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fiore - diritto penale
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FIORE - DIRITTO PENALE
(IV EDIZIONE, 2013)
Introduzione
§1. Nozione ed ambito del diritto penale vigente
Il diritto penale è costituito dall'insieme delle norme dell'ordinamento giuridico che
prevedono l'applicazione di una misura sanzionatoria di carattere giuridico-penale
(sanzione criminale), come conseguenza di un determinato comportamento umano,
che prende il nome di reato: è reato, in altri termini, il fatto dell'uomo, per la cui
realizzazione la legge prevede, come conseguenza, l'applicazione di una sanzione (o
pena) criminale. Questa definizione del reato costituisce il riflesso precipuo e diretto
del ed. principio di legalità dei reati e delle pene, enunciato nell'art. 1 del codice penale
(c.p.) vigente, il quale stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto che non
sia preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Il
binomio normativo reato-pena non esaurisce, tuttavia, l'ambito del diritto penale, dato
che il nostro ordinamento giuridico prevede (agli artt. 199 e ss. c.p. e 25, co. 3 Cost.)
anche la possibilità di applicare, conseguentemente alla commissione di un fatto
preveduto dalla legge come reato, determinate misure di sicurezza, in qualità di
strumenti atti a prevenire l'ulteriore commissione di reati da parte dell'agente. Negli
ultimi decenni hanno acquisito importanza anche le ed. misure di prevenzione, la cui
applicazione, prescindendo dall'accertamento della concreta commissione di un reato,
si ricollega al particolare dato della pericolosità sociale dell'agente (ed è questo il
motivo per il quale le si definisce anche misure ante delictum).
In ogni caso, va detto che il diritto penale, quale che sia l'angolo di osservazione, si
contrassegna come una branca del diritto pubblico, dal momento che esso non regola
rapporti e conflitti di carattere privato, ma disciplina i rapporti che intercorrono tra la
comunità giuridica statuale e l'individuo che ne infrange determinate regole.
§2. Funzioni e caratteri del diritto penale vigente
a) il diritto penale come sistema di tutela dei beni giuridici
Lo strumento che l'ordinamento adotta, al fine di regolare le azioni dei consociati, è
costituito dalla produzione di specifiche norme di condotta, la cui osservanza, se
necessario, può essere perseguita con la forza, facendo ricorso alla sanzione penale
(detentiva o patrimoniale): è così che il diritto penale assicura una specifica tutela a
quelle entità considerate socialmente più rilevanti (si pensi alla vita ovvero alla libertà
personale). Tali entità, nel dettaglio, prendono il nome di beni giuridici. Ovviamente,
stabilire quali beni giuridici richiedano una tutela penale e quali no, dipende dalle scelte
che il legislatore compie in un determinato momento storico-politico: in linea di
massima, però, si può affermare che vi sono delle priorità che l'ordinamento deve
rispettare e che possono essere sintetizzate come segue:
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• il diritto penale deve, in primis, circoscrivere il suo intervento alla sfera dei beni
giuridici che si percepiscono come maggiormente rilevanti per la vita della
collettività;
• in secondo luogo, l'intervento del diritto penale deve configurarsi come
necessario per la salvaguardia dei beni giuridici che si intendono tutelare (ciò
significa che il ricorso alla minaccia penale deve risultare inevitabile - dunque,
necessario -, nel senso che la stessa deve essere vista come l'unico ed ultimo mezzo
in grado di assicurare la salvaguardia dei beni giuridici (il che, di conseguenza, porta
a considerare tutte le misure apprestate dagli altri settori del sistema completamente
impraticabili);
• in quest'ottica, la dottrina prevalente attribuisce al diritto penale un carattere di
sussidiarietà (vale a dire di ultima ratio) rispetto agli altri rami del sistema
giuridico; è importante specificare, però, che questo principio di sussidiarietà del
diritto penale non deve essere inteso come un criterio che abilita il sistema
penalistico a sanzionare, in modo ulteriore, precetti (comandi o divieti) già
disciplinati in altri settori del diritto (pubblico o privato che sia). Al contrario, va
tenuto presente che, nella maggior parte dei casi, il precetto penale si presenta come
regola originaria: si pensi, ad es., al divieto déW'omicidio {ex art. 575 c.p.) e, in
generale, ai reati contro la persona, ai delitti contro lo
Stato e contro l'ordine pubblico. Ma, a ben vedere, anche quando alcuni dei
presupposti per l'applicazione della norma penale risultano ricavabili da altri rami del
sistema giuridico, il collegamento che si viene ad instaurare tra il fatto vietato (cioè il
reato) e la conseguente sanzione (vale a dire la pena) prescinde da questi presupposti,
data la sua autonoma natura: così, per intenderci, se è vero che per configurare l'ipotesi
del furto è necessario far ricorso ai concetti di proprietà e possesso (ricavabili dalle
norme civilistiche), il precetto che comanda di non rubare trova, però, la sua fonte
originaria ed esclusiva all'interno del codice penale, all'art. 624;
• la tutela che offre il diritto penale presenta, infine, un carattere frammentario; e il
motivo di ciò risiede nel fatto che, nel provvedere alla protezione dei beni giuridici, il
diritto penale individua, tra le possibili ed infinite forme di aggressione, solo quelle più
significative dal punto di vista socio-giuridico (in questo modo, accade che, nel
codificare tali atteggiamenti, determinati comportamenti finiscono per risultare leciti o
anche indifferenti sotto il profilo penalistico).
b) altri caratteri del diritto penale
Rispetto agli altri settori dell'ordinamento, il diritto penale presenta tre peculiarità:
• la prima è il suo tendenziale formalismo (il diritto penale rappresenta, non a caso,
lo strumento principale attraverso il quale lo Stato incide sulla libertà individuale);
• la seconda è l'attenzione che esso dedica alla definizione dei titoli di
responsabilità, con una cura particolare riservata alla componente soggettiva (tant'è
che, per attribuire ad un soggetto la responsabilità per aver commesso un fatto
penalmente rilevante, è necessaria la presenza del dolo);
• la terza è costituita, infine, dal tipo di sanzioni che si possono irrogare (prima tra
tutte la pena criminale, detentiva o pecuniaria, che si sostanzia in una considerevole
limitazione della libertà personale).
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§3. Oggetto e partizioni della scienza del diritto penale
a) la scienza del diritto penale
La scienza del diritto penale è quella branca del settore penalistico che abbraccia tutte
le norme giuridiche che fanno riferimento al diritto penale: nel dettaglio, dal punto di
vista dogmatico, l'obiettivo di questa branca del diritto è quello di assicurare l'esatta
applicazione del diritto penale; il che può avvenire soltanto ricercando il significato
corretto delle sue disposizioni (in quest'ottica, la scienza del diritto penale svolge un
importante ruolo per la comprensione del sistema normativo).
La scienza del diritto penale, però, interessa anche un altro settore e, precisamente,
quello delle scienze umane (con particolare riguardo all'ambito delle scienze
criminali): sotto questo profilo, lo scopo della scienza del diritto penale è quello di
garantire una risposta normativa al problema della devianza criminale.
Nei confronti dello stesso oggetto (vale a dire nei confronti del problema relativo alla
devianza criminale), l'approccio di tipo empirico è, invece, fornito dalla criminologia,
la quale racchiude l'insieme delle conoscenze sperimentali sul reato, sul reo, sulla
condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo.
Ora, il punto d'incontro tra scienza normativa e scienza empirica del diritto penale è
rappresentato dagli obiettivi di politica criminale perseguiti dal legislatore, i quali, da
un lato, possono essere fondati scientificamente soltanto sulla base delle conoscenze
sperimentali sulle cause del fenomeno criminale e, dall'altro, devono essere tenuti in
considerazione nell'interpretazione del sistema normativo del diritto penale. Diritto
penale e politica criminale non si pongono, quindi, in un rapporto conflittuale, come
una parte della dottrina ancor oggi sostiene: difatti, bisogna prendere atto del fatto che il
diritto penale non rappresenta più, come affermava il filosofo Franz von Liszt,
l'insormontabile limite della politica criminale, bensì rappresenta la forma in cui gli
obiettivi di politica criminale subiscono una trasformazione in termini giuridici. Queste
considerazioni portano, così, a ridurre lo spazio che separa il diritto penale e le
discipline criminologiche: ciò perché il trasformare acquisizioni criminologiche in
istanze di politica criminale e, successivamente, istanze di politica criminale in regole
giuridico-penali, costituisce un procedimento essenziale per la realizzazione di quel che
gli studiosi identificano con il socialmente giusto.
b) la scienza del diritto penale e le teorie della pena
In questa prospettiva, il punto di partenza per la costruzione di una teoria generale del
diritto penale, orientata secondo lo scopo della norma (ed. sistematica teleologica)
deve essere costituito da un'attenta analisi circa l'essenza e i fini della pena. In
quest'ottica, occorre rilevare che le teorie della pena vengono tradizionalmente distinte
in due diversi gruppi: teorie assolute e teorie relative. Alle prime corrisponde
l'enunciato si punisce perché si è peccato: esse, quindi, prendendo in considerazione il
reato che è stato commesso, giustificano l'irrogazione di una retribuzione per il male
compiuto (proprio per tal motivo, esse sono anche denominate teorie della giustizia).
Alle teorie relative corrisponde, invece, l'enunciato si punisce affinché non si pecchi:
esse, come si può notare, risultano interamente rivolte al futuro e, perciò, vengono
anche definite teorie della prevenzione. Al loro interno, per altro, si deve distinguere a
seconda che l'effetto preventivo sia rivolto alla generalità dei consociati (e, allora, si
parlerà di ed. prevenzione generale) o si ponga, al contrario, l'accento su obiettivi di
ri-socializzazione del reo (e, in tal caso, si parlerà di ed. prevenzione speciale).
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c) le partizioni della scienza del diritto penale
Tradizionalmente si distingue tra una parte generale ed una parte speciale del diritto
penale; nella parte generale si ricercano e si elaborano gli istituti giuridici ai quali si
riconosce una validità generale rispetto a tutti i reati. In particolare, le materie che
formano oggetto della parte generale sono:
• la legge penale, che ricomprende le norme relative alla produzione, interpretazione
ed applicazione delle norme penali;
• il reato, cioè l'analisi del fatto penalmente rilevante;
• le sanzioni, il cui sistema è imperniato sulle forme non solo della pena, ma anche
delle altre conseguenze giuridiche del reato.
La parte speciale si occupa, invece, dei singoli fatti previsti come reato: beninteso, per
far sì che le norme di parte speciale possano operare in concreto, si rende necessaria la
conoscenza e l'utilizzazione dei concetti elaborati nella parte generale.
§4. Le fonti normative del diritto penale italiano
La prima e più importante fonte normativa del nostro diritto penale è costituita dal
codice penale (il ed. Codice Rocco, 1930) approvato con regio decreto (r.d.) 1398/30.
Ovviamente, tra le fonti un posto particolarmente rilevante spetta anche alle norme
costituzionali, che al diritto penale fanno riferimento, in modo diretto o indiretto (si
tratta, in particolare, degli artt. 25, co. 2 e 3 e 27, co. 1, 3 e 4 Cost.). Esistono poi altri
due testi di legge in forma di codice: sono i Codici penali militari di pace e di guerra. Il
corpus normativo ricomprende, infine, numerose leggi, che vanno a comporre il ed.
diritto penale complementare o speciale.
Le misure di sicurezza trovano la loro disciplina all'interno dello stesso c.p. (artt. 199
ss.), mentre le misure di prevenzione sono disciplinate in appositi testi legislativi.
Parte I
I presupposti culturali ed istituzionali del diritto penale vigente
Capitolo unico
§1. Alle origini del diritto penale moderno: il giusnaturalismo laico La nascita di una
teoria penale, razionalmente orientata, viene fatta risalire intorno al XVII secolo:
infatti, fu proprio in questo periodo storico che cominciò a maturare il passaggio dal
diritto naturale teologico al diritto naturale laico. In particolare, il motivo che
condusse all'attuazione di questo mutamento risiedeva nell'esigenza, avvertita dai
giuristi, di trovare un fondamento del diritto che fosse in grado di prescindere dalle
differenze religiose e da quelle confessionali: non a caso, sarà proprio su tali basi che
Hobbcs intraprenderà, poi, la fondazione giusnaturalistica del diritto. L'idea nuova
consisteva, in breve, nell'attribuire al diritto naturale non il compito di far calare dal
cielo la giustizia divina, ma solo quello di costruire in terra un sistema che fosse in
grado di superare il caos dello stato di natura pregiuridico e che riuscisse, per questa
via, a garantire la sicurezza dei consociati. Nella materia penale, tuttavia, le idee del
diritto naturale laico incontrarono particolari difficoltà ad affermarsi sulla tradizione,
perché erano troppo forti le radici sacre del diritto penale (basti pensare alla totale
identificazione tra delitto e peccato, propria della ideologia medievale); nonostante
questi ostacoli, però, una prospettiva interamente giusnaturalistica era, in realtà, già
presente all'interno dell'opera di Ugo Grozio: il De Jurc belli ac pacis (1625), il cui
contenuto si presentava, infatti, in netto contrasto con le concezioni teocratiche del
tempo. Nella costruzione di Grozio, difatti, Stato e diritto erano concepiti da un punto di
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vista esclusivamente razionale; e questo tratto caratteristico finì, di riflesso, per
influenzare anche la concezione dell'autore sulla materia penale, con riferimento alla
quale, infatti, l'illecito fu identificato con il fatto che contraddice alle regole di una
ordinata comunità di esseri razionali. La sfera giuridica, in tal modo, venne a separarsi
dalla sfera morale: e questo smembramento finì per indirizzare l'intervento punitivo
solo verso i comportamenti esteriori dell'uomo, in qualità di fatti socialmente dannosi.
§2. Il diritto penale dell' illuminismo
a) lo stato della legislazione penale alle soglie del XVIII secolo
Nonostante queste aperture di stampo razionale, è necessario, tuttavia, ricordare che,
nel periodo compreso tra il XVII e il XVIII secolo, le procedure adottate dai diversi
ordinamenti penali si caratterizzavano ancora per le ineguaglianze di trattamento, il
disordine normativo, l'estrema crudeltà e la connessa arbitrarietà: basti pensare, ad es.,
che, per i delitti di lesa maestà, la pena era, nella maggior parte dei casi, quella capitale,
mentre per le infrazioni di lieve entità si procedeva non solo alla fustigazione, ma assai
spesso anche a mutilazioni corporali, come, ad es., al taglio delle mani, della lingua e
delle orecchie. A ciò si aggiunga che la produzione legislativa era, ovunque,
caratterizzata da ripetitività, sovrabbondanza e difficile conoscibilità (soprattutto a
causa dell'inesistenza di semplici raccolte o di repertori affidabili). Se queste, dunque,
erano le condizioni del diritto penale, all'alba dell'età dei lumi, era inevitabile che le
grandi personalità dell'Illuminismo decidessero di appuntare le loro critiche proprio su
questo stato di cose.
b) Montesquieu e il problema penale
Il problema penale può dirsi aperto in Francia mediante la pubblicazione de Lo Spirito
delle Leggi: un'opera con la quale il suo autore, Montesquieu, fornirà dei contributi di
primo piano alla cultura penalistica europea. Montesquieu, nel suo trattato, parte dal
presupposto che la libertà del cittadino consiste nella sicurezza; a sua volta, però, per
far sì che questo sistema funzioni, è necessario che la sicurezza sia condizionata dalle
leggi penali. Da questo schema piramidale se ne deduce, perciò, che il grado di libertà
del cittadino dipende principalmente dalla bontà delle leggi.
In quest'ottica, per Montesquieu rivestono una particolare importanza le regole della
procedura, perché è dalle stesse che si può misurare il grado di libertà del cittadino: tra
queste, le più importanti sono, in primis, quella della imparzialità del giudice e, in
secondo luogo, quella relativa al diritto dell'accusato di essere ascoltato dal giudice,
mediante l'esercizio del suo diritto di difesa.
Per quel che riguarda, invece, la tematica relativa alla teoria della pena, l'ispirazione
razionalizzatrice di Montesquieu si estrinseca nella teoria che le pene non devono
essere contrarie all'ordine materiale e morale dello Stato e devono essere naturali: il
che avviene quando vi è una proporzione tra la qualità del crimine e la qualità della pena
(a tal riguardo, come è stato giustamente notato, questa concezione retributiva della
pena è equiparabile, in sostanza, alle dottrine retribuzionistiche proprie della prima
metà del '700, in quanto dottrina antitetica alle settecentesche concezioni della pena
come deterrente).
Montesquieu riprende, infine, l'assunto per il quale le leggi penali devono concernere
le sole azione esterne dell'uomo; ed è in quest'ottica che egli propone la distinzione tra
quattro classi di reati: contro la religione, contro i costumi, contro la tranquillità e
contro la sicurezza dei cittadini (le pene naturali per quest'ultima classe di reati sono
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indicate nei supplizi). Da questo punto di vista, ovviamente, Montesquieu non si
presenta di certo come un tenace progressista: ma, in ogni caso, non si può disconoscere
in lui un forte atteggiamento di critica nei confronti del diritto vigente.
c) Cesare Beccaria
Il discorso avviato in Francia dal Montesquieu sarà ripreso in Italia, vent'anni dopo, da
Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, attraverso il quale, grazie
ad una felice sintesi dei principi dell'illuminismo in materia di leggi e di giustizia
penale, si porranno le basi dell'indirizzo liberale del diritto e del processo penale.
Grazie a quest'opera, invero, Beccaria può essere, a ragione, considerato il fondatore
del moderno diritto penale, in quanto la maggior parte dei principi da lui enunciati, in
polemica contro la crudeltà e l'arbitrarietà del sistema penale dell'antico regime,
costituiscono, ancora oggi, dei capisaldi fondamentali di un ordinamento che aneli a
essere definito garantista. Più precisamente, i principi enunciati dal Beccaria possono
essere sintetizzati nel modo seguente:
• concezione utilitaristica del diritto penale, in ragione della quale il sistema
penalistico non deve porsi l'obiettivo di far trionfare un'astratta virtù morale, bensì
intervenire solo quando sia assolutamente necessario e socialmente utile;
• certezza e chiarezza del diritto penale, in quanto è diritto di tutti i cittadini conoscere
in precedenza ciò che è vietato e ciò che è consentito dalla legge penale;
• la pena deve colpire il delinquente in misura proporzionata al male dallo stesso
commesso (ed. principio di proporzionalità della pena), ma le sue finalità devono
essere esclusivamente quelle di impedire al delinquente di danneggiare di nuovo la
società (ed. prevenzione speciale), nonché di distogliere i consociati dal commettere
reati dello stesso genere (ed. prevenzione generale);
• le pene, stabilite in modo chiaro e tassativo dal legislatore, devono essere inflitte con
rapidità, in quanto il potere intimidatorio di una pena mite, ma certa, è maggiore di
quello di una pena terribile, ma incerta nella sua applicazione.
Beccaria, infine, volge lo sguardo anche ai temi processuali, perché egli è consapevole
che le regole della procedura costituiscono un ambito essenziale del sistema penale:
non a caso, le pagine dedicate alla pratica della tortura e alla pena di morte sono tra le
più note del suo manuale (in particolare, per ciò che concerne la parte relativa alla pena
di morte, la cui abolizione viene giustificata in termini contrattualistici, in virtù del
fatto che nessun essere umano sarebbe disposto a concedere alla società il diritto di
disporre della propria vita).
d) l'illuminismo penale e le origini del diritto penale liberale
Il primo ad elaborare e ad approfondire le idee del Beccaria sarà Gaetano Filangieri,
nell'opera La scienza della legislazione, attraverso la quale l'autore non solo compie
una sistemazione delle più importanti categorie giuridico-penali (dall''imputabilità, al
dolo, al delitto tentato), ma rielabora, altresì, su nuove basi, la classificazione dei reati e
delle pene.
L'esigenza di eseguire uno studio analitico delle principali categorie penalistiche (in
particolare per ciò che concerne il tema relativo alla teoria della pena), sarà avvertita
anche da Mario Pagano, il quale, attraverso la teoria della minaccia penale come un
contrario motivo rispetto ai motivi a delinquere, anticiperà l'elaborazione del concetto
di prevenzione generale mediante intimidazione.
Seguendo questo schema, Pagano considera la pena come la perdita di un diritto per
un diritto violato o per un dovere omesso; per essere giusta, quindi, essa deve
corrispondere al delitto sia per la qualità che per la quantità. Anche per Pagano, tuttavia,
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il fine (o scopo) del diritto penale resta quello di prevenire i delitti, ed è in quest'ordine
di idee che egli maturerà la sua teoria del contrario motivo: in altre parole, al piacere
derivante dalla commissione del delitto, il legislatore deve opporre (al reo e agli altri
consociati) il timore della pena, quale argine fortissimo e potente ostacolo (in
quest'ottica, la pena viene configurata come controspinta alla spinta criminosa).
Negli stessi termini si pone, infine, la teoria penale di Gian Domenico Romagnosi, che
si ispira, infatti, alla concezione del diritto penale come strumento di difesa sociale:
degna di nota qui è, in particolare, la significativa sintonia con il famoso enunciato del
giurista tedesco Anselm von Feuerbach, per il quale, infatti, la pena si configura come
coazione psicologica all'osservanza del precetto.
§3. Il diritto penale dell'età liberale
a) Francesco Carrara e la Scuola classica del diritto penale
Il pensiero penalistico italiano troverà la sua espressione più compiuta verso la metà del
1800 attraverso l'opera di Francesco Carrara, capostipite della ed. Scuola classica del
diritto penale. Carrara, in particolare, distingue non solo tra una parte generale ed una
parte speciale del diritto penale, ma altresì tra una parte pratica e una parte teorica
della scienza penalistica:
• nella parte teorica si interpreta una legge eterna ed immutabile come modello al quale
tutti debbono uniformarsi;
• nella parte pratica, invece, si interpreta una legge umana e variabile, alla quale tutti
sono tenuti ad uniformarsi, fintanto che vige (in tal modo, Carrara riesce a compiere una
sistemazione organica del diritto penale e ad elevarlo, così, a dignità scientifica). È bene
precisare, inoltre, che Carrara considera il diritto penale come un sistema teso alla
tutela della libertà individuale e (cosa ancor più importante) definisce il delitto come
l'infrazione della legge dello Stato, promulgata per proteggere la libertà dei cittadini,
risultante da uno specifico atto esterno dell'uomo, positivo o negativo, che risulti
moralmente imputabile: così ragionando, l'autore contribuirà a dare un'impostazione
astratta del diritto penale, staccandolo non solo dalla considerazione della personalità
dell' uomo delinquente, ma anche dalle cause sociali del delitto.
L'indirizzo di pensiero denominato Scuola classica amerà, in seguito, definirsi Scuola
giurìdica: e ciò al fine di contrapporsi a quegli orientamenti della scienza penalistica a
cui si addebitavano concezioni di carattere socio-antropologico.
b) il Codice Zanardelli del 1889
Sui postulati della Scuola classica si modellò il primo Codice penale dell'Italia unita: il
Codice Zanardelli (dal nome del ministro della giustizia dell'epoca) il quale, entrato in
vigore il 1° gennaio 1890, andò a sostituire il codice penale sardo del 1859. Al centro
del dibattito sulla riunificazione della legislazione penale vi fu soprattutto l'annosa
questione circa l'abolizione della pena di morte (a lungo ritenuta irrinunciabile, specie
nelle province del meridione, che erano infestate dal brigantaggio); e fu proprio a causa
di questa diatriba che i lavori preparatori del nuovo codice durarono oltre vent'anni, al
termine dei quali, tuttavia, prevalse l'opzione abolizionista, quanto alla pena capitale
(che, di fatto, già non veniva applicata da oltre un decennio, al tempo della
promulgazione del codice).
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Va tenuto presente, in ogni caso, che il nuovo codice penale prevedeva, rispetto alla
legislazione preunitaria, non solo l'abolizione della pena di morte, ma anche:
• massimi e minimi di pena meno elevati;
• la riprensione giudiziale, per i reati di lieve entità;
• richiedeva, per la punibilità del tentativo, l'inizio di esecuzione del delitto;
• distingueva e graduava la responsabilità dei concorrenti nel reato, prevedendo
delle figure secondarie di compartecipi;
• attenuava gli eccessi del cumulo materiale delle pene, nel concorso di reati;
• disciplinava, per la prima volta, l'estradizione, escludendola per i reati politici;
• introduceva, infine, l'istituto della liberazione condizionale dei condannati.
Quanto alla funzione della pena, nei fatti il codice si manteneva ben saldo agli scopi
della prevenzione generale: non mancavano, però, i riflessi di istanze retributive
tipiche della dottrina liberale, che infatti emergevano nella fissazione dei
presupposti e nella graduazione della responsabilità penale).
Il codice, inoltre, dedicava degli ampi riferimenti alla categoria dell'imputabilità (che
era fondata sulla coscienza e libertà dei propri atti), ai criteri di imputazione soggettiva
del reato (dolo, colpa, responsabilità oggettiva), alle cause di giustificazione.
Ovviamente, all'interno del nuovo codice venivano enunciati i princìpi fondamentali
propri del garantismo illuministico-liberale: dal principio di legalità alla regola della
irretroattività della legge penale.
Per converso, nella parte speciale del codice affioravano, però, le esigenze di tutela di
classe, sia nel sistema dei delitti contro la sicurezza dello Stato, che in relazione ad
altre categorie di reati; d'altra parte, i contenuti garantistici del nuovo codice venivano
puntualmente disattesi dal ricorso alla legislazione di pubblica sicurezza e alle misure
di polizia: per cui, non ci si può sorprendere se il codice del 1889 (che certo segnava un
momento fondamentale di unificazione e di progresso) provocò l'effetto di spaccare
letteralmente in due la cultura giuridica italiana.
c) la Scuola positiva del diritto penale
A differenza della Scuola classica, la Scuola positiva del diritto penale prese le mosse
da una visione del mondo che derivava dal positivismo scientifico; il fondatore di
quest'indirizzo di pensiero fu il famoso antropologo Cesare Lombroso, il quale, nel suo
manuale (L'uomo delinquente, 1876) ritenne di essere in grado di determinare il tipo
antropologico del delinquente (il c.d. delinquente-nato).
Poggiando su queste basi, però, il diritto penale vagheggiato dai seguaci della Scuola
positiva non era più un diritto penale del fatto, bensì dell'autore, in quanto tutto era
incentrato sulla pericolosità sociale del soggetto: ragionando in questi termini, allora,
la funzione del diritto penale (e, in particolare, della sanzione penale) fu interamente
spostata in un'ottica special-preventiva, da perseguirsi sia in forma di terapia, sia in via
eliminativa (fino alla condanna a morte ovvero alla sanzione detentiva perpetua per i
delinquenti incorreggibili).
All'apice del suo successo, la Scuola positiva si fece promotore anche di un Progetto
preliminare di codice penale italiano (si tratta del ed. progetto Ferri, del 1921), che era
orientato all'accoglimento di tutti i presupposti (sia filosofici che politico-criminali)
dell'indirizzo positivistico: dalla negazione della distinzione tra delinquenti
imputabili e non imputabili, alla segregazione a tempo - assolutamente o
relativamente - indeterminato, alla parificazione del tentativo al delitto consumato,
alla costruzione delle circostanze, sia aggravanti che attenuanti, esclusivamente in
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funzione della pericolosità del delinquente. Il progetto Ferri, in ogni caso, non riuscì
ad ottenere la trasformazione in legge dello Stato, anche perché, di lì a poco, si
sarebbero prodotti in Italia dei mutamenti politici molto significativi.
§4. Il codice penale del 1930 (ed. Codice Rocco)
Con l'avvento del fascismo, lo scontro ideologico tra Scuola classica e Scuola positiva
venne superato da un nuovo indirizzo di pensiero, denominato tecnicismo giuridico:
questi si contrassegnava per il rifiuto di ogni discussione concernente i presupposti
filosofici e politico-criminali del diritto penale: a conferma di ciò, invero, discipline
come l'antropologia, la filosofia del diritto e la politica criminale vennero additate come
mere scienze speculative, idonee solo ad inquinare la purezza delle costruzioni
giuridiche (per questa corrente di pensiero, dunque, solo il diritto positivo poteva
formare oggetto della scienza giuridico-penale).
E proprio al programma del tecnicismo giuridico si ispirò, in seguito, il nuovo codice
penale, denominato Codice Rocco (dal nome del ministro guardasigilli dell'epoca), il
quale entrò in vigore il 1° luglio 1931: in dettaglio, il nuovo codice penale, tutt'oggi
ancora operante, presentava una parte generale fortemente strutturata che, accanto ai
primi due titoli (dedicati alla legge penale ed alla pena), conteneva un Titolo HI (Del
reato), ricco di definizioni analitiche degli elementi essenziali ed accidentali del reato e
delle più collaudate ipotesi di non punibilità.
È bene precisare, però, che (nonostante l'evidente chiusura del sistema nei confronti
delle concezioni liberali) la nuova legge penale non rinunciò al più caratteristico dei
principi illuministici in materia penale, vale a dire il principio di legalità dei reati e
delle pene: e ciò sia per 1' ovvia difficoltà di rimuovere una regola radicata da ormai
oltre un secolo nella coscienza giuridica europea, sia per la sostanziale irrilevanza di
essa nel quadro dello Stato autoritario, che, ben più apertamente di quello liberale,
poteva utilizzare contro i suoi avversari politici le misure di polizia ed il relativo
apparato repressivo.
Il principio di legalità, del resto, si inquadrava, a ben vedere, in un sistema orientato a
ridurre al minimo non solo lo spazio di intervento della dottrina, ma anche quello della
discrezionalità del giudice: basti pensare che la parificazione delle condotte di tutti i
concorrenti nel reato, la disciplina del rapporto di causalità, la punibilità degli atti
preparatori nel tentativo, l'estensione della responsabilità oggettiva, le particolari
regole sul concorso di reati ed il regime delle circostanze aggravanti rappresentavano
maglie tese ad imprigionare proprio l'interprete ed il giudice.
Per quel che concerne la funzione della pena, essa veniva ricondotta dai compilatori del
codice alla funzione di prevenzione generale, mediante intimidazione; va detto, però,
che erano anche presenti elementi di prevenzione speciale: basti pensare agli istituti
della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale (riservato ai
minori, rispetto ai quali soltanto il nuovo codice riconosceva alla pena concorrenti
finalità di rieducazione morale).
A queste limitate concessioni alle istanze special-preventive, si affiancava la ben più
corposa innovazione legislativa, costituita dall'introduzione delle misure di sicurezza
(strumenti, come sappiamo, atti a prevenire l'ulteriore commissione di reati da parte
dell'agente): in tal modo, il codice Rocco, introducendo il ed. sistema a doppio binario
(pene e misure di sicurezza), finiva per raddoppiare le potenzialità repressive dello
Stato.
Nella parte speciale, invece, il codice penale esprimeva una sostanziale continuità con
la legislazione precedente (e ciò perché l'avvento del fascismo non aveva modificato
minimamente l'assetto socio-economico); in quest'ottica, una cura particolare venne
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riservata al tema dei delitti contro la personalità dello Stato: in questo settore, infatti,
le mutate condizioni politiche permisero al nuovo regime di costituire un efficace ed
ampio sistema di repressione del dissenso politico, assicurato, quest'ultimo, da alcune
disposizioni contenute nel Titolo dedicato ai delitti contro l'ordine pubblico e da alcuni
illeciti contravvenzionali (artt. 654, 656 e 657 c.p.), che andavano a completare la serie
dei numerosi reati di opinione criminalizzati dal codice.
Ulteriori contrassegni del clima politico autoritario erano, poi, visibili nella creazione
di un nuovo titolo (Dei delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe) e nella
disciplina dei delitti in materia di religione, ove si registrava una tutela privilegiata per
il culto cattolico (il quale, infatti, in seguito al Concordato con la Santa Sede, aveva
assunto di nuovo il ruolo di religione dello Stato).
Il nuovo codice incriminava, inoltre, le condotte di sciopero e di serrata, nonché altri
comportamenti diretti contro la nuova facciata dirigistica di uno Stato che, in realtà, si
guardava bene dall'intaccare l'assetto capitalistico dell'economia. Nel complesso,
l'immagine che scaturiva dall'analisi del Codice Rocco poteva essere paragonata ad una
piramide, che presentava - al suo vertice - l'idea dello Stato e che, discendendo
gradatamente attraverso i reati contro i suoi organi, i suoi apparati e la sfera pubblica,
trovava soltanto alla sua base i reati contro la sfera privata (famiglia, persona e
proprietà).
§5. Il diritto penale tra il codice Rocco e la Costituzione repubblicana Ad oltre 50 anni
dalla fine del secondo conflitto mondiale e dalla caduta del regime fascista, non si sono
mai determinate, in Italia, le condizioni per il varo di un nuovo codice penale; vi sono
state, tuttavia, riforme parziali di stampo legislativo, nonché ripetuti interventi della
Corte costituzionale, che hanno contribuito di sicuro a modificare la fisionomia del
sistema codicistico.
In particolare, tra gli interventi legislativi di più ampia portata ricordiamo:
• la L. 220/74, la prima e la seconda legge penitenziaria (L. 354/75 e L. 663/86) e la
L. 689/81 (denominata Modifiche al sistema penale);
• altra importante novità legislativa è, poi, costituita dalla L. 274/2000, attraverso la
quale sono state attribuite al giudice di pace limitate competenze in materia penale.
Al di là delle riforme legislative citate, però, quel che conta qui rilevare è soprattutto
l'importanza che rivestono, per il diritto penale, le norme della nostra Costituzione:
ci riferiamo, in particolare, a quelle contenute negli artt. 25, co. 2 e 3 e 27, co. 1, 3 e
4 (principio di legalità e principio della personalità della responsabilità penale).
Parte II
La legge penale
Capitolo I
Legge penale e stato di diritto
§1. Il principio di legalità (art. 1 c.p.)
L'art. 1 c.p., statuendo che nessuno può essere punito per un fatto che non sia
preveduto espressamente dalla legge come reato, né con pene che non siano da essa
stabilite, codifica il ed. principio di legalità dei reati e delle pene, che, come detto,
trova riconoscimento e garanzia anche nella Costituzione, ex art. 25, co. 2 (nessuno
può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del
fatto commesso): ciò significa che sia il fatto costituente reato, sia la relativa sanzione
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devono essere previsti dalla legge. Il principio di legalità, nel nostro ordinamento
giuridico, si articola nell'enunciazione di quattro regole fondamentali:
• la c.d. riserva di legge in materia penale;
• la regola della tassatività e determinatezza della fattispecie;
• il divieto di applicazione analogica e l'irretroattività della legge penale.
§2. La riserva di legge in materia penale
Il principio della riserva di legge implica che ogni atto normativo, che sia in grado di
determinare una restrizione dei diritti di libertà, deve scaturire dalla volontà popolare,
per come essa si esprime attraverso la rappresentanza parlamentare: ciò sta a
significare che soltanto i procedimenti di formazione delle leggi (ex artt. 70-74 Cost.),
possono garantire un sufficiente controllo dell'utilizzo dello strumento penale. Bisogna,
allora, risolvere in senso negativo, innanzitutto, la questione dell'eventuale potestà
legislativa delle Regioni in materia penale: infatti, alla stregua della disposizione di
cui all'art. 117, co. 2 Cost., in materia di ordinamento civile e penale vige la
legislazione esclusiva dello Stato (i dubbi, in proposito, erano sorti a causa della
sentenza 104/57, con la quale la Corte cost. ritenne la Regione Sicilia competente ad
emanare norme penali a tutela della propria legge elettorale).
Il divieto per le Regioni di emanare proprie norme penali viene, inoltre, confermato
dalla formulazione dell'art. 120 Cost., il quale infatti, imponendo il divieto alle Regioni
di limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio
nazionale la loro professione, impiego o lavoro, implicitamente impedisce alle
Regioni di limitare con norme penali la libertà personale.
Decisivo, al riguardo, appare comunque il riferimento al principio di eguaglianza, ex
art. 3 Cost., dato che, se ad ogni Regione fosse consentito di emanare proprie norme
penali, verrebbe violato il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
a) leggi delegate e decreti legge
Leggi delegate e decreti-legge, invece, possono essere fonte legittima di produzione di
norme penali, in quanto la Costituzione riconosce agli stessi efficacia pari agli atti
normativi cui compete la qualifica di legge.
Sul piano sostanziale, tuttavia, sono state avanzate delle riserve; in particolare, per ciò
che riguarda le leggi delegate (d.lgs.), è stato osservato che il potere legislativo si
limita, in realtà, a formulare criteri direttivi più o meno dettagliati, ma il compito di
concretizzare il precetto spetta all'esecutivo (a dire il vero, però, questa conclusione non
può essere accolta, in quanto va tenuto presente che una scelta di penalizzazione non
appartiene mai, in modo esclusivo, al potere esecutivo, anche perché, se così fosse, la
legge in questione sarebbe costituzionalmente illegittima, ex art. 76 Cost.). Per quel che
concerne, invece, i decreti-leggi (d.l.), da un lato, è stato affermato che le esigenze di
ponderazione sottese alla produzione di norme penali sembrano in forte contrasto con le
ragioni di necessità e urgenza (che giustificano l'emissione dei decreti) e, dall'altro
lato, si è obiettato che per tutto il periodo di vigenza del decreto-legge (e prima della sua
conversione in legge) è eluso, di fatto, il sindacato del Parlamento sull'eventuale
normazione penale: tuttavia, queste obiezioni non sembra si possano condividere,
perché il controllo che le Camere esercitano dopo l'entrata in vigore del decreto è totale.
Tra l'altro, non va neppure dimenticato il fatto che le eventuali difficoltà connesse alla
temporanea durata del d.l. sono state risolte dalla Consulta, la quale, con sent. 51/85 ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo il co. 5 (ora 6) dell'art. 2 c.p., nella parte in cui
estendeva l'applicabilità delle norme relative ai casi di abolitio criminis ed al fenomeno
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della successione di leggi penali anche ai casi di decadenza o di mancata ratifica di un
d.l. e nel caso di un d.l. convertito in legge con emendamenti.
b) le fonti comunitarie, ed il diritto penale
Attualmente, bisogna escludere la legislazione comunitaria dalle fonti di produzione di
incriminazioni penali, in quanto il principio della riserva di legge enunciato nell'art. 25,
co. 2 Cost. non è derogabile. Né una deroga sarebbe proponibile in mancanza di una
legittimazione democratica degli organi comunitari: e, invero, sia il Consiglio che la
Commissione sono privi di un'adeguata rappresentatività popolare e manca loro,
perciò, la legittimazione democratica necessaria all'emanazione di norme di stampo
penalistico; invece, il Parlamento Europeo, che ha un'investitura popolare diretta, non
è al momento dotato di una significativa potestà legislativa (esso, infatti, si limita a
svolgere un'intensa attività di impulso e proposta, densa di significato politico, ma
alquanto marginale sotto il profilo normativo). Si ammette, al contrario, che la norma
comunitaria possa limitare, in caso di incompatibilità parziale, o neutralizzare, in caso
di incompatibilità totale, l'efficacia di una norma penale interna che contrasti con essa:
infatti, in applicazione dell'art. 11 Cost., nel caso in cui si verifichi un contrasto tra
una norma nazionale e una norma comunitaria, il giudice nazionale, ove non sia
possibile procedere ad un'interpretazione adeguatrice, in grado di eliminare
l'incompatibilità, è tenuto a dare applicazione alla norma comunitaria,
disapplicando, nel caso di specie, la normativa interna.
Diversa questione è, invece, quella che riguarda la configurabilità di veri e propri
obblighi di criminalizzazione a carico degli Stati membri, al fine di tutelare beni
giuridici ritenuti comunitariamente rilevanti: al riguardo, è necessario sottolineare,
innanzitutto, che il legislatore comunitario, per molto tempo, si era limitato a richiedere
agli Stati membri l'adozione di misure effettive, in relazione alla tutela di questi beni
giuridici (veniva, quindi, sempre rimessa al legislatore nazionale la scelta del tipo di
misure sanzionatorie da adottare). Tutto ciò fino al 2005, quando la Corte di Giustizia
delle Comunità europee è stata chiamata a pronunciarsi su di un ricorso presentato dalla
Commissione Ue contro il Consiglio Ue: oggetto del ricorso era l'adozione, da parte del
Consiglio, di una decisione-quadro, in materia ambientale, con cui, tra le altre cose, gli
Stati membri venivano invitati ad adottare specifiche sanzioni penali nei confronti di
determinati comportamenti illeciti. La Commissione, però, ritenendo la materia
ambientale di sicura cognizione comunitaria, rivendicava a sé la competenza a
pronunciarsi sull'oggetto.
In quest'ottica, la Corte di Giustizia non solo ha dato ragione alla Commissione, ma,
neirannullare la decisione del Consiglio, ha anche precisato che la legislazione penale,
in via di principio, non rientra nella competenza dell'Unione europea; in ogni caso,
però, questa constatazione non può impedire al legislatore comunitario di adottare
provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri, allorché
l'applicazione di sanzioni penali da parte delle competenti autorità nazionali
costituisca una misura di lotta indispensabile contro violazioni ambientali gravi.
c) consuetudine e diritto penale
In nessun caso la criminalizzazione di un comportamento umano può essere fondata
sulla consuetudine, che consiste nella ripetitività costante e uniforme di un
comportamento umano, accompagnato dalla convinzione della sua corrispondenza
ad un precetto giuridico; per converso, non si potrà determinare neppure l'abrogazione
tacita di una norma penale, per quanto costante nel tempo sia la desuetudine nella sua
applicazione. È bene tener presente, però, che con l'esclusione della consuetudine dalle
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fonti del diritto penale non hanno nulla a che vedere altri fenomeni: si pensi, ad es., ai
casi in cui la legge penale fa rinvio a criteri di valutazione morali o sociali (ed
eventualmente, quindi, anche consuetudinari) nella definizione di un comportamento
vietato. In casi del genere, infatti, la norma penale recepisce solo un giudizio di valore
extragiuridico ad essa preesistente: è questo, ad es., il caso degli artt. 527 e 529 c.p., il
primo dei quali punisce la condotta di atti osceni, e cioè quelli che, a norma del co. 1
dell'art. 529 c.p., secondo il comune sentimento, offendono il pudore. Si pensi ancora
alle ipotesi in cui la legge penale, nello stabilire determinate cause di non punibilità del
fatto previsto come reato, implicitamente evoca anche la consuetudine, quale fonte del
diritto: è questo, ad es., il caso dell'art. 51, co. 1 c.p., il quale statuisce la non punibilità
del fatto costituente reato, che sia compiuto nell'esercizio di un diritto
(nell'ordinamento giuridico generale, un diritto può, infatti, avere la sua fonte anche
nella consuetudine).
d) nulla poena sine lege
La riserva di legge in materia penale implica, ovviamente, la predeterminazione non
solo del fatto previsto come reato, ma anche della relativa sanzione (con riferimento
non solo alla pena principale, ma anche alle pene accessorie e agli effetti penali della
condanna). D'altra parte, una norma penale che prevedesse il fatto da punire, ma non la
relativa sanzione, sarebbe un non senso e se, viceversa, ne rimettesse la determinazione
alla discrezionalità del giudice (o, peggio, dell'esecutivo) tradirebbe in modo flagrante
le istanze del principio di legalità.
§3. Il principio di tipicità dell'azione punibile
La riserva di legge in materia penale non avrebbe significato alcuno, ove non fosse
integrata dal principio di tipicità delle azioni penalmente rilevanti: ciò significa che la
disposizione penale deve fornirci una descrizione, più o meno dettagliata, del fatto
punibile, mediante la previsione, astratta e generale, dei suoi caratteri essenziali. È,
dunque, necessario che la fattispecie legale del reato sia delineata secondo criteri di
tassatività e determinatezza, che rendano possibile la riconduzione del caso concreto al
modello astratto delineato dal legislatore. E, però, mentre la tassatività ha riguardo al
momento applicativo (avendo la funzione di non consentire al giudice di estendere
l'incriminazione al di là dei casi espressamente previsti dalla norma incriminatrice), la
determinatezza designa, invece, una caratteristica propria della formulazione della
fattispecie: da questo punto di vista, in dottrina si è soliti distinguere tra fattispecie a
forma vincolata, nelle quali il legislatore descrive in modo dettagliato le modalità di
condotta rilevanti per il diritto penale (si pensi ad es., ai furto, di cui all'art. 624 c.p.), e
fattispecie a forma aperta, nelle quali, viceversa, il legislatore appare indifferente alle
modalità del comportamento, imperniando la previsione sul risultato dell'azione, in
termini di lesione o di messa in pericolo (si pensi, ad es., all'omicidio, ex art. 575 c.p., in
cui, infatti, è sufficiente che la condotta dell'agente sia idonea a produrre l'evento tipico,
a nulla rilevando le modalità della condotta).
Sotto altro punto di vista, è, invece, possibile distinguere tra clementi descrittivi della
fattispecie penale, i quali, appunto, si concretano in una descrizione dei dati della realtà
empirica, ed elementi normativi, per la cui individuazione è, invece, necessario far
ricorso ad una norma giuridica diversa da quella mcriminatrice (ad es., nel furto,
Yaltruità della cosa sottratta si ricava dalle leggi civili in materia di proprietà e
possesso) ovvero ad un giudizio normativo non giuridico (in tal caso è necessario
operare un rinvio a norme di costume: si pensi, ad es., alla definizione degli atti
osceni).
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§4. Il divieto di analogia
Dalle fonti del diritto penale è esclusa anche l'analogia, vale a dire quel procedimento
che consente di desumere la regolamentazione dei casi non espressamente previsti dalla
legge dalla disciplina dettata per i casi simili (ed. analogia legis) o dai principi generali
dell'ordinamento (ed. analogia juris).
Il divieto di analogia in materia penale è contenuto nell'art. 14 delle disposizioni sulla
legge in generale, il quale stabilisce che le leggi penali non si applicano oltre i casi e i
tempi in esse considerate: in questo modo si vuole, giustamente, impedire al giudice di
creare nuove figure di reato.
Diversa dall'analogia è, però, la ed. interpretazione estensiva, da intendere, questa, nel
significato di interpretazione fino al limite massimo delle ipotesi normative consentite
dal tenore letterale della norma: così, ad es., l'art. 625 c.p. prevede come ipotesi
aggravata di furto quella del fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori, nelle
stazioni, scali ovvero banchine; orbene, in questi casi deve essere l'interprete a stabilire
se la qualifica di viaggiatore possa spettare, ad es., anche ai componenti del personale
di un autoveicolo in servizio di trasporto viaggiatori; concreterebbe, invece, un vero e
proprio procedimento per analogia l'estensione dell'aggravante anche ai componenti del
personale in servizio presso le stazioni, a cui, in nessun modo, può attribuirsi la
qualifica di viaggiatore. Il divieto di analogia in materia penale non trova, però,
applicazione in bonam partem e cioè in relazione alle disposizioni che tolgono illiceità
al fatto previsto come reato: in effetti, queste norme non sono norme penali, bensì
autonome norme non penali, aventi efficacia sull'intero ordinamento giuridico.
§5. Il principio di irretroattività (art. 2 c.p.)
Il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici costituisce una
garanzia fondamentale contro l'arbitrio sia del legislatore che del giudice. Il principio di
irretroattività, nel nostro ordinamento, concerne, in generale, la legge: l'art. 11, co. 1
delle disposizioni sulla legge in generale stabilisce, infatti, che la legge non dispone
che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo; per la materia penale, però, la
regola di cui all' art. 2, co. 1 c.p. (nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato) è assurta al rango di
principio costituzionale del diritto penale attraverso la formulazione dell'art. 25, co. 2
Cost., il quale appunto afferma che nessuno può essere punito se non inforza di una
legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Ora, dal punto di vista politico-criminale, è evidente la connessione tra il principio di
irretroattività e la funzione di prevenzione generale mediante orientamento culturale
(il comando normativo può, infatti, motivare i consociati soltanto se esiste come legge);
innegabile, del resto, è anche il legame che unisce il principio di irretroattività con
quello della personalità della responsabilità penale (quest'ultimo, infatti, dal momento
che implica la conoscibilità della norma da parte del soggetto agente, ne presuppone
anzitutto l'esistenza nell'ordinamento positivo).
Quanto, invece, al termine di riferimento relativo al tempo in cui fu commesso il fatto,
bisogna fare riferimento al tempo in cui è stata realizzata la condotta, che la norma
sopravvenuta qualifica come reato: se, infatti, si dovesse aver riguardo all'evento e la
norma fosse emanata nel lasso di tempo intercorrente tra il compimento dell'azione e il
verificarsi dell'evento, l'autore subirebbe punizione per aver violato una norma da lui
non conosciuta, perché non esistente al momento dell'azione. Alla regola della
irretroattività della legge penale fa da ovvio pendant il principio di non ultrattività
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della norma penale: l'art. 2, co. 2 c.p. disciplina, infatti, la ed. abolitio criminis e
stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge
posteriore, non costituisce più reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione
e tutti gli effetti penali. Ciò sta a significare che, quando una norma penale successiva
abroga una norma incriminatrice preesistente, la condotta, che in precedenza era
connotata da disvalore sociale, non è più considerata come tale dalla legge successiva;
per i fatti che si sono svolti sotto la vigenza della norma abrogata si applicherà,
ovviamente, il principio di retroattività della legge successiva, perché sarebbe quanto
mai illogico continuare a punire l'autore di un fatto che l'ordinamento giuridico non
ritiene più perseguibile penalmente.
L'art. 2, co. 4 c.p. stabilisce, invece, che se la legge del tempo in cui fu commesso il
reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più
favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. In relazione a
questa norma, è necessario, innanzitutto, precisare che la dottrina prevalente ha sempre
ritenuto che il principio della retroattività della legge più favorevole avesse carattere
costituzionale (nonostante l'assenza di una specifica previsione nella nostra
Costituzione); di recente, tuttavia, quest'orientamento è stato fatto proprio dalla
Consulta, la quale ha stabilito, infatti, che la retroattività della lex mitior (cioè della
legge mitigatrice) trova un fondamento costituzionale nel principio di cui all'art. 3
Cost., in quanto il principio di eguaglianza impone di equiparare il trattamento
sanzionatorio degli stessi fatti, a prescindere dal fatto che i medesimi siano stati
commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto l'abolitio
criminis o la modifica mitigatrice (sentt. 393 e 394/2006).
Detto ciò, perché si possa parlare di successione di leggi (art. 2, co. 4 c.p.), è necessario
che un determinato comportamento conservi il carattere di illecito penale, nonostante il
susseguirsi nel tempo di atti legislativi che lo riguardano. In questa prospettiva, l'art. 2,
co. 4 c.p. coinvolge quelle ipotesi di leggi che, senza introdurre nuovi reati o abolire
reati preesistenti, si limitano a modificare il trattamento penale del fatto: in questi casi,
qualora la nuova legge dovesse apportare modificazioni sfavorevoli al reo, continuerà
ad applicarsi la legge precedente; qualora, invece, la nuova legge dovesse apportare
modificazioni favorevoli al reo, si applicherà la nuova legge, che avrà, quindi, efficacia
retroattiva.
Una difficoltà che, tuttavia, spesso si incontra in queste situazioni è quella di riuscire a
capire se la legge successiva abroghi quella precedente, ex art. 2, co. 2 c.p., facendo così
divenire lecito il comportamento prima vietato, o la modifichi semplicemente, ai fini e
per gli effetti dell'art. 2, co. 4 c.p., continuando, quindi, a prevedere come reato il
comportamento precedente, salva l'applicazione della legge più favorevole. Per
risolvere il problema, un primo orientamento dottrinale, sostenuto dalla dottrina
italo-tedesca, ritiene che qualora sussista, tra la norma anteriore e quella successiva,
una ed. continuità del tipo di illecito (in virtù della quale si può affermare che il fatto
era prima punibile, dopo punibile e, quindi, punibile) saremo in presenza di un
fenomeno di successione di leggi penali: in particolare, i parametri per verificare la
sussistenza di tale continuità sono costituiti dall''identità del bene giuridico protetto e
dalle modalità di aggressione allo stesso (in quest'ottica, si ha successione di leggi
quando, nonostante la novazione legislativa, permangano identici gli elementi predetti).
Un'altra parte della dottrina, invece, al criterio (sostanziale) della continuità del tipo di
illecito ne oppone uno più rigoroso, di natura formale, che fa leva sull'esistenza o meno
di un ed. rapporto di continenza tra la nuova e la vecchia fattispecie: in questo caso, si
parlerà di modificazione ove la nuova legge penale presenti un'area comune alla
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precedente normativa, aggiungendovi, però, degli elementi che la rendono più
specifica, in modo tale che, se non fosse esistita la seconda norma (quella, cioè, più
specifica), il fatto sarebbe sicuramente rientrato nell'ambito della prima [è questo, ad
es., il caso dei rapporti che intercorrono tra l'ipotesi generale dell'art. 640 cpv. c.p.
(Truffa in danno dello Stato o di un altro ente pubblico) e l'art. 640 ìris, c.p.,
introdotto ex L. 55/90, il quale prevede una pena più elevata nel massimo quando il
fatto riguarda contributi, mutui e finanziamenti erogati dallo Stato].
Al contrario, quando una norma incriminatrice di carattere specifico viene sostituita da
una fattispecie dal contenuto più generale, si potrà parlare di modificazione solo se la
vecchia fattispecie (quella dal carattere più specifico) possieda caratteristiche tali da
poter essere inglobate in quella nuova (dal carattere più generale), altrimenti si dovrà
parlare di vera e propria un'abrogazione [così, ad es., la nuova fattispecie
dell''infanticidio commesso dalla madre del neonato in condizioni di abbandono
materiale e morale connesse al parto, ex art. 578 c.p. (come modificato dalla L.
442/81), punisce un comportamento che non ha nulla in comune con la vecchia figura
dell'infanticidio commesso per causa d'onore, il cui disvalore, conseguentemente
all'abrogazione della rilevanza penale della causa d'onore (con la citata L. 442/81),
viene fatto rifluire nella previsione generale del delitto di omicidio].
L'applicazione del co. 4 dell'art. 2 c.p. impone, come già detto, l'individuazione della
legge più favorevole cui assoggettare le condotte (previste come reato) realizzate prima
dell'innovazione legislativa. Al riguardo, è bene precisare che l'accertamento andrà
fatto in concreto, non in astratto: così, ad es., ove una legge elevasse la pena minima
applicabile ad un reato, ma contemporaneamente diminuisse la pena massima, l'una o
l'altra legge risulterà più favorevole, a seconda che il giudice ritenga di applicare al caso
concreto il minimo o il massimo della pena (così, ad es., qualora egli intenda applicare
il minimo della pena, applicherà la legge precedente; viceversa, applicherà quella
successiva).
In questo contesto occorre inquadrare anche il nuovo co. 3 dell'art. 2 c.p. (inserito ex L.
85/2006), che fa riferimento ad una particolare ipotesi di successione modificativa
(positiva) del trattamento sanzionatorio del fatto: questa disposizione stabilisce, in
particolare, che laddove vi sia stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore
prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte
immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria.
L'art. 2, co. 5 c.p. stabilisce, invece, che se si tratta di leggi eccezionali (ossia di leggi
emanate in situazioni anormali, quali, ad es., guerre, epidemie, terremoti, etc.) ovvero
temporanee (ossia quelle con vigenza limitata nel tempo) non si applicano le
disposizioni degli articoli precedenti: in questi casi, infatti, si applicherà soltanto la
disposizione in vigore al tempo in cui fu commesso il fatto. Ragionando diversamente,
gli autori dei reati previsti da queste leggi potrebbero sottrarsi alle relative sanzioni,
soprattutto per i fatti commessi poco prima della scadenza del termine o del venir meno
della situazione eccezionale (così, ad es., se Tizio commette un reato che, secondo una
legge temporanea, emanata per far fronte ad un'emergenza sociale, è punito con una
pena più severa, non potrà godere, in alcun modo, del trattamento sanzionatorio più
favorevole, previsto dalla normativa precedente).
A non poche problematiche ha dato luogo, invece, l'interpretazione dell'art. 2, co. 6 c.p.,
ai sensi del quale le disposizioni contenute nell'art. 2 c.p. si applicano altresì nei casi
di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge, nonché nel caso di un
decreto-legge convertito in legge con emendamenti.
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In realtà, questa disposizione, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione del
1948, si è posta in contrasto con l'art. 77, co. 3 Cost, il quale, infatti, dispone che i
decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convcrtiti in legge entro 60 gg.
dalla loro pubblicazione. A rimuovere tale incongruenza normativa è intervenuta la
Consulta, la quale, con sent. 51/85, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del co. 6
dell'art. 2 c.p., nella parte in cui consente l'applicazione del decreto-legge non
convertito (contenente disposizioni più favorevoli al reo) ai fatti realizzati
anteriormente all'entrata in vigore del decreto stesso: pertanto, ove con il
decreto-legge venga abrogata una incriminazione preesistente, la reviviscenza di tale
incriminazione, a seguito della non conversione del d.l., non potrà spiegare effetti
rispetto alle condotte realizzate nel periodo di provvisoria vigenza della norma
contenuta nel d.l. (che non potranno essere punite, in quanto non costituenti reato
secondo la legge del tempo in cui furono commesse); ma, né ì'abolitio criminis, né la
modificazione in senso più favorevole potranno, invece, spiegare effetti nei confronti
di quelle condotte realizzate prima dell'emanazione del decreto, la cui qualificazione
resterà affidata alla legge previgente o a quella posteriore al d.l. non convertito, se più
favorevole (così, ad es., se nel mese di gennaio 2013 Tizio ha commesso un reato punito
con la pena di anni 4 di reclusione e nel mese di febbraio 2013 un decreto-legge,
successivamente non convertito, ha previsto, per lo stesso reato, la pena di anni 2 di
reclusione, a Tizio si applicherà la sanzione prevista dalla norma non modificata dal
decreto non ratificato; se, invece, Tizio commette il reato nel periodo di provvisoria
vigenza del decreto, che introduce norme più favorevoli al reo, anche se
successivamente non convertito in legge, troveranno applicazione, in ossequio al
principio di legalità, le disposizioni previste dall'atto governativo). Questioni in parte
analoghe si ricollegano anche alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme
penali, anche se ad una prima lettura, l'art. 136 Cost. non sembra lasciare spazio a dubbi
circa l'efficacia ex nunc della dichiarazione di incostituzionalità: l'art. 136 Cost.
stabilisce, infatti, che quando la Corte dichiara l'incostituzionalità di una norma di
legge o di un altro atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Così ragionando, però, non si
consentiva alla dichiarazione di incostituzionalità la possibilità di spiegare i propri
effetti nella controversia in occasione della quale era stata sollevata l'eccezione di
illegittimità: il che faceva venir meno l'interesse ad adire la Corte.
La questione, in ogni caso, è stata risolta a seguito dell'entrata in vigore della 1. cost.
87/53, il cui art. 30, infatti, stabilisce che le norme dichiarate incostituzionali non
possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Quando, a seguito dell'applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata
pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti
gli effetti penali: in questo modo, si consente alla dichiarazione di incostituzionalità di
spiegare effetti nel procedimento nel quale era stata sollevata la relativa eccezione.
§6. Il problema delle ed. norme penali in bianco
Il nostro sistema riconosce anche la validità giuridica delle ed. norme penali in bianco:
di quelle disposizioni cioè che contengono una sanzione ben determinata, mentre il
precetto, presentando carattere generico, necessita di essere specificato attraverso atti
normativi di grado inferiore (ad es., un regolamento o un atto amministrativo). Un
simile procedimento, ovviamente, pone problemi di compatibilità col principio della
riserva di legge e, in particolare, con i canoni della tassatività e determinatezza, in
relazione ai quali si dovrebbe, senz'altro, optare per l'illegittimità costituzionale di
queste norme.
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È bene precisare, però che problemi di questo genere non sussistono nel caso in cui la
norma di legge rinvii a una fonte secondaria preesistente e ben specificata, perché qui è
la stessa legge a predeterminare il precetto, sia pure mediante il rinvio ad un testo
normativo non legislativo, di cui evita soltanto di recepire il contenuto. Il discorso è,
invece, diverso nel caso in cui il rinvio venga operato nei confronti di una fonte
secondaria non ancora esistente: qualora, infatti, la legge dovesse rimettere a questa
fonte la determinazione della regola di condotta penalmente sanzionata, il contrasto con
il principio della riserva di legge sarebbe del tutto evidente. Tuttavia, è bene precisare
che questo contrasto non si verifica nel caso in cui sia la stessa legge a predeterminare,
in via generale, la condotta vietata (poniamo, ad es., la detenzione di sostanze
stupefacenti) demandando ad un'altra fonte (ad es., ad un decreto ministeriale) di
specificare i presupposti specifici per il suo verificarsi (di stabilire, ad es., quali sono le
sostanze stupefacenti): di conseguenza, laddove si rispetti tale modus operandi, sarà
possibile procedere all'integrazione mediante fonti subordinate.
Capitolo II
L'efficacia della legge penale nello spazio §1.
Nozione di territorio dello Stato (art. 3 c.p.)
L'art. 3, co. 1 c.p. stabilisce che la legge penale italiana obbliga tutti coloro che,
cittadini o stranieri, si trovino nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal
diritto pubblico interno o dal diritto internazionale.
Questa disposizione codifica il ed. principio di territorialità e cioè l'ambito di validità
spaziale della legge penale: più precisamente, quest'ambito territoriale è identificato dal
legislatore nel territorio dello Stato, il quale, come stabilisce il co. 2 dell'art. 4 c.p., è
costituito dalla superficie terrestre ricadente nei suoi confini geografico-politici,
nonché dal mare costiero (ed. mare territoriale) e dallo spazio aereo; l'art. 4, co. 2 c.p.
estende, inoltre, la nozione di territorio dello Stato anche alle navi e agli aeromobili
che battono bandiera italiana.
L'art. 6 c.p. invece, dal canto suo, dopo aver stabilito, al co. 1, che è punito secondo la
legge penale italiana chiunque commette un reato nel territorio dello Stato, precisa,
al co. 2, che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando la
condotta (azione od omissione), che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, o
si è ivi verificato l'evento, che è conseguenza dell'azione od omissione: ciò sta a
significare che si applicherà la legge penale italiana, ad es., sia nell'ipotesi dell'omicidio
commesso da chi, al di qua del confine di Stato, spara ed uccide una persona che si trova
al di là del confine; sia nel caso inverso. Dovrà, altresì, considerarsi commesso nel
territorio dello Stato anche quel reato, di cui solo un segmento si sia ivi realizzato: si
pensi, ad es., al transito in Italia di un pacco postale contenente droga, proveniente da
uno Stato estero e destinato a persona residente in un altro Stato estero.
§2. Le deroghe al principio di territorialità
a) i reati commessi all'estero
Il cpv. dell'art. 3 c.p. dispone che la legge penale italiana obbliga, altresì, tutti coloro
che, cittadini o stranieri, si trovino all'estero; ora, questa norma, come si può notare,
prevede delle deroghe al principio di territorialità: deroghe che si concretizzano nel
momento in cui lo Stato italiano punisce determinati reati commessi all'estero.
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In particolare, ai sensi dell'art. 7 c.p. è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo
straniero che commette in territorio estero i seguenti reati:
• i delitti contro la personalità dello Stato;
• i delitti di contraffazione del sigillo dello Stato;
• i delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato;
• i delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri
о violando i doveri inerenti alle loro funzioni.
Tale disposizione, in sostanza, accoglie il c.d. principio di universalità della legge
penale italiana e lo fa in considerazione della particolare natura dei delitti elencati.
b) il delitto politico
L'art. 8 ср., invece, punisce il cittadino о lo straniero che commette in territorio estero
un delitto politico (delitto non compreso tra quelli indicati nell'articolo precedente). A
tal riguardo, occorre distinguere due tipologie di delitto politico:
• il delitto oggettivamente politico, il quale offende un interesse politico dello Stato (ad
es., l'integrità territoriale, la sovranità e la forma di governo) о un diritto politico del
cittadino (ad es., i diritti elettorali, attivi e passivi);
• il delitto soggettivamente politico, che rappresenta, invece, il delitto comune che sia
stato determinato, in tutto о in parte, da motivi politici (secondo la giurisprudenza
prevalente, perché un delitto comune possa essere ritenuto soggettivamente politico, è
necessario che il soggetto agente sia stato spinto a delinquere al fine di poter incidere
sull'esistenza о sul funzionamento dello Stato о al fine di favorire о contrastare idee
politiche, sociali о religiose).
c) il delitto comune commesso all'estero dal cittadino
L'art. 9 c.p. punisce, secondo la legge italiana, il delitto comune commesso all'estero
dal cittadino, a patto, però, che si tratti di delitto punito con la reclusione ed il cui autore
sia presente nel territorio dello Stato: più precisamente, se il delitto è stato commesso a
danno dello Stato о di un cittadino italiano, è necessaria una pena non inferiore, nel
minimo, a 3 anni di reclusione (diversamente, si rende, altresì, necessaria la richiesta
del Ministro della Giustizia).
Se, invece, il delitto è stato commesso a danno di uno Stato estero ovvero di un
cittadino straniero, non solo occorre la richiesta del Ministro della Giustizia, ma è
necessario, altresì, che l'estradizione, da lui chiesta, non sia stata concessa о non sia
stata accolta dallo Stato estero.
d) il delitto comune commesso all'estero dallo straniero
L'art. 10 c.p. punisce, secondo la legge italiana, il delitto comune commesso all'estero
dallo straniero, sempre a patto, però, che si tratti di delitto punito con la reclusione e il
cui autore sia presente nel territorio dello Stato: più precisamente, ove il delitto sia
commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano è necessaria una pena (per
quel reato) non inferiore ad 1 anno di reclusione e la richiesta del Ministro della
Giustizia. Se, invece, il delitto è commesso a danno di uno Stato estero o di un
cittadino straniero è necessaria: una pena non inferiore, nel minimo, a 3 anni di
reclusione; la richiesta del Ministro della Giustizia e la mancata concessione o
accettazione dell'estradizione, sia da parte del Governo in cui il reato è stato commesso,
sia da parte del Governo dello Stato cui appartiene il reo.
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§3. L'estradizione
L'estradizione è un istituto di stampo internazionale, che si estrinseca nella consegna di
un individuo da parte di uno Stato a un altro Stato, perché sia da questi giudicato (in tal
caso, si parla di estradizione processuale) o sottoposto all'esecuzione della pena,
qualora sia stato già condannato (si parla, in tal caso, di estradizione esecutiva).
L'estradizione si definisce attiva quando è richiesta; passiva quando è concessa. Per
quanto riguarda l'estradizione passiva, la legge italiana, all'art. 13 c.p., stabilisce che il
fatto che forma oggetto della domanda di estradizione deve essere preveduto come
reato sia dalla legge penale italiana che da quella straniera (è questo il ed. requisito
della doppia incriminabilità); non si deve trattare di reati per i quali le convenzioni
internazionali facciano espresso divieto di estradizione; l'estradando deve essere
straniero (in caso contrario, l'estradizione può essere concessa solo ove espressamente
consentita dalle convenzioni internazionali). Ad ogni modo, l'estradizione non può
essere concessa:
• per motivi di razza, di religione o di nazionalità;
• per reati puniti all'estero con la pena di morte;
• per reati politici (così come stabilito ex artt. 10 e 26 Cost.), dal novero dei quali
sono esclusi i delitti di genocidio.
La Cassazione ha, comunque, tenuto a precisare che, ai fini dell'estradizione, il
concetto di delitto politico, contenuto nelle norme costituzionali, non coincide con
quello contenuto nell'art. 8 c.p., in quanto nel codice tale concetto viene definito in
funzione repressiva, mentre nelle disposizioni costituzionali esso è assunto a
garanzia della persona.
Capitolo III
Le immunità
Le immunità costituiscono delle particolari prerogative che sono riconosciute a quelle
persone che adempiono funzioni o ricoprono uffici di particolare importanza; esse si
sostanziano nell'esenzione di questi soggetti da ogni conseguenza di tipo penale, in
ragione della loro qualifica professionale.
Tradizionalmente, si distingue tra immunità di diritto pubblico interno ed immunità di
diritto internazionale.
Le immunità derivanti dal diritto pubblico interno concernono:
• il Presidente della Repubblica (ed il Presidente del Senato quando sostituisce nelle
sue funzioni il Capo dello Stato): questi, a norma dell'art. 90 Cost., non è
responsabile penalmente degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, fatta
eccezione per i reati di Alto tradimento e di attentato alla Costituzione;
• i membri del Parlamento e quelli dei Consigli regionali, i quali, ai sensi dell'art. 68,
co. 1 Cost., non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati
nell'esercizio delle loro funzioni;
• i giudici della Corte Costituzionale;
• i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura.
Le immunità derivanti dal diritto internazionale riguardano, invece:
• il Sommo Pontefice, la cui persona è definita Sacra ed Inviolabile;
• i Capi di Stato ed i Reggenti, che si trovino nel territorio italiano;
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• i Capi di Governo ed i Ministri degli Affari Esteri;
• gli agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato;
• i Consoli, i vice-Consoli e gli agenti consolari;
• i giudici della Corte dell'Aja;
• i membri del Parlamento Europeo;
• gli appartenenti ai reparti di truppe straniere, qualora si trovino nel territorio dello
Stato (ovviamente, previa autorizzazione).
Parte III Il
reato
Sezione I
Introduzione alla dottrina del reato
Capitolo unico
§1. L'analisi del reato: l'articolazione bipartita e la concezione tripartita Sotto il profilo
formale, il reato può essere definito come l'insieme dei requisiti necessari e sufficienti
per il prodursi della conseguenza giuridica della sanzione penale: la definizione
appena enunciata, però, può essere compresa solo mediante la scomposizione e la
successiva ricomposizione degli elementi costituenti il fatto di reato. Ora, è chiaro che,
nel prevedere un fatto come reato, il legislatore se lo rappresenta come un processo
unitario: più precisamente, egli individua (e penalizza) un segmento di vita, costituito
da un comportamento esteriore dell'uomo, al quale attribuisce una portata socialmente
negativa; ma, per poterne cogliere la specifica rilevanza giuridica, è indispensabile
analizzare questo dato unitario, attraverso la scomposizione dei dati di valore che lo
costituiscono. In quest'ottica, è necessario precisare che l'analisi del reato è stata,
storicamente, condotta secondo tre diverse schematiche. Analizziamole.
• Un primo schema di analisi scompone il fatto delittuoso in due elementi: quello
oggettivo (o anche detto della fisicità), e cioè l'accadere visibile nel mondo esterno; e
quello soggettivo (anche detto psicologico), rappresentato, invece, dall'atteggiamento
interiore che sostiene la condotta dell'autore.
Questo schema è senz'altro caratteristico della Scuola classica, di carrariana memoria,
la quale, infatti, tendeva a distinguere tra forza fisica e forza morale.
• Il modello di dottrina elaborato, invece, in Germania e condiviso anche in Italia si
caratterizza per un diverso approccio alla tematica, dal momento che i vari elementi che
compongono il reato vengono ricavati dal collegamento che si instaura tra il fatto
vietato e l'ordinamento giuridico. Questo procedimento di analisi, poiché dà luogo a tre
elementi costitutivi del reato, prende il nome di concezione tripartita del reato: ora, il
primo e fondamentale elemento di questo schema concerne la conformità del fatto alla
descrizione normativa di un reato e prende il nome di tipicità.
La conformità del fatto alla descrizione normativa di un reato da sola, tuttavia, non
implica necessariamente anche la contrarietà del fatto con l'ordinamento giuridico:
questa contrarietà, invero, potrà essere affermata solo nel caso in cui non sussistano
particolari condizioni di liceità della condotta e, più precisamente, in assenza di cause
di giustificazione (soltanto in presenza di tali condizioni il fatto tipico potrà essere
considerato anche antigiuridico: ed è questo il secondo elemento fondamentale dello
schema tripartito, che prende, appunto, il nome di antigiuridicità). L'ulteriore figura di
qualificazione dello schema tripartito concerne, infine, la verifica dei presupposti di
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ordine soggettivo, che vanno ad integrare il ed. giudizio di colpevolezza: ad essa (la
colpevolezza), in origine, si assegnava il contenuto psichico dell'azione (cioè il dolo e
la colpa), mentre nell'evoluzione della dottrina del reato ci si è andati man mano
orientando verso una concezione normativa di colpevolezza, nella cui ottica ciò che
viene in rilievo è la verifica dei presupposti della normalità e maturità psichica, da cui
dipende l'imputabilità del soggetto.
Tipicità, antigiuridicità e colpevolezza costituiscono, quindi, i predicati dell'azione
penalmente rilevante nello schema tripartito.
• Alla teoria tripartita si è da sempre contrapposta una ed. articolazione bipartita degli
elementi costitutivi del reato, secondo la quale l'antigiuridicità non costituirebbe un
autonomo elemento del reato, ma ne rappresenterebbe l'essenza. La fattispecie del
reato verrebbe, in questo modo, a configurarsi come antigiuridicità tipizzata, in ragione
del fatto che il carattere tipico dell'azione sarebbe dato dalla sua antigiuridicità: così
ragionando, la mancanza di cause di giustificazione finirebbe per rientrare nel carattere
della tipicità, mentre, all'inverso, la loro presenza finirebbe per configurarsi come una
causa di esclusione dello stesso fatto tipico (in conseguenza di ciò, a
quest'orientamento dogmatico si dà anche il nome di dottrina degli elementi negativi
delfatto).
Parte della dottrina, però, ha giustamente evidenziato che, se nella fattispecie legale del
reato vengono inclusi momenti ed. negativi (che, poi, corrispondono alle ipotesi delle
cause di giustificazione), la fattispecie incriminatrice viene, in sostanza, privata della
sua funzione di tipicizzazione, perché in essa si fanno rientrare elementi che, in realtà,
sono fuori dalla descrizione legale del reato. Del resto, va anche tenuto presente che la
distinzione tra tipicità e antigiuridicità è fondata su precise differenze di valore
giuridico, che non possono essere, in alcun modo, disconosciute: mentre, infatti, la
tipicità rappresenta la ed. materia del divieto (attraverso di essa, cioè, il legislatore ci
fornisce il quid del divieto, descrivendo concretamente cosa il diritto penale proibisce),
l'antigiuridicità rappresenta, invece, un mero giudizio di relazione, che intercorre tra il
fatto, penalmente sanzionato, e l'intero ordinamento giuridico. Essa, quindi, non limita
o, comunque, non modifica la materia del divieto (vale a dire la tipicità del fatto tipico),
ma elimina semplicemente l'obbligo di osservare il divieto, in presenza di particolari
circostanze giustificanti: si pensi, ad es., all'uccisione di un uomo (azione penalmente
sanzionata ex art. 575 c.p.), che sia compiuta al fine di difendersi ad un'aggressione
ingiusta (art. 52 c.p.). In questo caso, invero, la materia del divieto (l'uccisione di un
uomo) non viene eliminata attraverso la presenza del momento giustificante (legittima
difesa), come suggeriscono i postulati della teoria degli elementi negativi del fatto (ed
invero, resta il fatto che un uomo è stato ucciso, sia pure in stato legittima difesa); ciò
che, a ben vedere, viene eliminata è solo l'efficacia del divieto di uccidere, che in
questa particolare situazione non può trovare applicazione, stante la presenza
dell'esimente (legittima difesa).
§2. Lo schema tripartito del reato
a) la concezione tripartita nella visione di E. Beling
In connessione con Y affermarsi dei sistemi codificati di diritto penale, fondati sul
principio di legalità, e grazie, soprattutto, ai contributi della dottrina di Ernst Beling,
emerge con chiarezza il concetto della tipicità dell'azione punibile: solo l'azione tipica
(cioè la condotta vietata, descritta dal legislatore) può entrare nel campo dell'illecito
penale ed essere, ulteriormente, analizzata sotto i profili dell'antigiuridicità e della
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colpevolezza, dai quali dipende l'esistenza stessa del reato e che presuppongono, in
primis, la conformità del fatto alla descrizione legale di un reato (cioè la sua tipicità).
La realizzazione del fatto tipico, però, nonostante la sua contrarietà ad una specifica
norma di divieto, non presuppone necessariamente anche l'antigiuridicità del fatto,
poiché l'ordinamento, oltre alle norme di divieto, contiene anche norme permissive, le
quali hanno appunto la funzione di rendere lecito il compimento di azioni tipiche,
altrimenti vietate: si pensi, ancora una volta, all'uccisione di un uomo compiuta in stato
di legittima difesa.
Ciò significa, pertanto, che un fatto tipico potrà risultare antigiuridico qualora esso sia
riconducibile solo nell'ambito della norma penale che vieta la sua realizzazione; tale
fatto, viceversa, risulterà essere conforme al diritto, quindi non antigiuridico, qualora
sia riconducibile anche ad un'altra norma dell'ordinamento, che consente o impone la
sua realizzazione (si pensi, ad es., all'adempimento di un dovere, ex art. 51 c.p.). Nel
modello elaborato dal Beling, infine, il terzo elemento del reato, la colpevolezza, viene
ad esprimere il rapporto psicologico dell'autore con il fatto, quale azione tipica ed
antigiuridica: ora, come si può notare, il concetto belinghiano di colpevolezza nasce e si
sviluppa sulla base della perfetta separazione tra il lato esterno (od oggettivo) e il lato
interno (o soggettivo) del reato (in particolare, questo smembramento dell'azione ha,
per il Beling, lo scopo precipuo di realizzare la funzione di certezza del diritto). Beling,
infatti, ritiene che la tipicità della condotta dipende solo ed esclusivamente dalla
corrispondenza dell'azione od omissione alla descrizione legale di un reato, nei suoi
connotati esteriormente riconoscibili; con la precisazione che, a sua volta, questa
condotta deve essere causalmente diretta alla lesione (o alla messa in pericolo) del
bene tutelato (questi due elementi sono, ad avviso dell'autore, necessari e sufficienti per
decidere dell'esistenza del fatto tipico).
Al contrario, il contenuto psichico dell'azione (cioè il dolo e la colpa) viene distaccato
dalla base oggettiva della tipicità ed inserito nel concetto del reato a rappresentare,
come detto, la categoria della colpevolezza: Beling, infatti, ritiene che, per l'esistenza
ed il riconoscimento della tipicità, è sufficiente l'esistenza di un'azione dell'uomo,
causalmente produttrice di un evento, sorretta dalla volontà; ma ciò unicamente per
individuare una differenza tra ciò che è azione e ciò che, invece, non lo è. Invero, allo
scopo di determinare ciò che è azione è sufficiente la certezza che l'autore, in modo
volontario, abbia agito o sia rimasto inattivo; che cosa egli abbia voluto è, viceversa,
del tutto indifferente (sotto il profilo della tipicità), in quanto il contenuto della volontà
ha importanza soltanto per il problema della colpevolezza.
Per Beling, dunque, la colpevolezza deve essere analizzata soltanto da un punto di vista
psicologico: ragion per cui, ragionando in questi termini, essa (la colpevolezza) si
profila come un puro concetto di genere, al cui interno bisogna collocare i coefficienti
psichici dell'azione: vale a dire il dolo e la colpa.
b) i limiti della concezione bclinghiana e la teoria finalistica di Welzel
La delimitazione belinghiana del fatto tipico all'insieme degli elementi esteriori dei
singoli reati (con l'esclusione di ogni coefficiente psichico) serve ad escludere ogni tipo
di valutazione e, quindi, di arbitrio da parte del giudice (lo stesso Beling tende a
precisare che il fatto tipico è un insieme di dati obicttivi, idonei solo a costituire un
indizio per la successiva valutazione dell'antigiuridicità).
Tuttavia, nella evoluzione della dottrina del reato entra in crisi, fin da subito, sia la
distinzione tra elementi descrìttivi ed elementi normative-valutativi, sia la separazione
di principio tra oggettivo e soggettivo: infatti, in primis, si comincia col prendere atto
del fatto che per l'accertamento del fatto tipico è impossibile, in molti casi, prescindere
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da valutazioni normative (come, ad es., per stabilire l'altruità della cosa, nel furto). In
secondo luogo, comincia a farsi strada l'idea che possano esistere fattispecie, in cui
l'illiceità della condotta non può essere definita (e giudicata tale) senza il riferimento ad
elementi di stampo psicologico (o, in ogni caso, soggettivo): si intuisce, infatti, che
alcuni reati si possono, in realtà, distinguere da altri soltanto sulla base di un diverso
atteggiamento intcriore del soggetto (si pensi, ad es., alla differenza tra il delitto di
ratto a fine di matrimonio, ex art. 522 c.p., e quello di ratto a fine di libidine, ex art.
523 c.p.). Non solo: si comprende, inoltre, che vi sono dei fatti la cui contrarietà ad una
norma di divieto può essere affermata soltanto se si punta l'attenzione allo scopo
perseguito dall'agente (il delitto di furto, ad es., si configura soltanto se
l'impossessamento della cosa altrui è compiuta alfine di trarne profitto, ex art. 624
c.p.).
Tutte queste osservazioni condurranno, pertanto, l'originario modello tripartito del
reato in una profonda crisi; una crisi che spianerà la strada ad un nuovo assetto della
dottrina del reato. In particolare, una svolta decisiva in questa direzione si avrà con
l'affermarsi della dottrina dell'illecito personale e, più precisamente, con l'importante
teoria finalistica dell'azione elaborata dal giurista e filosofo Hans Welzel:
quest'ultimo, in particolare, parte dall'essenziale affermazione secondo cui l'azione
dell'uomo, per poter essere posta alla base del fatto penalmente rilevante, deve, in modo
assoluto, assumere la fisionomia di azione volontaria. Ciò significa, in altri termini, che
l'azione umana deve essere considerata alla stregua di un'attività orientata in modo
finalistico: infatti, afferma Welzel, l'uomo, proprio perché è in grado di orientare i
suoi comportamenti e di controllarne gli effetti, il suo agire, cosciente e volontario,
finalisticamente determinato, si distingue in modo essenziale dal mero accadimento
causale (è evidente, dunque, che, ad avviso di Welzel, l'idoneità dell'azione umana,
intesa come elemento costitutivo del fatto tipico, non può essere determinata solo in
base alla sua efficienza causale per la lesione del bene, ma deve essere stabilita a partire
dal suo significato come processo della vita sociale).
Così ragionando, il contenuto psichico dell'azione (quindi, il dolo e la colpa) viene in
considerazione già a livello della tipicità, perché senza questo riferimento verrebbe a
mancare proprio la descrizione legale del reato: ed ecco che, in questo modo, Welzel
finisce per coniare i due tipi di azioni penalmente rilevanti:
• il fatto doloso, che è un fatto che l'agente non doveva volere;
• il fatto colposo, che, invece, è un fatto che l'agente non doveva produrre.
L'anticipazione di dolo e colpa all'interno del fatto tipico, oltre a fornirci un'azione
logicamente orientata, ci consente anche di configurare la categoria della
colpevolezza come un puro concetto normativo: il dolo e la colpa, infatti, in quanto
concetti relativi alla specie di fatto, attengono al modello legale del reato; il giudizio
di colpevolezza, invece, viene ad esprimere la relazione che intercorre tra
l'atteggiamento antidoveroso della volontà del soggetto (doloso o colposo) e la
pretesa dell'ordinamento all'osservanza della norma (in termini di imputabilità).
§3. La struttura del reato nell'ordinamento penale vigente
L'interpretazione della parte generale del codice penale convalida la scelta di uno
schema di analisi di struttura del reato imperniato sulla tripartizione dei suoi elementi
essenziali (nelle categorie della tipicità, dell'antigiuridicità e della colpevolezza). È
bene precisare, però, che una parte della dottrina (in particolare, Roxin) rivendica a
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queste categorie dogmatiche del diritto penale anche una specifica ed importante
funzione politico-criminale. Accogliendo questo punto di vista, va precisato che:
• l'elaborazione del fatto tipico deve essere diretta a soddisfare le esigenze di
certezza del diritto e di determinatezza legislativa (a garanzia della libertà del
cittadino);
• l'antigiuridicità deve, invece, essere improntata alla risoluzione dei conflitti
sociali, che sorgono dalla collisione di interessi individuali;
• la colpevolezza, infine, deve essere concepita come il presupposto e il limite
necessari affinché lo Stato possa esercitare la pretesa punitiva (da intendere, questa,
in termini di prevenzione, generale e speciale).
In dettaglio, dal punto di vista politico-criminale, nell'ambito della dottrina del fatto
tipico è necessario verificare il modo in cui il legislatore riesce a realizzare le esigenze
del principio di legalità; a questo proposito, egli dispone di due metodi diversi, che
possono essere utilizzati anche in maniera alternativa: il primo metodo consiste nella
puntuale descrizione di azioni, di accadimenti materiali e di processi intcriori (in tal
caso, si parla anche di reati di azione: si pensi, ad es., alla rapina).
Del secondo metodo, invece, il legislatore si serve laddove non ritenga essenziali le
specifiche modalità di comportamento del soggetto agente: in tal caso, il fondamento
della sanzione riposa sul fatto che il soggetto non adempie alle prestazioni che il ruolo
sociale da lui assunto gli impone di adempiere (in relazione a siffatte ipotesi, si è soliti
parlare anche di reati d'obbligo: si pensi, ad es., all'infedele patrocinio ovvero alla
procurata evasione).
Si parla, invece, di reati impropri di azione nei casi in cui reati di obbligo siano inclusi
in reati d'azione: è questo il caso, ad es., della madre che fa morire di fame suo figlio,
omettendo di nutrirlo per un'intera giornata.
Nell'ambito della dottrina dell'antigiuridicità è necessario, invece, verificare il modo in
cui il legislatore cerca di risolvere i conflitti sociali. In quest'ottica, egli utilizza un
numero limitato di principi ordinatori di natura sostanziale: così, ad es., nella legittima
difesa entrano in gioco i principi dell'autotutela e della difesa del diritto (nel senso che
ognuno può opporre resistenza contro le aggressioni vietate dalla legge). Autotutela e
difesa del diritto trovano, però, il loro limite comune nel principio di proporzionalità,
in base al quale, se per difendersi da attacchi insignificanti, come quelli provenienti, ad
es., da parte di bambini o di incapaci, si cagionano gravi lesioni fisiche, si giunge al
disconoscimento della scriminante.
Nell'ambito, infine, della dottrina della colpevolezza si rende necessario accertare se il
comportamento tenuto dall'agente, sotto il profilo politico-criminale, meriti di essere
sanzionato con una pena: se, infatti, l'autore, per una qualsiasi ragione, non avrebbe
potuto, comunque, evitare il fatto tipico e antigiuridico da lui realizzato, l'inflizione di
una sanzione appare inutile, sia dal punto di vista della prevenzione generale che di
quella speciale.
Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo all'importanza che, per il diritto penale,
riveste la nostra Carta Costituzionale: è in essa, infatti, che è possibile oggi rinvenire gli
agganci normativi sui quali fondare le tre funzioni politico-criminali di tutela della
libertà, di soluzione dei conflitti sociali e di esplicazione delle istanze di prevenzione.
E, infatti, il principio della tutela della libertà trova esplicito riferimento negli artt. 13,
25, co. 2 e 111 Cost., i quali, nel loro insieme, tutelano l'individuo relativamente alla
restrizione della libertà personale.
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A sua volta, il principio della risoluzione dei conflitti sociali trova riconoscimento
negli artt. 2 e 3 Cost.
Infine, il principio dell' esplicazione delle istanze di prevenzione trova un
riconoscimento negli artt. 2,3,13,25, co. 2 e 27, co. 1, 3 e 4 Cost.
Sezione II
Il fatto
Capitolo I
La struttura del fatto tipico
§1. La relazione tra norma incriminatrice e bene giuridico
Come sappiamo, nel nostro ordinamento, una distinzione molto importante è quella tra
le fattispecie a forma aperta e le fattispecie a forma vincolata: nelle prime, la condotta
del soggetto agente è incriminata a priori, cioè indipendentemente dalle sue specifiche
modalità esecutive. Nelle seconde, al contrario, giocano un ruolo essenziale anche le
specifiche modalità del comportamento dell'agente.
Beninteso, l'utilizzazione di fattispecie a forma aperta o, viceversa, a forma vincolata,
dipende, in generale, dall'importanza che assume il bene giuridico cui il legislatore
intende concedere protezione: nel senso che, quanto più alto è il valore che il bene in
questione riveste per la salvaguardia delle condizioni di vita della comunità, tanto più
rincriminazione tenderà a ricomprendere ogni possibile forma di aggressione al bene
stesso.
In questa prospettiva, è bene precisare che il bene giuridico svolge, nel nostro sistema
penale, due importantissime funzioni: da un lato, infatti, esso rappresenta il punto di
orientamento della legislazione (si parla, al riguardo, della ed. funzione ideologica del
bene giuridico) e, dall'altro, svolge una funzione essenziale nell'interpretazione della
fattispecie, perché concorre a definirne i confini, a distinguerla da altre fattispecie e
dalla serie infinita dei fatti penalmente irrilevanti (si parla, in questo caso, della ed.
funzione esegetica del bene giuridico).
Il bene giuridico, così inteso, viene anche definito oggetto giuridico del reato: oggetto,
cioè, sia della tutela normativa, sia dell'aggressione che si realizza con il compimento
della condotta incriminata.
§2. La struttura della fattispecie oggettiva del fatto tipico
Dal punto di vista della teoria generale del reato, integrando le singole norme penali
incriminatrici di parte speciale con la normativa di parte generale, si perviene ad una
importante distinzione: quella tra fattispecie oggcttivo-materiale e fattispecie
soggettiva. Quanto alla fattispecie oggettiva, va detto che il suo primo elemento
caratteristico è costituito dall'autore (ed. soggetto attivo del reato), cioè colui che
realizza, nel mondo esterno, il fatto tipico di un determinato reato; è bene precisare,
però, che può essere autore solo una persona fisica (un essere umano), nonostante vi sia
un forte dibattito in dottrina circa l'individuazione di forme di responsabilità penale
delle ed. persone giuridiche: per esse, in realtà, il legislatore (con la L. 300/2000) ha
ritenuto opportuno optare per un modello extrapenale di responsabilità, con
riferimento ai reati commessi nel loro interesse dai loro organi o dai loro sottoposti (e
questo tipo di responsabilità prende anche il nome di responsabilità amministrativa).
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La qualità di autore prescinde, ovviamente, dalla sua colpevolezza: si pensi, ad es., al
minore non imputabile, che sottrae un oggetto dal banco di un supermercato: egli è, in
ogni caso, autore del fatto tipico del furto, nonostante sia da considerare non punibile.
Di regola, autore di un reato può essere chiunque, come nel caso disciplinato dall'art.
575 c.p.; tuttavia, anche se in un numero limitato di casi, la sfera dei potenziali autori è
circoscritta dalla legge solo a determinate categorie di soggetti: così, ad es., il delitto di
infanticidio può essere commesso solo dalla madre del neonato; i delitti di sciopero e
serrata solo da lavoratori e datori di lavoro. In virtù di questa classificazione, si
dicono, pertanto, reati comuni quei fatti che possono essere commessi da chiunque,
mentre si dicono reati propri, quei fatti di cui possono essere autori solo specifiche
categorie di soggetti. È importante chiarire, tra l'altro, che nel reato proprio, la speciale
relazione che intercorre tra l'autore e il bene giuridico può assumere rilevanza in due
casi: o perché determina l'esistenza stessa di un reato o perché configura un diverso tipo
di illecito penale (un esempio del primo tipo è costituito, ad es., dall'omissione di
referto, il cui fatto tipico può essere commesso solo da chi esercita una professione
sanitaria; un esempio del secondo tipo è dato, invece, dai fatti di appropriazione
indebita di denaro, la cui condotta tipica, se posta in essere da un pubblico ufficiale,
integra il delitto di peculato, mentre, se posta in essere da un privato cittadino, integra il
fatto tipico della appropriazione indebita).
Soggetto passivo del reato (o persona offesa dal reato) è, invece, il portatore
dell'interesse giuridico protetto, su cui incide la condotta tipica: così, ad es., soggetto
passivo del reato di omicidio è la persona uccisa; soggetto passivo del reato di lesioni
personali è la persona ferita. È necessario sottolineare, però, che la nozione di soggetto
passivo del reato non si identifica necessariamente con quella di danneggiato dal reato,
la quale designa, invece, la persona che, avendo subito il danno (patrimoniale o non)
causato dal reato, potrà costituirsi parte civile nel processo penale: così, ad es.,
nell'omicidio, soggetto passivo è la vittima dell'azione omicida; danneggiati, invece,
saranno gli stretti congiunti. Nel furto, soggetto passivo è il soggetto che viene privato
della detenzione della cosa; ma se il detentore non si identifica con il proprietario,
quest'ultimo, e non il soggetto passivo, sarà il danneggiato dal reato.
Soggetti passivi possono essere, oltre alle persone fisiche, lo Stato, ramministrazione
pubblica e le persone giuridiche.
Quando, invece, il soggetto passivo è indeterminato si parla di reati vaghi o vaganti: si
pensi, ad es., ai reati contro la pubblica incolumità.
Un altro elemento essenziale della fattispecie oggettiva è, poi, Yoggetto materiale, che
rappresenta l'entità sulla quale incide la condotta tipica, nel momento in cui questa si
concretizzi nell'estrinsecazione di energia fisica: in particolare, si può trattare di una
cosa (come, ad es., un atto o un documento, nei reati di falsità documentale), un
animale o un essere umano (in questi ultimi due casi, come si può notare, la nozione di
oggetto materiale viene a coincidere con quella di soggetto passivo del reato; il che,
però, non determina una sovrapposizione tra le due nozioni).
La nozione di oggetto materiale non va, inoltre, confusa con quella di oggetto giuridico
del reato, il quale, invece, rappresenta, come già detto, il bene giuridico tutelato dalla
norma: in realtà, bisogna precisare che, nella maggior parte dei casi, la distinzione tra le
due nozioni è facilmente intuibile: ci riferiamo, in particolare, ai casi in cui il bene
giuridico tutelato è costituito da un'entità concettuale ovvero spirituale (come, ad es., il
sentimento religioso), mentre l'oggetto materiale della condotta può assumere varie
determinazioni (si pensi, ad es., ad una reliquia danneggiata).
Altro nucleo fondamentale della fattispecie oggettiva è, poi, la condotta dell'autore: in
particolare, quest'ultima, per poter essere definita tipica, deve corrispondere a quella
descritta in una norma incriminatrice di parte speciale (diversamente, essa non potrà
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assumere alcuna rilevanza per il sistema penale, perché, a tal riguardo, il principio di
legalità costituisce un limite insuperabile). Ovviamente, la condotta può essere attiva
od omissiva, cioè può consistere in un comportamento positivo o negativo; è necessario
tener presente, però, che, nella maggior parte dei casi, la legge penale non si limita solo
a descrivere l'azione o l'omissione vietata, ma si preoccupa anche di descrivere, nel
dettaglio, l'accadimento (il ed. evento) che consegue alla condotta dell'agente. In
particolare, i reati, in relazione ai quali la legge descrive un determinato accadimento
naturalistico come risultato conseguente alla condotta dell'agente, prendono il nome di
reati di evento (è questo, ad es., il caso dell'omiddio); mentre i reati, la cui fattispecie si
esaurisce nella descrizione della condotta incriminata, vengono definiti reati di pura
condotta (attiva od omissiva: si pensi, ad es., ai falso giuramento o all'omessa
denuncia di reato). Quanto detto, però, non deve far pensare che nei reati di pura
condotta non vi sia il riferimento all'evento lesivo, perché il reato è, per definizione,
aggressione ad un bene giuridico; ed il risultato di questa aggressione si traduce in un
evento di lesione o di messa in pericolo del bene medesimo; quest'evento, tuttavia, non
necessariamente corrisponde ad una modificazione naturalistica della realtà esterna
preesistente. Allo scopo di risolvere questo problema, allora, la dottrina ha ritenuto
opportuno coniare il concetto di offesa e lo ha, poi, distinto da quello di evento,
precisando che:
• per offesa si deve intendere la lesione o la messa in pericolo del bene tutelato
(l'offesa, quindi, sarebbe presente in qualsiasi tipo di reato, anche in quelli di pura
condotta);
• l'evento, invece, deve essere inteso nei termini di una modificazione della realtà
esterna preesistente (esso, di conseguenza, sarebbe presente solo in quelle
fattispecie in cui lo stesso risulti essere scindibile dalla condotta).
Tuttavia, questa distinzione, per quanto giusta, non può valere sempre e comunque, in
quanto, in alcune disposizioni di legge, il termine evento coincide esattamente con
quello di offesa: è questo, ad es., il caso di cui all'art. 43, co. 1 c.p., il quale, nel definire
l'evento dannoso o pericoloso nel suo rapporto con l'elemento psicologico del reato,
deve necessariamente riferirsi all'evento nel senso di offesa, perché, se così non fosse,
esso conterrebbe una definizione solo parziale dell'elemento psicologico, in quanto non
riferibile ai reati di pura condotta.
§3. La classificazione dei reati
a) i reati di danno ed i reati di pericolo
I reati vengono tradizionalmente distinti in reati di danno e reati di pericolo: nel primo
caso, la legge richiede la realizzazione di una effettiva lesione del bene protetto (così,
ad es., perché si possa parlare di omicidio è necessario che all'azione omicida segua, in
concreto, la morte di un uomo).
Nel secondo caso, invece, per la punibilità dell'agente, è sufficiente che si realizzi la
semplice esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato: il che avviene, di regola,
quando il legislatore intenda proteggere beni giuridici particolarmente importanti, i
quali, proprio per questa loro caratteristica, necessitano di una protezione anticipata (si
pensi, ad es., alla previsione di cui all'art. 450 c.p., il quale punisce la condotta di chi,
con la propria azione od omissione, fa sorgere o persistere il pericolo di un disastro
ferroviario, di un'inondazione, di un naufragio, etc).
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I reati di pericolo vengono, a loro volta, distinti in reati di pericolo concreto e reati di
pericolo astratto: i reati di pericolo concreto possono essere agevolmente individuati,
perché qui il pericolo è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice. In questi
casi, pertanto, il giudice, riportandosi idealmente al momento in cui l'agente ha posto in
essere la condotta vietata, deve accertare l'esistenza in concreto del pericolo: egli, cioè,
deve accertare l'esistenza di una situazione oggettiva, il cui evolversi avrebbe, in
maniera verosimile, condotto a un evento di lesione del bene protetto (sono reati di
pericolo concreto, ad es., la strage, di cui all'art. 422 c.p., consistente in atti tali da
porre in pericolo la pubblica incolumità, e l'incendio di cosa propria, di cui all'art.
423 c.p., che punisce, appunto, chiunque cagiona un incendio, se dal fatto deriva
pericolo per la pubblica incolumità).
Nei reati di pericolo astratto, viceversa, il legislatore incrimina un certo tipo di fatto,
sulla base della semplice presunzione che in esso sia insita l'esposizione a pericolo di
un dato bene giuridico; di conseguenza, il legislatore, in casi del genere, non richiede
l'accertamento, caso per caso, dell'esistenza del pericolo da parte del giudice. Va detto,
però, che, nonostante la presunzione di pericolosità, in questo tipo di reati è, in ogni
caso, ammessa la ed. prova contraria: si pensi, ad es., all'art. 441 c.p., il quale punisce
il fatto di chi corrompe sostanze alimentari rendendole pericolose per la salute
pubblica; in tal caso, il pericolo incriminato dal legislatore rimane astratto, nel senso
che esso non si è ancora profilato come rischio concretamente corso da uno o più
soggetti determinati. Ma l'affermazione della tipicità della condotta è interamente
affidata ad un giudizio sulla sua attitudine offensiva: richiedendo, dunque, una
valutazione, per così dire, in concreto, della pericolosità della condotta, non sembra
azzardato utilizzare per questa categoria di fatti la definizione di reati di pericolo
astratto-concreto, se non altro per renderne visibile la differenza rispetto ai pochi reati
in cui si può parlare di una vera e propria presunzione del pericolo (casi di questo tipo
si riscontrano, ad es., nelle norme che vietano la fabbricazione, la detenzione ed il
commercio di armi e in quelle che vietano la detenzione e lo spaccio di sostanze
stupefacenti).
b) i reati uni sussi sten ti e i reati plurisussistenti
Si dicono unisussistcnti quei reati la cui condotta tipica si esaurisce con il compimento
di un unico atto, che - da solo - è capace di configurarsi quale azione; quelli, invece, la
cui realizzazione esige il compimento di una molteplicità di atti, prendono il nome di
reati plurisussistenti.
Va da sé, ovviamente, che il medesimo reato può manifestarsi sia nella forma della
condotta unisussistente, sia nella forma di un'attività complessa: così, ad es., il reato di
ingiurie può realizzarsi sia mediante la pronunzia di una sola parola, sia attraverso la
redazione e l'invio di uno o più scritti (attività complessa, frazionabile in più atti).
c) i reati abituali o a condotta plurima
Il reato abituale si contrassegna per la reiterazione dei vari atti o delle varie condotte e
per il loro collegamento in una serie significativa: reato abituale è, ad es., il delitto di
maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), che presuppone una serie di comportamenti
aggressivi di uno o più beni giuridici (quali l'integrità personale, la dignità e la libertà
di movimento), il cui protrarsi nel tempo finisce per ledere la personalità del soggetto.
Altro esempio di reato abituale è l'ipotesi regolata ex art. 3, n. 3 L. 58/75, integrante il
fatto del proprietario di un locale pubblico, che tollera abitualmente la presenza di una
o più persone che, all'interno del locale, si danno alla prostituzione. Ora, in merito alla
tematica che stiamo analizzando, parte della dottrina è dell'avviso che alle ipotesi
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elencate dovrebbe essere riservata la denominazione di reati abituali propri, perché le
stesse si concretano nella ripetizione di condotte che, isolatamente considerate, non
integrerebbero gli estremi di un reato (così, riproponendo il caso dei maltrattamenti in
famiglia, vediamo che gli stessi sono realizzabili con la reiterazione abituale di
condotte che, prese isolatamente, non costituiscono reato). In tal modo, si riuscirebbe
ad offrire una comoda distinzione rispetto a quelle ipotesi di reati abituali, che, al
contrario, si concretano nella ripetizione di condotte che, già di per sé, costituiscono
reato: è questo il caso, ad es., della relazione incestuosa, ex art. 564, co. 2 c.p., in
relazione al quale il singolo episodio incestuoso già costituisce reato d'incesto. Proprio
per tal motivo, a questa seconda categoria di reati, la dottrina ha riservato la
denominazione di reati abituali impropri.
Va tenuto presente, infine, che alcuni autori preferiscono denominare i reati abituali, in
genere, reati a condotta plurima: quest'ultimo inciso, tuttavia, non è condivisibile, in
quanto, laddove si accettasse, finirebbe per creare confusione rispetto a quelle ipotesi
delittuose, per la cui configurazione la legge richiede il compimento di una pluralità di
comportamenti (si pensi, ad es., all'art. 635 c.p., il quale punisce chiunque distrugge,
disperde, deteriora o rende inservibili cose altrui).
d) i reati plurioffensivi
Il reato può offendere un singolo bene giuridico ovvero dar luogo alla lesione di una
molteplicità di beni o interessi: in questo secondo caso, la dottrina penalistica parla di
reati plurioffensivi (si pensi, ad es., alla fattispecie della rapina, ex art. 628 c.p., ove si
aggredisce sempre, allo stesso tempo, il patrimonio del soggetto passivo e l'incolumità
personale dello stesso).
Per converso, non è annoverabile nella categoria in esame la calunnia, ex art. 368 c.p.,
perché, se è vero che tale reato, oltre a cagionare una lesione all'interesse alla corretta
amministrazione della giustizia, cagiona simultaneamente un danno alla reputazione e
alla libertà personale del calunniato, tali interessi non assumono alcuna rilevanza ai fini
della configurabilità del carattere plurioffensivo dell'azione.
e) i reati istantanei e i reati permanenti
Un'altra classificazione dei reati, sotto il profilo della struttura oggettiva, è costituita,
poi, dalla distinzione tra reati istantanei e reati permanenti.
In dettaglio, il reato istantaneo si caratterizza per il fatto che la condotta con la quale si
viola la norma (e si produce, quindi, l'offesa al bene giuridico) si compie in un unico
momento: si pensi, ad es., al reato di spari in luogo pubblico (art. 703 c.p.). Il reato
permanente, invece, si caratterizza per il perdurare nel tempo della lesione di un bene
giuridico, avallata da una condotta volontaria dell'agente: classico esempio di reato
permanente è il sequestro di persona, di cui all'art. 605 c.p. Qui, invero, fin dal primo
istante in cui il soggetto passivo è privato della libertà di movimento, il reato è perfetto
in tutti i suoi elementi; e, tuttavia, il momento consumativo si dilata, fino a coprire tutto
l'intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui la vittima del sequestro è stata
privata della libertà e quello in cui la riconquista. In relazione al tema in esame, va
precisato, tra l'altro, che una dottrina minoritaria è dell'avviso che il reato permanente
sia caratterizzato da una ed. struttura bifásica: nel senso che, ad una condotta
necessariamente attiva (diretta a provocare la lesione del bene giuridico), seguirebbe
una parte di condotta omissiva, che si caratterizzerebbe per la mancata rimozione della
condotta antigiuridica (determinata precedentemente dalla condotta attiva): così, ad es.,
nel sequestro di persona, alla privazione di libertà, realizzata con un comportamento
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attivo, seguirebbe la messa in atto di una condotta omissiva, consistente nella mancata
restituzione in libertà del soggetto passivo. Tuttavia, se si osserva bene, l'asserita
struttura bifásica del reato permanente non è presente in tutti i casi: basti considerare, ad
es., che nello stesso sequestro di persona, da un lato, è ben possibile ipotizzare una
condotta, fin dall'inizio, omissiva (è questo il caso di chi approfitti di una situazione
casualmente determinatasi per instaurare il sequestro); dall'altro lato, invece, è possibile
che la condotta susseguente a quella che ha determinato la privazione della libertà si
concreti in atteggiamenti attivi (quali, ad es., la custodia del prigioniero o il suo
spostamento da un luogo a un altro).
f) i delitti e le contravvenzioni
L'art. 39 c.p. distingue, infine, i reati in delitti e contravvenzioni: più precisamente,
sono delitti i fatti costituenti reato che il sistema punisce con l'ergastolo, la reclusione e
la multa; sono, invece, contravvenzioni i fatti costituenti reato puniti con l'arresto e
l'ammenda.
Non esiste altro criterio, se non quello del riferimento alla pena prevista dalla legge, per
stabilire se ci si trovi di fronte ad un delitto o ad una contravvenzione; di sicuro, però,
non v'è alcun dubbio circa il fatto che le aggressioni più allarmanti e pericolose alle
condizioni della civile convivenza trovino collocazione nella categoria dei delitti. Ciò,
però, non è sempre vero: basti pensare, infatti, che beni giuridici di importanza primaria
(quali la tutela ambientale o la prevenzione degli infortuni sul lavoro) vengono, di
norma, tutelati mediante la previsione di reati contravvenzionali. In linea tendenziale,
comunque, si può affermare che la scelta dell'incriminazione a titolo contravvenzionale
è riservata, di norma, agli illeciti caratterizzati:
• dall'inosservanza di norme a carattere prevenzionistico;
• dall'inosservanza di norme riguardanti la disciplina di attività soggette a un potere
amministrativo.
§4. La causalità e l'imputazione oggettiva dell'evento nella struttura del fatto
a) il nesso di causalità tra condotta ed evento (art. 40 c.p.)
Perché l'evento possa essere attribuito, sotto il profilo oggettivo, ad un determinato
soggetto, è necessario che, tra la condotta che questi pone in essere (il ed. antecedente
causale) e l'evento che ne consegue, sussista un rapporto (o nesso) di causalità o,
meglio, di conseguenzialità: locuzione, quest'ultima, che appare più appropriata, in
quanto si deve considerare che il nesso di causalità interessa non soltanto quei processi
propri della realtà naturale (come, accade, ad es., nell'omicidio, di cui all'art. 575 c.p.,
ove si punisce la condotta di chi cagiona la morte di un uomo), ma, a ben vedere,
anche quei processi in cui il rapporto causale viene a coinvolgere entità di ordine
astratto, cioè di stampo non naturalistico (si pensi, ad es., alla truffa, ex art. 640 c.p.,
ove si punisce la condotta di colui che, mediante artifizi o raggiri, induca taluno in
errore, con l'effetto di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno).
Dal punto di vista strutturale, è doveroso precisare che il nostro codice, a differenza di
altri ordinamenti giuridici, contiene l'espressa menzione del rapporto di causalità:
infatti, l'art. 40, co. 1 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso non è
conseguenza della sua azione od omissione.
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Il co. 2 dell'art. 40 c.p. stabilendo, invece, che non impedire un evento che si ha
l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, enuncia una regola che è
destinata a operare esclusivamente per i reati a condotta omissiva. Questa norma, in
particolare, racchiude quelle ipotesi nelle quali, a stretto rigore, non si potrebbe parlare
di vero e proprio nesso causale (si pensi, ad es., alla condotta di un agente di polizia in
servizio, che, pur potendo intervenire con successo, non si attivi al fine di impedire un
omicidio che sta avvenendo sotto i suoi occhi).
b) la disciplina delle concause (art. 41 c.p.)
L'art. 40 c.p., come visto, si limita solo a enunciare l'esigenza di un nesso di causalità tra
condotta ed evento; ma né chiarisce cosa debba intendersi per rapporto di causalità, né
si preoccupa di specificare quali debbano essere i criteri necessari per stabilire la
rilevanza giuridica del rapporto causale. Sulla base di queste considerazioni, dunque, è
opportuno spostare l'analisi sul successivo art. 41 c.p., il quale contiene, invero, una
disciplina più articolata e dettagliata del nesso di causalità.
II co. 1 di questa norma stabilisce, in via di principio, l'irrilevanza delle ed. concause
(o anche dette cause concomitanti dell'evento), cioè di quegli ulteriori fattori del
processo causale diversi dalla condotta e che siano ad essa preesistenti, coevi o
sopravvenuti: in altri termini, alla stregua delle regole enunciate nell'art. 41 c.p., il
rapporto causale non potrebbe essere escluso né nel caso, ad es., dell'emofiliaco, che
decede a seguito di una lieve ferita, inidonea, in genere, a cagionare la morte (ed.
concausa preesistente), né nell'ipotesi di chi, in seguito ad una percossa non molto
violenta, cade battendo la testa su di una pietra acuminata e muore (ed. concausa
simultanea), né, infine, nel caso di chi perde la vita per l'insorgere di gravi
complicazioni chirurgiche, collegate a una lieve lesione (ed. concausa sopravvenuta).
Il co. 2 dell'art. 41 c.p., tuttavia, prevede una specifica eccezione a quanto detto, nella
parte in cui statuisce che le cause sopravvenute escludono la rilevanza del rapporto
causale quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Ad onor del
vero, però, il cpv. dell'art. 41 c.c. suscita rilevanti perplessità perché, in primo luogo,
non si comprende quando una causa sopravvenuta possa dirsi sufficiente da sola a
cagionare un evento: ciò, invero, almeno a stretto rigore, risulta impossibile, perché la
causa sopravvenuta si innesta, per definizione, su di un processo causale già avviato
con caratteristiche ben determinate (tra l'altro, va anche detto che risulterebbe alquanto
difficile segnare il confine che dovrebbe separare le cause sopravvenute sufficienti da
sole a produrre l'evento, da quelle che, viceversa, non possiedono tale caratteristica).
Quanto meno, allora, allo scopo di dare un senso logico alla norma, il co. 2 dell'art. 41
c.p. deve essere letto nel senso che la causa sopravvenuta può escludere la rilevanza
del rapporto di causalità quando, per le sue caratteristiche, le si debba riconoscere,
già in astratto, un'efficienza causale rispetto alla produzione dell'evento: da questo
punto di vista, si può, ad es., notare la differenza che passa tra un incidente stradale, di
cui il ferito rimane vittima mentre si sta procedendo al suo trasporto in ospedale
(concausa che esclude la rilevanza del rapporto di causalità) e l'insorgere di gravi
complicazioni mediche, collegate ad una lesione lieve (concausa che non esclude, in
alcun modo, la rilevanza del nesso di causalità, perché è in stretta connessione con la
produzione dell'evento).
c) la teoria della condicio sine qua non
Una volta chiarito che tra la condotta (che l'agente pone in essere) e l'evento che ne
consegue deve sussistere un rapporto di conseguenzialità, dottrina e giurisprudenza
sono state (e sono tuttora) chiamate a risolvere un altro problema: quello di stabilire,
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cioè, quando una determinata condotta possa dirsi causa di un determinato evento. A tal
riguardo, tre sono le principali teorie che, in dottrina, si sono contese il campo: la prima
è la ed. teoria della condicio sine qua non, la quale considera causa dell'evento
qualsiasi condizione del suo verificarsi, che non possa essere (mentalmente)
eliminata, senza che venga meno l'evento stesso. In altri termini, per la teoria della
condicio sine qua non, qualsiasi condizione dell'evento assume il rango di causa di
esso: proprio per questa ragione, la posizione teorica in esame prende anche il nome di
teoria dell'equivalenza delle condizioni.
Ricapitolando: secondo i canoni della teoria della condicio sine qua non, perché possa
parlarsi di rapporto di causalità, è sufficiente che l'agente abbia posto in essere una
qualsiasi condizione dell'evento, in considerazione del fatto che tutte le condizioni sono
considerate equivalenti. A tal riguardo, però, è stato giustamente osservato che,
ragionando in questi termini, la lista delle condizioni dell'evento potrebbe risultare
illimitata (e, dunque, incapace di fornire una soluzione ai casi controversi), potendo in
essa annoverarsi, ad es., la vendita dell'arma all'assassino, la sua fabbricazione o
perfino le sue peculiari caratteristiche offensive (che siano tali, ad es., da permettere la
perforazione di un giubbotto antiproiettile).
d) la teoria della causalità adeguata
Al fine di temperare gli eccessi cui potrebbe condurre una rigorosa applicazione dei
principi della teoria della condicio sine qua non è intervenuta la ed. teoria della
causalità adeguata, la quale ritiene che il rapporto di causalità sussiste quando un
soggetto ha determinato l'evento con un'azione adeguata a produrlo, in chiave di
verosimiglianza (o di probabilità). E, però, neppure questa teoria sembra possa andare
esente da critiche: in effetti, ragionando sulla base dei parametri della causalità
adeguata, il rapporto di causalità potrebbe non sussistere in tutti quei casi che sono
contrassegnati da un ed. decorso causale atipico (come, ad es., quello dell'esito letale di
una lieve ferita, causato per effetto di una complicazione medico-chirurgica del tutto
eccezionale e, pertanto, non probabile). Come si può notare, quindi, la teoria in esame
(a differenza di quella analizzata precedentemente) presenta un limite opposto: mentre,
infatti, la teoria della condicio sine qua non finisce per considerare qualunque
condizione dell'evento come causa giuridicamente rilevante dello stesso, la teoria della
causalità adeguata finisce, al contrario, per limitare eccessivamente l'area della
causalità rilevante.
e) la teoria della causalità umana
Gli eccessi cui sembrerebbe condurre il principio condizionalistico non hanno, però,
mai influenzato del tutto dottrina e giurisprudenza, perché ci si è sempre resi conto che
un certo genere di risultati sarebbero stati comunque evitabili in ragione della
mancanza di un nesso psichico rilevante, tra la condotta e l'evento (è chiaro, infatti,
che il padre dell'omicida o chi ha prodotto il veleno non potrebbe essere, in nessun caso,
chiamato a rispondere di omicidio volontario, proprio per l'assenza del dolo). Questo
tipo di soluzione è, però, solo in apparenza appagante, in quanto:
• in primis, esso lascia scoperti tutti quei casi in cui, fondandosi l'addebito sulla ed.
responsabilità oggettiva, è del tutto fuori luogo il riferimento all'elemento psicologico
del reato (è questo il caso, ad es., dei delitti aggravati dall'evento);
• in secondo luogo, va considerato che, nell'ipotesi in cui la correzione del principio
condizionalistico dovesse fondarsi soltanto sul ricorso all'elemento psicologico della
condotta, si giungerebbe a risultati aberranti proprio con riferimento ad alcuni casi
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scolastici, per la cui soluzione il riferimento all'elemento psicologico non è di nessun
aiuto:
* si pensi, ad es., al caso del nipote che induca il ricco zio a intraprendere un viaggio in
aereo, nella speranza che questi resti vittima di un disastro aviatorio;
* o al caso di chi, avvicinandosi un temporale, induca taluno a fare una passeggiata in
un bosco, con la speranza che questi venga incenerito da un fulmine.
In questi (e in altri) casi, invero, se l'evento si verifica, risulterebbe problematico, una
volta affermata l'esistenza del nesso causale, escludere la responsabilità dell'agente a
titolo di dolo, non potendosi qui negare che l'evento è stato dallo stesso preveduto e
voluto come conseguenza della sua azione: così operando, però, il problema verrebbe
spostato dall'ambito dell'imputazione oggettiva a quello dell'imputazione soggettiva.
Alle medesime critiche non si sottrae neanche una proposta di soluzione, largamente
accreditata in dottrina, e tradizionalmente designata col nome di teoria della causalità
umana: si tratta, in dettaglio, di un tentativo di soluzione del problema che prende le
mosse dalla previsione ex art. 41, co. 2 c.p., che, come sappiamo, esclude la rilevanza
del nesso causale ove siano presenti cause sopravvenute da sole sufficienti a
determinare l'evento. Secondo questa teoria, in particolare, la condotta potrebbe essere
identificata come causa dell'evento solo a due condizioni:
•che il soggetto abbia posto in essere una condizione dell'evento, senza la quale lo
stesso non sarebbe venuto in essere;
•che il verificarsi dell'evento non dipenda dalla concomitanza di eccezionali fattori
causali, i quali, proprio perché tali, si sottrarrebbero alla dominabilità dell'agente (gli
stessi fattori, infatti, verrebbero a trovarsi fuori dall'ambito delle sue conoscenze).
Questa teoria, però, facendo esplicito riferimento all'ambito delle particolari
cognizioni dell'agente, finisce per aumentare, in maniera eccessiva, il rischio di uno
slittamento sul terreno dell'imputazione soggettiva.
f) le ipotesi problematiche in relazione al rapporto di causalità
Nella maggior parte dei casi che la quotidianità ci propone, accertare se, da un punto di
vista logico-causale, un certo evento possa essere addebitato a un dato agente, non è
affatto difficile: così, ad es., se Tizio esplode uno o più colpi di pistola contro Caio,
colpendo un suo organo vitale, non è difficile stabilire che l'esplosione del colpo di
pistola è stata la causa, giuridicamente rilevante, della morte di Caio, che vi ha fatto
sèguito.
In altri casi, invece, l'accertamento del rapporto causale può risultare controverso; in
quest'ambito, le varie ipotesi possono essere suddivise come segue:
• un primo gruppo di casi comprende le ipotesi nelle quali l'evento è il prodotto di una
pluralità di fattori causali: ad es., Tizio vibra una pugnalata a Caio, mirando ad un
organo vitale; nello stesso tempo, Sempronio colpisce Tizio al braccio, determinando la
deviazione dell'arma, in modo che Caio resti solo lievemente ferito in altra parte del
corpo;
• un secondo gruppo è costituito, invece, dalle ipotesi di decorso causale atipico: ad
es., Caio, emofiliaco, muore per dissanguamento, a seguito di una lieve ferita infertagli
da Tizio;
• rientrano, invece, in un terzo gruppo di casi le ipotesi di decorso causale ipotetico: ad
es., Tizio uccide Caio un attimo prima che questi prenda posto su di un aereo che, in
realtà, poco dopo il decollo, precipita, così che Caio sarebbe morto ugualmente;
• in un quarto gruppo di casi vanno ricondotte, poi, le ipotesi di interruzione del nesso
causale: ad es., Tizio inietta a Sempronio una dose mortale di veleno; quest'ultimo,
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però, muore per cause naturali, del tutto indipendenti, prima che il veleno produca i suoi
effetti;
• un quinto gruppo ricomprende, invece, i casi nei quali la condotta dell'agente si
rivela causalmente rilevante solo ex post: ad es., Tizio, allo scopo di ereditare,
convince il ricco zio a intraprendere un viaggio in aereo, nella speranza che egli perisca
in un disastro aviatorio; il che effettivamente si verifica;
• un ultimo gruppo ricomprende, infine, le ipotesi in cui risulta impossibile dimostrare
il processo che ha determinato l'evento, se non sotto un profilo statistico: si è rilevato,
ad es., che le donne che in gravidanza hanno ingerito il farmaco denominato
thalidomide, da un punto di vista statistico, sono molto più esposte al rischio di
partorire figli con gravi malformazioni; la medicina, però, non è in grado di accertare,
attualmente, se vi sia un rapporto causale tra l'ingestione del farmaco e la
malformazione dei neonati. Ne deriva, perciò, che, alla stregua delle diverse teorie
finora analizzate, non sarebbe possibile spiegare il motivo per il quale, in mancanza
della condotta (l'ingestione del farmaco), l'evento (la malformazione del neonato) non
si sarebbe verificato.
g) la riconduzione del rapporto causale sotto leggi scientìfiche
L'interrogativo fondamentale a cui dovrebbe rispondere una teoria del nesso causale è il
seguente: a quali condizioni una determinata condotta si può considerare, dal punto
di vista giuridico, causa di un dato evento? A questa domanda, la dottrina dominante e
la giurisprudenza (anche alla luce delle ipotesi problematiche esposte) hanno proposto
di fare ricorso alla regola secondo la quale un antecedente può essere considerato
causa di un determinato evento quando vi sia una legge (detta di copertura) con
validità scientifica generale, la quale consenta di ritenere che, ad un determinato
comportamento, segua, di norma, una determinata conseguenza. È bene precisare,
tuttavia, che questa legge di copertura non deve necessariamente essere una legge
universale (cioè una legge che sia in grado di fornire un criterio di giudizio di assoluta
certezza), ma può anche essere una legge statistica (cioè una legge basata su criteri
probabilistici); ragionando diversamente, infatti, l'accertamento del rapporto di
causalità risulterebbe inibito in molti casi: basti pensare, ad es., alla differenza che
passa tra l'accertamento del nesso causale nell'ipotesi di una morte per dissanguamento,
conseguente a una grave ferita con arma da taglio, e l'accertamento del nesso causale
nel caso della malformazione del feto, a seguito dell'ingestione del farmaco
thalidomide da parte della madre del neonato. Beninteso, qualora si faccia affidamento
su leggi di tipo statistico, si renderà necessario procedere ad una valutazione circa la
fondatezza probabilistica della legge ai fini dell'accertamento del nesso di causalità:
ciò significa, in altre parole, che la legge deve essere in grado di spiegare il maggior
numero di casi possibili, compreso quello concretamente esaminato (il quale,
ovviamente, deve trovare giustificazione solo in virtù della legge statistica). In questa
prospettiva, però, particolari problemi possono sorgere in presenza di giudizi
probabilistici non confortati da un riscontro statistico elevato: invero, dal momento che,
in tali ipotesi, il caso concreto si fonderebbe su un giudizio chiaramente ipotetico
(prossimo all'illazione), la giurisprudenza (S.U., sent. 30328/2002, caso Franzese) ha
ritenuto opportuno integrare nel giudizio di causalità due diversi criteri e cioè:
• la probabilità statistica, che consente di verificare in modo empirico, in base al grado
di frequenza, il rapporto tra determinati eventi e le relative condotte (o antecedenti);
• la probabilità logica, che, invece, cerca di fornire, sulla base della legge statistica,
una spiegazione logica circa il verificarsi dell'evento preso in considerazione.
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Va anche sottolineato, tra l'altro, che, allo scopo di risolvere i casi più problematici, la
dottrina contemporanea ha cercato di integrare l'accertamento del nesso causale con
specifiche valutazioni di politica criminale. Da questo punto di vista, l'imputazione al
fatto tipico oggettivo può avvenire sulla base di tre principi:
• il principio della realizzazione di un pericolo oltre il rischio consentito, in base al
quale, un evento può essere imputato alla condotta di un determinato soggetto soltanto
nel caso in cui questi abbia creato una situazione di pericolo non consentito per il bene
tutelato e questo pericolo si sia anche realizzato (così, ad es., nelle ipotesi di pluralità di
fattori causali, nel caso della deviazione del colpo di pugnale, a Sempronio non si
potranno imputare le lesioni riportate da Caio, perché egli, col suo comportamento, non
ha né creato, né accresciuto, ma semmai ha diminuito il rischio all'offesa tipica);
• il principio dello scopo di tutela della norma violata, in base al quale l'evento può
essere imputato alla condotta di un soggetto solo quando si concretizza il pericolo che la
norma violata mirava a impedire (questo criterio di giudizio può essere utilizzato, ad
es., nel caso della morte del tossicodipendente, a seguito dell'assunzione di droghe
pesanti: in relazione a tale evento, si discute della responsabilità dello spacciatore, a
titolo di colpa o di preterintenzionc, dal momento che egli ha, di sicuro, posto in essere
una condizione dell'evento morte e, in ogni caso, non poteva non conoscere i pericoli
connessi all'assunzione di tali droghe; ma, se e in che modo un fatto del genere possa o
debba essere punito costituisce un tipico problema di applicazione della legge sugli
stupefacenti perché il pericolo realizzato dalla condotta dello spacciatore non coincide
con lo scopo di tutela della norma contenuta nell'art. 575 c.p.);
• il principio di autonomia della vittima, in base al quale il soggetto agente sarà tenuto
a evitare i pericoli che scaturiscono dalla propria condotta, ma non quelli derivanti dal
comportamento altrui, quand'anche imprudente o negligente (è questo, ad es., il caso di
Tizio, p.u., che sa che Caio, suo amico, accarezza da tempo l'ipotesi del suicidio; pur
sapendolo, però, durante un viaggio in macchina con lui, posa nell'automobile la pistola
d'ordinanza e in un momento di distrazione Caio la prende e si spara).
§5. La fattispecie soggettiva
Alla fattispecie soggettiva appartiene il contenuto psichico dell'azione (o
dell'omissione) penalmente rilevante. In tal senso, invero, l'art. 42, co. 1 c.p. stabilisce
che nessuno può essere punito per un'azione od omissione che sia preveduta dalla
legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà: il che significa che
potrà essere valutata, in termini di tipicità, antigiuridicità e colpevolezza, solo la
condotta, oggettivamente tipica, che sia sorretta dalla volontà ed assistita dalla
consapevolezza del proprio operare nel mondo esterno.
A ogni modo, è bene precisare che il requisito della coscienza e volontà delimita, ma
non esaurisce l'ambito dei requisiti di ordine psichico, che assumono rilevanza per la
fattispecie soggettiva. Tant'è vero che, il co. 2 dell'art. 42 c.p. dispone che nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso
con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo, espressamente previsti:
da questa norma si evince, in altre parole, che il fatto tipico si intende commesso
sempre come doloso, mentre per la configurabilità di un delitto colposo o
preterintenzionale si rende sempre necessaria un'espressa previsione normativa.
Il co. 4 dello stesso articolo precisa, invece, che nelle contravvenzioni ciascuno
risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o
colposa: come si può notare, per le contravvenzioni vale la regola dell'indifferenza
dell'atteggiamento psicologico.
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Non pochi problemi di ordine interpretativo ha posto, invece, il co. 3 dell'art. 42 c.p., il
quale stabilisce che la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a
carico del soggetto agente, come conseguenza della sua azione od omissione: questa
norma, invero, introduce nel sistema la possibilità che si prescinda, nell'imputazione del
fatto, da un criterio di imputazione soggettiva, attribuendo lo stesso a un soggetto sulla
sola base dei criteri oggettivi e, in particolare, sulla base del solo rapporto di causalità
(si parla al riguardo di ed. responsabilità oggettiva).
a) nozione di dolo, colpa e preterintenzione
Ai sensi dell'art. 43 c.p., il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento
dannoso o pericoloso è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della sua
azione od omissione. Sulla base di questa norma, dunque, nella struttura del dolo si
possono individuare due momenti costitutivi:
• il primo è di carattere intellettivo ed è dato dalla previsione anticipata delle possibili
conseguenze del proprio operare nel mondo esterno;
• il secondo, invece, è di carattere volitivo e corrisponde all'atto di impulso mediante il
quale la volontà del soggetto mette in moto le energie causali atte alla produzione
l'evento (e prende il nome di volizione).
L'art. 43 c.p. stabilisce, poi, che il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando
l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini o discipline. Dalla definizione data si intuisce, quindi, che la colpa si individua
negativamente, in quanto il legislatore richiede espressamente che l'evento non deve
essere voluto dal soggetto. Non solo: va anche specificato che nel delitto colposo si è
soliti distinguere tra colpa cosciente, o con previsione, e colpa incosciente (nel primo
caso, l'agente prevede come possibile la realizzazione dell'evento, ma agisce nella
convinzione che lo stesso non si verificherà; nel secondo caso, invece, manca in toto la
previsione dell'evento). L'art. 43 c.p. dispone, infine, che ¡7 delitto è preterintenzionale,
o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o
pericoloso più grave di quello voluto dal soggetto agente.
La figura del delitto preterintenzionale, come si può notare, si caratterizza per il fatto
che, mentre nell'atteggiamento psicologico dell'autore è presente il dolo di un certo
reato, la sua condotta realizza, sotto il profilo oggettivo, un evento più grave rispetto a
quello realmente voluto.
§6. Le tipologie del reato
Attraverso la combinazione degli elementi della fattispecie oggettiva con quelli della
fattispecie soggettiva, si perviene tradizionalmente ad una tripartizione dei reati. Si
individuano, in questo modo, tre categorie fondamentali dell'illecito penale:
• il reato doloso di azione;
• il reato doloso omissivo;
• l'illecito colposo.
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Capitolo II
Condotta ed elemento psicologico nel reato doloso di azione §1.
Il dolo inteso nel significato di volontà finalistica
La fattispecie oggettiva del reato doloso di azione è costituita da una condotta attiva e
cioè da un fare, inteso nel significato di impiego di energia fisica, che si manifesta nel
mondo esterno.
Del dolo, nel nostro ordinamento, si occupa, come sappiamo, l'art. 43 c.p., secondo il
quale il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso
è dal soggetto agente preveduto e voluto come conseguenza della propria condotta.
L'ambito del dolo penalmente rilevante è, però, più ampio di quello che, nella prassi,
designa lo scopo finale del soggetto agente: invero, partendo dal presupposto che non
vi è nessuna azione umana cosciente (e, dunque, tipica) che non sia guidata da uno
scopo (anche banale: come, ad es., placare la propria sete, aprire un uscio o afferrare un
oggetto), il dolo, da intendere nel significato di volontà finalistica (nella prospettiva
ivclzeliana), viene a ricomprendere non solo lo scopo che l'autore intende perseguire,
ma anche i mezzi prescelti per il suo raggiungimento (e, beninteso, nel presceglierli,
l'agente tiene anche conto delle conseguenze secondarie connesse al loro utilizzo, dal
momento che egli, essendo a conoscenza della causalità, naturalisticamente intesa, è in
grado, senza dubbio, di prevedere gli effetti della sua condotta nel mondo esterno).
§2. L'oggetto del dolo
Oggetto del dolo è, come stabilisce l'art. 47, co. 1 c.p., il fatto che costituisce il reato,
vale a dire l'intero fatto tipico: ciò sta a significare, perciò, che il dolo implica la
conoscenza di tutti gli elementi che sono necessari e sufficienti a realizzare la
fattispecie obicttiva di un reato. È bene precisare, però, che le circostanze di fatto che
l'agente deve conoscere e prevedere sono soltanto quelle che rivestono, per il fatto
tipico, carattere essenziale: così, ad es., per la sussistenza del dolo nel reato di furto (art.
624 c.p.) è necessario che l'agente sappia che la cosa sottratta è altrui; è, invece, del
tutto indifferente che egli sappia a chi, in particolare, la cosa stessa appartiene. Da
quanto detto, si intuisce, di conseguenza, che l'agire doloso implica, in primo luogo, la
conoscenza dei presupposti necessari per l'esistenza del fatto tipico (nell'esempio di cui
sopra, pertanto, l'agente deve sapere che la cosa sottratta è altrui).
Naturalmente, tra i presupposti del fatto rientrano, poi, le qualifiche soggettive del
soggetto agente (come, ad es., la qualifica di pubblico ufficiale - p.u.), nonché gli
elementi normativi della fattispecie, cioè quegli elementi che necessitano di essere
valutati sulla base di altre norme giuridiche, non penali (si pensi, ancora una volta,
aìYaltruità della cosa, nel furto).
Rientrano nell'oggetto del dolo, altresì, le ipotesi di ed. antigiuridicità speciale: classici
esempi di antigiuridicità speciale si riscontrano in quei casi in cui la norma richiede, ai
fini della punibilità del fatto di reato, che lo stesso sia realizzato in modo abusivo,
indebito o illegittimo).
Per ciò che concerne, invece, il rapporto di causalità, va detto che anch'esso deve
essere percepito, nell'essenziale, dall'agente (dunque, anche il rapporto di causalità
rientra nell'oggetto del dolo): va specificato, però, che non è necessario che l'agente
conosca, nel dettaglio, i processi causativi dell'evento (così, ad es., se Tizio colpisce
Caio con una coltellata all'addome, è sufficiente che egli preveda la possibilità
dell'instaurarsi di un decorso causale capace di condurre alla morte; ma è del tutto
indifferente che egli sappia che la stessa avverrà per dissanguamento ovvero per un
diverso processo fisiologico).
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§3. Il dolo, la coscienza dell'offesa e la coscienza dell'antigiuridicità Nei reati con
evento materiale l'agente, ovviamente, deve prevedere e volere, come conseguenza
della propria condotta, l'evento dannoso o pericoloso; tuttavia, non v'è dubbio che
anche nei reati senza evento naturalistico (vale a dire nei ed. reati di pura condotta)
l'agente deve prevedere e volere la lesione dei beni, che risulta incriminata dalla
fattispecie tipica: così, per fare un esempio, come nel delitto di omicidio (reato con
evento materiale) l'autore sa che alla pugnalata inferta all'avversario seguirà la morte di
questo, allo stesso modo, nei reati di falso giuramento e di falsa testimonianza (reati di
pura condotta) egli si rappresenterà, come evento, la distorsione del corso della
giustizia. E lo stesso dicasi per gli altri reati di pura condotta: così, ad es., nella
diffamazione, l'agente si rappresenterà, come evento, la lesione della reputazione della
persona offesa; nell'evasione fiscale, il mancato introito, da parte del fisco, di somme
da lui dovute, etc.
Da questi esempi si deve prendere atto, perciò, che, ai fini del dolo, il dato che viene ad
assumere carattere rilevante è la ed. coscienza dell'offesa: più precisamente, l'agente
deve essere consapevole che il suo agire presenta intrinsecamente un contenuto di
offesa all'interesse tutelato dalla norma. La coscienza dell'offesa, tuttavia, non deve
essere, in nessun modo, confusa con la coscienza dell'antigiuridicità, la quale, invece,
si riferisce, molto più semplicemente alla conoscenza o meno (da parte dell'agente)
della contrarietà del fatto realizzato a un divieto penalmente sanzionato: così
delineata, perciò, la coscienza dell'antigiuridicità va fatta rientrare nell'ambito del
principio dell'ignorantia legis non excusat, di cui all'art. 5 c.p.
§4. Le forme, le classificazioni e le partizioni del dolo
Il dolo può manifestarsi sotto diverse forme: anzitutto, quando l'evento realizzato è
conforme a quello che l'agente ha preveduto e voluto, si parla di dolo intenzionale (o
anche detto dolo diretto di primo grado): questo tipo di dolo, nel dettaglio,
ricomprende al suo interno lo scopo che ha spinto l'autore ad agire e la selezione dei
mezzi necessari al raggiungimento dello stesso (così, ad es., si ha dolo diretto di
omicidio non soltanto quando si agisce allo scopo di uccidere qualcuno, ma anche
quando l'uccisione di un uomo è il mezzo prescelto onde realizzare un evento di natura
diversa: come, ad es., uccidere una sentinella allo scopo di penetrare in un'installazione
militare). Si parla, viceversa, di dolo diretto di secondo grado con riferimento a quegli
eventi che rientrano, comunque, nella volontà finalistica di azione, perché
rappresentano effetti secondari, altamente probabili, delle specifiche modalità della
condotta: così, ad es., se Tizio incendia uno stabile al fine di riscuotere
un'assicurazione, pur sapendo che, in tal modo, cagionerà, con ogni probabilità, la
morte di Caio, che si trova all'interno dello stabile, avrà agito dolosamente non solo in
relazione alla fattispecie dell'incendio, ma anche rispetto a quella dell'omicidio.
Va precisato, poi, che la legge considera come voluto anche ciò che il soggetto agente si
è rappresentato soltanto come possibile conseguenza della propria condotta: in casi
del genere, si parla di ed. dolo indiretto (o eventuale). Ora, il presupposto fondamentale
di questa particolare tipologia di dolo è che l'autore si sia rappresentato, come possibile
conseguenza della sua condotta, il verificarsi dell'evento; senonché, risulta alquanto
difficile stabilire quando può dirsi voluto l'evento che l'autore si è rappresentato solo
come possibile, ma dubbia conseguenza della propria condotta. Proprio per tal motivo,
allora, per risolvere il problema, parte della dottrina ha ritenuto opportuno coniare la ed.
teoria dell'accettazione del rischio, per la quale il dolo eventuale si identifica con
l'atteggiamento psicologico di chi, pur ritenendo in concreto il verificarsi dell'evento
una possibile (anche se dubbia) conseguenza della propria condotta, tuttavia non se ne
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astiene, accettando consapevolmente il rischio del suo verificarsi (si pensi, ad es., al
caso in cui Tizio, mentre percorre con l'auto un centro abitato a velocità sostenuta, si
avvede che a breve distanza un gruppo di ragazzi gioca a rincorrersi sul ciglio della
strada, ma ciononostante non diminuisce la velocità, accettando consapevolmente il
rischio di cagionare un evento nefasto).
Occorre ricordare, in conclusione, che la dottrina ha individuato ulteriori partizioni del
dolo. In primis, ricordiamo la distinzione tra dolo generico e dolo specifico: il primo
corrisponde alla semplice previsione e volontà di realizzare l'evento; si ha, invece, dolo
specifico quando la norma menziona, tra gli elementi costitutivi del fatto, anche la
finalità particolare, in vista della quale il reato deve essere compiuto (il furto è, ad es.,
un reato a dolo specifico, perché esso ricorre soltanto se la sottrazione della cosa altrui
avviene alfine di trarne profitto: in questo caso, tra l'altro, la sussistenza del dolo
specifico si rende necessaria per la sussistenza stessa del reato. In altri casi, invece, il
riferimento al dolo specifico serve solo a distinguere tra loro delle fattispecie di reato:
così, ad es., il sequestro di persona si inquadra in fattispecie diverse, a seconda che esso
sia commesso con mero dolo generico, a scopo di estorsione o a fine di terrorismo). Si
distingue, poi, tra dolo iniziale, concomitante e successivo: il dolo iniziale è presente
solo nel momento in cui inizia il processo causativo dell'evento (ad es., Tizio spiana
un'arma contro Caio, con l'intenzione di sparargli, ma poi desiste dal farlo; mentre
abbassa l'arma, però, esplode accidentalmente un colpo che uccide Caio). Il dolo
concomitante, invece, è presente in tutto lo svolgersi del processo che porta alla
produzione dell'evento.
Il dolo successivo, infine, sorge soltanto dopo che il soggetto agente ha, senza dolo,
realizzato la fattispecie oggettiva di un reato (è questo, ad es., il caso del medico che
somministra accidentalmente a un paziente una sostanza letale invece del medicinale
prescritto; avvedutosi di ciò, decide ugualmente di lasciarlo morire). Beninteso, le
fattispecie del dolo iniziale e del dolo successivo non integrano ipotesi di dolo
penalmente rilevante, in quanto in entrambi i casi l'autore non ha messo in moto,
volontariamente, le energie dirette a cagionare l'evento. Diversa questione è se, invece,
l'evento possa essergli addebitato a titolo di colpa (come nel caso del colpo di pistola
esploso involontariamente da Tizio) o se la condotta successiva sia assistita o meno da
dolo concomitante (come nel caso del medico che lascia morire il paziente). Si parla,
invece, di dolo generale quando l'evento, pur costituendo l'originario oggetto del dolo,
è, però, prodotto da una condotta non più dolosa dell'agente: ad es., Tizio, agendo allo
scopo di uccidere Caio, lo tramortisce e, in seguito, credendo di averlo ucciso, ne getta
il corpo nel fiume sottostante, ove, in realtà, Caio muore annegando (al riguardo, è
importante sottolineare che parte della dottrina considera la figura del dolo generale
come un'ipotesi di concorso tra un tentativo di omicidio ed un omicidio colposo).
Un'ipotesi particolare di dolo diretto di secondo grado è, poi, il dolo alternativo che,
secondo dottrina dominante, ricorre in tutti i casi in cui l'agente si rappresenta due o più
eventi, dei quali, però, uno solo può realizzarsi e vuole l'uno o l'altro di essi: si pensi, ad
es., a chi distribuisca, a scopo omicida, dei confetti, dei quali, però, uno solo sia
avvelenato.
Si parla, infine, di dolo d'impeto, quando la decisione criminosa sorge all'improvviso e
viene subito eseguita; invece, quando tra la risoluzione e l'esecuzione intercorre un
notevole lasso di tempo, si parla di dolo di proposito; nei casi in cui, però, questo lasso
di tempo venga utilizzato al fine di preordinare i mezzi e le modalità della condotta, si
avrà dolo di premeditazione.
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§5. L'accertamento del dolo
L'accertamento del dolo si fonda solo ed esclusivamente su delle regole di esperienza,
che, tuttavia, circostanze del caso concreto, possono anche far disattendere: ad es., la
mancanza di un movente o addirittura la prova vera di un sincero affetto tra autore e
vittima possono rendere plausibile l'ipotesi di un gesto compiuto solo per scherzo.
Perciò, alla luce di quanto affermato in questa sede, è d'obbligo concludere dicendo che
il dolo deve costituire oggetto di un reale e specifico accertamento, in quanto è vero che
la prova del dolo può risultare più o meno agevole, a seconda del tipo di fattispecie, ma
in nessun caso esso può essere ritenuto implicitamente sussistente, una volta accertata
l'esistenza dei requisiti della fattispecie oggettiva. Va, quindi, respinta, in linea di
principio, l'idea del ed. dolus in re ipsa, cioè di quella categoria di invenzione
giurisprudenziale, che tende a legittimare la presunzione del dolo nella commissione
del fatto.
Capitolo III
L'illecito omissivo doloso
§1. Nozione di reato omissivo e suo fondamento politico criminale Le disposizioni
penali che prevedono reati omissivi contengono non un divieto ma un comando: esse,
più precisamente, comandano di intraprendere determinate azioni, in quanto idonee a
evitare il realizzarsi di situazioni socialmente indesiderate: in queste ipotesi, pertanto,
ciò che viene criminalizzato dal legislatore è il mancato attivarsi del soggetto e non il
semplice non fare (basti pensare, ad es., al caso della madre che, non allattando il
proprio figlio, non fa alcunché, ma ci appare, in ogni caso, responsabile della morte del
bambino). In virtù di queste considerazioni, dunque, è evidente che la nozione di
omissione, ai fini che ci interessano, presenta carattere normativo: invero, dal
momento che l'omissione è, da qualsiasi punto di vista, una non azione, essa può essere
compresa e valutata solo ponendo come parametro di riferimento la condotta attiva che
l'agente era tenuto a porre in essere.
Per quanto riguarda, invece, il fondamento politico-criminale dei reati omissivi,
occorre sottolineare che esso è identico a quello che fa da sfondo alle corrispondenti
condotte commissive: infatti, l'agente, omettendo volontariamente di porre in essere la
condotta doverosa, decide di non rispettare i valori propri dell'ordinamento (egli cioè
decide di non compiere l'azione che l'ordinamento prescriveva al fine di scongiurare il
verificarsi di situazioni socialmente - e, di riflesso, giuridicamente - indesiderate).
§2.1 reati omissivi propri ed i reati omissivi impropri
Tradizionalmente, in dottrina si distingue tra reati omissivi propri (o di pura
omissione) e reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione): più
precisamente, nei reati omissivi propri ad integrare la fattispecie tipica è sufficiente che
l'agente non abbia compiuto l'azione doverosa, a prescindere dal fatto che si sia
realizzato un evento di ordine naturalistico (tale è, ad es., l'omissióne di soccorso, di
cui all'art. 593 c.p., per la cui realizzazione è sufficiente, infatti, che l'agente abbia
omesso di prestare soccorso). L'essenza, invece, del reato commissivo mediante
omissione risiede nella circostanza che il soggetto agente non impedisce il verificarsi di
un evento (da lui non cagionato con una condotta attiva) che è obbligato ad impedire: è
questo, ad es., il caso del p.u. che, pur avendo la possibilità di intervenire con successo,
tuttavia non si attiva per impedire un omicidio che si sta consumando sotto i suoi occhi.
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Nel nostro ordinamento giuridico, la configurabilità dei reati omissivi impropri, al di là
di specifiche fattispecie contemplate all'interno del codice (si pensi, ad es., all'art. 450
c.p., che punisce chi, con la propria azione od omissione colposa, fa sorgere o
persistere il pericolo di un disastro ferroviario), è affidata ad un'importante clausola
normativa di carattere generale: ci riferiamo, nel dettaglio, all'art. 40 cpv. c.p., il quale
statuisce che non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire
equivale a cagionarlo.
§3. La fattispecie oggettiva dei reati omissivi
a) i presupposti dell'omissione penalmente rilevante
Per affermare l'esistenza di un'omissione che rilevi dal punto di vista penale, si deve
poter affermare, innanzitutto, la possibilità di compiere l'azione omessa: sia in
generale (cioè da parte di qualunque soggetto si venga a trovare nella condizione del
soggetto agente), sia individualmente (cioè da parte dello specifico autore
dell'omissione): si pensi, ad es., al caso in cui Tizio ometta di lanciarsi in acqua, al fine
di salvare Caio, che sta annegando (in quest'ipotesi, a Tizio non si potrà imputare il
reato di omissione di soccorso, qualora, per le condizioni dell'acqua, mancava ogni
chance di effettuare il salvataggio). Viene, in tal modo, individuato il secondo
presupposto dell'omissione penalmente rilevante, che è rappresentato dalla circostanza
secondo la quale l'azione positiva che ci si attendeva dall'autore non deve presentare
caratteri tali da esporre lo stesso a rischi o a pregiudizi non esigibili.
In ogni caso, va precisato che i requisiti generali su descritti devono riferirsi ad una
condotta di omissione tipica: ciò significa, dunque, che tali requisiti devono presentare
le caratteristiche proprie di un reato di omissione (proprio o improprio) o devono,
quanto meno, rientrare nello schema dell'equivalenza causale, ex art. 40 cpv. c.p. Tra
l'altro, quanto detto comporta, in relazione ai reati omissivi impropri (previsti
espressamente nel c.p.), la verifica di un ulteriore presupposto: è necessario, infatti,
stabilire, con elevato grado di verosimiglianza, che il compimento dell'azione dovuta
avrebbe scongiurato il verificarsi dell'evento lesivo.
b) la regola dell'art. 40 cpv. c.p.
L'art. 40 cpv. c.p. dispone, come già detto, che non impedire un evento che si ha
l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.
Ora, in relazione a questa disposizione, bisogna, anzitutto, chiedersi quale sia la sua
reale portata: in effetti, va tenuto presente, al riguardo, che parte della dottrina tende a
delimitare l'operatività della regola contenuta nell'art. 40 cpv. alle sole ipotesi delle
fattispecie causalmente orientate (cioè, a quelle fattispecie che fondano la loro validità
essenzialmente sulla realizzazione di un evento tipico); di esse, perciò, l'art. 40 cpv.
comporterebbe una sostanziale duplicazione, autorizzando gli operatori del diritto ad
affiancare ad ogni ipotesi di condotta attiva (dirette alla realizzazione di un evento
specifico) l'qeuivalente condotta omissiva (consistente nel non aver impedito l'evento
stesso, avendo l'obbligo giuridico di attivarsi per evitarlo).
Al dì fuori delle ipotesi menzionate, invece, si ritiene che il cpv. dell'art. 40 cpv. non
possa essere applicato, ad es., con riferimento a quelle fattispecie che presuppongono
necessariamente una condotta attiva di carattere personale (si pensi, ad es., all'incesto,
di cui all'art. 564 c.p.), nonché nei reati abituali, la cui struttura implica la reiterazione
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di una molteplicità di attività positive (si pensi, ad es., ai maltrattamenti in famiglia, di
cui all'art. 572 c.p.).
Al contrario, l'intercambiabilità tra condotte positive e negative (nelle ipotesi in cui la
fattispecie legale del reato sia incentrata sulla violazione di obblighi comportamentali
incombenti sul soggetto) fa apparire incongruente il richiamo all'art. 40 cpv.: si pensi,
ad es., ai reati come l'infedeltà del patrocinatore o del consulente, ex art. 380 c.p., in
cui, a ben vedere, il danno agli interessi della parte può essere realizzato sia con
un'azione positiva (ad es., interrogando un testimone in maniera pregiudizievole per il
proprio cliente) ovvero con una condotta omissiva (ad es., omettendo di produrre una
prova documentale risolutiva). Di conseguenza, il problema, per queste ipotesi, è quello
di riuscire a decifrare con esattezza quale possa essere l'area di operatività della norma
in esame; a questo proposito, la soluzione più interessante è stata quella offerta dalla
dottrina contemporanea, la quale è pervenuta ad un'interessante conclusione: è stato
affermato, in particolare, che, ferma restando l'incompatibilità di alcune fattispecie con
il paradigma dell'art. 40 cpv., l'ambito di operatività di questa norma può essere
utilmente circoscritto quando l'obbligo di agire, che incombe sull'agente, sia posto in
relazione alle sue concrete possibilità di intervento (con il che si viene ad escludere una
vera e propria efficienza causale dell'omissione penalmente rilevante, che potrebbe,
infatti, condurre, ove accolta, a risultati imbarazzanti: si pensi, ad es., al caso in cui il
superiore gerarchico non intervenga al fine di evitare la commissione di un reato da
parte di un suo sottoposto).
Quanto detto ci fa comprendere, tra l'altro, anche un altro dato: si deve decisamente
negare che l'art. 40 cpv. possa ricomprendere nel termine evento la nozione di reato
altrui, come è solita affermare, invece, la giurisprudenza, che, in più di un'occasione, ha
preferito costruire la responsabilità dell'omittente in forma concorsuale, nella veste di
partecipazione omissiva a reato commissivo altrui.
c) il problema causale nei reati omissivi impropri
L'omissione non è un dato della realtà empirica (esso, cioè, non può essere saggiato in
modo pratico), ma un semplice concetto di natura giuridica (o normativa); per cui, il
giudizio sul valore causale della condotta omissiva (nei reati omissivi impropri) non
può essere identico a quello che caratterizza la verifica del nesso causale tra condotta ed
evento, nei reati di azione (del resto, dalla lettura dello stesso art. 40 cpv. c.p., si intuisce
che l'inciso non impedire un evento comporta l'adozione di un diverso criterio di
imputazione oggettiva dell'evento stesso, in considerazione del fatto che l'evento in
questione non può essere stato logicamente cagionato dall'omissione). Ciò, tuttavia,
non ci impedisce di ricondurre nell'ambito di leggi scientifiche l'analisi
dell'accadimento concreto, onde stabilire la sussistenza o meno dei presupposti atti a
equiparare l'omesso intervento a un comportamento attivo (causativo dell'evento). In
quest'ottica, è necessario, in dettaglio, verificare se in presenza dell'azione dovuta, che è
stata omessa, l'evento non si sarebbe verificato: si tratta, come si può facilmente intuire,
di un rovesciamento della formula della teoria della condicio sine qua non, in virtù
della quale si potrà affermare che l'omissione è causa dell'evento quando la stessa non
può essere mentalmente sostituita con l'azione doverosa, senza che l'evento venga
meno. In altri termini, si dovrà accertare (sulla base di un giudizio prognostico o
probabilistico) se l'attuazione della condotta attiva (doverosa) avrebbe comportato una
deviazione del processo causale, tale da impedire il verificarsi dell'evento: così, ad es.,
nel caso di un ferroviere che ometta di attivare uno scambio, provocando lo scontro tra
due treni, ci si dovrà chiedere se il compimento dell'azione doverosa avrebbe evitato il
verificarsi della collisione.
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Nonostante ciò, però, si deve anche prendere atto del fatto che, da un punto di vista
pratico, data la mancanza di una sia pur minima indicazione legislativa in proposito, il
compito di fondare giudizi di certezza (o confinanti con la certezza) circa l'efficacia
impeditiva di una certa condotta è, nella stragrande maggioranza dei casi, affidata alla
giurisprudenza, cui, in definitiva, è rimessa la funzione di segnare il confine tra
punibile e non punibile. E il motivo di ciò trova giustificazione nella rilevanza effettiva
che, ad oggi, hanno assunto i reati omissivi, con particolare riferimento ai casi della c.d.
colpa medica (e, precisamente, in relazione al rapporto tra il trattamento terapeutico e
la morte del paziente: si veda, in proposito, la sentenza Franzese, del 2002). Ecco il
motivo per il quale, allora, una parte della dottrina ha proposto, al riguardo, una
soluzione di parte speciale e, in particolare, la creazione, da parte del legislatore, di
apposite fattispecie omissive proprie, in virtù delle quali il rimprovero legislativo non
dovrebbe più avere per oggetto il non impedimento dell'evento, bensì il non essersi,
l'autore, attivato in presenza di circostanze, predeterminate dalla legge, che
rendevano tale attivazione doverosa.
§4. L'ambito soggettivo
a) la posizione di garante nell'illecito omissivo doloso
L'obbligo di agire per la tutela del bene giuridico protetto costituisce un presupposto
generale della responsabilità omissiva (e ciò sia nei reati di pura omissione che in
quelli commissivi mediante omissione). In effetti, va tenuto presente che in qualunque
tipo di illecito omissivo il fondamento dell'incriminazione deve essere ricercato nel
fatto che al soggetto (o in virtù di una sua preesistente qualificazione o per la posizione
in cui viene a trovarsi al momento del fatto) viene attribuito dall'ordinamento un ruolo
di garanzia rispetto al bene giuridico: è bene precisare, però, che questa funzione di
garanzia varia a seconda della tipologia di reato omissivo (proprio o improprio). Invero,
nei reati omissivi propri (e in quelli impropri previsti dalla legge), essendo fonte diretta
dell'obbligo di agire solo la legge penale, è agevole determinare l'ambito dei soggetti su
cui incombe il dovere di agire: o perché quest'ambito è definito in via preliminare dalla
norma penale, mediante il riferimento a una determinata categoria di persone (si pensi,
ad es., al pubblico ufficiale o a colui che esercita una professione sanitaria), o perché lo
stesso ambito può essere definito sulla base dei presupposti di fatto indicati dalla legge
(così, ad es., nell'omissione di soccorso, di cui all'art. 593 c.p., l'obbligo di agire per la
salvaguardia della vita e dell'incolumità altrui sorge, è vero, in capo a chiunque, ma
soltanto quando ricorrono le condizioni descritte nella norma penale incriminatrice).
Viceversa, per quel che riguarda i reati omissivi impropri (non previsti dalla legge), la
dottrina ha proposto di scindere le posizioni di garanzia in due tipi fondamentali, quali
la posizione di controllo e la posizione di protezione. In particolare, la posizione di
controllo si caratterizza per l'esigenza di tutelare i beni giuridici contro una fonte di
pericolo ben determinata; tale esigenza, a sua volta, può trovare origine:
• in una precedente condotta antidoverosa dell'autore stesso (è questo, ad es., il caso
del lavoro di scavo, di cui si omette l'adeguata segnalazione);
• in obblighi di sorveglianza, relativi a edifici, strutture o manufatti (si pensi, ad es., al
proprietario di uno stabile pericolante);
• in obblighi di vigilanza nei confronti di persone, della cui condotta si è responsabili
(si pensi, ad es., al soggetto cui è affidata la custodia di un alienato o di un incapace). La
posizione di protezione si caratterizza, invece, per l'esigenza di tutelare determinati
beni giuridici contro ogni pericolo; tale esigenza, a sua volta, può trovare origine:
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• in un rapporto con il titolare del bene giuridico da proteggere (è questo, ad es., il caso
dei genitori, in merito al dovere di tutelare l'incolumità psicofisica dei figli minori);
• in un contratto (si pensi, ad es., alla baby-sitter, che assume l'obbligo di sorvegliare il
bambino in assenza dei genitori);
• in altri rapporti giuridici, non inquadrabili nei precedenti (è questo, ad es., il caso del
medico che intraprende la cura di un paziente).
§5. Il dolo nei reati omissivi
Il dolo di omissione è costituito:
• dalla volontà dell'agente di non realizzare l'azione dovuta;
• dalla consapevolezza di poter agire nel modo richiesto dalla norma.
Ora, in relazione a questo secondo elemento, si rende necessario focalizzare tre punti
fondamentali:
• l'agente deve, anzitutto, conoscere le circostanze sulle quali si fonda l'obbligo di agire
(così, ad es., ai fini del dolo dell'omissione di soccorso, è necessaria la percezione che
una persona stia versando in una situazione di pericolo, ex art. 593 c.p.);
• l'agente, in secondo luogo, deve trovarsi nelle condizioni di poter compiere l'azione
dovuta (in tal senso si dovrà, ad es., escludere il dolo dell'omissione di soccorso, nel
caso in cui l'azione sia realizzabile solo a patto di affrontare il guado di un torrente in
piena);
• nei reati omissivi impropri è, altresì, necessario che il soggetto si renda conto della
valenza causale della propria omissione: egli deve, in altri termini, rappresentarsi il
fatto che l'azione doverosa, con un alto grado di probabilità (vicino alla certezza),
avrebbe scongiurato il prodursi dell'evento.
Capitolo IV
La fattispecie dell'illecito colposo
§1. Premesse generali allo studio del reato colposo
Il presupposto che fonda ogni ipotesi di reato colposo risiede nel fatto che il sistema
giuridico pretende che tutti i consociati, nelle varie circostanze della vita di relazione,
abbiano l'accortezza di adeguare (e controllare) il proprio comportamento, in modo da
scongiurare il realizzarsi di danni o pericoli per i beni giuridici che l'ordinamento tutela.
Il reato colposo, a lungo confinato in una zona marginale del nostro sistema penale, da
molto tempo occupa, invece, uno spazio importante: basti pensare che la maggior parte
degli illeciti connessi alla circolazione stradale, alle lavorazioni industriali o
all'inquinamento ambientale vanno annoverati proprio nell'ambito dei reati colposi.
Ora, sotto il profilo funzionale, nella incriminazione del reato colposo, ciò che la legge
penalizza è l'intrapresa di azione, indirizzata a un fine lecito, quando l'agente abbia,
però, trascurato di attivarsi nei modi opportuni, allo scopo di scongiurare l'ingresso di
conseguenze dannose per i beni tutelati.
Nel nostro ordinamento, come sappiamo, la definizione del fatto colposo è contenuta
nell'art. 43 c.p., che, al co. 1, dispone che il delitto è colposo, o contro l'intenzione,
quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini o discipline. Come si può notare, da questa norma si evince che il contenuto
dell'illecito colposo emerge dalla valutazione di tre specifici elementi:
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• l'esistenza di una condotta obiettivamente contraria ad una norma precauzionale (nei
reati colposi di mera condotta) ovvero (nei reati colposi di evento) la produzione di un
danno o di un pericolo per i beni protetti, attraverso una condotta obiettivamente
inosservante di una regola di diligenza;
• l'evitabilità della situazione di danno o di pericolo, attuabile mediante la tenuta di una
condotta obiettivamente conforme alla regola di diligenza violata;
• la possibilità, da parte dell'agente, di osservare la regola di diligenza prestabilita.
§2. La fattispecie oggettiva dei reati colposi
a) i reati colposi di mera condotta e i reati colposi di evento
In dottrina si è soliti distinguere tra reati colposi di pura condotta (cioè senza evento
materiale) e reati colposi di evento (nei quali è, viceversa, è richiesta una modificazione
della realtà esterna, come conseguenza della condotta vietata).
Le fattispecie colpose di mera condotta sono per lo più di carattere contravvenzionale,
anche se non mancano delitti colposi di pura condotta (si pensi, ad es., all'art. 451 c.p.,
che, infatti, punisce con la multa chiunque omette di collocare ovvero rimuove
apparecchi destinati all'estinzione di un incendio contro disastri o infortuni sul
lavoro): quest'esempio, come si può notare, ci fa comprendere che, per far sì che si
concretizzi la fattispecie oggettiva dei reati colposi di mera condotta, è sufficiente che
l'agente abbia tenuto un comportamento obiettivamente contrario alla norma di
diligenza violata. Viceversa, per la configurabilità di un reato colposo di evento è
necessario accertare, anzitutto, l'esistenza di un rapporto di causalità tra la condotta e
l'evento, tenendo, però, presente che l'evento deve poter essere direttamente ricollegato
alla violazione della norma di diligenza (la quale deve configurarsi come suo specifico
antecedente): così, ad es., chi guida un'auto in direzione vietata, non per questo
risponderà della morte di un passeggero, cagionata dal ribaltamento dell'autovettura, a
meno che tale evento non sia connesso con la direzione vietata che il conducente stava
percorrendo. Allo stesso modo, chi conduce la propria automobile a velocità sostenuta
risponderà dei fatti direttamente collegati con la regola di diligenza che raccomandava
di tenere un'andatura più moderata (in questo senso, il conducente dovrà rispondere, ad
es., dell'investimento di un passante, in quanto, al fine di evitare tale evento, si rendeva
necessario un più ampio spazio di frenatura).
Per converso, però, v'è da dire che il rapporto causale non sempre assume rilevanza, ai
fini della configurabilità di un reato colposo: questa rilevanza, infatti, non sussiste
laddove si accerti che il rispetto della regola di diligenza non avrebbe, in ogni caso,
contribuito ad evitare l'evento: si pensi, ad es., all'ipotesi in cui Tizio, nel sorpassare
l'auto di Caio, invada (oltrepassando la linea spartitraffico continua) l'opposta corsia di
marcia, a causa di uno sbandamento verso sinistra dell'auto di Caio. In tal caso, qualora
si verifichi una collisione tra le due automobili, l'oltrepassamento della linea
spartitraffico da parte di Tizio non potrà giocare alcun ruolo dal punto di vista della
rilevanza penale, ove si riesca a dimostrare che una condotta conforme alla regola di
diligenza violata (sorpasso effettuato mantenendo l'auto all'interno della carreggiata di
marcia) non avrebbe, comunque, contribuito ad evitarne l'evento.
b) l'obbligo di diligenza: la fonte (colpa generica e colpa specifica)
Per quel che concerne la fonte dell'obbligo di diligenza si distingue tradizionalmente
tra colpa generica e colpa specifica:
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* con la colpa generica si fa riferimento ai casi in cui l'evento (in termini di offesa) si
verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia (cioè a causa della violazione di
norme di cautela, dettate dalla comune prudenza o esperienza). Più precisamente:
* negligente è la condotta che si caratterizza per la trascuratezza di una regola di tipo
precauzionale e si concretizza, per lo più, in una omissione (come, ad es., il non aver
guardato nello specchietto retrovisore prima di effettuare un sorpasso);
* imprudente, invece, è la condotta che, per le sue modalità, genera ovvero aumenta il
rischio che si verifichi una lesione dei beni protetti dall'ordinamento (ad es., guidare
l'automobile ad elevata velocità);
* l'imperizia, infine, è una forma qualificata di imprudenza e consiste nel non far uso (o
nel fare un uso scorretto) delle specifiche capacità che l'autore possiede, necessarie per
poter esercitare attività che richiedono particolari competenze (si pensi, ad es., all'uso
delle armi da fuoco da parte della forza pubblica);
* con la colpa specifica si fa, invece, riferimento alle ipotesi in cui l'evento si verifica
per l'inosservanza di precise regole di comportamento, positivizzate in una norma. Nel
dettaglio, tali regole possono estrinsecarsi:
* in una norma di legge (anche penale);
* in una norma regolamentare, contenuta in un atto normativo emanato da un'autorità
amministrativa;
* può trattarsi di un ordine proveniente da soggetti pubblici o privati (si pensi, ad es., al
divieto temporaneo di circolazione in una strada minacciata da frane);
* può trattarsi, infine, di una norma contenuta in regolamenti atti a regolare l'attività di
cerchie predeterminate di soggetti (si pensi, ad es., ai regolamenti sportivi).
c) l'obbligo di diligenza: la misura, il contenuto e i limiti
Per affermare che vi sia stata negligenza, imprudenza o imperizia, occorre stabilire,
innanzitutto, quale fosse la misura della diligenza richiesta (atta a scongiurare danni o
pericoli per i beni tutelati); è bene precisare, infatti, che la diligenza pretesa non può
corrispondere ad una misura tale da imporre ai consociati una sorta di immobilità
permanente. Ed è proprio per questo motivo che la misura della diligenza richiesta è
sottoposta a due limiti fondamentali:
• in primo luogo, va tenuto presente che all'agente possono essere obiettivamente
imputate solo le conseguenze prevedibili (prevedibili, cioè, da un agente ipotetico che
si trovi nella stessa situazione del soggetto agente: è il ed. agente modello);
• un secondo limite si ricava, invece, dal concetto del ed. rischio consentito, che viene a
rappresentare quella specifica misura di rischio che è praticamente ineliminabile in
quelle attività dirette ad accrescere lo sviluppo della vita collettiva (si pensi, ad es., ai
voli spaziali, al traffico aereo o alla circolazione stradale).
In presenza di tali limiti, la dottrina ha, pertanto, cercato di operare un'attenta analisi
circa il contenuto dell'obbligo di diligenza. Si sono, in tal modo, individuate:
• ipotesi in cui alla diligenza oggettiva corrisponde l'obbligo di astenersi dal compiere
determinate azioni (ad es., non ci si deve porre alla guida dell'auto, dopo aver ingerito
bevande alcoliche in quantità tali da attenuare la necessaria prontezza dei riflessi);
• ipotesi nelle quali l'intrapresa dell'azione, nonostante presenti determinati rischi, non
viola, di per sé, la diligenza oggettiva, purché sia accompagnata dall'adozione di
particolari misure cautelari (si pensi, ad es., allo svolgimento della maggior parte delle
attività industriali a rischio ovvero ai voli spaziali);
• ipotesi in cui il contenuto dell'obbligo di diligenza implica uno specifico dovere di
informazione: così, ad es., il medico ha il dovere di tenersi al corrente del progresso
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della ricerca, in relazione all'introduzione di nuovi rimedi terapeutici e ai loro effetti
collaterali.
E necessario, comunque, sottolineare che la dottrina prevalente, oltre a quelli citati, ha
individuato altri due specifici limiti al dovere di diligenza:
• un primo limite è costituito dal ed. principio della divisione del lavoro, in relazione al
quale viene in considerazione quella particolare forma di responsabilità per colpa, che
prende il nome di ed. culpa in eligendo: quest'ultima ricorre nel momento in cui il
soggetto, che ricopre una posizione gerarchicamente sovraordinata, viola l'obbligo di
scegliere, in modo prudente, i suoi collaboratori e di controllarne l'operato; invero,
soltanto se si rispettano queste condizioni può assumere rilevanza il fenomeno della
delega e del relativo trasferimento di funzioni (che, nei congrui casi, può comportare
anche il trasferimento del dovere di diligenza e della relativa responsabilità colposa);
• ed ecco il secondo limite al dovere di diligenza: il principio dell'affidamento, in virtù
del quale si afferma che colui che agisce nel rispetto dei doveri di diligenza oggettiva
è legittimato a fare affidamento su un comportamento egualmente diligente da parte dei
terzi, la cui condotta interferisce con la sua (questo principio è stato inizialmente
elaborato con riferimento alla circolazione stradale, ma oggi esso assume importanza
anche nell'ambito delle attività che si svolgono in equipe). È bene precisare, tra l'altro,
che il principio dell'affidamento fornisce anche una soluzione adeguata quando si tratta
di stabilire l'esistenza di una responsabilità colposa, in relazione al fatto di un terzo (sia
esso doloso o colposo): così, ad es., se Tizio consente a Caio, in evidente stato di
ubriachezza, l'uso della propria auto, in base al principio dell'affidamento, egli non
potrà essere esonerato da responsabilità per colpa, in relazione all'incidente
eventualmente provocato da Caio.
d) azione ed omissione nella condotta colposa
L'obbligo della diligenza oggettiva può essere violato sia con una condotta attiva, sia
con una condotta omissiva: perciò, possono aversi delitti colposi di azione
(commissivi) e delitti colposi di omissione (omissivi).
Più precisamente, si ha delitto colposo commissivo quando la diligenza oggettiva si
concreta in un dovere di astenersi dal compiere determinate azioni pericolose (quali, ad
es., correre in auto a velocità eccessiva o vendere oggetti taglienti ai bambini), di modo
che procedere ad alta velocità ovvero consegnare ai bambini strumenti atti ad offendere
integrano ipotesi di condotta attiva, rilevanti per la fattispecie oggettiva di un reato
colposo.
Al contrario, quando il rispetto della diligenza oggettiva richiede il compimento di
azioni ben determinate, è proprio nell'omissione di queste condotte doverose che si
attualizza la contrarietà alla diligenza oggettiva.
Ora, veri e propri reati colposi omissivi sono quelli di pura omissione, espressamente
previsti dalla legge (sono tali, ad es., le ipotesi di cui agli artt. 451 e 672 c.p.) e quelli
commissivi mediante omissione, nei quali venga in considerazione esclusivamente una
condotta negativa (vale a dire un non fare): si pensi, ad es., alla madre che cagioni un
pregiudizio nella salute al proprio figlio di poche settimane di età, omettendo, per
dimenticanza, di nutrirlo per un'intera giornata.
È bene precisare, in ogni caso, che nella maggior parte dei casi, la condotta rilevante ai
fini dell'incriminazione di un reato colposo è una condotta mista, in quanto al suo
interno si vengono ad intrecciare comportamenti attivi e comportamenti omissivi: si
pensi, ad es., a chi, nell'intraprendere un lavoro stradale (azione) evita di apporre le
dovute segnalazioni (omissione) o a chi, neh1'effettuare un sorpasso (azione), omette di
guardare nello specchietto retrovisore (omissione) o, ancora, a chi trasporta in auto il
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proprio figlioletto (azione), senza, però, assicurarlo all'apposito seggiolino
(omissione).
§3. La fattispecie soggettiva dei reati colposi
a) la struttura psicologica: colpa cosciente e colpa incosciente
Passando ora all'analisi della fattispecie soggettiva della condotta colposa, vediamo che
essa si estrinseca essenzialmente su due tipologie di colpa: la colpa cosciente (o con
previsione) e la colpa incosciente:
• la colpa cosciente ricorre quando l'agente, nel momento in cui realizza una condotta
obiettivamente contraria ad una regola di diligenza, si rappresenta come possibile il
verificarsi dell'evento, come conseguenza della sua condotta, ma ritiene che l'evento
stesso non si verificherà (ad es., Tizio, mentre percorre in auto ad elevata velocità un
centro abitato, si avvede che, a breve distanza, un gruppo di ragazzi sta giocando a
rincorrersi sul margine della strada, ma ciononostante non diminuisce la velocità,
perché è convinto che sarà in grado di non investirli). Come si può notare, quindi, la
struttura psicologica della colpa cosciente è contrassegnata da un elemento negativo (la
non volizione dell'evento) e da un elemento positivo (la rappresentazione del
medesimo evento come possibile conseguenza della propria condotta); occorre, però,
precisare, che la colpa cosciente può riguardare i soli reati di evento, perché nei reati di
pura condotta la consapevole violazione della regola precauzionale costituisce,
senz'alcun dubbio, un'ipotesi di comportamento doloso.
È importante osservare, infine, che la nozione di colpa cosciente può creare qualche
confusione con la figura del dolo eventuale: per risolvere questo problema, allora, la
dottrina ha proposto di fare ricorso alla ed. teoria del consenso, per la quale il confine
tra dolo eventuale e colpa cosciente si traccia attraverso l'utilizzo di un criterio, che
assegna all'ambito del primo (il dolo eventuale) i casi in cui l'agente agisce sulla base di
una ragionevole previsione che l'evento possa verificarsi e ne accetta consapevolmente
il rischio, e assegna all'ambito della seconda (la colpa cosciente) i casi in cui l'autore
ritiene possibile il realizzarsi dell'evento, ma è sicuro che lo stesso non si verificherà.
Tuttavia, se si guarda bene, la distinzione tra le due figure (nonostante la soluzione
addotta in dottrina) resta, in ogni caso, ambigua: ciò perché affermare che l'agente ha
accettato il rischio che l'evento si verificasse, nonostante se lo fosse solo rappresentato
come probabile (o possibile), significa proporre un criterio che non ci fa comprendere il
dato differenziale rispetto alla colpa cosciente. Tant'è vero che anche quest'ultima
figura (sulla base delle definizioni addotte in dottrina), si caratterizza per il fatto che
l'agente, pur ritenendo possibile il verificarsi di un certo evento come conseguenza di
una condotta contraria a una regola di cautela, agisce nonostante tale previsione, in
quanto confida nel fatto che lo stesso non abbia a verificarsi (con ciò accettandone, in
un certo senso, il rischio).
In virtù di queste considerazioni, perciò, si può affermare che solo la realtà del caso
concreto (preso in esame) potrà sciogliere tutti i dubbi in proposito: così, ad es., nel caso
della madre, che lasci imprudentemente un medicinale alla portata del figlio di pochi
anni di età, solo particolari circostanze del caso concreto potranno far pensare al dolo;
si dovrà, viceversa, parlare di colpa cosciente, ove vi sia stato un errato calcolo di
probabilità (se, ad es., la madre era sì consapevole del fatto che il figlio avrebbe potuto
impossessarsi del medicinale, ma conoscendone le abitudini, aveva giudicato
impossibile la realizzazione di un tale evento);
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• con la colpa incosciente si fa, invece, riferimento ai casi in cui l'agente, nell'attimo in
cui realizza la fattispecie oggettiva di un reato colposo, non viola, in modo
consapevole, la regola di diligenza, né si rappresenta il rischio a cui concretamente
espone il bene tutelato: così, ad es., se un automobilista imbocca una strada in
direzione vietata, ma non si avvede della relativa segnalazione, perché la sua attenzione
era rivolta altrove, viene a mancare sia la previsione che la volontà dell'evento e, in
generale, la consapevolezza di violare una regola di diligenza.
Proprio per tal motivo, una parte della dottrina è propensa ad escludere, nella colpa
incosciente, la presenza di componenti psicologiche reali: questa conclusione, però,
non è condivisibile, in quanto, se si osserva bene, non si può non notare come nella
colpa incosciente il legislatore punisca, in realtà, la mancata ovvero l'erronea
rappresentazione delle circostanze, oggettivamente conoscibili, da cui scaturiva
l'obbligo, per il soggetto agente, di osservare la regola di diligenza.
b) la misura soggettiva della colpa
Una volta stabilita la condotta oggettivamente dovuta, si dovrà verificare se l'agente,
sulla base delle sue capacità, era in grado effettivamente di tenere la condotta richiesta
(si parla, a tal proposito, della ed. misura soggettiva della colpa, la cui tematica, è bene
precisarlo, non appartiene al piano del fatto tipico, bensì a quello della colpevolezza
dell'autore).
In relazione al tema della misura soggettiva della colpa, è necessario sottolineare che:
• da ciascun autore è possibile pretendere di esprimere solo il massimo delle proprie
capacità e non oltre (così, ad es., al medico condotto, che sia costretto a effettuare
un'operazione d'urgenza con attrezzi di fortuna, non si potrà certamente pretendere lo
stesso grado di perfezione tecnica, che si pretende, invece, da un chirurgo altamente
qualificato);
• emerge, in tal modo, un secondo criterio di valutazione della misura soggettiva della
colpa e, cioè, l'anormalità delle circostanze nelle quali si agisce, quando da queste
emerga l'impossibilità di esigere l'osservanza dei doveri di diligenza, che può essere,
invero, pretesa solo in condizioni normali (si pensi, ad es., al guidatore di un bus, il
quale, di fronte alla improvvisa rottura dei freni, si trovi a dover decidere, in poco
tempo, la manovra più idonea a limitare il danno).
c) il grado della colpa
Una volta fissata la misura soggettiva, il giudice dovrà, poi, stabilire il ed. grado della
colpa, così come richiesto dall'art. 133 c.p. E, tuttavia, nell'ambito del diritto penale, a
differenza di quanto accade negli altri rami dell'ordinamento giuridico, può venire in
rilievo anche la più lieve delle colpe, tant'è vero che tanto più grave sarà la colpa (cioè,
più elevato il suo grado) quanto maggiore sarà il divario tra il comportamento tenuto e
quello a cui ci si doveva attenere.
Il giudice, in ogni caso, nello stabilire il grado della colpa, dovrà tener conto anche di
quei fattori individualizzanti, che concorrono a formare il giudizio complessivo sulla
gravità della colpa: in quest'ottica, non solo la colpa cosciente costituirà un'ipotesi di
maggior gravità rispetto a quella incosciente, ma la stessa tipologia di errore colposo
potrà avere un peso diverso, a seconda che si sia di fronte ad un soggetto di provata
esperienza (dal quale era lecito attendersi una condotta pienamente rispettosa della
diligenza pretesa) o, al contrario, di un apprendista.
Assumono, infine, rilevanza le condizioni soggettive, che possono aver dato causa alla
violazione della regola di diligenza: in questo senso, diversa, ad es., sarà nel grado la
colpa del casellante che ometta una manovra di scambio, a seconda che egli sia stato
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vinto dal sonno, perché stremato da un lungo turno di servizio o perché distrattosi a
leggere un giornale.
§4. Il caso della colpa medica alla luce dell'art. 3 L. 189/2012
Un accenno merita, infine, il tema della responsabilità penale (colposa) del sanitario,
che è stato oggetto, di recente, di una riforma che ha provocato numerosi commenti da
parte della dottrina e, più in generale, da parte degli operatori del diritto. Invero, come
sappiamo, il medico (o l'esercente attività sanitaria) svolge un'attività che comporta un
rischio per il paziente, ma, poiché la sua attività è fondamentale per garantire un diritto
costituzionalmente rilevante, come quello alla salute, il rischio derivante rientra tra i ed.
rischi consentiti; il rischio consentito, tuttavia, non può e né deve tramutarsi in licenza
di ledere o uccidere e, dunque, va delimitato. In quest'ottica, la delimitazione è fornita,
trattandosi di responsabilità in ambito professionale, dalle leges artis, cioè dai principi
operativi e comportamentali che reggono l'attività medica, generalmente intesa; le leges
artis sono, dunque, parametri di diligenza (o meglio, di perizia) a cui il medico deve
attenersi, poiché indicano le regole a cui il sanitario deve ispirarsi per risolvere le
questioni inerenti la salute del paziente. Premesso ciò, l'art. 3 L. 189/2012 recante
Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto
livello di tutela della salute, ha disposto che l'esercente le professioni sanitarie, che
nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida o a buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve. In
tali casi resta, comunque, fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il
giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente
conto della condotta di cui al primo periodo.
Ora, tralasciando il profilo relativo alla responsabilità civile - extracontrattuale -, sul
piano penalistico va specificato, in primis, che il nuovo dettato normativo ci autorizza
ad affermare che, attualmente, il sanitario che uniforma il proprio comportamento alle
lince guida (le quali possono essere, a loro volta, definite come raccomandazioni di
comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione della letteratura
e delle opinioni scientifiche, allo scopo di aiutare medici e pazienti a decidere le
modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche) può essere
chiamato a rispondere di lesioni colpose o di omicidio colposo solo nei casi in cui la
peculiare situazione clinica del malato renda immediatamente riconoscibile da parte di
qualunque sanitario, dotato delle competenze proprie dell'/ionio eiusdem condicionis et
professionis, arricchite dalle cognizioni proprie dell'agente concreto (ove lo stesso sia
in possesso di particolari competenze tecniche), la necessità di doversi scostare dalle
stesse linee guida. Interpretata in tal modo, la portata incriminatrice che viene ad
assumere la fattispecie penale di morte o lesioni (susseguenti ad una attività medica
realizzata nel rispetto di quanto prescritto dalle linee guida o dalle virtuose pratiche
mediche accreditate dalla comunità scientifica) appare paradossalmente più
circoscritta in seguito all'entrata in vigore della novella legislativa; ciò comporta,
conseguentemente, che, in applicazione dell'art. 3 L. 189/2012, nei settori in cui siano
in vigore le predette linee guida, non potrà essere addebitata al medico l'offesa
cagionata per colpa lieve, sempre che, però, il tutto rientri nei limiti di una condotta
imperita (secondo le più recenti pronunce della Suprema Corte, infatti, la condotta
imperita costituisce l'ambito esclusivo di afferenza delle linee guida, non potendo l'art.
3 della L. 189/2012 trovare applicazione nei casi di condotta imprudente o negligente
del medico: in questo senso, si veda Cassazione, sent. 11943/2013).
Va precisato, altresì, che il portato di questa novella, che va ad incidere sulla struttura
della norma reale di omicidio o lesioni, colposamente realizzati da un esercente una
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professione sanitaria, si riflette anche sul piano diacronico. Una recente pronuncia
della Cassazione, ha, infatti, stabilito che la nuova normativa ha parzialmente
decriminalizzato le fattispecie colpose in esame, con conscguente applicazione
dell'art. 2 c.p. In questo modo, la Corte ha dichiarato che l'innovazione esclude la
rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve che si collochino nell'area
segnata dalle linee guida ovvero dalle virtuose pratiche mediche, purché le stesse siano
accreditate dalla comunità scientifica (in tal senso, Cassazione, sent. 16237/2013).
Stando così le cose, pertanto, i medici - nei confronti dei quali siano state pronunciate
sentenze di condanna per illeciti colposi connessi alla loro attività professionale -,
ancorché la condotta produttiva dell'offesa fosse conforme alle linee guida o alle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica e la singolarità del caso clinico
(concreto) non appalesasse macroscopicamente la necessità di discostarsene, potranno
invocare l'effetto di cui all'art. 2, co. 2 c.p. che, com'è risaputo, ha la capacità di
travolgere il giudicato facendo cessare l'esecuzione della pena e gli effetti penali ad essa
connessi. Ed è proprio in quest'ambito che viene a collocarsi una recente pronuncia
assunta in sede di incidente d'esecuzione (Tribunale di Trento, 2013) la quale, in
applicazione dell'art. 3 L. 189/2012, ha revocato, ex art. 673 c.p.p., una sentenza di
condanna nei confronti di un ortopedico, la cui condotta colposa aveva procurato la
morte di un giovane sportivo. A ben vedere, però, il provvedimento giurisdizionale in
esame non sembra fare corretto utilizzo della regula iuris introdotta dall'art. 3. L.
189/2012, così come interpretata dalla più recente giurisprudenza di legittimità
pronunciatasi in merito; com'è stato giustamente sottolineato, infatti, nel caso
menzionato verrebbero a mancare i presupposti sostanziali idonei per poter invocare
l'applicazione della nuova legge:
• in primo luogo, invero, va rilevato che non vi è una esatta individuazione di linee
guida in campo ortopedico, il cui iter comportamentale è sì presupposto dal Tribunale,
ma non è indicato espressamente;
• in secondo luogo, come già detto poc'anzi, fin dalle prime sentenze pronunciate in
seguito all'entrata in vigore dell'art. 3 L. 189/2012, la Cassazione (sent. 11943/2013) ha
precisato che l'ambito di operatività della rilevanza penale della condotta colposa del
medico può essere valutata soltanto sotto il profilo dell'imperizia e non anche su quello
della negligenza e dell'imprudenza. Per contro, dalla lettura della pronuncia su
richiamata emerge chiaramente che il profilo di antidoverosità nella condotta del
medico assume i tratti della negligenza, atteso che l'ortopedico non ha avuto cura di
scegliere il comportamento migliore, rivolgendosi a diverse professionalità in grado di
decodificare il quadro clinico del ragazzo che gli appariva non chiaro.
Un ultimo richiamo in merito alla tematica della colpa medica va, infine, dedicato alla
questione di legittimità costituzionale che è stata sollevata dal Tribunale di Milano in
merito all'art. 3 L. 189/2012. Nel dettaglio, la questione di legittimità è stata sollevata in
ragione del fatto che, ad avviso del tribunale, il legislatore ha introdotto una norma ad
professionem, delineando un'area di non punibilità riservata esclusivamente agli
operatori sanitari che commettono un qualsiasi reato lievemente colposo, nel rispetto
delle linee guida e delle buone pratiche operative. In particolare, l'ordinanza eccepisce
che la formulazione, la delimitazione, la ratio essendi, le conseguenze, sia sostanziali
che processuali, di quest'area di non punibilità appaiono stridere con i principi
costituzionali di cui agli artt. 3, 24, 25, 27, 28, 32, 33 e 111 Cosi. (Tribunale di Milano,
21 marzo 2013).
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Capitolo V
Le cause generali di esclusione del fatto tipico
Premessa
L'esistenza di un fatto tipico, come sappiamo, costituisce un presupposto necessario,
ma non sufficiente, per la punibilità; questa, infatti, può essere esclusa per effetto di una
norma che, in concreto, autorizzi o addirittura imponga la realizzazione del fatto (si
pensi, ad es., alle ipotesi della legittima difesa o dell'adempimento del dovere). La
punibilità del fatto può essere esclusa, altresì, nel caso in cui ricorrano condizioni che
precludono la possibilità di muovere all'autore un rimprovero nei termini propri della
colpevolezza individuale (si pensi, ad es., al fatto commesso da un minore o da un
incapace).
In tutti questi casi, si può, dunque, affermare che la legge esclude l'applicabilità della
pena, in relazione ad un fatto che presenta tutti i caratteri della tipicità. Proprio per
questo motivo sorge l'esigenza di individuare quelle ipotesi normative che, invece,
escludono i connotati essenziali dello stesso fatto tipico: in quest'ottica, si dovranno
analizzare, nel dettaglio, le disposizioni contenute negli artt. 45,46, 47, 48 e 49 c.p., le
quali, nel loro insieme, configurano cause generali di esclusione del fatto tipico
(queste, infatti, escludono la sussistenza di un requisito essenziale della fattispecie,
oggettiva o soggettiva).
81. Le ipotesi normative di esclusione del fatto penalmente rilevante
a) la forza maggiore e il caso fortuito (art. 45 c.p.)
L'art. 45 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per forza
maggiore: la norma in esame, in dettaglio, fa riferimento ai casi in cui l'intervento di
una energia fisica, proveniente dall'esterno e non riconducibile alla condotta di un terzo
soggetto, determina il movimento corporeo di un soggetto, il quale, essendo
impossibilitato a padroneggiarne le conseguenze, viene agito dalla forza naturale, che
lo pervade. Il processo causativo dell'evento non appartiene, quindi, al soggetto, perché
non è padroneggiato dalla sua coscienza e volontà e, perciò, non è azione, nel senso
descritto dall'art. 42 c.p.: si pensi, ad es., ad un improvviso colpo di vento, che sospinga
una persona, facendola rovinare addosso ad altri, che conseguentemente riportano delle
lesioni.
L'art. 45 c.p. disciplina anche l'ipotesi del caso fortuito: a differenza, però, della forza
maggiore, il fortuito interferisce in una serie di eventi innescati dalla condotta umana,
piegandone, tuttavia, il decorso (si pensi, ad es., alla deviazione dell'attrezzo lanciato da
un discobolo, a causa di un improvviso colpo di vento, in conseguenza del quale si
provocano lesioni a terze persone). In casi del genere, quindi, si può dire che ciò che
manca è il presupposto dell'imputazione oggettiva, in considerazione del fatto che
l'esposizione a pericolo del bene protetto è stata determinata interamente da un
imprevedibile fattore di rischio, che, proprio per questo motivo, non può giocare alcun
ruolo sotto il profilo dell'imputazione oggettiva.
b) il costringimento fisico (art. 46 c.p.)
L'art. 46 c.p., che disciplina il ed. costringimento fisico, stabilisce che non è punibile
chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri, mediante violenza fisica
alla quale non poteva sottrarsi. In relazione a questa disposizione si distinguono due
ipotesi:
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• se il movimento fisico del soggetto che subisce la violenza è stato determinato, per
intero, dall'impiego di energia fisica da parte di chi l'ha posta in essere, si parla di vis
absoluta (si pensi, ad es., al caso in cui un soggetto, fisicamente, guidi la mano di un
terzo nell'apporre una firma apocrifa);
• se, viceversa, per la vittima residuava uno spazio, anche se minimo, di libertà di
movimento, si parla di ed. vis compulsiva; anche in tal caso, però, sembrano mancare i
presupposti per l'imputazione oggettiva, in capo a chi subisce la violenza (si pensi, ad
es., al fatto di chi riveli un segreto aziendale, perché sottoposto a torture fisiche); non a
caso, il vero autore dell'illecito, ai sensi del co. 2 dell'art. 46 c.p., è l'autore della
violenza, il quale si serve della vittima a ino' di strumento: egli prende il nome di ed.
autore mediato (locuzione con la quale si vuole intendere che, dietro l'autore materiale
del fatto, vi è il vero autore, che detiene l'effettiva padronanza dei decorsi causali).
§2. L'esclusione dei presupposti dell'imputazione soggettiva
a) l'errore sul fatto che costituisce il reato (art. 47, co. 1, 2 e 3 c.p.)
Il co. 1 dell'art. 47 c.p. dispone che l'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la
punibilità dell'agente, ma se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non
è esclusa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo.
Proponiamo alcuni tipici esempi di errore sul fatto:
• Tizio, al termine di una riunione tra amici, indossa e porta con sé un soprabito di un
altro ospite, scambiandolo per il proprio;
• Caio, in un poligono di tiro, spara contro un uomo, uccidendolo, credendo di aver
mirato a un fantoccio;
• Mevio, che alloggia in un albergo, s'introduce nella camera di un terzo, ritenendo che
si tratti del suo alloggio, che è situato, invece, al piano inferiore.
Come si può notare, in tutti questi casi l'agente realizza effettivamente la fattispecie
oggettiva dei reati di furto (ex art. 624 c.p.), di omicidio (ex art. 575 c.p.) e di
violazione di domicilio (ex art. 614 c.p.); ma, ciò che manca è la fattispecie soggettiva
di questi reati, dal momento che l'agente non si rappresenta (nel senso che ignora) uno
o più elementi della fattispecie oggettiva e cioè: Yaltruità della cosa (nel furto), la
qualità di uomo nella sagoma colpita (nell'omicidio) e Yaltruità dell'abitazione (nella
violazione di domicilio). Di conseguenza, si può affermare che l'oggettiva ed erronea
rappresentazione della realtà esclude anche una volizione rilevante per l'elemento
psicologico del reato: in altre parole, dove c'è errore non può esservi dolo e viceversa.
A proposito dell'art. 47 c.p. si parla spesso di un ed. errore di fatto e vi si contrappone
un ed. errore di diritto; quando, però, si distingue tra errore di fatto ed errore di diritto si
distingue in base alla natura dell'errore, ma non se ne ricava una differenza che sia in
grado di assumere rilevanza sotto il profilo giuridico-penale: basti pensare, invero, che,
dal punto di vista psicologico, il soggetto che, ad es., si impossessa di una cosa altrui,
scambiandola per la propria (errore sul fatto), si trova esattamente nella stessa
posizione di chi versa in errore sulla proprietà di una cosa, in seguito ad una erronea
interpretazione di una complessa sentenza civile sull'oggetto (errore di diritto). La
distinzione che conta allora, più precisamente, è quella tra errore sul fatto ed errore sul
divieto: per cui, chi versa in errore sul fatto non sa quel che fa; chi versa, invece, in
errore sul divieto, sa quel che fa, ma crede - erroneamente - che il suo fatto non ricada
nell'ambito di un'incriminazione penale: l'autore, quindi, versa in errore sulla legge
penale (che, di regola, ai sensi dell'art. 5 c.p., non è scusabile).
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Da quanto detto se ne deve dedurre, allora, che anche la falsa rappresentazione di un
dato di carattere giuridico (il ed. errore di diritto) può determinare un errore sul fatto e,
pertanto, escludere la punibilità. Ciò, del resto, è confermato dal co. 3 dell'art. 47 c.p.,
nella parte in cui stabilisce che l'errore su una legge diversa dalla legge penale
esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato:
• verserà, così, in errore sul divieto, ad es., chi, legato da un precedente matrimonio,
avente effetto civile nel nostro Paese, contragga un secondo matrimonio, credendo
(erroneamente) che, in quanto musulmano, ciò gli sia consentito ex art. 8 Cost. [in tal
caso, come si può notare, l'agente vuole il fatto incriminato dall'art. 556 c.p. (bigamia),
ritenendolo erroneamente lecito];
• verserà, invece, in errore sul fatto chi contragga un secondo matrimonio, ritenendo di
essere libero dal precedente, per effetto di una sentenza straniera di divorzio, non
ancora, però, delibata in Italia (in questo secondo caso, a ben vedere, il soggetto non si
rappresenta per nulla un fatto corrispondente al delitto di bigamia; tant'è vero che egli
non vuole contrarre un secondo matrimonio in costanza del precedente, bensì vuole
risposarsi credendo, erroneamente, che il precedente vincolo sia estinto). L'art. 47, co. 2
c.p. stabilisce, invece, che l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non
esclude la punibilità per un reato diverso: così, ad es., se Caio incendia una cosa altrui,
credendola propria, non risponderà del delitto di cui all'art. 423, co. 1 c.p., che punisce
l'incendio di cosa altrui, ma, sempre che ne consegua un pericolo per la pubblica
incolumità, sarà punibile ai sensi del co. 2 della stessa norma, che incrimina, appunto,
l'incendio di cosa propria. Allo stesso modo, se Tizio trattiene presso di sé un minore
contro la sua volontà, credendo per errore che lo stesso sia consenziente, non dovrà
rispondere di sequestro di persona, di cui all'art. 605 c.p., ma di sottrazione
consensuale di minorenni. Quanto detto, ci fa comprendere, allora, che il nostro
sistema giuridico ritiene responsabile l'agente per il reato di cui egli si è rappresentato la
fattispecie oggettiva: tuttavia, è bene precisare che, in applicazione del principio del
favor rei, la regola di cui al co. 2 dell'art. 47 c.p. non troverà applicazione nel caso in cui
l'agente si rappresenti una figura di reato più grave di quello che realmente commette
(così, ad es., se un corriere, incaricato da un'organizzazione criminale, introduce in
Italia tabacchi lavorati, credendo di trasportare stupefacenti, l'agente non risponderà del
reato di cui all'art. 73 d.p.r. 309/90, ma del ben più lieve reato di cui all'art. 291 bis t.u.
delle disposizioni in materia doganale).
b) l'errore sul fatto detcrminato dall'altrui inganno (art. 48 c.p.)
L'art. 48 c.p. disciplina l'errore sul fatto determinato dall'altrui inganno: in tale
ipotesi, del fatto commesso dal soggetto ingannato risponde chi l'ha convinto a
commetterlo. Anche in questo caso, dunque, la legge prevede il trasferimento della
responsabilità penale dall'autore materiale all'autore mediato del fatto: si pensi, ad es.,
al cacciatore che induca un compagno di battuta a sparare in direzione di un cespuglio,
dietro il quale s'intravede una sagoma, assicurandogli che si tratta di un animale, mentre
sa benissimo che trattasi di un suo nemico.
L'art. 48 c.p., in altre parole, conferma che autore del fatto è chi ha la signoria sul fatto
stesso, vale a dire la padronanza dei decorsi causali; è bene tener presente, tuttavia,
che l'esecutore materiale, benché non preveda, né voglia il realizzarsi dell'evento, non
sfuggirà, ad ogni modo, alla responsabilità per colpa (se è prevista l'incriminazione a
titolo colposo), qualora abbia violato elementari misure di cautela: si pensi, ad es., al
caso in cui il cacciatore accetti l'esortazione a sparare da parte del compagno, senza
esercitare alcun controllo circa la veridicità delle sue affermazioni.
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§3. Le ulteriori cause di esclusione della tipicità
a) il reato putativo e il reato impossibile (art. 49 c.p.)
Il co. 1 dell'art. 49 c.p., che prende in considerazione il reato putativo, dispone che non
è punibile chi commette un fatto, nella supposizione erronea che esso costituisca
reato: questa norma trova la propria ragion d'essere nell'art. 1 c.p., il quale vincola
l'interprete e il giudice alla regola in forza della quale nessuno può essere punito per
un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge come reato.
Alquanto controversa è, invece, l'interpretazione della norma di cui al co. 2 dell'art. 49
c.p., il quale prende in considerazione il reato impossibile e dispone che la punibilità è
esclusa quando, per l'inidoneità dell'azione ovvero per l'inesistenza dell'oggetto di
essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso; da tale disposizione si desume che,
ai fini della punibilità, la condotta dell'agente non solo deve essere tipica, ma deve
essere anche dotata di attitudine offensiva. Tuttavia, questa tesi è stata criticata da una
parte della dottrina, in quanto:
• da un lato, si è detto che un fatto conforme al modello legale, ma al contempo privo di
lesività, sembra costituire una vera e propria contraddizione in termini;
• dall'altro lato, si è, invece, osservato che esigere, oltre alla tipicità, anche la lesività
del fatto, introdurrebbe nel sistema il ricorso a giudizi extranormativi, con il rischio di
aprire le porte all'arbitrio del giudice.
Le obiezioni avanzate, tuttavia, non appaiono calzanti, anche perché, se si analizza,
sotto un profilo storico, l'art. 49 c.p., appare evidente che esso, in realtà, è diretto a
colmare proprio quegli eventuali spazi vacanti tra la tipicità e la lesività del fatto: si
faccia, ad es., il caso dell'alterazione di banconote, in maniera talmente grossolana da
non riuscire ad ingannare nessuno (ad es., aggiungendo, con un pennarello, uno zero
alla cifra originale indicata sulle banconote). Si pensi, ancora, al caso in cui l'oggetto
sottratto sia di così infimo valore economico (ad es., un foglio di carta o una spilla da
balia) da non consentire la configurazione dell'offesa all'interesse protetto. Del resto,
non va dimenticato che i casi che la giurisprudenza ha dovuto affrontare in merito
all'art. 49, co. 2 c.p. concernono per l'appunto le ipotesi di falso documentale (innocuo
o grossolano) e i reati contro il patrimonio.
D'altro canto, però, va anche precisato che la disposizione in esame non può fungere da
contenitore idoneo a convogliare quelle figure che, in dottrina, prendono il nome di
reati bagattellari; al contrario, l'art. 49, co. 2 c.p. deve essere utilizzato come punto di
riferimento idoneo a determinare l'esistenza dell'obesa, soprattutto nei casi in cui il bene
giuridico protetto corrisponda ad una entità immateriale (come, ad es., la fedeltà
all'ufficio, il comune senso del pudore o la fede pubblica).
Di conseguenza, dovendosi stabilire, attraverso la norma in questione, il momento a
partire dal quale la condotta dell'agente riesce a raggiungere quel grado di aggressività
tale da rilevare penalmente, se ne deve dedurre che l'art. 49, co. 2 c.p. si presta anche a
riconoscere l'irrilevanza di quelle figure che vanno sotto il nome di azioni socialmente
adeguate, cioè di quelle azioni che trovano la propria giustificazione nello stile di vita
della comunità in un certo momento storico. Tra l'altro, si deve prendere atto che è
proprio utilizzando l'idea dell'adeguatezza sociale che si riesce a sostituire alla nozione
statica del bene giuridico protetto una visione dinamico-funzionale del suo ruolo nella
vita sociale: si pensi, ad es., alla condotta di atti osceni (fin quando si resterà legati ad
un concetto meramente causale della condotta, non si riuscirà mai a comprendere la
vera ragione per cui non è considerata punibile la modella che posa nuda davanti ad una
classe di allievi di un'accademia d'arte oppure la madre che, nella sala d'aspetto di una
stazione, scopre il seno per allattare il proprio figlio).
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b) l'errore sul reato impossibile e sull'adeguatezza sociale
Un accenno occorre, infine, dedicarlo alla questione relativa alla rilevanza dell'errore
sul reato impossibile e sull'adeguatezza sociale; a tal riguardo, occorre precisare che
tale problematica, in realtà, deve essere risolta facendo affidamenti sugli stessi
parametri che vengono, di regola, utilizzati per risolvere i problema di rilevanza
dell'errore sul fatto. L'errore, pertanto:
• risulterà irrilevante se corrisponde ad un errore sul divieto;
• non sarà, invece, irrilevante se consiste in un errore su presupposti di fatto che, se
esistenti, avrebbero escluso la tipicità della condotta (così, per quanto attiene al reato
impossibile, non sarà punibile, ad es., chi abbia cagionato, seppellendone il corpo, la
morte di un uomo, credendo di trovarsi di fronte ad un cadavere, mentre si trattava di
morte apparente).
E lo stesso dicasi per le ipotesi di errore sull'adeguatezza sociale: non sarà punibile, ad
es., il p.u. che accetti in dono una preziosa incisione, nella errata convinzione che si
tratti di una riproduzione fotografica di infimo valore. Viceversa, laddove l'errore
sull'adeguatezza sociale dovesse radicarsi, anziché in un errore sul fatto, in un errore sul
divieto, allora la punibilità non potrà essere esclusa: è questo, ad es., il caso in cui il p.u.
accetti l'incisione ritenendo che sia socialmente adeguato accettare doni, anche se di
elevato valore economico.
Sezione III
L'antigiuridicità
Capitolo unico
§1. Tipicità e antigiuridicità nella struttura dell'illecito penale
L'antigiuridicità presuppone, da un lato, che sia stata accertata l'esistenza di un fatto
che presenti tutti i requisiti (oggettivi e psicologici) descritti nella fattispecie legale di
un reato e, dall'altro, invece, l'inesistenza di particolari situazioni cui l'ordinamento
giuridico attribuisce un'efficacia ed. giustificante: in presenza di tali situazioni viene,
infatti, meno il valore indiziante del fatto tipico, che, pur restando tale, non è, tuttavia,
antigiuridico, per effetto di una norma permissiva che lo autorizza ovvero lo impone
(in questi casi resta, quindi, esclusa l'applicabilità della norma di divieto). Si pensi, ad
es., a chi uccide taluno da cui sia stato assalito: il caso appare, in astratto, disciplinato
sia ex art. 575 c.p. (che punisce chiunque cagiona la morte di un uomo), che dall'art.
52 c.p. (che stabilisce la non punibilità dei fatti, preveduti dalla legge come reato, che
vengono commessi per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo
attuale di un'offesa ingiusta). Ora, se nell'ipotetico conflitto tra le due norme, a
soccombere fosse l'art. 52 c.p. (vale a dire la norma permissiva), la disposizione ivi
contenuta sarebbe, in realtà, inutiliter data, perché non potrebbe mai essere applicata. È
bene tener presente, però, che il procedimento che conduce alla formazione delle
fattispecie permissive è del tutto differente da quello utilizzato per l'individuazione
degli elementi del fatto tipico: ciò, in realtà, dipende dal fatto che, mentre la risposta
alle domande che riguardano l'esistenza di un fatto tipico è contenuta interamente nel
sistema penalistico, la risposta alla domanda se quel fatto tipico sia anche un fatto
antigiuridico va, invece, ricercata nell'intero ordinamento giuridico (e, quindi, non
solo nell'ambito del diritto penale). Si pensi, ad es., alle disposizioni costituzionali e,
nel dettaglio, all'art. 40 Cost. (disciplinante il diritto di sciopero) il quale rappresenta,
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per questa via, la fonte della non antigiuridicità di alcune condotte penalmente
rilevanti, come, ad es., un fatto di interruzione di un pubblico servizio (ex art. 340
c.p.), che abbia luogo in occasione, appunto, di un'azione di sciopero.
In virtù di queste considerazioni, se ne deve dedurre, perciò, che non è possibile, in
alcun modo, proporre un catalogo fisso e completo delle fattispecie permissive (e, in
particolare, delle cause di giustificazione), perché si tratta, come abbiamo visto, di una
categoria aperta, al cui interno il legislatore e l'interprete possono aggiungere nuove
voci (in materia, infatti, non vige il divieto di analogia, così come previsto, invece, per
i connotati della fattispecie tipica).
§2. L'individuazione della categoria delle esimenti (art. 59 c.p.)
In considerazione del fatto che il legislatore non utilizza in nessuna disposizione la
locuzione causa di giustificazione, limitandosi, per contro, ad aggettivare determinati
soggetti o comportamenti come non punibili (si pensi, ad es., all'art. 376 c.p., il quale
dichiara non punibile il soggetto che ritratta una falsa testimonianza, o all'art. 649 c.p.,
che dichiara non punibile il figlio che commette un furto ai danni del padre, o, ancora,
alla classica ipotesi di cui all'art. 52 c.p., che dichiara non punibile chi agisce in stato di
legittima difesa), la dottrina ha dovuto trovare un appiglio normativo sul quale poter
appuntare le diverse ipotesi, che integrano le fattispecie permissive. Questo dato
normativo, in dettaglio, è costituito dall'art. 59 c.p., il cui co. 1 stabilisce che le
circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui
non conosciute o da lui ritenute inesistenti per errore; a sua volta, il co. 4 dello stesso
articolo precisa che se l'agente ritiene, per errore, che esistano circostanze di
esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui.
Ora, dalla combinazione di queste due norme, si può facilmente intuire che il nostro
codice (all'art. 59 citato), con le locuzioni circostanze che escludono la pena e
circostanze di esclusione della pena ha inteso designare, ad avviso della dottrina
prevalente, quelle ipotesi normative che, da un lato, presuppongono la completa
realizzazione di un fatto tipico mentre, dall'altro, non prendono ancora in
considerazione l'imputabilità del soggetto, rilevante per il giudizio di colpevolezza.
In quest'ottica, per le circostanze di esclusione della pena, la dottrina ha proposto la
denominazione di esimenti; si tratta, in particolare, di una categoria che, a sua volta, è
suscettibile di essere suddivisa nei seguenti gruppi:
• ad un primo gruppo di ipotesi corrisponde la tradizionale categoria delle ed. cause di
giustificazione, di cui agli artt. 50-54 c.p.;
• ad un secondo gruppo può, invece, riservarsi la denominazione di scusanti, nella cui
categoria si fanno rientrare quelle situazioni in cui la non punibilità si giustifica sulla
base dell'inesigibilità della pretesa normativa (si pensi, ad es., alla scusante di cui all'art.
384 c.p., prevista a favore di chi commette falsa testimonianza al fine di salvare un
prossimo congiunto da un grave nocumento nella libertà);
• un terzo gruppo di ipotesi ricomprende, infine, quei casi in cui il criterio della non
punibilità appare essenzialmente collegato a valutazioni di ordine politico-criminale (si
parla, in tal caso, di limiti istituzionali della punibilità): si pensi, ad es., all'esimente di
cui all'art. 627, co. 2 c.p., che dichiara non punibile la sottrazione di cose comuni in
danno del coerede, se il fatto è commesso su cose fungibili, il cui valore non ecceda la
quota spettante all'autore.
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§3. Il problema del fondamento delle cause di giustificazione
Gli artt. 50 (consenso dell'avente diritto), 51 (esercizio di un diritto o adempimento di
un dovere), 52 (difesa legittima), 53 («so legittimo delle armi), nonché 54 (stato di
necessità) c.p. riflettono, in modo puntuale, il modello della causa di giustificazione. È
necessario sottolineare, però, che se vi è sufficiente accordo, in dottrina, per ciò che
concerne l'individuazione della rilevanza che accomuna queste ipotesi sotto il profilo
degli effetti normativi, una eguale concordanza (in dottrina e in giurisprudenza) non si
ritrova, invece, in relazione al fondamento della non punibilità (ricavabile dalle stesse
ipotesi): anzi, proprio in rapporto a quest'ultimo elemento, bisogna specificare che la
dottrina prevalente contesta, in radice, la stessa possibilità di operare una ed. reductio
ad unum. A questa conclusione, molto probabilmente, la dottrina è pervenuta in virtù
del fatto che il preteso fondamento unitario delle cause di giustificazione è stato da
sempre racchiuso in formule disparate: invero, si è partiti dall'idea del perseguimento
di uno scopo giuridicamente approvato attraverso un mezzo adeguato, si è passati per
la regola della prevalenza del vantaggio sul danno e si è giunti al criterio del
bilanciamento degli interessi in conflitto.
Tuttavia, le formule menzionate (al di là del loro indiscutibile valore ontologico) non
sembrano in grado di risolvere il problema in esame (quello, cioè, di individuare il
fondamento unitario delle cause di giustificazione), dal momento che ognuna di esse
esprime, a ben vedere, una realtà parziale: proprio per questa ragione, se proprio si
vuole rinvenire un principio comune alle diverse cause di giustificazione, si rende,
allora, necessario uscire dall'ottica della ricerca di un astratto principio regolativo e
focalizzare, piuttosto, l'attenzione sul rapporto che intercorre tra la realizzazione del
fatto tipico e l'instaurarsi della situazione descritta dalla norma permissiva. Soltanto
se si ragiona in questi termini, infatti, diventa possibile rilevare un elemento che sembra
accomunare tutte le ipotesi alle quali, tradizionalmente, si attribuisce la qualifica di
cause di giustificazione; si tratta, più precisamente, di un dato che può essere espresso
nei seguenti termini: il realizzarsi del diritto obiettivo passa necessariamente
attraverso il compimento, da parte del soggetto agente, di un fatto preveduto dalla
legge come reato.
§4. Le singole cause di giustificazione
a) il consenso dell'avente diritto (art. 50 c.p.)
L'art. 50 c.p. stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col
consenso della persona che può validamente disporne.
Il fondamento di questa causa di giustificazione viene generalmente individuato nel
venir meno dell'interesse, da parte dell'ordinamento, alla tutela di un bene giuridico,
alla cui integrità lo stesso titolare non mostra di avere interesse: si pensi, ad es., al caso
in cui Tizio presti il proprio consenso alla distruzione di un piccolo manufatto di sua
proprietà, affinché Caio possa raggiungere con un escavatore il suo fondo, allo scopo di
eseguire dei lavori; si pensi, ancora, al caso in cui Sempronio consenta a un ricercatore
di inoculargli il virus del raffreddore, allo scopo di studiare le capacità di
immunizzazione di questo procedimento.
È bene precisare, però, che le ipotesi del consenso giustificante non devono essere
confuse con quelle ipotesi nelle quali, invece, il consenso esclude, in radice, la tipicità
dello stesso fatto: così, ad es., l'art. 614 c.p. incrimina la condotta di chi si introduce
nell'abitazione altrui contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di
escluderlo; ciò significa, dunque, che, nell'ipotesi dell'ospite gradito, che si reca a casa
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dell'amico al fine di fargli visita, non v'è alcun bisogno di ricorrere all'art. 50 c.p.,
perché non vi è una condotta tipica (penalmente rilevante) da giustificare.
Per quel che riguarda, invece, la validità del consenso, va sottolineato che questo (il
consenso) deve essere prestato dal titolare dell'interesse protetto: in particolare, deve
trattarsi di un soggetto avente la ed. capacità naturale e, cioè, sufficiente maturità di
giudizio per valutare la lesione dei beni a cui presta il suo assenso (tuttavia, non va
dimenticato che, in determinati casi, può essere richiesta anche una specifica capacità
di agire: così, ad es., per la lesione dei diritti patrimoniali è necessario che il titolare del
bene abbia compiuto il diciottesimo anno di età); il consenso deve essere, inoltre,
prestato liberamente e, com'è ovvio, deve essere immune da errore. A ogni modo, va
tenuto presente che l'efficacia del consenso giustificante dipende dal carattere
disponibile del diritto: di regola, sono disponibili i diritti patrimoniali e i diritti
riguardanti la sfera della personalità, quali, ad es., l'onore e la riservatezza (rispetto alla
lesione di questi ultimi beni, tuttavia, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere
che il consenso non ha efficacia qualora abbia ad oggetto il sacrificio totale del bene tale sarebbe il caso di chi accettasse, ad es., di essere segregato in eterno nella sua
stanza dai familiari). Indisponibile è, invece, il bene della vita e questo lo si può
desumere sia sulla base degli artt. 579 e 580 c.p. (che disciplinano, rispettivamente,
l'omicidio del consenziente e l'istigazione al suicidio) e sia, indirettamente, dall'art. 5
ce, il quale vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che siano in grado di
cagionare una diminuzione permanente dell'integrità fìsica.
Il consenso deve sussistere nel momento in cui il fatto viene commesso; esso, però, può
anche essere tacito, cioè desumibile con certezza da un comportamento univoco del
titolare del diritto (ed. facta concludentia): in questo caso, si parla anche di consenso
presunto, il quale è, a sua volta, suscettibile di essere suddiviso in due sottogruppi:
• nel primo si fanno rientrare tutte le ipotesi in cui, pur mancando il consenso nel
momento in cui si svolge l'azione, si può presumere ragionevolmente che, se l'avente
diritto fosse stato in condizioni di poter decidere, avrebbe, senza dubbio, prestato il suo
consenso (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio si introduca nell'abitazione vuota del
vicino, allo scopo di spegnere un incendio);
• nel secondo, invece, si fanno rientrare tutti quei casi in cui il consenso si presume
esistente perché non sembra esservi un interesse dell'avente diritto (è questo, ad es., il
caso della moglie che decida di regalare gli abiti che il marito non indossa più a un
mendicante, in forza di un'azione consuetudinaria).
b) l'esercizio di un diritto (art. 51 c.p.)
L'art. 51 c.p. stabilisce che l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere
imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità,
esclude la punibilità. Ora, per quel che riguarda l'esercizio di un diritto (ma lo stesso
discorso vale anche per l'adempimento di un dovere) l'antigiuridicità del fatto resta qui
esclusa in virtù del principio di non contraddizione, in forza del quale l'ordinamento
non può riconoscere l'esistenza di un diritto e, al tempo stesso, sanzionare penalmente
le condotte in cui lo stesso si concreta.
Diritto, nel senso dell'art. 51 c.p., è qualsiasi potere giuridico di agire: di conseguenza,
vi si fanno rientrare i poteri degli organi pubblici, i diritti soggettivi (e, a determinate
condizioni, gli interessi legittimi), le potestà (ad es., la potestà dei genitori), i ed. diritti
potestativi e le mere facoltà giuridiche (ad es., la facoltà di arresto da parte dei soggetti
privati nei casi previsti dall'art. 383 c.p.p.).
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Detto ciò, per comprendere appieno la causa di giustificazione in esame è opportuno
richiamare un concetto essenziale: quello, cioè, della prevalenza delle norme
permissive sulle norme incriminatrici. In particolare, questa prevalenza riposa sul ed.
principio di specialità, in applicazione del quale la fattispecie giustificante si configura
come una ipotesi specializzante rispetto alla norma che prevede il reato. Tuttavia,
nell'ambito dell'esercizio di un diritto sarà necessario stabilire se, in concreto, non sia
piuttosto la norma penale incriminatrice ad apportare una limitazione al diritto in
questione e a configurarsi, dunque, come norma speciale rispetto a quella che
attribuisce il diritto (in tal caso, infatti, sarebbe la norma incriminatrice a prevalere su
quella permissiva): così, ad es., l'art. 896 ce. attribuisce al proprietario il diritto di
tagliare le radici degli alberi del vicino che si addentrino sul suo fondo; ora, è chiaro
che il taglio delle radici corrisponde a un'ipotesi di danneggiamento, punibile ex art.
635 c.p.; in questo caso, però, essa si configura come un'ipotesi speciale di
danneggiamento e, di conseguenza, la relativa condotta risulterà giustificata ai sensi
dell'art. 896 ce. Per contro, invece, l'art. 423, co. 2 c.p., nel punto in cui prevede come
reato l'incendio di cosa propria, che cagioni un pericolo per la pubblica incolumità,
configura esso un'ipotesi speciale rispetto a quella che garantisce al proprietario il
potere di disporre in modo pieno ed esclusivo delle cose che gli appartengono, così
come stabilito ex art. 832 ce (il divieto contenuto nell'art. 423 c.p. prevale, quindi,
sull'esercizio del diritto di proprietà). Infine, occorre precisare che la problematica
dell'esercizio del diritto si manifesta con particolari caratteristiche quando si tratta
dell'esercizio di un diritto riconosciuto a livello costituzionale; in tal caso, trovano
applicazione due principi fondamentali:
• la norma di legge ordinaria non può prevalere sulla norma costituzionale, almeno non
nel senso di eliderne del tutto il valore precettivo (è questo il caso, ad es., della
disposizione contenuta nell'art. 502 c.p., che prevedeva come reato lo sciopero a fini
contrattuali; articolo non a caso abrogato dalla Consulta per manifesta incompatibilità
con l'art. 40 Cost.);
• l'esercizio di un diritto riconosciuto a livello costituzionale non è, tuttavia, senza
limiti, perché esso deve essere contemperato con la tutela di altri diritti riconosciuti
dalla stessa Costituzione (così, ad es., il diritto di cronaca giornalistica, riconosciuto ex
art. 21 Cost., trova il proprio limite nell'esigenza di tutelare l'onore e la dignità della
persona, quali valori di pari rango costituzionale).
c) l'adempimento di un dovere (art. 51 c.p.)
All'esercizio di un diritto, l'art. 51 c.p. affianca, nell'effetto di escludere la punibilità del
fatto, l'ipotesi dell'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da
un ordine legittimo della pubblica autorità.
In tal caso, dunque, la fonte del dovere di agire può essere una norma giuridica (cioè
una legge o una norma di rango inferiore alla legge) o un ordine legittimo dell'autorità
pubblica, laddove l'inciso ordine deve essere inteso nel significato di manifestazione
di volontà che un supcriore gerarchico rivolge a un inferiore. È bene precisare, però,
che tra il superiore e l'inferiore deve sussistere un rapporto di subordinazione di diritto
pubblico: ciò significa che l'ordine deve provenire da un pubblico ufficiale, da un
incaricato di pubblico servizio ovvero da un esercente servizi di pubblica necessità.
L'ordine, inoltre, deve essere legittimo non solo sotto il profilo formale, ma anche sotto
il profilo sostanziale: in quest'ottica, si può dire che l'ordine è formalmente legittimo se
il superiore è competente a emanarlo, l'inferiore è competente ad eseguirlo e se vi è
stato il rispetto delle forme prescritte dalla legge (così, ad es., sarebbe formalmente
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illegittima un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal pubblico ministero ovvero
comunicata solo oralmente all'organo di polizia giudiziaria competente). La legittimità
sostanziale dell'ordine dipende, invece, dall'esistenza dei presupposti di fatto o di
diritto previsti ex lege (così, richiamando l'esempio di cui sopra, l'ordinanza di custodia
cautelare presuppone l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del catturando).
d) la difesa legittima (art. 52 c.p. modificato dalla L.
59/2006)
- premessa
L'art. 52 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato
costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui, contro il pericolo
attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
Da un punto di vista ontologico, la non punibilità delle azioni commesse in stato di
legittima difesa trova il proprio fondamento in due caratteri essenziali: • il primo si
radica nel diritto di autotutela del singolo (si tratta di un principio che ha trovato eco in
una remota sentenza della Cassazione - 1941 -, all'interno della quale il Supremo
Collegio ebbe a precisare che la difesa individuale del diritto, proprio o altrui, contro
una violenza attuale e ingiusta è legittima perché determinata dall'esigenza di evitare
un danno irreparabile in un momento in cui la difesa dello Stato non può
esercitarsi);
• il secondo, invece, si radica nelle esigenze di difesa del diritto (nel senso che l'azione
difensiva deve essere diretta a scongiurare un'aggressione che, qualora si realizzasse,
comporterebbe la soccombenza del diritto dinanzi all'illecito).
- I presupposti dell'azione difensiva legittima
A norma dell'art. 52 c.p., versa in una situazione di legittima difesa chi viene a trovarsi
nella condizione di dover agire per neutralizzare il pericolo attuale di una lesione di
beni, derivante da un'aggressione che assuma il carattere dell'ingiustizia. Ora, onde
poter determinare i requisiti della legittima difesa, è necessario, in primis, individuare
l'ambito dei beni tutelabili attraverso l'azione difensiva. In quest'ottica, va precisato che
la dottrina è incline ad assegnare al termine diritto, di cui all'art. 52 c.p., un'accezione
alquanto estesa (coincidente, grossomodo, con la nozione di diritto soggettivo). Nella
categoria dei beni suscettibili di tutela, perciò, vi si fanno rientrare:
• i diritti elementari della persona (quali, ad es., il diritto alla vita, all'incolumità psicofìsica, alla libertà personale, all'immagine, alla riservatezza e all'inviolabilità del
domicilio);
• i diritti patrimoniali e tutti gli altri interessi giuridicamente tutelabili (a patto, però,
che si tratti di interessi riconducibili alla tutela di un interesse individuale).
Il secondo requisito (la cui presenza è essenziale per l'applicabilità dell'esimente in
esame) è, invece, costituito dall'attualità del pericolo (da intendere, quest'ultimo, come
probabilità di danno): così ragionando, si può affermare che:
• non vi è attualità qualora il pericolo sia stato altrimenti scongiurato e, quindi, non è
più esistente;
• l'attualità del pericolo viene, altresì, a mancare nel caso in cui l'offesa sia stata ormai
consumata (in tale ipotesi, infatti, non si potrebbe parlare di azione difensiva, bensì di
azione punitiva o di ritorsione: si pensi, ad es., al caso in cui Tizio, avendo incontrato,
per strada, Caio e avendolo riconosciuto come colui il quale, più volte, si è introdotto
nel suo fondo abusivamente, lo percuota o lo ferisca).
Ad ogni modo, per stabilire l'attualità del pericolo bisogna valutare l'utilità dell'azione
difensiva in vista della salvaguardia del diritto minacciato; ciò significa, dunque, che
l'intervento difensivo a tutela del bene attaccato (o minacciato) è ammissibile solo se lo
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stesso appare idoneo ad impedirne la definitiva lesione: in quest'ottica, si può, ad es.,
giustificare l'uso della violenza nei confronti del ladro, già in possesso della cosa
rubata, se questo può consentire il recupero della refurtiva.
Per contro, l'intervento difensivo non è ammissibile quando il pericolo è così remoto da
consentire il ricorso agli organi di pubblica sicurezza: si pensi, ad es., al caso di chi,
avendo scorto delle persone sospette aggirarsi intorno alla sua abitazione, invece di
limitarsi a richiedere l'intervento della polizia, decida di attaccarli. Intimamente
connesso col requisito dell'attualità del pericolo è, poi, l'altro requisito della legittima
difesa, vale a dire la nccessarietà dell'intervento difensivo: quest'ultimo, più
precisamente, potrà dirsi necessitato solo qualora il compimento dell'azione tipica
appaia come l'unica soluzione praticabile in quel momento. Ne consegue, allora, che il
requisito della necessarietà dell'intervento difensivo non potrà trovare applicazione nel
caso in cui all'agente si offrivano delle valide e praticabili alternative, rispetto al
compimento del fatto tipico.
Ed è proprio in questa chiave di lettura che dobbiamo affrontare il problema del ed.
commodus discessus, locuzione con la quale la dottrina tende ad indicare quelle ipotesi
nelle quali il soggetto avrebbe potuto sottrarsi al pericolo con la fuga: anche in casi del
genere, però, va tenuto presente che la reazione difensiva resta del tutto valida e
legittima, nel caso in cui la fuga, pur costituendo una concreta alternativa, avrebbe
potuto esporre il soggetto aggredito a rischi analoghi o addirittura maggiori di quelli
creati dall'aggressione; o anche a rischi diversi, ma comunque gravi (si pensi, ad es., al
pericolo di un infarto), sia per lui che per i terzi (si pensi, ad es., ai passanti che
potrebbero essere investiti, ove l'aggredito cerchi una precipitosa fuga in macchina). E
bene chiarire, in ogni caso, che sussiste un vero e proprio obbligo di fuga nel caso in cui
il pericolo di offesa provenga dall'azione inconsapevole di bambini o di incapaci. Da
quanto detto, emerge, dunque, che l'esistenza di alternative valide, in luogo della
reazione violenta, costituisce un limite tendenziale della legittima difesa, che viene
tradizionalmente espresso con il riferimento alla inevitabilità della reazione difensiva.
Occorre precisare che a questo criterio si rifa anche l'opinione (condivisa da dottrina e
giurisprudenza) che esclude l'applicabilità della legittima difesa in presenza di una
causazione volontaria del pericolo da parte del soggetto che si difende (si pensi, ad es.,
al caso di chi abbia determinato l'azione aggressiva con una grave provocazione): si
ritiene, infatti, che in questa situazione venga meno o la necessità della difesa oppure
l'ingiustizia dell'offesa (questa tesi, però, non può essere condivisa del tutto, perché non
sempre si può dire che, in presenza di un pericolo volontariamente causato dal soggetto
aggredito, venga a cadere la necessità della difesa o l'ingiustizia dell'offesa: si pensi, ad
es., al caso della reazione del tutto sproporzionata alla provocazione altrui). E
veniamo, così, all'ulteriore requisito per l'applicabilità dell'esimente in esame: ci
riferiamo all'ingiustizia dell'offesa (o dell'attacco). Ora, in relazione a questo
requisito, è opportuno segnalare che, in una brillante analisi del problema
(Santamaria), è stato sottolineato che l'ingiustizia dell'attacco si configura ogni
qualvolta l'offesa si presenti come un presupposto sufficiente per l'intervento degli
organi di pubblica tutela, ai quali il privato si sostituisce, in via eccezionale, per
l'incombenza della situazione di pericolo: questo significa che la rilevanza
dell'ingiustizia dell'aggressione, ai fini del configurarsi di una reazione legittima, si
desume dal fatto che, nella situazione data, gli organi di tutela pubblica avrebbero
potuto e dovuto intervenire a scongiurare il pericolo (viene, in tal modo, richiamata la
citata sentenza pronunciata nel 1941 dalla Cassazione).
È bene precisare, comunque, che non potrà considerarsi contra jus (ingiusta) l'azione
commessa, ad es., nell'esercizio di un diritto o di una facoltà legittima (compresa
quella derivante da un consenso, nei termini fissati dall'art. 50 c.p.); e lo stesso discorso
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vale anche per l'azione compiuta neh1'adempimento di un dovere (si pensi, ad es.,
all'arresto che sia compiuto nei casi in cui lo stesso è obbligatorio).
L'ultimo requisito indispensabile per l'applicabilità della difesa legittima è costituito,
infine, dalla proporzione tra offesa e difesa: questo giudizio di proporzionalità implica,
in particolare, una valutazione concreta e globale, che tenga conto del valore dei beni in
gioco, dei rapporti di forza tra aggredito e aggressore, delle modalità dell'attacco,
dell'intensità dell'offesa, degli sviluppi dell'azione difensiva, della scelta dei mezzi di
difesa che l'aggredito aveva a sua disposizione, del tempo e del luogo dell'azione.
- il diritto all'autotutela in un privato domicilio (art. 52, co. 2 e 3 c.p.)
L'art. 52 c.p. è stato di recente modificato dalla L. 59/2006, che ha aggiunto un co. 2,
il quale stabilisce che, nei casi previsti dall'art. 614, co. 1 e 2 c.p., sussiste il rapporto
di
proporzione di cui al co. 1 del presente articolo, se taluno legittimamente presente in
uno dei
luoghi ivi indicati utilizza un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al
fine di
difendere:
a) la propria o altrui incolumità;
b) i beni, propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
Questa disciplina viene, poi, estesa, ex co. 3 dell'art. 52, anche al caso in cui il fatto sia
avvenuto in ogni altro luogo al cui interno si eserciti un'attività commerciale,
professionale o
imprenditoriale.
A ben vedere, con questa modifica (che ha ricevuto critiche unanimi da parte della
dottrina, della giurisprudenza, della magistratura e dell'avvocatura), il legislatore ha
introdotto un meccanismo di tipo presuntivo relativo al giudizio di proporzione: questo
meccanismo presuntivo si attiva, invero, nel caso in cui il fatto si svolga in un luogo di
privata dimora (o in luoghi equiparati), anche se (in apparenza) tale attivazione è
subordinata al verificarsi di una serie di condizioni ulteriori (soprattutto quando la
finalità difensiva non riguarda l'incolumità fisica, ma i beni).
In realtà, però, appare opportuno sottolineare che il dichiarato intento del legislatore
(rafforzare l'autotutela di coloro che subiscono aggressioni nel proprio domicilio o in
luoghi a esso equiparati, dispensandoli dalla necessità di effettuare un bilanciamento
degli interessi in conflitto) si è tradotto, in concreto, in una formulazione legislativa
dalle potenzialità aberranti, dato che la nuova disposizione (per come è formulata)
consente, ad es., al proprietario di sparare e uccidere il ladro (disarmato), il quale,
sorpreso all'interno dell'abitazione o del negozio, allo scopo di assicurarsi una via di
fuga, si lancia verso il proprietario per gettarlo a terra e scappare. Il vero problema
risiede, quindi, nel fatto che la norma consente l'utilizzo di un'arma qualsiasi o di altro
mezzo idoneo, senza che venga in alcuna considerazione la misura di quest'utilizzo: in
questo senso, perciò, è senz'altro da apprezzare l'atteggiamento presentato dalla
giurisprudenza, la quale (sin dalle prime applicazioni) ha cercato di neutralizzare le
potenzialità aberranti della novella, cercando di limitarne gli effetti. E, tuttavia, anche
se, in linea generale, quest'atteggiamento interpretativo può essere condiviso, non si
può non notare, d'altra parte, che l'affidare le sorti applicative della norma in esame agli
orientamenti oscillanti (per natura) della giurisprudenza non è affatto rassicurante: si
auspica, perciò, un decisivo intervento da parte del legislatore.
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e) l'uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.)
L'art. 53 c.p. dispone che, ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti,
non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio
ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica,
quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una
resistenza all'Autorità. Dal testo di questa disposizione si possono desumere due cose:
innanzitutto, occorre specificare che l'art. 53 c.p. è una scriminante propria, perché
prevista a favore dei soli pubblici ufficiali; in secondo luogo, essa ha carattere
sussidiario, perché può trovare applicazione solo nel caso in cui non risulti applicabile
l'art. 51 o l'art. 52 c.p. Senonché, uno dei problemi applicativi dell'art. 53 c.p. è
rappresentato proprio dalla difficoltà di riservare a questa norma un autonomo ambito
di operatività: è chiaro, infatti, che il legislatore del 1930 aveva inteso, con l'art. 53 c.p.,
affermare con forza il principio della prevalenza del potere coercitivo pubblico sugli
interessi individuali; e, tuttavia, da un punto di vista logico-sistematico, non si
comprende, ancora oggi, il motivo per il quale il legislatore abbia avvertito l'esigenza di
inserire nel codice una disposizione ad hoc, dato che gli artt. 51 e 52 erano già da soli
idonei a legittimare, ad es., l'uso della forza pubblica per bloccare un catturando o per
disperdere una folla in tumulto. Appare, pertanto, più che fondato il dubbio circa il fatto
che, con l'art. 53 c.p., il legislatore abbia voluto soprattutto evitare di menzionare i
requisiti di legittimità dell'operato del p.u. e della proporzione tra offesa e difesa, in
modo tale da riservare alla norma un autonomo spazio rispetto a quello riservato agli
artt. 51 e 52 c.p. E, però, interpretata in questo modo, la disposizione ex art. 53 c.p.
dovrebbe essere ritenuta costituzionalmente illegittima, perché, in realtà,
autorizzerebbe la lesione di diritti inviolabili della persona, anche al di fuori di ogni
logica di proporzione tra mezzi e fini.
In questa prospettiva, allora, dottrina e giurisprudenza hanno cercato di ricondurre
l'esimente in esame nell'ambito dei princìpi propri del nostro ordinamento, offrendo
una lettura restrittiva dei presupposti della giustificazione: si insiste, di conseguenza,
sui requisiti della costrizione e della necessità dell'azione (proponendone una lettura
molto simile a quella offerta in tema di legittima difesa).
Si precisa, altresì, che l'arma (ovvero il diverso mezzo di coazione fisica) deve essere
ricompresa nel novero di quelle con cui può essere adempiuto il dovere: ciò significa
che l'esimente va riferita ai soli p.u. legittimati al porto di un'arma (per le finalità del
proprio ufficio).
Per ciò che riguarda, poi, l'aspetto relativo alle condotte di violenza (da respingere) o di
resistenza (da vincere), la dottrina tende ad assimilare le ipotesi di comportamento in
esame alle fattispecie delittuose descritte negli artt. 336 (violenza o minaccia ad un
pubblico ufficiale) e 337 (resistenza a un pubblico ufficiale) c.p.
Per quel che concerne, invece, il carattere necessitato della condotta del p.u., va detto
che esso viene inteso (in coerenza col principio di extrema ratio) come corrispondente
ad una situazione in cui il p.u. non ha altra scelta, per compiere il proprio dovere, se non
fare ricorso alle armi o ad altro mezzo di coazione fisica. Di conseguenza, molto
controversa appare la possibilità di includere (tra le situazioni rilevanti per l'art. 53) la
ed. resistenza passiva (ad es., il sit-in sui binari di una stazione ferroviaria) o la fuga;
tuttavia, in relazione a tali ipotesi, la dottrina prevalente propende, comunque, per la
soluzione positiva, ancorandola, però, al fondamentale requisito della proporzione: in
quest'ottica, quindi, sia la resistenza passiva che la fuga potranno certo legittimare
l'impiego della forza e, al limite, anche l'uso delle armi, purché tale utilizzo si ispiri a
regole di cautela (così, ad es., contro un pericoloso latitante in fuga, il p.u. potrà anche
esplodere colpi d'arma da fuoco, mirando, tuttavia, a parti del corpo non vitali; allo
stesso modo, contro gli scioperanti distesi sui binari di una stazione potranno essere
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utilizzati mezzi di coercizione, anche violenti, ma in ogni caso moderati, quali, ad es.,
idranti o sfollagente).
È bene precisare, infine, che il legislatore, con l'art. 14 della L. 152/75, ha arricchito la
disposizione in esame di ulteriori ipotesi: in particolare, si fa esplicito riferimento alla
necessità di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, di disastro
aviatorio, di disastro ferroviario, di omicidio volontario, di rapina a mano armata e
sequestro di persona. A ben vedere, però, le ipotesi elencate sembrano riconducibili, se
non proprio all'art. 52 c.p., almeno all'ambito della vecchia formulazione dell'art. 53
c.p., a meno che, con questa nuova disposizione, non si sia inteso anticipare l'intervento
coercitivo del p.u. anche a un momento anteriore a quello dell'inizio di esecuzione di
uno dei gravi delitti menzionati: ipotesi questa inquietante, qualora dovesse
corrispondere a un'autentica licenza di uccidere, anche in presenza di meri atti
preparatori (invero, chi compie atti preparatori è ben lungi dall'offendere il bene
giuridico, per cui, sotto il profilo della prevenzione speciale, non potrebbe sostenersi
che necessiti di risocializzazione colui che reagisca ad un attacco armato da parte della
forza pubblica, scattato in presenza di meri atti preparatori; sul piano della prevenzione
generale rileva, invece, il fatto che i consociati vedono esposta la loro stessa vita ad una
possibile ed arbitraria decisione del p.u.).
Quanto detto, ci fa comprendere, quindi, che la norma in esame è incompatibile con
l'attuale sistema giuridico, perché è espressione di scelte autoritarie, ispirate a criteri di
tipo repressivo (tipici dei regimi totalitari).
f) lo stato di necessità (art. 54 c.p.)
- Il fondamento dello stato di necessità e la relativa qualificazione dommatica
Per l'art. 54 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di salvare se stesso o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla
persona, da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il
fatto sia proporzionato al pericolo.
La disposizione in esame disciplina una particolare ipotesi di conflitto d'interessi:
• da un lato, infatti, vi è un pericolo di lesione, che minaccia un interesse meritevole di
tutela;
• dall'altro lato, però, questo pericolo di lesione può essere evitato solo mediante il
sacrificio di un altro interesse, egualmente meritevole di tutela.
Dunque, rispetto alle altre cause di giustificazione, lo stato di necessità si differenzia
per il fatto che questo conflitto di interessi non può essere inserito in uno schema di
contrapposizione tra diritto ed illecito: così, mentre nella difesa legittima il pericolo di
lesione per il bene (diritto) trova la sua fonte in un'azione ingiusta di un aggressore
(illecito), nello stato di necessità, invece, il pericolo di lesione non solo può scaturire da
eventi non direttamente ricollegabili ad una condotta umana (si pensi, ad es., a un
evento naturale, come l'incendio causato da un fulmine), ma, a prescindere da quale sia
la fonte del pericolo, può accadere che l'azione diretta ad impedire lo stesso vada,
comunque, ad intaccare l'interesse di un terzo estraneo all'azione diretta a cagionare il
pericolo di lesione (si pensi, ad es., a chi sia costretto a sfondare l'uscio di una casa
altrui al fine di trovare riparo da una bufera di neve).
In virtù di queste considerazioni, pertanto, è di tutta evidenza il fatto che il conflitto di
interessi non può essere risolto facendo rientrare gli stessi (interessi) nell'ambito di
diverse qualificazioni giuridiche. Nonostante ciò, la dottrina prevalente distingue,
tradizionalmente, tra stato di necessità difensivo e aggressivo: lo stato di necessità si
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dice difensivo quando la fonte del pericolo è riconducibile alla sfera giuridica del
titolare dell'interesse che viene sacrificato (come, ad es., nel caso di chi provveda a
demolire un manufatto del vicino, che minaccia di crollare, con pericolo per
l'incolumità delle persone); lo stato di necessità si dice, viceversa, aggressivo quando il
terzo, colpito nei suoi interessi, risulta estraneo alla situazione pericolosa, da cui nasce
la necessità di agire (si pensi, ad es., al caso di chi trovi rifugio in un'abitazione altrui,
allo scopo di mettersi in salvo da una tempesta). E bene precisare, in ogni caso, che la
differenza tra le due ipotesi concerne essenzialmente il piano dei rapporti civilistici:
infatti, l'art. 2045 ce. stabilisce che nel caso in cui il fatto dannoso sia commesso in
stato di necessità, al danneggiato spetta un'indennità, la cui misura è rimessa
all'equo apprezzamento del giudice. Ed è proprio facendo leva sulla disposizione di
carattere civilistico che, ancora oggi, una parte della dottrina ritiene che lo stato di
necessità non debba essere annoverato tra le cause di giustificazione, bensì (a
differenza delle altre ipotesi di non punibilità) tra le cause di esclusione della
colpevolezza: ciò in quanto l'azione compiuta in stato di necessità non eliminerebbe,
secondo quest'orientamento, il contrassegno antigiuridico del fatto.
Questa conclusione, tuttavia, non può essere condivisa, perché, a ben vedere, essa si rifà
essenzialmente alla concezione psicologica della colpevolezza: in altre parole, per i
fautori della tesi su citata, l'azione commessa in stato di necessità si caratterizzerebbe
per la presenza di una coazione psicologica tale da precludere all'agente la possibilità di
autodeterminarsi.
Ad ogni modo, anche se oggi la concezione psicologica della colpevolezza è del tutto
superata, il dibattito circa il fondamento della non punibilità del fatto commesso in
stato di necessità non è affatto venuto meno: tant'è che, mentre una parte della dottrina
ha ritenuto di individuare questo fondamento nella impossibilità di esigere dall'agente
una condotta rispettosa del precetto legislativo (risolvendosi, perciò, in un elemento
negativo della colpevolezza), altra parte della dottrina ha, invece, individuato il
fondamento della figura in esame nel principio del bilanciamento degli interessi in
gioco (secondo quest'ultimo orientamento, cioè, si deve procedere ad una
comparazione tra i beni in conflitto, in conseguenza della quale l'autore è chiamato ad
effettuare un giudizio di prevalenza, in modo tale da dirigere l'azione, non
antigiuridica, alla salvezza di uno dei due beni - il che comporta, di conseguenza, il
sacrifico dell'altro).
- Presupposti e limiti dello stato di necessità
Lo stato di necessità presenta molte analogie con l'esimente della legittima difesa (in
particolare, l'attualità del pericolo e la costrizione ad agire), ma diverge da essa in
alcuni punti fondamentali: anzitutto, va tenuto presente che l'azione necessitata si
rivolge verso un terzo estraneo e non contro l'autore dell'aggressione ingiusta; inoltre,
mentre l'art. 52 c.p. richiama la necessità di salvare anche un diritto non attinente alla
sfera della personalità, per l'art. 54 c.p., invece, ciò che rileva è soltanto il pericolo
attuale di un danno grave alla persona. Si fa riferimento, in particolare, al pericolo di
vita e a quello di gravi lesioni all'incolumità psicofisica; parte della dottrina vi include
anche il pericolo attuale di lesione dei diritti inviolabili della persona (si pensi, ad es.,
allo stato di bisogno economico).
Strettamente collegato all'attualità è, poi, il requisito della inevitabilità dello pericolo:
più precisamente, inevitabilità del pericolo significa che nessun altro mezzo alternativo
al compimento del fatto tipico (ed egualmente idoneo a scongiurare il pericolo) deve
essere nella disponibilità dell'agente. Al riguardo, va precisato che la giurisprudenza,
proprio facendo leva sul requisito dell'inevitabilità del pericolo, ha, in più occasioni,
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statuito l'irrilevanza del ed. stato di bisogno, in considerazione dell'esistenza di valide e
concrete alternative messe a disposizione dall'organizzazione assistenziale: così, ad es.,
in relazione al problema riguardante il diritto all'abitazione, la Corte di cassazione ha
ritenuto non giustificata, ex art. 54 c.p., l'occupazione di un edificio vuoto da parte di
una famiglia priva di alloggio, perché nel caso concreto vi era l'effettiva e concreta
possibilità di ottenere un alloggio corrispondente alle necessità del nucleo familiare.
Tornando ai requisiti dell'esimente in esame, va, poi, specificato che il pericolo non
deve essere stato volontariamente causato, perché se l'autore non ha subito
l'alternativa, ma, al contrario, l'ha creata, la sua azione non potrà essere né scusata, né
tanto meno giustificata: così, ad es., non potrà invocare l'esimente, ex art. 54 c.p.,
l'automobilista che, per aver imboccato una direzione vietata, sia costretto a effettuare
una manovra di emergenza, produttiva di lesioni a terze persone.
Il fatto commesso in stato di necessità, ex art. 54 c.p., deve essere, infine,
proporzionato al pericolo: al riguardo, però, è bene precisare che il requisito della
proporzione tra il fatto e il pericolo richiede una valutazione, per così dire, dinamica del
valore dei beni in gioco. Per intenderci, quando il divario tra gli interessi in conflitto è
alquanto elevato, l'azione sarà, di regola, giustificata: così, ad es., quando si tratti di
salvare una vita umana mediante un'azione di danneggiamento (ad es., scardinare il
cancello di una villa per trarre in salvo taluno in procinto di annegare in una piscina),
l'azione sarà giustificata. Le cose, però, stanno in modo assai diverso ove i beni in gioco
siano di pari importanza (così, ad es., il medico addetto a una macchina
cuore-polmone, che decida di alterare l'ordine di priorità tra due pazienti, potrà essere
giustificato, ex art. 54 c.p., soltanto se, da un lato, si aspettasse una morte imminente e,
dall'altro lato, vi fossero rilevanti probabilità di sopravvivenza, affidate queste ultime
all'uso tempestivo della macchina).
- Limiti soggettivi all'applicabilità dell'esimente
L'art. 54, co. 2 c.p. stabilisce che lo stato di necessità non può essere invocato dai
soggetti che hanno un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo: è questo, ad
es., il caso del vigile del fuoco, della guida alpina o dell'agente di pubblica sicurezza, i
quali, infatti, non possono anteporre la propria incolumità personale ai doveri del
proprio stato; e ciò in ragione del fatto che l'ordinamento pretende da costoro
prestazioni adeguate all'addestramento e ai mezzi di cui li fornisce (attenzione: il limite
della esigibilità non coincide, però, con la pretesa di prestazioni eroiche).
- Lo stato di necessità detcrminato dall'altrui minaccia
Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 54 c.p., qualora lo stato di necessità sia
determinato dall'altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata
risponde chi l'ha costretto a commetterlo.
L'ipotesi in esame prende il nome di costringimento psichico e si verifica nel momento
in cui un soggetto viene costretto da un altro soggetto, mediante minaccia, a tenere un
comportamento astrattamente antigiuridico: si pensi, ad es., all'automobilista che
provoca un investimento, perché spinto a correre sotto la minaccia di una pistola.
L'ipotesi del costringimento psichico, però, deve essere tenuta distinta da quella del
costringimento fisico, ex art. 46 c.p.: questa norma, infatti, come sappiamo, comporta il
trasferimento della responsabilità penale dall'autore materiale all'autore mediato del
fatto, cioè a colui che ha l'effettiva signoria sul fatto. Nell'ipotesi di cui all'art. 54 c.p.,
invece, l'esecutore materiale del fatto (cioè, la persona minacciata) ne è, da qualsiasi
punto di vista, anche autore, seppure non punibile: di conseguenza, il soggetto che ha
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determinato la minaccia agisce qui come concorrente nel reato, assumendo il ruolo del
ed. determinatore.
§5. Ulteriori cause di giustificazione ed altre esimenti previste ex lege Oltre alle ipotesi
descritte negli artt. 50-54 c.p., il nostro sistema disciplina altre cause di non punibilità
(riconducibili allo schema delle cause di giustificazione), le quali si applicano, però,
solo a determinate fattispecie di reato. In questa categoria possiamo, senz'altro,
annoverare l'ipotesi prevista ex art. 242, co. 2 c.p., che dichiara non punibile il cittadino
che, trovandosi nel territorio dello Stato nemico, porta le armi contro lo Stato italiano
per esservi stato costretto da un obbligo impostogli dalle leggi dello Stato medesimo.
Alla logica della giustificazione è, poi, riconducibile l'ipotesi prevista dall'art. 365, co. 2
c.p., il quale dichiara non punibile il sanitario che ometta il referto, nei casi in cui
sarebbe obbligatorio, qualora esso esponga la persona assistita a procedimento
penale. Fuori dal codice penale, invece, una speciale ipotesi di causa giustificazione è
quella contenuta nell'art. 4 d.lgs.lt. 288/44, che esclude l'applicabilità delle disposizioni
che incriminano i delitti di violenza e resistenza quando il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti
arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.
Un'ultima, interessante, novella legislativa si è registrata nel 2007 con l'introduzione
della speciale causa di giustificazione ex artt. 17 e ss. L. 124/2007 (Sistema di
informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto): in
particolare, l'art. 17 di tale legge dichiara non punibile il personale dei servizi di
informazione per la sicurezza, che ponga in essere condotte previste dalla legge come
reato, legittimamente autorizzate, di volta in volta, in quanto indispensabili alle
finalità istituzionali di tali servizi.
§6. Le scusanti: principi informatori e limiti di funzionamento
Come già detto, nella categoria delle scusanti vanno annoverate tutte quelle ipotesi di
parte speciale, ispirate al principio della non esigibilità della pretesa normativa: si
pensi, ad es., all'art. 384 c.p., il quale prevede una scusante in favore di chi commetta
falsa testimonianza, favoreggiamento o altri reati contro l'amministrazione della
giustizia, al fine di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave pericolo nella
libertà ovvero nell'onore. E nell'identica logica si inserisce anche l'ipotesi di non
punibilità per ingiurie, ove il fatto sia commesso nello stato d'ira determinato dal fatto
ingiusto altrui e nell'immediatezza di esso (si veda l'art. 599, co. 2 c.p.).
Dagli esempi avanzati, emerge, così, con molta chiarezza la differenza che intercorre
tra le cause di giustificazione e le scusanti: mentre, infatti, le prime fondano la loro
ragion d'essere sulla prevalenza oggettiva di un interesse giuridicamente tutelato, le
seconde, invece, radicano la propria validità su una prevalenza soggettiva, rilevante ai
fini dell'esclusione della pena (ciò significa, in altri termini, che, nelle ipotesi prese in
considerazione, l'ordinamento si preoccupa di individuare e positivizzare dei limiti
soggettivi di esigibilità della pretesa normativa, che altrimenti sarebbe puntualmente
non osservata.
§7.1 limiti istituzionali della punibilità
Al di fuori degli schemi propri delle cause di giustificazione e delle scusanti, vanno
analizzate, infine, quelle ipotesi in cui la non punibilità rileva esclusivamente sotto un
profilo, politico-criminale, di opportunità: esimenti di questo genere si rinvengono, ad
es., nei citati artt. 627, co. 2 (che dichiara non punibile la sottrazione di cose comuni in
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danno del socio o del coerede, se il fatto è commesso su cose fungibili, il cui valore non
ecceda la quota spettante all'autore) e 649 c.p. (che dichiara non punibili i delitti non
violenti contro il patrimonio del coniuge, di un ascendente o discendente, di un affine in
linea retta, del fratello o della sorella che convivano con l'autore). Del resto, la
particolarità del fondamento della non punibilità risalta, in relazione alle citate ipotesi,
proprio da questa seconda norma (l'art. 649 c.p.), dal momento che la non punibilità
trova qui giustificazione nel fatto che il soggetto agente compie il fatto all'interno del
suo nucleo familiare.
Ma, a ben vedere, anche l'ipotesi di cui all'art. 627, co. 2 c.p. è pervasa dallo stesso kit
motiv: infatti, anche se, a prima vista, la ragione della non punibilità sembra risiedere
nella mancanza di un pregiudizio economico, non può essere esclusa, in concreto, la
sussistenza di un danno per il socio o il coerede (si pensi, ad es., ad un asse ereditario
dal quale venga sottratto, anche se nei limiti della quota spettante all'autore, tutto il
denaro contante). Se ne deduce, di conseguenza, che anche l'ipotesi di cui all'art. 627,
co. 2 c.p. fa riferimento a un ambito (quello familiare) rispetto al quale l'ordinamento
penale decide di non penetrare, onde evitare di rompere quei delicati equilibri, che ne
costituiscono il substrato.
§8. Aspetti problematici di alcune ipotesi di non punibilità
Con l'espressione cause di giustificazione non codificate si intende far riferimento a
una consuetudine interpretativa, che applica la ratio delle cause di giustificazione
previste ex lege a situazioni apparentemente non ricomprese nella fattispecie
giustificante; tra queste ipotesi ve ne sono, tuttavia, alcune che permangono alquanto
problematiche, sia per quanto concerne la loro collocazione sistematica, sia per quel
che riguarda i limiti della loro applicabilità.
In questa prospettiva, particolarmente controversi appaiono i limiti entro i quali può
esercitarsi, ad es., il ed. jus corrigendi di genitori, maestri ed educatori, nei confronti
delle persone soggette alla loro autorità e vigilanza: il riconoscimento normativo di
questa figura si ricava, in realtà, a contrario, dalla previsione di cui all'art. 571 c.p., il
quale, incriminando l'abuso dei mezzi di correzione quando, dal loro esercizio, ne
derivi il pericolo di una malattia o di una lesione personale, sembra lasciar desumere
la liceità, al di fuori delle ipotesi incriminate, di un moderato esercizio dei mezzi di
correzione. Controversa è anche l'efficacia dei ed. offendicula, cioè di quei mezzi
predisposti a tutela della proprietà (ad es., filo spinato, recinzioni metalliche e cancelli
sormontati da lance), che siano in grado di porre in pericolo l'incolumità di terzi: la
collocazione di quest'esimente è da sempre in bilico tra l'esercizio del diritto e la difesa
legittima (in particolare, è necessario tener presente che, se si opta per la configurabilità
della legittima difesa, emerge l'idea della necessaria proporzione tra offesa e difesa:
ragion per cui, non sarà, ad es., possibile che, a difesa di un fondo, si installi un
dispositivo in grado di infliggere scariche elettriche mortali o comunque nocive).
Problematica, infine, è anche la collocazione che concerne la liceità del ed. trattamento
medico-chirurgico: la dottrina si rifa essenzialmente all'art. 51 c.p., essendo l'esercizio
della professione sanitaria autorizzata dallo Stato; ma non si può certo qui negare il
ruolo decisivo ricoperto dal consenso del paziente (allo stato attuale infatti, non v'è
dubbio che, nei casi in cui l'attività chirurgica implichi un sicuro pregiudizio per la
salute e l'integrità del corpo del paziente, ci troveremo di fronte ad un fatto di lesioni
personali, che soltanto il consenso del soggetto passivo potrà giustificare).
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§9. Le esimenti: la rilevanza oggettiva e il problema dell'elemento soggettivo L'art. 59,
co. 1 c.p. stabilisce che le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore
dell'agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti: da
questa disposizione si evince, in altri termini, che le esimenti rilevano oggettivamente,
cioè in virtù della loro esistenza, a prescindere dalla consapevolezza che l'agente ne
abbia). Il co. 1 dell'art. 59 c.p. (nella sua formulazione originaria) conteneva,
comunque, una specifica deroga, dal momento che faceva salvi i casi in cui la legge
disponeva altrimenti: in particolare, si faceva riferimento alla scriminante della
reazione agli atti arbitrari del p.u., per la cui configurabilità, infatti, era richiesta la
sussistenza di stati psicologici (e, quindi, soggettivi).
L'art. 1 L. 19/90 ha, tuttavia, soppresso l'inciso salvo che la legge disponga altrimenti:
in questo modo, la rilevanza obiettiva delle esimenti, non trova più, nel nostro sistema
giuridico, alcuna deroga. Attualmente, quindi, risulta difficile trovare la soluzione di
quei casi in cui, nella struttura della esimente, sia presente un elemento di carattere
soggettivo: si pensi, ad es., alfine di adempiere un dovere del proprio ufficio (ex art.
53, co. 1 c.p.) ovvero allo scopo scientifico o di cura (ex art. 728 c.p.) o, ancora, alla
costrizione ad agire (artt. 52 e 54 c.p.).
Ad ogni modo, è necessario considerare che, nonostante la novella entrata in vigore nel
'90, per la giustificazione di un fatto tipico è assolutamente necessaria la presenza di
requisiti soggettivi: ciò significa che il soggetto agente deve conoscere i presupposti
della causa di giustificazione e deve agire per realizzare le specifiche finalità in essa
contenute (così, ad es., in relazione al tema della legittima difesa, il soggetto agente
deve conoscere la sussistenza della situazione giustificante, l'attualità di un pericolo di
un'offesa ingiusta e deve agire con la volontà di difendersi).
Queste conclusioni sono obbligate, dal momento che, laddove sussistano circostanze
oggettivamente giustificabili, ma l'agente non ne sia a conoscenza, egli agisce per la
realizzazione di un evento che, nella sua mente, è disapprovato dall'ordinamento: si
faccia il caso, ad es., di uno spietato killer, che uccida due individui in uniforme da
poliziotto, ritenendo che stiano per arrestarlo, mentre in realtà si tratta di persone
incaricate, a loro volta, di eliminarlo (in questo caso, l'agente respinge, senza dubbio,
un'aggressione alla sua vita, ma non è certamente animato da intenti difensivi, nel senso
evocato dall'art. 52 c.p.).
§10. L'eccesso colposo e il fatto colposo giustificato
L'art. 55 c.p. stabilisce che quando, nel commettere taluno dei fatti preveduti dagli
artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o
dall'ordine dell' Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
Queste ipotesi corrispondono alla figura del ed. eccesso colposo, per la cui applicabilità
è necessario:
• che ricorrano i presupposti oggettivi di una causa di giustificazione;
• che l'autore agisca nella consapevolezza di realizzare una condotta corrispondente a
quella descritta nella norma permissiva;
• che egli cagioni una lesione di beni più grave di quella funzionale alla realizzazione
del fine contemplato nella norma;
• che tale eccesso possa essergli addebitato a titolo di colpa (si pensi, ad es., al caso in
cui Tizio, nel reagire a un tentativo di rapina, compiuto da una persona disarmata, lo
colpisca con un bastone, usandolo, però, con energia eccessiva, così da cagionare
all'aggressore lesioni gravissime: in tal caso, l'agente agisce sì per uno scopo tutelato
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dall'ordinamento giuridico, ma, per eccesso di precipitazione, si comporta in modo
oggettivamente non appropriato alla situazione di fatto).
Le ipotesi dell'eccesso colposo non vanno, però, confuse con le ipotesi concernenti il
ed. fatto colposo giustificato:
• l'eccesso, infatti, presuppone un'azione intenzionalmente diretta a cagionare una
lesione di beni che, però, nei risultati appare sproporzionata, a causa di un'erronea
valutazione della situazione di fatto;
• viceversa, nel fatto colposo giustificato, l'azione non mira a cagionare una lesione di
beni, ma la crea per la violazione della diligenza oggettiva (ad es., Tizio., aggredito da
Caio, armato di coltello, estrae una pistola, e dall'arma, maldestramente impugnata,
parte un colpo che ferisce o uccide Caio).
Sezione IV
La colpevolezza
Capitolo I
Funzioni e limiti del concetto di colpevolezza
SI. Nozione di colpevolezza
Dal punto di vista giuridico-penale, affinché si possa affermare la responsabilità di un
soggetto, è indispensabile che allo stesso sia possibile rimproverare la commissione di
un fatto illecito: proprio per questa ragione, si è soliti affermare che la colpevolezza è
rimproverabilità. Beninteso, ai fini che qui interessano, il rimprovero in esame è un
rimprovero giuridico, non morale: ciò significa che, sotto il profilo del diritto penale, ai
fini del giudizio di colpevolezza, ciò che bisogna prendere in considerazione è il fatto
che l'autore si è deciso a commettere l'illecito, nonostante fosse in grado di agire in
modo conforme alle pretese normative positivizzate dal legislatore. Da quanto detto,
pertanto, se ne deduce che i problemi della colpevolezza non vanno ad intaccare
l'ambito del dover essere dell'agente, ma riguardano solo l'ambito della sua capacità
personale e quello delle sue concrete possibilità di scegliere tra il diritto e l'illecito. Ora,
sotto un profilo formale, con l'inciso colpevolezza si è soliti indicare l'insieme dei
requisiti di ordine soggettivo, in base ai quali è possibile affermare la responsabilità
di uno specifico autore, in relazione alla commissione di un fatto tipico ed
antigiuridico. Da un punto di vista sostanziale, invece, l'oggetto, i contenuti e i limiti
del giudizio di colpevolezza sono condizionati dagli scopi che ogni ordinamento
assegna al diritto penale: se ne deve dedurre, perciò, che tali elementi risultano
influenzati, in modo determinante, dai connotati ideologici e culturali dell'ordinamento
di riferimento. A ogni modo, non v'è dubbio che tutti i sistemi penali più avanzati siano
saldamente imperniati sul ed. principio di colpevolezza: sull'idea, cioè, che la
colpevolezza individuale dell'autore costituisca un presupposto essenziale per
l'applicazione della pena.
§2. Il principio di colpevolezza: gli orientamenti della dottrina
Nonostante il superamento della concezione retributiva della pena, ancora oggi il
principio di colpevolezza continua a spiegare la sua efficacia e validità all'interno del
nostro ordinamento giuridico; ciò dipende essenzialmente dalla circostanza che, nel
linguaggio della vita quotidiana, ciascuno di noi sa cosa vuol dire quando afferma che
taluno ha colpa o non ha colpa di qualcosa.
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Va detto, tuttavia, che il motivo della persistente validità (e dell'irrinunciabilità) del
principio di colpevolezza emerge anche dalla constatazione dei progressi, di cui il
diritto penale gli è debitore; e, infatti:
• l'elaborazione del principio di colpevolezza è alla base della formulazione di criteri
d'imputazione soggettiva sempre più precisi, che hanno comportato il superamento
delle ipotesi di responsabilità fondate sulla causazione dell'evento (ed. responsabilità
oggettiva);
• l'elaborazione del principio di colpevolezza ha consentito di attribuire rilevanza al
ed. errore inevitabile sul divieto;
• soltanto facendo affidamento sull'idea di colpevolezza è possibile comprendere il
particolare rapporto tra dolo e imputabilità;
• l'idea di colpevolezza è, infine, un criterio indispensabile per graduare la misura della
pena.
Ovviamente, nella prospettiva attuale, il ruolo della colpevolezza non può più essere
quello di fondare la necessità di una pena, come avveniva nell'ambito della concezione
retributiva; a quest'ultima, nel suo collegamento con la colpevolezza dell'autore, era
riconosciuta la funzione di costituire un limite all'intervento punitivo statuale: non a
caso, la retribuzione di colpevolezza non consentiva la possibilità di infliggere una pena
né in assenza di colpevolezza, né in misura superiore all'entità della stessa
colpevolezza.
Queste considerazioni hanno, pertanto, indotto parte della dottrina (Roxin) a tentare
un'operazione di recupero del semplice concetto di colpevolezza, sciogliendolo dai suoi
legami con la retribuzione e per utilizzarlo, da un lato, come limite al potere punitivo
statuale e, dall'altro lato, come un valore di ordine preventivo, sia speciale che
generale. In dettaglio:
• sotto il profilo special-preventivo, la presenza del concetto di colpevolezza elimina il
rischio degli effetti desocializzanti, che potrebbero scaturire in seguito all'inflizione di
una pena eccessiva, la quale sarebbe avvertita dal reo come un'ingiustizia;
• sotto il profilo general-preventivo, invece, la presenza del concetto di colpevolezza
contribuisce, senza dubbio, a stabilizzare la coscienza giuridica generale, in quanto la
comunità avvertirà l'inflizione della sanzione come giusta, perché delimitata dalla
colpevolezza per il fatto.
Detto ciò, è importante a questo punto sottolineare che la dottrina contemporanea (in
particolare, Moccio) nutre notevoli dubbi circa la reale validità e utilità di un concetto
di colpevolezza, in ragione del fatto che, se si depura il concetto di colpevolezza dai
suoi legami originari con la retribuzione, gli si lascia, a ben vedere, la sola funzione
(fondamentale) di garantire la proporzione della pena con il fatto commesso da un
soggetto imputabile. Pertanto, alla luce di quest'osservatone, appare opportuno
procedere ad una sostituzione di questo concetto alquanto astratto di colpevolezza con
un concetto più concreto di proporzionalità, che, unitamente all'esigenza di soddisfare
le istanze di prevenzione, andrebbe ad agire all'interno di una rinnovata terza categoria
del reato, denominata responsabilità personale: quest'ultima, a sua volta, secondo
l'orientamento del Moccia, potrebbe essere definita come l'insieme dei presupposti che
rendono possibile un giudizio su di un soggetto, a causa della commissione di un
fatto tipico ed antigiuridico. Di conseguenza, in questa nuova categoria rientrerebbero,
una volta recuperato dalla colpevolezza il solo aspetto della proporzione, sia il fatto
dell'imputabile che quello del non imputabile, che già attualmente dovrebbero essere
valutati secondo criteri di proporzione e in un'ottica di prevenzione. In questo contesto,
perciò, l'imputabilità diverrebbe, insieme all'intensità del dolo e al grado della colpa,
uno degli oggetti del giudizio di responsabilità penale: essa, cioè, andrebbe valutata non
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per ammettere o escludere la punibilità, ma per adeguare il trattamento sanzionatorio al
singolo reo (imputabile o meno).
Come detto, questo è l'orientamento del Moccia; al contrario, ad avviso di chi scrive
(Fiore) l'imputabilità rappresenta il presupposto della colpevolezza e corrisponde alla
capacità di intendere e di volere, ex art. 85 c.p.
Capitolo II
Il principio di colpevolezza nella prospettiva costituzionale
§1. L'articolo 27, comma 1 della Costituzione e la sentenza 364/88 Il riconoscimento di
una fattispecie soggettiva accanto ad una fattispecie oggettiva ha evidenziato come il
solo disvalore di evento (cioè, l'offesa in termini causali al bene giuridico), nonostante
rivesta un ruolo essenziale, non può essere, da solo, oggetto del divieto penale; al
contrario, esso deve essere accompagnato anche dal disvalore di azione, che scaturisce
dalla struttura dolosa o colposa della condotta: ed è proprio questa l'acquisizione
fondamentale della concezione personale dell'illecito penale, che trova un'esplicita
conferma normativa nell'art. 27, co. 1 Cost., ove si stabilisce, infatti, che la
responsabilità penale è personale.
In questa prospettiva, del resto, anche la Consulta, con sent. 1085/88, ha ribadito con
chiarezza la necessità dell'attribuibili tà psicologica, ai fini dell'attuazione del dettato
costituzionale: i giudici hanno, infatti, affermato che, perché l'art. 27, co. 1 Cost. sia
effettivamente rispettato e la responsabilità sia autenticamente personale, è
indispensabile che tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore
della fattispecie siano collegati oggettivamente all'agente (siano, cioè, investiti dal
dolo o dalla colpa). Non solo: sempre la Consulta, in una precedente e storica sentenza
(la n. 364 del 1988 (relativa al tema della scusabilità dell'ignorantia juris), aveva
affermato che gli elementi più significativi della fattispecie (cioè quegli elementi
aventi la funzione di definire il disvalore ai fini della legge penale) non possono non
essere coperti almeno dalla colpa dell'agente (cioè, dalla presenza di uno specifico
titolo di imputazione soggettiva). È bene precisare, però, che secondo una parte della
dottrina, il co. 1 dell'art. 27 Cost., interpretato nel senso della necessaria presenza del
dolo e della colpa ai fini della realizzazione di un reato, va inteso come espressione
della costituzionalizzazione del principio di colpevolezza o anche del fatto proprio
colpevole: si sottolinea, infatti, che, se per fondare il rimprovero di colpevolezza è
necessaria la realizzazione di un fatto connotato almeno dalla colpa del soggetto
agente, non potrà parlarsi di colpevolezza nell'ipotesi in cui il fatto sia imputato sulla
base del solo nesso di causalità. Chiaramente, questa lettura della norma costituzionale
soddisfa in pieno le esigenze di garanzia formale e sostanziale che caratterizzano un
ordinamento, come il nostro, ispirato ai princìpi dello stato sociale di diritto; e, tuttavia,
esso, secondo altra parte della dottrina, sembra provare anche troppo: invero, da un
punto di vista dogmatico e politico-criminale, appare più opportuno interpretare il
fondamentale principio ex art. 27, co. 1 nel significato di responsabilità per fatto
proprio, senz'altra qualificazione (in tal senso, dunque, la proprietà del fatto va intesa
nel significato dell'attribuibilità sia fisica che psicologica: connotati che, come detto,
costituiscono una caratteristica qualificante del fatto tipico). Analizziamo in dettaglio
quanto detto finora.
In seguito alla sent. 364/88, attraverso la quale la Corte costituzionale ha introdotto il
principio della parziale scusabilità dell'ignorantia juris, si è parlato, in dottrina, di
restaurazione del principio di colpevolezza; e ciò sulla base del riconoscimento, da
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parte della stessa Corte, della necessità della presenza di dolo o colpa ai fini della
realizzazione del principio di cui all'art. 27, co. 1 Cost.
Tuttavia, ad avviso del Moccia, la presenza del requisito soggettivo, in realtà, viene
dalla Consulta intesa, innanzitutto, nella sua funzione tipicizzante: si legge, infatti, in
un passo della sentenza in esame, che il fatto dell'agente va costituzionalmente inteso
in un'accezione larga e non in quella, riduttiva, d'insieme di elementi oggettivi; per
questo motivo, prosegue la Corte, la tipicità, oggettiva e soggettiva, costituisce il
primo, nonché necessario presupposto della punibilità ed è distinta dalla valutazione
e rimproverabilità del fatto stesso (in termini, cioè, di colpevolezza).
In virtù di queste considerazioni è, pertanto, possibile affermare che, ai fini di un
riconoscimento del principio di colpevolezza, la necessità della presenza, nel fatto
tipico, di dolo e colpa non costituisce l'argomento decisivo: è, infatti, evidente che per il
giudizio di colpevolezza devono essere presenti dolo o colpa (o meglio un fatto doloso
o un fatto colposo), perché senza di essi mancherebbe proprio l'oggetto del giudizio di
colpevolezza; questo dato, però, da solo, non è sufficiente. Invero, bisogna notare che,
ai fini del riconoscimento del principio di colpevolezza, ciò che appare decisivo è,
viceversa, il dato fornito dalla valorizzazione della coscienza dell'illiceità, attraverso la
rilevanza dell'errore scusabile su di essa: rilevanza che, prima della sent. 364/88, era
negata dalla presunzione assoluta di conoscenza della norma penale, sancita nella
versione originaria dell'art. 5 c.p.
Se ne deduce, perciò, che la Corte riconosce la validità del principio di colpevolezza
non perché ritiene necessaria la presenza di dolo o colpa ai fini dell'attribuzione della
responsabilità (tutto ciò appartiene, anzitutto, alla problematica concernente il fatto
tipico), ma perché, con la parziale scusabilità dell'errar juris, la Corte introduce il
requisito della coscienza dell'illiceità ai fini della responsabilità penale.
Ma, a questo punto, dal momento che anche il non imputabile, che compie un errore
scusabile sul precetto, va scusato (è questo il caso del soggetto non imputabile che
agisca, ad es., in una situazione di eccesso nella legittima difesa), appare preferibile,
anche sotto questo profilo, optare per un superamento del principio di colpevolezza,
legato indissolubilmente al presupposto dell'imputabilità, per un concreto principio di
responsabilità personale che comprenda il fatto, sia doloso che colposo, antigiuridico
di un qualunque agente, a prescindere dalla sua imputabilità.
§2. Responsabilità per fatto proprio e responsabilità oggettiva
L'interpretazione del principio della personalità della responsabilità penale nel senso di
responsabilità per fatto proprio comporta, tra le altre cose, che l'attribuzione di un fatto
a titolo di responsabilità oggettiva viola il principio di colpevolezza, ma sul piano
logico, è ancor prima violatrice del principio di tipicità.
In quest'ottica, dunque, la costituzionalizzazione del principio della responsabilità per
fatto proprio implica il ripudio di tutte le ipotesi di ed. responsabilità oggettiva: di
quelle ipotesi, cioè, basate sul mero rapporto di causalità materiale, tra condotta ed
evento, in assenza di uno specifico elemento psichico (dolo, colpa ovvero
preterintenzione), in linea con quanto disposto ex art. 42, co. 3 c.p., il quale, infatti,
stabilisce che la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico
dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione.
È bene precisare, però, che, in un primo tempo, la Corte, in un'interessante sentenza del
1957, aveva dichiarato la legittimità costituzionale della responsabilità oggettiva,
affermando che l'art. 27, co. 1 Cost. contiene solo un tassativo divieto della
responsabilità per fatto altrui: quest'ultima, in particolare, si contrassegnava per
l'estensione della responsabilità a persone ovvero a gruppi di persone estranee al reato e
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diverse dal colpevole (più precisamente, si faceva riferimento alle pene collettive, alle
decimazioni avvenute durante l'ultimo conflitto e ad alcune disposizioni emanate tra il
'44 ed il '46, che prevedevano la confisca dei beni, sanzione che colpiva anche la
famiglia del reo).
L'orientamento della Consulta ha ricevuto, tuttavia, una svolta epocale nella storica
sentenza 364/88: qui la Corte, infatti, facendo proprio il punto di vista unanime della
dottrina, ha stabilito che, con il carattere personale della responsabilità penale, l'art.
27, co. 1 Cost. esprime non tanto l'esclusione della responsabilità per fatto altrui, ma
anche della responsabilità oggettiva, perché è necessario non solo che il fatto sia
opera di chi lo ha commesso, sotto il profilo causale, ma anche dal punto di vista
dcll'attribuibilità psicologica.
Questa conclusione trova conferma nella stessa sentenza 364/88, dal momento che la
Corte, collegando in modo significativo il co. 1 dell'art. 27 Cost. con il co. 3 della stessa
disposizione (ove si stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del
condannato), ha avuto modo di precisare che la funzione rieducativa della sanzione
penale presuppone almeno la colpa dell'agente, con riferimento agli elementi più
significativi della fattispecie; non avrebbe altrimenti senso la rieducazione di chi,
non essendo almeno in colpa rispetto olfatto, non ha certo bisogno di essere
rieducato.
Va tenuto presente, in ogni caso, che la citata sent. 364/88 ha anche introdotto talune
precisazioni, che sembrano delimitare solo ad alcune ipotesi il divieto costituzionale di
prevedere forme di responsabilità oggettiva: la Corte, infatti, ha distinto i casi in cui il
risultato vietato dal legislatore non è sorretto da alcun coefficiente psichico (che sono
definiti casi di responsabilità oggettiva pura) da quelli in cui un solo elemento del
fatto non è coperto dal dolo o dalla colpa dell'agente; ed è in relazione a questa
seconda serie di ipotesi (definite di responsabilità spuria), che la Corte ha escluso
esplicitamente che il co. 1 dell'art. 27 Cost. contenga un tassativo divieto di
responsabilità oggettiva (con la conseguenza che in queste situazioni si dovrebbe
stabilire, di volta in volta, quali sono gli elementi più significativi della fattispecie, che
non possono non essere coperti almeno dalla colpa dell'agente, al fine di non incorrere
nella violazione dell'art. 27, co. 1 Cost., nella parte relativa al rapporto psichico tra
soggetto e fatto). Per poter far ciò, è necessario, però, decifrare l'esatto significato
dell'inciso elementi più significativi della fattispecie; e la risposta al quesito ce l'ha
fornita, ancora una volta, la Consulta nella sent. 1085/88: in questa fondamentale
pronuncia, infatti, i giudici, chiamati a decidere sulla legittimità costituzionale dell'art.
626 c.p. (furto d'uso: figura che ricorre quando il colpevole ha agito al solo scopo di
fare uso momentaneo della cosa, cosicché la stessa, dopo l'uso momentaneo, è stata
restituita), hanno dichiarato costituzionalmente illegittima la norma in esame, nella
parte in cui non estende la disciplina del furto d'uso alle ipotesi di mancata restituzione,
dopo il momentaneo utilizzo, della cosa sottratta, quando la mancata restituzione sia
dovuta a caso fortuito o a forza maggiore (ad avviso della Corte, infatti, la restituzione
della cosa costituisce elemento essenziale della fattispecie di furto d'uso; ma
altrettanto significativa è la manata restituzione della cosa sottratta, al cui obicttivo
verificarsi la legge collega l'inapplicabilità delle ridotte sanzioni previste per il furto
d'uso e la conseguente applicazione delle più gravi sanzioni previste per il furto
ordinario; pertanto, il dato obiettivo della mancata restituzione, affinché possa essere
addebitato all'agente, va integrato con i correlativi requisiti soggettivi: deve essere,
cioè, investito dal dolo o almeno dalla colpa dell'agente).
Detto ciò, occorre precisare, comunque, che la Corte non ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 42 c.p., nella parte in cui annovera la responsabilità oggettiva tra
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i criteri di imputazione del fatto: e, però, questa omissione di pronuncia da parte della
Consulta appare inconcepibile, dal momento che l'enunciato ex co. 3 dell'art. 42 c.p.,
ipotizzando la responsabilità oggettiva per l'evento, sembra far riferimento a un
elemento significativo della fattispecie e, quindi, a un elemento rilevante ex art. 27, co.
1 Cost.).
La casistica della responsabilità oggettiva è, nel nostro ordinamento, particolarmente
ricca: ad essa vengono ricondotti generalmente i ed. delitti aggravati dall'evento; parte
della dottrina vi include la figura del delitto preterintenzionale, le previsioni di cui agli
artt. 82 e 83 c.p. (i casi di aberratio) e le previsioni di cui agli artt. 116 e 117 c.p. La
responsabilità oggettiva viene, poi, in rilievo in alcune ipotesi di parte speciale: ad es., a
proposito dell'irrilevanza dell'errore sull'età della persona offesa, nei delitti contro la
libertà sessuale, nonché nei reati commessi a mezzo della stampa.
a) il problema del delitto preterintenzionale
Come stabilisce l'art. 43 c.p., il delitto è preterintenzionale, o oltre l'intenzione,
quando dall'azione od omissione deriva un evento più grave di quello voluto
dall'agente: ipotesi di delitto preterintenzionale sono l'omicidio preterintenzionale, ex
art. 584 c.p., e l'aborto preterintenzionale, di cui all'art. 18, co. 2 L. 194/78.
Come si può notare, nel delitto preterintenzionale si individua, da un lato, la volontà di
un evento minore (ad es. le percosse o le lesioni), che ne rappresenta la base dolosa, e,
dall'altro, la non volontà di un evento più grave (ad es., la morte o l'aborto), che è, pur
sempre, conseguenza della condotta dell'agente.
Per tal motivo, parte della dottrina ravvisa nella preterintenzione un'ipotesi di dolo
misto a responsabilità oggettiva, nel senso che su una condotta dolosa, per definizione
(quella diretta a cagionare l'evento meno grave), si innesterebbe una responsabilità per
l'evento più grave, fondata sul rapporto di causalità tra condotta ed evento. Viceversa,
secondo un'altra tesi, accreditata in dottrina, il delitto preterintenzionale sarebbe
caratterizzato dalla combinazione di dolo e colpa.
A nostro avviso, tuttavia, il delitto preterintenzionale, più che configurare un'ipotesi di
dolo misto a colpa, rivela particolari analogie proprio con la condotta colposa, perché
ciò che qui viene scriminata è un'azione, realizzata in modo volontario, cui, però, fa
seguito un risultato diverso da quello voluto dal soggetto agente: più precisamente,
l'addebito che, in questo caso, viene mosso all'agente è il fatto che egli ha violato le
ordinarie regole di cautela, che è d'obbligo porre in essere nel pilotaggio finalistico di
qualsiasi decorso causale nel mondo esterno.
Quanto al delitto preterintenzionale, invece, poniamo la questione relativa al ruolo
ricoperto dalla figura dell'omicidio preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p.: ora, ai
sensi di questa norma si ritiene sufficiente, per l'imputazione dell'evento
preterintenzionale morte, la commissione di atti diretti a realizzare i delitti di percosse
o di lesioni personali, senz'altra qualificazione, né in termini di idoneità, né di
univocità; ciò significa che potrebbero, quindi, risultare sufficienti anche un tentativo
inidoneo o atti meramente preparatori e, di conseguenza, inoffensivi. Sulla base di tali
considerazioni, la norma in esame appare intollerabile perché, se si considera che, ai
fini della realizzazione della fattispecie, si ritengono sufficienti, da un lato, meri atti
diretti a... (e cioè delle condotte ancora lecite) e, dall'altro, non è neanche richiesta la
prevedibilità dell'evento morte, è irragionevole il trattamento sanzionatorio disposto ex
584 c.p. (reclusione dai 10 ai 18 anni), rispetto a quello previsto, ad es., per l'omicidio
colposo, ex art. 589 c.p. (reclusione dai 6 mesi ai 5 anni), per il quale, in quanto fatto
colposo, è richiesta, senza dubbio, la prevedibilità dell'evento.
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Pertanto, tenendo conto di tutto quanto detto, sarebbe auspicabile l'abrogazione dal
sistema dell'art. 584 c.p., dal momento che a disciplinare correttamente il fenomeno
appaiono già sufficienti le norme in tema di tentativo, di colpa e di concorso formale di
reati.
b) i reati commessi a mezzo della stampa
Nella formulazione originaria, l'art. 57 c.p. prevedeva un'ipotesi di responsabilità
oggettiva del direttore (e, in determinati casi, anche del redattore e dell'editore) per i
reati commessi a mezzo stampa: di questi reati, in altri termini, il direttore rispondeva
per il fatto di rivestire la qualifica indicata dalla disposizione, a prescindere dal suo
atteggiamento psicologico (salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione).
L'entrata in vigore della L. 127/58 ha, però, modificato l'art. 57 c.p. ed ha introdotto
l'art. 57 bis; in base alla nuova disciplina normativa è possibile oggi identificare tre
diverse situazioni:
• se il direttore omette il controllo con dolo, troveranno applicazione le norme sul
concorso di persone nel reato (il direttore, in altri termini, risponderà del reato ai sensi
dell'art. 110 c.p.: si tratterebbe, infatti, di un concorso doloso, mediante omissione, nel
reato doloso commesso dall'autore della pubblicazione);
• se, invece, il controllo viene omesso per negligenza, imprudenza ovvero imperizia, a
carico del direttore si configurerà una fattispecie di reato colposo commissivo
mediante omissione, la cui illiceità è imperniata sulla sua posizione di garante (ex art.
57 c.p.);
• se, al contrario, nonostante un diligente controllo, viene commesso, per il tramite
della pubblicazione, un reato che il direttore, senza sua colpa, non riesce a impedire,
ovvero in caso di concreta impossibilità di effettuare il controllo (ad es., a causa di una
malattia) nessun reato potrà, ovviamente, essere ascritto al direttore.
c) le condizioni obiettive di punibilità
Ai sensi dell'art. 44 c.p. quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il
verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui
dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto.
Il nostro codice, come si può facilmente notare, attraverso l'art. 44, più che definire le
condizioni di punibilità, si limita a fissarne il regime di imputazione; invero, la norma
in esame potrebbe anche essere letta nel modo seguente: quando per la punibilità è
richiesto l'avverarsi di una condizione, quel che conta è il suo oggettivo
sopravvenire, senza che vi sia alcun bisogno di ricollegare tale avveramento alla
volontà dell'agente. Va considerato, inoltre, che l'art. 44 c.p., dal momento che utilizza
gli incisi colpevole e reato (inteso, quest'ultimo, nel significato di fatto tipico,
antigiuridico e colpevole), sembra voler collocare le condizioni di punibilità in uno
spazio esterno alla struttura dell'illecito penale, con la sola funzione di rendere punibile
un reato, già completo di tutti i suoi elementi costitutivi (compresa la colpevolezza
dell'autore). E così, in virtù di queste considerazioni, una parte della dottrina, allo scopo
di rendere compatibile la disposizione, ex art. 44 c.p., con il principio espresso dall'art.
27, co. 1 Cost., ha ritenuto opportuno distinguere le condizioni di punibilità in
intrinseche ed estrinseche. In particolare:
• si ritiene che solo le condizioni di punibilità intrinseche possano partecipare al
fatto-reato, perché comportano un aggravamento dell'offesa tipica (esse, perciò,
dovranno essere imputate quanto meno a titolo di colpa, in quanto rientranti nell'ambito
degli elementi più significativi della fattispecie: è questo, ad es., il caso del pericolo di
malattia, al cui insorgere è subordinata la punibilità dell'abuso dei mezzi di correzione,
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ex art. 571 c.p.; si pensi, ancora, al pubblico scandalo, al cui verificarsi è subordinata la
punibilità del delitto di incesto, di cui all'art. 564 c.p.);
• viceversa, si ritiene che le condizioni di punibilità estrinseche siano del tutto
estranee all'offensività del fatto-reato, in quanto si estrinsecano in valutazioni del
legislatore, dettate da semplici ragioni di opportunità punitiva (si pensi, ad es., alla
presenza del reo nel territorio dello Stato, alla cui condizione è subordinata la
procedibilità dei reati contemplati negli artt. 9 e 10 c.p.).
In virtù di questa distinzione, allora, parte della dottrina ha proposto di far confluire le
condizioni di punibilità estrinseche nella categoria processuale delle ed. condizioni di
procedibilità, di cui è pacifica l'estraneità al tema degli elementi del reato, in quanto si
riferiscono all'esercizio dell'azione penale e la cui trattazione appartiene, dunque,
all'ambito processual-penalistico (sono tali, ad es., gli istituti della querela, dell'istanza
e dell'autorizzazione a procedere).
Capitolo III
La colpevolezza nella struttura del reato
§1. Il ruolo della colpevolezza nella costruzione del reato
Come sappiamo, la dottrina prevalente (sulla base della teoria tripartita) distingue
tipicità ed antigiuridicità, da un lato, e colpevolezza, dall'altro: più precisamente, alla
categoria del fatto tipico vanno assegnate tutte quelle componenti (sia oggettive che
soggettive) dell'illecito penale; con il giudizio sull'antigiuridicità, invece, l'insieme
degli elementi (oggettivi e soggettivi) che compongono il fatto vengono apprezzati
sotto il profilo della loro contrarietà o conformità al diritto obiettivo; l'accertamento
della colpevolezza, infine, fornisce la risposta alla domanda se l'autore di un fatto tipico
ed antigiuridico possa anche essere ritenuto personalmente responsabile di quel fatto,
sulla base di criteri individualizzanti, che mirano a stabilire, nel caso concreto, la
sussistenza o meno della possibilità per l'autore di agire diversamente da come ha agito.
Il tutto, ovviamente, nella prospettiva di un concetto normativo di colpevolezza, in cui
dolo e colpa non appartengono al suo contenuto (in quanto elementi che rientrano
nell'ambito del fatto tipico), ma rappresentano soltanto il suo oggetto, in quanto forme
della volontà contraria all'obbligo: di conseguenza, il compito che viene assegnato
alla categoria della colpevolezza è quello di individuare i parametri, predeterminati
dalla legge, alla cui stregua dolo e colpa devono essere valutati, ai fini del giudizio sulla
responsabilità dell'autore di un illecito penale.
Più precisamente, i parametri ai quali bisogna ancorare tale giudizio sono:
• la capacità di colpevolezza dell'agente (quindi, la sua imputabilità);
• la coscienza del carattere antigiuridico del fatto;
• l'inesistenza di situazioni idonee ad annullare le possibilità di scelta dell'agente. §2.
L'imputabilità come presupposto della colpevolezza (art. 85 c.p.)
a) la nozione di imputabilità
Ai sensi dell'art. 85 c.p. è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere, al
momento della commissione del fatto costituente reato; in particolare:
• la capacità di intendere rappresenta la capacità di rendersi conto del valore assunto
dai propri atti;
• la capacità di volere consiste, viceversa, nella capacità di indirizzare i propri atti nel
mondo esterno.
Per la sussistenza dell'imputabilità, ovviamente, si richiede il possesso di entrambe le
capacità, ma poiché la capacità di volere presuppone quella di rendersi conto del valore
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assunto dai propri atti, essa entra in gioco soltanto se non debba già escludersi la
capacità di intendere.
Alla luce di quanto detto, si può affermare, dunque, che l'imputabilità rappresenta la
capacità del soggetto di autodeterminarsi secondo valori (in particolare, secondo i
valori di cui sono portatrici le disposizioni giuridiche): ciò, del resto, trova conferma
nel fatto che la personale responsabilità della condotta ha un senso soltanto se riferita a
un autore che possedeva la capacità di orientare diversamente il proprio agire e di
essere, in tale direzione, motivato dalle norme giuridiche. Di conseguenza, ove la
motivabilità attraverso le norme giuridiche dovesse mancare (come, ad es., nei soggetti
immaturi o nei malati di mente), la sanzione penale non può essere applicata, perché
essa non può assolvere nè alle funzioni general-preventive (coazione psicologica e
orientamento culturale) né ai suoi compiti special-preventivi (recupero e
risocializzazione del reo).
b) i rapporti imputabilità-colpa e imputabilità-dolo
L'affermarsi del concetto normativo di colpevolezza ha comportato la possibilità di
distinguere il dato della riferibilità psicologica del fatto all'autore (nelle forme del dolo
o della colpa) dalla sussistenza dei requisiti, normativamente stabiliti, che consentono
di muovere all'autore un rimprovero per il suo fatto (ed. giudizio di colpevolezza).
Tuttavia, appare utile fornire qualche ulteriore precisazione sul tema, soprattutto in
relazione ai rapporti che intercorrono tra imputabilità e colpa e quelli che intercorrono
tra imputabilità e dolo. In particolare, in relazione alle condotte colpose, va sottolineato
che il riconoscimento dell'esigenza di una doppia valutazione della colpa (oggettiva e
soggettiva) ha reso alquanto agevole l'impostazione dei rapporti intercorrenti tra la
colpa e l'imputabilità: difatti, l'apprezzamento della colpa, secondo la sua misura
soggettiva, è un giudizio che concerne la valutazione circa l'esigibilità, in concreto,
della condotta rispettosa della diligenza, da parte di quel determinato autore (perciò, se
l'autore non è imputabile non si può da lui pretendere l'osservanza della norma). Meno
agevole, invece, è l'impostazione delle relazioni tra l'imputabilità e il dolo: più
precisamente, la questione concerne la relazione che intercorre tra il dolo e il nonimputabile. Invero, nell'ambito della concezione psicologica della colpevolezza, si è a
lungo discusso se il non-imputabile potesse essere ritenuto capace di dolo: parte della
dottrina propendeva per la soluzione positiva, sulla base degli artt. 222 e 224 c.p., i
quali ipotizzano un trattamento sanzionatorio differenziato per il non imputabile, a
seconda del carattere, doloso o colposo, del fatto da lui commesso. Altra parte della
dottrina, viceversa, partiva dall'assunto secondo cui una condotta qualificata come
dolosa o colposa deve essere, per forza, espressione di conoscenza (o conoscibilità) e di
volizione (o prevedibilità): e si tratta di requisiti che, a loro volta, presuppongono sanità
e normalità psichica, assenti, per definizione, nel soggetto nonimputabile.
Al di là di queste teorie (suggestive, ma non risolutive), il problema, in realtà, si
inquadra nella giusta dimensione se lo si analizza dal punto di vista della concezione
normativa della colpevolezza: questa, infatti, ci ha consentito di distinguere il dato della
riferibilità psicologica del fatto all'autore, nelle forme del dolo e della colpa, dalla
sussistenza dei requisiti, normativamente prestabiliti, sulla cui base è possibile muovere
all'agente un rimprovero per il fatto da lui commesso: così ragionando, ad es., si deve
dedurre che un omicidio volontario appartiene alla volontà e personalità di un soggetto
paranoico, esattamente come a quella del soggetto sano di mente; solo che la mancanza
di imputabilità del primo rende quel coefficiente psicologico rilevante non per
l'applicazione di una pena, ma (eventualmente) per una misura di sicurezza, laddove
sussistano i presupposti per affermare la pericolosità dell'agente.
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§3. Le cause che escludono l'imputabilità
Il nostro codice penale considera come cause di esclusione dell'imputabilità: la minore
età, il vizio di mente, il sordomutismo, l'intossicazione cronica da alcol o da sostanze
stupefacenti e l'ubriachezza accidentale. Analizziamole in dettaglio:
• il primo fattore che la legge prende in considerazione ai fini dell'esclusione della
imputabilità è la minore età (ex art. 97 c.p.): a tal riguardo, però, è bene precisare che la
legge distingue il periodo che va fino ai 14 anni compiuti, in cui vige la presunzione
assoluta di assenza di capacità di intendere e di volere, ed il periodo che va dai 14 ai
18 anni, durante il quale il giudice deve accertare caso per caso la sussistenza o meno
della imputabilità;
• l'art. 88 c.p. stabilisce che non è imputabile chi, al momento del fatto, era, per
infermità, in tale stato di mente, da escludere la capacità di intendere e di volere.
Dalla formulazione della disposizione si desume, innanzitutto, che qualsiasi infermità
(non soltanto quella psichica, ma anche quella fisica) può assumere rilievo ai fini della
esclusione dell'imputabilità, purché abbia avuto l'effetto di escludere la capacità di
intendere o quella di volere; per contro, anche una conclamata malattia mentale può non
escludere l'imputabilità, qualora la stessa non abbia compromesso, in concreto, la
capacità di intendere o di volere.
Detto ciò, è stato a lungo controverso se il concetto di infermità di cui all'art. 88 c.p.,
dovesse avere come punto di riferimento un modello medico (cioè, riconducibile ad una
patologia classificabile sotto un profilo nosografico) o se potesse, invece, riferirsi anche
a disturbi psichici atipici (si pensi, ad es., alle nevrosi): al riguardo, la dottrina
penalistica, ritenendo inopportuno fare affidamento sul modello medico, ha affermato
che la capacità di intendere e di volere (intesa, questa, nel significato di motivatilità
attraverso norme giuridiche) può essere esclusa anche dalla presenza di disturbi della
personalità, non ricompresi nella categoria delle malattie mentali classificate in un
modello medico (questa linea interpretativa, tra l'altro, ha ricevuto anche conferma in
sede giurisprudenziale, grazie ad una sentenza del 2005 delle Sezioni unite della
Cassazione).
Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo all'art. 89 c.p.: questa norma prende in
considerazione i casi nei quali la capacità di intendere e di volere non è esclusa, ma
risulta grandemente scemata: in queste ipotesi, ovviamente, la responsabilità penale
sussiste, ma la pena è diminuita (salva la possibilità di assoggettare l'agente anche ad
una misura di sicurezza);
• l'art. 90 c.p. stabilisce che non escludono l'imputabilità gli stati emotivi e
passionali; è doveroso precisare, però, che il significato di questa disposizione viene
attualmente identificato con una specie di appello da parte della legge ad esercitare un
controllo sulle proprie emozioni, onde evitare la produzione di eventi dannosi o
pericolosi. Tuttavia, va anche detto che l'incidenza della norma nella prassi è talmente
modesta che sia la dottrina che la giurisprudenza ne auspicano l'abrogazione: anche
perché essa potrebbe costituire un ostacolo al riconoscimento di determinati stati
patologici, capaci di sconfinare nell'infermità mentale (si pensi, ad es., al panico);
• l'art. 96 c.p. prende in considerazione, quale causa di esclusione dell'imputabilità, il
sordomutismo, se il sordomuto, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva,
per causa della sua infermità, la capacità di intendere e di volere: come si può notare, in
questo caso non v'è nessuna presunzione di inimputabilità, dal momento che si richiede
un concreto accertamento da parte del giudice circa il fatto che, a causa della sua
infermità, il sordomuto si sia trovato in condizioni di incapacità di intendere o di volere;
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• le disposizioni di cui agli artt. 88 e 89 c.p. si applicano anche con riferimento ai fatti
commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze
stupefacenti (ex art. 95 c.p.). Rispetto a questi casi, quindi, l'imputabilità è esclusa
qualora lo stato di degrado psicofisico, prodotto dall'intossicazione, abbia causato
l'instaurarsi di una condizione in virtù della quale il soggetto non può determinare le
proprie scelte ed è, dunque, da considerarsi come un vero e proprio infermo di mente;
• ai sensi degli artt. 91 e 93 c.p., lo stato di ebbrezza alcolica e l'equivalente condizione
dovuta all'azione di sostanze stupefacenti, che abbiano fatto venir meno la capacità di
intendere e di volere, escludono l'imputabilità qualora siano derivate da caso fortuito o
da forza maggiore (si pensi, ad es., all'operaio di una distilleria reso ebbro dai vapori
inalati a causa di un accidentale guasto all'impianto di depurazione o a chi ingerisca per
errore una sostanza stupefacente in luogo di un medicinale).
Fuori da questi casi, l'ubriachezza, beninteso, non esclude, né tanto meno diminuisce
l'imputabilità.
§4. La disciplina dell'ubriachezza e l'actio libera in causa
Il nostro codice penale considera Y ubriachezza sotto cinque distinte figure:
• l'ubriachezza accidentale, cioè quella derivante da caso fortuito o da forza maggiore
(è questo il caso, ad es., di chi, lavorando in una distilleria, rimanga ebbro dei fumi
inalati dell'alcool);
• l'ubriachezza volontaria;
• l' ubriachezza colposa, di cui all'art. 92, co. 1 c.p., che ricorre nei casi in cui, pur non
essendo stata l'ubriachezza voluta dal soggetto, essa, tuttavia, non è derivata da caso
fortuito o da forza maggiore;
• l'ubriachezza preordinata, di cui all'art. 92, cpv. c.p.;
• l'ubriachezza abituale (art. 94 c.p.).
Come detto in precedenza, soltanto l'ubriachezza accidentale esclude l'imputabilità del
soggetto; per tutti gli altri casi, al contrario, il codice deroga espressamente alla regola
che esige, ai fini della punibilità, la presenza della capacità di intendere e di volere al
momento della commissione del fatto. Non solo: in questa sede, non si può non notare
la particolare severità del trattamento sanzionatorio che il legislatore ha riservato
all'ubriaco abituale, al quale, infatti, oltre alla pena, può essere inflitta anche la misura
di sicurezza della libertà vigilata.
In questa prospettiva, quindi, la disciplina dell'ubriachezza, ad avviso di parte della
dottrina (Moccio) sembra essere, in realtà, ispirata alla volontà di accogliere illiberali
formule di responsabilità a sfondo eticizzante, riconducibili al modello della ed. colpa
d'autore. L'asserzione è corretta, anche perché la stessa trova conferma su di un piano
normativo e, precisamente, nell'atteggiamento repressivo adottato dal legislatore del
'30 nei confronti dei fenomeni di etilismo: si tratta, in dettaglio, di un atteggiamento che
si manifesta in maniera lampante nel trattamento dell' ubriachezza preordinata, ex art.
92, cpv. c.p., ai sensi del quale, se l'ubriachezza era preordinata alfine di commettere
il reato o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata. Ora, il profilo di estremo
rigore di questa norma si coglie in modo particolare quando si consideri che la
preordinazione dello stato di incapacità non è considerata come circostanza aggravante
nell'ipotesi di carattere generale dell'actìo libera in causa, ex art. 87 c.p., ma solo in
riferimento ai casi in cui l'incapacità preordinata derivi da ubriachezza: in questo caso,
pertanto, il sovrappiù di pena appare giustificato soltanto in base ad un intollerabile
giudizio di tipo etico-personale.
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Passiamo, quindi, ad analizzare dettagliatamente il caso delineato nell'art. 87 c.p.: la
norma stabilisce che la disposizione della prima parte dell'art. 85 c.p. non si applica a
chi si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere, al fine di commettere un
reato o di prepararsi una scusa. L'ipotesi di cui all'art. 87 c.p. corrisponde, come detto,
al tipico schema dell'actio libera in causa: espressione con la quale si è soliti designare
i casi nei quali l'autore del fatto commesso in stato di incapacità di intendere e di volere,
in un momento antecedente nel tempo, trovandosi nel pieno possesso delle proprie
facoltà di autodeterminazione, tiene una condotta (si tratta della ed. actio praecedens)
diretta a programmare lo stato di incapacità, nel quale verrà a trovarsi nel momento
della commissione del fatto. Ora, poiché nel momento in cui realizza Yactio
praecedens, il soggetto agisce in modo del tutto consapevole, libero e responsabile,
egli sarà chiamato a rispondere anche della condotta posta in essere, in séguito, in stato
di incapacità: di qui l'espressione actio libera in causa. Ora, nei casi di incapacità
procurata:
• qualora l'agente realizzi esattamente il reato programmato, egli ne risponderà a titolo
di dolo intenzionale;
• se invece tale omogeneità non sussiste, il soggetto agente potrà essere chiamato a
risponderne a titolo di colpa, a condizione che il fatto sia preveduto dalla legge come
delitto colposo (così, ad es., Tizio, avendo progettato di uccidere Caio, dopo essersi
drogato, per trovare il coraggio di eseguire l'omicidio, nel recarsi in auto nel luogo in
cui intende assassinarlo, cagiona la morte di un terzo o addirittura dello stesso Caio, a
seguito di un incidente cagionato dall'eccessiva velocità di guida). A questo punto,
però, sorge il problema di stabilire il titolo della responsabilità che va attribuito alle
azioni che, pur essendo connesse alla perdita di autocontrollo da parte dell'agente (che,
in modo doloso o colposo, si è posto in stato di incapacità), non sono preordinate alla
commissione di un reato. Ora, in relazione a quest'interrogativo, va detto che in dottrina
sono state avanzate due diverse teorie:
• ad avviso della prima teoria, il titolo di responsabilità dovrebbe essere stabilito ed
attribuito avendo riguardo all'elemento psicologico con il quale l'agente ha commesso
il fatto;
• ad avviso del secondo orientamento, invece, la qualificazione e l'attribuzione del
titolo di responsabilità dovrebbero essere stabilite avendo riguardo all'actio precedens,
di modo che la responsabilità dovrebbe essere a titolo di dolo (eventuale) nei casi in cui
l'agente, nel momento in cui si pone in stato di incapacità, si rappresenta come possibile
il verificarsi dell'illecito, accettandone, però, il rischio; e a titolo di colpa nel caso in cui,
dopo essersi posto in stato di incapacità, l'agente non si rappresenti come possibile la
commissione di un reato, ma avrebbe potuto, in ogni caso, prevederla. Questa seconda
teoria, tuttavia, non può essere accolta, in quanto il fatto commesso, non essendo
preceduto da un'azione preordinata alla sua realizzazione, può essere qualificato
soltanto facendo riferimento al tipo di elemento psicologico con il quale il soggetto ha
agito (dolo, colpa o preterintezione) e, dunque, sulla base dei canonici e ordinari
parametri di accertamento. Se ne deduce, pertanto, che la sola funzione che, nei casi di
non preordinazione, va attribuita all'actio precedens è quella di evitare che la
condizione di incapacità possa non rilevare penalmente, escludendo la responsabilità
dell'autore del fatto.
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§5. Le altre cause di esclusione della colpevolezza a) il
principio dell'ignoranti a legis non excusat (art. 5 c.p.)
Ai fini del riconoscimento del principio di colpevolezza (o, anche, del fatto proprio
colpevole), ciò che risulta decisivo è il dato fornito dalla valorizzazione della coscienza
dell'illiceità, attraverso la rilevanza dell'errore scusabile su di essa (così come sancito
dalla Consulta nella sent. 364/88).
L'art. 5 c.p., nella sua formulazione originaria, stabiliva che nessuno può invocare a
propria scusa l'ignoranza della legge penale: la disposizione trovava il suo
fondamento nell'esigenza di non compromettere l'efficacia delle norme penali
(diversamente, per sfuggire ai rigori delle stesse sarebbe stato sufficiente tenersene
all'oscuro). Tuttavia, la norma in esame è stata parzialmente modificata, in quanto nella
sent. 364/88 la Corte cost., dando rilevanza all'errar juris scusabile ha stabilito che,
affinché la relazione tra l'agente e la legge penale possa assumere una rilevanza
giuridica, è necessario che il soggetto sia effettivamente in grado di conoscere la
norma penale; in virtù di questa considerazione, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità
dell'art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude, dall'inescusabilità dell'ignoranza della
legge penale, l'ignoranza inevitabile o invincibile: è chiaro, infatti, che se l'ignoranza è
inevitabile non ha alcun senso l'inflizione di una sanzione penale, né da un punto di
vista special-preventivo (perché l'agente, al momento della commissione del fatto, non
sapeva di violare consapevolmente la legge penale), né da un punto di vista
general-preventivo (perché l'inflizione di una sanzione, nel caso di chi viola la legge
penale in scusabile buona fede, non contribuisce certamente ad aggregare consensi
intorno alla validità delle norme giuridiche).
La Corte, però, ha tenuto a precisare che il fondamento della scusa vale soprattutto per
quei soggetti che versano in condizioni soggettive di inferiorità e non, invece, per quei
soggetti dai quali si pretendono comportamenti adeguati alla loro condizione tecnica e
sociale.
La Consulta ha, altresì, stabilito che:
• la scusabilità dell'errore è delimitata soltanto a quei reati che, pur presentando un
certo disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illecito penale (si
pensi, ad es., allo straniero, proveniente da una cultura del tutto diversa dalla nostra,
che, giunto da poco nel nostro Paese, attribuisca all'incesto una portata più ristretta di
quella prevista ex art. 564, co. 1 c.p.);
• la scusabilità dell'errore va esclusa qualora l'agente, pur ignorando l'antigiuridicità
del fatto, si sia, però, rappresentata tale possibilità;
• il giudice deve valutare attentamente le ragioni per cui l'agente non si è neppure
prospettato un minimo dubbio sull'illiceità del fatto (in tal caso, qualora l'assenza di tale
dubbio dipenda dalla carenza di socializzazione del soggetto agente, l'ignoranza della
legge penale deve essere ritenuta inevitabile).
b) l'ignoranza dell'età della vittima nella L. 172/2012
Con la L. 172/2012 è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei
minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale.
Una delle più rilevanti novità proposte dalla nuova legge è indubbiamente costituita
dall'introduzione, nell'inedito art. 602 quater c.p., di una norma sull'ignoranza dell'età
della vittima dei delitti contro la personalità individuale.
Al riguardo, occorre ricordare, preliminarmente, che l'originario disegno, di cui alla L.
269/98, contemplava una regola analoga a quella dettata ex art. 609 sexies c.p. per i
reati contro la libertà sessuale commessi ai danni di infraquattordicenni, che fu, però,
soppressa al momento dell'approvazione della legge. Conseguentemente, l'effettiva
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ignoranza dell'età della persona offesa, in quanto integrante un errore di fatto, ha finora
escluso la sussistenza del dolo nei reati di prostituzione e pedopornografia, consentendo
al più di contestare, ove ne ricorressero i presupposti, i consueti reati in materia di
prostituzione previsti dall'art. 3 L. 75/58 (atteso che, come chiarito dalla
giurisprudenza, non era possibile estendere agli stessi la clausola contenuta nell'art. 609
sexies c.p., in forza del divieto di analogia in malam partem). Nel frattempo, però, la
Consulta (2007), pur dichiarando, per l'ennesima volta, inammissibile la questione di
legittimità costituzionale della citata deroga ai principi generali sul dolo prevista per i
reati sessuali sollevata con riferimento all'art. 27, co. 1 e 3 Cost., ha fornito una
interpretazione adeguatrice dell'art. 609 sexies in grado di non sacrificare del tutto il
principio di colpevolezza sull'altare delle pur legittime istanze di tutela di altri valori
costituzionalmente protetti, senza per questo disporre la totale ablazione della norma
impugnata. E proprio in tal senso, il giudice delle leggi ha sostanzialmente stabilito,
ispirandosi ai principi affermati nella storica sent. 364/1988, che l'ignoranza sull'età
della persona offesa può effettivamente ritenersi irrilevante penalmente solo se
inescusabile. La novella del 2012 ha recepito l'insegnamento del giudice delle leggi,
provvedendo per un verso ad adeguare la clausola contenuta nell'art. 609 sexies e per
l'altro, come accennato, a introdurne una identica nell'art. 602 quater, valida per tutti i
reati contro la personalità individuale (e non solo per quelli di prostituzione e
pornografia minorili). La nuova versione della clausola prevede, oggi, che il colpevole
non può invocare a propria scusa l'ignoranza dell'età della persona offesa, salvo che si
tratti di ignoranza inevitabile, dovendosi intendere come tale l'ignoranza non
rimproverabile, quanto meno, a titolo di colpa.
Ma, nel rimodulare il regime di rilevanza dell'ignoranza, il legislatore ha introdotto
anche un'altra novità: come già detto, infatti, nella sua formulazione previgente, l'art.
609 sexies limitava la portata della disposizione all'ipotesi che la persona offesa avesse
un'età inferiore ai quattordici anni, mentre quella nuova (nonché l'art. 602 quater) la
estende alla minore età in generale.
c) l'erronea supposizione di un'esimente (art. 59, ultimo comma c.p.)
L'art. 59, ult. co. c.p. stabilisce che se l'agente ritiene per errore che esistano
circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui.
Questa norma legittima, nel nostro sistema, quelle figure che la dottrina denomina
esimenti putative: si tratta, in particolare, di una categoria nella quale sono ricomprese
quelle ipotesi nelle quali l'agente crede di trovarsi in presenza dei presupposti di una
causa di giustificazione, in realtà inesistente; ecco alcuni classici esempi:
•Caio, in una strada buia, scambia l'amico Sempronio (che, in modo scherzoso, gli si
avvicina agitando un bastone) per un aggressore, e lo ferisce a un braccio (legittima
difesa putativa);
•Mevio porta via con sé una cosa altrui, equivocando sul significato di un gesto del
proprietario della stessa, che ha scambiato per consenso all'impossessamento della cosa
(consenso putativo);
•Tizio, al fine di salvarsi da un incendio, danneggia la proprietà di Caio, svellendo un
infisso, mentre esisteva una diversa via di fuga (stato di necessità putativo).
È importante precisare, tuttavia, che una parte della dottrina tende ad assimilare le
esimenti putative ai casi di errore sul fatto, di cui all'art. 47 c.p. A ben vedere, però, le
due ipotesi disciplinano situazioni alquanto differenti:
•infatti, nel caso dell'art. 47 c.p. manca il dolo, perché l'agente non sa quel che fa (vi è,
quindi, un errore sul fatto che costituisce il reato);
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•viceversa, nell'ipotesi delineata ex art. 59 c.p., non è il dolo che viene a mancare, dal
momento che l'agente sa benissimo cosa sta facendo (egli, non a caso, si rappresenta, in
modo compiuto, gli elementi costituivi del fatto tipico: condotta, evento e rapporto di
causalità); crede, però, erroneamente che gli sia permesso farlo. Quel che viene a
mancare, perciò, è la colpevolezza, in ragione del fatto che l'atteggiamento dell'agente è
simile a quello del soggetto che versa in errore sulla legge penale (quest'ultimo, infatti,
non conosce la norma di divieto; il primo, al contrario, crede che il divieto non operi per
la presenza di una norma antagonista).
d) l'ordine illegittimo vincolante
L'art. 51 c.p. stabilisce, ai commi 2, 3 e 4, che, se l'ordine è illegittimo, la
responsabilità del reato ricade sia sul pubblico ufficiale che lo ha impartito, sia
sull'esecutore dell'ordine, tranne che, per un errore sul fatto, abbia ritenuto di
obbedire ad un ordine legittimo; ovvero, quando la legge non gli consente alcun
sindacato sulla legittimità dell'ordine: è questo, ad es., il caso dei rapporti di
subordinazione di natura militare.
L'insindacabilità dell'ordine, però, è solo sostanziale, mai formale, per cui sarà sempre
possibile, per il subordinato, verificare:
• la forma dell'ordine (vale a dire, il modo in cui l'ordine è stato dato);
• l'attinenza dell'ordine al servizio (l'ordine dato, cioè, deve rientrare tra le
competenze ed i poteri che la legge attribuisce al superiore nei confronti del
subordinato, nonché nella sfera di attribuzioni spettanti al subordinato stesso);
• la competenza dell'autorità ordinante (nel senso che si deve trattare di un'autorità
pubblica investita del potere di emanare determinati ordini).
Va precisato, poi, che un altro limite all'insindacabilità dell'ordine è costituito dalla sua
manifesta criminosità: in presenza di questo carattere, infatti, l'inferiore non è più
vincolato alla pronta obbedienza, ma ha il dovere di opporre un rifiuto (è questo, ad es.,
il caso dell'ufficiale di polizia, ubriaco, che ordini ai suoi subordinati di sparare su una
pacifica folla manifestante). Sotto il profilo strutturale, occorre specificare che un
riferimento preciso al carattere manifestamente criminoso dell'ordine era contenuto
nell'abrogato art. 40 c.p.m.p., il quale, invero, stabiliva che se un fatto costituente reato
è commesso per ordine del superiore o di altra autorità, del reato risponde sempre chi
ha dato l'ordine, a meno che l'esecuzione dello stesso non costituisca
manifestamente reato, nel qual caso del fatto risponde anche il militare che ha
eseguito l'ordine.
Una disposizione analoga è contenuta, oggi, nell'art. 25, co. 2 d.p.r. 545/86 (si tratta del
ed. regolamento di disciplina militare), il quale stabilisce che il militare al quale viene
impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato ha il
dovere di non eseguire l'ordine e di informare al più presto i superiori.
Ora, dal tenore di queste norme si evince, a contrario, un dato molto interessante: solo
nelle ipotesi in cui la criminosità dell'ordine non risulti manifesta, l'inferiore (che ha
eseguito lo stesso) potrà invocarne, a sua scusa, l'insindacabilità, sempre che, però, la
criminosità del medesimo ordine non sia a lui ben nota, in ragione delle sue particolari
conoscenze.
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Parte IV
Le forme di manifestazione del reato
Premessa
Con la locuzione forme di manifestazione del reato si vuole esprimere un concetto di
genere, destinato a raggruppare tutte quelle ipotesi in cui il reato (considerato nella sua
struttura di base) appare contrassegnato, nel suo manifestarsi, da caratteristiche
peculiari, che lo differenziano dal prototipo dell'illecito penale fin qui analizzato.
a) Può accadere, anzitutto, che il reato si presenti in forma incompiuta: o perché non si
è realizzata la lesione dei beni verso la quale era diretta la condotta (così, ad es., Tizio
esplode un colpo di fucile contro Caio, ma sbaglia la mira e il colpo lo sfiora) ovvero
perché la stessa condotta esecutiva del reato non è stata portata a compimento (ad es.,
Mevio si introduce in un appartamento per rubare, ma, mentre fruga nei cassetti, viene
sorpreso e messo in fuga dal proprietario).
b) Un reato può essere, inoltre, il frutto del contributo di più persone, che dirigono le
proprie energie e volontà verso la produzione di un evento di lesione dei beni (così, ad
es., Tizio e Caio cooperano nel! asportare una cassaforte, al fine di impossessarsi del
suo contenuto).
c) Il reato, infine, può presentarsi sottoforma di reato circostanziato: qui il fatto tipico,
presente nel suo nucleo essenziale, risulta arricchito da particolari modalità della sua
esecuzione (come, ad es., il mezzo adoperato) o da speciali circostanze di fatto (come,
ad es., il tempo e il luogo) o da particolari condizioni di carattere soggettivo (come, ad
es., il movente), che la legge considera rilevanti ai fini di una maggiore o minore gravità
del reato.
Sezione I
Il reato circostanziato
Capitolo unico
§1. Il fatto tipico e l'individuazione delle circostanze
La nozione di circostanza del reato può essere compresa soltanto se rapportata ad una
fattispecie non circostanziata (il ed. reato semplice): questa costituisce, infatti, il punto
di riferimento per l'individuazione della circostanza, la cui presenza determina, come
conseguenza giuridica, un'aumento o una diminuzione della pena-base. In quest'ottica,
nella struttura del reato si distinguono tradizionalmente:
• elementi essenziali (quali, ad es., la condotta, l'evento e il rapporto di causalità), che
non possono mai mancare;
• clementi accidentali, i quali, invece, incidono sulla gravità del reato, determinando,
in tal modo, un adeguamento della pena al reale disvalore del fatto; di conseguenza, la
presenza di questi elementi (ed. accidentalia delicti) trasforma il reato da semplice in
circostanziato (così, ad es., l'uccisione di un uomo, comunque realizzata, è sufficiente a
costituire il delitto di omicidio, nella sua forma semplice; ma, se l'omicidio, ad es., è
stato commesso con il mezzo di sostanze venefiche, saremo di fronte ad un omicidio
aggravato; viceversa, ci troveremo di fronte ad un omicidio attenuato, se l'omicidio è
stato commesso a seguito di una grave provocazione).
È bene precisare, inoltre, che gli elementi circostanziali del reato si presentano come
elementi specializzanti dei corrispondenti elementi essenziali della fattispecie
semplice: si pensi, ad es., all'uso di sostanze venefiche, che, in realtà, altro non
rappresenta se non una delle possibili estrinsecazioni della condotta omicida.
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§2. La classificazione delle circostanze
Le circostanze del reato si distinguono, anzitutto, in aggravanti e attenuanti, a seconda
che alla loro applicazione consegua un aggravamento o, viceversa, una diminuzione
della pena: ovviamente, sia l'aggravamento che l'attenuazione possono essere di tipo
quantitativo (ad es., aumento o diminuzione della penammo ad un terzo) o, al
contrario, di tipo qualitativo (ad es., passaggio dalla reclusione all'ergastolo). Le
circostanze aggravanti e quelle attenuanti, a loro volta, possono essere suddivise in
comuni o speciali: sono comuni le aggravanti e le attenuanti previste nella parte
generale del codice penale (artt. 61, 62,112 e 114), le quali sono applicabili a qualsiasi
reato; si definiscono, invece, speciali le circostanze che fanno riferimento esclusivo a
singoli reati (si pensi, ad es., agli artt. 625 e 628, co. 3 c.p.).
Si definiscono, poi, circostanze ad effetto proporzionale le aggravanti e le attenuanti in
presenza delle quali l'aumento o la diminuzione di pena si esplicano in un rapporto di
proporzione rispetto alla pena-base (ad es., la pena è aumentata fino alla metà); si
definiscono, invece, autonome le circostanze in presenza delle quali la legge stabilisce
una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il reato-base (si veda, ad es.,
l'art. 577, co. 1 c.p.).
Ancora, si definiscono circostanze ad effetto comune le circostanze che comportano un
aumento o una diminuzione della pena fino a un terzo della pena prevista per il reato
nella sua forma semplice; si definiscono, viceversa, circostanze ad effetto speciale
quelle circostanze che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore
ad un terzo della pena prevista per il reato non circostanziato. L'art. 70 c.p. distingue,
altresì, le circostanze in oggettive e soggettive:
• quelle oggettive concernono la natura, l'oggetto, il tempo, il luogo, la gravità del
danno
0del pericolo, le condizioni e le qualità dell'offeso;
• quelle soggettive riguardano l'intensità del dolo, il grado della colpa, le condizioni e
le qualità del colpevole e i rapporti tra il colpevole e l'offeso.
La dottrina prevalente distingue, ancora, le circostanze in intrinseche ed estrinseche: le
prime si riferiscono a uno o più elementi costitutivi del fatto tipico (così è, ad es., per
1nn. 3, 4 e 7 dell'art. 61 c.p.); le seconde, viceversa, fanno riferimento ad altri aspetti
dell'illecito, tali da condizionarne la gravità (così è, ad es., per i nn. 2, 6 e 8 dell'art. 62
c.p.).
Le circostanze si distinguono, poi, in antecedenti, concomitanti e successive, a
seconda che esse precedano, accompagnino ovvero seguano la condotta del soggetto
agente (antecedente è, ad es., la circostanza ex art. 61, n. 3 c.p.; concomitante è la
circostanza contenuta nell'art. 61, n. 4 c.p.; susseguente è la circostanza ex art. 62, n. 2
c.p.). Le circostanze del reato si distinguono, infine, in tipiche ed indefinite (o
discrezionali): le prime sono espressamente individuate dalla legge (si pensi, ad es., agli
artt. 61 e 62 c.p.); l'individuazione delle seconde, invece, è rimessa alla discrezionalità
del giudice (tali sono, ad es., le ed. attenuanti generiche, di cui all'art. 62 bis c.p., le
quali possono essere prese in considerazione dal giudice qualora le ritenga tali da
giustificare una diminuzione della pena).
§3.1 criteri di imputazione delle circostanze (art. 59 c.p.)
Nel testo originario del codice penale, il criterio di imputazione delle circostanze era di
carattere rigorosamente oggettivo: l'art. 59, co. 1 c.p. stabiliva, infatti, che, salvo che la
legge disponga altrimenti, le circostanze che aggravano o attenuano la pena sono
valutate a carico o a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute ovvero da lui
ritenute, per errore, inesistenti.
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Dal tenore della disposizione in esame si comprende che l'effetto di aggravamento o di
attenuazione della sanzione conseguiva automaticamente (vale a dire a prescindere
dall'atteggiamento psicologico del soggetto agente): così, ad es., chi sottraeva, al fine di
trarne profitto, dei gioielli di grande valore, rispondeva del fatto con l'aggravante
costituita dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, anche se,
per errore, aveva creduto di impossessarsi di bigiotteria di modestissimo valore. La
previsione ex co. 1 dell'art. 59 c.p. implicava, quindi (almeno con riferimento alle
aggravanti), una macroscopica lesione del principio di colpevolezza, in ragione del
fatto che si facevano ricadere sull'agente conseguenze di carattere sanzionatorio, a
prescindere dal legame psicologico con il dato da lui ignorato.
A quest'anomalia, ha posto, però, riparo l'art. 1 L. 19/90, attraverso il quale, infatti, il
legislatore ha riformulato il co. 1 dell'art. 59 c.p. ed ha inserito un nuovo co. 2, con il
dichiarato intento di separare la disciplina dell'errore sulle circostanze attenuanti da
quella dell'errore sulle circostanze aggravanti: a tal fine, il legislatore, per le attenuanti
(nuovo co. 1 dell'art. 59 c.p.) ha mantenuto ferma la regola della rilevanza oggettiva
(per cui, le circostanze che attenuano la pena sono valutate a favore dell'agente
anche se da lui non conosciute o da lui ritenute, per errore, inesistenti); quanto alle
aggravanti, invece, il nuovo co. 2 dell'art. 59 c.p. ha sostituito la regola della rilevanza
obiettiva con una disciplina fondata sul canone della responsabilità colpevole (in
pratica, le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente solo
se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore
determinato da colpa: in tal modo, chi, ad es., si impossessa di cose di ingente valore
risponderà di furto aggravato solo se conosceva il reale valore delle cose o, quanto
meno, era in condizione di poterlo conoscere, sulla base dei parametri delle doverosa
diligenza).
È bene precisare, in ogni caso, che le modifiche apportate dalla L. 19/90 al regime di
imputazione delle circostanze non hanno intaccato la regola della irrilevanza delle
circostanze putative (aggravanti ed attenuanti): stabilisce, infatti, l'attuale art. 59, co. 3
c.p. che, se l'agente ritiene, per errore, che esistano circostanze aggravanti o
attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui (tale regola, tuttavia,
subisce una deroga in relazione alla disciplina dell'errar in persona, ex art. 60 c.p.).
a) la disciplina dell'error in persona (art. 60 c.p.)
Prima ancora dell'intervento operato dalla L. 19/90, un'espressa deroga al criterio
dell'imputazione oggettiva delle circostanze aggravanti era contenuta nella norma di cui
all'art. 60, co. 1 c.p, il quale stabilisce che, nel caso di errore sulla persona offesa da
un reato, non sono poste a carico dell'agente le aggravanti concernenti le condizioni
o le qualità della persona offesa o i rapporti tra il colpevole e l'offeso: in tal modo,
non risponderà, ad es., dell'aggravante ex co. 1 dell'art. 577 c.p. (rubricato omicidio
contro l'ascendente o il discendente) chi uccida il proprio padre, scambiandolo, però,
per un'altra persona, o chi commetta un reato in danno di un pubblico ufficiale nell'atto
di adempiere le sue funzioni (art. 61, n. 10 c.p.), ignorandone, però, la qualifica.
Il co. 2 dell'art. 60 c.p. precisa, invece, che sono valutate a favore dell'agente le
circostanze attenuanti, erroneamente supposte, concernenti le condizioni, le qualità
o i rapporti predetti: in questa prospettiva, potrà invocare, ad es., l'attenuante della
provocazione anche chi uccida o ferisca taluno, nella erronea convinzione di avere a
che fare con la persona che aveva commesso ai suoi danni il fatto ingiusto (art. 62, n. 2
c.p.). Con l'art. 60, co. 3 c.p., il legislatore ripristinava, tuttavia, la regola generale della
rilevanza obiettiva delle circostanze: questa norma stabiliva, infatti, che le disposizioni
precedenti non possono trovare applicazione in presenza di circostanze riguardanti
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l'età o altre condizioni o qualità psicofìsiche della persona offesa. E, però, nonostante
il tenore lampante della disposizione in esame, è necessario sottolineare che, dopo
l'entrata in vigore della L.19/90, anche per le circostanze relative all'età o ad altre
condizioni o qualità psicofisiche della persona offesa dovrà obbligatoriamente valere la
regola in virtù della quale l'agente potrà rispondere della circostanza aggravante solo
se questa era da lui conosciuta o conoscibile con l'ordinaria diligenza: in tal modo, ad
es., non potrà essere imputata l'aggravante di cui all'art. 4 L. 75/58 a colui che agevoli la
prostituzione di una minorenne, credendola maggiorenne, per errore scusabile, ovvero a
colui che determini al suicidio un minore di anni 18, ignorandone incolpevolmente la
minore età (art. 580 c.p. in relazione all'art. 579, n. 1 c.p.).
b) i reati aggravati dall'evento
Si parla di reati aggravati dall'evento nei casi in cui il verificarsi di un evento, come
conseguenza della condotta del soggetto agente, comporta l'applicazione di una pena
più grave di quella prevista per la realizzazione della medesima condotta in assenza
dell'evento o in presenza di un evento meno grave: così, ad es., l'art. 571 c.p., mentre
punisce con la reclusione fino a 6 mesi chi abusa dei mezzi di correzione, quando ne
derivi il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, prevede l'applicazione di
pene più severe quando ne derivi una lesione personale o, addirittura, la morte. A ben
vedere, però, la categoria dei reati aggravati dall'evento dà luogo, nel nostro
ordinamento, a una grave anomalia, perché essa si sostanzia nell'imputazione di una
circostanza (che, poi, corrisponde all'evento del reato) sulla base di un puro criterio
oggettivo: non a caso, la figura del reato aggravato dall'evento costituisce una classica
ipotesi di responsabilità oggettiva.
È doveroso precisare, in ogni caso, che con la problematica relativa ai reati aggravati
dall'evento non hanno nulla a che vedere quei casi in cui la legge, nell'incriminare in via
autonoma le condotte intenzionalmente dirette a cagionare un determinato evento,
preveda l'applicazione di pene più severe nell'ipotesi in cui il risultato perseguito
dall'agente abbia oggettivamente a realizzarsi (proponiamo, a tal riguardo, l'esempio
seguente: l'art. 243 c.p., mentre - al co. 1 - punisce, con la reclusione non inferiore a 10
anni, chi tiene intelligenze con lo straniero, affinché uno Stato estero muova guerra
contro lo Stato italiano, al co. 2 stabilisce che se la guerra segue si applica l'ergastolo:
ora, come si può notare, a differenza del reato aggravato dall'evento, qui la condotta
dell'agente è fin dall'inizio diretta a realizzare l'evento in questione - scoppio della
guerra -, per cui, qualora lo stesso dovesse verificarsi, l'agente ne risponderà, avendolo
cagionato intenzionalmente).
Da quanto detto si intuisce, quindi, che solo al di fuori delle ipotesi su menzionate (delle
quali l'art. 243 c.p. costituisce un valido esempio) l'evento più grave, cagionato dalla
condotta del soggetto agente, potrà configurarsi come circostanza del reato ed il
relativo regime giuridico sarà quello previsto dal nuovo co. 2 dell'art. 59 c.p.: ciò sta a
significare, dunque, che la circostanza aggravante, costituita dall'evento, sarà
imputabile all'autore solo nel caso in cui egli se la sia rappresentata o avrebbe dovuto
rappresentarsela come possibile conseguenza della propria condotta.
§4. L'applicazione delle circostanze
Per ciò che concerne l'applicazione delle circostanze bisogna distinguere diverse
ipotesi: • qualora ricorra una sola circostanza (aggravante o attenuante) ad effetto
proporzionale, il giudice praticherà l'aumento o la diminuzione in misura
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proporzionale (ad es., un terzo, la metà, etc.) sulla pena-base preventivamente
determinata;
• qualora ricorra una circostanza autonoma, il giudice procederà, invece, a stabilirne
in concreto la misura, dato che, in presenza di una circostanza di questo tipo, la pena è
fissata dalla legge in modo indipendente da quella prevista per il reato-base;
• nel caso in cui ricorrano più circostanze, tutte aggravanti o tutte attenuanti (ed.
concorso omogeneo), si farà luogo a tanti aumenti o a tante diminuzioni di pena, in
conformità a quanto stabilito dal co. 2 dell'art. 63 c.p., cui si rinvia per un'articolata
disamina);
• qualora ricorrano contemporaneamente circostanze aggravanti e circostanze
attenuanti (è il ed. concorso eterogeneo) il giudice, invece, dovrà procedere, in virtù
dell'art. 69 c.p., ad un giudizio di comparazione tra le due serie di circostanze, in
conseguenza del quale egli:
• potrà dichiarare equivalenti tra loro le aggravanti e le attenuanti, con l'effetto di
escludere ogni modificazione della pena-base (come se il reato non fosse mai stato
circostanziato);
• potrà ritenere la prevalenza delle aggravanti o, al contrario, delle attenuanti, con la
conseguente applicazione delle une o delle altre (nel rispetto delle regole di cui agli artt.
63-68 c.p.).
È bene precisare, in ogni caso, che sulla disciplina del giudizio di comparazione è, di
recente, intervenuta la L. 251/2005 (ed. ex Ciriclli), attraverso la quale il legislatore ha
inteso ridurre gli spazi di discrezionalità del giudice: in dettaglio, con questa legge (che
ha aggiunto un ultimo comma all'art. 69 c.p.) è preclusa al giudice la possibilità di
procedere ad un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti nei casi in cui la
comparazione abbia ad oggetto la recidiva reiterata o le circostanze di cui agli artt. Ili e
112, co. 1, n. 4 c.p. La nuova regola introdotta dalla legge del 2005 appare, però,
illegittima (in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.), perché essa non si limita soltanto ad
escludere la soccombenza di determinate circostanze aggravanti (in modo specifico, la
recidiva), ma finisce per attirare, nel del divieto di prevalenza, tutte le circostanze
attenuanti (a prescindere dal loro numero, dalla loro natura ovvero dal loro grado di
significatività).
§5. Le singole circostanze
a) le circostanze aggravanti comuni (art. 61 c.p.)
L'art. 61 c.p. disciplina le seguenti circostanze aggravanti comuni:
• art. 61, n. 1 (l'aver agito per motivi abietti o futili): è abietto il motivo turpe o
ignobile, cioè quello che fa emergere la particolare perversità del reo, così da suscitare
un forte senso di riprovazione nella coscienza morale dei consociati (si pensi, ad es., al
caso di chi uccida un uomo per mantenere la relazione con la di lui moglie); il motivo si
definisce, invece, futile quando lo stimolo a delinquere è talmente lieve da apparire
insufficiente a provocare il delitto (si pensi, ad es., al reato commesso al solo scopo di
dar sfogo alla propria prepotenza teppistica);
• art. 61, n. 2 (l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, o per
conseguire il prodotto, il profitto o il prezzo ovvero l'impunità di un altro reato):
nell'aggravante in esame viene, innanzitutto, in rilievo la ed. connessione teleologica,
che sussiste quando il reato è stato commesso per eseguirne un altro; successivamente,
viene in rilievo la ed. connessione conseguenziale, che sussiste, invece, quando il reato
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è stato commesso al fine di occultarne un altro (si pensi, ad es., all'occultamento di
cadavere a seguito di omicidio);
• art. 61, n. 3 (l'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento):
questa circostanza, come si può notare, corrisponde alla nozione di colpa cosciente;
• art. 61, n. 4 (l'aver adoperato sevizie o l'aver agito con crudeltà verso le persone):
adoperare sevizie significa infliggere alla vittima sofferenze fisiche assolutamente non
necessarie ai fini della commissione del reato (ad es., torturare senza necessità un
sequestrato); agire con crudeltà significa, invece, infliggere alla vittima delle
sofferenze morali che eccedono quelle, di regola, necessarie a commettere il reato
(come, ad es., costringere la vittima designata a scavarsi la fossa);
• art. 61, n. 5 (l'aver profittato di circostanze di tempo, di luogo ovvero di persona,
anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa): con
riferimento a questa aggravante (che prende il nome di minorata difesa), l'inciso
profittare sta a significare che il soggetto agente si avvantaggia di una situazione
favorevole, sia essa casuale o dallo stesso provocata; con l'inciso circostanze di tempo e
di luogo, invece, si intende far riferimento a quelle particolari situazioni ambientali (ad
es., il furto commesso in una casa abbandonata, in fretta, dai suoi abitanti a seguito di
una calamità naturale) e temporali (ad es., la notte) nelle quali si realizza il reato; le
circostanze concernenti le persone, infine, sono quelle che si riferiscono al soggetto
passivo del reato e, in modo particolare, al suo stato di menomazione (si pensi, ad es.,
all'aggressione realizzata ai danni di una persona incapace di difendersi o di reagire,
perché mutilata). Occorre precisare, infine, che l'inciso anche in riferimento all'età è
stato aggiunto con l'entrata in vigore della L. 94/2009 (per età si deve intendere,
ovviamente, sia quella senile che quella infantile);
• art. 61, n. 6 (l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è
sottratto volontariamente all'esecuzione di un mandato ovvero di un ordine di arresto
o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato): l'aggravante in parola
ha natura soggettiva, dato che si riferisce ad una particolare condizione del colpevole
(e, precisamente, a quella di latitante);
• art. 61, n. 7 (l'avere, nei delitti contro il patrimonio o che offendono il patrimonio
ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal
reato un danno patrimoniale di rilevante gravità): l'aggravante in parola si applica ad
un'ampia serie di ipotesi, visto che, oltre ai reati che hanno propriamente come oggetto
il patrimonio, essa si applica anche a quelli che comunque possono offenderlo (si
pensi, ad es., ai casi di falso, concussione, malversazione e peculato), nonché a quelli
determinati da motivi di lucro;
• art. 61, n. 8 (l'aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto
commesso): quest'aggravante si traduce, molto spesso, in elemento costitutivo o in
circostanza aggravante di un altro reato (si pensi, ad es., al caso di chi ostacoli i soccorsi
dopo un ferimento o di chi rimuova un bendaggio con cui la vittima cercava di
tamponare la ferita);
• art. 61, n. 9 (l'aver commesso il fatto con abuso di poteri o con violazione di doveri
inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di
ministro di un culto): come si può notare, per l'applicabilità di quest'aggravante è
necessario che l'abuso presenti un nesso di strumentatila con il reato commesso (ad
es., abusi sessuali da parte di un insegnate sulla scolaresca);
• art. 61, n. 10 (l'aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona
incaricata di un pubblico servizio o rivestita della qualità di ministro del culto
cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o
consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o
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del servizio): l'aggravante in esame è diretta ad assicurare una tutela rafforzata a
determinati soggetti, in ragione del ruolo da essi rivestito;
• art. 61, n. 11 (l'aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni
domestiche, o con abuso di relazioni d'ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione
ovvero di ospitabilità): la circostanza in esame, che ha natura soggettiva (perché
attiene ai rapporti intercorrenti tra il colpevole e l'offeso) colpisce un aspetto
dell'illecito penale, all'interno del quale si manifestano diverse forme di abuso di
rapporti fiduciari (quali, relazioni domestiche, coabitazione, ospitabilità, etc), tali da
creare le condizioni ideali e idonee ad agevolare la commissione di specifici reati;
• art. 61, n. 11 bis (l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente
nel territorio nazionale): la circostanza aggravante in esame, introdotta dalla L.
125/2008, si inserisce, a ben vedere, in quel filone di misure penali, attraverso cui il
legislatore cerca di fornire risposte (il più delle volte inefficaci) al clima di allarme
sociale che, in Italia, si è creato intorno ai fenomeni di criminalità, che vedono come
agenti cittadini extracomunitari (non a caso, a norma dell'art. 1, co. 1 L. 94/2009, la
disposizione in esame si intende riferita ai cittadini di paesi non appartenenti all'Ile ed
agli apolidi). Con l'introduzione di quest'aggravante, quindi, viene ridata vita a una
figura tristemente nota alla nostra memoria (ci riferiamo al ed. tipo di autore): ciò in
considerazione del fatto che l'extracomunitario, illegalmente presente in Italia, viene
punito (per aver commesso il reato) più gravemente (rispetto al cittadino comunitario)
sulla base di una pura condizione soggettiva, che non solo non incide sulla gravità
oggettiva del fatto, ma che non consente neppure di presumere, in alcun modo, un più
elevato grado di pericolosità dell'autore: di conseguenza, la norma appare certamente
lesiva del principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost.: e, non a caso, la Corte Cost. con le
sentt. 249 e 250/2010 ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale);
• art. 61, n. 11 ter (l'aver commesso un delitto contro la persona, ai danni di un
soggetto minore, all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o formazione):
l'aggravante in esame, introdotta dalla L. 94/2009, essendo connessa al luogo di
realizzazione del fatto, lascia molto perplessi; perciò, nella prospettiva di una lettura
restrittiva della norma, si può affermare che l'aggravante potrà ritenersi sussistente solo
nel caso in cui il contesto spaziale preso in considerazione denoti, concretamente, la
maggiore gravità del fatto (in tal senso, ad es., non si potrà invocare l'aumento di pena
per un delitto realizzato nei confronti di un minorenne che non frequenti quella scuola,
ma che solo casualmente si trovi nelle adiacenze di quell'istituto).
b) Le circostanze attenuanti comuni (art. 62 c.p.)
L'art. 62 c.p. disciplina le seguenti circostanze attenuanti comuni:
• art. 62, n. 1 (l'aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale):
l'attenuante in parola fa riferimento a quegli impulsi psicologici che possono
determinare l'agente ad agire e che trovano particolare considerazione da un punto di
vista etico-sociale (si pensi, ad es., ai motivi politici non contrastanti con
l'ordinamento); non sono, invece, tali la gelosia, l'eutanasia o il fine di eversione
dell'ordinamento costituzionale;
• art. 62, n. 2 (l'aver agito in stato d'ira, determinato da un fatto ingiusto altrui): con
riferimento a quest'attenuante (che prende il nome di provocazione), per stato d'ira si
intende la perdita di controllo delle proprie azioni (tale stato, quindi, non va confuso
con sentimenti di carattere diverso, quali l'odio, la gelosia, etc); per fatto ingiusto
altrui si intende, invece, qualsiasi comportamento che sia contrario a norme giuridiche
o anche a precetti morali o di costume, accettati in un contesto di civile convivenza (si
pensi, ad es., all'infedeltà coniugale);
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• art. 62, n. 3 (l'aver agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si
tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall'autorità, e il colpevole
non è delinquente o contravventore abituale o professionale o delinquente per
tendenza): in relazione a questa attenuante, è importante precisare il significato
dell'inciso folla in tumulto: con esso si designa, tradizionalmente, l'agire tumultuoso
di una moltitudine di persone, che crea una confusione turbolenta, in grado di allentare
i freni inibitori del soggetto agente, spingendolo, così, a commettere reati (è bene
sottolineare, però, che l'attenuante in esame non potrà essere invocata da chi si sia
mescolato alla folla proprio allo scopo di commettere il reato);
• art. 62, n. 4 (l'avere, nei delitti contro il patrimonio, cagionato alla persona offesa
un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti determinati da motwi di
lucro, l'aver agito per conseguire un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento
dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità): la circostanza qui descritta è la ed.
attenuante del danno di lieve entità e risulta speculare alla corrispondente aggravante
del danno di rilevante gravità, ex art. 61, n.7c.p.);
• art. 62, n. 5 (l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o
l'omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa): è bene precisare che
per la configurabilità di quest'attenuante non è sufficiente che la persona offesa abbia
contribuito, con la propria condotta, alla causazione dell'evento, ma è necessario che la
stessa, sotto il profilo psicologico, abbia avuto di mira lo stesso evento preveduto e
voluto dall'agente (ciò comporta, pertanto, un'estrema difficoltà di applicazione
dell'attenuante nei casi concreti);
• art. 62, n. 6 (l'avere, prima del giudizio, riparato il danno, mediante il risarcimento
di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio
e fuori del caso preveduto nell'ultimo cpv. dell'art. 56, adoperato spontaneamente ed
efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato):
la norma in esame disciplina, anzitutto, la riparazione del danno mediante il
risarcimento e le restituzioni (in particolare, il risarcimento, che deve essere
volontario, può anche essere effettuato da una persona diversa incaricata dal colpevole,
ma in ogni caso, deve essere integrale; la restituzione, invece, deve essere volontaria,
ma non necessariamente spontanea); la seconda parte della norma disciplina, invece,
l'ipotesi della riparazione del danno mediante l'elisione delle conseguenze del fatto
criminoso (si tratta, come si può notare, di un'ipotesi che fa riferimento alle
conseguenze del reato, che non possono essere eliminate mediante il risarcimento:
come, ad es., in caso di ferimento).
§6. Le attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.)
L'art. 62 bis c.p. stabilisce che il giudice, indipendentemente dalle circostaiize
prevedute nell'art. 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse,
qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una
sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze
indicate nell'art. 62.
L'art. 62 bis c.p. (inserito nel codice penale con il d.lgs.lt. 288/44) riprende, in realtà,
una figura già esistente nel codice del 1889 e che il codice del 1930 aveva soppresso,
nell'intento di restringere gli spazi di discrezionalità del giudice. Con la loro
reintroduzione nel sistema, quindi, il legislatore ha inteso concedere al giudice la
possibilità di adeguare la pena al caso concreto, cogliendo, ove esistente, un valore
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attenuante nel fatto punibile (un valore che, anche se posto al di fuori della
tipizzazione legislativa, non per questo può sfuggire al diritto).
Detto ciò, è bene precisare, comunque, che le attenuanti generiche, essendo applicabili
a qualsiasi tipo di reato, sotto un profilo classificatorio, devono essere considerate alla
stregua di circostanze comuni; a differenza di queste ultime, però, le attenuanti
generiche appartengono, come detto in precedenza, alla categoria delle circostanze
indefinite e discrezionali, essendo rimessa al giudice la ricerca e l'apprezzamento del
valore attenuante.
Per quanto riguarda, infine, l'aspetto applicativo, occorre precisare che le attenuanti
generiche sono obbligatorie, nel senso che, una volta riconosciuta l'esistenza del dato
circostanziale attenuante, il giudice deve obbligatoriamente tenerne conto ai fini della
diminuzione della pena.
È necessario sottolineare, in ogni caso, che anche l'art. 62 bis c.p. è stato modificato a
seguito dell'entrata in vigore della L. 251/2005: la novella, infatti, prevede che, nel caso
in cui vi sia stata dichiarazione di recidiva reiterata, se il reato commesso è uno di quelli
previsti ex art. 407, co. 2 lett. a) c.p.p. ed è punito con una pena non inferiore a 5 anni, il
giudice (nel decidere se concedere o meno al reo le attenuanti generiche) non può tener
conto dell'intensità del dolo e degli indici riguardanti la sua capacità a delinquere.
La riforma in esame, però, a parte i modesti effetti che gioca su di un piano
politico-criminale, appare irragionevole, dal momento che né la condizione di recidivo,
né gli elencati reati in sé considerati escludono il fatto che, nel caso di specie, il dolo
possa essere di minore intensità o che sia possibile apprezzare una diversa graduazione
della capacità a delinquere del reo.
§7. La recidiva
Ai sensi dell'art. 99, co. 1 c.p. (modificato ex L. 251/2005), si considera recidivo colui
che dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro.
Dalla lettura della disposizione citata, se ne deve dedurre che la nozione di recidiva,
in realtà, non va riferita al semplice fatto che il colpevole è ricaduto nel reato, quanto
piuttosto alla circostanza che egli ha commesso un delitto non colposo, dopo essere
stato già condannato per un precedente delitto non colposo; per cui, ove si verifichi
una situazione del genere, il nostro codice penale prevede che il reo possa essere
assoggettato ad un aumento della pena da infliggere in concreto.
Le diverse ipotesi di recidiva sono disciplinate dagli artt. 99 e 101 c.p.: analizziamole,
iniziando dalla recidiva semplice.
La recidiva si definisce semplice nel caso in cui il reo, dopo aver subito una condanna
per un qualsiasi delitto doloso, commette un nuovo delitto doloso (art. 99, co. 1 c.p.): in
questo caso, la legge prevede l'aumento (facoltativo) fino ad un terzo della pena da
infliggere per il nuovo delitto (doloso).
La recidiva si definisce, invece, aggravata, quando il reato è stato commesso durante o
dopo l'esecuzione della pena ovvero durante il tempo in cui il condannato si è sottratto,
in modo volontario, all'esecuzione della pena: in tal caso, la legge prevede un aumento
(facoltativo) della pena fino alla metà (art. 99, co. 2 c.p.). La recidiva aggravata, a sua
volta, si distingue in specifica ed infraquinquennale; in particolare: la recidiva
aggravata si definisce specifica quando il nuovo delitto (non colposo) è della stessa
indole del delitto oggetto della precedente condanna (ai sensi dell'art. 101 c.p., reati
della stessa indole sono non solo quelli che violano una identica norma di legge, ma
anche quelli che, pur essendo previsti da disposizioni diverse, presentano, nei casi
concreti, caratteri fondamentali comuni: si pensi, ad es., alla truffa, alla bancarotta
fraudolenta e alla frode fiscale).
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La recidiva aggravata si definisce, invece, infraquinquennale nei casi in cui il
colpevole commetta il nuovo delitto (doloso) nei cinque anni dalla condanna
precedente.
In relazione alla tematica riguardante la recidiva aggravata, appare utile sottolineare,
tra l'altro, che, qualora siano presenti entrambi le ipotesi che ad essa danno luogo (e,
quindi, sia la recidiva specifica che quella infraquinquennale), l'aumento (definito,
oggi, in misura fissa) è della metà della pena da infliggere (art. 99, co. 3 c.p.).
La recidiva si definisce, ancora, reiterata quando, chi versa già nella condizione di
recidivo, commette un altro delitto doloso; anche in questo caso gli aumenti di pena
sono determinati in misura fissa e sono: della metà, ove si tratti di recidiva semplice, e
di due terzi, nei casi di recidiva aggravata (art. 99, co. 4 c.p.).
Infine, con il co. 5 dell'art. 99 c.p. (introdotto con la L. 251/2005), il legislatore ha
previsto un'ipotesi di recidiva obbligatoria quando il nuovo reato commesso è uno dei
delitti indicati all'art. 407, co. 2 leti, a) c.p.p.: è necessario sottolineare, tuttavia, che in
merito a questa nuova figura si nutrono (a ragione) molte perplessità, dal momento che
la scelta (inopportuna) di reintrodurre nel sistema ipotesi di obbligatorietà non solo si
presenta in contrasto con molte pronunce della Consulta, ma fa arretrare la nostra
cultura, riportandola indietro di più di trent'armi (a prima della riforma del 1974, con la
quale, tra l'altro, la dichiarazione di recidiva era stata resa facoltativa). Pertanto, non
può meravigliare affatto che l'inasprimento prodotto dalla recente riforma abbia
fomentato le controversie concernenti il fondamento politico-criminale della recidiva:
al riguardo, v'è da dire che la dottrina retribuzionistica ha sempre considerato con un
certo sfavore l'istituto in esame, dato che l'aggravamento di pena, correlato a episodi di
vita antefatta del reo, non appariva per nulla in sintonia con l'idea di un rigido rapporto
di proporzione tra la gravità del reato e la pena da infliggere in concreto. Non a caso, la
funzione politico-criminale della recidiva risulta molto più tangibile nel quadro di
un'impostazione di tipo special-preventivo: infatti, la ricaduta nel delitto rappresenta
un indice di accentuata capacità a delinquere dell'agente, nei confronti del quale c'è
bisogno, quindi, di un più penetrante intervento da parte dello Stato.
Sezione II
Il delitto tentato
Capitolo unico
§1. Nozione generale di tentativo e suo fondamento politico-criminale
Sotto il profilo normativo, la figura del tentativo evoca il concetto della consumazione
del reato: e ciò perché l'idea stessa del tentativo è concepibile solo facendo riferimento
alla nozione del reato consumato, in cui sono presenti tutti gli elementi descritti nella
norma incriminatrice che lo prevede (ivi compreso l'evento lesivo).
Ragionando in questi termini, dunque, la nozione del tentativo appare strettamente
collegata al concetto dell'iter criminis, nel quale l'illecito (doloso) si presenta come un
processo che si snoda in quattro diverse fasi:
• l'ideazione del reato, che culmina nella risoluzione ad agire (o ad omettere);
• la preparazione del reato, che è soltanto una fase eventuale (propria di quei reati
particolarmente complessi);
• l'esecuzione del reato, che rappresenta la fase corrispondente all'attivazione o al non
impedimento dei decorsi causali capaci di condurre, sotto il profilo oggettivo, alla
produzione dell'offesa;
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• la consumazione del reato, che rappresenta il momento nel quale si produce l'offesa
al bene protetto.
A tal riguardo, occorre precisare, comunque, che, almeno negli ordinamenti penali
contemporanei, una condotta che si arresti alla semplice fase dell'ideazione è sempre
considerata irrilevante, in forza del principio cogitationis poenam nono patitur:
nessuno può subire una pena per i suoi pensieri.
Viceversa, l'avvenuta consumazione del reato, rappresentando il momento conclusivo
dell'iter criminis, toglie qualsiasi spazio di rilevanza alla figura del tentativo (che, per
definizione, concerne le ipotesi in cui il fatto tipico non è stato realizzato per intero). Di
conseguenza (ragionando a contrario), è facile intuire che l'ambito della rilevanza del
tentativo fluttua tra la fase della preparazione e quella dell'esecuzione del reato. Per
quanto riguarda, invece, la questione riguardante il fondamento politico-criminale
dell'istituto, nella nostra cultura giuridica si sono sempre contrapposte due diverse
teorie: quella soggettiva e quella oggettiva. Più precisamente:
• nel quadro della teoria soggettivistica, la condotta di tentativo viene equiparata a
quella del delitto consumato (perché in entrambi i casi si manifesterebbe la volontà di
ribellione del soggetto agente alla norma giuridica);
• viceversa, nel quadro della teoria oggettivistica (sulla quale si fonda la figura del
tentativo nel nostro sistema), il tentativo ha una minore rilevanza penale (rispetto al
reato consumato), per il semplice motivo che l'evento lesivo qui non si è realizzato.
§2. Gli elementi della fattispecie del delitto tentato (art. 56 c.p.)
L'art. 56, co. 1 c.p. stabilisce che chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a
commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento
non si verifica.
Volendo analizzare, in dettaglio, questa disposizione, si evince che la punibilità del
tentativo, nel nostro ordinamento, è limitata soltanto ai delitti, restando esclusa per le
contravvenzioni: queste ultime, infatti, dal punto di vista strutturale, non sembrano
compatibili con la figura del tentativo, perché rappresentano già forme anticipate di
tutela di determinati beni giuridici.
È il caso di segnalare, inoltre, che la figura del delitto tentato (così come delineata ex
art. 56 c.p.) ha un senso solo in rapporto ai delitti dolosi, dato che la condotta colposa,
proprio per sua natura, non può consistere in atti diretti a commettere un delitto. È bene
precisare, infine, che la fattispecie - generale ed astratta - del delitto tentato scaturisce
dalla puntuale combinazione delle singole ipotesi di delitto, incriminate nella parte
speciale del codice, con lo schema generale delineato nell'art. 56 c.p., in mancanza del
quale, quindi, il tentativo di un delitto non potrebbe essere punito per carenza di tipicità:
ciò significa che non si potrà configurare una fattispecie a sé stante di delitto tentato,
ma solo tipiche fattispecie di tentato omicidio, tentata violenza carnale, tentato furto,
etc.
Ai sensi del co. 2 dell'art. 56 c.p., il delitto tentato è punito con una pena inferiore a
quella prevista per il corrispondente delitto consumato: infatti, nei casi di ergastolo, si
applica la reclusione dai 12 ai 24 anni; negli altri casi, invece, la pena stabilita per il
delitto consumato è diminuita da un terzo a due terzi.
Fatta questa disamina, a questo punto occorre notare che l'art. 56 c.p. disciplina, in
realtà, due distinte fattispecie di delitto tentato:
• il tentativo incompiuto, ove la condotta si realizza solo parzialmente (si pensi, ad es.,
al caso in cui un ladro venga sorpreso dalla polizia nell'atto di perforare, con una
fiamma ossidrica, una cassaforte, allo scopo di asportarne il contenuto);
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• il tentativo compiuto, nel quale, invece, l'azione tìpica si realizza per intero, ma quel
che viene a mancare è l'evento voluto dall'agente (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio
esploda contro Caio, a scopo omicida, uno o più colpi di pistola, i quali, però, vanno a
vuoto).
In definitiva, dall'attenta analisi dell'art. 56 c.p. si ricavano i requisiti essenziali della
condotta punibile come tentativo; essi sono:
• il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto;
• la mancata consumazione del medesimo delitto, che non dipenda da una volontaria
risoluzione dell'agente.
§3.1 requisiti della fattispecie oggettiva del delitto tentato
a) l'idoneità degli atti di tentativo
Per quel che concerne la fattispecie oggettiva del delitto tentato, la prima questione che
bisogna affrontare è quella che riguarda l'inizio dell'attività punibile: la controversia
riguarda essenzialmente la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi. Al riguardo,
invero, il nostro ordinamento giuridico ha visto il passaggio da una formula (quella
utilizzata dal codice Zanardelli), in cui la punibilità degli atti di preparazione era
normalmente esclusa, all'attuale disciplina normativa, in cui, invece, la distinzione tra
atti preparatori e atti esecutivi non è, in alcun modo, presa in considerazione:
• infatti, l'art. 61 c.p. del 1889 indicava come colpevole di delitto tentato chi, alfine di
commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione;
• il codice del 1930, viceversa, ha ripudiato la formula del ed. cominciamento di
azione, sostituendovi, come detto in precedenza, l'indifferenziato riferimento al
compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto (ex
art. 56 c.p.); e ciò, ovviamente, nel dichiarato intento di superare la distinzione tra atti
preparatori e atti esecutivi.
Tuttavia, è necessario sottolineare che, attualmente, la premessa per una rilettura del
dettato legislativo contenuto nell'art. 56 c.p. è costituita dalla valorizzazione, sotto il
profilo sistematico, di un'altra norma presente nel nostro codice, vale a dire l'art. 115:
questa norma, infatti, stabilisce che quando due o più persone si accordano per
commettere un delitto e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il
solo fatto dell'accordo. Ora, alla luce di quest'enunciato, appare, in realtà,
inconcepibile che determinati atti (come quelli, ad es., di organizzazione, di
allestimento dei mezzi, di ricognizione dei luoghi, etc.) siano da considerare non
punibili, se commessi in occasione di un accordo (ex art. 115 c.p.) e punibili, per
contro, se commessi da un individuo isolato (ex art. 56 c.p.). In questa prospettiva,
quindi, bisogna giungere alla conclusione che all'art. 115 c.p. si deve riconoscere una
ed. forza di espansione logica, tale da indurre a riservare lo stesso trattamento giuridico
a tutti quegli atti che, anche se non sono commessi in occasione di un accordo,
presentano, tuttavia, la loro stessa natura giuridica. Così ragionando, allora, potranno (e
dovranno) essere considerati idonei gli atti non meramente preparatori, bensì
esecutivi del delitto intrapreso, che siano, quanto meno, riconducibili alla categoria dei
ed. atti iniziali: così, ad es., non saranno, di regola, considerati atti iniziali l'acquisto di
un potente veleno o la pulizia di un'arma, con i quali si intende commettere un omicidio,
o l'approntamento di un falso documento al fine di realizzare una truffa (tali atti, infatti,
sono sì idonei a realizzare la specifica finalità a cui ciascuno di essi è destinato, ma,
come in genere si ammette, condotte di questo genere non sono considerate attività
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punibili come tentativo, in ragione del fatto che il requisito dell'idoneità degli atti deve
essere delimitato ai soli atti concreti e cioè esecutivi del delitto).
Una volta stabilito il significato del termine idoneità, occorre analizzare lo schema che
il giudice è chiamato a utilizzare, onde stabilire l'idoneità degli atti; a tal proposito, va
tenuto presente che l'idoneità degli atti di tentativo deve essere valutata mediante un
giudizio prognostico: in pratica, il giudice, riportandosi idealmente nella posizione in
cui il soggetto agente si trovava al momento del fatto, dovrà accertare, sulla base delle
conoscenze proprie di un uomo medio (arricchite eventualmente delle ulteriori
conoscenze dell'autore concreto), se gli atti fino a quel momento compiuti rendevano
probabile la consumazione del delitto.
Ragionando in questi termini, gli atti potranno essere considerati inidonei qualora, ad
es., venga a mancare l'oggetto materiale dell'azione, come nel caso di chi esploda dei
colpi di fucile contro una casa disabitata, da cui la vittima è assente da tempo; gli atti,
per contro, saranno considerati idonei laddove la mancanza dell'oggetto dell'azione sia
del tutto occasionale, come nel caso in cui la vittima si sia spostata in un ambiente
diverso della stessa casa, contro la cui finestra vengono esplosi dei colpi di fucile.
b) l'univocità degli atti di tentativo
Gli atti, come già detto, oltre ad essere idonei devono anche essere diretti in modo non
equivoco alla commissione di un delitto; in relazione a questo punto, però, parte della
dottrina ritiene che il requisito dell' univocità abbia soltanto una valenza probatoria:
varrebbe, in altri termini, a provare il dolo dell'agente.
Viceversa, altra parte della dottrina sostiene che l'univocità andrebbe desunta dalle
caratteristiche intrinseche della condotta, così da poterla cogliere in modo oggettivo.
Ad onor del vero, però, gli orientamenti della dottrina dominante, ma soprattutto la
maggior parte delle soluzioni offerte dalla giurisprudenza, sembrano confermare che gli
atti di tentativo possono essere considerati diretti in modo non equivoco a commettere
un delitto quando essi si presentino prossimi all'esecuzione del reato (sia dal punto di
vista spazio-temporale, che da quello logico-causale): in questa prospettiva, allora, il
tentativo, ad es., sarà da considerare punibile nel caso di malviventi sorpresi nelle
immediate adiacenze di una banca, con pistole cariche ed in possesso di una serie di
strumenti idonei a compiere una rapina, con le auto parcheggiate in modo tale da
facilitare la fuga; e lo si escluderà, per contro, se il proposito criminoso è scoperto
quando i banditi, pur avendo predisposto ogni cosa, non si sono, tuttavia, ancora mossi
dalla loro base logistica.
§4. L'elemento psicologico del delitto tentato
a) tentativo e dolo eventuale
L'atteggiamento psicologico rilevante per il tentativo è costituito dal dolo: questo lo si
desume sia dalla struttura dell'azione del tentare, sia dalla formula propria dell'art. 56
c.p., che implica la direzione degli atti verso la commissione di un delitto. In nessun
caso, quindi, potrebbe ipotizzarsi un delitto colposo tentato, anche perché
mancherebbe, in questo caso, una espressa previsione legislativa; allo stesso modo, il
tentativo non è configurabile neppure nel delitto preterintenzionale, perché il delitto
più grave è un delitto ormai consumato, mentre gli atti diretti a realizzare il delitto meno
grave hanno cagionato un evento più grave di quello voluto dall'agente. Una questione
alquanto controversa concerne, invece, il rapporto tra tentativo e dolo eventuale: al
riguardo, parte della dottrina sembra orientata per la non configurabilità del dolo
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eventuale, dal momento che non si potrebbe considerare diretta in modo non equivoco
alla commissione di un delitto l'azione di chi si rappresenta solo come possibile la
verificazione di un certo evento. E, però, come ha precisato la dottrina dominante, non
si comprende il motivo per il quale ciò che al momento dell'azione sarebbe sufficiente a
costituire l'agente in dolo eventuale, rispetto al delitto consumato, ex post dovrebbe
ritenersi insufficiente, se l'evento non si verifica per ragioni indipendenti dalla volontà
dell'agente: così, ad es., se Tizio, al fine di cagionare la morte di Caio, gli esplode
contro una rivoltellata, prevedendo che da ciò potrà anche derivare la morte di Mevio,
che cammina accanto a Caio, Tizio risponderà, qualora Mevio resti illeso o ferito, anche
di tentato omicidio nella persona di costui, così come avrebbe risposto di omicidio
doloso nel caso in cui Mevio fosse rimasto ucciso.
b) tentativo e circostanze
Particolarmente interessante è, poi, anche il rapporto tra delitto tentato e circostanze
del reato; a tal proposito, la dottrina suggerisce di distinguere, in via preliminare, due
ipotesi: il tentativo di delitto circostanziato e il tentativo circostanziato di delitto. Il
tentativo di delitto circostanziato è un tentativo di un delitto che, ove fosse pervenuto a
consumazione, sarebbe stato qualificato da una o più circostanze: tale è, ad es., nel
piano dell'agente, l'azione diretta allo svuotamento di una cassaforte contenente dei
gioielli di inestimabile valore).
Tuttavia, in questa sede, è opportuno sottolineare che l'art. 59 c.p., nel disciplinare
l'imputazione oggettiva della circostanza, ne presuppone, in ogni caso, l'esistenza; di
conseguenza, almeno in quanto trattasi di circostanza che si realizza solo in presenza
della compiuta realizzazione della fattispecie tipica, violerebbe il principio di legalità
l'imputazione oggettiva di un elemento accidentale del reato (dato che lo stesso non si è
ancora realizzato).
In dottrina ed in giurisprudenza, invece, si ammette la configurabilità del tentativo
circostanziato di delitto, perché, in tal caso, l'azione di tentativo si presenta essa stessa
corredata dalla presenza della circostanza (così, ad es., Tizio tenta, senza riuscirvi, di
forzare la porta di ingresso di un'abitazione, al cui interno si propone di commettere un
furto: in tal caso, sarà configurabile, a carico dell'agente, l'aggravante prevista nel n. 2
dell'art. 625 c.p., cioè la violenza sulle cose).
§5. Tentativo e tipologie delittuose
Per quanto l'art. 56 c.p. si riferisca in modo indifferenziato a qualsiasi categoria di
delitti, non v'è dubbio, comunque, che la fattispecie del tentativo punibile non può
trovare applicazione per talune tipologie delittuose.
Innanzitutto, il delitto tentato non è configurabile nei reati di pericolo concreto, perché
la condotta che determina l'insorgere di un pericolo per il bene giuridico assume già
rilevanza come reato consumato; il delitto tentato è, invece, configurabile nei reati di
pericolo astratto o presunto, in quanto è perfettamente ipotizzabile la rilevanza di atti
diretti in modo non equivoco a produrre la situazione pericolosa, che per un intervento
esterno siano bloccati sul nascere: si pensi, ad es., a chi viene sorpreso e bloccato
mentre sta cospargendo di benzina una costruzione, allo scopo di appiccarvi il fuoco. Il
delitto tentato è configurabile anche nei reati di pura condotta, ma solo nella forma del
tentativo incompiuto: se, infatti, la condotta si è interamente realizzata c'è quanto basta
per la consumazione del reato; viceversa, nei reati unisussistenti il delitto tentato è
concepibile solo nella forma del tentativo compiuto, dato che per la configurabilità del
tentativo incompiuto è necessario che la condotta si configuri come iter divisibile (iter
che, per definizione, non è presente nei reati unisussistenti). Il delitto tentato è, poi,
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configurabile anche nei reati abituali: è ben possibile, infatti, il compimento, senza
successo, di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere quei fatti che, da
soli o aggiungendosi ai precedenti, avrebbero certamente integrato la serie minima
richiesta per l'esistenza del reato abituale (è questo, ad es., il caso del lenone che
richieda alle sue protette il versamento di somme di denaro con l'invio di lettere, che
vengono, però, intercettate).
Il delitto tentato è configurabile anche nei reati permanenti, ma solo nel caso in cui la
condotta esecutiva sia frazionabile e l'interruzione dell'iter criminis intervenga prima
della consumazione: così, ad es., un tentato sequestro di persona sarà configurabile
solo se l'iniziativa fallisca sul nascere (ad es., per la resistenza della vittima). Il delitto
tentato è, altresì, configurabile nei delitti sottoposti ad una condizione oggettiva di
punibilità, sempre che, ovviamente, la condizione si sia verificata in modo concreto e
che il suo verificarsi non richieda la consumazione del delitto: ad es., il tentativo non è
configurabile nel delitto di induzione al matrimonio mediante inganno (ove per
inganno si deve intendere l'occultamento di un impedimento diverso dal precedente
matrimonio), perché la condizione di punibilità ivi prevista (cioè l'annullamento del
matrimonio a cagione dell'impedimento occultato) richiede l'avvenuta commissione del
reato.
Il delitto tentato è, poi, configurabile nei delitti omissivi: beninteso, nessun problema
sorge in relazione ai delitti omissivi impropri, ove il delitto tentato è configurabile sia
nella forma del tentativo compiuto che in quella del tentativo incompiuto (si pensi, ad
es., alla madre che ometta di nutrire il proprio figlio, allo scopo di farlo morire, senza
tuttavia riuscire nell'intento criminoso).
Per quanto riguarda, invece, i delitti omissivi propri, è necessario sottolineare che la
dottrina dominante propende per l'inammissibilità del tentativo, perché se il termine
utile per compiere l'azione doverosa non è ancora scaduto, il non averla compiuta non
implica ancora violazione dell'obbligo; mentre, una volta scaduto il termine, il reato è
consumato.
Una parte minoritaria della dottrina ammette, invece, la configurabilità del tentativo
anche nei delitti omissivi propri, a condizione, però, che possa individuarsi un iter
frazionabile: in quest'ottica, potrà, ad es., configurarsi una condotta di tentativo nel
caso in cui l'agente abbia posto in essere atti diretti in modo non equivoco e si sia
messo nell'impossibilità di adempiere all'obbligo (è questo il caso di chi si reca in un
paese lontano, al fine di trovarsi nell'impossibilità materiale di compiere un atto
d'ufficio, ma altri al suo posto vi provvede; o di chi, essendo tenuto al soccorso, ex art.
593 c.p., tenti di allontanarsi dal luogo dell'incidente, ma venga costretto dai soggetti
presenti a prestare il dovuto soccorso).
Il tentativo non è, invece, configurabile nel c.d. delitti di attentato (o a consumazione
anticipata), perché in questi tipi di illecito la condotta necessaria e sufficiente per il
delitto tentato è già rilevante per la consumazione: in questi casi, in realtà, ci si trova di
fronte ad un'ipotesi di concorso di norme, in cui la norma speciale (quella che prevede il
delitto di attentato) prevale sulla norma generale (che prevede il delitto tentato).
§6. Desistenza volontaria e recesso attivo
a) la desistenza volontaria
Il co. 3 dell'art. 56 c.p. stabilisce che se il colpevole volontariamente desiste
dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
costituiscano per sé un reato diverso.
La disposizione in esame disciplina la ed. desistenza volontaria: figura che ricorre nel
caso in cui la condotta tipica, prima di giungere a compimento, venga interrotta per
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decisione dello stesso autore; nonostante ciò, però, il colpevole sarà considerato, in
ogni caso, responsabile per il reato diverso, che ha eventualmente cagionato: così, ad
es., chi interrompe un'azione di furto, che implichi l'effrazione di una serratura, sarà
chiamato a rispondere di danneggiamento, ex art. 635 c.p., se avrà desistito solo dopo
aver danneggiato, più o meno gravemente, la serratura stessa.
Ovviamente, nei delitti commissivi (come nell'esempio di cui sopra) ad integrare la
desistenza è sufficiente che il soggetto agente arresti il compimento degli atti diretti a
commettere il delitto; viceversa, nei delitti omissivi si richiede, per la configurabilità
della desistenza, che l'autore si attivi nella direzione opposta (quella del compimento
dell'azione doverosa): è questo il caso, ad es., della madre che riprenda a nutrire il
bambino, che aveva deciso di lasciar morire (in tal caso, si parlerà di desistenza dal
tentativo di commettere un reato omissivo improprio) o il caso del pubblico ufficiale
che, essendo partito per luoghi lontani, allo scopo di porsi nella condizione di non poter
compiere l'atto nei termini dovuti, discenda dall'aereo al primo scalo e ritorni in sede, in
tempo per adempiere ai doveri del suo ufficio (in questo caso, si parlerà di desistenza
dal tentativo di commettere un reato omissivo proprio). Da quanto detto si intuisce, tra
l'altro, che la figura della desistenza volontaria può riguardare solo un tentativo
incompiuto, perché non è affatto possibile desistere da un'azione che si è già compiuta
per intero.
Per quel che riguarda, invece, il fondamento politico-criminale dell'istituto, occorre
sottolineare che in dottrina risulta ormai superata la tesi di coloro i quali ritenevano che
la ratio della desistenza andasse ricercata (da un punto di vista general-preventivo) nel
fatto che il legislatore avrebbe preferito creare, in determinate situazioni, un ed. ponte
d'oro per il soggetto che avesse deciso di abbandonare il proposito criminoso: in altre
parole, si riteneva che, fino a quando non si fosse verificata la consumazione del reato,
era opportuno (onde scongiurarla) mettere a disposizione dell'agente una via d'uscita,
consistente nella promessa di impunità per il tentativo incompiuto, qualora l'autore
avesse volontariamente rinunziato alla prosecuzione dell'azione. Contrariamente a
quest'orientamento, la dottrina prevalente ritiene, invece, che la ratio dell'istituto deve
essere ricercata sotto l'angolo visuale della prevenzione speciale, dal momento che
colui che, di sua iniziativa, è ritornato sui suoi passi, rinunciando a commettere il
delitto, manifesta una scarsa determinazione a delinquere, ragion per cui, nei suoi
confronti, non sorgerebbero esigenze né di rieducazione, né tanto meno di
risocializzazione.
Quanto detto ci fa deve far comprendere, perciò, che la questione della desistenza dal
tentativo rappresenta uno specifico problema di politica criminale (in tal senso, Roxin),
perché l'effetto dell'impunità, che scaturisce dalla desistenza, si ricollega al requisito
della volontarietà; e si tratta di un requisito che andrà appunto interpretato dal punto di
vista della teoria degli scopi della pena: così, ad es., se un soggetto lascia ricadere il
braccio già pronto a vibrare il colpo mortale, perché all'ultimo momento non trova il
coraggio di uccidere la vittima, per il riconoscimento del requisito della volontarietà
non rileva la questione se per l'agente fosse stato ancora psichicamente possibile un
ulteriore comportamento. Al contrario, ciò che è essenziale è il fatto che la desistenza si
presenti come irrazionale e si configuri come un ritorno alla legalità; se, invece,
l'autore desiste solo perché è stato visto e teme una denuncia, certamente gli può essere
ancora molto facile la consumazione del delitto; ma ciò non ha alcuna importanza,
perché quel che conta è che la desistenza risulta, in tal caso, razionale: ci troviamo,
cioè, di fronte ad un delinquente intelligente, nei cui confronti non vengono
assolutamente attenuate le esigenze di natura special-preventiva.
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b) il recesso attivo
Ai sensi del co. 4 dell'art. 56 c.p., se il colpevole di un delitto tentato volontariamente
impedisce l'evento, soggiace solo alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da
un terzo alla metà.
Questa disposizione disciplina il ed. recesso attivo: figura attraverso la quale il nostro
legislatore ha inserito nel sistema una circostanza attenuante speciale (perché riferibile
al solo delitto tentato) e ad effetto speciale.
Quando si parla di recesso attivo si vuole alludere, in particolare, ad una condotta
susseguente al compimento dell'azione, che sia diretta volontariamente a impedire il
verificarsi dell'evento (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio, dopo aver gettato Caio in un
fiume, lo salvi prima che lo stesso anneghi). A prima vista, quindi, desistenza e recesso
sembrano presentarsi come due ipotesi differenti, perché la prima (cioè la desistenza) si
riferisce ad una condotta che non si compie, mentre il secondo (il recesso) presuppone
un tentativo compiuto. A ben vedere, tuttavia, la distinzione tra recesso e desistenza
non esclude la presenza di particolari difficoltà, che possono riscontrarsi in concreto e
che, in realtà, fanno entrare in crisi lo stesso criterio di delimitazione tra le due figure:
così, ad es., premesso che non si può parlare di desistenza volontaria una volta che
l'agente abbia liberato le proprie energie dirette a cagionare l'evento, e che il recesso,
invece, implica un'attività di controintervento, si dovrebbe pervenire alla paradossale
conclusione di escludere sia la desistenza che il recesso nel caso di chi, dopo aver
esploso, contro la vittima designata di un omicidio, un solo colpo d'arma da fuoco,
andato a vuoto, (quindi, l'autore non può più desistere dall'azione) rinunci poi a
esplodere gli altri colpi che ha in canna (dunque, non si può parlare di recesso attivo,
perché l'autore si astiene solo dall'agire ulteriormente).
Tra l'altro, è necessario tener presente che la difficoltà di tracciare un confine netto tra
desistenza e recesso emerge, in modo significativo, nel settore dei reati omissivi
impropri, perché in tali casi la condotta doverosa implica necessariamente un'attività
impeditiva dell'evento (vi potrebbe, quindi, essere una sovrapposizione tra desistenza e
recesso): per risolvere il problema, allora, la dottrina dominante ha precisato che, se per
paralizzare l'efficienza del processo causale, è sufficiente intraprendere l'azione
doverosa, che era stata omessa, si dovrà parlare di desistenza volontaria (si pensi, ad
es., alla madre che riprenda a nutrire l'infante, desistendo dal tentativo di omicidio); al
contrario, se per scongiurare il verificarsi dell'evento è necessario intraprendere una
azione diversa, si dovrà parlare di recesso attivo (così, ad es., nel caso in cui la madre si
ravveda in modo tardivo, solo un energico intervento terapeutico potrà salvare il
bambino).
Sezione III
Il concorso di persone nel reato
Capitolo unico
§1. Il fenomeno della partecipazione di più persone ad un reato
Nel nostro ordinamento la norma-base dettata per la disciplina del concorso di persone
è contenuta nell'art. 110 c.p., il quale stabilisce che quando più persone concorrono
nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita.
Nell'ambito del concorso di persone occorre, però, distinguere, in via preliminare, le
ipotesi del ed. concorso necessario da quelle del ed. concorso eventuale: invero, nei
reati a concorso necessario, la presenza di più soggetti appartiene necessariamente,
appunto, alla struttura del fatto tipico (si pensi, ad es., all'uso delle armi in duello, alla
bigamia, alla rissa, all'associazione per delinquere, all'associazione mafiosa e ai reati
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associativi). Si parla, invece, di reati a concorso eventuale in riferimento ai casi in cui,
la fattispecie legale è costruita sullo schema del reato monosoggettivo, ma in concreto il
fatto può essere realizzato anche con la partecipazione ed il contributo di più soggetti:
per questi reati l'art. 110 c.p. svolge una funzione costitutiva, perché dà la possibilità di
sanzionare condotte che altrimenti non potrebbero essere punite, in quanto atipiche e,
quindi, penalmente irrilevanti (si pensi, ad es., al mandante di un omicidio ovvero alla
condotta di chi fa da palo).
§2. Le tecniche di incriminazione delle condotte di partecipazione Dal punto di vista
politico-criminale, l'esigenza di punire tutti coloro che abbiano fornito un contributo,
comunque, significativo alla commissione di un reato, non può essere certamente
perseguita mediante l'implicita estensione della nozione di autore del reato a tutti i
concorrenti.
Pertanto, allo scopo di risolvere questo problema, gli ordinamenti penali più evoluti
prevedono attualmente due specifiche tecniche di incriminazione: la prima è quella che
va sotto il nome di modello differenziato, così denominato perché esso distingue le
diverse forme di partecipazione in base al ruolo rivestito da ciascun concorrente nella
commissione del fatto (questo modello era stato adottato dal codice Zanardelli del
1889, il quale, agli artt. 63 e 64, distingueva, infatti, tra correi e determinatori, da un
lato, ed istigatori, dall'altro).
La seconda tecnica di incriminazione è, invece, detta del modello unitario, in virtù del
quale tutti i compartecipi sono, in identica misura, responsabili, a prescindere dalla
forma di partecipazione al reato: il modello unitario è stato scelto dai compilatori del
codice Rocco, così come si può ricavare dalla lettura dell'art. 110 c.p. Tuttavia, è bene
precisare che la presenza di questa norma nel nostro sistema non ha eliminato l'esigenza
di distinguere, ancora oggi, le diverse forme di partecipazione al reato; ciò, del resto, è
confermato dalla constatazione circa il fatto che la differenza di ruolo e di apporto
psichico o materiale alla realizzazione del reato può incidere sulla pena, nel momento
in cui il giudice provvedere alla sua concreta commisurazione.
§3. Le teorie giuridiche del concorso
La dottrina del concorso di persone nel reato oscilla essenzialmente tra due poli:
• quello dell' accessorietà delle condotte di concorso;
• quello della riconduzione del fenomeno concorsuale all'idea di una o più fattispecie
plurisoggettive eventuali.
In dettaglio, l'idea dell' accessorietà, tipica dei modelli differenziati di disciplina del
concorso, cerca di porre nel giusto rilievo le ed. condotte atipiche di partecipazione al
reato (determinazione, istigazione, agevolazione, età): la rilevanza penale di queste
condotte implica, infatti, l'esistenza di un rapporto servente rispetto alla realizzazione
di una fattispecie conforme a quella descritta, nella forma monosoggettiva, da una
norma incriminatrice di parte speciale. Tuttavia, in ragione del fatto che il principio
dell'accessorietà presuppone l'esistenza di un fatto principale (a cui accede la condotta
di concorso), parte della dottrina ritiene che esso non sarebbe idoneo ad esprimere, in
una formula unitaria, la struttura del concorso di persone nel reato: si osserva, ad es.,
che nessun rapporto di accessorietà lega tra di loro quelle condotte di concorso
caratterizzate dal compimento dell'intera azione tipica da parte di tutti i correi (come nel
caso in cui più persone sparino contemporaneamente contro lo stesso bersaglio). Il
principio dell'accessorietà manifesta, poi, particolari problemi anche in relazione ai casi
di ed. esecuzione frazionata del reato: qui, infatti, il carattere complementare delle
condotte dei concorrenti può essere ricondotto all'idea dell'accessorietà solo con una
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certa forzatura, visto che verrebbe a mancare, comunque, la realizzazione, per intero, di
un fatto principale (come descritto in una norma incriminatrice di parte speciale, in
forma monosoggettiva): si pensi, ad es., al caso in cui Tizio minacci con una pistola
Caio, ma è Mevio che sottrae il portafogli alla vittima (in tale ipotesi, la condotta dei
due concorrenti è frazionata, ma nessuna delle due accede all'altra, perché entrambi i
concorrenti realizzano, ciascuno per la sua parte, un fatto principale). In ogni caso, al di
là delle critiche mosse al principio in esame, è bene tener presente che il carattere dell'
accessorietà costituisce una figura di qualificazione assolutamente insostituibile,
perché è solo attraverso tale principio che si riesce a cogliere, in modo puntuale, la
rilevanza del fenomeno della ed. tipicità indiretta (cioè, la rilevanza delle condotte
atipiche).
Per quel che riguarda, invece, la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale
(tipica dei modelli unitari), va detto che tale principio riesce a cogliere, in modo
puntuale, l'importanza del rapporto che intercorre tra la norma incriminatrice di parte
speciale e l'art. 110 c.p.: non v'è dubbio, infatti, che dall'integrazione delle due norme
(cioè, tra la norma speciale e l'art. 110) scaturisce non solo l'effetto di attribuire
rilevanza penale a condotte di per sé atipiche, ma anche quello di dar luogo ad
un'autonoma fattispecie normativa (una fattispecie che, da un lato, include, tra i propri
elementi, il verificarsi dell'ipotesi descritta nella norma penale incriminatrice speciale,
in forma monosoggettiva e, dall'altro lato, estende l'imputazione della sua realizzazione
anche a soggetti diversi dall'esecutore, o dagli esecutori, per il tramite dell'art. 110 c.p.).
§4. La struttura del concorso di persone (art. 110 c.p.)
a) il significato del termine reato, ex art. 110 c.p.
Perché si possa parlare di concorso di persone nel reato è necessario, anzitutto, che più
persone (cioè, più soggetti attivi) prendano parte alla realizzazione di un reato, nei
termini stabiliti ex art. 110 c.p.; tuttavia, ai fini che ci riguardano, è bene precisare che
alla locuzione reato, ex art. 110 c.p., non può qui assegnarsi il significato tradizionale di
fatto tipico, antigiuridico e colpevole.
E, invero, che la colpevolezza personale dell'esecutore non costituisca una condicio
sine qua non per la rilevanza giuridica del concorso risulta comprovato non solo dalla
formulazione dell'art. Ili c.p. (il quale, infatti, prevede un aggravamento della pena per
chi abbia determinato a commettere un reato una persona non imputabile o non
punibile a cagione di una sua condizione personale), ma anche dalla formulazione del
successivo art. 119, co. 1 c.p., ad avviso del quale le circostanze soggettive che
escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto
soltanto nei confronti delle persone cui si riferiscono.
Volendo, allora, essere più chiari: se la legge, da un lato, prevede un aggravamento di
pena per chi abbia determinato a commettere il reato una persona non imputabile
ovvero non punibile (a causa di una sua condizione o qualità personale) e, dall'altro,
lascia inalterata la rilevanza giuridica delle condotte di concorso, anche nel caso in cui
la responsabilità di taluno di coloro che sono concorsi nel reato (compreso, quindi,
anche l'esecutore) venga meno per la sussistenza di una circostanza soggettiva di
esclusione della pena, se ne deve dedurre che la colpevolezza dell'autore non
appartiene alla nozione di reato, nel significato che quest'inciso assume nel contesto
degli artt. 110 e ss. c.p.). Ma dallo stesso art. 119 c.p. si desume anche l'irrilevanza del
carattere antigiuridico del fatto in cui si concorre: la norma in esame, al co. 2,
stabilisce, infatti, che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per
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tutti coloro che sono concorsi nel reato (in questo modo, il fenomeno della
compartecipazione criminosa viene collocato in uno stadio antecedente alla valutazione
della sussistenza di una esimente, che sia capace di escludere l'antigiuridicità del fatto).
Perciò, dalla combinazione delle disposizioni esaminate, si può concludere dicendo che
la base di riferimento per il configurarsi di una condotta di concorso penalmente
rilevante è, senza dubbio, costituita dalla realizzazione di un fatto che sia conforme a
una fattispecie legale (ed. fatto tipico), a prescindere non solo dalla sua antigiuridicità,
ma anche dalla colpevolezza personale dell'autore (o degli autori) del fatto.
b) la determinazione del concetto di reato, ex art. 115 c.p.
Perché si possa configurare il fenomeno del concorso di persone nel reato, dal punto di
vista della fattispecie oggettiva, è necessario che almeno uno dei concorrenti realizzi un
fatto che rivesta, almeno, il carattere di inizio dell'attività esecutiva di un reato: compia,
in altre parole, atti non meramente preparatori e diretti in modo non equivoco alla
commissione di un reato; ciò, del resto, risulta confermato dalla formulazione dell'art.
115 c.p., il quale, come sappiamo, stabilisce che qualora due o più persone si
accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di
esse è punibile per il solo fatto dell'accordo (in tal modo, ad es., la condotta di chi fa da
palo potrà assumere il carattere di inizio dell'attività criminosa se egli si pone di guardia
davanti ad un negozio, nell'attimo stesso in cui il complice vi si introduce per eseguire il
furto; per contro, la stessa condotta non potrà assumere alcuna rilevanza penale, se il
compito di colui che fa da palo è quello di sorvegliare una strada, in cui segnalare al
complice potenziali vittime di furti, almeno fino a quando il concorrente non ponga in
essere qualche atto iniziale dell'esecuzione criminosa).
c) il valore causale dell'atto di partecipazione
Una volta assodato che, dal punto di vista oggettivo, per l'esistenza di una fattispecie
rilevante come concorso, è necessario che più persone prendano parte alla comune
realizzazione di un reato, bisogna chiedersi: a quali condizioni è rilevante il concorso
nel reato? Ora, secondo la teoria tradizionale, accolta dai compilatori del codice,
perché si configuri il concorso di persone nel reato è necessario che la condotta di
ciascun concorrente sia stata condicio sine qua non del fatto di reato, nel senso che, in
assenza del contributo di tutti i concorrenti, il fatto non si sarebbe assolutamente
configurato. Così ragionando, però, si escludono dal concorso di persone tutte quelle
ipotesi nelle quali l'attività del partecipe si riveli inutile o, addirittura, dannosa: si pensi,
ad es., alla condotta del concorrente che abbia fornito un sofisticato strumento da
scasso, poi non adoperato; o del palo che, però, non abbia dovuto svolgere alcuna
attività. Per superare queste difficoltà, allora, la dottrina contemporanea e la
giurisprudenza della Cassazione hanno (a ragione) sottolineato che, accanto all'ovvia
rilevanza dei contributi causali, è necessario, ai fini del concorso, tener conto anche e
soprattutto di quei contributi che ricadono nel quadro della ed. causalità agevolatrice:
cioè, di quei contributi che abbiano facilitato la realizzazione del reato, dal punto di
vista materiale o dal punto di vista psichico (sostenendo, cioè, il proposito criminoso).
Ragionando in questi termini, dottrina e giurisprudenza sono, altresì, giunte a fissare
alcuni punti fermi, in modo da sgombrare il campo da eventuali dubbi; in dettaglio,
questi punti si estrinsecano nel modo seguente:
• nell'ambito del concorso di persone, rilevano anche le condotte omissive (non aver
impedito il reato), laddove queste abbiano assunto un preciso valore causale (così, ad
es., concorre nel reato di furto anche il custode che ometta di chiudere le porte o di
attivare gli appositi allarmi, sì da facilitare l'ingresso e la connessa opera dei ladri);
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• tra la fine degli anni '80 e gli inizi degli anni '90 del secolo scorso, la Cassazione è
intervenuta più volte al fine di chiarire la differenza che intercorre tra la connivenza e il
concorso nel reato. In questa prospettiva, la Corte ha precisato che ricorre la prima
(connivenza) nel caso in cui taluno sia a conoscenza del fatto che altri soggetti stanno
per commettere un reato; ricorre, invece, la seconda figura (concorso) nell'ipotesi in cui
un soggetto apporti un qualsiasi contributo alla realizzazione del fatto collettivo (in
virtù di questa distinzione, il Collegio, tra l'altro, ha avuto modo di precisare che
nell'ambito della seconda figura vi rientra anche la mera presenza alla commissione del
reato, la quale, invero, può assumere i connotati del fatto di partecipazione nel caso in
cui la stessa abbia agevolato la realizzazione del reato ovvero abbia rafforzato l'altrui
proposito criminoso).
d) l'elemento psicologico del concorso e i casi di reità mediata
Quanto alla fattispecie soggettiva, è necessario che la condotta dell'esecutore (o degli
esecutori) sia assistita non solo dalla coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico, ma
anche dalla volontà di collaborare con altri alla realizzazione del fatto collettivo. E
bene tener presente, però, che non è richiesto anche il ed. previo concerto: in questo
modo, concorre, ad es., nel reato anche la domestica infedele che, in odio ai suoi datori
di lavoro, essendo venuta casualmente a conoscenza che nella notte avrà luogo un furto
in casa, lasci di proposito socchiusa la porta, così da facilitare l'accesso ai ladri.
Tuttavia, nonostante quanto detto, la dottrina dominante ritiene che, nell'ambito del
concorso di persone, per reato, ai fini e per gli effetti dell'art. 110 c.p., si dovrebbe
intendere la semplice realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato da parte di
taluno dei correi; in altri termini, per aversi concorso di persone, sarebbe sufficiente che
almeno uno dei compartecipi abbia realizzato la condotta oggettiva descritta nella
norma penale, a prescindere dal fatto che l'autore materiale (l'esecutore) abbia agito o
meno con l'elemento psicologico caratteristico del tipo.
E, però, è evidente che dietro questa concezione si annida il vecchio concetto causale
dell'azione, che, a sua volta, lascia affiorare i residui della concezione psicologica della
colpevolezza: di conseguenza, ragionando in questi termini, l'intero fenomeno della
compartecipazione criminosa viene ricondotto allo schema dell'efficienza causale e al
meccanismo del concorso di cause (ex art. 41 c.p.).
Ad ogni modo, per quanto ancora largamente accreditata, la citata teoria non può essere
condivisa, perché le regole dell'interpretazione suggeriscono la conclusione opposta: e
cioè quella per la quale la nozione giuridica di reato, ai fini della struttura del
concorrere, non può essere ricostruita, in termini penalistici, se non in riferimento al
contenuto della volontà dell'autore (non è, infatti, difficile dimostrare la differenza che
passa tra il fatto di chi induce all'azione un soggetto privo di dolo - come, ad es.,
avviene, nei casi di ed. reità mediata - e quello di chi concorre nel fatto doloso altrui).
Ora, come sappiamo, le ipotesi classiche di reità mediata, nel nostro ordinamento, sono
rappresentate dalle fattispecie del costringimento fisico e dell'errore determinato
dall'altrui inganno: queste ipotesi comportano il trasferimento della responsabilità
penale dall'autore materiale all'autore mediato, che detiene l'effettiva padronanza dei
decorsi causali (cioè, la signoria del fatto).
Al contrario, non concreta un caso di reità mediata l'ipotesi del costringimento psichico
(ex art. 54 c.p.), perché in tal caso la condotta dell'esecutore materiale, integrando gli
estremi di un fatto tipico doloso (anche se non punibile), realizza i requisiti minimi
richiesti per il concorso del ed. detcrminatore: non a caso, il tipo di fatto di cui questi
sarà chiamato a rispondere dipenderà dalla decisione di chi subisce la minaccia (sarà
quest'ultimo, cioè, a scegliere per entrambi il reato): così, ad es., Tizio, inseguito con
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intenzioni omicide da un malvivente armato, trova una via di scampo mediante un fatto
lesivo dell'altrui proprietà (che potrà essere l'effrazione di una serratura, con
conseguente violazione di domicilio, o il furto di un'autovettura o, ancora, l'incendio di
cose altrui, con l'intento di tagliare la strada all'inseguitore). Ovviamente nei casi citati
il determinatore dovrà essere qualificato (insieme all'esecutore materiale) come
coautore del fatto, perché ne compossiede il dominio finalistico.
§5. Autori e partecipi nella struttura del concorso di persone
La struttura dell'azione collettiva pone l'esigenza di stabilire con precisione il ruolo di
tutti i concorrenti nell'ambito della realizzazione del fatto comune: a ciò si riferisce la
distinzione che tradizionalmente viene fatta tra autori e partecipi (distinzione che, pur
non trovando un esplicito riconoscimento normativo nel sistema, vede, tuttavia,
riproposta la sua rilevanza attraverso la formulazione degli artt. Ili ss. c.p.). In questa
prospettiva, ai fini e per gli effetti del concorso di persone nel reato, si considera autore
(o coautore) del fatto colui che realizza, con l'elemento psicologico richiesto, la
fattispecie esecutiva di un reato; è bene precisare, però, che la qualità di autore può
anche essere composseduta da altri soggetti, i quali, pur non prendendo parte
all'esecuzione del reato, possono, tuttavia, decidere se lo stesso debba essere o meno
commesso. In effetti, va tenuto presente che la qualità di autore dipende dalla
circostanza che il soggetto possiede la signoria del fatto (nel senso che la commissione
del reato dipende dalla sua decisione): si pensi, ad es., al capo di un'organizzazione
criminale, che ordini ad un gregario di sopprimere un avversario. La posizione di autore
non spetta, invece, ai soggetti, il cui contributo si risolve in un semplice sostegno alla
realizzazione del fatto, eseguito però da altri; pertanto, non è autore, ma mero partecipe
colui che vuole sì il fatto, ma pur sempre sotto condizione della decisione dell'autore e
che, pertanto, non ne compossiede il dominio finalistico; rientrano in questa categoria
le ipotesi del c.d. concorso morale e, in particolare, la condotta del determinatore e
quella dell'istigatore: più precisamente, determinatore è il soggetto che fa sorgere in
altri un proposito criminoso, che prima non esisteva (va sottolineato, però, che il
determinatore, qualora compossieda il dominio finalistico dell'azione, deve essere
assolutamente qualificato come coautore del fatto: si pensi, ad es., ai casi dell'ordine
illegittimo vincolante e allo stato di necessità determinato dall'altrui minaccia).
Istigatore, invece, è colui che rafforza in altri un proposito criminoso già esistente: a tal
riguardo, occorre sottolineare che la condotta istigatoria può esplicarsi mediante
l'utilizzo di diversi strumenti (dalla più subdola forma di stimolo, al mandato vero e
proprio, al suggerimento).
Un accenno occorre, infine, dedicarlo ai ed. complici e agevolatori: cioè, a quei
soggetti che apportano un qualsiasi contributo materiale alla preparazione e
all'esecuzione del reato (come, ad es., fornire il veleno per commettere un assassinio,
confezionare un ordigno esplosivo o disinnescare l'allarme).
§6. Il concorso nelle fattispecie omissive
Per la configurabilità del concorso di persone nei reati omissivi dolosi è necessario che
il soggetto o i soggetti che ricoprono la posizione di garante agiscano come coautori
del fatto, in quanto, in mancanza della volontaria omissione dell'azione dovuta, non si
configura neppure il realizzarsi del reato, a cui dovrebbero accedere le condotte degli
eventuali concorrenti. È bene precisare, però, che se l'omissione dell'atto dovuto si
verifica, ma per una causa riconducibile a terze persone (e non è, quindi, imputabile alla
volontà dell'obbligato), saremo in presenza di un classico caso di reità mediata: si
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pensi, ad es., al casellante che viene legato da un gruppo di terroristi, allo scopo di
impedirgli di azionare uno scambio, così da provocare un disastro ferroviario.
§7. La cooperazione colposa (art. 113 c.p.)
L'art. 113, co. 1 c.p., stabilisce che nel delitto colposo, quando l'evento è stato
cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene
stabilite per il delitto stesso.
È bene precisare da subito, però, che il fenomeno della cooperazione colposa non deve
essere confuso con il concorso di cause illecite (art. 41 c.p.): in quest'ultimo caso,
infatti, vi è la semplice coincidenza causale di più condotte colpose, che non sono
collegate tra loro da alcun vincolo psicologico. Nell'art. 113 c.p., viceversa, secondo il
costante orientamento dottrinale e giurisprudenziale, a risultare decisive sono la
coscienza e la volontà di partecipare ciascuno al fatto dell'altro (di conseguenza, è del
tutto evidente che anche nell'ambito della cooperazione colposa è fondamentale il ruolo
che gioca l'elemento psicologico).
Ovviamente, i soggetti che cooperano in un delitto colposo possono agire tutti come
coautori del fatto: come avviene, ad es., nel caso degli automobilisti che danno vita ad
una spericolata gara di velocità nel centro cittadino, provocando un sinistro mortale. In
altre ipotesi, invece, la condotta di taluno dei concorrenti risulta incriminabile solo
perché accede ad una condotta tipica altrui: come nel caso di chi noleggia un'auto ad
una persona inesperta nella guida, che in seguito provoca un sinistro mortale (a tal
proposito, però, è importante precisare che, in virtù del ruolo ricoperto dall'elemento
psicologico, la condotta del noleggiatore potrà assumere rilevanza giuridico-penale,
rispetto all'ipotesi dell'omicidio colposo, solo se questo sarà dipeso da imperizia nella
guida); allo stesso modo, nel caso in cui un passeggero inciti l'autista del taxi, sul quale
è salito, a procedere ad elevata velocità, la sua condotta risulterà incriminabile soltanto
se si verificherà un evento che dipenda da una colpa del guidatore, che sia consistita
proprio nella violazione della norma di prudenza, in cui il concorrente (cioè il
passeggero) si è inserito, da un punto di vista psicologico, con la sua istigazione (e non,
invece, se l'evento sarà dipeso da altre cause ovvero sia dovuto a caso fortuito o
addirittura sia stato cagionato, dal tassista, con dolo).
a) l'inammissibilità di particolari ipotesi di concorso
Mentre il concorso colposo nel fatto colposo integra la particolare forma di
partecipazione contemplata nell'art. 113 c.p., risulta, invece, impossibile configurare
sia l'ipotesi del concorso doloso nel fatto colposo altrui, sia quella del concorso
colposo in un fatto doloso altrui.
Infatti, l'ipotesi del concorso doloso nel fatto colposo altrui integra, in realtà, un
classico caso di reità mediata, perché l'esecutore materiale viene a trovarsi nella
condizione di semplice strumento, non doloso, per la realizzazione del fatto: si pensi, ad
es., al caso di chi sostituisca, con un potente veleno, il preparato medico che
un'infermiera deve iniettare ad un ammalato e che venga effettivamente somministrato,
nonostante la differenza di colore e di densità, di cui l'infermiera si sarebbe dovuta
accorgere (perciò, qualora l'ammalato dovesse morire, colui che ha sostituito il
preparato sarà chiamato a rispondere di omicidio volontario, ex art. 48 c.p.; mentre
all'infermiera, lo stesso evento potrà essere addebitato a titolo di colpa, ex art. 47, co. 1
c.p.). L'inammissibilità, invece, del concorso colposo in un fatto doloso altrui trova la
propria giustificazione nel fatto che l'agente è tenuto ad evitare i pericoli che derivano
dalla propria condotta, ma non ha anche il dovere di impedire che altre persone
sfruttino, in modo volontario, una qualsiasi occasione, fornita dal suo comportamento
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(anche se imprudente o negligente), al fine di commettere un reato: si pensi, ad es., al
caso di chi approfitti di un'arma lasciata incustodita per commettere un omicidio (in tal
caso, non si potrà assolutamente parlare di concorso nel reato).
§8. Il concorso di persone nei reati contravvenzionali
La dottrina dominante è concorde nell'ammettere la configurabilità del concorso di
persone nelle contravvenzioni dolose, in quanto il termine reato, di cui all'art. 110 c.p.,
è riconducibile, ovviamente, sia ai delitti che alle contravvenzioni. Al contrario, la
rilevanza del concorso nelle contravvenzioni colpose rimane racchiusa nell'ambito di
applicazione del concorso di cause, ex art. 41 c.p.: questa conclusione appare obbligata,
dato che l'art. 113 c.p. ha limitato l'ammissibilità del concorso nei fatti colposi solo alle
ipotesi più gravi (vale a dire ai delitti colposi), lasciando, perciò, fuori le
contravvenzioni.
§9. Le circostanze aggravanti ed attenuanti del concorso
Nonostante l'art. 110 c.p. esprima il principio della pari responsabilità dei concorrenti,
il legislatore non ha, tuttavia, escluso la possibilità di graduare la responsabilità di
ciascuno dei compartecipi a seconda del contributo apportato alla realizzazione del
fatto criminoso. Il codice Rocco, infatti, ammette una diversa graduazione della pena
attraverso la previsione di un sistema di circostanze (sia aggravanti che attenuanti),
specificamente previste per il concorso di persone (artt. Ili, 112 e 114 c.p.).
Analizziamo, anzitutto, l'art. Ili c.p.: questa disposizione, come detto in precedenza,
stabilisce un aggravamento della pena per chi abbia determinato al reato una
persona non imputabile o non punibile a cagione di una condizione o qualità
personale. È bene precisare, però, che la norma in esame pone il problema di
distinguere tra determinazione ed istigazione: per la sua applicabilità, infatti, la
dottrina ritiene che non sia sufficiente un'opera di convincimento, tendente a rafforzare,
nel soggetto non imputabile o non punibile, una decisione criminosa (istigazione), ma si
richiede un intervento vero e proprio sulla volontà del soggetto, in modo tale da
determinarne le scelte di azione. In quest'ottica, perciò, non v'è dubbio che il
determinatore debba essere configurato come autore del fatto: e ciò perché, ove
ricorrano le condizioni previste e disciplinate dall'art. Ili c.p., si può affermare che egli
(com)possiede il dominio finalistico del fatto (del resto, bisogna tener presente che la
ratio di quest'aggravante sta proprio nel disvalore di azione che caratterizza il fatto di
chi approfitta dell'immaturità o della condizione di non punibilità di un soggetto,
inducendolo a delinquere, assumendosi, in tal modo, anche una sorta di paternità del
fatto).
L'art. 112, co. 1 c.p. disciplina, invece, quattro diversi tipi di circostanze aggravanti del
concorso di persone; in particolare:
• il n. 1 stabilisce che la pena da infliggere per il reato commesso è aumentata se il
numero di persone che sono concorse nel reato è di cinque o più (va da sé, però, che
dal computo dei concorrenti bisogna escludere coloro che, pur avendo contribuito
materialmente al fatto, hanno, tuttavia, agito in assenza dell'elemento psicologico
richiesto: ad es., la Corte di cassazione, con sent. 1327/91, ha optato per l'esclusione dal
computo di chi sia stato assolto per mancanza di dolo);
• il n. 2 dell'art. 112 c.p. prevede, invece, come ipotesi aggravante il fatto di chi ha
promosso o organizzato la cooperazione nel reato (quest'aggravante, come si può
notare, colpisce la condotta di colui che ha rivestito una posizione di dominio
dell'azione collettiva, esercitando sui concorrenti una supremazia che gli attribuisce,
almeno, la qualità di correo);
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• il n. 3 della norma in esame stabilisce un aggravamento della pena per colui che,
nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha detcrminato a commettere
un reato persone ad esso soggette (a tal riguardo, è necessario sottolineare che l'inciso
autorità, direzione o vigilanza deve essere inteso in modo ampio: quindi, comprensivo
di ogni rapporto di subordinazione o di soggezione);
• il n. 4 dell'art. 112 c.p. (così come modificato dalla L. 94/2009) statuisce, infine, che
la pena è aumentata per chi ha determinato a commettere il reato un minore degli
anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si è
comunque avvalso degli stessi o con gli stessi ha partecipato nella commissione di un
delitto per il quale è previsto l'arresto in flagranza (è bene precisare, però, che nella
nozione di infermità deve essere ricompresa non soltanto la condizione del non
imputabile o del semi-imputabile, ma anche, ad es., la vecchiaia, nonché tutte le forme
di decadimento intellettuale).
Dall'analisi delle aggravanti descritte, si può notare come esse si adattino alla figura del
correo (o co-autore); per contro, la speciale circostanza attenuante prevista dal co.
I dell'art. 114 c.p. sembra riferirsi solo ed esclusivamente all'opera dei meri partecipi:
stabilisce, infatti, questa disposizione che il giudice, qualora ritenga che l'opera
prestata da taluna delle persone concorse nel reato abbia avuto minima importanza
nella preparazione o nell'esecuzione dello stesso, può diminuire la pena (in effetti,
com'è stato affermato in sede giurisprudenziale, solo l'opera di un complice, e non
quella di un correo, può assumere una rilevanza così ridotta da potersi definire
minima).
a) i limiti di comunicabilità delle circostanze ordinarie
II reato in cui si concorre può anche risultare circostanziato: cioè, può presentare gli
estremi per l'applicazione di una o più circostanze aggravanti o attenuanti ordinarie
(ex artt. 61 e 62 c.p.). Tuttavia, dato che solo in alcune ipotesi la circostanza si può
dire attinente all'intera fattispecie plurisoggettiva (si pensi, ad es., all'aggravante del
danno di rilevante gravità o all'omologa attenuante del danno lieve), in dottrina si è
posto il problema di stabilire l'estensibilità agli altri concorrenti delle circostanze che
si riferiscono alle qualità ed ai comportamenti solo di alcuni di essi.
Nel nostro ordinamento, il problema è stato risolto alla stregua dell'art. 118 c.p., il
quale, infatti, stabilisce che le circostanze aggravanti ed attenuanti riguardanti i
motivi a delinquere, l'intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti
alla persona del colpevole (cioè, quelle attinenti all'imputabilità ed alla recidiva) sono
valutate solo con riguardo alla persona cui si riferiscono: da questa disposizione,
pertanto, se ne deduce, a contrario, che tutte le altre circostanze si estendono anche agli
altri concorrenti (nei limiti, ovviamente, di quanto disposto dall'art. 59, co. 1 e 2 c.p.).
Così, ad es., sono estensibili ai concorrenti (se da essi conosciute) anche le eventuali
circostanze aggravanti che derivano da una qualità personale di un altro concorrente
(diverse da quelle riguardanti l'imputabilità o la recidiva): si pensi al concorso in un
reato comune con un pubblico ufficiale (art. 61, n. 9 c.p.).
§10. Il concorso anomalo (art. 116 c.p.)
È nell'ordine naturale delle cose la possibilità che l'esecutore o gli esecutori di un reato
realizzino, in luogo dell'azione concordata, un fatto che integra un diverso tipo di reato,
non rientrante nel piano collettivo (si faccia, ad es., il caso di chi, avendo ricevuto
l'ordine di sequestrare taluno, decida, viceversa, di ucciderlo). In questi casi opera l'art.
116 c.p., il quale, infatti, stabilisce che, ove il reato commesso sia diverso da quello
voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza
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della sua azione od omissione: ora, come si può evincere dalla disposizione in esame, i
compilatori del codice hanno optato per la piena responsabilità del correo per il fatto
diverso, configurando in tal modo una classica ipotesi di responsabilità oggettiva. A
ogni modo, va precisato che l'applicazione della disposizione richiede, comunque, la
realizzazione dolosa del fatto diverso da parte dell'esecutore materiale: infatti, ove
l'evento diverso sia stato commesso per colpa, la soluzione andrà ricercata nell'art. 83
c.p., il quale dispone che, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, si
cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole ne risponderà a titolo di
colpa; è, perciò, impensabile che il concorrente possa rispondere del medesimo fatto a
titolo di dolo: così, ad es., se Tizio, incaricato da Caio di danneggiare la vetrina di un
magazzino lanciandovi contro un sasso, per errore di mira manchi la vetrina e ferisca,
invece, il commesso, entrambi risponderanno di lesioni colpose (oltre che di concorso
in tentativo di danneggiamento); viceversa, l'art. 116 c.p. entrerà in gioco se
l'esecutore, nel cercare di anticipare la reazione difensiva del commesso, lo colpisca
volontariamente con il sasso destinato alla vetrina.
Una volta delineato l'ambito di applicazione dell'art. 116 c.p., è facile rendersi conto
che questa norma configura, in realtà, un ed. concorso anomalo, dal momento che nella
condotta del partecipe manca, per definizione, il dolo del reato diverso e spesso non è
neanche riscontrabile un atteggiamento che si possa ricondurre alla colpa; tant'è vero
che la giurisprudenza richiede costantemente, per l'applicabilità della norma, qualcosa
in più del mero nesso di causalità: in particolare, si richiede uno specifico rapporto di
causalità psichica tra le azioni dei partecipi. Quest'orientamento, del resto, è stato
confermato anche dalla Consulta, la quale, investita della questione (nella sent. 42/65),
ha precisato che, per farsi luogo alla responsabilità del partecipe per il reato diverso,
non è sufficiente la mera imputazione oggettiva dell'evento diverso, ma è necessario
che esso si rappresenti alla psiche dell'agente come uno sviluppo logicamente
prevedibile di quello voluto (così, ad es., se dalla modalità concordata di un furto
esulava qualsiasi disegno di azione violenta, il partecipe non risponderà dell'eventuale
rapina commessa dagli esecutori).
§11. Il concorso nei reati propri (art. 117 c.p.)
L'art. 117 c.p. stabilisce che se muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono
concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato: il nostro ordinamento,
attraverso questa disposizione, disciplina il ed. concorso nei reati propri. A tal
riguardo, la prima questione che suscita la formulazione dell'art. 117 c.p. concerne
l'elemento psicologico richiesto per il concorso dell'estraneo: ci si chiede, in altri
termini, se, per rispondere del reato proprio, il concorrente estraneo debba conoscere la
particolare qualità rivestita dall'intráneo; ora, è ovvio che l'idea che si possa rispondere
dello speciale titolo del reato proprio, anche quando non si conosca la particolare
condizione dell'intraneo, è chiaramente condizionata da una concezione causale del
concorso, poiché disconosce la rilevanza dell'elemento psicologico. E evidente,
pertanto, che l'art. 117 c.p., nella parte in cui stabilisce l'identità del titolo di
responsabilità per tutti i concorrenti, non per questo si sottrae ai principi generali in
tema di dolo e di colpa: perciò, i concorrenti non qualificati, per rispondere del diverso
titolo di reato, dovranno necessariamente conoscere la qualità dell'intraneo.
Il secondo problema che suscita la formulazione dell'art. 117 c.p., riguarda, invece, le
condizioni necessarie affinché la partecipazione dell'intraneo determini il
mutamento del titolo del reato: a tal proposito, v'è da dire che il titolo del reato muta
nei casi in cui sia 1'intráneo ad eseguire materialmente il reato. Ma, al di fuori di
quest'ipotesi, non è agevole rinvenire un criterio di certezza per la soluzione dei casi più
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controversi: si faccia il caso del pubblico ufficiale che promuova e renda possibile la
sottrazione di somme di denaro, di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio, senza
partecipare, in alcun modo, alla realizzazione del fatto criminoso; in questo caso
occorre stabilire se si configura un concorso in furto da parte del pubblico ufficiale o,
viceversa, un concorso degli estranei nel delitto di peculato. In realtà, il problema si
risolve solo ragionando in questi termini: il mutamento del titolo del reato potrà aversi
soltanto se 1'intráneo, a prescindere dal fatto che sia egli o meno ad eseguire
materialmente il reato, agisca con la volontà di realizzare, insieme con l'estraneo, il
reato proprio.
§12. Desistenza e recesso attivo nel concorso di persone
Problemi sorgono in relazione alla configurabilità della desistenza volontaria nei casi
in cui il reato si presenti in forma plurisoggettiva: ovviamente, in queste ipotesi, se a
desistere è l'unico esecutore o, se gli esecutori sono più d'uno, tutti gli esecutori, sarà
sufficiente applicare l'art. 56, co. 3 c.p.; quando, invece, a desistere non è l'esecutore,
ma un compartecipe diverso da colui o da coloro che eseguono l'azione, è necessario
che questi abbandoni l'originario proposito di cooperazione prima che la propria opera
individuale di correità sia stata portata a termine: è questo, ad es., il caso di chi, dopo
aver fornito ai complici gli strumenti per poter condurre a termine una sofisticata
effrazione, se li riprenda prima che l'azione tipica giunga a compimento; a questo
punto, qualora i complici dovessero portare ugualmente a termine l'azione, servendosi
di altri strumenti, il concorrente che ha desistito non sarà, in ogni caso, punibile, perché
egli ha annullato il suo contributo (materiale e psichico) all'opera di partecipazione.
Per la configurabilità, invece, del recesso attivo è necessario che il fatto collettivo sia
stato interamente compiuto e che uno o più dei concorrenti si adoperi efficacemente per
impedire il verificarsi dell'evento: si pensi, ad es., all'ipotesi in cui Tizio e Caio
aggrediscano, a scopo omicida, Sempronio e che Caio, invece di fuggire dal posto,
preso da rimorso, curi il trasporto della vittima in ospedale, riuscendo a salvargli la vita.
§13.1 reati a concorso necessario
Come detto in precedenza, si parla di reati a concorso necessario quando la struttura
della condotta incriminata richiede la necessaria partecipazione di più soggetti. Si
distingue, tuttavia, tra reati a concorso necessari propri, nei quali tutti i concorrenti
sono assoggettati a pena (si pensi alla rissa o ai ed. reati associativi) e reati a concorso
necessario impropri, nei quali, invece, solo alcuni concorrenti sono considerati punibili
(si pensi, ad es., alla corruzione di minorenne): in quest'ultimo caso, al concorrente
non assoggettato a pena in modo espresso (nell'esempio: il minore) non potrà applicarsi
la disciplina prevista dall'art. 110 c.p., perché altrimenti si tradirebbe il principio del
nullum crimen sine lege.
Una particolare ipotesi di reato a concorso necessario è, poi, quella concernente i ed.
reati associativi, in relazione ai quali sorgono due distinti ordini di problemi: in primo
luogo, ci si chiede se ed entro quali limiti ai singoli associati possa essere attribuita una
responsabilità per la realizzazione dei singoli reati-scopo (quali, ad es., omicidi e
rapine); in merito a questo punto, la dottrina e la giurisprudenza hanno precisato che dei
ed. reati-scopo saranno chiamati a rispondere penalmente solo quegli associati che vi
hanno contribuito mediante una partecipazione materiale e morale. Il secondo problema
concerne, invece, la possibilità di configurare o non il concorso eventuale nel reato
associativo, dall'esterno dell'associazione: è questo, ad es., il caso del politico che,
anche se non inserito in un'associazione per delinquere di stampo mafioso, contribuisca
al suo rafforzamento, deliberando l'attribuzione di un appalto a determinate ditte di cui
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ben conosce i legami con il sodalizio mafioso. Ora, è chiaro che, da un punto di vista
politico-criminale, l'esigenza di reprimere comportamenti del genere è del tutto
evidente; e, tuttavia, a parte il ricorso ad autonome fattispecie di reato (dall'abuso di
potere, al favoreggiamento, al reato di scambio elettorale politico-mafioso) non
sembra sussistere un autonomo spazio per l'applicabilità delle norme sul concorso
eventuale.
Parte V
Concorso di reati e concorso di norme
Premessa
A norma degli artt. 71 ss. c.p. si ha concorso di reati nei casi in cui uno stesso soggetto
viola più volte la legge penale e, perciò, deve essere giudicato per più reati. Si parla,
invece, di concorso di norme quando due o più norme penali mcriminatirci si
presentano come applicabili a una stessa condotta: ovviamente, è bene tener presente
che il concorso di norme penali è, per definizione, concorso apparente, dal momento
che ogni singola fattispecie concreta può essere ricondotta ad una sola norma. Detto
ciò, il concorso di reati si definisce:
• formale, quando il soggetto agente, con una sola azione od omissione, viola una o
più disposizioni di legge;
• materiale, quando l'agente, con più azioni od omissioni, viola una o più disposizioni
di legge.
Ora, dal punto di vista dei rapporti con il fenomeno del concorso apparente di norme,
l'ipotesi del concorso materiale di reati non presenta alcun problema, in quanto
l'esistenza di più condotte esclude ogni interferenza con la disciplina del concorso di
norme.
Al contrario, per quel che concerne il concorso formale di reati, è necessario stabilire,
nel caso concreto, se non ci si trovi di fronte ad un concorso apparente di norme (a cui
consegue l'applicabilità di una sola norma): così, ad es., nel caso di chi, mediante
artifizi o raggiri, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto, consistente in contributi
o in finanziamenti agevolati da parte dello Stato, la riconducibilità del fatto sia all'art.
640 cpv., n. 1 c.p., che al successivo art. 640 bis c.p. è solo apparente (l'applicabilità
della prima disposizione resta, infatti, esclusa in virtù del carattere specializzante
dell'art. 640 bis c.p.).
Sezione I
Il concorso di reati
Capitolo unico
§1. Il concorso materiale di reati
Si parla di concorso materiale di reati quando un soggetto, con più azioni od
omissioni, realizza più violazioni della legge penale.
In particolare, il concorso materiale si dice omogeneo quando l'autore, con diverse
azioni od omissioni, realizza più volte lo stesso reato: come nel caso di chi commetta in
rapida successione più furti ovvero uccida, una dopo l'altra, con distinte azioni, più
persone.
Il concorso materiale si dice, invece, eterogeneo quando l'autore, con diverse azioni od
omissioni, dà vita a reati diversi: è questo, ad es., il caso di chi, dopo aver commesso
una rapina, ruba un'auto per fuggire e durante la fuga investe ed uccide, per colpa, un
passante.
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Per quanto riguarda il regime sanzionatorio, per il concorso materiale, il codice, agli
artt. 73 ss., ha adottato il sistema del ed. cumulo materiale temperato, nel senso che si
sommano aritmeticamente le pene da infliggere per i singoli reati in concorso, ma con
opportuni temperamenti, consistenti nella fissazione di limiti massimi di pena che non
possono essere superati: l'art. 78 c.p. stabilisce, infatti, che in conseguenza del cumulo,
non può essere ecceduto il limite di 30 anni per la reclusione, di 6 anni per l'arresto,
di 15.493 € per la multa e di 3098 €per V ammenda.
Va precisato, però, che, sempre in relazione al concorso materiale, il codice penale
prevede anche una sorta di cumulo giuridico sui generis: infatti, ai sensi dell'art. 72
c.p., qualora concorrano più delitti, ciascuno dei quali comporti la pena dell'ergastolo,
si applica tale ultima pena (l'ergastolo) con l'aggiunta dell'isolamento diurno da 6 mesi a
3 anni.
§2. Il concorso formale di reati
Si parla di concorso formale di reati quando un soggetto, mediante una sola azione od
omissione, viola più volte la legge penale.
Il concorso formale si dice omogeneo quando il soggetto agente, con una sola azione od
omissione, viola più volte la medesima norma di legge: come nel caso di chi, con un
solo colpo d'arma da fuoco, uccide due persone.
Il concorso formale si dice, invece, eterogeneo quando l'autore, con una sola azione od
omissione, viola diverse norme di legge: si faccia, ad es., l'ipotesi della congiunzione
carnale violenta con la propria sorella, ove risultano violate due distinte disposizioni
del codice: l'art. 519 e l'art. 564 (in tal caso si realizza il ed. rapporto di interferenza,
dato che la congiunzione carnale con la propria sorella integra la fattispecie dell'
incesto; mentre il suo carattere violento rende la serie esecutiva del reato idonea a
violare anche l'art. 519 c.p.).
Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, per il concorso formale di reati, il testo
originario del codice prevedeva il cumulo materiale delle pene; il legislatore del 1974,
invece, ha optato per la sostituzione del cumulo materiale con quello giuridico: in tal
senso, l'art. 81, co. 1 c.p. stabilisce che, chi, con una sola azione od omissione, viola
diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima
disposizione di legge, è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione
più grave, aumentata sino al triplo (l'opzione a favore del cumulo giuridico è
tradizionalmente motivata in dottrina con il rilievo che, a fronte della somma aritmetica
delle pene, in questo caso la sofferenza cresce, invece, geometricamente).
In ogni caso, va precisato che, ai sensi dell'art. 81, co. 3 c.p., la pena unica inflitta non
può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti
(cioè, qualora vigesse il regime del cumulo materiale, in forza del quale bisognerebbe
applicare tante pene per quanti reati commessi).
Come si può notare, quindi, in relazione al concorso formale di reati, il giudice deve
determinare l'aumento di pena in uno spazio edittale che è vincolato sì, ma solo nel
massimo e che dipende dal numero e dalla gravità dei reati commessi; tuttavia, il co. 4
dell'art. 81 (introdotto dalla L. 251/2005) prevede che, fermi restando i limiti di cui al
co. 3, se i reati in concorso formale sono commessi da soggetti ai quali sia stata
applicata la recidiva (ex art. 99, co. 4 c.p.), l'aumento della quantità di pena non può
essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave (viene fissata,
così, una misura minima dell'aumento di pena). L'orientamento del legislatore del 2005,
però, non può essere condiviso, perché, procedendo in questa direzione, si finisce, in
realtà, per inasprire ulteriormente il quadro sanzionatorio derivante dalla dichiarazione
di recidiva.
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§3. Il reato continuato (art. 81 cpv. c.p.): profili sostanziali e processuali
L'art. 81 cpv. c.p. estende la regola del cumulo giurìdico anche all'ipotesi di chi con più
azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche
in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.
L'ipotesi di cui all'art. 81 cpv. c.p. corrisponde, più precisamente, alla figura del reato
continuato che, come si evince chiaramente dalla norma in esame, altro non è che una
ipotesi di concorso materiale di reati, contrassegnata, però, dalla circostanza che le
diverse violazioni di legge sono legate tra loro dall' identità del disegno criminoso, cioè
dal coefficiente psicologico che unisce i diversi reati e che consente di distinguere la
continuazione dal mero concorso di reati.
Perciò, i requisiti necessari per l'applicazione della regola contenuta nell'art. 81 cpv.
c.p. sono:
• una pluralità di azioni o di omissioni, cioè una pluralità di condotte;
• una pluralità di violazioni di legge: a tal proposito, occorre precisare che, in seguito
all'innovazione legislativa del 1974, è oggi ammessa non solo la continuazione tra fatti
omogenei, ma anche la continuazione tra reati diversi e, quindi, eterogenei (ad es.,
furto, lesioni, detenzione di armi, danneggiamento, etc), purché gli stessi siano
cementati dal requisito dell'identità del disegno criminoso;
• l'identità del disegno criminoso, cioè, come detto, il coefficiente psicologico che
lega tra loro i reati in concorso; in merito a questo requisito, occorre sottolineare che
una parte della dottrina è dell'avviso che, per la sua configurabilità, sarebbe sufficiente
la mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli fatti delittuosi, poi commessi
dal soggetto agente (una sorta, cioè, di programmazione iniziale); secondo altra parte
della dottrina, invece, si renderebbe necessaria anche la riconoscibilità di una
prospettiva finalistica, capace di unire i diversi fatti: occorrerebbe, cioè, un elemento
volitivo oltre che intellettivo (si pensi, ad es., all'uccisione di più componenti della
stessa famiglia, al fine di conseguire per intero un'eredità).
Il problema, in realtà, si inquadra nella giusta dimensione se si tiene conto del fatto che
l'art. 81 cpv. c.p. fa genericamente riferimento ad azioni od omissioni esecutive di un
medesimo disegno criminoso, ma non sembra richiedere anche la volizione
dell'evento, da parte del soggetto agente: si faccia il caso, ad es., dell'imprenditore che,
allo scopo di abbassare i costi, programmi una serie di violazioni delle norme
antinfortunistiche, in conseguenza delle quali scaturisce la morte di alcuni operai
(morte che, sebbene non sia stata voluta dall'imprenditore, si ricollega, in ogni caso, alle
condotte omissive, esecutive dell'originario programma criminoso).
In relazione a quanto detto fino ad ora, il reato continuato viene considerato come un
fatto unitario; sotto altri aspetti, invece (ci riferiamo, in particolare, ai profili di ordine
processuale), i reati legati tra loro dal vincolo di continuazione sono considerati in
modo isolato, cioè come semplici reati in concorso materiale: ciò accade, ad es., con
riferimento alla procedibilità (a querela o ex officio), ove, infatti, si deve prendere in
considerazione il singolo episodio criminoso, ovvero, in relazione alle cause estintive
del reato e della pena, per la cui applicabilità si deve aver riguardo ai singoli fatti che
compongono il reato continuato (ciò significa, ad es., che un'amnistia o un indulto
potranno essere applicati soltanto a quei fatti di reato non esclusi dall'applicabilità del
beneficio).
Sotto altro profilo, infine, va tenuto presente che la continuazione cessa nel momento in
cui si perfeziona l'ultimo reato commesso in esecuzione dell'originario disegno
criminoso; a tal riguardo, però, è opportuno precisare che, secondo l'orientamento della
dottrina, la continuazione può essere interrotta anche per il sopravvenire di alcuni
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eventi di tipo processuale: in particolare, intendiamo far qui riferimento alla sentenza
di condanna passata in giudicato: quest'orientamento va senz'altro condiviso, in
ragione del fatto che la pronuncia della sentenza passata in giudicato interrompe la
continuazione e impedisce che possano assumere rilevanza, ai fini della pena da
applicare, fatti commessi successivamente alla formazione del giudicato (giudicato che,
viceversa, non preclude la possibilità di valutare, sempre ai fini dell'applicabilità della
pena da applicare, i fatti commessi anteriormente alla pronuncia della sentenza
definitiva).
§4. Il reato aberrante (artt. 82 e 83 c.p.)
a) l'aberratio ictus
Il co. 1 dell'art. 82 c.p. stabilisce che quando, per errore nell'uso dei mezzi di
esecuzione del reato, si cagiona offesa a persona diversa da quella alla quale l'offesa
era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della
persona che si voleva offendere. L'ipotesi in esame prende il nome di aberratio ictus
monolesiva e si verifica nel caso in cui l'agente realizza il reato che aveva in animo di
commettere, però in danno di una persona diversa dalla vittima designata: così, ad es.,
Tizio spara a Caio, ma uccide Sempronio, che si trovava a passare per caso.
L'ordinamento, ovviamente, in questi casi considera irrilevante che l'agente volesse
offendere un soggetto, ma ne ha offeso un altro, perché quel che conta è che egli ha,
comunque, realizzato un fatto tipico corrispondente a quello che voleva realmente
commettere; tuttavia, a ben vedere, appare arbitraria la scelta dell'incriminazione a
titolo di dolo, perché qui manca la congruenza tra l'atteggiamento psicologico del
soggetto agente e l'evento che si è verificato (ed è proprio questa la ragione per cui la
dottrina dominante propende per una modificazione della disposizione in esame, in
quanto essa integra una chiara ipotesi di responsabilità oggettiva). In ogni caso, appare
opportuno chiarire che per l'applicabilità dell'art. 82, co. 1 c.p. è necessario che, nei
confronti della vittima designata, si realizzino, almeno, gli estremi del tentativo
punibile (si faccia, ad es., il caso di chi, al fine di cagionare la morte della vecchia zia,
avvelena dei cioccolatini, che si ripromette di regalarle, e li nasconde in un cassetto
della sua scrivania; la cameriera, facendo le pulizie, trova i cioccolatini, ne mangia uno
e muore: in questo caso, se ritenessimo applicabile l'art. 82, co. 1 c.p., l'agente sarebbe
chiamato a rispondere di omicidio volontario, per una condotta che non è né tipica né
diretta in modo non equivoco alla realizzazione dell'evento da lui voluto, cioè
l'uccisione della zia).
L'art. 82 cpv. c.p. stabilisce, invece, che qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa
anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita
per il reato più grave, aumentata fino alla metà.
In relazione a quest'ipotesi, che prende il nome di cd. aberratio ictus plurilesiva, parte
della dottrina sostiene che qui si sia in presenza di due reati: l'uno più grave, l'altro
meno grave (ciò significa, in altre parole, che, accanto al reato doloso, commesso in
danno della vittima designata, sarebbe presente un altro reato, che dovrebbe essere
ricondotto nell'alveo della responsabilità per colpa); quest'interpretazione, però, per
quanto suggestiva, non sembra sia compatibile con l'attuale formulazione dell'art. 82
cpv. c.p., il quale, infatti, punisce entrambi i reati a titolo di dolo: il primo (quello in
danno della vittima designata) perché voluto; il secondo (quello in danno a persona
diversa dalla vittima designata) addebitatogli allo stesso titolo, in forza della norma
disposizione di cui all'art. 82, co. 1 c.p.
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b) I'aberratio delicti
Il co. 1 dell'art. 83 c.p. stabilisce che fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente,
se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, si cagiona un evento diverso
da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto,
quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
Quest'ipotesi (che prende il nome di cd. aberratio delicti monolesiva) ricorre quando il
soggetto agente offende un bene giuridico diverso da quello che voleva offendere: si ha,
ad es., aberratio delicti nel caso di chi, lanciando un sasso contro un'automobile, allo
scopo di danneggiarla, ferisca, invece, un passante, per errore nella mira). L'art. 83 cpv.
c.p. dispone, inoltre, che se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto, si
applicano le regole sul concorso di reati: l'autore, cioè, risponderà a titolo di dolo per il
reato voluto e a titolo di colpa per quello non voluto (in tal caso, si parla di aberratio
delicti plurioffensiva).
Da sottolineare, infine, che una specifica ipotesi di aberratio delicti è prevista anche
nella parte speciale del codice e, precisamente, nell'art. 586 c.p. (morte o lesioni come
conseguenza di altro delitto), il quale stabilisce, infatti, che quando da un fatto
preveduto dalla legge come delitto doloso, deriva, quale conseguenza non voluta dal
colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'art.
83 c.p.: è il caso di precisare, però, che il delitto doloso, da cui deriva la morte di taluno,
non può essere costituito da un fatto di percosse o lesioni, perché in questo caso ricorre,
viceversa, la figura del delitto preterintenzionale, ex art. 43 c.p.
Sezione II
Il concorso apparente di norme
Capitolo unico
§1. Il concorso di norme nel nostro ordinamento
Si parla di concorso apoparen te di norme nel caso in cui due o più norme
incriminatrici sembrano, in astratto, applicabili a un medesimo fatto, ma in concreto
l'applicazione di una di esse esclude l'altra o le altre.
Ovviamente, non si potrà parlare di concorso di norme in presenza di norme tra loro
eterogenee (ad es., falsità di atti e furto, violazione di domicilio e lesioni personali)
ovvero in presenza di norme che si trovano in una relazione di incompatibilità, nel
senso che le rispettive fattispecie, accanto ad elementi comuni, ne presentano altri tra
loro non compatibili: si pensi, ad es., al rapporto tra l'appropriazione indebita ed il
furto, che si configurano, entrambi, come reati contro il patrimonio; mentre, però,
l'appropriazione indebita, di cui all'art. 646 c.p., si caratterizza per il possesso della
cosa altrui da parte dell'agente, il furto, ex art. 624 c.p., si contrassegna, invece, per
l'impossessamento della cosa originariamente detenuta da altri.
Dall'ambito del concorso di norme restano, poi, escluse anche le ipotesi in cui due o più
disposizioni si trovino in una ed. relazione di interferenza: in questo caso, infatti, le
fattispecie legali hanno sì un nucleo comportamentale in comune, su cui si innestano,
però, elementi tra loro eterogenei (si pensi, ad es., alla congiunzione carnale, presente
come elemento costitutivo del fatto, sia nell'incesto che nella violenza carnale).
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§2.1 criteri di determinazione della norme prevalente
Per dirimere il conflitto di norme vengono utilizzati diversi criteri.
Il primo è il criterio di specialità, disciplinato ex art. 15 c.p., il quale stabilisce che, se
tradue norme esiste un rapporto di genere a specie, la norma speciale prevale su
quella generale, perché contiene, oltre agli elementi compresi nella fattispecie
generale, anche degli elementi, appunto, specializzanti: ad es., l'art. 630 c.p., che
disciplina il sequestro di persona a scopo di estorsione, rappresenta una norma
speciale rispetto al sequestro di persona, ex art. 605 c.p., perché aggiunge ai requisiti
richiesti per il sequestro, lo scopo di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della
liberazione.
Le cose, però, stanno in modo del tutto diverso nel caso in cui il rapporto tra le due
norme sia di ed. specialità reciproca, nel senso che ciascuna delle due norme contiene
uno o più elementi specializzanti: si pensi, ad es., al rapporto tra l'aggiotaggio comune,
di cui all'art. 501, co. 1 c.p. e l'aggiotaggio societario, di cui all'art. 2628 ce. (queste due
norme, invero, hanno sì in comune l'aspetto oggettivo della condotta di aggiotaggio,
ma mentre la prima disposizione è contrassegnata dal dolo specifico costituito dal fine
di turbare il mercato interno, la seconda è contrassegnata, invece, dalla particolare
qualifica del soggetto agente: amministratore o sindaco di s.p.a.). In questi casi, perciò,
si tende a considerare come speciale la fattispecie che presenta il maggior numero di
elementi specializzanti.
In ogni caso, occorre sottolineare che molti dei casi di specialità reciproca trovano
soluzione nella stessa legge penale, attraverso il ed. criterio di sussidiarietà: criterio
che si sostanzia nella previsione di specifiche clausole di riserva, che conferiscono ad
una delle norme in concorso carattere sussidiario rispetto all'altra o alle altre. A loro
volta, queste clausole di riserva si definiscono:
• determinate, quando individuano in modo esatto e preciso la disposizione rispetto
alla quale sussiste un rapporto di sussidiarietà (si pensi, ad es., alla clausola di cui all'art.
595 c.p.: fuori dei casi indicati nell'articolo precedente);
• relativamente determinate, quando il rinvio è operato nei confronti di disposizioni
che prevedono sanzioni più gravi (ad es., se il fatto non costituisce un più grave reato);
• indeterminate quando il rinvio ha carattere generico (ad es., se il fatto non è previsto
come reato da altra disposizione di legge).
Il criterio di sussidiarietà evoca naturalmente quello dell' assorbimento, il quale ultimo
è richiamato dall'art. 84 c.p.: tale criterio trova esplicita applicazione nell'ambito del
reato complesso e di quello progressivo.
§3. Il reato complesso e il reato progressivo
a) il reato complesso
Il reato complesso (art. 84 c.p.) rappresenta quel reato, i cui elementi costitutivi o le cui
circostanze aggravanti sono previsti come reati a sé stanti da altre norme penali: si
pensi, ad es., alla rapina (art. 628 c.p.), la quale assorbe i reati di furto (art. 624 c.p.) e
di violenza privata (art. 610 c.p.); si pensi ancora al danneggiamento di una serratura
(di per sé rilevante ex art. 635 c.p.), che perde la sua autonoma rilevanza nel momento
in cui il suo disvalore viene fatto rifluire nell'ipotesi prevista dal n. 1 dell'art. 625 c.p.,
come circostanza aggravante del delitto di furto.
In questo senso, si intuisce che la funzione che il legislatore ha inteso dare all'art. 84 c.p.
è stata quella di concedere all'interprete e soprattutto il giudice un criterio-guida idoneo
ad escludere, in presenza dei requisiti richiesti, l'applicabilità del regime del concorso di
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reati. Nonostante ciò, però, una parte della dottrina tende ad estendere la disciplina
propria dell'art. 84 c.p. a due distinte categorie: il reato complesso in senso lato ed il
reato eventualmente complesso. In dettaglio:
• nella categoria del reato complesso in senso lato dovrebbero essere annoverate tutte
quelle fattispecie tipiche che, accanto ad un nucleo normativo comune ad altre figure di
reato, presentino un ulteriore elemento, penalmente irrilevante (come esempio si
adduce il caso della violenza carnale, in cui l'elemento irrilevante - il congiungimento
carnale - verrebbe a innestarsi sulla fattispecie della violenza privata). Questa ipotesi,
però, non sembra si possa ricondurre nell'alveo dell'art. 84 c.p., dal momento che
quest'ultima norma presuppone la rilevanza penale di tutti gli elementi. Se ne deduce,
allora, che il caso in esame deve essere risolto facendo riferimento alla regola della
specialità, ex art. 15 c.p.;
• nella categoria del reato eventualmente complesso, viceversa, andrebbero annoverate
tutte quelle ipotesi in cui la complessità non si manifesta in astratto, ma si riscontra nel
momento in cui la concreta realizzazione di una fattispecie tipica (rectius: di un reato)
passa attraverso la realizzazione di un reato diverso, il quale, in questo modo, viene a
rappresentare un elemento costituivo del primo reato. Come esempio si adduce il caso
della truffa, di cui all'art. 640 c.p., realizzata, però, mediante una sostituzione di
persona, ex art. 494 c.p.: sostituzione che viene a rappresentare un elemento costitutivo
della prima fattispecie. A ben vedere, tuttavia, neppure questa ipotesi sembra potersi
conciliare con la figura del reato complesso ex art. 84 c.p., in ragione del fatto che la
norma in esame presuppone la contenenza di una fattispecie legale in un'altra, come
suo elemento costitutivo e non come una sua particolare modalità di esecuzione.
b) il reato progressivo, l'antefatto e il postfatto non punibili
L'idea della progressione criminosa implica l'idea del passaggio - attraverso momenti,
che progressivamente divengono sempre più gravi - di offesa al bene giuridico: in tal
senso, la figura del reato progressivo si configura tutte le volte in cui la realizzazione di
una determinata fattispecie delittuosa comporta necessariamente la realizzazione di una
fattispecie delittuosa minore, il cui disvalore penale resta incluso in quello della
fattispecie delittuosa principale (così, ad es., nel ferimento seguito da morte, il
disvalore inerente al delitto di lesioni personali è incluso nel disvalore finale inerente al
delitto di omicidio).
Detto ciò, è bene precisare, in ogni caso, che alla nozione di reato progressivo sono
anche collegate le figure dell'antefatto (in qualità di premessa) e del postfatto (in
qualità di conseguenza) non punibili del reato commesso; ora, nella stragrande
maggioranza dei casi, l'irrilevanza di queste due figure emerge esplicitamente dal testo
normativo: come, ad es., nel caso della spendita di monete falsificate, ex art. 455 c.p.,
realizzata dallo stesso soggetto che, in precedenza, ha contraffatto le monete, ex art.
453 c.p. (ipotesi di postfatto non punibile).
In altri casi, invece, l'irrilevanza è soltanto implicita: si pensi, ad es., al caso in cui il
postfatto non punibile costituisca semplicemente uno degli strumenti attraverso i quali
viene, poi, commesso il reato principale (come nel caso del danneggiamento della cosa
rubata, che altro non è se non una espressione, penalmente irrilevante, del potere di
disposizione su di essa illecitamente conseguito dall'agente).
È necessario sottolineare, ad ogni modo, che le figure dell'antefatto e del postfatto non
punibili non debbono essere confuse con altre figure, nelle quali i diversi fatti sono
legati semmai da un vincolo di continuazione: si pensi, ad es., al possesso ingiustificato
di grimaldelli che sia seguito da furto.
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Parte VI
Le sanzioni
Premessa
Il vigente ordinamento penale organizza la risposta statuale ai fenomeni di devianza
criminale secondo tre linee di intervento, che si articolano nella comminatoria delle
pene, delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (queste, nel loro insieme,
compongono il sistema unitario delle sanzioni criminali).
Con ciò, ovviamente, non si vogliono affatto ignorare le differenze, nei contenuti e nei
presupposti, tra pene, misure di sicurezza e misure di prevenzione: al contrario, questi
meccanismi di difesa sociale, anche se si prestano ad una trattazione unitaria,
conservano un'irriducibile separatezza, che ne impone la distinta descrizione.
Sezione I
Le pene
Capitolo I
La fisionomia della pena nell'ordinamento vigente
§1. Le teorie penali
Sotto il profilo concettuale, la pena rappresenta una reazione, la risposta a qualcosa che
è già accaduto; in particolare, secondo l'indicazione di Hegel (contenuta nei suoi
Lineamenti di Filosofia del diritto) la pena rappresenta lo schema logico del
ristabilimento del diritto violato dal reato; in quanto schema logico, essa appare,
pertanto, funzionale al perseguimento di qualsiasi finalità (a partire dalla retribuzione,
come erroneamente e per lungo tempo è stata intesa la teoria hegeliana, fino alle più
avanzate forme di risocializzazione): il fondamento della pena riposa, quindi, sul
passato, mentre per quel che concerne la funzione da esplicare, essa è rivolta al futuro.
Ora, in rapporto al momento della funzione, si distinguono, in linea generale, teorie
assolute e teorie relative: le prime si caratterizzano in negativo per l'assenza di ulteriori
finalità rispetto all'inflizione della sanzione; le seconde, invece, conoscono una o più
finalità.
Un'ulteriore distinzione è, poi, quella tra teorie pure, che prendono in considerazione
una sola finalità, e teorie eclettiche, che, al contrario, combinano più finalità; mentre,
però, le teorie eclettiche non rappresentano un numerus clausus, quelle pure, invece, si
riducono sostanzialmente a quattro: la teoria retributiva, la teoria della prevenzione
generale, la teoria della prevenzione speciale e la teoria dell'emenda (è bene precisare,
in ogni caso, che le teorie citate trovano il loro denominatore comune nell'ambito del
pensiero penalistico di estrazione kantiana).
a) la teoria retributiva di Immanuel Kant
Kant tratta espressamente del problema della pena nella prima parte della Metafisica
dei Costumi: qui l'autore definisce il diritto penale come il diritto che ha il sovrano di
infliggere una pena ad un soggetto quando questi si sia reso colpevole di un delitto.
Come si può notare, questa definizione si caratterizza per la presenza del principio di
colpevolezza, di cui, però, si precisa la portata unilaterale: infatti, Kant nega alla pena la
legittimazione a perseguire un qualsiasi scopo, oltre quello, naturalmente, di una giusta
retribuzione per il male commesso. Ma non è tutto: il problema principale, invero, è
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costituito dal fatto che Kant elabora un sistema di retribuzione morale, al cui interno la
pena deve avere un fondamento etico assoluto; quest'orientamento risulta confermato
nel momento in cui l'autore definisce la legge penale come un imperativo categorico
(tipica espressione, quest'ultimo, della legge morale). Così ragionando, però, vengono
a confondersi prospettive etiche e prospettive giuridiche, dal momento che è
impossibile definire imperativo categorico (tipico della moralità) una legge giuridica,
come quella penale, che, tra l'altro, se non rispettata, commina anche sanzioni gravi: ne
consegue, perciò, che nel sistema elaborato da Kant la norma penale, per risultare in
armonia con l'imperativo categorico, non dovrebbe prevedere né sanzioni (pene), né
giudizi esterni al soggetto (in quanto l'autonomia presuppone l'autogiudizio). Sulla base
di queste considerazioni, quindi, se ne deduce che il sistema di retribuzione morale
elaborato da Kant segna un decisivo passo indietro rispetto alle concezioni
illuministiche: aspra fu, non a caso, la diatriba ideologica con il Beccaria. Nonostante
ciò, la dottrina penale kantiana diede origine a due correnti filosofiche contrastanti: una
prima fu costituita da autori (quali, Beck e Zacharia) che accettarono l'insegnamento
dell'autore (accettarono, cioè, il binomio concettuale legge-imperativo categorico e la
retribuzione come criterio dell'inflizione).
Alternativamente a quest'orientamento si pose, invece, la parte più qualificata dei
penalisti veri e propri, i quali individuarono, con lucidità, le contraddizioni di fondo
della teoria penale di Kant, mediante l'utilizzo degli strumenti offerti dal criticismo
giuridico (in particolare, attraverso la distinzione tra il diritto e la morale). Su questi
presupposti furono, così, elaborate delle teorie relative, finalizzate al perseguimento di
uno scopo diverso da quello della mera inflizione (retribuzione); tra i teorizzatori di
queste teorie spiccano su tutti: Feuerbach e Grolman.
b) la teoria del costringimento psicologico di Ansclm Feuerbach
A differenza di Kant, il suo allievo A. von Feuerbach elabora un concetto della pena di
tipo general-preventivo: alla pena, cioè, viene affidata la funzione di trattenere,
attraverso la minaccia, prima della commissione del reato, e l'inflessibile inflizione,
dopo, la generalità dei consociati.
Feuerbach, in tal modo, collega lo scopo della pena direttamente allo scopo dello Stato
e, cioè, la difesa della libertà individuale: egli, infatti, afferma (nel suo Anti-Hobbes)
che lo scopo dello Stato è quello di garantire a tutti i cittadini la possibilità di
esercitare i propri diritti, al sicuro dalle offese.
A questo punto, però, sorge il preciso compito di individuare lo strumento idoneo a
impedire la produzione di offese: strumento che Feuerbach individua attraverso la
predisposizione di puntuali ostacoli di natura psicologica (a suo avviso, infatti, gli
ostacoli di natura fisica non sarebbero praticabili). Ora, il più efficace tra gli ostacoli di
ordine psicologico è, per Feuerbach, la pena civile (o giuridica) che, ovviamente, è una
pena diversa da quella morale (di natura kantiana): per la pena morale, infatti, il
fondamento (naturale) dell'inflizione del male risiede nell'infrazione della legge del
dovere (o nell'immoralità dell'intenzione dell'autore); la pena giuridica, al contrario,
deve avere come punto di riferimento la sola azione esterna dell'uomo (e la conformità
di questa alla legge giuridico-statuale).
Da questo assunto scaturiranno le solide basi per la formulazione della teoria penale di
Feuerbach, che segue pressappoco questo schema: il delitto è un mezzo che serve a
procurare piacere a chi lo commette; al fine, perciò, di evitare che vengano commessi
fatti criminosi nella società, è necessario che alla rappresentazione del piacere venga
contrapposta la rappresentazione di un dolore, di una intensità superiore al piacere
derivante dalla commissione del delitto (ed. controspinta alla spinta criminosa). In tal
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modo, si tende ad operare, nei confronti dei consociati, una sorta di coazione
psicologica, in modo da prevenire, in generale, la commissione dei reati.
c) la prevenzione speciale nell'elaborazione di Karl Grolman
Alla teoria della coazione psicologica (di stampo general-preventivo) di Feuerbach,
prima Stiibel e poi Grolman (penalista di estrazione kantiana) oppongono il punto di
vista della prevenzione speciale.
In particolare, secondo Grolman, il delinquente, con il suo reato, si è dimostrato un
essere non ragionevole, perché pone a base delle proprie azioni il soddisfacimento
delle sue personali esigenze, anziché del rispetto dell'altrui diritto; sicché è altamente
probabile che egli ripeta l'azione delittuosa. In questa prospettiva, è necessario,
pertanto, influire sul delinquente, in maniera tale da indurlo a non portare a
compimento la sua futura minaccia. Ora, questo scopo, secondo l'autore, può essere
perseguito o mediante una concreta intimidazione individuale (attraverso l'inflizione di
un male) ovvero con il porre il soggetto nella fisica impossibilità di attuare la sua
minaccia; in ogni caso, Grolman si affretta a precisare che questo diritto punitivo può
essere esercitato esclusivamente dallo Stato, il quale, a sua volta, è tenuto ad esercitarlo
nel rispetto di alcuni principi fondamentali: anzitutto, la pena dovrà essere inflitta solo
qualora risulti impossibile applicare un altro provvedimento che incida di meno sulla
libertà individuale del soggetto (è il ed. principio di sussidiarietà del diritto penale); in
secondo luogo, dovrà essere osservata la regola della ragionevole proporzione tra
l'entità del fatto commesso e la misura della pena da applicare.
È bene precisare, però, che la teoria del Grolman non abbraccia i contenuti della
risocializzazione del delinquente: questi saranno presi in considerazione soltanto verso
la fine del 1800 (ad opera del penalista Franz von Listz).
d) l'emenda nella versione di Karl Krausc
Un diretto antecedente dell'idea di risocializzazione è contenuto nella teoria elaborata
da Karl Krausc, il quale (come Kant) si occupa della tematica della pena nell'ambito
dell'elaborazione di un sistema filosofico di matrice universalistica, che può essere
schematizzato come segue: secondo Krause, la finalità essenziale del diritto consiste
nel consentire la massima esplicazione della personalità dell'individuo. Su questa
premessa, ovviamente, non poteva che essere fondata una teoria penale
correzionalista: infatti, iZ delinquente, per quanto concerne il delitto da lui
commesso, è da considerare come un minore o un incapace, cioè come un individuo
che non è in grado di esprimere correttamente la propria personalità nel rispetto degli
altri. Nei suoi confronti, perciò, è concepibile, ad avviso di Krause, soltanto un'opera di
emenda, che dovrà principalmente servire ad annullare i motivi interiori che spingono
il delinquente a compiere il male; per raggiungere un risultato di questo tipo, è
necessario, anzitutto, suscitare la naturale buona volontà del reo; fatto ciò, occorrerà
isolarlo dagli altri condannati, allo scopo di puntare al suo recupero morale.
Raggiunto tale risultato, Krause propone, infine, di indirizzare le energie fisiche del
delinquente alla pratica del bene: ciò significa, in linea generale, avviamento al lavoro
(retribuito in equa misura), quanto più creativo possibile, in modo tale da esaltare le
peculiari attitudini del delinquente.
Tuttavia, è necessario precisare che il programma di Krause, per poter essere attuato,
richiedeva la privazione a tempo indeterminato della libertà del reo, almeno fino al
raggiungimento totale dell'emenda (il che comportava, ovviamente, un ampliamento
del potere discrezionale del giudice, sia in fase di giudizio, sia in fase di esecuzione).
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§2. La pena intesa come integrazione sociale
L'art. 27, co. 3 Cost. stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del
condannato; da questa disposizione si evince che la nostra Costituzione considera
incompatibile con i principi operanti nel nostro sistema la teoria assoluta della
retribuzione, perché questa non solo si presenta in contrasto strutturale con i principi
fondamentali dello Stato di diritto, ma appare anche irrazionale (sotto il profilo
ontologico) e sterile (da un punto di vista politico-criminale).
L'abbandono di una prospettiva meramente retribuzionistica della pena comporta, di
conseguenza, la scelta di un'opzione in termini di prevenzione, sia speciale che
generale; se, però, le finalità della pena devono solo essere di ordine preventivo, va,
tuttavia, precisato che andranno privilegiate soltanto alcune forme di prevenzione e
questo perché sia la prevenzione generale che quella speciale possono esprimere due
aspetti distinti: l'uno negativo, l'altro positivo. In particolare:
• l'aspetto negativo della prevenzione generale consiste nell'adozione di strumenti atti
al raggiungimento di risultati di tipo intimidativo-deterrente (questi vengono presi in
considerazione all'atto della creazione della fattispecie);
• l'aspetto positivo della prevenzione generale è, invece, collegato al rafforzamento
della fiducia dei consociati intorno alla validità delle norme dell'ordinamento (tale
aspetto assume notevole importanza sia nella fase della creazione della fattispecie che
nella fase dell'esecuzione);
• l'aspetto negativo della prevenzione speciale si traduce, invece, in un atteggiamento
che conduce all'intimidazione individuale (quest'aspetto assume importanza nella fase
dell'inflizione);
• l'aspetto positivo della prevenzione speciale consiste, infine, nel recupero sociale del
reo (quest'aspetto assume importanza sia all'atto della creazione della fattispecie,
perché tra illecito e sanzione deve sussistere un determinato equilibrio, in modo tale che
il condannato possa poi recepire la norma violata come regola di condotta, e sia nella
fase dell'esecuzione: a tal riguardo, va anche specificato che il recupero del reo può
essere perseguito attraverso una terapia emancipante, che sia, però, espressione di una
libera scelta del condannato, in modo da favorire il suo completo reinserimento nel
tessuto sociale).
In conclusione, si può allora affermare che, in rapporto alla funzione della pena, il
nostro ordinamento giuridico consente di perseguire legittimamente gli scopi positivi
della prevenzione (generale e speciale): questi ultimi, a loro volta, possono essere
unitariamente ricompresi sotto il concetto di genere dell' integrazione sociale.
Capitolo II
Le tipologie della pena edittale
§1. Le pene principali e le pene accessorie
Il codice penale vigente distingue le pene in principali ed accessorie; quanto alle
prime, l'art. 17 c.p. separa le pene principali stabilite per i delitti (ergastolo, reclusione
e multa) da quelle stabilite per le contravvenzioni (arresto e ammenda).
Il seguente art. 18 c.p. suddivide, invece, le pene principali in base al loro contenuto,
denominando pene detentive o restrittive della libertà personale: l'ergastolo, la
reclusione e l'arresto; pene pecuniarie: la multa e l'ammenda.
Il catalogo delle pene principali si apriva, come è noto, con la menzione della pena di
morte che, abolita dal Codice Zanardelli, era stata reintrodotta dal codice del '30, in
virtù delle scelte politico-criminali ispirate ad una strategia di estrema prevenzione
generale mediante intimidazione. Tuttavia, con l'entrata in vigore del d.lgs.lt. 244/44 la
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pena di morte è stata nuovamente soppressa dal nostro ordinamento ed è stato stabilito
che, in suo luogo, sia applicata la pena dell'ergastolo.
Con il d.lgs. 21/48 la pena di morte è stata eliminata, poi, anche dalle leggi speciali,
diverse da quelle militari di guerra, nelle quali restava invece in vigore (di recente, però,
anche questa ipotesi di ammissibilità è stata eliminata, a seguito dell'entrata in vigore
della L. 689/94).
§2. Le pene detentive
a) le pene principali detentive
Le pene principali detentive sono l'ergastolo, la reclusione e l'arresto. L'ergastolo
(art. 22 c.p.) è la pena detentiva perpetua, in quanto si estende, almeno potenzialmente,
tanto quanto è destinata a durare la vita residua del condannato: la pena dell'ergastolo è
scontata in uno degli appositi stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con
l'isolamento notturno.
Va detto, però, che, per la sua dubbia compatibilità con il principio rieducativo, la
legittimità costituzionale della pena dell'ergastolo è stata più volte contestata, anche se
la Corte cost., con una sentenza del 1974, ha dichiarato non fondata la questione di
legittimità, e ciò sulla base di una concezione polifunzionale della pena, che
valorizza, tra gli scopi della sanzione penale, accanto all'obiettivo della rieducazione
del condannato, anche la difesa sociale e la neutralizzazione a tempo indeterminato
di particolari delinquenti (va precisato, tra l'altro, che nel 1981 è stato indetto,
sull'istituto, anche un referendum popolare, che si è, tuttavia, concluso con il diniego
della proposta di abrogazione della pena dell'ergastolo).
Sta di fatto, comunque, che, a seguito di diverse modifiche legislative, attualmente
risultano alquanto ridimensionate le riserve di ordine costituzionale sull'ergastolo: il
condannato alla pena dell'ergastolo, infatti, attualmente, è ammesso a godere della
liberazione condizionale, dopo che abbia scontato 26 anni di pena; può, inoltre, essere
ammesso a godere della liberazione anticipata e del regime di semilibertà, dopo aver
scontato 20 anni di pena.
La reclusione (art. 23 c.p.) è la pena detentiva temporanea prevista per i delitti; la sua
durata può estendersi da un minimo di 15 gg. ad un massimo di 24 anni (la durata
massima può, però, giungere fino ai 30 anni, per effetto della presenza di circostanze
aggravanti ovvero di concorso di reati). La pena in esame viene scontata in uno degli
stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno: a tal
proposito, è bene precisare, tuttavia, che la legge sull'ordinamento penitenziario del '75
ha stabilito che il trattamento penitenziario deve essere scontato avendo riguardo alle
particolari esigenze della personalità del condannato e deve agevolare i rapporti del
recluso con il mondo esterno e con la famiglia.
L'arresto (art. 25 c.p.) è la pena detentiva temporanea prevista per le contravvenzioni;
la sua durata va da un minimo di 5 gg. ad un massimo di 3 anni (questo limite può essere
elevato a 5 anni per la presenza di circostanze aggravanti e fino ai 6 anni per effetto del
cumulo conseguente al concorso di reati). A differenza del condannato alla reclusione,
però, il condannato all'arresto può anche essere addetto a svolgere lavori diversi da
quelli organizzati all'interno dell'apposito stabilimento. Da sottolineare, infine, che la
pena dell' arresto può essere scontata anche in regime di semilibertà.
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b) le pene non detentive, limitative della libertà personale
L'art. 52 d.lgs. 274/2000, al fine di rendere realizzabili gli obiettivi di decarcerizzazione
(nonché di risocializzazione), ha assegnato al giudice di pace la possibilità di irrogare
determinate sanzioni non detentive, ma, in ogni caso, limitative della libertà
personale. Queste ultime vanno, quindi, ad arricchire il catalogo delle pene principali,
ex art. 17 c.p.: ci riferiamo, in dettaglio, alla permanenza domiciliare e al lavoro di
pubblica utilità. La pena della permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere
presso la propria abitazione o altro luogo di privata dimora ovvero presso un luogo di
cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e di domenica: la durata della
sanzione non può essere inferiore ai 6 gg. né superiore ai 45 gg.
La pena del lavoro di pubblica utilità consiste, invece, nella prestazione di attività non
retribuita in favore della collettività, da svolgersi presso lo Stato, le province, i comuni
o presso enti od organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato: la durata della
sanzione non può essere inferiore ai 10 gg. né superiore ai 6 mesi (questa pena può
essere, però, irrogata soltanto laddove l'imputato ne faccia esplicita richiesta).
c) le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi
La L. 689/81 (rubricato Modifiche al sistema penale) ha introdotto nel nostro sistema
giuridico determinate sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Invero, l'art. 53 di
questa legge prevede che il giudice, nell'atto in cui emette la sentenza di condanna, può
irrogare una sanzione sostitutiva:
* quando la pena detentiva, per la sua brevità, non appare idonea al perseguimento delle
finalità di risocializzazione;
* nei casi in cui non appare opportuno punire, con la privazione della libertà, fatti che
destano modesto allarme sociale;
* quando la carcerazione, specialmente per chi vi è soggetto per la prima volta, può
risultare altamente desocializzante.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi sono: la semidetenzione, la libertà
controllata e la pena pecuniaria.
La semidetenzione è una sanzione che viene inflitta dal giudice in sostituzione delle
pene detentive superiori ad 1 anno e non superiori a 2 anni. La sanzione comporta:
* l'obbligo di trascorrere 10 ore al giorno in uno degli appositi istituti di pena;
* il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi;
* la sospensione della patente di guida ed il ritiro del passaporto.
La libertà controllata è, invece, una sanzione che il giudice infligge in luogo delle pene
detentive superiori a 6 mesi, ma non superiori ad 1 anno. Questa sanzione comporta:
* il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza (salvo autorizzazione concessa per
motivi di lavoro o di studio);
* l'obbligo di presentarsi una volta al giorno (o anche più volte, a seconda dei casi)
presso gli uffici di pubblica sicurezza o, in mancanza, presso il Comando dell'Arma dei
Carabinieri, territorialmente competente;
* il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi;
* la sospensione della patente di guida ed il ritiro del passaporto.
La pena pecuniaria, infine, è una sanzione che viene inflitta dal giudice in sostituzione
delle pene detentive non superiori a 6 mesi: in altri termini, il giudice può disporre la
sostituzione della pena detentiva breve con una pena pecuniaria della stessa specie (ad
es., la sostituzione della reclusione con la multa o dell'arresto con l'ammenda). Nel
determinare la pena sostitutiva da applicare, il giudice deve adottare il modello dei ed.
tassi giornalieri, introdotto nel 2003 con la L. n. 134: in questa prospettiva, nel
procedere alla sostituzione, il giudice, dopo aver accertato la condizione economica
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dell'imputato e del relativo nucleo familiare, determina l'entità della quota giornaliera
compresa tra un minimo di 38 € ed un massimo di 380 €, che viene poi moltiplicata per
il numero dei giorni di pena detentiva da sostituire.
d) le misure alternative alla detenzione
Il legislatore, con la legge sull'ordinamento penitenziario del 1975, ha introdotto nel
sistema delle misure alternative alla detenzione, che, sostituendosi alle pene detentive,
rendono più efficace, almeno in teoria, l'opera di rieducazione e di risocializzazione: le
sanzioni in esame, però, possono essere irrogate esclusivamente dalla Magistratura di
sorveglianza, perché esse costituiscono semplicemente una possibile modalità di
esecuzione della pena detentiva.
Le misure alternative alla detenzione previste dal vigente ordinamento penitenziario
sono: l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la
semilibertà e la liberazione anticipata.
L'affidamento in prova al servizio sociale (definito come il fiore all'occhiello della
riforma penitenziaria) presenta delle chiare analogie con l'istituto anglosassone del
probation e consiste nell'affidamento in prova del condannato a pena detentiva, non
superiore a 3 anni, ad un Centro di servizio sociale fuori dall'istituto; la ratio
giustificatrice del beneficio va individuata nel fatto che in tal modo si evitano al
condannato i probabili danni che scaturirebbero dal contatto con l'ambiente
penitenziario. Il servizio sociale controlla il comportamento del soggetto e lo coadiuva
nel reinserimento nella vita sociale, riferendo periodicamente al magistrato di
sorveglianza. Se il periodo di affidamento in prova ha esito favorevole, ne consegue
l'estinzione della pena; se, invece, il comportamento dell'affidato si mostra
incompatibile con la prosecuzione della prova, l'affidamento è revocato.
La detenzione domiciliare, invece, è una misura alternativa che consente di espiare la
pena della reclusione (non superiore a 4 anni) e la pena dell'arresto all'interno della
propria abitazione o in un luogo pubblico di cura o assistenza (quando il condannato è
una donna incinta ovvero una persona in condizioni di salute precarie o, ancora, una
persona di età superiore agli anni 60 o minore degli anni 21, per comprovate ragioni di
salute, di studio o di lavoro).
Da notare, tra l'altro, che con la L. 165/98 è stata introdotta una figura sussidiaria di
detenzione domiciliare, così denominata perché può essere applicata (a prescindere
dalle condizioni su menzionate) a qualsiasi condannato che debba scontare una pena
detentiva non superiore a 2 anni, ove non ricorrano i presupposti per l'affidamento in
prova al servizio sociale.
Da ultimo, è necessario sottolineare che sulla detenzione domiciliare è intervenuta la L.
251/2005, la quale ha introdotto delle restrizioni alla concedibilità del beneficio per i
soggetti recidivi: infatti, per i soggetti condannati con l'aggravante di cui all'art. 99, co.
4 c.p., il limite di pena detentiva che può essere scontato mediante detenzione
domiciliare è abbassato a 3 anni (rispetto ai 4 previsti).
Sempre con la novella del 2005 è stata, altresì, esclusa la possibilità di applicare ai
soggetti recidivi reiterati (che debbano scontare una pena detentiva non superiore a 2
anni, come previsto dalla L. 165/98) la detenzione domiciliare nei casi in cui non
ricorrano i presupposti per l'affidamento in prova ai servizi sociali. La semilibertà dà la
possibilità al condannato di trascorrere parte del giorno al di fuori dell'istituto di pena,
al fine di partecipare ad attività lavorative, istruttive o, in ogni caso, utili al suo graduale
reinserimento nella società. In dettaglio, i soggetti ammessi a godere del regime di
semilibertà sono: il condannato all'ergastolo, che abbia però scontato almeno 20 anni di
pena, ed il condannato alla pena dell'arresto o a quella della reclusione non superiore a 6
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mesi (anche prima che abbia inizio l'espiazione della pena, qualora abbia dimostrato la
propria volontà di reinserimento nella vita sociale).
Viceversa, per il soggetto al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, co.
4 c.p., la legge del 2005 ha stabilito che, per godere del regime di semilibertà, il
soggetto deve aver scontato almeno due terzi della pena.
La liberazione anticipata, invece, a differenza delle precedenti figure, rappresenta una
particolare ipotesi di anticipata cessazione di esecuzione della sanzione penale. In
particolare, la finalità dell'istituto consiste nel rendere più efficace il reinserimento del
condannato nella società: infatti, nella prospettiva di poter ottenere il beneficio, il
condannato è incentivato a collaborare all'opera di rieducazione-risocializzazione. In
virtù di queste considerazioni, perciò, se ne deduce che la liberazione anticipata, può
essere concessa al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipare
attivamente all'opera di rieducazione: più precisamente, al reo viene riconosciuta una
riduzione di pena di 45 gg. per ciascun semestre di pena detentiva scontata.
§3. Le pene pecuniarie
Le pene pecuniarie sono la multa e l'ammenda.
La multa (art. 24 c.p., come modificato dalla L. 94/2009) è la pena pecuniaria prevista
per i delitti e consiste nel pagamento allo Stato di una somma di denaro compresa tra i
50ed i50.000€.
Occorre specificare, inoltre, che per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge
stabilisce solo la pena della reclusione, il giudice ha la facoltà di aggiungere anche una
multa compresa tra i 50 e i 25000 €.
L'ammenda (art. 26 c.p., così come modificato dalla L. 94/2009) è, al contrario, la pena
pecuniaria stabilita per le contravvenzioni e consiste nel pagamento allo Stato di una
somma di denaro compresa tra i 20 ed i 10000 €.
L'art. 133 bis c.p., introdotto dalla L. 689/81, ha tenuto a precisare, però, che il giudice,
nell'irrogare la pena pecuniaria, deve tener conto delle condizioni economiche del
reo: per tal motivo, il giudice potrà aumentare l'ammontare della pena pecuniaria fino
al triplo del massimo previsto dalla legge, ove ritenga che, per le condizioni
economiche del reo, la misura massima risulti inefficace; diversamente, diminuirà la
pena fino ad un terzo, nel caso in cui ritenga che la misura minima risulti
eccessivamente gravosa.
§4. Le pene accessorie
Le pene accessorie sono delle sanzioni che limitano la capacità del condannato ovvero
rendono più afflittiva la pena principale; esse si applicano di diritto alla condanna
principale e possono essere perpetue o temporanee (in quest'ultimo caso, la loro durata
corrisponderà alla durata della pena principale).
Le pene accessorie previste per i delitti sono: l'interdizione dai pubblici uffici,
l'interdizione da una professione o da un'arte, l'interdizione legale, l'interdizione
dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l'incapacità di
contrattare con la P.A. e la decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei
genitori.
• L'interdizione dai pubblici uffici (ex art. 28 c.p.) può essere perpetua o temporanea: è
perpetua se segue alla condanna all'ergastolo o alla reclusione non inferiore a 5 anni; è
temporanea (compresa tra 1 e 5 anni), se segue alla condanna alla reclusione non
inferiore a 3 anni.
La pena viene irrogata ai condannati per i delitti commessi con l'abuso dei poteri o con
la violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione.
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• L'interdizione da una professione o da un'arte (ex art. 30 c.p.) viene irrogata ai
soggetti condannati per i delitti commessi con abuso della professione ovvero dell'arte
(la sua durata è compresa tra un minimo di 1 mese ed un massimo di 5 anni).
• L'interdizione legale (disciplinata ex art. 32 c.p.) produce, invece, le incapacità
tipiche dell'interdizione giudiziale (essa, dunque, comporta l'incapacità di agire): da
notare che è legalmente interdetto il condannato all'ergastolo e il condannato alla
reclusione non inferiore a 5 anni.
• L'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 32
bis c.p., come modificato a seguito dell'introduzione della L. 262/2005) priva il
condannato della capacità di esercitare l'ufficio di amministratore o sindaco, nonché di
ogni altro potere di rappresentanza della persona giuridica (l'interdizione consegue ad
ogni condanna alla reclusione non inferiore a 6 mesi per i delitti commessi con abuso
dei poteri o con violazione dei doveri inerenti all'ufficio).
• L'incapacità di contrattare con la P.A. (art. 32 ter c.p.) importa il divieto di stipulare
e concludere contratti con la P.A., salvo che per ottenere le prestazioni concernenti un
pubblico servizio.
• L'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (di cui all'art. 32 quinques c.p.) è
una pena accessoria introdotta nel 2001 e comporta l'estinzione del rapporto di lavoro
per il dipendente di amministrazioni ovvero di enti pubblici o di enti a prevalente
partecipazione pubblica.
• La decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori (di cui all'art.
34 c.p.) importa la perdita o la temporanea privazione dei poteri che la legge riconosce
al genitore sul figlio e sui suoi beni.
Le pene accessorie previste per le contravvenzioni sono, invece:
• la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte (art. 35 c.p.), che è una
pena accessoria che consegue ad ogni condanna per contravvenzione commessa con
abuso della professione o con la violazione dei relativi doveri, quando la pena
principale inflitta non è inferiore ad 1 anno di arresto; la sua durata va da un minimo di
15 gg. ad un massimo di 2 anni;
• la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (di cui
all'art. 35 bis c.p., modificato dalla L. 262/2005), la quale è una pena accessoria che
priva il condannato, durante il periodo di sospensione, della capacità di esercitare
l'ufficio di amministratore o sindaco e di qualsiasi altro potere di rappresentanza della
persona giuridica.
Pena accessoria comune sia ai delitti che alle contravvenzioni è, infine, la
pubblicazione della sentenza di condanna (art. 36 c.p., modificato dalla L. 69/2009 e
dalla L. 111/2011): in particolare, la sentenza di condanna all'ergastolo è pubblicata
mediante affissione nel comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu
commesso, e in quello ove il condannato aveva l'ultima residenza.
La sentenza di condanna è, inoltre, pubblicata sul web, nel sito internet del Ministero
della giustizia: la durata della pubblicazione nel sito è stabilita dal giudice in misura non
superiore a 30 gg. (in mancanza, la durata è di 15 gg.).
La pubblicazione è fatta per estratto, salvo che il giudice disponga la pubblicazione per
intero; essa è eseguita d'ufficio e a spese del condannato.
§5.1 criteri per la determinazione giudiziale della pena (art. 133 c.p.) La determinazione
concreta della pena è rimessa al potere discrezionale del giudice (come dispone l'art.
132, co. 1 c.p.), il quale, però, deve obbligatoriamente tener conto di alcuni elementi di
giudizio indicati dall'art. 133 c.p.: infatti, questa disposizione, nei due commi di cui si
compone, accorpa gli indici di determinazione della pena, riferendoli, rispettivamente,
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al dato della gravità del reato (art. 133, co. 1) e a quello della capacità a delinquere del
colpevole (art. 133, co. 2). Più precisamente, la gravità del reato è desunta:
• dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra
modalità dell'azione;
• dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa;
• dall'intensità del dolo o dal grado della colpa. La
capacità a delinquere è, invece, desunta:
• dai motivi a delinquere del reo (vale a dire dagli impulsi, dalle motivazioni e dai
sentimenti che hanno spinto il reo ad agire: si pensi, ad es., alla gelosia o alla paura);
• dal carattere del reo (cioè dagli aspetti strutturali della sua personalità);
• dai precedenti penali, giudiziari e, in generale, dalla condotta e dalla vita anteatta del
reo;
•dalla condotta antecedente, concomitante e susseguente al reato;
•dalle condizioni di vita familiare e sociale del reo.
Capitolo III
Le cause di estinzione del reato e le cause di estinzione della pena §1. Le cause di
estinzione del reato
Le cause di estinzione del reato (disciplinate agli artt. 150-170 c.p.) intervengono
prima della sentenza definitiva di condanna; esse sono: la morte del reo, l'amnistia
propria, la prescrizione del reato, l'oblazione, la remissione della querela, la
sospensione condizionale della pena, il perdono giudiziale, la messa alla prova,
l'estinzione del reato a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti e le
forme di definizione alternativa del procedimento davanti al giudice di pace. In
particolare:
• la morte del reo (ex art. 150 c.p.) estingue il reato se interviene prima della sentenza
definitiva di condanna;
• l'amnistia (art. 151 c.p.) è un atto legislativo di carattere generale attraverso il quale
lo Stato rinuncia alla punizione di un certo numero di reati commessi anteriormente
all'emanazione del provvedimento (estingue il reato, però, solo l'amnistia propria, dal
momento che è questa che interviene prima della sentenza definitiva di condanna). Da
segnalare che mentre in precedenza l'amnistia era concessa dal Presidente della
Repubblica, su legge di delegazione delle Camere, a seguito dell'entrata in vigore della
1. cost. 1/92 (che ha modificato l'art. 79 Cost.), essa oggi viene concessa con legge
deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera: in tal modo,
si è cercato di porre un freno a quelle amnistie che non fossero dettate da esigenze di
pacificazione sociale;
• la prescrizione del reato (artt. 157-161 c.p. e successive modifiche apportate dalla L.
251/2005) è una causa di estinzione del reato che ha come presupposto il decorso del
tempo (decorso che rende inopportuno l'esercizio della funzione repressiva); in ogni
caso, occorre precisare due cose: la prima è che l'imputato ha sempre la possibilità di
rinunciare alla prescrizione; la seconda è che i delitti puniti con l'ergastolo non si
prescrivono in nessun caso.
In linea generale, il quadro normativo può essere, così, schematizzato: mentre prima
della riforma del 2005, la durata della prescrizione si determinava in scaglioni di 5 anni
e multipli di 5, a seconda della fascia a cui apparteneva la pena massima del reato
contestato (fissando, ad es., la prescrizione in 10 anni per i delitti puniti, nel massimo,
con la reclusione non inferiore a 5 anni), nella formulazione attuale della norma di cui
all'art. 157 c.p., invece, si stabilisce che il tempo necessario a prescrivere corrisponde
direttamente al massimo della pena edittale. In particolare: per i reati puniti con pena
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elevata (intorno ai 10 anni di reclusione), il termine di prescrizione è notevolmente più
breve (prima era di 15 anni, mentre adesso non può superare il massimo della pena
edittale: quindi, se la pena massima è di 10 anni, il termine di prescrizione sarà
anch'esso di 10 anni); invece, i reati di media gravità (che prima si collocavano nella
fascia di prescrizione decennale) ora hanno, come tetto massimo, quello di 6 anni;
infine, per i reati di lieve entità, i termini prescrizionali risultano più elevati (tenendo
anche conto del fatto che per le contravvenzioni il limite è stato portato a 4 anni).
È bene precisare, però, che i termini di prescrizione sono raddoppiati qualora ci si trovi
in presenza dei reati previsti dagli artt. 449 e 589, co. 2, 3 e 4 c.p. (si tratta di reati
colposi ritenuti di particolare gravità, quali, ad es., l'incendio e l'omicidio colposo, se
commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale o di quella sulla
prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero aggravato dalla morte di più persone). I
termini raddoppiano anche nel caso in cui ci si trovi in presenza di reati per i quali il
codice di procedura penale prevede la competenza della procura distrettuale: si tratta, in
particolare, di gravi delitti legati alla criminalità organizzata (ex art. 51, co. 3 bis e 3
quater c.p.p.).
La L. 172/2012 ha, altresì, disposto che i termini sono raddoppiati per le seguenti
fattispecie: maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, prostituzione minorile,
pornografia minorile (anche virtuale), detenzione di materiale pornografico, turismo
sessuale, violenza sessuale semplice e di gruppo, atti sessuali con minorenne e
corruzione di minorenne. Per quel che riguarda, invece, i termini di decorrenza, l'art.
158 c.p. stabilisce che il termine di prescrizione decorre, per il reato consumato, dal
giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l'attività
del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza.
Un ultimo accenno occorre dedicarlo, infine, agli artt. 159 e 160 c.p.: il primo prevede
che, in caso di sospensione, la prescrizione riprende il suo decorso dal giorno in cui è
cessata la causa della sospensione ed il nuovo termine si somma a quello trascorso in
precedenza. In particolare, la sospensione ha luogo:
* nei casi di autorizzazione a procedere;
* nel caso di deferimento della questione ad altro giudizio;
* nel caso di sospensione del procedimento o del processo.
L'art. 160 c.p., invece, stabilisce che, in caso di interruzione, il periodo di tempo in
precedenza trascorso si annulla, di modo che il termine ricomincia a decorrere dal
principio (cioè ex novo). Gli atti interruttivi della prescrizione sono:
* l'ordinanza che applica le misure cautelari;
* la richiesta di rinvio a giudizio;
* il decreto di fissazione dell'udienza preliminare;
* il decreto che dispone il giudizio;
* la sentenza di condanna ed il decreto di condanna;
* l'oblazione (disciplinata dall'art. 162 c.p.) è una causa di estinzione del reato che
consiste nel pagamento, a domanda dell'interessato, di una somma di denaro, prima
dell'apertura del dibattimento o prima della sentenza definitiva di condanna.
Tradizionalmente, si distingue tra oblazione comune e oblazione speciale: l'oblazione
comune consiste nel pagamento, a richiesta dell'interessato, di una somma di denaro
corrispondente ad un terzo della pena massima stabilita dalla legge (essa estingue le
contravvenzioni punite con la sola ammenda).
L'oblazione speciale (introdotta dalla L. 689/81) viene, invece, concessa dal giudice, su
richiesta dell'imputato, e consiste nel pagamento di una somma corrispondente alla
131
metà del massimo della pena edittale (essa estingue le contravvenzioni punite sia con
l'arresto che con l'ammenda);
* la remissione della querela (art. 152 c.p.) estingue i reati perseguibili a querela e per
i quali la querela era stata proposta; la remissione consiste, più precisamente, in una
manifestazione contraria a quella manifestata con la presentazione della querela.
Si distingue, di regola, tra remissione della querela processuale ed extraprocessuale: la
prima si estrinseca in un atto interno al processo; quella extraprocessuale, invece, si
estrinseca al di fuori di esso;
* la sospensione condizionale della pena (artt. 163-168 c.p.) è una causa di estinzione
del reato, in base alla quale l'Autorità giudiziaria, inflitta una condanna alla reclusione o
all'arresto per un tempo non superiore a 2 anni ovvero inflitta una condanna a pena
pecuniaria che, da sola o congiunta alla pena detentiva, sia equivalente ad una pena
privativa della libertà personale per un tempo massimo di 2 anni, ne può sospendere
l'esecuzione per un periodo di tempo di 5 anni, in caso di delitto, e di 2 anni, in caso di
contravvenzione. Se, durante questo periodo, il reo non commette un delitto o una
contravvenzione della stessa indole, il reato si estingue e cessa anche l'esecuzione delle
pene accessorie; in caso contrario, il soggetto sconterà sia la vecchia sanzione, che era
stata sospesa, sia la nuova;
• il perdono giudiziale (art. 169 c.p.) è una speciale causa di estinzione del reato, che
consiste nella rinuncia da parte dello Stato a condannare il colpevole di un reato in
considerazione della sua età e per consentirgli, perciò, un più facile recupero sociale; in
ogni caso, è necessario che il colpevole abbia, nel momento in cui ha commesso il reato,
meno di 18 anni e che il reato commesso non sia particolarmente grave. È bene
specificare, però, che il perdono giudiziale può essere concesso soltanto se il giudice,
avuto riguardo alle circostanze ex art. 133 c.p., presume che il colpevole si asterrà dal
commettere ulteriori reati;
• la sospensione del processo con messa alla prova (d.p.r. 448/88 e d.lgs.12/91) è,
insieme a quella precedente, l'altra speciale causa di estinzione dei reati commessi da
minori: più precisamente, questa causa di estinzione si caratterizza per il fatto che il
giudice dei minori può sospendere il processo per un periodo non superiore a 3 anni
(ove si tratti di reati puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore ai 12 anni) o
per non più di 1 anno (negli altri casi), affidando, nel frattempo, l'imputato ai servizi
minorili della giustizia;
• infine, vanno analizzate le due forme di definizione alternativa del procedimento
dinanzi al giudice di pace. La prima delle due forme è l'esclusione della procedibilità
nei casi di particolare tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. 274/2000), che si fonda
sull'irrilevanza penale del fatto. In particolare, gli indici sui quali si fonda la particolare
tenuità del fatto sono:
* l'esiguità del danno o del pericolo rispetto all'interesse tutelato,
* l'occasionali tà;
* il grado della colpevolezza.
La seconda forma di definizione alternativa del procedimento è, invece, l'estinzione del
reato conseguente a condotte riparatone (ex art. 35 d.lgs. 274/2000): estinzione che il
giudice dichiara con sentenza quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima
dell'udienza di comparizione, alla integrale riparazione del danno cagionato dal reato,
mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o
pericolose del reato.
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§2. Le cause di estinzione della pena
Le cause di estinzione della pena intervengono dopo la sentenza definitiva di
condanna; esse sono: la morte del reo, l'amnistia impropria, la prescrizione della
pena, la liberazione condizionale, la riabilitazione, l'indulto, la grazia e la non
menzione della condanna nei certificati del Casellario giudiziale. In particolare:
• la morte del reo (ex art. 171 c.p.) estingue la pena se interviene dopo la sentenza
definitiva di condanna;
• l'amnistia impropria (art. 151 c.p.) estingue le pene principali e quelle accessorie, ma
non gli altri effetti penali della condanna;
• la prescrizione della pena (ex artt. 172 e 173 c.p.) estingue la punibilità in concreto,
in quanto può trovare applicazione soltanto dopo la sentenza definitiva di condanna (il
fondamento di questa causa di estinzione della pena trova la sua ratio nella scarsa
necessarietà di eseguire una pena a grande distanza di tempo dalla sua inflizione). La
prescrizione della pena ha ad oggetto solo le pene principali; più precisamente: la pena
della reclusione si estingue soltanto dopo che sia trascorso un periodo di tempo
compreso tra i 10 e i 30 anni; la pena della multa, invece, si estingue dopo 10 anni,
mentre la pena dell'Arresto e quella dell' ammenda dopo 5 anni;
• la liberazione condizionale (art. 176 c.p.) rappresenta una specie di premio concesso
ai condannati a pena detentiva che, avendo tenuto una condotta tale da rendere certo un
loro ravvedimento, abbiano scontato 30 mesi o, almeno, metà della pena irrogata,
qualora il rimanente della pena da scontare non superi i 5 anni (anche l'ergastolano può
usufruire di tale istituto, dopo che abbia scontato almeno 26 anni di pena);
• la riabilitazione (artt. 179-181 c.p.) estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto
penale della condanna e può essere applicata quando il condannato abbia dato prove
effettive di buona condotta; la riabilitazione può essere concessa solo dopo che il reo
abbia scontato almeno 3 anni di pena; il termine è di 8 anni, invece, se si tratta di
recidivi qualificati e di 10 anni se si tratta di delinquenti abituali, professionali e per
tendenza;
• l'indulto (ex art. 174 c.p.) è un atto di clemenza generale che opera esclusivamente
sulla pena principale, che viene, così, condonata o commutata in altra specie di pena.
Titolare del potere di indulto è il Parlamento, il quale deve deliberare a maggioranza dei
due terzi dei componenti di ciascuna Camera (1. cost. 1/92);
• la grazia (di cui all'art. 174 c.p.) è un istituto il cui fondamento giuridico si rinviene
nel riconoscimento dell'avvenuta risocializzazione del reo, che, proprio perché tale,
rende inutile il proseguimento dell'esecuzione della pena.
La grazia è un provvedimento individuale di clemenza, emesso dal Presidente della
Repubblica e, pertanto, in quanto provvedimento individuale, va a beneficio di una
determinata persona.
La grazia condona, in tutto o in parte, la pena principale, ma non le pene accessorie e gli
effetti penali della condanna;
• la non menzione della condanna nei certificati del Casellario giudiziale (ex art. 175
c.p.) rappresenta, infine, un atto attraverso cui il giudice dispone che della condanna
non si farà menzione nei certificati rilasciati dal Casellario; essa può essere concessa al
condannato solo nel caso di prima condanna e per reati non particolarmente gravi.
133
Capitolo IV
Le altre conseguenze giuridiche del reato
Si definiscono effetti penali della condanna le conseguenze giuridiche che derivano di
diritto dalla condanna stessa (diverse dalle pene e dalle misure di sicurezza). Tuttavia, è
bene precisare che una enumerazione degli effetti penali della condanna non è affatto
possibile, dal momento che essi non rappresentano un numerus clausus e sono previsti,
oltre che nel codice, anche in molte leggi speciali. In ogni caso, si possono citare come
esempi classici di effetti penali della condanna:
• l'impossibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena in conseguenza di
una o più condanne precedenti;
• l'iscrizione della condanna nel Casellario giudiziale;
• l'impossibilità a svolgere determinate attività;
• l'impossibilità di ottenere determinate autorizzazioni o concessioni.
Va sottolineato, però, che gli effetti penali della condanna vengono a cessare con la
riabilitazione.
La maggior parte dei reati comporta, poi, anche conseguenze di natura civile, tra le
quali ricordiamo:
• l'obbligo alle restituzioni;
• l'obbligo al risarcimento del danno;
• l'obbligo del rimborso delle spese allo Stato per il mantenimento del condannato;
• l'obbligazione civile per la multa e l'ammenda.
Infine, va sottolineato che negli ultimi decenni è andata crescendo, nel nostro Paese, la
discussione intorno alla possibilità di introdurre delle forme di responsabilità penale a
carico delle persone giuridiche; la ragione di questa discussione risiede nel fatto che,
soprattutto nell'ambito della criminalità economica (ma certo non soltanto in quella),
l'illecito trova quasi sempre origine in comportamenti che non sono riconducibili a
singoli soggetti, ma che rappresentano piuttosto il frutto di precise scelte di politica
d'impresa, difficilmente collocabili nel quadro della responsabilità penale. È con queste
premesse che la L. 300/2000 ha introdotto nel nostro sistema il principio della
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti collcttivi per i reati
commessi dai loro organi o dai loro sottoposti; questa legge è stata successivamente
regolata con il d.lgs. 231/2001, il cui art. 6 stabilisce che l'ente è considerato
responsabile quando il reato commesso dipende da una colpa di organizzazione
(intesa, questa colpa, come mancata adozione di specifici protocolli di comportamento
e di determinati strumenti di controllo, necessari a prevenire lo specifico rischio-reato).
Un accenno va, infine, dedicato al sistema dei ed. illeciti depenalizzati: a tal proposito,
appare opportuno precisare che, pur costituendo l'amministrazione della giustizia
penale uno specifico settore della P.A., non per questo il diritto penale può essere
confuso con il diritto amministrativo (inteso, quest'ultimo, come il complesso delle
regole che concernono la P.A. nel suo momento organizzativo); sotto questo profilo,
pertanto, può risultare fuorviante l'utilizzo dell'inciso diritto penale amministrativo:
con questa locuzione, invero, da qualche tempo si intende designare il settore dei ed.
illeciti depenalizzati (categoria di fatti corrispondenti a figure di reato che leggi recenti
hanno trasformato in infrazioni amministrative, punibili con sanzioni pecuniarie non
penali).
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Sezione II
Le misure di sicurezza
Capitolo unico
§1. La crisi del sistema del c.d. doppio binario
Le misure di sicurezza (m.s.) costituiscono una importante innovazione introdotta dal
Codice Rocco del 1930, come mezzi posti a difesa dell'ordinamento contro il pericolo
che determinate persone possano commettere reati.
Le m.s. sono disciplinate agli artt. 199 e ss. c.p.; in particolare, l'art. 199 c.p. stabilisce
che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente
previste dalla legge: è questo il ed. principio di legalità delle misure di sicurezza
(principio che, tra l'altro, trova un riconoscimento normativo anche nell'art. 25, co. 3
Cost., ai sensi del quale nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non
nei casi espressamente preveduti dalla legge.
La coesistenza delle pene e delle m.s. ha dato vita, nel nostro ordinamento, al sistema
sanzionatorio del ed. doppio binario, il quale mira, da un lato, a sanzionare il soggetto
mediante l'applicazione di una pena proporzionata alla gravità del reato e, dall'altro, a
prevenirne la pericolosità sociale.
Tuttavia, va anche detto che il nostro codice, nell'affiancare le m.s. alle pene non ha
fatto altro che raddoppiare le potenzialità repressive del sistema, specialmente in
riferimento ai casi in cui, all'esecuzione di una pena, si aggiunga l'inflizione di una m.s.
detentiva, per di più a tempo indeterminato.
§2.1 presupposti per l'applicabilità delle misure di sicurezza
Il presupposto oggettivo per l'applicabilità di una m.s. è che sia stato commesso un fatto
preveduto dalla legge come reato o come quasi-reato (quest'ultimo ricomprende le
figure del reato impossibile e dell''accordo per commettere un reato).
Il presupposto soggettivo per l'applicazione di una m.s. è, invece, la pericolosità
sociale dell'agente (in particolare, si può dire che una persona è socialmente pericolosa
quando è probabile che la stessa commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come
reato); al riguardo, il nostro codice conosce e distingue tre tipologie di delinquenti
socialmente pericolosi:
• il delinquente abituale, cioè colui che dopo essere stato condannato per due delitti
non colposi, riporta un'altra condanna per delitto non colposo;
• il delinquente professionale, cioè colui che vive abitualmente dei proventi derivanti
dal reato;
• il delinquente per tendenza, cioè colui che commette un delitto non colposo contro la
vita o contro l'incolumità individuale, quando la commissione di tale delitto riveli una
speciale inclinazione al delitto.
§3. Le singole misure di sicurezza
Le m.s. si distinguono tradizionalmente in personali (detentive e non detentive) e
patrimoniali.
Le m.s. personali detentive sono: la colonia agricola, la casa di lavoro, la casa di cura
e custodia, l'ospedale psichiatrico giudiziario, il riformatorio giudiziario.
• Sono assegnati alla colonia agricola ovvero alla casa di lavoro i delinquenti abituali,
professionali e per tendenza, nonché i condannati o i prosciolti nei casi previsti dalla
legge; la durata minima è di 1 anno (elevata a 2 anni per i delinquenti abituali; a 3 anni
per i delinquenti professionali e a 4 anni per i delinquenti per tendenza).
135
• Il ricovero presso una casa di cura e custodia è, invece, prevista per i condannati a
pena diminuita per infermità psichica ovvero per cronica intossicazione da alcool o da
sostanze stupefacenti o, ancora, per sordomutismo; la misura si applica anche agli
ubriachi abituali (la durata della misura è compresa tra i 6 mesi e i 5 anni).
• Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) si applica, invece, ai soggetti
che siano stati prosciolti per infermità psichica o per cronica intossicazione da alcool o
da sostanze stupefacenti (la durata della misura non può essere inferiore a 2 anni, salvo
particolari ipotesi previste dalla legge).
È bene precisare, però, che il 25 gennaio 2012 il Senato della Repubblica ha approvato
un emendamento al ed. decreto svuota-carceri (convertito, il 17 febbraio, in L. 9/2012),
con il quale si dispone il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Neil'affermare che, in virtù di tale decreto, gli Opg saranno chiusi, occorre evitare, però,
di incappare in equivoci terminologici: infatti, possiamo utilizzare la dicitura Opg sia
per riferirci alla struttura ospedaliera, sia per indicare l'istituto ex art. 222 c.p. Ebbene, il
decreto varato dispone la chiusura (entro marzo 2013) dei sei ospedali psichiatrici
giudiziari attualmente in funzione in Italia, ma non abroga né modifica la misura di
sicurezza dell'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario. Certo, le innovazioni
positive in cui si può - ragionevolmente - sperare sono:
* l'abbandono delle sei grandi strutture esistenti, che, tra l'altro, sono situate in luoghi
lontani da quelli di origine degli internati;
* la costruzione di un maggior numero di piccole strutture distribuite sul territorio,
auspicabilmente in condizioni di minore degrado;
* il controllo sulle stesse svolto direttamente dal Servizio sanitario nazionale (SSN) e
non dal sistema penitenziario, con la conseguente utilizzazione di personale sanitario
anziché di custodia (è stato previsto, infatti, un servizio di vigilanza perimetrale solo
all'esterno degli istituti).
Le nuove strutture, ad ogni modo, svolgeranno la medesima funzione delle vecchie,
perché l'impalcatura normativa dell'esecuzione della misura, così come contenuta nel
codice penale, rimane inalterata (ivi compresi gli aspetti più controversi, come quello
concernente l'indeterminatezza della durata dell'internamento e la sua prorogabilità).
Né si prevedono misure per dare maggior spazio alla libera adesione dei pazienti ai
percorsi terapeutici (che rimangono, invero, di carattere coercitivo): e si tratterebbe di
un'innovazione - oltre che auspicabile - necessaria, soprattutto in un ambito, come
quello psichiatrico, in cui la convinta partecipazione del malato al progetto di cura è di
importanza fondamentale per la riuscita dello stesso.
* Il riformatorio giudiziario è, infine, una m.s. speciale prevista per i minori, imputabili
e non, ritenuti pericolosi (occorre precisare, però, che, al compimento della maggiore
età, il soggetto viene assegnato alla colonia agricola o alla casa di lavoro); la durata
minima della misura è di 1 anno.
Le m.s. personali non detentive sono: la libertà vigilata, il divieto di soggiorno, il
divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche e l'espulsione
dello straniero dallo Stato.
* La libertà vigilata consiste in una limitazione della libertà personale diretta a evitare
le occasioni di nuovi reati; a tale scopo, è fatto obbligo al vigilato di trovare un lavoro
stabile, di non ritirarsi la sera dopo una certa ora, di non uscire la mattina prima di una
certa ora e di non accompagnarsi a soggetti pregiudicati (l'inosservanza di tali obblighi
comporta la sostituzione della libertà vigilata con una m.s. detentiva).
La sottoposizione alla libertà vigilata non può essere inferiore a 3 anni, ove sia stata
inflitta la pena della reclusione non inferiore ai 10 anni, ed è obbligatoria quando il
condannato è ammesso alla liberazione condizionale.
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• Il divieto di soggiorno è una m.s. che consiste nelTobbligo di non soggiornare in uno
o più Comuni ovvero in una o più Province ed è applicabile agli autori dei delitti
commessi contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico o, ancora, per
motivi politici.
• Il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche è una m.s. che
si applica ai condannati per ubriachezza abituale ovvero per reati commessi in stato di
ubriachezza, sempre abituale. La sua durata minima è di 1 anno.
• L'espulsione dello straniero dallo Stato (ovvero di un cittadino di uno Stato membro
dell'Ue) si applica qualora lo straniero (o il cittadino europeo) sia condannato alla
reclusione superiore ai 2 anni o ad una pena restrittiva della libertà personale per taluno
dei delitti commessi contro la personalità dello Stato (ciò a seguito dell'entrata in vigore
della L. 125/2008).
Le m.s. patrimoniali sono la cauzione di buona condotta e la confisca. La cauzione di
buona condotta consiste nel deposito di una somma di denaro presso la Cassa delle
ammende (somma che verrà restituita solo se il soggetto non commetterà reati entro il
periodo di tempo determinato dal giudice).
La confisca consiste invece nell'espropriazione, in favore dello Stato, delle cose che
servirono a commettere il reato: si pensi, ad es., agli arnesi da scasso utilizzati per
commettere un furto.
Sezione III
Le misure di prevenzione
Le misure di prevenzione (m.p.) sono dei provvedimenti i cui destinatari sono soggetti
ritenuti socialmente pericolosi: la funzione di tali misure, dunque, è quella di prevenire
la possibilità di commettere reati; a differenza delle misure di sicurezza, però, le m.p.
sono disposte indipendentemente dalla commissione di un delitto (per questo motivo
esse prendono il nome di misure ante o praeter delictum ovvero pene del sospetto, in
quanto sfuggono ai principi della stretta legalità e della certezza del diritto). L'attuale
disciplina delle m.p. è contenuta nella L. 1423/56 (integrata, negli anni, da altri
provvedimenti legislativi). Tra le più importanti m.p. ricordiamo la sorveglianza
speciale della pubblica sicurezza, che può essere applicata nei confronti delle persone
che vivono abitualmente con i proventi derivanti da attività delittuose; con una legge
del 1965, la sorveglianza speciale è stata estesa, altresì, agli indiziati di appartenere ad
associazioni di stampo mafioso; e con una legge del 1975 (la Legge Reale) è stata
estesa anche agli autori di atti preparatori, aventi lo scopo di sovvertire il sistema
costituzionale.
Il modello in esame è stato, in seguito, elevato a importante strumento di lotta contro la
criminalità organizzata: in questo senso, il sistema è stato reso più severo dalla L.
646/82 (la c.d. Legge Rognoni-La Torre), che ha introdotto determinate m.p. di
carattere patrimoniale, aventi lo scopo preciso di combattere lo sfruttamento di ingenti
capitali destinati a finanziare attività illecite, proprie delle società legate al sodalizio
mafioso: esse sono il sequestro e la confisca (in materia, comunque, sono intervenuti,
di recente, la L. 125/2008 ed il d.lgs. 136/2010, con cui è stato varato il Codice delle
leggi antimafia e delle misure di prevenzione, suddiviso in cinque libri, il secondo dei
quali è dedicato, appunto, alle misure di prevenzione).
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