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Il carcere nella cultura mafiosa

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Il carcere nella cultura mafiosa
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA IN
SCIENZE INTERNAZIONALI ED
ISTITUZIONI EUROPEE
IL CARCERE NELLA
CULTURA MAFIOSA
Tesi di Laurea di: Federica Radaelli
Relatore: Prof. Fernando dalla Chiesa
Anno Accademico 2010/2011
1
Indice
Introduzione ....................................................................................................................3
Capitolo I, Carcere e mafia
1. Le origini del rapporto tra Cosa Nostra e il carcere nella letteratura
2. La valenza sociale del carcere
2.1 Bentham e Platone: il carcere e la mafia a confronto con i classici
3. Il carcere nel sottocosmo mafioso
3.1 Psicologia e psicopatologia di Cosa Nostra
7
8
9
10
10
4. Il carcere nella cultura mafiosa
14
5. Principi generali culturali applicati al caso concreto
15
6. Vivere il carcere tra cultura mafiosa e misure legislative
19
6.1 Il carcere come foro per gli affari ed espansione del network
7. Il soggiorno obbligato
20
21
7.1 La legge
21
7.2 Cosa Nostra e il legame con il territorio
22
7.3 La misura del confino, un “copia e incolla”
24
Capitolo II, Evoluzione e storia della normativa penitenziaria antimafia e del
carcere duro
1. Uno sguardo alla storia
1.1 La storia e le leggi antimafia fino al 1982
2. Il regime penitenziario
26
26
29
2.1 Gli anni di piombo e le premesse legislative del 41-bis
29
2.2 La legge Gozzini: l’articolo 41-bis
31
2.3 I limiti del 41-bis nella sua prima formulazione
32
3. 1992, le stragi
33
3.1 Le discussioni parlamentari e la legge 356/1992
34
3.2 I punti della legge 356/1992 che riguardano il carcere
38
4. L’articolo 41-bis nella sua valenza giuridica e sociologica
40
2
5. l regime del carcere duro: tentativo di disarticolazione della concezione mafiosa
del carcere
41
5.1 incertezze e problematiche legislative; reazione mafiosa
41
5.2 1992-2002, dieci anni di applicazione del 41-bis, dieci anni di di convivenza
della mafia con il regime speciale
44
5.3 La riforma del 2002
47
5.4 Gli effetti della riforma
50
5.5 Il giudizio della Commissione antimafia nel 2004
50
6. L’evoluzione storica e sociale della mafia in rapporto all’istituzione
penitenziaria
51
Capitolo III, i rapporti bidirezionali “stato-mafia” e “mafia-carcere” alla luce della
trattativa
1. La mafia in trattativa con la politica, la politica in trattativa con la mafia
56
56
1.1 Un’analisi sociologica del periodo storico e culturale della mafia
56
1.2 La reazione dello Stato
56
1.3 Legami antichi tra mafia e politica
57
2. La trattativa, esempio della centralità del carcere nella vita dell’organizzazione
mafiosa
59
2.1 Delitti eclatanti
56
2.2 La strategia dello stragismo
56
2.3 La trattativa
61
3 Il 41 bis, punto secondo di una trattativa e dimostrazione della primaria
importanza del carcere per la mafia
63
3.1 Il papello
63
3.2 Il 41 bis, un punto chiave nella trattativa
62
4 Diciannove anni, la storia infinita
67
4.1 En attendant le “papello”
68
4.2 41 bis, parte stabile dell’ordinamento italiano
70
Conclusione
74
3
Bibliografia
77
Ringraziamenti
79
4
Introduzione
La volontà di studiare e comprendere una parte della storia e delle problematiche dello
Stato italiano ha spinto chi scrive a rivolgersi verso un ambito della sociologia che si
occupa dello studio della criminalità organizzata. Nello specifico, scopo di questa tesi
sarà un’analisi del carcere nella cultura mafiosa, ovvero in riferimento alla specifica
realtà di Cosa Nostra
Quando si è cominciato a cercare materiale per questo lavoro, ci si è trovati davanti ad
un bivio: affrontare la materia in modo unidirezionale sulla scia pura e assoluta della
sociologia oppure tentare un lavoro che, volutamente, fosse multidisciplinare.
Quest’ultima soluzione è stata preferita al fine di creare non un dipinto ma un
bassorilievo che potesse donare sfumature e ombre all’argomento centrale. Ad ogni
interrogativo che sorgeva dall’analisi della materia, come attraverso un arte maieutica,
ci si indirizzava sempre più verso orizzonti di discipline non prese prima in
considerazione ma che, in realtà, avrebbero potuto completare l’opera. Ecco così
nascere un lavoro volutamente multidisciplinare in tre ambiti specifici: quello della
sociologia e dell’antropologia, quello del diritto e infine quello storico. Come si può
pretendere di esplicare un fenomeno sociologico senza rifarsi alla storia? Come si può
parlare di carcere e mafia senza riferirsi allo Stato e quindi al diritto? Dunque sorgono,
attorno al nucleo centrale, due rapporti bidirezionali che qui verranno affrontati: quello
tra Stato e mafia e quello tra mafia e carcere.
Quale è il valore del carcere per la mafia? Quale significato e quanta importanza
l’organizzazione di Cosa Nostra ha conferito nel passato, e conferisce oggi,
all’istituzione penitenziaria e alle norme che la regolano? In quale modo
l’organizzazione criminale vive e affronta l’esperienza carceraria? Perchè il carcere può
essere considerato uno degli strumenti più importanti da utilizzare nella lotta alla
criminalità organizzata, al di là del classico valore di istituto di punizione e
prevenzione? Queste sono alcune delle domande a cui si cerca di dare risposta in questa
piccola ricerca.
5
Il percorso comincia con un’analisi del sottocosmo mafioso 1, delle sue norme e dei suoi
valori attraverso un approccio sociologico ma anche psicopatologico. È stata scelta
l’opera teatrale “I mafiusi della Vicaria”, di Giuseppe Rizzotto, per muovere i primi
passi nel mondo della cultura mafiosa. Questo testo, infatti, oltre ad essere uno dei
primissimi a riportare il termine “mafiusi”, descrive nei suoi atti il modus vivendi degli
affiliati all’organizzazione, e del boss di allora Gioacchino Funciazza, nel carcere.
Vengono poi analizzati alcuni canti popolari antichi che descrivono come gli affiliati
alla mafia vivessero l’esperienza del carcere, cosa rappresentasse per loro e quale fosse
la loro considerazione e il loro rapporto con le istituzioni dello Stato. Scoprire i valori
più antichi dell’organizzazione anche attraverso i canti popolari ottocenteschi permette
di delineare un sottocosmo senza tempo. Al fine di immergersi in una dimensione più
profonda ci si è affidati agli studi della sociologia e della psicologia. In particolar modo
quest’ultima permette di comprendere quale sia il mondo valoriale di Cosa Nostra.
Questa analisi permetterà di comprendere perchè il rapporto con il carcere di un
detenuto, affiliato all’organizzazione criminale, non possa essere paragonato a quello
che si istituisce con un detenuto comune. Il quadro valoriale viene applicato per scoprire
il modus vivendi dell’uomo d’onore nelle situazioni esterne alla sua realtà sociale, in
particolar modo nelle istituzione carceraria o come “soggetto” nella misura di
prevenzione/punizione del confino. Conoscere e capire l’“essere” sociale e culturale di
Cosa Nostra è di essenziale importanza per poter delineare le misure più idonee per
contrastarne il fenomeno, per porre in essere regole che lo combattano dentro e fuori dal
carcere. Ci si avvicina, in questo modo, al nucleo successivo dell’elaborato.
La seconda parte, infatti, cerca di far luce sull’analisi storico – giuridica delle normative
antimafia con particolare focalizzazione sulle leggi riguardanti l’istituto penitenziario e
il regime di carcere speciale. Ciò che si vuole mostrare è che i rapporti bidirezionali
mafia-carcere e Stato-mafia sono centrali nella produzione normativa e nella storia
giuridica e sociale dello Stato e della mafia. Ciò che è parsa allo Stato l’interpretazione
e il significato del carcere da parte della mafia, è stato utilizzato come metro di
paragone per creare delle norme idonee al fenomeno. Al tempo stesso, però, ciò che lo
1
Si utilizza il termine “sottocosmo” al fine di identificare la realtà mafiosa come una realtà che vive e si nutre del
territorio dello Stato italiano, ma rispetto al quale ha valori, norme e organizzazione proprie e a sé stanti.
6
Stato interpretava non era esattamente l’interpretazione e il valore che la mafia dava
veramente al carcere . In questo gioco di interpretazioni e percezioni sbagliate e
incrociate2 si colloca la produzione normativa dello Stato e, nel contempo, le reazioni di
Cosa Nostra a quelle leggi che essa reputa inaccettabili e intollerabili. Il nesso tra la
prima e la seconda parte dell’elaborato sta proprio in questo: sarebbe stato superfluo
affrontare il tema del valore del carcere per la mafia, che attiene ad una sfera
sociologica-antropologica, senza prendere in considerazione le normative che hanno
cercato di interpretare quel valore al fine di contrastare l’organizzazione criminale
stessa. Viceversa sarebbe stata una pura tesi di diritto l’analisi dell’ambito giuridico
prescindendo da uno studio del mondo valoriale di Cosa Nostra. Lo studio dell’ambito
giuridico permette quindi di scendere in una dimensione più profonda e di capire perché
nasce l’esigenza di differenziare i trattamenti penitenziari e quali sono le difficoltà di
colpire Cosa Nostra. L’evoluzione delle normative antimafia non può prescindere anche
solo da piccoli accenni agli eventi storici più importanti che hanno segnato la storia
antimafia. Si traccia quindi un percorso che unisce storia e diritto, che rivela una verità
particolarmente importante nell’ambito della criminalità organizzata: il diritto e il
“dover essere” intervengono per stabilire l’ordine solo dopo che un fenomeno si è
concretizzato e, spesso, solo dopo che si è entrati nella fase di metastasi. Si passa quindi
dalle primissime leggi antimafia passando poi per gli anni di piombo per giungere,
infine, alla nascita del “art. 41-bis” della Legge nr. 354 del 26 Luglio 1975”
analizzando il fatto storico, l’ambito parlamentare entro cui si svolge la sua
formulazione, il contesto socio-emotivo dello Stato e la reazione di Cosa Nostra.
L’articolo 41-bis è, unitamente a “Cosa Nostra”, coprotagonista dell’elaborato ed è il
nesso che congiunge la criminalità organizzata siciliana, il carcere e lo Stato. Ed ecco
arrivare alla terza parte dell’elaborato.
Nell’ultimo capitolo si affronta il tema della “trattativa Stato – mafia” come chiave di
volta non solo della storia della politica e dello Stato italiano ma soprattutto in quanto
snodo delle politiche e delle normative relative al carcere duro. Si rivelerà un’esigenza
impellente, e quasi capricciosa, di Cosa Nostra di eliminare tutto ciò che può ostacolare
o mettere in crisi la sua struttura e, al fine, la sua stessa sopravvivenza. Eventi tragici
2
Si mutua questa definizione dal campo delle relazioni internazionali.
7
come le stragi eclatanti che ebbero come bersagli, e vittime, uomini eccellenti dello
Stato italiano si possono comprendere attraverso gli strumenti che vengono forniti dalle
parti precedenti: le percezioni dello Stato e della mafia si incrociano e si scontrano.
Cosa Nostra vuole autonomia, vuole essere lasciata in pace, e nello specifico richiede di
abolire il “41 bis”. Da luogo dimora alternativa degli affiliati all’organizzazione, o
meglio , da “grand hotel” il carcere è diventato per la mafia un luogo insopportabile. E
dalle difficoltà degli anni 1990 si traccia un sentiero tortuoso che giunge fino ad oggi:
mantenere un regime davvero “speciale”, “duro”, per i detenuti della criminalità
organizzata, è tutt’oggi un problema per l’ordinamento giuridico italiano.
Si tracciano così collegamenti che vanno dall’ambito prettamente culturale, dell’essere e
del “dover essere”- del diritto e delle leggi, per sfociare, infine, in un evento che in sè
racchiude tutto questo. La “trattativa” è come un prisma: essa riflette i rapporti
bidirezionali stato-mafia e mafia-carcere; fa riferimento alla necessità di modificare le
leggi che contrastano la vita mafiosa in generale ma, soprattutto, fa riferimento alle
misure carcerarie quali il “41 bis” e gli arresti domiciliari; rappresenta un momento
dell’evoluzione di Cosa Nostra e un periodo della storia italiana.
Dopo tre anni di studi universitari dedicati all’ambito internazionale ed europeo, a chi
scrive sembrava doveroso dedicare il l’elaborato finale all’approfondimento di un
settore importante e problematico come quello della criminalità organizzata di Cosa
Nostra. Il fenomeno, infatti, colpisce e suscita interesse poichè è uno dei più antichi e
costanti della storia dello Stato italiano, Stato in cui non solo chi scrive abita, ma in cui
vive e che vorrebbe un giorno servire in qualità di funzionaria.
8
Capitolo I: Carcere e mafia
1. Le origini del rapporto tra Cosa Nostra e il carcere nella letteratura
Il primo documento in cui compare il termine “mafia” risale al 1865, anno in cui il
prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualtieri, invia un rapporto al Ministero degli
Interni.
Pochi anni prima, tra il 1862 e il 1863, a Palermo fu rappresentata un’opera teatrale
scritta da Gaetano Mosca e messa in scena da Giuseppe Rizzotto: “I mafiusi della
Vicaria”. Quest’opera risulta di fondamentale importanza per cominciare ad avviare uno
studio sul rapporto tra la mafia e l’istituzione del carcere.
Nonostante in quest’opera il termine “mafiusi” ricorra solo nel titolo, e nonostante
Gaetano Mosca l’abbia scritta in riferimento agli usi e costumi camorristi, egli
rappresentò i comportamenti tenuti nel carcere Vicaria di Palermo dei quali era
personalmente informato dal camorrista Gioacchino D’Angelo. Quest’ultimo venne
modellato nel personaggio di Gioacchino Funciazza il quale, nonostante sia all’interno
della struttura carceraria, domina sugli altri detenuti: riscuote “‘u pizzu” per
accovacciarsi su un giaciglio, battezza i nuovi affiliati e li introduce alle regole
dell’associazione.
Rizzotto utilizza il termine “mafia” per indicare un prodotto criminale nato nelle parti
più profonde di una Sicilia feudale, ostile alla democrazia e allo Stato Unitario. L’autore
certo non immaginava l’importanza che avrebbe assunto tale sostantivo nella storia
successiva dello Stato italiano. Fu accusato di apologia del fenomeno criminale tanto
che fu costretto a rivedere il finale dell’opera dove scelse di rappresentare il pentimento
di Gioacchino Funciazza il quale, uscito di galera, rinnega i propri trascorsi di mafioso
ed invita alla redenzione.
“ ‘A Vicaria cci vagghiu cuntenti
“Alla Vicaria ci vado contento
“C’aura i causa num-mi fannu nenti”3
“perché so che sarò assolto”
3
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato
9
Riportato in questo canto popolare di metà ottocento, la Vicaria è un carcere davvero
esistito. Nel 1840 i suoi detenuti furono trasferiti nel nuovo carcere penitenziario di
Palermo: l’Ucciardone.
Questa introduzione non vuole solo richiamare la chiave di volta nello studio del
termine e delle origini della “mafia” (periodo “pre-unitario” per la gestazione e
“unitario” per lo sviluppo) ma ha lo scopo di mostrare come da subito sia evidente e
rilevante una stretta connessione tra l’organizzazione criminale di Cosa Nostra e il
carcere, come dimostra l’emblematica figura del Funciazza. Quest’ultimo è il simbolo
dell’“uomo d’onore” che svolge le attività criminali all’interno della struttura
penitenziaria (pretendere il pizzo, iniziare i nuovi affiliati ecc.). Sebbene l’opera risalga
a un periodo in cui Cosa Nostra certo non era strutturata ed evoluta come lo è oggi, il
valore di quella rappresentazione può essere definito senza tempo e estremamente
attuale.
2. La valenza sociale del carcere
L’istituto penitenziario è il braccio operativo della funzione statale di far rispettare le
leggi, luogo di reclusione per l’espiazione delle pene comminate. Esso può avere,
secondo una lettura in chiave giurisprudenziale, tre funzioni: restrittiva, ovvero l’uomo
che è libero e responsabile della propria condotta deve scontare una pena per non aver
rispettato la legge; preventiva, ovvero il carcere ha lo scopo di intervenire sia sul
detenuto che su terzi nella prevenzione dell’illecito attraverso incapacitazione fisica;
rieducativa poichè vuole trasmette un quadro valoriale al detenuto per riabilitarlo alla
vita sociale.
Secondo la sociologia l’atto d’incarcerazione è la forma più radicale di limitazione dello
spazio dell’individuo. Esso ha rappresentato un modo viscerale ed istintivo nel tempo di
reazione verso la diversità; una risposta al generale sentimento di non familiarità che ha
portato alla necessità di isolare elementi della società che si opponevano all’autorità;
che
erano
diversi
perché
non
rispettavano
le
leggi4.
4
Nel corso della storia è spesso, però, prevalsa la necessità della punizione rispetto allo scopo della correzione del
danno e del recupero del soggetto.
10
2.1 Bentham e Platone: il carcere e la mafia a confronto con i classici
L’effetto psicologico dell’istituzione carceraria sull’individuo viene studiata a lungo dal
filosofo e giurista Jeremy Bentham. Il suo “Panopticon”, del 1791, è un nuovo modello
di carcere: una struttura semicircolare al cui centro si trova la torre dei sorveglianti
mentre le celle sono poste lungo la circonferenza. La posizione della torre permetteva di
osservare senza essere visti e in questo modo, secondo Bentham, il detenuto - pensando
di essere sempre sottoposto allo sguardo vigile dei sorveglianti - si sarebbe sempre
comportato con disciplina. L’asimmetricità tra conoscenza e invisibilità doveva essere
una garanzia di potere e d’introiezione della volontà del controlore nei soggetti
controllati che non potevano mai sentirsi soli proprio grazie all’ingegnosità del
dispositivo di sorveglianza. Il progetto di Bentham ha uno scopo pedagogico e
correzionale ed assume il punto di vista del potere istituzionale.
In letteratura il modello di Bentham viene confrontato con il racconto de “L’anello di
Gige” che Platone espone nell’opera “Repubblica”. Il personaggio di Glaucone
dimostra, tramite questo mito, che nessun uomo è così virtuoso da poter resistere alla
tentazione di commettere azioni anche terribili se gli altri non lo possono vedere. La
moralità, quindi, è solo una costruzione della società che l'uomo rispetta solo per paura
delle conseguenze e delle sanzioni. Una volta che queste sono eliminate, quando
nessuno può vedere ciò che l’altro fa, la morale viene meno e l'uomo si rivela per quello
che è in realtà. Si è giusti, quindi, solo sotto costrizione poiché, singolarmente parlando,
l'ingiustizia e il non rispetto delle leggi è più utile e vantaggioso.
È possibile valutare il significato della struttura carceraria per la criminalità organizzata
di Cosa Nostra congiungendo il modello penitenziario di Bentham al mito dell’anello di
Gige. Secondo Bentham il carcere è espressione del potere istituzionale; secondo
Platone senza le sanzioni da parte della società, e quindi dello Stato, l’uomo è portato a
non rispettare la moralità della società. Cosa Nostra ha creato un proprio mondo sociale
fatto di proprie leggi, di propri codici e comportamenti: ha, cioè, una propria società che
produce la propria morale e le proprie sanzioni. All’interno del proprio microcosmo
l’organizzazione svolge i compiti dell’istituzione classica: legifera, governa, assicura il
rispetto delle proprie leggi e la continuità della propria morale. Rende note le
conseguenze delle violazioni dei propri codici di condotta in modo violento, produce
11
sanzioni pecuniarie e/o disciplinari (la maggior parte delle quali, però, interessa la vita
stessa del soggetto interessato o dei suoi cari). Posta al di fuori del suo microcosmo, il
cui territorio coincide con una parte dello Stato italiano, e immessa in un ambiente con
leggi e codici diversi, Cosa Nostra non riconosce le sanzioni di un soggetto estraneo alla
sua stessa struttura. Il carcere non è più un luogo di riabilitazione e recupero
pedagogico. Neppure la cella del Panopticon riuscirebbe ad esplicare la sua funzione
poiché il detenuto mafioso sarebbe preoccupato solamente dall’essere colto in flagranza
da parte di un suo simile: cioé da parte di un altro affiliato a Cosa Nostra.
L’irrilevanza della sfera sociale dello Stato e delle sue leggi sono dimostrate da uno dei
principi fondamentali di Cosa Nostra che è il non fare ricorso alla giustizia dello Stato5.
Per sua stessa cultura, e per rispetto delle sue leggi, “l’uomo d’onore” non riconosce
istituzioni di potere diverse da Cosa Nostra, e tra queste il carcere. Se la morale a cui
rispondere è unicamente quella dell’organizzazione criminale, se l’essere osservati
senza vedere l’osservatore diventa quasi un gioco per il detenuto mafioso allora,
nell’esaminare il valore del carcere sulla mafia, cadono i capisaldi sia della sociologia
classica che della cultura classica occidentale.
3. Il carcere nel sottocosmo mafioso
Il mafioso non è un criminale come tutti gli altri. Come già accennato, egli appartiene a
un sottocosmo con proprie leggi, con un proprio codice di valori a cui è estremamente
fedele ed attaccato. Ciò non vuole essere una difesa della difficoltà per il mafioso di
staccarsi da esso, né dell’incapacità dell’istituzione penitenziaria a riabilitare il detenuto.
Ma considerare il mondo mafioso, e il sentire mafioso, è essenziale per comprendere
cosa rappresenti il carcere per i detenuti “uomini d’onore”.
3.1 Psicologia e psicopatologia di Cosa Nostra
La mafia è un fenomeno specifico che ha prodotto capacità militari, alleanze, controllo e
gestione del territorio, economia e, ovviamente, storia. Cosa Nostra ha creato un sistema
5
Unica eccezione è concessa per il furto d’auto, come spiega Buscetta nella sua confessione al giudice Giovani
Falcone.
12
“antropo-psichico”6 che ha fatto coincidere cultura-comunità-famiglia e individui.
L’organizzazione stessa coincide con l’identità dei suoi affiliati i quali perdono il
proprio “Sé” stringendo un patto col diavolo; un patto in cui si vende la propria identità
per servire l’organizzazione criminale. In letteratura si considerano, come aspetti
fondamentali del sentire mafioso, in primo luogo il “transpersonale7”, ovvero un
impersonale collettivo che attraversa l’identità senza che il soggetto ne sia consapevole.
In secondo luogo, ma non meno importante, troviamo le dicotomie vita-morte, noi-loro,
amico-nemico, ovvero valori assoluti che hanno come base la violenza. In questa cultura
dell’assoluto Cosa Nostra si offre come unica struttura di mediazione tra l’individuo e la
realtà: soddisfa il bisogno di protezione e di identità del singolo e fa sì che egli si
riconosca in essa soltanto. Questa premessa consente di capire cosa significhi il
familismo amorale8 e perché sia importante nel configurare un rapporto tra Cosa Nostra
e le istituzioni. Il familismo amorale è il ruolo svolto dalla famiglia nel
condizionamento dello sviluppo sociale, politico ed economico del singolo. La famiglia,
nel microcosmo mafioso, è il rimedio all’insicurezza del singolo e fonte di protezione.
L’individuo mette la famiglia al centro della sua esistenza, e la protezione della famiglia
diviene ragione della sua stessa esistenza. La coincidenza tra Sé e famiglia comporta un
annullamento non solo della propria identità9 ma anche del Noi-sociale, ovvero della
sfera dell’individuo che attiene alla res publica. Si viene così a creare una doppia
morale: una rivolta verso l’Io-famiglia, verso la sfera privata che diventa il luogo delle
regole e dei valori, e una verso il Noi-sociale, il mondo pubblico che non è degno di
rispetto. Questo comporta un disturbo ambientale dell’individuo e una sua debolezza, e
spiega come sia complesso il rapporto tra gli uomini d’onore e le istituzioni esterne al
loro microcosmo. Se un qualunque bambino comincia a guardare il mondo con le lenti
della famiglia, per poi avviarsi ad una cultura della solidarietà e del rapporto tra pari
nella sfera pubblica, nel microcosmo mafioso l’affiliato non ha altre lenti se non quelle
della cultura mafiosa che è, quindi, totalizzante. Essa ha dei riscontri non irrilevanti
6
Girolamo Lo Verso (2002), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Milano: Franco
Angeli
7
Girolamo Lo Verso (2002), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Milano: Franco
Angeli
8
Banfield E. 1958, in Girolamo Lo Verso (2002), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un
fondamentalismo, Milano: Franco Angeli
9
Significativa al riguardo è l’espressione “ A ‘ccu apparteni” che indica l’individuo non come soggetto, ma come
oggetto della famiglia.
13
anche nella comunicazione mafiosa dato che parte del patrimonio culturale mafioso
sono i gesti e il linguaggio. La cultura mafiosa stessa si presenta come una continuità di
valori che offrono la garanzia di un network comunicativo preciso.
La cultura dell’assoluto fa sì che la sfera sociale del mafioso e i suoi valori siano saturi.
Non si può non citare, al proposito, un’osservazione di Giovanni Falcone il quale faceva
notare che:“La mancanza dello “Stato” come valore interiorizzato genera quelle
distorsioni presenti nell’animo siciliano, come il dualismo tra società e Stato, il
ripiegamento sulla famiglia, sul clan, la ricerca di un alibi che permetta di vivere senza
alcun riferimento a regole di vita collettiva.” 10 11
Questa analisi psicologica e sociologica della cultura mafiosa (che è giusto sottolineare
come diversa e a sé stante rispetto alla cultura siciliana) permette di comprendere come
sia necessario distinguere tra un criminale non appartenente alla criminalità organizzata
e un detenuto che sia affiliato a Cosa Nostra o ad altre criminalità organizzate che, come
quella siciliana, abbiano una cultura che permea non solo l’organizzazione ma anche la
vita, la cultura, i costumi e i valori della persona.
10
Giovanni Falcone (1992), Cose di Cosa Nostra, Bologna: Rizzoli
Umberto Eco ha fatto notare come forse l’Italia non abbia mai voluto uno “Stato”, ma una l’Italia delle
corporazioni, dei comuni, delle lobby e delle mafie. Pertanto, a differenza degli altri paesi europei, noi non siamo
riusciti a identificarci con uno stato forte facendo così prevalere la dimensione del clan e della famiglia.
11
14
Riassunto dell’esposizione in due schemi
Schema numero uno, “evoluzione”
Schema numero due: “Percorso tra i valori della cultura mafiosa per giungere alla
spiegazione di come sia possibile un rifiuto della sfera pubblica e delle istituzioni dello
Stato”
Senso di insicurezza e bisogno di protezione hanno risvolti nelle relazioni tra Cosa
Nostra e i centri di potere esterni: 1) Il pentito soffre di crisi di indentità e del Sé nel
momento in cui si stacca dal sentire mafioso e tradisce le sue regole e i suoi valori, 2) I
15
contatti esterni che Cosa Nostra intrattiene con i centri esterni del potere sono collusivi e
clientelari 3) Lo Stato ha la necessità di non appannare mai la sua immagine di soggetto
autorevole e credibile, soprattutto nei confronti dei collaboratori di giustizia. Il
collaboratore di giustizia necessita quindi di potersi identificare con un’entità autorevole
che gli permetta di sviluppare sicurezza e responsabilità (dato che la cultura totalizzante
mafiosa è una cultura della deresponsabilizzazione). Per un collaboratore collaborare
significa tagliare il cordone ombelicale del rapporto organizzazione-sua identità come in
un rapporto madre-figlio.
4. Il carcere nella cultura mafiosa
“Prima ero nuddu ammischiatu cu niente, poi invece ovunque arrivavo le teste si
abbassavano e questo per me non aveva prezzo, valeva molto più di tutti i soldi”.
Questa frase fu pronunciata dal pentito Francesco Marino Mannoia in una delle sue
dichiarazioni rese al magistrato Roberto Scarpinato. Questa espressione rappresenta un
filo conduttore che permette di tracciare un percorso che non solo unisce gli uomini
d’onore ma che spiega anche elementi essenziali di Cosa Nostra12. Essa indica colui che
non conta nulla, che viene da nulla, vive nel nulla e che esiste solo come realtà fisica e
non come soggetto. Per uscire dallo stato di nullità è necessario trovare una propria
identità. In una società autistica13, ovvero chiusa in se stessa, chi non trova un’identità
nell’entità collettiva (lo Stato, la Patria) la cerca in una forma collettiva di autismo, in
una cultura chiusa che richiede di essere vissuta come unica. Cosa Nostra ha riempito
questo bisogno di identità, di non sentirsi “nuddu ammiscatu cu niente”; è diventata un
logos per un caos, un demiurgo dell’identità dei suoi affiliati. Risulta, quindi, difficile
pensare che i suoi adepti vivano il carcere come gli altri criminali. Essi vivono la
permanenza nel penitenziario solo come una parentesi in cui attendere che la recita
dell’antimafia finisca. Disdegnano ciò che non è proprio della loro cultura, considerano
lo Stato come un ente avversario che pretende di governare quello che è solo proprietà
12
La stessa espressione il magistrato Scarpinato la sente da Giovanni Drago, altro collaboratore di giustizia. Anche
Salvatore Ciancemi, nello spiegare perché Bernardo Provenzano continuava a nascondersi in Sicilia, disse che se
fosse andato via dalla sua terra sarebbe diventato “nuddu ammiscatu cu niente”.
13
Girolamo Lo Verso (2002), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Milano: Franco
Angeli
16
di Cosa Nostra. La cella del carcere non viene vista come luogo di limitazione della
libertà ma viene vissuta come ambiente in cui prendersi gioco dell’istituzione pubblica.
Come sia possibile che un’organizzazione criminale produca questa cultura assoluta è
spiegato dal fatto che la mafia è una “psicopatologia perché come ogni
fondamentalismo produce asservimento psichico negli oggetti in suo potere”14. Ciò può
trovare conferma nella dichiarazione di Leonardo Vitale, il primo pentito che negli anni
’70 venne dichiarato pazzo e inattendibile, il quale disse che la sua colpa era di “essere
nato in una società dove tutti sono mafiosi e chi non lo è è disprezzato”.
5. Principi generali culturali applicati al caso concreto
Il disprezzo della res publica, il non riconoscimento di una sfera sociale, l’asservimento
agli interessi dell’organizzazione criminale, la cultura totalizzante, sono i fattori che
trovano riscontro concreto nel modo di vivere il carcere da parte di Cosa Nostra.
La presenza della mafia nei proverbi, nei racconti e nei canti popolari siciliani dimostra
come essa abbia lasciato nel tempo segni profondi e soprattutto come essa sia
fortemente radicata nella cultura locale. Utilizzare antichi canti dei detenuti in Sicilia
può aiutare a vedere applicati a casi concreti i principi e i valori del mondo mafioso in
rapporto col carcere. E poiché i proverbi e i canti appartengono a quella intima cultura
di ogni popolo che può dirsi senza tempo, queste strofe faranno luce su comportamenti e
giudizi rimasti nel tempo immutati e quindi estremamente attuali e consoni a questo
percorso.
Questo canto esprime l’odio per gli infami e i traditori.
“Nesci comu un sirpenti ‘mmilinatu:
“Esco come un serpente avvelenato:
guardativi di mia cu m’h tradutu”
guardatevi da me, voi che
mi avete tradito”15
La libertà, dal carcere, viene pensata solo come mezzo per portare a termine una
vendetta.
14
Girolamo Lo Verso (2002), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Milano: Franco
Angeli
15
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato (pag.26)
17
L’omertà e il silenzio, capisaldi del sentire mafioso, nel carcere vengono così cantati:
“Segnu comun a tavula di lettu:
“Sono come una tavola di letto,
pari ca ‘m-miu nenti e-bbiu tuttu”
pare che non vedo nulla e vedo tutto”16
Il carcere, è spesso stato il luogo del “cursus honorem” del nuovo affiliato:
“Cu’ dici mali di la vicaria
“Chi parla male della Vicaria,
Cci facissi la facci feddi feddi;
gli farei la faccia tutta a fette
cu’ dici ca la carzara castia,
chi dice che il carcere è un castigo,
comu vi nni ‘ngannati, puvereddi!
come vi ingannate, poveretti
La carzara è violu chi vi ‘nvia,
il carcere è una via che v’instrada
chi vi ‘signa li strati e li purteddi.
che vin insegna vie e passi(agguati)
Si ‘n’ autra vota stu pedi passia,
se un’altra volta camminerò
traritura, guardativi la peddi!”
traditori, guardatevi la pelle!”17
Non solo il detenuto non vive la consapevolezza di scontare una pena ma costruisce,
addirittura, una rabbia nei confronti dei “traditori”, o dello Stato, tale da esasperare la
violenza e il desiderio di vendetta di chi è già uomo d’onore o, peggio, porta i criminali
“normali” ad avvicinarsi all’organizzazione di Cosa Nostra per vendicare i “torti” subiti.
Il disprezzo per il Noi-sociale e il risvolto della doppia morale si ritrova chiaramente in
questo canto:
“Staiu viniennu di Cartanissetta,
‘vaiu diciennu cca la liggi è-ttorta”
“Sono di ritorno da Caltanissetta
vado dicendo che la legge
è ingiusta”18
La convinzione dell’uomo d’onore di non aver nessun obbligo nei confronti di altri
soggetti e/o istituzioni esterni al proprio sottocosmo è tanto solida che già a fine
16
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato (pag.26)
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato (pag.56)
18
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato (pag.112)
17
18
ottocento i detenuti mafiosi cantavano alle forze dell’ordine che non avrebbero mai
potuto portarli in carcere perché loro erano uomini della malavita, della “società”:19
“A la caserma ‘un mi cci puorti
“In caserma non mi porti
Ca su un guagliuni ra malavita,
perché sono un guaglione della malavita
su un guagliuni ra malavita
sono un guaglione della malavita
c’appartegnu a la suggietà”
perché appartengo alla “società”20
Un significativo ed emblematico canto descrive, infine, come viene vissuto e visto il
carcere da parte dei detenuti:
“Dici ca lu carciri è-ggalera:
“Di ci che il carcere è una galera:
a-mmia mi sembra na villiggiatura”
a me sembra una villeggiatura”21
Avendo valutato il sottocosmo mafioso, e la sua cultura, si può desumere che il carcere
sia vissuto con scherno, senza la consapevolezza del delitto commesso e del compito
della struttura carceraria (limitare la libertà al fine di punire, prevenire e di riabilitare).
Il carcere è vissuto con indifferenza, quasi come momento di passaggio in cui è anzi
possibile accrescere il proprio potere, stringere nuove alleanze e pensare a nuovi
progetti. Colpisce l’immagine, che è tramandata dalla realtà storica, dei detenuti
all’Ucciardone che ordinano le più prelibate pietanze al ristorante per poter mangiare in
carcere come essi preferiscono perché la “roba” dello Stato per loro è immangiabile.
Questo dimostra anche come la mafia sia capace di rendere malleabile e controllabile
ogni segmento non abbastanza rigido dello Stato, di come ovunque arrivi, anche in
carcere, essa si appropria degli spazi comuni per farne una reggia del crimine.
6. Vivere il carcere tra cultura mafiosa e misure legislative
Se la mafia sa adattarsi alle più diverse situazioni mostrando duttilità, ma anche di saper
governare ovunque arrivi, diventa lecito domandarsi cosa possa infastidire, toccare
nell’intimo gli uomini d’onore. Ciò che scuote l’animo mafioso, e lo colpisce al cuore, è
19
Notare come il termine “mafia” o “Cosa Nostra” non compaiano mai nei canti poplari. Il termine mafia si afferma a
livello prima esterno all’organizzazione; il termine Cosa Nostra viene invece riportato in alcune dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia che definiscono con tale espressione il nome dell’organizzazione.
20
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato (pag.116)
21
Uccello A. (1974), Carcere e mafia nei canti poplari siciliani, Bari: De Donato (pag.123)
19
la perdita di prestigio e onore, la paura di tornare quel “nuddu ammiscatu cu niente” che
è stato preso in esame precedentemente. E il carcere, almeno fino al quel punto storico
fatidico che sarà l’introduzione del “41 bis”, non colpiva assolutamente questi punti
focali dell’organizzazione criminale. Per questo la reclusione non veniva vissuta come
un luogo di pena bensì di passaggio, se non di svago: un “grand hotel” temporaneo che
conferisce, anzi, maggior prestigio al mafioso poiché costui lo vive certo di essere
assolto e quindi tornare libero vincendo la sfida con lo Stato.
Il carcere, inoltre, non viene vissuto dal criminale mafioso come una misura punitiva se
non è accompagnato dalla perdita dei beni che egli ha acquisito per via dei reati
commessi. La legge Rognoni-La Torre deve essere quindi considerata come uno
spartiacque nello studio del rapporto tra Cosa Nostra e il carcere. Se prima si finiva in
cella solo per qualche tempo, dopo il 1982 si rischia di perdere il frutto di un intera vita
criminale dedicata all’accumulo di denaro, di beni e di aberrante prestigio. E si rischia,
cosa che ancor più tocca il mafioso, di vedere tali beni sequestrati per essere destinati ad
uno scopo sociale. Il mafioso, infatti, non conosce il termine “scopo sociale” perché non
si riconosce nello Stato di diritto inteso come entità che garantisce i diritti e le libertà di
tutti i cittadini: innanzitutto perché il mafioso non riconosce alcuno Stato e poi perché
non riconosce i diritti sociali ma solo i propri diritti ed i propri privilegi.
“Al mondo non c’è mai stata cosa più brutta della confisca dei beni” dice Francesco
Inzerillo ai suoi nipoti in un’intercettazione del 2007.
6.1 Il carcere come foro per gli affari ed espansione del network
Il carcere, per le criminalità organizzate, è stato in passato un vero foro per gli affari. E
non solo locali. Si ricordi come la Sacra Corona Unita, struttura criminale presente sul
territorio della Puglia, abbia espanso le proprie abilità e conoscenze criminali con
l’aiuto e le alleanze strette con Cosa Nostra e la Camorra all’interno delle carceri
italiane. Anche i terroristi e le Brigate Rosse sono protagonisti di queste relazioni
intense che Cosa Nostra riesce a creare in carcere per disegni strategici nazionali. Le
alleanze stipulate, le informazioni scambiate, i progetti strategici e tattici, in carcere non
sono solo intra-organizzative ma anche inter-organizzative.
Esempio celebre delle conoscenze fruttuose che possono avvenire in carcere è
certamente quello di Gaspare Mutolo, nato a Palermo nel 1940, cresciuto a Mondello,
20
fin da giovane a contatto con la realtà mafiosa poiché suoi parenti erano già membri
effettivi dell’organizzazione. Nel 1965 viene condannato al carcere per furto e proprio
nel carcere dell’Ucciardone conosce Salvatore Riina, allora solo un boss emergente
della mafia della provincia. I due uomini condividono la cella. Mutolo viene iniziato ai
segreti dell’organizzazione e in seguito messo sotto l’ala protettiva di Rosario
Riccobono, capo della famiglia di Mondello. Nel 1973 Mutolo diviene uomo d’onore a
tutti gli effetti, braccio destro di Riccobono e uomo di fiducia di Riina.
7. Il soggiorno obbligato
Il 23 Aprile dell’anno 2003 il quotidiano “Il Corriere della Sera” pubblica un articolo
alquanto emblematico: Giancarlo Giugno, classe 1959, nato a Caltanissetta, condannato
con sentenza definitiva a otto anni di carcere con due condanne: la prima secondo
l’articolo 416 bis (associazione di stampo mafioso), pena che ha scontato nello stesso
penitenziario di Salvatore Riina ad Ascoli Piceno; la seconda condanna è per estorsione.
Scaduti i termini di carcerazione preventiva per quest’ultima il giudice dispone il
soggiorno obbligato di Giancarlo Giugno lontano dalle regioni Sicilia e Calabria. Il
paradosso è che nessuna città sembra disposta a offrire soggiorno, e Giugno “chiedeva
soltanto un indirizzo dove potersi recare”.
Questo paradosso illustra la criticità della misura giudiziaria del soggiorno obbligato. La
difficoltà nella sua applicazione, e i suoi effetti collaterali, non sono solo attributi della
realtà presente ma hanno addirittura origine nel 1956.
7.1 La legge
Il 27 dicembre 1956 entra in vigore la legge n. 1423: “Misure di prevenzione nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità”. La legge si
applica alle persone che sono ritenute abitualmente dedite a traffici delittuosi; a coloro
che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose e a coloro che sono dediti
alla commissione di reati che mettono in pericolo la sicurezza e la sanità pubblica. Gli
individui che sono soggetti a tale provvedimento non possono far ritorno nel comune
dal quale sono allontanati22 per un periodo non superiore ai tre anni. Se il soggetto
22
Il comune non deve essere necessariamente uno solo, né solamente quello di residenza, ma possono essere
individuati più comuni diversi da quello di abituale residenza dell’imputato. Se la misura dell’obbligo di soggiorno
viene applicata nel comune di residenza o di dimora abituale dell’imputato, il giudice può prescrivere che l’imputato
non si allontani dalla dimora se non avvisando preventivamente l’autorità preposta alla sorveglianza, e di presentarsi
21
contravviene la misura è punito con l’arresto da uno a sei mesi. Interessante, e
necessario da tener presente, è poi la disposizione per cui il confino si debba tenere in
un comune con non più di 5 mila abitanti, e lontano dalle grandi metropoli, in modo da
assicurare il pieno controllo del soggetto da parte degli apparati di polizia. Per lo meno
questo sarebbe lo scopo ma si noteranno poco più avanti gli effetti perversi di queste
disposizioni.
7.2 Cosa Nostra e il legame con il territorio
L’etimologia del termine “confino” deriva dal termine latino cum-finis, da cui confine.
Il termine non vuole solo indicare la linea che divide il territorio in una o più parti ma,
fin dai tempi antichi, stava ad indicare la relegazione di una persona in un luogo
determinato ai fini di una pena, “mandare a confine” per esiliare. Il confino è da subito
una misura politica per allontanare dalla società elementi che disturbano la vita politica
della polis (Pisistrato, Pericle, 400 e 500 a.c.; Ovidio nella Res Publica Romana) o che
si oppongono all’imperatore, al monarca, al dittatore (antifascisti negli anni ‘30).
Insomma nulla di nuovo. La differenza sostanziale di questa misura si nota nel modo in
cui è vissuta da parte del soggetto che la subisce. Per politici come Pericle e Pisistrato la
lontananza dalla polis viene vissuta come una condanna del loro operato da parte della
loro societas. Ovidio sfoga il suo dolore nelle sue odi e poesie. Tutti e tre vivono l’esilio
come lontananza dalla loro vita pubblica legittima.
Mario Cervi, scrittore e giornalista italiano, scriveva il 20 aprile 1969 su “Epoca”: “La
mafia è piuttosto un’infezione, un malessere del quale la società della Sicilia
occidentale tradisce spesso i sintomi senza che molte volte si riesca ad individuare il
virus che li ha provocati… La Commissione antimafia e la polizia possono dunque
aggredire non il virus nella sua essenza più profonda e nascosta, ma i sintomi della
malattia che essa provoca”23. Questa citazione permette di capire come il confino
in giorni ed ore stabilite all’autorità di pubblica sicurezza. Si può anche applicare il ritiro temporaneo del passaporto o
altri documenti validi per l’espatrio.
23
Gaetano Rizo Nervo (1993), Mafia è bello. Il fascino della Medusa, Cosenza: Pellegrini
22
cerchi di agire solo su un sintomo che provoca Cosa Nostra: cioé l’inquinamento del
territorio e della società.
Cosa Nostra è un’organizzazione che vive sul territorio, che su di esso mappa diritti e
privilegi, intesse relazioni fondamentali per la sua esistenza e per il suo sviluppo. La
caratteristica originaria della mafia è di essere società locale che tra le sue attività
tipiche ha quella della protezione-estorsione. Questo significa che l’organizzazione vive
e si nutre del network che crea sul territorio e col territorio. Il controllo del territorio è
una caratteristica essenziale di Cosa Nostra e la mette in competizione con lo Stato. Ciò
rende il confino, per la mafia, un’occasione d’oro per allargare contatti, alleanze e
affari. Sicuramente il confino parte dalla giusta considerazione di spezzare quel filo che
lega mafia e territorio, volendo quindi intervenire sul legame viscerale che esiste tra i
mafiosi e la loro terra. Ciò che però caratterizza la mafia è la sua estrema capacità di
adattamento, una flessibilità che riesce a trasformare una pena in una opportunità
preziosa. Il confino cerca di spezzare definitivamente il cordone ombelicale tra
criminale e territorio, tra origine e prodotto di Cosa Nostra. In realtà il network di Cosa
Nostra non è solo sul territorio ma è presente tra i membri dell’organizzazione in modo
tanto profondo da essere difficilmente estirpato anche quando questi vengono spostati.
Altro elemento essenziale di Cosa Nostra, da tener presente quando si parla di controllo
del territorio e del suo rapporto con il confino, è che l’organizzazione predilige
l’esercizio del potere sulla società rispetto all’arricchimento, al potere prettamente
economico. Il confino, però, finisce per permettere sia l’allargamento dei confini di
influenza sia l’arricchimento economico. Grazie ad esso la mafia riesce ad entrare in
territori nuovi, paradossalmente, attraverso quella misura legale che è il soggiorno
obbligato, mantenendo la propria cultura ancestrale con i suoi riti, valori e obiettivi. Il
confino permette di allargare quel capitale sociale che è il principio organizzativo della
mafia. Il dato prima riportato nel paragrafo 4.1, cioè che i paesi di destinazione sono
luoghi alquanto piccoli, non fortemente abitati, ricrea quella caratteristica fondamentale
del primissimo sviluppo della mafia: l’ambiente ristretto che, se nell’ottocento era
rurale, nella seconda metà del novecento diventa il centro urbano relativamente piccolo
del nord. Qui, spesso, l’uomo d’onore ostracizzato ritrova suoi compaesani emigrati
23
che possono essere fonte di nuovi clientelismi o affiliazioni 24. Un altro elemento che è
di ostacolo all’implementazione della misura del confino è l’assenza di una caserma in
un paese di meno di cinquemila abitanti. Questo implica assenza di controlli e quindi
libertà di raggirare con facilità la misura del confino.
7.3 La misura del confino, un “copia e incolla” del network criminale
Il soggiorno obbligato esporta i mafiosi anche in altre regioni del sud, come la
Campania. A Napoli il confino dei boss mafiosi permette l’ingresso della delinquenza
campana dentro i complessi giochi del crimine mondiale 25. In questa fase la Camorra è
ancora secondaria rispetto a Cosa Nostra ma grazie alla presenza, per soggiorno
obbligato, dei suddetti boss mafiosi essa si rafforza e si introduce nei traffici criminali
acquistando sempre più potere.
Questo è un esempio del primo fenomeno, quello dell’espansione della mafia nel Sud,
che provoca alleanze e contatti sempre più stretti tra le varie criminalità nazionali; il
secondo fenomeno provocato dal confino riguarda le regioni italiane che sono state
interessate da fenomeni di criminalità organizzata mafiosa, camorrista o ‘ndranghetista
solo in tempi successivi alla formazione delle tre organizzazioni. Esse quindi sono
quelle parti del territorio italiano dove le organizzazioni criminali non sono nate ma vi
sono arrivate successivamente. Queste due direttrici portano al fenomeno più grande di
nazionalizzazione della criminalità organizzata.
La mafia, quindi, arriva al Nord per vari fenomeni: dalle migrazioni degli anni ’50 che
hanno portato molti siciliani ad emigrare al Nord in cerca di lavoro, alla misura del
24
In letteratura si sono delineati tre tipi di comportamento adattivo dell’individuo a nuove condizioni o ambienti:
quello alloplastico, ovvero il comportamento che interviene sull’ambiente nuovo per modellarlo alle proprie esigenze;
l’autoplastico che modifica le proprie azioni, strutture o risorse per adeguarle al nuovo ambiente; l’esotropico che si
rivolge all’ambiente nuovo per ottenere da esso quelle risorse che non è più possibile, o difficile, reperire24. Questi tre
comportamenti possono essere giustificatamente estesi a Cosa Nostra, per spiegarne la capacità di adattamento e la
duttilità a nuovi ambienti. La mafia utilizza questi tre comportamenti per adattarsi al meglio alle regioni non
tradizionali.
25
Negli anni ’70 numerosi capimafia sono obbligati al confino in Campania, dove stringono importanti contatti con i
gruppi criminali locali. Nel Napoletano erano giunti, per obbligo di dimora, Stefano Bontade, Salvatore Bagarella e
poi - per propria scelta - Tommaso Spadaro. In latitanza, sempre nel Napoletano, soggiornano Saro Riccobono e
Luciano Liggio (capo dei corleonesi).
24
confino usata dal 1963-1965 per allontanare i boss dalle loro terre, all’opportunità di
entrare in nuovi mercati in cui investire i proventi delle attività malavitose.
Le regioni industriali del Nord, economicamente più avanzate, diventano terreno fertile
per affari ancor più fruttuosi (nei quali i boss diventano progressivamente manager di
grandi traffici) e centri nevralgici di interessi economici imponenti26. “Cù avi denaro
avi tutto”, chi ha denaro ha tutto, come dice un proverbio siciliano. E il confino al Nord
apre la strada al tutto27.
I boss al confino, come si è detto, si servono dei loro compaesani già residenti; riescono,
attraverso quei legami tradizionali culturali che sono il clientelismo e il senso di
appartenenza alla stessa cultura, a ricreare il network dell’organizzazione e quindi
ampliano il modello “base” di Cosa Nostra. E possono arruolare nuovi affiliati non solo
tra i compaesani emigrati ma anche tra uomini potenti locali, o economicamente
importanti, che diventano poli referenziali per nuovi traffici e nuove attività criminali.
Come un “copia e incolla” le realtà dei piccoli paesi della Sicilia, come anche della
Calabria, si ripetono per tutta la penisola. L’antica cultura mafiosa si espande non solo
per consenso ma anche, e soprattutto, per accettazione passiva da parte dello Stato o per
la sua incapacità di vedere i fenomeni mafiosi già nella fase embrionale o di
maturazione. Il confino, che pareva uno strumento idoneo ad isolare il fenomeno
criminale, o per lo meno i suoi esponenti più pericolosi, si dimostra invece uno
strumento che favorisce la diffusione capillare dello stesso. Questa espansione porta con
sé non solo l’asservimento totale degli affiliati, o di coloro che hanno rapporti con
l’organizzazione, ma il coinvolgimento degli ambienti economici e politici locali che
contano. La corruzione e il clientelismo diventano propri della realtà dello Stato nella
sua interezza territoriale.
26
come dimostrò il blitz di San Valentino, che nel 1983 rivelò un intreccio tra attività di affiliati a Cosa Nostra e la
mafia dei colletti bianchi, ovvero imprenditori insospettabili che intessono, invece, rapporti clientelari e di interessi
con l’organizzazione criminale
27
Primo paese ad essere interessato al fenomeno del soggiorno obbligato fu Bardonecchia, piccolo paese dell’estremo
nord-ovest dove fu mandato il boss ‘ndranghetista” Rocco Lo Presti che in breve tempo importa al nord suoi affiliati
e crea un traffico ben più grande di quello che poteva immaginare in Calabria.
25
Capitolo II: Evoluzione e storia della normativa penitenziaria
antimafia e del carcere duro
1. Uno sguardo alla storia
Si definisce comunemente il diritto come “il campo del dover essere”, in altre parole
quella dimensione che riporta su carta quello che secondo il legislatore devono essere la
società e le sue regole di convivenza e di comportamento. Controparte del mondo
legislativo è invece la sociologia, scienza che studia i fenomeni, i comportamenti della
società quali appaiono nella reale quotidianità. Questa breve descrizione delle due
scienze può spiegare perché spesso si dice che la legge riguardante un fenomeno risulti
successiva alla nascita e allo sviluppo dello stesso: spesso la legge entra in vigore solo
quando il fenomeno ha prodotto metastasi.
L’ambito legislativo è, però, imprescindibile per studiare e comprendere il regime
carcerario imposto dall’articolo “41bis” del C.p.p., ma risulta inconsistente senza uno
studio congiunto della sfera sociologica: essa, infatti, riesce a penetrare le parti in ombra
della nostra società ed a metterle in luce.
Il puzzle rimarrebbe però incompleto, quasi spoglio, senza quella parte fondamentale ed
esplicativa che è la storia. Se, infatti, il diritto e la sociologia rimangono spesso propri
degli esperti del settore, la storia è una scienza più comune che comunica in tempo quasi
reale ed istantaneo ciò che succede dandone, spesso, spiegazioni importanti. La storia è
una colonna portante per un popolo, soprattutto come quello italiano, che ha disegnato
frequentemente la propria immagine con il riflesso degli eventi epocali che hanno
segnato il suo percorso. Gli eventi drammatici o clamorosi sono i punti che segnano le
date che più si ricordano nella storia, e sono anche quegli input che troppo spesso –
purtroppo - hanno risvegliato società miopi con legislatori assopiti e/o politici disattenti.
1.1 La storia e le leggi antimafia fino al 1982
Non deve sorprendere che la mafia esista da più di 150 anni mentre la normativa dello
Stato italiano (del quale ricorre, quest’anno, il 150° anniversario) riguardante il
fenomeno mafioso nello specifico risalga solo al 1965. In quell’anno fu promulgata la
26
legge 31 maggio 1965, n. 575, recante “Disposizioni contro la mafia”. Con essa il
legislatore volle espandere il campo della sfera soggettiva di applicazione delle misure
di prevenzione estendendole anche ai soggetti sospettati di appartenere ad associazioni
mafiose. Essa fu introdotta a seguito della costituzione della Commissione antimafia
(1962) e sostanzialmente per due motivi: uno riguardava il mutamento della realtà
criminale in quegli anni, l’altro riguardava le difficoltà incontrate nel campo della
raccolta di prove per giungere a sentenze di condanna contro i primi arresti di mafiosi. Il
merito di questa normativa fu quello di introdurre i cardini basilari dell’assetto giuridico
indirizzato a combattere la criminalità organizzata; il demerito, se così si può dire, fu
quello di non aver avuto effetti concreti e risolutivi.
Scorrendo in avanti sulla linea storica arriviamo alla data di svolta: il 1982. Dalla fine
degli anni ’70 è in corso una feroce guerra di mafia: omicidi continui bagnano di sangue
le terre siciliane. L’espansione dei traffici illeciti (soprattutto quello di stupefacenti con
“Cosa Nostra” americana) porta ad un giro di affari di “centinaia di milioni (un
miliardo?) di dollari”28. Di Cristina, Calderone, Bontade, Inzerillo sono alcuni dei nomi
dei boss più importanti uccisi in questa guerra di mafia, espressione della sete di potere
di Salvatore Riina. In questo scenario gli uomini di stato che tentano di indagare su
quello che sta succedendo, di svelare una realtà evidente, ma per molti scomoda, sono di
troppo per la mafia e per i Corleonesi. Dal caso Notarbartolo (1893) non si avevano casi
di omicidi di uomini di rilievo dello Stato 29. I magistrati Costa e Chinnici, il giudice
Terranova, sono vittime della ferocia e della spietatezza della mafia in quanto colpevoli
solo di aver servito nel miglior modo lo Stato cercando di far luce su una piaga
profonda e continua della storia d’Italia. Come in precedenza accennato, la
consapevolezza e - a seguire - la volontà di reagire e rispondere ai mali che affliggono la
società sono caratteristiche attese da a lungo tempo nello Stato italiano: esse seguono a
eventi drammatici che sconvolgono gli animi, attaccano la parte sana della società che
lavora per la legalità e che spesso è stata lasciata sola. Uomini di Stato, e soprattutto di
valore, sono spenti dal delirio criminale: Pio La Torre il 30 aprile 1982, Carlo Alberto
28
S. Lupo (1993), Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma:Donzelli Editore (p. 213)
29
Salvatore Lupo nel suo libro “Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri” riporta l’omicidio del 1971 del
procuratore Pietro Scaglione come precedente oltre al caso Notar Bartolo.
27
Dalla Chiesa il 3 settembre dello stesso anno. Triste è constatare come solo ad eventi
così dolorosi siano seguite le prime importanti normative antimafia; triste poiché si deve
spesso attendere perdite ingenti prima di trovare il coraggio della consapevolezza e
dell’azione.
12 ottobre 1982: entra in vigore la legge n. 726 recante “Misure urgenti per il
coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa” e che istituisce l’Alto
Commissario per il coordinamento contro la delinquenza mafiosa stessa. 30
Il 19 settembre viene varata la legge n.646/82 (conosciuta come “Rognoni-La Torre”)
che introduce l’articolo 416-bis nel Codice Penale. Questa norma è di fondamentale
importanza per studiare e comprendere la normativa antimafia poiché ne è il caposaldo.
La legge Rognoni-La Torre è rilevante per tre motivi: definisce per la prima volta
“illecita” l’organizzazione mafiosa; cerca di identificare i meccanismi di funzionamento
dell’organizzazione stessa; prevede il sequestro dei beni, misura che colpisce un punto
nevralgico della mafia31.
“L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della
forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di
omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la
gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni,
appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri,
ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé
o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”32.
La legge apportò un grande contributo alla lotta alla mafia come dimostra l’elevato
numero di persone denunciate, i numerosi accertamenti patrimoniali effettuati, i
sequestri e le confische successive alla sua entrata in vigore. La legge n. 646, e
30
Il nuovo organo è subordinato agli ordini del Ministero degli interni ma gode di poteri autonomi per svolgere le
indagini presso enti pubblici, banche. Può avvalersi degli organi di polizia tributaria.
31
La legge si occupa inoltre di misure di prevenzione patrimoniale (per colpire l’accumulo illecito di patrimoni) e di
istituire una seconda Commissione antimafia alla quale però non dette poteri d’inchiesta bensì di controllo
dell’attuazione della normativa antimafia, di monitoraggio dei pubblici poteri ed infine la facoltà di suggerire al
Parlamento misure legislative o amministrative per il contrasto alla criminalità organizzata.
32
http://www.testolegge.com/codice-penale/articolo-416-bis
28
personalità eminenti come Giovanni Falcone, sono poi i fattori che spiegano il numero
crescente di uomini di Cosa Nostra che collaborano con la giustizia fornendo un aiuto
fondamentale alla lotta alle organizzazioni criminali. Sono questi i fattori che toccano la
mafia in qualità di organizzazione criminale e di sottocosmo di valori. Cosa Nostra
acquisisce sempre più la percezione che l’impunità di cui ha goduto, e dalla quale si è
abilmente riparata per lungo tempo, sta cadendo mattone per mattone.
A tal proposito è necessario richiamare l’evento del “Maxiprocesso”. L’idea di sfruttare
le potenzialità dell’articolo 416-bis, e di condurre indagini che portassero ad una svolta
nella lotta alla mafia, è stata del giudice Antonio Caponnetto. Questo processo è di
fondamentale rilevanza poiché più di quattrocento persone furono indagate per il reato
di associazione mafiosa e poiché si protrasse fino al 1992.
Ciò che ancora non è chiaro allo Stato, e alle autorità, è che se anche si fosse riusciti a
incriminare e a condannare un uomo d’onore, il carcere non sarebbe bastato a gettare
acqua sul fuoco mafioso.
2. Il regime penitenziario
La legislazione antimafia, quale descritta nel paragrafo precedente, è presupposto
fondamentale per studiare le norme del regime penitenziario e quindi l’articolo “41-bis”,
ovvero l’ambito del diritto con il quale la realtà dell’organizzazione e della cultura
mafiosa devono convivere e confrontarsi. Continuiamo, perciò, a percorrere la storia
della legislazione penitenziaria al fine di giungere alla stesura dell’articolo 41-bis. Esso
infatti rappresenterà un evento importante sia per le misure penitenziarie sia, e
soprattutto, per Cosa Nostra.
Come già accennato, l’evoluzione della normativa antimafia è sì importante ma non
sufficiente a contrastare il fenomeno mafioso. Una volta riusciti a condannare un
affiliato di Cosa Nostra è necessario studiare il passaggio successivo: come deve essere
il carcere per costui, quale scopo si deve perseguire e in che modo raggiungere
l’obiettivo che ci si pone.
2.1 Gli anni di piombo e le premesse legislative del 41-bis
Era il 1975 e correvano gli “anni di piombo”. In questo scenario venne per la prima
volta introdotto nell’ordinamento penitenziario l’articolo 90 c.p., parte della legge n.
29
354/7533, Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e
limitative della libertà. L’articolo 90 c.p. costituiva una norma di salvaguardia a cui
ricorrere in casi gravi, uno strumento sostanzialmente di contrasto alla criminalità
politica. L’art. 90 c.p. è la prima esperienza di sospensione delle regole di trattamento
ordinario nel carcere per motivi di emergenza, esso recita: “Quando ricorrono gravi ed
eccezionali motivi di ordine e sicurezza il Ministro per la Grazia e la Giustizia ha
facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti
penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di
trattamento e degli istituti (…) che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze
di ordine e sicurezza”34
In sostanza la legge del 1975 non si occupava di detenuti per reati di mafia ma di
soggetti appartenenti a organizzazioni eversive e terroristiche. Successivamente, nel
1977, un decreto ministeriale istituisce le prime cinque “carceri speciali”, in altre parole
i penitenziari dove avveniva una collaborazione tra organi dell’amministrazione
penitenziaria e i servizi di polizia esterni. I primi si occupavano della sicurezza interna
alla struttura carceraria e i secondi avevano invece la facoltà di chiedere ai primi di
attuare misure di sicurezza verso l’esterno del carcere. Questa normativa si inserisce in
un contesto storico e politico delicato della storia italiana e dimostra la primissima
attenzione del legislatore nei confronti di un doppio versante: quello interno al carcere e
quello esterno. Proprio questo doppio versante delle relazioni dei detenuti, all’interno e
all’esterno dell’istituto penitenziario, è di fondamentale importanza per comprendere
cosa significhi il carcere per Cosa Nostra e quale utilizzo l’organizzazione abbia fatto, e
faccia, del carcere stesso.
L’articolo 90 c.p. è quindi importante in questo percorso perché, nonostante fosse
rivolto ai terroristi politici, mirava a prevenire un collegamento tra quei soggetti e le
altre criminalità presenti sul territorio italiano (mafia, camorra, “ndrangheta”, sacra
corona unita). La norma comportò l’adozione di misure come le limitazioni del
passeggio all’aperto, una riduzione del numero di colloqui del detenuto, controlli sulle
sue comunicazioni telefoniche. Un difetto della norma stava nella sua generalità: in altre
33
La legge n. 354/75 fa parte di quelle riforme che segnarono il passaggio da un sistema statale autoritario ad uno
democratico, nel movimento di riforma dei codici penali.
34
Citazione della legge in: S. Ardita (2007), Il regime detentivo speciale 41 bis, Milano: Giuffré Editore (pag. 7)
30
parole finiva per rivolgersi a tutti i detenuti dell’istituto carcerario ma non sortendo gli
effetti desiderati.
2.2 La legge Gozzini: l’articolo 41-bis
La legge n. 663, detta legge Gozzini dal nome del Senatore Mario Gozzini che la
propose, fu introdotta nel 198635. Essa voleva dare maggior rilevanza alla dimensione
rieducativa del carcere concedendo benefici a chi dimostrava un corretto
comportamento durante la detenzione. Al tempo stesso aboliva il precedente articolo 90
c.p. da cui non si discostava di molto ma ne riversava il contenuto in una nuova norma
che veniva introdotta nell’ordinamento penitenziario: l’articolo “41-bis”. Esso conferiva
un nuovo strumento per sospendere le ordinarie regole di trattamento penitenziario,
sempre per motivi di sicurezza e di ordine pubblico. La stessa legge introdusse anche
l’articolo 14-bis il quale prevedeva misure speciali nei confronti di quei detenuti che
fossero ritenuti pericolosi per la sicurezza interna del carcere e che si avvalessero dello
stato di soggezione degli altri detenuti. L’articolo 14-bis voleva superare il concetto di
carcere di massima sicurezza e applicare, invece, una differenziazione di regime per lo
scopo della sicurezza e dell’ordine. L’esigenza era evitare la perpetuatio delicti, in altre
parole impedire che - attraverso il proselitismo o la soggezione - il detenuto potesse
reclutare nuovi adepti od organizzare crimini. Questa formulazione spiega già di per sé
il perché questo articolo viene citato nella presente tesi: avvalersi dello stato di
soggezione è una delle caratteristiche di Cosa Nostra.
Ultimo elemento da tenere presente riguardo alla legge Gozzini è l’articolo 47-ter c.p.:
esso introduceva per la prima volta l’istituto della detenzione domiciliare, ma tracciava
un limite alla sua applicabilità. L’istituto, infatti, non può essere messo in atto nei
confronti di quei soggetti di cui è stata accertata l’attualità dei collegamenti con la
criminalità organizzata.
Le discussioni per l’approvazione della legge Gozzini in parlamento coinvolsero anche
la seconda sotto-commissione antimafia che nello stesso anno 1986 si preoccupò di
valutare la situazione nelle carceri italiane. La visita ispettiva nel carcere di Poggioreale,
35
La legge Gozzini voleva porre i presupposti affinché il Ministro di Grazia e Giustizia potesse rendere efficace la
norma con strumenti più chiari rispetto al precedente articolo.
31
ritenuto uno dei peggiori istituti penitenziari del Sud, fece emergere molti problemi: il
sovrannumero dei detenuti e le condizioni fatiscenti del carcere. Questa fotografia
preoccupante condusse a una presa di coscienza delle realtà penitenziarie, elementi da
tenere presenti per qualunque riforma del trattamento penitenziario; base da cui partire
per ogni disegno di legge sul trattamento carcerario. In condizioni del genere diventava
ancor più preoccupante, per l’amministrazione penitenziaria, il problema dei detenuti
mafiosi. In condizioni disagiate era facile per tali detenuti avere libertà di movimento,
essere sottoposti a minori controlli, incontrare amici o stabilire alleanze e ricreare forme
di clan all’interno dello stesso istituto.
Discorso a parte è quello del “Grand Hotel Ucciardone”, come era chiamato, all’epoca,
il carcere di Palermo per l’elevato tenore di vita che garantiva ai suoi detenuti (come è
stato già spiegato inizialmente).
Alla fine degli anni ‘80 si comprendeva come il carcere non fosse minimamente un
luogo per l’isolamento dai contatti esterni. Esso era un luogo alternativo, e temporaneo,
per il mafioso che continuava i suoi affari attraverso le numerose occasioni di contatto.
Le celle erano sale riunioni, le ore d’aria momenti di reclutamento e pianificazione.
2.3 I limiti del 41-bis nella sua prima formulazione
Bisogna tener bene a mente la formulazione della legge: l’articolo “41-bis” e 14-bis
entravano in funzione solo se ricorrevano avvenimenti tali da mettere in discussione la
sicurezza nel carcere. Gli uomini d’onore, però, erano dei perfetti detenuti:
“difficilmente, anzi mai, sono puniti” 36 E ancora “sono tutti collaboratori dello staff che
se ne serve per controllare la sicurezza interna in cambio di qualche privilegio come una
maggiore libertà di movimento nel carcere, il ricovero in infermeria, un posto di
lavoro”37. La misura prevista dall’articolo “41-bis” c.p. aveva delle grandi potenzialità
ma non efficacia, poiché mancavano le condizioni per la sua applicazione.
Gli anni ’80 furono un periodo in cui l’illegalità nelle carceri dilagava, la criminalità vi
ritrovava parenti e amici che spesso formavano “padiglioni” della stessa famiglia. 38
36
I. Invernizzi (1973), Il carcere come scuola di rivoluzione, Torino:Giulio Einaudi editore cit., pag. 201.
37
I. Invernizzi (1973), Il carcere come scuola di rivoluzione, Torino:Giulio Einaudi editore cit., pag. 201
38
Commissione antimafia, X legislatura, seduta del 22 luglio 1986, intervento dell'on. Flamigni, pag. 35
32
In questo scenario erano dunque presenti due esigenze: quella di prendere atto della
situazione che facilitava l’attività mafiosa, e condurne uno studio, e quella di coordinare
le leggi antimafia con l’ordinamento penitenziario.
3. 1992, le stragi
L’articolo “41-bis” introdotto nel 1986 fu criticato da molti. I benefici di cui dava la
possibilità di godere39e l’irrilevanza del titolo di reato per ottenerli erano giudicati
inappropriati. Venne dunque modificato nel 199240 a seguito degli eventi drammatici
che segnarono la storia della Repubblica Italiana di quell’anno. I giudici Falcone e
Borsellino furono uccisi in due stragi ordite dalla mafia. Il periodo storico e politico
possono essere forse rappresentati attraverso l’immagine di una matassa di fili
intrecciati che insieme formano un caos incomprensibile, anche per gli stessi
protagonisti.
“…in questi tremendi episodi pare sconfitto –appare dolorosamente sconfitto - lo Stato
democratico, sconfitta la democrazia poiché è sconfitto l’uomo nei suoi diritti, nella sua
dignità, nei suoi valori.(…).La democrazia vincerà la tremenda battaglia della
prepotenza e del delitto. Sta a ciascuno di noi saperne dare certezza.”41 Questa frase fu
pronunciata dall’allora presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro 42.
Le stragi di Capaci, 23 maggio, e di via d’Amelio, 19 luglio, scuotono un’Italia che non
aveva ancora raggiunto il livello di consapevolezza che era richiesto per interpretare
quello che stava accadendo. Le due stragi avvengono a poco meno di due mesi di
distanza. Rappresentano la mossa della mafia per affermare la sua forza nonostante la
sconfitta subita al Maxiprocesso (che si chiuderà con sentenza irrevocabile di condanna
il 30 gennaio 1992).
39
I benefici venivano concessi solo a detenuti condannati a meno di tre anni o che avessero scontato una pena per un
periodo sostanzioso di anni (25% degli anni totali o dieci per i condannati all’ergastolo). I permessi premio, o
l’affidamento ai servizi sociali, erano tra i benefici di cui l’imputato poteva godere.
40
Precedenti di questa modifica sono tre decreti legge non convertiti del 1990. Essi si allontanavano dall’istituto della
legge Gozzini che prevedeva una concessione di benefici non in base al reato commesso ma solo in relazione al
comportamento tenuto in carcere. Nel 1991 poi viene introdotto il d.l. n. 152 che reca “Provvedimenti urgenti in tema
di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, art 4-bis.
41
Resoconto stenografico del parlamento in seduta comune da mercoledì 13 a lunedì 25 maggio 1992.
42
Il presidente della Camera pronunciò le citate parole nella seduta comune del parlamento in occasione dell’elezione
del presidente della Repubblica nella commemorazione di Giovanni Falcone.
33
Il periodo riecheggia la fase del terrorismo degli anni ’70, solo che le misure allora
adottate si erano rivelate poco incisive. Inoltre la criminalità da fronteggiare era
notevolmente diversa.
Poche settimane dopo l’omicidio del giudice Falcone viene varato il decreto legge 8
giugno 1992, n. 306, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”.
3.1 Le discussioni parlamentari e la legge 356/1992
Dal 3 al 6 agosto Camera e Senato si riunirono per convertire il decreto legge n.306
nella legge 7 agosto 1992, n. 356, “Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di
procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa 43”. A livello
governativo si richiedevano misure emergenziali immediate per rispondere al disagio
dei cittadini, profondamente turbati dalle stragi. Le misure drastiche, come quelle verso
il terrorismo politico negli anni ’70, sembravano lo strumento migliore per conferire
autorevolezza alle risposte dello Stato44.
È il 3 agosto 1992, e nell’aula di Montecitorio l’aria è tesa. Le critiche proliferano sia da
parte della maggioranza che dell’opposizione; impossibilità di far valere verbali già
presentati in precedenti procedimenti, inefficienza di istituti come DIA, DNA e
Superprocura antimafia, che non hanno ancora espletato le loro funzioni, sono solo
alcune delle critiche avanzate. A queste due osservazioni se ne aggiungono molte altre
di carattere processuale e generale tra cui la protezione dei pentiti, non sufficientemente
garantita (mentre lo era quella degli infiltrati, rarissimi in contesti mafiosi) e
l’inesistenza di una norma contro il riciclaggio del denaro (considerato che emergevano
inchieste, attraverso la vicenda di “Mani Pulite”, che svelavano stretti intrecci tra
imprenditoria e mafia).
43
Il governo al Senato chiese la fiducia sul decreto legge, come descrive nella seduta del 6 agosto del Senato il
Senatore Molinari (pag 28 del resoconto stenografico), il quale denunciò la celerità eccessiva della prima discussione.
44
Chiedere la fiducia rientrava in questo scopo, poiché dava un valore simbolico all’iniziativa legislativa. In tal modo
aveva però bloccato una possibile modifica dello stesso da parte del Senato, modifica che invece è avvenuta alla
Camera dei deputati.
34
L’omicidio del giudice Borsellino è sentito da tutti i deputati come l’ennesimo grave
attacco verso lo Stato45 che deve ora, attraverso le Camere, riconquistare la sua forza
proteggendo i suoi rappresentanti e chi collabora con esse; deve depurare le istituzioni
stesse da uomini collusi perché “ la mafia fa politica, la mafia è soggetto squisitamente
politico”46. Occorre applicare leggi efficienti, operare con un pool antimafia costituito da
esperti che non lascino spazio a padrinati.
Passi in avanti sono l’introduzione nell’articolo 416-bis c.p. del reato che si compie
impedendo il libero esercizio del voto, procurando indebitamente voti a sé o ad altri in
occasione di consultazioni elettorali; l’allungamento dei tempi per le indagini
preliminari.
Nei mesi precedenti questa seduta, molti boss detenuti a Pianosa si lamentavano di non
avere la televisione. Il problema della detenzione dei più grandi nemici dello Stato stava
emergendo in un momento in cui lo Stato stesso voleva mostrare oltremodo la sua forza.
Il decreto in discussione, secondo molti deputati, non deve concedere benefici o servizi
di alcun genere. Secondo molti la legge Gozzini aveva concesso troppi privilegi. Ecco
che in parlamento si sente l’esigenza di condurre una lotta contro la mafia attraverso
provvedimenti efficienti. Fino al 1992 si erano varate molte leggi che avevano lo scopo
di colpire il fenomeno mafioso, ma erano state poi tutte disattese (anche perché la
corruzione e la collusione tra mafia e politica annullano qualunque effetto positivo di
qualunque legge). Dalle parole dei deputati emerge la necessità di ridare credibilità ad
uno Stato che non è riuscito a scovare gli assassini di molti suoi uomini, che non ha
catturato latitanti che vivono comodamente nelle loro case in vie centrali delle città
della Sicilia e che celebrano matrimoni nelle chiese del paese.
45
In aula viene ricordato il suicidio di Rita Atria. La ragazza di Partanna, figlia di uomini d’onore, aveva cominciato
a collaborare con il giudice Borsellino e a seguito della sua morte si era tolta la vita dichiarando “Ormai nessuno più
mi protegge”. Questo evento non può non essere fonte di discussione in parlamento. Una cittadina di diciotto anni si
toglie la vita perché l’unico in cui credeva è stato ucciso. I cittadini si sentono maggiormente protetti da un uomo
piuttosto che dallo Stato. È la realtà dei molti che non credono nello Stato ma solo in alcuni suoi uomini onesti.
46
Cit on. Borghezio, seduta della camera 3 agosto 1992, pagina 2342 resoconto stenografico Atti Parlamentari —
2355 — Camera dei Deputati XI LEGISLATURA - DISCUSSIONI - SEDUTA DEL 3 AGOSTO 1992
35
La necessità di dare risposte rapide incalza e i ritmi dei lavori alla Camera proseguono il
4 agosto. Il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, modera una sala accesa e le
frequenti votazioni sugli emendamenti sottoposti ad approvazione.
Un esame sommario, ma esaustivo, è possibile tramite un richiamo per sommi capi della
seduta del Senato del 6 agosto 1992 perché da essa si ricavano gli emendamenti più
importanti apportati in via definitiva dalla Camera: uno riguarda le misure da osservare
nella testimonianza del pentito a distanza (in luogo riservato per tutelarlo); un altro
riguarda una modifica all’articolo 416-bis in merito allo scambio elettorale-politico; po
c’è l’eliminazione della figura dell’Alto Commissario; l’abolizione della misura del
fermo di polizia.
Il riflesso dell’opinione pubblica emerge dal resoconto stenografico come un lampo che
illumina le discussioni. Per alcuni senatori essa è un input che obbliga ad irrogare
misure di prevenzione in tempi veloci e immediati. Altri cercano la razionalità per
distaccarsi da un clima politico ed emotivo generale incandescente. Del resto come
biasimare cittadini, ministri e magistrati che vivevano con animosità quel periodo buio
in cui tutto sembrava imprevedibile, il nemico pareva inafferrabile e lo Stato sull’orlo di
una crisi di nervi?
Il senso che si percepisce, leggendo gli atti, non è solo di tensione ma anche di
frettolosità47. Colpisce una caratteristica del dibattito: si percepiscono un realismo e
un’analisi efficace del fenomeno da parte di molti. Il Senatore Vittorio Parisi, ad
esempio, dice: “Ancora una volta si affronta il problema secolare della mafia con
interventi puramente di facciata, repressivi, cercando di rimediare con norme
eccezionali ad una situazione creata nel passato proprio dall’incapacità - e forse non
volontà - di colpire la mafia nelle sue articolazioni anche dentro lo Stato e la sua
amministrazione.”48 Il Senatore nota come la forza della mafia consista nel traffico degli
stupefacenti, nei suoi proventi e negli intrecci con la politica e lo Stato. Secondo il suo
parere la norma dovrebbe occuparsi di tutto ciò, mentre appare ben distante da questi
47
In questo clima la Commissione per gli Affari Costituzionali non è nemmeno stata riunita, solo la
Sottocommissione pareri ne ha discusso frettolosamente. Come dice lo stesso Ministro di Grazia e Giustizia, on.
Martelli al Senato: “la ristrettezza dei tempi non consente un esame più approfondito che sarebbe stato forse
augurabile” (resoconto stenografico pag 59).
48
Resoconto stenografico seduta del Senato 6 agosto 1992, pag 18
36
obiettivi. Servono azioni preventive che colpiscano l’economia mafiosa e che recidano i
contatti tra mafia e politica49. Analizzare, quindi, da dove vengono gli intrecci mafiapolitica. Invece sono attuati interventi di facciata. Si indice, ad esempio, il divieto di
sorvolo di Palermo, richiamato dalla “sindrome del golfo” di cui si soffre in quel
periodo, attuando un intervento sicuramente plateale ma sostanzialmente inutile.
Una misura realistica è l’estensione è applicata, in questo percorso legislativo, al 416bis nei confronti dell’impedimento del libero esercizio del diritto di voto. Si comprende
come il collegamento mafia-politica passi inevitabilmente dalle elezioni e si comincia
quindi a prendere in esame, e colpire, quel nesso malato della vita politica dello Stato.
Sempre a dimostrazione del realismo è importante riportare quanto denunciato dal
senatore Brutti (nello stesso resoconto, pag 41): l’errore persistente dello smantellare il
pool antimafia (cosa che paventava Paolo Borsellino già dal 1988), il non modificare
ma peggiorare la classe che combatteva in prima linea il fenomeno criminale a Palermo,
il restare fermi e immobili per poi correre ai ripari a delitti compiuti.
Riguardante un problema più generale è poi una parte dell’intervento del Senatore
Roveda. Quest’ultimo nota come sarebbe angosciante e pericoloso se la Commissione
bicamerale per la riforma della Costituzione si appoggiasse a “membri dubbi” per
rendite politiche o gestione del pubblico denaro e per il loro disinvolto operare: quale
garanzia di cristallina e morale purezza ci sarebbe in tanto importante atto?” 50. Insomma
cosa succede se la mafia arriva in Parlamento? Se è la mafia a dettare o influenzare le
leggi dello Stato? Se l’agitazione e la fretta non sono fattori positivi per dettare leggi si
deve però riconoscere che gli eventi sconvolgenti hanno fatto nascere e maturare in
molti esponenti della politica un realismo che traspare dagli atti in tutta la sua forza: “É
difficile non vedere nella macchina dello Stato un cavallo recalcitrante che deve essere
sempre stimolato per fare un passo in questo settore”51, dice il Senatore Boffardi.
Il bilancio complessivo del clima politico può essere rappresentato da due fenomeni: da
una parte troviamo una consapevolezza e un realismo disarmante da parte di molti
49
Propone un intervento che oggi ancora risuona attuale: interessarsi dell’ambiente del Sud, analizzare come sono
gestite le opere edilizie, le opere culturali, l’inquinamento, e capire se l’amministrazione è davvero adeguata e
competente.
50
Resoconto stenografico senato 6 agosto 1992 pag 20
51
Resoconto stenografico senato 6 agosto 1992, pag 22
37
politici; dall’altra le preoccupazioni si riversano più in una necessità d’immagine che di
efficacia politica52.
3.2 I punti della legge 356/1992 che riguardano il carcere
Restando nel contesto della seduta del Senato si analizzano, qui di seguito, i commenti e
le opinioni espresse in quella sede sui nuovi provvedimenti carcerari. La questione
fondamentale era sicuramente di trovare il giusto equilibrio tra il diritto di tutela
dell’individuo mafioso (ma con provvedimenti che limitano i diritti che avrebbe un
detenuto comune) e il dovere di tutelare la società. Al tempo stesso c’è un’esigenza
molto sentita: quella di distinguere il detenuto mafioso che decide di collaborare con la
giustizia da quello che invece rimane indissolubilmente legato all’organizzazione
criminale. Il primo richiede protezione e tutela particolari poiché rappresenta un punto
fondamentale della lotta al crimine organizzato.
La legge 356/1992 inasprisce il diritto penale e quello processuale penale. Rafforza i
poteri del Procuratore nazionale antimafia, prolunga i termini investigativi. L’articolo
15 riguarda nello specifico il “Divieto di concessione di benefici e accertamento della
pericolosità sociale”. Secondo la norma non possono essere concessi lavori esterni al
carcere, né permessi premio, né misure alternative alla detenzione, ai detenuti
appartenenti alla criminalità organizzata. L’assenza dei collegamenti con essa diviene,
con questo articolo, condizione necessaria ma non più sufficiente per ottenere le misure
alternative: ora è richiesta la collaborazione con la giustizia. La legge, infatti, mirava ad
favorire il pentitismo.
Si completa l’opera di riduzione delle prerogative introdotte dalla riforma penitenziaria
cominciata nel 1975. Si aggiunge infatti all’art 1 della legge 26 luglio 1975 n.354 la
seguente disposizione: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica,
52
L’affermazione conclusiva sulla seduta del Parlamento è che esso era alle prese con un fenomeno già visto a cui
rispondeva con figure non nuove ma con nuovi poteri. In sede parlamentare non ritroviamo una vera discussione
sull’ambito carcerario, o in particolar modo sulla norma dell’articolo 19, ma le discussioni generali portano a
concludere che ciò che prevalse fu l’emozione del momento che accelerò strumenti latenti; la difesa dei particolarismi
politici tentò di prevalere su di una necessità nazionale; la dimensione pratica venne lasciata agli operatori del settore
giudiziario, investigativo e carcerario.
38
anche a richiesta del Ministro dell’Interno, il Ministro di Grazia e Giustizia ha altresì
la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei
delitti di cui al comma 1 dell’articolo 4-bis, l’applicazione delle regole di trattamento e
degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le
esigenze di ordine e sicurezza”53
L’articolo richiama il precedente articolo 90 c.p. proprio perché come quest’ultimo
aveva voluto colpire i legami tra detenuti terroristi e organizzazioni eversive esterne al
carcere negli anni ’70, così si voleva fare con la mafia negli anni ’90.
La necessità di applicare l’articolo 14-bis, e la nuova norma, emergeva dalle
constatazioni fatte negli anni di come gli “uomini d’onore” detenuti tendessero a
ricreare nel carcere gerarchie e strapoteri. Necessitavano, quindi, misure speciali create
ad hoc per loro. La norma perseguiva un duplice fine: metteva in isolamento il detenuto
mafioso e interveniva sulla necessità di recidere il contatto tra quest’ultimo e
l’organizzazione; in aggiunta ribadiva la supremazia dello Stato adottando misure
repressive anti-crimine. Sicuramente l’esigenza di uno Stato forte e impenetrabile si fa
sentire per far fronte alla criminalità organizzata.
L’articolo 19 della legge doveva cessare la sua efficacia trascorsi tre anni dalla sua
entrata in vigore. Tuttavia il legislatore mantenne vivo il suo contenuto, mediante
proroghe, fino all’anno 2002.
Interessante (e deplorevole) è notare un parallelismo tra l’introduzione della legge n.
646/82 (Misure di prevenzione personali e patrimoniali) e il “41-bis” c.p. Come la
guerra di mafia, e i conseguenti omicidi di uomini dello Stato, sono stati i fattori di
input per la legge Rognoni-La Torre così la dolorosa perdita di Falcone e Borsellino ha
condotto all’introduzione dell’articolo “41-bis”. Questo mostra quanto il processo
legislativo non sia riuscito a stare al passo con il processo storico e di come siano
purtroppo serviti bagni di sangue per giungere a normative efficaci anche senza la
consapevolezza effettiva del legislatore.
53
Resoconto stenografico senato 6 agosto 1992, pag 116
39
4. L’articolo 41-bis nella sua valenza giuridica e sociologica
Il problema giuridico della norma serve per affrontare una questione sociologica. Il
legislatore aveva lasciato equivoco lo scopo che la norma si prefiggeva: la natura della
sicurezza cui faceva riferimento era interna o esterna al carcere? Ciò mette in luce da
una parte la consapevolezza del legislatore del problema interno al carcere di continuità
del fenomeno criminale, dall’altro la sua difficoltà dell’affrontare il doppio versante del
fenomeno. Un versante interno al carcere ma che è legato indissolubilmente con
l’esterno, che è il vero palcoscenico dove la mafia mette in atto i suoi crimini. Il carcere
come backstage e la realtà esterna come suo palcoscenico.
Quali sono in concreto le regole penitenziarie che sono coinvolte? Quelle che possono
mettersi “in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”: la possibile
interdizione della comunicazione esterna, limitazione dei colloqui, controlli sulla
ricezione di materiale dall’esterno, limitazione della permanenza all’aperto.
Sostanzialmente i provvedimenti interessano due categorie di relazioni del detenuto: le
relazioni con l’esterno e quelle all’interno dell’istituto penitenziario.
Limitazione dei colloqui con parenti ad una volta al mese per la durata di un’ora; divieto
di colloquio con terzi; divieto di corrispondenza con altri detenuti; divieto di
corrispondenza telefonica; controllo della corrispondenza54; limitazione alla ricezione di
pacchi a sola biancheria intima per un peso complessivo di 5 chilogrammi; divieto di
ricevere somme superiori alla cifra stabilita dal penitenziario (eccezione per spese di
difesa e multe). Il controllo del rispetto di tali regole da parte della polizia penitenziaria
doveva essere frequente.
Sul piano interno la permanenza giornaliera all’esterno non deve essere superiore alle
due ore; il detenuto era escluso dalla attività culturali, ricreative e sportive che
richiedevano utensili pericolosi; il detenuto mafioso era poi impossibilitato a partecipare
al gruppo di detenuti che distribuiva i pasti e non poteva chiedere cibi che richiedevano
la cottura. Era interdetto anche avere rapporti di alcun genere con gli operatori delle
54
Con la sentenza 349/93 la Corte costituzionale dichiarò tale pratica illegittima poiché lesiva dell’art 15
Costituzione che non ammette possibilità di derogare al principio di inviolabilità della corrispondenza se non per atto
motivato dell’autorità giudiziaria con garanzie stabilite dalla legge
40
carceri (psicologi, assistenti). Le attività interne al carcere permesse dovevano svolgersi
solo all’interno della sezione a cui il detenuto era assegnato e dalla quale non doveva
allontanarsi. Durante tutte le attività svolte dal detenuto doveva poi essere presente la
polizia penitenziaria con una sorveglianza continua e adeguata al livello di pericolosità
del detenuto stesso. Quest’ultimo doveva essere custodito solo con individui soggetti
alla stessa misura.
A queste misure si aggiungevano poi quelle previste nelle circolari dell’amministrazione
penitenziaria. La circolare D.a.p. del 21 aprile 1993 istituiva tre tipi di istituzione
penitenziaria: il carcere di alta, media e attenuata sicurezza. I detenuti, inoltre, dovevano
essere assegnati a istituti lontani dalle loro terre d’origine, come le carceri di Asinara,
Spoleto, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno. Questo provvedimento di allontanamento
richiama lo scopo del confino di recidere i contatti tra mafioso e il suo territorio. In
questo nuovo contesto, però, all’allontanamento si unisce l’isolamento all’interno del
carcere, conseguendo con una duplice misura un solo obiettivo: impedire in ogni modo il
contatto tra boss e organizzazione.
A conclusione dell’esame delle misure nello specifico, si nota come il provvedimento
restringa la libertà personale. Non bisogna però dimenticare che quest’ultima è un
diritto fondamentale riconosciuto nella Costituzione. La gravità a cui il “41-bis” cerca di
porre riparo giustifica, però, la sospensione delle ordinarie regole trattamentali e quindi
una restrizione della libertà del detenuto. Il problema della libertà ristretta trova la sua
risposta nella natura preventiva della norma55.
5. Il regime del carcere duro: tentativo di disarticolazione della concezione
mafiosa del carcere
5.1 incertezze e problematiche legislative; reazione mafiosa
Come detto nel paragrafo precedente, l’articolo 19 della legge 356/1992 non era
destinato a durare per sempre e forse per questo motivo (che si aggiunge alla fretta in
55
Nel suo libro “Il regime detentivo speciale 41 bis” Sebastiano Ardita così descrive la natura dell’atto
amministrativo, attribuendo ad esso anche un “contenuto “giustiziale” poichè le prescrizioni in esso contenute sono in
relazione alla precedente condotta criminosa del detenuto” (cit. Pagina 81).
41
cui era stato redatto) presentava notevoli lacune e incertezze 56. Le problematiche che
presentò il “41-bis” nei primi anni possono essere riassunte nelle seguenti categorie:
1- Genericità: la norma, soprattutto riguardo ai presupposti, era molto generica e
ciò metteva a rischio in primo luogo il principio costituzionale, prima
menzionato, di inviolabilità della libertà personale; in secondo luogo rimetteva
alla prassi la definizione dei destinatari della norma.
2- Eccessiva applicazione: la disciplina, per il motivo sopra indicato, venne estesa a
moltissimi detenuti senza, perciò, rispettare lo scopo primario che era quello di
formare due categorie distinte di detenuti. Il sovrannumero di detenuti sottoposti
al “41-bis” provocò l’impossibilità di un controllo stringente sui contatti tra boss
detenuti e affiliati esterni.
3- Dipendenza dall’esecutivo: la norma rimetteva il potere di attuarla nelle mani
degli organi dell’esecutivo senza prevedere, però, una collaborazione tra questi
ultimi e gli organi giudiziari come i procuratori distrettuali e il procuratore
antimafia.
4- Inefficacia: a causa della mancanza di criteri per la proroga del regime speciale
di detenzione, la sola assenza di ulteriori prove che dimostrassero continui
collegamenti tra il detenuto e l’organizzazione non bastava a decretare
l’efficacia del “41-bis”. Al detenuto in questione veniva quindi concesso un
regime detentivo più morbido in un circuito di sicurezza penitenziaria meno
elevato.
Si dice spesso, in letteratura, che la mafia sia invisibile. Questa affermazione non
poterebbe essere più vera proprio a riguardo dell’ambito giudiziario. Caratteristica dei
primi decreti e provvedimenti fu proprio la mancanza di prove concrete. Essi si
componevano genericamente di due parti: nella prima erano elencate le ragioni che
giustificavano il regime detentivo speciale, nella seconda il contenuto delle restrizioni
56
Per esempio il detenuto non poteva impugnare la valutazione effettuata dal Ministro di grazia e giustizia, non si
prevedeva una forma di controllo giurisdizionale sui provvedimenti ministeriali, non era specificato il giudice
competente a pronunciarsi. In altre parole non si erano garantite tutele giurisdizionali in una misura che, per quanto
necessaria, comprimeva ulteriormente le libertà personali del detenuto. I problemi vennero risolti nella prassi, con
l’individuazione del tribunale di competenza, quale venne dichiarato il Tribunale di sorveglianza dalla Consulta 56.
42
da porre in atto. Il problema era che proprio la prima parte faceva spesso riferimento ai
gravi episodi che avvenivano in Italia (attentati nelle città più importanti come Roma,
Milano, Firenze) lasciando, in tal modo, che la genericità colmasse quel deficit di prove
concrete contro i destinatari della norma che li collegasse, quindi, ai fatti concreti
avvenuti.
La prima applicazione su grande scala della misura detentiva speciale avvenne subito
dopo la morte di Paolo Borsellino: il “41-bis” fu applicato dal Ministro di Grazia e
Giustizia, Claudio Martelli, a 367 detenuti. Costoro vennero portati nelle carceri
dell’Asinara e di Pianosa riaperte appositamente per l’occasione. Non vennero resi noti i
criteri per l’attuazione della norma: i detenuti interessati potevano aver commesso un
qualunque reato tra quelli previsti dal “41-bis”, ma se il Ministro di Grazia e Giustizia
valutava la possibilità di un collegamento con l’organizzazione criminale ciò sarebbe
bastato per l’applicazione del “41-bis”57.
Questa applicazione capillare era una reazione alla nuova strategia mafiosa. Nel 1993
sono frequenti gli attentati in luoghi pubblici, basti ricordare Via dei Georgofili a
Firenze, le autobombe alla basilica di S. Giovanni in Laterano e allo stadio Olimpico a
Roma, l’attentato a Milano. Sono eventi, questi, che colpiscono profondamente
l’opinione pubblica. La mafia non uccide più individualmente ma attacca i cittadini
dello Stato nella loro quotidianità. E lo Stato reagisce con indagini capillari che portano
all’arresto, dopo quasi 24 anni di latitanza, di Salvatore Riina (15 gennaio 1993). In quel
periodo il “41-bis” è applicato a quasi 735 detenuti
58
. Nel contempo il numero dei
pentiti saliva a 95159.
Ad una prima osservazione questi numeri porterebbero a considerare l’articolo “41-bis”
come uno strumento davvero efficace contro la criminalità organizzata I giudizi su
57
Consideriamo inoltre che la misura godeva anche di retroattività. Il numero di detenuti potenziali da porre sotto
misura cresceva dunque in modo esponenziale.
58
L. Violante (1998), I soldi della mafia, Roma: Laterza pag. 269
59
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/misure/fontanel/cap2.htm#55
43
quanto sta accadendo sono principalmente due: secondo la Commissione antimafia60
l’articolo pone l’organizzazione in difficoltà, e incrina la sua struttura piramidale,
secondo un’interpretazione più sociologica si può dire che il boss in carcere acquisisca
maggiore riverenza e solennità da parte dell’organizzazione stessa in quanto egli diventa
un eroe che sfida lo Stato da dentro le sue istituzioni democratiche. Nei primi tempi il
“41-bis” produsse effettivamente disorientamento nell’organizzazione di Cosa Nostra e
recò non pochi problemi alla sua struttura gerarchica. Successivamente l’organizzazione
seppe, però, trovare escamotage alla misura del carcere attraverso nuove nomine e
attraverso contatti tra boss in carcere ed esponenti esterni dell’organizzazione.
Lo scopo che lo Stato si prefisse in quegli anni portava a preferire la prima
interpretazione. Bisognava continuare a tenere un atteggiamento duro e irremovibile per
mostrare all’opinione pubblica che la lotta al crimine sarebbe continuata con fermezza.
Prevalse quindi in Parlamento una maggioranza che voleva prorogare la misura del “41bis” oltre la data di scadenza prefissata. L’opinione pubblica, in questa fase, gioca più
che mai un ruolo fondamentale: in questo periodo, come in pochi altri della nostra
storia, si percepisce un legame stretto tra misure legislative ed esigenze dell’opinione
pubblica. L’Italia si sente colpita nella sua vita quotidiana: a morire non sono più
persone lontane dai cittadini, per quanto considerate “eroi”, ma persone comuni come
donne, madri, bambini, anziani, studenti ecc. Ciò è intollerabile per il popolo italiano
che improvvisamente si desta e chiede uno Stato forte, deciso. Per questi motivi
l’articolo “41-bis” venne prorogato con proposta di legge (16 febbraio 1995, n.36) fino
al dicembre 1999.
5.2 1992-2002, dieci anni di applicazione del 41-bis, dieci anni di convivenza della
mafia con il regime speciale
I problemi che si possono riscontrare nella nuova norma introdotta dalla proroga
predetta furono numerosi. Innanzi tutto, come accennato, non vi era nessun controllo né
selezione dei destinatari della norma. In secondo luogo il numero di decreti emanati dal
D.a.p. (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) venne diminuito ribadendo la
competenza solo del Ministro di Grazia e Giustizia ad emanarli. Molte misure vennero
60
Commissione antimafia, XII legislatura, audizione del Procuratore della Repubblica di Firenze, Pieri Luigi Vigna,
seduta del 28 luglio 1995, pag 802
44
poi decretate inefficaci, e per questo allentate: la comunicazione telefonica con i
famigliari venne dichiarata meno pericolosa rispetto al colloquio visivo, e quindi
maggiormente concessa (per quanto soggetta a registrazione); vennero concessi più
incontri ordinari di un’ora poiché considerati non pregiudizievoli della sicurezza
pubblica; venne concesso l’acquisto dei cibi che richiedessero cottura e anche ricevere
più di due pacchi al mese contenenti biancheria intima. Comincia il cammino che
porterà ad indebolire la norma del “41-bis”. Passaggio successivo è la decisione della
Corte Costituzionale che, nel 1996, conferma la possibilità per i tribunali di vigilanza di
sindacare la legittimità delle misure disposte e impone il divieto di disporre misure che
non siano giustificate dallo scopo di mantenere ordine e sicurezza.
Problema tecnico, ma che ebbe risvolti sulla organizzazione di Cosa Nostra, fu il
rinnovo annuale della norma “41-bis” comma 2, che nel 1994 divenne semestrale. Il
meccanismo della proroga automatica comportò l’emissione a catena di decreti identici
che riguardavano un numero di detenuti molto elevato. Così facendo ci si allontanò
dallo scopo di creare categorie distinte di detenuti e di separare i boss dagli affiliati.
Ulteriori problemi furono l’adeguamento del “41-bis” allo scopo del reinserimento
educativo del carcere e l’idoneità della norma alla luce della convezione europea dei
diritti umani. In sostanza il legislatore aveva lasciato molti vuoti normativi che
consentirono a detenuti mafiosi di ricorrere molto spesso alle corti per chiedere
l’allentamento del regime sotto molteplici punti di vista. Insomma, se non si era tornati
al periodo del “Grand Hotel Ucciardone”, di certo la misura stava perdendo il suo
rigore. Ulteriore prova di ciò fu l’introduzione, all’interno della categoria dei sottoposti
al “41-bis”, di un “regime attenutato”: due colloqui mensili, attività artigianali, più
colloqui telefonici a prescindere dal numero di colloqui visivi (quest’ultimi erano
sempre effettuati attraverso un vetro blindato, ad eccezione dei colloqui visivi con figli
minorenni). 61
Oltre alle misure sempre più morbide all’interno del carcere un altro elemento
ostacolava un vero isolamento del detenuto: il “turismo giurisprudenziale”. In altre
61
È da sottolineare che ogni istituto penitenziario aveva un suo regolamento. Ciò diversificava il trattamento dei
detenuti a seconda di dove si trovassero. Il numero di libri concesso per lo studio e la lettura, i generi alimentari
concessi (come uova, pasta grossa), cambiava notevolmente.
45
parole i detenuti soggetti al “41-bis”, oltre che ai processi in cui loro stessi fossero
imputati, chiedevano spesso di presenziare ad altri processi. Ciò comportava uno
spostamento continuo di detenuti sicché questi potevano entrare in contatto con affiliati
o con altri boss detenuti sia durante il tragitto dal carcere al tribunale sia nel tribunale
stesso sia negli istituti penitenziari di passaggio, dove venivano reclusi se il tribunale in
questione era molto distante dall’istituto dove erano stati destinati. La continua mobilità
per questioni di giustizia aumentava la possibilità di contatti e quindi faceva venir meno
lo scopo del “41-bis” che era, per l’appunto, l’isolamento. Si cercò di porre fine a questa
pratica con la legge 7 gennaio 1998, n. 11, con cui si imposero le testimonianze, o le
presenze, ai processi tramite videoconferenza per i detenuti sottoposti al regime del “41bis”. Tuttavia poteva ugualmente accadere che, a distanza, si ritrovassero riuniti a
testimoniare boss che non avrebbero dovuto entrare in contatto tra loro. La legge non
aveva carattere permanente ma una scadenza fissata al 31 dicembre del 2000, scadenza
che verrà poi prorogata fino al 2002.
Altro momento in cui erano possibili contatti tra boss detenuti, o tra boss e l’esterno, era
quello in cui l’istituto – a cui il detenuto era assegnato – non era fornito di spazi che
erano considerati utili ai fini delle attività che i detenuti dovevano svolgere. Il detenuto
veniva allora spostato in altri istituti per cui, nonostante il controllo della polizia
penitenziaria fosse sempre presente, le possibilità di contatto si moltiplicavano.
I detenuti potevano anche essere “declassificati”: nel caso, cioè, fosse stata accertata
l’interruzione di qualsiasi collegamento con l’organizzazione il detenuto poteva passare
al circuito di media sicurezza. Quando poi venne creato il circuito E.I.V.C. (circuito ad
elevato indice di vigilanza cautelativa), nel 1998, la possibilità di contatti tra criminali
pericolosi, ma non appartenenti a Cosa Nostra, e boss detenuti nel primo livello (“41bis”) aumentò.
Ad aggiungersi alle difficoltà presentate dal regime del “41-bis” intervenne il Comitato
Europeo per la prevenzione della tortura o altre pene degradanti. Nel 1995 e nel 2000 il
Comitato effettuò visite nelle carceri di Spoleto e riscontrò contrasti con le garanzie
tutelate dalla Convezione europea dei diritti umani. I riscontri negativi che il Comitato
Europeo effettuò riguardavano: a) celle impersonali e spoglie (la polizia carceraria
aveva limitato il numero degli oggetti presenti nelle celle per poter effettuare controlli
46
più efficienti e capillari); b) limitate, se non assenti, attività ricreative e sociali; c)
limitati contatti con l’esterno; d) ritardi nelle cure mediche per i detenuti che ne avevano
bisogno.
In un contesto più generale, però, la Corte europea riconosceva la possibilità per l’Italia
di mettere in atto la misura detentiva speciale per motivi di sicurezza e ordine
pubblico62.
5.3 La riforma del 2002
Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, si stabilizzò l’articolo “41-bis” nel codice
penale. La legge modificò l’articolo “41-bis”, comma 2 c.p., innovò i presupposti ma
lasciò inalterato il cuore normativo: espiazione rigida della pena ma con un recupero
delle regole ordinarie del carcere condizionato alla collaborazione con la giustizia. Alla
riforma si arrivò tramite una continua proroga di riforma del “41 bis”. La prima risale al
1999, anno in cui si propose una legge che prorogasse, per l’appunto, la misura
detentiva speciale poiché veniva constatata la sua efficacia nell’interrompere i contatti
tra detenuto e organizzazione criminale. Al tempo stesso si volle rivedere la norma nei
suoi aspetti critici riguardo ai diritti umani, e anche per uscire dalla logica emergenziale
(ormai inadeguata in quanto la misura non aveva più carattere “eccezionale” ma
ordinario). Nel 1999 il governo diede quindi incarico ad una Commissione ministeriale
di esaminare la normativa e, in attesa degli esiti del suo lavoro, con la legge 26
novembre 1999, n. 446, prorogò il “41-bis” e rimandò anche il riesame della
regolamentazione della partecipazione ai processi a distanza. Ultima proroga, prima
dell’introduzione definitiva nell’ordinamento, è quella del 2000 che giustappunto portò
la scadenza del provvedimento all’anno 2002. Il disegno di legge del 2002 prevedeva di
considerare la norma non più emergenziale ma ordinaria: le organizzazioni criminali
non erano state debellate e il loro grado di pericolosità rimaneva costantemente elevato.
A questo ripensamento della misura contribuì notevolmente il lavoro svolto dalla
Commissione antimafia; quest’ultima sottolineò, nel suo resoconto, come il regime
detentivo speciale fosse stato in realtà molto permeabile alla criminalità nonostante le
62
In alcune celebri sentenze la Corte di Strasburgo si è pronunciata su numerosi ricorsi da parte di detenuti al 41 bis
come Indelicato/Italia, Musumeci/Italia.
47
misure speciali adottate63. A esempio dell’inefficacia delle misure si può citare il
permesso, già ricordato, di utilizzare i telefoni cellulari tramite i quali i boss potevano
comunicare con l’esterno, oppure la possibilità di comunicazione attraverso gesti
consentita tra detenuto e familiari durante i colloqui visivi. Sostanzialmente ogni
minimo abbassamento di tensione e vigilanza veniva utilizzato dai boss detenuti per
comunicare all’esterno64.
In quei giorni, inoltre, vi erano agitazioni nelle carceri, proteste contro il rinnovo della
norma da parte di detenuti soggetti al “41-bis”. La protesta era stata avviata, tramite una
petizione fatta durante una videoconferenza, da Leoluca Bagarella che voleva
richiamare l’attenzione sulle condizioni di vita nel carcere cercando di impietosire gli
ascoltatori. E di ciò se ne farà più attenta menzione più avanti. I detenuti volevano
mandare un messaggio molto chiaro al Parlamento: non adottare il “41-bis” come
misura permanente nell’ordinamento. Questi eventi, invece, condussero le camere ad
accelerare i tempi per dare un segnale di forza e per togliere ogni illusione alla
criminalità organizzata che la misura potesse venisse meno.
La legge 23 dicembre 2002, n.27965 “Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge
26 luglio 1975, n.354 in materia di trattamento penitenziario” inserì definitivamente il
“41-bis” nell’ordinamento penitenziario66. Il fatto che la norma fosse stata applicata in
modo sostanzialmente continuativo per dieci anni non aveva, infatti, lo stesso valore del
rendere tale misura effettivamente parte dell’ordinamento stesso.
Le problematiche della precedente normativa, tuttavia, non furono pienamente risolte da
questa riforma. Per esempio la caratteristica della genericità non è venuta meno tanto
63
Commissione antimafia, XIV legislatura “documento di sintesi della discussione”
64
Caso clamoroso fu quello dei due fratelli Graviano che riuscirono a diventare padri nonostante fossero in carcere,
come riportò il quotidiano Repubblica il 21 febbraio 1998 nell’articolo “Parte l’inchiesta sui figli in provetta dei due
boss”.
65
La legge ampliò la sfera di soggetti a cui destinarsi poiché l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 subito dagli Stati
Uniti d’America portò l’opinione pubblica a chiedere maggiori garanzie anche verso i criminali internazionali
66
Il decreto legislativo presentato dal governo (ministro Castelli) voleva prevedere un ulteriore termine di scadenza
del provvedimento (2006). Prevalse però la proposta fatta dall’opposizione di rinuncia al carattere di temporaneità.
Non c’erano, poi, motivi per sostenere la contrarietà della stabilità del provvedimento, nemmeno appigliandosi a
motivazioni costituzionali, date le numerose pronunce della Corte Costituzionale in merito.
48
che la norma si riferisce ancora a “gravi motivi di ordine e pubblica sicurezza” 67.
Nuova, e ristretta, è la fascia dei destinatari della norma i quali sono individuati solo in
coloro che hanno commesso reati di cui al comma 1 del nuovo 4 bis: terroristi
internazionali, autori di attività terroristiche, delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p, delitti di tratta e commercio di schiavi,
sequestri di persona, delitto di associazione a delinquere finalizzata a traffico di tabacchi
o di stupefacenti, delitto di associazione mafiosa (416-bis). Condizione necessaria e
sufficiente è la prova del collegamento tra il detenuto e l’organizzazione criminale.
Novità importante, invece, è il limite imposto al trattamento speciale: non inferiore ad
un anno e non superiore a due. I colloqui sono fissati per non più di due al mese e in
locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti tra detenuto e visitatore 68; il
colloquio è registrato e sottoposto a controllo audiovisivo solo se c’è una motivata
autorizzazione a procedere dell’autorità giudiziaria. Anche i colloqui telefonici, che non
possono essere di durata superiore ai dieci minuti, sono sottoposti a registrazione solo se
lo autorizza un provvedimento motivato dell’autorità competente. Interessante è poi
notare la regolamentazione della permanenza all’aria aperta: non più di quattro ore al
giorno e insieme a non più di altri cinque detenuti. In questo modo è facile che i
detenuti, il cui incontro sarebbe non auspicabile proprio in virtù della sicurezza pubblica
(che è scopo e caposaldo della norma), riescano ad incontrarsi durante le ore d’aria
nonostante quest’evento sia ciò che si vorrebbe impedire,. La corrispondenza è
censurata, a parte quella indirizzata o ricevuta dalle autorità europee, parlamentari o
giudiziarie. Le restrizioni quì indicate possono poi essere seguite da ulteriori
provvedimenti di sospensione di normali trattamenti secondo la lettera a) del comma 2quater: La sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 può
comportare:
a) l'adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo
principalmente alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di
appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni
67
L’organo competente ad emanare la misura detentiva speciale rimane il Ministro di Grazia e Giustizia che può
agire anche su richiesta del Ministro dell’Interno. Il primo deve però motivare il provvedimento (grado di pericolosità
del detenuto, appartenenza all’organizzazione, ruolo rivestito dal detenuto nella stessa).
68
Il detenuto può incontrare solo parenti o conviventi.
49
contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima
organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate. Al tempo stesso, però, vengono tutelati i
diritti del detenuto a fare ricorso al Tribunale di Sorveglianza il quale deve decidere,
entro dieci giorni, sul reclamo ricevuto. Se il Tribunale accetta il reclamo la sua
decisione diviene vincolante per il Ministro di Grazia e Giustizia il quale deve ritirare il
provvedimento di applicazione del regime speciale di detenzione. Compito del Ministro
è, secondo la riforma del 2002, non accettare la proroga del carcere duro qualora
vengano meno le condizioni che ne avevano giustificato l’applicazione. Il timore di
avere ancora “proroghe a catena” diviene labile dal momento che per una proroga sono
richieste prove “recenti” del collegamento tra detenuto e organizzazione criminale.
Questa condizione mette in difficoltà l’applicazione efficiente della norma: spesso le
indagini sul detenuto risalgono ai tempi in cui non era ancora in carcere e quindi la
proroga è difficile che venga approvata.
5.4 Gli effetti della riforma
A seguito della riforma aumentarono i casi di annullamento dei decreti applicativi.
Questo fu conseguenza proprio di ciò che si descriveva nel paragrafo precedente,
ovvero della mancanza di prove recenti sul collegamento tra detenuto e organizzazione.
I boss detenuti al carcere duro rimangono in prigione spesso per lungo tempo e ciò
impedisce di avere indagini che dimostrino contatti “recenti” tra questi e
l’organizzazione criminale. Oltretutto il mancato rinnovo del regime speciale è dovuto
anche al fatto che molti Tribunali non ritengono applicabile il regime a reati che non
prevedano espressamente l’aggravante di “mafia”. L’interpretazione dell’istituto del
“41-bis” non è, insomma, univoca e questo provoca il venir meno dello scopo che
l’istituto stesso ha: prevenire il contatto tra boss e affiliati, o tra affiliati, o tra detenuto e
organizzazione criminale. Tutto questo per puntare all’obbiettivo più grande che è la
sicurezza e l’ordine pubblico.
5.5 Il giudizio della Commissione antimafia nel 2004
La Commissione antimafia si pronunciò, all’indomani della riforma, sul nuovo istituto
immesso in modo permanente nell’ordinamento penale. Essa constatò dapprima il
numero elevato di annullamenti del regime, dato di fatto che destò sospetto ma
50
soprattutto preoccupazione, inoltre analizzò un dato importante ovvero la mancanza di
un vero coordinamento tra procure antimafia e tribunali di sorveglianza.
Sostanzialmente le due sfere dell’anticrimine non avevano una cooperazione né
lavorativa né una normativa omogenea a cui far riferimento. La Commissione rilevò
anche come, nonostante i numerosi anni di applicazione del regime (allora dodici, prima
come norma non definitiva ed ora come norma permanente dell’ordinamento), lo scopo
fosse stato troppo spesso eluso: i boss continuavano a comunicare sia tra loro sia con
l’esterno e a dettare ordini; si trasmettevano documenti, piani strategici e ordini tramite
bigliettini cuciti nelle giacche (che sfuggivano ai controlli), biglietti lasciati in
particolari “caselle delle poste”, ovvero i caloriferi delle aule di tribunale 69, o durante i
colloqui con i parenti (la cui videosorveglianza e registrazione era subordinata
all’ordine delle autorità competenti, ovvero con un provvedimento motivato del
magistrato). Ciò che notava la Commissione era la mancanza di un’azione organica che
individuasse i punti critici del provvedimento e della sua applicazione. A destare
preoccupazione e sospetto era poi il silenzio che si riscontrava tra i boss di Cosa Nostra
detenuti al carcere duro. Dal 1992 un obbiettivo cruciale dell’organizzazione era, infatti,
quello di tentare di far abolire il “41-bis” ed ora che la norma era divenuta parte
dell’ordinamento, in via definitiva, non si avevano più proteste né attentati!
6. L’evoluzione storica e sociale della mafia in rapporto all’istituzione
penitenziaria
È solito far risalire gli albori della storia della Mafia alla data dell’Unità di Italia; ciò
non perchè in precedenza il fenomeno non fosse presente ma perchè è dal 1861 che si
può notare un vero confronto tra il fenomeno criminale e la figura dello Stato italiano.
Nella parte meridionale del giovane Stato si era da tempo affermata una struttura sociale
nella quale i grandi latifondisti, che fino ad allora aveva detenuto il potere, si
garantirono controllo e protezione delle loro proprietà attraverso “gabellotti” e
“campieri” sia per resistere alle richieste dei contadini, che pretendevano una equa
distribuzione delle terre, sia per far fronte al fenomeno del brigantaggio. Da subito la
69
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/misure/fontanel/cap2.htm#55
51
Mafia assume, quindi, il ruolo pubblico di garante e protettore di diritti di proprietà
incominciando a sovrapporre i suoi poteri, ma anche le sue pretese, a quelle
dell’istituzione statale. Allo stesso tempo cominciò a crearsi la collusione tra potere
mafioso e i più vicini esponenti del potere statale (sia guardie, che erano responsabili
dell’ordine nelle campagne, sia di rappresentanti del potere nelle città70). La letteratura
in materia individua il termine di questa fase nel 1950, allorché comincia una nuova
fase per lo Stato italiano stesso con l’avvento della forma di governo repubblicano dopo
la seconda guerra mondiale. Questa prima fase viene solitamente denominata “del
latifondo” o “agraria”. Per l’organizzazione è una fase fondamentale di stabilizzazione
del potere che si fonda su rapporti agrari; la cultura mafiosa si radica sempre più in
profondità nei tessuti sociali. Le figure dello stato che si succedono nel tempo sono
diverse: dallo stato monarchico del 1861, con le sue fasi di assestamento e
consolidamento, al fascismo per arrivare al periodo della seconda guerra mondiale e al
conseguente sbarco degli Alleati in Sicilia (fenomeno di cui la mafia si rende garante
dell’ordine). Le figure statali che si susseguono in questo periodo non permettono,
forse, una chiara identificazione delle legislazioni ed degli interventi posti in essere
contro il fenomeno mafioso, ciò che è certo è che ci fu, nel tempo, una consapevolezza
del problema sociale e istituzionale ma che, anche per problemi politici interni e di
relazioni con l’estero, l’Italia non era dotata di strumenti adatti a far fronte ad un
fenomeno che si stava radicando nel tessuto intimo dello Stato. In questo arco di tempo
il carcere, per gli “uomini d’onore”, è semplicemente un luogo “di passaggio” che non
viene vissuto con eccessivo fastidio. Ciò accade poiché non esistevano, allora, misure
speciali o restrittive tali da poter impedire la continuazione, all’interno del carcere
stesso, dei rapporti clientelari e intra-organizzativi della mafia. Di sicuro non è un luogo
piacevole ma, per un affiliato, non è poi così insopportabile data la mancanza di misure
che toccassero punti nevralgici dell’organizzazione o dell’identità sociale dell’affiliato.
È invece il periodo successivo quello che comincia a destare maggior interesse per lo
studio del fenomeno. All’arco temporale che va dal 1950 al 1975 si fa risalire la fase
dell’urbanizzazione: la riforma agraria e lo spostamento dell’economia italiana dal
baricentro agricolo a quello urbano spostano anche l’attenzione dell’organizzazione sui
70
Salvatore Lupo nel suo libro “Storia della Mafia dalle origini ai giorni nostri” (1993), Roma: Donzelli Editore,
avverte che considerare la Mafia come un fenomeno totalmente contadino e rurale sia un errore.
52
profitti economici che possono derivare dalle nuove attività che fioriscono nelle città.
L’evoluzione sociale della mafia, in questo periodo, è strettamente correlato
all’erogazione dei fondi pubblici, alla nascita della regione Sicilia 71 e alla istituzione
della Cassa del Mezzogiorno 72. In questa fase la potenza rurale si impadronisce della
modernità urbana. Le città, in particolar modo Palermo, vengono modificate dalla
costruzione di nuove strade, palazzi, edifici. È con la fase dell’urbanizzazione che
cominciano anche le prime guerre di mafia perchè se nel latifondo i ruoli e i confini
erano stabiliti e protetti, nella città è la ricerca del profitto in ogni modo a dettare legge e
ciò comporta conflitti di interessi tra “famiglie” che conducono a scontri anche mortali.
Questa fase è importante proprio per il cambiamento culturale della mafia che è
conseguente all’adattamento ad un nuovo ambiente (dalla campagna alla città) e quindi
a dei cambiamenti sociali, ma anche economici, dell’organizzazione. Il “Grand Hotel
Ucciardone” è ciò che meglio può rappresentare il rapporto tra mafia e carcere in questo
periodo. La mafia ha una nuova dimora, il carcere. I boss detenuti ordinano piatti
prelibati, vivono in celle adibite a vere suite, propongono riti e iniziazioni, dettano legge
alle autorità penitenziarie.
La fase successiva è forse però la più caotica ma anche interessante per il tema qui
trattato. Dal 1975 agli anni duemila la mafia evolve economicamente grazie agli introiti
delle attività edilizie, ma soprattutto grazie ai proventi di un altro settore ben più
remunerativo: quello degli stupefacenti. L’evoluzione sociale della mafia è indiscutibile:
la cultura ancestrale, basata su una chiara distinzione tra ciò che è lecito e moralmente
ed eticamente consentito, e ciò che invece non può e non deve far parte del microcosmo
mafioso, cade. Le famiglie mafiose si erano interrogate spesso sulla opportunità di
entrare nel mercato degli stupefacenti, anche per le pressioni dei “cugini” americani che
già da tempo trattavano affari nel settore. Il profitto che poteva dare una partita di droga
71
La nascita della regione Sicilia risale al regio decreto n.455 del 15 maggio 1946 (convertito nella legge
costituzionale n.2 del 26 febbraio 1948). Quella siciliana è la prima regione dello stato repubblicano che trova
riconoscimento istituzionale. Si ricorda inoltre, che la regione Sicilia è una delle cinque regioni a statuto speciale con
Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige. Lo statuto speciale concede autonomie e diritti
particolari alle regioni che ne godono.
72
Fondata da Alcide De Gasperi e Pasquale Saraceno nel 1950, venne creata come ente per il finanziamento di
progetti o iniziative industriali nel Mezzogiorno al fine di sviluppare le regioni del sud e permettere di colmare il
divario tra le due parti del nuovo Stato. Nel 1992 è stata sospesa la sua attività per l’avvento delle politiche di
incentivi europei.
53
(eroina o cocaina) era imparagonabile a quello apportato dai traffici fino quel momento
intrapresi. La sensazione di essere più forte, economicamente e strutturalmente, la
guerra tra le “famiglie” per il predominio negli affari illeciti, porta la mafia al cosiddetto
“delirio di onnipotenza” che sfocerà, con Salvatore Riina, nell’attacco violento allo
Stato. Ma proprio in questo periodo, si è visto nei paragrafi precedenti, le istituzioni
hanno prodotto quelle leggi penitenziarie che più potevano infastidire la mafia; e
nonostante fossero ricche di lacune e, per certi versi, poco efficaci, il solo fatto che lo
Stato potesse muoversi con durezza contro l’organizzazione, spinse la mafia a
comportamenti aggressivi all’interno delle stesse carceri. In questo periodo esteso che
va dalla guerra di mafia all’ascesa di Riina, e quindi alla verticalizzazione della struttura
dell’organizzazione, all’attacco contro lo Stato negli anni che vanno nel 1982 e 1992, il
rapporto con il carcere si complica sempre di più. Dalle prime insofferenze si passa
all’intolleranza completa nei confronti delle misure penitenziarie. La verticalizzazione
della struttura organizzativa si estende anche ai comportamenti e alle reazioni della
mafia: tutto è esasperato e vissuto con esasperazione. All’intolleranza verso il regime
carcerario si aggiungono l’insofferenza e l’aggressività che, in questo periodo, vengono
riservate al fenomeno crescente del pentitismo, forse il più inviso e che si aggiunge a ciò
che la mafia detesta dello Stato ovvero le sue reazioni contro il fenomeno criminale (
che essa rappresenta) e, soprattutto, i suoi uomini più rappresentativi nella lotta contro
di essa: il pool antimafia dei magistrati Falcone e Borsellino. Le proteste nelle carceri, i
tentativi di eludere controlli e misure speciali con i sotterfugi o con la violenza, sono
esempi di come l’esasperazione pervada ogni aspetto sociale e organizzativo della mafia
in questa fase. Ciò che è necessario tenere presente è che ciò che non è stato risolto in
quella fase è oggi ancora presente. Le misure legislative descritte e analizzate nei
paragrafi precedenti non hanno avuto effetti concreti e non hanno risolto numerosi
problemi nella lotta alla mafia nelle carceri. La fase odierna, che forse almeno per le
politiche penitenziarie, o in generale antimafia, si può far risalire al 2002, anno in cui il
“41-bis” entra in modo permamente nel nostro codice penale, è contrassegnata da
incertezze e lacune pericolose. L’emergenza del sovraffollamento nelle carceri è,
inoltre, un ulteriore elemento che dovrebbe destare allarme perché comporta minori
possibilità di controllo sui detenuti “speciali”. Oltretutto la mafia stessa, in questa
ultima - e a noi contemporanea - fase, si è notevolmente evoluta a livello sociale,
54
economico e finanziario: il riciclaggio di “denaro sporco”, illecitamente guadagnato, è
diventato un nuovo - e produttivamente importante - settore per il profitto mafioso. La
mafia si è resa sempre più invisibile infiltrandosi ed emricandosi sempre più in attività
apparentemente legali. Ciò rende ancora più difficile la creazione e l’implementazione
di leggi antimafia perché diventa sempre più difficile discriminare ciò che è lecito da ciò
che è illecito.
55
CAPITOLO III i rapporti bidirezionali “stato-mafia” e “mafiacarcere” alla luce della trattativa
1. La mafia in trattativa con la politica, la politica in trattativa con la
mafia
1.1 Un’analisi sociologica del periodo storico e culturale della Mafia
Il periodo che copre gli anni dal 1975 al 1993 segna il passaggio evolutivo della mafia
la quale cambia pelle e, lasciando le regole antiche, si lancia in nuovi profitti. La droga
e l’edilizia sono le attività i cui profitti portano Cosa Nostra ad utilizzare una violenza
senza precedenti: l’organizzazione criminale si sente tanto forte e intoccabile da assalire
lo Stato; ed al crescendo di potere economico dell’attività malavitosa si accompagna un
crescendo di conflitti interni che troveranno soluzione nella spinta gerarchica che
Salvatore Riina riesce ad imporre all’organizzazione. Altri due elementi sono da tener
presenti per comprendere fino in fondo sia il periodo storico sia il mutamento sociale
dell’organizzazione e quindi il suo rapporto con l’istituzione carceraria. Il primo
riguarda la pretesa di avere un’autonomia politica: “autonomia politica” può significare
il riconoscimento solo parziale delle istituzioni, delle leggi e della cultura dell’autorità
politica principale, oppure, nel suo significato più intenso, il distacco totale dall’identità
politica e culturale dello Stato. La pretesa della mafia si identifica meglio con
quest’ultimo valore le cui ragioni risiedono, se non nel disprezzo dello Stato,
nell’incompatibilità di interessi che si è venuto a creare tra essa e lo Stato. La pretesa di
autonomia si esprime con una violenza parossistica che porta, dunque, ad una guerra
aperta con lo Stato.
1.2 la reazione dello Stato
Lo Stato italiano, nel 1992, reagì agli attacchi terroristici di Cosa Nostra con una misura
che, come abbiamo visto, si poneva l’obbiettivo di troncare i contatti tra i boss detenuti
e i “picciotti” in libertà: l’art. “41-bis”. Ad una azione, però, segue sempre una reazione:
il capo della Cupola non tardò a far capire che l’organizzazione avrebbe duramente
reagito a quella norma “..perché il “41-bis” metteva l’uomo d’onore a confronto con la
sua fragilità; in altri termini era, o poteva essere, l’anticamera della collaborazione (…)
e la comunicazione dall’interno all’esterno del carcere, e viceversa, era sostanzialmente
e profondamente compromessa, diventava un fatto eversivo negli assetti di potere
56
stabiliti dai corleonesi, con la conseguenza che l’organizzazione era diventata instabile
non tanto e non solo per la sua capacità di tenuta verso l’esterno quanto agli assetti di
potere.”73.
La misura posta in atto dallo Stato rischiava, pertanto, di scardinare un asse costruito col
sangue e ritenuto invicibile.
1.3 Legami antichi tra mafia e politica
Poniamo, ora, l’attenzione su un altro punto che ci consente una maggiore
comprensione del fenomeno mafioso e del suo dilagare.
Se non è così strano pensare che la mafia abbia avuto da sempre contatti col mondo
politico deve, invece, stupire che la politica abbia spesso cercato la mafia e si sia servita
della sua attività criminale. Il primo fenomeno è semplice da spiegare: il seme che ha
dato vita all’organizzazione di Cosa Nostra trovò terreno fertile in uno Stato disgregato
e diviso, privo di un vero potere politico colmando quella defectio con il “suo” potere, la
“sua” protezione e le “sue” leggi. Entrando in contatto, poi, con il potere politico dello
Stato unitario prima, e successivamente con quello dello Stato democratico, la mafia ha
imparato a convivere con quel potere, pur non riconoscendolo, ma, soprattutto, a
sfruttarlo per i suoi scopi. Cosa Nostra ha dimostrato la capacità di adattarsi a nuove
situazioni non solo mediante la violenza, eliminando chi minaccia il suo potere e/o
intralcia i suoi interessi, ma anche tramutando gli ostacoli in vantaggi. E, purtroppo, una
certa “politica” del nostro Stato si è rivelata esattamente un vantaggio per Cosa Nostra.
Ciò trova fondamento nel fatto che, da un punto di vista sociologico, i fattori che fanno
della mafia l’organizzazione che essa è sono: l’uso della violenza come strumento di
regolamento dei conflitti, il controllo del territorio, le relazioni clientelari, lo stretto
legame ed intreccio con il potere politico.
Nel resoconto stenografico della seduta della camera del 3 agosto 1992 viene citata una
dichiarazione dell’allora Presidente del Consiglio Amato: «Questo Stato non è del tutto
innocente e lo sappiamo. Quanta parte di Stato ha collaborato, ha lasciato che
accadessero fatti, ha omesso di intervenire, quando poteva intervenire anche nei
confronti della criminalità organizzata?».74
73
Cit. Dottor Chelazzi, sostituto procuratore della direzione antimafia, Commissione antimafia, XVI legislatura,
seduta martedì 14 maggio 2002, pag 27 e ss.
57
Nel 1992 il quadro di una mafia collusa con la politica e con gli ambienti economici è
ben chiaro. Il tricolore si fonde con i colori bui della corruzione e del clientelismo in
quella metastasi profonda che è la mafia, la malattia del paese che - invece di essere
combattuta - viene celata e ignorata.
I motivi per cui la politica, a sua volta, può avere interesse ad usufruire della mafia sono
molteplici e soprattutto multidimensionali. Il primo fattore di “pull” per la politica nei
confronti della mafia è il voto elettorale. L’uomo d’onore, nella sua terra di origine,
gode di asservimento, rispetto, clientelismo: il mafioso, in sostanza, è un serbatoio di
voti. Quando Cosa Nostra appoggia l’elezione di un politico, sia egli a livello locale o
regionale o nazionale, porta a quest’ultimo una quantità di voti utile per spostare l’ago
della bilancia. Il motivo per cui l’organizzazione appoggia un candidato varia, poi, a
seconda dell’interesse che la mafia ritiene di poter ottenere dal sostegno di quel
candidato; si va dal semplice “non fare niente contro”, al sostegno di un progetto di
Cosa Nostra come la costruzione di un’autostrada, di nuovi immobili ecc. “Qualcuno
magari ipotizza che uno vota un partito perché deve fare qualche cosa per Cosa Nostra
e invece, in realtà, è questo: Cosa Nostra, fino a quel periodo votava quel partito
perché non facesse niente, cioè, questo era il problema, non che facesse qualcosa. Si,
perché non si facesse nulla contro Cosa Nostra e nemmeno… nemmeno a favore perché
ci bastava già quello che avevamo (…) la nostra forza era quella di riuscire a
paralizzare le attività, diciam istituzionali, che non facessero delle leggi, diciamo,
repressive per noi”75.
Sembra quasi una questione di cultura, e quindi una sorta di sindrome costitutiva della
cultura italiana, l’attitudine a contrattare, a tenere un piede in due scarpe, asservire due
cause opposte; e ciò contraddistinto la Repubblica in molte fasi della sua storia. In
diplomazia e politica internazionale, come anche in quella nazionale, il compromesso è
sì rischioso ma può essere assai utile. Se si ha a che fare con un soggetto criminale,
però, tale comportamento porta ad intrecci molto pericolosi che possono mettere a
repentaglio la vita dello Stato e la sua natura democratica. Nel suo libro “La
74
Resoconto stenografico seduta camera 3 agosto 1992, cit. Gasparri on pag 2349
75
Trib. Di palermo, V se., pen. N. 3538/94 a carico di Andreotti G., udienza del 22-04-97
58
convergenza. Mafia e politica nella seconda Repubblica”, Nando Dalla Chiesa sostiene
che la mafia cerca di portare al potere un “cretino”, ovvero una persona inetta che non
farà altro che seguire le indicazioni, gli interessi, gli ordini della mafia. Questo è ciò che
Cosa Nostra ha tentato di fare, probabilmente riuscendoci, come effetto della trattativa:
portare al potere un nuovo partito politico che potesse essere interprete “legittimo” delle
pretese dell’organizzazione attuandole attraverso un programma di governo.
2. La trattativa, esempio della centralità del carcere nella vita
dell’organizzazione mafiosa
2.1 Delitti eclatanti
Per comprendere come si sia arrivato ad una trattativa tra le parti è opportuno elencare i
più eclatanti episodi violenti accaduti:
- 12 Marzo 1992: viene ucciso l’Onorevole Salvo Lima, rappresentante di Andreotti in
Sicilia.
- 23 Maggio 1992, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della
scorta muoiono nella strage di Capaci. Due mesi dopo, il 19 luglio, Paolo Borsellino è
vittima della strage di via D’Amelio.
- 19 Luglio 1992, Paolo Borsellino cade vittima dell’attentato preparato da Cosa Nostra
in via D’Amelio, via del suo domicilio.
Studiando e analizzando i resoconti storici, o giornalistici, sulla “trattativa” tra Stato e
mafia si percepisce da subito come la materia sia itrisa di segreti ed omertà. Molto di ciò
che si ricava è tratto da atti giudiziari, confessioni di pentiti, resoconti lasciati da
testimoni di primaria importanza. Tra questi non può mancare Massimo Ciancimino,
figlio più giovane del ex sindaco di Palermo e assessore ai lavori pubblici dello stesso
comune, Vito Ciancimino.
2.2 La strategia dello stragismo
Eventi delittuosi che portano ad omicidi sbalorditivi, o che hanno come oggetto luoghi
pubblici, non sono novità nella storia degli Stati, essi servono a comunicare, mediante la
violenza, messaggi politici, ad esprimere insofferenza verso le istituzioni e sono quindi
espressione di richieste occulte, quando non precise. Sostanzialmente una strage non
viene compiuta se non ha uno scopo. Casi esemplari sono l’attacco alle Twin Towers di
59
New York nel 2001 come pure gli attentati a Madrid e Londra. Gli attentati avvenuti in
Italia nel 1992-1993, sia a singoli uomini di Stato che in grandi città della penisola, sono
espressione del malessere e del delirio di onnipotenza di Cosa Nostra. Ogni attentato,
ogni strage ha sempre uno scopo politico e per fermare un continuum di attentati e stragi
bisogna o sconfiggere, e debellare, definitivamente coloro che compiono questi atti
criminali, e i loro malsani ideali, oppure bisogna scendere a patti con essi. Per la
maggior parte delle volte si sceglie, convenientemene, quest’ultima via.
L’Italia, come abbiamo detto, ha in sé la cultura del compromesso e ciò lo si nota
ripercorrendo la sua storia e le relazioni internazionali76. La mafia è un’organizzazione
che si basa sulle trattative, e il pizzo non è altro che il conto presentato a chi occupa un
posto che essa ritiene essere suo. L’appoggio politico ad un candidato, o a un partito, e
quindi la propaganda per essi, sono l’incipit di un compromesso con il candidato
politico per riuscire ad ottenere l’attuazione dei propri interessi. La violenza è sempre
stata parte intima e indissolubile di Cosa Nostra ma con Totò Riina diventa la misura
con cui presentare il conto allo Stato.
Cerchiamo di capire il perché di questa inaudita violenza.
Come delineato nei capitoli precedenti, dalla nascita della prima Repubblica si erano
evolute, e consolidate, importanti leggi antimafia, prima tra tutte il 416bis del codice
penale. Nel 1992, poi, il pool antimafia di Falcone e Borsellino si era adoperato per dare
una svolta alla lotta alla mafia e ciò porta alle indagini che sfociarono nell’istruzione del
“Maxiprocesso”. Queste indagini, e le relative conseguenze, minacciarono gravemente
per Cosa Nostra e la sua stessa stabilità. Ecco, allora, che l’organizzazione mostra la sua
forza attraverso l’intimidazione e la violenza a voler significare che non permette di
essere ostacolata, e tanto meno incriminata, da un potere politico che essa sa essere
intriso di compromessi con esponenti mafiosi stessi. Cosa Nostra, infatti, aveva trovato
un referente politico stabile, per un lungo arco di tempo, nella Dc (per il vero anche il
Psi e il partito radicale nelle elezioni del 1987) ma nell’anno 1992 qualcosa scuote i
piani alti dell’organizzazione criminale mafiosa: le indagini sugli appalti a Palermo, il
Maxiprocesso, che diviene sempre più una certezza, il numero dei pentiti che cresce
76
Lo Stato Repubblicano nasce grazie al compromesso che gli Alleati concludono con la classe politica italiana
tramite la mafia siciliana (che patteggia con Lucky Luciano, esponente della mafia d’oltreoceano). Ma ancora prima,
con il suffragio universale, si era venuto a creare – embrionalmente - quel contratto di quieto vivere e
condizionamento tra coloro che erano eletti nei collegi siciliani ed i loro elettori.
60
esponenzialmente sono eventi che turbano gli equilibri dell’organizzazione che reagisce
con quella strategia stragista che non ha precedenti77.
2.3 La trattativa
Vediamo, allora, ciò che è stata la “trattativa”.
Che essa sia avvenuta restano pochi dubbi; i particolari e gli eventi sono invece ancora
in attesa di conferme e verità. Servizi segreti, Cosa Nostra, massoneria e imprenditoria
sarebbero venuti a patti con la politica per fermare le stragi, ma ad un prezzo elevato.
Era in gioco la democrazia e la trasparenza del paese.
Cosa Nostra aveva tutto l’interesse a fermare le indagini sugli appalti palermitani78 che
avrebbero portato al “Maxiprocesso”, per cui voleva dare un segnale al potere politico.
Per questo Salvo Lima, già sindaco di Palermo, parlamentare ed europarlamentare della
corrente politica democristiana vicina ad Andreotti, divenne un ottimo capro espiatorio
per fare pressione sulle istituzioni, soprattutto sulla corrente politica al potere in quel
momento, per indurle ad indirizzare le politiche pubbliche verso gli interessi dei
Corleonesi. Allo stesso modo Giovanni Falcone, il cui “pool” stava minacciando
l’organizzazione e il cui “metodo” sembrava aver divelto il forziere dell’omertà grazie
alle confessioni dei collaboratori di giustizia (che vedevano in lui un uomo da rispettare
più della stessa organizzazione criminale), divenne un uomo dello Stato da eliminare in
modo eclatante per intimorire profondamente le istituzioni. Così accadde anche per
Paolo Borsellino, che era l’ultimo esponente del “pool” antimafia di Falcone, l’unico in
grado di capire davvero chi potessero essere i mandanti dell’omicidio del collega, e
amico, Giovanni e forse uno dei pochi ad essere venuto a conoscenza della volontà dello
Stato di trattare con la mafia per fermare la strategia stragista. Come mai allora, si è
portati a chiedere, le stragi continuarono anche dopo il luglio 1992, dopo l’uccisione di
Paolo Borsellino, colpendo anche luoghi pubblici, monumenti e società civile?
Nel 1993, infatti, si verificano le stragi in via dei Georgofili a Firenze, in via Palestro a
Milano, a San Giovanni in Laterano a Roma e ,sempre nella capitale, viene sventato
77
In letteratura si fa notare che il numero delle vittime, la successione frenetica degli attacchi, le tecniche esplosive,
quasi paramilitari, utilizzate negli attentati e, per ultima, l’estensione geografica della strategia stessa, sono
imparagonabili a quanto accaduto negli anni precedenti. Ciò che però ancor più colpisce è la disattenzione, o la voluta
non curanza, da parte delle istituzioni come dimostra il fatto che su questi eventi non sia mai stata creata una
Commissione di inchiesta parlamentare apposita.
78
Le indagini erano coordinate da De Donno. Queste indagini sono state per buona parte archiviate.
61
l’attacco contro le forze dell’ordine allo stadio Olimpico. Il movente più ovvio di queste
stragi è il risultato del Maxiprocesso (30 gennaio 1992) e, cosa che interessa
particolarmente questa sede, l’istituzione del regime di detenzione speciale: l’art. “41bis”. Ciò che avvenne fu una rottura del tradizionale rapporto mafia-politica proprio per
queste due novità: legislativa e giudiziaria79. I rapporti di trattativa tra rappresentanti
dello Stato e criminalità organizzata si sarebbero sviluppati attraverso una serie di
incontri che avrebbero avuto inizio nella primavera del 1992 80. La richiesta delle
istituzioni, per via di questi eventi, sarebbe mutata nel tempo con la pretesa, oltre che
dei latitanti, anche della consegna del “capo dei capi”: Totò Riina. Ed infatti costui verrà
arrestato il 15 gennaio 199381.
Ma se questa era la richiesta, e questa venne assecondata, perché si parla di trattativa e
di convergenza di interessi tra più centri di potere?
Si parla di trattativa e di convergenza perché lo scopo di più soggetti era quello di
disarticolare il quadro politico dell’Italia e creare un nuovo referente politico affidabile
con il quale ricreare un dialogo e una convivenza. Ecco perché, per ottenere ciò, si creò
una strategia complessa: atti violenti per creare un clima di terrore e distogliere
l’attenzione dell’opinione pubblica dall’antimafia e, nel contempo, cercare nuovi
soggetti politici con cui intessere rapporti. Le strade da seguire sono dunque due: da una
parte una strada esemplare e stragista che porta avanti il braccio di ferro con lo stato
(mediante gli attentati prima esposti), dall’altra una di dialogo e di trattativa con la
politica. La prima strada è rappresentata dal delirio di onnipotenza di Salvatore Riina e,
dopo il suo arresto, di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca; la seconda dall’ascesa di
Bernardo Provenzano. Tramite questa trattativa la mafia sarebbe passata dalla violenza
79
Un’analisi più attenta, però, conduce ad interrogarsi sul possibile intervento di poteri esterni a Cosa Nostra ma che
con essa hanno stretto relazioni clientelari. Massimo Ciancimino nelle sue dichiarazioni, parla spesso di un uomo
“Carlo o Franco” appartenente ai servizi segreti. Quest’uomo è colui che garantisce per Mario Mori e Giuseppe De
Donno, i carabinieri dei ROS che chiesero a Massimo Ciancimino di poter incontrare il padre.
80
Questo porterebbe a pensare ad una trattativa ben prima degli omicidi eclatanti, o per lo meno prima di quello di
Paolo Borsellino che quindi diverrebbe vittima di un complotto politico-mafioso (anche perché sarebbe stato forse
l’unico in grado di svolgere indagini proficue sulla strage di Capaci). Secondo Mario Mori, invece, gli incontri col
Ciancimino sarebbero avvenuti in seguito a questo fatto e con l’intenzione di chiedere la consegna dei latitanti.
81
grazie, a quanto dice Massimo Ciancimino, a Vito che fornì alle forze dell’ordine le mappe del nascondiglio di
Riina81(avute tramite i contatti continui che egli aveva con “Lo Verde”, ovvero Bernardo Provenzano).
62
contro lo Stato e la socità all’integrazione nell’economia depositandosi, ed infiltrandosi,
definitivamente negli affari del paese. Il passaggio dalla violenza dei vari Riina,
Bagarella ecc. alla “diplomazia” di un Provenzano avrebbe comportato solo un
abbassamento del livello di aggressività ma non la fine della trattativa82.
3. Il 41 bis, punto secondo di una trattativa e dimostrazione della
primaria importanza del carcere per la mafia
3.1 Il papello
La trattativa viene in letteratura scandita in tre fasi. La prima comincia quando il
colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, tramite Massimo Ciancimino,
prendono contatti con Vito Ciancimino. I due carabinieri del ROS chiedono la resa dei
superlatitanti. Vito Ciancimino, che ha contatti stretti con Riina e Provenzano,
comunica ai capi di Cosa Nostra che le istituzioni, rappresentate dai predetti militari
dell’Arma, garantiti da un tal “Carlo-Franco”, vogliono trattare. Riina consegna a
Massimo Ciancimino un foglio di carta da consegnare al padre Vito: dodici punti,
dodici richieste – o pretese – che Cosa Nostra rivolge allo Stato che ha deciso di
scendere a patti con essa. Questo foglio viene comunemente chiamato “papello” perché
così lo nominò il pentito Brusca83. L’analisi dei dodici punti è di grande importanza
perché rivela esattamente i nervi scoperti della mafia.
1) “Revisione sentenze maxiprocesso”. Questa richiesta è quasi scontata poiché
obiettivo principale di Cosa Nostra è vanificare il lavoro dei magistrati Falcone e
Borsellino.
2) “Annullamento d.l. “41-bis”. Il carcere duro, per Cosa Nostra, è tanto insopportabile
da essere al secondo posto nella lista di resa dei conti con lo Stato. Questo punto è
importante in primo luogo perché dimostra come le misure detentive speciali colpiscano
la stabilità della struttura e della comunicazione mafiosa, e quindi arrechino ad essa
particolare danno, in secondo luogo perché, in realtà, “il 41-bis” verrà approvato in
parlamento solo dopo la strage di via D’Amelio quindi, stando alle dichiarazioni di
82
Lo Verde avrebbe poi rivisitato la struttura di Cosa Nostra rendendola più flessibile attraverso la costituzione di un
direttorio e quindi eliminando la “cupola”. Probabilmente Provenzano prima e poi il suo successore, che si presume
essere Matteo Messina Denaro, hanno compreso che colpire lo Stato in modo così eclatante può avere un effetto
ritorsivo e quindi hanno scelto una strada di connivenza e convergenza di interessi.
83
Nel libro di Torrealta, Massimo Ciancimino dice ripetutamente di non voler chiamare “papello” quel foglio.
63
Massimo Ciancimino, quasi due mesi dopo le richieste. La morte di Borsellino accelerò
i tempi di approvazione della misura del “41-bis” che venne frettolosamente estesa a
quasi duecentocinquanta detenuti trasferiti, dal giorno alla notte, nelle carceri di Pianosa
e Asinara84.
3) Revisione della legge Rognoni-La Torre. Richiesta più che logica dal punto di vista
di Cosa Nostra dato che questa è stata la prima vera legge antimafia con effetti
importanti e significativi soprattutto per il sequestro dei beni dei malavitosi.
4) “Riforma legge pentiti” (del 1991). Richiesta che tocca un altro punto sensibile per la
mafia ovvero la caduta dell’omertà, del silenzio, del segreto che espone
l’organizzazione a rischi troppo grandi.
5) “Riconoscimento benefici ai dissociati delle brigate rosse per condannati di mafia”.
Cosa Nostra vuole che i benefici previsti per i condannati di stragi siano estesi anche ai
suoi affiliati condannati e reclusi i quali, secondo la legge citata, non potevano godere di
quei “premi” che invece Cosa Nostra pretende anche per loro.
6) “Arresti domiciliari dopo 70 anni di età”. Ciò concederebbe a questi detenuti la
vicinanza all’organizzazione e ai familiari; richiesta, questa, utile ai fini della continuità
e contiguità strutturale dell’organizzazione.
7) “Chiusura supercarceri”. Questo punto si ricollega al secondo e rivela l’insofferenza
di Cosa Nostra verso un regime penitenziario diverso da quello che era riuscita a
plasmare facendo diventare il carcere una seconda dimora del crimine. Questa richiesta
è una delle poche che verrà assecondata. Infatti nel 1996 le supercarceri di Pianosa e
Asinara chiudono, quasi fossero state aperte solo per il tempo di una rappresentazione
teatrale di pochi anni. Da notare, poi, che nel 1993 il Ministro di Grazia e Giustizia,
Giovanni Conso, revocò numerosissimi provvedimenti di carcere duro e il 5 novembre
dello stesso anno vennero trasferiti all’Ucciardone di Palermo molti degli affiliati a
Cosa Nostra detenuti a Pianosa e Asinara85.
84
Se le richieste di Riina fossero davvero risalenti a prima della strage di via D’Amelio, come fa notare Maurizio
Torrealta nel suo libro “La trattativa”, sembrerebbe che i veri mandanti della stessa non fossero tanto i capi di Cosa
Nostra ma altri poteri.
85
Questo provvedimento venne attuato cinque giorni dopo lo sventato attentato allo stadio Olimpico di Roma,
attentato che quindi viene creduto da esperti del settore non sventato ma fermato da Cosa Nostra proprio perché le sue
richieste in merito al trasferimento dalle carceri vennero soddisfatte.
64
8) “Carcere vicino alle case famigliari”. Questo provvedimento non può essere concesso
a coloro che sono sottoposti al “41-bis” e ancora una volta si nota come il carcere duro,
per Cosa Nostra, sia davvero un nervo scoperto come si evince anche al punto
successivo.
9) “Niente censura per la posta dei famigliari”. Punto sempre inattuabile, questo, per
coloro che sono assoggettati al “41-bis” ma che verrà soddisfatto nel 1998 quando la
Corte di Cassazione bandirà la censura della posta in quanto viola una delle libertà
fondamentali dell’individuo.
10) “Misure prevenzione sequestro non fattibile”.
11) “Arresto solo in flagranza di reato”.
12) ”Levare tasse carburante come Aosta”
La seconda fase della trattativa ha una posta in gioco molto più alta: la strage di via
D’Amelio ha sconvolto istituzioni, società civile e politica.
Bernardo Provenzano in un pizzino scrive “secondo me c’è qualcosa che non funziona”,
e questo lascia trapelare notevoli sospetti su chi fosse davvero il mandante di
quell’omicidio. La trattativa prosegue e la richiesta dei ROS ha ora come oggetto non
solo la resa dei superlatitanti ma soprattutto la consegna di Totò Riina, che infatti viene
arrestato nel gennaio del 1993.
Nella terza fase della trattativa, oltre all’interesse di trovare un nuovo referente politico,
al centro degli interessi di Cosa Nostra si collocano i benefici, o alleggerimenti, per
coloro che sono condannati per reati di mafia come si può desumere da uno dei pizzini
di Provenzano: “Mi è stato detto dal nostro sen. e dal nuovo pres. che spingeranno la
nuova soluzione per la sua sofferenza”86. Ma soprattutto la trattativa prosegue in un
periodo di pace e calma: Provenzano, in letteratura chiamato “pacifista”, per la netta
differenza esistente tra lui e Riina, vuole acquietare gli animi, “calmare le acque” e
cerca di ristabilire l’equilibrio con nuovi contatti politici. Queste “relazioni” politiche
avrebberero garantito, alla mafia, un periodo di circa dieci anni durante i quali furono
attuate riforme importanti per l’organizzazione quali l’alleggerimento dei processi, la
concessione di benefici, il “non sequestro” dei beni di Cosa Nostra. Dal 1994 le stragi e
gli attentati cessano, Cosa Nostra sembra aver trovato, se non tutte le risposte legislative
che richiedeva, un buon referente a Roma.
86
Torrealta M (2010), La trattativa, Milano Bur Mondadori pag (109)
65
3.2 Il 41 bis, un punto chiave nella trattativa
Come è stato tracciato nel paragrafo precedente il “41-bis” è posto al secondo posto
nella “classifica” delle richieste scritte sul papello il che dimostra come un regime di
isolamento, e di misure speciali quali il controllo della posta, la limitazione dei contatti
con l’esterno e delle ore “d’aria”, venisse considerato intollerabile per Cosa Nostra. Il
“41- bis”, nella lista viene infatti ancor prima della richiesta di riforma sui pentiti e del
416bis87.
La misura detentiva speciale viene approvata poco tempo dopo le stragi e
immediatamente dopo la sua approvazione troviamo un forte segnale da parte di Cosa
Nostra: l’organizzazione chiede di eliminare quella misura. Ma le sue richieste non si
fermano al periodo della trattativa. Il pentito Antonio Giuffré ha riferito, nelle sue
confessioni, che poco prima delle elezioni del 1994 era stato stilato un “pacchetto di
richieste” sulla confisca dei beni, sul “41-“bis e sui pentiti. Francesco La Marca, sodale
di Vittorio Mangano, di ritorno da Milano (febbraio-marzo 1994) dice “Ciccio tutto a
posto, dobbiamo votare Forza Italia così danno qualche possibilità sul 41 bis, sul
sequestro dei beni e sui collaboratori di giustizia, per ammorbidire la legge”88. Nel
1994 Cosa Nostra stava preparando un grande attentato in Sicilia per dare un monito a
quella politica che non aveva, da subito, soddisfatto le sue richieste. L’attentato viene
fermato perché si preferisce tentare la strada del compromesso: il nuovo referente
politico deve occuparsi della situazione dei detenuti al “41-bis”. Dalle rivelazioni dei
pentiti emergono contatti frequenti tra Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano, incontri
in cui il tema centrale sarebbe stato proprio il “41-bis” e il 416bis. Per quest’ultimo si
sarebbe pensato ad una riforma tramite il “decreto Biondi”, decreto legge che avrebbe
concesso gli arresti domiciliari invece della detenzione in carcere, ma la misura non
passò il vaglio dell’opinione pubblica che passò alla storia come “il popolo dei fax” per
via dei numerosissimi fax inviati a televisioni e giornali per far sentire la propria
87
Nel “contro-papello” Vito Ciancimino non riportò questa richiesta perché il suo scopo era molto più razionale e
politico: se si doveva fare una trattativa bisognava stilare una lista di “politiche pubbliche”. Dato che per attuare un
programma politico serve un partito di riferimento, o per lo meno una classe politica, questo secondo elenco doveva
essere razionalmente attuabile. Secondo Ciancimino trovare un referente politico che appoggiasse l’abolizione del 41
bis in quell’anno non era possibile.
88
Cit. da Maurizio Torrealta, La trattativa, pag 246 (da Udienza 20 gennaio 2003, parole di Antonio Giuffré).
66
opposizione alla citata misura governativa. Il “decreto Biondi”, peraltro, non entrerà in
vigore poiché nel 1995 il governo cadrà.
Per capire questa evoluzione di eventi dobbiamo analizzare il cambiamento avvenuto in
Cosa Nostra a partire dalla fine degli anni ’80 ed ha comportato un rafforzamento
economico dell’organizzazione attraverso l’autonomia territoriale, le nuove attività
totalmente illegali, come il commercio di stupefacenti, e non più solo legali - ma gestite
illegalmente - come quelle degli appalti; e tutto questo ha richiesto di impostare una
nuova relazione dell’organizzazione criminale con la politica e con lo Stato.
Bisogna infatti ricordare che Cosa Nostra si era assai preoccupata quando, nel marzo del
1993, erano state approvate leggi, come quella sull’elezione diretta dei sindaci e sul
sistema elettorale uninominale, ritenute intralcianti i suoi interessi. Il successo della
sinistra, e queste misure legislative appena citate, avevano dato molto fastidio
all’organizzazione tanto che essa aveva messo in atto gli attentati precedentemente
ricordati a Firenze, Milano e Roma. In questo scenario si era ritenuto opportuno puntare
a creare un nuovo soggetto politico (Forza Italia), e appoggiarlo, e seguire una strada
senza sangue, più pacifica, e di convergenza di interessi secondo l’indole più pacifista
del nuovo capo di Cosa Nostra dopo l’arresto di Riina: Bernardo Provenzano. L’anno
1994 vide, infatti, la vittoria di Forza Italia e del suo esponente, Silvio Berlusconi, il
quale cominciò a combattere una sua battaglia personale battaglia contro la cosiddetta
“magistratura rossa” usando il megafono delle sue reti televisive.
4. Diciannove anni, la storia infinita
Corre l’anno 2000, l’anno del Giubileo. Papa Karol Wojtyla chiedeva indulto e
trattamenti più umani nei confronti dei detenuti al carcere speciale in nome dei diritti
umani. A queste richieste umanitarie del Santo Padre seguono, invece, le altre proteste
da parte dei detenuti di Cosa Nostra. Ad esempio, nella Corte di Appello di Firenze, il
23 ottobre Salvatore Riina e Giuseppe Graviano protestano in aula per ottenere il rito
abbreviato. Nel 2002, nel processo che si tiene alla Corte d’Assise di Trapani, i detenuti
presenti in aula - o che sono collegati tramite videoconferenza -, assoggettati al regime
del “41-bis”, presentano una nuova protesta (della quale si era già accennato nel
capitolo secondo: “dichiarazione di Leoluca Bagarella”, cfr. punto 5.3, pag, 45) per
richiamare l’attenzione sulle condizioni di vita nel carcere. La dichiarazione era rivolta
67
ai politici che, secondo i mafiosi, non avevano mantenuto le promesse fatte sulla
revisione del regime di carcere duro. A questa dichiarazione seguirono le proteste nelle
carceri come lo sciopero della fame ad Ascoli Piceno (carcere in cui era detenuto Riina).
Queste due proteste svelano un filo rosso che dal 1992 non ha mai abbandonato la storia
italiana: da una parte la mafia con il suo microcosmo culturale e morale, dall’altra la
politica e la necessità di una, per quanto finta, trasparenza. Il filo rosso è biunivoco e
collega la mafia con la politica attraverso i ricatti e le violenze, e la politica alla mafia
attraverso il clientelismo e la legislazione. Ecco, quindi, il tasto dolente: le leggi. Esse
sono il prodotto di un programma politico che viene accettato e approvato dalle camere.
Il programma politico dovrebbe corrispondere alle esigenze che il partito al potere sente
essere proprie dei cittadini che esso rappresenta. Se però il partito in questione è
influenzato da correnti inquinate da interessi criminali, se il tessuto politico non gode di
trasparenza cristallina ma è intorbidito da clientelismi legati alla criminalità organizzata
o se, peggio, deve la sua stessa carica elettiva ad aiuti tutt’altro che democratici, il
programma di questo partito conterrà proposte di leggi che favoriranno direttamente o
(come molto più spesso accade) indirettamente i suoi referenti criminali.
Ma poniamoci una domanda: come avrebbe potuto, Leoluca Bagarella, fare riferimento
esplicito a promesse non mantenute se queste non fossero state effettivamente fatte? Si
ricordi che il microcosmo valoriale di Cosa Nostra prevede che, per un uomo d’onore,
mentire sia un reato assai grave, e spesso punito con la vita. Chi appartiene a Cosa
Nostra preferisce tacere che dire una bugia.
Ecco dunque che si rivela utile ripercorrere quel filo rosso biunivoco dal 1995 ad oggi
per comprendere se le richieste del famoso “papello” sono state soddisfatte e quindi se
la trattativa Stato-mafia abbia avuto riscontri effettivi e concreti nella storia della
politica e della legislazione italiana.
4.1 En attendant le “papello”
Nel luglio 1994 il decreto legge Biondi, firmato dall’allora Ministro della Giustizia
Alfredo Biondi, e spregiativamente soprannominato – dai detrattori – “decreto salva
ladri” (non dimentichiamo che siamo in piena “Tangentopoli”, e quindi degli intrecci
“politica-malaffare”), fu emanato ma poi frettolosamente ritirato per la imponente
reazione della società civile. Poi il governo Berlusconi cadrà nel mese di dicembre di
68
quell’anno. Però, il 3agosto 1995, il decreto Tremonti 27/7/1994, detto “salva ladri
bis”89 viene approvato in parlamento. Esso implica l’abolizione dell’arresto automatico
per gli indagati di associazione mafiosa e la riduzione generale delle possibilità di
arresto. Provvedimento che più interessa in questa sede, e che è già stato ricordato, è
quello del 1997 che porta la firma dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni
Flick e che riguarda la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara. Questo
provvedimento coinvolge, inoltre, anche il “41-bis” in quanto consente maggiori libertà
ai detenuti ad esso sottoposti quali la possibilità di telefonare dal carcere e quindi di
avere contatti con l’esterno. Come si può notare, oltre ad un iter legislativo complesso e
tortuoso, il “41-bis” ha subito nel tempo alleggerimenti e svuotamenti sia nella sua
applicazione concreta che attraverso provvedimenti emanati dai ministri della giustizia.
Il provvedimento del 1997 esaudisce il desiderio espresso al punto 7 del papello,
“chiusura supercarceri”, ed è uno dei primi passi per completare le richieste della mafia.
Il successivo desiderio espresso al primo punto del papello, esaudito in via temporanea
ma assolutamente significativa, è quello di rivedere il Maxiprocesso. In politica non si
possono, certo, rivedere le sentenze o modificarne i verdetti ma si può abolire
l’ergastolo come massima pena. Nel 1999 la legge Carotti abolisce, infatti, l’ergastolo e
prevede benefici e riduzione di pena per chi dimostra una buona condotta in carcere o
chiede il rito abbreviato. Ecco, dunque, il perché delle richieste di Riina e Graviano
prima ricordate: chiedere il rito abbreviato, alleggerire la pena, svuotare di significato il
Maxiprocesso90. Dell’eredità di Falcone, però, resta ancora un punto molto fastidioso
per Cosa Nostra: quello che corrisponde al punto 4 del papello, e cioé i benefici per i
collaboratori di giustizia. Nel 2001 la legge Fassino riduce i benefici e rende più
difficile l’accesso alla protezione per chi decide di collaborare. Nello stesso anno viene
promulgata la legge sulle indagini difensive che “…supera in corsa le richieste del
papello. Quest’ultimo, infatti, essendo il documento di un esercito in rotta, pensa a come
meglio salvarsi dai reati compiuti, non si spinge ad architettare un nuovo sistema
giudiziario a regime.”91 Sostanzialmente la norma prevede che l’avvocato difensore
89
Dalla Chiesa N. (2010), La convergenza: mafia e politica nella seconda Repubblica, Milano:Melampo, cit. pag 117
90
L’ergastolo verrà ripristinato dal nuovo governo Amato per i reati più gravi.
91
Dalla Chiesa N. (2010), La convergenza: mafia e politica nella seconda Repubblica, Milano: Melampo
69
possa fare indagini preventive e che gli atti della difesa debbano avere identico valore a
quelli del Pubblico Ministero. È sempre nel 2001 che vengono ridotte le scorte agli
uomini dell’antimafia più a rischio e vengono ridotti i poteri della Commissione
nazionale antiracket.
4.2 41 bis, parte stabile dell’ordinamento penale italiano
Siamo arrivati al 2002, anno in cui il “41-bis” entra stabilmente nell’ordinamento penale
dello Stato. Abbiamo ricordato prima che in quell’anno avviene una protesta generale
da parte dei detenuti e che muove dalla dichiarazione fatta da Bagarella nel tribunale di
Trapani. Nonostante quelle proteste il “41-bis” viene approvato in parlamento: non avrà
più cadenza semestrale ma sarà norma permanente. Eppure nel 2002, come abbiamo
visto, è proprio la stabilità della norma a rendere più facili i ricorsi per annullamento;
durante l’iter legislativo, infatti, la norma sembra essere stata svuotata e ridimensionata
“a misura di boss”. “Meno severo del “41-bis” di oggi, annacquato come un vino di
quart’ordine, c’è soltanto il carcere-Grand Hotel di una volta. Il “41-bis” prevedeva, in
origine, la detenzione su un’isola, un colloquio al mese e nessun contatto tra detenuti;
ora, invece, i mafiosi hanno pure l’ora di socialità. Potrebbero accontentarsi, forse, ma
non si fermano: vogliono potersi riunire, organizzare un tavolo di trattative. Chiedono di
ricostruire il loro potere e “c’è chi gli da spago, a quanto pare” 92, così commenta Ilda
Boccassini, allora Pubblico Ministero. È chiaro ormai che i boss non sono riusciti, certo,
a fermare l’iter legislativo della norma la quale, però, ha mantenuto solo la forma senza
più avere la sostanza rispetto agli scopi cui voleva mirare: l’isolamente; i boss detenuti
comunicano con l’esterno e tra loro, organizzano summit ed omicidi.
A Cosa Nostra però non piace nemmeno la forma del “41-bis” e il prossimo obbiettivo
nel mirino di Cosa Nostra sembra essere uno che non potrà non suscitare il compianto
della società civile: un esponente politico che porta su di sé la macchia del crimine e
che sembra, agli occhi di Cosa Nostra non aver rispettato i patti concordati. Arrivano
minacce ai penalisti difensori di boss detenuti al “41-bis” che vengono accusati di
essersi dapprima schierati contro il regime detentivo speciale e poi di non aver fatto
92
N. Dalla Chiesa (2010), La convergenza: mafia e politica nella seconda Repubblica, Milano: Melampo, pag 159, cit.
di Ilda Boccassini, La repubblica, 21 maggio 2002
70
nulla per rispettare gli impegni presi con i loro assistiti. Pecorella, Mormino, Fragalà
sono i nomi dei tre legali oggetti di minacce; ed in effetti Fragalà verrà ucciso il 3 marzo
2010, e l’indagato sarà un suo ex cliente non soddisfatto della condanna subita.
Dopo il 1992, insomma, il “tira e molla” tra mafia e politica sembra non essersi fermato,
anzi. Leggi, decreti e provvedimenti sembra abbiano cercato di ottemperare alle
richieste presenti nella lista di Riina. Se il “genio della lampada” non è riuscito ad
esaudirle tutte, almeno ci ha provato. Come scrive Nando Dalla Chiesa nel suo libro
“La convergenza”, ci sono tipologie di comportamenti politico-parlamentari convergenti
che si possono classificare in leggi, o provvedimenti, che riguardano direttamente o
indirettamente la mafia93. A questi, che - come si è avuto modo di descrivere - non sono
finzione ma reali processi legislativi della seconda Repubblica, si aggiungono altri
comportamenti o provvedimenti che favoriscono indirettamente la mafia. Tra questi la
delegittimazione della giurisdizione e della magistratura, opera che è cominciata nel
1994 con il primo governo Berlusconi, usando come mezzi d’informazione le sue reti
televisive, ma che in realtà si può dire abbia preso avvio dall’opera di discredito nei
confronti di tutti quegli uomini dell’antimafia che sono stati fatti tacere con la violenza
o con l’impedimento dell’esercizio, che sono stati immessi in una “macchina del fango”
che copre responsabilità politiche e morali profonde che hanno plasmato una buona
parte della storia della Repubblica Italiana.
In questo contesto si è visto che il carcere ha giocato un ruolo di primo piano: le misure
di emergenza sono state combattute dalla mafia, svuotate nella loro sostanza da
provvedimenti e misure legali quanto da comportamenti collusivi e clientelari. Gli iter
legislativi si sono rivelati tortuosi; le proteste in carcere non sono mancate e gli
interventi violenti neppure. All’alba di quasi venti anni dal 1992, da quelle stragi, dalla
trattativa, il carcere duro continua ad essere oggetto di critiche, e quindi di
ammorbidimenti, anche a causa dei conteziosi portati al Consiglio d’Europa e al suo
Comitato contro la tortura e i trattamenti degradanti. Ad essi si aggiunge anche la Corte
di Strasburgo, attenta a quel rispetto dei diritti umani che può diventare uno strumento
utilizzato dai i boss e dai loro legali per i loro interessi. Il rispetto dei diritti umani,
93
N. Dalla Chiesa (2010), La convergenza: mafia e politica nella seconda Repubblica, Milano: Melampo, pag 171
71
quindi, può diventare un’arma legale che Cosa Nostra può utilizzare per scopi tutt’altro
che legali e, paradossalmente, contrari al diritto.
72
Schema numero tre: “Il rapporto tra l’evoluzione temporale del fenomeno mafioso
soprattutto economico, e il modus vivendi dell’organizzazione nella struttura
carceraria.”
73
Conclusione
Partendo dallo studio del microcosmo di Cosa Nostra, e arrivando alla storica
“trattativa”, si è voluto mettere il luce quel quadro complesso che vede come soggetti
l’organizzazione criminale e la sua cultura articolata. A fare da sfondo a questo quadro
si trova un filo conduttore che segna il rapporto tra le istituzioni e Cosa Nostra in merito
al rapporto tra quest’ultima e il carcere. Si è visto, infatti, come la mafia abbia costruito
un “mondo valoriale e morale” tanto fitto e intenso, e soprattutto radicato nella sua
cultura, da non riconoscere in alcun modo norme ed istituzioni diverse da sé. Il carcere,
per Cosa Nostra, non è solo luogo di reclusione e limitazione in quanto le impedisce di
continuare contatti, traffici e affari, ma rappresenta anche, e soprattutto, un’istituzione
dello Stato e la mafia non riconosce nessuno Stato al di fuori di sé, tutt’al più può
sfruttare referenti politici e istituzioni per creare quei rapporti clientelari che sono
elemento stabilizzatore dell’organizzazione stessa. Il carcere si porrebbe, quindi, come
“intermezzo” tra Mafia e Stato: per la prima è luogo di reclusione, da evitare o
cambiare, modificare, a seconda del proprio interesse, per il secondo dovrebbe essere lo
strumento per combattere la criminalità e proteggere la società attraverso le funzioni
classiche della detenzione, rieducazione e prevenzione. Si è visto, invece, come
l’istituzione carceraria sia stata totalmente raggirata, se non usata, per altri scopi da
parte della mafia: il “Grand Hotel Ucciardone” non è un tipo di alloggio consigliato
dalle guide turistiche siciliane ma la triste verità di come un’istituzione statale possa
essere tenuta in pugno dalla criminalità trasformata a suo gradimento. La politica ha
faticato a prendere coscienza della pericolosità della realtà carceraria in Italia, una realtà
dove la mafia ha avuto libertà di dettare tempi e giochi ordinando omicidi e
comandando gli affiliati esterni eludendo ogni forma di controllo dell’autorità
penitenziaria, deridendo la noncuranza o la scarsa attenzione delle istituzioni. Il carcere,
e soprattutto l’istituzione del carcere duro, hanno perso ad intermittenza non solo il loro
scopo ma anche la loro credibilità alla luce dei persistenti contatti e comunicazioni tra
detenuti sottoposti al “41-bis” e gli affiliati esterni al carcere, oppure tra boss e affiliati
all’interno del carcere stesso. Perdono ancor più di significato alla luce delle verità, o
presunte verità storiche, che riguardano le relazioni tra potere politico e mafia. Questo
rapporto, del tutto estraneo ad uno stato democratico, soffoca ogni tentativo di lotta alla
74
mafia e offende il sacrificio di uomini che hanno creduto e lottato per la giustizia e la
trasparenza.
Il valore che oggi ha il carcere per la mafia può essere diverso da quello che aveva in
tempi antichi per diversi fattori: innanzi tutto la mafia ha sperimentato, nel corso degli
ultimi cinquant’anni, diverse misure detentive più o meno repressive; poi l’altalenante
modus operandi del legislatore è stato seguito da diversi approcci dell’organizzazione al
cambiamento del regime detentivo. Ciò che Cosa Nostra, invece, non ha mutato nel
tempo è l’abilità, e la volontà, di riuscire a plasmare le istituzioni e gli ordinamenti a
seconda delle sue esigenze e necessità.
Come un camaleonte, la mafia è passata da organizzazione violenta, mittente di omicidi
eclatanti, ad entità quasi trasparente annidata nei centri economici più importanti non
solo dell’Italia ma dell’economia internazionale. Non si deve dimenticare, però, che
mafia significa continua convivenza di antichità e contemporaneità. Proprio alla luce di
ciò i cambiamenti nell’organizzazione possono essere più strutturali che formali. La
cultura della mafia continua ad essere una cultura del’assoluto fondata su principi e
valori morali arcaici che riescono a convivere in connubio perfetto con le nuove
esigenze della realtà contemporanea.
L’importanza del carcere, come braccio tecnico della lotta al crimine, non attiene solo
alla sfera della indagine sociologica ma anche alle materie giuridiche e politiche. Non in
ultimo, la società civile gioca un ruolo fondamentale nella lotta al crimine se informata e non tenuta all’oscuro - di realtà storiche e politiche.
Nel corso dell’elaborato si è anche accennato al tentativo, da parte di Cosa Nostra,
attraverso i suoi avvocati, di fare ricorso alle istituzioni che si interessano del rispetto
dei diritti umani. Si è anche fatto riferimento all’interesse mostrato da partiti della
politica italiana, e da quelle istituzioni europee, internazionali o religiose, verso
l’osservanza del divieto di pratiche degradanti o irrispettose delle convenzioni sul
divieto di tortura. Ad oggi i dibattiti sui diritti umani, sulle norme che dovrebbero
seguire e rispettare gli istituti carcerari, si moltiplicano e investono non solo il nostro
Stato, dove si perpetua oltretutto il problema penoso del sovraffollamento negli istituti
penitenziari, facile preda delle mire mafiose per gli scopi predetti, ma anche la
75
dimensione europea e internazionale. L’attualità della materia ne rivela l’importanza. Si
tratta di far convergere il rispetto dei diritti dell’individuo con lo scopo dell’istituto
penitenziario che è in primo luogo non quello di punire, ma di di rieducare e reintegrare
nella società i detenuti e prevenire ulteriori crimini. Alla luce dello studio qui presentato
emerge la difficoltà di trovare vie di compromesso tra misure efficaci e specifiche per la
rieducazione e punizione degli affiliati a Cosa Nostra e il loro rispetto integrale senza
rischiare la denuncia di violazione dei diritti umani. Se è vero che l’emergenza costituita
dal sovraffollamento delle carceri è una piaga della nostra Repubblica è anche vero che
va considerata l’ipotesi che un appello agli istituti della Corte dei diritti umani di
Strasbrugo possa essere uno dei modi, per Cosa Nostra, di eludere le misure speciali di
detenzione.
76
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http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/misure/fontanel
78
Ringraziamenti
L’inizio del mio cammino universitario può essere rappresentato come un quadro dalle
tonalità spavalde e accese con punte di ingenuità e di quella innocente saccenza che si
ha a diciannove anni appena compiuti. Il mio scopo era studiare per conoscere il mondo
e le sue difficoltà, per apprendere come potermi muovere in quel panorama confuso e
difficile che è la nostra attualità.
In questi tre anni ho imparato ad abbassare le gradazioni dei colori, a dare più
importanza alla profondità e alle piccole sfumature. Il campo di interessi si è ampliato,
l’ingenuità e l’innocente saccenza si sono dissolte e hanno lasciato spazio alla
consapevolezza che forse non potrò perseguire tutti i miei sogni, ma dare forma e
concretezza almeno ai miei interessi.
I ringraziamenti sono di solito delle liste di nomi, dove ciascun destinatario trova una
parte di sè, sorride e magari si emoziona. Mi sento quasi in dovere di creare anche io
questa lista, ma con un significato in più. Spesso non riesco a comunicare quanto una
persona, in quanto essere umano, sia importante nel mio percorso e cammino.
Ringrazio il Professor Fernando Dalla Chiesa perchè dalla prima lezione del corso di
“Sociologia della criminalità organizzata” mi ha trasmesso la passione per lo studio di
questa materia. Le sue lezioni non sono state semplicemente ore trascorse a prendere
appunti, ma momenti di riflessione e di umanità, di comunicazione di senso civico. Lo
ringrazio per aver seguito la mia tesi con interesse e soprattutto perchè tramite
l’esperienza della tesi, mi ha insegnato che ogni atto, impresa, parola che facciamo o
diciamo ha sempre una sua importanza.
Ringrazio i miei genitori perchè non hanno mai smesso di credere in me, di appoggiarmi
e sostenermi in ogni mia impresa da lontano o vicino. Perchè li amo e dedico ogni mio
impegno, lavoro e sacrificio a loro.
Ringrazio tutta la mia famiglia perchè ha sempre creduto in me e mi insegnato ad essere
forte e a sorridere sempre. In particolare mia nonna e i miei zii.
79
Ringrazio Nicole, Camilla e Ornella perchè sono i miei angeli da quando sono piccola,
le mie migliori amiche e sorelle, la ragione per cui riesco sempre a sorridere anche
quando tutto sembra vada storto.
Ringrazio Francesca perchè oltre ad essere stata un’ottima compagna di università, è
diventata una preziosa amica. La ringrazio perchè un giorno mi ha detto “tu non riesci a
fare qualcosa solo perchè è facile, devi seguire la tua natura e scegliere la strada che
magari è più difficile, ma che ti renda orgogliosa di te stessa”.
Ringrazio Marco perchè da otto anni è un amico speciale, perchè ha la qualità rara di
dedicarsi agli altri senza pretendere mai.
Ringrazio Monia perchè ha fiducia in me e in quello che sogno di poter fare.
Ringrazio Emanuela, Margherita e Antonella perchè mi hanno regalato l’esperienza di
riscoprire me stessa e la mia forza, perchè in poco tempo sono diventate parte di me e
mi hanno insegnato a non perdere mai di vista me stessa e i miei obiettivi.
Ringrazio Cris, per essere stato il mio compagno e il mio migliore amico durante un
percorso durato tre anni, per avermi insegnato a credere sempre in quello che faccio.
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