«Si direbbe che la persona stessa risieda in quei frammenti, pur così
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«Si direbbe che la persona stessa risieda in quei frammenti, pur così
1 Lorenzo Gobbi Elogio del frammento Nuova edizione rivista Servitium 2010 ©2010 Servitium ©2014 Lorenzo Gobbi 2 Prologo Questo libro fu stampato a Verona nel 1995, in una piccola edizione locale: ne conservo una copia soltanto. Prepararlo per questa nuova, inattesa pubblicazione è stato per me come affondare le mani tra le ceneri di una casa distrutta dal fuoco, o meglio: tra i resti di un piccolo borgo abbandonato, cancellato con cura dal tempo. Come un archeologo, per ritrovare ciò che era vivo, ho agito con gesti precisi: ho tolto qualche incrostazione (ausiliari, dimostrativi e possessivi in eccesso, trattini inspiegabili, tautologie nate dall’ansia di farmi capire), e ho precisato qualche sfumatura lessicale. Non ho aggiunto nulla; non ho unito ciò che mi è parso diviso. Ho riconosciuto una trama di fondazioni che interamente mi appartiene: perimetri e passaggi, cunicoli e sale. La presento così, come ho potuto ritrovarla. Nei poeti che amavo, già allora trovavo ragioni di vita: le loro parole risuonavano in me, e suscitavano un’eco concorde. Era un dialogo appassionato e intenso, e ne vivo a tutt’oggi: sono lieto di riproporlo, ora che tanto altro si è compiuto, grazie alla stima e alla generosità degli amici di Servitium. Rileggendo, comprendo che la mia mèta ideale non è mai stata la perfezione, quanto piuttosto la compiutezza. A questa nuova edizione di Elogio del frammento, dunque, aggiungo soltanto un pensiero che amo, felice di averlo ricevuto in dono (da Mat’Marija, poetessa russa, pittrice, rivoluzionaria, due volte sposa, madre e poi monaca ortodossa nella Parigi degli anni Trenta, morta in un campo di sterminio nazista e proclamata santa dal Patriarcato di Mosca nel 1995): Sono molte le vie che conducono alla pienezza della trasfigurazione dell’esistenza. E nella pienezza dell’esistenza trasfigurata non ci sono vie che non conducano alla trasfigurazione. Tutte le vie reali conducono a Dio. […] Una di queste vie, condizionata dalla presenza di un’altra via, è la via della terra. Camminino pure verso la verità quelli che non conoscono la terra. Non è possibile determinare se la loro sia una via facile o difficile. Ma bisogna che essi, pur non vedendo e non sapendo, benedicano la terra e non pensino che la terra sia l’ostacolo da superare, la seduzione da rifiutare. […] Nelle vie terrestri non sempre è possibile salire sul monte, passo dopo passo. Gli istanti di caduta sembrano gli ultimi, e nessuna vittima, nessun sacrificio sembra possano essere mai giustificati. Nelle vie della terra non si dà un volo uniforme, ma frequenti cadute in precipizi da cui si deve uscire con fatica, perché in queste vie non sono date ali. 3 E qui è molto difficile vedere qualcosa, perché tutto viene dato per l’altra via, e tutto viene ricevuto dall’altra via, e perciò non è mai possibile misurare quanto si deve dare e quanto si può ricevere. Le vie della terra esigono fatica e sudore. E grazie alla fatica, al sudore, alla cecità e alla pietà, la terra è santa1. Per la prima volta, quindici anni fa, osavo prendere la parola nel dialogo tra gli uomini, senza che nessuno mi avesse invitato. Avevo scelto “le vie della terra”, già allora: quando, con il cuore in gola, scrivevo che “bisogna osare, sperare, amare oltre misura”. Sapevo che “la terra è santa”: ne intuivo le ragioni, e ora posso confermarle. Verona, maggio 2010 Mat’ Marija, Scritti, nel volume di Nina Kauchtschiscwili, Mat’ Marija. Il cammino di una monaca. Vita e scritti, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, pp. 210-212. 1 4 Elogio del frammento «Si direbbe che la persona stessa risieda in quei frammenti, pur così esigui, ed elevata ad una potenza che è ben lontana dall’avere nell’idea abituale che ci facciamo di lei nella sua interezza». M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore Per speculum et in aenigmate: così il mondo si offre ai nostri occhi, per quanto amore il nostro sguardo contenga. Specchio del mondo, enigma intessuto su altri enigmi, la parola poetica sa avvicinarci al centro delle cose: in suo nome, anch’essa chiede ascolto, accoglienza, meditazione profonda. In cambio, dona la propria vastità, la ricchezza del proprio senso – un dono tutt’altro che spregevole, quali che siano le nostre capacità di accoglierlo. Al primo incontro con il testo, si attiva in noi un insieme di pensieri: la lettura corretta, la comprensione esatta, l’esegesi rigorosa. A poco a poco, però, altri pensieri sorgono dal nostro intimo che ascolta contemplando il testo, amplificandolo e lasciandolo risuonare in sé, fino a collegarlo con le proprie più vere riflessioni. A questa esperienza vorrei dare voce: a partire dal testo e a servizio del testo – per illuminarne, almeno parzialmente, la ricchezza di senso reale e l’ampiezza d’eco possibile. L’obiettivo di questi scritti è qualche frammento di oltre-testo: un po’ di ciò che possiamo udire quando accogliamo una lirica come parola oracolare, come accenno ad altro da sé. «Acceleratore della coscienza» (J. Brodskij), l’espressione poetica può essere vista come una fune tesa tra noi e il centro delle cose, sulla quale avventurarsi con passo cauto e leggero, guardando avanti a sé. Per questo, si è concentrata l’attenzione su i frammenti che ci vengono incontro nella lettura e che ci abbagliano con la loro bellezza illuminando, come un cono di luce inesauribile, vasti orizzonti di riflessione e di conoscenza. Sono i piccoli brani che amiamo, ai quali torniamo, che impariamo a memoria e che ricordiamo a noi stessi nelle più varie occasioni: è bello seguirli autonomamente, ascoltarli uno alla volta, mettendoli in evidenza per sé soli. «In the particular» scrisse Joyce «is contained the universal»: paradossalmente, frammenti di testo sembrano acquistare, a volte, una ricchezza maggiore dell’intera opera in cui sono collocati. Tutto ciò è ben difficile da spiegare, e dipende certamente da noi, dall’atto particolare della 5 nostra lettura; è su questi, comunque, che si vorrebbe richiamare l’attenzione, per desiderio di concentrazione e di essenzialità. Sono convinto che la verità delle cose appaia di rado, attraverso luccichii improvvisi e imprevedibili, e che sia giusto seguirla, attenderla sul terreno che le appartiene. L’intenzione è di offrire un momento di sosta, di quiete meditativa al cospetto della parola poetica, senza violare il pudore: esso è sacro anche e soprattutto nella vita della mente. Il discorso, comunque, rimane abbozzato, accennato, aperto. Più che lettori, vorrei amici disposti a sostare nella stessa tensione interiore. Verona, maggio 1995 6 Jorge Luis Borges 7 Non ti potrà salvare ciò che lasciarono scritto coloro che la tua paura implora; tu non sei gli altri e ti vedi ora centro del labirinto che tramarono i tuoi passi. (...) Polvere anche è la parola scritta dalla tua mano o il verbo pronunciato dalla tua bocca. Non c’è pietà nel Fato e la notte di Dio è infinita. Tua materia è il tempo, l’incessante tempo. Sei ogni solitario istante. da La cifra Polvere anch’esse, le parole non possono salvare coloro la cui materia «è il tempo, l’incessante / tempo» – tanto più se la salvezza è implorata per viltà. La condanna, di fatto, non è la morte, cioè la prospettiva di diventare polvere: è l’essere una slegata successione di istanti che vanno a comporsi, inevitabilmente, nella trama di un labirinto – così da produrre altre parole come polvere, incapaci di salvare altri. È la paura, spesso, a spingerci alla ricerca di parole fatte, invece, per un ascolto fermo, virile, privo di richieste. Ci fosse dato, almeno una volta, di incontrare una parola che ci liberi, prima che dalla vita o dalla morte, dalla viltà che spesso le accompagna entrambe! Eppure, ciò dipende da noi e da nessun altro. 8 Bonaventura 9 Non si è in alcun modo disposti alla contemplazione delle realtà divine, che conduce all’abbandono estatico dell’anima, se non si è a somiglianza di Daniele «uomo di desiderio». da Itinerarium mentis in Deum Per trovare pace, dobbiamo farci tutt’uno con il desiderio: non può che essere così. A chi sappia farsi «uomo di desiderio», Bonaventura promette ben più che la pace: «la contemplazione delle realtà divine, che conduce all’abbandono estatico dell’anima» – una pace viva, fatta di un’eterna vibrazione dell’essere in Dio che a quel moto risponde, appagandolo. Ecco, il desiderio ci porta spesso a un’inquietudine sterile, inappagabile, al punto che in esso possiamo vedere la causa della nostra pena: non è forse meglio accettare ciò che è, limitarci ad esso e soffocare in noi la tensione ad altro che continuamente ci rinnova, che perennemente supera se stessa verso altro ancora? Perché cercare, perché non accontentarci? Il desiderio di altro, infatti, può portarci all’odio per ciò che siamo e ciò che abbiamo, può negarci anche quelle possibilità di gioia che l’oggi contiene per ciò che semplicemente può darci. Bonaventura riflette in un contesto religioso e, soprattutto, mistico, in cui queste parole hanno un senso preciso: per lui, puntare all’oltre-umano e orientarsi a esso perché un miracolo accada corrisponde a un dato antropologico fondamentale, necessario a permettere che l’unione mistica si realizzi nella realtà. Anche chi mistico non sia, però, può trovare una verità preziosa nelle sue parole: per chi ami le cose in sé stesse, per chi le contempli senza pretesa di cambiarle o di superarle – perché sa che questa e non altra è la sua vera dimora – il desiderio deve purificarsi, farsi essenziale ma mai venir meno. Non è un male desiderare il meglio per ciò che amiamo, sperare per esso un supplemento di vita e di gioia, essere aperti all’annuncio di un bene futuro, alla constatazione di una crescita misteriosa, di un cammino verso qualcosa che appena si può intuire: il male, forse, è pretendere, è desiderare con foga, con astio – perché nulla, in realtà, ci è dovuto. Tutto, in noi, deve restare lieve, abbozzato: deve avere sempre una misura. Tutto il 10 nostro essere deve comporsi in un desiderio che non sia una pretesa ma una speranza esile ed aperta, perché la nostra pace non sia una resa. 11 Paul Celan 12 Getta via i cunei di luce: la fluttuante parola la possiede il buio. da Luce coatta ed altre poesie postume Celan, ebreo, si riferiva forse alla parola nel contesto biblico, quella parola (dabar) che crea e vivifica, e che non ritorna a Dio «senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare» (Isaia 55, 10). Eppure, la terra è ancora informe e l’uomo è ancora misero e indigente come se il buio l’avesse inghiottita: come se essa stessa fosse buio. Se è così, se è buio anche il Dio che la manda, è necessario attendere e rinunciare alla luce che faciliterebbe la nostra ricerca: entrare noi stessi nel buio, per avvicinarci a lei. O piuttosto, come un più rigoroso circolo ermeneutico sembra suggerire, Celan si riferiva alla parola poetica, al proprio «strazio innevato, coperto di neve», «smorto suono, scorticato / dal profondo» (P. Celan) – perché essa nasce, a volte, dal buio che la custodisce, e lo riflette; non va cercata, ma solo quietamente attesa, perché anch’essa è silenzio e buio, e si lascia trovare solo da chi ne accetti tale condizione di esistenza. «La fluttuante parola»... viene alla mente, in altro senso, che tale è forse la Parola <<che era al principio presso Dio>> (Giovanni 1,2) e che, assieme allo spirito di Dio, «aleggiava sulle acque» all’inizio dei tempi (Giovanni 1,1). Dio, scrive l’apostolo Giovanni, «è luce e in lui non vi sono tenebre» (1Giovanni 1, 5); eppure, quello stesso Gesù che come luce era venuto nel mondo (Giovanni 1, 9), dopo essere risorto si manifesta nel buio della sera, ai discepoli ancora timorosi riuniti nel cenacolo (Giovanni 20). La Parola vivente «la possiede il buio»: non ci è più dato incontrarla, parlarle a nostra volta – ci è dato soltanto, benché non sia poco, un silenzio ed un ricordo. A nulla valgono, forse, i «cunei di luce» degli uomini – ed è forse giusto privarsene, accettare almeno per un istante di scrutare il buio, in attesa, con occhi notturni, con cuore fermo. Privarsene, però, lievemente: senza clamore, senza spettacolari gesti d’orgoglio o di gratificante disperazione, per non violare quel silenzio 13 sacro - il buio che possiede la Parola. Esso circonda la nostra vita, nello spazio e nel pensiero: forse è tempio, scrigno, tabernacolo della Parola di Dio. 14 Posso ancora vederti: un’eco che si avverte con sensibili parole, sullo spigolo vivo del distacco. Il tuo volto, lieve, si adombra quando a un tratto come luce si fa chiaro in me, nel punto in cui con pena infinita diciamo: mai. da Luce coatta ed altre poesie postume «Sensibili parole»: tali sono, forse, le parole che pronunciamo ricordando coloro che hanno lasciato il mondo delle presenze. Finché il congedo è ancora in atto, finché è ancora uno «spigolo vivo» che ci tormenta, di loro resta «un’eco» – vera, tangibile quasi, che le parole esprimono e afferrano, per non lasciarla svanire nell’inesistenza. Il volto amato «si adombra» – ma è «lieve», perché già escluso dal privilegio della pesantezza, della fisicità: il suo tempo è concluso, compiuto, non più ripetibile. Quel «punto» è «chiaro come luce»: abbagliante e paralizzante al tempo stesso. Il volto amato è ormai fuori della nostra vista, cancellato dalla luce violenta che ci investe. Il dolore del congedo era ancora una forma di unione, di compresenza, per quanto illusoria: c’era ancora qualcosa da toccare, da esprimere, un “tu” di cui percepire la presenza. È forse così del passato che ci ha generati: possiamo coglierlo, toccarlo nuovamente solo ponendoci «sullo spigolo vivo del distacco», soltanto accettando questo dolore fecondo. La coscienza dell’inesistenza del passato, del suo essere definitivamente irreale, renderebbe sterile la memoria e vanificherebbe all’origine la sua fatica: le parole non potrebbero più toccare, non riuscirebbero più a rendere presente ciò verso cui si protendono. Per questo, ciascuno di noi prolunga il più possibile il congedo, lo rinnova di giorno in giorno, di anno in anno, e ricade inconsciamente nei piccoli gesti abituali o imprevisti che rinnovano il passato, che lo riportano, quasi, nella dimensione della fisicità, come la celebre madeleine di Marcel Proust. 15 Renitente mattino in te mi stringo, per te mi faccio silenzio, risuoniamo, soli, [...] il passo affrettato del cuore, fuori, là nello spazio, dov’è l’asse della Terra. da Luce coatta e altre poesie postume Se la luce tarda, se il mattino è <<renitente>> e l’oscurità della nostra vita si prolunga, benché l’alba debba essere imminente, ciò che resta è ritrovarsi, «stringere» se stessi nel silenzio che attende il ritorno della luce. Farsi silenzio: forse, la luce sosta alle porte del mondo in attesa del silenzio, per poter irrompere in esso come alba. «Risuoniamo, soli»: l’unico suono possibile a chi attende è il non-suono, l’assoluta solitudine di un silenzio consapevolmente accettato perché ricco di significato. À pensarci, nessuna ora del giorno è più silenziosa di quella che precede l’alba, ed è proprio questo il momento in cui possiamo avvertire con limpida chiarezza l’insignificanza e la casualità della nostra presenza. Viene da credere, infatti, che la luce tardi perché disturbata dal battito del nostro cuore, o per il rumore lieve del nostro respiro; sorge in noi il desiderio di fermare, per un istante, persino il flusso del sangue nelle vene, così che possa, nel silenzio, tornare il mattino. E questo il posto dell’uomo nel mondo? Colui che veglia lo sa, ma tace la propria scoperta. Un silenzio assoluto, impenetrabile, circonda di fatto la nostra esistenza: il gelo senza vita di un universo infinito. Chi tende l’orecchio, forse, non ode che «il passo affrettato del cuore, / fuori, là / nello spazio, / dov’è l’asse / della Terra»; ad esso vanno ricondotti i trasalimenti 16 dell’animo religioso, che ode nel gelo i passi del suo Dio. Eppure, è un silenzio che veramente sembra trattenere qualcosa: una voce, un volto, una sorgente di vita. 17 La mantide, di nuovo, sulla nuca della parola nella quale avevi trovato rifugio – nella volontà migra il significato, nel significato la volontà. da Luce coatta ed altre poesie postume Accade, a volte, di accogliere una parola come rifugio, come asilo sicuro per la propria anima stanca e confusa: una voce calda che afferri e consoli, che porti chiarezza e doni un nome nuovo, come una luce nuova alla nostra vita. Può essere una parola divina: «Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» (1Giovanni 3, 20), oppure una parola umana: «Triste anima passata, / e tu, voce nuova che mi chiami, / tempo è forse di unirvi / in un porto sereno di saggezza» (Montale, Riviere). Insistono, attorno a noi, parole simili: incontrarne una e farla propria, amarla e prenderla con sé è una delle più belle esperienze che un uomo possa fare. Il passo si fa leggero, l’anima si rischiara riposando in quella semplice parola, che dona forza e freschezza inesauribili. Una «mantide», però, ne insidia «la nuca»: una minaccia mortale, temibile, che afferra alle spalle e dalla quale non c’è difesa – un dubbio minimo ma radicale: fino a che punto significato e volontà sono connessi? Che cos’è questa luce, se non il mio stesso desiderio di luce? Il significato e la volontà migrano uno nell’altra, non vivono l’uno senza l’altra; fino a che punto è vera questa affermazione? Le parole che amiamo, forse, non hanno alcun valore se la mantide le vince; eppure, di nulla sono degne se nessuna mantide le insidia. Bisogna osare, sperare, amare oltre misura. 18 SALMO Nessuno può impastarci ancora dalla terra, dall’argilla. Nessuno alita parole sulla nostra polvere. Nessuno. Lodato sii tu, Nessuno. Per amarti vogliamo fiorire. Incontro a te. Un niente eravamo, siamo, rimarremo fiorendo: la rosa del Niente, di Nessuno. [...] da Poesie Essere rosa, fiorire incontro a qualcuno: più che un’aspirazione profonda, è il banco di prova della nostra umanità, che distingue la nostra anima da tutto ciò che vive. Eppure «un niente / eravamo, siamo, rimarremo, / fiorendo»: ciò è indiscutibilmente vero. Nell’economia dell’universo, nella sua immensità fisica e concreta, ben poco contano il nostro destino personale e la sorte dell’intera comunità degli uomini: ciò che è umano riguarda l’uomo e l’uomo soltanto. Nonostante ciò, però, «fiorire» è il nostro significato, ed è incancellabile in noi il desiderio di qualcosa, di qualcuno incontro al quale e per il quale fiorire. In tanta oscurità, la nobiltà dell’animo si misura forse dall’incapacità di rinunciare a una piena fioritura: dalla disponibilità a fiorire comunque, a qualunque condizione, anche per essere «la rosa del Niente, di 19 Nessuno». Fiorissimo anche incontro al buio, sia benedetto il buio che ci accoglie; se esso nasconde in sé la mano aperta di Qualcuno, sia benedetto comunque assieme a lui. 20 [...] Le vele, nessuno deve ammainarle, io, uomo di mare, vado. da Poesie È vero: il miracolo della vita può rinnovarsi sempre! Ogni giorno è nuovo, aperto a un nuovo viaggio, e nessuno deve, mai, ammainare le proprie vele. Ovunque, in qualunque situazione ci si venga a trovare, c’è sempre ancora tanto per cui vivere, ed è ancora possibile uno spostamento, un mutamento: non è perduta ancora la nostra identità più vera, quella di «uomini di mare». Di fronte a milioni di esistenze devastate o sub-umane, di fronte alla consistenza del passato – granitico, a volte, onnipresente, intollerabilmente pesante – è follia proclamare questa verità? Davvero è una verità questa, che non regge il confronto con il nostro quotidiano? Può essere, piuttosto, il più vero atto di lungimiranza che ci sia dato di compiere – ma soltanto a determinate condizioni. A noi di porle nelle nostre vite. 21 Filamenti di soli sopra il deserto grigio scuro. Un vasto albero – un pensiero – trae a sé la gradazione della luce: ci sono canti da cantare ancora, oltre gli uomini. da Poesie Celan, forse, con questa lirica ci ha aperto la strada per una splendida intuizione di un miracolo tutto umano e terrestre: il pensiero. Come il dio di Delfi, infatti, egli «non dice né nasconde, ma accenna» (Eraclito). Eppure, quando il mondo altro non sia che «un deserto grigio scuro», a nulla può servire scrutarlo, analizzarlo, avvolgerlo con reti di qualunque sorta: esso non rivelerà di sé che l’ampiezza sconcertante del proprio grigiore. Lo sguardo si volge allora a ciò che lo sovrasta: un sole che balena a tratti, attraverso le nubi, in fili talmente sottili e incorporei da farci pensare all’esistenza di infiniti soli diversi, ed è a questa luce frantumata e divisa che il pensiero si rivolge, afferrandone «la gradazione» come farebbe «un vasto albero». Esso rinuncia a gettare qualunque rete, ad aggiungere qualcosa di proprio all’esistente, ma si nutre di ciò che ne appare trasformandolo in linfa, in vita propria. È allora, forse, che gli appare la sorprendente ricchezza dell’immensità velata di nubi che sempre ci sovrasta: «ci sono / canti da cantare ancora, oltre / gli uomini». 22 Mario Luzi 23 AUGURIO [...] dico, prego: sia grazia essere qui, grazia anche l’implorare a mani giunte, stare a labbra serrate, ad occhi bassi come chi aspetta la sentenza. Sia grazia essere qui, nel giusto della vita, nell’opera del mondo. Sia così. da Dal fondo delle campagne Come ci manca questo senso di gratitudine per la nostra semplice esistenza, per il puro esserci che ci coinvolge «nell’opera del mondo» – increduli, muti, angosciati a volte, ma inspiegabilmente, meravigliosamente presenti! Forse solo chi sa cosa significhi «implorare a mani giunte», solo chi ha saputo stare «a labbra serrate, ad occhi bassi» in attesa dell’imperscrutabile, sa quanto la sola presenza sia indicibilmente preziosa. Chi ha saputo attendere e sopportare con ordine, nel pieno della coscienza ma con il pudore del proprio soffrire, e ha saputo resistere perché ha avvertito questa preziosità infinita, prega che questa intuizione sia vera: che veramente «sia grazia essere qui». Può essere unicamente un desiderio, un augurio, una speranza contro ogni speranza. Quante volte ci vediamo cosi: muti, tesi da un’amarezza profonda che riempie il nostro essere e lo disperde al tempo stesso, svuotandolo di senso. Non ci è dato, spesso, evitarla; possiamo evitare, però, l’astio, il rancore, l’amarezza scomposta che spinge a un agire meschino; possiamo pregare di trovarci veramente «nel giusto della vita» e conoscere per questo l’impegno, la fecondità, la gioia. E questione di forza morale, di spessore umano: c’è modo e modo di stare «ad occhi bassi». 24 Roberta De Monticelli 25 PREGHIERA TERZA Permettimi di conversare ancora ogni tanto con Te che non esisti cercherò di capire perché non rispondi e mi farò una colpa della tua scortesia. Alla tua chiarità ciascuno affiora ma al canto che ti sfiora non resisti, non hai dimora in logica. Neppure ti nascondi: come al fiore il transire della via. Io credo serio, e chiaro questo solo ti chiedo, Sereno: non volgermi in veleno il desiderio. da Le preghiere di Ariele Il silenzio di Dio è opprimente: ci si ritrova a pensare che non sia un silenzio ma un suono vivo, troppo acuto per essere sentito. È inevitabile credere che la colpa sia nostra: che si tratti di un’inadeguatezza del nostro essere, non della mancanza di una voce divina. La domanda sul perché di questa mancata risposta può articolarsi in vario modo, a seconda della sensibilità della persona che la pone: ma non può non essere formulata. Essa qualifica l’animo religioso, per il quale l’esistenza o meno di Dio è poco più che un dettaglio a confronto con l’enigma del suo silenzio: che l’esistenza umana accada al cospetto di una evidente vastità, o piuttosto ai suoi margini, appare chiaro a colui che contempli il ciclo stellato e si figuri nella mente la vastità del cosmo, che procede oltre noi nel suo divenire immenso. Siamo come un «fiore» sbocciato ai margini di una «via» di cui non possiamo cogliere né l’inizio né la fine né tantomeno la direzione o l’orientamento, mancandoci le coordinate dell’infinito. Ecco, allora, il mistero del silenzio, della non-personalità di questa via che non risponde, ma soltanto appare: che sia in noi il difetto, che sia nostra la «scortesia»? È possibile, e sembra onesto ammetterlo per non imputare colpe all’infinito: ha sicuramente le proprie ragioni per tacere, 26 migliori delle nostre che con esso vorrebbero dialogare. Eppure, quante volte chi ha creduto questo ha visto mutarsi in «veleno» il proprio «desiderio» di colloquio! Il veleno del tentare di farsi degni di risposta, di tormentarsi perché ciò è impossibile – e il veleno conseguente del disprezzo inconfessato per ciò che sembra ostacolare, con il suo informe e limitato essere, il risuonare della voce divina. Ne nacque, forse, quella che Nietzsche chiamò «la morale dei risentiti». 27 Pindaro 28 E bene desiderare dagli dei solo ciò che si addice ad anime mortali consapevoli del nostro passo, del destino al quale apparteniamo. Anima mia, non tendere a una vita immortale, ma porta fino in fondo ciò che è tuo. Con esattezza, Ierone, tu comprendi la più alta verità di ogni discorso - dagli antichi lo hai imparato: per un bene, gli dei assegnano ai mortali due dolori. Non i vili sanno sopportare, nell’ordine, ma i valorosi, che proiettano il bene oltre se stessi. da Le pitiche Se è vero che l’intuizione greca del mondo ci si presenta varia e mutevole nei secoli, complessa e indicibilmente profonda, è altrettanto vero che essa appare anche meravigliosamente unitaria, quasi coralmente concorde. Prodigio di essenzialità e di forza, essa ci stupisce con l’incessante ritorno a poche scarne questioni, con l’inesausto contemplarle da prospettive sempre nuove, con la mai esausta fecondità. Gli educatori dell’Ellade ebbero molto a cuore la misura: ciò che spesso manca, inesorabilmente, alle nostre vite convulse. Chi comprenda con esattezza «la più alta verità» che gli antichi ci abbiano consegnato, sa «sopportare nell’ordine», da autentico «valoroso», la sovrabbondanza del male, e sa cogliere la preziosità dei beni che il tempo ci elargisce a caro prezzo. Colui che è forte non odia, non disprezza, ma «proietta il bene oltre se stesso»: nella luce in cui trova la forza di mantenere fermezza e dignità, rifiutando di chiedere «ciò che non si addice ad anime mortali». Compostezza, non un cieco supplicare; ordine, non preghiera convulsa, perché mai la preghiera sia vile. Il mondo va vissuto fino in fondo, nella sua e nostra mortalità; la terra, goduta e amata con misura, nelle giuste proporzioni. 29 Ciò che a noi sembrerebbe una crudele e insensata cattività, fu per i Greci un orizzonte vasto e luminoso. Il dio di Delfi non ingannava confinando l’uomo nella nuda misura dell’umano («Conosci te stesso...»), vietandogli di uscire da ciò che solo gli appartiene: gli risparmiava, piuttosto, il travaglio del desiderio convulso, dell’ossessione per un infinito che può essere còlto e posseduto in quella misura e non oltre. «Non tendere ad una vita immortale»: è un altro il passo dell’uomo. Per chi avesse saputo tenerlo, rispettarlo nel migliore dei modi, Platone intuì un’ascesa, un accrescimento dell’essere, un mirabile viaggio verso la pienezza. 30 Tu secondo un ritmo passa oltre [...] Colui che ha in sorte un bene al suo inizio con leggerezza infinita si libra sulle alate virtù che la speranza gli dona: ben più dell’oro lo attira. Cresce in poco tempo la gioia dei mortali - e in ugual modo viene meno, sotto i colpi di avversa sapienza. Siamo di un giorno: cos’è uno di noi? E nessuno, cos’è? Sogno di un’ombra è l’uomo. Ma quando giunga, divina, una luce serena, un puro chiarore inonda gli uomini – e il tempo è dolce. da Le pitiche Chi prosegua la sua via «secondo un ritmo», chi abbia trovato un metron, cioè una misura di se stesso, sa bene che la gioia umana «cresce in poco tempo», e altrettanto rapidamente svanisce – perché tutto, nel mondo, è rimasto di fatto com’era prima che noi ci fossimo, ed è ancora, da sempre, come se noi non ci fossimo mai stati: si illude chi pensa che l’orma dell’uomo, nel bene e nel male, si imprima indelebile sulla terra. Che sia questa la verità, non può dubitarne chi sa che «sogno di un’ombra è l’uomo»: questa è la cifra originaria dell’essere umano. «Sogno di un’ombra» aperto pur sempre «a un bene al suo inizio», a «librarsi con leggerezze infinite», l’uomo può trovare salvezza in un ritmo, in una misura che sempre lo accompagni e che faccia di lui un vasto dispiegarsi di «virtù», cioè di umana grandezza. Condizione di fecondità, riparo dall’astio e dall’affanno, la consapevolezza del poco accettato senza lamenti può ribaltarsi in disponibilità al molto, a una «luce serena, divina» che può giungere improvvisa nel tempo che circonda l’uomo, rendendolo tutto «chiarore», dolcezza e vastità. Si ha l’impressione, a volte, che le luci divine immiseriscano l’umano, che ne amplifichino la pena e l’ansia connaturate all’inevitabile precarietà: si vorrebbe, quasi, scongiurarne l’avvento in nome della pochezza umana che ne sarebbe aumentata e ulteriormente sconvolta, priva com’è di quella 31 «misura», di quel «ritmo» che Pindaro esalta: «Oh ch’io non oda nulla di te, / ch’io fugga dal bagliore / dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra» (Montale). Spesso, si ha l’impressione che i messaggi di salvezza siano solo parole per chi le pronuncia, a sua gratificazione, non per chi le ascolta: talmente vile, pur nelle buone intenzioni, sembra l’umano che le accoglie e le riporta ad altri, pigramente o con foga, ma di rado con lungimiranza e sobrietà – fino alla dimenticanza del divino stesso, fino all’abitudine insensata di proclamarlo quasi per astio, per autoaffermazione più o meno cosciente. Le questioni, probabilmente, sono due: c’è un divino liberante, vasto, luminoso; e c’è un divino inquietante, immiserente – ognuno di noi incontra ciò che va cercando. I praembula fidei possono essere tanto insani e morbosi, quanto limpidi e virili: sta a noi porli, e questo è il secondo problema. Una luce divina, quale che sia, può molto, ma non può creare un metron che non c’è; giunge e si innesta sulla statura umana che trova, lasciandosene spesso plasmare e immiserire piuttosto che plasmandola ed elevandola – salvo rarissimi casi. Accade, così, che il divino porti nell’anima l’inquietudine della penombra più che il giubilo solenne della chiarità. 32 Rainer Maria Rilke 33 LA CATTEDRALE In quelle piccole città tu puoi vedere come troppo alte su ciò che le circonda le cattedrali erano cresciute. Il loro sorgere andava sopra, oltre ogni cosa, come passa oltre lo sguardo della propria esistenza una vicinanza troppo grande, quasi non accadesse altro, come se il destino fosse ciò che in loro si accumula senza misura, pietrificato, destinato a durare, non ciò che in basso nelle buie strade dal caso attinge un nome e così va, come i bambini portano il verde e il rosso del grembiule, ed ogni altro colore che ha il merciaio. Allora c’era nascita in quest’altro crescere e amore ovunque come vino e pane, [...] da Nuove poesie Al cospetto di una grande cattedrale – sia essa di pietre genialmente disposte, oppure una costruzione di puro pensiero, edificata con suoni, concetti, parole – ci sorge dentro, a volte, un’inquietudine sottile e difficilmente comunicabile: non sembra essa cresciuta troppo alta sul mondo circostante, quasi non accadesse altro» al di là del suo maestoso apparire? Non misconosce, non oscura, non disprezza con incosciente superbia «ciò che in basso nelle buie strade / dal caso attinge un nome» – il piccolo mondo quotidiano, fatto di piccole cose tutte terrene? Non è, questo piccolo mondo, incommensurabile con l’eterno che quella cattedrale vuole testimoniare? Non c’è anche là, lontano dalla sua geometria – in luoghi che non ne comprendono la grandezza, ma la ignorano o la subiscono con calma indifferenza – non c’è anche là «amore ovunque come vino e pane», come nutrimento sufficiente alla vita in sé, semplicemente? Non è troppo, forse, «ciò che in loro si accumula senza misura, / pietrificato, destinato a durare»? Non basta molto meno all’uomo – all’uomo così com’è, figlio dei luoghi e dei tempi, fatto di 34 acqua e sangue, effimero e imperfetto, ma vero? A volte, le cattedrali – la Summa di Tommaso come l’Etica di Spinoza – sembrano ignorare le piccole case che le circondano e che a loro volta, meno colpevolmente, le ignorano: con i loro fragili stipiti in legno, le loro finestrelle anguste, il loro focolare tutto umano, esse appaiono di certo fatte d’altro, prodotte da altre volontà, per altri scopi, disposte a caso attorno all’edificio fatto a croce. E un’inquietudine buona, che è certamente giusto accogliere nella propria vita di pensiero: se è vero che può degenerare nell’empietà, è anche vero che può salvare da una forma di superbia ben peggiore dell’empietà stessa. Chi non l’avverte, generalmente, ama le cattedrali disprezzando nel segreto le piccole dimore tra cui sorgono; chi l’ha accolta e attraversata – superarla senza dimenticarla, infatti, è il segno più certo della maturità raggiunta dallo spirito – le ama invece con cuore umile e traboccante d’affetto per tutto ciò che vive e appartiene alla sfera complessa dell’umano - anche e soprattutto per ciò che è «in basso nelle buie strade». 35 L’ANGE DU MÉRIDIEN Nella bufera, che intorno alla forte cattedrale si abbatte come un mentitore che pensa e ancora pensa ci si sente con più tenerezza spinti verso te, d’improvviso attratti dal tuo sorridere, angelo sorridente, figura sensibile, con una bocca d’altre cento bocche fatta: tu non l’avverti, come le nostre ore scivolano via da te, dalla colma meridiana in cui la cifra del giorno si raduna, ugualmente reale, in profondo equilibrio, quasi mature e ricche fossero tutte le ore Cosa ne sai tu, che sei di pietra, del nostro essere? E tieni forse, con più lieto volto, rivolto alla notte il tuo quadrante? da Nuove poesie Quando una «bufera» scuote la «forte cattedrale» delle nostre secolari certezze – è già accaduto, più e più volte – avviene anche che il nostro sguardo si levi più che in altri tempi al cangiante orizzonte del divino. Una tenerezza spontanea muove l’anima che cerca, che intuisce un «angelo sorridente»: un Dio che non sappia nulla della nostra vita nella sua umiliante fisicità, che le sia meravigliosamente estraneo e sappia per questo darle un senso nuovo, consolarla con un «profondo equilibrio»; un Dio che renda «ugualmente reali» le contrastanti apparenze che ci inquietano, al cui cospetto tutte le ore, indistintamente, appaiano «mature e ricche». È un’esigenza, a volte, questa «figura sensibile», questo Dio che ci comprenda essendo “altro”, che ci consoli sfumando i contorni del mondo in cui siamo immersi e annullando, proprio perché “altro” da noi, le distanze incolmabili tra ciò che percepiamo come orribile e ciò che immaginiamo come splendido. 36 Difficile spiegare: un Dio che porti vastità, calore, luce nuova e impreveduta – la luce di altri mondi nei quali il nostro, così opaco, si dissolva quietamente, senza alcun rumore. Così, i contorni si fanno impercettibili e sparisce ciò che più ci angoscia: il profilarsi di distanze insormontabili, di spigoli vivi, di barriere impenetrabili. La religiosità orientaleggiante e certo ecologismo confusamente panteistico possono essere, spesso, ricondotti a questa esigenza – che è degna, in sé, di profondo rispetto, perché manifesta un tratto importante della nostra realtà di esseri umani. Può essere il Cristo un simile angelo? È sembrato di sì, a volte, e non solo a Valentino, a Marcione e agli gnostici di un tempo. C’è una domanda liberante – che dà sollievo, in questo contesto, a chi la ponga al proprio Dio: «Che ne sai, tu... del nostro essere?». Al Cristo, però, questa domanda non può essere rivolta. Figlio dell’uomo, egli conosce la nostra vita più di noi stessi; le ore per lui hanno un nome e un peso, e non tutto, ai suoi occhi, è ugualmente reale. Maestro e amico, egli è anche giudice e Signore; la sua salvezza è giudizio, misura, determinazione di confini e sensi ancora sconosciuti, che attendono di essere finalmente rivelati. La pace che egli porta è consapevolezza del senso, esatta valutazione delle distanze: divina presenza che rispetta il mondo, che non ne dissolve la benché minima apparenza. Senza mutarle, egli ricapitola in sé tutte le cose, rafforzandone l’esistere alla luce della sua persona. Se ciò non accadesse, sarebbe l’angelo sorridente del nostro desiderio, non la Parola ineffabile di Dio fatta carne per una salvezza inimmaginabile del mondo. Se c’è una dolcezza infinita nella sua persona, c’è anche una durezza ineliminabile nella sua presenza, un’irriducibilità assoluta a ciò che ci è noto, a ciò che ci attenderemmo e vorremmo in alcuni momenti della nostra storia: la sua, però, è una presenza, non una risposta. Dalla sua eternità densa, in tutto umana e altrettanto divina, egli veramente ci osserva con occhi fissi, duri e insostenibili. Non è un caso che il pane e il vino, fonti di chiarezza e di gioia infinita, siano muti e incomprensibili, 37 TORSO ARCAICO DI APOLLO Non conoscemmo il suo capo inascoltato dove il centro dei suoi occhi maturava. Ma il suo torso arde ora come un candelabro, e là il suo sguardo, come in vite vòlto su se stesso, si trattiene e splende. [...] perché là non c’è punto che non veda te. Devi cambiare la tua vita. da Nuove poesie Tra i nostri ricordi vi è anche la memoria del non-detto, del non-conosciuto: di ciò che mai abbiamo visto o saputo e che ricostruiamo, senza garanzie di oggettività, sulla base di semplici indizi, cioè di altri ricordi. Anche questi vuoti della memoria, a cui il pensiero ritorna con il desiderio di sapere, vedono la nostra vita, la giudicano e la cambiano. Come? Difficile dirlo. A volte il ricordo di un’incomprensione o di una nostra manchevolezza ci spinge a concentrare le forze su questo o quel punto del nostro carattere, quasi per riscattarci, per porci nelle condizioni, se mai capitasse, di rivivere quel rapporto nella giusta maniera; altre volte, il desiderio di sapere ciò che quella persona ha fatto, ha detto o ha pensato a proposito di noi o di altri in una determinata occasione ci tortura insopportabilmente, tanto che ci appare ormai impossibile vivere. Ci sembra infatti che questa conoscenza risolverebbe in qualche modo il nostro esistere, dandogli finalmente una retta misura, portandolo alla maturità, alla pienezza, alla pace che tanto sospiriamo. Non è così anche con la memoria di Cristo? «Non conoscemmo il suo capo inascoltato / dove il centro dei suoi occhi maturava»; eppure, da secoli tentiamo di ricostruire le sue parole e il loro senso, di riavere tra noi il suono della sua voce e di cogliere l’espressione del suo volto – mentre ne abbiamo soltanto echi, memorie accumulate ad altre, molteplici e spesso in contraddizione tra loro. Di lui ci facciamo immagini e idee; ne interpretiamo 38 la figura e la missione; cerchiamo di cogliere, in un crescendo vertiginoso attraverso i tempi, il senso del suo messaggio e, soprattutto, della sua presenza di Risorto, che indoviniamo sotto i segni del pane e del vino – perché? Perché veramente nella sua persona «non c’è punto che non veda te»: ciascuno di noi. Lo avvertirono i Padri della Chiesa, come l’avvertirono, forse, gli eretici, gli gnostici e tutti coloro che ascoltarono, indagarono e custodirono le sue parole – lo avvertì, certo, anche Rilke. «Devi cambiare la tua vita»: dobbiamo farci tutt’uno con questo desiderio, con l’incompletezza di questo ricordo che svela il calore incomprensibile della sua presenza nel mondo – da accettare così, come mai realmente percepita. 39 L’ISOLA Vicino è solo il Dentro; tutto il resto lontano. E questo Dentro è colmo, ogni giorno fatto pieno d’ogni cosa – assolutamente indicibile. da Nuove poesie Ciascuno di noi, in fondo, non fa che tornare a se stesso: nella memoria, che è analisi e rielaborazione delle nostre percezioni, funzione che le modifica e le ordina, creando il «Dentro». «Tutto il resto lontano»: ciascuno vive di sé, del proprio ascolto continuamente rinnovato, accresciuto e trasformato. L’oggetto che tocchiamo è per noi sensazione, esperienza: è il ricordo che suscita in noi; diviene ciò che richiama alla nostra coscienza. Conoscere è annullare il più possibile questa distanza, avvicinare proprio a questo «dentro... colmo» che ancora ci sorprende, «fatto pieno di ogni cosa», il mondo molteplice e privo di senso. II mondo ci è dato come realtà da esprimere, da arricchire conoscendolo, da trasfondere nel nostro «dentro»: sembra dato per essere espresso, mentre il <<dentro>> è «assolutamente indicibile». Va notato, certo, che l’espressione è spesso imperfetta, sempre più povera di ciò che trasforma in figura nel «dentro»; e che le cose sembrano avere una loro vita per noi inattingibile, priva di coscienza e di memoria, ma colma di un segreto non ancora rivelato, dense di un rimando che ancora non abbiamo còlto pienamente. A noi di sfiorarle, di conoscerle e aprirle ancora e ancora, con tocco leggero. 40 Canta i giardini, o mio cuore, che non conosci: come nel vetro colati giardini, chiari, irraggiungibili. [...] Mostra, mio cuore, che mai te ne vorrai privare. Che a te pensano, i loro fichi che maturano. Che tu con le loro brezze, tra i rami in fiore, come in volto tramutate, t’intrattieni. Fuggi l’errore che porta a sacrificare l’avvenuta decisione, questa: essere! da I sonetti a Orfeo C’è un canto, forse, che ci dona la misura delle cose, che rafforza la nostra decisione di «essere» veramente, di vivere fino in fondo, di non limitarci ad attraversare alla bell’e meglio l’esistenza; suo oggetto sono i «giardini» che non conosciamo, dei quali non ci è dato fare esperienza, ma che sono irrinunciabili per colui che canta. Egli, infatti, si sporge oltre l’essere e li scorge nella lontananza, «come nel vetro colati giardini, chiari, irraggiungibili»; e si «intrattiene» con l’immateriale, contempla ciò che non può essere visto. Quando un soffio di vento sembri disegnare i lineamenti di un volto «tra rami in fiore», egli crede che realmente il vento si sia fatto volto per parlargli, per mostrarsi a lui. È questo, espresso da Rilke con parole ineguagliabili, l’inganno dell’uomo religioso di oggi e di sempre, come l’inganno del metafisico e l’illusione del poeta che canta quei «giardini»? Non sarebbe più giusto, per l’uomo che cerchi fino in fondo la verità delle cose, comprendere e ammettere che il vento non ha volto? Che non può essere altro che casuale la conformazione assunta dalle foglie quando esso lo attraversa? Che ciò che appare racchiuso nel vetro non può essere se non il riflesso di ciò che si trova al di qua del vetro? Non sarebbe più giusto rinunciare a quei giardini, per amore dell’essere nella sua immediatezza, nella sua vicina evidenza? 41 No, non sarebbe giusto: quei giardini «chiari, irraggiungibili» sanno rafforzare fino all’eroismo la nostra decisione di «essere», la nostra incondizionata fedeltà alle cose. Per questo, dobbiamo fidarci di loro, e credere che non possono ingannarci in alcun modo: sono irrinunciabili per chi voglia esistere con forza, fino in fondo, a qualunque condizione. 42 Hermann Hesse 43 Ascolti un po’, caro omino, ascolti senza ironia e senza páthos, la forma lontana della musica divina che passa dietro il velo disperatamente idiota di questo ridicolo apparecchio! Stia attento, c’è sempre qualcosa da imparare. Osservi come questo imbuto insensato faccia l’azione più sciocca, più inutile e vietata del mondo, e scaraventi una musica eseguita qua e là, senza discernimento, stupidamente e svisandola miseramente, in un ambiente estraneo, non adatto a questa musica... e come tuttavia non possa distruggerne lo spirito, ma debba limitarsi a farvi trionfare la propria tecnica sperduta e il suo piatto affarismo! Ascolti bene, lei ne ha bisogno. Apra dunque le orecchie! Bene. E ora lei non sente soltanto un Haendel storpiato dalla radio, ma pur sempre divino, anche in questa forma ributtante, lei sente e vede, mio caro, anche una bella similitudine della vita. [...] Tutta la vita è così, mio caro, e bisogna prenderla com’è; e chi non è asino ci ride. La gente come lei non ha il diritto di criticare la radio o la vita. Impari ad ascoltare! Impari a prendere sul serio quel che merita di essere preso sul serio e a ridere del rimanente! O ha fatto lei qualche cosa di più nobile, di più savio, di più fine? Nossignore, non l’ha fatto. Lei, signor Harry, ha fatto della sua vita la storia di un’orrida malattia, della sua intelligenza una disgrazia. da Il lupo della steppa Come ci giunge gradito questo rimprovero di Mozart a Harry Haller, quel lupo della steppa che, spesso, tanto ci assomiglia! Veramente degno, benché frutto di fantasia, dell’autore del Concerto per clarinetto e del Don Giovanni, che ancora ci insegna, senza parole, cosa sia il sorriso degli immortali. Ci prende a volte alla gola, nelle nostre ore peggiori, un senso di disgusto, di insofferenza per tutto ciò che è nobile e bello e che vediamo scagliato inesorabilmente in una palude insensata, insidiato da un fango ripugnante che non può accoglierlo se non per lordarlo – e rifiutiamo quella commistione in entrambi i suoi elementi, perché la loro inspiegabile compresenza li svuota, apparentemente, di qualunque senso. Ci si dipinge sul volto un sorriso amaro, sprezzante – il sintomo di una malattia orribile, di una sofferenza sterile dalla quale la guarigione è un miracolo. 44 Abbiamo altro da fare che soccombere: dobbiamo imparare ad ascoltare, a cogliere comunque la musica divina anche se una pessima radio la storpia, anche se il suono inimitabile si diffonde nell’ambiente più squallido, e a sorridere del resto – ma non per disprezzo, non per alterìgia, non con il gelo nel cuore. La musica, quale essa sia, è lì a donare senso, lungimiranza e forza e conquista a poco a poco ciò che è sordido, gelido e senz’anima, avanzando in esso senza sforzo né successi apparenti, per una straordinaria forza propria, nascosta ai nostri sguardi. Questa fede ci è necessaria per poter capire come il sorriso degli immortali abbia in sé la quintessenza del calore umano, ne sia il vertice purissimo, sia il culmine dell’amore per tutto ciò che vive: altrimenti, sarebbe soltanto una distanza nobile e invidiabile, nulla più che una luce splendida ma gelida – priva della capacità di far fiorire ciò che incontra, lungo sentieri imperscrutabili. 45 Con una mano indicò il ciclo e disse: «Guarda un po’ questo paesaggio di nubi con pochi brandelli di cielo! A prima vista si direbbe che la profondità sia dove è più buio, ma tosto si avverte che quel buio è dato dalle nuvole, e che lo spazio celeste, con la sua profondità, incomincia soltanto ai margini, nei fiordi di queste montagne di nubi, e sprofonda nell’infinito in cui stanno gli astri solenni e, per noi uomini, supremi simboli di chiarezza e di ordine. La profondità del mondo e dei suoi misteri non è dove stanno le nuvole e il buio, ma nel cielo chiaro e sereno [...]». da Il gioco delle perle di vetro «...nel cielo chiaro e sereno»... È forse un vile colui che là rivolge lo sguardo, che cerca nel miracolo che ci sovrasta «la profondità del mondo e dei suoi misteri»? No, se egli non è un fuggiasco, se non vi si avventura per disgusto della terra, per negarne e sminuirne i contorni, né per autocompiacimento, ma per «suprema conoscenza e supremo amore», alla ricerca dell’«affermazione» incondizionata «di ogni realtà» (H. Hesse). Nulla è più eroico e nulla è, al tempo stesso, più genuinamente, più generosamente umano e terrestre. E questa, forse, la via ad una serenità non vile, non artefatta, ma piena e sincera – a un’autentica fedeltà alla terra. «Il poeta – nota ancora Hesse – che col ritmo danzante dei versi esalta la magnificenza e l’orrore della vita, il musicista che li fa risuonare come pura presenza, sono coloro che portano la luce, che aumentano la gioia nel mondo, anche se prima ci conducono attraverso lacrime e tensioni dolorose. [...] Ciò che essi ci danno non è più la loro tenebra, la loro sofferenza o angoscia, ma è una goccia di luce pura, di eterna serenità». Troppe volte, forse, fissiamo lo sguardo su abissi di cenere sporca dai quali nulla può sorgere, e il nostro fine non è più di trascenderli ma semplicemente di misurarli e morbosamente descriverli, indicandoli come definitivi e immutabili: è questo che ci allontana sempre più dalla luce Pindaro e dalla musica della Tempesta di Shakespeare, che segna tanta della nostra arte in modo negativo: Da ciò quella nostra povertà tante volte ribadita di vili, di schiavi di un grigiore che ancora non amiamo, ma di cui non osiamo sfidare la potenza; da ciò il disamore, la pochezza voluta, compiaciuta e consapevole di tanti nostri intenti, nella vita come nell’arte. Eppure, sarebbe mille volte più dignitoso tacere in eterno, 46 lasciare la terra senza avere nemmeno tentato di articolare per essa la benché minima parola, piuttosto che trascinarsi così da una sillaba all’altra, codardamente fieri di non osare, di non tentare, di non amare. 47 Gottfried Benn 48 GENTE INCONTRATA [...] Ho incontrato persone, le quali con i genitori e quattro fratelli in una stanza si fecero adulte, di notte, le dita negli orecchi, studiarono in una povera cucina, si costruirono un futuro, a vederle belle e ladylike come contesse – ma delicate nell’intimo, prudenti come Nausicaa, portavano la fronte pura degli angeli. Tante volte ho chiesto a me stesso senza trovare risposta da dove venga la delicatezza e il bene, neanche oggi lo so, e ora devo andare. da Aprèslude Assai più misteriosi del male nelle loro improvvise e disarmanti apparizioni, «la delicatezza e il bene» sembrano celare ancora la loro origine, divina o umana che sia – non solo, forse, perché ben poco ce ne siamo chiesti ragione. Nei momenti e nei luoghi più impensati, tutt’uno con persone concrete – volti, occhi, atteggiamenti, intere esistenze segnate dalla grazia, dalla levità – «la delicatezza e il bene» traspaiono a volte da creature che davvero hanno «la fronte pura degli angeli»: da esse inseparabili, impensabili senza chi fisicamente le incarna quasi inconsciamente, non mostrando quasi di avvertire la propria indicibile ricchezza. «La delicatezza e il bene» non ostentano la propria presenza: ne danno, piuttosto, pochi cenni – per pudore, certo, ma non solo. Altra è la fisicità del male, la sua forza lacerante che s’impone di prepotenza, che genera domande strazianti nell’immediatezza della sua evidenza. Forse, solo un uomo che sia così indicibilmente puro da comprendere linguaggi evanescenti, segni esili e infinite volte ripetuti con noncuranza su tele seminascoste, lontane dal colore vivo delle altre, può davvero cogliere «la delicatezza e il bene», e riconoscersi abbagliato dalla loro 49 mitezza operosa. È così, forse, che esse si difendono: moltiplicandosi in un’aria rarefatta fino a diventare come rilievi minimi e finissimi - che hanno in sé, come un miracolo, la solidità e la purezza ineguagliabile del marmo. I più intuiscono appena, e un’inquietudine benefica, inavvertita prima di allora, li coglie un istante per subito svanire. Se è così discreta la loro presenza, se questa discrezione è l’espressione della loro più intima natura, non sorprende che la loro origine sia ignota, e che sia destinata a rimanerlo in eterno; può sorprendere, invece, che ben pochi abbiano avuto in sé la percezione di questo mistero: Montale («Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra le pietraie d’un greto»), Hölderlin, Rilke e pochi altri. Ciò induce, inevitabilmente, a riflessioni crude, amare. Non stupisce, però, che sia così difficile – almeno per chi scrive – soffermarsi a lungo a contemplare questa lirica ed esprimere l’ansia confusa che ha nel cuore per come essa lo giudica, lo umilia e in parte lo risana: con celeste, divina noncuranza. 50 Riferimenti bibliografici (Salvo diversa indicazione, le traduzioni riportate nel presente volume sono di L. Gobbi) pag. 9 M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, Torino 1978, p. 216. 15 J.L. Borges, La cifra, a cura di D. Porzio, Milano 1988, p. 90. 19 Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, 173.3, tr. it. Itinerario dell’anima a Dio, Milano 1984, p. 353. 23 P. Celan, Luce coatta ed altre poesie postume, a cura di G. Bevilacqua, Milano 19829, p. 46; p. 83. 25 Ivi, p. 52. 27 Ivi, p. 80. 29 Ivi, p. 67. 31 P. Celan, Poesie, a cura di M. Kahn e M. Bagnasco, Milano 19863, pp. 114-116. 33 Ivi, p. 192. 34 Ivi, p. 152. Lo stesso testo, accompagnato da uno splendido commento ermeneutico, si può leggere in H.G. Gadamer, Chi sono io chi sei tu. Su Paul Celan, a cura di F. Camera, Genova 1989, pp. 61-62. G. Colli, Introduzione a Spinoza, Etica, Torino 198811, p. 5. Lo stesso testo si trova anche in G. Colli, Per un’enciclopedìa di autori classici, Milano 1983, pp. 54-55. 39 M. Luzi, Tutte le poesie, Milano 1988, p. 282. 43 R. De Monticelli, Le preghiere di Ariele, Milano 1982, p. 13. 47 Pindaro, Le pitiche, a cura di E. Mandruzzato, Milano 1990, pp. 44-46. 49 Ivi, p. 108. 55 R.M. Rilke, Nuove poesie. Requiem, a cura di G. Cacciapaglia, Torino 1992, p. 50. 58 Ivi, p. 48. 61 Ivi, p. 194. 63 Ivi, p. 162. 65 R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, a cura di F. Rella, Milano 1991, p. 112. 69 H. Hesse, Il lupo della steppa, nel suo vol. Romanzi e racconti, trad. di E. Pocar, Milano 1993, pp. 339-340. 71 H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, trad. di E. Pocar, Milano 1993, p. 326. 51 75 G. Benn, Aprèslude, a cura di F. Masini, Torino 1994, p. 50. 52 INDICE Prologo Elogio del frammento Jorge Luis Borges <<Non ti potrà salvare ciò che scrissero...>> San Bonaventura <<Non si è in alcun modo disposti...>> Paul Celan <<Getta via / i cunei di luce...>> <<Posso ancora vederti: un’eco...>> <<Renitente mattino...>> <<La mantide, di nuovo...>> SALMO <<Le vele, nessuno deve ammainarle...>> <<Filamenti di soli...>> Mario Luzi AUGURIO Roberta De Monticelli PREGHIERA TERZA Pindaro <<È bene desiderare dagli dei...>> <<Tu secondo un ritmo passa oltre...>> Rainer Maria Rilke LA CATTEDRALE L’ANGE DU MÉRIDIEN » 58 TORSO ARCAICO DI APOLLO L’ISOLA <<Canta i giardini, o mio cuore, che non conosci...>> Hermann Hesse <<Ascolti un po’, caro omino…>> <<Con una mano indicò il cielo e disse…>> Gottfried Benn GENTE INCONTRATA 53 Riferimenti bibliografici 54 4^ di copertina In questo libro d’esordio, pubblicato in una piccola edizione locale nel 1995 e ora presentato in una nuova versione rivista dall’autore, il poeta e saggista Lorenzo Gobbi vuole dare vita a un’esperienza soggettiva di colloquio intimo con alcuni testi poetici, nell’intenzione di “offrire un momento di sosta, di quiete meditativa”. Così, egli sceglie e presenta frammenti di autori come Pindaro, Bonaventura, Borges, Celan, Rilke, Hesse e Benn (ma anche di Mario Luzi e Roberta De Monticelli), commentandoli in modo del tutto personale: non un commento esegetico o ermeneutico, ma un esercizio di ascolto e di riflessione, che amplifica il testo e lo lascia risuonare, chiarificandolo nella verità di una relazione emotiva, etica e intellettuale insieme. Le domande che emergono sono urgenti e pressanti: la necessità della gioia, la dignità del dolore, la purezza del desiderio, la capacità delle parole di aiutarci a vivere nel mondo come ospiti grati e rispettosi. Il silenzio “veramente sembra trattenere qualcosa: una voce, un volto, una sorgente di vita”, perché “la verità delle cose” appare di rado, ed “è giusto seguirla, attenderla sul terreno che le è proprio”. Il linguaggio è denso, ma chiaro e scorrevole; chi conosce i testi successivi di Gobbi (Carità della notte, Lessico della gioia, Le api del sogno) riconoscerà in questo primo saggio il nucleo originario dei suoi temi e delle sue riflessioni. Lorenzo Gobbi (Verona, 1966) ha pubblicato con Servitium i saggi Carità della notte. Sul tempo e la separazione in alcune poesie di Paul Celan: una lettura personale (2007), Lessico della gioia (2008) e La api del sogno (2009), oltre alla traduzione di Rainer Maria Rilke, Libro d’ore (2008). Insegnante di scuola media superiore, è autore di altri saggi (tra cui Gerusalemme nella memoria di Amos Oz, Unicopli, Milano 2006), poesie (tra cui Nel chiaro del perdono, con una lettera di Roberta De Monticelli, Book Editore, Bologna 2002 e Luce alla mia destra, Book Editore, Bologna 2005) e traduzioni (tra cui Rainer Maria Rilke, Vita di Maria, Qiqajon, Bose 2000 e Rainer Maria Rilke, Le rose, I Quaderni di Orfeo, Milano 2006). Suoi testi poetici, narrativi e saggistici sono a disposizione sul blog www.lorenzogobbi.blogspot.com.