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Un fantasma nel mio corpo Un fantasma nel mio corpo
Anna Maria Scalabrino Un fantasma nel mio corpo Alcune persone con il diabete, pur essendo ben informate e pur presentandosi regolarmente ai controlli in Ambulatorio, mantengono un mediocre controllo glicemico. Il piano cognitivo, prediletto dai Medici, si mostra insufficiente. Medico e paziente si muovono infatti anche nella ‘giungla’ delle emozioni, un ambiente intricato dove valori come l’angoscia e l’aggressività possono fare premio sulla logica e guidare la motivazione. In questi casi il Team diabetologico deve saper abbandonare l’approccio psicopedagogico e assumere un atteggiamento introspettivo sia nei confronti del paziente sia di se stesso, accettando anche la collaborazione con uno psicoterapeuta. Psicologo clinico e psicoterapeuta psicoanalitico, Anna Maria Scalabrino collabora con i diabetologi e il personale sanitario del Centro per la Cura del Diabete, II Clinica Medica, Policlinico Umberto I, Università La Sapienza di Roma. I suoi lavori approfondiscono l'incidenza delle dinamiche inconsce sulla gestione di una malattia cronica come il diabete. Glicemia, diabete e vissuti dei pazienti Anna Maria Scalabrino Un fantasma nel mio corpo Glicemia, diabete e vissuti dei pazienti Roche Diagnostics Editing: In Pagina - Milano Grafica: www.ideogramma.it Stampa: Phasar Book In copertina: disegno di Sergio Bellotto Gennaio 2004 Ringrazio Alberto Pattono per la sua collaborazione nella redazione del testo INDICE capitolo 1 capitolo 2 Prefazione di Aldo Maldonato pag. Da oggetto a soggetto Il diabete e la sfida delle malattie croniche La centralità della motivazione Autocontrollo e educazione sanitaria Mettere in relazione le rappresentazioni del paziente e del diabetologo Quando il paziente è la malattia Lo scacco e la frustrazione dei diabetologi A chi ‘fa bene’ l’Educazione Terapeutica? Reazioni di fuga alla proposta terapeutica pag. 11 11 12 13 Oltre lo specchio I presupposti psicologici dell’Educazione terapeutica Seduzione intellettuale e risposta difensiva del paziente: il falso sé Autocontrollo: un obiettivo ambizioso Il diabetologo nella giungla delle emozioni L’elaborazione del lutto L’idea del corpo Il metabolismo - funzione primordiale Il fantasma della glicemia Rappresentazioni e realtà pag. 23 9 15 16 17 19 21 23 25 28 29 31 32 34 35 36 5 capitolo 3 Passeggiate nel bosco pag. La scissione: getto il diabete fuori di me La sfida della scissione e l’Educazione terapeutica Il meccanismo di difesa della negazione L’identificazione proiettiva Narcisismo maligno 39 39 42 44 47 49 capitolo 4 Oltre l’Educazione terapeutica Uno psicoterapeuta psicoanalitico nel ‘Team’ Diabetologico Suggerimenti per una evoluzione dell’Educazione terapeutica. pag. 51 52 Bibliografia pag. 61 55 7 PREFAZIONE In questo suo scritto, Anna Maria Scalabrino mette bene in evidenza – anche poeticamente – le caratteristiche peculiari della malattia diabete e della relazione che si instaura fra medico e paziente. La loro relazione non si svolge come metaforicamente rappresentato nel giardino disegnato ‘all’italiana’ con siepi e aiuole manicurate e vialetti di ghiaia fine, ma anche e soprattutto nella giungla delle emozioni, un ambiente intricato dove valori come l’angoscia e l’aggressività fanno premio sulla logica e guidano la motivazione. La dottoressa Scalabrino si è avvicinata alla diabetologia alcuni anni fa frequentando in nostro Centro al Policlinico Umberto I di Roma per il suo tirocinio di psicologia clinica… e vi è rimasta. Per numerosi anni ha affiancato pazientemente me e i miei collaboratori nella quotidiana routine diabetologica e nello svolgimento dei corsi ai pazienti e ai loro familiari, testimoniando i successi e gli insuccessi, le soddisfazioni e le frustrazioni e osservando con impassibile discrezione le relazioni, a volte soddisfacenti a volte no, che ciascuno di noi instaurava con i pazienti. Ad alcuni di loro affetti da disturbi psicologici ha offerto un regolare sostegno, basandosi sul suo approccio psicodinamico. Sul nostro gruppo, da sempre impegnato sul fronte dell’Educazione Terapeutica hanno avuto una certa influenza 9 altre Scuole psicologiche, in particolare la Scuola Umanistica che fa capo a Carl Rogers, i cui più moderni epigoni possiamo identificare nei portabandiera dell’empowerment del paziente diabetico. A questa complessità Anna Maria Scalabrino offre il contributo della sua formazione psicodinamica proponendo al diabetologo impegnato nello sforzo di realizzare compiutamente l’approccio bio-psico-sociale indicato dalla moderna Educazione Terapeutica, gli strumenti della psicologia del profondo. Il suo consiglio di includere uno psicoterapeuta psicoanalitico nel team diabetologico può forse sollevare qualche perplessità, ma le sue osservazioni sui meccanismi di difesa profondi instaurati da alcuni pazienti nei confronti del diabete, dalla scissione alla negazione, dall’identificazione proiettiva ai comportamenti autodistruttivi del narcisismo maligno, devono farci soffermare a riflettere. I suggerimenti dell’Autrice per un’evoluzione dell’Educazione Terapeutica sono tutti validi e degni di attenta considerazione. Infine mi sembra che non possa esservi augurio migliore di quello espresso – ancora poeticamente – alla fine: che “la relazione affettiva con il paziente possa essere un buon nido per la crescita di tutti” gli attori coinvolti. Per questo passaggio dalla malattia cronica al “benessere cronico” di tutti, compresi gli operatori sanitari, quest’opera si presenta come il miglior viatico. Aldo Maldonato Presidente, Diabetes Education Study Group della European Association for the Study of Diabetes 10 Da oggetto a soggetto Il diabete e la sfida delle malattie croniche In questa fase storica, la Medicina – e più in generale tutto il mondo che ruota intorno al ‘prendersi cura’ – si accorge della necessità di un cambio di paradigma. I successi ottenuti nella cura delle patologie acute e alcuni mutamenti nello stile di vita rendono sempre più frequenti condizioni croniche, le quali possono essere curate, ma non guarite. La terapia della malattia cronica non si conforma al modello Medico tradizionale nel quale il paziente è un oggetto passivo. Secondo questo modello, al paziente non si chiede di pensare né di prendere iniziative. Non c’è posto per gli aspetti psicosociali che sono considerati come interferenze rispetto all’obiettivo da raggiungere. La terapia delle malattie croniche incontra un altro problema. In uno studio recente sugli adolescenti l’autore ha osservato la predominanza del ‘vissuto’ rispetto al ‘pensato’ (Raymond, 2000). Questa osservazione può applicarsi anche a molti adulti che, incoraggiati dai messaggi ricevuti dai mezzi di comunicazione, sembrano valorizzare il piacere e l’evasione dalla realtà quotidiana. La medicina delle patologie croniche, al contrario, invita le persone a fermarsi e a mettersi in condizione di riflettere. “In un mondo dove la tecnologia incoraggia e sfrutta le nostre tendenze onnipotenti” (Raymond, 2000) la proposta di realizzare un cambiamento radicale del modo di vivere spiazza il paziente. Per raggiungere l’obiettivo pro- 11 posto egli deve quindi avere una motivazione sufficiente così da non lasciarsi abbattere dalle difficoltà che incontra. La centralità della motivazione Con l’aumento delle malattie croniche e, in particolare, del diabete mellito, il Medico è stato costretto a cambiare il suo modello di riferimento, imparando a interagire con un interlocutore più attivo e convinto delle sue scelte. In questo modello di cura, il paziente e la sua famiglia giocano un ruolo attivo nella gestione della terapia (Maldonato et al. 1995). Qualunque cosa il personale sanitario possa prescrivere o suggerire, in ultima analisi il successo della cura dipenderà dalla disponibilità del paziente, dalla sua motivazione a seguire il programma terapeutico concordato. Sandro Spinsanti, uno dei teorici che hanno approfondito le conseguenze di questo cambio di paradigma, nota come laddove la medicina affronta una patologia cronica “il Medico ha l’obiettivo di portare il paziente a contare su sé stesso e a volte a forgiarsi una nuova identità” (Spinsanti, 2000, pp. 5-8). Per raggiungere l’obiettivo concordato con il Medico, il paziente deve essere spinto da una motivazione profonda e importante che lo induce a trasformarsi e a crescere perché “nessuno ci può far crescere se non lo vogliamo”. Una motivazione profonda è richiesta anche al Medico, che si trova a svolgere un ruolo nuovo nel quale il buon esito della terapia coincide con un atteggiamento meno autoritario e di minor controllo nei confronti del suo interlocutore. Più la persona con il diabete è consapevole e responsabile, meno il Medico avrà il controllo su quello che egli fa. Tuttavia, il Medico rimane sempre l’autorità terapeutica di riferimento, con il ruolo di guida dell’operato del paziente. 12 Autocontrollo e educazione sanitaria Parallelamente anche la tecnologia applicata alla terapia del diabete si è evoluta. La persona con il diabete può controllare la variabile-chiave della sua condizione: la glicemia. Con pochi gesti questa determinazione può essere effettuata anche più volte al giorno, in momenti considerati indicativi per elaborare un profilo glicemico che gli permette di verificare l’effetto delle decisioni prese, così come di impostare nuove scelte. La flessibilità e la personalizzazione della terapia, unite alla possibilità di controllare la glicemia, ha portato la Diabetologia a porre l’accento sugli aspetti didattici della relazione di cura. L’educazione del paziente è considerata da tempo uno dei pilastri della terapia. Come ben riassume Jean Philippe Assal, il medico che più ha riflettuto sulla relazione fra Medico e paziente nella patologia cronica, la cura non dipende solamente dalle medicine prescritte, ma anche dalle informazioni che il paziente riceve sulla sua malattia e dalla capacità del paziente di gestire tutti gli aspetti del programma terapeutico. Il metodo usato per aiutarlo ad accettare la terapia consiste nell’Educazione terapeutica che è descritta da Assal come “un ponte fra il paziente, la sua famiglia e le barriere che ostacolano il passaggio delle informazioni provenienti dal personale sanitario” (Assal, 1994, pp. 11-15). Alcuni Centri di Diabetologia hanno elaborato approcci metodologici nonché vere e proprie ‘linee guida’ che prevedono l’organizzazione di corsi di Educazione terapeutica, articolati in più giornate, differenziati per tipologia di pazienti. Una particolare menzione, per l’attività svolta in questo ambito, merita il GISED (Gruppo Italiano di Studio sull’Educazione terapeutica) fondato nel 1980 dal Professor Aldo Maldonato. A questi corsi si affianca la continua attività di messa a punto e ‘manutenzione’ delle conoscenze, operata dal Medico e dai suoi collaboratori: gli infermieri, altri medici specialisti, dietisti e psicologi. 13 Come è noto, l’Educazione terapeutica parte dalla constatazione della insufficienza della semplice educazione sanitaria. Se la sola informazione fosse davvero un elemento essenziale della terapia, dovrebbe essere possibile mettere in relazione la conoscenza della malattia da parte del paziente con la qualità del suo controllo metabolico. In realtà, benché gli educatori presumano che l’acquisizione delle conoscenze garantisca un controllo migliore della glicemia, molti studi (Day, 1994, pp. 113-118) rilevano che non esiste una relazione fra conoscenza e buona autogestione. Per molti ricercatori questa contraddizione sottolinea il ruolo delle credenze del paziente nei confronti della sua salute e la sua motivazione ad applicare le regole apprese. Senza togliere l’accento dall’aspetto informativo, la riflessione della Diabetologia più avanzata si è quindi spostata sull’aspetto motivazionale. L’insieme delle riflessioni che vanno sotto il nome di Educazione terapeutica rappresenta per molti versi il fronte più avanzato della riflessione sulla relazione tra personale sanitario e paziente nella gestione della malattia cronica. Avviata da Assal, la riflessione sulla relazione terapeutica è stata approfondita in Italia in ambito diabetologico dal GISED nella sua attività formativa e nel corso dei workshop organizzati da Roche Diagnostics a Villa Erba negli anni 1998, 1999 e 2001. Le differenze tra l’Educazione sanitaria e l’Educazione terapeutica sono rilevanti. Diversamente dall’Educazione sanitaria, che è concentrata in momenti specifici, l’Educazione terapeutica è un processo che dura tutta la vita del paziente, in quanto si tratta non solo di trasferire delle conoscenze sulla malattia e sulla sua gestione, ma anche di mantenere il desiderio e la volontà di metterle in pratica. Nell’Educazione terapeutica le convinzioni e le credenze del paziente sono fondamentali. Il paziente deve essere aiutato a verbalizzarle così come a illustrare tutte le esigenze della sua vita quotidiana. Il programma 14 terapeutico ne deve tenere conto e si deve inserire fra queste cercando di rispettarle. Mettere in relazione le rappresentazioni del paziente e del diabetologo In un lavoro piuttosto recente (Gentili et al. 2001, pp.140152), Paolo Gentili, psichiatra e psicoterapeuta psicoanalitico, che si è interessato all’Educazione terapeutica, sottolinea l’utilità di un nuovo termine quando si riferisce all’atteggiamento del paziente nei confronti della gestione del diabete. Parla di adesione (adherence) al programma terapeutico e non più di ubbidienza (compliance) al diabetologo. Gentili sostiene che l’adesione alla proposta del Medico è un fenomeno multifattoriale; sottolinea al riguardo l’importanza delle rappresentazioni del paziente nei confronti della medicina, della salute e della malattia con particolare attenzione alla propria capacità di gestire la malattia e le confronta con le rappresentazioni del Medico. Queste rappresentazioni possono essere un vero ostacolo per la gestione della malattia o possono facilitarla. La migliore adesione al programma terapeutico si ottiene se i bisogni reali del paziente sono gratificati, e la terapia corrisponde alle rappresentazioni del paziente e soddisfa le sue aspettative. Dalla letteratura passata in rassegna si deduce che, per il paziente, esiste una relazione significativa tra le sue rappresentazioni del diabete e della cura, e l’adesione al programma terapeutico. Questa scoperta importante costituisce un campo ancora poco esplorato nella pratica medica e nella ricerca. Il successo della cura sembra dipendere dal grado di coincidenza tra le rappresentazioni del paziente e quelle del Medico (Gentili et al. 2001). Secondo Gentili, occorre che il Medico “per essere efficace, vada incontro ai bisogni reali del paziente e sin dal 15 momento della prescrizione, adatti il più possibile le prescrizioni e i consigli alle loro credenze e aspettative tenendo contemporaneamente conto delle costruzioni che la vita di ogni giorno impone all’individuo”. Quando il paziente è la malattia Nonostante i suoi sforzi per adattarsi alle esigenze del paziente, il Medico tende a contare sulla razionalità e offre al paziente degli strumenti che potrebbe utilizzare grazie alle sue facoltà mentali quali la ragione, l’intelletto e la volontà (Scalabrino, 2003). Se il paziente ha un equilibrio psichico relativamente buono, riuscirà a adattarsi alla nuova situazione con il sostegno dell’Educazione sanitaria e terapeutica. Spesso, però, diabetologo e paziente si confrontano su livelli diversi. Il Medico propone una cura basata sulla razionalità, mentre il paziente adotta una propria versione della terapia. Ha delle idee in proposito che non confesserà mai al Medico che considera intrusivo perché gli chiede di cambiare completamente la sua vita senza interessarsi dell’immagine che il paziente ha di sè stesso. Purtroppo quando la malattia è cronica, il paziente è la malattia. Si difende da questa situazione con la negazione e continua a comportarsi nella vita come se la malattia non esistesse. Risponde alla richiesta razionale del Medico con una ricerca spasmodica di piacere e di scarico immediato della tensione provocata da questa richiesta. I modelli interpretativi ai quali ricorre il paziente si basano solo in parte su una cultura medico-scientifica. Il paziente ha un intricato sistema di credenze e di rappresentazioni che fanno parte della sua cultura e che influenzano il suo modo di gestire la malattia. Capire questo sistema è un elemento importante del processo educativo, necessario per correggere le convinzioni del paziente, basate su preconcetti. 16 Si deve stabilire un’interazione tra paziente e Medico che deve tenere conto della dimensione relazionale e delle sue implicazioni. Il Medico deve riuscire ad accettare il paziente come una persona nella sua totalità e dedicare il tempo necessario per un approccio biomedico, psicosociale e educativo. Fare uso di rappresentazioni significa mettere da parte per il momento l’oggetto rappresentato (Scalabrino, 2003). Il diabetico che ricorre alla rappresentazione della malattia deve essere aiutato a elaborare questa rappresentazione per arrivare all’accettazione della realtà, il diabete. Ci vorrà tempo prima che la cura della salute diventi una abitudine, poiché richiede un cambiamento complesso: si deve passare da un approccio tradizionale, biomedico, a un approccio integrato bio-psico-sociale. È importante che la rappresentazione del diabete e della sua terapia sia presa in considerazione nella letteratura. È stato riscontrato che queste rappresentazioni hanno un impatto considerevole sull’adesione dei pazienti al programma terapeutico. La letteratura esaminata in questo studio rivela che il paziente ricorre a un suo modello interpretativo della malattia e della richiesta terapeutica. Gestisce la malattia in un modo molto personale. Purtroppo questo aspetto è ancora poco esplorato nella prassi medica e nella ricerca. Lo scacco e la frustrazione dei diabetologi Il particolare investimento emotivo richiesto ai diabetologi dalla Educazione terapeutica rende un eventuale fallimento ancora più difficile da accettare. Una volta accertato che il mancato successo non dipende da un deficit d’informazione, né da una insufficiente applicazione dei principi dell’Educazione terapeutica stessa, la risposta dei diabetologi è spesso di profonda frustrazione. La relazione con il paziente è bloccata. 17 Questo studio intende partire proprio dal punto in cui molti interventi terapeutico-educativi risultano stagnanti, prendendo le mosse da questa stasi, per soffermarsi sulle esperienze fatte con diabetici che pur presentandosi regolarmente alle visite diabetologiche e pur avendo seguito un accurato corso di Educazione continuano ad avere un cattivo equilibrio glicemico. L’esperienza clinica è partita dall’osservazione della relazione medico-paziente durante le visite diabetologiche in ambulatorio e dai colloqui con i pazienti e i loro familiari durante i corsi di educazione alla gestione del diabete. Una valutazione più approfondita è stata sperimentata con i pazienti che sono stati seguiti in psicoterapia psicoanalitica una volta alla settimana per periodi che vanno da due a cinque anni e che hanno permesso di approfondire la relazione tra lo stato psichico ed emotivo del paziente e la gestione della glicemia. Così come l’Educazione terapeutica non ha negato l’importanza dell’Educazione sanitaria ma ha cercato di inserirla in un contesto più ampio e profondo – che tiene conto del paziente come persona con le sue abitudini, credenze, paure, pregiudizi ed emozioni – la stasi nel rapporto con molti pazienti ha indotto il Medico impegnato nell’Educazione terapeutica a prendere atto dell’esistenza del pensiero emotivo oltre al pensiero logico-razionale. Su questa base si può quindi sviluppare un nuovo approccio nei confronti della gestione della malattia che tiene conto della relazione tra Medico e paziente e della modalità di prescrizione da parte del Medico che deve saper valutare la motivazione del paziente. 18 A chi ‘fa bene’ l’Educazione terapeutica? L’Educazione terapeutica rappresenta un tentativo molto recente, intellettualmente sofisticato e umanamente generoso. Implica da parte dei medici una revisione profonda dei presupposti stessi del loro agire. L’idea che il Medico ‘per essere efficace, vada incontro ai bisogni reali dei pazienti e sin dal momento della prescrizione adatti il più possibile le prescrizioni e i consigli alle loro credenze e aspettative, tenendo contemporaneamente conto delle costruzioni che la vita di ogni giorno impone all’individuo’ è divenuta ormai ‘cultura diffusa’ secondo Paolo Gentili (2001). Pur tuttavia non si può nascondere che l’obiettivo dell’adesione risulta difficile da realizzare. Medico e paziente hanno bisogno di rappresentazioni equivalenti della malattia e della sua gestione per costruire un linguaggio comune comprensibile da tutti e due. Numerose evidenze indicano che se i risultati raggiunti dai Centri che hanno abbracciato l’Educazione terapeutica siano migliori di quelli ottenuti da altri Centri. Tuttavia i diabetologi che praticano l’Educazione terapeutica conoscono molti fallimenti. Molti studi hanno permesso di osservare che la persona capace di adattarsi e di trarre il maggiore beneficio dalla cura di una malattia cronica come il diabete, è quella che crede nelle proprie risorse interiori e non chi si affida alla sorte o agli eventi esteriori. Questi studi sono utili per capire le differenze individuali che esistono tra i pazienti, le loro preferenze all’interno dei programmi terapeutici, le procedure di monitoraggio e l’efficacia della terapia (Gentili et al., 2001, pp. 140-152). I diabetici che hanno un equilibrio psichico relativamente buono e che sono aperti a nuove esperienze hanno una flessibilità interiore che li mette in condizione di utilizzare al meglio la competenza professionale dei diabetologi. Questo gruppo riesce a adattarsi alle nuove regole di vita 19 se riceve un sostegno adeguato e le informazioni utili per una buona gestione della malattia. L’atteggiamento mentale che guida la loro vita sociale e affettiva si riflette nei valori della glicemia che ha un andamento accettabile. Questi diabetici ‘sani’ possono trovare giovamento nei corsi di Educazione poco dopo la diagnosi del Medico. La gestione equilibrata della dieta, dell’attività fisica e dell’insulina si riflette nell’andamento della glicemia che a sua volta è espressione della loro salute mentale. Per questo gruppo di pazienti l’adesione alla terapia è semplice poiché attribuisce al termine ‘motivazione’ lo stesso significato scelto dal diabetologo, il quale sostiene che “la partecipazione attiva alla cura richiede la volontà di farlo, cioè la motivazione a creare il buon equilibrio glicemico, derivante dalla conoscenza obiettiva dei rischi connessi con il cattivo controllo e della possibilità di evitarli” (Maldonato et al., 2001, p.182). Il diabetologo sembra contare sulla razionalità del paziente, che deve essere in grado di operare delle scelte valendosi delle sue facoltà mentali. Il Medico fornisce gli strumenti che il paziente deve sapere utilizzare per controllare la sua salute (Canestrari, 1984, p.327). Nello studio sulla rappresentazione della malattia da parte del paziente, gli autori si riferiscono a un modello cognitivo d’intervento sul paziente secondo il quale il comportamento nei confronti della salute deriva da un’unica decisione razionale, basata su un’analisi costo-beneficio (Gentili et al., 2001, pp.140152). Questo modello è adatto al tipo di paziente con un equilibrio mentale relativamente buono, capace di adattarsi a nuove condizioni di vita. 20 Reazioni di fuga alla proposta terapeutica Molte persone con il diabete, abitudinarie e rigide, non riescono ad accettare i cambiamenti. Non sono capaci di adattarsi alla situazione nuova dettata dalle regole terapeutiche proposte. Questo tipo di diabetico non riesce a gestire la glicemia e si comporta come se la malattia non esistesse. Spera di scongiurare il pericolo ignorandolo; è vittima della sua fragilità, di un Io debole incapace di accettare la realtà. Forse la diagnosi di diabete riattiva in lui il dolore di una violenza fisica o psichica subita nell’infanzia che non vuole sperimentare di nuovo. Preferisce trovare un modo per fuggire da qualsiasi esperienza che provochi dolore immediato. La disperazione gli impedisce di prendere coscienza dei cambiamenti che si sono verificati nel suo corpo e di capire che cosa significhino il diabete, la gestione della glicemia, le complicanze. Non comprende perché deve dedicare tanta attenzione a un corpo che lo ha tradito e che gli fa sperimentare di nuovo sofferenza. Non lo cura, senza volere o poter rendersi conto che va incontro a delle complicanze, con danni a effetto irreversibile. La prima difesa alla quale questo paziente sembra ricorrere, è lo spostamento mediante il quale “l’ansia associata a una fonte inconscia è reindirizzata verso un sostituto conscio”(Gabbard, 1995, p.30). L’ansia legata a un sentimento inconscio di vergogna e d’indegnità è spostata sulla glicemia, che diventa responsabile di tutti i suoi problemi fisici, psichici o di relazione. L’andamento della glicemia riflette in questi casi anche la struttura della personalità sottostante. Questo tipo di paziente risponde alla proposta razionale offerta dal Medico con l’edonismo che Hobbes considera il principio motivazionale dell’uomo, essenzialmente competitivo nella spasmodica e conflittuale ricerca del piacere e nel rifuggire il dolore (Canestrari 1990, p.269). 21 Un concetto simile è stato proposto da Freud, il quale ha chiamato principio del piacere quanto spinge l’individuo a evitare il dispiacere e a cercare il piacere con un dispendio minimo di energia. Questa ricerca porta a ignorare la realtà esterna e i limiti imposti dall’organismo, che Freud definisce principio di realtà (Boulanger, 1984, pp.60-61). La richiesta del Medico, vissuta come severa, aumenta la tensione, porta dispiacere e motiva la ricerca di una possibilità di scarico immediato. Con questo gruppo di pazienti il termine ‘motivazione’ assume un significato diverso per il Medico e per il paziente. Esiste una divergenza profonda tra la proposta di una cura attiva e programmata da parte del Medico, basata sulla razionalità, e la risposta passiva del paziente. 22 Oltre lo specchio I presupposti psicologici dell’Educazione terapeutica Nonostante la sua riflessione si svolga quasi interamente intorno a dinamiche interpersonali o intrapsichiche, l’Educazione terapeutica è nata nell’ambito della Medicina interna e si è sviluppata all’interno della Diabetologia, prima, e di altre discipline internistiche poi. I suoi epigoni si sono impadroniti di una serie di metodologie esistenti e le hanno adattate alle situazioni cliniche di loro interesse. Questo non significa che i riferimenti dell’Educazione terapeutica non possano essere rintracciati all’interno dello sviluppo storico della psicologia e precisamente all’interno delle metodologie comportamentiste e cognitiviste. Comportamentismo è il nome dato a una serie di riflessioni evolutesi in contrapposizione alla psicologia sperimentale di William Wundt, che tiene conto del soggetto. Infatti per Wundt “la psicologia viene concepita come la scienza dell’esperienza immediata dei processi psichici nella loro relazione con il soggetto” (Cit. in Canestrari, 1984, pp.1-5). Watson, il fondatore del comportamentismo riteneva possibile una psicologia puramente fenomenologica, che ritagliasse come suo oggetto solamente quanto può essere descritto e misurato (il comportamento quindi e non il pensiero né il vissuto). Tra gli strumenti che si ispirano alla psicologia comportamentale 23 troviamo le tecniche di modificazione del comportamento come la contrattazione delle contingenze di rinforzo e l’automonitoraggio (Feste, Anderson, 1994). L’approccio cognitivista “subisce il paradigma dell’elaboratore di informazioni” (Canestrari, 1984). A differenza di quanto accade nel comportamentismo, i processi cognitivi sono analizzati dal cognitivismo ma in quanto funzioni organizzative. Il sistema nervoso centrale è inteso come un organizzatore-elaboratore di informazioni che provengono dall’esterno e dall’interno. La psicologia cognitivista ha il compito di elaborare dei modelli che spieghino in che modo sono organizzate le funzioni cognitive, cioè quei processi che comportano trasformazioni, elaborazioni, riduzioni, immagazzinamento recuperi e altri impieghi delle informazioni sensoriali. Comportamentismo e cognitivismo condividono due aspetti che spiegano la facilità con la quale sono stati utilizzati dalla Educazione terapeutica (e dalla formazione aziendale, un altro settore che ne ha fatto un ampio uso). In primo luogo si tratta di metodologie “simil-mediche”. Carli (1987) spiega come è facile affrontare i disturbi psichici ricorrendo al classico modello medico e riscontrare una analogia fra l’intervento di uno psicologo clinico e quello di qualsiasi altro Medico specialista alle prese con un sintomo. Il modello comportamentista, e inizialmente il modello cognitivista, si sono limitati ad affrontare il sintomo senza tenere conto della vita emotiva e inconscia del paziente. Secondo questo approccio, l’oggetto dell’intervento può essere individuato e rimosso, così come avviene in un intervento medico classico. Da una parte il comportamentismo, per una precisa scelta di campo, non va a cercare dinamiche profonde, dall’altra il cognitivismo si rivolge principalmente alla parte intellettuale del soggetto. Più recentemente il cognitivismo ha tenuto conto della personalità globale del paziente, e parte ora dal presupposto che il soggetto elabori attivamente una risposta 24 allo stimolo esterno in base a quello che ha dentro di sé. Il cognitivismo attuale prende in considerazione i gradini intermedi del processo mentale. Gran parte dei processi cognitivi sono di tipo inconscio. Sono cioè processi ‘silenti’ che non si possono tuttavia ignorare. Seduzione intellettuale e risposta difensiva del paziente: il falso sé Un aspetto comune a queste due teorie è l’appello alla parte razionale dei due contraenti della relazione. Secondo lo psicoanalista Franco Fornari (1976), i codici affettivi usati nella comunicazione umana sono tre: genitoriale, bambino, adulto. Generalmente nella relazione fra Medico e paziente si instaura il codice genitore-bambino. Nell’Educazione terapeutica il Medico tende a fare evolvere la relazione da un codice genitore-bambino a un codice adulto-adulto che mobilita le qualità adulte nell’interlocutore e può aiutarlo a uscire da una relazione senza sbocchi. Un esempio di codice adulto è la tecnica della contrattazione attraverso la quale gli obiettivi e i singoli elementi della terapia sono oggetto di una ‘trattativa’ fra Medico e paziente. Questa trattativa, oltre a rimarcare la flessibilità e la personalizzazione della terapia, mira a creare un clima di fiducia reciproca. L’approccio dell’Educazione terapeutica si inserisce in un contesto di ‘credenze’ comuni alla professione medica che potremmo definire ‘ottimismo (o razionalismo) terapeutico’. Secondo la filosofia razionalista seguita da tutti gli appartenenti alle professioni mediche, una persona adeguatamente informata può operare delle scelte terapeutiche corrette valendosi delle sue facoltà mentali quali la ragione, l’intelletto e la volontà. L’intelletto indica cosa la volontà dovrà o potrà conseguire. Questa facoltà non è considerata esclusiva di chi esercita una professione medi- 25 ca ma di ogni essere umano, compresi quindi i pazienti. Il personale sanitario ritiene insomma che l’elemento principale dell’agire dell’uomo sia la ragione (Canestrari, 1984) e immagina quindi che il comportamento del paziente possa derivare da un’unica decisione razionale basata su una analisi costo-beneficio. Compito del personale sanitario sarebbe di offrire le informazioni necessarie nella maniera migliore (Gentili et al., 2001, pp. 140-152). Va detto che in molti casi questo approccio dà ottimi risultati. Con un sostegno adeguato e le informazioni utili per gestire la malattia, i pazienti che hanno un equilibrio psichico relativamente buono e che sono pronti a sperimentare mostrano di adattarsi alle nuove regole di vita. In questi casi esiste una buona intesa nell’interazione tra le rappresentazioni e le credenze che sia il paziente sia il diabetologo hanno nei confronti della malattia e della sua terapia. Questa intesa può avere un peso notevole nell’adesione alla cura. Si crea uno scambio nella comunicazione tra paziente e diabetologo che non si limita a fornire le informazioni utili ma prende in considerazione anche la dimensione relazionale e tutte le sue implicazioni (Gentili et al. 2001). Questi diabetici ‘sani’ traggono giovamento dai corsi di Educazione e vedono nei periodici colloqui con il Medico l’occasione per discutere il loro modo di gestire la glicemia e decidere eventuali modifiche. La gestione equilibrata della dieta, dell’attività fisica e dell’insulina si riflette nell’andamento della glicemia, che a sua volta è espressione della loro salute mentale. L’esperienza mostra però come, in alcuni casi, l’equilibrio proposto dai diabetologi non risulti raggiungibile. Pur disponendo delle informazioni necessarie, il paziente non riesce a gestire la glicemia. In realtà si comporta come se la malattia non esistesse; spera di scongiurare il pericolo ignorandolo. In alcuni casi dietro questo comportamento, collaborativo 26 con il Medico ma inefficace nella gestione quotidiana della glicemia, c’è una difesa rappresentata dalla ‘identità duale’. L’approccio ‘adulto-adulto’ proposto dal Medico incoraggia il paziente a sviluppare una doppia identità, sia rispetto al corpo che al sé. La parte del corpo sana e attiva collabora con i medici per curare la parte malata, passiva. Ma al paziente non è mai permesso di rilassarsi e di prendere una vacanza dalla sua responsabilità come, per esempio, dall’iniezione d’insulina. Il paziente risponde alla seduzione intellettuale insita nell’approccio dell’Educazione terapeutica, ricorrendo a un falso sé, cioè a una maschera creata per compiacere il Medico. La presunzione di razionalità che il personale sanitario estende al paziente diventa in alcuni casi una finzione molto pericolosa. Può essere appagante per la parte intellettuale del Medico, ma – nonostante le apparenze – aumenta l’ansia del paziente che non vede riconosciuta la sua paura dell’ignoto. La chiusura del paziente delude il Medico che vede l’inutilità del suo impegno. Una ulteriore ‘trappola’ tesa involontariamente dall’Educazione terapeutica è la definizione della gravità della patologia. Quando tiene a sottolineare che i diabetici “in fondo sono sani”, il personale medico condivide un approccio molto illuminato ma pone anche le basi per una negazione. Minimizzando le valenze emotive delle patologie e approfondendo l’aspetto volontaristico e motivazionale, il Medico potrebbe ‘sedurre’ il paziente inducendolo a prestare il suo consenso al Medico. Questo è dannoso perché implicherebbe un abbandono del campo psichesoma e la fuga in una collusione intellettualistica come avviene nella terapia comportamentista, che favorisce la collusione tra il Medico e la parte intellettuale dell’Io del paziente, accentuando la scissione dal corpo, sede della disfunzione somatica ed espressione del disagio psichico. 27 Autocontrollo: un obiettivo ambizioso Si impone a questo punto una riflessione sul concetto che sta alla base dell’Educazione terapeutica e in generale dell’approccio al diabete. Non vi è dubbio che l’autocontrollo, inteso in senso ampio, della glicemia rappresenti l’unico approccio realmente valido per la gestione del diabete, per ritardarne l’insorgere, limitare l’incidenza e la gravità delle complicanze. La tecnologia ha prodotto sistemi che consentono di misurare in qualunque momento con pochi semplici gesti la variabile chiave della sua condizione, la glicemia, e di trascrivere il valore trovato in un quaderno in modo da potere valutare il suo andamento. Il personale sanitario ha raggiunto alti livelli di capacità didattica e divulgativa nel trasferire ai pazienti e, quando necessario, alle loro famiglie le informazioni necessarie non solo per controllare la glicemia nei momenti più significativi della giornata, incoraggiare i pazienti a condurre una vita più normale possibile e adottare una alimentazione sana, ma anche per intervenire adeguatamente in caso di iper e ipoglicemie. Quando propone al paziente l’autocontrollo, il Medico presuppone che il suo interlocutore sia in grado di utilizzare il pensiero logico-razionale. Ma questi sembra guidato da quello che Freud ha chiamato il principio del piacere che spinge l’individuo a evitare il dispiacere e a cercare il piacere con un dispendio minimo di energia. Questa ricerca porta l’individuo a ignorare la realtà esterna e i limiti imposti dall’organismo, ciò che Freud ha definito principio di realtà. La percezione di un aumento di tensione, con la richiesta del Medico vissuta come severa, o addirittura persecutoria, porta dispiacere e la conseguente ricerca di una possibilità di scarico immediato. L’intervento del Medico impone un esame di realtà che il paziente teme e rifiuta. Il Medico propone un percorso di benessere che tiene 28 conto della realtà di un corpo malato e adotta il conseguente pensiero logico-razionale; al contrario il paziente cerca il piacere immediato e nega la malattia, utilizzando di conseguenza un pensiero emotivo. ‘Piacere’ e ‘benessere’ non sono sempre sinonimi. Si tratta anzi di termini che il mondo delle emozioni vive come antitetici. Il benessere è legato a concetti come ‘riflettere’, ‘progettare’, ‘organizzare’. Significa spesso rinunciare alla soddisfazione immediata, all’uovo oggi, in cambio del benessere futuro, della gallina domani. Parlare di autocontrollo a un paziente fragile significa fare appello alla sua parte intellettuale e negare la sua sfera emotiva che cerca il piacere immediato e detesta sia l’idea di benessere, sia quel corpo inadeguato, insufficiente che gli impedisce di abbandonarsi alla ricerca del godimento. A sua volta questo odio si esprime spesso nel non-controllo che, in alcuni casi (lo si è visto in altre patologie: disturbi del comportamento alimentare, alcolismo, ecc.), diviene aggressività verso il proprio corpo o, addirittura, ricerca della morte, mentre in altri casi si esprime in una sottovalutazione (“cosa può mai farmi di male mangiare questa torta, astenermi dal cibo, bere questo whisky?”). Quando proponiamo a un paziente fragile di divenire ‘padrone di se stesso’, gestore dei suoi processi metabolici, siamo sicuri di chiedere una cosa così semplice? E soprattutto, siamo sicuri di andare incontro alle richieste reali immediate del paziente? Il diabetologo nella giungla delle emozioni In realtà non deve sorprendere che Medici ben intenzionati, ben informati ed eccezionalmente ben equipaggiati falliscano nei loro sforzi di curare disturbi che coinvolgono aspetti psicologici. Le forze in campo nel paziente 29 sono terribilmente forti e i medici riescono a cavalcare solo un cavallo, le cure biologiche, mentre conducono l’altro per le briglie. Questo studio vuole soffermarsi proprio sui pazienti che, pur presentandosi regolarmente ai controlli diabetologici in ambulatorio, e pur avendo seguito il corso di Educazione organizzato dai Centri, continuano ad avere un mediocre controllo glicemico. Per interpretare queste situazioni, il diabetologo deve essere cosciente che nella relazione con il paziente l’aspetto cognitivo (che abbraccia sia l’Educazione sanitaria che quella terapeutica) rappresenta solo una delle modalità di relazione possibili. Medico e paziente non contemplano solo il giardino della razionalità, disegnato ‘all’italiana’ con siepi e aiuole manicurate e vialetti di ghiaia fine. La loro relazione si svolge anche e soprattutto nella giungla delle emozioni, un ambiente intricato dove valori come l’angoscia e l’aggressività fanno premio sulla logica e guidano la motivazione. In primo luogo, il diabetologo dovrà essere cosciente del fatto che, come chiunque ingaggi una relazione di cura, sarà oggetto di fiducia e aspettative, forse di affetto. Ma quando diventa causa di delusione e frustrazione può diventare oggetto di odio. Il paziente che si sente proporre un programma terapeutico che ritiene impossibile da mettere in pratica può considerare il Medico un ‘persecutore’. In secondo luogo il diabetologo deve rendersi conto di come la diagnosi di diabete ferisca il paziente e lo faccia regredire a dei tempi remoti in cui ha ricevuto altre ferite infantili che ha cercato di eliminare dalla coscienza. La riattivazione della ferita infantile fa sì che la risposta emotiva alla diagnosi attuale possa sembrare sproporzionata rispetto al problema clinico individuato. In terzo luogo, il Medico dovrà essere cosciente di avere suo malgrado un ruolo genitoriale. Il Medico e tutto il 30 personale sanitario possono (e devono) mantenere la relazione su un piano adulto-adulto e proporsi al paziente a un livello paritario. Di fatto però sul volto del Medico si staglia l’ombra genitoriale. In filigrana, dietro le cautele e le attenzioni dell’Educazione terapeutica, il paziente vede comunque la figura del padre autoritario. Questo perché il ruolo del Medico è da secoli tale (e questo stereotipo finisce per essere presente anche laddove si cerca di impostare una relazione nuova). Facilmente quindi la relazione va proprio nella direzione che il Medico avrebbe voluto evitare, in un rapporto fra un Medico-genitore-persecutore e un paziente-bambino-vittima. L’elaborazione del lutto Nonostante abbia modo di constatare quotidianamente l’impatto che la diagnosi di diabete ha sul paziente, il personale sanitario potrebbe giovarsi di una interpretazione di questo impatto più complessa di quella che abitualmente viene data. Dai colloqui clinici pare emergere che molti pazienti temono di sperimentare di nuovo, di fronte alla diagnosi di diabete, sentimenti di radicale impotenza vissuti durante un eventuale trauma infantile. Questi sentimenti impediscono al paziente di condividere con il Medico una base cognitiva nei confronti della malattia (come si approfondisce nel paragrafo seguente) e di mettersi in relazione con un corpo generalmente poco amato e forse anche odiato. Il paziente diabetico considera l’insorgere della patologia cronica come un attacco al suo senso di integrità. Le reazioni emotive possono essere: sgomento, paura, ansietà, rabbia, protesta, tristezza, speranza. Se il paziente riesce ad accettare la sua condizione, la sua integrità si rafforza. Se è fatalista, si rassegna penosamente alla malattia per la quale 31 solamente una evoluzione negativa (Lacroix et al., 1994, pp. 301,308,309). Mancando nel diabete sintomi palesi, la diagnosi di diabete di tipo 2 si configura quindi – per quanto meditati siano i modi attraverso i quali essa è comunicata – come un ‘attacco’ o come un ‘giudizio’ da parte del Medico. “Mi hanno trovato il diabete”, riferisce spesso il paziente, a indicare che questa diagnosi non è condivisa né condivisibile (il paziente infatti “non si sente niente”). Si tratta di una diagnosi che viene dall’esterno e che è quindi potenzialmente aggressiva. Accettare questo nuovo stato di ‘non-salute’ implica per il paziente l’elaborazione del lutto rispetto allo stato di salute precedente. L’elaborazione del lutto non è un processo di ‘riparazione del danno’, né un lento dimenticare una persona o una situazione con la progressiva sostituzione di persone ed eventi nuovi. Il lutto è un momento caratteristico di ogni passaggio. Lo sviluppo della personalità non avviene in maniera omogenea, ma attraverso una serie di trasformazioni, ognuna delle quali comporta il lutto per lo stato precedente. Non vi è anzi crescita senza un processo di elaborazione del lutto della situazione precedente, processo che può essere anche lungo. Non sempre però dal lutto si esce. Il rimpianto per la situazione precedente può paralizzare il passaggio a una fase nuova. L’idea del corpo I diabetologi sanno bene come la diagnosi di diabete (e più in generale di una malattia cronica) scuota profondamente il paziente. In questo senso forse minimizzare la gravità della patologia può non essere il modo migliore per entrare in sintonia con il paziente. Secondo Assal la diagnosi è all’inizio di un processo di accettazione della patologia che 32 passa attraverso cinque fasi: di negazione della realtà, ribellione, contrattazione, depressione con speranza, e da ultimo la non sempre raggiunta accettazione. L’esperienza mostra come questo cammino possa richiedere lunghissimo tempo al paziente e al personale sanitario oppure apparentemente interrompersi soprattutto in una delle prime due fasi. Occorre quindi approfondire, utilizzando anche gli strumenti della psicologia del profondo, questi momenti e, prima ancora, la rappresentazione che una diagnosi mette in crisi, cioè quella del corpo. Il medico e psicoanalista inglese Winnicott ha avuto il merito di approfondire la relazione che intercorre tra psiche e soma. La base del sé si trova nel corpo. Esiste una interrelazione tra il bambino che cresce e il suo corpo. Un legame stabile tra la psiche e il corpo rappresenta una conquista sana che si stabilisce gradualmente. La tendenza verso l’integrazione nei suoi diversi significati comprende la personalizzazione. La base della personalizzazione, che può essere descritta come un insediamento della psiche nel soma, va ricercata nell’abilità della madre o della figura materna di unirvi il suo coinvolgimento personale, che, originariamente è fisico e fisiologico. La scissione della psiche dal corpo è un fenomeno regressivo che impiega residui arcaici per stabilire un’organizzazione difensiva. La malattia psicosomatica implica una scissione nella personalità dell’individuo con un indebolimento del legame tra psiche e soma, o una scissione organizzata nella mente a difesa dalla persecuzione diffusa che viene da un mondo ripudiato. Rimane però nella persona malata una tendenza a non perdere completamente il legame psicosomatico sul quale si deve lavorare per facilitare l’integrazione. Proprio perché intrinsecamente problematico, il rapporto con il corpo, che pure caratterizza in maniera problematica soprattutto l’adolescenza, è a volte oggetto di scarso interesse anche nell’età adulta. 33 A differenza di una malattia acuta, che propone una drammaturgia che spesso ha una urgenza e una dinamica che esentano dalla riflessione, la diagnosi di una malattia cronica impone al paziente un ripensamento della relazione con il proprio corpo. “Questo corpo non mi sostiene più” – pensa il paziente – “e non mi procura più il piacere che ricerco ma si ammutina e si rivolta contro di me. Si rifiuta di svolgere correttamente una funzione basilare come il metabolismo e mi costringe a incontrarlo come tale e venire a patti con lui”. Il metabolismo - funzione primordiale A molti diabetologi è capitato di chiedersi come mai la diagnosi di diabete possa dare origine a una risposta emotiva così profonda. Il fatto è che il paziente diabetico considera l’insorgere di questa malattia cronica come un attacco al suo senso d’integrità. Si tratta di una malattia metabolica, e il metabolismo rappresenta una funzione primordiale. L’inadeguatezza del metabolismo potrebbe avere la potenzialità per compromettere il sé e il senso dell’identità. Accettare questo nuovo stato di salute implica che il paziente deve elaborare il lutto dello stato di salute precedente. Le reazioni emotive relative a questo processo che sono state ricavate dalle scale di valutazione psicologiche parlano di sgomento, paura, ansietà, rabbia, protesta, tristezza, speranza. Se il paziente riesce ad accettare la sua condizione, la sua integrità si rafforza. Una seconda caratteristica del diabete è il suo avere a che fare con un aspetto assai valorizzato di ogni cultura quale il cibo. Passiamo in veloce rassegna alcuni aspetti della incredibile polisemicità del cibo, che è pari solo al sesso per ricchezza di valorizzazioni psicologiche interpersonali e culturali. Il cibo può rappresentare una barriera protettiva nei confronti dell’intimità. L’obeso estende i suoi confini corpo- 34 rei e allontana l’altro dalla sua parte nascosta e vulnerabile. Il cibo attiene alla relazione con la madre, sia come nutrimento che come sostegno. Il cibo viene usato come premio o punizione (e nemmeno a farlo apposta, i premi e le punizioni assegnate ai bambini interessano soprattutto i dolci!). Il cibo attiene alla comunità che, dalla famiglia in poi, si riunisce e riconosce se stessa soprattutto o esclusivamente intorno alla tavola (per i greci agape significava sia ‘amore’ sia ‘pasto in comune’). Il fantasma della glicemia Altri fattori caratteristici congiurano nel fare del diabete una malattia ‘difficile’ o ‘ad alto potenziale emotivo’. Il diabete è una malattia ‘interna’ che ci costringe a metterci in rapporto con il nostro corpo e a prendere coscienza che esiste. Concerne il metabolismo e il cibo, ed è asintomatico. Il diabete è una malattia che non si manifesta né a me né agli altri. Non dà sintomi né segni palesi, tranne quelli che vengono scoperti spesso per caso dal Medico: la glicemia. Mancano i consueti punti di riferimento che potrebbero rendere la malattia tangibile. La glicemia – unico segno indiretto – rappresenta l’indice aggiornato e affidabile del nostro stato di salute o di malattia. Ma la glicemia per il paziente ‘non esiste’. È (o può essere) un fantasma, qualcosa che il Medico ha ‘trovato’. Il dato ‘digitale’ della glicemia, che viene ‘distillato’ attraverso un oscuro meccanismo da una goccia di sangue a sua volta estratta dal corpo, non è necessariamente percepito dal paziente come ‘suo’. Scherzando, ma non troppo, un paziente ha disconosciuto la glicemia, si è dissociato dal dato glicemico definendola piuttosto ‘glice-tua’. “La glicemia non è un urlo del mio corpo ma un numero al quale il Medico attribuisce un significato.” 35 Rappresentazioni e realtà Sul piano cognitivo, il paziente cronico si trova davanti a una sfida culturale di difficile risoluzione: riceve delle informazioni precise sulla malattia e sulla sua gestione, che sono formulate in modo tale da essere comprese facilmente. Tuttavia, l’apprendimento è lento e difficile perché viene ostacolato da tutti i pregiudizi e le credenze false che circolano sia tra gli amici sia in famiglia. Di recente la ricerca si è concentrata, coerentemente con l’assunto dell’approccio centrato sul paziente, intorno alle rappresentazioni che il paziente ha nei confronti della salute e della malattia, alla sua percezione di autoefficienza nella gestione della malattia e alla fiducia nella medicina convenzionale, nelle cure e nei farmaci. È ormai noto come queste rappresentazioni giochino un ruolo forte nell’ostacolare o facilitare l’adesione del paziente alla terapia (Gentili et al., 2001, pp.140-152). Le rappresentazioni sono una negazione della realtà. La rappresentazione ostacola la terapia quando è usata per contraddire la realtà ordinaria e serve come rifiuto. Può invece essere usata per staccarsi dalla realtà senza contraddizione. Quest’ultimo processo permette di lavorare con la rappresentazione psichica invece che con l’oggetto reale in modo da tornare all’oggetto reale in un modo nuovo. Il primo uso della negazione stabilisce una realtà psichica difensiva da usare come rifiuto; l’ultimo uso stabilisce una realtà psichica che arricchisce il contatto con la realtà ordinaria. Proprio perché gli è richiesto di essere il gestore della sua patologia, il paziente ricorre a un suo modello interpretativo della malattia e della applicazione terapeutica. Questo modello scaturisce – magari rielaborato in forma personale – da un intricato sistema di credenze e rappresentazioni che fanno parte della sua cultura e della sua storia personale. Tale reazione è dettata in particolare dalla paura di una malattia invisibile. 36 Sembra che nei paesi occidentali queste rappresentazioni, frutto di esperienze molto personali, stentino a collocare correttamente la patologia cronica. Si può ipotizzare che nella mentalità di oggi lo scenario che Spinsanti chiama della “guarigione sufficiente” (Spinsanti, 2000, pp.5-8) trovi meno spazio di quanto non accadesse alcune generazioni or sono. La patologia tende a essere ospedalizzata, oggetto – a volte con grande successo – di cure e interventi che prevedono la separazione del paziente dal circuito normale della vita. Patologia coincide con separazione (temporanea) dal corpo sociale, handicap, ostracismo. Se la cura ha successo, il paziente rinasce e ritorna (l’analogia con i riti di separazione e di passaggio di molte popolazioni primitive è forte) nella comunità, sano. È noto come la nostra cultura occidentale abbia scacciato la morte rimuovendola anche fisicamente: non viviamo più a fianco di animali o parenti che muoiono. Ospedali e cronicari, macelli e cimiteri sono stati via via fisicamente espulsi dalla città. Si è invece fatto strada uno scenario di salute assoluta, apollinea. Nelle riviste di divulgazione medica capita di vedere gli articoli dedicati a una patologia affiancati a immagini assolutamente antifrastiche: anziani in piena salute, donne senza una ruga o un segno, non dico di patologia ma anche solo di realismo. Questa immagine della ‘salute assoluta’ contrasta con una realtà che vede un numero sempre maggiore di persone muoversi all’interno di una ‘salute sufficiente’, nella quale l’invecchiamento naturale del corpo o l’eventuale patologia cronica (diabete, obesità, ipertensione, allergia, asma, celiachia, ipertiroidismo… e citiamo patologie che solo in Italia caratterizzano milioni di persone) è reso compatibile con una normale vita di lavoro e di relazione. Il paziente che torna a casa con una diagnosi di patologia cronica è accolto in un ambiente che non dispone di una 37 interpretazione socialmente condivisa della sua condizione. Non riesce a trovare una collocazione fra i poli opposti e ambedue inappropriati della ‘perfetta salute’ e ‘della malattia-morte’. Per proteggersi dal senso di vuoto creato dalla sua condizione di malato cronico ricorre alla fantasia ed elabora una rappresentazione personale della malattia e della sua eventuale cura. Spesso Aldo Maldonato ricorre al paradosso: “La persona con il diabete non è malata. La persona con il diabete è seriamente malata” e sottolinea che ambedue le affermazioni sono vere. Così facendo il massimo esponente italiano dell’Educazione terapeutica riconosce implicitamente come il paziente debba muoversi in uno spazio cognitivo assai stretto e scivoloso. È facile intuire che questo doppio messaggio – esplicitamente e implicitamente trasmesso – aumenta la confusione del paziente e alimenta la sua ambivalenza. Tutti questi elementi sarebbero già di per sé fonte di disorientamento. A questo si aggiunge l’ipotesi che sul piano psicodinamico la situazione sia ancora più complessa. Nelle prossime pagine proveremo a illustrare alcuni aspetti delle reazioni dei diabetici, allo scopo di far capire quali possono essere le poste emotive che la diagnosi di diabete e la glicemia mettono in gioco in un numero non marginale di situazioni. 38 Passeggiate nel bosco La scissione: getto il diabete fuori di me La scissione è un meccanismo di difesa arcaico al quale ricorre il paziente con una personalità fragile per proteggere la sua sopravvivenza emotiva. I pazienti che non riescono a gestire la glicemia ricorrono spesso alla scissione per difendersi dal dolore di una malattia impensabile, indipendentemente dalla loro struttura di personalità. “Sebbene la scissione sia considerata l’operazione difensiva chiave nei pazienti con disturbo di personalità borderline”, scrive Gabbard (1995, pp. 274-276) essa può essere osservata in tutti i pazienti con altri disturbi di personalità. La scissione è un meccanismo di difesa inconscio che separa attivamente gli uni dagli altri i sentimenti contraddittori: le rappresentazioni buone di sé e degli oggetti sono tenute separate dalle rappresentazioni cattive di sé e degli oggetti. La scissione può essere vista come una modalità biologica fondamentale di organizzazione dell’esperienza, per mezzo della quale ciò che è minaccioso viene separato da ciò che è minacciato. Per esempio, il diabete, minaccioso, è tenuto separato dal mio corpo buono, minacciato. A scatenare la scissione è un dolore intollerabile che il soggetto vuole mantenere lontano. Può la diagnosi di diabete scatenare da sola questa reazione? Probabilmente no. Il 39 dolore provocato dalla diagnosi di una malattia impensabile riattiva il pericolo di una impensabile angoscia come “essere senza alcuna relazione con il corpo in un’età immatura” (Winnicott, 1969). Come detto, è probabile che una ferita narcisistica conseguente alla violenza subita nell’infanzia sia riattivata dalla diagnosi di diabete e confermi l’indegnità del paziente. Per non lasciarsi schiacciare, il sé traumatizzato dall’evento è stato messo da parte. Non è stato integrato nel sé costituito che è stato protetto e difeso dalla costruzione di un falso sé. La prima difesa alla quale questo paziente sembra ricorrere è lo spostamento mediante il quale “l’ansia associata a una fonte inconscia è reindirizzata verso un sostituto conscio” (Gabbard, 1995, p.30). Questa ansia, che è legata a un sentimento inconscio di vergogna e d’indegnità, viene spostata sulla glicemia. La glicemia (prima ancora che una entità astratta rappresentativa del diabete) diviene responsabile di tutti i suoi problemi fisici, psichici o di relazione. Il diabete diventa ‘impensabile’, ‘indicibile’, e viene buttato fuori dal corpo. Riassumendo: attraverso il meccanismo della scissione, il diabetico con una glicemia mal controllata tenderebbe a separare la glicemia ‘minacciosa’ dal suo corpo ‘minacciato’ e a buttarla fuori da sé attraverso il meccanismo di difesa della proiezione. Dopo avere ‘buttato fuori’ il diabete dal proprio corpo, il paziente cerca di proteggersi ricorrendo essenzialmente a due meccanismi di difesa scelti in relazione alla propria personalità. Quando si comporta come se il diabete non esistesse, ricorre al diniego che secondo Glen O. Gabbard (1995, p.46) “è una difesa dalla realtà del mondo esterno, quando questa realtà viene sentita come terribilmente disturbante”. Se il diabetico è soggetto ad attacchi di panico, ricorre all’identificazione proiettiva, che secondo Gabbard (1995, pp. 274-276), permette al paziente d’i- 40 dentificarsi con ciò che ha proiettato. Il soggetto che proietta ha la fantasia di controllare ciò che ha proiettato. Crede di potersi liberare di quel che non gli piace di se stesso. Quando la diagnosi di diabete è vissuta come una realtà sconvolgente, il diniego permette al paziente di assumere un atteggiamento di totale indifferenza nei confronti del diabete che non gli appartiene, mentre l’identificazione proiettiva gli permette di controllare un nemico imprevedibile, impossibile da affrontare a causa del terrore paralizzante che suscita. In questi casi, il paziente considera il diabete un ‘problema del diabetologo’ se non una sua ‘invenzione’. Quanto al diabetico, ignorando la malattia e il programma terapeutico elaborato per la sua cura, egli tende inconsciamente a colpire il proprio corpo che lo ha tradito. Sembra che la relazione tra il funzionamento del corpo e quello della personalità si interrompa. L’intervento del medico, un richiamo all’Io corporeo provoca una fuga nell’intellettuale. Il paziente ‘scinde’ le cure mediche, non le applica al suo corpo. La scissione è una delle cause fondamentali della debolezza dell’Io che viene privato di un’essenziale fonte di energia per la propria crescita. Un Io debole rischia di essere influenzato dai contenuti mentali inconsci accompagnati da una inscindibile costellazione emozionale. Il risultato di questo processo molto complesso e faticoso è l’incapacità di riflettere e di fare programmi a lunga scadenza. Il paziente può formulare molte domande, guidate dalla paura di qualcosa che non conosce, ma non è in grado di recepire le risposte. I meccanismi di difesa ai quali ricorre indeboliscono la sua mente. 41 La sfida della scissione e l’Educazione terapeutica Nei primi incontri di psicoterapia psicoanalitica capita spesso che il paziente diabetico affermi di non capire perché si deve curare, si deve sottoporre a dei sacrifici notevoli quando si sente bene. Si deve affrontare la dissociazione sottintesa a questa apparente ‘ingenuità’ ed evitare di fornire ulteriori informazioni cliniche. Il trauma infantile riattivato dalla diagnosi di diabete deve essere guardato apertamente. Lo psicoterapeuta psicoanalitico gioca un ruolo decisivo nel dosare il livello di esposizione al trauma tollerabile dal paziente. Non vi sono alternative reali. Secondo il testo, Il Diabeteistruzioni per l’uso, “la cura del diabete è un investimento per il futuro e, come ogni investimento, si basa su un atto di fede” (Maldonato et al. 1995). È difficile immaginare come una persona che non vuole o non può fare programmi, possa investire per il futuro. Sempre dallo stesso libro si rileva che il diabetico non deve limitarsi a “correre dietro ai disturbi”, ma deve accettare “gli strumenti fondamentali della cura: dieta, farmaci e attività fisica, che opportunamente combinati, consentono di equilibrare ogni tipo di diabete”. L’obiettivo sembra dunque essere la ricerca dell’equilibrio a livello biologico. È difficile capire come si possa fare accettare un concetto di equilibrio a una personalità scissa che, secondo Kernberg è caratterizzata da determinate manifestazioni cliniche: 1) l’espressione alterna di comportamenti e atteggiamenti contraddittori, cui il paziente guarda senza preoccupazione e con un blando diniego; 2) un’assenza selettiva di controllo degli impulsi; 3) la compartimentazione di ciascuna persona dell’ambiente in settori ‘tutto buono’ o ‘tutto cattivo’, che viene spesso indicata con i termini idealizzazione e svalutazione; 42 4) la coesistenza di rappresentazioni contraddittorie di sé che si alternano l’una all’altra’. (Gabbard, 1995, pp. 274-276) La cura del diabete rappresenta un paradosso: propone un programma terapeutico basato su un concetto di equilibrio a una persona che non si rende conto delle proprie contraddizioni e che tende a sfuggire le situazioni che non capisce. Il paziente paralizzato dal suo terrore non sente la comunicazione del Medico. Il paziente nega la diagnosi di una malattia impensabile. Winnicott (1969) ritiene che il Medico sia portato a dedicarsi eccessivamente al trattamento fisico e alle tecniche operative mentre il disturbo è nella psiche del paziente e non nel soma. Forse aiutandolo a realizzare un’integrazione psiche-soma gli si permette di diventare consapevole dell’esistenza del suo corpo e della necessità di prendersene cura invece di ignorarlo o di colpirlo. In mancanza di un intervento che favorisca l’integrazione della psiche con il soma, non solo non si raggiungono gli obiettivi di autocontrollo ma si pongono le basi per una relazione negativa tra Medico e paziente. Il Medico che ‘insiste sul diabete’ costringe il paziente a prendere coscienza di qualcosa che secondo lui non esiste. Il paziente si protegge isolandosi mentalmente e proiettando le sue emozioni sul Medico che diventa un persecutore, mentre la malattia, la glicemia, diventa un mostro in agguato sempre pronto a colpirlo e dal quale non può difendersi. La personalità scissa può essere gestita solamente con una psicoterapia psicoanalitica capace di accogliere la sofferenza del paziente e di percorrere con lui il cammino verso una integrazione tra il corpo e la psiche che gli permetta di riconoscere la glicemia come parte del proprio corpo. Questo lavoro avrà come fine di comprendere le origini e i significati inconsci dei propri sintomi e del proprio comportamento e sarà possibile quando le resistenze 43 saranno modificate dagli interventi dello psicoterapeuta. Data la fragilità dei diabetici che non riescono a gestire la glicemia, lo psicoterapeuta psicoanalitico deve avere capacità di empatia che è considerata lo strumento fondamentale della psicoterapia e indica la capacità di un individuo di sentire ciò che un altro sente. L’empatia è una identificazione temporanea e cosciente con il paziente con lo scopo di capirlo. Il meccanismo di difesa della negazione Quando una persona si trova di fronte alla diagnosi di diabete, la prima difficoltà da affrontare è l’accettazione della malattia. La scoperta di una malattia cronica che indebolisce l’immagine del proprio sé è stata associata all’elaborazione di un lutto. Secondo questo approccio il paziente passa attraverso cinque fasi: negazione della realtà, ribellione, contrattazione, depressione con speranza, accettazione. Il Medico dovrebbe essere in grado di seguire e aiutare il paziente in ognuna di queste fasi molto delicate, partendo proprio dal primo passo che permette al diabetico di affrontare la malattia: la negazione. Secondo (Gentili et al. 2001) il paziente formula una rappresentazione mentale del diabete e della terapia. Questa rappresentazione può influenzare la sua adesione al programma terapeutico. Le rappresentazioni che il paziente ha nei confronti della medicina, della salute e della malattia (con particolare riguardo alla percezione di autoefficienza nella gestione della malattia, la fiducia nella medicina convenzionale, le cure, i farmaci, ecc...) possono ostacolare o facilitare l’adesione del paziente alle cure. 44 È importante, in particolare, che si venga a stabilire una sorta di corrispondenza tra le rappresentazioni del paziente e quelle del Medico. La migliore adesione può essere ottenuta se i bisogni reali del paziente sono soddisfatti da una terapia che corrisponde alle sue rappresentazioni e aspettative, pur riconoscendo le costrizioni che la vita quotidiana impone all’individuo. I modelli interpretativi ai quali ricorre il paziente si basano solo in parte su una cultura medicoscientifica. Come è noto, il paziente ha un intricato sistema di credenze e di rappresentazioni che fanno parte della sua cultura e che influenzano il suo modo di gestire la malattia. Capire questo sistema è un elemento importante del processo educativo, necessario per correggere le convinzioni del paziente, basate su preconcetti. Si deve stabilire un’interazione tra paziente e Medico che deve tenere conto della dimensione relazionale e delle sue implicazioni. Il Medico deve riuscire ad accettare il paziente come una persona nella sua totalità e dedicare il tempo necessario per un approccio biomedico, psicosociale e educativo. Entrare in sintonia con le rappresentazioni del paziente significa per lo psicoterapeuta accogliere la fase di negazione della realtà oggettiva. Questa infatti svolge una funzione importante. Nel corso di una conferenza sui sentimenti e l’uso che se ne fa in psicoanalisi e in psicoterapia, André Green ha parlato degli affetti, delle emozioni, nei confronti delle rappresentazioni o degli affetti come rappresentazioni. Il tema è complesso in quanto l’esperienza clinica mostra che se una persona vuole rimanere in contatto con i propri sentimenti deve separare processo affettivo e funzione intellettuale (cit. in Kohow, 1999). Detto in altri termini la consapevolezza intellettuale deve essere mantenuta repressa in modo da permettere all’emozione di diventare cosciente. Questo è appunto lo spazio nel quale si inserisce la negazione. L’incapacità del 45 diabetico di diventare consapevole della sua malattia dipende da un atto di negazione. La negazione ha una doppia funzione: può essere usata per contraddire la realtà ordinaria o può essere usata per staccarsi da essa senza contraddizione. Quest’ultimo processo permette di lavorare con la rappresentazione psichica invece dell’oggetto reale in modo da tornare all’oggetto reale in un modo nuovo. Il primo uso della negazione stabilisce una realtà psichica difensiva da usare come rifiuto. Il secondo è un momento di passaggio che lo psicoterapeuta psicoanalitico deve accettare senza contrastarlo in modo da mantenere la sintonia con le rappresentazioni del paziente. Accade però spesso che il diabetico, anche molto tempo dopo la diagnosi, ancora non sappia come gestire la glicemia, rifiuti la realtà della malattia e affermi: “Il diabete non so che cosa sia” oppure: “La glicemia è una preoccupazione del diabetologo”. Altre volte si dichiara impotente a gestirlo, pur avendo ricevuto tutte le informazioni del caso. Va detto che il diabete si presta a essere considerato più di altre patologie croniche come una ‘invenzione del Medico’. Il paziente insomma nega il diabete anche perché può permettersi di farlo senza entrare in conflitto con troppi dati di fatto. Il diabete non dà segni palesi né dolori. Come detto prima, la negazione serve a costruire una realtà psichica che favorisce o ostacola il contatto con la realtà ordinaria. La realtà psichica è costituita dalla rappresentazione e queste esistono proprio in quanto l’oggetto concreto è negato, non può essere accolto. La negazione è dunque un elemento essenziale nella costituzione della realtà psichica. Il doppio uso della negazione e la doppia funzione della realtà psichica rappresentano per Green il lavoro del negativo e fanno luce sul significato del ricorso alla negazione per essere liberi o limitati. L’uso della negazione può promuovere lo sviluppo dell’Io o bloccarlo. Diventa 46 uno strumento utile per affrontare la crescita pur tenendo conto del vissuto originario di perdita o di assenza. Il diabetico e in generale chi ‘ha perso la salute’ può arrivare attraverso ‘il lavoro del negativo’ alla presa di coscienza di non corrispondere al proprio Io ideale. “Forse non sono più la persona sana che pensavo di essere?”, si chiede il paziente. L’Io ideale crolla. La persona sana non esiste più. “Non ho più un’identità. Devo crearmene una nuova?” L’atto di negazione permette di affrontare la realtà della perdita, che apre la porta a una nuova esperienza, a una nuova relazione di oggetto e a nuovi ideali. Questa è la forma ristrutturante del lavoro del negativo. Questo processo si può definire l’uso costruttivo della negazione. Il diabetico che ricorre alla rappresentazione della malattia deve essere aiutato a elaborare questa rappresentazione per arrivare all’accettazione della realtà: il diabete e la perdita della salute. L’identificazione proiettiva Si tratta di un meccanismo di difesa che il paziente mette in atto quando la negazione della realtà-diabete non garantisce una protezione sufficiente. La disperazione impedisce alla persona con il diabete di prendere coscienza dei cambiamenti che si sono verificati nel suo corpo e di capire che cosa significhi diabete, gestione della glicemia, complicanze. Il paziente ‘entra in conflitto’ con il suo corpo. Non capisce perché deve dedicare tanta attenzione a un corpo che lo ha tradito e che gli fa sperimentare di nuovo sofferenza. Quindi lo ‘punisce’ non curandolo, senza volere o potere rendersi conto che va incontro a danni irreversibili. In questo contesto, il diabetologo che insiste sull’esistenza e sull’importanza della malattia diventa una minaccia 47 dalla quale proteggersi con un processo inconscio trifasico attraverso il quale aspetti propri vengono attribuiti a qualcun altro. Il paziente proietta nel diabetologo parti della sua personalità che disconosce, in questo caso i suoi ‘oggetti interni’ ritenuti cattivi associati al diabete. Il diabetologo diventa un interlocutore ‘cattivo’ che ‘non lo capisce’. Il paziente si domanda perché dovrebbe curare un diabete che per lui non esiste. Non per caso il paziente spaventato pronuncia di rado la parole ‘diabete’ e tende a dire: “Io non ho alcun problema. Non capisco cosa voglia da me il diabetologo”. La malattia e la sua cura si prestano a rappresentazioni antitetiche nel Medico e nel paziente. Il diabetologo è inconsciamente influenzato da quanto viene proiettato su di lui. L’aggressività del paziente rischia di attivare quella del Medico. Quando il terrore del paziente paralizza anche il Medico, l’intervento di uno psicoterapeuta psicoanalitico sarebbe utile per accogliere il dolore del paziente, comprendere il significato del suo terrore o della sua indifferenza. Quando è necessario, una psicoterapia psicoanalitica permette di processare psicologicamente e modificare il materiale proiettato e restituirlo al paziente che lo reintroietta. La trasformazione del materiale introiettato modifica a sua volta la corrispondente rappresentazione del sé e il relativo modello di relazionalità interpersonale. Questa trasformazione ottenuta attraverso la relazione psicoterapeutica dovrebbe facilitare la collaborazione tra Medico e paziente con lo scopo di raggiungere una corrispondenza di rappresentazioni della malattia e degli interventi utili per curarla. 48 Narcisismo maligno A volte questa risposta è esasperata e il soggetto affronta l’angoscia di annientamento sfidando la morte. I diabetici affetti da patologie psichiche caratterizzate dal narcisismo maligno tendono a usare in modo sistematico la glicemia per colpirsi, forse per suicidarsi o per colpire i familiari che stanno sempre in stato di allarme per il malato, ignorando la vera fonte del malessere. Il narcisismo maligno si manifesta all’interno di un contesto familiare difficile dove la madre tende ad assumere un ruolo dominante e intrusivo mentre il padre spesso è assente o preferisce non assumere responsabilità nella gestione di quanto accade in casa. Il malessere che rischia di svilupparsi in questo tipo di famiglia è all’origine del conflitto che è facilmente spostato sul figlio più fragile che diventa la vittima designata. Se questo figlio è diabetico, il conflitto familiare pre-esistente viene spostato sulla glicemia. Il problema assume connotati drammatici quando si tratta di adolescenti che sono già alle prese con un corpo che sta cambiando e che hanno difficoltà a riconoscere. Il diabete, soprattutto se esordito da poco, rappresenta un ulteriore elemento di differenziazione sia dall’infanzia che dai loro pari con i quali non si possono identificare. La reazione all’isolamento è una profonda rabbia che li induce a colpire questo corpo che li ha traditi. Con grande abilità questi pazienti, veri esperti del diabete, usano la glicemia per distruggersi. A volte essi soffrono di bulimia o di anoressia che diventano strumenti potenti per mantenere la glicemia costantemente alta o per provocare ipoglicemie (Scalabrino, Gentili, Maldonato 1998, pp. 283-286). Nell’adolescente, il diabete diviene come uno ‘strumento’ che serve a mettere in atto comportamenti auto ed eteroaggressivi e, secondo Farberow (1979), la sua gestione può diventare spesso l’espressione di un comportamento 49 indirettamente suicidario, anche se ogni intenzionalità viene negata dal paziente. La cattiva gestione del diabete nell’adolescente rappresenta una condizione di suicidalità assai diffusa che, specie quando sono presenti problemi di ristrutturazione dell’identità, si può interpretare come l’espressione di un grave narcisismo distruttivo. Gli aspetti distruttivi del narcisismo, coniugati alle dinamiche proprie dell’adolescenza, esasperano gli aspetti onnipotenti e idealizzati del soggetto e tendono a distruggere qualunque rapporto oggettuale positivo, nonché quelle parti di sé bisognose sia di autonomia che di aiuto (Winnicott, 1969). Con questo tipo di pazienti la motivazione ricostruttiva proposta dal diabetologo entra in clamoroso conflitto con la motivazione distruttiva del paziente, guidato da una rabbia che lo spinge compulsivamente a colpirsi. Nonostante la violenza delle forze in gioco, nulla sembra emergere alla normale visita medica. Anzi è possibile che il paziente in questa situazione assuma un atteggiamento di totale indifferenza. Sarebbe importante incontrare la famiglia quando si tratta di adolescenti o di bambini che sono dipendenti dal sostegno familiare per esistere. L’esperienza mostra che un buon controllo della glicemia dipende molto da una famiglia che funziona bene. Se il paziente è soddisfatto della sua vita e riceve un buon sostegno familiare potrà cavarsela bene. Se la famiglia è ‘invischiata’, la vicinanza emotiva dei suoi componenti è tale che tutti credono di conoscere i sentimenti e i pensieri di ognuno di loro. Ne deriva un eccesso di vicinanza affettiva che provoca ansia e disagio con l’incorporamento del sé dell’uno nel sé dell’altro. In questo caso, il paziente, essendo più vulnerabile, rischia di diventare la vittima designata di questa famiglia che tenderà a spostare su di lui il problema di relazione presente al suo interno (Bowen, 1979). Questo coinvolgimento eccessivo potrà avere effetti negativi sullo sviluppo del bambino o dell’adolescente diabetico. 50 Oltre l’educazione terapeutica In grande sintesi, quanto scritto finora può essere riassunto in due concetti: Gli approcci terapeutici al diabete presumono che l’acquisizione delle conoscenze sia necessaria per un controllo migliore della glicemia, anche se l’esperienza e gli studi rivelano che la relazione tra conoscenza e buona autogestione non è diretta. La relazione fra Team diabetologico e paziente è incentrata sull’aspetto cognitivo, mentre nel vissuto del paziente sono forti e prevalenti gli aspetti emotivi. Potremmo aggiungere un terzo concetto: l’obiettivo ultimo di un sistema sanitario così come di ogni ‘curante’ è il benessere globale del paziente. Questo benessere, soprattutto laddove si parla di patologie e condizioni croniche, non può essere limitato all’aspetto biologico. L’intervento quindi deve essere o aspirare a essere globale. Deve quindi prendere in considerazione gli aspetti psichici ed emotivi del paziente. Infatti il successo o il fallimento nella gestione della glicemia dipende dal tipo di personalità del paziente. In molti casi è proprio la fragilità emotiva del paziente a facilitare l’insorgenza della malattia e a rendere difficile la sua cura. 51 Uno psicoterapeuta psicoanalitico nel Team diabetologico Come tradurre in concreto questi principi? Una soluzione è quella di considerare la psicologia psicodinamica come uno degli strumenti da adottare nella gestione delle persone con il diabete e quindi prevedere la presenza di uno psicoterapeuta psicoanalitico come parte del Team diabetologico. Ovviamente lo psicoterapeuta non ha in mano la bacchetta magica. Non può garantire risultati, ma dispone di conoscenze, approcci e metodologie che sono diversi e complementari a quelli degli altri professionisti impegnati nella cura del diabete. Nei casi più difficili, lo psicoterapeuta potrà ricorrere alle sue facoltà empatiche. L’empatia è la capacità che ogni individuo ha – in misura maggiore o minore – di ‘sentire’ ciò che un’altra persona ‘sente’, e può sviluppare durante la sua formazione professionale. È una identificazione temporanea cosciente con il paziente con lo scopo di capirlo. L’empatia caratterizza in misura maggiore o minore molte delle relazioni interpersonali. Anche uno psicoterapeuta psicoanalitico trasforma in strumento psicodinamico l’empatia per aiutare il paziente quando lo percepisce come molto fragile, per cercare di avvicinarsi alla sua disperazione. In un ambito di cura l’empatia è uno strumento, non un fine a se stesso. Lo psicoterapeuta dovrebbe avere raggiunto un assetto mentale alternante tra la capacità empatica e la valutazione cognitiva della situazione dinamica, come scrive Brierley tra il sentire ‘con’ il paziente e il sentire ‘sul’ paziente (Brierley, 1937). L’empatia è il primo passo di un processo che non si limita ad accogliere la sofferenza del paziente, ma lo aiuta a trasformare le sue proiezioni, restituendogliele modificate. A loro volta le rappresentazioni possono essere influenzate da questo processo di trasformazione. 52 L’empatia nel rapporto di cura è un lavoro nel quale il piano umano (io e il mio interlocutore siamo due persone e ci rispettiamo come tali) è un punto di partenza ma nel quale è anche chiara la differenza fra chi ha l’esperienza per gestire un processo e chi ha bisogno di aiuto. La psicoterapia psicoanalitica dovrebbe essere messa a disposizione del paziente che, terrorizzato dalla diagnosi di diabete, non riesce a gestire la sua paura oppure che, dopo aver seguito il corso di Educazione terapeutica, non riesce a ricordare le informazioni ricevute perché continua a essere dominato dal panico. L’azione dello psicoterapeuta psicoanalitico non contrasta quella degli altri professionisti che curano il diabete. Egli lavora sui significati, cerca di capire che cosa rappresenti per il paziente il diabete, come mai incute tanto terrore, quale pericolo evochi e quale trappola nasconda. Ma il suo lavoro con il paziente è sinergico con quello del diabetologo. Lo psicoterapeuta psicoanalitico mira a indebolire e trasformare, insieme al paziente, le barriere psicologiche che impediscono l’autogestione efficace. Cerca di capire, insieme al paziente, le difficoltà riscontrate nel raggiungere gli obiettivi terapeutici. In una parola si può dire che la psicoterapia ha come scopo di aiutare il paziente a crescere e a trovare un buon equilibrio interiore che gli permetta di progettare, programmare e, fra le altre cose, soddisfare le aspettative del Medico. I risultati di un percorso psicoanalitico riuscito vanno ben oltre la possibilità di cogliere i benefici dell’Educazione terapeutica. Accompagnata da un intervento ‘nel profondo’ la malattia cronica può portare a una trasformazione della personalità che permetta l’integrazione del diabete nella propria identità. Può diventare la spinta verso la crescita. In questo senso è importante che il personale sanitario capisca non solo l’approccio ma anche gli obiettivi che un percorso psicoanalitico si pone. Un primo obiettivo, raggiungibile già nei primi colloqui è quello di ‘accogliere per 53 intero’ il paziente come persona, e non limitarsi a sollecitare la sua parte intellettuale. La presenza di uno psicoterapeuta psicoanalitico fa del Team un ambiente in cui un paziente disperato può dire di essere disperato e può chiedere che sia accettata, riconosciuta questa disperazione. Che forma può assumere questo intervento? L’accoglienza è importante ma non basta in alcuni casi. Il paziente può utilmente intraprendere un percorso di psicoterapia psicodinamica di sostegno o ricostruttiva. Secondo Canestrari il fine ultimo del lavoro psicoterapeutico è una ristrutturazione della mente tale da consentire un più libero investimento delle pulsioni sugli oggetti nuovi del campo percettivo, siano essi interni o esterni, evitando la ripetitività mortificante della condizione nevrotica. La flessibilità, quindi, diventa lo scopo del lavoro. Questa capacità di reagire agli stimoli esterni può anche essere dolorosa. In questo senso, a differenza del Medico che ritiene di avere successo quando elimina un sintomo, lo psicoterapeuta potrebbe ritenersi soddisfatto quando il suo paziente inizia a percepire il sintomo stesso e a dargli un significato. Winnicott afferma che “se avremo successo metteremo il paziente nelle condizioni di poter abbandonare l’invulnerabilità e diventare una persona che soffre” (Winnicott, 1969). Molti gruppi di lavoro diabetologici si sono dotati, in una maniera o nell’altra, dell’ausilio di psicologi. Non tutti però hanno saputo coglierne le valenze ‘interne’. Spesso questa figura è considerata semplicemente un ausilio da offrire al paziente in difficoltà, magari tenendolo un po’ a distanza. (Mi è successo di sentir dire a un paziente: “Se ha bisogno, nella stanza a fianco c’è lo psicologo”.) Invece di rappresentarne una appendice, lo psicoterapeuta potrebbe divenire parte integrante del Team. Proprio nella misura in cui è titolare di un approccio diverso, può aiutarne i membri a lavorare meglio. Questo intervento può avvenire in tre direzioni: la più intuitiva è l’appoggio all’equilibrio stesso dei membri del 54 Team. Il Medico deve aver raggiunto lui stesso un certo equilibrio o perlomeno essere consapevole delle proprie emozioni e saperle gestire. La frustrazione dovuta alle ripetute situazioni di incomprensione e di scacco è sempre latente nel lavoro degli operatori sanitari. Scrive Franco Fornari che ogni operatore sanitario saprà e potrà dare il suo contributo professionale più efficace nella misura in cui nella propria storia profonda avrà già saputo realizzare con armonia gli equilibri relazionali entro cui si potrà liberamente e consapevolmente esprimere il linguaggio dei codici affettivi (cit. in Longo, 1997). Nelle situazioni di scacco, l’intervento dello psicoterapeuta psicoanalitico, abituato ad affrontare le dinamiche inconsce, potrebbe aiutare il diabetologo a gestire la sua angoscia verbalizzando il conflitto. In un secondo senso invece il ruolo dello psicoterapeuta psicoanalitico nel Team può essere complementare. La sua formazione gli permette di lavorare con emozioni anche negative, angosce e vissuti che non trovano cittadinanza nel ‘giardino’ dell’ottimismo terapeutico. Suggerimenti per una evoluzione dell’Educazione terapeutica Devo scrivere in prima persona ora, perché quanto mi accingo a dire deriva unicamente dalla mia esperienza personale. Aver fatto parte di un Team che fra i primi si è mosso nell’ambito dell’Educazione terapeutica mi ha mostrato quanto siano grandi i potenziali di rinnovamento e di evoluzione non solo nella prassi ma anche nella capacità del Medico e dei suoi collaboratori di modificare l’idea che hanno di se stessi come professionisti. Alla generazione di medici che ha saputo approfondire e adottare l’Educazione terapeutica è possibile quindi lanciare alcune sfide. 55 Comprendere e rispettare il sintomo Il Medico può trovarsi in conflitto con l’atteggiamento prescrittivo e con l’abitudine a interpretare il sintomo come pura negatività. La presenza dello psicoterapeuta psicoanalitico lo aiuta a non cadere nel riflesso condizionato di volerlo eliminare (e nella conseguente frustrazione se questo si rivela impossibile). Per il paziente, il sintomo è un segnale di malessere. Ascoltiamolo come richiesta di aiuto e come espressione della sua sofferenza. Comprendere il sintomo (per esempio la glicemia che rimane alta) significa aiutare il paziente a scoprire quale significato attribuisce alla glicemia. Se questa rappresenta per il paziente solamente una causa di frustrazione, si trasforma in quello che Bion chiama un “oggetto interno cattivo” che può solo essere evacuato dalla mente attraverso la modalità difensiva dell’identificazione proiettiva. Una psicoterapia psicoanalitica può aiutare il paziente a diventare più autonomo dalle figure interiorizzate frustranti. Questa trasformazione si dovrebbe riflettere nella relazione con il diabetologo che diventa più costruttiva. Tener conto che l’autocontrollo richiede una condizione di libertà e flessibilità Rendiamoci conto di quanto siano ambiziosi non tanto gli obiettivi del percorso di cura del diabete, ma le sue premesse. Fare autocontrollo presuppone infatti la capacità di progettarsi liberamente. Purtroppo molti pazienti fanno fatica a trasformare una vita basata su comportamenti automatici o abitudinari in una vita guidata da riflessioni e scelte adeguate da compiere durante la giornata. Molti non accettano questa libertà. Soffrono di quella che un mio paziente chiamava la ‘sindrome dell’ergastolano liberato’ il quale graziato non riesce a viversi come soggetto libero e agogna a tornare nella sicurezza del carcere (nel suo caso rappresentato dalla nevrosi). Diventare una persona autonoma, raggiungere quell’equi- 56 librio psichico sufficiente per affrontare il problema e trasformare il fantasma della glicemia in realtà è un obiettivo ambizioso. Non può essere dato per scontato come punto di partenza della cura del diabete, altrimenti si rischia di adottare lo stesso approccio delle precedenti generazioni di diabetologi che davano per scontata la motivazione e si limitavano a prescrivere una cura. Diamo cittadinanza ai sentimenti negativi La persona che intende sviluppare una relazione di cura con il paziente cronico dovrebbe accettare la possibilità di essere investito dai sentimenti negativi del paziente. L’incontro fra Medico e paziente non avviene in un territorio neutro nel quale la risposta emotiva oscilla fra la blanda riconoscenza e una sostanziale indifferenza. Il paziente è invece spesso scosso nel profondo dalla diagnosi e dalla lettura quotidiana della glicemia. Per molti pazienti, i meccanismi della negazione, della scissione e della identificazione proiettiva rappresentano un ‘perverso’ processo di cura per proteggersi da una temuta minaccia di annientamento. La priorità che questi pazienti si pongono non è l’equilibrio biologico, ma un assestamento psichico che li difenda dalla angoscia di frammentazione, cioè dal timore di impazzire o di morire, che la diagnosi di diabete ha riattivato e riesce facilmente ad alimentare. Non minimizziamo l’impatto della patologia In molte occasioni troviamo descritto il diabete di tipo 2 come una ‘condizione’. Si esita a definire ‘pazienti’ le persone con il diabete. Si dice che “non sono propriamente malati”. Non sta a me dire se queste cautele siano corrette o meno sotto il profilo clinico. Una parte consistente dei pazienti percepisce però il diabete come una malattia molto seria: una minaccia alla propria incolumità. Il diabete ha infatti tutte le potenzialità, tutte le ragioni per sca- 57 tenare una reazione di angoscia in molti pazienti. È una malattia subdola, che erode dall’interno i meccanismi fondamentali dell’organismo; è una malattia che non si rivela con sintomi e segni ma ‘per interposta persona’ attraverso quel dato glicemico che viene ‘estratto’ dal corpo e ha le potenzialità per apparire non un parametro, ma un ‘fantasma’. Angoscia dell’annientamento, ricerca della morte Il diabete di tipo 2 è prevalentemente una malattia dell’età adulta, se non della terza età. Getta un ponte fra la condizione attuale e la morte. Paradossalmente ne facilita l’attesa. La morte diventa una liberazione. È temuta e ricercata. Un paziente di 74 anni, che era riuscito a perdere 20 chili, e che veniva in psicoterapia per cercare il sostegno necessario per continuare a seguire una dieta ipocalorica mi ha detto un giorno: “Se fossi sicuro di morire subito, ricomincerai a mangiare e a ingrassare fino alla morte”. Per questo tipo di paziente, il cibo diventa uno strumento per sfidare la morte. L’angoscia di morte è più violenta e più forte nei giovani, con diabete di tipo 1. Sentono la necessità di sfidarla e si attivano perché avvenga realmente usando come strumento l’insulina che dosano male o si astengono dall’assumere. Minimizzare la portata della malattia potrebbe quindi non essere la scelta più corretta da parte del Team poiché il paziente riceve un doppio messaggio che è ambivalente e aumenta la sua confusione. Più in generale, l’Educazione terapeutica se vuole andare oltre un dialogo con la sola parte intellettuale del paziente che può divenire una finzione o una trappola deve sapersi confrontare con le angosce a volte psicotiche dei pazienti. Per raggiungere davvero questo obiettivo è necessario il sostegno di uno psicoterapeuta psicoanalitico. Ma il primo passo deve essere compiuto dagli operatori sanitari in Diabetologia. 58 Di fronte al paziente che non riesce a stabilire un autocontrollo, il diabetologo e i suoi collaboratori dovranno saper abbandonare l’approccio psicopedagogico e assumere un atteggiamento introspettivo sia nei confronti del paziente, sia di se stessi. “Come mai questa persona non mi sente?”. “Dove sbaglio? Perché provoco in lui una reazione di chiusura?”. L’introspezione dovrebbe provocare nel Medico una maggiore apertura e permettere al paziente di non avere paura o di avere meno paura. Se la relazione non migliora, nonostante l’atteggiamento nuovo del diabetologo, forse il sostegno di uno psicoterapeuta psicodinamico può essere utile. Si tratta di inserire lunghe cure fra gli strumenti erogati dagli operatori sanitari coinvolti nella cura del diabete. Quello che in queste pagine si propone è – me ne rendo conto – un approccio costoso. D’altra parte non vi è, a ben vedere, molta scelta. I medici che si trovano relativamente privi di strumenti nell’affrontare il paziente che non trae giovamento dall’approccio ‘adulto’ dell’Educazione terapeutica, dovranno forse accettare una realtà molto dura: i limiti della Medicina. Prendendo coscienza che la Medicina non può fare tutto il Medico potrebbe accettare la collaborazione dello psicoterapeuta psicoanalitico. Questi porterebbe una esperienza, una metodologia e una ricchezza di strumenti e riflessioni nel lavoro di tutti gli operatori impegnati nella cura del diabete e non solo del paziente perché – come voi avrete certamente imparato – tutti i componenti del Team sono produttori di rapporti affettivi. La relazione affettiva con il paziente può essere un buon nido per la crescita di tutti. I pazienti, i familiari, i volontari, i professionisti possono aspirare a trarre dalla cura medica e dalla psicoterapia un ‘benessere cronico’. 59 Bibliografia AA. VV. (2001) L’educazione terapeutica della persona con diabete: competenze, strumenti, organizzazione. III congresso Roche Patient Care, Villa Erba 30 novembre-2 dicembre 2000. AA.VV. (1999) Dossier: il gioco della libertà in medicina. L’arco di Giano, 19, pp.101-102. AA.VV. (1999) L’educazione terapeutica del paziente diabetico: attualità e prospettive. I congresso Roche Patient Care, Villa Erba 19-21 novembre 1998. AA.VV. 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In questi casi il Team diabetologico deve saper abbandonare l’approccio psicopedagogico e assumere un atteggiamento introspettivo sia nei confronti del paziente sia di se stesso, accettando anche la collaborazione con uno psicoterapeuta. Psicologo clinico e psicoterapeuta psicoanalitico, Anna Maria Scalabrino collabora con i diabetologi e il personale sanitario del Centro per la Cura del Diabete, II Clinica Medica, Policlinico Umberto I, Università La Sapienza di Roma. I suoi lavori approfondiscono l'incidenza delle dinamiche inconsce sulla gestione di una malattia cronica come il diabete. Glicemia, diabete e vissuti dei pazienti