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Un fantasma nel mio corpo Un fantasma nel mio corpo

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Un fantasma nel mio corpo Un fantasma nel mio corpo
Anna Maria Scalabrino
Un fantasma
nel mio corpo
Alcune persone con il diabete, pur essendo ben
informate e pur presentandosi regolarmente ai controlli in Ambulatorio, mantengono un mediocre controllo glicemico. Il piano cognitivo, prediletto dai
Medici, si mostra insufficiente.
Medico e paziente si muovono infatti anche nella
‘giungla’ delle emozioni, un ambiente intricato dove
valori come l’angoscia e l’aggressività possono fare
premio sulla logica e guidare la motivazione. In questi casi il Team diabetologico deve saper abbandonare l’approccio psicopedagogico e assumere un atteggiamento introspettivo sia nei confronti del paziente
sia di se stesso, accettando anche la collaborazione
con uno psicoterapeuta.
Psicologo clinico e psicoterapeuta psicoanalitico, Anna
Maria Scalabrino collabora con i diabetologi e il personale sanitario del Centro per la Cura del Diabete,
II Clinica Medica, Policlinico Umberto I, Università La
Sapienza di Roma. I suoi lavori approfondiscono l'incidenza delle dinamiche inconsce sulla gestione di una
malattia cronica come il diabete.
Glicemia, diabete
e vissuti dei pazienti
Anna Maria Scalabrino
Un fantasma
nel mio corpo
Glicemia, diabete
e vissuti dei pazienti
Roche Diagnostics
Editing: In Pagina - Milano
Grafica: www.ideogramma.it
Stampa: Phasar Book
In copertina: disegno di Sergio Bellotto
Gennaio 2004
Ringrazio Alberto Pattono per la sua collaborazione
nella redazione del testo
INDICE
capitolo 1
capitolo 2
Prefazione di Aldo Maldonato
pag.
Da oggetto a soggetto
Il diabete e la sfida delle malattie croniche
La centralità della motivazione
Autocontrollo e educazione sanitaria
Mettere in relazione le rappresentazioni
del paziente e del diabetologo
Quando il paziente è la malattia
Lo scacco e la frustrazione dei diabetologi
A chi ‘fa bene’ l’Educazione Terapeutica?
Reazioni di fuga alla proposta terapeutica
pag. 11
11
12
13
Oltre lo specchio
I presupposti psicologici dell’Educazione
terapeutica
Seduzione intellettuale e risposta difensiva
del paziente: il falso sé
Autocontrollo: un obiettivo ambizioso
Il diabetologo nella giungla delle emozioni
L’elaborazione del lutto
L’idea del corpo
Il metabolismo - funzione primordiale
Il fantasma della glicemia
Rappresentazioni e realtà
pag. 23
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capitolo 3
Passeggiate nel bosco
pag.
La scissione: getto il diabete fuori di me
La sfida della scissione e l’Educazione terapeutica
Il meccanismo di difesa della negazione
L’identificazione proiettiva
Narcisismo maligno
39
39
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47
49
capitolo 4
Oltre l’Educazione terapeutica
Uno psicoterapeuta psicoanalitico
nel ‘Team’ Diabetologico
Suggerimenti per una evoluzione
dell’Educazione terapeutica.
pag. 51
52
Bibliografia
pag. 61
55
7
PREFAZIONE
In questo suo scritto, Anna Maria Scalabrino mette bene in
evidenza – anche poeticamente – le caratteristiche peculiari
della malattia diabete e della relazione che si instaura fra
medico e paziente. La loro relazione non si svolge come
metaforicamente rappresentato nel giardino disegnato ‘all’italiana’ con siepi e aiuole manicurate e vialetti di ghiaia fine,
ma anche e soprattutto nella giungla delle emozioni, un
ambiente intricato dove valori come l’angoscia e l’aggressività fanno premio sulla logica e guidano la motivazione.
La dottoressa Scalabrino si è avvicinata alla diabetologia
alcuni anni fa frequentando in nostro Centro al Policlinico
Umberto I di Roma per il suo tirocinio di psicologia clinica…
e vi è rimasta.
Per numerosi anni ha affiancato pazientemente me e i miei
collaboratori nella quotidiana routine diabetologica e nello
svolgimento dei corsi ai pazienti e ai loro familiari, testimoniando i successi e gli insuccessi, le soddisfazioni e le frustrazioni e osservando con impassibile discrezione le relazioni, a
volte soddisfacenti a volte no, che ciascuno di noi instaurava
con i pazienti. Ad alcuni di loro affetti da disturbi psicologici
ha offerto un regolare sostegno, basandosi sul suo approccio
psicodinamico.
Sul nostro gruppo, da sempre impegnato sul fronte
dell’Educazione Terapeutica hanno avuto una certa influenza
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altre Scuole psicologiche, in particolare la Scuola Umanistica
che fa capo a Carl Rogers, i cui più moderni epigoni possiamo identificare nei portabandiera dell’empowerment del
paziente diabetico.
A questa complessità Anna Maria Scalabrino offre il contributo della sua formazione psicodinamica proponendo al diabetologo impegnato nello sforzo di realizzare compiutamente
l’approccio bio-psico-sociale indicato dalla moderna
Educazione Terapeutica, gli strumenti della psicologia del
profondo.
Il suo consiglio di includere uno psicoterapeuta psicoanalitico nel team diabetologico può forse sollevare qualche perplessità, ma le sue osservazioni sui meccanismi di difesa profondi instaurati da alcuni pazienti nei confronti del diabete,
dalla scissione alla negazione, dall’identificazione proiettiva
ai comportamenti autodistruttivi del narcisismo maligno,
devono farci soffermare a riflettere.
I suggerimenti dell’Autrice per un’evoluzione dell’Educazione
Terapeutica sono tutti validi e degni di attenta considerazione.
Infine mi sembra che non possa esservi augurio migliore di
quello espresso – ancora poeticamente – alla fine: che “la
relazione affettiva con il paziente possa essere un buon nido
per la crescita di tutti” gli attori coinvolti.
Per questo passaggio dalla malattia cronica al “benessere
cronico” di tutti, compresi gli operatori sanitari, quest’opera
si presenta come il miglior viatico.
Aldo Maldonato
Presidente, Diabetes Education Study Group
della European Association for the Study of Diabetes
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Da oggetto a soggetto
Il diabete e la sfida delle malattie croniche
In questa fase storica, la Medicina – e più in generale tutto
il mondo che ruota intorno al ‘prendersi cura’ – si accorge
della necessità di un cambio di paradigma. I successi ottenuti nella cura delle patologie acute e alcuni mutamenti
nello stile di vita rendono sempre più frequenti condizioni
croniche, le quali possono essere curate, ma non guarite.
La terapia della malattia cronica non si conforma al
modello Medico tradizionale nel quale il paziente è un
oggetto passivo. Secondo questo modello, al paziente
non si chiede di pensare né di prendere iniziative. Non c’è
posto per gli aspetti psicosociali che sono considerati
come interferenze rispetto all’obiettivo da raggiungere.
La terapia delle malattie croniche incontra un altro problema.
In uno studio recente sugli adolescenti l’autore ha osservato
la predominanza del ‘vissuto’ rispetto al ‘pensato’ (Raymond,
2000). Questa osservazione può applicarsi anche a molti adulti che, incoraggiati dai messaggi ricevuti dai mezzi di comunicazione, sembrano valorizzare il piacere e l’evasione dalla
realtà quotidiana. La medicina delle patologie croniche, al
contrario, invita le persone a fermarsi e a mettersi in condizione di riflettere. “In un mondo dove la tecnologia incoraggia e sfrutta le nostre tendenze onnipotenti” (Raymond, 2000)
la proposta di realizzare un cambiamento radicale del modo
di vivere spiazza il paziente. Per raggiungere l’obiettivo pro-
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posto egli deve quindi avere una motivazione sufficiente così
da non lasciarsi abbattere dalle difficoltà che incontra.
La centralità della motivazione
Con l’aumento delle malattie croniche e, in particolare, del
diabete mellito, il Medico è stato costretto a cambiare il
suo modello di riferimento, imparando a interagire con un
interlocutore più attivo e convinto delle sue scelte. In questo modello di cura, il paziente e la sua famiglia giocano un
ruolo attivo nella gestione della terapia (Maldonato et al.
1995). Qualunque cosa il personale sanitario possa prescrivere o suggerire, in ultima analisi il successo della cura
dipenderà dalla disponibilità del paziente, dalla sua motivazione a seguire il programma terapeutico concordato.
Sandro Spinsanti, uno dei teorici che hanno approfondito
le conseguenze di questo cambio di paradigma, nota
come laddove la medicina affronta una patologia cronica
“il Medico ha l’obiettivo di portare il paziente a contare su
sé stesso e a volte a forgiarsi una nuova identità”
(Spinsanti, 2000, pp. 5-8). Per raggiungere l’obiettivo concordato con il Medico, il paziente deve essere spinto da
una motivazione profonda e importante che lo induce a
trasformarsi e a crescere perché “nessuno ci può far crescere se non lo vogliamo”.
Una motivazione profonda è richiesta anche al Medico, che
si trova a svolgere un ruolo nuovo nel quale il buon esito
della terapia coincide con un atteggiamento meno autoritario e di minor controllo nei confronti del suo interlocutore. Più la persona con il diabete è consapevole e responsabile, meno il Medico avrà il controllo su quello che egli fa.
Tuttavia, il Medico rimane sempre l’autorità terapeutica di
riferimento, con il ruolo di guida dell’operato del paziente.
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Autocontrollo e educazione sanitaria
Parallelamente anche la tecnologia applicata alla terapia del
diabete si è evoluta. La persona con il diabete può controllare la variabile-chiave della sua condizione: la glicemia. Con
pochi gesti questa determinazione può essere effettuata
anche più volte al giorno, in momenti considerati indicativi
per elaborare un profilo glicemico che gli permette di verificare l’effetto delle decisioni prese, così come di impostare
nuove scelte. La flessibilità e la personalizzazione della terapia, unite alla possibilità di controllare la glicemia, ha portato
la Diabetologia a porre l’accento sugli aspetti didattici della
relazione di cura. L’educazione del paziente è considerata da
tempo uno dei pilastri della terapia.
Come ben riassume Jean Philippe Assal, il medico che più
ha riflettuto sulla relazione fra Medico e paziente nella
patologia cronica, la cura non dipende solamente dalle
medicine prescritte, ma anche dalle informazioni che il
paziente riceve sulla sua malattia e dalla capacità del
paziente di gestire tutti gli aspetti del programma terapeutico. Il metodo usato per aiutarlo ad accettare la terapia
consiste nell’Educazione terapeutica che è descritta da
Assal come “un ponte fra il paziente, la sua famiglia e le
barriere che ostacolano il passaggio delle informazioni provenienti dal personale sanitario” (Assal, 1994, pp. 11-15).
Alcuni Centri di Diabetologia hanno elaborato approcci
metodologici nonché vere e proprie ‘linee guida’ che prevedono l’organizzazione di corsi di Educazione terapeutica, articolati in più giornate, differenziati per tipologia di
pazienti. Una particolare menzione, per l’attività svolta in
questo ambito, merita il GISED (Gruppo Italiano di Studio
sull’Educazione terapeutica) fondato nel 1980 dal Professor
Aldo Maldonato. A questi corsi si affianca la continua attività di messa a punto e ‘manutenzione’ delle conoscenze,
operata dal Medico e dai suoi collaboratori: gli infermieri,
altri medici specialisti, dietisti e psicologi.
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Come è noto, l’Educazione terapeutica parte dalla constatazione della insufficienza della semplice educazione
sanitaria. Se la sola informazione fosse davvero un elemento essenziale della terapia, dovrebbe essere possibile
mettere in relazione la conoscenza della malattia da parte
del paziente con la qualità del suo controllo metabolico.
In realtà, benché gli educatori presumano che l’acquisizione delle conoscenze garantisca un controllo migliore
della glicemia, molti studi (Day, 1994, pp. 113-118) rilevano che non esiste una relazione fra conoscenza e buona
autogestione. Per molti ricercatori questa contraddizione
sottolinea il ruolo delle credenze del paziente nei confronti della sua salute e la sua motivazione ad applicare le
regole apprese. Senza togliere l’accento dall’aspetto
informativo, la riflessione della Diabetologia più avanzata
si è quindi spostata sull’aspetto motivazionale.
L’insieme delle riflessioni che vanno sotto il nome di
Educazione terapeutica rappresenta per molti versi il fronte più avanzato della riflessione sulla relazione tra personale sanitario e paziente nella gestione della malattia cronica. Avviata da Assal, la riflessione sulla relazione terapeutica è stata approfondita in Italia in ambito diabetologico dal GISED nella sua attività formativa e nel corso dei
workshop organizzati da Roche Diagnostics a Villa Erba
negli anni 1998, 1999 e 2001.
Le differenze tra l’Educazione sanitaria e l’Educazione
terapeutica sono rilevanti. Diversamente dall’Educazione
sanitaria, che è concentrata in momenti specifici,
l’Educazione terapeutica è un processo che dura tutta la
vita del paziente, in quanto si tratta non solo di trasferire
delle conoscenze sulla malattia e sulla sua gestione, ma
anche di mantenere il desiderio e la volontà di metterle in
pratica. Nell’Educazione terapeutica le convinzioni e le
credenze del paziente sono fondamentali. Il paziente
deve essere aiutato a verbalizzarle così come a illustrare
tutte le esigenze della sua vita quotidiana. Il programma
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terapeutico ne deve tenere conto e si deve inserire fra
queste cercando di rispettarle.
Mettere in relazione le rappresentazioni
del paziente e del diabetologo
In un lavoro piuttosto recente (Gentili et al. 2001, pp.140152), Paolo Gentili, psichiatra e psicoterapeuta psicoanalitico, che si è interessato all’Educazione terapeutica, sottolinea l’utilità di un nuovo termine quando si riferisce
all’atteggiamento del paziente nei confronti della gestione del diabete. Parla di adesione (adherence) al programma terapeutico e non più di ubbidienza (compliance) al
diabetologo. Gentili sostiene che l’adesione alla proposta
del Medico è un fenomeno multifattoriale; sottolinea al
riguardo l’importanza delle rappresentazioni del paziente
nei confronti della medicina, della salute e della malattia
con particolare attenzione alla propria capacità di gestire
la malattia e le confronta con le rappresentazioni del
Medico. Queste rappresentazioni possono essere un vero
ostacolo per la gestione della malattia o possono facilitarla. La migliore adesione al programma terapeutico si
ottiene se i bisogni reali del paziente sono gratificati, e la
terapia corrisponde alle rappresentazioni del paziente e
soddisfa le sue aspettative.
Dalla letteratura passata in rassegna si deduce che, per il
paziente, esiste una relazione significativa tra le sue rappresentazioni del diabete e della cura, e l’adesione al programma terapeutico. Questa scoperta importante costituisce un campo ancora poco esplorato nella pratica
medica e nella ricerca. Il successo della cura sembra
dipendere dal grado di coincidenza tra le rappresentazioni del paziente e quelle del Medico (Gentili et al. 2001).
Secondo Gentili, occorre che il Medico “per essere efficace, vada incontro ai bisogni reali del paziente e sin dal
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momento della prescrizione, adatti il più possibile le prescrizioni e i consigli alle loro credenze e aspettative
tenendo contemporaneamente conto delle costruzioni
che la vita di ogni giorno impone all’individuo”.
Quando il paziente è la malattia
Nonostante i suoi sforzi per adattarsi alle esigenze del
paziente, il Medico tende a contare sulla razionalità e
offre al paziente degli strumenti che potrebbe utilizzare
grazie alle sue facoltà mentali quali la ragione, l’intelletto
e la volontà (Scalabrino, 2003). Se il paziente ha un equilibrio psichico relativamente buono, riuscirà a adattarsi alla
nuova situazione con il sostegno dell’Educazione sanitaria
e terapeutica.
Spesso, però, diabetologo e paziente si confrontano su
livelli diversi. Il Medico propone una cura basata sulla
razionalità, mentre il paziente adotta una propria versione
della terapia. Ha delle idee in proposito che non confesserà mai al Medico che considera intrusivo perché gli chiede di cambiare completamente la sua vita senza interessarsi dell’immagine che il paziente ha di sè stesso.
Purtroppo quando la malattia è cronica, il paziente è la
malattia. Si difende da questa situazione con la negazione
e continua a comportarsi nella vita come se la malattia non
esistesse. Risponde alla richiesta razionale del Medico con
una ricerca spasmodica di piacere e di scarico immediato
della tensione provocata da questa richiesta.
I modelli interpretativi ai quali ricorre il paziente si basano
solo in parte su una cultura medico-scientifica. Il paziente ha
un intricato sistema di credenze e di rappresentazioni che
fanno parte della sua cultura e che influenzano il suo modo
di gestire la malattia. Capire questo sistema è un elemento
importante del processo educativo, necessario per correggere le convinzioni del paziente, basate su preconcetti.
16
Si deve stabilire un’interazione tra paziente e Medico che
deve tenere conto della dimensione relazionale e delle
sue implicazioni. Il Medico deve riuscire ad accettare il
paziente come una persona nella sua totalità e dedicare il
tempo necessario per un approccio biomedico, psicosociale e educativo. Fare uso di rappresentazioni significa
mettere da parte per il momento l’oggetto rappresentato
(Scalabrino, 2003). Il diabetico che ricorre alla rappresentazione della malattia deve essere aiutato a elaborare
questa rappresentazione per arrivare all’accettazione
della realtà, il diabete.
Ci vorrà tempo prima che la cura della salute diventi una
abitudine, poiché richiede un cambiamento complesso: si
deve passare da un approccio tradizionale, biomedico, a
un approccio integrato bio-psico-sociale. È importante che
la rappresentazione del diabete e della sua terapia sia
presa in considerazione nella letteratura. È stato riscontrato che queste rappresentazioni hanno un impatto considerevole sull’adesione dei pazienti al programma terapeutico. La letteratura esaminata in questo studio rivela che il
paziente ricorre a un suo modello interpretativo della
malattia e della richiesta terapeutica. Gestisce la malattia in
un modo molto personale. Purtroppo questo aspetto è
ancora poco esplorato nella prassi medica e nella ricerca.
Lo scacco e la frustrazione dei diabetologi
Il particolare investimento emotivo richiesto ai diabetologi dalla Educazione terapeutica rende un eventuale fallimento ancora più difficile da accettare. Una volta accertato che il mancato successo non dipende da un deficit d’informazione, né da una insufficiente applicazione dei principi dell’Educazione terapeutica stessa, la risposta dei
diabetologi è spesso di profonda frustrazione. La relazione con il paziente è bloccata.
17
Questo studio intende partire proprio dal punto in cui
molti interventi terapeutico-educativi risultano stagnanti,
prendendo le mosse da questa stasi, per soffermarsi sulle
esperienze fatte con diabetici che pur presentandosi
regolarmente alle visite diabetologiche e pur avendo
seguito un accurato corso di Educazione continuano ad
avere un cattivo equilibrio glicemico.
L’esperienza clinica è partita dall’osservazione della relazione medico-paziente durante le visite diabetologiche in
ambulatorio e dai colloqui con i pazienti e i loro familiari
durante i corsi di educazione alla gestione del diabete.
Una valutazione più approfondita è stata sperimentata
con i pazienti che sono stati seguiti in psicoterapia psicoanalitica una volta alla settimana per periodi che vanno
da due a cinque anni e che hanno permesso di approfondire la relazione tra lo stato psichico ed emotivo del
paziente e la gestione della glicemia.
Così come l’Educazione terapeutica non ha negato l’importanza dell’Educazione sanitaria ma ha cercato di inserirla in un contesto più ampio e profondo – che tiene
conto del paziente come persona con le sue abitudini,
credenze, paure, pregiudizi ed emozioni – la stasi nel rapporto con molti pazienti ha indotto il Medico impegnato
nell’Educazione terapeutica a prendere atto dell’esistenza
del pensiero emotivo oltre al pensiero logico-razionale.
Su questa base si può quindi sviluppare un nuovo approccio nei confronti della gestione della malattia che tiene
conto della relazione tra Medico e paziente e della modalità di prescrizione da parte del Medico che deve saper
valutare la motivazione del paziente.
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A chi ‘fa bene’ l’Educazione terapeutica?
L’Educazione terapeutica rappresenta un tentativo molto
recente, intellettualmente sofisticato e umanamente
generoso. Implica da parte dei medici una revisione profonda dei presupposti stessi del loro agire. L’idea che il
Medico ‘per essere efficace, vada incontro ai bisogni reali
dei pazienti e sin dal momento della prescrizione adatti il
più possibile le prescrizioni e i consigli alle loro credenze
e aspettative, tenendo contemporaneamente conto delle
costruzioni che la vita di ogni giorno impone all’individuo’
è divenuta ormai ‘cultura diffusa’ secondo Paolo Gentili
(2001). Pur tuttavia non si può nascondere che l’obiettivo
dell’adesione risulta difficile da realizzare. Medico e
paziente hanno bisogno di rappresentazioni equivalenti
della malattia e della sua gestione per costruire un linguaggio comune comprensibile da tutti e due.
Numerose evidenze indicano che se i risultati raggiunti dai
Centri che hanno abbracciato l’Educazione terapeutica
siano migliori di quelli ottenuti da altri Centri. Tuttavia i diabetologi che praticano l’Educazione terapeutica conoscono molti fallimenti.
Molti studi hanno permesso di osservare che la persona
capace di adattarsi e di trarre il maggiore beneficio dalla
cura di una malattia cronica come il diabete, è quella che
crede nelle proprie risorse interiori e non chi si affida alla
sorte o agli eventi esteriori. Questi studi sono utili per
capire le differenze individuali che esistono tra i pazienti,
le loro preferenze all’interno dei programmi terapeutici, le
procedure di monitoraggio e l’efficacia della terapia
(Gentili et al., 2001, pp. 140-152).
I diabetici che hanno un equilibrio psichico relativamente
buono e che sono aperti a nuove esperienze hanno una
flessibilità interiore che li mette in condizione di utilizzare
al meglio la competenza professionale dei diabetologi.
Questo gruppo riesce a adattarsi alle nuove regole di vita
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se riceve un sostegno adeguato e le informazioni utili per
una buona gestione della malattia. L’atteggiamento mentale che guida la loro vita sociale e affettiva si riflette nei
valori della glicemia che ha un andamento accettabile.
Questi diabetici ‘sani’ possono trovare giovamento nei
corsi di Educazione poco dopo la diagnosi del Medico. La
gestione equilibrata della dieta, dell’attività fisica e dell’insulina si riflette nell’andamento della glicemia che a
sua volta è espressione della loro salute mentale.
Per questo gruppo di pazienti l’adesione alla terapia è
semplice poiché attribuisce al termine ‘motivazione’ lo
stesso significato scelto dal diabetologo, il quale sostiene
che “la partecipazione attiva alla cura richiede la volontà
di farlo, cioè la motivazione a creare il buon equilibrio glicemico, derivante dalla conoscenza obiettiva dei rischi
connessi con il cattivo controllo e della possibilità di evitarli” (Maldonato et al., 2001, p.182).
Il diabetologo sembra contare sulla razionalità del paziente, che deve essere in grado di operare delle scelte valendosi delle sue facoltà mentali. Il Medico fornisce gli strumenti che il paziente deve sapere utilizzare per controllare
la sua salute (Canestrari, 1984, p.327). Nello studio sulla
rappresentazione della malattia da parte del paziente, gli
autori si riferiscono a un modello cognitivo d’intervento sul
paziente secondo il quale il comportamento nei confronti
della salute deriva da un’unica decisione razionale, basata
su un’analisi costo-beneficio (Gentili et al., 2001, pp.140152). Questo modello è adatto al tipo di paziente con un
equilibrio mentale relativamente buono, capace di adattarsi a nuove condizioni di vita.
20
Reazioni di fuga alla proposta terapeutica
Molte persone con il diabete, abitudinarie e rigide, non
riescono ad accettare i cambiamenti. Non sono capaci di
adattarsi alla situazione nuova dettata dalle regole terapeutiche proposte. Questo tipo di diabetico non riesce a
gestire la glicemia e si comporta come se la malattia non
esistesse. Spera di scongiurare il pericolo ignorandolo; è
vittima della sua fragilità, di un Io debole incapace di
accettare la realtà. Forse la diagnosi di diabete riattiva in
lui il dolore di una violenza fisica o psichica subita nell’infanzia che non vuole sperimentare di nuovo. Preferisce
trovare un modo per fuggire da qualsiasi esperienza che
provochi dolore immediato.
La disperazione gli impedisce di prendere coscienza dei
cambiamenti che si sono verificati nel suo corpo e di capire che cosa significhino il diabete, la gestione della glicemia, le complicanze. Non comprende perché deve dedicare tanta attenzione a un corpo che lo ha tradito e che gli
fa sperimentare di nuovo sofferenza. Non lo cura, senza
volere o poter rendersi conto che va incontro a delle complicanze, con danni a effetto irreversibile.
La prima difesa alla quale questo paziente sembra ricorrere, è lo spostamento mediante il quale “l’ansia associata a
una fonte inconscia è reindirizzata verso un sostituto conscio”(Gabbard, 1995, p.30). L’ansia legata a un sentimento
inconscio di vergogna e d’indegnità è spostata sulla glicemia, che diventa responsabile di tutti i suoi problemi
fisici, psichici o di relazione. L’andamento della glicemia
riflette in questi casi anche la struttura della personalità
sottostante.
Questo tipo di paziente risponde alla proposta razionale
offerta dal Medico con l’edonismo che Hobbes considera
il principio motivazionale dell’uomo, essenzialmente competitivo nella spasmodica e conflittuale ricerca del piacere e nel rifuggire il dolore (Canestrari 1990, p.269).
21
Un concetto simile è stato proposto da Freud, il quale ha
chiamato principio del piacere quanto spinge l’individuo a
evitare il dispiacere e a cercare il piacere con un dispendio minimo di energia. Questa ricerca porta a ignorare la
realtà esterna e i limiti imposti dall’organismo, che Freud
definisce principio di realtà (Boulanger, 1984, pp.60-61).
La richiesta del Medico, vissuta come severa, aumenta la
tensione, porta dispiacere e motiva la ricerca di una possibilità di scarico immediato.
Con questo gruppo di pazienti il termine ‘motivazione’
assume un significato diverso per il Medico e per il
paziente. Esiste una divergenza profonda tra la proposta
di una cura attiva e programmata da parte del Medico,
basata sulla razionalità, e la risposta passiva del paziente.
22
Oltre lo specchio
I presupposti psicologici
dell’Educazione terapeutica
Nonostante la sua riflessione si svolga quasi interamente
intorno a dinamiche interpersonali o intrapsichiche,
l’Educazione terapeutica è nata nell’ambito della Medicina
interna e si è sviluppata all’interno della Diabetologia,
prima, e di altre discipline internistiche poi. I suoi epigoni
si sono impadroniti di una serie di metodologie esistenti e
le hanno adattate alle situazioni cliniche di loro interesse.
Questo non significa che i riferimenti dell’Educazione
terapeutica non possano essere rintracciati all’interno
dello sviluppo storico della psicologia e precisamente
all’interno delle metodologie comportamentiste e cognitiviste. Comportamentismo è il nome dato a una serie di
riflessioni evolutesi in contrapposizione alla psicologia
sperimentale di William Wundt, che tiene conto del soggetto. Infatti per Wundt “la psicologia viene concepita
come la scienza dell’esperienza immediata dei processi
psichici nella loro relazione con il soggetto” (Cit. in
Canestrari, 1984, pp.1-5). Watson, il fondatore del comportamentismo riteneva possibile una psicologia puramente fenomenologica, che ritagliasse come suo oggetto
solamente quanto può essere descritto e misurato (il comportamento quindi e non il pensiero né il vissuto). Tra gli
strumenti che si ispirano alla psicologia comportamentale
23
troviamo le tecniche di modificazione del comportamento
come la contrattazione delle contingenze di rinforzo e
l’automonitoraggio (Feste, Anderson, 1994).
L’approccio cognitivista “subisce il paradigma dell’elaboratore di informazioni” (Canestrari, 1984). A differenza di
quanto accade nel comportamentismo, i processi cognitivi sono analizzati dal cognitivismo ma in quanto funzioni
organizzative. Il sistema nervoso centrale è inteso come
un organizzatore-elaboratore di informazioni che provengono dall’esterno e dall’interno. La psicologia cognitivista
ha il compito di elaborare dei modelli che spieghino in
che modo sono organizzate le funzioni cognitive, cioè
quei processi che comportano trasformazioni, elaborazioni, riduzioni, immagazzinamento recuperi e altri impieghi
delle informazioni sensoriali. Comportamentismo e cognitivismo condividono due aspetti che spiegano la facilità
con la quale sono stati utilizzati dalla Educazione terapeutica (e dalla formazione aziendale, un altro settore che ne
ha fatto un ampio uso).
In primo luogo si tratta di metodologie “simil-mediche”.
Carli (1987) spiega come è facile affrontare i disturbi psichici ricorrendo al classico modello medico e riscontrare una
analogia fra l’intervento di uno psicologo clinico e quello di
qualsiasi altro Medico specialista alle prese con un sintomo. Il modello comportamentista, e inizialmente il modello
cognitivista, si sono limitati ad affrontare il sintomo senza
tenere conto della vita emotiva e inconscia del paziente.
Secondo questo approccio, l’oggetto dell’intervento può
essere individuato e rimosso, così come avviene in un intervento medico classico. Da una parte il comportamentismo,
per una precisa scelta di campo, non va a cercare dinamiche profonde, dall’altra il cognitivismo si rivolge principalmente alla parte intellettuale del soggetto.
Più recentemente il cognitivismo ha tenuto conto della
personalità globale del paziente, e parte ora dal presupposto che il soggetto elabori attivamente una risposta
24
allo stimolo esterno in base a quello che ha dentro di sé.
Il cognitivismo attuale prende in considerazione i gradini
intermedi del processo mentale. Gran parte dei processi
cognitivi sono di tipo inconscio. Sono cioè processi ‘silenti’ che non si possono tuttavia ignorare.
Seduzione intellettuale e risposta difensiva
del paziente: il falso sé
Un aspetto comune a queste due teorie è l’appello alla
parte razionale dei due contraenti della relazione.
Secondo lo psicoanalista Franco Fornari (1976), i codici
affettivi usati nella comunicazione umana sono tre: genitoriale, bambino, adulto. Generalmente nella relazione fra
Medico e paziente si instaura il codice genitore-bambino.
Nell’Educazione terapeutica il Medico tende a fare evolvere la relazione da un codice genitore-bambino a un
codice adulto-adulto che mobilita le qualità adulte nell’interlocutore e può aiutarlo a uscire da una relazione
senza sbocchi. Un esempio di codice adulto è la tecnica
della contrattazione attraverso la quale gli obiettivi e i singoli elementi della terapia sono oggetto di una ‘trattativa’
fra Medico e paziente. Questa trattativa, oltre a rimarcare
la flessibilità e la personalizzazione della terapia, mira a
creare un clima di fiducia reciproca.
L’approccio dell’Educazione terapeutica si inserisce in un
contesto di ‘credenze’ comuni alla professione medica
che potremmo definire ‘ottimismo (o razionalismo) terapeutico’. Secondo la filosofia razionalista seguita da tutti
gli appartenenti alle professioni mediche, una persona
adeguatamente informata può operare delle scelte terapeutiche corrette valendosi delle sue facoltà mentali quali
la ragione, l’intelletto e la volontà. L’intelletto indica cosa
la volontà dovrà o potrà conseguire. Questa facoltà non è
considerata esclusiva di chi esercita una professione medi-
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ca ma di ogni essere umano, compresi quindi i pazienti.
Il personale sanitario ritiene insomma che l’elemento principale dell’agire dell’uomo sia la ragione (Canestrari,
1984) e immagina quindi che il comportamento del
paziente possa derivare da un’unica decisione razionale
basata su una analisi costo-beneficio. Compito del personale sanitario sarebbe di offrire le informazioni necessarie
nella maniera migliore (Gentili et al., 2001, pp. 140-152).
Va detto che in molti casi questo approccio dà ottimi risultati. Con un sostegno adeguato e le informazioni utili per
gestire la malattia, i pazienti che hanno un equilibrio psichico relativamente buono e che sono pronti a sperimentare mostrano di adattarsi alle nuove regole di vita.
In questi casi esiste una buona intesa nell’interazione tra
le rappresentazioni e le credenze che sia il paziente sia il
diabetologo hanno nei confronti della malattia e della sua
terapia. Questa intesa può avere un peso notevole nell’adesione alla cura. Si crea uno scambio nella comunicazione tra paziente e diabetologo che non si limita a fornire le
informazioni utili ma prende in considerazione anche la
dimensione relazionale e tutte le sue implicazioni (Gentili
et al. 2001).
Questi diabetici ‘sani’ traggono giovamento dai corsi di
Educazione e vedono nei periodici colloqui con il Medico
l’occasione per discutere il loro modo di gestire la glicemia e decidere eventuali modifiche. La gestione equilibrata della dieta, dell’attività fisica e dell’insulina si riflette nell’andamento della glicemia, che a sua volta è
espressione della loro salute mentale.
L’esperienza mostra però come, in alcuni casi, l’equilibrio
proposto dai diabetologi non risulti raggiungibile. Pur disponendo delle informazioni necessarie, il paziente non
riesce a gestire la glicemia. In realtà si comporta come se
la malattia non esistesse; spera di scongiurare il pericolo
ignorandolo.
In alcuni casi dietro questo comportamento, collaborativo
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con il Medico ma inefficace nella gestione quotidiana
della glicemia, c’è una difesa rappresentata dalla ‘identità duale’. L’approccio ‘adulto-adulto’ proposto dal
Medico incoraggia il paziente a sviluppare una doppia
identità, sia rispetto al corpo che al sé. La parte del corpo
sana e attiva collabora con i medici per curare la parte
malata, passiva. Ma al paziente non è mai permesso di
rilassarsi e di prendere una vacanza dalla sua responsabilità come, per esempio, dall’iniezione d’insulina. Il paziente risponde alla seduzione intellettuale insita nell’approccio dell’Educazione terapeutica, ricorrendo a un falso sé,
cioè a una maschera creata per compiacere il Medico. La
presunzione di razionalità che il personale sanitario estende al paziente diventa in alcuni casi una finzione molto
pericolosa. Può essere appagante per la parte intellettuale del Medico, ma – nonostante le apparenze – aumenta
l’ansia del paziente che non vede riconosciuta la sua
paura dell’ignoto. La chiusura del paziente delude il
Medico che vede l’inutilità del suo impegno.
Una ulteriore ‘trappola’ tesa involontariamente
dall’Educazione terapeutica è la definizione della gravità
della patologia. Quando tiene a sottolineare che i diabetici “in fondo sono sani”, il personale medico condivide
un approccio molto illuminato ma pone anche le basi per
una negazione.
Minimizzando le valenze emotive delle patologie e approfondendo l’aspetto volontaristico e motivazionale, il
Medico potrebbe ‘sedurre’ il paziente inducendolo a prestare il suo consenso al Medico. Questo è dannoso perché implicherebbe un abbandono del campo psichesoma e la fuga in una collusione intellettualistica come
avviene nella terapia comportamentista, che favorisce la
collusione tra il Medico e la parte intellettuale dell’Io del
paziente, accentuando la scissione dal corpo, sede della
disfunzione somatica ed espressione del disagio psichico.
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Autocontrollo: un obiettivo ambizioso
Si impone a questo punto una riflessione sul concetto che
sta alla base dell’Educazione terapeutica e in generale dell’approccio al diabete. Non vi è dubbio che l’autocontrollo, inteso in senso ampio, della glicemia rappresenti l’unico approccio realmente valido per la gestione del diabete,
per ritardarne l’insorgere, limitare l’incidenza e la gravità
delle complicanze. La tecnologia ha prodotto sistemi che
consentono di misurare in qualunque momento con pochi
semplici gesti la variabile chiave della sua condizione, la
glicemia, e di trascrivere il valore trovato in un quaderno in
modo da potere valutare il suo andamento.
Il personale sanitario ha raggiunto alti livelli di capacità
didattica e divulgativa nel trasferire ai pazienti e, quando
necessario, alle loro famiglie le informazioni necessarie
non solo per controllare la glicemia nei momenti più significativi della giornata, incoraggiare i pazienti a condurre
una vita più normale possibile e adottare una alimentazione sana, ma anche per intervenire adeguatamente in caso
di iper e ipoglicemie.
Quando propone al paziente l’autocontrollo, il Medico
presuppone che il suo interlocutore sia in grado di utilizzare il pensiero logico-razionale. Ma questi sembra guidato da quello che Freud ha chiamato il principio del piacere che spinge l’individuo a evitare il dispiacere e a cercare il piacere con un dispendio minimo di energia. Questa
ricerca porta l’individuo a ignorare la realtà esterna e i
limiti imposti dall’organismo, ciò che Freud ha definito
principio di realtà. La percezione di un aumento di tensione, con la richiesta del Medico vissuta come severa, o
addirittura persecutoria, porta dispiacere e la conseguente ricerca di una possibilità di scarico immediato.
L’intervento del Medico impone un esame di realtà che il
paziente teme e rifiuta.
Il Medico propone un percorso di benessere che tiene
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conto della realtà di un corpo malato e adotta il conseguente pensiero logico-razionale; al contrario il paziente
cerca il piacere immediato e nega la malattia, utilizzando
di conseguenza un pensiero emotivo.
‘Piacere’ e ‘benessere’ non sono sempre sinonimi. Si tratta anzi di termini che il mondo delle emozioni vive come
antitetici. Il benessere è legato a concetti come ‘riflettere’, ‘progettare’, ‘organizzare’. Significa spesso rinunciare
alla soddisfazione immediata, all’uovo oggi, in cambio del
benessere futuro, della gallina domani.
Parlare di autocontrollo a un paziente fragile significa fare
appello alla sua parte intellettuale e negare la sua sfera
emotiva che cerca il piacere immediato e detesta sia l’idea di benessere, sia quel corpo inadeguato, insufficiente che gli impedisce di abbandonarsi alla ricerca del godimento.
A sua volta questo odio si esprime spesso nel non-controllo che, in alcuni casi (lo si è visto in altre patologie: disturbi del comportamento alimentare, alcolismo, ecc.),
diviene aggressività verso il proprio corpo o, addirittura,
ricerca della morte, mentre in altri casi si esprime in una
sottovalutazione (“cosa può mai farmi di male mangiare
questa torta, astenermi dal cibo, bere questo whisky?”).
Quando proponiamo a un paziente fragile di divenire
‘padrone di se stesso’, gestore dei suoi processi metabolici, siamo sicuri di chiedere una cosa così semplice? E
soprattutto, siamo sicuri di andare incontro alle richieste
reali immediate del paziente?
Il diabetologo nella giungla delle emozioni
In realtà non deve sorprendere che Medici ben intenzionati, ben informati ed eccezionalmente ben equipaggiati
falliscano nei loro sforzi di curare disturbi che coinvolgono aspetti psicologici. Le forze in campo nel paziente
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sono terribilmente forti e i medici riescono a cavalcare
solo un cavallo, le cure biologiche, mentre conducono
l’altro per le briglie.
Questo studio vuole soffermarsi proprio sui pazienti che,
pur presentandosi regolarmente ai controlli diabetologici in
ambulatorio, e pur avendo seguito il corso di Educazione
organizzato dai Centri, continuano ad avere un mediocre
controllo glicemico.
Per interpretare queste situazioni, il diabetologo deve
essere cosciente che nella relazione con il paziente l’aspetto cognitivo (che abbraccia sia l’Educazione sanitaria
che quella terapeutica) rappresenta solo una delle modalità di relazione possibili.
Medico e paziente non contemplano solo il giardino della
razionalità, disegnato ‘all’italiana’ con siepi e aiuole manicurate e vialetti di ghiaia fine. La loro relazione si svolge
anche e soprattutto nella giungla delle emozioni, un
ambiente intricato dove valori come l’angoscia e l’aggressività fanno premio sulla logica e guidano la motivazione.
In primo luogo, il diabetologo dovrà essere cosciente del
fatto che, come chiunque ingaggi una relazione di cura,
sarà oggetto di fiducia e aspettative, forse di affetto. Ma
quando diventa causa di delusione e frustrazione può
diventare oggetto di odio. Il paziente che si sente proporre un programma terapeutico che ritiene impossibile
da mettere in pratica può considerare il Medico un ‘persecutore’.
In secondo luogo il diabetologo deve rendersi conto di
come la diagnosi di diabete ferisca il paziente e lo faccia
regredire a dei tempi remoti in cui ha ricevuto altre ferite
infantili che ha cercato di eliminare dalla coscienza. La
riattivazione della ferita infantile fa sì che la risposta emotiva alla diagnosi attuale possa sembrare sproporzionata
rispetto al problema clinico individuato.
In terzo luogo, il Medico dovrà essere cosciente di avere
suo malgrado un ruolo genitoriale. Il Medico e tutto il
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personale sanitario possono (e devono) mantenere la relazione su un piano adulto-adulto e proporsi al paziente a
un livello paritario. Di fatto però sul volto del Medico si
staglia l’ombra genitoriale. In filigrana, dietro le cautele e
le attenzioni dell’Educazione terapeutica, il paziente vede
comunque la figura del padre autoritario. Questo perché
il ruolo del Medico è da secoli tale (e questo stereotipo
finisce per essere presente anche laddove si cerca di
impostare una relazione nuova). Facilmente quindi la relazione va proprio nella direzione che il Medico avrebbe
voluto evitare, in un rapporto fra un Medico-genitore-persecutore e un paziente-bambino-vittima.
L’elaborazione del lutto
Nonostante abbia modo di constatare quotidianamente
l’impatto che la diagnosi di diabete ha sul paziente, il personale sanitario potrebbe giovarsi di una interpretazione
di questo impatto più complessa di quella che abitualmente viene data.
Dai colloqui clinici pare emergere che molti pazienti
temono di sperimentare di nuovo, di fronte alla diagnosi
di diabete, sentimenti di radicale impotenza vissuti
durante un eventuale trauma infantile. Questi sentimenti
impediscono al paziente di condividere con il Medico
una base cognitiva nei confronti della malattia (come si
approfondisce nel paragrafo seguente) e di mettersi in
relazione con un corpo generalmente poco amato e forse
anche odiato.
Il paziente diabetico considera l’insorgere della patologia
cronica come un attacco al suo senso di integrità. Le reazioni emotive possono essere: sgomento, paura, ansietà,
rabbia, protesta, tristezza, speranza. Se il paziente riesce ad
accettare la sua condizione, la sua integrità si rafforza. Se è
fatalista, si rassegna penosamente alla malattia per la quale
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solamente una evoluzione negativa (Lacroix et al., 1994, pp.
301,308,309).
Mancando nel diabete sintomi palesi, la diagnosi di diabete di tipo 2 si configura quindi – per quanto meditati
siano i modi attraverso i quali essa è comunicata – come
un ‘attacco’ o come un ‘giudizio’ da parte del Medico. “Mi
hanno trovato il diabete”, riferisce spesso il paziente, a
indicare che questa diagnosi non è condivisa né condivisibile (il paziente infatti “non si sente niente”). Si tratta di
una diagnosi che viene dall’esterno e che è quindi potenzialmente aggressiva.
Accettare questo nuovo stato di ‘non-salute’ implica per il
paziente l’elaborazione del lutto rispetto allo stato di salute precedente. L’elaborazione del lutto non è un processo
di ‘riparazione del danno’, né un lento dimenticare una
persona o una situazione con la progressiva sostituzione
di persone ed eventi nuovi.
Il lutto è un momento caratteristico di ogni passaggio. Lo
sviluppo della personalità non avviene in maniera omogenea, ma attraverso una serie di trasformazioni, ognuna
delle quali comporta il lutto per lo stato precedente. Non
vi è anzi crescita senza un processo di elaborazione del
lutto della situazione precedente, processo che può essere anche lungo. Non sempre però dal lutto si esce. Il rimpianto per la situazione precedente può paralizzare il passaggio a una fase nuova.
L’idea del corpo
I diabetologi sanno bene come la diagnosi di diabete (e più
in generale di una malattia cronica) scuota profondamente
il paziente. In questo senso forse minimizzare la gravità
della patologia può non essere il modo migliore per entrare in sintonia con il paziente. Secondo Assal la diagnosi è
all’inizio di un processo di accettazione della patologia che
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passa attraverso cinque fasi: di negazione della realtà,
ribellione, contrattazione, depressione con speranza, e da
ultimo la non sempre raggiunta accettazione.
L’esperienza mostra come questo cammino possa richiedere lunghissimo tempo al paziente e al personale sanitario oppure apparentemente interrompersi soprattutto in
una delle prime due fasi. Occorre quindi approfondire, utilizzando anche gli strumenti della psicologia del profondo,
questi momenti e, prima ancora, la rappresentazione che
una diagnosi mette in crisi, cioè quella del corpo.
Il medico e psicoanalista inglese Winnicott ha avuto il
merito di approfondire la relazione che intercorre tra psiche e soma. La base del sé si trova nel corpo. Esiste una
interrelazione tra il bambino che cresce e il suo corpo. Un
legame stabile tra la psiche e il corpo rappresenta una
conquista sana che si stabilisce gradualmente. La tendenza verso l’integrazione nei suoi diversi significati comprende la personalizzazione. La base della personalizzazione, che può essere descritta come un insediamento
della psiche nel soma, va ricercata nell’abilità della madre
o della figura materna di unirvi il suo coinvolgimento personale, che, originariamente è fisico e fisiologico. La scissione della psiche dal corpo è un fenomeno regressivo
che impiega residui arcaici per stabilire un’organizzazione
difensiva.
La malattia psicosomatica implica una scissione nella personalità dell’individuo con un indebolimento del legame
tra psiche e soma, o una scissione organizzata nella mente
a difesa dalla persecuzione diffusa che viene da un
mondo ripudiato. Rimane però nella persona malata una
tendenza a non perdere completamente il legame psicosomatico sul quale si deve lavorare per facilitare l’integrazione. Proprio perché intrinsecamente problematico, il
rapporto con il corpo, che pure caratterizza in maniera
problematica soprattutto l’adolescenza, è a volte oggetto
di scarso interesse anche nell’età adulta.
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A differenza di una malattia acuta, che propone una drammaturgia che spesso ha una urgenza e una dinamica che
esentano dalla riflessione, la diagnosi di una malattia cronica impone al paziente un ripensamento della relazione
con il proprio corpo. “Questo corpo non mi sostiene più”
– pensa il paziente – “e non mi procura più il piacere che
ricerco ma si ammutina e si rivolta contro di me. Si rifiuta
di svolgere correttamente una funzione basilare come il
metabolismo e mi costringe a incontrarlo come tale e
venire a patti con lui”.
Il metabolismo - funzione primordiale
A molti diabetologi è capitato di chiedersi come mai la diagnosi di diabete possa dare origine a una risposta emotiva
così profonda. Il fatto è che il paziente diabetico considera
l’insorgere di questa malattia cronica come un attacco al
suo senso d’integrità. Si tratta di una malattia metabolica, e
il metabolismo rappresenta una funzione primordiale.
L’inadeguatezza del metabolismo potrebbe avere la potenzialità per compromettere il sé e il senso dell’identità.
Accettare questo nuovo stato di salute implica che il paziente deve elaborare il lutto dello stato di salute precedente.
Le reazioni emotive relative a questo processo che sono
state ricavate dalle scale di valutazione psicologiche parlano di sgomento, paura, ansietà, rabbia, protesta, tristezza,
speranza. Se il paziente riesce ad accettare la sua condizione, la sua integrità si rafforza.
Una seconda caratteristica del diabete è il suo avere a che
fare con un aspetto assai valorizzato di ogni cultura quale il
cibo. Passiamo in veloce rassegna alcuni aspetti della incredibile polisemicità del cibo, che è pari solo al sesso per ricchezza di valorizzazioni psicologiche interpersonali e culturali. Il cibo può rappresentare una barriera protettiva nei
confronti dell’intimità. L’obeso estende i suoi confini corpo-
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rei e allontana l’altro dalla sua parte nascosta e vulnerabile.
Il cibo attiene alla relazione con la madre, sia come nutrimento che come sostegno. Il cibo viene usato come premio
o punizione (e nemmeno a farlo apposta, i premi e le punizioni assegnate ai bambini interessano soprattutto i dolci!).
Il cibo attiene alla comunità che, dalla famiglia in poi, si
riunisce e riconosce se stessa soprattutto o esclusivamente intorno alla tavola (per i greci agape significava sia
‘amore’ sia ‘pasto in comune’).
Il fantasma della glicemia
Altri fattori caratteristici congiurano nel fare del diabete
una malattia ‘difficile’ o ‘ad alto potenziale emotivo’. Il
diabete è una malattia ‘interna’ che ci costringe a metterci in rapporto con il nostro corpo e a prendere coscienza
che esiste. Concerne il metabolismo e il cibo, ed è asintomatico. Il diabete è una malattia che non si manifesta
né a me né agli altri. Non dà sintomi né segni palesi, tranne quelli che vengono scoperti spesso per caso dal
Medico: la glicemia.
Mancano i consueti punti di riferimento che potrebbero
rendere la malattia tangibile. La glicemia – unico segno
indiretto – rappresenta l’indice aggiornato e affidabile del
nostro stato di salute o di malattia. Ma la glicemia per il
paziente ‘non esiste’. È (o può essere) un fantasma, qualcosa che il Medico ha ‘trovato’. Il dato ‘digitale’ della glicemia, che viene ‘distillato’ attraverso un oscuro meccanismo da una goccia di sangue a sua volta estratta dal corpo,
non è necessariamente percepito dal paziente come ‘suo’.
Scherzando, ma non troppo, un paziente ha disconosciuto la glicemia, si è dissociato dal dato glicemico definendola piuttosto ‘glice-tua’. “La glicemia non è un urlo del
mio corpo ma un numero al quale il Medico attribuisce un
significato.”
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Rappresentazioni e realtà
Sul piano cognitivo, il paziente cronico si trova davanti a
una sfida culturale di difficile risoluzione: riceve delle
informazioni precise sulla malattia e sulla sua gestione,
che sono formulate in modo tale da essere comprese
facilmente. Tuttavia, l’apprendimento è lento e difficile
perché viene ostacolato da tutti i pregiudizi e le credenze
false che circolano sia tra gli amici sia in famiglia.
Di recente la ricerca si è concentrata, coerentemente con
l’assunto dell’approccio centrato sul paziente, intorno alle
rappresentazioni che il paziente ha nei confronti della
salute e della malattia, alla sua percezione di autoefficienza nella gestione della malattia e alla fiducia nella
medicina convenzionale, nelle cure e nei farmaci.
È ormai noto come queste rappresentazioni giochino un
ruolo forte nell’ostacolare o facilitare l’adesione del paziente alla terapia (Gentili et al., 2001, pp.140-152). Le rappresentazioni sono una negazione della realtà. La rappresentazione ostacola la terapia quando è usata per contraddire
la realtà ordinaria e serve come rifiuto. Può invece essere
usata per staccarsi dalla realtà senza contraddizione.
Quest’ultimo processo permette di lavorare con la rappresentazione psichica invece che con l’oggetto reale in modo
da tornare all’oggetto reale in un modo nuovo. Il primo uso
della negazione stabilisce una realtà psichica difensiva da
usare come rifiuto; l’ultimo uso stabilisce una realtà psichica che arricchisce il contatto con la realtà ordinaria.
Proprio perché gli è richiesto di essere il gestore della sua
patologia, il paziente ricorre a un suo modello interpretativo della malattia e della applicazione terapeutica.
Questo modello scaturisce – magari rielaborato in forma
personale – da un intricato sistema di credenze e rappresentazioni che fanno parte della sua cultura e della sua
storia personale. Tale reazione è dettata in particolare
dalla paura di una malattia invisibile.
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Sembra che nei paesi occidentali queste rappresentazioni, frutto di esperienze molto personali, stentino a collocare correttamente la patologia cronica. Si può ipotizzare
che nella mentalità di oggi lo scenario che Spinsanti chiama della “guarigione sufficiente” (Spinsanti, 2000, pp.5-8)
trovi meno spazio di quanto non accadesse alcune generazioni or sono.
La patologia tende a essere ospedalizzata, oggetto – a
volte con grande successo – di cure e interventi che prevedono la separazione del paziente dal circuito normale
della vita. Patologia coincide con separazione (temporanea) dal corpo sociale, handicap, ostracismo. Se la cura ha
successo, il paziente rinasce e ritorna (l’analogia con i riti
di separazione e di passaggio di molte popolazioni primitive è forte) nella comunità, sano.
È noto come la nostra cultura occidentale abbia scacciato
la morte rimuovendola anche fisicamente: non viviamo
più a fianco di animali o parenti che muoiono. Ospedali e
cronicari, macelli e cimiteri sono stati via via fisicamente
espulsi dalla città.
Si è invece fatto strada uno scenario di salute assoluta,
apollinea. Nelle riviste di divulgazione medica capita di
vedere gli articoli dedicati a una patologia affiancati a
immagini assolutamente antifrastiche: anziani in piena
salute, donne senza una ruga o un segno, non dico di
patologia ma anche solo di realismo.
Questa immagine della ‘salute assoluta’ contrasta con una
realtà che vede un numero sempre maggiore di persone
muoversi all’interno di una ‘salute sufficiente’, nella quale
l’invecchiamento naturale del corpo o l’eventuale patologia cronica (diabete, obesità, ipertensione, allergia, asma,
celiachia, ipertiroidismo… e citiamo patologie che solo in
Italia caratterizzano milioni di persone) è reso compatibile con una normale vita di lavoro e di relazione.
Il paziente che torna a casa con una diagnosi di patologia
cronica è accolto in un ambiente che non dispone di una
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interpretazione socialmente condivisa della sua condizione. Non riesce a trovare una collocazione fra i poli opposti e ambedue inappropriati della ‘perfetta salute’ e ‘della
malattia-morte’. Per proteggersi dal senso di vuoto creato
dalla sua condizione di malato cronico ricorre alla fantasia
ed elabora una rappresentazione personale della malattia
e della sua eventuale cura.
Spesso Aldo Maldonato ricorre al paradosso: “La persona
con il diabete non è malata. La persona con il diabete è
seriamente malata” e sottolinea che ambedue le affermazioni sono vere.
Così facendo il massimo esponente italiano dell’Educazione terapeutica riconosce implicitamente come il
paziente debba muoversi in uno spazio cognitivo assai
stretto e scivoloso. È facile intuire che questo doppio
messaggio – esplicitamente e implicitamente trasmesso –
aumenta la confusione del paziente e alimenta la sua
ambivalenza. Tutti questi elementi sarebbero già di per sé
fonte di disorientamento. A questo si aggiunge l’ipotesi
che sul piano psicodinamico la situazione sia ancora più
complessa.
Nelle prossime pagine proveremo a illustrare alcuni aspetti delle reazioni dei diabetici, allo scopo di far capire quali
possono essere le poste emotive che la diagnosi di diabete e la glicemia mettono in gioco in un numero non
marginale di situazioni.
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Passeggiate nel bosco
La scissione: getto il diabete fuori di me
La scissione è un meccanismo di difesa arcaico al quale
ricorre il paziente con una personalità fragile per proteggere la sua sopravvivenza emotiva. I pazienti che non
riescono a gestire la glicemia ricorrono spesso alla scissione per difendersi dal dolore di una malattia impensabile, indipendentemente dalla loro struttura di personalità. “Sebbene la scissione sia considerata l’operazione
difensiva chiave nei pazienti con disturbo di personalità
borderline”, scrive Gabbard (1995, pp. 274-276) essa può
essere osservata in tutti i pazienti con altri disturbi di personalità.
La scissione è un meccanismo di difesa inconscio che
separa attivamente gli uni dagli altri i sentimenti contraddittori: le rappresentazioni buone di sé e degli oggetti
sono tenute separate dalle rappresentazioni cattive di sé
e degli oggetti. La scissione può essere vista come una
modalità biologica fondamentale di organizzazione dell’esperienza, per mezzo della quale ciò che è minaccioso
viene separato da ciò che è minacciato. Per esempio, il
diabete, minaccioso, è tenuto separato dal mio corpo
buono, minacciato.
A scatenare la scissione è un dolore intollerabile che il soggetto vuole mantenere lontano. Può la diagnosi di diabete
scatenare da sola questa reazione? Probabilmente no. Il
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dolore provocato dalla diagnosi di una malattia impensabile riattiva il pericolo di una impensabile angoscia come
“essere senza alcuna relazione con il corpo in un’età
immatura” (Winnicott, 1969).
Come detto, è probabile che una ferita narcisistica conseguente alla violenza subita nell’infanzia sia riattivata dalla
diagnosi di diabete e confermi l’indegnità del paziente.
Per non lasciarsi schiacciare, il sé traumatizzato dall’evento è stato messo da parte. Non è stato integrato nel sé
costituito che è stato protetto e difeso dalla costruzione
di un falso sé.
La prima difesa alla quale questo paziente sembra ricorrere è lo spostamento mediante il quale “l’ansia associata a
una fonte inconscia è reindirizzata verso un sostituto conscio” (Gabbard, 1995, p.30). Questa ansia, che è legata a
un sentimento inconscio di vergogna e d’indegnità, viene
spostata sulla glicemia. La glicemia (prima ancora che una
entità astratta rappresentativa del diabete) diviene
responsabile di tutti i suoi problemi fisici, psichici o di
relazione. Il diabete diventa ‘impensabile’, ‘indicibile’, e
viene buttato fuori dal corpo.
Riassumendo: attraverso il meccanismo della scissione, il
diabetico con una glicemia mal controllata tenderebbe a
separare la glicemia ‘minacciosa’ dal suo corpo ‘minacciato’ e a buttarla fuori da sé attraverso il meccanismo di
difesa della proiezione.
Dopo avere ‘buttato fuori’ il diabete dal proprio corpo, il
paziente cerca di proteggersi ricorrendo essenzialmente a
due meccanismi di difesa scelti in relazione alla propria
personalità. Quando si comporta come se il diabete non
esistesse, ricorre al diniego che secondo Glen O.
Gabbard (1995, p.46) “è una difesa dalla realtà del mondo
esterno, quando questa realtà viene sentita come terribilmente disturbante”. Se il diabetico è soggetto ad attacchi
di panico, ricorre all’identificazione proiettiva, che secondo Gabbard (1995, pp. 274-276), permette al paziente d’i-
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dentificarsi con ciò che ha proiettato. Il soggetto che
proietta ha la fantasia di controllare ciò che ha proiettato.
Crede di potersi liberare di quel che non gli piace di se
stesso.
Quando la diagnosi di diabete è vissuta come una realtà
sconvolgente, il diniego permette al paziente di assumere un atteggiamento di totale indifferenza nei confronti
del diabete che non gli appartiene, mentre l’identificazione proiettiva gli permette di controllare un nemico imprevedibile, impossibile da affrontare a causa del terrore
paralizzante che suscita.
In questi casi, il paziente considera il diabete un ‘problema del diabetologo’ se non una sua ‘invenzione’. Quanto
al diabetico, ignorando la malattia e il programma terapeutico elaborato per la sua cura, egli tende inconsciamente a colpire il proprio corpo che lo ha tradito. Sembra
che la relazione tra il funzionamento del corpo e quello
della personalità si interrompa. L’intervento del medico,
un richiamo all’Io corporeo provoca una fuga nell’intellettuale. Il paziente ‘scinde’ le cure mediche, non le applica
al suo corpo.
La scissione è una delle cause fondamentali della debolezza dell’Io che viene privato di un’essenziale fonte di
energia per la propria crescita. Un Io debole rischia di
essere influenzato dai contenuti mentali inconsci accompagnati da una inscindibile costellazione emozionale. Il
risultato di questo processo molto complesso e faticoso è
l’incapacità di riflettere e di fare programmi a lunga scadenza. Il paziente può formulare molte domande, guidate
dalla paura di qualcosa che non conosce, ma non è in
grado di recepire le risposte. I meccanismi di difesa ai
quali ricorre indeboliscono la sua mente.
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La sfida della scissione
e l’Educazione terapeutica
Nei primi incontri di psicoterapia psicoanalitica capita
spesso che il paziente diabetico affermi di non capire perché si deve curare, si deve sottoporre a dei sacrifici notevoli quando si sente bene. Si deve affrontare la dissociazione sottintesa a questa apparente ‘ingenuità’ ed evitare
di fornire ulteriori informazioni cliniche. Il trauma infantile
riattivato dalla diagnosi di diabete deve essere guardato
apertamente. Lo psicoterapeuta psicoanalitico gioca un
ruolo decisivo nel dosare il livello di esposizione al trauma
tollerabile dal paziente.
Non vi sono alternative reali. Secondo il testo, Il Diabeteistruzioni per l’uso, “la cura del diabete è un investimento per il futuro e, come ogni investimento, si basa su un
atto di fede” (Maldonato et al. 1995). È difficile immaginare come una persona che non vuole o non può fare programmi, possa investire per il futuro. Sempre dallo stesso
libro si rileva che il diabetico non deve limitarsi a “correre
dietro ai disturbi”, ma deve accettare “gli strumenti fondamentali della cura: dieta, farmaci e attività fisica, che
opportunamente combinati, consentono di equilibrare
ogni tipo di diabete”. L’obiettivo sembra dunque essere
la ricerca dell’equilibrio a livello biologico.
È difficile capire come si possa fare accettare un concetto
di equilibrio a una personalità scissa che, secondo
Kernberg è caratterizzata da determinate manifestazioni
cliniche:
1) l’espressione alterna di comportamenti e atteggiamenti contraddittori, cui il paziente guarda senza preoccupazione e con un blando diniego;
2) un’assenza selettiva di controllo degli impulsi;
3) la compartimentazione di ciascuna persona dell’ambiente in settori ‘tutto buono’ o ‘tutto cattivo’, che viene spesso indicata con i termini idealizzazione e svalutazione;
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4) la coesistenza di rappresentazioni contraddittorie di sé che
si alternano l’una all’altra’. (Gabbard, 1995, pp. 274-276)
La cura del diabete rappresenta un paradosso: propone
un programma terapeutico basato su un concetto di equilibrio a una persona che non si rende conto delle proprie
contraddizioni e che tende a sfuggire le situazioni che
non capisce.
Il paziente paralizzato dal suo terrore non sente la comunicazione del Medico. Il paziente nega la diagnosi di una
malattia impensabile. Winnicott (1969) ritiene che il
Medico sia portato a dedicarsi eccessivamente al trattamento fisico e alle tecniche operative mentre il disturbo è
nella psiche del paziente e non nel soma. Forse aiutandolo a realizzare un’integrazione psiche-soma gli si permette di diventare consapevole dell’esistenza del suo corpo e
della necessità di prendersene cura invece di ignorarlo o
di colpirlo.
In mancanza di un intervento che favorisca l’integrazione
della psiche con il soma, non solo non si raggiungono gli
obiettivi di autocontrollo ma si pongono le basi per una
relazione negativa tra Medico e paziente. Il Medico che
‘insiste sul diabete’ costringe il paziente a prendere
coscienza di qualcosa che secondo lui non esiste. Il
paziente si protegge isolandosi mentalmente e proiettando le sue emozioni sul Medico che diventa un persecutore, mentre la malattia, la glicemia, diventa un mostro in
agguato sempre pronto a colpirlo e dal quale non può
difendersi.
La personalità scissa può essere gestita solamente con
una psicoterapia psicoanalitica capace di accogliere la
sofferenza del paziente e di percorrere con lui il cammino
verso una integrazione tra il corpo e la psiche che gli permetta di riconoscere la glicemia come parte del proprio
corpo. Questo lavoro avrà come fine di comprendere le
origini e i significati inconsci dei propri sintomi e del proprio comportamento e sarà possibile quando le resistenze
43
saranno modificate dagli interventi dello psicoterapeuta.
Data la fragilità dei diabetici che non riescono a gestire la
glicemia, lo psicoterapeuta psicoanalitico deve avere
capacità di empatia che è considerata lo strumento fondamentale della psicoterapia e indica la capacità di un
individuo di sentire ciò che un altro sente. L’empatia è una
identificazione temporanea e cosciente con il paziente
con lo scopo di capirlo.
Il meccanismo di difesa della negazione
Quando una persona si trova di fronte alla diagnosi di diabete, la prima difficoltà da affrontare è l’accettazione
della malattia. La scoperta di una malattia cronica che
indebolisce l’immagine del proprio sé è stata associata
all’elaborazione di un lutto. Secondo questo approccio il
paziente passa attraverso cinque fasi:
negazione della realtà,
ribellione,
contrattazione,
depressione con speranza,
accettazione.
Il Medico dovrebbe essere in grado di seguire e aiutare il
paziente in ognuna di queste fasi molto delicate, partendo
proprio dal primo passo che permette al diabetico di
affrontare la malattia: la negazione. Secondo (Gentili et al.
2001) il paziente formula una rappresentazione mentale
del diabete e della terapia. Questa rappresentazione può
influenzare la sua adesione al programma terapeutico. Le
rappresentazioni che il paziente ha nei confronti della
medicina, della salute e della malattia (con particolare
riguardo alla percezione di autoefficienza nella gestione
della malattia, la fiducia nella medicina convenzionale, le
cure, i farmaci, ecc...) possono ostacolare o facilitare l’adesione del paziente alle cure.
44
È importante, in particolare, che si venga a stabilire una
sorta di corrispondenza tra le rappresentazioni del
paziente e quelle del Medico.
La migliore adesione può essere ottenuta se i bisogni
reali del paziente sono soddisfatti da una terapia che corrisponde alle sue rappresentazioni e aspettative, pur riconoscendo le costrizioni che la vita quotidiana impone
all’individuo. I modelli interpretativi ai quali ricorre il
paziente si basano solo in parte su una cultura medicoscientifica. Come è noto, il paziente ha un intricato sistema di credenze e di rappresentazioni che fanno parte
della sua cultura e che influenzano il suo modo di gestire
la malattia.
Capire questo sistema è un elemento importante del processo educativo, necessario per correggere le convinzioni
del paziente, basate su preconcetti. Si deve stabilire un’interazione tra paziente e Medico che deve tenere conto
della dimensione relazionale e delle sue implicazioni. Il
Medico deve riuscire ad accettare il paziente come una
persona nella sua totalità e dedicare il tempo necessario
per un approccio biomedico, psicosociale e educativo.
Entrare in sintonia con le rappresentazioni del paziente
significa per lo psicoterapeuta accogliere la fase di negazione della realtà oggettiva. Questa infatti svolge una funzione importante. Nel corso di una conferenza sui sentimenti e l’uso che se ne fa in psicoanalisi e in psicoterapia,
André Green ha parlato degli affetti, delle emozioni, nei
confronti delle rappresentazioni o degli affetti come rappresentazioni. Il tema è complesso in quanto l’esperienza
clinica mostra che se una persona vuole rimanere in contatto con i propri sentimenti deve separare processo
affettivo e funzione intellettuale (cit. in Kohow, 1999).
Detto in altri termini la consapevolezza intellettuale deve
essere mantenuta repressa in modo da permettere all’emozione di diventare cosciente. Questo è appunto lo spazio nel quale si inserisce la negazione. L’incapacità del
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diabetico di diventare consapevole della sua malattia
dipende da un atto di negazione.
La negazione ha una doppia funzione: può essere usata
per contraddire la realtà ordinaria o può essere usata per
staccarsi da essa senza contraddizione. Quest’ultimo processo permette di lavorare con la rappresentazione psichica invece dell’oggetto reale in modo da tornare all’oggetto reale in un modo nuovo.
Il primo uso della negazione stabilisce una realtà psichica
difensiva da usare come rifiuto. Il secondo è un momento
di passaggio che lo psicoterapeuta psicoanalitico deve
accettare senza contrastarlo in modo da mantenere la sintonia con le rappresentazioni del paziente.
Accade però spesso che il diabetico, anche molto tempo
dopo la diagnosi, ancora non sappia come gestire la glicemia, rifiuti la realtà della malattia e affermi: “Il diabete non
so che cosa sia” oppure: “La glicemia è una preoccupazione del diabetologo”. Altre volte si dichiara impotente a
gestirlo, pur avendo ricevuto tutte le informazioni del caso.
Va detto che il diabete si presta a essere considerato più di
altre patologie croniche come una ‘invenzione del Medico’.
Il paziente insomma nega il diabete anche perché può permettersi di farlo senza entrare in conflitto con troppi dati di
fatto. Il diabete non dà segni palesi né dolori.
Come detto prima, la negazione serve a costruire una
realtà psichica che favorisce o ostacola il contatto con la
realtà ordinaria. La realtà psichica è costituita dalla rappresentazione e queste esistono proprio in quanto l’oggetto concreto è negato, non può essere accolto. La
negazione è dunque un elemento essenziale nella costituzione della realtà psichica.
Il doppio uso della negazione e la doppia funzione della
realtà psichica rappresentano per Green il lavoro del
negativo e fanno luce sul significato del ricorso alla negazione per essere liberi o limitati. L’uso della negazione
può promuovere lo sviluppo dell’Io o bloccarlo. Diventa
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uno strumento utile per affrontare la crescita pur tenendo
conto del vissuto originario di perdita o di assenza. Il diabetico e in generale chi ‘ha perso la salute’ può arrivare
attraverso ‘il lavoro del negativo’ alla presa di coscienza di
non corrispondere al proprio Io ideale. “Forse non sono
più la persona sana che pensavo di essere?”, si chiede il
paziente. L’Io ideale crolla. La persona sana non esiste più.
“Non ho più un’identità. Devo crearmene una nuova?”
L’atto di negazione permette di affrontare la realtà della
perdita, che apre la porta a una nuova esperienza, a una
nuova relazione di oggetto e a nuovi ideali.
Questa è la forma ristrutturante del lavoro del negativo.
Questo processo si può definire l’uso costruttivo della
negazione.
Il diabetico che ricorre alla rappresentazione della malattia deve essere aiutato a elaborare questa rappresentazione per arrivare all’accettazione della realtà: il diabete e
la perdita della salute.
L’identificazione proiettiva
Si tratta di un meccanismo di difesa che il paziente mette
in atto quando la negazione della realtà-diabete non
garantisce una protezione sufficiente. La disperazione
impedisce alla persona con il diabete di prendere
coscienza dei cambiamenti che si sono verificati nel suo
corpo e di capire che cosa significhi diabete, gestione
della glicemia, complicanze. Il paziente ‘entra in conflitto’
con il suo corpo. Non capisce perché deve dedicare tanta
attenzione a un corpo che lo ha tradito e che gli fa sperimentare di nuovo sofferenza. Quindi lo ‘punisce’ non
curandolo, senza volere o potere rendersi conto che va
incontro a danni irreversibili.
In questo contesto, il diabetologo che insiste sull’esistenza e sull’importanza della malattia diventa una minaccia
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dalla quale proteggersi con un processo inconscio trifasico attraverso il quale aspetti propri vengono attribuiti a
qualcun altro. Il paziente proietta nel diabetologo parti
della sua personalità che disconosce, in questo caso i suoi
‘oggetti interni’ ritenuti cattivi associati al diabete. Il diabetologo diventa un interlocutore ‘cattivo’ che ‘non lo
capisce’. Il paziente si domanda perché dovrebbe curare
un diabete che per lui non esiste. Non per caso il paziente spaventato pronuncia di rado la parole ‘diabete’ e
tende a dire: “Io non ho alcun problema. Non capisco
cosa voglia da me il diabetologo”. La malattia e la sua
cura si prestano a rappresentazioni antitetiche nel Medico
e nel paziente.
Il diabetologo è inconsciamente influenzato da quanto
viene proiettato su di lui. L’aggressività del paziente
rischia di attivare quella del Medico. Quando il terrore del
paziente paralizza anche il Medico, l’intervento di uno psicoterapeuta psicoanalitico sarebbe utile per accogliere il
dolore del paziente, comprendere il significato del suo
terrore o della sua indifferenza. Quando è necessario, una
psicoterapia psicoanalitica permette di processare psicologicamente e modificare il materiale proiettato e restituirlo al paziente che lo reintroietta. La trasformazione del
materiale introiettato modifica a sua volta la corrispondente rappresentazione del sé e il relativo modello di
relazionalità interpersonale. Questa trasformazione ottenuta attraverso la relazione psicoterapeutica dovrebbe
facilitare la collaborazione tra Medico e paziente con lo
scopo di raggiungere una corrispondenza di rappresentazioni della malattia e degli interventi utili per curarla.
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Narcisismo maligno
A volte questa risposta è esasperata e il soggetto affronta l’angoscia di annientamento sfidando la morte. I diabetici affetti da patologie psichiche caratterizzate dal narcisismo maligno tendono a usare in modo sistematico la
glicemia per colpirsi, forse per suicidarsi o per colpire i
familiari che stanno sempre in stato di allarme per il malato, ignorando la vera fonte del malessere. Il narcisismo
maligno si manifesta all’interno di un contesto familiare
difficile dove la madre tende ad assumere un ruolo dominante e intrusivo mentre il padre spesso è assente o preferisce non assumere responsabilità nella gestione di
quanto accade in casa. Il malessere che rischia di svilupparsi in questo tipo di famiglia è all’origine del conflitto
che è facilmente spostato sul figlio più fragile che diventa la vittima designata. Se questo figlio è diabetico, il conflitto familiare pre-esistente viene spostato sulla glicemia.
Il problema assume connotati drammatici quando si tratta di adolescenti che sono già alle prese con un corpo che
sta cambiando e che hanno difficoltà a riconoscere. Il diabete, soprattutto se esordito da poco, rappresenta un
ulteriore elemento di differenziazione sia dall’infanzia che
dai loro pari con i quali non si possono identificare. La
reazione all’isolamento è una profonda rabbia che li induce a colpire questo corpo che li ha traditi.
Con grande abilità questi pazienti, veri esperti del diabete, usano la glicemia per distruggersi. A volte essi soffrono
di bulimia o di anoressia che diventano strumenti potenti
per mantenere la glicemia costantemente alta o per provocare ipoglicemie (Scalabrino, Gentili, Maldonato 1998,
pp. 283-286).
Nell’adolescente, il diabete diviene come uno ‘strumento’
che serve a mettere in atto comportamenti auto ed eteroaggressivi e, secondo Farberow (1979), la sua gestione
può diventare spesso l’espressione di un comportamento
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indirettamente suicidario, anche se ogni intenzionalità
viene negata dal paziente. La cattiva gestione del diabete
nell’adolescente rappresenta una condizione di suicidalità
assai diffusa che, specie quando sono presenti problemi
di ristrutturazione dell’identità, si può interpretare come
l’espressione di un grave narcisismo distruttivo. Gli aspetti distruttivi del narcisismo, coniugati alle dinamiche proprie dell’adolescenza, esasperano gli aspetti onnipotenti
e idealizzati del soggetto e tendono a distruggere qualunque rapporto oggettuale positivo, nonché quelle parti
di sé bisognose sia di autonomia che di aiuto (Winnicott,
1969). Con questo tipo di pazienti la motivazione ricostruttiva proposta dal diabetologo entra in clamoroso
conflitto con la motivazione distruttiva del paziente, guidato da una rabbia che lo spinge compulsivamente a colpirsi. Nonostante la violenza delle forze in gioco, nulla
sembra emergere alla normale visita medica. Anzi è possibile che il paziente in questa situazione assuma un atteggiamento di totale indifferenza.
Sarebbe importante incontrare la famiglia quando si tratta di adolescenti o di bambini che sono dipendenti dal
sostegno familiare per esistere. L’esperienza mostra che
un buon controllo della glicemia dipende molto da una
famiglia che funziona bene. Se il paziente è soddisfatto
della sua vita e riceve un buon sostegno familiare potrà
cavarsela bene. Se la famiglia è ‘invischiata’, la vicinanza
emotiva dei suoi componenti è tale che tutti credono di
conoscere i sentimenti e i pensieri di ognuno di loro. Ne
deriva un eccesso di vicinanza affettiva che provoca ansia
e disagio con l’incorporamento del sé dell’uno nel sé dell’altro. In questo caso, il paziente, essendo più vulnerabile, rischia di diventare la vittima designata di questa famiglia che tenderà a spostare su di lui il problema di relazione presente al suo interno (Bowen, 1979). Questo coinvolgimento eccessivo potrà avere effetti negativi sullo sviluppo del bambino o dell’adolescente diabetico.
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Oltre l’educazione
terapeutica
In grande sintesi, quanto scritto finora può essere riassunto in due concetti:
Gli approcci terapeutici al diabete presumono che l’acquisizione delle conoscenze sia necessaria per un controllo migliore della glicemia, anche se l’esperienza e gli
studi rivelano che la relazione tra conoscenza e buona
autogestione non è diretta.
La relazione fra Team diabetologico e paziente è incentrata sull’aspetto cognitivo, mentre nel vissuto del
paziente sono forti e prevalenti gli aspetti emotivi.
Potremmo aggiungere un terzo concetto: l’obiettivo ultimo di un sistema sanitario così come di ogni ‘curante’ è il
benessere globale del paziente. Questo benessere,
soprattutto laddove si parla di patologie e condizioni croniche, non può essere limitato all’aspetto biologico.
L’intervento quindi deve essere o aspirare a essere globale. Deve quindi prendere in considerazione gli aspetti psichici ed emotivi del paziente. Infatti il successo o il fallimento nella gestione della glicemia dipende dal tipo di
personalità del paziente. In molti casi è proprio la fragilità emotiva del paziente a facilitare l’insorgenza della
malattia e a rendere difficile la sua cura.
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Uno psicoterapeuta psicoanalitico
nel Team diabetologico
Come tradurre in concreto questi principi? Una soluzione
è quella di considerare la psicologia psicodinamica come
uno degli strumenti da adottare nella gestione delle persone con il diabete e quindi prevedere la presenza di uno
psicoterapeuta psicoanalitico come parte del Team diabetologico. Ovviamente lo psicoterapeuta non ha in
mano la bacchetta magica. Non può garantire risultati, ma
dispone di conoscenze, approcci e metodologie che sono
diversi e complementari a quelli degli altri professionisti
impegnati nella cura del diabete.
Nei casi più difficili, lo psicoterapeuta potrà ricorrere alle
sue facoltà empatiche. L’empatia è la capacità che ogni
individuo ha – in misura maggiore o minore – di ‘sentire’
ciò che un’altra persona ‘sente’, e può sviluppare durante
la sua formazione professionale. È una identificazione
temporanea cosciente con il paziente con lo scopo di
capirlo. L’empatia caratterizza in misura maggiore o minore molte delle relazioni interpersonali. Anche uno psicoterapeuta psicoanalitico trasforma in strumento psicodinamico l’empatia per aiutare il paziente quando lo percepisce come molto fragile, per cercare di avvicinarsi alla
sua disperazione. In un ambito di cura l’empatia è uno
strumento, non un fine a se stesso.
Lo psicoterapeuta dovrebbe avere raggiunto un assetto
mentale alternante tra la capacità empatica e la valutazione cognitiva della situazione dinamica, come scrive
Brierley tra il sentire ‘con’ il paziente e il sentire ‘sul’
paziente (Brierley, 1937).
L’empatia è il primo passo di un processo che non si limita ad accogliere la sofferenza del paziente, ma lo aiuta a
trasformare le sue proiezioni, restituendogliele modificate. A loro volta le rappresentazioni possono essere
influenzate da questo processo di trasformazione.
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L’empatia nel rapporto di cura è un lavoro nel quale il
piano umano (io e il mio interlocutore siamo due persone
e ci rispettiamo come tali) è un punto di partenza ma nel
quale è anche chiara la differenza fra chi ha l’esperienza
per gestire un processo e chi ha bisogno di aiuto.
La psicoterapia psicoanalitica dovrebbe essere messa a
disposizione del paziente che, terrorizzato dalla diagnosi
di diabete, non riesce a gestire la sua paura oppure che,
dopo aver seguito il corso di Educazione terapeutica, non
riesce a ricordare le informazioni ricevute perché continua
a essere dominato dal panico.
L’azione dello psicoterapeuta psicoanalitico non contrasta
quella degli altri professionisti che curano il diabete. Egli
lavora sui significati, cerca di capire che cosa rappresenti per
il paziente il diabete, come mai incute tanto terrore, quale
pericolo evochi e quale trappola nasconda. Ma il suo lavoro
con il paziente è sinergico con quello del diabetologo.
Lo psicoterapeuta psicoanalitico mira a indebolire e trasformare, insieme al paziente, le barriere psicologiche che
impediscono l’autogestione efficace. Cerca di capire,
insieme al paziente, le difficoltà riscontrate nel raggiungere gli obiettivi terapeutici. In una parola si può dire che
la psicoterapia ha come scopo di aiutare il paziente a crescere e a trovare un buon equilibrio interiore che gli permetta di progettare, programmare e, fra le altre cose,
soddisfare le aspettative del Medico.
I risultati di un percorso psicoanalitico riuscito vanno ben
oltre la possibilità di cogliere i benefici dell’Educazione
terapeutica. Accompagnata da un intervento ‘nel profondo’
la malattia cronica può portare a una trasformazione della
personalità che permetta l’integrazione del diabete nella
propria identità. Può diventare la spinta verso la crescita.
In questo senso è importante che il personale sanitario
capisca non solo l’approccio ma anche gli obiettivi che un
percorso psicoanalitico si pone. Un primo obiettivo, raggiungibile già nei primi colloqui è quello di ‘accogliere per
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intero’ il paziente come persona, e non limitarsi a sollecitare la sua parte intellettuale. La presenza di uno psicoterapeuta psicoanalitico fa del Team un ambiente in cui un
paziente disperato può dire di essere disperato e può chiedere che sia accettata, riconosciuta questa disperazione.
Che forma può assumere questo intervento? L’accoglienza
è importante ma non basta in alcuni casi. Il paziente può
utilmente intraprendere un percorso di psicoterapia psicodinamica di sostegno o ricostruttiva. Secondo Canestrari il
fine ultimo del lavoro psicoterapeutico è una ristrutturazione della mente tale da consentire un più libero investimento delle pulsioni sugli oggetti nuovi del campo percettivo,
siano essi interni o esterni, evitando la ripetitività mortificante della condizione nevrotica. La flessibilità, quindi,
diventa lo scopo del lavoro. Questa capacità di reagire agli
stimoli esterni può anche essere dolorosa. In questo senso,
a differenza del Medico che ritiene di avere successo quando elimina un sintomo, lo psicoterapeuta potrebbe ritenersi soddisfatto quando il suo paziente inizia a percepire il
sintomo stesso e a dargli un significato. Winnicott afferma
che “se avremo successo metteremo il paziente nelle condizioni di poter abbandonare l’invulnerabilità e diventare
una persona che soffre” (Winnicott, 1969).
Molti gruppi di lavoro diabetologici si sono dotati, in una
maniera o nell’altra, dell’ausilio di psicologi. Non tutti
però hanno saputo coglierne le valenze ‘interne’. Spesso
questa figura è considerata semplicemente un ausilio da
offrire al paziente in difficoltà, magari tenendolo un po’ a
distanza. (Mi è successo di sentir dire a un paziente: “Se
ha bisogno, nella stanza a fianco c’è lo psicologo”.) Invece
di rappresentarne una appendice, lo psicoterapeuta
potrebbe divenire parte integrante del Team. Proprio
nella misura in cui è titolare di un approccio diverso, può
aiutarne i membri a lavorare meglio.
Questo intervento può avvenire in tre direzioni: la più
intuitiva è l’appoggio all’equilibrio stesso dei membri del
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Team. Il Medico deve aver raggiunto lui stesso un certo
equilibrio o perlomeno essere consapevole delle proprie
emozioni e saperle gestire. La frustrazione dovuta alle
ripetute situazioni di incomprensione e di scacco è sempre latente nel lavoro degli operatori sanitari. Scrive
Franco Fornari che ogni operatore sanitario saprà e potrà
dare il suo contributo professionale più efficace nella
misura in cui nella propria storia profonda avrà già saputo
realizzare con armonia gli equilibri relazionali entro cui si
potrà liberamente e consapevolmente esprimere il linguaggio dei codici affettivi (cit. in Longo, 1997).
Nelle situazioni di scacco, l’intervento dello psicoterapeuta
psicoanalitico, abituato ad affrontare le dinamiche inconsce, potrebbe aiutare il diabetologo a gestire la sua angoscia verbalizzando il conflitto.
In un secondo senso invece il ruolo dello psicoterapeuta
psicoanalitico nel Team può essere complementare. La
sua formazione gli permette di lavorare con emozioni
anche negative, angosce e vissuti che non trovano cittadinanza nel ‘giardino’ dell’ottimismo terapeutico.
Suggerimenti per una evoluzione
dell’Educazione terapeutica
Devo scrivere in prima persona ora, perché quanto mi
accingo a dire deriva unicamente dalla mia esperienza
personale. Aver fatto parte di un Team che fra i primi si è
mosso nell’ambito dell’Educazione terapeutica mi ha
mostrato quanto siano grandi i potenziali di rinnovamento e di evoluzione non solo nella prassi ma anche nella
capacità del Medico e dei suoi collaboratori di modificare
l’idea che hanno di se stessi come professionisti.
Alla generazione di medici che ha saputo approfondire e
adottare l’Educazione terapeutica è possibile quindi lanciare alcune sfide.
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Comprendere e rispettare il sintomo
Il Medico può trovarsi in conflitto con l’atteggiamento
prescrittivo e con l’abitudine a interpretare il sintomo
come pura negatività. La presenza dello psicoterapeuta
psicoanalitico lo aiuta a non cadere nel riflesso condizionato di volerlo eliminare (e nella conseguente frustrazione se
questo si rivela impossibile). Per il paziente, il sintomo è un
segnale di malessere. Ascoltiamolo come richiesta di aiuto
e come espressione della sua sofferenza. Comprendere il
sintomo (per esempio la glicemia che rimane alta) significa aiutare il paziente a scoprire quale significato attribuisce alla glicemia. Se questa rappresenta per il paziente
solamente una causa di frustrazione, si trasforma in quello che Bion chiama un “oggetto interno cattivo” che può
solo essere evacuato dalla mente attraverso la modalità
difensiva dell’identificazione proiettiva. Una psicoterapia
psicoanalitica può aiutare il paziente a diventare più autonomo dalle figure interiorizzate frustranti. Questa trasformazione si dovrebbe riflettere nella relazione con il diabetologo che diventa più costruttiva.
Tener conto che l’autocontrollo richiede una condizione di libertà e flessibilità
Rendiamoci conto di quanto siano ambiziosi non tanto gli
obiettivi del percorso di cura del diabete, ma le sue premesse. Fare autocontrollo presuppone infatti la capacità
di progettarsi liberamente. Purtroppo molti pazienti fanno
fatica a trasformare una vita basata su comportamenti
automatici o abitudinari in una vita guidata da riflessioni e
scelte adeguate da compiere durante la giornata. Molti
non accettano questa libertà. Soffrono di quella che un
mio paziente chiamava la ‘sindrome dell’ergastolano liberato’ il quale graziato non riesce a viversi come soggetto
libero e agogna a tornare nella sicurezza del carcere (nel
suo caso rappresentato dalla nevrosi).
Diventare una persona autonoma, raggiungere quell’equi-
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librio psichico sufficiente per affrontare il problema e trasformare il fantasma della glicemia in realtà è un obiettivo
ambizioso. Non può essere dato per scontato come
punto di partenza della cura del diabete, altrimenti si
rischia di adottare lo stesso approccio delle precedenti
generazioni di diabetologi che davano per scontata la
motivazione e si limitavano a prescrivere una cura.
Diamo cittadinanza ai sentimenti negativi
La persona che intende sviluppare una relazione di cura
con il paziente cronico dovrebbe accettare la possibilità
di essere investito dai sentimenti negativi del paziente.
L’incontro fra Medico e paziente non avviene in un territorio neutro nel quale la risposta emotiva oscilla fra la blanda riconoscenza e una sostanziale indifferenza. Il paziente
è invece spesso scosso nel profondo dalla diagnosi e
dalla lettura quotidiana della glicemia. Per molti pazienti,
i meccanismi della negazione, della scissione e della identificazione proiettiva rappresentano un ‘perverso’ processo di cura per proteggersi da una temuta minaccia di
annientamento.
La priorità che questi pazienti si pongono non è l’equilibrio biologico, ma un assestamento psichico che li difenda dalla angoscia di frammentazione, cioè dal timore di
impazzire o di morire, che la diagnosi di diabete ha riattivato e riesce facilmente ad alimentare.
Non minimizziamo l’impatto della patologia
In molte occasioni troviamo descritto il diabete di tipo 2
come una ‘condizione’. Si esita a definire ‘pazienti’ le persone con il diabete. Si dice che “non sono propriamente
malati”. Non sta a me dire se queste cautele siano corrette o meno sotto il profilo clinico. Una parte consistente
dei pazienti percepisce però il diabete come una malattia
molto seria: una minaccia alla propria incolumità. Il diabete ha infatti tutte le potenzialità, tutte le ragioni per sca-
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tenare una reazione di angoscia in molti pazienti. È una
malattia subdola, che erode dall’interno i meccanismi fondamentali dell’organismo; è una malattia che non si rivela
con sintomi e segni ma ‘per interposta persona’ attraverso quel dato glicemico che viene ‘estratto’ dal corpo e ha
le potenzialità per apparire non un parametro, ma un ‘fantasma’.
Angoscia dell’annientamento, ricerca della morte
Il diabete di tipo 2 è prevalentemente una malattia dell’età adulta, se non della terza età. Getta un ponte fra la condizione attuale e la morte. Paradossalmente ne facilita
l’attesa. La morte diventa una liberazione. È temuta e
ricercata. Un paziente di 74 anni, che era riuscito a perdere 20 chili, e che veniva in psicoterapia per cercare il
sostegno necessario per continuare a seguire una dieta
ipocalorica mi ha detto un giorno: “Se fossi sicuro di morire subito, ricomincerai a mangiare e a ingrassare fino alla
morte”. Per questo tipo di paziente, il cibo diventa uno
strumento per sfidare la morte. L’angoscia di morte è più
violenta e più forte nei giovani, con diabete di tipo 1.
Sentono la necessità di sfidarla e si attivano perché avvenga realmente usando come strumento l’insulina che dosano male o si astengono dall’assumere. Minimizzare la portata della malattia potrebbe quindi non essere la scelta
più corretta da parte del Team poiché il paziente riceve un
doppio messaggio che è ambivalente e aumenta la sua
confusione.
Più in generale, l’Educazione terapeutica se vuole andare
oltre un dialogo con la sola parte intellettuale del paziente che può divenire una finzione o una trappola deve
sapersi confrontare con le angosce a volte psicotiche dei
pazienti. Per raggiungere davvero questo obiettivo è
necessario il sostegno di uno psicoterapeuta psicoanalitico. Ma il primo passo deve essere compiuto dagli operatori sanitari in Diabetologia.
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Di fronte al paziente che non riesce a stabilire un autocontrollo, il diabetologo e i suoi collaboratori dovranno
saper abbandonare l’approccio psicopedagogico e assumere un atteggiamento introspettivo sia nei confronti del
paziente, sia di se stessi. “Come mai questa persona non
mi sente?”. “Dove sbaglio? Perché provoco in lui una reazione di chiusura?”. L’introspezione dovrebbe provocare
nel Medico una maggiore apertura e permettere al paziente di non avere paura o di avere meno paura. Se la relazione non migliora, nonostante l’atteggiamento nuovo del
diabetologo, forse il sostegno di uno psicoterapeuta psicodinamico può essere utile.
Si tratta di inserire lunghe cure fra gli strumenti erogati
dagli operatori sanitari coinvolti nella cura del diabete.
Quello che in queste pagine si propone è – me ne rendo
conto – un approccio costoso. D’altra parte non vi è, a
ben vedere, molta scelta.
I medici che si trovano relativamente privi di strumenti
nell’affrontare il paziente che non trae giovamento dall’approccio ‘adulto’ dell’Educazione terapeutica, dovranno forse accettare una realtà molto dura: i limiti della
Medicina. Prendendo coscienza che la Medicina non può
fare tutto il Medico potrebbe accettare la collaborazione
dello psicoterapeuta psicoanalitico. Questi porterebbe
una esperienza, una metodologia e una ricchezza di strumenti e riflessioni nel lavoro di tutti gli operatori impegnati nella cura del diabete e non solo del paziente perché – come voi avrete certamente imparato – tutti i componenti del Team sono produttori di rapporti affettivi.
La relazione affettiva con il paziente può essere un buon
nido per la crescita di tutti. I pazienti, i familiari, i volontari, i professionisti possono aspirare a trarre dalla cura
medica e dalla psicoterapia un ‘benessere cronico’.
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Anna Maria Scalabrino
Un fantasma
nel mio corpo
Alcune persone con il diabete, pur essendo ben
informate e pur presentandosi regolarmente ai controlli in Ambulatorio, mantengono un mediocre controllo glicemico. Il piano cognitivo, prediletto dai
Medici, si mostra insufficiente.
Medico e paziente si muovono infatti anche nella
‘giungla’ delle emozioni, un ambiente intricato dove
valori come l’angoscia e l’aggressività possono fare
premio sulla logica e guidare la motivazione. In questi casi il Team diabetologico deve saper abbandonare l’approccio psicopedagogico e assumere un atteggiamento introspettivo sia nei confronti del paziente
sia di se stesso, accettando anche la collaborazione
con uno psicoterapeuta.
Psicologo clinico e psicoterapeuta psicoanalitico, Anna
Maria Scalabrino collabora con i diabetologi e il personale sanitario del Centro per la Cura del Diabete,
II Clinica Medica, Policlinico Umberto I, Università La
Sapienza di Roma. I suoi lavori approfondiscono l'incidenza delle dinamiche inconsce sulla gestione di una
malattia cronica come il diabete.
Glicemia, diabete
e vissuti dei pazienti
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