secondo necessità.
Terapia nutrizionale
Nelle gravide diabetiche la dieta deve essere personalizza tenendo conto delle abitudini alimentari
e dell’indice di massa corporea (body mass index,
BMI) pregravidico. In gravidanza non è raccomandato l’utilizzo di diete fortemente ipocaloriche, perciò l’apporto calorico non deve essere
< 1500 kcal/die anche nelle gravide obese.
In generale, la distribuzione dei nutrienti prevede
il 50% di carboidrati (complessi, a basso indice
glicemico), il 20% di proteine, il 30% di lipidi
(mono-poliinsaturi) e 28 g/die di fibre. Per ridurre
le iperglicemie postprandiali può essere valutata
la riduzione della percentuale di carboidrati, che
comunque non è consigliabile ridurre al di sotto
del 40%.
L’apporto calorico giornaliero va suddiviso in 3
pasti principali e 3 spuntini (metà mattino, metà
pomeriggio e prima di coricarsi); è importante
che lo spuntino serale contenga 25 g di carboidrati
e 10 g di proteine. L’impiego di aspartame, sacca-
Parte Seconda – Situazioni particolari
15
rina, acesulfame e sucralosio in moderate quantità
non è controindicato.
Screening e diagnosi
del diabete gestazionale (GDM)
Terapia insulinica
Il fabbisogno insulinico giornaliero in gravidanza
varia durante la gestazione: spesso si osservano
una riduzione del fabbisogno insulinico nel primo
trimestre di gestazione e un aumento progressivo
nel corso della gestazione, che raggiunge un “plateau” intorno alla 36a settimana.
Le donne con diabete pregravidico di tipo 1 devono essere trattate con plurisomministrazioni di
insulina con schemi di tipo basal-bolus o con microinfusore (CSII).
Nelle pazienti con diabete pregravidico di tipo 2
sono raccomandate la sospensione della terapia
ipoglicemizzante orale e l’instaurazione di una terapia insulinica intensiva, con il consiglio di iniziare con una dose di 0,7 UI/kg del peso attuale.
Per quanto riguarda l’utilizzo degli analoghi dell’insulina si rimanda al capitolo monitoraggio e
gestione prima della gravidanza.
Durante le fasi del travaglio e del parto è molto
importante mantenere un buon controllo glicemico per evitare le ipoglicemie neonatali. I valori
glicemici devono essere pertanto mantenuti tra
70 e 120 mg/dl e sono necessari controlli frequenti
della glicemia e l’infusione di insulina e glucosio
secondo algoritmi predefiniti.
Nel post-parto si ha una rapida e brusca diminuzione del fabbisogno insulinico; la terapia insulinica va effettuata quando i valori glicemici sono
costantemente superiori a 140 mg/dl; nelle pazienti con DT1 il fabbisogno insulinico va ricalcolato sulla base del fabbisogno pregravidico.
È noto che lo screening, la diagnosi e il trattamento
del diabete gestazionale sono in grado di ridurre le
complicanze materne (ipertensione gravidica, preeclampsia, eclampsia, polidramnios, parto pretermine,
taglio cesareo) e fetali (eritremia, ipoglicemia, ipocalcemia, iperbilirubinemia, sindrome da distress respiratorio, macrosomia, ipomagnesemia) legate a tale patologia e sono quindi efficaci in termini di costi-benefici. I criteri sinora utilizzati per lo screening e la
diagnosi del GDM non sono univoci e i più noti sono
stati stabiliti sulla base del rischio di sviluppare diabete
dopo il parto nelle donne affette da GDM e non sulla
base dell’outcome materno e fetale. In questo contesto,
recentemente lo studio HAPO (Hyperglycemia and
Adverse Pregnancy Outcome), condotto in cieco su circa
25.000 donne in 15 centri distribuiti nelle varie Nazioni del mondo, ha messo in evidenza che vi è una
relazione lineare tra i livelli di glicemia registrati a digiuno e dopo 1 e 2 ore dal carico orale con 75 grammi
di glucosio e l’aumento della frequenza degli outcome
primari e secondari avversi. Sulla base di tali risultati,
l’International Association of Diabetes and Pregnancy
Study Groups (IADPSG) ha dato mandato, nel giugno
2008, a un panel, il Consensus Panel, di stabilire nuovi
criteri diagnostici del GDM sulla base dei risultati
dell’HAPO Study, criteri che sono stati recentemente
pubblicati. Tali raccomandazioni sono state fatte proprie anche dall’ADA.
Tali criteri proposti sono stati condivisi nel marzo
2010 da una Conferenza Nazionale di Consenso
per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale,
convocata dal Gruppo di Studio “Diabete e Gravidanza” SID-AMD, composta dai delegati di tutte
le Società scientifiche e professionali e dagli esperti
interessati alla cura e allo studio del diabete gestazionale. Recentemente il Ministero della Salute ha
tuttavia prodotto un documento sulla gestione della
Controlli ambulatoriali
I controlli ambulatoriali diabetologici devono essere effettuati ogni 2 settimane o più spesso in
caso di controllo metabolico non ottimale.
211
Ministero della Salute
gravidanza fisiologica, redatto dal Sistema Nazionale
Linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità (SNLGISS) in collaborazione con il Centro per la Valutazione dell’Efficacia dell’Assistenza Sanitaria (CeVEAS) nell’ambito del quale, e precisamente nel
capitolo relativo allo screening e diagnosi del diabete
gestazionale, gli autori del documento, pur prendendo in considerazione i risultati dello studio
HAPO e la Conferenza di Consenso Italiana tenutasi
a Roma nel marzo 2010, raccomandano lo screening
del diabete gestazionale alla 24a-28a settimana di
gravidanza solo nelle donne con fattori di rischio,
utilizzando la curva da carico orale con 75 grammi
di glucosio, interpretata secondo i criteri dell’OMS.
Ciò ha creato disorientamento e tensioni tra professionisti, ginecologi e diabetologi in particolare.
Per superare, a livello nazionale, le criticità derivanti
da raccomandazioni discordanti tra loro, il SNLGISS, con il supporto del CeVEAS, ha organizzato
un tavolo di confronto fra Società Italiana di Diabetologia (SID), Associazione Medici Diabetologi
(AMD) e membri del Panel della Linea guida Gravidanza Fisiologica.
Utilizzando quali strumenti di confronto le posizioni
di agenzie nazionali, le principali Linee guida e consensus statements nazionali e internazionali, le revisioni sistematiche dei lavori scientifici pubblicati e i
lavori scientifici pubblicati sull’argomento, il gruppo
ha concluso i propri lavori con una posizione comune che sarà adottata da tutte le diverse Linee
guida sia diabetologiche sia ostetriche.
Tali nuove raccomandazioni condivise per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale vengono
di seguito riassunte.
• In occasione della prima visita in gravidanza,
identificazione delle donne con diabete preesistente, diagnosticato con valori di glicemia plasmatica a digiuno ≥ 126 mg/dl o glicemia random ≥ 200 mg/dl o HbA1c ≥ 6,5% (standardizzata), confermati da un secondo prelievo.
212
È utile sottolineare l’utilità della diagnosi precoce
del diabete preesistente alla gravidanza, condizione sinora compresa nel GDM; l’identificazione
di queste donne è di particolare importanza perché, essendo iperglicemiche già prima della gravidanza, hanno un rischio più elevato di outcome
avversi sia fetali, tra i quali anche le malformazioni, che materni; esse necessitano, pertanto, di
un trattamento intensivo e adeguato che deve essere instaurato il più precocemente possibile.
• A 16-18 settimane di età gestazionale, curva da
carico con 75 g di glucosio (OGTT 75 g) e un
ulteriore OGTT 75 g a 28 settimane di età gestazionale, se la prima determinazione è risultata
normale, alle donne con almeno una delle seguenti condizioni:
- diabete gestazionale in una gravidanza precedente;
- BMI pregravidico ≥ 30 kg/m2;
- riscontro, precedentemente o all’inizio della
gravidanza, di valori di glicemia plasmatica
compresi fra 100 e 125 mg/dl.
• A 24-28 settimane di età gestazionale, OGTT
75 g alle donne con almeno una delle seguenti
condizioni:
- età ≥ 35 anni;
- BMI pregravidico ≥ 25 kg/m2;
- macrosomia fetale pregressa (≥ 4,5 kg);
- diabete gestazionale in una gravidanza precedente (anche se con determinazione normale
a 16-18 settimane);
- anamnesi familiare di diabete (parente di primo
grado con diabete di tipo 2);
- famiglia originaria di aree ad alta prevalenza
di diabete.
Sia nelle determinazioni a 16-18 settimane che in
quelle a 24-28 settimane, sono definite affette da
diabete gestazionale le donne con uno o più valori
di glicemia plasmatica superiori alle soglie proposte
dall’IADPSG e riportate nella Tabella 15.3.
Parte Seconda – Situazioni particolari
Tabella 15.3 Diagnosi di diabete gestazionale
Glicemia
plasmatica
Digiuno
Dopo 1 ora
Dopo 2 ore
Valori soglia di concentrazioni
di glucosio
mg/dl
mmol/L
92
180
153
5,1
10
8,5
• Per lo screening del diabete gestazionale non devono essere utilizzati la glicemia plasmatica a digiuno, glicemie random, minicarico di glucosio
(GCT) e OGTT 100 g.
• Le donne affette da diabete gestazionale dovranno rivalutare la tolleranza glucidica mediante
OGTT (2 ore-75 grammi) a distanza di 8-12
settimane dal parto.
La cura del diabete in ospedale
Dimensioni del problema
A livello internazionale la prevalenza del diabete
negli adulti ospedalizzati è stimata tra il 12% e il
25%. Nel 2000, il 12,4% delle dimissioni negli
Stato Uniti era riferito a pazienti con diabete.
Nel 1999, in Italia il tasso di dimissione ospedaliero/1000 abitanti con codice DRG 250**, riferibile al diabete, come diagnosi di dimissione principale, è risultato pari al 2,5% su tutto il territorio
nazionale, con una grande variabilità inter-regionale: dall’1,3% in Friuli-Venezia Giulia al 2,30%
in Regioni come Piemonte, Lombardia e Lazio,
fino al 4,6% in Molise, Puglia e Basilicata. L’utilizzo della diagnosi principale e secondaria di dimissione ha consentito di stimare una prevalenza
di diabete pari al 6,0% in Campania e Piemonte
e al 21% in Emilia-Romagna.
Della spesa sanitaria correlata a diabete in Italia,
oltre il 60% è dovuto a costi diretti, attribuibili
15
all’ospedalizzazione per complicanze acute e croniche. In ospedale il diabete costituisce una realtà
trasversale a tutti i reparti: è presente, infatti, almeno in un paziente su quattro tra i degenti e in
un paziente su due/tre in terapia intensiva cardiologica. Il tasso standardizzato di ospedalizzazione è del 23,8% nei dati dell’Osservatorio Arno
e del 23,2% nel Dossier 179-2009 della Regione
Emilia-Romagna dedicato al diabete, rispetto al
12,5% della popolazione non diabetica. La presenza di diabete determina un aumento di spesa
per assistito di circa € 2000/anno, soprattutto legata a ricoveri ospedalieri.
Caratteristiche del ricovero ospedaliero
del paziente con diabete
Il ricovero ospedaliero non è sempre dovuto a eventi
metabolici legati alla malattia (crisi iperglicemiche o
ipoglicemiche), ma più frequentemente a eventi
acuti che richiedono un ricovero urgente (ictus,
infarto miocardico, infezioni, frattura o trauma) o
a interventi chirurgici in elezione in persone con
diabete, che comportano per sé uno stress metabolico. La presenza di diabete (noto o di nuova
diagnosi) aumenta il rischio d’infezioni e complicanze, peggiora la prognosi, allunga la degenza media e determina un incremento significativo dei
costi assistenziali. L’iperglicemia è un indicatore
prognostico negativo in qualunque setting assistenziale, ma le evidenze scientifiche da ormai 15
anni dimostrano che la sua gestione ottimale migliora l’outcome dei pazienti e riduce la mortalità
e i costi. È quindi irrinunciabile gestire l’iperglicemia nei pazienti ospedalizzati con algoritmi di
trattamento insulinico intensivo validati e condivisi, ma semplici e sicuri.
La gestione ottimale del paziente diabetico in
ospedale richiede per questo una formazione continua rivolta a tutti gli operatori sanitari coinvolti
213
Ministero della Salute
per migliorare la loro conoscenza sulle modalità
di gestione, trattamento e cura delle persone con
diabete e richiede interventi educativi rivolti ai
pazienti per favorire l’autogestione della malattia:
il ricovero ospedaliero che rappresenta una criticità
nella vita del diabetico può così diventare un’opportunità per migliorare l’assistenza al paziente
stesso e per migliorarne l’outcome.
Il paziente diabetico è un paziente fragile, che richiede un’attenta e competente “continuità di
cura” e una “dimissione protetta” dall’ospedale al
territorio: occorrono la presa in carico da parte
del team diabetologico di riferimento, per la sua
gestione ottimale, e la consulenza infermieristica
strutturata, per addestrare i pazienti all’uso della
terapia insulinica e dell’autocontrollo glicemico
domiciliare. Per garantire la sicurezza, l’appropriatezza degli interventi terapeutici e la continuità
del percorso assistenziale e ridurre i costi delle degenze è indispensabile che la Struttura Specialistica
Diabetologica sia coinvolta fin dall’inizio nel percorso di cura del paziente con diabete in ospedale
attraverso percorsi assistenziali condivisi di presa
in carico, definiti a livello locale e approvati e sostenuti a livello aziendale.
Organizzazione e responsabilità nella
gestione del paziente diabetico ricoverato
Lo specialista diabetologo deve essere il “care-manager” del paziente diabetico nel processo di cura
multidisciplinare e multiprofessionale all’interno
dell’ospedale. In considerazione del ruolo prioritario che ha la gestione dell’iperglicemia in ospedale, corollario dei dati epidemiologi sopra riportati, è fondamentale che in ogni presidio sia attiva
una consulenza diabetologia intraospedaliera.
Nelle realtà periferiche ove non sussista un servizio
di diabetologia interno, tale supporto deve essere
garantito con accesso esterno o con apposita for-
214
mazione di medici di area medica (internisti, geriatri) dell’organico.
Si possono individuare quattro profili fondamentali del passaggio delle persone con diabete in
ospedale.
• Preospedalizzazione del paziente diabetico: percorsi preoperatori. La preospedalizzazione (o
percorso preoperatorio) è caratterizzata da una
fase di accesso del paziente all’interno della
struttura ospedaliera per l’espletamento delle
prestazioni utili a valutare l’idoneità del paziente a essere sottoposto a intervento chirurgico (ECG, Rx del torace, esami di laboratorio,
consulenze ecc.), che possono essere gestite in
day-service con pacchetti di prestazioni definite. Il percorso preoperatorio permette di eseguire le indagini necessarie per la valutazione
del rischio operatorio e di preparare l’intervento. Nel caso del paziente diabetico, la preospedalizzazione è indispensabile, inoltre, per
consentire la consulenza strutturata presso il
servizio di diabetologia per:
- ottimizzare la cura;
- programmare l’intervento in una fase di controllo metabolico ottimale;
- programmare il tipo di trattamento dell’iperglicemia nel perioperatorio.
Questa gestione consente di:
- azzerare le giornate di degenza preintervento;
- ridurre la degenza media;
- ottimizzare le liste d’attesa;
- migliorare gli esiti.
• Accesso dei pazienti diabetici in pronto soccorso. Il
paziente diabetico può accedere in urgenza al
pronto soccorso per problemi connessi alla malattia, quali crisi ipoglicemiche o iperglicemiche,
ulcere infette del piede, o in corso di accesso al
pronto soccorso può esserci un riscontro di diabete di nuova insorgenza. È indispensabile che
siano predisposti e condivisi percorsi di presa
Parte Seconda – Situazioni particolari
in carico da parte del servizio di diabetologia e
dei protocolli di gestione delle urgenze per:
- ridurre i ricoveri inappropriati;
- fornire continuità assistenziale al paziente
con diabete;
- prendere in carico il paziente neodiagnosticato da parte del team diabetologico;
- educare e addestrare all’utilizzo di insulina e
all’autocontrollo pazienti nei quali è necessaria una modifica terapeutica;
- gestire in team multidisciplinare le urgenze
del piede diabetico, riducendo al minimo il
rischio di amputazioni;
- gestire con competenza il paziente critico
con iperglicemia con protocolli di trattamento insulinico intensivo condivisi.
• Assistenza al paziente diabetico ricoverato. In
tutti i pazienti con diabete – già noto o neodiagnosticato – che accedono al ricovero ospedaliero per qualunque causa, è opportuno il
coinvolgimento della struttura diabetologica
di competenza per la presa in carico del paziente e la gestione della fase acuta da parte
del team diabetologico. Devono essere previsti
percorsi assistenziali condivisi per:
- il paziente critico;
- la gestione del paziente in degenza ordinaria;
- l’educazione terapeutica strutturata.
La funzione dell’ospedale diviene in questo
modo complessiva, riuscendo a fornire al paziente con diabete l’assistenza di cui ha bisogno, garantendogli un trattamento adeguato
del compenso metabolico e indicazioni sul prosieguo dell’assistenza, e nel caso del paziente
neodiagnosticato la presa in carico e l’educazione terapeutica strutturata necessaria per renderlo autonomo e in grado di autogestirsi,
prima della dimissione.
• Dimissione “protetta” o presa in carico predimissione. In qualunque contesto assistenziale sia
15
ricoverato il paziente con diabete, deve essere
condiviso con il servizio di diabetologia (sia
ospedaliero sia territoriale) un percorso di dimissione protetta, che garantisca:
- la presa in carico predimissione da parte del
team diabetologico;
- l’educazione terapeutica del paziente da parte
del personale infermieristico.
In questo modo si assicura una continuità assistenziale tra ospedale e territorio che mantiene il paziente al centro di una rete di servizi
efficiente ed efficace, evitando gli abbandoni
del paziente dimesso senza gli strumenti e senza
la formazione idonea per eseguire la terapia
insulinica e l’autocontrollo glicemico domiciliare in sicurezza.
La struttura specialistica di diabetologia ospedaliera si fa carico della costruzione dei percorsi assistenziali con il pronto soccorso, il day-hospital,
il day-service, i reparti di degenza medica e chirurgica. al fine di garantire al soggetto con diabete
i trattamenti appropriati alla situazione clinica e
la continuità di cura alla dimissione.
• La diagnosi di diabete mellito deve essere
chiaramente riportata nella cartella clinica di
tutti i pazienti diabetici ricoverati in ospedale
(Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
• Qualora sia occasionalmente riscontrata iperglicemia durante un ricovero ospedaliero, è
opportuno eseguire la determinazione dell’HbA1c, allo scopo di identificare uno stato
di diabete misconosciuto (Livello di Prova V,
Forza della Raccomandazione B).
• In tutti i pazienti diabetici ricoverati deve essere
monitorata la glicemia capillare e i risultati riportati in cartella, in modo da renderli accessibili a tutti i membri dell’equipe curante (Livello
di Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
215
Ministero della Salute
• Per ogni paziente deve essere definito un programma di trattamento dell’ipoglicemia. Gli episodi occorsi durante il ricovero ospedaliero devono essere registrati sulla cartella clinica (Livello
di Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
• Il ricovero non è il momento più idoneo all’impostazione di un programma educativo organico sulla malattia diabetica. Tuttavia, un intervento educativo su alcuni aspetti essenziali,
quali le modalità di iniezione dell’insulina e i
principi dell’autocontrollo, deve essere fornito
al diabetico prima della dimissione (Livello di
Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
• I pazienti non noti come diabetici che manifestano iperglicemia in occasione di un ricovero
ospedaliero devono essere avviati a una valutazione presso il servizio diabetologico di riferimento (Livello di Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
Gli obiettivi glicemici
Gli obiettivi glicemici durante un ricovero ospedaliero possono essere differenziati in funzione
delle diverse situazioni cliniche:
• pazienti in situazione critica, ricoverati in terapia intensiva, medica o chirurgica: valori glicemici < 140-180 mg/dl, in funzione del rischio stimato di ipoglicemia (Livello di Prova
II, Forza della Raccomandazione B);
• pazienti in situazione critica in ambito chirurgico: valori glicemici il più possibile vicini a
110 mg/dl, e in ogni caso < 140 mg/dl (Livello
di Prova II, Forza della Raccomandazione B);
• pazienti in situazione critica in ambito medico:
valori glicemici < 140 mg/dl (Livello di Prova
VI, Forza della Raccomandazione B);
• pazienti in situazione non critica: valori glicemici preprandiali < 126 mg/dl, postprandiali
< 180-200 mg/dl, se ottenibili senza rischi ele-
216
vati di ipoglicemia (Livello di Prova VI, Forza
della Raccomandazione B);
• in alcune situazioni cliniche a elevato rischio
di ipoglicemia è opportuno un innalzamento
degli obiettivi glicemici (Livello di Prova VI,
Forza della Raccomandazione B).
Il trattamento
• L’utilizzo dei principali farmaci ipoglicemizzanti orali (secretagoghi, biguanidi, tiazolidinedioni) presenta notevoli limitazioni in ambito ospedaliero. La somministrazione d’insulina è pertanto la terapia di scelta nel paziente
diabetico ospedalizzato non stabilizzato (Livello
di Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
• La terapia insulinica per via sottocutanea deve
seguire uno schema programmato. Questo
schema può essere integrato da un algoritmo
di correzione basato sulla glicemia al momento
dell’iniezione. Il metodo di praticare insulina
solamente “al bisogno” (sliding scale) deve essere
abbandonato (Livello di Prova IV, Forza della
Raccomandazione B).
• In tutti i pazienti non noti come diabetici sottoposti a trattamenti che comportano un rischio elevato di iperglicemia (corticosteroidi
ad alte dosi, nutrizione enterale o parenterale,
farmaci come octreotide o immunosoppressori)
deve essere praticato monitoraggio glicemico,
prevedendo eventuale somministrazione di
dosi correttive di insulina. In caso di iperglicemia persistente, si può rendere necessaria
l’impostazione di terapia insulinica basal-bolus,
con gli stessi obiettivi glicemici utilizzati nei
pazienti con diabete noto (Livello di Prova VI,
Forza della Raccomandazione B).
• In pazienti critici e/o che non si alimentano
per os, nel periodo perioperatorio e in situazioni di grave instabilità metabolica la terapia
Parte Seconda – Situazioni particolari
insulinica deve essere effettuata in infusione
venosa continua, applicando algoritmi basati
su frequenti controlli dei valori glicemici e validati nel contesto di applicazione (Livello di
Prova VI, Forza della Raccomandazione B).
• I pazienti non critici, esperti nell’autosomministrazione d’insulina e nell’autocontrollo glicemico,
possono essere autorizzati a proseguire l’autogestione anche durante il ricovero, concordandone
le modalità con l’equipe curante (Livello di Prova
VI, Forza della Raccomandazione B).
• Nei pazienti già in trattamento con microinfusore (CSII) può essere utile proseguire tale
modalità di somministrazione della terapia anche durante il ricovero ospedaliero, purché ne
sia possibile la corretta gestione nella specifica
situazione clinica (Livello di Prova VI, Forza
della Raccomandazione B).
Tipologia dei pazienti
È possibile suddividere i pazienti nei quali si riscontrano valori glicemici in range patologico durante la
degenza ospedaliera in almeno tre categorie diverse:
• diabete mellito noto preesistente al ricovero;
• diabete mellito diagnosticato durante la degenza e persistente dopo la dimissione;
• iperglicemia correlata alla degenza: si tratta di
persone non note come diabetiche, con un’iperglicemia comparsa per la prima volta durante
il ricovero e regredita alla dimissione.
La distinzione tra queste forme non è sempre immediata. È di grande utilità a questo scopo il dosaggio dell’HbA1c, che andrebbe sempre eseguito
al momento del ricovero in ospedale.
15
ospedaliera e l’esito della degenza stessa. Conseguentemente, si è cercato di definire obiettivi glicemici utilizzabili nelle diverse situazioni cliniche.
Medicina e chirurgia generale
(pazienti non critici)
Alcuni studi hanno evidenziato nei reparti di terapia
non intensiva un’associazione fra livelli glicemici e
mortalità intraospedaliera, frequenza di trasferimento in terapia intensiva, durata della degenza,
frequenza di infezioni nosocomiali. Questo rilievo
vale anche per soggetti con iperglicemia di nuovo
riscontro, la cui evoluzione clinica, secondo alcuni,
è più sfavorevole di quella riscontrata in pazienti
diabetici noti. In ambito sia chirurgico sia medico
è stato segnalato un aumento delle complicanze
infettive in presenza di valori glicemici > 220 mg/dl;
al contrario, un esito migliore si riscontra in pazienti
con glicemie a digiuno all’ingresso < 126 mg/dl, e
comunque < 200 mg/dl rilevate in modo random.
Purtroppo, sono carenti trials clinici in grado di
definire gli obiettivi glicemici nei degenti non
critici. Pur essendo ormai acquisito l’effetto negativo di valori glicemici elevati sull’esito della
degenza, negli ultimi anni l’obiettivo di mantenere anche durante il ricovero target glicemici
sovrapponibili a quelli utilizzati nella gestione
ambulatoriale ha lasciato il posto a un atteggiamento di maggiore prudenza, in considerazione
delle particolari condizioni ospedaliere (iperglicemia da stress, irregolarità nell’alimentazione
ecc.). In quest’ottica, le posizioni attuali dell’American Diabetes Association (ADA), che indicano
un obiettivo glicemico < 126 mg/dl a digiuno e
< 180-200 mg/dl nel corso della giornata, paiono
sostanzialmente condivisibili.
Controllo glicemico e prognosi ospedaliera
Numerose evidenze si sono accumulate sull’associazione tra i livelli glicemici durante la degenza
Unità coronariche
Una relazione stretta fra iperglicemia ed esito
finale in pazienti ricoverati in unità coronarica
217
Ministero della Salute
era già emersa in passato in studi osservazionali:
una metanalisi relativa a 15 studi, pubblicata nel
2000, aveva segnalato che il rischio relativo di
mortalità intraospedaliera era aumentato significativamente nei soggetti non noti come diabetici,
con glicemia al momento del ricovero > 110 mg/dl
e nei diabetici con glicemia > 180 mg/dl. In uno
studio del 2001 anche la mortalità un anno dopo
infarto miocardico acuto risultava associata alla
glicemia all’ingresso.
Nel 1999, lo studio DIGAMI aveva evidenziato
come in diabetici con infarto miocardico acuto
l’infusione di insulina e glucosio per 48 h, seguita
da terapia insulinica intensiva per 3 mesi, fosse
associata alla riduzione della mortalità a breve e a
lungo termine (–30% a 1 anno e –11% a 3,4
anni) e alla riduzione del rischio di reinfarto non
fatale e di scompenso cardiaco. Rimaneva indefinito, tuttavia, se il beneficio fosse attribuibile al
migliore controllo glicemico in fase acuta, al compenso metabolico mantenuto anche dopo la dimissione con terapia insulinica per via sottocutanea o a entrambi. Il trial DIGAMI-2, disegnato
al fine di dirimere questo quesito, non ha tuttavia
evidenziato differenze significative fra terapia convenzionale e intensiva, verosimilmente a causa di
problemi metodologici. Anche altri studi recenti,
pur confermando una correlazione positiva fra
concentrazioni glicemiche e mortalità, non sono
riusciti a dimostrare una riduzione della mortalità
nei gruppi sottoposti a trattamento intensivo.
È inoltre da sottolineare il potenziale effetto negativo delle crisi ipoglicemiche nella fase critica:
uno studio osservazionale svedese in pazienti diabetici con infarto miocardico acuto ha evidenziato
come sia l’iperglicemia al momento del ricovero
sia l’ipoglicemia durante il ricovero fossero indipendentemente associate a un aumentato rischio
di morte in un follow-up di due anni.
Questo aspetto si ricollega a editoriali recenti sulla
218
necessità di valutare con attenzione il rapporto
rischio-beneficio di obiettivi glicemici così stringenti durante il ricovero ospedaliero.
Stroke Unit
L’iperglicemia e il diabete conclamato sono frequenti in pazienti con ictus e ne condizionano
sia l’outcome a breve termine sia i risultati riabilitativi. Una metanalisi di 26 studi ha mostrato
che, tanto nelle forme ischemiche quanto in quelle
emorragiche, rispetto a valori di glicemia all’ingresso < 108 mg/dl, valori compresi fra 108 e 144
mg/dl si associano ad aumento della mortalità intraospedaliera e a 30 giorni.
Travaglio di parto
Anche nelle fasi conclusive della gravidanza il controllo glicemico materno è essenziale per evitare
un’iperinsulinizzazione fetale e una conseguente
ipoglicemia neonatale. I range raccomandati variano da 70-120 a 70-90 mg/dl; mancano tuttavia
studi controllati a questo proposito.
Cardiochirurgia
In ambito cardiochirurgico il mantenimento di valori glicemici strettamente controllati si associa a
ridotta mortalità e minore rischio di infezioni sternali profonde; questo rilievo rafforza la convinzione
che l’iperglicemia perioperatoria sia un predittore
indipendente di infezione. La mortalità più bassa
si osserva nei pazienti con glicemia < 150 mg/dl.
Terapia intensiva
L’approccio terapeutico al paziente iperglicemico
all’interno dell’area critica è da anni al centro di
un confronto serrato, con posizioni in continua
evoluzione.
Nel primo trial di Van den Berghe un gruppo di
soggetti ricoverati in Unità di Cura Intensiva Chirurgica (Intensive Care Unit, ICU) era stato ran-
Parte Seconda – Situazioni particolari
domizzato a trattamento insulinico intensivo (target glicemico 80-110 mg/dl) o a trattamento convenzionale (target glicemico 180-200 mg/dl). Sia
la mortalità durante la degenza in ICU sia la mortalità ospedaliera complessiva sono risultate minori
nel gruppo trattato intensivamente. La sopravvivenza in ospedale e in ICU era associata linearmente con i livelli glicemici e con la più alta sopravvivenza nei pazienti che raggiungevano una
glicemia media < 110 mg/dl.
Altri studi sono stati condotti in ICU mediche, su
casistiche miste, prevalentemente respiratorie. In
quest’ambito, i range glicemici proposti sono stati
variabili, da 100-139 a 80-110 mg/dl: quest’ultimo
trial randomizzato, ancora del gruppo di Van den
Berghe, ha ottenuto una riduzione della morbilità
nel gruppo a trattamento intensificato, ma non ha
potuto evidenziare un effetto complessivamente
positivo sulla mortalità, se non nei pazienti trattati
per periodi superiori ai 3 giorni. Utilizzando target
analoghi, nel 2008 Brunkhorst, su pazienti ricoverati per sepsi, non ha rilevato differenze di mortalità
rispetto a un gruppo a trattamento convenzionale,
mentre ha registrato una maggiore frequenza di
ipoglicemia e di eventi avversi.
I dubbi sollevati da questi risultati nei confronti
dell’utilità di un approccio molto aggressivo nel
paziente critico, già autorevolmente avanzati negli
scorsi anni, sono stati confermati e ampliati dalla
pubblicazione su JAMA, nel maggio 2008, di una
metanalisi di Wiener, relativa a 29 studi, per un
totale di oltre 8000 pazienti, trattati con target
variabili da < 110 mg/dl a livelli glicemici meno
stringenti. I risultati non hanno mostrato alcuna
associazione fra stretto controllo glicemico e riduzione della mortalità, o della necessità di dialisi,
evidenziando invece un marcato aumento del rischio di ipoglicemia. Solamente nelle ICU chirurgiche è stata rilevata una minore incidenza di
sepsi nei pazienti trattati in modo intensivo.
15
Infine, l’ampio studio randomizzato prospettico
multicentrico NICE-SUGAR, che ha interessato
oltre 6000 pazienti ricoverati in ICU sia chirurgiche sia mediche, ha sostanzialmente ribaltato i
risultati del gruppo belga di Lovanio, riportando
risultati significativamente più sfavorevoli, con
più elevata mortalità a 90 giorni, nei soggetti sottoposti a trattamento intensivo (target glicemico
81-108 mg/dl), rispetto a quelli mantenuti su livelli glicemici meno stringenti (inferiori a 180
mg/dl). Come prevedibile, anche l’incidenza di
ipoglicemia è risultata significativamente maggiore
nei pazienti in terapia intensificata.
A fronte di risultati così contrastanti, pur dando
per acquisita l’esigenza di evitare un’iperglicemia
marcata nei pazienti ricoverati in area critica, è
evidentemente necessaria una riconsiderazione
dell’atteggiamento di grande aggressività terapeutica adottato negli ultimi anni. In accordo con
un recente editoriale del New England Journal of
Medicine, pertanto, in attesa di nuove evidenze,
un obiettivo di 140-180 mg/dl, di poco inferiore
a quello indicato per le degenze ordinarie, pare al
momento ragionevole.
Gestione terapeutica
Un inquadramento complessivo della gestione
dell’iperglicemia nel paziente ospedalizzato in condizioni non critiche è stato delineato in una messa
a punto pubblicata sul New England Journal of
Medicine nel 2006.
Misurazione della glicemia
Il controllo della glicemia capillare sul “punto di
cura” è ormai divenuto un componente insostituibile della gestione clinica, consentendo di adattare in tempi molto rapidi gli schemi di terapia
ipoglicemizzante. A questo scopo, i risultati devono
essere facilmente reperibili nella cartella clinica del
219
Ministero della Salute
paziente. In situazioni non critiche si può orientativamente indicare una valutazione ogni 4-6 ore
per i pazienti che non si alimentano per os, mentre
in chi assume regolarmente i pasti le determinazioni dovranno essere almeno preprandiali e al
momento di coricarsi, con la possibilità di aggiungere controlli postprandiali ed eventualmente notturni. In corso di infusione insulinica endovenosa
continua, invece, il controllo dovrà essere più serrato, con determinazioni ogni 1-2 ore, secondo le
necessità cliniche.
Antidiabetici orali
Non si dispone di studi sistematici sul ruolo delle
principali categorie di ipoglicemizzanti orali in
ambito ospedaliero. Tutti questi farmaci, tuttavia,
hanno caratteristiche che potrebbero renderli poco
adatti all’impiego nel paziente non stabilizzato, e
comunque in situazione critica.
• Secretagoghi. La lunga durata d’azione delle
molecole e la predisposizione all’ipoglicemia
in pazienti che non si alimentano regolarmente
costituiscono controindicazioni relative all’utilizzo ospedaliero delle sulfoniluree. Questi farmaci non permettono, infatti, il rapido adattamento posologico richiesto dalle mutevoli
necessità dei pazienti ospedalizzati. Anche se
le meglitinidi (in Italia è disponibile la sola repaglinide) teoricamente dovrebbero causare
ipoglicemia con minore frequenza delle sulfoniluree, la mancanza di dati derivanti da trials
clinici dovrebbe sconsigliarne l’uso.
• Insulino-sensibilizzanti
- Metformina. La principale limitazione all’uso
della metformina in ospedale è costituita dal
rischio di acidosi lattica, complicazione potenzialmente mortale. Questa condizione,
rara in ambiente extraospedaliero, si verifica
con maggiore frequenza in presenza di scom-
220
penso cardiaco congestizio, ipoperfusione
periferica, insufficienza renale, età avanzata
e malattie polmonari croniche, tutte situazioni di frequente riscontro fra i pazienti ricoverati. Data la relazione segnalata fra acidosi lattica e terapia con metformina, sembra
pertanto prudente limitarne l’uso durante la
degenza.
- Tiazolidinedioni. In considerazione della latenza con la quale si sviluppa il loro effetto
clinico, non è indicato iniziare il trattamento
con questi farmaci durante il ricovero ospedaliero. Oltre a ciò, essi aumentano il volume
intravascolare; questo rappresenta un problema particolarmente nei pazienti predisposti allo scompenso congestizio e in quelli
con alterazioni emodinamiche, quali l’ischemia coronarica acuta o sottoposti a interventi
chirurgici.
- Farmaci che agiscono sul sistema delle incretine.
Vi è ancora scarsa esperienza, e nessun dato
pubblicato, sull’utilizzo ospedaliero di questa
nuova categoria di farmaci. Tuttavia, anche
se non sembrano esserci problemi di sicurezza, pare difficile individuare uno spazio
rilevante per gli incretino-mimetici nella cura
del paziente ospedalizzato. L’azione principale di exenatide, di liraglutide e degli inibitori del DPPIV consiste in una riduzione
dell’iperglicemia postprandiale: la loro utilizzazione sarebbe quindi chiaramente inappropriata in degenti che non si alimentano,
o si alimentano poco. Inoltre, inappetenza e
nausea sono tra gli effetti collaterali più frequenti dell’exenatide, soprattutto nelle prime
fasi del trattamento; vi è quindi una specifica
controindicazione a iniziare la somministrazione del farmaco in un ambito come quello
ospedaliero, dove sono frequenti problemi
nella regolare assunzione di cibo.
Parte Seconda – Situazioni particolari
Insulina
Alla luce dei limiti degli ipoglicemizzanti orali, la
terapia di scelta nel paziente ospedalizzato non
stabilizzato deve oggi essere considerata la somministrazione d’insulina.
• Insulina per via sottocutanea. L’insulina per via
sottocutanea può essere utilizzata nella maggior
parte dei pazienti ospedalizzati in situazioni
non critiche, quando non siano presenti indicazioni all’infusione continua endovenosa. Gli
schemi di somministrazioni possono essere diversi:
- schemi al bisogno. L’uso di somministrare la
terapia insulinica “al bisogno” (sliding scale),
cioè iniettare insulina regolare a intervalli
fissi (ogni 4-6 ore) solo se la glicemia supera
una soglia prefissata, è tuttora diffuso anche
nel nostro Paese, ma è ormai considerato un
metodo inadeguato e inefficace. Questo approccio, infatti, oltre a non affrontare il problema dell’insulinizzazione basale, non previene l’iperglicemia, intervenendo solamente
dopo il suo verificarsi, e comporta un rischio
di ipoglicemia successiva;
- schemi programmati di plurisomministrazioni.
Nella maggior parte dei pazienti diabetici,
una corretta terapia insulinica richiede il ricorso a schemi programmati, frequentemente
aggiornati sulla base del monitoraggio glicemico, con controlli sia pre- sia postprandiali.
A questo programma di base si aggiunge
spesso un algoritmo di correzione che tiene
conto del valore glicemico misurato, utile
sia per evitare eccessive escursioni glicemiche,
sia per guidare la modificazione dello schema
nei giorni successivi.
Gli schemi possono comprendere sia insuline
rapide sia analoghi rapidi dell’insulina ai pasti,
in aggiunta a insuline ritardate o ad analoghi
15
lenti, una o più volte al giorno. Non sono disponibili studi sull’impiego degli analoghi
dell’insulina negli schemi terapeutici ospedalieri. Tuttavia, dal punto di vista pratico essi
presentano indubbi vantaggi; in particolare,
l’utilizzo degli analoghi rapidi nella correzione
delle iperglicemie dovrebbe comportare minore rischio di ipoglicemia rispetto all’insulina
regolare.
Utilizzo del microinfusore
Nonostante la crescente diffusione dell’utilizzo
del microinfusore (CSII) nei pazienti con diabete
di tipo 1, mancano studi sul suo impiego in ambito ospedaliero. I pazienti trattati con microinfusori hanno solitamente un’elevata capacità di
autogestione della malattia e, se non presentano
condizioni critiche, richiedono solitamente di
mantenere in funzione lo strumento anche durante la degenza. Sono state pubblicate raccomandazioni sull’argomento; tuttavia, in attesa di una
più precisa definizione del problema, questa scelta
deve essere valutata nelle diverse situazioni, considerando:
• le condizioni cliniche del paziente;
• l’esperienza dello staff medico, infermieristico
e dietistico;
• la possibilità di pronta consulenza da parte di
uno specialista esperto nella gestione del microinfusore;
• la disponibilità di materiale d’uso e di assistenza
tecnica per il tipo specifico di infusore.
Queste indicazioni si applicano, evidentemente,
in soggetti in condizioni non critiche, che si dimostrano in grado di gestire correttamente questa
forma di terapia. In caso di ricovero ospedaliero
per complicazioni metaboliche acute, è invece preferibile rimuovere il microinfusore, procedendo al
riequilibrio metabolico con gli abituali protocolli
221
Ministero della Salute
insulinici sc o ev. Prima della dimissione, in questi
pazienti è poi opportuna un’attenta rivalutazione
dell’indicazione all’utilizzo dello strumento.
Insulina in infusione endovenosa: algoritmi
Nella terapia con insulina ev per infusione continua viene sempre utilizzata insulina regolare. La
terapia infusionale ev trova una sua precisa indicazione nell’ambito dei reparti di terapia intensiva,
ma anche nei reparti di degenza ordinaria, medici
e chirurgici; spesso si preferisce optare per questo
tipo di approccio terapeutico, necessario nel paziente che non si alimenta per os e nel paziente
critico in generale. Oltre alla chetoacidosi diabetica
e allo scompenso iperosmolare non chetosico, le
indicazioni principali comprendono l’iperglicemia
nelle seguenti condizioni:
• periodo perioperatorio;
• interventi di cardiochirurgia;
• trapianto d’organo;
• shock cardiogeno;
• terapia steroidea ad alte dosi;
• necessità di definizione della dose insulinica
totale prima dell’inizio della terapia insulinica
per via sottocutanea.
Negli ultimi anni sono stati proposti diversi algoritmi, gestibili direttamente dallo staff infermieristico, che prevedono un adeguamento delle dosi
d’insulina infusa guidato dai valori glicemici misurati ogni 1-2 ore. A tutt’oggi, però, mancano
studi di confronto fra algoritmi diversi, così che
non è possibile raccomandare un protocollo specifico. Particolarmente interessanti sembrano i più
recenti algoritmi dinamici, che prevedono la determinazione della dose insulinica non solamente
sulla base dei valori glicemici assoluti, ma anche
dell’andamento glicemico, cioè della direzione e
della velocità delle modificazioni glicemiche. Fra
questi si può ricordare quello proposto dalla Yale
222
University, che negli ultimi anni ha avuto una notevole diffusione anche nel nostro Paese. Molto
promettente pare anche la possibilità di gestire gli
algoritmi insulinici utilizzando i sistemi di monitoraggio continuo sottocutaneo del glucosio. In
considerazione della varietà di valide opzioni disponibili, tuttavia, più che il modello di algoritmo
scelto pare importante il metodo di lavoro seguito
per la sua definizione; per garantire un’applicazione
corretta, ogni realtà ospedaliera dovrebbe pertanto
adottare un protocollo adeguato condiviso e validato in loco.
Ripristino della terapia sottocutanea
nella fase postcritica
Superata la fase critica, il passaggio dalla terapia
insulinica endovenosa a quella sottocutanea richiede la somministrazione d’insulina NPH (Neutral Protamine Hagedorn) o basale 2-3 ore prima,
e di insulina regolare o analoghi rapidi 1-2 ore
prima dell’interruzione dell’infusione endovenosa.
Autogestione terapeutica
Il mantenimento dell’autogestione anche durante
la degenza ospedaliera può essere consentito nei
diabetici adulti che abbiano già raggiunto un’adeguata competenza nell’autogestione domiciliare,
con un fabbisogno insulinico noto e relativamente
stabile, in grado di praticare l’iniezione insulinica
e di alimentarsi per os. Tale procedura deve, tuttavia, essere concordata tra diabetico, medico curante e personale infermieristico.
Alimentazione
È indicata un’individualizzazione del programma
alimentare, basata su obiettivi terapeutici, parametri fisiologici e terapia farmacologica conco-
Parte Seconda – Situazioni particolari
15
mitante. È pertanto auspicabile che la prescrizione
nutrizionale sia effettuata da un dietista, membro
del team diabetologico ed esperto in terapia medica nutrizionale.
finale. Un approccio di team è necessario per definire i percorsi ospedalieri.
Prevenzione dell’ipoglicemia
Educare all’autogestione della malattia diabetica
in ospedale è un compito difficile e impegnativo.
I pazienti ospedalizzati sono sofferenti, stressati
e, inoltre, si trovano in un ambiente che spesso
non favorisce l’apprendimento. Durante la degenza è tuttavia necessario fornire un’educazione
di base, con informazioni sufficienti a rendere il
paziente in grado di non correre rischi al rientro
al proprio domicilio. I diabetici di nuova diagnosi
e quelli che hanno iniziato il trattamento insulinico o l’autocontrollo della glicemia devono essere
addestrati in modo da garantirne una gestione sicura in ambiente extraospedaliero e avviati, al momento della dimissione, al servizio diabetologico
di riferimento.
L’ipoglicemia, soprattutto nei pazienti insulinotrattati, è il principale fattore limitante la gestione
del controllo glicemico nel diabete. Anche pazienti
non diabetici possono andare incontro a ipoglicemia durante la degenza ospedaliera, in presenza di
malnutrizione, scompenso cardiaco, insufficienza
renale o epatica, neoplasie, infezioni o sepsi. Le
stesse condizioni possono aggravare il rischio di
ipoglicemia nei soggetti diabetici, aggiungendosi
alle consuete cause di ipoglicemia iatrogena. Va
quindi posta attenzione a una riduzione troppo
rapida della dose di corticosteroidi, a impreviste
diminuzioni dell’introito calorico, a episodi di
emesi. È da considerare la capacità di riportare
correttamente i sintomi premonitori; anche l’alterazione dello stato di coscienza dovuta all’anestesia
può mascherare i tipici sintomi dell’ipoglicemia.
Figure professionali coinvolte:
ruolo dello specialista diabetologo
La gestione del paziente diabetico in ospedale può
essere condotta efficacemente dal medico di reparto, tuttavia il coinvolgimento di uno specialista
o di un team specialistico può ridurre i tempi di
degenza, migliorare il controllo glicemico e l’esito
Educazione del paziente
Formazione aziendale
L’Azienda – in collaborazione con la struttura diabetologica – nell’ambito della programmazione
della formazione aziendale, organizza la formazione
degli operatori sanitari medici e non medici di
area medica e chirurgica, al fine di garantire alle
persone con diabete un’uniformità di comportamento soprattutto nella gestione della terapia e
dell’autocontrollo glicemico, nella diffusione e applicazione dei protocolli per le emergenze e nelle
informazioni sanitarie fornite.
223
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
16. Definizione di standard
Per i contenuti del Capitolo si rimanda alla Parte Prima, Capitolo 6.
225
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
17. La valutazione degli indicatori
di processo e outcome
per confermare la validità
della proposta operativa
In questi ultimi tempi è stato redatto, a cura di
un Gruppo di Ricerca privato che ha riunito alcuni riconosciuti esperti appartenenti a diverse
Società scientifiche italiane di diversi settori disciplinari, un documento di “Best Practices” per
la prevenzione, diagnosi, cura e assistenza delle
persone affette da diabete mellito. Tale documento
comprende una serie di indicatori di valutazione
delle performance, che si ritiene di riportare in
questa sede per la completezza e facilità di applicazione. Gli indicatori si raggruppano in diverse
tipologie: indicatori di processo, indicatori di esito
intermedio, indicatori di outcome. Da questo ampio elenco è stato poi tratto un minimum data
set. Ognuna di queste tipologie di indicatori può
avere utilizzi diversi.
Gli indicatori di processo e di risultato intermedio,
per il loro numero elevato e per le difficoltà di
estrazione dei dati dalle cartelle cliniche/schede
ambulatoriali, dovrebbero essere intesi come una
check list per mezzo della quale il medico possa
analizzare i suoi processi di cura e i risultati che
ne conseguono e allinearli alle Linee guida condivise: si tratta di uno strumento di analisi e di
indirizzo che si svolge in tempo reale, cioè mentre
avviene il processo di cura, ed è volto insieme a
misurare e a migliorare la performance. È prevedibile che tale attività, per il tempo e le risorse
che richiede, possa essere applicata solo a un campione della casistica, ovviamente non selezionato
(es. i primi 5-10 pazienti consecutivi di ogni mesetrimestre); essa appare indicata per avere un quadro molto generale delle performance, ma soprattutto per evidenziare anomalie, errori e scostamenti sistematici rispetto alle indicazioni delle
Linee guida.
Gli indicatori di esito sono riportati per completezza, ma la loro utilità è probabilmente marginale
in un’ottica di autovalutazione: infatti, l’esiguità
delle singole casistiche non consente di raggiungere
un numero di eventi adeguato e la stretta dipendenza dell’outcome dal case mix ne impedisce un
utilizzo appropriato per attività di benchmarking.
Il minimum data set costituisce, invece, il vero
strumento affidato ai professionisti per misurare
la loro performance e va applicato a una percentuale più significativa di soggetti (se possibile al
100% della casistica, ma è possibile prevedere anche una percentuale minore, selezionata con scelta
randomizzata): in questo caso lo strumento analizza e misura retrospettivamente ciò che è stato
fatto e ottenuto relativamente agli aspetti essenziali
di una specifica condizione clinica: la misura di
ciò che è stato fatto, cioè della performance, costituisce l’elemento essenziale e critico da cui partire per migliorare la qualità dei processi di cura.
227
Ministero della Salute
Indicatori di processo
Sono rappresentati dal rapporto tra soggetti con
la presenza del parametro (indicativo di un’attività
realizzata nell’attività di cura) sul totale dei soggetti
analizzati. Per esempio, in quanti soggetti con
diabete mellito vengono rilevate o eseguite le seguenti procedure:
• informazione al paziente sulla patologia;
• informazione su alimentazione a ogni visita;
• informazione su attività fisica a ogni visita;
• informazione sul fumo per i fumatori a ogni
visita;
• determinazione della glicemia a digiuno almeno 2 volte l’anno;
• determinazione dell’HbA1c almeno 2 volte
l’anno;
• automonitoraggio glicemico se indicato;
• misurazione della pressione arteriosa a ogni visita;
• valutazione dei polsi arteriosi almeno 1 volta
l’anno;
• determinazione dell’indice caviglia-braccio (ankle-brachial index, ABI) almeno ogni 3 anni;
• controllo clinico del piede almeno una volta
l’anno;
• misurazione del peso corporeo, circonferenza
addominale e indice di massa corporea (body
mass index, BMI) a ogni visita e almeno 1 volta
l’anno;
• valutazione del profilo lipidico (colesterolo totale, colesterolo-LDL, colesterolo-HDL, trigliceridi) almeno una volta l’anno;
• determinazione della microalbuminuria/proteinuria almeno una volta l’anno;
• determinazione della creatininemia e calcolo
del filtrato glomerulare (MDRD o CockroftGault) almeno una volta l’anno;
• ECG almeno una volta l’anno;
• fundus oculi almeno ogni 2 anni;
228
• terapia con statina se colesterolo LDL > 100
mg/dl;
• terapia con ACE-inibitore o ARB (angiotensin
receptor blockers) se microalbuminuria/proteinuria;
• valutazione del rischio cardiovascolare [carta o
software dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS)];
• trattamento antiaggregante in soggetti con rischio cardiovascolare > 20%;
• vaccinazione antinfluenzale.
Indicatori di risultato intermedio
Sono rappresentati dal rapporto tra soggetti con
un certo risultato conseguito sul totale dei soggetti
il cui il parametro è stato misurato. Per esempio:
• soggetti con HbA1c [dosaggio allineato allo
standard DCCT (Diabetes Control and Complication Trial)] < 7%;
• soggetti con HbA1c (dosaggio allineato allo
standard DCCT) > 9%;
• soggetti con ipoglicemie severe (che richiedono
intervento esterno);
• soggetti con colesterolo LDL < 100 mg/dl;
• soggetti con colesterolo LDL > 160 mg/dl;
• soggetti con pressione arteriosa < 130/80 mmHg;
• soggetti con pressione arteriosa > 160 e/o 100
mmHg;
• soggetti in eccesso ponderale (BMI > 25 kg/m2)
con calo ponderale rispetto alla visita precedente;
• soggetti in eccesso ponderale (BMI > 25
kg/m2) con aumento ponderale rispetto alla
visita precedente;
• soggetti fumatori che hanno smesso di fumare.
Indicatori di esito
Sono rappresentati dal rapporto tra soggetti in
cui è presente l’esito sul totale dei soggetti il cui il
parametro è stato misurato. Per esempio:
Parte Seconda – La valutazione degli indicatori di processo e outcome per confermare
la validità della proposta operativa
• numero dei soggetti con macroalbuminuria;
• numero dei soggetti con filtrato glomerulare
< 30 ml/min/1,73;
• numero dei soggetti con ulcera del piede;
• numero dei soggetti con necessità di fotocoagulazione retinica;
• numero dei soggetti con eventi cardiovascolari
[STEMI (ST segment elevation myocardial infarction), NSTEMI (non-ST segment elevation
myocardial infarction), angina instabile, rivascolarizzazione, angina stabile, malattia cerebrovascolare, arteriopatia periferica].
Minimum data set
• Soggetti fumatori che hanno smesso di fumare.
• Determinazione dell’HbA1c almeno 2 volte
l’anno.
• Soggetti con HbA1c a target.
• Valutazione della pressione arteriosa almeno
una volta l’anno.
• Soggetti con pressione arteriosa a target.
• Valutazione del profilo lipidico (colesterolo totale, colesterolo-LDL, colesterolo-HDL, trigliceridi) almeno una volta l’anno.
• Soggetti con LDL a target.
• Determinazione della microalbuminuria/proteinuria almeno una volta l’anno.
17
• Fundus oculi almeno ogni 2 anni.
• Controllo clinico del piede almeno una volta
l’anno.
Recentemente, la Regione Piemonte ha ufficializzato un suo documento per la realizzazione di
un sistema di Gestione Integrata del Diabete Mellito sul suo territorio. La definizione degli indicatori e dei relativi standard emessa dalla Regione
Piemonte, peraltro desunti dal File Indicatori
dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD),
sembra molto funzionale anche per tutto il territorio nazionale. Si ritiene pertanto utile riportarla
qui, a fianco della precedente indicazione, che è
invece il frutto di una valutazione di esperti di
varie discipline, non ufficiale e assolutamente autonoma (Tabelle 17.1, 17.2 e 17.3).
Per gli indicatori di processo lo standard è ovviamente il 100%, dal momento che questi indicatori
si riferiscono ad attività di dimostrata efficacia.
La terza colonna riporta il livello di performance
rilevato a livello nazionale dall’indagine sopramenzionata. Per gli indicatori di risultato intermedio non è possibile definire standard, e quindi
il riferimento è costituito esclusivamente dai livelli
di performance rilevati a livello nazionale dall’indagine sopramenzionata.
Agli indicatori di processo e risultato intermedio
desunti dal File Dati AMD sono stati aggiunti alcuni indicatori di miglioramento, sulla base di
Tabella 17.1 Indicatori di processo
Indicatore e Standard
P1 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione di HbA1c nell’anno (100%)
P2 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione del profilo lipidico nell’anno (100%)
P3 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione della PA nell’anno (100%)
P4 Percentuale di pazienti con almeno 1 determinazione del BMI nell’anno (100%)
P5 Percentuale di pazienti valutati per l’abitudine al fumo (100%)
P6 Percentuale di pazienti valutati per nefropatia (2) (100%)
P7 Percentuale di pazienti valutati per retinopatia (3) (100%)
P8 Percentuale di pazienti con esame dei piedi/anno (100%)
Performance nazionale
98%
89%
97%
86%
43%
BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; PA, pressione arteriosa.
229
Ministero della Salute
Tabella 17.2 Indicatori di risultato intermedio
Indicatore e Standard
Performance nazionale
R1 Percentuale di pazienti con HbA1c < 7,0%
R2 Percentuale di pazienti con valori di colesterolo LDL < 100 mg/dl
R3 Percentuale di pazienti con valori pressori < 130/85 mmHg
R4 Percentuale di pazienti con BMI < 25 kg/m2
R5 Percentuale di pazienti non fumatori
R6 Percentuale di pazienti con valori di LDL ≥ 130 mg/dl non in trattamento con statine
R7 Percentuale di pazienti con valori pressori > 140/90 mmHg non in trattamento antipertensivo
43,1%
29,8%
36,6%
19,2%
82,2%
36,4%
53,1%
BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; LDL, lipoproteine a bassa densità.
Tabella 17.3 Indicatori di miglioramento
Indicatore
M1 Distribuzione in quintili del valore di HbA1c
M2 Distribuzione in quartili del valore di colesterolo LDL
M3 Distribuzione in quintili del valore della pressione arteriosa sistolica
M4 Distribuzione in quintili del valore della pressione arteriosa diastolica
M5 Distribuzione in quintili del valore di BMI
BMI, indice di massa corporea; HbA1c, emoglobina glicata; LDL, lipoproteine a bassa densità.
quanto proposto dal progetto DQIP (Diabetes
Quality Improvement Project). Tali indicatori vengono calcolati sui dati espressi da variabili continue
(suddivisi in quartili o quintili) già presi in considerazione per calcolare gli indicatori di processo
e risultato intermedio. Gli indicatori di migliora-
230
mento servono per valutare la capacità di miglioramento di tali variabili nell’anno indice rispetto
all’anno precedente (spostamento verso sinistra
della frequenza dei dati); per tale motivo questi
indicatori potranno essere calcolati solo dalla fine
del secondo anno di raccolta dei dati.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
18. Individuazione di strategie
di implementazione
delle Raccomandazioni
La produzione di Linee guida e/o Raccomandazioni
di pratica clinica tese al raggiungimento di obiettivi
di salute, se rappresenta un momento molto importante nella costruzione dei principi del Governo
Clinico, rischia di restare un mero esercizio accademico, se non è accompagnata da una programmazione pragmatica relativa all’organizzazione dei
servizi deputati a erogare quelle prestazioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi posti.
È quindi necessario tentare di disegnare un quadro
organizzativo di riferimento, con precisi riferimenti
pratici per realizzare setting idonei all’applicazione
delle Raccomandazioni espresse e alla rilevazione degli indicatori di outcome che consentiranno di monitorare l’efficacia e la qualità delle prestazioni rese.
Il quadro di riferimento di principio è quello che
permette di applicare sulla più vasta scala possibile il
modello di assistenza delle malattie croniche (chronic
care model ), che, ove applicato, sembra promettere i
migliori e più duraturi risultati sia relativamente agli
obiettivi di salute sia a quelli economici. Tale modello
prevede alcuni elementi indispensabili:
• la responsabilizzazione consapevole e informata
della persona affetta da cronicità;
• la disponibilità di sistemi di comunicazione e
informazione omogenei o comunque compatibili tra loro;
• la presenza di team multiprofessionali e multi-
•
•
•
•
disciplinari di operatori della sanità e del terzo
settore;
un sistema di formazione continua degli operatori della sanità;
un sistema a “rete” dei vari livelli di erogazione
delle prestazioni, non concorrenziale e articolato sul modello degli Hubs & Spokes;
un programma incentivante in base al raggiungimento degli obiettivi e delle performance;
una politica legislativa extrasanitaria relativa
al sistema di welfare responsabile (istruzione,
previdenza, trasporti, fiscalità).
La responsabilizzazione consapevole
e informata della persona affetta da cronicità
La necessità primaria di assolvere a questo impegno
nasce da una considerazione tanto ovvia quanto
reale: nessuna figura professionale sarà mai in grado
di farsi carico completo, in modo oggettivo, di
tutti i bisogni e i rimedi di una persona affetta da
una malattia cronica evolutiva. L’unico soggetto
in grado di contenere e ridurre i disagi della convivenza con la patologia cronica è la persona stessa.
Ciò è ancora più evidente in una malattia come il
diabete, in cui gli stili di vita e i comportamenti
quotidiani sono in grado di incidere in modo significativo sull’evoluzione naturale della malattia. Con-
231
Ministero della Salute
dizione indispensabile, tuttavia, affinché la persona
sia in grado di interagire con la propria condizione è
l’informazione esaustiva e non autoritaria, che conduce a obiettivi e a programmazioni condivise.
Quindi, il primo e più importante compito della
società, e in particolare di tutti i soggetti direttamente impegnati nei servizi di tutela della salute, è
produrre informazioni fruibili e comprensibili e
assicurarsi che siano state trasmesse e comprese. A
quel punto la persona oggetto del servizio diventa
corresponsabile al pari di tutto il team sanitario ed
entra di diritto a farne parte come soggetto attivo.
Diventa quindi prioritario che gli operatori deputati
alla cura delle cronicità apprendano metodologie e
tecniche della comunicazione interpersonale e siano
messi in grado di rafforzare continuamente la consapevolezza del loro assistito (empowerment) e di
valutare, con adeguati feedback, l’apprendimento
delle informazioni date. Appare oggi più importante
orientare in questo senso la formazione del personale sanitario piuttosto che nell’acquisizione di specifiche competenze scientifiche, che potranno seguire canali paralleli e diversificati [Formazione a
Distanza (FAD)]. Un ruolo rilevante in questa direzione sarà da attribuirsi al terzo settore, che può
svolgere un’utilissima opera di informazione e tutoraggio, affiancata al Servizio Pubblico secondo i
principi della sussidiarietà.
La disponibilità di sistemi di comunicazione
e informazione omogenei o comunque
compatibili tra loro
In un sistema pensato secondo il modello e i concetti della rete non concorrenziale, la mancanza
di un flusso informativo e di comunicazione all’interno della rete stessa vanificherebbe qualsiasi
significato. La possibilità di registrazione di tutte
le informazioni di carattere sanitario sulla singola
persona e la disponibilità delle informazioni stesse
232
per tutti gli attori del sistema, compreso il cittadino, permettono invece di fornire prestazioni
appropriate e corrette e di valutare nel tempo gli
indicatori di efficacia e qualità del servizio stesso.
L’obiettivo, ambizioso, è quello di giungere al “Patient Record ”, che non è solo il “Fascicolo Sanitario
Personale”, mera raccolta di documenti, ma un
sistema interattivo a uso di ogni professionista e
del cittadino, strumento e tramite di comunicazione fra i nodi del sistema. Gli esempi applicati
sono numerosi: dall’esperienza americana della
Kaiser Permanente (un unico modello in uso
presso tutti gli operatori) a quella, sempre americana, del Massachussets (compatibilità di scambio
tra database ospedalieri e territoriali), a quella, infine, molto avanzata, ma non ancora completata,
della Regione Lombardia (Personal Card).
Molte Regioni italiane hanno già compiuto importanti passi in questo senso, incrociando i dati
presenti nei diversi database amministrativi e clinici e ottenendo in tal modo una fotografia dell’esistente, che consente di vedere con buona precisione lo scostamento dalle Linee guida di appropriatezza nelle singole condizioni di patologia.
Un ulteriore elemento di notevole utilità è rappresentato dalla possibilità di inserire in questo
sistema anche le agende elettroniche delle prenotazioni di prestazioni sanitarie (CUP), al fine di
programmare i percorsi clinici dei singoli pazienti
inscrivendoli fin dall’inizio nel contratto di cura
annuale, concordato con il team assistenziale.
La presenza di team multiprofessionali
e multidisciplinari di operatori della sanità
e del terzo settore
Tutte le patologie croniche, e il diabete in particolare, necessitano di un approccio omogeneo da
parte di più figure professionali, coordinate tra
loro. Le esperienze europee (Regno Unito, Fran-
Parte Seconda – Individuazione di strategie di implementazione delle Raccomandazioni
cia) e quelle statunitensi (California, Minnesota)
hanno individuato alcune figure chiave all’interno
di equipe anche più ampie:
• il medico di medicina generale (MMG): è il
soggetto garante della regolarità e aderenza del
percorso clinico del paziente; organizza la sua
attività, preferibilmente in associazione con altri colleghi, al fine di provvedere a controlli
regolari e periodici degli assistiti. È altresì l’operatore che più facilmente individua soggetti di
nuova diagnosi e che cura la prevenzione dei
soggetti a rischio di contrarre la malattia;
• il team specialistico: composto dal medico specialista diabetologo, dall’infermiere specialista e,
accessoriamente, da tecnici dedicati (dietista, podologo), rappresenta contemporaneamente il
soggetto di consulenza per il MMG nella gestione dei nuovi casi e il soggetto di “presa in carico” temporanea dei pazienti con problematiche
emergenti correlate all’insorgenza di complicanze
acute o croniche della malattia. È inoltre il soggetto di presa in carico completa dei pazienti
con diabete di tipo 1, sia nel periodo dell’età
evolutiva (team pediatrico), sia nell’età adulta;
• l’infermiere “care manager” delle cronicità: si
tratta di una figura presente nella maggior parte
dei sistemi sanitari europei, ma assente nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano. Deve
essere un professionista appositamente formato,
che segue i pazienti nei loro percorsi clinici e
che funziona da “ponte” fra le strutture della
primary care (MMG, Distretti) e quelle della
secondary care (Centri Specialistici, Ospedali).
Ogni infermiere può prendersi cura in media
di 100 pazienti affetti da cronicità;
• il terzo settore: l’attività prevalente dell’associazionismo va vista nell’incremento dell’informazione
e consapevolezza delle persone affette da diabete.
L’azione dell’“empowerment” è cruciale per la finalità dell’applicazione del chronic care model.
18
Un sistema di formazione continua
degli operatori della sanità
Il sistema italiano dell’Educazione Continua in
Medicina (ECM) è stato recentemente modificato
e oggi pare corrispondere alle necessità espresse
dagli operatori. Stante il quadro epidemiologico
fortemente orientato al prevalere delle patologie
croniche evolutive, appare opportuno prevedere
una quota sensibile di aggiornamento e formazione
di tutte le figure professionali indirizzata verso i sistemi organizzativi del disease management e del
chronic care model.
La parte legata alle strette competenze cliniche e
scientifiche delle singole patologie può efficacemente essere sviluppata e ampliata attraverso il
sistema della FAD.
Un sistema a “rete” dei vari livelli
di erogazione delle prestazioni,
non concorrenziale e articolato sul modello
degli Hubs & Spokes
L’attuale conformazione del sistema sanitario è
fondata sull’erogazione di prestazioni tariffate,
fornite da aziende in concorrenza tra loro, del
tutto svincolate da sistemi di controllo dell’appropriatezza. Ciò crea di fatto la spinta al moltiplicarsi delle prestazioni e dell’offerta, che genera
un eccesso ulteriore della domanda.
Le malattie croniche, e il diabete in particolare,
hanno invece una solida base di evidenze che consente di individuare percorsi clinici diagnosticoterapeutici-assistenziali standardizzabili in buona misura, fatte salve le differenze individuali, e programmabili. Ciò consente di individuare un sistema “a
rete” entro il quale il cittadino si muove secondo un
iter determinato a priori, con un riferimento “principale” (Hub) e dei riferimenti secondari (Spokes)
tra loro coordinati e legati da flussi informativi omo-
233
Ministero della Salute
genei. A seconda del momento evolutivo della patologia, o della tipologia della stessa (diabete di tipo
1 o 2; complicanze presenti e attive o assenti o inattive), l’Hub sarà rappresentato di volta in volta dal
soggetto di “presa in carico” (MMG, team specialistico), sempre con l’ausilio del soggetto care manager.
Le ricadute organizzative di un sistema “a rete” sono
importanti per la massima efficientizzazione delle
risorse: è infatti intuitivo che non tutti dovranno
fare tutto, ma che ogni singolo centro, oltre a un
minimo comune denominatore, dovrà indirizzare
la propria attività per fornire quelle prestazioni e
quelle tecnologie necessarie all’intero sistema.
L’esempio più classico è quello relativo al “piede
diabetico”: se tutti i MMG dovranno eseguire almeno l’ispezione del piede, tutti i centri specialistici
dovranno fornire le pratiche diagnostiche minime
(ABI, monofilamento); solo alcuni centri, però, dovranno eseguire tecniche diagnostiche e terapeutiche
di secondo e terzo livello [angiografia, velocità di
conduzione motoria (VCM), velocità di conduzione
sensitiva (VCS), chirurgia, medicazioni avanzate].
Un programma incentivante in base
al raggiungimento degli obiettivi
e delle performance
Questo punto è cruciale. Il sistema britannico e, in
minor misura, quello francese, hanno da tempo applicato un sistema di incentivazioni (e anche di disincentivazioni) che premia gli operatori che dimostrano il raggiungimento di obiettivi di salute, attraverso la valutazione di appositi indicatori e standard.
Ciò ha permesso, nell’arco di un triennio, di vedere
migliorare gli outcome intermedi in maniera sensibile.
L’applicabilità in Italia di un siffatto sistema non
è irraggiungibile: lo stato giuridico della medicina
primaria, legata al SSN da convenzioni, consente
di orientare i contratti collettivi nazionali e le
parti contrattuali locali verso obiettivi ben defi-
234
nibili. Sul versante degli operatori dipendenti dalle
Aziende Sanitarie appare invece necessario superare il pagamento a prestazione (nomenclatore tariffario), per virare verso emolumenti correlati all’aderenza ai processi dei percorsi clinici e al raggiungimento di obiettivi intermedi.
Una politica legislativa extrasanitaria
relativa al sistema di welfare responsabile
(istruzione, previdenza, trasporti, fiscalità)
L’ultimo punto esula dai compiti di questo documento, ma appare utile ricordare che nell’ambito
della prevenzione e della cura delle malattie croniche il ruolo giocato dall’organizzazione sociale è di
primaria importanza. Il mondo della scuola è fondamentale per la modificazione di stili di vita impropri e forieri di problematiche di grande importanza come l’obesità, il fumo e altre condizioni di
rischio. I trasporti pubblici possono essere un elemento focale per l’introduzione di modelli comportamentali più salutari. La leva della fiscalità può
tradursi in stimoli incentivanti o disincentivanti.
Conclusioni
La comunità scientifica è oggi in grado di fornire ai
cittadini e agli operatori sanitari una serie di Raccomandazioni basate su forti evidenze; l’implementazione di queste Raccomandazioni nella pratica
clinica è certamente in grado di fornire al cittadino
affetto da diabete un notevole valore aggiunto in
termini di spettanza e soprattutto di qualità di vita.
È tuttavia necessario, per poter applicare con buon
successo quanto stabilito dalla ricerca scientifica,
modificare in parte il sistema organizzativo sanitario, per avviarsi sulla strada della corresponsabilizzazione informata dei cittadini e fornire loro
i più adeguati percorsi clinici relativi alla patologia
da cui sono affetti.
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
19. Il ruolo delle Associazioni
Gli ultimi Piani Sanitari Nazionali pongono la necessità di soddisfare una domanda crescente di assistenza di natura diversa, basata sull’integrazione
fra prestazioni sanitarie e sociali e sulla continuità
delle cure per periodi di lunga durata, evidenziando
al tempo stesso la necessità di utilizzare adeguati
modelli di gestione della cronicità, che migliorino
la compliance operatore sanitario-paziente, il vissuto psicologico e l’impatto sociale della malattia.
Inoltre, pongono l’accento sulla necessità di individuare una linea di sviluppo che identifichi la famiglia, come un nodo della rete, nel doppio ruolo
di espressione di richiesta assistenziale e di risorsa
e inoltre coinvolga il Volontariato come attore del
processo decisionale, cercando al tempo stesso di
fornirgli degli strumenti per fargli acquisire una
cultura manageriale ed etica che lo porti a operare
con affidabilità, chiarezza ed efficienza.
In particolare, il Piano Sanitario Nazionale 20032005 identifica il Volontariato come elemento
fondamentale in quella rete di relazioni che devono legare, in un rapporto di partnership, tutti i
protagonisti del mondo della salute, e che viene
identificato come “capitale sociale”.
Il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 enfatizza
la necessità di favorire le varie forme di partecipazione del cittadino, in particolare attraverso il
coinvolgimento dei pazienti e delle associazioni
dei familiari. Inoltre, prevede un ruolo attivo di
queste organizzazioni, in modo da dare valore alle
loro esperienze e conoscenze, ai fini di un’adeguata
programmazione dell’offerta sanitaria.
Il coinvolgimento deve prevedere non solo la partecipazione del malato reso “empowered ” e la valorizzazione del Volontariato, ma anche la presenza
di quest’ultimo nella determinazione delle politiche assistenziali.
Il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 (in progress) ripropone un’ulteriore attenzione nei confronti del ruolo delle Associazioni dei pazienti,
enfatizzando la necessità:
• della promozione del ruolo del cittadino e delle
Associazioni nella gestione e controllo delle
prestazioni del servizio sanitario;
• della partecipazione sostenibile dei pazienti e
delle loro associazioni negli organismi e nei
processi decisionali,
• del coinvolgimento dei familiari e delle Associazioni di Volontariato nei percorsi sanitari.
Tale coinvolgimento è elemento essenziale per
sviluppare l’empowerment del paziente e il grado
di soddisfazione nei confronti dei servizi erogati
e per consentire al Volontariato di effettuare
interventi non parcellizzati, ma sinergici e coordinati con i vari nodi del sistema e con le attività delle istituzioni.
235
Ministero della Salute
In particolare, per quanto riguarda il Volontariato
nel mondo della diabetologia va ricordato che per
Associazioni Diabetici si devono intendere le Organizzazioni di Volontariato costituite da persone
con diabete o, per i minori, dai loro familiari, che
rispondono ai requisiti delle leggi vigenti, tra le
quali vanno riportate:
• Associazioni di Volontariato Legge n. 266
dell’11 agosto 1991, legge quadro;
• Associazioni ONLUS Legge n. 460 del 4 dicembre 1997;
• Associazioni di promozione sociale Legge n.
383 del 7 dicembre 2000.
Inoltre, la Legge n. 115 del 16 marzo 1987 prevede
che le “Unità sanitarie locali si avvalgano della collaborazione e dell’aiuto delle Associazioni di Volontariato nelle forme e nei limiti previsti dall’art.
45 della Legge n. 833 del 23 dicembre 1978”.
Le Associazioni Diabetici sono molto diffuse su
tutto il territorio italiano e si differenziano spesso
per le attività che svolgono e per gli ambiti di intervento. La rappresentatività dei diabetici “Soci”
è molto variabile con organizzazioni che, pur svolgendo attività molto utili, hanno pochi iscritti
fino a organizzazioni che contemplano un considerevole numero di soci.
Una delle criticità rilevate dalle stesse Associazioni
di pazienti è spesso la limitazione nelle conoscenze,
tecniche e amministrative, che impedisce di intervenire efficacemente nelle attività previste dall’organizzazione, con una riduzione dell’efficienza
e dell’efficacia dell’impegno sia nei confronti del
paziente, sia nei rapporti con il sistema sanitario
e le istituzioni.
Pertanto, risulta fondamentale implementare il
processo di formazione, che deve riguardare in
particolar modo la capacità di comunicazione e
236
ascolto, la relazione d’aiuto, la conoscenza di leggi
e normative nazionali, regionali, locali riferite al
diabete e complicanze, la gestione amministrativa
e contabile dell’Associazione, la capacità organizzativa e programmatoria.
In quest’ottica, le Associazioni dei pazienti possono
contribuire al miglioramento dell’educazione del
paziente e del contesto sociale in cui egli vive e
opera e, inoltre, facilitare l’accettazione della malattia
e l’adesione alla terapia farmacologica e a uno stile
di vita corretto, nel rispetto di quanto definito dal
medico di medicina generale (MMG), dal pediatra
di libera scelta (PLS) o dal servizio di diabetologia.
Per quanto riguarda questo particolare aspetto,
l’Associazione può diventare un punto di riferimento per varie attività tra le quali:
• informazioni relative al diabete, all’assistenza,
alle normative di legge, ai diritti e doveri del
diabetico;
• raccolta e segnalazione di problematiche o difficoltà riscontrate nella gestione e cura del diabete e delle complicanze, nelle difficoltà o discriminazioni incontrate nella vita sociale;
• aiuto alla risoluzione dei problemi;
• intermediazione Territorio-Istituzioni;
• sensibilizzazione della popolazione al problema
diabete;
• formazione/informazione alla popolazione per
la diagnosi precoce del diabete (di tipo 1 e di
tipo 2);
• proposta di soluzioni e/o di miglioramenti necessari per ridurre i disagi;
• verifica dell’efficacia delle azioni correttive-migliorative effettuate;
• verifica dell’applicazione delle normative nazionali, regionali e locali emanate e loro congruità e adeguatezza.
Appendici Parte Seconda
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Appendice 1
Manuali e pacchetti didattici
sull’educazione terapeutica strutturata
Scaricabili dal sito www.aemmedi.it (sezione biblioteca)
Manuali
Pacchetti didattici
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Autocontrollo (Manuale per il paziente).
Rischio cardiovascolare (Manuale per il medico).
Rischio cardiovascolare (Manuale per il paziente).
Ipoglicemia (Manuale per il medico).
Ipoglicemia (Manuale per il paziente).
Alimentazione e stile di vita (Manuale per il medico).
• Alimentazione e stile di vita (Manuale per il paziente).
• Il piede diabetico (Manuale per il medico).
• Il piede diabetico (Manuale per il paziente).
•
•
•
•
•
Presentazione dei Pacchetti didattici.
Note per le equipe.
Questionari: prevenzione.
Importanza dell’autoanalisi nel paziente diabetico.
Autocontrollo Corso ETS: Storyboard.
Autocontrollo Questionario.
Corso ETS per pazienti su piede diabetico: esercitazioni.
Esercitazioni pratiche.
Storyboard piede.
239
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Appendice 2
Livelli di intervento e appropriatezza nella
cura del diabete in ambito specialistico
Per tutti i soggetti affetti da diabete di tipo 1 e di
tipo 2 l’assistenza dovrebbe concentrarsi su:
• una valutazione metabolica completa al momento della diagnosi e a intervalli regolari;
• una valutazione dei fattori di rischio cardiovascolari al momento della diagnosi e a intervalli
regolari;
• un’informazione corretta e completa sul diabete, sulle sue complicanze, sull’efficacia della
modificazione degli stili di vita e dei trattamenti nel modificare la storia naturale della
patologia;
• la definizione e la gestione di un piano terapeutico personalizzato, finalizzato a ottenere
il migliore compenso metabolico possibile;
• un approccio dietetico personalizzato;
• l’educazione sanitaria come parte integrante
del piano terapeutico che comprenda, a seconda delle esigenze, la gestione dell’ipoglicemia, la gestione del diabete in caso di patologie
intercorrenti, la cura dei piedi, il counseling
sulla cessazione del fumo, la gestione dell’attività fisica, l’autogestione della terapia sulla base
del monitoraggio domiciliare della glicemia;
• la fornitura dei dispositivi medici per l’attuazione della terapia, quali le penne per insulina
e gli infusori, quando indicati;
• l’addestramento al monitoraggio domiciliare
240
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
della glicemia e la prescrizione del relativo materiale di consumo nei casi che lo richiedano;
il trattamento degli altri fattori di rischio cardiovascolare quali il sovrappeso, l’ipertensione
e le dislipidemie;
una corretta informazione sulla contraccezione
nelle donne diabetiche in età fertile, quando
indicato;
una corretta informazione sulla pianificazione
della gravidanza in tutte le donne diabetiche
in età fertile;
lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della retinopatia diabetica;
lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della nefropatia diabetica;
lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della neuropatia diabetica;
lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della disfunzione erettile;
lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento del piede diabetico;
lo screening, la diagnosi precoce e il trattamento della cardiopatia ischemica e delle altre
complicanze vascolari;
un’assistenza qualificata nel corso dei ricoveri
ordinari;
la definizione e l’applicazione di protocolli clinici per le emergenze diabetologiche e per il
Appendici Parte Seconda
trattamento ospedaliero dei pazienti diabetici
acuti (paziente critico in Terapia Intensiva, infarto miocardio acuto, ictus).
Per tutte le donne in gravidanza a rischio di diabete gestazionale (pregresso diabete gestazionale,
obesità addominale ecc.) l’assistenza dovrebbe
concentrarsi:
• sullo screening di diabete gestazionale;
• sul counseling su corretta alimentazione e attività fisica.
Per tutte le donne diabetiche in gravidanza e per
tutte le donne con diabete gestazionale è utile
mettere in atto:
• una corretta informazione sulla gestione del
diabete in gravidanza;
• la terapia medica e nutrizionale adeguata, con
frequenti rivalutazioni;
• l’emissione dell’attestato di patologia mediante
l’inserimento nel Registro Regionale Diabetici
(diabete gestazionale);
• l’addestramento al monitoraggio domiciliare
della glicemia e la prescrizione del relativo materiale di consumo (diabete gestazionale);
• lo screening periodico della retinopatia diabetica (diabete pregravidico);
• l’assistenza metabolica specialistica durante il
travaglio e il parto;
• la rivalutazione metabolica dopo il parto (diabete gestazionale).
L’obiettivo di una corretta informazione deve prevedere le attività integrate di:
• servizi di diabetologia dell’AS;
• servizi di diabetologia di secodo livello per aree
vaste;
• medici di medicina generale;
• operatori dei Distretti;
• medici specialisti delle specialità coinvolte.
In linea con l’assistenza al diabete da erogarsi in
team, e non come sola visita medica, è necessario
garantire un adeguato rapporto medico/personale
sanitario.
Per quanto attiene ai servizi di diabetologia è possibile ipotizzare i seguenti livelli organizzativi.
Tipologia della struttura
Attività
Note particolari
Servizi di primo livello, intraospedalieri
Operanti “a ponte” sia sul territorio sia
nell’ospedale, per la consulenza del paziente ricoverato
Per migliorare gli esiti e ridurre le degenze
è fondamentale l’assistenza al diabetico in
ospedale (1 su 5 di tutti i ricoveri)
Servizi ospedalieri di primo livello territoriali*
Operanti sul territorio ma coordinati con
l’ospedale tramite percorsi concordati e
condivisi
Reti di diabetologi specialisti ambulatoriali
organizzati come servizi di primo livello
Operanti sul territorio ma coordinati con
l’ospedale tramite percorsi concordati e
condivisi
Servizi di secondo livello per prestazioni a
elevata specializzazione e richiesta assistenziale pluridisciplinare
Ospedalieri, finalizzati al ricovero con indirizzo di cura per situazioni complesse
(piede diabetico, trapianti, centri per la retinopatia, chirurgia bariatrica)
Fondamentale il lavoro in team. È da prevedere adeguata dotazione di personale
non medico
* Sono i servizi ospedalieri che operano a livello ambulatoriale aperti al territorio, anche con sedi distaccate in periferia.
241
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Appendice 3
Raccomandazioni per l’implementazione
della standardizzazione internazionale
per l’HbA1c in Italia
N.
1
Raccomandazione
1.1
1.2
1.3
2
3
Il traguardo dell'errore totale è ±6,7% (espresso in termini di frazione percentuale sul valore assoluto di HbA1c)
L’imprecisione del metodo (CV), valutata sul lungo periodo, deve essere contenuta entro il 2%
La partecipazione a programmi di Valutazioni Esterne di Qualità (VEQ), nei quali sono utilizzati materiali commutabili e con
valori di HbA1c assegnati mediante il metodo di riferimento IFCC, rappresenta il modo corretto per poter valutare quanto le
misure effettuate rispondano ai requisiti di errore totale sopra definiti
La refertazione dell’eAG sulla base dell’HbA1c, attraverso l'equazione proposta a conclusione dello studio ADAG, è soggetta
a troppe limitazioni perché se ne possa consigliare l’utilizzo sistematico
3.1
3.2
3.3
4
L’HbA1c deve essere misurata con metodi calibrati al sistema di riferimento IFCC
Il risultato deve essere riportato in mmol/mol e in unità % derivate, utilizzando l’equazione di conversione sopra riportata
Nel referto di laboratorio, per comodità degli utilizzatori, il valore di HbA1c sarà espresso, per un periodo limitato di tempo,
mediante le unità convenzionali (%) seguite dalle unità IFCC (mmol/mol). Successivamente, le unità convenzionali saranno
abbandonate
A partire dal 01.01.2010 i risultati dell’HbA1c saranno espressi sia in unità allineate al sistema DCCT (%), sia in unità standardizzate IFCC (mmol/mol). A partire dal 01.01.2012 i risultati dell’HbA1c saranno refertati solamente in unità IFCC (mmol/mol)
DCCT, Diabetes Control and Complications Trial ; eAG, glicemia media stimata; IFCC, International Federation of Clinical Chemistry.
242
Appendici Parte Seconda
Limitazioni dell’esame dell’HbA1c
Interferenze analitiche (possono essere superate da un opportuno trattamento del campione o dalla scelta di un metodo analitico più
specifico)
Fattori influenti
Effetto sul risultato finale
• Iperbilirubinemia
• Ipertrigliceridemia
• Innalzamento dei globuli bianchi
• Presenza di alcune varianti emoglobiniche (HbS, HbC, HbD, HbE)
Sovrastima
Sovrastima
Sovrastima
Sovrastima o sottostima
Effetti in vivo dovuti a particolari condizioni fisiologiche (generalmente note a priori)
Fattori influenti
Effetto sul risultato finale
• Gravidanza
• Variabilità stagionale
• Età del soggetto
• Fattori genetici (es. etnia)
• Presenza di altre varianti emoglobiniche e/o di talassemia major
Sottostima
Sovrastima o sottostima
Sovrastima
Sovrastima o sottostima
Sovrastima o sottostima
Effetti in vivo dovuti a particolari condizioni patologiche (generalmente non note a priori)
Fattori influenti
Effetto sul risultato finale
• Diabete di tipo 1 in rapida evoluzione
• Malaria
• Anemia emolitica
• Anemia sideropenica
• Recenti perdite di sangue o trasfusioni
• Splenectomia
• Insufficienza renale
• Pazienti HIV-positivi in terapia antiretrovirale
• Trattamento con eritropoietina o con altri farmaci che interagiscono con l'eritropoiesi
• Etilismo
Sottostima
Sottostima
Sottostima
Sovrastima
Sottostima
Sovrastima
Sovrastima
Sovrastima
Sottostima
Sottostima
Interpretazione dei risultati della misura quantitativa dell'albumina nelle urine (microalbuminuria)
Campione fresco
Creatinina (mg/mg)
Creatinina (mg/mmol)
Normoalbuminuria
Microalbuminuria
Macroalbuminuria
< 30
30-300
> 300
< 3,4
3,4-34
> 34
Campione 24 h
mg/24 h
Normoalbuminuria
Microalbuminuria
Macroalbuminuria
< 30
30-300
> 300
Campione temporizzato
mg/min
Normoalbuminuria
Microalbuminuria
Macroalbuminuria
< 20
20-200
> 200
< 3,4
3,4-34
> 34
243
Ministero della Salute
Esempio di attestato di allineamento al sistema internazionale IFCC per la standardizzazione dell’emoglobina glicata
244
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Appendice 4
Raccomandazioni per l’applicazione delle tecnologie applicate al miglioramento del controllo glicemico e alla prevenzione
delle ipoglicemie nel diabete di tipo 1 secondo gli “Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito”
Raccomandazione
Livello
di Prova
Forza della
Raccomandazione
CSII
In soggetti selezionati che, malgrado un regime basal-bolus ottimale,
presentino scarso controllo glicemico e/o ipoglicemie ricorrenti, può
essere considerata l’indicazione all’uso del microinfusore da parte di
un team esperto nel suo utilizzo
II
B
CGM real-time
Adulti
Il CGM nei diabetici di età superiore ai 25 anni in terapia insulinica intensiva è uno strumento utile per ridurre l’HbA1c
I
B
CGM real-time
Il CGM può essere di utilità nel ridurre l’HbA1c in diabetici di tipo 1 in
Adolescenti e Bambini altre classi di età, in particolare nei bambini e comunque nei soggetti
che dimostrano una buona aderenza all’utilizzo continuativo dello
strumento
II
B
CGM real-time
Ipoglicemie
VI
B
Il CGM può contribuire a ridurre le ipoglicemie e può essere utile nel
trattamento di soggetti proni all’ipoglicemica o con sindrome da ipoglicemia inavvertita
CGM, monitoraggio glicemico continuo; CSII, terapia iniettiva insulinica sottocutanea continuativa tramite micropompa.
245
246
0,05-30 UI/ora con
incrementi di 0,05 UI
0,0-16 UI/ora con
incrementi di 0,1 UI
0,05-35 UI/ora con
incrementi di 0,05 UI
IPX8
Backlight Energy Saving A colori
Sleep mode
sul controllo remoto
Propietario
Resistente alla caduta
in acqua
Backlight
Propietario
Integrato con sistema
Interfaccia
per il monitoraggio
con l’utilizzatore
continuo della glicemia. con icone
Medtronic Paradigm
Real Time. Allarmi
vibratori o sonori.
Possibilità
di telecomando
Fino a 4 metri per 12
ore
Colori
Standard Luer-Lock
Include il glucometro
nel telecomando,
che permette
la programmazione
a distanza dell’infusore.
Allarmi vibratori
o sonori. Database
con elenco cibi
più comuni integrato
nel software per
il suggerimento di boli
IPX8 (60 minuti a 2,5
metri)
Backlight
Resistenza
all’acqua
Caratteristiche
del display
Pulsanti in rilievo tattile.
Menù personalizzabile
standard o avanzato.
Allarmi vibratori o sonori.
Possibilità di download
dati via infrarossi.
Include nella sua versione
combo il glucometro nel
telecomando, che permette
la programmazione
a distanza dell’infusore
La FDA ha già approvato la pompa Solo MicroPump (Medino Ltd), in questo momento non ancora in distribuzione.
Caratteristiche
aggiuntive
Connessione al Standard Luer-Lock
set di infusione
No. Sistemi di sicurezza
nel controllo
dell’infusione
Sì. Controlli incrociati
interni
Sì. Sistema di
prevenzione della
sovrainfusione
attraverso selftest
Sì
No
Allarme di
sovrainfusione
Tube free. Sistema
applicabile direttamente
sul corpo attraverso
un cerotto.
Controllato a distanza
da telecomando
per la programmazione
dell’infusione. Database
con elenco dei cibi più
comuni
Set di infusione
integrato. No tubing
IPX8 (30 minuti a 2,5
metri)
0,05 UI
0,1 UI
0,05 UI
0,05 UI
0,1 UI
Bolo minimo
7 profili di 24 ore con 24
possibili differenti
velocità basali.
Velocità basale
temporanea con
incrementi %
dell’infusione e
incrementi nel tempo di
30 minuti fino a 24 ore
Insulet
0,025-25 UI/ora con
incrementi di 0,025 UI
4 profili di 24 ore con 24
possibili differenti
velocità basali.
Velocità basale
temporanea con
incrementi del 25%, da
0% al 100%
Sooil Development
Range di basali 0,1-25 UI/ora con
incrementi di 0,1 UI
Roche
48 velocità basali e 3
profili personalizzabili.
Velocità basale
temporanea modificabile
con aumenti in %
rispetto all’infusione in
atto o assoluti in
termine di UI/ora
Azienda
Medtronic
Omnipod
12 velocità basali e 4
profili personalizzabili.
Velocità basale
temporanea con
incrementi del 10% e
incrementi nel tempo di
30 minuti fino a 24 ore
DANA
Animas
Minimed 522/722
5 profili con 24 possibili
Programmi di
insulinizzazione differenti velocità basali.
Velocità basale
basale
temporanea con
incrementi del 10%, da 0%
al 200% e incrementi nel
tempo di 15 minuti fino a
24 ore
Microinfusore Accu-Check Spirit-Combo One Touch Ping
Caratteristiche tecniche e di sicurezza dei principali microinfusori
Pulsanti in rilievo tattile.
Menù personalizzabile
standard o avanzato.
Allarmi vibratori o sonori
Standard Luer-Lock
Backlight
IPX8 (30 minuti
a 1 metro)
Sì. Sistema di
prevenzione della
sovrainfusione attraverso
continui selftest
0,05 UI
0,0-30 UI/ora con
incrementi di 0,05 UI
4 profili di 24 con 24
possibili differenti
velocità basali.
Velocità basale
temporanea con
incrementi del 10%, da
0% al 200% e
incrementi nel tempo di
15 minuti fino a 24 ore
Nipro Diabetes System
Nipro Amigo
Ministero della Salute
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Appendice 5
Paragrafo A
Passaggio dell’adolescente con diabete
dal pediatra al diabetologo per l’adulto
Anamnesi psicosociale
che li ha avuti in carico fino al quel momento.
Il profilo può essere di tipo narrativo oppure contenere valutazioni con prove standardizzate, se in
carico a un’equipe con all’interno la figura dello
psicologo.
Nel passaggio ad altro servizio i giovani possono
essere presentati da una breve relazione scritta a
cura del pediatra oppure dell’equipe di pediatria
A) Il paziente e il proprio nucleo familiare
1. Dati anagrafici: nucleo familiare (composizione)
Relazioni di parentela
Nome
Anni
Scolarizzazione
Professione
Padre
Madre
Figlio/a
Figlio/a
Altro
2. Preoccupazione rispetto al diabete
da 1 a 10 per ciascun membro della famiglia: 1 = per nulla...; 10 = molto preoccupato
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Padre
Madre
Figlio/a
Figlio/a
Altro
247
Ministero della Salute
3. Qualità del supporto intrafamiliare
1 = non efficace...; 10 = molto efficace
1
2
3
4
5
6
7
8
9
4. Ci sono stati eventi nella storia della famiglia prima e/o dopo la scoperta del diabete, quali e quando?
5. Chi è la persona di riferimento per il/la ragazzo/a in casa o fuori casa attualmente?
In casa
Padre
Madre
Fratello/sorella
Nonno/a
Zio/a
Insegnante
Altra persona (specificare)
È sempre stata la stessa o è cambiata nel tempo?
❒ Sì, è sempre stata la stessa
❒ No, è cambiata
Se la persona di riferimento è cambiata, chi l’ha sostituita?
❒ Un genitore
❒ Uno zio
❒ Un amico
❒ Altro ___________________________________________
Da quanto è cambiata?
❒ Da meno di sei mesi
❒ Da meno di un anno
❒ Da più di due anni
B) Il paziente e il mondo extrafamiliare
6. ll paziente ha comunicato il suo diabete al di fuori della sua famiglia?
❒ Sì
❒ No
Se sì, a chi ha comunicato il suo diabete?
❒ _______________________________________________
In quale circostanza?
❒ _______________________________________________
248
Fuori casa
10
Appendici Parte Seconda
7. Autonomia personale
Qual è il grado di autonomia personale che il/la ragazzo/a riesce a esprimere? Intesa non solo in riferimento alla gestione del
diabete ma anche, per quanto noto, al grado di interazione con la famiglia e i pari coetanei
1 = non autonomo, ha bisogno che un adulto o familiare gli ricordi quello che deve fare; 2 = parzialmente autonomo; 3 = autonomo
1
2
3
Cura personale
Alimentazione
Organizzazione della giornata
8. Autonomia nella gestione del diabete
0 = frequenti dimenticanze di fare controlli e somministrare l’insulina; 1 = non ancora autonomo; 2 = parzialmente autonomo (il controllo
glicemico e l’autosomministrazione di insulina richiedono talvolta l’assistenza dell’adulto di riferimento); 3 = totalmente autonomo (controllo
glicemico e autosomministrazione sempre da solo)
0
1
2
3
Controllo glicemico
Autosomministrazione di insulina
9. Risorse
Come si è evoluta questa autonomia nel tempo e con quali modalità e risorse. Da chi è stato aiutato?
❒ Nessuno/completa indipendenza
❒ Genitori
❒ Fratelli
❒ Altri familiari
❒ Amici
❒ Insegnanti
❒ Servizio di diabetologia
❒ Altri (specificare) __________________________________
Su chi sente di poter contare attualmente il/la ragazzo/a diabetico/a se volesse aiuto/conforto/sostegno?
❒ Nessuno
❒ Genitori
❒ Fratelli
❒ Altri familiari
❒ Amici
❒ Insegnanti
❒ Servizio di diabetologia
❒ Altri (specificare) __________________________________
249
Ministero della Salute
10. Interessi culturali
Interessi culturali, sportivi e abilità nelle prestazioni, scolastiche e sociali
Vi si dedica: 1 = mai; 2 = qualche volta; 3 = regolarmente
1
2
3
1
2
3
Lettura
Musica (ascolto)
Uso di uno strumento musicale
Teatro/cinema
Volontariato
Altro (specificare)
Interessi sportivi
Vi si dedica: 1 = mai; 2 = qualche volta; 3 = regolarmente
Pratica di uno sport
Interesse per uno sport
Interessi scolastici
Promozioni o ripetenze scolastiche, progetti per il futuro e aspettative di realizzazione dei propri progetti e sogni nel cassetto
❒ Promozioni o ripetenze: _______________________________________________________________________________
❒ Progetti per il futuro: _________________________________________________________________________________
❒ Sogni nel cassetto: ___________________________________________________________________________________
11. Caratteristiche di personalità principali del/della giovane: è una persona comunicativa, socievole, disponibile ad accogliere suggerimenti e consigli? Oppure è inibita, chiusa, timorosa del giudizio altrui?
❒
❒
❒
❒
❒
❒
❒
Estroverso/a, socievole
Comunicativo/a
Disponibile verso gli altri
Timido/a
Inibito/a
Timoroso/a del giudizio degli altri
Immaturo/a
250
Appendici Parte Seconda
Paragrafo B
Questionario per la valutazione del passaggio
dal servizio diabetologico pediatrico a quello
degli adulti (ragazzi)
Molto Abbastanza
Poco
Per niente
1) Frequenti regolarmente il servizio pediatrico?
2 ) Ascolti e metti in pratica i consigli del pediatra?
3 ) Ti soddisfa il rapporto instaurato con l’equipe pediatrica?
4 ) Il medico che ti segue è in grado di capire i tuoi bisogni e le tue motivazioni?
5) Ritieni che nel servizio pediatrico si presti attenzione ai tuoi bisogni
(orari di visita, disponibilità del personale ecc.)
6) Sei soddisfatto delle relazioni tra la tua famiglia e il servizio pediatrico?
7) Ti preoccupa il trasferimento nel servizio di diabetologia dell’adulto?
8) Ti senti e sei stato preparato al trasferimento?
9) Sono esaurienti le informazioni che hai ricevuto riguardo:
Non ne ho
ricevute
• la scuola?
• l’idoneità sportiva?
• i viaggi?
• la patente di guida?
• il lavoro?
• la sessualità?
• la previdenza?
10) Ritieni che il passaggio al servizio degli adulti sia un momento
di crescita personale?
11) Senti il bisogno di lasciare il servizio pediatrico per trasferirti
al servizio degli adulti?
12) Hai mai pensato di passare al servizio degli adulti?
Sempre
Spesso
Qualche
volta
Mai
251
Ministero della Salute
Paragrafo C
Questionario per la valutazione del passaggio
dal servizio diabetologico pediatrico a quello
degli adulti (ragazze)
Molto Abbastanza
Poco
Per niente
1) Frequenti regolarmente il servizio pediatrico?
2 ) Ascolti e metti in pratica i consigli del pediatra?
3 ) Ti soddisfa il rapporto instaurato con l’equipe pediatrica?
4 ) Il medico che ti segue è in grado di capire i tuoi bisogni e le tue motivazioni?
5) Ritieni che nel servizio pediatrico si presti attenzione ai tuoi bisogni
(orari di visita, disponibilità del personale ecc.)?
6) Sei soddisfatta delle relazioni tra la tua famiglia e il servizio pediatrico?
7) Ti preoccupa il trasferimento nel servizio di diabetologia dell’adulto?
8) Ti senti e sei stata preparata al trasferimento?
9) Sono esaurienti le informazioni che hai ricevuto riguardo:
Non ne ho
ricevute
• la scuola?
• l’idoneità sportiva?
• i viaggi?
• la patente di guida?
• il lavoro?
• la sessualità/la gravidanza?
• la previdenza?
10) Ritieni che il passaggio al servizio degli adulti sia un momento
di crescita personale?
11) Senti il bisogno di lasciare il servizio pediatrico per trasferirti
al servizio degli adulti?
12) Hai mai pensato di passare al servizio degli adulti?
252
Sempre
Spesso
Qualche
volta
Mai
Appendici Parte Seconda
Paragrafo D
Questionario di gradimento per la valutazione
del passaggio dal servizio diabetologico pediatrico
a quello degli adulti
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
1) Ti ha preoccupato il trasferimento nel servizio di diabetologia dell’adulto?
2) Ti eri sentito preparato al trasferimento?
3) Sei soddisfatto del servizio che frequenti ora?
4) Ti soddisfa il rapporto instaurato con l’equipe diabetologica?
5) Ritieni che nel servizio che frequenti ora si presti attenzione ai tuoi bisogni
(orari di visita, disponibilità del personale ecc.)
6) Il medico che ti segue è in grado di capire i tuoi bisogni e le tue motivazioni?
7) Il tempo di attesa nel servizio è lungo?
8) Sono esaurienti le informazioni che hai ricevuto riguardo:
Non ne ho
ricevute
• la patente di guida?
• l’idoneità sportiva?
• i viaggi?
• la scuola?
• il lavoro?
• la previdenza?
• la sessualità?
9) Ritieni che il passaggio al servizio degli adulti sia un momento
di crescita personale?
10) Durante il tempo d’attesa hai occasione di incontrare tuoi coetanei?
Sempre
Spesso
Qualche
volta
Mai
11) Hai mai pensato di tornare al servizio pediatrico?
12) Pensi che il programma del Centro che frequenti attualmente possa essere migliorato o modificato? Se sì, che cosa cambieresti?
253
Ministero della Salute
Lettera al medico di famiglia
Gentile Collega,
desidero informarLa che il Suo assistito Signor/a __________________________ , avendo raggiunto
l’età adulta, afferirà per la cura del diabete al nostro centro di diabetologia dell’adulto dell’Ospedale
/Università ________________________ che prenderà in carico il paziente nell’ottica di garantire
la piena continuità di cura con la struttura diabetologica pediatrica di provenienza.
Il nostro centro ha dedicato ai giovani con diabete di tipo 1 uno specifico spazio ambulatoriale in cui
opera un’equipe multidisciplinare (diabetologo, psicologo, dietista, infermiere professionale), con
l’obiettivo di affrontare le diverse problematiche clinico-psicologiche-nutrizionali inerenti al diabete
mellito in età giovanile. Il percorso assistenziale prevede, inoltre, che il paziente venga sottoposto periodicamente a esami clinico-strumentali per la valutazione delle complicanze croniche del diabete.
Allego copia della Carta dei Servizi del nostro centro diabetologico e i recapiti telefonici ai quali può
rivolgersi tutte le volte che lo ritiene opportuno.
Sarà mia cura inviarLe periodicamente un aggiornamento sul percorso diagnostico-terapeutico del Signor/a _______________________________________________________________________
Il medico di riferimento è il Dott. __________________________________________________
I.P. di riferimento _______________________________________________________________
N. tel. _______________________________________________________________________
e-mail________________________________________________________________________
RingraziandoLa per la collaborazione, Le invio cordiali saluti
Data ____________________
254
Firma ___________________________________________
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Appendice 6
Sintomi dell’ipoglicemia
Ipoglicemia (valori di glicemia < 80 mg/dl)
In presenza di un eccesso di insulino-terapia possono verificarsi malesseri ipoglicemici, diversi da un soggetto all’altro, che si ripetono
nello stesso soggetto, ma sono suscettibili di variazioni nelle diverse età della vita. Ogni bambino presenterà solo alcuni di questi
sintomi e il bambino stesso saprà riconoscerli e descriverli. Poiché sono sostanzialmente stabili e la variazione avviene in tempi molto
lunghi, i genitori, attraverso la richiesta di intervento, specificheranno quali particolari sintomi interessano il loro bambino. I sintomi
che usualmente si presentano durante l’ipoglicemia sono distinti in sintomi iniziali e tardivi.
Sintomi iniziali
Sintomi tardivi
Mal di testa
Pallore
Crampi
Nausea
Dolori addominali
Fame
Ansia
Irrequietezza
Palpitazioni
Tachicardia
Sudorazione (fredda)
Tremori
Brividi
Sensazione di caldo
Sensazione di freddo
Confusione
Incapacità a concentrarsi
Debolezza
Sonnolenza
Fatica
Sensazione di testa vuota
Sensazione di instabilità
Irritabilità
Variazione della personalità
Difficoltà nel parlare
Difficoltà nel camminare
Mancanza di coordinamento muscolare
Disturbi visivi (visione doppia, annebbiata)
Tremori (parestesie)
Convulsioni
Dai sintomi iniziali, se non trattati, si passa ai sintomi tardivi per i quali si riscontra una maggiore difficoltà a far risalire la glicemia.
Non è possibile indicare un valore sotto il quale si perde coscienza, in quanto questo valore varia da bambino a bambino.
255
Ministero della Salute
Trattamento dell’ipoglicemia lieve-moderata
1. Individuato il sintomo: interrompere ogni attività. Se fa freddo coprirsi. Nel dubbio misurare la glicemia
2. Assumere cola o succo di frutta o caramelle fondenti alla frutta (circa 3 grammi di glucosio)
Peso (kg)
Succo di frutta o cola (in ml)
Quantità di succo di frutta o cola nel bicchiere
10
20
30
40
50
60
70
25
50
75
100
125
150
175
Un dito
Due dita scarse
Due dita
½ bicchiere
2/3 di bicchiere
Un bicchiere quasi pieno
Un bicchiere pieno all’orlo
Caramelle (n.)
1
2
3
4
5
6
7
L’utilizzo del bicchiere è molto pratico, anche se non così preciso come l’uso dei millilitri
Per bicchiere s’intende un comune bicchiere da cucina di 200 ml. Le dita: quelle di un adulto
3. Attendere l’effetto; se dopo 10 minuti il sintomo non è scomparso e la glicemia non è salita ripetere l’assunzione
4. Se il pasto successivo è lontano, consolidare l’effetto con cereali e/o frutta
5. Ricordare di avvisare la famiglia dell’episodio per adeguare la terapia insulinica
In caso di difficoltà nell’assumere le caramelle o il succo:
a) se il bambino è cosciente e ha difficoltà a deglutire, somministrare miele liquido
b) se il bambino è non cosciente o ha convulsioni, iniettare glucagone
Mai dare a un soggetto privo di coscienza bevande o cibi, in quanto potrebbero essere inalati, con rischio di soffocamento
o conseguente polmonite!
Dopo la correzione dell’ipoglicemia:
1) astenersi dall’attività fisica fino a quando i sintomi non siano scomparsi. Attendere almeno 15 minuti prima di svolgere qualsiasi
attività che richieda piena attenzione o prontezza di riflessi (esame scolastico, macchinari, guida ecc.)
2) non lasciare mai il bambino da solo dopo un episodio di ipoglicemia. L’alunno deve essere accompagnato o affidato a un adulto
anche all’uscita di scuola perché, in casi eccezionali, l’episodio potrebbe ripresentarsi durante il tragitto
256
Appendici Parte Seconda
Trattamento dell’ipoglicemia grave
La condizione più rischiosa per la salute del bambino è ovviamente l’ipoglicemia grave, caratterizzata da stato confusionale, non
orientamento nello spazio e nel tempo, da incapacità o difficoltà di deglutire (rischio di soffocamento), perdita di coscienza,
stato convulsivo. Per la somministrazione del farmaco è sufficiente la presenza anche di uno solo dei sintomi descritti
Questa è un’evenienza rarissima ed è sempre preceduta da altri sintomi (vedi ipoglicemia lieve-moderata) che consentono un intervento
quando il soggetto è ancora cosciente
Tuttavia, è bene sapere come gestire tale situazione ed è necessario predisporre un protocollo di comportamento che deve essere
appreso da tutto il personale che abitualmente segue il bambino a scuola
Che cosa fare
1. Se il bambino è in uno degli stati sopra descritti non spaventarsi, mantenere la calma e agire secondo una procedura di intervento
preordinata:
- chiamare in aiuto uno o due colleghi (uno si occupa del bambino, l’altro contatta i genitori e il personale sanitario secondo
quanto stabilito dal protocollo)
- evitare il panico, spiegare agli alunni che la cosa non è grave e invitarli a uscire rapidamente dall’aula; ovviamente, in precedenza
si sarà stabilito dove dovranno andare e chi li prenderà in custodia
- non somministrare alimenti o liquidi per bocca in stato di semi-incoscienza (rischio di soffocamento)
2. Personale sanitario a cui telefonare:
- 118 (in modo da ottenere un intervento entro 2-3 minuti)
- centro di diabetologia pediatrica di riferimento (telefono…..….)
- eventualmente, un medico che presta la sua opera nelle vicinanze della scuola, precedentemente contattato
3. I genitori devono essere sempre avvertiti
4. I numeri di telefono saranno tenuti in evidenza nella classe e vicino al telefono
Somministrazione di glucagone
Alla comparsa dei sintomi sopra descritti e nel più breve tempo possibile (entro 5/10 minuti), gestire l’ipoglicemia autonomamente mediante la somministrazione del glucagone per via intramuscolare o sottocutanea (sostanza che accelera la liberazione delle riserve
epatiche di glucosio).
Questa terapia ristabilisce di solito un normale livello di coscienza in circa 5-10 minuti; successivamente bisogna insistere con le
caramelle o con succo di frutta o cola, che assicureranno il completo ristabilimento del bambino
Modalità di somministrazione
1. Dopo aver aspirato in siringa il glucagone, porre la siringa con l’ago rivolto verso l’alto per fare uscire l’aria
2. Prevedere per:
- bambini di età inferiore ai 10 anni: 0,5 mg di glucagone (metà flacone)
- bambini di età superiore ai 10 anni: 1 mg (flacone intero)
Il dosaggio è comunque specificato sul certificato medico; ne va presa visione e scritta la dose da somministrare sul piano di emergenza della glicemia
3. Iniettare il glucagone per via sottocutanea o intramuscolare possibilmente nelle seguenti zone:
- regione deltoidea (parte supero-laterale delle braccia)
- regione laterale delle cosce
- addome
257
Ministero della Salute
Appendice 7
Piede diabetico
In seguito all’analisi delle Linee guida regionali, nazionali e internazionali, viene proposta la pianificazione della sequenza logica e cronologica di tutti gli
interventi assistenziali riguardanti la diagnosi e il
follow-up del paziente con sospetto e diagnosi di
piede diabetico. Nella pianificazione del percorso
identificato si cerca di ottimizzare i processi, evitando
ridondanze e prestazioni inutili e mantenendo
l’obiettivo dell’appropriatezza delle prestazioni.
Un esempio di percorso di riferimento adottato
dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, che
individua i ruoli e le responsabilità dei processi, è
riportato nella Figura a pagina 257.
Il percorso proposto per la cura
del paziente con piede diabetico
Identificazione dei soggetti a rischio
1. Screening e prevenzione attiva delle lesioni del
piede.
2. Diagnosi delle lesioni in fase attiva.
3. Terapia delle lesioni in fase attiva.
4. Riabilitazione dei pazienti in fase post-ulcerativa - Ortesi e fisioterapia riabilitativa.
I fattori di rischio del piede diabetico sono:
• età > 65 anni;
• lunga durata del diabete;
258
• vasculopatia e/o neuropatia;
• deformità del piede e lesioni preulcerose;
• altre complicanze del diabete: nefropatia, retinopatia;
• pregressa lesione del piede;
• scompenso metabolico, obesità, ipertensione
arteriosa, dislipidemia, fumo;
• scarsa igiene personale;
• scarso supporto familiare.
Una volta che il diabetologo ha identificato il paziente a rischio, è necessario classificarlo, e allo
scopo è stata seguita l’indicazione proposta nelle
Linee guida, con piccole varianti per quello che
riguarda la frequenza del controllo.
Sono state individuate 4 classi. Sebbene nessun
sistema di stratificazione del rischio sia stato universalmente adottato per predire l’insorgenza di
un’ulcera, i pazienti si possono suddividere, secondo le indicazioni dell’International Working
Group of Diabetic Foot, come segue:
• rischio 0: assenza di neuropatia; frequenza di
valutazione annuale;
• rischio 1: neuropatia; frequenza di valutazione
semi-annuale;
• rischio 2: neuropatia, vasculopatia e/o deformità; frequenza di valutazione trimestrale;
• rischio 3: precedenti ulcere o amputazioni;
frequenza di valutazione mensile o trimestrale.
Appendici Parte Seconda
AMMISSIONE
Presa in carico presso ambulatorio
del “piede diabetico”
UO di Diabetologia
Visita medica e impostazione diagnostica
per grado di rischio (0, 1, 2, 3)
Diagnostica
per vasculopatia
Valutazione
polsi periferici
Diagnostica
per neuropatia diabetica
DIAGNOSI
Assenti o dubbi?
Valutazione
indice di Winsor
Diabetologo
Biotesiometro
+ Filamento
Diabetologo
EMG
Neurologo
Consulenza
ortopedica
Ortopedico
Rx del piede
Radiologo
Podologo
Ecocolordoppler
arterioso o venoso?
Chirurgia vascolare
No
Follow-up
Diabetologo
Test con vasoattivi
(iloprost)
Day-hospital terapeutico
Diabetologia
Rivascolarizzazione
Radiologia interventistica/
Chirurgia vascolare
Ischemia clinica?
TERAPIA
Precedente
rivascolarizzazione
Sì
Esempio di percorso di diagnosi e cura del piede diabetico adottato dall’Azienda Ospedaliera Università Senese PDTA
piede diabetico e integrato dal gruppo di lavoro con modelli nazionali e internazionali.
Come intervenire sui fattori di rischio
• Educazione (pazienti, familiari, operatori sanitari).
Oltre ai pazienti, occorre educare anche i familiari
e gli operatori sanitari (adeguati corsi periodici di
aggiornamento da promuovere da parte del personale dell’UO di Diabetologia). È importante dare
un ruolo nella prevenzione a operatori sanitari non
259
Ministero della Salute
medici, quali gli infermieri professionali e i podologi, i quali, opportunamente istruiti, possono contribuire fattivamente sia alla fase istruttiva sia a
quella educativa. La compilazione di una scheda
finalizzata di screening del piede diabetico è uno
strumento di approccio immediato che individua
due categorie semplificate di pazienti – a basso e
ad alto rischio – e permette di inserire il paziente
in un idoneo programma di educazione sanitaria
atto a svolgere la sorveglianza multidisciplinare
delle recidive di ulcera. Torna anche a questo livello
l’importanza della presenza di varie figure di professionisti che orbitano intorno al paziente in esame.
• Utilizzo di calzature adeguate.
Diagnostica per neuropatia
Diagnostica per vasculopatia
Lo screening periodico delle eventuali complicanze
viene effettuato come segue:
• per tutti i pazienti diabetici ogni 24 mesi: ecocolordoppler degli arti inferiori;
• per tutti i pazienti diabetici con fattori di rischio aggiuntivo (ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo, scarse compliance) ogni 12
mesi: ecocolordoppler degli arti inferiori.
Competenze e responsabilità
Screening per vasculapatia → Diabetologo
• Esame obiettivo.
• Indice di Winsor (seppure gravato da molti limiti per il paziente diabetico).
Osteoartropatia neuropatica
Lo screening periodico delle eventuali complicanze
viene effettuato come segue:
• per tutti i pazienti diabetici ogni 24 mesi: valutazione neuropatia sensitiva, motoria e autonomia;
• per tutti i pazienti diabetici con fattori di rischio aggiuntivo (ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo, scarse compliance) ogni 12
mesi: valutazione neuropatia sensitiva, motoria
e autonomica.
Competenze e responsabilità
Diabetologo
• Monofilamento di Semmes-Weinstein.
• Biotesiometria.
• Esame obiettivo e questionario per sintomi.
Neurologo
• Elettromiografia.
260
Approfondimento diagnostico → Chirurgia
vascolare/radiologo interventista
• Ecocolordoppler arterioso degli arti inferiori.
• Consulenza specialistica.
Consulenza cardiologica → Cardiologo
• Valutazione del rischio cardiovascolare anche
in vista di interventi successivi.
• Valutazione per eventuale rivascolarizzazione
miocardica in paziente affetto da arteriopatia
periferica coesistente.
a) Invio Radiologia Interventista/Chirurgia Vascolare:
• cardiopatia ischemica: no;
• arteriopatia periferica: sì (più eventuali alterazioni carotidee).
b) Invio emodinamica:
• cardiopatia ischemica: sì;
• arteriopatia periferica: sì.
Allegato
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Documento di indirizzo politico e strategico per la buona
assistenza alle persone con diabete sottoscritto da Associazione
Medici Diabetologi (AMD), Società Italiana di Diabetologia
(SID) e Società Italiana di Medicina Generale (SIMG)
Questo documento nasce dalla storica collaborazione fra la diabetologia e la medicina generale
iniziata negli anni Novanta e orientata a creare le
condizioni necessarie per migliorare la qualità
dell’assistenza alle persone con diabete integrando
i diversi livelli assistenziali.
L’assistenza diabetologica su tutto il territorio nazionale non può prescindere dalla presa d’atto che
essa è il prodotto dell’integrazione fra assistenza
sanitaria di base e specialistica, in cui sono fondamentali il riconoscimento del ruolo professionale del medico di medicina generale (MMG),
cardine dell’assistenza sanitaria di base, e di quello
della rete italiana dei servizi di diabetologia, ospedalieri e territoriali, più volte oggetto di studi internazionali.
Discende da questa premessa la necessità prioritaria di un’adeguata allocazione di risorse per il
potenziamento di questo assetto organizzativo,
che sta alla base del percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale e del modello di gestione inte-
grata e che si è dimostrato efficace nel ridurre
morbilità, ricoveri e contenere la spesa complessiva.
Indice
1. Obiettivi
2. Presupposti
3. Strumenti per migliorare l’assistenza al paziente
diabetico
4. Azioni che le Società scientifiche intendono
attuare per raggiungere gli obiettivi dichiarati
5. Documenti di riferimento e allegati
Parole chiave
Assistenza specialistica diabetologica, team multiprofessionale dedicato, cure primarie, presa in
carico, stadiazione e triage del paziente diabetico,
gestione integrata, misurazione dei risultati, telemedicina.
263
Ministero della Salute
1. Obiettivi
• Descrivere il razionale e le motivazioni che
rendono indispensabile l’alleanza strategica fra
la Società Italiana di Medicina Generale
(SIMG), l’Associazione Medici Diabetologi
(AMD) e la Società Italiana di Diabetologia
(SID) per risolvere alcune criticità nell’assistenza alle persone con diabete.
• Presentare le strategie, i ruoli e le responsabilità,
i metodi e gli strumenti, che concordemente
le Società scientifiche intendono condividere
e utilizzare per migliorare l’assistenza alle persone con diabete.
• Dichiarare gli obiettivi e i risultati professionali
che le Società scientifiche intendono concordemente perseguire e raggiungere.
• Dichiarare le azioni che le Società scientifiche
intendono attuare per raggiungere gli obiettivi
medesimi.
• Condividere e realizzare gli obiettivi descritti
nel documento coinvolgendo il più ampio numero di soggetti interessati alla buona assistenza alle persone con diabete.
2. Presupposti
La cura delle persone con diabete, come stabilito
dalla Legge 115/87, garantisce a tutti i diabetici
l’assistenza specialistica diabetologica e identifica,
in base all’art. 2, i servizi di diabetologia per l’erogazione delle prestazioni e dei presidi necessari, il
PNP 2005-2007 e il Progetto IGEA come offerta
per le Regioni di un modello per l’integrazione
con l’assistenza di base.
La malattia diabetica è caratterizzata da:
• un’elevata prevalenza: dati recenti di studi di
popolazione effettuati a Torino, Firenze, Venezia, così come l’annuario statistico Istat
2006, indicano che è diabetico il 4,5% degli
264
italiani (4,6% le donne e 4,3% gli uomini).
Una recente analisi epidemiologica effettuata
sugli archivi di 400 MMG ricercatori facenti
parte dell’Istituto di ricerca Health Search riporta una prevalenza della malattia, nell’anno
2006, pari al 6,68% nella fascia di età maggiore
di 14 anni. La previsione è di un aumento
drammatico della prevalenza e quindi anche
dei costi;
• un’elevata incidenza: nello studio di Brunico
l’incidenza di diabete di tipo 2 è del 7,6 per
mille nei soggetti di 40-79 anni d’età;
• un carico assistenziale importante: i dati di 120
centri specialistici italiani (Annali AMD) riportano, per quanto riguarda il diabete di tipo
1, che i primi accessi nel corso del 2007 sono
stati pari all’11,3%, mentre per il diabete di
tipo 2 sono stati del 16,7%. Ogni anno un
numero crescente di persone con diabete si rivolge al medico di famiglia e alle strutture specialistiche, con una frequenza che è in funzione
della complessità e gravità del quadro clinico;
• alti costi sanitari, che sono pari a circa il 710% dei costi sanitari totali nei Paesi europei
(13% USA) e in progressivo aumento (attualmente la malattia diabetica è la seconda patologia per i più alti costi diretti). I costi sono
determinati dai ricoveri ospedalieri e dalle complicanze croniche: in assenza di complicanze i
costi diretti sono pari a circa € 800/anno, mentre in presenza di una complicanza salgono a
circa € 3000/anno (studio CODE-2. Diabetologia, 2002).
L’elevata incidenza e prevalenza del diabete richiedono una profonda rivisitazione dei modelli assistenziali-gestionali, anche in considerazione della
non ottimale efficacia dei modelli esistenti per
quanto attiene alla prevenzione delle complicanze
croniche (Vaccaro et al., 2008), che hanno un impatto significativo non solo sui costi per la gestione
Allegato
della malattia, ma anche sulla qualità di vita e sulla
sua durata. Dati italiani dimostrano che la sinergia
tra l’assistenza specialistica dei servizi di diabetologia
e la medicina generale riduce del 65% i ricoveri
ospedalieri del paziente diabetico (Giorda et al.,
2006), triplica la probabilità che il paziente sia seguito secondo le Linee guida (Gnavi et al., 2009) e
riduce significativamente la mortalità cardiovascolare (Zoppini et al., 1999).
La variabilità dei diversi quadri clinici (determinati
dalla combinazione dei fattori di rischio e delle
complicanze in vario stadio evolutivo) determina
la presenza delle persone con diabete in tutti i livelli
assistenziali con i più disparati quadri clinici (dalla
fase iniziale “assenza di complicanze e loro prevenzione” fino allo stadio “cura in terapia intensiva”).
Vi sono, quindi, molteplici punti di erogazione
delle prestazioni (ospedale, ambulatorio del MMG
e del pediatra di famiglia, ambulatori specialistici)
e pazienti con diverso grado di complessità, pertanto è difficile coordinare e integrare le diverse
figure sanitarie (MMG e pediatra di famiglia, diabetologo, cardiologo, oculista) se non si condivide
una comune base scientifica e operativa.
È certamente dimostrato come le complicanze
del diabete (causa degli elevati costi diretti e indiretti) siano prevenibili, o quantomeno sia possibile
ridurne l’incidenza e soprattutto la gravità, attraverso un programma di interventi che comprende
la diagnosi precoce, il trattamento tempestivo, lo
stretto controllo del compenso metabolico e dei
parametri di rischio cardiovascolare associati.
Per ottenere tutto ciò è necessario un modello gestionale delle persone con diabete che realizzi i
seguenti risultati:
• trattamenti efficaci e tempestivi;
• continuità dell’assistenza;
• terapia educazionale per raggiungere la massima autogestione possibile;
• follow-up sistematici secondo la gravità clinica.
Devono essere perciò pianificate le seguenti attività:
• educare il paziente a un’autogestione consapevole della malattia e del percorso di cura;
• creare un’organizzazione dell’assistenza adeguata, diversa da quella per l’acuto (come nel
chronic care model di Wagner);
• stabilire una comunicazione efficace tra i diversi livelli assistenziali per realizzare concretamente la continuità assistenziale;
• monitorare i processi di cura definiti dall’implementazione delle Linee guida di riferimento,
realizzando banche dati cliniche e amministrative (informatiche) che permettano di seguire
nel tempo il paziente.
In pratica, una delle esigenze prioritarie di questo
cambiamento è il superamento dell’organizzazione
attuale “a compartimenti stagni”, per realizzare
un modello organizzativo trasversale capace di governare l’intero processo di cura integrando al
meglio le competenze e le risorse disponibili.
I prevedibili vantaggi che derivano da questo sistema di cura riguardano sia i singoli professionisti sia gli Amministratori. In particolare, le
strutture specialistiche diabetologiche potranno
assumere un nuovo ruolo di coordinamento nella
gestione manageriale della malattia diabetica più
coerente con i compiti consulenziali e di 2° livello
dell’assistenza; i MMG miglioreranno la comunicazione e l’integrazione con lo specialista, acquisendo professionalità e capacità operative;
l’Amministratore vedrà ridotta l’inefficienza del
sistema e migliorata la qualità delle cure e la soddisfazione del paziente. Saranno però i pazienti
dabietici a beneficiarne maggiormente, che acquisiranno un miglioramento della qualità delle
cure, una maggiore consapevolezza della malattia
e dell’intero processo di cura, un migliore accesso
ai servizi e, in definitiva, un miglioramento della
qualità di vita.
265
Ministero della Salute
3. Strumenti per migliorare l’assistenza
alle persone con diabete
Per ottenere i migliori risultati possibili nella cura
delle persone con diabete attraverso la forte integrazione tra i diversi punti di erogazione dell’assistenza è necessario dare concreta realizzazione ai
seguenti strumenti/processi, attraverso una definizione organizzativa istituzionalizzata delle attività
e dei ruoli dei servizi di diabetologia e della medicina
generale.
3.1 Rendere autonoma la persona con diabete
nella cura e nella gestione del percorso assistenziale.
3.2 Percorsi assistenziali condivisi.
3.3 Rete assistenziale con forte integrazione professionale e una buona comunicazione con
le Associazioni di Volontariato.
3.4 Servizi di diabetologia con team multiprofessionale dedicato che prendano in carico,
sempre in integrazione con il MMG, i pazienti secondo livelli diversi di intensità di
cura e fungano da consulenti per i MMG.
3.5 Organizzazione dell’ambulatorio del
MMG orientata alle gestione delle malattie
croniche.
3.6 Sistemi di misura e di monitoraggio della
qualità delle cure erogate volti al miglioramento professionale e organizzativo continuo.
3.7 Sistemi efficaci di comunicazione e di integrazione multidisciplinare.
3.8 Coinvolgimento del Distretto e delle Direzioni Sanitarie ospedaliere e presa in carico della persona con diabete attraverso la
valutazione dell’intensità di cura (triage).
3.9 Rimozione degli ostacoli amministrativi
che rendono difficile e/o diseguale l’accesso
alle cure delle persone con diabete.
266
3.1. Rendere autonoma la persona
con diabete (educazione terapeutica,
empowerment )
Nella cronicità il medico controlla e cura la malattia
attraverso il paziente: la terapia più avanzata e costosa può diventare poco efficace se il paziente non
è coinvolto nella gestione della malattia. La persona
con diabete è una risorsa ineludibile per ottenere il
migliore risultato possibile. È quindi indispensabile
coinvolgerla nel processo di cura attraverso:
• una corretta informazione;
• la formazione all’autogestione della malattia;
• la condivisione del programma di cura;
• la disponibilità a comunicare in modo strutturato.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è,
pertanto, stimolare e formare i professionisti sanitari affinché essi coinvolgano, sfruttando ogni
momento del processo di cura, tutte le persone
con diabete nel processo di empowerment e di acquisizione di autonomia.
3.2. Percorsi diagnostico-terapeutici
assistenziali (PDTA)
I PDTA, che derivano dalle Linee guida, rappresentano un metodo di lavoro sistemico e integrato,
finalizzato al miglioramento della qualità dell’assistenza, in grado di produrre risultati significativi
in termini di efficacia ed efficienza.
L’obiettivo principale è l’appropriatezza, considerato che essa è in grado di incidere anche sull’economicità, cioè sull’utilizzo adeguato delle risorse. L’applicazione del PDTA è rappresentata
da profili di cura, diversificati a seconda delle caratteristiche e delle esigenze assistenziali dei pazienti, da tradurre in piani di cura personalizzati. I pazienti vengono assistiti in funzione della complessità della malattia e del livello di autosuffi-
Allegato
cienza: ai gradi più bassi di complessità assistenziale le figure di riferimento più appropriate per
la gestione del paziente sono i professionisti non
ospedalieri e viceversa.
La diversificazione delle funzioni implica profili
di cura condivisi tra i differenti attori coinvolti
(ospedale, specialistica ambulatoriale, assistenza
primaria), ma personalizzati rispetto alle necessità
di ogni paziente. Tale diversificazione deve però
realizzarsi in una logica di unitarietà del disegno
di sistema. Il presupposto è, infatti, che tutti i
professionisti che contribuiscono all’assistenza a
ogni specifico livello di complessità dei pazienti
condividano una mentalità, una cultura e una
strategia comune. Quest’ultima deve essere costruita nel rispetto delle specificità di ognuno,
mettendo al centro il paziente e i suoi bisogni e
articolando le risposte assistenziali più adeguate.
Il PDTA, dunque, deve diventare parte integrante
di strategie politiche di comunità (regionali, di
ASL/distretto ecc.) per facilitare i processi di interazione fra tutti gli attori coinvolti nella gestione
delle persone con diabete, al fine di migliorare la
qualità dei servizi erogati.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto,
promuovere la realizzazione in ogni realtà locale di
un PDTA in diabetologia sempre con il coinvolgimento
dell’Amministrazione locale (Direzioni Sanitarie Ospedaliere, Distretti e ASL), prevedendo un sistema di
monitoraggio con indicatori di processo ed esito.
I punti di partenza per tutte le realtà devono essere
gli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito (www.aemmedi.it, www.siditalia.it) e il PDTA.
3.3. Rete assistenziale
La strategia terapeutica del diabete mellito necessita di un approccio sistematico che non può
essere affidato a una sola tipologia di operatore
della Sanità; un’organizzazione sanitaria non integrata e legata a un sistema esclusivamente basato
sull’erogazione di prestazioni da strutture diverse
e scollegate non è in grado di realizzare un’efficace
ed efficiente cura del diabete.
È pertanto necessario implementare un modello
di integrazione plurispecialistico e pluriprofessionale che possa realizzare il piano di cura del singolo
paziente (case management) e contemporaneamente il processo di cura della popolazione affetta
dalla patologia (disease management). La verifica
e il monitoraggio devono essere attuati mediante
indicatori di processo e di esito, ricavabili solo da
dati condivisi residenti in archivi accessibili a tutti
gli attori coinvolti.
È quindi necessario:
• passare da un sistema basato sulla singola prestazione a richiesta a un processo di cura predeterminato e condiviso tra i diversi operatori;
• passare dai “compartimenti stagni” al “network
per patologia” che privilegi la continuità assistenziale e il rispetto dell’appropriatezza e cronicità dei trattamenti, per rafforzare l’aderenza
e la continuità terapeutica. La persona con
diabete si muove nel percorso assistenziale in
funzione del proprio stato di malattia e soddisfa
i bisogni di salute nei diversi livelli di cura in
funzione della gravità della stessa;
• passare da una medicina di attesa, quale oggi
è la medicina generale e in parte la specialistica,
a un sistema attivo, con registri dei pazienti e
appuntamenti di ricontrollo prefissati e richiamo periodico del paziente in caso di abbandono del percorso.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere la realizzazione, in ogni realtà
locale, di un network della patologia diabetica, utilizzando tutti gli strumenti descritti in questo docu-
267
Ministero della Salute
mento, ma in particolare mirando a un archivio
condiviso dei dati clinici sistematicamente raccolti
dai diversi attori del processo di cura e a un sistema
di richiamo concordato, eventualmente automatizzato, dei pazienti.
3.4. Servizio di diabetologia
con team multiprofessionale dedicato
L’assistenza diabetologica specialistica è svolta da
un servizio di diabetologia con team multiprofessionale dedicato, formato da medici, infermieri e
dietisti (integrati anche da psicologi e podologi)
e permette di soddisfare le esigenze della persona
con diabete.
Le funzioni del team sono:
• assistenziali, in rapporto ai vari livelli di intensità di cura in ambito sia territoriale sia ospedaliero;
• di educazione terapeutica strutturata;
• epidemiologiche (raccolta di dati clinici);
• di formazione dei MMG e più in generale delle
figure sanitarie coinvolte nella cura delle persone con diabete.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, sostenere nelle sedi opportune a livello sia
scientifico sia politico la nascita e il sostegno economico a modelli organizzativi di servizi di diabetologia con team multiprofessionale dedicato, in grado
di erogare assistenza specialistica in funzione dei diversi bisogni complessi della persona con diabete, in
ambito sia ospedaliero sia territoriale.
3.5. Organizzazione dell’ambulatorio
del MMG per le malattie croniche
L’assunzione in carico di un paziente con patologia
cronica (e il diabete mellito è una delle più complesse) esige un processo di cambiamento radicale
268
dal punto di vista sia dell’approccio clinico sia
organizzativo-gestionale e ciò vale anche per il
MMG.
Sia che lavori in gruppo o singolarmente, è necessario che il MMG si doti di un’adeguata (sia
pur non complessa) strumentazione diagnostica
e che il suo modello organizzativo preveda:
• l’utilizzo di sistemi informativi avanzati in grado
di monitorare i percorsi diagnostico-terapeutici
e migliorare l’appropriatezza assistenziale;
• l’elaborazione di un piano di cura con il coinvolgimento dei pazienti e con l’utilizzo di strumenti di comunicazione routinari per il richiamo attivo degli stessi rispetto alle scadenze
concordate;
• una routinaria attività di audit basata su indicatori di processo ed esito derivanti da Linee
guida o EBM (Evidence-Based Medicine);
• il potenziamento degli strumenti di comunicazione e scambio informativo con il livello
specialistico per realizzare una reale comunicazione bidirezionale;
• la figura del case manager.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, sostenere nelle sedi opportune a livello sia scientifico sia politico la nascita e il sostegno economico a
modelli organizzativi della medicina generale idonei
a un’efficace gestione della malattia diabetica.
3.6. Sistemi di misura e di miglioramento
della qualità
Un metodo innovativo capace di guidare gli operatori sanitari in un percorso di miglioramento
professionale continuo è quello di vedere il loro
operato tradotto in indicatori di processo e di
esito, offrendo loro l’opportunità di individuare i
punti virtuosi, le criticità nel percorso di cura e le
aree di ragionevole miglioramento.
Allegato
L’audit clinico è in grado di innescare il “circolo
virtuoso” del miglioramento, stimolando i professionisti verso l’accountability e l’aggiornamento
continuo delle conoscenze (education and training).
L’analisi di report periodici consente a ciascun
medico di realizzare un benchmarking. Il medico
(o il team-gruppo) potrà valutare nel tempo le
proprie performance, in modo da “calibrare” al
meglio il comportamento futuro; in secondo
luogo, egli potrà confrontare i propri risultati con
quelli disponibili in letteratura.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, diffondere e far utilizzare gli indicatori elaborati da AMD e SIMG ai fini del monitoraggio
della patologia diabetica e sostenere a livello locale i
processi di audit e di clinical governance.
molti casi sostituire la visita del paziente presso le
strutture specialistiche, in particolare per pazienti
difficili e/o con riduzione del livello di autonomia.
Il teleconsulto può favorire una reale gestione integrata delle persone con diabete attraverso la
concreta condivisione degli obiettivi di cura, migliorando l’appropriatezza di accesso presso la
struttura specialistica e favorendo la risoluzione
di alcune criticità nella gestione delle persone
con diabete.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere nelle realtà locali, in base alle risorse disponibili, l’attivazione di strumenti tradizionali e avanzati di comunicazione tra la medicina
generale e i team specialistici diabetologici.
3.8. Coinvolgimento del distretto
e delle Direzioni Sanitarie Ospedaliere
3.7. Sistemi efficaci di comunicazione
Per favorire un’efficace comunicazione fra team
specialistico diabetologico e MMG è fondamentale promuovere al massimo ogni tipo di comunicazione fra gli operatori coinvolti, inclusi contatti telefonici, e-mail e riunioni periodiche. Deve
altresì essere potenziata la diffusione di altri strumenti oggi disponibili, come sistemi di electronic
health record, sistemi di comunicazione audiovisiva
(sincroni e asincroni) quale per esempio il teleconsulto.
È fondamentale una revisione del Nomenclatore Tariffario che valorizzi tale attività per i servizi di
diabetologia.
Il teleconsulto è un’innovativa modalità di interazione e comunicazione tra i MMG e il team
specialistico diabetologico che consente l’analisi
del “caso” attraverso la consultazione via internet
della sua cartella clinica. L’analisi può avvenire
on-line oppure in modalità off-line e potrebbe in
Nell’attuale organizzazione delle Aziende Sanitarie,
il Distretto Sanitario ha un ruolo fondamentale
per la realizzazione di un sistema integrato di assistenza diabetologica, ruolo che deve essere svolto
in stretta collaborazione con le strutture ospedaliere (Direzioni Sanitarie e servizi di diabetologia
intraospedalieri) al fine di ridurre la frequenza e
la degenza media dei ricoveri.
L’ambito territoriale del Distretto consente non
solo di ospitare le funzioni di care management e
di supervisione del programma locale ma, soprattutto, di gestire direttamente i servizi di assistenza
primaria (di medicina generale, farmaceutica, specialistica ambulatoriale extraospedaliera, residenziale, domiciliare), garantendo la necessaria continuità assistenziale.
Il supervisore del programma locale o care manager
ha funzioni di coordinamento per il monitoraggio
sia delle attività erogate al singolo paziente, sia di
quelle volte a favorire una comunicazione efficace
269
Ministero della Salute
e un coordinamento fra i diversi attori (medici e
altri professionisti sanitari).
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, promuovere nelle realtà locali, in base alle risorse disponibili, il coinvolgimento dei Distretti e
delle Direzioni Sanitarie Ospedaliere nel processo di
assistenza diabetologica per favorire l’integrazione sociosanitaria.
3.9. Presa in carico
La presa in carico di una persona diabetica si può
definire come: “l’accettazione e la capacità del
MMG e/o del team specialistico multiprofessionale
di farsi carico dell’assistenza alla persona con diabete
in un determinato momento del processo di cura,
sulla base delle proprie funzioni, conoscenze e ruolo,
in coerenza con i PDTA locali e le raccomandazioni
clinico-organizzative delle Società scientifiche”.
Essa si concretizza attraverso:
• il coinvolgimento attivo della persona con diabete;
• la definizione del programma terapeutico, degli
obiettivi e delle strategie della cura;
• la programmazione del monitoraggio della malattia e dei controlli: visite ambulatoriali, esami
strumentali e bioumorali, verifica dei risultati;
• la disponibilità ad attivare una comunicazione
efficace con gli altri operatori sanitari della
rete assistenziale (anche attraverso consulti telefonici, e-mail).
La presa in carico delle persone con diabete da
parte di uno degli attori coinvolti presume che
sia stata effettuata la stratificazione delle persone
con diabete in classi crescenti di intensità di cura
(triage).
Le classi di intensità di cura identificate sono 7,
per ognuna delle quali si possono indicare le caratteristiche cliniche, gli interventi prevedibili, la
270
prevalenza, l’attore dell’assistenza maggiormente
coinvolto (responsabile della presa in carico), le
interazioni, gli indicatori e gli standard per il monitoraggio (Tabella 1).
Classe 1: pazienti critici e/o fragili, con complicanza e/o una situazione clinica per cui vi è un
serio e grave pericolo per la vita o l’autosufficienza
(es. infarto acuto, coma, intervento di bypass,
sepsi, amputazione; comunque ogni situazione
che comporti un ricovero ospedaliero urgente).
Classe 2: pazienti che presentano una complicanza
acuta in atto e che necessitano di un intervento
specialistico urgente, anche in regime di ricovero,
ma che non sono in immediato pericolo di vita
e/o di disabilità (es. piede in gangrena, dialisi, angioplastica, grave scompenso metabolico senza
coma, recente e grave episodio di ipoglicemia con
perdita di coscienza ma successivo recupero, paziente diabetico ricoverato in reparto non di terapia intensiva ecc.).
Classe 3: pazienti che richiedono un intervento
specialistico o multidisciplinare non urgente, ma
comunque indifferibile:
• diabetico di nuova diagnosi per il quale è necessaria/o la definizione diagnostica e/o l’inquadramento terapeutico e/o un intervento di
educazione terapeutica strutturata;
• diabete in gravidanza (diabete gestazionale e
gravidanza in paziente diabetica nota);
• paziente con complicanza acuta in atto [es. ulcera del piede senza infezione, retinopatia proliferante (PDR), controllo metabolico molto
instabile];
• pazienti diabetici da sottoporre allo screening
annuale delle complicanze micro- e macrovascolari.
Classe 4: pazienti diabetici con compenso metabolico instabile; non a target per i vari fattori di
rischio cardiovascolare; ad alto rischio di evoluzione rapida verso una qualsiasi complicanza; pa-
1. Tempi di degenza media
2. % exitus
3. Grado residuo
di disabilità
4. Incidenza
di complicanze gravi
1. Incidenza
di complicanze gravi
2. % guarigioni
3. % recidive
4. % ospedalizzazioni
5. Grado residuo
di disabilità
6. Tempi di attesa
7. Numero rework
Servizio di diabetologia • Altri specialisti
con team
multiprofessionale
dedicato
Servizio di diabetologia • Altri specialisti
con team
multiprofessionale
dedicato
Prevalenza di ulcere diabetiche: Assistenza diabetologica
0,6-0,8% di tutti diabetici
complessa: day-service,
(circa 20.000 persone);
day-hospital, ricovero
25-50% di tutti i casi di SCA;
ipoglicemia grave: 1 per
diabetico tipo 1/anno; nel tipo
2 circa il 10% di quelle del tipo
1 (da 0,02 a 0,35
episodi/anno/paziente
in terapia insulinica;
0,009 episodi/anno/paziente
in terapia con sulfoniluree);
diabetici ricoverati in ospedale
per altre patologie (8-10%
di tutti i ricoveri)
Prevalenza di ulcere diabetiche: Assistenza diabetologica
0,6-0,8% di tutti diabetici;
complessa: day-service,
PDR: 23% nei pazienti con
day-hospital, ricovero
diabete di tipo 1 (35.000 circa
in Italia), 14% nei diabetici
di tipo 2 insulino-trattati e 3%
nei diabetici di tipo 2 non
insulino-trattati (250-300.000
complessivamente); edema
maculare rispettivamente
nell’11%, 15% e 4% nei
gruppi sopra menzionati;
2
3
1. Tempi di degenza media
2. % di exitus
3. Grado di disabilità
residuo
4. Destino dopo il ricovero
(domicilio, RSA,
riabilitazione)
• Servizio
di diabetologia
con team
multiprofessionale
dedicato
Reparto di degenza
Ricovero in unità
di cure intensive
Dal 10% al 25% di tutti
i ricoveri. La stima del 10%
significa circa 1.000.000
di ricoveri/anno;
in particolare, è diabetico
il 25-50% dei ricoverati per
sindrome coronarica acuta
1
Indicatori
Interazione
primaria
Responsabile della
presa in carico
Intervento
Classe Prevalenza
Tabella 1
CUP ASL
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
SDO
Fonte
dati
(continua)
Variabili
da registrare
Allegato
271
272
• Servizio
Incidenza del diabete
di diabetologia
di tipo 2
con team
multiprofessionale
dedicato
Tutti i soggetti a rischio
in carico al MMG
non già diabetici
7
MMG
Educazione sanitaria
ai corretti stili di vita,
screening opportunistico
del diabete di tipo 2
Assistenza domiciliare
1-2 casi per MMG
6
• Servizio
1. Incidenza di ricoveri
di diabetologia
2. Incidenza di ulcere
con team
da decubito
multiprofessionale
dedicato
• Altri specialisti
(ADI)
Monitoraggio adherence
e compliance
ai trattamenti
farmacologici
e non farmacologici,
follow-up sistematici,
farmacovigilanza
30-50% di tutti i diabetici
(1.500.000-2.500.000)
5
MMG
Assistenza diabetologica
complessa: day-service,
day-hospital, educazione
terapeutica strutturata
30-50% di tutti i diabetici
(1.500.000-2.500.000)
• Altri specialisti
1. Incidenza complicanze
2. Numero di rework,
3. % rientro negli obiettivi
terapeutici
4. % ospedalizzazioni
Indicatori
MMG con Gestione
Integrata con il Servizio
di diabetologia
(Modello IGEA)
Interazione
primaria
• MMG
• Altri specialisti
Responsabile
presa in carico
Servizio di diabetologia
con team
multiprofessionale
dedicato
Intervento
4
neo-diagnosi: nel tipo 1
è circa 2000 casi/anno,
nel tipo 2 circa 230.000
casi/anno; diabete
in gravidanza: circa il 6-7%
delle gravidanze
Classe Prevalenza
Tabella 1
(segue)
MMG
SDO e cartelle
cliniche
MMG e UD
Cartella UD e
diabetologica
Cartella UD
Fonte
dati
Variabili
da registrare
Ministero della Salute
Allegato
zienti che hanno avuto un evento cardiovascolare
recente; piede diabetico senza ulcera.
Classe 5: pazienti diabetici stabili, in buon compenso metabolico (HbA1c < 7,0%) e a target per
i vari fattori di rischio cardiovascolare, senza complicanze evolutive in atto.
Classe 6: pazienti diabetici caratterizzati dalla coesistenza di cronicità multiple e riduzione dell’autosufficienza (in molti casi allettati in modo permanente o prevalente).
Classe 7: comprende tutta la popolazione generale
sulla quale sono necessari interventi generali o
specifici sullo stile di vita per ridurre il rischio di
comparsa di diabete mellito di tipo 2. Comprende
anche i soggetti a rischio per diabete, sui quali il
MMG deve attuare interventi di screening opportunistico per la diagnosi precoce di diabete
mellito di tipo 2.
Le eventuali neodiagnosi rimandano alla Classe 3.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, stimolare i professionisti sanitari a un’effettiva
presa in carico delle persone con diabete in base alle
rispettive competenze e al proprio ruolo, dopo una
stratificazione per classi di intensità di cura, avendo
come punto di riferimento il programma di assistenza
concordato per il singolo paziente senza eccessi e carenze non giustificate.
3.9. Rimozione degli ostacoli amministrativi
che rendono diseguale l’accesso alle cure
Non ci sono ragioni per cui a causa del federalismo
sanitario le prestazioni e i livelli di assistenza erogati nei confronti delle persone con diabete siano
diversi nelle varie Regioni.
È pertanto necessario armonizzare, ove possibile,
gli interventi di ciascuna Regione e Provincia Autonoma alle prestazioni minime previste nell’Accordo Stato-Regioni sui Livelli Essenziali di Assi-
stenza, garantendo un’omogenea assistenza ai cittadini diabetici su tutto il territorio nazionale.
È necessario che, in una logica di rigorosa appropriatezza prescrittiva, sia assicurata un’armonica
distribuzione territoriale dei servizi di diabetologia
atta a garantire la disponibilità di visite specialistiche (diabetologiche e legate alla cura delle complicanze) ed esami diagnostici (es. FAG, ecocolordoppler, test da sforzo per cardiopatia ischemica), sufficiente a permettere un accesso rapido
e la conclusione tempestiva delle procedure diagnostico-terapeutiche necessarie ai singoli pazienti.
La permanenza di alcuni farmaci nell’attuale regime
prescrittivo con piano terapeutico presenta alcune
criticità: i MMG, infatti, sono vincolati a prescrivere
farmaci che non conoscono e per i quali manca
spesso un’adeguata informazione scientifica. D’altra
parte, seppure gestiti inizialmente dallo specialista,
tali farmaci devono essere utilizzati anche dal MMG
nel rispetto del concetto della “continuità terapeutica”, tipica delle patologie croniche.
È pertanto urgente garantire ai medici di famiglia
una formazione al corretto uso di quei farmaci
soggetti a normativa AIFA, privilegiando l’integrazione culturale e operativa con gli specialisti.
Obiettivo strategico delle Società scientifiche è, pertanto, sostenere a livello sia scientifico sia politico e
nelle sedi opportune la rimozione degli ostacoli organizzativi e amministrativi, per un’omogenea assistenza alle persone con diabete su tutto il territorio
nazionale e una formazione comune fra MMG e
team specialistici diabetologici.
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15: 170-4
Azioni che le Società scientifiche intendono
attuare per raggiungere gli obiettivi
e le strategie dichiarate
• Diffusione ampia del documento con tutti i
mezzi disponibili (conferenza stampa, riviste
societarie, consegna brevi manu agli Amministratori locali, congressi ecc.).
• Audizione in Commissione Sanità al Parlamento e Conferenza Stato-Regioni per presentare il documento di indirizzo.
• Presentazione del documento di indirizzo agli
Assessorati alla Salute e alle Direzioni Aziendali
da parte di delegazioni locali di diabetologi e
MMG.
• Promuovere in ogni Regione e/o Azienda Sanitaria Locale l’analisi del rapporto tra MMG
e personale dei servizi di diabetologia con adeguamento delle strutture e degli operatori in
caso di carenze.
• Art. 5 della Legge 115/87, parametri risorse
popolazione/incidenza diabete.
• Versione short degli Standard Italiani per la
Cura del Diabete Mellito.
• Inserimento di queste proposte operative e degli Standard Short nei piani formativi regionali
IGEA laddove esistono, oppure iniziative autogestite dalle Società scientifiche dirette a diabetologi e MMG.
• Progetto pilota sulle modalità per far confluire
Allegato
in un archivio condiviso i dati clinici sistematicamente raccolti dai diversi attori del processo
di cura.
• Progetto pilota sull’utilizzo del teleconsulto in
diabetologia.
• Progetto pilota su efficacia/utilità del care/case
manager in diabetologia.
• Studio pilota su attività dell’infermiere di stu-
dio in medicina generale sulla prevenzione del
piede diabetico.
• Workshop tra MMG e diabetologici per discutere delle strategie comuni.
• Studi di monitoraggio su nuovi farmaci per la
cura del diabete in ambito di modelli di gestione integrata con prescrizione, vincolata da
nota di appropriatezza, paritetica tra MMG.
275
Ministero della Salute
n. 10, luglio-agosto 2011
Bibliografia
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