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Comunione legale e rifiuto del coacquisto. Il caso: Tizio, coniugato

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Comunione legale e rifiuto del coacquisto. Il caso: Tizio, coniugato
 Comunione legale e rifiuto del coacquisto. Il caso: Tizio, coniugato in comunione legale con Caia, acquista un appartamento che viene da subito destinato a casa coniugale; per esigenze di ordine fiscale, tuttavia, al fine di evitare che il bene cada in comunione legale, nell’atto di compravendita Tizio dichiara che l’immobile sarà destinato all’esercizio della sua attività professionale e Caia conferma la veridicità dell’affermazione. Successivamente, Tizio vende a Sempronio l’immobile in oggetto. Intervenuta nel frattempo la separazione personale tra Tizio e Caia, quest’ultima cita in giudizio Tizo e Sempronio chiedendo che venga accertato il carattere non personale del bene acquistato in regime di comunione da Tizio (poi rivenduto da questo a Sempronio), con conseguente annullamento del successivo atto di vendita a Sempronio. In primo grado, il tribunale, qualificando la domanda di Caia come azione di accertamento della simulazione, dispone l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli originari danti causa di Tizio, per poi rigettare la domanda per mancanza della prova scritta dell’accordo simulatorio. Nel giudizio di secondo grado, la Corte d’appello qualifica la domanda coma azione di accertamento della appartenenza alla comunione legale del bene e, valutando il carattere mendace della dichiarazione contenuta nell’atto relativa alla destinazione dell’immobile, dichiara il carattere non personale dell’acquisto e annulla l’atto di vendita perfezionato tra Tizio e Sempronio per vizio del titolo del dante causa. Sempronio ricorre, dunque, in Cassazione per la riforma della sentenza di appello. Il ricorso, in ragione di un contrasto giurisprudenziale tra le sezioni semplici della Cassazione in ordine alla disponibilità del diritto alla comunione legale sui beni che per legge ci sarebbero inclusi e della peculiare importanza della questione relativa agli effetti nei confronti del terzo acquirente di buona fede nel caso di sopravvenuto accertamento della comunione legale sui beni alienati, viene rimesso alle Sezioni Unite. (Liberamente tratto dallo scritto di D. Rando, Le Sezioni Unite si pronunziano sul rifiuto del coacquisto, in Fam. dir., 2010, 2, p. 122 ss.) Cass. S.U. 28 ottobre 2009 n. 22775 (in Fam. dir., 2010, fasc. 2, p. 122 ss.; Fam. pers. succ., 2010, fasc. 1, p. 36 ss. e fasc. 2, p. 91 ss.; Giust. civ., 2010, fasc. 11, I, p. 2529 ss.; Foro it., 2009, fasc. 12, c. 3317; Guida al dir., 2009, fasc. 50, p. 16 ss.) “Ai sensi dell’art. 179, II comma, c.c., l’acquisto di beni immobili (o di mobili registrati) personali in regime di comunione legale richiede la partecipazione all’atto dell’altro coniuge. Il coniuge non acquirente deve rendere una dichiarazione adesiva in ordine alla sussistenza dei presupposti per la natura personale dell’acquisto, in mancanza della quslle il bene cade irreversibilmente in comunione legale. Tale dichiarazione non ha valore negoziale e ha portata confessoria soltanto quando il coniuge riconosca la provenienza personale del bene o del denaro utilizzato per l’aquisto (art. 179, I comma, lett. f), c.c.). Quando, invece, l’altro coniuge aderisca al proposito del coniuge acquirente di destinare il bene a uso strettamente personale (lett. c)) o all’esercizio della professione (lett. d)), la dichiarazione costituisce un atto di condivisione di una manifestazione di intenti, che può essere più o meno sincera o affidabile, ma non è una attestazione di fatti, predicabile di verità o di falsità e, quindi, non può avere funzione di confessione. Se l’intento manifestato dal coniuge acquirente non è concretamente attuato, l’altro coniuge può agire in giudizio per sentire accertare che il bene è oggetto di comunione legale. Per affermare la natura personale del bene, occorre accertare quale destinazione il bene abbia effettivamente avuto e, qualora risulti che, ad esempio, sia stato adibito a casa familiare, l’immobile deve ritenersi oggetto di comunione legale. La natura comune del bene non è opponibile al terzo acquirente in buona fede, avente causa dal coniuge titolare apparentemente esclusivo. Secondo le S.U., ciò deriverebbe dall’applicazione analogica dell’art. 1445 c.c., pur facendo questo riferimento alla diversa fattispecie dei terzi subacquirenti aventi causa di colui che abbia acquistato in virtù di un contratto in seguito annullato”. (liberamente tratto dall’abstract dello scritto di M. PALADINI, Le Sezioni unite si pronunciano sugli acquisti personali di beni immobili in regime di comunione legale, in Fam. pers. succ., 2010, 2, p. 91). Massime: Sono esclusi dalla comunione legale solo i beni qualificabili come “personali” e sempre che, trattandosi di beni immobili o di beni mobili registrati, tale esclusione risulti dalla dichiarazione dell’altro coniuge, la quale ha natura confessoria se attessta fatti, ma non assume tale significato se esprime solo una condivisione di intenti quanto alla futura destinazione del bene. Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179, II comma, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179, I comma, lett. c), d), ed f) , c.c., con la conseguenza che l’eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi. (in senso conforme, cfr.; Cass. 4 agosto 2010 n. 18114, in Fam. dir., 2011, 5, p. 475 ss. Secondo la medesima pronunzia, la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente ai sensi dell’art. 179, II comma, c.c. può assumere valore di confessione, come tale revocabile successivamente unicamente per errore di fatto o violenza, solo ove abbia ad oggetto un fatto storico, costitutivo del diritto esclusivo del coniuge acquirente sul denaro utilizzato per l’acquisto, ossia una delle tipologie di beni personali indicate dalle lett. a), b), c), d) ed e) dell’art. 179, I comma, c.c., dalla cui vendita o dal cui scambio abbia tratto origine l provvista utilizzata per l’acquisto esclusivo. Definire semplicemente personale il denaro con cui si è adempiuta l’obbligazione del prezzo non identifica un fatto storico, bensì esprime una qualificazione giuridica che, come tale, non è suscettibile di confessione né appare vincolante per l’interprete, potendo anche discendere da un errore di diritto del dichiarante. Ancora in senso conforme, vd. Cass. 14 giugno 2010 n. 14226; in senso parzialmente difforme, cfr. Cass. 5 maggio 2010 n. 10855). L’intervento del coniuge non acquirente nell’acquisto di beni immobili o mobili registrati – condizione necessaria ai sensi dell’art. 179, II comma, c.c. per impedire la caduta in comunione legale del bene acquistato – non preclude allo stesso di proporre domanda di accertamento della comunione legale sul bene acquistato come personale dall’altro coniuge. se infatti l’intervento del coniuge non acquirente aveva assunto il significato di riconoscimento dei presupposti di fatto dell’esclusione (art. 179, I comma, lett. c), d) ed f), c.c.), detta azione presupporrà la revoca di quella confessione stragiudiziale, nei limiti dell’art. 2732 c.c.; se, invece, lo stesso intervento aveva assunto il significato di mera manifestazione dei comuni intenti dei coniugi circa la destinazione del bene, occorrerà accertare quale destinazione il bene abbia effettivamente avuto, indipendentemente da ogni indagine sulla sincerità degli intenti manifestati. L’Intervento adesivo del coniuge all’atto di acquisto effettuato dall’altro non rileva come atto negoziale di rinuncia alla comunione e, qualora la natura personale del bene che viene acquistato sia dichiarata solo in ragione di una sua futura destinazione, sarà l’effettività di tale destinazione a determinare l’esclusione dlala comunione, non certo la pur condivisa dichiarazione di intenti dei coniugi sulla sua futura destinazione. Salvi gli effetti della trascrizione della domanda, il sopravvenuto accertamento della comunione legale non è opponibile al terzo acquirente di buona fede. L’annullabilità del contratto di alienazione del bene comune, compiuto da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, è opponibile, infatti, al terzo acquirente di buona fede a titolo oneroso se la domanda giudiziale è trascritta prima della trascrizione dell’acquisto del terzo. L’azione prevista all’art. 184 c.c. per l’annullamento degli atti compiuti dal coniuge in comunione legale senza il necessario consenso dell’altro coniuge, in quanto avente ad oggetto l’invalidazione dell’atto di acquisto del terzo per un vizio del titolo del suo dante causa, è soggetta, per tutto quanto non diversamente stabilito dalla norma speciale che la prevede, alla disciplina generale dettata dall’art. 1445 c.c. per l’azione di annullamento dei contratti: pertanto, salvi gli effetti della trascrizione della domanda, il sopravvenuto accertamento dell’inclusione del bene nella comunione legale non è oponibile al terzo acquirente di buona fede. Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa nell’atto dall’altro coniuge non acquirente, ai sensi dell’art. 179, II comma, c.c., in ordine alla natura personale del bene, si atteggia diversamente a seconda che tale natura dipenda dall’acquisto dello stesso con il prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente o dalla destinazione del bene all’uso personale o all’esercizio della professione di quest’ultimo, assumendo nel primo caso natura ricognitiva e portata confessoria di presupposti di fatto già esistenti, ed esprimendo nel secondo la mera condivisione dell’intento del coniuge acquirente. Ne consegue che l’azione di accertamento negativo della natura personale del bene acquistato postula nel primo caso la revoca della confessione stragiudiziale, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall’art. 2732 c.c., e nel secondo la verifica dell’effettiva destinazione del bene, indipendentemente da ogni indagine sulla sincerità dell’intento manifestato. Con riferimento ad una fattispecie simile, avente ad oggetto la stipulazione di un contratto preliminare, vd. Cass. 8 luglio 2010 n. 16149, in Fam. dir., 2011, fasc. 2, p. 137, con cui la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui, in relazione alla stipulazione di un preliminare di compravendita, aveva riconosciuto la responsabilità del promittente venditore nei confronti del promissario acquirente, sul presupposto che questi aveva fatto legittimo affidamento nella conclusione del contratto senza conoscere che il bene era in comunione legale con il coniuge del promittente alienante: L’art. 1338 c.c., finalizzato a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fere ingannato o fuorviato dalla ignoranza della causa di invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere, è applicabile a tutte le ipotesi di invalidità del contratto, e pertanto non solo a quelle di nullità, ma anche a quelle di nullità parziale e di annullabilità, nonché alle ipotesi di inefficacia del contratto, dovendosi ritenere che anche in tal caso si riscontra la medesima esigenza di tutela delle aspettative delle parti al perseguimento di quelle utilità cui esse mirano mediante la stipulazione del contratto medesimo. (in senso conforme, cfr. Cass. 8 ottobre 2008 n. 24795 in tema di applicabilità dell’art. 1338 c.c. al contratto inefficace). 
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