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«Si direbbe che la persona stessa risieda in quei frammenti, pur così

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«Si direbbe che la persona stessa risieda in quei frammenti, pur così
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Lorenzo Gobbi
Elogio del frammento
Nuova edizione rivista
Servitium 2010
©2010 Servitium
©2014 Lorenzo Gobbi
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Prologo
Questo libro fu stampato a Verona nel 1995, in una piccola edizione locale: ne
conservo una copia soltanto. Prepararlo per questa nuova, inattesa
pubblicazione è stato per me come affondare le mani tra le ceneri di una casa
distrutta dal fuoco, o meglio: tra i resti di un piccolo borgo abbandonato,
cancellato con cura dal tempo. Come un archeologo, per ritrovare ciò che era
vivo, ho agito con gesti precisi: ho tolto qualche incrostazione (ausiliari,
dimostrativi e possessivi in eccesso, trattini inspiegabili, tautologie nate
dall’ansia di farmi capire), e ho precisato qualche sfumatura lessicale. Non ho
aggiunto nulla; non ho unito ciò che mi è parso diviso. Ho riconosciuto una
trama di fondazioni che interamente mi appartiene: perimetri e passaggi,
cunicoli e sale. La presento così, come ho potuto ritrovarla.
Nei poeti che amavo, già allora trovavo ragioni di vita: le loro parole
risuonavano in me, e suscitavano un’eco concorde. Era un dialogo
appassionato e intenso, e ne vivo a tutt’oggi: sono lieto di riproporlo, ora che
tanto altro si è compiuto, grazie alla stima e alla generosità degli amici di
Servitium.
Rileggendo, comprendo che la mia mèta ideale non è mai stata la perfezione,
quanto piuttosto la compiutezza. A questa nuova edizione di Elogio del
frammento, dunque, aggiungo soltanto un pensiero che amo, felice di averlo
ricevuto in dono (da Mat’Marija, poetessa russa, pittrice, rivoluzionaria, due
volte sposa, madre e poi monaca ortodossa nella Parigi degli anni Trenta,
morta in un campo di sterminio nazista e proclamata santa dal Patriarcato di
Mosca nel 1995):
Sono molte le vie che conducono alla pienezza della trasfigurazione
dell’esistenza. E nella pienezza dell’esistenza trasfigurata non ci sono vie che
non conducano alla trasfigurazione. Tutte le vie reali conducono a Dio. […] Una
di queste vie, condizionata dalla presenza di un’altra via, è la via della terra.
Camminino pure verso la verità quelli che non conoscono la terra. Non è
possibile determinare se la loro sia una via facile o difficile. Ma bisogna che essi,
pur non vedendo e non sapendo, benedicano la terra e non pensino che la terra
sia l’ostacolo da superare, la seduzione da rifiutare. […] Nelle vie terrestri non
sempre è possibile salire sul monte, passo dopo passo. Gli istanti di caduta
sembrano gli ultimi, e nessuna vittima, nessun sacrificio sembra possano essere
mai giustificati. Nelle vie della terra non si dà un volo uniforme, ma frequenti
cadute in precipizi da cui si deve uscire con fatica, perché in queste vie non
sono date ali.
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E qui è molto difficile vedere qualcosa, perché tutto viene dato per l’altra via, e
tutto viene ricevuto dall’altra via, e perciò non è mai possibile misurare quanto
si deve dare e quanto si può ricevere.
Le vie della terra esigono fatica e sudore. E grazie alla fatica, al sudore, alla
cecità e alla pietà, la terra è santa1.
Per la prima volta, quindici anni fa, osavo prendere la parola nel dialogo tra
gli uomini, senza che nessuno mi avesse invitato. Avevo scelto “le vie della
terra”, già allora: quando, con il cuore in gola, scrivevo che “bisogna osare,
sperare, amare oltre misura”. Sapevo che “la terra è santa”: ne intuivo le
ragioni, e ora posso confermarle.
Verona, maggio 2010
Mat’ Marija, Scritti, nel volume di Nina Kauchtschiscwili, Mat’ Marija. Il cammino di una monaca. Vita e scritti,
a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, pp. 210-212.
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Elogio del frammento
«Si direbbe che la persona stessa risieda in quei
frammenti, pur così esigui, ed elevata ad una potenza
che è ben lontana dall’avere nell’idea abituale che ci
facciamo di lei nella sua interezza».
M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore
Per speculum et in aenigmate: così il mondo si offre ai nostri occhi, per quanto
amore il nostro sguardo contenga. Specchio del mondo, enigma intessuto su
altri enigmi, la parola poetica sa avvicinarci al centro delle cose: in suo nome,
anch’essa chiede ascolto, accoglienza, meditazione profonda. In cambio, dona
la propria vastità, la ricchezza del proprio senso – un dono tutt’altro che
spregevole, quali che siano le nostre capacità di accoglierlo.
Al primo incontro con il testo, si attiva in noi un insieme di pensieri: la lettura
corretta, la comprensione esatta, l’esegesi rigorosa. A poco a poco, però, altri
pensieri sorgono dal nostro intimo che ascolta contemplando il testo,
amplificandolo e lasciandolo risuonare in sé, fino a collegarlo con le proprie
più vere riflessioni. A questa esperienza vorrei dare voce: a partire dal testo e
a servizio del testo – per illuminarne, almeno parzialmente, la ricchezza di
senso reale e l’ampiezza d’eco possibile. L’obiettivo di questi scritti è qualche
frammento di oltre-testo: un po’ di ciò che possiamo udire quando
accogliamo una lirica come parola oracolare, come accenno ad altro da sé.
«Acceleratore della coscienza» (J. Brodskij), l’espressione poetica può essere
vista come una fune tesa tra noi e il centro delle cose, sulla quale avventurarsi
con passo cauto e leggero, guardando avanti a sé.
Per questo, si è concentrata l’attenzione su i frammenti che ci vengono
incontro nella lettura e che ci abbagliano con la loro bellezza illuminando,
come un cono di luce inesauribile, vasti orizzonti di riflessione e di
conoscenza. Sono i piccoli brani che amiamo, ai quali torniamo, che
impariamo a memoria e che ricordiamo a noi stessi nelle più varie occasioni:
è bello seguirli autonomamente, ascoltarli uno alla volta, mettendoli in
evidenza per sé soli. «In the particular» scrisse Joyce «is contained the universal»:
paradossalmente, frammenti di testo sembrano acquistare, a volte, una
ricchezza maggiore dell’intera opera in cui sono collocati. Tutto ciò è ben
difficile da spiegare, e dipende certamente da noi, dall’atto particolare della
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nostra lettura; è su questi, comunque, che si vorrebbe richiamare l’attenzione,
per desiderio di concentrazione e di essenzialità.
Sono convinto che la verità delle cose appaia di rado, attraverso luccichii
improvvisi e imprevedibili, e che sia giusto seguirla, attenderla sul terreno
che le appartiene.
L’intenzione è di offrire un momento di sosta, di quiete meditativa al cospetto
della parola poetica, senza violare il pudore: esso è sacro anche e soprattutto
nella vita della mente. Il discorso, comunque, rimane abbozzato, accennato,
aperto. Più che lettori, vorrei amici disposti a sostare nella stessa tensione
interiore.
Verona, maggio 1995
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Jorge Luis Borges
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Non ti potrà salvare ciò che lasciarono
scritto coloro che la tua paura implora;
tu non sei gli altri e ti vedi ora
centro del labirinto che tramarono
i tuoi passi. (...)
Polvere anche è la parola scritta
dalla tua mano o il verbo pronunciato
dalla tua bocca. Non c’è pietà nel Fato
e la notte di Dio è infinita.
Tua materia è il tempo, l’incessante
tempo. Sei ogni solitario istante.
da La cifra
Polvere anch’esse, le parole non possono salvare coloro la cui materia «è il
tempo, l’incessante / tempo» – tanto più se la salvezza è implorata per viltà.
La condanna, di fatto, non è la morte, cioè la prospettiva di diventare polvere:
è l’essere una slegata successione di istanti che vanno a comporsi,
inevitabilmente, nella trama di un labirinto – così da produrre altre parole
come polvere, incapaci di salvare altri.
È la paura, spesso, a spingerci alla ricerca di parole fatte, invece, per un
ascolto fermo, virile, privo di richieste. Ci fosse dato, almeno una volta, di
incontrare una parola che ci liberi, prima che dalla vita o dalla morte, dalla
viltà che spesso le accompagna entrambe! Eppure, ciò dipende da noi e da
nessun altro.
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Bonaventura
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Non si è in alcun modo disposti
alla contemplazione delle realtà divine,
che conduce all’abbandono estatico dell’anima,
se non si è a somiglianza di Daniele
«uomo di desiderio».
da Itinerarium mentis in Deum
Per trovare pace, dobbiamo farci tutt’uno con il desiderio: non può che essere
così. A chi sappia farsi «uomo di desiderio», Bonaventura promette ben più
che la pace: «la contemplazione delle realtà divine, che conduce
all’abbandono estatico dell’anima» – una pace viva, fatta di un’eterna
vibrazione dell’essere in Dio che a quel moto risponde, appagandolo. Ecco, il
desiderio ci porta spesso a un’inquietudine sterile, inappagabile, al punto che
in esso possiamo vedere la causa della nostra pena: non è forse meglio
accettare ciò che è, limitarci ad esso e soffocare in noi la tensione ad altro che
continuamente ci rinnova, che perennemente supera se stessa verso altro
ancora? Perché cercare, perché non accontentarci? Il desiderio di altro, infatti,
può portarci all’odio per ciò che siamo e ciò che abbiamo, può negarci anche
quelle possibilità di gioia che l’oggi contiene per ciò che semplicemente può
darci. Bonaventura riflette in un contesto religioso e, soprattutto, mistico, in
cui queste parole hanno un senso preciso: per lui, puntare all’oltre-umano e
orientarsi a esso perché un miracolo accada corrisponde a un dato
antropologico fondamentale, necessario a permettere che l’unione mistica si
realizzi nella realtà. Anche chi mistico non sia, però, può trovare una verità
preziosa nelle sue parole: per chi ami le cose in sé stesse, per chi le contempli
senza pretesa di cambiarle o di superarle – perché sa che questa e non altra è
la sua vera dimora – il desiderio deve purificarsi, farsi essenziale ma mai
venir meno. Non è un male desiderare il meglio per ciò che amiamo, sperare
per esso un supplemento di vita e di gioia, essere aperti all’annuncio di un
bene futuro, alla constatazione di una crescita misteriosa, di un cammino
verso qualcosa che appena si può intuire: il male, forse, è pretendere, è
desiderare con foga, con astio – perché nulla, in realtà, ci è dovuto. Tutto, in
noi, deve restare lieve, abbozzato: deve avere sempre una misura. Tutto il
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nostro essere deve comporsi in un desiderio che non sia una pretesa ma una
speranza esile ed aperta, perché la nostra pace non sia una resa.
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Paul Celan
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Getta via
i cunei di luce:
la fluttuante parola
la possiede il buio.
da Luce coatta ed altre poesie postume
Celan, ebreo, si riferiva forse alla parola nel contesto biblico, quella parola
(dabar) che crea e vivifica, e che non ritorna a Dio «senza avere irrigato la
terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al
seminatore e pane da mangiare» (Isaia 55, 10). Eppure, la terra è ancora
informe e l’uomo è ancora misero e indigente come se il buio l’avesse
inghiottita: come se essa stessa fosse buio. Se è così, se è buio anche il Dio che
la manda, è necessario attendere e rinunciare alla luce che faciliterebbe la
nostra ricerca: entrare noi stessi nel buio, per avvicinarci a lei. O piuttosto,
come un più rigoroso circolo ermeneutico sembra suggerire, Celan si riferiva
alla parola poetica, al proprio «strazio innevato, coperto di neve», «smorto
suono, scorticato / dal profondo» (P. Celan) – perché essa nasce, a volte, dal
buio che la custodisce, e lo riflette; non va cercata, ma solo quietamente
attesa, perché anch’essa è silenzio e buio, e si lascia trovare solo da chi ne
accetti tale condizione di esistenza.
«La fluttuante parola»... viene alla mente, in altro senso, che tale è forse la
Parola <<che era al principio presso Dio>> (Giovanni 1,2) e che, assieme allo
spirito di Dio, «aleggiava sulle acque» all’inizio dei tempi (Giovanni 1,1). Dio,
scrive l’apostolo Giovanni, «è luce e in lui non vi sono tenebre» (1Giovanni 1,
5); eppure, quello stesso Gesù che come luce era venuto nel mondo (Giovanni
1, 9), dopo essere risorto si manifesta nel buio della sera, ai discepoli ancora
timorosi riuniti nel cenacolo (Giovanni 20). La Parola vivente «la possiede il
buio»: non ci è più dato incontrarla, parlarle a nostra volta – ci è dato
soltanto, benché non sia poco, un silenzio ed un ricordo. A nulla valgono,
forse, i «cunei di luce» degli uomini – ed è forse giusto privarsene, accettare
almeno per un istante di scrutare il buio, in attesa, con occhi notturni, con
cuore fermo. Privarsene, però, lievemente: senza clamore, senza spettacolari
gesti d’orgoglio o di gratificante disperazione, per non violare quel silenzio
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sacro - il buio che possiede la Parola. Esso circonda la nostra vita, nello spazio
e nel pensiero: forse è tempio, scrigno, tabernacolo della Parola di Dio.
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Posso ancora vederti: un’eco
che si avverte con sensibili
parole, sullo spigolo vivo del distacco.
Il tuo volto, lieve, si adombra
quando a un tratto
come luce si fa chiaro
in me, nel punto in cui
con pena infinita diciamo: mai.
da Luce coatta ed altre poesie postume
«Sensibili parole»: tali sono, forse, le parole che pronunciamo ricordando
coloro che hanno lasciato il mondo delle presenze. Finché il congedo è ancora
in atto, finché è ancora uno «spigolo vivo» che ci tormenta, di loro resta
«un’eco» – vera, tangibile quasi, che le parole esprimono e afferrano, per non
lasciarla svanire nell’inesistenza. Il volto amato «si adombra» – ma è «lieve»,
perché già escluso dal privilegio della pesantezza, della fisicità: il suo tempo è
concluso, compiuto, non più ripetibile. Quel «punto» è «chiaro come luce»:
abbagliante e paralizzante al tempo stesso. Il volto amato è ormai fuori della
nostra vista, cancellato dalla luce violenta che ci investe. Il dolore del congedo
era ancora una forma di unione, di compresenza, per quanto illusoria: c’era
ancora qualcosa da toccare, da esprimere, un “tu” di cui percepire la
presenza.
È forse così del passato che ci ha generati: possiamo coglierlo, toccarlo
nuovamente solo ponendoci «sullo spigolo vivo del distacco», soltanto
accettando questo dolore fecondo. La coscienza dell’inesistenza del passato,
del suo essere definitivamente irreale, renderebbe sterile la memoria e
vanificherebbe all’origine la sua fatica: le parole non potrebbero più toccare,
non riuscirebbero più a rendere presente ciò verso cui si protendono. Per
questo, ciascuno di noi prolunga il più possibile il congedo, lo rinnova di
giorno in giorno, di anno in anno, e ricade inconsciamente nei piccoli gesti
abituali o imprevisti che rinnovano il passato, che lo riportano, quasi, nella
dimensione della fisicità, come la celebre madeleine di Marcel Proust.
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Renitente mattino
in te mi stringo, per te mi faccio silenzio,
risuoniamo,
soli,
[...]
il passo affrettato del cuore,
fuori, là
nello spazio,
dov’è l’asse
della Terra.
da Luce coatta e altre poesie postume
Se la luce tarda, se il mattino è <<renitente>> e l’oscurità della nostra vita si
prolunga, benché l’alba debba essere imminente, ciò che resta è ritrovarsi,
«stringere» se stessi nel silenzio che attende il ritorno della luce. Farsi
silenzio: forse, la luce sosta alle porte del mondo in attesa del silenzio, per
poter irrompere in esso come alba. «Risuoniamo, soli»: l’unico suono
possibile a chi attende è il non-suono, l’assoluta solitudine di un silenzio
consapevolmente accettato perché ricco di significato.
À pensarci, nessuna ora del giorno è più silenziosa di quella che precede
l’alba, ed è proprio questo il momento in cui possiamo avvertire con limpida
chiarezza l’insignificanza e la casualità della nostra presenza. Viene da
credere, infatti, che la luce tardi perché disturbata dal battito del nostro cuore,
o per il rumore lieve del nostro respiro; sorge in noi il desiderio di fermare,
per un istante, persino il flusso del sangue nelle vene, così che possa, nel
silenzio, tornare il mattino.
E questo il posto dell’uomo nel mondo? Colui che veglia lo sa, ma tace la
propria scoperta. Un silenzio assoluto, impenetrabile, circonda di fatto la
nostra esistenza: il gelo senza vita di un universo infinito. Chi tende
l’orecchio, forse, non ode che «il passo affrettato del cuore, / fuori, là / nello
spazio, / dov’è l’asse / della Terra»; ad esso vanno ricondotti i trasalimenti
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dell’animo religioso, che ode nel gelo i passi del suo Dio. Eppure, è un
silenzio che veramente sembra trattenere qualcosa: una voce, un volto, una
sorgente di vita.
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La mantide, di nuovo,
sulla nuca della parola
nella quale avevi trovato rifugio –
nella volontà migra
il significato,
nel significato
la volontà.
da Luce coatta ed altre poesie postume
Accade, a volte, di accogliere una parola come rifugio, come asilo sicuro per
la propria anima stanca e confusa: una voce calda che afferri e consoli, che
porti chiarezza e doni un nome nuovo, come una luce nuova alla nostra vita.
Può essere una parola divina: «Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è
più grande del nostro cuore» (1Giovanni 3, 20), oppure una parola umana:
«Triste anima passata, / e tu, voce nuova che mi chiami, / tempo è forse di
unirvi / in un porto sereno di saggezza» (Montale, Riviere). Insistono, attorno
a noi, parole simili: incontrarne una e farla propria, amarla e prenderla con sé
è una delle più belle esperienze che un uomo possa fare. Il passo si fa leggero,
l’anima si rischiara riposando in quella semplice parola, che dona forza e
freschezza inesauribili.
Una «mantide», però, ne insidia «la nuca»: una minaccia mortale, temibile,
che afferra alle spalle e dalla quale non c’è difesa – un dubbio minimo ma
radicale: fino a che punto significato e volontà sono connessi? Che cos’è
questa luce, se non il mio stesso desiderio di luce? Il significato e la volontà
migrano uno nell’altra, non vivono l’uno senza l’altra; fino a che punto è vera
questa affermazione?
Le parole che amiamo, forse, non hanno alcun valore se la mantide le vince;
eppure, di nulla sono degne se nessuna mantide le insidia. Bisogna osare,
sperare, amare oltre misura.
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SALMO
Nessuno può impastarci ancora dalla terra,
dall’argilla. Nessuno alita parole
sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amarti vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un niente
eravamo, siamo, rimarremo
fiorendo:
la rosa del
Niente, di Nessuno.
[...]
da Poesie
Essere rosa, fiorire incontro a qualcuno: più che un’aspirazione profonda, è il
banco di prova della nostra umanità, che distingue la nostra anima da tutto
ciò che vive. Eppure «un niente / eravamo, siamo, rimarremo, / fiorendo»: ciò
è indiscutibilmente vero. Nell’economia dell’universo, nella sua immensità
fisica e concreta, ben poco contano il nostro destino personale e la sorte
dell’intera comunità degli uomini: ciò che è umano riguarda l’uomo e l’uomo
soltanto. Nonostante ciò, però, «fiorire» è il nostro significato, ed è
incancellabile in noi il desiderio di qualcosa, di qualcuno incontro al quale e
per il quale fiorire. In tanta oscurità, la nobiltà dell’animo si misura forse
dall’incapacità di rinunciare a una piena fioritura: dalla disponibilità a fiorire
comunque, a qualunque condizione, anche per essere «la rosa del Niente, di
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Nessuno». Fiorissimo anche incontro al buio, sia benedetto il buio che ci
accoglie; se esso nasconde in sé la mano aperta di Qualcuno, sia benedetto
comunque assieme a lui.
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[...]
Le vele, nessuno deve ammainarle,
io, uomo di mare,
vado.
da Poesie
È vero: il miracolo della vita può rinnovarsi sempre! Ogni giorno è nuovo,
aperto a un nuovo viaggio, e nessuno deve, mai, ammainare le proprie vele.
Ovunque, in qualunque situazione ci si venga a trovare, c’è sempre ancora
tanto per cui vivere, ed è ancora possibile uno spostamento, un mutamento:
non è perduta ancora la nostra identità più vera, quella di «uomini di mare».
Di fronte a milioni di esistenze devastate o sub-umane, di fronte alla
consistenza del passato – granitico, a volte, onnipresente, intollerabilmente
pesante – è follia proclamare questa verità? Davvero è una verità questa, che
non regge il confronto con il nostro quotidiano? Può essere, piuttosto, il più
vero atto di lungimiranza che ci sia dato di compiere – ma soltanto a
determinate condizioni.
A noi di porle nelle nostre vite.
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Filamenti di soli
sopra il deserto grigio scuro.
Un vasto
albero – un pensiero –
trae a sé la gradazione della luce: ci sono
canti da cantare ancora, oltre
gli uomini.
da Poesie
Celan, forse, con questa lirica ci ha aperto la strada per una splendida
intuizione di un miracolo tutto umano e terrestre: il pensiero. Come il dio di
Delfi, infatti, egli «non dice né nasconde, ma accenna» (Eraclito). Eppure,
quando il mondo altro non sia che «un deserto grigio scuro», a nulla può
servire scrutarlo, analizzarlo, avvolgerlo con reti di qualunque sorta: esso non
rivelerà di sé che l’ampiezza sconcertante del proprio grigiore. Lo sguardo si
volge allora a ciò che lo sovrasta: un sole che balena a tratti, attraverso le
nubi, in fili talmente sottili e incorporei da farci pensare all’esistenza di
infiniti soli diversi, ed è a questa luce frantumata e divisa che il pensiero si
rivolge, afferrandone «la gradazione» come farebbe «un vasto albero». Esso
rinuncia a gettare qualunque rete, ad aggiungere qualcosa di proprio
all’esistente, ma si nutre di ciò che ne appare trasformandolo in linfa, in vita
propria. È allora, forse, che gli appare la sorprendente ricchezza
dell’immensità velata di nubi che sempre ci sovrasta: «ci sono / canti da
cantare ancora, oltre / gli uomini».
22
Mario Luzi
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AUGURIO
[...]
dico, prego: sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.
da Dal fondo delle campagne
Come ci manca questo senso di gratitudine per la nostra semplice esistenza,
per il puro esserci che ci coinvolge «nell’opera del mondo» – increduli, muti,
angosciati a volte, ma inspiegabilmente, meravigliosamente presenti! Forse
solo chi sa cosa significhi «implorare a mani giunte», solo chi ha saputo stare
«a labbra serrate, ad occhi bassi» in attesa dell’imperscrutabile, sa quanto la
sola presenza sia indicibilmente preziosa. Chi ha saputo attendere e
sopportare con ordine, nel pieno della coscienza ma con il pudore del proprio
soffrire, e ha saputo resistere perché ha avvertito questa preziosità infinita,
prega che questa intuizione sia vera: che veramente «sia grazia essere qui».
Può essere unicamente un desiderio, un augurio, una speranza contro ogni
speranza.
Quante volte ci vediamo cosi: muti, tesi da un’amarezza profonda che
riempie il nostro essere e lo disperde al tempo stesso, svuotandolo di senso.
Non ci è dato, spesso, evitarla; possiamo evitare, però, l’astio, il rancore,
l’amarezza scomposta che spinge a un agire meschino; possiamo pregare di
trovarci veramente «nel giusto della vita» e conoscere per questo l’impegno,
la fecondità, la gioia. E questione di forza morale, di spessore umano: c’è
modo e modo di stare «ad occhi bassi».
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Roberta De Monticelli
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PREGHIERA TERZA
Permettimi di conversare ancora
ogni tanto con Te che non esisti
cercherò di capire perché non rispondi
e mi farò una colpa della tua scortesia.
Alla tua chiarità ciascuno affiora
ma al canto che ti sfiora non resisti,
non hai dimora in logica. Neppure ti nascondi:
come al fiore il transire della via.
Io credo serio, e chiaro
questo solo ti chiedo, Sereno:
non volgermi in veleno il desiderio.
da Le preghiere di Ariele
Il silenzio di Dio è opprimente: ci si ritrova a pensare che non sia un silenzio
ma un suono vivo, troppo acuto per essere sentito. È inevitabile credere che la
colpa sia nostra: che si tratti di un’inadeguatezza del nostro essere, non della
mancanza di una voce divina. La domanda sul perché di questa mancata
risposta può articolarsi in vario modo, a seconda della sensibilità della
persona che la pone: ma non può non essere formulata. Essa qualifica l’animo
religioso, per il quale l’esistenza o meno di Dio è poco più che un dettaglio a
confronto con l’enigma del suo silenzio: che l’esistenza umana accada al
cospetto di una evidente vastità, o piuttosto ai suoi margini, appare chiaro a
colui che contempli il ciclo stellato e si figuri nella mente la vastità del cosmo,
che procede oltre noi nel suo divenire immenso. Siamo come un «fiore»
sbocciato ai margini di una «via» di cui non possiamo cogliere né l’inizio né
la fine né tantomeno la direzione o l’orientamento, mancandoci le coordinate
dell’infinito. Ecco, allora, il mistero del silenzio, della non-personalità di
questa via che non risponde, ma soltanto appare: che sia in noi il difetto, che
sia nostra la «scortesia»? È possibile, e sembra onesto ammetterlo per non
imputare colpe all’infinito: ha sicuramente le proprie ragioni per tacere,
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migliori delle nostre che con esso vorrebbero dialogare. Eppure, quante volte
chi ha creduto questo ha visto mutarsi in «veleno» il proprio «desiderio» di
colloquio! Il veleno del tentare di farsi degni di risposta, di tormentarsi
perché ciò è impossibile – e il veleno conseguente del disprezzo inconfessato
per ciò che sembra ostacolare, con il suo informe e limitato essere, il risuonare
della voce divina. Ne nacque, forse, quella che Nietzsche chiamò «la morale
dei risentiti».
27
Pindaro
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E bene desiderare dagli dei
solo ciò che si addice ad anime mortali
consapevoli del nostro passo,
del destino al quale apparteniamo.
Anima mia, non tendere a una vita immortale,
ma porta fino in fondo ciò che è tuo.
Con esattezza, Ierone, tu comprendi
la più alta verità di ogni discorso - dagli antichi
lo hai imparato: per un bene, gli dei
assegnano ai mortali due dolori. Non i vili
sanno sopportare, nell’ordine,
ma i valorosi, che proiettano
il bene oltre se stessi.
da Le pitiche
Se è vero che l’intuizione greca del mondo ci si presenta varia e mutevole nei
secoli, complessa e indicibilmente profonda, è altrettanto vero che essa
appare anche meravigliosamente unitaria, quasi coralmente concorde.
Prodigio di essenzialità e di forza, essa ci stupisce con l’incessante ritorno a
poche scarne questioni, con l’inesausto contemplarle da prospettive sempre
nuove, con la mai esausta fecondità.
Gli educatori dell’Ellade ebbero molto a cuore la misura: ciò che spesso
manca, inesorabilmente, alle nostre vite convulse. Chi comprenda con
esattezza «la più alta verità» che gli antichi ci abbiano consegnato, sa
«sopportare nell’ordine», da autentico «valoroso», la sovrabbondanza del
male, e sa cogliere la preziosità dei beni che il tempo ci elargisce a caro
prezzo. Colui che è forte non odia, non disprezza, ma «proietta il bene oltre
se stesso»: nella luce in cui trova la forza di mantenere fermezza e dignità,
rifiutando di chiedere «ciò che non si addice ad anime mortali».
Compostezza, non un cieco supplicare; ordine, non preghiera convulsa,
perché mai la preghiera sia vile. Il mondo va vissuto fino in fondo, nella sua e
nostra mortalità; la terra, goduta e amata con misura, nelle giuste
proporzioni.
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Ciò che a noi sembrerebbe una crudele e insensata cattività, fu per i Greci un
orizzonte vasto e luminoso. Il dio di Delfi non ingannava confinando l’uomo
nella nuda misura dell’umano («Conosci te stesso...»), vietandogli di uscire
da ciò che solo gli appartiene: gli risparmiava, piuttosto, il travaglio del
desiderio convulso, dell’ossessione per un infinito che può essere còlto e
posseduto in quella misura e non oltre. «Non tendere ad una vita immortale»:
è un altro il passo dell’uomo. Per chi avesse saputo tenerlo, rispettarlo nel
migliore dei modi, Platone intuì un’ascesa, un accrescimento dell’essere, un
mirabile viaggio verso la pienezza.
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Tu secondo un ritmo passa oltre
[...]
Colui che ha in sorte un bene al suo inizio
con leggerezza infinita si libra
sulle alate virtù che la speranza gli dona:
ben più dell’oro lo attira. Cresce in poco tempo
la gioia dei mortali - e in ugual modo
viene meno, sotto i colpi di avversa sapienza.
Siamo di un giorno: cos’è uno di noi?
E nessuno, cos’è? Sogno di un’ombra
è l’uomo. Ma quando giunga, divina, una luce
serena, un puro chiarore
inonda gli uomini – e il tempo è dolce.
da Le pitiche
Chi prosegua la sua via «secondo un ritmo», chi abbia trovato un metron, cioè
una misura di se stesso, sa bene che la gioia umana «cresce in poco tempo», e
altrettanto rapidamente svanisce – perché tutto, nel mondo, è rimasto di fatto
com’era prima che noi ci fossimo, ed è ancora, da sempre, come se noi non ci
fossimo mai stati: si illude chi pensa che l’orma dell’uomo, nel bene e nel
male, si imprima indelebile sulla terra. Che sia questa la verità, non può
dubitarne chi sa che «sogno di un’ombra è l’uomo»: questa è la cifra
originaria dell’essere umano. «Sogno di un’ombra» aperto pur sempre «a un
bene al suo inizio», a «librarsi con leggerezze infinite», l’uomo può trovare
salvezza in un ritmo, in una misura che sempre lo accompagni e che faccia di
lui un vasto dispiegarsi di «virtù», cioè di umana grandezza. Condizione di
fecondità, riparo dall’astio e dall’affanno, la consapevolezza del poco
accettato senza lamenti può ribaltarsi in disponibilità al molto, a una «luce
serena, divina» che può giungere improvvisa nel tempo che circonda l’uomo,
rendendolo tutto «chiarore», dolcezza e vastità.
Si ha l’impressione, a volte, che le luci divine immiseriscano l’umano, che ne
amplifichino la pena e l’ansia connaturate all’inevitabile precarietà: si
vorrebbe, quasi, scongiurarne l’avvento in nome della pochezza umana che
ne sarebbe aumentata e ulteriormente sconvolta, priva com’è di quella
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«misura», di quel «ritmo» che Pindaro esalta: «Oh ch’io non oda nulla di te, /
ch’io fugga dal bagliore / dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra» (Montale).
Spesso, si ha l’impressione che i messaggi di salvezza siano solo parole per
chi le pronuncia, a sua gratificazione, non per chi le ascolta: talmente vile, pur
nelle buone intenzioni, sembra l’umano che le accoglie e le riporta ad altri,
pigramente o con foga, ma di rado con lungimiranza e sobrietà – fino alla
dimenticanza del divino stesso, fino all’abitudine insensata di proclamarlo
quasi per astio, per autoaffermazione più o meno cosciente.
Le questioni, probabilmente, sono due: c’è un divino liberante, vasto,
luminoso; e c’è un divino inquietante, immiserente – ognuno di noi incontra
ciò che va cercando. I praembula fidei possono essere tanto insani e morbosi,
quanto limpidi e virili: sta a noi porli, e questo è il secondo problema. Una
luce divina, quale che sia, può molto, ma non può creare un metron che non
c’è; giunge e si innesta sulla statura umana che trova, lasciandosene spesso
plasmare e immiserire piuttosto che plasmandola ed elevandola – salvo
rarissimi casi. Accade, così, che il divino porti nell’anima l’inquietudine della
penombra più che il giubilo solenne della chiarità.
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Rainer Maria Rilke
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LA CATTEDRALE
In quelle piccole città tu puoi vedere
come troppo alte su ciò che le circonda
le cattedrali erano cresciute. Il loro sorgere
andava sopra, oltre ogni cosa, come passa
oltre lo sguardo della propria esistenza
una vicinanza troppo grande, quasi non accadesse altro,
come se il destino fosse ciò che in loro
si accumula senza misura,
pietrificato, destinato a durare,
non ciò che in basso nelle buie strade
dal caso attinge un nome
e così va, come i bambini portano il verde e il rosso
del grembiule, ed ogni altro colore che ha il merciaio.
Allora c’era nascita in quest’altro crescere
e amore ovunque come vino e pane, [...]
da Nuove poesie
Al cospetto di una grande cattedrale – sia essa di pietre genialmente disposte,
oppure una costruzione di puro pensiero, edificata con suoni, concetti, parole
– ci sorge dentro, a volte, un’inquietudine sottile e difficilmente comunicabile:
non sembra essa cresciuta troppo alta sul mondo circostante, quasi non
accadesse altro» al di là del suo maestoso apparire? Non misconosce, non
oscura, non disprezza con incosciente superbia «ciò che in basso nelle buie
strade / dal caso attinge un nome» – il piccolo mondo quotidiano, fatto di
piccole cose tutte terrene? Non è, questo piccolo mondo, incommensurabile
con l’eterno che quella cattedrale vuole testimoniare? Non c’è anche là,
lontano dalla sua geometria – in luoghi che non ne comprendono la
grandezza, ma la ignorano o la subiscono con calma indifferenza – non c’è
anche là «amore ovunque come vino e pane», come nutrimento sufficiente
alla vita in sé, semplicemente? Non è troppo, forse, «ciò che in loro si
accumula senza misura, / pietrificato, destinato a durare»? Non basta molto
meno all’uomo – all’uomo così com’è, figlio dei luoghi e dei tempi, fatto di
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acqua e sangue, effimero e imperfetto, ma vero? A volte, le cattedrali – la
Summa di Tommaso come l’Etica di Spinoza – sembrano ignorare le piccole
case che le circondano e che a loro volta, meno colpevolmente, le ignorano:
con i loro fragili stipiti in legno, le loro finestrelle anguste, il loro focolare
tutto umano, esse appaiono di certo fatte d’altro, prodotte da altre volontà,
per altri scopi, disposte a caso attorno all’edificio fatto a croce.
E un’inquietudine buona, che è certamente giusto accogliere nella propria
vita di pensiero: se è vero che può degenerare nell’empietà, è anche vero che
può salvare da una forma di superbia ben peggiore dell’empietà stessa. Chi
non l’avverte, generalmente, ama le cattedrali disprezzando nel segreto le
piccole dimore tra cui sorgono; chi l’ha accolta e attraversata – superarla
senza dimenticarla, infatti, è il segno più certo della maturità raggiunta dallo
spirito – le ama invece con cuore umile e traboccante d’affetto per tutto ciò
che vive e appartiene alla sfera complessa dell’umano - anche e soprattutto
per ciò che è «in basso nelle buie strade».
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L’ANGE DU MÉRIDIEN
Nella bufera, che intorno alla forte cattedrale
si abbatte come un mentitore che pensa e ancora pensa
ci si sente con più tenerezza spinti
verso te, d’improvviso attratti dal tuo sorridere,
angelo sorridente, figura sensibile,
con una bocca d’altre cento bocche fatta:
tu non l’avverti, come le nostre ore
scivolano via da te, dalla colma meridiana
in cui la cifra del giorno si raduna,
ugualmente reale, in profondo equilibrio,
quasi mature e ricche fossero tutte le ore
Cosa ne sai tu, che sei di pietra, del nostro essere?
E tieni forse, con più lieto volto,
rivolto alla notte il tuo quadrante?
da Nuove poesie
Quando una «bufera» scuote la «forte cattedrale» delle nostre secolari
certezze – è già accaduto, più e più volte – avviene anche che il nostro
sguardo si levi più che in altri tempi al cangiante orizzonte del divino. Una
tenerezza spontanea muove l’anima che cerca, che intuisce un «angelo
sorridente»: un Dio che non sappia nulla della nostra vita nella sua umiliante
fisicità, che le sia meravigliosamente estraneo e sappia per questo darle un
senso nuovo, consolarla con un «profondo equilibrio»; un Dio che renda
«ugualmente reali» le contrastanti apparenze che ci inquietano, al cui
cospetto tutte le ore, indistintamente, appaiano «mature e ricche». È
un’esigenza, a volte, questa «figura sensibile», questo Dio che ci comprenda
essendo “altro”, che ci consoli sfumando i contorni del mondo in cui siamo
immersi e annullando, proprio perché “altro” da noi, le distanze incolmabili
tra ciò che percepiamo come orribile e ciò che immaginiamo come splendido.
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Difficile spiegare: un Dio che porti vastità, calore, luce nuova e impreveduta –
la luce di altri mondi nei quali il nostro, così opaco, si dissolva quietamente,
senza alcun rumore. Così, i contorni si fanno impercettibili e sparisce ciò che
più ci angoscia: il profilarsi di distanze insormontabili, di spigoli vivi, di
barriere impenetrabili. La religiosità orientaleggiante e certo ecologismo
confusamente panteistico possono essere, spesso, ricondotti a questa esigenza
– che è degna, in sé, di profondo rispetto, perché manifesta un tratto
importante della nostra realtà di esseri umani.
Può essere il Cristo un simile angelo? È sembrato di sì, a volte, e non solo a
Valentino, a Marcione e agli gnostici di un tempo. C’è una domanda liberante
– che dà sollievo, in questo contesto, a chi la ponga al proprio Dio: «Che ne
sai, tu... del nostro essere?».
Al Cristo, però, questa domanda non può essere rivolta. Figlio dell’uomo, egli
conosce la nostra vita più di noi stessi; le ore per lui hanno un nome e un
peso, e non tutto, ai suoi occhi, è ugualmente reale. Maestro e amico, egli è
anche giudice e Signore; la sua salvezza è giudizio, misura, determinazione
di confini e sensi ancora sconosciuti, che attendono di essere finalmente
rivelati. La pace che egli porta è consapevolezza del senso, esatta valutazione
delle distanze: divina presenza che rispetta il mondo, che non ne dissolve la
benché minima apparenza. Senza mutarle, egli ricapitola in sé tutte le cose,
rafforzandone l’esistere alla luce della sua persona. Se ciò non accadesse,
sarebbe l’angelo sorridente del nostro desiderio, non la Parola ineffabile di
Dio fatta carne per una salvezza inimmaginabile del mondo. Se c’è una
dolcezza infinita nella sua persona, c’è anche una durezza ineliminabile nella
sua presenza, un’irriducibilità assoluta a ciò che ci è noto, a ciò che ci
attenderemmo e vorremmo in alcuni momenti della nostra storia: la sua,
però, è una presenza, non una risposta. Dalla sua eternità densa, in tutto
umana e altrettanto divina, egli veramente ci osserva con occhi fissi, duri e
insostenibili. Non è un caso che il pane e il vino, fonti di chiarezza e di gioia
infinita, siano muti e incomprensibili,
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TORSO ARCAICO DI APOLLO
Non conoscemmo il suo capo inascoltato
dove il centro dei suoi occhi maturava. Ma
il suo torso arde ora come un candelabro,
e là il suo sguardo, come in vite vòlto su se stesso,
si trattiene e splende. [...]
perché là non c’è punto
che non veda te. Devi cambiare la tua vita.
da Nuove poesie
Tra i nostri ricordi vi è anche la memoria del non-detto, del non-conosciuto:
di ciò che mai abbiamo visto o saputo e che ricostruiamo, senza garanzie di
oggettività, sulla base di semplici indizi, cioè di altri ricordi. Anche questi
vuoti della memoria, a cui il pensiero ritorna con il desiderio di sapere,
vedono la nostra vita, la giudicano e la cambiano. Come?
Difficile dirlo. A volte il ricordo di un’incomprensione o di una nostra
manchevolezza ci spinge a concentrare le forze su questo o quel punto del
nostro carattere, quasi per riscattarci, per porci nelle condizioni, se mai
capitasse, di rivivere quel rapporto nella giusta maniera; altre volte, il
desiderio di sapere ciò che quella persona ha fatto, ha detto o ha pensato a
proposito di noi o di altri in una determinata occasione ci tortura
insopportabilmente, tanto che ci appare ormai impossibile vivere. Ci sembra
infatti che questa conoscenza risolverebbe in qualche modo il nostro esistere,
dandogli finalmente una retta misura, portandolo alla maturità, alla
pienezza, alla pace che tanto sospiriamo.
Non è così anche con la memoria di Cristo? «Non conoscemmo il suo capo
inascoltato / dove il centro dei suoi occhi maturava»; eppure, da secoli
tentiamo di ricostruire le sue parole e il loro senso, di riavere tra noi il suono
della sua voce e di cogliere l’espressione del suo volto – mentre ne abbiamo
soltanto echi, memorie accumulate ad altre, molteplici e spesso in
contraddizione tra loro. Di lui ci facciamo immagini e idee; ne interpretiamo
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la figura e la missione; cerchiamo di cogliere, in un crescendo vertiginoso
attraverso i tempi, il senso del suo messaggio e, soprattutto, della sua
presenza di Risorto, che indoviniamo sotto i segni del pane e del vino –
perché? Perché veramente nella sua persona «non c’è punto che non veda te»:
ciascuno di noi. Lo avvertirono i Padri della Chiesa, come l’avvertirono, forse,
gli eretici, gli gnostici e tutti coloro che ascoltarono, indagarono e custodirono
le sue parole – lo avvertì, certo, anche Rilke. «Devi cambiare la tua vita»:
dobbiamo farci tutt’uno con questo desiderio, con l’incompletezza di questo
ricordo che svela il calore incomprensibile della sua presenza nel mondo – da
accettare così, come mai realmente percepita.
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L’ISOLA
Vicino è solo il Dentro; tutto il resto lontano.
E questo Dentro è colmo, ogni giorno
fatto pieno d’ogni cosa – assolutamente indicibile.
da Nuove poesie
Ciascuno di noi, in fondo, non fa che tornare a se stesso: nella memoria, che è
analisi e rielaborazione delle nostre percezioni, funzione che le modifica e le
ordina, creando il «Dentro». «Tutto il resto lontano»: ciascuno vive di sé, del
proprio ascolto continuamente rinnovato, accresciuto e trasformato.
L’oggetto che tocchiamo è per noi sensazione, esperienza: è il ricordo che
suscita in noi; diviene ciò che richiama alla nostra coscienza. Conoscere è
annullare il più possibile questa distanza, avvicinare proprio a questo
«dentro... colmo» che ancora ci sorprende, «fatto pieno di ogni cosa», il
mondo molteplice e privo di senso. II mondo ci è dato come realtà da
esprimere, da arricchire conoscendolo, da trasfondere nel nostro «dentro»:
sembra dato per essere espresso, mentre il <<dentro>> è «assolutamente
indicibile».
Va notato, certo, che l’espressione è spesso imperfetta, sempre più povera di
ciò che trasforma in figura nel «dentro»; e che le cose sembrano avere una
loro vita per noi inattingibile, priva di coscienza e di memoria, ma colma di
un segreto non ancora rivelato, dense di un rimando che ancora non abbiamo
còlto pienamente. A noi di sfiorarle, di conoscerle e aprirle ancora e ancora,
con tocco leggero.
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Canta i giardini, o mio cuore,
che non conosci: come nel vetro
colati giardini, chiari, irraggiungibili.
[...]
Mostra, mio cuore, che mai te ne vorrai privare.
Che a te pensano, i loro fichi che maturano.
Che tu con le loro brezze, tra i rami in fiore,
come in volto tramutate, t’intrattieni.
Fuggi l’errore che porta
a sacrificare l’avvenuta decisione, questa: essere!
da I sonetti a Orfeo
C’è un canto, forse, che ci dona la misura delle cose, che rafforza la nostra
decisione di «essere» veramente, di vivere fino in fondo, di non limitarci ad
attraversare alla bell’e meglio l’esistenza; suo oggetto sono i «giardini» che
non conosciamo, dei quali non ci è dato fare esperienza, ma che sono
irrinunciabili per colui che canta. Egli, infatti, si sporge oltre l’essere e li
scorge nella lontananza, «come nel vetro colati giardini, chiari,
irraggiungibili»; e si «intrattiene» con l’immateriale, contempla ciò che non
può essere visto. Quando un soffio di vento sembri disegnare i lineamenti di
un volto «tra rami in fiore», egli crede che realmente il vento si sia fatto volto
per parlargli, per mostrarsi a lui. È questo, espresso da Rilke con parole
ineguagliabili, l’inganno dell’uomo religioso di oggi e di sempre, come
l’inganno del metafisico e l’illusione del poeta che canta quei «giardini»? Non
sarebbe più giusto, per l’uomo che cerchi fino in fondo la verità delle cose,
comprendere e ammettere che il vento non ha volto? Che non può essere
altro che casuale la conformazione assunta dalle foglie quando esso lo
attraversa? Che ciò che appare racchiuso nel vetro non può essere se non il
riflesso di ciò che si trova al di qua del vetro? Non sarebbe più giusto
rinunciare a quei giardini, per amore dell’essere nella sua immediatezza,
nella sua vicina evidenza?
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No, non sarebbe giusto: quei giardini «chiari, irraggiungibili» sanno
rafforzare fino all’eroismo la nostra decisione di «essere», la nostra
incondizionata fedeltà alle cose. Per questo, dobbiamo fidarci di loro, e
credere che non possono ingannarci in alcun modo: sono irrinunciabili per
chi voglia esistere con forza, fino in fondo, a qualunque condizione.
42
Hermann Hesse
43
Ascolti un po’, caro omino, ascolti senza ironia e senza páthos, la forma
lontana della musica divina che passa dietro il velo disperatamente idiota di
questo ridicolo apparecchio! Stia attento, c’è sempre qualcosa da imparare.
Osservi come questo imbuto insensato faccia l’azione più sciocca, più inutile
e vietata del mondo, e scaraventi una musica eseguita qua e là, senza
discernimento, stupidamente e svisandola miseramente, in un ambiente
estraneo, non adatto a questa musica... e come tuttavia non possa
distruggerne lo spirito, ma debba limitarsi a farvi trionfare la propria tecnica
sperduta e il suo piatto affarismo! Ascolti bene, lei ne ha bisogno. Apra
dunque le orecchie! Bene. E ora lei non sente soltanto un Haendel storpiato
dalla radio, ma pur sempre divino, anche in questa forma ributtante, lei sente
e vede, mio caro, anche una bella similitudine della vita.
[...]
Tutta la vita è così, mio caro, e bisogna prenderla com’è; e chi non è asino ci
ride. La gente come lei non ha il diritto di criticare la radio o la vita. Impari ad
ascoltare! Impari a prendere sul serio quel che merita di essere preso sul serio
e a ridere del rimanente! O ha fatto lei qualche cosa di più nobile, di più
savio, di più fine? Nossignore, non l’ha fatto. Lei, signor Harry, ha fatto della
sua vita la storia di un’orrida malattia, della sua intelligenza una disgrazia.
da Il lupo della steppa
Come ci giunge gradito questo rimprovero di Mozart a Harry Haller, quel
lupo della steppa che, spesso, tanto ci assomiglia! Veramente degno, benché
frutto di fantasia, dell’autore del Concerto per clarinetto e del Don Giovanni, che
ancora ci insegna, senza parole, cosa sia il sorriso degli immortali. Ci prende
a volte alla gola, nelle nostre ore peggiori, un senso di disgusto, di
insofferenza per tutto ciò che è nobile e bello e che vediamo scagliato
inesorabilmente in una palude insensata, insidiato da un fango ripugnante
che non può accoglierlo se non per lordarlo – e rifiutiamo quella commistione
in entrambi i suoi elementi, perché la loro inspiegabile compresenza li svuota,
apparentemente, di qualunque senso. Ci si dipinge sul volto un sorriso
amaro, sprezzante – il sintomo di una malattia orribile, di una sofferenza
sterile dalla quale la guarigione è un miracolo.
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Abbiamo altro da fare che soccombere: dobbiamo imparare ad ascoltare, a
cogliere comunque la musica divina anche se una pessima radio la storpia,
anche se il suono inimitabile si diffonde nell’ambiente più squallido, e a
sorridere del resto – ma non per disprezzo, non per alterìgia, non con il gelo
nel cuore. La musica, quale essa sia, è lì a donare senso, lungimiranza e forza
e conquista a poco a poco ciò che è sordido, gelido e senz’anima, avanzando
in esso senza sforzo né successi apparenti, per una straordinaria forza
propria, nascosta ai nostri sguardi. Questa fede ci è necessaria per poter
capire come il sorriso degli immortali abbia in sé la quintessenza del calore
umano, ne sia il vertice purissimo, sia il culmine dell’amore per tutto ciò che
vive: altrimenti, sarebbe soltanto una distanza nobile e invidiabile, nulla più
che una luce splendida ma gelida – priva della capacità di far fiorire ciò che
incontra, lungo sentieri imperscrutabili.
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Con una mano indicò il ciclo e disse: «Guarda un po’ questo paesaggio di
nubi con pochi brandelli di cielo! A prima vista si direbbe che la profondità
sia dove è più buio, ma tosto si avverte che quel buio è dato dalle nuvole, e
che lo spazio celeste, con la sua profondità, incomincia soltanto ai margini,
nei fiordi di queste montagne di nubi, e sprofonda nell’infinito in cui stanno
gli astri solenni e, per noi uomini, supremi simboli di chiarezza e di ordine.
La profondità del mondo e dei suoi misteri non è dove stanno le nuvole e il
buio, ma nel cielo chiaro e sereno [...]».
da Il gioco delle perle di vetro
«...nel cielo chiaro e sereno»... È forse un vile colui che là rivolge lo sguardo,
che cerca nel miracolo che ci sovrasta «la profondità del mondo e dei suoi
misteri»? No, se egli non è un fuggiasco, se non vi si avventura per disgusto
della terra, per negarne e sminuirne i contorni, né per autocompiacimento,
ma per «suprema conoscenza e supremo amore», alla ricerca
dell’«affermazione» incondizionata «di ogni realtà» (H. Hesse). Nulla è più
eroico e nulla è, al tempo stesso, più genuinamente, più generosamente
umano e terrestre. E questa, forse, la via ad una serenità non vile, non
artefatta, ma piena e sincera – a un’autentica fedeltà alla terra.
«Il poeta – nota ancora Hesse – che col ritmo danzante dei versi esalta la
magnificenza e l’orrore della vita, il musicista che li fa risuonare come pura
presenza, sono coloro che portano la luce, che aumentano la gioia nel mondo,
anche se prima ci conducono attraverso lacrime e tensioni dolorose. [...] Ciò
che essi ci danno non è più la loro tenebra, la loro sofferenza o angoscia, ma è
una goccia di luce pura, di eterna serenità». Troppe volte, forse, fissiamo lo
sguardo su abissi di cenere sporca dai quali nulla può sorgere, e il nostro fine
non è più di trascenderli ma semplicemente di misurarli e morbosamente
descriverli, indicandoli come definitivi e immutabili: è questo che ci allontana
sempre più dalla luce Pindaro e dalla musica della Tempesta di Shakespeare,
che segna tanta della nostra arte in modo negativo: Da ciò quella nostra
povertà tante volte ribadita di vili, di schiavi di un grigiore che ancora non
amiamo, ma di cui non osiamo sfidare la potenza; da ciò il disamore, la
pochezza voluta, compiaciuta e consapevole di tanti nostri intenti, nella vita
come nell’arte. Eppure, sarebbe mille volte più dignitoso tacere in eterno,
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lasciare la terra senza avere nemmeno tentato di articolare per essa la benché
minima parola, piuttosto che trascinarsi così da una sillaba all’altra,
codardamente fieri di non osare, di non tentare, di non amare.
47
Gottfried Benn
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GENTE INCONTRATA
[...]
Ho incontrato persone, le quali
con i genitori e quattro fratelli in una stanza
si fecero adulte, di notte, le dita negli orecchi,
studiarono in una povera cucina,
si costruirono un futuro, a vederle
belle e ladylike come contesse
– ma delicate nell’intimo, prudenti come Nausicaa,
portavano la fronte pura degli angeli.
Tante volte ho chiesto a me stesso senza trovare risposta
da dove venga la delicatezza e il bene,
neanche oggi lo so, e ora devo andare.
da Aprèslude
Assai più misteriosi del male nelle loro improvvise e disarmanti apparizioni,
«la delicatezza e il bene» sembrano celare ancora la loro origine, divina o
umana che sia – non solo, forse, perché ben poco ce ne siamo chiesti ragione.
Nei momenti e nei luoghi più impensati, tutt’uno con persone concrete –
volti, occhi, atteggiamenti, intere esistenze segnate dalla grazia, dalla levità –
«la delicatezza e il bene» traspaiono a volte da creature che davvero hanno
«la fronte pura degli angeli»: da esse inseparabili, impensabili senza chi
fisicamente le incarna quasi inconsciamente, non mostrando quasi di
avvertire la propria indicibile ricchezza. «La delicatezza e il bene» non
ostentano la propria presenza: ne danno, piuttosto, pochi cenni – per pudore,
certo, ma non solo. Altra è la fisicità del male, la sua forza lacerante che
s’impone di prepotenza, che genera domande strazianti nell’immediatezza
della sua evidenza. Forse, solo un uomo che sia così indicibilmente puro da
comprendere linguaggi evanescenti, segni esili e infinite volte ripetuti con
noncuranza su tele seminascoste, lontane dal colore vivo delle altre, può
davvero cogliere «la delicatezza e il bene», e riconoscersi abbagliato dalla loro
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mitezza operosa. È così, forse, che esse si difendono: moltiplicandosi in
un’aria rarefatta fino a diventare come rilievi minimi e finissimi - che hanno
in sé, come un miracolo, la solidità e la purezza ineguagliabile del marmo. I
più intuiscono appena, e un’inquietudine benefica, inavvertita prima di
allora, li coglie un istante per subito svanire.
Se è così discreta la loro presenza, se questa discrezione è l’espressione della
loro più intima natura, non sorprende che la loro origine sia ignota, e che sia
destinata a rimanerlo in eterno; può sorprendere, invece, che ben pochi
abbiano avuto in sé la percezione di questo mistero: Montale («Ripenso il tuo
sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra le pietraie
d’un greto»), Hölderlin, Rilke e pochi altri. Ciò induce, inevitabilmente, a
riflessioni crude, amare. Non stupisce, però, che sia così difficile – almeno per
chi scrive – soffermarsi a lungo a contemplare questa lirica ed esprimere
l’ansia confusa che ha nel cuore per come essa lo giudica, lo umilia e in parte
lo risana: con celeste, divina noncuranza.
50
Riferimenti bibliografici
(Salvo diversa indicazione, le traduzioni riportate nel presente volume sono
di L. Gobbi)
pag. 9
M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, Torino 1978, p. 216.
15
J.L. Borges, La cifra, a cura di D. Porzio, Milano 1988, p. 90.
19
Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, 173.3, tr. it. Itinerario dell’anima
a Dio, Milano 1984, p. 353.
23
P. Celan, Luce coatta ed altre poesie postume, a cura di G. Bevilacqua,
Milano 19829, p. 46; p. 83.
25
Ivi, p. 52.
27
Ivi, p. 80.
29
Ivi, p. 67.
31
P. Celan, Poesie, a cura di M. Kahn e M. Bagnasco, Milano 19863, pp.
114-116.
33
Ivi, p. 192.
34
Ivi, p. 152. Lo stesso testo, accompagnato da uno splendido commento
ermeneutico, si può leggere in H.G. Gadamer, Chi sono io chi sei tu. Su Paul
Celan, a cura di F. Camera, Genova 1989, pp. 61-62.
G. Colli, Introduzione a Spinoza, Etica, Torino 198811, p. 5. Lo stesso testo si
trova anche in G. Colli, Per un’enciclopedìa di autori classici, Milano 1983, pp.
54-55.
39
M. Luzi, Tutte le poesie, Milano 1988, p. 282.
43
R. De Monticelli, Le preghiere di Ariele, Milano 1982, p. 13.
47
Pindaro, Le pitiche, a cura di E. Mandruzzato, Milano 1990, pp. 44-46.
49
Ivi, p. 108.
55
R.M. Rilke, Nuove poesie. Requiem, a cura di G. Cacciapaglia, Torino
1992, p. 50.
58
Ivi, p. 48.
61
Ivi, p. 194.
63
Ivi, p. 162.
65
R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, a cura di F. Rella, Milano 1991, p. 112.
69
H. Hesse, Il lupo della steppa, nel suo vol. Romanzi e racconti, trad. di E.
Pocar, Milano 1993, pp. 339-340.
71
H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, trad. di E. Pocar, Milano 1993, p.
326.
51
75
G. Benn, Aprèslude, a cura di F. Masini, Torino 1994, p. 50.
52
INDICE
Prologo
Elogio del frammento
Jorge Luis Borges
<<Non ti potrà salvare ciò che scrissero...>>
San Bonaventura
<<Non si è in alcun modo disposti...>>
Paul Celan
<<Getta via / i cunei di luce...>>
<<Posso ancora vederti: un’eco...>>
<<Renitente mattino...>>
<<La mantide, di nuovo...>>
SALMO
<<Le vele, nessuno deve ammainarle...>>
<<Filamenti di soli...>>
Mario Luzi
AUGURIO
Roberta De Monticelli
PREGHIERA TERZA
Pindaro
<<È bene desiderare dagli dei...>>
<<Tu secondo un ritmo passa oltre...>>
Rainer Maria Rilke
LA CATTEDRALE
L’ANGE DU MÉRIDIEN
»
58
TORSO ARCAICO DI APOLLO
L’ISOLA
<<Canta i giardini, o mio cuore, che non conosci...>>
Hermann Hesse
<<Ascolti un po’, caro omino…>>
<<Con una mano indicò il cielo e disse…>>
Gottfried Benn
GENTE INCONTRATA
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Riferimenti bibliografici
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4^ di copertina
In questo libro d’esordio, pubblicato in una piccola edizione locale nel 1995 e ora
presentato in una nuova versione rivista dall’autore, il poeta e saggista Lorenzo Gobbi
vuole dare vita a un’esperienza soggettiva di colloquio intimo con alcuni testi poetici,
nell’intenzione di “offrire un momento di sosta, di quiete meditativa”. Così, egli sceglie e
presenta frammenti di autori come Pindaro, Bonaventura, Borges, Celan, Rilke, Hesse e
Benn (ma anche di Mario Luzi e Roberta De Monticelli), commentandoli in modo del tutto
personale: non un commento esegetico o ermeneutico, ma un esercizio di ascolto e di
riflessione, che amplifica il testo e lo lascia risuonare, chiarificandolo nella verità di una
relazione emotiva, etica e intellettuale insieme. Le domande che emergono sono urgenti e
pressanti: la necessità della gioia, la dignità del dolore, la purezza del desiderio, la capacità
delle parole di aiutarci a vivere nel mondo come ospiti grati e rispettosi. Il silenzio
“veramente sembra trattenere qualcosa: una voce, un volto, una sorgente di vita”, perché
“la verità delle cose” appare di rado, ed “è giusto seguirla, attenderla sul terreno che le è
proprio”.
Il linguaggio è denso, ma chiaro e scorrevole; chi conosce i testi successivi di Gobbi (Carità
della notte, Lessico della gioia, Le api del sogno) riconoscerà in questo primo saggio il nucleo
originario dei suoi temi e delle sue riflessioni.
Lorenzo Gobbi (Verona, 1966) ha pubblicato con Servitium i saggi Carità della notte. Sul
tempo e la separazione in alcune poesie di Paul Celan: una lettura personale (2007), Lessico della
gioia (2008) e La api del sogno (2009), oltre alla traduzione di Rainer Maria Rilke, Libro d’ore
(2008). Insegnante di scuola media superiore, è autore di altri saggi (tra cui Gerusalemme
nella memoria di Amos Oz, Unicopli, Milano 2006), poesie (tra cui Nel chiaro del perdono, con
una lettera di Roberta De Monticelli, Book Editore, Bologna 2002 e Luce alla mia destra,
Book Editore, Bologna 2005) e traduzioni (tra cui Rainer Maria Rilke, Vita di Maria,
Qiqajon, Bose 2000 e Rainer Maria Rilke, Le rose, I Quaderni di Orfeo, Milano 2006).
Suoi testi poetici, narrativi e saggistici sono a disposizione sul blog
www.lorenzogobbi.blogspot.com.
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