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il complesso “co-attaccato”
IL COMPLESSO “CO-ATTACCATO” La teoria dell'attaccamento nelle relazioni costruttive e distruttive Autrice: Marta Brunetti, Ottobre 2013 Introduzione.................................................................................................................................2 CAPITOLO I........................................................................................................................................3 La teoria dell'attaccamento............................................................................................................... 3 1. Cosa è l'attaccamento....................................................................................................................4 1.a Cosa sono i Modelli Operativi Interni........................................................................................... 6 2. Storia di una teoria........................................................................................................................7 2.a “Imprinting”..........................................................................................................................7 2.b “Le madri Rhesus e l'appartenenza sociale”......................................................................7 2.c “Vicinanza e protezione”...................................................................................................... 7 2.d Baltimore Longitudinal study (Ainsworth, 1978).............................................................. 8 3. L'attaccamento nel ciclo di vita.................................................................................................. 14 4. Attaccamento nella sua dialettica circolare.................................................................................17 4.a Perchè la madre si prende più cura del figlio rispetto al padre?.................................... 17 4.b Alleanza familiare “sufficientemente buona”...................................................................19 CAPITOLO II.....................................................................................................................................22 La Casa rifugio per donne legate ad un partner maltrattante..........................................................22 1. Storie di un attaccamento insicuro................................................................................................. 24 2. La scelta del partner....................................................................................................................25 3. La genitorialità nella violenza di genere.....................................................................................26 4. Il riflesso della violenza sugli operatori......................................................................................28 5. Serena e Luca ...un'esperienza di cambiamento.........................................................................29 Per concludere.................................................................................................................................31 Bibliografia:...............................................................................................................................32 Introduzione In questo lavoro si intende approfondire la Teoria dell'Attaccamento di Bowlby, integrando l'opera dell'autore sia con gli scritti contemporanei che con l'osservazione clinica. L'argomento viene sviluppato all'interno di una cornice sistemico-relazionale e in un'ottica biopsico-sociale. Nel primo capitolo si cercherà di introdurre il lettore all'interno della Teoria, presentando le argomentazioni dei grandi dell'attaccamento, da Bowlby, agli autori post-bowlbiani e contemporanei (Ainsworth, Main, Holmes, Attili ed altri) . Segue una rilettura dell'Attaccamento che va oltre la relazione diadica madre-bambino, cercando di mettere in luce la complessità del fenomeno e le sue applicazioni. Nel secondo capitolo verrà discusso un tema emergente nella società contemporanea, che parte dall'esperienza diretta nel lavoro con le donne vittime di violenza domestica e i loro figli, vittime anche essi di violenza diretta o assistita. Lo scopo è quello di ragionare sull'attaccamento passato e presente in queste persone, che legate ad uomini maltrattanti subiscono e non riescono a proteggere i loro figli dalla violenza fisica, sessuale, psicologica, economica, diretta o assistita. Il lavoro si conclude con una breve riflessione sui temi trattati. CAPITOLO I La teoria dell'attaccamento “Abbiamo tutti bisogno di amore, ma chi può offrirlo?” Oscar Wilde La teoria dell'attaccamento si configura come uno degli argomenti cardini della psicologia e della pratica psicoterapeutica. Ciò che emerge dal confronto tra colleghi psicologi e psicoterapeuti, pur appartenenti a diversi indirizzi teorici, è che l'attaccamento offre una possibilità di lettura della mente e del comportamento umano sia in termini di sviluppo che di adattamento sano o patologico. La teoria dell'attaccamento, nata dalla combinazione del pensiero psicoanalitico con l'empirismo etologico e la teoria evoluzionista, è stata impiegata per comprendere diversi contesti, che vanno oltre l'introspezione psicoanalitica e che mettono in luce l'aspetto relazionale e sociale dell'attaccamento. Il fautore di questa teoria è John Bowlby, conosciuto per la sua resistenza a parlare della propria famiglia e della propria infanzia, l’autore sembra aver dato voce ad una sofferenza legata a una personale esperienza di attaccamento insicuro. Infatti dalla biografia di Bowlby (Holmes, 1993) si evince uno stile di attaccamento caratterizzato da una madre probabilmente evitante o comunque non rispondente alle richieste di affetto e di attenzione. In aggiunta le sue esperienze cliniche con bambini ospedalizzati, giovani antisociali, lutti intrafamiliari, hanno diretto la sua attenzione al ruolo dell'ambiente relazionale nell'eziologia dei disturbi mentali. Come già accennato la sfondo teorico alla base della teoria dell'attaccamento sono i costrutti degli evoluzionisti neodarwiniani, per cui lo sviluppo della persona si basa sull'interazione tra individuo-ambiente e tra innato-acquisito. L'individuo in quest'ottica cresce attraversando diversi stadi, con lo scopo di volta in volta di raggiungere un determinato equilibrio, il quale si modifica in base all'interazione che la persona fa con l'ambiente per raggiungere il suo adattamento e perpetuare la sopravvivenza. Tale equilibrio è molto plastico in età infantile e diviene meno modificabile in età adulta. Lo sviluppo della personalità è un processo dinamico, esito di aspetti psicologici e contestuali, innati ed acquisiti nelle relazioni, in particolare riferite alle esperienze familiari nella prima infanzia. Inoltre lo sviluppo dell'individuo è sempre inserito in un determinato periodo storicoculturale che inevitabilmente ne influenza il suo divenire, il suo percepire ed interpretare; nel complesso ci si riferisce al modello bio-psico-sociale della lettura del comportamento umano. 1. Cosa è l'attaccamento “Tutti noi, dalla nascita alla morte, siamo al massimo della felicità quando la nostra vita è organizzata come una serie di escursioni, lunghe o brevi, dalla base sicura fornita dalle nostre figure di attaccamento” J. Bowlby Il sistema di attaccamento si delinea come sistema motivazionale a base innata che attraverso meccanismi omeostatici regola l'equilibrio tra stati interni ed esterni; permettendo così al bambino di attivare i comportamenti di attaccamento (aggrapparsi, piangere, seguire...) nelle situazioni di pericolo al fine di ripristinare la condizione ottimale del “sentirsi sicuro” (Attili 2007). Bowlby (1989), inoltre, ipotizza l'esistenza di altri tre sistemi di controllo che guidano i comportamenti del bambino, sempre attraverso dei meccanismi retroattivi che regolano la relazione con l'ambiente interno ed esterno: il sistema esplorativo, il sistema di difesa ed il sistema affiliativo. I quattro sistemi sono coordinati tra di loro in modo che l'attivazione di uno o dell'altro sistema sia dinamicamente equilibrata. In particolare nel legame di attaccamento è interessante osservare la dialettica tra sistema dell'attaccamento e sistema esplorativo in funzione delle esperienze relative all'accessibilità della figura di attaccamento. Nei suoi studi sul lutto e la separazione, confermati anche nella pratica clinica (l'emblematico filmato della famiglia Robertson, 1952), Bowlby delinea la modalità adattiva dell'organismo di fronte a situazioni di separazione/lutto descrivendo tre fasi che si susseguono: Protesta - Disperazione - Distacco. Protesta: si caratterizza dalla rabbia manifesta (grida, pianto, iperattività, ansia estrema, rifiuto di conforto, sensi di colpa) e dalla lotta dell'organismo per impedire il verificarsi di un evento intollerabile, nella speranza che la persona che se ne è andata ritorni. Disperazione: descritta come profonda tristezza espressa attraverso uno stato depressivo, con inattività, alterazioni del sonno e dell'alimentazione, disturbi gastrici e alterazioni fisiologiche. Allo stesso tempo questo stato può generare una maggiore presa di coscienza della perdita che nella sua funzione adattiva impedisce l'esplorazione senza una figura di riferimento protettiva in caso di pericolo. Distacco: fase dell'allontanamento emotivo, per accettare la nuova condizione. Può essere interpretato come meccanismo difensivo dell'io. Queste tre fasi che si susseguono possono esser viste come un tentativo inconsapevole di controllare e significare la situazione. Ne può derivare, lungo un continuum, una riorganizzazione della persona, in cui l'elaborazione della separazione/lutto permette la ripresa dell'esplorazione di altre relazioni e contesti di esperienze, oppure uno stallo, un congelamento emotivo, per cui la persona sente di avere perso per sempre il conforto e la protezione, così come la possibilità di essere amata. Il posizionarsi dentro questo continuum, verso un lato piuttosto che l'altro, dipende in gran parte anche dalle prime esperienze con la figura di attaccamento. Infatti si è rilevato come le emozioni e i comportamenti dei bambini sono modulati dalle aspettative e dalle rappresentazioni relazionali costruite durante il primo anno di vita nella relazione con la madre. Rappresentazioni che denotano al bambino la disponibilità della madre nel suo ruolo di protezione e vicinanza emotiva, ovvero l'attenzione “a rispondere quando chiamata in causa, ma intervenendo solo quando chiaramente necessario” (Bowlby, 1951). Per il bambino la figura di attaccamento è l'adulto che “offra cure continue e costanti”, percepito come “più forte e/o saggio”. Quando non si può usufruire di cure adeguate che permettano il soddisfacimento dei bisogni innati di protezione, vicinanza e conforto, ovvero quando il legame di attaccamento è disfunzionale, potranno emergere disturbi fisici, mentali o della condotta. “E' essenziale per la salute mentale che il bambino faccia esperienza di una continuativa, intime e calda con la propria madre (o con un sostituto) nella quale entrambi trovino soddisfazione e gioia”(Bowlby, 1951). Bowlby paragona un legame di attaccamento inadeguato ad uno stato di “chronical mourning”, di lutto cronico, che colloca l'individuo in una delle fasi che seguono la morte di una persona cara o la separazione perenne da essa. Infatti è a partire dalle prime esperienze relazionali con la figura di attaccamento che il bambino andrà a costruire i suoi Modelli Operativi Interni (MOI), ovvero le interiorizzazioni di dinamiche relazionali, costituite dalle aspettative di come la figura di attaccamento reagirà in talune circostanze di stress emotivo e fisico e dalle quali emergono le rappresentazioni che il bambino ha del Sè, degli Altri e della Relazione. Questi Modelli si cocostruiscono nella comunicazione quotidiana, in una dimensione interpersonale ed interdipendente (Bretherton, 1985). Nello sviluppo dei MOI seppur la relazione primaria con la figura di attaccamento fa da prototipo rappresentazionale di Sè, dell'altro e della Relazione, anche altre esperienze significative nel corso del ciclo vitale possono concorrere alla loro formazione. Essi sono dunque aperti a possibili riorganizzazioni derivanti da relazioni interpersonali importanti per la persona. Da un punto di vista Neuroscientifico, gli studi recenti confermano l'esistenza di un'alterazione funzionale di alcune aree celebrali (asse ipotalamicopituitario-adrenocorticale; regioni ippocampali) nelle persone che hanno esperito traumi infantili e situazioni di stress cronico (Schuder, Lyons-Ruth, 2004; Cicchetti, 2007). Sembrerebbe che le esperienze di attaccamento danno forma all'organizzazione precoce dell'emisfero desto e che l'attaccamento svolge un ruolo essenziale nella regolazione degli affetti e dello sviluppo emotivo. Sono quelle regioni celebrali, sia corticali che sottocorticali (corteccia orbitofrontale, sistema limbico ed aree di connessione ), sottostanti a processi emotivi e mnestici quelle aree connesse con le esperienze di attaccamento. Cicchetti sostiene che “un bambino non è in grado di sviluppare la corteccia orbitofrontale da solo, poiché tale sviluppo dipende dalle relazioni che egli ha con le persone a sua disposizione”. Si è riscontrato che i pattern di attaccamento insicuri o disorganizzati generano un'alterazione neuro-fisiologica nei livelli di cortisolo (ormone dello stress). Seppur da un punto di vista comportamentale, ad esempio in un bambino “evitante”, sembra ci sia una compensazione per la mancanza di protezione e contatto emotivo materno, attraverso strategie coerenti ed organizzate (meccanismi difensivi che riducono l'arousal), a livello neurobiologico tale compensazione determina un elevato costo fisiologico (McEwen 1997). Infine alcuni autori Lyons-Ruth, Bronfman e Atwood, (1999) hanno sostenuto che il sistema di attaccamento sia un “sistema psicologico immunitario”, in quanto funzionerebbe come da cuscinetto in situazioni di stress psicologico, mantenendo livelli di attivazione psicofisiologica entro margini accettabili. Tali sistema psicologico immunitario, nelle forme psicopatologiche probabilmente non ha avuto l'opportunità di svilupparsi appieno. 1.a Cosa sono i Modelli Operativi Interni “Ho cercato di spiegare che una parte di noi stessi che abbiamo a cuore è la ricchezza che abbiamo accumulato attraverso i rapporti con gli altri, poiché tali relazioni, e anche le emozioni a esse connesse, sono diventate un possedimento interiore” Klein, 1930 I Modelli Operativi Interni possono essere paragonati ad una lente grazie alla quale la persona legge, interpreta la realtà e reagisce ad essa. I MOI vanno ad influenzare i processi sia cognitivi che emotivi di una persona e si esprimono nelle relazioni. Dirigono l'attenzione, filtrano le informazioni, permettono di memorizzare alcune cose e di farlo in un determinato modo. Sottostanno alla regola della coerenza interna cognitivo-emotiva, per cui vanno a far rilevare certi episodi che confermano il modo di rappresentarsi della persona, degli altri e del suo rapporto con gli altri. Permettono altresì di non riattivare il sistema di attaccamento qual'ora esso richiami emozioni ed esperienze troppo dolorose. A tal proposito Bowlby parla di processi di esclusione difensiva, per descrivere una scissione e disorganizzazione dei magazzini mnestici, in cui non vi è corrispondenza tra memoria autobiografica (evento concreto) e memoria semantica (interpretazione dell'evento da parte dei genitori). In queste situazioni bambini o gli adulti tendono in maniera difensiva ad escludere dai ricordi quegli episodi in cui si sono notati comportamenti dei genitori che questi volevano far ignorare oppure comportamenti non accettabili e convertiti in sintomo, “una risposta che, separata dal contesto che l'aveva suscitata, appare inspiegabile, o la conseguenza del tentativo del paziente di evitare di rispondere con sensazioni autentiche ad una situazione estremamente difficile”(Bowlby 1989). I MOI si mostrano chiaramente nelle relazioni interpersonali, condizionando la definizione dei ruoli, la punteggiatura relazionale, le aspettative e le convinzioni. I MOI definendo alle persone le rappresentazioni reciproche del Sè, dell'Altro nella Relazione, inconsapevolmente entrano nella dinamica relazionale spesso andando a perpetuare la rappresentazione prototipica. Una persona che ha esperito un attaccamento sicuro, si mostrerà piacevole e verrà accolto, per una persona insicura o disorganizzata il rischio è quello di accumulare sensazioni di insicurezza, inadeguatezza ed inaffidabilità del mondo. In ogni caso i Modelli Operativi Interni, seppur prototipo della relazione primaria possono modificarsi in funzione delle esperienze relazionali dell'individuo. L'adolescenza, ad esempio, sembra essere un passaggio del ciclo vitale molto particolare per il modellamento dei MOI (Ammaniti et al. 2000). 2. Storia di una teoria La teoria dell'attaccamento ha una storia le cui basi sono nate anche dagli studi e dall'influenza di altri grandi autori. Di seguito ne verranno descritti in maniera schematica i principali. 2.a “Imprinting” K. Lorenz (1949) nei suoi esperimenti con le oche ed anatre coniò il concetto di imprinting. L'imprinting viene descritto nei termini di un meccanismo irreversibile speculare tra genitori e figli, per cui in un periodo critico e attraverso un funzionamento innato di rilascio, permette al piccolo di apprendere una serie di comportamenti fondamentali per la sopravvivenza, e al genitore di trasmettere il proprio patrimonio genetico. Anche nel bambino esiste un periodo sensibile o di vulnerabilità, dove il peso del rapporto genitore-figlio nelle modalità precoci di accudimento, gioca un ruolo cruciale per lo sviluppo della personalità. 2.b “Le madri Rhesus e l'appartenenza sociale” Hinde (1989) condusse degli studi sulle scimmie Rhesus, con lo scopo di comprendere quali effetti a breve e a lungo termine potessero avere le separazioni in età precoce dalla propria madre. Nei cuccioli si sono riscontrate le fasi di protesta e disperazione, per cui dapprima emettevano molti richiami per poi passare ad una postura rannicchiata e di riduzione dell'attività. Le variabili determinanti per ricostruire la relazione affettiva significativa madre-cucciolo dopo un periodo di separazione (nello specifico 6 giorni), sono state le seguenti: disponibilità emotiva della madre prima dell'allontanamento. disponibilità emotiva della madre dopo l'allontanamento, dipendente da una variabile ulteriore: la relazione con il gruppo. Hinde osservò che se era la madre ad essere allontanata dal gruppo, perdendo così il suo ruolo di membro e le alleanze costituite, le altre scimmie non si curavano del piccolo e alla riunione con la madre il cucciolo impiegava diverso tempo per instaurare una relazione simile alla precedente. Inoltre gli effetti comportamentali, quali impulsività e disadattamento si ritrovavano anche un anno dopo la separazione. La madre al suo rientro dirigeva parte delle attenzioni anche per reinserirsi all'interno del gruppo. Viceversa se il piccolo veniva allontanato, la madre poteva mantenere il suo ruolo di membro del gruppo, così che al rientro del figlio era capace di dedicarsi completamente a lui, aiutata anche dalle altre scimmie. Ne consegue che il riadattamento del piccolo avveniva molo più velocemente perchè vi era più spazio per la relazione. Questo esperimento proiettato sulla società umana ha evidenziato, oltre all'importanza della sintonizzazione emotiva madre-figlio, il ruolo fondamentale dell'impalcatura sociale e familiare per lo sviluppo del bambino. La possibilità di usufruire di più relazioni affettive è un fattore protettivo per la relazione di attaccamento, sia per la figura che accudisce che per chi viene accudito. Nei contesti in cui madre-bambino non sono inseriti in una rete sociale, familiare ed amicale di rapporti significativi, le conseguenze a lungo termine delle separazioni sono molto più accentuate. Questa peculiarità della relazione di attaccamento fa riferimento al concetto di “attaccamenti multipli” (Cyrulnik, 2011) 2.c “Vicinanza e protezione” Dagli esperimenti di Harlow sui macachi (Harlow Mears, 1979) è stato dimostrato che il legame madre-figlio, nei termini di protezione e vicinanza è a motivazione primaria e non secondaria al soddisfacimento di cibo. Infatti i piccoli se dovevano scegliere dove rifugiarsi in situazioni di paura, preferivano dirigersi e trascorrere più tempo coccolati da un fagotto immobile, morbido e caldo, piuttosto che stare vicino e a contatto con una sagoma di ferro dalla quale si poteva succhiare del latte. Così è anche nel bambino, in cui il bisogno di vicinanza e protezione è un bisogno primario ed innato. 2.d Baltimore Longitudinal study (Ainsworth, 1978) Probabilmente lo studio più complesso che è stato effettuato sulla teoria dell'attaccamento. La metodologia utilizzata è stata prima quella dell'osservazione diretta in contesti naturali, poi della ripetizione di verifica in situazione sperimentale. Lo studio ha coinvolto un campione di 26 coppie madre-bambino che sono state seguite per più di un intero anno. Come postulato di base vi era la convinzione che l'espressione delle emozioni, la loro regolazione e i comportamenti fossero legati particolarmente al tipo di accudimento esperito durante il primo anno di vita. Le osservazioni misero in luce che sin dalla nascita i bambini mettono in atto una serie di comportamenti che hanno l'effetto di far avvicinare la madre (pianto se la madre esce dalla stanza, sorriso rivolto alla madre, braccia sollevate quando la vede, ecc...) A partire dai 6 mesi questi comportamenti si organizzano in un sistema coerente di interazione (comportamenti di attaccamento), per cui la madre o chi si prende cura del piccolo diviene figura di attaccamento. In quest'ottica accorrere al pianto del piccolo non è un rinforzo positivo a produrre o a mantenere il pianto, ma una possibilità di creare delle aspettative sulla disponibilità della figura di allevamento. Durante la crescita, se la madre ha soddisfatto i bisogni innati di conforto e vicinanza, i bambini sembrano piangere solo in situazioni di reale stress. Le osservazioni dirette dell'autrice hanno portato a definire delle tappe di sviluppo della relazione di attaccamento: Mantenimento del contatto (0-2 mesi circa) attraverso il pianto, l'aggrapparsi ed il sorriso. La madre già può significare questi segnali. Rifugio sicuro (2-6/8 mesi circa). Il bambino inizia a discriminare chi maggiormente è in grado di alleviare il senso di sconforto. I comportamenti di attaccamento (sorridere, piangere, aggrapparsi e vocalizzare) sono più rivolti alla figura di accudimento, così come il conforto viene accettato essenzialmente se è la madre a coccolarlo. Ansia da separazione (6/8 mesi – 2 anni circa). Con lo sviluppo cognitivo (relazioni causaeffetto e permanenza dell'oggetto), motorio (gattona, afferra, lancia) e relazionale (attenzione condivisa), si consolidano i prerequisiti mentali dell'imprinting filiale così che il bambino protesta quando la figura di attaccamento si allontana. Compare la paura dell'estraneo. Base sicura (dai 18 mesi circa). Si rafforza una relazione che ha come comune scopo il conforto e mantenere la vicinanza. Anche il bambino si inizia ad adattare alla madre, la reciprocità relazionale permette di aspettare, di stare un poco da soli. La ricerca della madre è nei momenti di pericolo. Si interiorizza l'affidabilità materna, che permette l'esplorazione del mondo circostante. Vi è un'interdipendenza emozionale. Le capacità mnestiche, linguistiche e relazionali (considerare il punto di vista altrui) contribuiranno alla formazione dei Modelli Operativi Interni, ovvero l'interiorizzazione della relazione di attaccamento, che nel corso dello sviluppo contribuirà in maniera decisiva alla rappresentazione cognitiva ed emotiva del Sè, dell'Altro e della Relazione. Dunque i MOI di ciascuno di noi saranno utilizzati, al di là di una consapevolezza, nel corso della vita come metro per definire chi siamo e chi sono gli altri nelle relazioni. La seconda parte del Baltimore Longitudinal Study, ha permesso di classificare delle tipologie di attaccamento. La situazione sperimentale viene definita come “Strange Situation”. Gli stessi bambini precedentemente osservati nella relazione materna durante la vita quotidiana, vennero video-registrati all'età di 12-13 mesi, durante una successione di tre situazioni: 1. gioco in presenza della madre e di un estraneo, entrato qualche minuto dopo. 2. allontanamento della madre e presenza dell'estraneo nella stanza dei giochi. 3. allontanamento anche dell'estraneo; il bambino gioca nella stanza da solo. L'osservazione riguardava in maniera specifica i seguenti aspetti: comportamento esplorativo del bambino reazioni emotive all'allontanamento della madre reazioni alla presenza dell'estraneo risposte alla riunione con la madre I risultati emersi dalla “Strange Situation” hanno permesso di distinguere l'attaccamento sicuro (B) da quello insicuro, suddividendo quest'ultimo in insicuro-ansioso, ambivalente-resistente (C) ed in insicuro ansioso, evitante (A). Le tabelle che seguono descrivono in maniera dettagliata le caratteristiche di queste tre forme di attaccamento, in cui le scoperte della Ainsworth sono state integrate con le considerazioni anche più recenti. ATTACCAMENTO SICURO (B) (Ainsworth et al. 1970; Attili, 2007) Comportamento materno nel primo anno di vita Sensibilità e responsività ai segnali del bambino. Supporto nelle situazioni stressanti. Con l'estraneo Il bambino sia pure in maniera circospetta è in grado di giocare. Separazione dalla madre Il bambino mostra sconforto ma si riorganizza emotivamente e riprende a giocare ed esplorare. Riunione con la madre Il bambino comunica il disagio provato e si lascia consolare dal contatto fisico ed emotivo della madre, riprendendo a giocare con essa. ATTACCAMENTO INSICURO-ANSIOSO, AMBIVALENTE-RESISTENTE (C) (Ainsworth et al. 1970; Attili, 2007) Comportamento materno nel primo anno di vita Imprevedibilità e mancanza di connessione nella risposta ai bisogni emotivi del bambino. Alternanza di disponibilità, indifferenza o eccesso nell'accorrere ai segnali di paura e sconforto o alle richieste di contatto. (stile ambivalente-resistente) Con l'estraneo Il bambino manifesta un rifiuto di entrare in contatto. Separazione dalla madre Il bambino ha difficoltà ad esplorare l'ambiente e a giocare, mostrando segni profondi di sconforto. Anche quando la madre era presente, il bambino si manteneva stretto ad essa. Riunione con la madre Espressione dello sconforto in maniera molto evidente con pianto inconsolabile, letto come un tentativo per ricevere vicinanza. Allo stesso tempo resistenza al contatto fisico e possibilità di atteggiamenti aggressivi verso la madre, una forma di “rabbia disfunzionale”. (modalità ambivalente-resistente) Scopo: presenza costante della madre ATTACCAMENTO INSICURO-ANSIOSO, EVITANTE (A) (Ainsworth et al. 1970; Attili, 2007) Comportamento materno nel primo anno di vita Rifiuto sistematico del bambino qual'ora manifesti un bisogno affettivo o uno sconforto, Caratteristiche materne: avversione per il anche attraverso la ridicolizzazione delle paure. contatto fisico, inibizione dell'espressione Scoraggiamento del contatto fisico, minaccia di emotiva; fastidio per richieste di aiuto o rompere la relazione per richieste eccessive. (stile evitante) conforto. Con l'estraneo Accetta senza problema la persona sconosciuta. Separazione dalla madre Riunione con la madre Indifferenza. Il bambino, così come quando la madre era presente, è preso dall'esplorazione e dal gioco autonomo. Non mostra sconforto né paura. Il bambino rimane alla “distanza ottimale”, nè troppo vicino né troppo lontano. Non mostra emozioni di rabbia o tentativi di consolazione, negando il bisogno di sicurezza per paura dell'abbandono. (modalità evitante) Scopo: non essere respinti al momento del bisogno. Protezione nel caso di pericolo estremo A queste tre categorie di attaccamento, studi successivi hanno aggiunto un'altra tipologia di relazione madre-bambino, che la Ainsworth aveva considerato come “non etichettabile”, in quanto differiva da tutti gli stili presi in considerazione. Tale forma di attaccamento viene definito disorganizzato (D) (Main M., Hesse E. 1992) ed è descritto nella tabella sottostante. ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO (D) ( Main e Solomon, 1990; Attili 2007) Comportamento materno nel primo anno di vita Madre spaventata, emotivamente non disponibile, in preda ad un lutto o ad un trauma non risolto, maltrattane, abusante, trascurante, con sintomi psichiatrici. Incute spavento. Con l'estraneo Richiesta di conforto. Attivazione comportamento di attaccamento. del Separazione dalla madre Il bambino in assenza della madre esplora l'ambiente e gioca. Quando la madre è presente mostra cautela e paura. Riunione con la madre Il bambino presenta atteggiamenti di evitamento e resistenza al contatto. Si dispera e si aggrappa alla madre ma guardano altrove, portando la mano alla bocca, chiudendo gli occhi. Si raggomitolata e si dondola in modo stereotipato, si immobilizza (freezing) o si ammutolisce improvvisamente (stilling). Situazione paradossale, per cui la ricerca di conforto viene diretto filogeneticamente verso una figura di attaccamento, la quale però risulta essere essa stessa fonte di spavento. Si attiva contemporaneamente il sistema di attaccamento e quello di difesa. Scopo: resistere e prendere tempo al fine di decodificare lo stato emotivo della madre potenzialmente pericolosa. Nelle diverse forme di attaccamento che sono state definite, il comportamento del bambino risponde in ogni modo a quella che Hinde definisce “propensione a base sicura innata”, cioè a quella predisposizione che porta il piccolo alla ricerca di vicinanza per essere protetto dal pericolo e per sentirsi al sicuro. In questa lettura gli attaccamenti insicuri, evitanti, ambivalenti-resistenti e disorganizzati sono anche essi funzionali a tale propensione. Infatti nella relazione di attaccamento vi è un'organizzazione dei sistemi motivazionali infantili delineati da Bowlby (attaccamento-esplorazione-difesa-affiliazione) attraverso cui il bambino è in grado di anticipare il comportamento materno e di rispondere ad esso. Questi meccanismi servono a mantenere un qualche contatto con la figura di attaccamento e nello stesso tempo un sé integrato. D'altra parte però sono alla genesi di errori nella comunicazione arrivando fino a vere e proprie patologie della comunicazione. I bambini evitanti molto spesso ingannano e si ingannano nel mostrare la loro autosufficienza. Autosufficienza connessa alla necessità di autoconsolazione esperita in assenza di una sintonizzazione e di una risposta affettiva materna. Il sistema di esplorazione prevarica quello dell'attaccamento. Forte è la paura di essere respinto, tanto da genere degli atteggiamenti che innescano nell'altro poca tolleranza. Nell'attaccamento ambivalente-resistente, il bambino prevede una scarsa affidabilità della figura materna, per cui i livelli di ansia nella separazione sono così alti da inibire l'esplorazione, mentre nella riunione con la madre si innesca dei comportamenti esagerati per mantenere la vicinanza. Questi bambini mostrano in maniera ridondante la loro rabbia piuttosto che il loro dolore, ecco perchè spesso da adulti cercano di mascherarla diventando persone dipendenti. Nello stile di attaccamento disorganizzato, invece si osserva una disorganizzazione dei sistemi motivazionali infantili, in quanto il bambino vive all'interno della relazione primaria una costante paura, che proviene dalla stessa persona a cui dovrebbe chiedere conforto. Non vi è una coordinazione tra stati cognitivi, emotivi e comportamentali, in quanto è assente la possibilità di anticipare le reazioni materne; le emozioni vengono soppresse in maniera difensiva e non vi è speranza di protezione in caso di pericolo estremo. I piccoli mettono in atto delle strategie definite “di cut-off o fuga bloccata” al fine di porre termine ai comportamenti spaventosi materni. Si possono osservare bambini che si raggomitolano, si bloccano, si afflosciano, che chiudono gli occhi, o girano il capo dal lato opposto al fine di evitare una situazione insopportabile, derivante dalla minaccia di non poter fuggire dal pericolo. Queste strategie esclude così tutte quelle informazioni che manterrebbero attivato il sistema di attaccamento (Attili 2007). Inoltre possono avere la funzione di ridurre l'ambivalenza tra fuga e spinta ad attaccare, infatti in diversi casi intorno ai 2 anni di vita si sono osservati pattern coercitivi-controllanti nelle relazioni (Main e Solomon 1990). 3. L'attaccamento nel ciclo di vita Assodata l'esistenza di una correlazione tra il legame di attaccamento, esperito nella relazione con la figura primaria durante l'infanzia, e la rappresentazione che l'adulto ha di Sè e del mondo circostante, si osserva che l'espressione dell'attaccamento in età adolescenziale e negli adulti è conseguente all'organizzazione di Modelli Operativi Interni più complessi. Queste nuove configurazioni di attaccamento sono possibili sia per una maturità cognitiva ed affettiva, sia per le diverse esperienze relazionali intraprese. Infatti le esperienze affettive significative, in particolari relazioni diadiche, vedi nella pratica psicoterapica ad esempio, danno occasione di revisionare e conoscere più consapevolmente i propri MOI. Di seguito verranno presentate le quattro tipologie di attaccamento (sicuro; ambivalenteresistente; evitante; disorganizzato) in prospettiva evolutiva, partendo dal presupposto che la classificazione è puramente indicativa e che ci possono essere molte altre variabili, le quali consentono di cambiare direzione alla persona. Inoltre difficilmente si troveranno individui che appartengono ad un unica categoria, piuttosto si conosceranno tendenze di stili di attaccamento, che di conseguenza generano modalità di agire e di relazionarsi (Attili 2007). In uno stile di Accudimento/Attaccamento sicuro (B): Durante l'età dello sviluppo si possono osservare bambini che esprimono le emozioni, anche aggressive, che interagiscono e giocano sapendo rispettare le regole (non iperadattati). Bambini che si mostrano autonomi, prosociali e cooperativi. Sono capaci di chiedere aiuto. In adolescenza l'autonomia rivendicata in questo periodo può attuarsi facilmente. Le provocazioni e la sfida con i genitori, a livello più profondo, conosce la possibilità di fare affidamento sulla famiglia in caso di necessità. Al ragazzo è consentito il salto di sviluppo nel mondo adulto. L'adulto apparirà “libero/autonomo”(F), con una rappresentazione mentale della figura di attaccamento come “base sicura”. Si percepirà libero di esprimere le proprie opinioni ed emozioni, perchè si sente accolto dalle persone, libero da pregiudizi negativi sugli altri. Presenta fiducia nelle proprie capacità ed è in grado di gestire le difficoltà. Nelle relazioni affettive ama e si sente amato, chiarisce e negozia i termini della relazione, riconosce i bisogni di coppia ed è empatico. E' in grado di tollerare le separazioni temporanee, affronta i conflitti costruttivamente e accetta l'aiuto. La realtà esterna è rassicurante e le capacità genitoriali saranno nei termini di base sicura per i figli. All'interno di uno stile di Accudimento/Attaccamento ambivalente-resistente (C): Il bambino tende ad esprimere in maniera esagerata gli affetti, confusi e confondenti. Si possono presentare come impulsivi, timorosi, aggressivi ed inconsolabili. Spesso vengono rifiutati dai coetanei e ricorrono all'insegnante nei conflitti. In età adolescenziale l'autonomia e l'indipendenza possono essere vissute come pericolose. La percezione di sé come vulnerabile e a rischio, senza possibilità di poter contare sempre sulla propria famiglia. Il ragazzo presenta ostilità nei confronti dei genitori, messi a dura prova nel rispetto delle regole (spesso assenti) e del loro ruolo. L'adulto si caratterizza come preoccupato/invischiato (E), con una rappresentazione mentale della figura di attaccamento imprevedibile e inaffidabile. Nelle relazioni, ha difficoltà a regolare l'espressione emotiva e presenta il bisognoso di mantenere un'attenzione continua verso l'altro, con paura di abbandono o di controllo ed intrusione. L'altro viene spesso percepito come inaffidabile. La persona manifesta scarsa fiducia nelle proprie capacità, rimanendole difficile affrontare da solo le difficoltà. Nella relazione affettiva, i termini di ruoli e posizioni sono rigidi e negoziati coercitivamente, non tollera le separazioni temporanee, ha la sensazione di non esser degno di amore, mostra gelosia e possessività. Difficilmente si abbandona a sensazioni piacevoli, presenta aggressività nella risoluzione dei conflitti e scarsa empatia. La realtà esterna viene vissuta come pericolosa. Nel ruolo genitoriale si caratterizza come genitore intrusivo, controllante e preoccupato. Nello stile di Accudimento/Attaccamento evitante (A): Durante lo sviluppo i bambini tendono a sopprimere l'espressione emotiva. Presentano strutturate aspettative di rifiuto, non colgono altre risposte relazionali positive. Si possono mostrare passivi, violenti o ingannatori, con notevoli difficoltà ad instaurare amicizie. In adolescenza appaiono eccessivamente autonomi e indipendenti, si caratterizzano per un sè grandioso e rifiutano spesso le figure genitoriali denigrandole, considerate come incapaci di ascoltare ed inutili. L'adulto distanziante/distaccato (Ds) ha una rappresentazione mentale della figura di attaccamento come distanziante e rifiutante, tanto che a sua volta si mostra distaccato nella relazione con l'altro. Rassegnato sul poter ricevere aiuto e conforto, non chiede, sopprime le reali emozioni, nega i propri bisogni. Può presentare sentimenti di solitudine e rabbia controllata, manifestando aggressività o isolati o eccessivamente socievolezza. Si fida solo di sé stesso, enfatizzando un'esibita indipendenza e scarsa empatia. Vive gli altri come rifiutanti, ostili e rigidi. Nelle relazioni affettive si sente non amato e non amabile, non definisce i termini della relazione, si mostra passivo o tendente all'inganno, freddo ed indifferente anche nelle separazioni temporanee. La realtà esterna viene vissuta come ostile e violenta o autorappresentata per conversione stereotipicamente positiva. Come figure genitoriali si caratterizzano per essere rifiutanti, ridicolizzanti e distanzianti. Accudimento/Attaccamento disorganizzato (D): Durante l'età evolutiva il bambino si mostra incoerente nelle relazioni, o aggressivo e provocatorio o passivo ed isolato. Tende alla minaccia o a mostrare reazioni di paura nei confronti dei coetanei. Gli adolescenti essendo stati ostacolati nel normale decorso di sviluppo, spesso manifestano sintomi di tipo psicopatologico e disturbi della condotta. Mancano di competenza sociale e dimostrano un deficit nella regolazione emotiva. L'adulto si presenta come non risolto (U) e avente una rappresentazione mentale della figura di attaccamento come bisognosa di aiuto e che spaventa. Viene vissuta una potente ambiguità nel vivere se stesso e gli altri, percezioni multiple e incoerenti, caratterizzate da ostilità ed impotenza. La persona si percepisce nella relazione come colui che può aiutare, allo stesso tempo però si sente minacciato e fonte di paura. Sono presenti sentimenti di colpa, necessità di dover essere punito o di dover salvare. Possono esperire di essere in una situazione di costante pericolo. Le relazioni affettive sono caratterizzate da violenza, maltrattamento o forte imprevedibilità, evitamento ed isolamento, attraverso modalità aggressiva o di sottomissione nella relazione. La realtà esterna è catastrofica. I genitori spesso sono a loro volta maltrattanti, disorganizzati e “discuranti”. Infine si vuol presentare un ultima tipologia di attaccamento, messa a punto dal team coordinato dalla professoressa ordinaria di psicologia sociale dell'Università la Sapienza di Roma, G.Attili (2007). La definizione di questo stile di attaccamento è “attaccamento confuso”: Pattern riconducibile contemporaneamente ad attaccamenti distaccati e invischiati/preoccupati. All'interno di questa modalità di attaccamento il bambino sembra incapace ad individuare i termini del pericolo collegato alla separazione e di reagire ad essa. Probabilmente ha vissuto situazioni in cui le figure di accudimento erano rapidamente mutevoli, oppure è stato allevati all'interno di un contesto di cure distorte da parte di più figure, l'una in contrasto con l'altra. In adolescenza l'autonomia e l'indipendenza sono a rischio non essendo sostenuto il normale sviluppo e la necessità di individuazione, gli adolescenti spesso presentano forme sintomatiche come ad esempio il disturbo del comportamento alimentare. Durante l'età adulta si possono osservare situazioni psicopatologiche, per cui risaltano agli occhi risposte emotive incompatibili ed un'organizzazione mentale confusa alla cui base vi è un meccanismo difensivo di fuga. Nel SAT (Separation Anxiety Test, riformulato da Attili nel 2001) mostrano nelle risposte incapacità di prendere una posizione (“Dipende da..”; “Non so se...”; “Potrebbe..”). In questa descrizione di come l'attaccamento ed i MOI si evolvono nel corso dello sviluppo, si mette in evidenzia quella circolarità transgenerazionale per cui dinamiche relazionali si acquisiscono, si esercitano e si trasmettono. La persona si può trovare ora nella posizione di figlio che insatura l'innato legame di attaccamento con la mamma, la quale a sua volta è stata figlia e partner di un'altra persona con una specifica storia di attaccamento alle spalle (Fig.1). Crescendo ci si trova a stabilire relazioni anche con altre figure, in primis il padre o persone interne alla famiglia e successivamente con coetanei ed amici. L'individuo si può trovare anche nella posizione di partner in una relazione di coppia che vede l'intreccio, spesso “complementare” di due storie di attaccamento (Fig.1). Infine la persona sarà essa stessa figura di attaccamento o genitore che trasmette in maniera più o meno implicita nella relazione il racconto del proprio attaccamento (Fig.1). In questo spazio del “ciclo di attaccamento” (Fig.1 “eventi e persone significative”) ci sono dei tasselli che fanno di ogni individuo la particolarità, sono gli eventi potenzialmente rischiosi o protettivi che permettono di continuare l'attaccamento transgenerazionale o di arrestarlo o modificarlo. Tasselli che possono riguardare la qualità della relazione genitoriale e quella di coppia, la costituzione del bambino, un'amicizia, una psicoterapia, un'arte in cui esprimersi, un copione seguito, un lutto in un momento particolare del ciclo vitale, una storia di aborti ecc... 4. Attaccamento nella sua dialettica circolare La maggior parte degli studi sull'attaccamento si sono concentrati sulle ripercussioni che la relazione di attaccamento può avere sullo sviluppo della personalità dei figli. In un'ottica più ampia però è necessario considerare anche le ripercussioni che tale relazione ha sulla madre o sulla figura principale di attaccamento. Infatti se da un lato i comportamenti di attaccamento, pur insicuro, vengono considerati una forma di adattamento ottimale allo stile relazionale di accudimento della madre, dall'altro lato i diversi stili di comportamento materno possono considerarsi adattivi in termini transgenerazionali, socio-culturali e per il successo riproduttivo in uno specifico ambiente. Basti pensare ad una madre che ha perso la propria figura di attaccamento in età precoce oppure a disagi socio-economici che non consentono di prendersi cura in maniera idonea del proprio figlio, alle vittime di violenza domestica, ad una madre che quotidianamente deve relazionarsi con un figlio a cui è stata diagnosticata una sindrome autistica oppure ad una madre che per sua fortuna ha sperimentato a sua volta uno stile di attaccamento sicuro. Anche in Bowlby si ritrova la concezione che il legame di attaccamento è a base innata e relazionale. La motivazione a prendersi cura del proprio figlio è biologica, così come l'individuazione in tempi brevi di chi sia motivato ad offrire cure, ma in questo quadro più ampio ci sono numerose altre variabili, derivanti dalla storia pregressa e presente della madre, dalla gravidanza e dalle caratteristiche del bambino (che già prima dalla nascita ha una propria storia, fatta di immagini, di proiezioni e di sensazioni fisiche) che concorrono a formare quel “complesso co-adattato”(Hinde 1989) che è l'aspetto puramente relazionale dell'attaccamento. Ci si riferisce alla sintonizzazione relazionale madre-neonato, attraverso cui vengono costruiti significati condivisi, per cui la madre risponde ed invia messaggi che se coerenti e carichi di sicurezza affettiva, permette al bambino di sviluppare una rappresentazione di sé stesso come qualcuno che può essere amato e curato (e dunque amarsi e curarsi), che può piangere e richiamare l'attenzione in situazioni di disagio o pericolo (e dunque fidarsi), che può esplorare serenamente il mondo per conoscere e fare (e dunque sviluppare cognitivamente e meta cognitivamente). Diversi studi hanno mostrato come la “riflessività materna”, ovvero la capacità metacognitiva e di Teoria della mente sono variabili che favoriscono un legame di attaccamento sicuro (Fonagy et al 1997). In questa danza di sintonizzazione il bambino ha un suo contributo molto importante. Thomas e Chess (1977) definiscono degli stili comportamentali distinguendo i bambini “difficili” dai bambini “facili”. Gli autori hanno preso in considerazione alcune variabili, quali ad esempio la responsività, la ritmicità fisiologia dell'alimentazione, della defecazione e del sonno, l'umore e la frequenza del pianto, l'attività motoria, la risposta a stimoli o persone nuove. Intuitivamente un bambino “difficile” pone maggiori ostacoli allo sviluppo di un legame di attaccamento sicuro rispetto ad un bambino “facile”. In una prospettiva relazionale una mamma tendente ad un accudimento insicuro può giovare di un fattore protettivo se il proprio bambino è “facile”. Così come un bambino tendenzialmente “difficile” potrà sviluppare un legame di attaccamento sicuro con una mamma a sua volta sicura. Nel caso in cui sia nella mamma che nel bambino i fattori di rischio sono alti cresce la probabilità di una tipologia di attaccamento insicuro. 4.a Perchè la madre si prende più cura del figlio rispetto al padre? Molti degli studi sull'attaccamento, in particolare i primi, si sono concentrati sul rapporto diadico madre-bambino. Il ruolo principale della madre nello sviluppo dell'attaccamento può essere spiegato, da un punto di vista evoluzionistico, come un comportamento nato dall'esito di pressioni selettive individuali, ancorate alla filogenesi, in quanto il pattern madre-bambino sembrava essere il più adatto all'ambiente in cui vivevano i primi uomini. Secondo questa prospettiva lo stretto contatto materno aiuta la termoregolazione insufficiente nei neonati, così come la posizione semiverticale tipica di quando il piccolo sta in braccio, consente di migliorare l'ossigenazione del sangue; il grasping-reflex, la suzione, la marcia di Moro sono funzionali per mantenere il contatto e la protezione della madre (Attili 2007). Inoltre sembrerebbe che la tendenza alla cura della prole da parte della donna sarebbe legata al fatto che la possibilità di avere un successo riproduttivo è molo inferiore a quella dell'uomo (Attili, 2004), dunque le maggiori dosi di cure, protezione ed empatia permetterebbero di ampliare la sopravvivenza dei figli. Queste considerazioni però sembrano non considerare altre variabili che si inseriscono nel complesso sistema dell'attaccamento. In un'ottica bio-psico-sociale e sistemico-relazionale, il ruolo del padre, della famiglia di origine e della coppia genitoriale, così come il ruolo del contesto storico-culturale sono aspetti che intercorrono nella formazione del legame di attaccamento e dei Modelli Operativi Interni. In una meta-analisi di van Izendoorm (1997) viene evidenziato che in realtà nella trasmissione intergenerazionale dell'attaccamento, il peso della relazione materna sembra essere rilevante nel 75% dei soggetti, per il restante 25% gli esiti positivi o negativi non sono prevedibili dai modelli operativi interni materni. Ciò a sostegno che nello sviluppo dei MOI e del legame di accudimentoattaccamento vi è un'interazione di diverse variabili bio-psico-sociali. Infatti la predisposizione del bambino a formare attaccamenti multipli (Cyrulnik, Roma 2011) che garantirebbero maggiori possibilità di adattamento e di funzionamento, interagisce con variabili quali, la relazione con il padre, la relazione della coppia genitoriali, i nonni, l'integrazione socio-culturale ed altri fattori interni od esterni alle persone. La costruzione delle relazioni può essere vista come una sequenza adattiva, in cui a partire dalla prima relazione significativa con la figura di attaccamento, si prosegue rispecchiandosi negli altri familiari, nei pari, nel partner e negli estranei. Nello specifico, il ruolo del padre, sembra avere sempre maggior importanza per lo sviluppo del sé e dei MOI nel bambino. In una lettura sistemica, il padre viene visto parte attiva della dialettica relazionale nell'attaccamento, in quanto egli stesso protagonista, attraverso le proprie interiorizzazioni di sè, degli altri e delle relazioni, della co-costruzione del legame madre-figlio. Il padre rispecchia l'immagine della moglie come donna e come mamma, influenzandone i MOI. Il padre può sostenere la moglie nell'accudimento del figlio, può trasmettere riconoscimento o svalutare il ruolo di madre, può favorire o ostacolare un sereno passaggio dallo stato simbiotico all'individualizzazione del figlio. La genitorialità paterna a sua volta sarà influenzata dalle caratteristiche della moglie e dalla qualità della relazione coniugale. Un padre sicuro sarà un fattore protettivo per un contesto familiare in cui la moglie è invece insicura, poiché può offrire alla coniuge la possibilità di rispecchiarsi in altri occhi, così da modulare anche le risposte materne alle richieste del figlio. Specularmente un padre insicuro potrà essere meno negativo ed ostile con il figlio se ha a fianco una moglie sicura rispetto alla storia dei suoi attaccamenti (Attili 2007). D'altro canto il bambino già a tre mesi sembra avere un “competenza triangolare”, ovvero una propensione innata ad interagire con due o più persone. Il piccolo è in grado di dirigere l'attenzione e l'affetto verso i due genitori, i quali a loro volta possono facilitare uno sviluppo positivo attraverso “un'alleanza familiare sufficientemente buona”(Attili 2007). Ci possono essere delle situazioni particolari in cui la figura paterna, qualora la madre per qualsiasi motivo non riesce ad occuparsi del piccolo, può rappresentare la figura di attaccamento principale oppure la seconda figura di attaccamento, “compensativa” quando la sintonizzazione materna è danneggiata. Anche Bowlby fece notare l'esistenza di una “gerarchia di figure affettive”, le quali pur non funzionando come figure primarie di attaccamento possono porsi come persone o contesto di protezione allargato. 4.b Alleanza familiare “sufficientemente buona” Riprendendo le considerazioni sull'importanza di vedere l'attaccamento come un fenomeno più complesso, che va oltre la relazione diadica madre-bambino, si vuol introdurre l'influenza che la relazione di coppia può avere sullo stile di attaccamento che il bambino esperisce. Oramai è assodato come nello scegliere una compagna o un compagno la persona riattiva le dinamiche proprie del sistema di attaccamento esperito durante l'infanzia. L'individuo seleziona accuratamente i contesti e le relazioni, preferisce un partner che confermi le opinioni che ha costruito su se stesso, sugli altri e sulla relazione. Tanto più viene soddisfatta questa “coerenza”, tanto maggiore potrà essere la durata di una relazione sentimentale. Nelle relazioni di coppia compaiono le stesse dimensioni dell'attaccamento madre-bambini: effetto mantenimento del contatto, effetto rifugio sicuro, effetto ansia da separazione, effetto base sicura. Un aspetto importante nell'attaccamento tra adulti è “la reciprocità” (Attili 2007) nel coprire ora un ruolo di figura accudente, che offre conforto e protezione, ora un ruolo di colui che ha bisogno di essere confortato. Tale flessibilità e reciprocità sono variabili di un andamento sano nel rapporto di coppia. Infatti qual'ora i ruoli di accudente/accudito si irrigidiscono, la relazione può rivelarsi patogena. Un'altra caratteristica fondante il rapporto di coppia è la dimensione sessuale, come ricerca di una prossimità. Attili (2007) riflette come da un punto di vista filogenetico la scelta del partner viene guidata da una serie di segnali, i quali dirigono la persona verso colui o colei che oltre ad esser un buon compagno, potrebbe essere anche un buon genitore. Gli individui sicuri tendono ad amare combinando amore passionale e amore altruistico- disinteressato. Le persone ambivalenti si caratterizzano per l'amore passionale e idealizzazione, mentre le evitanti vivono le loro relazioni come amore logico o amore-gioco, nel complesso circospetto. E' bene sottolineare come all'interno della relazione di coppia si ha la possibilità di esperire relazioni diverse, per cui si può innescare anche una modificazione degli stessi MOI in una persona. Un partner sicuro può ad esempio fungere da base sicura per l'altro meno sicuro, nel tempo questa relazione può generare un'opportunità di interiorizzare una rappresentazione diversa di sé, dell'altro e delle relazioni. Nel rapporto di coppia si può esperire una dimensione di sé più apprezzata, protetta, rassicurata (pattern sicuro) o viceversa come poco disponibile (pattern insicuro) o troppo coinvolta (pattern evitante) o vittima (cluster disorganizzato). L'idea di fondo è che la relazione coniugale inevitabilmente entra nella relazione genitorebambino, in un'interdipendenza per cui la sensibilità nei confronti dei figli è strettamente correlata alla soddisfazione coniugale. Da alcune ricerche emerge che i padri portati spontaneamente a prendersi cura dei figli, con frequenti interazioni di gioco, sono anche mariti gratificati nel rapporto con la moglie, tale rapporto si basa su una profonda comunicazione (van Ijzendoorn et al 1997). La coppia va a costituire di per se un “terzo” che rappresenta il contesto più ampio entro cui il piccolo può sentirsi protetto. In questa lettura relazionale è evidente la dialettica circolare nell'attaccamento infantile, per cui diverse storie di attaccamento, specifiche della madre e del padre si inseriscono in un rapporto di coppia, che permette un ri-modellamento più o meno coerente e complementare dei MOI, che a loro volta influenzano la storia di attaccamento del bambino. In questi termini è possibile anche parlare di “alleanza familiare sufficientemente buona”, dove il “terzo”, la coppia, se adeguatamene unito e sintonizzato funge da contenitore e da rifugio sicuro per il piccolo. CAPITOLO II La Casa rifugio per donne legate ad un partner maltrattante “Dove sono finite le colazioni gioiose? Il succo d'arancia e il bacon? Il bacio del mattino e il sorriso al dentifricio? Sembri aver rinunciato. Ora, solo smorfie unte uova fritte rovesciate minacce bruciate e rabbia coagulata. Lacrime in una tazza sporca” McGough, 1990 In questo capitolo si prenderà in considerazione una tipologia di relazione caratteristica nelle donne legate ad un partner maltrattante, le quali seppur nella loro specificità individuale, sembrano avere delle somiglianza nello stile di attaccamento esperito durante l'infanzia, nella scelta del partner e nella modalità di accudimento dei figli. Il mio lavoro in Casa rifugio per le donne vittime di violenza domestica e minori a carico, mi ha offerto molte occasioni di riflessione sui legami di attaccamento. Il nome stesso della struttura che accoglie nei casi di estremo pericolo queste donne, suscita un pensiero legato alla dimensione dell'attaccamento. Il “rifugio sicuro” è il termine che viene utilizzato, in primis da Bowlby, per descrivere un'esperienza di protezione e sicurezza, di libera espressione emotiva e di vicinanza fisica ed affettiva. Le donne vittime di violenza domestica manifestano la necessità profonda di esperire un contesto di relazioni sicure, all'interno di un luogo amichevole, che consenta di “star bene”, di riposarsi, di esprimersi liberamente e all'occorrenza di pensare con adeguato coinvolgimento affettivo al proprio passato e futuro. La Casa rifugio dunque può essere vista un ambiente entro cui poter sperimentare relazioni diverse, interiorizzare nuove rappresentazioni di sé, dell'altro e della relazione che intercorre; un'opportunità di riorganizzare i propri Modelli Operativi Interni. L'etica alla base della metodologia di lavoro in Casa rifugio, parte da una riflessione di genere della violenza, per cui l'assunto principale è che la violenza alle donne sia intrinseca al nostro sistema culturale e basata sulla discriminazione dei generi (Cardinaletti, 2012). La dimensione della cura che la donne deve offrire all'altro diviene ben presto dipendenza, così come il ruolo di protezione e di dominio del pater familias fanno parte degli stereotipi socio-culturali. Perciò l'intervento più utile a contrastare il fenomeno è un cambiamento a livello della rappresentazione socio-culturale dei generi, nei termini di una valorizzazione delle differenze e di un recupero della soggettività maschile e femminile. Oltre a questo livello, la violenza alle donne presenta un aspetto relazionale, per cui la sottomissione e la dipendenza della vittima riflette la complementarietà alla supremazia e al controllo del carnefice. Questa circolarità va letta all'interno di una relazione di abuso, per cui non è possibile considerare sullo stesso piano i comportamenti “vittima-carnefice”, ne tanto meno giustificare il maltrattamento. Nella maggioranza dei casi, sopratutto all'inizio del percorso di uscita dalla violenza, i partner parlando uno dell'altro fanno riferimento ad un “amore con qualche comportamento violento”; manifestazione della collusione con la rappresentazione sociale del legame affettivo, che rende la violenza così resistente al cambiamento (Cardinaletti, 2012). Infine da un punto di vista individuale le donne vittime di violenza mostrano sentimenti di impotenza, ambivalenza ed incapacità di tutelare i figli. Si assiste a quello che la Cardinaletti (2012) definisce un “annientamento del sé; una dispercezione del senso di sé e di una tendenza a dirigere le proprie risorse interne esclusivamente verso l'esterno”. Per questo motivo spesso si osserva un congelamento del sé, un'autopercezione di incapacità al cambiamento e ad una progettualità futura, così come una mancanza di strategie di autoprotezione e protezione verso i figli. In una situazione relazionale adeguata, la percezione dell'identità è un processo in continuo cambiamento, ricco di sfaccettature, che nella violenza non possono essere esperite in quanto si è vittima del controllo e dell'isolamento relazionale. Questo essere in balia dell'altro genera progressivamente una tendenza ad assumere il suo punto di vista su di sé. Non a caso le donne ospitate in Casa rifugio, inizialmente si descrivono nello stesso modo con cui sono state descritte dal partner maltrattante (incapaci come donne e madri, frigide, limitate cognitivamente...). Inoltre paradossalmente, lungi dall'assumere una situazione di passività e non azione, le donne legate ad uomini maltrattanti aumentano la loro quantità di energia, dirigendola però soltanto sugli altri. Sono donne che non possono permettersi di ammalarsi, di fermarsi. Infatti all'ingresso in Casa rifugio si osserva un'iniziale frenesia ed uno stato di allerta notevole (fanno pulizie, cucinano, lavano e stirano), successivamente le stesse signore si “permettono” di star male (febbre, mal di gola, mal di schiena...), di sedersi, di leggere, di giocare con i propri figli e di sorridere. I danni causati da una relazione basata sull'abuso e sul controllo sono molteplici. La durata del rapporto, le eventuali violenze pregresse intra o extra-familiari, le reazioni del contesto di vita (protettivo o colpevolizzante) sono gli indici predittivi del danno soggettivo ed oggettivo. Nell'esperienza del mio lavoro ho conosciuto donne con lesioni fisiche temporanee o permanenti come ematomi, fratture, traumi cranici, ustioni, cecità, sordità e lesioni agli organi interni. Non meno gravi sono i sintomi psicologici, quali reazioni di ansia acuta, dissociazioni, numbing, sindrome post-tarumatiche da stress e stati depressivi che le continue svalutazioni, denigrazioni, minacce ed insulti concorrono a generare. Da un punto di vista socio-economico, le donne legate a uomini maltrattanti, difficilmente possiedono risorse economiche proprie, in quanto tutto veniva gestito dal partner; così come la loro rete amicale e relazionale è estremamente ridotta, causa il maniaco controllo e gelosia dello stesso. 1. Storie di un attaccamento insicuro Durante i colloqui psicologici che vengono fatti con le ospiti della Casa, sempre vi è uno sguardo sulla famiglia di origine e sul passato della persona. Dai racconti delle signore emerge costantemente una storia di attaccamenti insicuri, sul versante ambivalente-resistente, disorganizzato, o riprendendo la categoria descritta da Grazia Attili, confuso (vedi pag.17, Cap. I). Nelle descrizioni delle figure genitoriali, molte volte uno dei due genitori viene particolarmente idealizzato e con difficoltà affiora in maniera consapevole una storia di conflitti intrafamiliari, che invece si deduce chiaramente dalla ricostruzione della storia personale passata. Nella storia familiare la violenza di genere sembra far da copione transgenerazionale, celata il più delle volte dietro gli stereotipi culturali del ruolo maschile e femminile. La figura materna di solito viene descritta come pacata, buona, rispettosa e “sacrificale” verso tutti. In realtà appare poco protettiva e vicina, scarsamente empatica, giudicante ed incapace di consolare emotivamente. La figura paterna, seppur meno protagonista, può essere raccontata come autoritaria e attenta alla buona educazione dei figli, un lavoratore, portato ad arrabbiarsi “giustamente”se qualche cosa era fuori posto. Viene legittimato il ruolo periferico di un padre aggressivo. I fratelli e le sorelle, si alternano nell'esser considerati punti di riferimento protettivi ed accoglienti oppure giudicanti e colpevolizzanti. Le donne legate a uomini maltrattanti hanno una caratteristica di personalità peculiare che si manifesta nella loro dipendenza relazionale, legata allo stile di attaccamento insicuro esperito in età infantile e/o adulta nella relazione con il partner. Si osserva una profonda difficoltà nel percepirsi come persone capaci, che riescono da sole e degne di amore. Sembra che la loro percezione di sé sia ricca di emozioni negative legate alla poca disponibilità ad essere scaldate, accudite e protette. L'amore romantico assume valenze anche punitive, i sensi di colpa per non avere fatto abbastanza al fine di essere amate, si manifestano nelle spiegazioni razionali del comportamento del maltrattante (“ho dato tutte le attenzioni ai figli, trascurandolo; “Lui tiene alla buona educazione”; “La gelosia era un segno di amore”...). Allo stesso tempo, la relazione di violenza, mantiene un legame affettivo. I tratti di personalità dipendente si caratterizzano, infatti, come un tentativo di autonomia smorzato dalla paura di restare soli per lo stesso motivo. Avendo vissuto la minaccia di abbandono nelle loro esperienze infantili, le donne estremizzano gli atteggiamenti di contatto alzando la soglia di tolleranza alla violenza. Dunque le donne legate ad una relazione maltrattante, hanno alle spalle spesso storie di attaccamenti insicuri,che si inseriscono in un quadro più vasto in interazione con componenti di vulnerabilità genetica e scarsa protettività socio-culturale. La scelta di un partner abusante è un ulteriore blocco alla possibilità di viversi in altro modo nella relazione con l'altro e con la vita. 2. La scelta del partner “E’ stupefacente constatare quanti comportamenti sadici possano avere gli individui senza rendersene conto” (Horney, 1992) “Perchè non lo lascio?” è il titolo di un libro di Rose Galante (2012) sulle donne vittime di violenza domestica. Da un punto di vista razionale queste signore vorrebbero uscire dalla relazione violenta, ma lo sforzo per affrancarsi da una “ruolo relazionale”, seppur disfunzionale, conosciuto è estremamente grande. Come già è stato sottolineato il maltrattante sembra inserirsi coerentemente con le rappresentazioni che la donna ha costruito su di sé, sull'altro e sul mondo circostante. L’uomo che hanno scelto è stato amato immensamente, visto le modalità “principesche” che la maggior parte degli uomini maltrattanti mostrano all'inizio del rapporto. Inoltre l’ideale di amore romantico cela le imperfezioni, seppur ingenti, del rapporto affettivo che si sta costruendo. Le sottili attenzioni, probabilmente poco esperite dalle donne vittime di violenza, inducono a pensare di aver trovato finalmente un “rifugio caldo e sicuro”, tanto che per queste donne rinunciare ad un ideale di famiglia serena, perfetta e sempre e comunque unita è un dolore insopportabile. Dall'altro lato l'uomo maltrattante deve aver avuto anche lui delle esperienze di attaccamento insicuro, probabilmente disorganizzato e/o con genitori maltrattanti. Di conseguenza i Modelli Operativi Interni costituiti mantengono una coerenza in una relazione in cui si è spinti a dominare, controllare e maltrattare; soltanto così sembra esser possibile difendere l'integrazione del sé. La complementarietà dei ruoli relazionali “carnefice-vittima”, i tratti di personalità dipendente e sadici, la transgenerazionalità e gli stereotipi culturali sono ciò che determina maggiormente la durata di questi rapporti altamente disfunzionali. 3. La genitorialità nella violenza di genere “Quante parole vive e sepolte…vibrano qui. Quante urla soffocate dal silenzio” (Whitman, 2006) Riprendendo le riflessioni sin'ora considerate è possibile intuire che le donne legate ad un partner maltrattante abbiano delle difficoltà nella genitorialità. Infatti la violenza rende impossibile offrire un rifugio sicuro per i figli e difficilmente le donne riescono ad esprimere in maniera adeguata il loro ruolo materno. La “funzione riflessiva” materna che consente di sviluppare una competenza comunicativa e relazionale è stata fortemente intaccata. Nella maggior parte dei casi si osservano madri imprevedibili, angosciate, con difficoltà nel percepire i bisogni e le richieste dei figli e con una scarsa sintonizzazione nel significare il mondo interiore e circostante. I bambini presenti in Casa rifugio fanno difficoltà ad esprimere adeguatamente le emozioni legate alle frustrazioni, agli insuccessi e ai successi, si possono innescare delle risposte rigide del bambino, che via via interiorizza come aspetti del sé e dell'altro. Aspetti che si configurano nei termini di non amabilità (e dunque non mi amo), di non ascolto (e dunque mi autocentro oppure iper-considero l'esterno) di incapacità comunicativa ed empatica (metacognizione), di soppressione delle emozioni (mi difendo), di scarsa fiducia in se stesso e nella realtà relazionale che lo circonda. La genitorialità danneggiata si esprime molte volte nell'alternanza di risposte accondiscendenti o intransigenti alle richiese dei figli, modalità legate anche al senso di impotenza che la violenza ha suscitato. Si ritrova spesso nelle donne una tendenza a placare qualsiasi conflitto o espressione di rabbia nei figli, i quali erano abituati ad evitare atteggiamenti che avrebbero fatto salire la tensione paterna. Nei racconti dei bambini emerge, ad esempio, che i compiti dovevano essere fatti prima del rientro del padre e che di sera subito dopo cena dovevano andare al letto, si doveva giocare in silenzio e sopratutto era meglio non piangere. In età adolescenziale emerge che, in particolare se ragazze, non potevano chiedere di uscire, non potevano indossare certi vestiti o truccarsi, dovevano avere determinate amicizie, ecc... Per i figli le conseguenze del vivere in queste condizioni genera inevitabilmente delle situazioni di disagio e sintomatiche. I bambini possono presentare principalmente fobie scolari, balbuzie, sintomi psicosomatici, disturbi del comportamento e dell'attenzione, difficoltà sopratutto riguardanti la sfera emotiva ed affettiva. Negli adolescenti si osserva un accentuarsi dei tipici comportamenti di rivendicazione dell'autonomia e ricerca di rassicurazione, per cui l'ambivalenza adolescenziale può assumere dei connotati molto forti e problematici. Bocciature scolastiche, disturbi del comportamento alimentare, disturbi psicosomatici, reazioni di ansia acuta e comportamenti sessuali a rischio sono le manifestazioni di disagio più evidenti. Non bisogna dimenticare che i figli, quasi sempre, sono quelli che spingono alla denuncia la madre e che la difendono fisicamente dalle violenze fisiche del padre. Inoltre a volte sono loro stessi vittime di violenza diretta. Le loro emozioni sono fortemente ambivalenti, sono caratteristici i sensi di colpa per avere tradito il padre, il senso di impotenza di fronte la situazione, la rabbia per non esser protetti e per non potersi fidare. Alla situazione di violenza domestica si associa quasi sempre altri fattori che concorrono ad influenzare la capacità genitoriale, quali esperienze negative di filiazione. Più volte è stato sottolineato l'aspetto transgenerazionale dello stile di attaccamento, così come al perpetuarsi della violenza intrafamiliare tra le generazioni. Certo è che i figli che non hanno trovato nei propri genitori accoglienza, consolazione, rassicurazione diventano adulti estremamente bisognosi di protezione e quindi fanno fatica a porsi come adulti protettivi (Cardinaleti, 2012). Nei casi più estremi si possono conoscere madri che hanno avuto genitori svalutanti, abusanti, maltrattanti. La famiglia di origine ha un ruolo molto importante nella violenza intrafamiliare, spesso nelle ospiti della Casa rifugio si osserva un mancato svincolo della donna, e in certe circostanze, dai loro racconti, anche il partner sembra non essersi individualizzato dalla famiglia di origine. Il percorso di uscita dalla violenza permette di migliorare significativamente la relazione madre-figli. Più volte durante i colloqui con le donne, viene sottolineato come l'esperienza in Casa rifugio è, per le loro e per i figli, un contesto dove ri-sperimentarsi nella relazione. Non si tratta di un cammino semplice, in quanto emergono molte emozioni dolorose, prima represse per non peggiorare la situazione di violenza. I figli si arrabbiano con le loro madri, mettendo alla prova la loro capacità di essere un adulto normativo e allo stesso tempo vicino emotivamente; sembra che chiedano delle prove tangibili di rassicurazione e di fiducia. Inoltre vi è l'esigenza di modificare l'unione del sistema, in quanto il più delle volte l'alleanza madre-figli rispetto ad un padre maltrattante era molto radicata. All'interno della Casa rifugio questa tipologia di alleanza viene meno, per cui il nucleo necessita di una ridefinizione di ruoli e di relazioni. In rare situazioni può capitare di osservare un’alleanza diversa, in particolare tra il maltrattante ed il figlio adolescente, che identificandosi con il padre assume gli stessi atteggiamenti maltrattanti verso la madre. In ogni caso, ciò che si è riscontrato essere un fattore fortemente protettivo per i figli è l’alleanza nel sistema fraterno. 4. Il riflesso della violenza sugli operatori Lavorare con le donne legate ad un uomo maltrattante richiede una supervisione continua, in quanto le emozioni che genera il rapporto con una vittima di violenza domestica sono molteplici ed ambivalenti. Frequentemente nella relazione con le ospiti della Casa rifugio emergono paura, rabbia e dolore, ai quali il professionista risponde in base anche alle risonanze interne che suscitano. Risonanze che hanno molto a che fare con lo stile di attaccamento esperito e i Modelli Operativi Interni costituiti nel corso della vita. Infatti sentimenti legati alla paura di abbandono, alla necessità di protezione e di cura, alla vicinanza emotiva, sono aspetti intrinseci nella relazione. La paura si trasmette non soltanto nei racconti del quotidiano terrore ed orrore subito, ma anche nella loro percezione di essere “diverse”, responsabili e colpevoli per la situazione. Paura che invade anche le speranze del futuro, rispetto alla loro capacità di farcela da sole. Il rischio per il professionista è quello di attivare delle difese poco funzionali alla relazione, quali diffidenza nei confronti del racconto di violenza, eroismo, per cui si mantiene il ruolo di vittima nella donna o delega ad altri Servizi, accrescendo così il senso di impotenza e colludendo con un silenzio complice (Cardinaletti 2012). La rabbia, che implode nelle vittime e che resta compressa nel senso di impotenza e rivolta spesso contro il sé nelle forme depressive, entra a far parte della relazione. Molte volte la rabbia fino ad ora inespressa, viene diretta verso altre persone rispetto al maltrattante, tra cui i figli ed operatori, i quali possono agire la rabbia, sentita dalle donne, sottoforma di riprovazione per la loro passività, rassegnazione o legame che continuano ad avere con il maltrattante. La rabbia nel professionista può scaturire anche dal senso di ingiustizia nei confronti dei figli che non sono stati protetti a sufficienza. Fondamentale, per chi lavora nelle situazioni di violenza domestica è riconoscere le proprie emozioni, evitando la confusione tra i sentimenti propri e quelli delle donne. Il dolore dell'altro è difficile da affrontare, in quanto gli si deve accedere senza esserne travolti. Un'attenzione particolare deve essere data ai sentimenti di onnipotenza o impotenza che suscita lavorare con il dolore delle vittime (Cardinaletti 2012). Molto spesso in Casa rifugio ci si trova di fronte ad uno smarrimento completo della donna a cui si deve rispondere con vicinanza affettiva ed efficacia operativa. Agli occhi delle donne il professionista incarna ora il ruolo di salvatore e protettore perchè accoglie e scalda, ora di giudice e carnefice poiché incentiva l'emancipazione e l'indipendenza. La difficoltà più grande per chi lavora in Casa rifugio è quella di trovare il giusto equilibrio tra sostegno, accoglienza e spinta verso l'autonomia ed un nuovo ruolo socio-relazionale. La metodologia di lavoro all'interno della Casa si basa sul presupposto che le relazioni non devono più rispondere alle vecchie dinamiche. In linea teorica si dovrebbe offrire un contesto in cui poter sperimentare la propria autonomia senza il timore dell'abbandono e del giudizio, arginare la rappresentazione di vittima, sollecitando la possibilità di stare all'interno dei conflitti in maniera diversa e più costruttiva. In altre parole si cerca di rendere meno rigidi i MOI costruiti nel corso della vita, nella loro definizione di donna e di mamma. 5. Serena e Luca ...un'esperienza di cambiamento Circa un anno fa viene ospitato in Casa rifugio un nucleo composto da Serena, una signora di 40 anni ed il figlio Luca di quasi due 2 anni. L'invio giunge dall'assistente sociale territoriale dopo una denuncia esposta da Serena per maltrattamento in famiglia, con seguente provvedimento del Tribunale dei Minori di collocamento in struttura protetta per il figlio e la mamma. Serena, nata in Veneto, si sposa nel Gennaio del 2010 all'età di 37 anni con Maurizio, anche lui di origine Veneta. Il matrimonio, dai racconti della signora, è stato fortemente condizionato dalle rispettive famiglie di origine, le quali sono più volte intervenute nelle decisioni della coppia. Serena, già prima di conoscere Maurizio, nel 2008 si trasferisce in casa della sorella a Roma per lavorare come badante. Nel frattempo una sua conoscente veneta la esorta a conoscere il fratello, scapolo e di bell'aspetto. Serena incontra Maurizio, si fidanzano e dopo pochi mesi si sposano. Serena rimane dalla sorella a Roma anche dopo il matrimonio fin quando il marito, che continuava a vivere in Veneto dalla sua famiglia di origine, a Dicembre 2010 la raggiunge, in quanto Serena stava per dare alla luce il loro bambino. A questo punto la coppia decide di andare a vivere insieme in una casa in affitto a Roma, con la speranza che Maurizio trovi lavoro al più presto. Di lì a poco inizia la storia di violenza fisica, psicologica ed economica di Serena. La signora ci racconta che in due situazioni Luca ha subito violenza fisica da parte del padre con uno spintone ed uno schiaffo; il bambino ha sempre assistito alle violenze sulla madre, che veniva presa a pugni e a schiaffi, tirata per i capelli, percossa sulla testa, insultata e sfruttata economicamente. In un episodio madre e figlio sono stati chiusi a chiave da Maurizio nella camera da letto per una giornata intera senza cibo ne acqua. L'ingresso in Casa rifugio è avvenuto a seguito dell'ultimo episodio di violenza diretta su Serena e su Luca. Maurizio durante un pomeriggio, in stato di evidente ebbrezza, inizia a minacciare e ad insultare la moglie (sei una “puttana”, fai schifo, non capisci nulla, non sai fare niente, ti porto via il bambino...) passando ben presto ad aggressioni fisiche dirette su di lei (presa per i capelli, le sbatte più volte la testa contro la sua e tenta di stringerle la gola con un laccio) ed anche su Luca (spinto via con uno schiaffo), in quanto tentava di avvicinarsi alla madre. Entrano in casa rifugio dopo due settimane trascorse da una sorella di lei, ancora Serena mostrava ematomi e ferite nel viso, mal di schiena e dolore alle spalle; il pronto soccorso aveva refertato una prognosi di 7 giorni con diagnosi di trauma cranico minore. In Luca era ancora evidente un ematoma soprazimatico, agitazione psicomotoria e pianti improvvisi inconsolabili. Nei giorni seguenti l'ingresso, Serena manifesta uno stato di forte ansia, con richieste continue, confusione sui procedimenti legali e sul ruolo del Servizio sociale. Spesso appare accondiscendente ma con una difficoltà a fidarsi delle operatrici e delle altre ospiti della Casa. Dai colloqui psicologici, ben presto emerge un passato di bambina incapace, con poche possibilità, svalutata dai genitori e dagli altri familiari. La sua storia è caratterizzata da difficoltà relazionali. Esprime tutta la sua diffidenza nelle persone. Ci racconta di un padre periferico, un militare molte volte fuori casa, autoritario e di poche parole. Primogenita di due sorelle e due fratelli, racconta la sua mamma come molto indaffarata nelle faccende domestiche e nella cura della famiglia allargata. A lei era stata delegata la cura dei fratelli minori, fratelli che avevano concluso il percorso scolastico molto brillantemente rispetto a lei, che spinta delle insegnanti e della famiglia abbandonò presto la scuola. Luca si presenta come un bambino estremamente agitato, in continuo movimento e con difficoltà a tenere la minima attenzione anche per le attività ludiche. In diverse situazioni ha mostrato opposizione alle regole che la mamma cercava di far rispettare. Soltanto dopo un mese si è riusciti a farlo mangiare seduto e a farlo stare sul passeggino senza crisi di pianto e aggressioni fisiche. Ad ogni negazione di una sua volontà piangeva disperato e si lasciava cadere all’indietro, sbattendo la testa sul pavimento, oppure tirava i capelli o mordeva se preso in braccio per essere consolato. I suoi giochi sfidavano in continuazione il pericolo, si arrampicava sui mobili, saltava da altezze eccessive per la sua età, tirava oggetti e metteva tutto in bocca. Nell’interazione con gli altri bimbi ospiti, Luca pur essendo desideroso di giocare, metteva in atto atteggiamenti aggressivi, quali mordere, picchiare o tirare i capelli. La mamma ci riferiva che di notte Luca si svegliava di improvviso piangendo disperatamente. Il legame di attaccamento madre-figlio era evidentemente compromesso. Il bambino sembrava preferire la consolazione degli operatori rispetto alla vicinanza materna, ricercava attivamente l'adulto per giocare ed essere contenuto. D'altro canto la madre descriveva le molte azioni del bambino come caratteriali, simile allo stile paterno oppure come patologia neuropsichiatrica, tanto che già aveva fatto fare una visita al piccolo. Serena riferiva esplicitamente la sua difficoltà nel gestire Luca, sia come punto di riferimento normativo che affettivo. La signora ne soffriva molto e si percepiva come una “cattiva madre”. L'esperienza di cambiamento in Casa rifugio è stata possibile grazie ad alcuni interventi ritenuti fondamentali. Per prima cosa Serena ha intrapreso un percorso psicologico di elaborazione della violenza e di recupero della stima di sé e delle risorse personali. Parallelamente è stata sostenuta anche da un punto di vista più pratico, al fine di favorire la sua autonomia personale ed il reinserimento nel tessuto sociale (assistenza legale; corsi di lingua; lavoro; conoscenza delle risorse territoriali ecc...). Insieme alle altre ospiti Serena ha a degli incontri di gruppo sul tema della genitorialità, della violenza e delle questioni emergenti dalla convivenza con altre donne con esperienze simili. Il bambino ha iniziato a frequentare il nido e ha preso parte, assieme agli altri bambini, ad un ciclo di laboratori ludico-espressivi (musica; pittura; gioco). Luca e Serena hanno frequentato un laboratorio ludico centrato sul “fare insieme” tra mamma e figlio (creazioni con la pasta da modellare; sagome dei propri corpo; recitazione di favole; gioco con gli animali ecc...). Infine ampliando lo sguardo sul contesto della Casa rifugio, la mamma e il bambino hanno potuto osservare, sperimentare ed infine interiorizzare altri possibili modi di stare insieme e di percepirsi, un altro possibile legame di attaccamento. Tra i segnali del cambiamento si è osservato in Serena una maggiore capacità di prendere decisioni proprie e responsabilità, chiedendo informazioni su questioni per lei rilevanti (legali, amministrativi, sanitari, scolastici), oltre a mostrarsi più autonoma (ricerca di una casa e del lavoro) e più fiduciosa verso gli operatori. Anche nel rapporto con il figlio si sono osservati dei progressi, la signora infatti acquistava sicurezza e fiducia in se stessa, riuscendo ad instaurare un rapporto positivo ed autorevole con il figlio, il quale a sua volta esprimeva un attaccamento meno insicuro e selettivo nei confronti della madre. Luca negli ultimi mesi si è rivelato un bambino non più in continuo movimento ed esplorazione, capace di giocare più insieme agli altri e di accettare piccole regole. Era evidente la maggiore fiducia che il piccolo aveva nei confronti della mamma, che veniva ricercata nei momenti di stress per essere consolato, protetto e coccolato. Oggi vivono entrambi in un appartamento in affitto con il sostegno dei Servizi Sociali del territorio. Serena sta cercando un altro lavoro mentre Luca frequenta regolarmente il nido. Per concludere In questo lavoro la teoria dell'attaccamento è stata la chiave di lettura per spiegare certe tipologie di relazioni che intercorrono nel corso della vita. Relazioni da cui dipende la rappresentazione che ciascuno ha di se stesso, degli altri e del mondo circostante, assieme alla capacità o meno di integrare gli aspetti buoni e cattivi della realtà esterna ed interna. Sono state descritte le diverse tipologie di attaccamento che si costituiscono in tenerissima età dal rapporto reciproco tra madre-figlio, rapporto che si co-costruisce all'interno di un contesto in cui la figura paterna, le storie personali e della coppia, le famiglie di origine, il temperamento del bambino e l'inclusione socio-culturale hanno un ruolo fondamentale. Lo scopo principale dell'elaborato è stato quello di mettere in luce la complessità del legame di attaccamento ed i suoi risvolti, partendo da un punto di vista bio-psico-sociale per spiegarne le caratteristiche. Si è data particolare importanza all'aspetto di reciprocità della relazione di attaccamento, definendola, come nel titolo, “complesso co-attaccato”, termine rivisitato e preso in prestito da Hinde (1989), che parla di “complesso co-adattato”, per definire la costruzione congiunta di significati a sintonizzazione relazionale. La transgenerazionalità sembra essere un filo conduttore, che permette di capire come le persone si legano ad altre e come la scelta di relazioni costruttive o distruttive dipenda in gran parte dalle esperienze di vicinanza, protezione, contatto emotivo e sintonizzazione esperita nell'infanzia e riattivata nel ruolo di genitore. Allo stesso tempo si è voluto sottolineare la variabilità delle esperienze possibili, che permettono di modificare e riorganizzare i Modelli Operativi Interni costituiti nel legame di attaccamento primario. L'incontro con altre persone e contesti, la sperimentazione di relazioni diverse possono ad esempio modificare dinamiche relazionali distruttive o incrinare uno stallo intragenerazionale disfunzionale. L'ultima parte è stata appositamente scelta come testimonianza di una particolare tipologia di attaccamento insicuro, ma anche di cambiamento, che può avvenire all'interno di uno specifico contesto relazionale e di condivisione. Chiaramente per la donna vittima di violenza, così come per i minori vittime di violenza diretta o assistita, la Casa rifugio è una minima parte del percorso che dovranno effettuare. Metaforicamente è il “là” di una nuovo concerto relazionale e si configura come un'opportunità di sperimentare altri ruoli all'interno della relazione, altri modi di stare insieme e di percepire gli altri e se stessi. In questo approfondimento sul maltrattamento in famiglia non è stato affrontato, nello specifico, il ruolo del maltrattante e di come esso si inserisce all'interno della relazione violenta. La ragione principale è che parlando dell'esperienza diretta in Casa rifugio, non è possibile avere un occhio critico verso il partner abusante. In ogni caso rimane fermo il pensiero che nulla può essere giustificato come causa di violenza psicologica, fisica, sessuale o economica sull'Altro e che una relazione violenta deve essere troncata il prima possibile. Autrice: Marta Brunetti, Ottobre 2012 Bibliografia: Ainsworth, M.D.S., Bowlby J. “Un approccio etologico allo sviluppo della personalità” 1991. Tr.it in Ainsworth, M.D.S. “Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità” 2006 Raffaello Cortina. Ainsworth, M.D.S., Bell, S. “Attaccamento, esplorazione e separazione nel comportamento di bambini ad un anno nella Strange Situation” 1970 Tr.it in Ainsworth, M.D.S. “Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità” 2006 Raffaello Cortina, Milano. Ammaniti M., Ijzendoorn M.H., Speranza A.M., Tambelli R. “Internal working models of attachment during late childhood and early adolescence an exploration of stability and change” 2000. Attachment and Human Development. Attili G. “Attaccamento e amore” 2004. Il Mulino, Bologna. Attili G. “Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente” 2007 Raffaello Cortina, Milano. Bartles A., Zeki S. “Functional brain mapping during freeviewing of natural scenes” 2004. Natural barin mapping. 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