Comments
Transcript
Arte in carcere - Il Nuovo Carte Bollate
carteBollate Gennaio-Febbraio numero 1/2015 il nuovo Periodico di informazione della II Casa di reclusione di Milano-Bollate Dossier Aspettando l'expo Con il 41 bis diritti sospesi p. 4 Se il carcere parla di cibo Caro Adriano La sfida ti scrivo p. 7 di Cisco Carcere duro anche A proposito per i familiari di Fabrizio Corona di G. Conte e M. Cugnaschi di Nazareno Caporali Portare in carcere l'informatica di Lorenzo Lento p. 23 Arte in carcere p. 28 Un'opera condivisa fatta da tante mani di gennaio-febbraio numero 1/2015 Sommario Editoriale Perché pubblicare una lettera scomoda ismet dedinca I Aspettando l'expo Editoriale Perché pubblicare una lettera scomoda p. 3 Giustizia Le vittime sono anche i familiari Che cosa prevede il 41 bis Che fortuna l 'appello per Corona Adriano, ti ricordo che siamo tutti uguali 4 5 6 7 Cultura Il pubblico legge la vita dei detenuti Patrick Modiano Nobel 2014 per la letteratura Viaggio nella musica pop Tutti a teatro in un clima di festa 8 9 9 10 Ambiente Produrre miele a Cascina Bollate 11 Per ulivi e castagni la morte che viene dalla Cina 12 Dossier Nelle nostre stanze la polvere del cantiere EXPiO, un video per raccontare il carcere Un lungo dipinto che copre la recinzione Mangi come spendi Anche in cella i sapori di casa 6 2 carteBollate 13 14 14 16 17 9 Vegetariano è bello Carrello si, carrello no questo è il problema 18 18 Dall'interno Morto in carcere a Bollate 20 La testimonianza del compagno di cella... 20 Un sostegno per ricominciare 21 Trenta nuovi posti di lavoro 21 Bollate vera fucina di studio... 22 Diventare chef in carcere 22 La sfida vincente di Cisco 23 Utile lezione sul comportamento animale 24 carteBollate va a scuola 24 Un' integrazione che ci emargina 25 Arte in carcere, liberi di volare con la fantasia 26 Segni di sé, un filo d'arte tra il dentro e il fuori 28 Dove ti porterei La Via dell'amore e un bicchiere di sciacchetrà 29 Poesia 31 Calendario 2015 32 26 29 Il nuovo carteBollate via C. Belgioioso 120 20157 Milano Redazione Gianfranco Agnifili Angelo Aquino Maria Teresa Barboni Edgardo Bertulli Fabio Biolcati Carlo Bussetti Nazareno Caporali Matteo Chigorno Gaetano Conte Marina Cugnaschi Ismet Dedinca Rosario Mascari Renato Mele Federica Neeff (art director) Fabio Padalino Silvia Palombi Antonio Paolo Diego Pirola (impaginazione) Elio Puddu Susanna Ripamonti (direttrice responsabile) Paolo Sorrentino Mariano Veneruso Giuliano Voci n questo numero (pagina 25) c’è una lettera che i detenuti del 7° reparto hanno mandato a varie figure istituzionali del carcere di Bollate, preceduta da una breve nota firmata dalla redazione che spiega i motivi di questa ospitalità. Ovviamente la firma della redazione si limita alla nota ma durante la prima riunione dell’anno nuovo è stato chiaro che questo… non era chiaro per tutti; si è scatenata una contestazione accesissima, pareri molto discordi e persino un’uscita dalla redazione per disaccordo totale, insomma parecchio movimento. La fatica, improba, che ho impiegato a rimanere seduta durante la discussione mi ha scatenato un potentissimo mal di testa e spinto a scrivere questa riflessione personale, perché forse è giusto ricordare ogni tanto che non è facile per nessuno stare in carcere da esterno e, se si è subìto qualche reato qua e là lungo la vita, è più difficile ancora. Si va avanti e si sorride ma non fa male scoprire cosa ci può essere dietro ai sorrisi di qualcuno, perché darli per scontati è irrispettoso. L’eroina mi ha portato via un amico, di conseguenza ce l’ho a morte con chi spaccia; sentir dire, come mi è capitato, “tanto se non lo faccio io lo fa qualcun altro” non è stato bello e mi ha messo a dura prova. Ha collaborato I ladri hanno portato via un pezzo della storia della mia famiglia in gioielli, che a questo numero per mia madre rappresentavano la riserva della sicurezza in caso di disgrazie. Maddalena Capalbi Tra le cose rubate ce n’era uno della nonna di mamma, che l’ha cresciuta facenLorenzo Lento do le veci di una madre un po’ troppo spensierata e di un padre non pervenuto, (mamma, classe 1920, aveva sui documenti l’infamante figlio di NN che non le ha certo reso la vita facile). Fra le tombe del Verano distrutte dal bombardamento di san Lorenzo (Roma 19 luglio 1943) c’era quella di Se volete continuare a sostenerci o volete quella nonna, così mamma aveva solo quel piccolo anello da tenere incominciare ora, la donazione minima in mano per parlare con la persona che amava di più al mondo. Quel annuale per ricevere a casa i 6 numeri furto le ha inferto un colpo nefasto e mamma ha cominciato piano del giornale è di 25 euro. piano ad ammalarsi. Potete farla andando sul nostro sito www. E infine io, che a otto anni sono entrata a far parte dell’infinita schieilnuovocartebollate.org, cliccare su dora dei bambini abusati, un abuso lieve fortunatamente, un familiare nazioni e seguire il percorso indicato. non consanguineo ma acquisito, fortunatamente, che mi ha ferito più dentro che fuori, segnandomi indelebilmente e condizionandomi peOppure fate un bonifico intestato a santemente. “Amici di carteBollate” su Il buddismo, che pratico da anni, mi ha insegnato a sospendere il giuIT 22 C 03051 01617 000030130049 dizio, e in carcere riesco a non vedere i reati ma solamente le persone. bic barcitmmbko Non è stato facile arrivarci, ogni volta non è facile, ogni volta è una indicando il vostro indirizzo. decisione, una scelta da rideterminare, una conquista, una fatica neIn entrambi i casi mandate una mail cessaria senza la quale non potrei più fare la volontaria in galera e che a [email protected] mi aiuta a fare pace con queste tre batoste. indicando nome cognome e indirizzo Sono profondamente convinta che sia necessario un lavoro continuo a a cui inviare il giornale. 360 gradi per il reinserimento dei detenuti nella vita sociale, qualsiasi reato abbiano commesso; ogni storia è una storia a sé ma il gioco “il mio reato è meno grave del tuo” è pericoloso. Ritengo che inchiodare una persona al reato che ha commesso è profondamente ingiusto, mi permetto di aggiungere che è anche molto comodo, perché risparmia la fatica di elaborare dentro di sé un percorso di presa di coscienza. CarteBollate è un giornale aperto fatto da detenuti di un carcere aperto, ai quali si chiede un’apertura mentale non semplice né scontata, ma proprio per l’eccellenza di questo carcere questa apertura mentale è doverosa, come lo è ospitare la lettera del 7° reparto, che civilmente si augura di sollevare un dibattito costruttivo sulla coabitazione dei detenuti considerati di serie B. Silvia Palombi [email protected] - www.ilnuovocartebollate.org Registrazione Tribunale di Milano n. 862 del 13/11/2005 Questo numero del Nuovo carteBollate è stato chiuso in redazione alle ore 18 del 2/1/2015 carteBollate 3 Giustizia DIRITTI SOSPESI – Il regime del 41 bis, comunemente chiamato carcere duro Le vittime sono anche i familiari P apa Francesco, davanti a una delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale ha detto: “Tutti i cristiani di buona volontà sono chiamati a lottare per l’abolizione dell’ergastolo, della pena di morte ma anche per il miglioramento delle condizioni carcerarie”. Seguendo la scia del nostro Papa, viene in mente il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, là dove il diritto è stato sospeso insieme al senso di umanità e di pietas. Questa misura è applicata ai boss mafiosi e a quei soggetti ritenuti molto pericolosi, che si sono macchiati di crimini gravissimi. Volendo riflettere su questi criminali, come potremmo esimerci dal dire: è quel che meritano! Ma spingendoci oltre, scopriamo che questi soggetti hanno figli, mogli, nipoti. I quali si ritrovano a subire e a vivere sulla propria pelle la miseria e il dolore ripetuti senza fine, per atti di cui non sono responsabili. La loro identità è svuotata, resa cava, percependo come ingiusta la loro condizione. Molti di essi mancano di strumenti materiali e culturali per esprimere il loro dolore, per quasi tutti è impossibile raccontare il dramma che passano. Sono voci condannate al silenzio e, se anche trovano canali per raccontare ciò che vivono, accade che si ritrovino nel circolo vizioso dell’essere parenti di chi ha inferto molti torti e morte. Questo capita, nonostante siano essi stessi vittime. E comunque per quanto terribili siano gli atti commessi dai loro parenti ristretti, nelle misure del carcere duro, c’è una passione al negativo, un potere freddo esercitato dalla giustizia degli uomini, che dovrebbe soddisfare e risarcire in qualche misura il male causato. Ma quando al male si risponde con altrettanto male, il rischio è di pagarne il prezzo in termini di cattiva coscienza collettiva. Ma chi sono queste persone che si recano a incontrare questi criminali? Daniela ha tredici anni, una volta al mese fa visita al suo papà ristretto nel carcere di massima sicurezza in regime di 41 bis. Il tempo consentito a questa ragazza è di un’ora al mese, una maledettissima ora al mese, durante la quale non può avere alcun contatto fisico, un abbraccio, una carezza, né un’innocua stretta di mano. I colloqui si svolgono in un locale col vetro divisorio fino al soffitto, l’unico mezzo di 4 carteBollate ... scopriamo che questi soggetti hanno figli, mogli, nipoti. I quali si ritrovano a subire e a vivere sulla propria pelle la miseria e il dolore ripetuti senza fine, per atti di cui non sono responsabili. comunicazione è un misero vecchio citofono. Ogni parola viene registrata, ogni battito di ciglia ripreso dalle telecamere circostanti, ogni gesto che si ritiene equivoco, ammonito, financo respirare diventa un problema. Alessandra di anni ne ha quasi dodici, lei è già più “fortunata” di Daniela, a lei è consentito negli ultimi dieci minuti di colloquio di potersi recare in una sala senza vetro divisorio con un bancone che consente il contatto fisico - ovviamente sottoposto a registrazione - ma almeno può abbracciare il suo papà. Anche se, dal giorno del compimento del dodicesimo anno, ogni contatto fisico le sarà negato. È il nostro “civile ordinamento” che prevede que- ste misure di “sicurezza”. Molti adolescenti non riescono a comprendere la ragione di tanta inutile disumanità e finiscono col viverla come una punizione che provoca in loro patologie gravissime tanto da essere sottoposti a psicoterapie. Questo regime particolare del 41 bis fu introdotto dalla legge Gozzini, nel 1986 e riguardava inizialmente soltanto le situazioni di emergenza per dissuadere rivolte in carcere. A seguito della strage di Capaci (23 maggio 1992), dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta, fu introdotto il cosiddetto decreto antimafia Martelli-Scotti, che aggiungeva un ulteriore comma al già durissimo 41 bis e che consentiva al ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell’ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parte dell’organizzazione criminale mafiosa. Negli anni successivi le regole per questi ristretti sono andate sempre più inasprendosi, estendendo questo tipo di regime ad altre fattispecie di reati anche se non di tipo mafioso. Inoltre, le ultime norme prevedono la possibilità per il ministro della Giustizia di sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento in casi eccezionali, di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcune specie di detenuti (anche se in attesa di giudizio). È quindi prevedibile un ragionevole aumento da qui a breve. Le sezioni dei 41 bis sono quasi sempre in una palazzina separata dal resto del carcere e alcune di queste hanno una cosiddetta area riservata per i detenuti “eccellenti” (come Totò Riina o Leoluca Bagarella); questi spazi sono solitamente collocati al piano terra della sezione, sono i meno areati e illuminati, col bagno alla turca. Il “passeggio” di questi detenuti “speciali” è una possibilità spesso non sfruttata, perché è camminare in una gabbia di cemento armato tre metri per cinque alta tre metri, chiusa in cima da una rete metallica. Questi dell’area riservata sono totalmente isolati dagli altri. Ma in quest’area è accaduto che siano finiti anche carcerati di scarso rilievo criminale. Le sezioni con una sorveglianza “meno rigida” hanno fino a tre sbarramenti alle finestre delle celle: il primo, di sbarre vere e proprie, il secondo, di una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una serie di fasce di ferro o di vetro antiscasso che formano una tapparella, dalla quale filtra poca aria e poca luce (con buona pace della vista che inevitabilmente si abbassa). Sono solo alcune delle infinite restrizioni. Chi parla di stato di diritto e di rispetto dei diritti umani anche nei confronti dei capi mafiosi è considerato un garantista ingenuo, qui in discussione non è chi sono o cosa hanno fatto questi detenuti, in discussione è chi siamo noi - noi società civile - cosa facciamo e, cosa rischiamo di divenire se non riconosciamo al peggiore degli assassini quei diritti umani che lui ha negato alle sue vittime. È proprio di fronte a casi di efferatezza estrema che si misura la forza di uno Stato, che è innanzitutto nel diritto, cioè nel limite che stabiliamo di porre a noi stessi, al nostro senso di giustizia e di legittima difesa. Porre l’aggressore in condizioni di non nuocere è obiettivo prioritario ma uno Stato non deve mai vendicarsi, nemmeno di fronte a fatti orribili, deve tenere dritta la barra del principio e del diritto. Diversamente si abbia il coraggio di ammettere che la nostra democrazia è ammalata di un male che si può definire “sonno della coscienza collettiva” e che manca di coraggio per ripristinare i diritti sospesi non ai soli mafiosi ma ancor più ai loro congiunti, specie gli adolescenti i quali, nel bene e nel male, sono figli innocenti di questa nostra Repubblica italiana. M arina Cugnaschi, Rosario M ascari, Gaetano Conte LA SCHEDA Che cosa prevede il 41 bis L ’articolo 41 bis, rubricato a ”situazioni di emergenza”, è stato introdotto nel 1986 con la legge 663 e più volte modificato nel corso degli anni (l’ultima modifica con la legge 94 del 2009) e prevede un regime penitenziario particolarmente pesante. Il primo comma sancisce la sospensione delle ordinarie regole di trattamento dei detenuti in caso di situazioni eccezionali, tipo ribellioni o altri gravi eventi destabilizzanti. Nel caso specifico, la sospensione delle normali norme penitenziarie ha una durata pari al tempo necessario al ripristino dell’ordine e della sicurezza nell’istituto. Il secondo comma, invece, prevede una sospensione del trattamento penitenziario ordinario disposta dal Ministero della Giustizia quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, nei confronti dei detenuti per reati di cui all’art. 4 bis op o per delitti commessi avvalendosi o a favore di associazioni di stampo mafioso o quando vi siano elementi tali per ritenere che possano perdurare i collegamenti con associazioni di carattere “criminale, terroristica o eversiva”. Il regime di cui all’art. 41 bis è adottato con decreto dal Ministro della Giustizia, dopo aver consultato l’ufficio del Pm presso il Giudice procedente, la Direzione Nazionale Antimafia, gli organi di polizia specializzati nel contrasto alla “criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. Il provvedimento ha durata di 4 anni ed è prorogabile per successivi periodi di 2 anni, se risulta che non sono venuti meno i collegamenti con l’organiz zazione di appartenenza. Quanto al contenuto del regime, bisogna innanzitutto precisare che i detenuti sottoposti al “carcere duro”, ossia il regime del 41 bis op, devono essere ristretti in istituti appositi collocati preferibilmente in zone insulari, o comunque in sezioni specializzate logisticamente separate dalle altre. Le restrizioni consi- stono nelle seguenti disposizioni: 1. adozioni di misure idonee a prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza; 2. un solo colloquio al mese, solo con famigliari o conviventi, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. I colloqui sono sottoposti a registrazione uditiva. Chi non effettua tali colloqui, può essere autorizzato, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a effettuarne uno telefonico al mese della durata massima di dieci minuti, anch’esso registrato. I colloqui con i difensori sono invece previsti nella misura di tre alla settimana nei quali vanno però ricompresi anche i colloqui telefonici; 3. limitazione di somme e oggetti ricevibili dall’esterno; 4. esclusione dalla rappresentanza dei detenuti; 5. censura sulla corrispondenza; 6. permanenza all’aria in gruppi di quattro persone al massimo di due ore al giorno con adozione di accorgimenti tali da impedire i contatti con detenuti appartenenti ad altri gruppi di socialità. È possibile proporre reclamo, al provvedimento applicativo di tale regime penitenziario, entro 20 giorni dalla sua notifica al Ts di Roma che decide entro 10 giorni, in camera di consiglio, con le forme previste per l’incidente di esecuzione (vedi art.666 cpp). Per tali udienze è prevista la presenza del detenuto in videoconferenza (cfr. art.146 bis norme di attuazione cp.). Considerato che, come prevede la norma, il mero trascorrere del tempo non è un elemento sufficiente a stabilire la capacità di dissolvere i legami con l’associazione, si può dedurre come in realtà la proroga divenga una regola anziché rappresentare l’eccezione come il testo della norma sembrerebbe al contrario suggerirci. M.C. carteBollate 5 Giustizia corona – Commento semi serio sull'uscita pubblica a favore del vip Che fortuna l'appello per Fabrizio D opo che Adriano Celentano e Marco Travaglio hanno chiesto la grazia per Fabrizio Corona, immaginate di leggere, sui più importanti quotidiani, che finalmente i politici hanno fatto proprio l’appello del Molleggiato & C., gridato dal mondo dei giornali e dello spettacolo, e hanno deciso di chiedere al Presidente della Repubblica di estendere la richiesta di grazia a tutti i detenuti, a prescindere dalla loro responsabilità penale e dalla loro prestanza fisica più o meno palestrata. Questi politici dovrebbero anche dire che faranno leggi a favore di tutti i carcerati d’Italia ed ecco l’ipotetica cronaca: “nei prossimi giorni una delegazione di detenuti, dopo il clamore suscitato dall’appello dei vip, è stata invitata a partecipare a varie trasmissioni televisive per illustrare situazione e condizioni di vita carceraria”. E ci auguriamo che, senza frignare, vadano in tutti i programmi della “televisione del dolore”, dove il dolore e la sofferenza fanno audience e la fanno da padrone: Verissimo, la Vita in Diretta, Pomeriggio Cinque (e abbiamo citato solo alcune trasmissioni). Su carteBollate leggeremmo: “Sappiamo che anche i detenuti del carcere di Milano-Bollate, interpretando i senti- menti e le aspirazioni di tutti i detenuti d’Italia, hanno fatto proprio l’appello di Celentano e compagni, ricordando le parole pronunciate da Gesù: “tutti nel male agiscono bene” e che l’appello, fatto proprio dalla stragrande maggioranza dei politici, ha isolato Papa Francesco, il Presidente Napolitano e altri che si sono ingenuamente impegnati in tutti questi anni per una seria clemenza e una vera umanizzazione delle carceri italiane, in attuazione della piena applicazione dell’articolo 27 della costituzione italiana”. E ancora: “Siamo certi che non attenderemo mesi e che per il nuovo anno saranno fuori molti detenuti, tanto che pare potrebbero sorgere problemi occupazionali con un incremento ulteriore di disoccupati. Con lo svuotamento carcerario, potrebbe rimanere senza lavoro anche il personale addetto alle case di reclusione. I politici però hanno già provveduto e faranno una proposta di conversione e utilizzo delle carceri italiane cercando di salvaguardare tutta l’occupazione in essere: sembra che le carceri saranno utilizzate per esercitazione di sopravvivenza carceraria a cui verranno obbligati a partecipare politici, mondo giornalistico, cantanti e magistratura come quando esisteva la leva militare. Fare insomma tirocinio di sopravvivenza carcerario, abituandosi per quindici giorni ogni sei mesi a stare reclusi perché, qualora dovesse capitare loro di essere detenuti - mai dire mai saprà come affrontare la situazione”. Ritornando all’argomento da cui siamo partiti (l’appello per la grazia a Corona, motivato da nobili principi che fa onore a chi l’ha fatto) abbiamo notato che anche tra queste personalità ve ne sono che, forse cadendo da cavallo, si sono convertite al garantismo: Marco Travaglio per esempio (meglio tardi che mai). Passando dall'ironia alla realtà, va detto che tra i detenuti c’è molto scetticismo verso questi appelli estemporanei per singole persone. Sanno molto di gossip e pubblicità gratuita per portare acqua al mulino di chi li fa. C'è invece attenzione, ammirazione e rispetto per le parole e le argomentazioni portate avanti e dette da Papa Francesco e dal Presidente Giorgio Napolitano assieme a uno sparuto gruppo di politici (tra loro i Radicali), che hanno chiesto e chiedono ai governanti del mondo, Italia compresa, di abolire ergastolo e pena di morte e di rendere umane le condizioni carcerarie per chi, a torto o ragione, sta espiando la pena con dignità. M ariano Veneruso e Paolo A ntonio In carcere ci sono migliaia di detenuti, che stanno espiando la loro pena senza che amici famosi perorino la loro causa, alcuni condannati giustamente e altri a torto. 6 carteBollate LA LETTERA – Anche Celentano può scivolare in tema di diritti Adriano, ti ricordo che siamo tutti uguali C aro Celentano, ho letto la tua intervista in merito alla richiesta di grazia per il tuo compagno Fabrizio Corona. Capisco che devi sempre cercare di stupire, però ritengo giusto che tu conosca un po’ di cose, se avrai il tempo e la pazienza di leggere, oltre alla seria volontà di capire. Corona è in carcere come tutti coloro che subiscono una condanna definitiva, e quindi non si può esimere dalle sue responsabilità. Chi non va in carcere dopo una condanna definitiva lo può fare solo perché ha una condanna di lieve entità, e questo non è il caso del tuo amico Fabrizio, che ha alle spalle già un buon curriculum tra processi e condanne: tre anni e otto mesi per una fattura falsa, un anno e mezzo per banconote false, un anno e due mesi perché ha pagato un agente di polizia penitenziaria per farsi portare in carcere una macchina fotografica usa e getta: gli serviva per fotografarsi in cella e rivendere il servizio, un anno e sei mesi per una fotografia ritenuta estorsiva al calciatore Adriano e cinque anni per analoga estorsione ai danni di Trézeguet. In più la latitanza internazionale per evitare l’arresto. Alcuni reati sono stati reiterati, segno di una continuità delinquenziale proseguita nel tempo. Già che c’era, anche in carcere ha continuato a commettere reati, dando dei soldi alla polizia penitenziaria. In carcere ci sono migliaia di detenuti, che stanno espiando la loro pena senza che amici famosi perorino la loro causa, alcuni condannati giustamente e altri a torto. Ma su queste migliaia di persone, persone esatta- mente come il tuo amico Fabrizio, hai sempre taciuto. Il carcere ha una finalità importante, rieducare. Occorre che il detenuto, che spesso ha vissuto rispettando poco la legge, si renda conto che c’è una legge, e soprattutto che va rispettata. Corona ha iniziato questo difficile cammino che probabilmente deve ancora ben comprendere: durante il primo arresto ha continuato infatti a commettere reati in carcere, poi è uscito; dopo le prime condanne di lieve entità non è più entrato in carcere perché è stato affidato ai servizi sociali ed è andato a lavorare nella sua azienda ma nel frattempo ha procurato una bancarotta e, poco prima che arrivasse l’ennesima condanna definitiva dalla Cassazione, è fuggito all’estero scappando dal retro della palestra che intanto frequentava per mantenersi in forma. Diciamo che fuori non è mai stato un cittadino modello e parimenti in carcere, non si può dire che sia stato un detenuto modello. Arrestato durante la latitanza, è finito in una prigione di massima sicurezza, dopo che sono state fatte le valutazioni sul suo comportamento. La grazia viene data dopo un percorso di ravvedimento, di comprensione dell’errato stile di vita delinquenziale, di sincero pentimento per i danni arrecati a tante persone. Fabrizio è ancora lontano da tale percorso, che speriamo possa intraprendere con la dovuta calma. È una persona intelligente e ce la farà. Il mondo è serio e complicato e il mondo carcerario ancora più serio e soprattutto molto più complicato. Penso che tu possa capire tutto questo. A nome di altre decine di migliaia di detenuti, Nazareno Caporali Il carcere ha una finalità importante, rieducare. Occorre che il detenuto, che spesso ha vissuto rispettando poco la legge, si renda conto che c’è una legge, e soprattutto che va rispettata. carteBollate 7 Cultura LETTURE – La biblioteca vivente e la scoperta di molti pregiudizi PREMI – Francese di padre ebreo di origini italiane Il pubblico legge la vita dei detenuti Patrick Modiano Nobel 2014 per la letteratura Q 8 carteBollate diego pirola È partita la seconda edizione della Biblioteca vivente fuori e dentro, evento promosso nell’ambito della sperimentazione Oltre il Muro, per colmare le distanze tra detenuti e opinione pubblica e cercar di sfatare i pregiudizi. Si è ripetuto il successo della prima edizione, quando i detenuti si sono recati alla biblioteca del Parco Sempione e le persone che si trovavano nei dintorni, invece di prendere in prestito un libro dalla biblioteca, potevano prendere in prestito un libro umano (una persona detenuta). In questa seconda edizione, previa prenotazione tramite e-mail, sabato 8 novembre i lettori sono entrati nella casa di reclusione di Bollate per incontrare i detenuti e consultare nuovi libri umani , usufruendo di un prestito che è durato 30 minuti per ciascun lettore. La giornata è iniziata verso le 12,30 in teatro con un incontro tra bibliotecari e libri viventi . Tutti insieme abbiamo sistemato il teatro, mettendo su ciascun tavolo un biglietto con titolo del libro, trama e nome dell’autore. Dopo aver mangiato una pizza e qualche frittella, e aver così scaricato un po’ la tensione, verso le 14,30 è entrato il primo gruppo di lettori che, dopo aver scelto il libro, sono stati fatti accomodare al tavolo dedicato a quel libro. Al principio non si capiva chi fosse più teso tra lettore e libro umano , ma appena seduti la tensione è sparita, grazie all’umanità che i lettori hanno trasmesso e alla voglia di sapere e apprendere le vicissitudini dai libro umani, cercando di capire le tante situazioni che portano una persona a deviare dalla normalità. Quello che più colpisce è la fascia di lettori: dal più giovane, minorenne accompagnato dai genitori, alla coppia di anziani, dalla tirocinante psicologa all’impiegato in banca. Insomma si può veramente dire che sono persone che si potrebbero incontrare in una qualsiasi vera biblioteca. Un’altra cosa molto particolare è stato che, quando si avvicinava il bibliotecario per dire che i 30 minuti a disposizione erano terminati, i lettori chiedevano di poterlo prolungare. Una volta terminato il libro umano , i lettori potevano lasciare una nota delle sensazioni avute ed esprimere il loro pensiero. Ovviamente tutta la giornata eccezionale è stata registrata, sia fotograficamente che in video, e si può davvero dire che è stata un successo. Dopo una settimana ci siamo ritrovati, noi libro umani e i bibliotecari che ci hanno formato, i formatori hanno consegnato a ciascuno una foto di gruppo con le sensazioni che ha provato ogni lettore dopo averci letto. È stato molto gratificante poter sapere che le loro opinioni su di noi erano tutte positive; uno ad esempio ha scritto che ascoltandoci ha capito che i pregiudizi che si hanno sono totalmente assurdi e che dalle nostre storie incredibili si impara molto. Un altro dice: “Capisci che i veri criminali stanno fuori e come sempre ci sono due pesi e due misure”. Così siamo riusciti in una certa maniera a spezzare quei pregiudizi che avevano i lettori prima di entrare. I volontari che ci hanno formato sono veri bibliotecari del parco Sempione, molto professionali e sin da subito c’è stato molto feeling. Abbiamo avuto quattro incontri prima dell’evento, ci avevano spiegato che ci sarebbe stato un tabellone dove sarebbero stati elencati i nomi, i titoli dei nostri libri con a fianco la nota a margine per comprenderne, sia pure a grandi linee, il contenuto. Si era partiti in una quindicina di detenuti maschi e cinque della sezione femminile. Nell’ultimo incontro abbiamo fatto delle prove formando coppie a caso e ognuno raccontava il proprio libro all’altro. I bibliotecari ci avevano detto che ci sarebbero stati circa un centinaio di iscritti e sinceramente fa piacere sapere che persone al di fuori da questa realtà scelgano di venire ad ascoltare i detenuti, ma di certo Bollate non è nuovo a queste iniziative. All’inizio si era pensato di affrontare varie tematiche sui tanti pregiudizi: “Il carcere è un’accademia del crimine, escono sempre troppo presto, stanno bene in galera, mangiano e dormono gratis, tanto non cambiano mai” e altro che non stiamo qui a elencare. Leggendo le molteplici opinioni ricavate da un sondaggio su cosa ne pensa la gente al di là del muro, la maggior parte di noi pensava istintivamente di fare i libri, per ribadire che quello che pensavano era tutto sbagliato. Abbattere il luogo comune, il pensiero negativo che inevitabilmente c’è, non è cosa facile e forse il modo migliore è quello di mettersi in gioco raccontando episodi della nostra vita, non necessariamente legati al carcere. Ed ecco che, quasi come se fosse una cosa naturale, tutti hanno cambiato rotta; abbiamo lasciato perdere ciò che pensano le persone di noi, e abbiamo riscritto i libri raccontando episodi della nostra vita. Ma poi inevitabilmente, durante l'incontro col pubblico, vari lettori hanno fatto domande legate al pianeta carcere e ovviamente abbiamo cercato di accontentare tutti. Gianfranco Agnifili uest’anno il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato a Patrick Modiano, scelto tra 210 scrittori. L’Accademia svedese lo ha insignito del riconoscimento “Per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili e scoperto il mondo dell’occupazione”. Modiano, nato nel 1945 a BoulogneBillancourt, è uno scrittore e sceneggiatore francese di padre ebreo di origini italiane. A 22 anni ha pubblicato il primo libro con il quale subito vinse il premio Roger Nimier; in seguito diventa documentarista, per Carlo Ponti, e paroliere e sceneggiatore per François Hardy. Con Rue des boutiques obscures, nel 1978, ha vinto il Prix Goncourt. Autore di numerosi romanzi e racconti, tra cui (tradotti in italiano) Dora Bruder (Guanda, premio Bottari Lattes Grinzane Cavour sezione La Quercia nel 2012), Sconosciute, Bijou, Un pedigree (Einaudi) e Nel caffè della gioventù perduta (Einaudi). Nel 2012, sempre Einaudi ha pubblicato L’orizzonte. Il suo penultimo romanzo, L’erba delle notti sarà pubblicato a dicembre 2014 nei Supercoralli Einaudi, mentre la sua opera più recente, Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier, uscirà nel 2015 sempre per il suo editore italiano. Nei suoi romanzi ambientati nella Parigi occupata dai nazisti, centrale è la figura del padre. Filo conduttore è la figura dell’esule, dell’ebreo che riporta la memoria dell’Olocausto. Nei suoi libri si ritrova il gusto della rievocazione dove risalta, appunto, la figura ambigua del padre (che sfuggì alla deportazione grazie a potenti amicizie collaborazioniste), identità invischiata molto spesso in rapporti di complicità con i carnefici. Intervistato a proposito del romanzo Un pedigree, ha detto: “Scrivo queste pagine come redigessi un verbale o un curriculum vitae, a titolo documentario e certo per farla finita con una vita che non è la mia. Non si tratta che di una semplice pellicola di fatti e di gesti”. Paolo Sorrentino MUSICA – “Uncle G blues band” in concerto Viaggio nella musica pop S in dall’inizio il loro concerto, presso il teatro della Casa di reclusione di Bollate è stato molto coinvolgente e gli Uncle G blues band hanno esordito con il mitico brano di Otis Redding dal titolo (Sittin' on) the Dock of the Bay, con tanto di fischio finale, identico all’originale, suscitando l’accoglienza del pubblico che ha apprezzato con un grosso applauso. La canzone era stata registrata solo tre giorni prima della morte di Redding, che avvenne il 10 dicembre del 1967 a causa di un incidente aereo. Nonostante questo tragico evento il brano in questione vendette più di un milione di copie. Otis Redding, i Beatles e Wilson Pickett sono gli autori di cui la band ha suonato più brani. Il gruppo ha presentato un repertorio di brani che dagli anni Sessanta in poi hanno con- traddistinto la storia della musica pop internazionale spaziando tra i diversi generi: dal soul al blues, dal rock and roll al country, dal rhythm and blues al funk. La scaletta scelta dai musicisti ha riproposto i brani più famosi di cantanti e complessi musicali, tra i quali, oltre a quelli già citati, Joe Cocker, Ray Charles, James Brown Mr. Dynamite, Elvis Presley The King, Queen, Eagles, Police, Creedence Clearwater Revival. All’inizio di ogni brano il pubblico cantava insieme al vocalist, per sottolineare la conoscenza del pezzo e a volte modulava anche le parti musicali, con la voce, come per esempio nel brano dei Beatles Get back durante l’assolo di chitarra. L’unico musicista italiano presente in scaletta è stato Zucchero Fornaciari con due brani: Il diavolo in me e Baila Morena. Le esecuzioni sono state molto rispettose e simili ai brani originali; solo nel caso del pezzo Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival è stato proposto un arrangiamento un po’ diverso ma di gradevole ascolto. I musicisti hanno suonato con molta bravura e il pubblico li ha ripagati con applausi scroscianti dall’inizio del concerto sino alla fine. Per il tipo di repertorio proposto una sezione di strumenti a fiato avrebbe reso più spettacolare il concerto, ma la maestria dei tastieristi ha saputo sopperire a quest’assenza. Tra gli strumenti adoperati durante il concerto, facevano bella mostra una batteria Ludwig degli anni Sessanta (importata in Italia dalla Meazzi), una chitarra Fender Telecaster e un amplificatore Vox. Il gruppo Uncle G blues band è in attività da circa un anno ed è composto da: Paolo Todeschini voce, Giuseppe Bruno batteria, Roberto Gasparri chitarre, Nicola Nedrotti basso, Roberto Todeschini tastiere, Giuseppe Ciocca tastiere, Andrea Legnani mixer. Angelo Aquino carteBollate 9 Cultura EVENTI – In scena mandolini e poesia BIODIVERSITÀ – E se mettessimo le api in città? Tutti a teatro in un clima di festa Produrre miele a Cascina Bollate 10 carteBollate L diego pirola S abato 6 dicembre in teatro è andato in onda uno spettacolo che ha riunito magistralmente varie espressioni artistiche: musica, poesia e teatro. Tutto è iniziato dal laboratorio di poesia, tenuto da anni a cura della poetessa Maddalena Capalbi, dal giornalista Paolo Barbieri e con la partecipazione della scrittrice Anna Maria Carpi. Il laboratorio di poesia è dinamico, c’è sempre chi (buon per lui) esce dal carcere, e chi (purtroppo per lui) vi entra e ne prende il posto. Questa dinamicità del gruppo non fa però venire meno la qualità degli scritti, anzi è un motivo del suo successo, perché i nuovi arrivi portano idee sempre nuove, tanto che ogni anno vede la luce un libro antologico. Il nostro mondo scritto è uscito nella primavera di quest’anno e parte del suo materiale è stato rivisitato in chiave teatrale dalla regista Monica Fantoni e dalla coordinatrice dello spettacolo Donatella De Clemente, che hanno allestito un recital teatrale di questi testi. A tale progetto hanno preso parte anche la giovane assistente regista Carolina De Sapia, studentessa in giurisprudenza e Carla Vegetti che ha curato le fotografie e i filmati, prima durante le prove e poi durante lo spettacolo, backstage incluso, come si addice a tutti gli show degni di tale nome. La musica è stata quella del Gruppo dei mandolinisti bustesi, diretto dal Maestro Antonio Tovaglieri, che ha suonato mandolini e strumenti a corda riproponendo una tradizione popolare tipicamente italiana. Lo spettacolo è stato subito accolto dall’applauso del pubblico che assiepava il nostro teatro in ogni ordine di posti. Se i biglietti fossero stati messi in vendita, si pensa che ci sarebbe stato perfino del bagarinaggio… Si sono alternate musica e recitazione, perché una bella poesia, quando non viene solo letta ma anche recitata, diventa emozione che tocca il cuore: la poesia comunica gioia o dolore, e comunque non lascia indifferenti. La recitazione si è svolta sul palco, accanto all’orchestra, dividendo sia lo spazio fisico del teatro che le emozioni che ne scaturivano, e gli attori sono rimasti sul palco durante l’esecuzione dei brani musicali, a indicare un’interrelazione tra orchestra e attori, tra diverse forme artistiche, simbolo dell’unione tra dentro e fuori. Il legame è stato così forte che come le poesie oscillavano tra i due poli della tristezza (a volte anche disperazione) e della speranza, così la musica ha seguito diversi tempi, partendo da un andante moderato, al quale ha fatto seguito un andante con moto, e proseguire con quasi una marcia, in assonanza con le poesie, fino al gran finale. Ho fatto parte dello spettacolo e so che non è stato facile selezionare le poesie fra le tante a disposizione tratte dal libro; le prove (e le riprove) sono durate un paio di mesi, con la partecipazione del reparto femminile e maschile, alcune hanno colpito per il loro lancinante dolore, si coglieva immediatamente che erano il frutto della sofferenza, scriverle e poi recitarle ha aiutato l’autore a rendere quel dolore più sopportabile. Altre erano più gioiose e ironiche, perché piangersi sempre addosso non ci porta da nessuna parte. Il Gruppo dei mandolinisti bustesi ha suonato magistralmente il proprio repertorio di musica classica, con grande capacità artistica, il Maestro è stato anche coinvolto in una piccola gag, in cui gli veniva domandato se avesse mai avuto conflitti a fuoco con la polizia, lui era all’oscuro del fatto che gli sarebbe stata posta quella domanda e per poco non sveniva. Non si è capito se non ne aveva mai avuti ed era sbigottito, o invece ne aveva fatto qualcuno ed era preoccupato per via dei poliziotti presenti… lui ha taciuto lasciandoci nel dubbio. Ognuno non ha offerto solo una poesia, ma ha portato sul palco un vero pezzo di sé: Barbara è tenera e parla dell’amore all’uomo che la stringe, Stefana è innamorata e spiega la passione e il fuoco delle donne, Teresa è romantica e fa la donna libellula che si innamora, Carlo prima sputa fango e melma, poi racconta del male chiamato amore, Giacomo descrive lo smarrimento e l’assenza, Leonardo ha il timore che si possa distruggere la nostra terra così bella, Nazareno parla di un professore di matematica un po’ svitato, Nuccio racconta in dialetto la sua bella terra nel mese di maggio. Al termine il pubblico, con un lungo applauso, ha dimostrato di aver gradito lo spettacolo. Gli attori e i musicisti sul palco si sono divertiti. Si parla di una replica primaverile, con integrazioni e qualche miglioramento. Per ora siamo in attesa, aspettando eventuali novità. Lo spettacolo è servito per avvicinarsi al clima di Natale, per cercare di stare bene e fare qualcosa di utile o di piacevole anche per gli altri. Alla fine ogni essere umano cerca solo di stare bene, e noi ci siamo riusciti, grazie al nostro impegno e a quello dei volontari che ci hanno aiutato, ai quali va il nostro ringraziamento. Nazareno Caporali a Zona 1 ha discusso la proposta di un’associazione per installare arnie in città, un piano per portare le api sui tetti di Milano. La Commissione Ambiente e Verde di Zona 1, sulla base del progetto dell’associazione Milleapi, intende metterne sui tetti di Acquario, Villa Reale, Triennale, Museo di Storia Naturale, Museo del Novecento e della Scala. La spiegazione di questo progetto, che è già operante a Londra in cima al Tate Modern e a Parigi sul tetto dell’Opéra, a detta degli apicoltori promotori dell’iniziativa, è che senza api non esisterebbe l’80 per cento di ciò che mangiamo. È indubbio che le api contribuiscono alla biodiversità con l’impollinazione. Si potrebbe avere una città con giardini e parchi fioriti tutto l’anno e una città più calda. Nell’area urbana le api sarebbero protette dagli insetticidi, sperando che lo smog non interferisca sul loro ciclo vitale. Elena Grandi, presidente della Commissione Ambiente, che lavora sull’idea, dice: “È pensato per essere un progetto pilota, d’intesa con l’assessorato, che cioè potrebbe svilupparsi sull’intera città”. Si potrebbe pensare di estenderlo anche qui, nella II Casa di Reclusione Milano Bollate, spazio se ne potrebbe ricavare, i fiori non mancano e se ne potrebbero inserire anche di specifici per una raccolta di mieli particolari. Sarebbe un incentivo anche per noi detenuti, migliorando le aiuole dei reparti e ancor più per la cooperativa Cascina Bollate che si gioverebbe di un’impollinazione naturale dei propri prodotti. Il problema maggiore è la moria di questi pregiati insetti ed è per questo, per esempio, che anche il presidente americano Barak Obama è intervenuto a più riprese per la tutela delle api. Parassiti e pesticidi ne stanno provocando, in particolare negli Stati Uniti, ma anche in Italia, lo sterminio, causando non solo un problema ambientale, ma anche e soprattutto economico. Il valore della produzione agricola americana che dipende dalle api, ha un rendimento annuo di 15 miliardi di dollari. A Londra il miele si fa sui tetti della Tate Modern La morìa dipende da vari fattori e principalmente sembra essere focalizzata sulla infestazione di pesticidi e specialmente i neonicotinoidi, in un’agricoltura aggressiva e speculativa. Gli ecologisti sostengono che il presidente potrebbe limitarsi a mettere al bando queste sostanze risolvendo alla radice il problema. Obama vuole salvaguardare sia l’economia sia l’ambiente e speriamo diventi un modello per altri Paesi. Le api sono al centro del nostro ecosistema nel quale non convive come dovrebbe l’uomo. Distruzione di foreste, cementificazione, inquinamento, questo è l’apporto che relaziona l’uomo all’ecosistema e le api ne subiscono negativamente l’effetto. L'Apis mellifera, diffusa in tutti i continenti a esclusione delle zone artiche e antartiche, è l'unica conosciuta in Europa e fu classificata da Linneo nel 1758 con il nome Apis mellifica. L'ape domestica costituisce la società animale più studiata e ammirata, è una società matriarcale, monoginica e pluriannuale, formata da numerosi individui appartenenti a tre caste, tutte alate. Di norma in un alveare vivo- no una regina, unica femmina fertile, api operaie (femmine sterili destinate al mantenimento e alla difesa della colonia) e i maschi (detti anche fuchi o pecchioni), questi ultimi destinati esclusivamente alla riproduzione. La specie è polimorfica perché le tre caste sono diverse tra loro. L'ape, emblema dell'operosità, è fin dai tempi antichi un insetto simbolico in miti, leggende e religioni, noto certamente già dalla preistoria per la propria utilità. Si ha notizia da pitture murali rinvenute nella Cueva de la Araña, presso Bicorp, provincia di Valencia (Spagna), che già nel periodo magdaleniano l'uomo sfruttava le api per trarne il miele. Nella mitologia greca erano considerate messaggere delle Muse per la loro sensibilità ai suoni, ma anche il simbolo del popolo obbediente al suo re. Essendo il miele nell'antichità l'unica fonte di zucchero, l'ape, sua produttrice, era tenuta in alta considerazione. Per millenni ha rappresentato l'unico alimento zuccherino concentrato disponibile. Le prime tracce di arnie costruite dall'uomo risalgono al VI mil lennio a.C. circa. NB – “Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita”. È una frase attribuita a Einstein, anche se non viene menzionata in nessun documento prima del 1994. In quell'anno, la frase venne citata per la prima volta su un volantino distribuito a Bruxelles dall'Unione Nazionale Apicoltori francesi, in rivolta a causa della concorrenza del miele d'importazione. È quindi probabile che sia stata creata ad hoc per avvalorare la protesta. Comunque non è priva di un certo fascino. In effetti niente api significa niente impollinazione, che si tradurrebbe fatalmente in niente frutta né verdura e alla lunga niente vita. carteBollate 11 dossier Ambiente Aspettando l'expo AGRICOLTURA – Attaccati da vespe e batteri arrivati dall’Oriente Per ulivi e castagni la morte che viene dalla Cina L ’estate appena trascorsa è da annoverare come la più “pazza” degli ultimi 50 anni, caratterizzata da maltempo e copiose piogge. A farne le spese sono state le castagne, dimezzata la produzione e prezzi alle stelle. Non è stata solo la pioggia a rovinare i ricci, ma anche un insetto: la vespa cinese (cinipide), un fitofago originario della Cina che attacca i castagni provocando la formazione di galle che inglobano i nuovi germogli (foglie e fiori) e compromettendo gravemente la produzione dei frutti. È di difficile controllo con i mezzi chimici perciò si ritiene che l'unico mezzo efficace sia la lotta biologica e integrata. La causa principale della perdita delle castagne è stata sì la pioggia, ma questa vespa cinese ha dato il colpo di grazia. È un killer che fa ammalare le piante e frena la crescita dei frutti, sui rami si trovano ancora ricci piccoli e verdi e le castagne faticano a maturare. La Coldiretti stima che in Lombardia ogni anno si producano 25 mila quintali di castagne e il calo, quest’anno, ha raggiunto il 50 per cento specialmente nella Bergamasca. Sono già tre anni che la produzione è in ribasso: cambiamenti climatici, eccessi di siccità e di piogge, repentini sbalzi di temperatura frenano lo sviluppo delle castagne come dei pomodori - la cui produzione è crollata del 25% nelle province di Cremona, Mantova e Brescia - e dell’uva da vino - la vendemmia è in calo tra il 10 e il 15% a seconda delle zone. I castagni hanno la vespa cinese, gli ulivi del Salento hanno la Xylella, un batterio che provoca l’essiccamento delle foglie e la morte della pianta: 23mila ettari attaccati, 2mila piante ammalate, 600mila ulivi a rischio e la produzione che cala drasticamente, tutto a causa di questo batterio. L’oro del Salento è l’ulivo che ha fatto la storia della regione, con la sua morte si modifica anche il paesaggio. La Xylella, batterio iper-resistente, si nasconde principalmente negli oleandri e in altre piante senza danneggiarle, ma stermina gli ulivi. Da fenomeno isolato (primi casi nel 2013) si è passati in poco tempo a una vera e propria epidemia. È intervenuta anche la Commissione europea e il governo nazionale, da Bruxelles hanno ordinato l’immediato sradicamento delle piante infette e la loro distruzione. Come tutti gli insetti e i parassiti esotici, l’arrivo in Europa è dovuto dall’importazione di piante particolari. Nel caso del batterio c’è anche l’ipotesi che durante un convegno di scienziati a Bari, siano stati introdotti per studio dei campioni di Xylella. Paesaggi deformati economie in crisi, ma è sempre l’uomo la causa principale del disastro ambientale. “Non mi fido più di questi signori, studiosi, politici” dice Antonio Leone, coltivatore di ulivi, “dicevano che non era niente, che eravamo pazzi a parlare di peste. E mentre lo dicevano noi eravamo già diventati come queste piante. Morti”. Paolo Sorrentino La medicina ayurvedica (medicina in- cereali o di fiori. Il miele ebbe un ruolo re conservato a lungo e ne giustificano diana tradizionale, un sistema medico molto vasto e complesso comprendente aspetti di prevenzione, oltre che di cura, che permetterebbero, se applicati rigorosamente, di vivere più a lungo, migliorare la propria salute e rispettare il proprio corpo) già tremila anni fa considerava il miele purificante, afrodisiaco, dissetante, vermifugo, antitossico, regolatore, refrigerante, stomachico e cicatrizzante. Per ogni specifico caso era indicato un differente tipo di miele: di ortaggi, di frutti, di 12 carteBollate centrale nell’alimentazione medievale, ma fu gradualmente soppiantato come agente dolcificante nei secoli successivi soprattutto dopo l'introduzione dello zucchero raffinato industrialmente. Recentemente in virtù delle proprietà terapeutiche il miele sta in parte ritornando in voga. Il miele è dunque consigliabile agli atleti prima di iniziare un'attività fisica. Nel miele esiste una discreta presenza di oligoelementi, vitamine, enzimi e sostanze battericide e antibiotiche, che permettono di esse- l'utilizzo come disinfettante naturale. Purtroppo talvolta nell'allevamento delle api vengono utilizzati farmaci che possono contaminarne il miele. La globalizzazione sta inoltre portando a frequenti episodi di contaminazione con cloramfenicolo dovuti alle triangolazioni del mercato e così un alimento naturale, per soddisfare il mercato e per avere maggiori guadagni, viene sofisticato chimicamente a discapito della nostra salute. P.S. A pochi mesi dall’inaugurazione dell’esposizione universale Nelle nostre stanze la polvere del cantiere I fortunati spettatori del teatro Expo, e in particolare della frenetica e complessa preparazione alla manifestazione mondiale la cui inaugurazione è prevista per maggio 2015, sono i detenuti della Casa di Reclusione di Bollate e, nella fattispecie, le donne poiché i cantieri iniziano esattamente oltre il muro di cinta di fronte alla sezione femminile. Fantastico! Eccitante è la vista panoramica in continua trasformazione, movimento e crescita. Le geometrie delle montagne di terra in instancabile metamorfosi, scavatrici, gru e macchinari edili in azione notte e giorno, sette giorni su sette. È un’esperienza unica l’ascolto di questa attività incessante specialmente la notte quando, pur non riuscendo a dormire, possiamo godere del suono costante dei motori delle macchine, dei cigolii delle gru che accompagnano l’insonnia fino al mattino quando, purtroppo, il rumore smette di essere chiaro e nitido perché disturbato dal fastidioso rumore del traffico urbano. Le donne stanno vivendo, da mesi, il privilegio dell’intrattenimento non solo sonoro. Deliziosa è, infatti, la polvere che non ha più abbandonato il quotidiano delle detenute da inizio lavori, diventando insostituibile e fedelissima compagna. Quando poi le giornate sono ventose ricopre dolcemente qualunque cosa di un delicato strato di terriccio. Inutile sottolineare che, chiaramente, quella polvere riempie le narici, le gole ed entra a far parte del menù. Incredibile, tutto assolutamente gratuito. E poi c’è chi vorrebbe sostenere che la vita detentiva non è un toccasana. Si tratta solo di disfattisti? L’Expo è in realtà una grande opportunità? Questo è quanto raccontano i tanti sostenitori. A pochi mesi dall’inaugurazione se dovessimo azzardare un bilancio non potremmo omettere di segnalare: che mancano ancora almeno un terzo dei lavori, che il Seveso potrebbe esondare mettendo seriamente in crisi certo la manifestazione ma, soprattutto, i milanesi che abitano nelle vicinanze del fiume più inquinato d’Italia, che conti- nuano le infinite inchieste giudiziarie, che si sono impegnati fondi che non sono nella reale disponibilità di questo nostro bistrattato Paese e che i quindici miliardi necessari (tale è il costo previsto) avrebbero potuto avere una destinazione più sensata e lungimirante. Quale? Ad esempio la messa in sicurezza delle scuole, piuttosto che un serio e necessario piano di risanamento idrogeologico, sarebbero state scelte politiche più condivisibili. Ma fra le tante perplessità di natura economica, politica e sociale circa la reale utilità di questa enorme esposizione mondiale, brilla una stella, la cui vista, per altro gratuita, è a esclusivo vantaggio dei vicini di casa. Le donne detenute di Bollate, che gioiscono da mesi, con largo anticipo rispetto alla data prevista per l’inaugurazione, ringraziano per questo miracolo italiano. Siccome anche al piacere c’è un limite, seppure a malincuore, si devono augurare che i lavori in corso abbiano il giusto epilogo. Giovanna Forceri carteBollate 13 dossier Evento – Realizzato con l’Accademia di Brera EXPiO, un video per raccontare il carcere C on l’EXPO alle porte, e non solo in senso letterale, anche la seconda casa di reclusione di Milano Bollate si sta attivando per l’evento. Da mesi si è formata una Commissione EXPO col fine di far conoscere ai frequentatori della fiera internazionale tutte le realtà all’interno dell’istituto. La commissione formata da alcuni detenuti, dalla direzione e da due docenti dell’Accademia di Brera, che da anni si attiva con corsi di pittura all’interno del carcere, sta preparando un filmato della durata di tredici minuti circa, con un taglio prevalentemente artistico sulla positività del sistema di rieducazione messo in atto qui dentro che è stato elevato a modello per tutte le istituzioni penitenziarie del nostro Paese. EXPiO, questo è il titolo del filmato, girato anche all’esterno e che si avvale dell’esperienza di professionisti nel campo operativo delle animazioni. Un filmato che sarà presentato in EXPO durante tutto il periodo della fiera. La parte artistica è diretta da Renato Galbusera, docente d’arte di Brera, e quella video da Camillo Russo, docente di architettura, nonché di filmografia, coadiuvati da Beatrice Masi e Isabella Mai. “La speranza ha bisogno dell’aria per sostenere la ragione”, questa è la linea del filmato che non è solo un video che pubblicizza le varie attività, ma farà emergere quegli aspetti legati alla capacità di promuovere la partecipazio- ne sempre più numerosa dei detenuti all’interno dell’istituto. Una formazione culturale diffusa, vista come possibile reintegro e come riscatto delle proprie aspirazioni. Una forma di coinvolgimento che sollecita chi ha sbagliato a evolversi dal comune pregiudizio sociale che delega alla vita carceraria solo l’aspetto punitivo e restrittivo. Sono molti i punti cardine di questa iniziativa. Le proposte sono di effettuare due entrate giornaliere di visitatori, da decidere compatibilmente con la disponibilità del personale di sorveglianza. La visita prevede un percorso guidato che illustri i diversi aspetti delle attività svolte: maneggio, serre e laboratori artigianali e tutte le attività lavorative, con uno spazio adeguatamente attrezzato per la presentazione dei prodotti del carcere e un punto vendita, praticabile dai visitatori con la possibilità di acquistare tali manufatti. Ci sarà un programma di appuntamenti teatrali e musicali dove, oltre alle realtà interne (gruppi musicali e compagnia del Teatro In-stabile), la Fondazione Antonio Carlo Monzino porterà artisti di fama internazionale. Il filmato sarà in visione anche nella Sala delle Merlate al Castello Sforzesco, uno spazio messo a disposizione dalla suddetta fondazione. Si terranno al 1° piano, nel corridoio che porta alle sale colloqui, diverse esposizioni di opere appartenenti alla Collezione Borroni, insieme a opere realizzate dai detenuti delle tre carceri milanesi, in un clima di scambio e arricchimento reciproco. Convegni sulle tematiche della formazione dentro il carcere (scuole, corsi di formazione) e sulla sostenibilità alimentare, tematica fondamentale per i destini della Terra, che il carcere affronta con attenzione. Sul perimetro del muro esterno, fronte EXPO, sarà realizzata un’opera muraria, parte di un progetto più ampio di contaminazione tra il mondo dell’arte e quello carcerario, che sarà eseguita interamente dagli studenti dell’Accademia di Brera insieme con i detenuti. Sarà effettuata la riposizione del lavoro dello Studio Azzurro (presentata alla Biennale di Venezia) e prodotta a Bollate con la partecipazione attiva dei detenuti della Commissione cultura -formata interamente da detenuti- e da Catia Bianchi, educatrice. Durante il periodo della fiera ci saranno alcune manifestazioni sportive di incontri di calcio, rugby e tennis con club esterni. Questa iniziativa non è più in fase embrionale e si sta realizzando in tutta la sua pienezza con la partecipazione attiva di tutti i componenti esterni e interni del maschile e del femminile. Essendo una manifestazione mondiale, tale iniziativa è rilevante per far conoscere una realtà sconosciuta a molti, il carcere è pronto a ricevere centinaia di visitatori. Carlo Bussetti Un lungo dipinto che copre la recinzione L e grandi tematiche di EXPO 2015, il cibo, l'acqua, le energie rinnovabili, la sostenibilità ambientale, ma anche il recupero alla legalità e il reinserimento sociale. Ecco, questo insieme di valori fondano il progetto di collaborazione tra la Seconda Casa di reclusione di Bollate, l'Accademia di Brera e Fabbrica Borroni, centro per la giovane arte italiana, progetto volto alla realizzazione di una grande decorazione pittorica sulla rete di recinzione della Casa di reclusione. L'occasione è, come ricordato, EXPO che sta sorgendo davanti al carcere di Bollate e che per sei mesi dal prossimo maggio catalizzerà l'attenzione del mondo. Il progetto nasce all'interno di una serie di iniziative pensate dalla Commissione Cultura dell'Istituzione, prime tra tutte il filmato EXPiO, e l'installazione di Studio Azzurro. 14 carteBollate Quindi un grande cantiere, che vedrà lavorare insieme street artists, artisti e studenti dell'Accademia di Brera e detenuti, impegnati a pensare prima ed eseguire venticinque grandi segnali visivi che saranno esposti per tutto il periodo di EXPO fino all'ottobre 2015. Le immagini illustrano le prime fasi di lavorazione dell'opera che affiancherà l'ingresso della Casa di reclusione realizzata da un gruppo di studenti dell'Accademia di Brera, del mio corso di pittura. Ecco i loro nomi: Davide Busnelli, Vincenzo Cardona Albini, Cassandra Nissle, Giulia Di Pasquale, Francesca Zaglio, Virginia Dal Magro, Stefano Giavoni, Marta Baraldi, Asia Lopez, Kaye Karen Andal, Tessa Viganò, Guglielmo Zalukar. Renato Galbusera carteBollate 15 dossier L'alimentazione tra sprechi e ristrettezze CIBO 2 - Anche in cella i sapori di casa Mangi come spendi V ista da qui l’Expo sembra un progetto vicino nello spazio (è proprio di fronte al carcere) e lontana nel tempo. Il cantiere si è sviluppato con esasperante lentezza e adesso che i primi scheletri dei capannoni che ospiteranno l’esposizione universale cominciano a prendere forma, sembra impossibile che in pochi mesi si possa fare quello che non si è fatto in anni. Dall’altra parte della strada, per sei mesi, da maggio a ottobre, si parlerà di come nutrire il pianeta. Qui, dietro il muro che recinge il carcere, si cercherà di mostrare come si può nutrire la legalità: i cancelli saranno aperti al pubblico che vorrà visitare il penitenziario, ci sarà la possibilità di vedere e anche di comprare i prodotti fatti dai detenuti, da mesi si lavora all’allestimento di mostre, alla ripresa di video, per raccontare il carcere a chi è curioso di conoscerlo. Ma anche il carcere ha un suo modo per parlare di cibo, che qui dentro è molto di più del semplice nutrimento. C’è il cibo che arriva da casa, che ricorda sapori familiari e che si condivide con i compagni o con i vicini di stanza. C’è il cibo che a turno qualcuno cucina per gli amici, in uno scambio quotidiano di inviti a cena più o meno ricambiati. La cena è un momento di convivialità, di condivisione, di creatività, perché il menù non è mai banale. Cucinare in cella vuol dire aguzzare l’ingegno per inventare utensili che non sono disponibili, a partire dai coltelli. A volte significa trasformare in forno un semplice fornello da campeggio o fabbricare uno sbattitore elettrico con un ventilatore e quattro forchette di plastica. Nel corso di quest’anno abbiamo utilizzato la controcopertina del nostro giornale per la 16 carteBollate rubrica Mai senza, dedicata appunto a questo design della necessità. I visitatori di Expo potranno entrare in carcere, ma gli ospiti involontari del penitenziario continueranno a guardare l’Esposizione universale dalle finestre e a informarsi a distanza dei problemi dell’alimentazione. Le differenze. Le statistiche del 2013 rivelano che 842 milioni di persone - circa una su otto nel mondo - soffrono cronicamente la fame e non dispongono di cibo sufficiente per condurre una vita attiva. Assicurare a tutta l’umanità un’alimentazione buona, sana, sufficiente e sostenibile, come chiede Expo 2015, è una sfida gigantesca, quasi un’utopia. Le differenze esistono anche in Paesi come il nostro, dove il cibo non manca, ma cosa si mangia? Basta guardare con attenzione cosa avviene in un supermercato per cogliere alcune differenze sostanziali nel modo di alimentarsi. Il biologico è un lusso per ricchi o la scelta etica di chi lo ha adottato come stile di vita, mentre i più poveri scelgono carne di polli di allevamento, hamburger dal contenuto incerto, cibi prefabbricati pieni di additivi chimici. A volte non possono permettersi neppure questo: nelle mense di beneficenza un tempo si presentavano solo senzatetto e immigrati, adesso è regolare la presenza di italiani disoccupati, entrati a far parte della categoria dei nuovi poveri. In carcere si notano le stesse differenze: chi ha un lavoro o il sostegno della famiglia, può fare la spesa e cucinarsi in cella quasi tutto. Chi non ha quattrini deve accontentarsi del cibo che arriva dalle cucine del carcere, magari tentando di migliorarlo con qualche rielaborazione. Insomma, oggi più che mai il cibo è una questione di classe: mangi quello che il tuo por tafog l io ti consente. Oppure è una scelta culturale. Alla ricerca del valore della convivialità Gli sprechi. Secondo la FAO, un terzo circa del cibo prodotto nel mondo - qualcosa come un miliardo e 300 milioni di tonnellate l’anno - non arriva nel piatto dei suoi abitanti ma diventa spazzatura. Nei paesi più poveri viene danneggiato o si deteriora per mancanza di igiene o di una catena del freddo, ma il singolo consumatore butta via solo 6-11 chili di cibo all’anno. Nelle case dei paesi ricchi, si buttano 222 milioni di tonnellate di cibo, una quantità pari quasi alla produzione totale netta di cibo nell’Africa sub sahariana, dove una persona su quattro soffre la fame. Nei paesi più ricchi le perdite maggiori sono nella vendita e nel consumo, per non parlare dei prodotti agricoli destinati al macero o non raccolti per problemi di mercato. Ad esempio si butta via il cibo perché la ristorazione non può pianificare perfettamente i consumi e perché le eccedenze, anche se intatte, non possono essere in nessun modo riciclate, cosa che avviene anche nelle cucine del carcere. Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc, che gestisce un catering e le mense di alcuni reparti, spiega: “I pasti preparati nelle nostre cucine non sono consumati completamente, con evidente spreco. Si potrebbero allora donare a organismi come la Caritas ma il problema da questo punto di vista sono le disposizioni igienico-sanitarie: il control point, ovvero un insieme di procedure, volto a prevenire i pericoli di contaminazione alimentare. Uno dei parametri è il controllo della temperatura, che non deve mai scendere al di sotto dei 65° centigradi per evitare il pericolo di contaminazione”. In sostanza, una minestra riscaldata può essere a rischio, perché tra i 30 e i 40 gradi i microorganismi si moltiplicano rapidamente, mentre il pane potrebbe non essere sprecato. “Di questo prodotto ne avanza tanto - prosegue Polleri - anche se non si sa mai quanto con certezza, poiché il monitoraggio viene fatto a campione su base mensile e la percentuale varia da mese a mese”. Adesso ha preso avvio un progetto sperimentale proprio sul pane: i detenuti che non consumano il filone possono consegnarlo al lavorante entro le 13,00 di ogni giorno, il pane viene ritirato entro le 14,30 dal banco alimentare da cui verrà distribuito (si spera) ai bisognosi nella collettività. Giuliano Voci, Susanna Ripamonti U n aspetto molto importante della giornata di un detenuto è legato ai modi che ognuno mette in atto per preparare i pasti giornalieri e per alimentarsi in generale. Non esiste un principio fisso, ognuno si regola tenendo conto di una serie di variabili che vanno dalla disponibilità degli alimenti, dal tempo che si vuole dedicare alla cucina, e dall’importanza che si dà alla soddisfazione di questo bisogno primario. Normalmente i detenuti tendono a preparare in cella soltanto la cena. Per quanto riguarda il pranzo, la maggior parte preferisce consumare un semplice panino. I motivi di tale scelta sono di svariato genere, come ad esempio il tempo a disposizione, che il più delle volte è breve, specie per chi svolge una qualche attività, o perché il carrello del vitto passa a un orario insolito, alle undici del mattino, quando non si ha ancora fame. Bisogna considerare che all’interno delle celle i detenuti non hanno a disposizione una cucina come a casa, ma un’attrezzatura molto limitata, tutto è preparato su dei fornelli da campeggio, spesso la fantasia e l’ingegno riescono a far superare le difficoltà dovute alla mancanza degli utensili che in una normale situazione sono alla portata di ognuno. Tutto questo non impedisce che il risultato sia il più delle volte eccellente, ma in ogni caso non paragonabile a un pasto preparato dai familiari. In carcere tutto ciò che è commestibile ed è portato delle famiglie dei detenuti, ha un valore speciale, per chi lo riceve, che va oltre il semplice aspetto nutritivo, perché il sapore, gli odori che promanano dalle pietanze, porta con sé anche gli affetti più cari e nello stesso tempo ricordi e immagini di vita familiare che accompagnano le giornate caricandole di una grande nostalgia. Alcuni, per svariati motivi, preferiscono consumare i pasti in solitudine privandosi del piacere di stare insieme agli altri, ma la maggior parte dei detenuti consuma il pasto serale in compagnia ricreando, per poco tempo, un po’ di atmosfera e un po’ di intimità che solo nella propria famiglia si può trovare. Anche le persone più problematiche, dal punto di vista della propria esistenza, riconoscono l’importanza di sedersi a tavola insieme agli altri e gustare un cibo che va al di là dell’aspetto nutritivo che di federica neeff CIBO 1 - In carcere tutto ciò che è commestibile ed è portato delle famiglie dei detenuti, ha un valore speciale, per chi lo riceve, che va oltre il semplice aspetto nutritivo, perché il sapore, porta con sé anche gli affetti più cari. volta in volta diventa linfa vitale ed energia per affrontare con coraggio la carcerazione. Ci sono dei detenuti che già di mattina presto, verso le otto, iniziano a tritare tagliuzzare a fare il soffritto e a preparare il sugo che poi verrà consumato la sera. Gli odori che si sprigionano invadono il cellone e oltre a ricordare i profumi di un passato lontano, invogliano nel presente al buonumore. La tavola può essere anche un asse di legno con i piatti di carta non è importante, a volte basta un pezzo di pane con un po’ d’olio e l’origano a fare la differenza, oppure il vapore che si alza nel lavandino quando si scola la pasta, altre volte anco- ra le parole di preoccupazione perché mentre tutto è pronto in tavola manca ancora qualcuno. Un altro aspetto della preparazione dei pasti in cella riguarda la disponibilità e la solidarietà verso gli altri, nel senso che quando a qualcuno manca la cipolla o un po’ di olio è facile reperirlo, se la richiesta è fatta da una persona che non lo fa abitualmente. Attraverso la preparazione dei pasti avviene anche un intenso scambio di suggerimenti e di ricette, un intreccio di culture culinarie diverse dovuto alla presenza degli stranieri e anche alla presenza di detenuti provenienti da diverse zone della stessa Italia. Anche il piatto più semplice come la pasta aglio olio e peperoncino, che con molta probabilità è quello che si prepara più spesso, ha mille varianti rispetto alla ricetta originale, tanti aggiungono un tocco personale, c’è chi aggiunge del pan grattato, chi le acciughe, chi il prezzemolo, al fine di rendere il tutto più gustoso. Un capitolo speciale meriterebbero i dolci, che vengono preparati in mille modi, e per tutti i gusti, nonostante le difficoltà che si presentano e alle quali si è già accennato. Il pasto serale, diventa quindi più importante, un momento in cui ritrovarsi e condividere, oltre alla cena, del tempo con gli altri compagni di viaggio, perché la mangiata in galera, è principalmente convivialità . A ngelo Aquino, Elio Puddu carteBollate 17 dossier alimentazione - Mangiare troppa carne è nocivo per l'uomo e il pianeta Vegetariano è bello “Se i macelli avessero pareti di vetro, tutti sarebbero vegetariani”, Paul Mc Cartney “Gli animali provano gioia e dolore, felicità e infelicità quanto l’uomo” Charles Darwin O tto pecore, otto mucche, venticinque conigli, trentatre maiali e settecentoventi galline, questo è il numero di animali che un europeo in media consuma nel corso della sua vita e per nutrire questi animali vengono importate soia e cereali da paesi come il Brasile e l’Argentina, in cui la popolazione lotta contro la povertà. Il nostro Pianeta potrebbe nutrire 10 miliardi di persone se non mangiassero carne bovina come gli indiani, 5 milioni se seguissero la dieta italiana e solo 2,5 milioni con il regime alimentare degli Stati Uniti. La metà dei cereali che produciamo serve per alimentare gli animali che mangiamo. La richiesta di carne continua ad aumentare in modo rapido, attualmente a livello mondiale ne vengono consumate 250 CASANZA – milioni di tonnellate l’anno e secondo le previsioni della Fao (agenzia dell’Onu che si occupa di agricoltura e cibo) nel 2050 questa cifra potrebbe raddoppiare. Le conseguenze di questi consumi alimentari sono drammatiche per il clima, per gli animali e per gli uomini e per come si ripercuotono sull’agricoltura, che è alla base dell’economia e della vita. Secondo gli studi della Fao il ciclo completo dell’agricoltura oggi incide per il 30% sul riscaldamento del pianeta. Il settore zootecnico produce gas serra, dovuti in gran parte al letame, 296 volte più dannosi del CO2. Gli abitanti di Europa e Stati Uniti mangiano ogni anno in media a testa, circa 100 chilogrammi di carne. Cioè 800 milioni di persone mangiano 3 etti al giorno di carne fra insaccati, sughi, bistecche. La carne è costituita dal 10% di grassi, circa il 20% di proteine, il 70% di acqua, contiene vitamine A, B, C, D e K, ferro, potassio e sodio. La carne in pratica, è un cadavere e proviene, indubbiamente, da esseri viventi. La popolazione mondiale è stimata sui 6 miliardi e mezzo e si calcola che a breve si arriverà a 10 miliardi. Di conseguen- za anche la nostra alimentazione subirà un incremento proporzionale che potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza ambientale del nostro pianeta. Dagli alimenti proviene l’80% delle emissioni totali dell’agricoltura, il 18% di tutte le emissioni del gas serra. Un chilogrammo di carne equivale alla produzione di 36,4 chilogrammi di CO2, ovvero quello che produce un automobilista che percorre 250 chilometri e richiede un consumo di energia sufficiente per tenere accesa una lampadina da 100 watt per 20 giorni. L’allevamento consuma il 70% di tutte le terre agricole, il 30% di tutta la superficie terrestre. Il 70% della foresta amazzonica è diventato pascolo o coltivazione per l’alimentazione animale. L’acqua che occorre per produrre 1 chilogrammo di mais è 900 litri, di riso 300 litri, di pollo 3900 litri, di maiale 4900 litri, di manzo circa 15500 litri. Un hamburger di 150 grammi, prima di arrivare sulla nostra tavola, ha consumato 2500 litri di acqua. Se consideriamo l’intero ciclo è una quantità enorme. Sono valori tratti da una relazione di Rajendra Pachauri, premio Nobel per la pace, indiano, economista, scienziato e presidente dell’Ipc (agenzia dell’Onu che si occupa di valutare tutti i dati che riguardano i cambiamenti climatici). Stando alle previsioni Fao, entro il 2015 si avrà un raddoppio del consumo di carne e quindi aumenteranno i proble- mi dovuti all’emissione di gas serra, di approvvigionamento di acqua e di biodiversità. Anche le malattie aumentano in proporzione all’aumento del consumo di carne. L’opinione che la carne sia necessaria per la vita umana è stata ormai da tempo confutata scientificamente. Nel 2010 sono stati pubblicati i risultati di uno studio svedese che ha fornito prove del fatto che il rischio di ictus nelle donne è collegato al consumo di carne. Il World Cancer Research Fund, una rete internazionale di esperti che da anni si impegna a fare periodicamente il punto della situazione, sottolinea l’importanza di non eccedere nel consumo di carne perché il collegamento tra tumore colon-rettale e consumo di carne rossa passa da “probabile”, così si pensava negli anni scorsi, a “convincente”. Infatti è stato riscontrato che esiste una differenza del 30% nell’incidenza di tale tumore nella popolazione tra i grandi mangiatori di carni rosse e insaccati rispetto a chi non ne fa uso. Se si dovesse visitare un allevamento intensivo di animali si rimarrebbe inorriditi dalle barbarie e crudeltà con cui vengono tenuti e trattati e il disgusto e la pena toglierebbero la voglia di mangiare le loro carni. Gli animali sono considerati come prodotti e non come esseri viventi. Albert Einstein, il grande fisico tedesco, sentenziò: “Niente aumenterà le possibilità di sopravvivenza della vita sulla terra quanto l’evoluzione verso un’alimentazione vegetariana.” Paolo Sorrentino Per quale motivo si mangia o meno quel che passa il convento Carrello sì, carrello no questo è il problema U na cosa accomuna tutte le carceri: ogni giorno in corridoio passa il carrello del vitto, più comunemente chiamato dai detenuti la casanza o carrello. Senza entrare nel merito della qualità del cibo, che come si può immaginare cambia, e anche tanto, da carcere a carcere, ci sono diversi tipi di approccio a questo cibo “istituzionale”. Prima di affrontare l’argomento è meglio premettere che l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo dove ai detenuti è consentito cucinare all’interno della cella, col mezzo di rudimentali fornelli a gas da campeggio. Questo ovviamente pone tut18 carteBollate ti di fronte a un dilemma che altrimenti non avrebbero: mangiare o meno quanto gentilmente offerto dall’amministrazione penitenziaria. C’è chi dice sì, “perché loro mi hanno arrestato e loro mi devono mantenere”. Sì, perché “in fondo non si mangia poi tanto male”. Sì, perché “non ho altri mezzi per potermi sfamare”. Sì, perché “oggi passa il pollo con le patate”. Sì, perché “mi servono alcuni ingredienti per cucinare il mio piatto personale”. Sì, perché “ho il vitto latte” (il vitto latte consiste in latte, formaggi e yogurt, ed è autorizzabile dal medico dietro richiesta motivata). Sì, perché … Insomma alcuni buoni motivi ci sono per dare almeno uno sguardo a cosa passa nel tanto vituperato carrello della casanza. E, in effetti, il carrello difficilmente arriva pieno alle ultime celle, in ogni carcere c’è sempre qualcuno che ne approfitta, (escludendo alcune case circondariali dove la cosa risulta impraticabile) e questo contribuisce a evitare che ci sia uno spreco eccessivo, considerando che al momento le cucine non sono ancora organizzate per un riutilizzo delle rimanenze a scopo sociale. Ora, se parliamo del carcere che ci ospi- ta, Bollate, dobbiamo fare un discorso a parte. Sarà che le cucine sono organizzate per preparare un numero adeguato di pasti, sarà anche che alle volte ci sono dei bravi cuochi, si aggiunga che gli ingredienti previsti arrivano nella quantità prestabilita (non è scontato in Italia) ed ecco che il carrello di Bollate a volte ti fa sentire a casa. Ma anche in questo caso Bollate rimane un’eccezione, tanto che nel panorama italiano i “no perché” sono sicuramente più numerosi e meglio argomentabili dei “sì perché”. No, perché “dallo Stato non accetto nulla”. No, perché “è immangiabile”. No, perché “ho visto le cucine da vicino”. No, perché “gli ingredienti sono pochi e di pessima qualità”. No, perché “i cuochi non si lavano le mani”. No, perché “nessuno lava le cucine dal 1968”. No, perché “non voglio ammalarmi”. No, perché “se cucino in cella non devo fare il turno di pulizie”. No, perché “il cuoco in cella è più bravo”. No, perché “manco li cani”. No, perché “con il cuoco ho litigato”. No, perché… Come si può notare, ci possono essere una moltitudine di argomentazioni, più o meno valide, per il diniego di quanto offerto dal carrello del vitto, anche se, forse, il più plausibile, è quello del sentirsi liberi, almeno in un piccolo contesto quotidiano, di poter scegliere. Sembra cosa da poco per chi legge da fuori queste mura, ma non lo è, per il semplice fatto che in un ambiente come il carcere, dove per forza di cose si è costretti ad adeguarsi a una serie di regole e di comportamenti che rendono la vita una scatola a scomparti, il cibo è una delle poche valvole di sfogo, e prepararsi la cena per molti diventa una missione, un passatempo, un fine a cui dedicare l’intera giornata e un modo per sentirsi almeno a tavola in un luogo meno regolamentato. Matteo Chigorno carteBollate 19 Dall'interno CRONACA – I detenuti chiedono chiarimenti alla direzione Morto in carcere a Bollate U n detenuto del Carcere di Bollate, “fiore all’occhiello delle carceri Italiane”, muore nella sua cella. Si riunisce la Commissione dei detenuti, formata interamente da persone riconosciute dalla direzione e chiede la presenza di Massimo Parisi, direttore del carcere, per cercare di approfondire se il personale medico e paramedico della struttura può aver sottovalutato la gravità del problema di un recluso. Si è infatti presentato un uomo che accusava sintomi di infarto, che secondo alcuni detenuti sembravano piuttosto evidenti: fitta al cuore e il classico dolore al braccio sinistro. È stato sottolineato dalla Commissione il pronto intervento della magistratura, che ha sequestrato la macchina che ha fatto l’elettrocardiogramma, dal quale, dopo una prima valutazione, non sarebbero emerse anomalie. Verrà comunque accertato se la macchina era malfunzionante o meno. Quello che i detenuti chiedono è che sia fatta chiarezza, che vengano accertate le responsabilità e soprattutto, che in futuro non si ripetano situazioni simili. Sergio Zea era un uomo all’apparenza sano e praticava il tennis a livello amatoriale, alle 7,30 del mattino di mercoledì 23 ottobre si sente mancare l’aria, ha un formicolio al braccio sinistro e dolori lancinanti al petto, decide quindi di farsi accompagnare nel reparto adibito a infermeria e si trova davanti dei medici, che, non si sa ancora bene dopo quali accertamenti, alle 8,30 lo rimandano in cella, dopo avergli dato due tachipirine. Gli agenti di polizia penitenziaria dicono che le tachipirine non sarebbero mai state ingerite da Zea. Dopo la valutazione fatta dai medici, appena tornato in reparto, Zea si accascia nella sua cella. Non servirà a nulla la tempestività degli agenti presenti che immediatamente l’hanno messo a sedere e fatto riaccompagnare al pronto soccorso. Le versioni sono contrastanti sia da parte dei detenuti che hanno assistito alla tragedia, sia da parte dei medici. Quel che è certo e che Zea, prima di essere visitato dal medico di turno, ha dovuto aspettare parecchio tempo seduto su una panca adiacente alla sala di emergenza. Il dottore ha dichiarato che il cuore ha ceduto e che difficilmente quest’anomalia poteva essere riscontrata con l’elettrocardiogramma. Un detenuto dichiara che Sergio lamentava un formicolio al braccio sinistro, dolore al petto e aveva un colorito palesemente cianotico, chiaro sintomo che indica la presenza di una situazione cardiologica di sofferenza con alta probabilità di infarto, che infatti ha avuto dopo pochi minuti. Le persone ristrette non possono decidere da chi essere visitate, né contestare le scelte del personale medico presente negli istituti di detenzione, quindi si affidano ai medici presenti. In questo caso, In questo caso, Sergio si è affidato al medico che,lo ha rimandato al suo reparto dopo averlo sottoposto a elettrocardiogramma, il cui risultato è stato anche refertato dal cardiologo (e non solo dal medico generico di guardia). Malgrado ciò il finale è stato tragico. I reclusi sperano che quest’ultimo caso non faccia parte della solita statistica, come la maggior parte delle morti che avvengono nelle carceri italiane delle quali molto spesso non si viene a conoscenza. La vita è un bene prezioso e anche nelle carceri va salvaguardata. Maurizio Gentile e Teresa Barboni La testimonianza del compagno di cella di Sergio U na morte che forse si poteva evitare. È quanto si ricava dalla testimonianza dal compagno di cella di Sergio Zea, Alfredo, che ha raccontato minuziosamente quello che è successo quella tragica mattina. Alle 8,30, rientrando in cella, Alfredo trova Sergio disteso sul letto della loro stanza - la cella si trova al quarto piano - che si lamenta dei forti dolori al petto e al braccio sinistro. È in evidente difficoltà respiratoria tanto che mostra parte del viso e del collo quasi cianotici. Alfredo viene a sapere da Sergio che era già stato in infermeria dove aveva manifestato i propri dolori. Gli era stato fatto un elecardiogramma dall’esito negativo, dato due tachipirine e rimandato in sezione. Alfredo allarmato dallo stato del compagno corre subito in “rotonda” sollecitando l’intervento dell’infermeria, visibilmente preoccupato. Due assistenti penitenziari con Alfredo salgono subito da Sergio allarmati e lo trovano su una sedia semisvenuto. Subito gli praticano un massaggio cardiaco, ma non riescono ad aprirgli la bocca. Intanto dall’infermeria non si vede ancora nessuno e i minuti passano, gli agenti e Alfredo decidono di 20 carteBollate portarlo direttamente sulla sedia in infermeria. Scese le scale arriva l’infermiere con la sedia a rotelle dove lo trasbordano immediatamente e lo portano in infermeria apparentemente incosciente. Alfredo ha reso a più riprese i fatti confermando, specialmente al Direttore di istituto, che Sergio era stato una prima volta in infermeria quella mattina, con evidenti sintomi d’infarto in corso. La domanda che si è posto, ma che ci facciamo un po' tutti, è: come mai non è stato trattenuto per controlli più specifici e perché i medici hanno deciso di rimandarlo in cella. Il Direttore ha fatto presente che la faccenda è in mano al Magistrato di sorveglianza e che, se risulteranno inadempienze, saranno presi seri provvedimenti. In compenso, dalla testimonianza di Alfredo appare evidente il pronto intervento degli agenti che hanno soccorso velocemente Sergio. Parlando col fratello di Sergio si viene a sapere che aveva già avuto un infarto e che il padre era morto per la stessa causa. La sua cartella clinica non evidenziava questi dati? Su tutto ciò dirà l'indagine in corso. Paolo Sorrentino AGENTi DI RETE – Un’attività anche al di fuori del carcere Un sostegno per ricominciare A bbiamo intervistato due agenti di rete che svolgono una mansione all’interno dell’istituto di Bollate, che permette ai detenuti in procinto di uscire di cercare un lavoro e un luogo dove abitare. Elisa Salvaderi e Alberto Portalupi spiegano la funzione e le tecniche del lavoro di questi operatori. Qual è la funzione dell’agente di rete? L’agente di rete favorisce l’inserimento sul territorio dei detenuti in dimissione da Bollate. Cerchiamo di fare in modo che la persona che esce sia pronta e sostenuta dal territorio nel proprio passaggio tra il carcere e la libertà. Contattiamo e incontriamo i servizi presenti sul territorio (servizi sociali e progetti disponibili) in modo che coloro che seguiamo abbiano degli strumenti in più per poter compiere una scelta di vita diversa rispetto a quella precedente. Noi ci occupiamo dei detenuti che, tramite richiesta diretta o segnalati dall’educatore di reparto, ci contattano per trovare un alloggio, una risorsa lavorativa o anche per una segnalazione ai servizi sociali, di modo che quest’ultimi sappiano che il detenuto sta per uscire e ha bisogno di aiuto e di un supporto specifico. Il nostro ruolo si svolge all’interno del carcere e all’esterno, con l’obiettivo di creare delle reti di sostegno alle persone dimittenti. Da quanto esistono gli agenti di rete? La funzione educativa degli agenti di rete esiste dal 2006 come intervento ideato e finanziato da Regione Lombardia per tutte le carceri regionali. Negli anni hanno avuto un’evoluzione, ad oggi sono finanziati da bando L. 8/2005 Regione Lombardia/ASL Milano 1. L’agente di rete proviene dal privato sociale. Noi facciamo parte della cooperativa sociale A&I. Quanti sono gli agenti di rete in questo istituto? A Bollate siamo cinque, suddivisi per reparti e per obiettivi. Una parte è dedicata alla popolazione detenuta straniera per favorire percorsi d’inclusione per questa specifica fascia di persone, e una parte a coloro che sono prossimi all’uscita, i dimittendi. Abbiamo attivato negli anni anche delle attività di gruppo (“gruppo migranti” e “gruppo dimittendi”) per favorire il confronto e la partecipazione a queste tematiche. Parte del nostro tempo è dedicato anche a interventi di sensibilizzazione; si incontrano, in col- laborazione con le scuole del territorio, gruppi di studenti, per far sì che gli stessi ragazzi, che non hanno conoscenza del carcere, possano confrontarsi con questa realtà. Sta funzionando questa attività di sostegno e ci sono molti utenti? Le prese in carico sono numerose e questo richiede, oltre ad un lavoro di sostegno e analisi dei bisogni realizzato con la persona e in collaborazione con l’Area Trattamentale, un’azione sistematica di ricerca sul territorio per individuare le risposte adeguate. Siamo soddisfatti del lavoro che stiamo realizzando da anni per il percorso di reinserimento che stanno facendo i detenuti con i quali abbiamo costruito un progetto e a cui abbiamo proposto delle risorse esterne. Per gli alloggi come fate? Per gli alloggi ci appoggiamo alle associazioni territoriali che si occupano di housing e hanno disponibilità di accoglienza per le persone che provengono dal circuito penale. Capita anche di con- tattare pensionati scollegati dal circuito classico del “sociale” e che in determinate situazioni hanno accolto ex detenuti che, usciti a fine pena, potevano garantirsi un minimo di sostegno economico e dunque offrire un contributo. Per il problema lavoro? In genere i percorsi sono più strutturati: si collabora con i servizi sociali dei Comuni di residenza delle persone seguite, con i SIL territoriali (Servizi di Inserimento Lavorativo) oppure, per i residenti a Milano, ci si appoggia al CELAV (Centro di Mediazione al Lavoro del Comune di Milano) che si occupa proprio di percorsi di accompagnamento all’inserimento lavorativo anche attraverso l’attivazione di tirocini e borse lavoro.per i residenti a Milano, ci si appoggia al Celav (centro di mediazione al lavoro del comune di Milano) che si occupa proprio di borse lavoro per i detenuti con la finalità e la speranza che, al termine del finanziamento lavorativo, ci sia l’assunzione. Carlo Bussetti OCCUPAZIONE – Inaugurato il Raee, nell’istituto di Bollate Trenta nuovi posti di lavoro S aranno almeno trenta i detenuti prossimamente impegnati presso lo stabilimento per lo smaltimento e il recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) che sorgerà in un capannone industriale tra le mura della casa di reclusione di Bollate. Il numero dei posti di lavoro è destinato a salire a circa ottanta quando la struttura opererà a pieno regime. La cerimonia del taglio del nastro per la “posa della prima pietra”, promossa dal provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Aldo Fabozzi, si è tenuta il 5 dicembre scorso, presso il nostro istituto, alla presenza di rappresentanti delle istituzioni, e del numero due del dap, Luigi Pagano. Questo importante progetto è il risultato finale di un lungo e complesso iter avviato nel 2009, che ha interessato in maniera trasversale diverse componenti istituzionali che hanno collaborato per arrivare alla stipula di un protocollo di intesa con la Regione Lombardia, l’Amsa, il provveditorato alle opere pubbliche. I detenuti che parteciperanno al progetto saranno impiegati nel processo produttivo al termine di un periodo di formazione. L’impianto industriale sarà destinato al trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici attraverso la raccolta, il disassemblaggio dei prodotti e il riciclaggio delle loro componenti, nel pieno rispetto delle direttive comunitarie in materia. Gli impianti di riscaldamento e illuminazione saranno predisposti secondo innovativi criteri progettuali in tema di risparmio energetico. Il progetto costituisce un ulteriore passo in avanti per cambiare il ruolo degli istituti penitenziari, che non devono essere un onere per il territorio ma una risorsa utile per la collettività. È la conferma della collocazione dell’istituto penitenziario di Bollate come casa di reclusione a trattamento avanzato, nell’ambito del circuito regionale lombardo, avanzato rispetto a iniziative concrete, dirette alla piena realizzazione del principio del reinserimento sociale delle persone private della libertà personale. La Redazione carteBollate 21 Dall'interno STUDIO – Si è laureato il nostro compagno Gianluca Falduto formazione – Insegnare tecnologie informatiche in carcere Bollate vera fucina di studio a livello universitario La sfida vincente di Cisco I I l carcere di Bollate si conferma istituto di assoluta eccellenza, le scorse settimane si è laureato il nostro compagno Gianluca, che presso l’Università Iulm ha discusso la tesi in Marketing e Comunicazione. L’argomento della tesi è stato un progetto organizzativo per il carcere di Bollate, finalizzato a coinvolgere maggiormente i detenuti nel percorso carcerario, affinché il concetto di revisione critica non rimanga circoscritto a un’arida formulazione teorica, ma diventi un progetto concreto in cui il detenuto, portato a conoscenza dei suoi diritti e dei suoi doveri, affronti la carcerazione con la consapevolezza che è lui l’artefice del suo percorso, non un “essere passivo da trattare” come se fosse una tovaglia macchiata di sugo da lavare con l’ultimo SCUOLA ALBERGHIERA – sbiancante, ma una persona attiva che decide per il suo futuro. Per un detenuto sapere quali sono le concrete opportunità, quando e come potrà accedere al lavoro esterno, se e quando potrà andare in permesso, sono elementi utili, perché possono aiutarlo a programmare la sua carcerazione: un conto è passare il tempo a guardare cartoni animati, telenovele varie e videogiochi, un altro è essere un protagonista che agisce per il proprio futuro in maniera costruttiva, con lo steso impegno e partecipazione che avrebbe se fosse fuori. Ci auguriamo che le idee, le proposte, le progettualità che Gianluca ha descritto e che ha portato a conoscenza delle direzione, possano essere utili a tutti noi, a partire dallo sportello lavoro che è stato pensato per prendere in carico i detenuti pronti per l’articolo 21 e avviarli verso il tanto desiderato lavoro, aiutandoli nella ricerca di questo “oggetto” ormai quasi estinto. Questo progetto ha aiutato Gianluca fin da subito, visto che è uscito tre mesi fa, in affidamento: in pratica ha effettuato tutto il percorso di studi in carcere, visto che dopo la sua uscita ha sostenuto l’ultimo esame e scritto le pagine finali della tesi.A buon diritto possiamo dire che la sua laurea è nata in quel laboratorio di idee che è il 4° Reparto, dove negli scorsi anni Gianluca ha avuto il piacere di pernottare. Speriamo a questo punto che le sue idee e progetti si concretizzino, e nel frattempo gli facciamo i nostri complimenti per la sua laurea e i migliori auguri. N. C. Un corso che offre grandi opportunità lavorative D a tre anni nella casa di reclusione di Bollate è nato il progetto della scuola alberghiera, istituto professionale di Stato Paolo Frisi, fortemente voluto dalla direzione e da Silvia Polleri, titolare dell’Abc. Una vera e propria scuola, della durata di cinque anni, con tanto di laboratorio di cucina per la pratica. Attualmente ci sono solo le prime tre classi in cui si studiano tutte le materie: italiano, storia, matematica, inglese, francese, alimentazione, biologia, accoglienza, chimica, laboratorio cucina. All’inizio la maggior parte dei detenuti pensava che alla scuola alberghiera si imparasse solo a cucinare e solo dopo aver fatto i colloqui di selezione (perché ci vogliono una serie di requisiti per poter essere inserito) hanno appreso che si impara a cucinare, ma oltre a questo insegnamento bisogna apprendere tante altre materie, i primi due anni si fanno tutte le materie, il terzo anno devi scegliere una direzione: sala o cucina. Quando c’è il giorno di laboratorio cucina e sala, la classe si divide in due gruppi, il primo si occupa della cucina (preparazione dei cibi e impiattamento) mentre il secondo gruppo si occupa della sala (allestire i tavoli e servire i piatti 22 carteBollate e bibite). Dopo di che ci si siede tutti al tavolo a mangiare quello che si e preparato e alla fine tutti in cucina per lavare i piatti e rimettere in ordine. Tutti noi, abbiamo provato una sensazione strana a mangiare con posate di ferro e a bere in bicchieri di vetro, dopo anni di usa e getta o plastica dura. Una cosa molto bella è che quest’anno come l’anno scorso c’è stato un incontro con gli alunni della scuola serale, che sono entrati qui in carcere. Dopo aver visitato l’istituto, ci siamo ritrovati nell’aula presso il 3° reparto dove si svolgono le lezioni e abbiamo avuto un piacevole confronto, parlando dei progetti che si svolgono qui a Bollate e di un progetto in particolare che è stato presentato quest’anno: organizzare tre o quattro cene che si svolgeranno sempre al 3° reparto per gente esterna. Il prezzo è ancora da stabilire e si è deciso che tutto il ricavato degli eventi verrà devoluto a un ente ancora da decidere, sicuramente per aiutare bambini. Questa è una cosa bellissima sia per la direzione che per la scuola, ma soprattutto per noi detenuti che ci possiamo rendere utili per aiutare il prossimo. Con i professori si è instaurato da subito diego pirola Diventare chef in carcere un ottimo rapporto, sono entrati in carcere senza nessun tipo di pregiudizi o chi li aveva li ha superati dopo due o tre lezioni. Ci trattano proprio come studenti, per loro non c’è alcuna differenza tra gli alunni che hanno al di fuori di queste mura e noi detenuti. Sicuramente nessun insegnante al momento di studiare per diventarlo, ha immaginato che sarebbe venuto in un carcere a svolgere la sua professione. Ma a sentire loro sono molto entusiasti e per loro è anche una sorta di sfida con loro stessi. Un’altra cosa molto interessante è che chi non ha la possibilità di andare avanti con gli studi per motivi di lavoro, può frequentare la scuola alla sera, uscendo all’esterno usufruendo dell’articolo 21. Un consiglio a chi si è iscritto, e per un motivo o per un altro, non sta più frequentando la scuola: continuate a venire perché niente è perso e c’è la possibilità di recuperare, con l’aiuto dei compagni e dei professori che sono molto disponibili. Gianfranco Agnifili l mio augurio più grande per il 2015 è potervi dire che la crisi è finita, lo voglio credere fortemente, e poi fra poco aprirà l’Expo. Noi qui dentro abbiamo una posizione privilegiata visto che i suoi padiglioni confinano con le grandi mura del penitenziario e da anni ne sentiamo i battiti le vibrazioni e soprattutto la polvere e i rumori incessanti… è come sentire un mostro impazzito in catene! Diciamo che per ora è solo una grossa scocciatura: strade che vengono chiuse, riaperte, deviate, …. e poi sempre rumori e polvere! Questo ritmo arriva sino alle aule Cisco dove i lavori sono anche incessanti: ad oggi risultano iscritti 35 studenti, nonostante le attrezzature obsolete che sembra risalgano al tempo di “wilmaaaa dammi la clava”, connettività insufficiente, e non ultima, quella sensazione di soffocamento che ti da questa fortezza di ferro e cemento. Ma non ci fermiamo e da pochi giorni una nuova classe di 12 studenti ha iniziato il percorso formativo: sono tutti adulti, hanno dei grossi debiti con la società ma sono molto motivati e hanno gli occhi pieni di speranza… forse grazie anche alle storie e alle esperienze che sentono raccontare da chi ha terminato il percorso formativo e ha trovato lavoro nel settore Ict. Mi piace raccontarvi che tra il 2013 2014 tre detenuti hanno sostenuto e superato l’esame di certificazione Cisco Ccna; in seguito due di loro hanno frequentato a loro spese il corso di network security per poi sostenere e superare la certificazione CCNA security, con voti altissimi. Grazie a questo impegno e soprattutto alla passione nata per la tecnologia, oggi hanno una nuova visione del futuro e la consapevolezza di essere dei tecnici molto preparati, sicuri di loro. Vorrei però ritornare a quella sensazione di soffocamento, per raccontarvi un piccolo episodio capitato ad Abdel che, rinchiuso nella fortezza, ha dovuto attendere per sei mesi il permesso che non arrivava mai, permesso per potersi recare a sostenere gli esami… beh, sfido chiunque a preparare un esame di quel calibro e doverlo rimandare per mesi e mesi senza mai smettere di studiare, ripassare e poi ancora… Ma alla fine, quando i permessi sono arrivati, in poco tempo ha completato Ogni tanto ripenso alle riunioni fatte qui dentro nei primi anni 2000, quando parlavo con grande entusiasmo di voler portare questi uomini a diventare esperti di sicurezza informatica… tutti mi prendevano in giro dandomi del matto… ma oggi dopo tanti anni il grande sogno si è avverato! E, dato che non ci ringrazia nessuno, ci diamo da soli una pacca sulla spalla e avanti sempre! le due certificazioni con punteggi di 1000/1000, Non male i ragazzi, vero? Ogni tanto ripenso alle riunioni fatte qui dentro nei primi anni 2000, quando parlavo con grande entusiasmo di voler portare questi uomini a diventare esperti di sicurezza informatica… tutti mi prendevano in giro dandomi del matto… ma oggi dopo tanti anni il grande sogno si è avverato! E, dato che non ci ringrazia nessuno, ci diamo da soli una pacca sulla spalla e avanti sempre! Il Lavoro: nel mese di ottobre la Onlus ha presentato il preventivo per la gestione informatica di una società Cooperativa che ha molte sedi in Lombardia riponendo anche su questo cliente molte speranze: finalmente abbiamo chiuso l’accordo e dato lavoro ad un altro detenuto. A dicembre, grazie a degli incontri con Cisco, e soprattutto grazie a Francesco Benvenuto di Cisco, abbiamo potuto partecipare a due gare e presentare i nostri preventivi: uno a una multinazionale, riguar- da l’installazione di nuovi apparati di security, l’altro lo abbiamo presentato a un grosso ente in alta Brianza dove ci chiedono di verificare, riprogettare e implementare la rete cablata, la rete WiFi, e la security. Le due aziende, dopo vari colloqui e le dovute verifiche tecniche, ci hanno scelto! Dai primi di dicembre, anche se solo per qualche mese, lavoreremo con grande impegno a queste due nuove sfide. La Onlus, da due anni ormai, ha un cliente importante: lavora presso un Ente musicale di Milano grazie alla convenzione stipulata tra l’Ente e la Direzione del penitenziario. Questo ha permesso a due detenuti di essere assunti dalla Onlus per gestire la rete ed il parco macchine con grande impegno e professionalità. Proprio in questi giorni, in questo preciso periodo e momento, senza motivo, ci stanno chiedono di lasciare prima della scadenza il lavoro: uno dei detenuti dovrà ritornare in cella, e questa volta, senza avere commesso nessun nuovo reato. Non riesco a capire perché e mi domando solamente che visione del mondo sia questa. Un'altra bella storia che vale la pena di ricordare è quella della formazione presso il minorile di Firenze, dove, grazie alla dottoressa Laera, la Onlus ha formalizzato una serie di periodi formativi per ragazzi difficili; ormai siamo alla terza edizione: a loro si danno le basi sui cui poter costruire un mestiere, teoria e pratica che insegna a capire come assemblare e configurare dei pc, come cablare un ufficio in in rame o WiFi, sino a fargli attestare delle fibre ottiche multimodali e creare impianti di video sorveglianza. Loro mi danno proprio un bel po’ di filo da torcere, tenerli a bada, mantenere vivo il loro interesse e veramente molto faticoso… ma quando mi mandano su whatsapp i loro quesiti e i loro piccoli successi, di colpo la fatica sparisce. Noi siamo una onlus, una cooperativa sociale: questo tipo di associazione solitamente si connota come chi si prende cura di persone anziane o portatrici di handicap, ecc., mentre noi abbiamo scelto di prendere per mano persone svantaggiate recluse, dargli una professionalità di alto livello nel campo delle tecnologie informatiche e accompagnarle sino a trovare lavoro. Lorenzo Lento carteBollate 23 Dall'interno Il famoso professor Alleva a Bollate LA LETTERA – Utile lezione sul comportamento animale N ei mesi scorsi sono iniziate le lezioni di pet therapy, condotte da Valeria e Beatrice, che con la loro onlus Canidentro ci hanno dato le istruzioni fondamentali per trattare con i cani. Ovviamente insieme a loro sono entrati i veri protagonisti, cioè i cani, alcuni già addestrati e altri in fase di apprendimento: Onda, Tato, Titti, Carmela, Rosie. Nelle ultime settimane il progetto si è ampliato, con l’obiettivo di darci una formazione più completa, per essere in grado in futuro di portare la pet therapy presso strutture i cui ospiti possono trarre giovamento dall’interazione con i cani (come i centri psichiatrici o i ragazzi con deficit psico-motori). Eventualmente, se sarà possibile, si terranno dei corsi/incontri in altre carceri, per acquisire maggiori capacità nel gestire gli scodinzolanti amici a quattro zampe. In autunno ha iniziato a tenere delle lezioni sul comportamento dei cani Federica Pirrone, medico veterinario, professoressa di etologia (la scienza che studia il comportamento animale) presso l’università degli Studi di Milano. Lo scorso novembre è venuto a tenere una lezione il professor Enrico Alleva, etologo di fama mondiale. Nonostante sia il presidente della Società Italiana di Etologia, membro dei consigli scientifici dell’Agenzia per la Protezione dell'Ambiente, del WWF, di Legambiente, dell’Agenzia Spaziale Italiana, nonché accademico dei Lincei, si è dimostrato un insegnante molto disponibile nei nostri confronti e ancora di più nei confronti delle tante cose che non conoscevamo. L’evento, particolarmente importante, è stato ripreso da una troupe dell’agenzia di stampa France Presse, che era venuta a conoscenza del progetto di pet therapy condotto in carcere. Siccome in molti paesi del mondo era arrivata la notizia del servizio che il Corriere della Sera aveva fatto nel mese di a luglio, sono state molte le richieste di avere un approfondimento, con filmati, fotografie e interviste da Bollate e France Presse ha atteso il giorno in cui venisse a Bollate il professor Alleva, proprio per sottolineare la completezza e profondità dei corsi organizzati e coordinati dalla onlus Canidentro. Ovviamente abbiamo lasciato i due inviati di France Presse, carteBollate va a scuola S crivere è un piacere e lo è ancor di più sapendo di essere letti con piacere. Per questo abbiamo organizzato questo autunno un corso di scrittura giornalistica, con l’obiettivo di migliorare la qualità del nostro lavoro. Docente Emanuele Giordana, giornalista di lungo corso, partito subito dopo per l’Afganistan, da dove manderà degli articoli anche a carteBollate. Noi siamo detenuti coadiuvati da volontari esterni, raccontiamo la realtà del carcere e quella sociale, cerchiamo di raccontare i fatti in modo oggettivo, facciamo cronaca cercando di distinguerla dai commenti e dalle opinioni personali che, però, possono emergere dal racconto dei fatti. Scrivere chiaro, correttamente e con incisività era l’obiettivo dell’insegnamento; obiettivo che ci dobbiamo prefiggere perché è uno sforzo necessario che gratifica ancor più il piacere di scrivere e rende migliore il giornale. Giordana ci ha dato degli ottimi suggerimenti, come ad 24 carteBollate Ella e Giuseppe, a bocca aperta, perché come tutti coloro che entrano in carcere per la prima volta, avevano il normale timore di chi varca un cancello e un muro alto e non sa di preciso cosa trova. E loro invece hanno potuto vedere di mattina come vengono svolti gli incontri con i cani, con le tipiche azioni-base, come il “cerca”, lo “stai” oppure il “seduto”. Quando sono passati i carrelli con il vitto gli abbiamo detto che potevano restare tranquilli, perché a cucinare per loro avevamo pensato noi: pizze, focacce, torte, gelati, e questo proprio non se lo aspettavano. Ci hanno intervistato, per ascoltare le nostre storie, composte in parte da errori e in parte dall’impegno attuale a far bene. Abbiamo spiegato l’importanza della pet therapy e la prospettiva di essere di aiuto a qualcuno in futuro. Nel pomeriggio il professor Alleva ha tenuto la sua lectio magistralis sul tema dell’evoluzionismo, toccando tutti gli aspetti principali della materia. Ha spiegato qual era la posizione della scienza a metà del XIX secolo sul tema della nascita e dello sviluppo della vita sulla terra, abbiamo seguito il viaggio di Darwin in tutto il mondo per cercare di scoprire elementi nuovi, per arrivare alla formulazione della sua teoria evoluzionista che, possiamo dire, divise il mondo in due periodi: prima nessuno osava mettere in dubbio la spiegazione biblica, dopo ci fu la presa di coscienza di come la vita sulla terra si sia evoluta. Il professore ha parlato di come la selezione naturale forgia l’evoluzione, premiando le caratteristiche vincenti, di come sulla terra ci siano state ben cinque distruzioni di massa che hanno quasi estinto la vita, che poi si è ripresa con nuove specie, di come la convergenza evolutiva dimostra che le caratteristiche vincenti vengano premiate. Di grande interesse sono state le emozioni, che noi condividiamo con gli altri mammiferi, al punto che certe mimiche facciali sono in pratica identiche, iscritte nella nostra storia filogenetica di mammiferi. Le lezioni con Federica stanno nel frattempo continuando, in attesa di conseguire le dovute competenze e di poter diventare protagonisti attivi del progetto pet therapy. Nazareno Caporali I problemi sollevati dagli ospiti del Settimo Un’integrazione che ci emargina Riceviamo e pubblichiamo questa lettera che gli ospiti del settimo reparto (autori di reati sessuale, collaboratori di giustizia e poliziotti) hanno inviato alla comandante del nostro Istituto, Piera Denti, al direttore Massimo Parisi, al caporeparto del Settimo, ispettore Emanuele Montalbano, al loro educatore, Dario Scognamiglio e al responsabile dell’Uti, Paolo Giulini. Ci auguriamo che i problemi sollevati, che riguardano la difficile integrazione tra detenuti dei cosiddetti reparti protetti e detenuti comuni, possano sollecitare una discussione e che i destinatari di questa lettera vogliano utilizzare le pagine di carteBollate per rispondere. La Redazione In relazione allo spostamento di alcuni detenuti del Settimo nei reparti comuni, ci pregiamo di sottoporre alla Sua cortese attenzione quanto segue. Gli scriventi condividono appieno le finalità del progetto integrativo, ma a malincuore fanno notare che i tentativi falliti degli anni passati hanno paradossalmente rinforzato le logiche che intendevano abbattere. Questo lodevole progetto, finalizzato a superare le obsolete logiche della subcultura carceraria, secondo le quali un crimine è più onorevole di un altro crimine, appare purtroppo organizzato in modo destinato a replicare i numerosi tentativi franati sino ad ora. Rispetto alle peculiarità storiche dell’Istituto di Bollate, pare che questo programma sia quello rimasto più sottotono.Col risultato che a distanza di anni, anziché avere un Primo o un Terzo reparto totalmente misto e integrato, ci si trova con una manciata di detenuti ex settimo, che vivono confinati in detti reparti, espiando da emarginati le loro condanne, con afflizioni che fatichiamo a comprendere quanto siano propedeutiche a qualunque aspettativa riabilitativa, o comunque alla loro qualità di vita. Il numero delle persone che gli ex detenuti del Settimo hanno accolto in socialità in questi anni al Terzo reparto dove “gli altri non vogliono che altri del Settimo vengano qui a fare socialità” è lo specchio emblematico di come sono andati sino ad ora i programmi d’integrazione.La popolazione del Settimo varia intorno ai 320/380 detenuti, rendendolo di fatto il reparto più numeroso. Attualmente la selezione dei candidati da inviare negli altri reparti, è svolta basandosi su alcune delle 25 persone che annualmente frequentano l’Uti (ex progetto Giulini) e curiosamente ignora i rimanenti circa 300 ospiti del padiglione protetto. Finché il criterio rimarrà lo stesso, l’auspicabile nutrita presenza dei detenuti del Settimo negli altri reparti, ovviamente rimarrà una chimera. Paradossale è lo spreco delle risorse potenziali dei detenuti tra cui laureati o diplomati che conducono attualmente in modo volontario molte attività autorizzate nel Settimo reparto. Riteniamo che sia più utile lo spostamento in blocco di almeno una trentina di detenuti, che risiedano nello stesso piano insieme a una dozzina di comuni e che possano essere rappresentati dal delegato di piano, che possano inoltre gestire laboratori di informatica, di musicoterapia, di ginnastica dolce, pre-pugilistica, progetto Demetra-vasetti, la biblioteca di reparto, la sala musica, così da proporre una reale integrazione. Attualmente la realtà che ci viene prospettata è il confinamento in qualche cella in fondo al corridoio, malvisti e male tollerati dal resto del piano senza alcuna possibilità di poter esprimere le proprie risorse. Segnaliamo inoltre che le persone che sono già al lavoro o in prossimità di svolgerlo, vengono trasferite ignorando le loro esigenze di sussistenza e che si vedranno inserire nel nuovo reparto ultimi nelle liste lavoro. Inoltre il cambio di reparto e di educatore comporta complicazioni relative alle sintesi ed eventuali misure alternative. Riteniamo che questa situazione che genera in tutti noi malcontento, crei disappunto sia all’area educativa che alla direzione ed al comandante dell’istituto di Bollate, come pure all’équipe dell’Uti ed al suo responsabile Paolo Giulini. Attualmente questo programma di integrazione è percepito come un’imposizione gratuitamente punitiva e penalizzante, che non tiene conto delle nostre individuali necessità, ma cosa ancor più grave, appare destinato all’ennesimo fallimento. Rimanendo a disposizione per ogni ulteriore delucidazione utile a sostenere questo importante progetto, chiediamo un incontro utile a chiarire meglio tutti i vari aspetti qui tralasciati per motivi di spazio e che vanificano la buona riuscita del Programma di integrazione. esempio attenersi alla regola di iniziare un articolo con le 5 W (Who, Where, When, What, Why: chi, dove, quando, cosa, perché) per dare con immediatezza al lettore tutte le informazioni necessarie per capire subito di che cosa si tratta nell’articolo senza stancarlo nella lettura. Giordana ha dato rilievo anche alla punteggiatura, insegnandoci a usarla in modo corretto organizzando l’articolo con brevi periodi. Provate anche voi lettori a leggere con la giusta intonazione questi due, apparentemente uguali, periodi: “Se l’uomo sapesse realmente il valore che ha la donna, andrebbe a quattro zampe alla sua ricerca” oppure “Se l’uomo sapesse realmente il valore che ha, la donna andrebbe a quattro zampe alla sua ricerca”. Incredibile come spostare una virgola cambia tutto il significato. Ci auguriamo, noi della redazione, che Emanuele Giordana possa proseguire questi incontri interessantissimi e formativi, che il nostro grazie lo raggiunga anche in Afganistan dove è in questo momento e da dove aspettiamo un suo articolo. La redazione federica neeff EVENTI – carteBollate 25 Dall'interno ARTETERAPIA1 – Il progetto condotto da Luisa Colombo come se fossero stupiti da ciò che sono riusciti a realizzare; uno stupore - prosegue Luisa - che ha lasciato il posto a quel timore, che in partenza impediva loro di pensare che potessero riuscire a realizzare ciò che invece hanno creato. Anche a questo serve l'arte, quella vera, quella che ha il potere di trasmettere emozioni, quella che dà una mano a riconquistare la fiducia in se stessi e scoprire o riscoprire capacità dimenticate o rinchiuse in qualche cassetto della mente. “E io mi sento onorata continua la terapeuta - di essere parte di questo processo di ricostruzione e di crescita. Nel laboratorio di arte terapia, non si condividono solo lo spazio e il tempo che si trascorrono insieme, si condividono esperienze, parole, gesti. Si condividono porzioni di vita di Arte in carcere liberi di volare con la fantasia C i sono persone che nella vita crescono portandosi dietro qualche sogno che non abbandonano mai. Anzi, quei sogni, pochi ma buoni, a volte si realizzano e ne generano altri che magari non fanno diventare ricchi ma fanno sentire di aver costruito qualcosa di importante, di aver fatto sorridere qualcuno, di aver contribuito a far ritrovare a qualche persona un pezzetto di sé che aveva smarrito. Ecco cosa fa nella vita Luisa Colombo, la persona che da circa quattro mesi ha portato all'interno del secondo reparto maschile della casa di reclusione di Bollate una cosa stranissima chiamata " Arteterapia", con un progetto intitolato Arte in carcere, liberi di volare con la fantasia. Luisa, fa l’arteterapeuta, quella particolare professione per cui a volte viene scambiata per una psicologa, altre per una che fa lavoretti, altre ancora per una che insegna a dipingere. Ma non è nulla di tutto ciò, semplicemente è 26 carteBollate una professionista che utilizza l’arte e il linguaggio artistico come mezzo di comunicazione e di espressione. Utilizzando questo potente veicolo, lavora fianco a fianco con i suoi utenti accompagnandoli in un viaggio alla riscoperta di se stessi, aiutandoli a dar voce ai sentimenti, alle esperienze e al proprio vissuto senza alcun tipo di forzatura o imposizione, con una modalità che non sia esclusivamente quella verbale. Come sia arrivata a fare questo lavoro e come si sia ritrovata in questo mondo fatto di sbarre, chiavi e pesanti porte di metallo, è una cosa alquanto particolare. Racconta di aver avuto da sempre due desideri, dipingere e lavorare in un ospedale psichiatrico e afferma di averli realizzati entrambi; il primo in un modo che magari avremo occasione di raccontarvi e il secondo solo in parte, non esistendo più quelle strutture chiamate manicomi. Può forse sembrare un desiderio folle il suo, ma è cresciuto con lei grazie alle esperienze della sua infanzia, che hanno segnato profondamente le sue scelte tanto da portarla a percorrere una strada difficile, quella della specializzazione in arteterapia clinica. Scelte che l'hanno messa nella condizione di scendere nel profondo di se stessa per raggiungere quella consapevolezza di sé che ora le consente di entrare in relazione e confrontarsi con situazioni di pesante disagio come possono essere quelle del mondo della psichiatria, della malattia e del carcere, luogo dove sta realizzando un altro desiderio che si è accresciuto negli anni della sua formazione. Luisa è riuscita a strutturare quello che da quattro mesi è diventato un percorso su cui non si erano poste grandi aspettative, ma che si è rivelato essere una carta vincente perché lei dice: “Il carcere è un mondo chiuso tra le sbarre, ma al suo interno ci sono risorse che meritano di essere riscoperte, rivalutate e riconosciute, per offrire nuove opportunità... fosse anche solo quella di ricominciare a credere in se stessi!”. Così da alcuni mesi a questa parte, quella che non ama essere chiamata dottoressa - che ci ha raccontato divertita di essere stata scambiata per una detenuta, forse a causa dei suoi tatuaggi -, conduce un gruppo di arteterapia nel secondo reparto maschile con una comitiva non scelta a priori ma che si è autoformata. Oggi, a quattro mesi di distanza dall’inizio di quel progetto, da quel giorno in cui con un “open day” è stato inaugurato questo percorso, l’arte ha iniziato a colorare e ridare speranza a chi con lei sta percorrendo questa strada. A quell'insieme di uomini e ragazzi che incontro dopo incontro, stanno imparando a riscoprirsi e ritrovare la capacità di stringere relazioni, di collaborare, di imparare a esprimersi con un linguaggio che non è solo quello verbale, ma è quello del colori e dell’espressione artistica. Collettivamente stanno scrivendo un libro, Immagini che lasciano il segno, quell'insieme di scritti che unisce le sue impressioni a quelle dei ragazzi del gruppo e che lei chiama “il nostro diario di bordo”, perché questo è, a tutti gli effetti, un viaggio. Lo è per i ragazzi e lo è per Luisa Colombo, un viaggio in cui grazie all’arte, utilizzata in tutte le sue sfaccettature, stanno imparando gli uni dagli altri, mettendo in comune esperienze e cercando di tirar fuori quegli aspetti positivi che sono stati prevaricati dalla delinquenza e da scelte sbagliate e che per troppo tempo sono rimasti inutilizzati e inascoltati. A chi, fuori dalle sbarre le chiede, con un tono di voce troppe volte carico di giudizio, per quale motivo abbia scelto di entrare spontaneamente a lavorare in carcere e cosa ci trovi di così speciale in gente classificata come “scarti della società”, lei risponde: "Ho imparato sulla mia pelle che scendere dal pulpito su cui buona parte della gente si trova a proprio agio nel giudicare, permette di vedere e vivere le esperienze che la vita regala, sotto un'altra luce. Ci sono momenti, mentre lavoro con i ragazzi, in cui mi stacco e li guardo fissare le loro creature con un'indescrivibile soddisfazione negli occhi, ognuno di noi. Condividere il progetto, l'idea di un’ opera, studiare insieme come realizzarla, confrontarsi, richiede un costante impegno nell'ascolto di quella relazione che si sta instaurando con ognuno di loro; quella relazione che unisce ferite e stati d'animo... quella relazione in cui ci si confronta con i propri limiti e con le proprie capacità, accettandole e condividendole. Quell'atteggiamento di ascolto di ciò che spesso non viene detto dalle parole ma viene tradotto in segni e immagini dalle mani. E che si ripete ogni volta che si entra nella nostra bottega, con il proprio bagaglio di esperienze e competenze professionali e umane, liberandosi dalla presunzione di essere lì solo per insegnare e con l'atteggiamento consapevole di chi, varcando quella soglia, è cosciente di avere una grande opportunità: quella di poter apprendere quello che nessuna scuola al mondo ti potrà insegnare". carteBollate 27 Dove ti porterei ARTETERAPIA 2 – Il progetto condotto da Camilla Baron Segni di sé, un filo d’arte tra il dentro e il fuori C amilla Baron, laureanda all'Accademia di Belle Arti di Brera in Teoria e Pratica della Terapeutica Artistica, conduce da maggio un laboratorio d'arte all'interno del Quarto Reparto a Trattamento Avanzato. Segni di sé è il titolo del progetto, che costituirà anche la sua tesi di laurea e che si è svolto anche grazie al supporto della Cooperativa Sociale Articolo 3 e alla presenza di bravissime tirocinanti dell'Accademia: Elisa, Martina, Sara, Heesu e Valentina. Non si tratta di un laboratorio tradizionale, dove vengono insegnate tecniche, quanto di una fucina creativa in cui ciascuna opera nasce grazie al lavoro delle mani di tutti i partecipanti (detenuti e ragazze), ed è perciò un'Opera Condivisa. Si è partiti dalla scrittura manuale e dal presupposto che essa non è solo una serie di segni grafici che indicano suoni e che portano un significato, ma è anche gesto che coinvolge il corpo e che libera idee ed emozioni. Ciascuno ha infatti lasciato tracce del suo passaggio: una scritta, una pennellata, un graffio, un'impronta, uno schizzo di colore. In questa serie di lavori condivisi, segni liberi e casuali si incontrano e si scontrano caoticamente con quelli altrui, generando forme astratte o visioni fantastiche; frasi che si scompongono diventano poesie; colature, gocce, fili, lettere e parole si intrecciano formando tessuti e nuove superfici. Ogni sabato si crea qualcosa, per poi distruggerlo e ricrearlo dandogli nuove possibilità; il tutto con voglia di giocare e lasciarsi sorprendere. Nonostante il progetto iniziale prevedesse solo la pittura, la bravura e l'entusiasmo dei partecipanti ha permesso di spaziare e di toccare vari linguaggi dell'arte contemporanea: oltre alle tele, anche di grandi dimensioni, abbiamo infatti ottenuto un'installazione di tessuto e delle carte fatte a mano, una scultura e infine un video la cui colonna sonora è stata realizzata registrando le voci dei ragazzi, utilizzando così anche l'aspetto performativo dell'espressione artistica. Il progetto (che è anche stato esportato in Bolivia nel Centro Penitenziario di reinserimento Qalauma a El Alto) prevede anche un'esposizione in uno spazio 28 carteBollate esterno all'Istituto di pena, in modo che questi “segni di noi” comunichino davvero con il “fuori”. Infatti il punto centrale è proprio questo: l'arte ha a che fare con il nostro essere umani, e permette la comunicazione fra il dentro e il fuori, non solo dal carcere come in questo caso, ma anche fra il dentro e il fuori di ciascuno di noi. Le testimonianze delle ragazze Camilla: “Mi era stato detto: sono giovani, se ne fregano, non hanno voglia di fare niente. Non ci ho creduto e ho fatto bene! Ho trovato energia, simpatia, voglia di mettersi in gioco, ma anche sensibilità, cura e talento. Abbiamo avuto a che fare con persone ‘prese bene’e basta guardare le opere per capire che non si è trattato solo di svago o distrazione (come molti chiamano l'arte), ma di vera condivisione e lavoro di squadra. Per questo ringrazio i numerosi ragazzi partecipanti e le bravissime tirocinanti. Un ringraziamento va anche alla Cooperativa Sociale Articolo 3 per aver fin dall'inizio creduto nel progetto e alla pazienza di tutti gli agenti del reparto che ogni sabato alle 17.30 vengono a ricordarci che è ora di mettere via il materiale, perché noi non ci accorgiamo che le nostre tre ore di laboratorio sono già finite!”. Elisa: “L'esperienza è stata altamente formativa, e la piacevole energia delle persone che abitano questo luogo, ha reso possibile l'attuazione di un percorso di creazione, in cui ognuno ha potuto trovare una parte di sé e capire che nessun confine ci separa nelle emozioni”. Heesu: “Abbiamo passato insieme dei momenti di svago, che rimarranno nella mia memoria come dei ricordi felici. Come un'opera d'arte è creata con la linea, i colori e la superficie, tutti noi abbiamo fatto la nostra parte in questa esperienza”. Sara: “L’arte unisce, elide confini fisici e mentali, permette il dialogo anticipando il linguaggio verbale. Essa passa attraverso l’incontro con qualcosa o qualcuno altro da sé che fa sì che l’espressione divenga possibile. Il colore, il segno, la scrittura, la tela o la stoffa sono i mezzi e i luoghi dell’incontro. Spazi aperti che accolgono il racconto di un momento o di uno stato d’animo, che comunicano e creano un percorso di conoscenza e relazione con l’altro. Credo che la bellezza di questa esperienza stia nel fatto che l’incontro sia avvenuto passando dalla sincerità dei gesti. L’arte porta con sé il dono autentico dell’espressione interiore”. Valentina: “Quest'esperienza è stata forte e impegnativa, forte perché ho dovuto fare i conti con me stessa con i miei limiti e i miei preconcetti, impegnativa perché il carcere ti assorbe, mentalmente e fisicamente... Fino al momento in cui ho varcato i cancelli del carcere non mi ero mai domandata cosa significasse, era tutto molto semplice, il mondo diviso tra buoni e cattivi, un po' come nelle favole... Poi ho capito che non è sempre così, ho capito quanto la pena detentiva possa essere dura e difficile, veramente punitiva, sono stata felice di aver partecipato a questo progetto, perché è stato bello entrare lì dentro e trovare così tanta umanità, confrontarmi con me stessa cambiare e sentirmi utile e sentire che con l'arte puoi davvero mettere un piccolo semino, che anche se è piccolo può diventare forte, un albero! Ora so ancora più di prima che l'arte e la cultura ci rendono migliori, delle persone migliori, e vorrei veramente che questo fosse compreso in Italia, spesso non è così ma io continuerò ad andare in giro a spargere semini, perché nel frattempo, anche se non vedrò mai la foresta avrò avuto e dato un po' di serenità”. Martina: “La distruzione è la via per la trasformazione… La pittura, come la scrittura, è un modo per ri-conoscere se stessi, vedersi, capirsi; scrivere e dipingere insieme vuol dire raccontarsi e allo stesso tempo ascoltare l’altro, saper accogliere il suo pensiero, rimettendo in discussione le proprie convinzioni ed il proprio sentire, superando i pregiudizi. Un percorso artistico di continue distruzioni e ricomposizioni, trasformazioni, che suggerisce quanto il cambiamento sia vitale per l’uomo; strappi, tagli, ferite e un paziente e lungo ricucire… frammenti di voi e di noi, verso una pelle condivisa, Nostra; gesti istintivi e spontanei riosservati sotto nuove angolazioni, che trovano nuova voce. Racconti di incontri. E ancora non vi conosco e sono sicura solo di una cosa: l’affetto”. Firma ALLE CINQUE TERRE – A piedi lungo la costa a picco sul mare La Via dell’amore e un bicchiere di sciacchetrà S vegliato di mattino presto dal canto stridulo di un gabbiano, esco in coperta e rimango incantato dalla vivida luce rossa dell’alba sferzata da un leggero vento di tramontana. Siamo approdati, la sera prima, al porto di Alassio (SV), questa atmosfera magica mi spinge a salpare immediatamente per godere di un mare invitante, è come una droga e non si può farne a meno. Ultimati rapidamente i preparativi, il sole piano piano si sta alzando, salpiamo con l’intento di regatare con impegno in una gara contro noi stessi. Andremo dove il vento prima di calare ci porterà. Le varie manovre per acquistare sempre più velocità ci portano di fronte a Lavagna, è allora che la mia compagna esprime il desiderio di percorrere la Via dell'amore lungo le Cinque Terre. Le Cinque Terre sono un territorio della riviera ligure di levante, un tratto di costa frastagliato compreso in un ampio golfo tra Punta Mesco e Punta di Montenero, con versanti montani che sprofondano nel mare. In questo tratto si trovano cinque borghi, da La Spezia risalendo verso Ovest: Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monterosso al Mare. È un territorio che conosco solo dal mare e devo dire che la costa crea un paesaggio veramente fantastico. Approdiamo a Lavagna verso sera, il mattino dopo siamo già sul pullman che ci porterà a La Spezia da dove una navetta ci lascerà a Riomaggiore. Dal parcheggio si domina il paese e sotto il mare è di colore blu intenso. Si scorge anche una piccola cala e alcune coloratissime piccole imbarcazioni. L’abitato sembra essere diviso in due dal crinale della montagna che si inabissa in mare. Arriviamo in quella che deve essere la piazza principale, dominata dalla chiesa e circondata da alti edifici dai vari colori. Troviamo subito un alberghetto dove pernottare, carino, molto intimo e accogliente, le persone che incontriamo sono cordialissime e disposte a darci consigli e indicazioni. Scendiamo alla marina dove il mare s’incanala fra le case per qualche decina di metri. Ci concediamo quindi un pranzo tipico della zona, una buona minestra di campo, fatta con erbe selvatiche, buonissima e come secondo i muscoli ripieni, il tutto bagnato dal vino Cinque Terre. Prima di cena andiamo a visitare il Castello a ridosso della montagna coltivata a terrazzamento con le viti. Il mattino successivo, dopo aver fatto colazione con una calda focaccia e succo di arancia, ci incamminiamo per Via dell'amore. È un sentiero costiero a pagamento (i soldi servono all’ente del Parco nazionale delle Cinque Terre per salvaguardare il paesaggio, a strapiombo sul mare) scavato nella roccia che da Riomaggiore ci porterà a Manarola. Il mare ci inebria con lo iodio polverizzato dalle onde che s’infrangono sulla scogliera e dal terrazzato si scorgono delle piccole e sensuali calle raggiungibili praticamente solo via mare. Mano nella mano e coinvolti sentimentalmente dal cammino, arriviamo a Manarola. Il paesino è piccolo e variegato, le case sempre ammassate una sull’altra. La ferrovia, che vìola di tanto in tanto il paesaggio, è l’unica nota dolente di tutto il cammino. Praticamente il paese non ha porto e le barche dei pescatori vengono issate dal mare con un paranco e ben disposte sulla via principale del paese. Famoso è il presepe luminoso che, a detta dei cittadini, è il più grande del mondo: dal mare infatti, di notte, sono visibili in un suggestivo paesaggio, le statue illuminate. Ci fermiamo giusto il tempo di pranzare, ma specialmente per degustare il famoso e raro Sciacchetrà dopo aver mangiato un ottimo e abbondante piatto al baccalà. Il Sentiero dell’amore ci abbandona qui e riprendiamo il nostro itinerario col “sentiero azzurro” che ci porterà a Corniglia, costeggiando, tranne i tratti di ferrovia, sempre il mare e sempre da una certa altezza. Lungo i bordi del passeggio si trovano comode panchine per riposare e per ammirare il paesaggio, vario e affascinante. Ed ecco che, dopo aver superato un crinale, appare Corniglia, arroccata su un colle fra coltivazioni di viti, qualche carteBollate 29 poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia sparuto olivo e agrumi. È l’unico paese delle Cinque Terre che non si affaccia sul mare e per raggiungerlo bisogna salire su una lunga scalinata, ampia, ma ripida. La piazza principale è piccola, carina attorniata dagli edifici coloratissimi, dominata dalla chiesa e al centro si trova il monumento ai caduti. Pernotteremo qui in un alberghetto dall’ottima cucina casalinga e fornita dal pregiatissimo Sciacchetrà. La scogliera sottostante è impervia e fa sognare interessanti immersioni subacquee. Girovaghiamo un po’ per il paese salutati cordialmente dalle persone che incontriamo. Troviamo su una vecchia casa dei resti medioevali, come ci dice un signore. Le scale qui non mancano, una molto ripida ci porta verso una piazzetta con una chiesetta, da dove scorgiamo i resti di una antica torre. Nel paese regna la calma e il sonno arriva presto, distolto solo dal rintocco delle campane. Riprendiamo il cammino fra queste terre piene di piacevoli sorprese, mentre il sole gioca a nascondino fra le sparse nuvole bianche. Giungiamo a Vernazza, splendido borgo attrezzato con un porto naturale praticamente avvolto dal paese. Vernazza si protende sul mare come un istmo, le colline e le alture che la circondano sono terrazzamenti coltivati a ulivi, viti e limoni. Troviamo posto per la notte nell’albergo in piazza che pullula di vita allegra. Ci invitano a ritornare per partecipare alla tradizionale festa dei pirati, la simulazione dello sbarco di pirati in costume che si svolge di notte, accompagnata da vari tipi di percussioni. La chiesa del paese si erge sulla scogliera in riva al mare; su uno spuntone di roccia si può ammirare la torre rotonda del castello Doria. Nel ristorante in piazza come antipasto mangiamo l’arbanella di acciughe, per primo le trenette al pesto e per seguire una gustosa orata al sale il tutto sorseggiando il Cinque Terre e per finire una prelibata fetta di crostata con la marmellata di limone. Il mattino ci vede in cammino per Monterosso, ultimo paese delle Cinque Terre. Il sentiero non sempre costeggia il mare, ma sempre regala scorci veramente spettacolari. Il tempo è cambiato, i colori del mare sono più scuri mentre il sole si nasconde dietro neri nuvoloni, presagio di pioggia. Guardando verso il mare ci si accorge di come una barriera di acqua limiti l’orizzonte cascando dal cielo. Ci affrettiamo col passo ed ecco che di colpo ci appare il golfo con al suo centro Monterosso. Lungo la costa ci sono tipiche spiaggette sul fondo di piccole insenature naturali. È il paese 30 carteBollate più grande, in parte moderno e anche le spiagge sono più ampie rispetto alle scogliere selvagge degli altri borghi, la sua costa è ricca di tipiche spiaggette. Dalla stazione si accede al centro storico attraverso un tunnel. Visitiamo Villa Montale, residenza in cui ha trascorso parte della vita e delle vacanze estive Eugenio Montale, il poeta premio Nobel per la letteratura. Lungo un pendio verso il mare si trova il convento dei Cappuccini, poco lontano si vedono i ruderi di un eremo. A “vigilare” su un’invitante spiaggia, da una roccia, l’imponente statua di Nettuno. Ci fermiamo in piazza, sempre coloratissima e piena di gente, nel bar ci concediamo una calda focaccia e un buon bicchiere di Sciacchetrà, non troppo dolce che alla bocca di un profano e quasi astemio diventa un elisir da gustare con moderazione e a occhi chiusi. Questa passeggiata romantica, fatta in SOLITUDINE SOLO TU LE SCARPE Bella signora Unica compagna silenziosa Tu che ami Meglio di una sposa Tu che mi segui Ovunque vada, Non sei egoista Non sei gelosa Non sei permalosa Non chiedi niente Non vuoi amore Non vuoi gioielli Ti basta solo stare vicino Seguire passo passo il mio cammino Mi insegni l’arte di aspettare Di piangere, di tacere Gli anni passano e mi sei vicina Tu non deludi mai Chi a te si affida. Antonino Di Mauro Mentre ti guardo mi tremano le gambe basta ti prego basta smetti di parlare …ora ho bisogno di volare! Corte o lunghe alte o basse… non importano le marche, questo è altro per la moda, sono tosta e non importa quanto costa Barbara Pasculli che fatica questo tacco ma… va bene quando stacco? I colori, eccome vanno se li abbino tutto l’anno! PREGHIERA La sola preghiera che affiora alle labbra: …abbandona il cuore porto un macigno, donami la libertà! Stefana Chirca IL TUO COMPLEANNO Teresa nella pagina precedente: veduta di riomaggiore sopra: la via dell'amore sotto: terrazze a vigneti a manarola un ambiente dolce, ma anche selvaggio, fra profumi di ginestre e quello del mare è stata un vero e proprio sogno. Sullo Sciacchetrà Montale dice: “... il tipo classico, bevuto sul posto, autentico, al cento per cento, supera di gran lunga quel farmaceutico vino di Porto”. È ora di ritornare alla nostra barca, lasciamo alle spalle Monterosso col proposito di ritornarci in estate per distenderci sulle sue piccole spiaggette e nuotare nel blu del suo mare. Paolo Sorrentino LA MOTO LE RAGAZZE DEL LABORATORIO DI POESIA La moto correva e il corpo vibrava più forte del vento l’emozione di sentirsi immortali volavo e mordevo l’asfalto con lei in balia di una grande euforia. Furore. Barbara Balzano Brave, attente interessate seguite le lezioni e imparate. fate esercizi contando sillabe e rime volete sempre essere le prime siete d’esempio per le vostre compagne se qualcosa va storto non fate le lagne. Siete veramente detenute modello girate sempre col vostro quaderno bello, la revisione (critica) è la vostra priorità e la fate con grande serietà. Adesso anche a teatro vi possono ammirare, siete donne di successo da imitare. Questi sono i miei sentimenti, ragazze mie, vi faccio i miei complimenti. Nazareno Caporali IL SOLE A MEZZANOTTE Uscimmo da un pub di un paese lontano dove fa freddo tutto l’anno era agosto ma sembrava Capodanno. In compagnia di alcuni amici, per me ancora oggi fratelli, ubriachi e sballati da una marea di spinelli guardai l’orologio ed esclamai: - è mezzanotte! scoppiammo a ridere c’era il sole e molta luce - non ci si crede! disse un mio amico - è allucinante! Qualcuno si rotolò a terra … Io ridevo, ridevo e ridevo Poi mi resi conto che cercavo la luna! Leonardo Belardi Piano osservi L’abbraccio Della pioggia E zitto Ti regali… L’attimo Di una madre. Giacomo De Santis DI ME TROPPO NEMICO Scrivo parole tante sono simili ai rimorsi altre cercano d’abbracciarmi e mi piace, ma le taccio e le respingo perché non sia di me: troppo nemico… Gaetano Conte NEBBIA Nessuno mi vede immerso in questo fumo d’acqua mi pizzica la gola mi posso avvicinare in una intimità eccitante. L’orizzonte cambia dopo pochi passi godo la solitudine. Nessuno mi vede. Giuseppe Pescatore MARE Era un bel paesaggio marino il mare di un azzurro chiaro e il cielo sereno vidi la barca, i marinai remare e all’orizzonte scomparire. Aspettando il suo ritorno mi godo in tutta franchezza questa carezzevole brezza! Carmelo Zavettieri carteBollate 31 federica neeff 2O15