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fiore - diritto penale
Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com FIORE - DIRITTO PENALE (IV EDIZIONE, 2013) Introduzione §1. Nozione ed ambito del diritto penale vigente Il diritto penale è costituito dall'insieme delle norme dell'ordinamento giuridico che prevedono l'applicazione di una misura sanzionatoria di carattere giuridico-penale (sanzione criminale), come conseguenza di un determinato comportamento umano, che prende il nome di reato: è reato, in altri termini, il fatto dell'uomo, per la cui realizzazione la legge prevede, come conseguenza, l'applicazione di una sanzione (o pena) criminale. Questa definizione del reato costituisce il riflesso precipuo e diretto del ed. principio di legalità dei reati e delle pene, enunciato nell'art. 1 del codice penale (c.p.) vigente, il quale stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto che non sia preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Il binomio normativo reato-pena non esaurisce, tuttavia, l'ambito del diritto penale, dato che il nostro ordinamento giuridico prevede (agli artt. 199 e ss. c.p. e 25, co. 3 Cost.) anche la possibilità di applicare, conseguentemente alla commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato, determinate misure di sicurezza, in qualità di strumenti atti a prevenire l'ulteriore commissione di reati da parte dell'agente. Negli ultimi decenni hanno acquisito importanza anche le ed. misure di prevenzione, la cui applicazione, prescindendo dall'accertamento della concreta commissione di un reato, si ricollega al particolare dato della pericolosità sociale dell'agente (ed è questo il motivo per il quale le si definisce anche misure ante delictum). In ogni caso, va detto che il diritto penale, quale che sia l'angolo di osservazione, si contrassegna come una branca del diritto pubblico, dal momento che esso non regola rapporti e conflitti di carattere privato, ma disciplina i rapporti che intercorrono tra la comunità giuridica statuale e l'individuo che ne infrange determinate regole. §2. Funzioni e caratteri del diritto penale vigente a) il diritto penale come sistema di tutela dei beni giuridici Lo strumento che l'ordinamento adotta, al fine di regolare le azioni dei consociati, è costituito dalla produzione di specifiche norme di condotta, la cui osservanza, se necessario, può essere perseguita con la forza, facendo ricorso alla sanzione penale (detentiva o patrimoniale): è così che il diritto penale assicura una specifica tutela a quelle entità considerate socialmente più rilevanti (si pensi alla vita ovvero alla libertà personale). Tali entità, nel dettaglio, prendono il nome di beni giuridici. Ovviamente, stabilire quali beni giuridici richiedano una tutela penale e quali no, dipende dalle scelte che il legislatore compie in un determinato momento storico-politico: in linea di massima, però, si può affermare che vi sono delle priorità che l'ordinamento deve rispettare e che possono essere sintetizzate come segue: Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • il diritto penale deve, in primis, circoscrivere il suo intervento alla sfera dei beni giuridici che si percepiscono come maggiormente rilevanti per la vita della collettività; • in secondo luogo, l'intervento del diritto penale deve configurarsi come necessario per la salvaguardia dei beni giuridici che si intendono tutelare (ciò significa che il ricorso alla minaccia penale deve risultare inevitabile - dunque, necessario -, nel senso che la stessa deve essere vista come l'unico ed ultimo mezzo in grado di assicurare la salvaguardia dei beni giuridici (il che, di conseguenza, porta a considerare tutte le misure apprestate dagli altri settori del sistema completamente impraticabili); • in quest'ottica, la dottrina prevalente attribuisce al diritto penale un carattere di sussidiarietà (vale a dire di ultima ratio) rispetto agli altri rami del sistema giuridico; è importante specificare, però, che questo principio di sussidiarietà del diritto penale non deve essere inteso come un criterio che abilita il sistema penalistico a sanzionare, in modo ulteriore, precetti (comandi o divieti) già disciplinati in altri settori del diritto (pubblico o privato che sia). Al contrario, va tenuto presente che, nella maggior parte dei casi, il precetto penale si presenta come regola originaria: si pensi, ad es., al divieto déW'omicidio {ex art. 575 c.p.) e, in generale, ai reati contro la persona, ai delitti contro lo Stato e contro l'ordine pubblico. Ma, a ben vedere, anche quando alcuni dei presupposti per l'applicazione della norma penale risultano ricavabili da altri rami del sistema giuridico, il collegamento che si viene ad instaurare tra il fatto vietato (cioè il reato) e la conseguente sanzione (vale a dire la pena) prescinde da questi presupposti, data la sua autonoma natura: così, per intenderci, se è vero che per configurare l'ipotesi del furto è necessario far ricorso ai concetti di proprietà e possesso (ricavabili dalle norme civilistiche), il precetto che comanda di non rubare trova, però, la sua fonte originaria ed esclusiva all'interno del codice penale, all'art. 624; • la tutela che offre il diritto penale presenta, infine, un carattere frammentario; e il motivo di ciò risiede nel fatto che, nel provvedere alla protezione dei beni giuridici, il diritto penale individua, tra le possibili ed infinite forme di aggressione, solo quelle più significative dal punto di vista socio-giuridico (in questo modo, accade che, nel codificare tali atteggiamenti, determinati comportamenti finiscono per risultare leciti o anche indifferenti sotto il profilo penalistico). b) altri caratteri del diritto penale Rispetto agli altri settori dell'ordinamento, il diritto penale presenta tre peculiarità: • la prima è il suo tendenziale formalismo (il diritto penale rappresenta, non a caso, lo strumento principale attraverso il quale lo Stato incide sulla libertà individuale); • la seconda è l'attenzione che esso dedica alla definizione dei titoli di responsabilità, con una cura particolare riservata alla componente soggettiva (tant'è che, per attribuire ad un soggetto la responsabilità per aver commesso un fatto penalmente rilevante, è necessaria la presenza del dolo); • la terza è costituita, infine, dal tipo di sanzioni che si possono irrogare (prima tra tutte la pena criminale, detentiva o pecuniaria, che si sostanzia in una considerevole limitazione della libertà personale). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. Oggetto e partizioni della scienza del diritto penale a) la scienza del diritto penale La scienza del diritto penale è quella branca del settore penalistico che abbraccia tutte le norme giuridiche che fanno riferimento al diritto penale: nel dettaglio, dal punto di vista dogmatico, l'obiettivo di questa branca del diritto è quello di assicurare l'esatta applicazione del diritto penale; il che può avvenire soltanto ricercando il significato corretto delle sue disposizioni (in quest'ottica, la scienza del diritto penale svolge un importante ruolo per la comprensione del sistema normativo). La scienza del diritto penale, però, interessa anche un altro settore e, precisamente, quello delle scienze umane (con particolare riguardo all'ambito delle scienze criminali): sotto questo profilo, lo scopo della scienza del diritto penale è quello di garantire una risposta normativa al problema della devianza criminale. Nei confronti dello stesso oggetto (vale a dire nei confronti del problema relativo alla devianza criminale), l'approccio di tipo empirico è, invece, fornito dalla criminologia, la quale racchiude l'insieme delle conoscenze sperimentali sul reato, sul reo, sulla condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo. Ora, il punto d'incontro tra scienza normativa e scienza empirica del diritto penale è rappresentato dagli obiettivi di politica criminale perseguiti dal legislatore, i quali, da un lato, possono essere fondati scientificamente soltanto sulla base delle conoscenze sperimentali sulle cause del fenomeno criminale e, dall'altro, devono essere tenuti in considerazione nell'interpretazione del sistema normativo del diritto penale. Diritto penale e politica criminale non si pongono, quindi, in un rapporto conflittuale, come una parte della dottrina ancor oggi sostiene: difatti, bisogna prendere atto del fatto che il diritto penale non rappresenta più, come affermava il filosofo Franz von Liszt, l'insormontabile limite della politica criminale, bensì rappresenta la forma in cui gli obiettivi di politica criminale subiscono una trasformazione in termini giuridici. Queste considerazioni portano, così, a ridurre lo spazio che separa il diritto penale e le discipline criminologiche: ciò perché il trasformare acquisizioni criminologiche in istanze di politica criminale e, successivamente, istanze di politica criminale in regole giuridico-penali, costituisce un procedimento essenziale per la realizzazione di quel che gli studiosi identificano con il socialmente giusto. b) la scienza del diritto penale e le teorie della pena In questa prospettiva, il punto di partenza per la costruzione di una teoria generale del diritto penale, orientata secondo lo scopo della norma (ed. sistematica teleologica) deve essere costituito da un'attenta analisi circa l'essenza e i fini della pena. In quest'ottica, occorre rilevare che le teorie della pena vengono tradizionalmente distinte in due diversi gruppi: teorie assolute e teorie relative. Alle prime corrisponde l'enunciato si punisce perché si è peccato: esse, quindi, prendendo in considerazione il reato che è stato commesso, giustificano l'irrogazione di una retribuzione per il male compiuto (proprio per tal motivo, esse sono anche denominate teorie della giustizia). Alle teorie relative corrisponde, invece, l'enunciato si punisce affinché non si pecchi: esse, come si può notare, risultano interamente rivolte al futuro e, perciò, vengono anche definite teorie della prevenzione. Al loro interno, per altro, si deve distinguere a seconda che l'effetto preventivo sia rivolto alla generalità dei consociati (e, allora, si parlerà di ed. prevenzione generale) o si ponga, al contrario, l'accento su obiettivi di ri-socializzazione del reo (e, in tal caso, si parlerà di ed. prevenzione speciale). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com c) le partizioni della scienza del diritto penale Tradizionalmente si distingue tra una parte generale ed una parte speciale del diritto penale; nella parte generale si ricercano e si elaborano gli istituti giuridici ai quali si riconosce una validità generale rispetto a tutti i reati. In particolare, le materie che formano oggetto della parte generale sono: • la legge penale, che ricomprende le norme relative alla produzione, interpretazione ed applicazione delle norme penali; • il reato, cioè l'analisi del fatto penalmente rilevante; • le sanzioni, il cui sistema è imperniato sulle forme non solo della pena, ma anche delle altre conseguenze giuridiche del reato. La parte speciale si occupa, invece, dei singoli fatti previsti come reato: beninteso, per far sì che le norme di parte speciale possano operare in concreto, si rende necessaria la conoscenza e l'utilizzazione dei concetti elaborati nella parte generale. §4. Le fonti normative del diritto penale italiano La prima e più importante fonte normativa del nostro diritto penale è costituita dal codice penale (il ed. Codice Rocco, 1930) approvato con regio decreto (r.d.) 1398/30. Ovviamente, tra le fonti un posto particolarmente rilevante spetta anche alle norme costituzionali, che al diritto penale fanno riferimento, in modo diretto o indiretto (si tratta, in particolare, degli artt. 25, co. 2 e 3 e 27, co. 1, 3 e 4 Cost.). Esistono poi altri due testi di legge in forma di codice: sono i Codici penali militari di pace e di guerra. Il corpus normativo ricomprende, infine, numerose leggi, che vanno a comporre il ed. diritto penale complementare o speciale. Le misure di sicurezza trovano la loro disciplina all'interno dello stesso c.p. (artt. 199 ss.), mentre le misure di prevenzione sono disciplinate in appositi testi legislativi. Parte I I presupposti culturali ed istituzionali del diritto penale vigente Capitolo unico §1. Alle origini del diritto penale moderno: il giusnaturalismo laico La nascita di una teoria penale, razionalmente orientata, viene fatta risalire intorno al XVII secolo: infatti, fu proprio in questo periodo storico che cominciò a maturare il passaggio dal diritto naturale teologico al diritto naturale laico. In particolare, il motivo che condusse all'attuazione di questo mutamento risiedeva nell'esigenza, avvertita dai giuristi, di trovare un fondamento del diritto che fosse in grado di prescindere dalle differenze religiose e da quelle confessionali: non a caso, sarà proprio su tali basi che Hobbcs intraprenderà, poi, la fondazione giusnaturalistica del diritto. L'idea nuova consisteva, in breve, nell'attribuire al diritto naturale non il compito di far calare dal cielo la giustizia divina, ma solo quello di costruire in terra un sistema che fosse in grado di superare il caos dello stato di natura pregiuridico e che riuscisse, per questa via, a garantire la sicurezza dei consociati. Nella materia penale, tuttavia, le idee del diritto naturale laico incontrarono particolari difficoltà ad affermarsi sulla tradizione, perché erano troppo forti le radici sacre del diritto penale (basti pensare alla totale identificazione tra delitto e peccato, propria della ideologia medievale); nonostante questi ostacoli, però, una prospettiva interamente giusnaturalistica era, in realtà, già presente all'interno dell'opera di Ugo Grozio: il De Jurc belli ac pacis (1625), il cui contenuto si presentava, infatti, in netto contrasto con le concezioni teocratiche del tempo. Nella costruzione di Grozio, difatti, Stato e diritto erano concepiti da un punto di Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com vista esclusivamente razionale; e questo tratto caratteristico finì, di riflesso, per influenzare anche la concezione dell'autore sulla materia penale, con riferimento alla quale, infatti, l'illecito fu identificato con il fatto che contraddice alle regole di una ordinata comunità di esseri razionali. La sfera giuridica, in tal modo, venne a separarsi dalla sfera morale: e questo smembramento finì per indirizzare l'intervento punitivo solo verso i comportamenti esteriori dell'uomo, in qualità di fatti socialmente dannosi. §2. Il diritto penale dell' illuminismo a) lo stato della legislazione penale alle soglie del XVIII secolo Nonostante queste aperture di stampo razionale, è necessario, tuttavia, ricordare che, nel periodo compreso tra il XVII e il XVIII secolo, le procedure adottate dai diversi ordinamenti penali si caratterizzavano ancora per le ineguaglianze di trattamento, il disordine normativo, l'estrema crudeltà e la connessa arbitrarietà: basti pensare, ad es., che, per i delitti di lesa maestà, la pena era, nella maggior parte dei casi, quella capitale, mentre per le infrazioni di lieve entità si procedeva non solo alla fustigazione, ma assai spesso anche a mutilazioni corporali, come, ad es., al taglio delle mani, della lingua e delle orecchie. A ciò si aggiunga che la produzione legislativa era, ovunque, caratterizzata da ripetitività, sovrabbondanza e difficile conoscibilità (soprattutto a causa dell'inesistenza di semplici raccolte o di repertori affidabili). Se queste, dunque, erano le condizioni del diritto penale, all'alba dell'età dei lumi, era inevitabile che le grandi personalità dell'Illuminismo decidessero di appuntare le loro critiche proprio su questo stato di cose. b) Montesquieu e il problema penale Il problema penale può dirsi aperto in Francia mediante la pubblicazione de Lo Spirito delle Leggi: un'opera con la quale il suo autore, Montesquieu, fornirà dei contributi di primo piano alla cultura penalistica europea. Montesquieu, nel suo trattato, parte dal presupposto che la libertà del cittadino consiste nella sicurezza; a sua volta, però, per far sì che questo sistema funzioni, è necessario che la sicurezza sia condizionata dalle leggi penali. Da questo schema piramidale se ne deduce, perciò, che il grado di libertà del cittadino dipende principalmente dalla bontà delle leggi. In quest'ottica, per Montesquieu rivestono una particolare importanza le regole della procedura, perché è dalle stesse che si può misurare il grado di libertà del cittadino: tra queste, le più importanti sono, in primis, quella della imparzialità del giudice e, in secondo luogo, quella relativa al diritto dell'accusato di essere ascoltato dal giudice, mediante l'esercizio del suo diritto di difesa. Per quel che riguarda, invece, la tematica relativa alla teoria della pena, l'ispirazione razionalizzatrice di Montesquieu si estrinseca nella teoria che le pene non devono essere contrarie all'ordine materiale e morale dello Stato e devono essere naturali: il che avviene quando vi è una proporzione tra la qualità del crimine e la qualità della pena (a tal riguardo, come è stato giustamente notato, questa concezione retributiva della pena è equiparabile, in sostanza, alle dottrine retribuzionistiche proprie della prima metà del '700, in quanto dottrina antitetica alle settecentesche concezioni della pena come deterrente). Montesquieu riprende, infine, l'assunto per il quale le leggi penali devono concernere le sole azione esterne dell'uomo; ed è in quest'ottica che egli propone la distinzione tra quattro classi di reati: contro la religione, contro i costumi, contro la tranquillità e contro la sicurezza dei cittadini (le pene naturali per quest'ultima classe di reati sono Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com indicate nei supplizi). Da questo punto di vista, ovviamente, Montesquieu non si presenta di certo come un tenace progressista: ma, in ogni caso, non si può disconoscere in lui un forte atteggiamento di critica nei confronti del diritto vigente. c) Cesare Beccaria Il discorso avviato in Francia dal Montesquieu sarà ripreso in Italia, vent'anni dopo, da Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, attraverso il quale, grazie ad una felice sintesi dei principi dell'illuminismo in materia di leggi e di giustizia penale, si porranno le basi dell'indirizzo liberale del diritto e del processo penale. Grazie a quest'opera, invero, Beccaria può essere, a ragione, considerato il fondatore del moderno diritto penale, in quanto la maggior parte dei principi da lui enunciati, in polemica contro la crudeltà e l'arbitrarietà del sistema penale dell'antico regime, costituiscono, ancora oggi, dei capisaldi fondamentali di un ordinamento che aneli a essere definito garantista. Più precisamente, i principi enunciati dal Beccaria possono essere sintetizzati nel modo seguente: • concezione utilitaristica del diritto penale, in ragione della quale il sistema penalistico non deve porsi l'obiettivo di far trionfare un'astratta virtù morale, bensì intervenire solo quando sia assolutamente necessario e socialmente utile; • certezza e chiarezza del diritto penale, in quanto è diritto di tutti i cittadini conoscere in precedenza ciò che è vietato e ciò che è consentito dalla legge penale; • la pena deve colpire il delinquente in misura proporzionata al male dallo stesso commesso (ed. principio di proporzionalità della pena), ma le sue finalità devono essere esclusivamente quelle di impedire al delinquente di danneggiare di nuovo la società (ed. prevenzione speciale), nonché di distogliere i consociati dal commettere reati dello stesso genere (ed. prevenzione generale); • le pene, stabilite in modo chiaro e tassativo dal legislatore, devono essere inflitte con rapidità, in quanto il potere intimidatorio di una pena mite, ma certa, è maggiore di quello di una pena terribile, ma incerta nella sua applicazione. Beccaria, infine, volge lo sguardo anche ai temi processuali, perché egli è consapevole che le regole della procedura costituiscono un ambito essenziale del sistema penale: non a caso, le pagine dedicate alla pratica della tortura e alla pena di morte sono tra le più note del suo manuale (in particolare, per ciò che concerne la parte relativa alla pena di morte, la cui abolizione viene giustificata in termini contrattualistici, in virtù del fatto che nessun essere umano sarebbe disposto a concedere alla società il diritto di disporre della propria vita). d) l'illuminismo penale e le origini del diritto penale liberale Il primo ad elaborare e ad approfondire le idee del Beccaria sarà Gaetano Filangieri, nell'opera La scienza della legislazione, attraverso la quale l'autore non solo compie una sistemazione delle più importanti categorie giuridico-penali (dall''imputabilità, al dolo, al delitto tentato), ma rielabora, altresì, su nuove basi, la classificazione dei reati e delle pene. L'esigenza di eseguire uno studio analitico delle principali categorie penalistiche (in particolare per ciò che concerne il tema relativo alla teoria della pena), sarà avvertita anche da Mario Pagano, il quale, attraverso la teoria della minaccia penale come un contrario motivo rispetto ai motivi a delinquere, anticiperà l'elaborazione del concetto di prevenzione generale mediante intimidazione. Seguendo questo schema, Pagano considera la pena come la perdita di un diritto per un diritto violato o per un dovere omesso; per essere giusta, quindi, essa deve corrispondere al delitto sia per la qualità che per la quantità. Anche per Pagano, tuttavia, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com il fine (o scopo) del diritto penale resta quello di prevenire i delitti, ed è in quest'ordine di idee che egli maturerà la sua teoria del contrario motivo: in altre parole, al piacere derivante dalla commissione del delitto, il legislatore deve opporre (al reo e agli altri consociati) il timore della pena, quale argine fortissimo e potente ostacolo (in quest'ottica, la pena viene configurata come controspinta alla spinta criminosa). Negli stessi termini si pone, infine, la teoria penale di Gian Domenico Romagnosi, che si ispira, infatti, alla concezione del diritto penale come strumento di difesa sociale: degna di nota qui è, in particolare, la significativa sintonia con il famoso enunciato del giurista tedesco Anselm von Feuerbach, per il quale, infatti, la pena si configura come coazione psicologica all'osservanza del precetto. §3. Il diritto penale dell'età liberale a) Francesco Carrara e la Scuola classica del diritto penale Il pensiero penalistico italiano troverà la sua espressione più compiuta verso la metà del 1800 attraverso l'opera di Francesco Carrara, capostipite della ed. Scuola classica del diritto penale. Carrara, in particolare, distingue non solo tra una parte generale ed una parte speciale del diritto penale, ma altresì tra una parte pratica e una parte teorica della scienza penalistica: • nella parte teorica si interpreta una legge eterna ed immutabile come modello al quale tutti debbono uniformarsi; • nella parte pratica, invece, si interpreta una legge umana e variabile, alla quale tutti sono tenuti ad uniformarsi, fintanto che vige (in tal modo, Carrara riesce a compiere una sistemazione organica del diritto penale e ad elevarlo, così, a dignità scientifica). È bene precisare, inoltre, che Carrara considera il diritto penale come un sistema teso alla tutela della libertà individuale e (cosa ancor più importante) definisce il delitto come l'infrazione della legge dello Stato, promulgata per proteggere la libertà dei cittadini, risultante da uno specifico atto esterno dell'uomo, positivo o negativo, che risulti moralmente imputabile: così ragionando, l'autore contribuirà a dare un'impostazione astratta del diritto penale, staccandolo non solo dalla considerazione della personalità dell' uomo delinquente, ma anche dalle cause sociali del delitto. L'indirizzo di pensiero denominato Scuola classica amerà, in seguito, definirsi Scuola giurìdica: e ciò al fine di contrapporsi a quegli orientamenti della scienza penalistica a cui si addebitavano concezioni di carattere socio-antropologico. b) il Codice Zanardelli del 1889 Sui postulati della Scuola classica si modellò il primo Codice penale dell'Italia unita: il Codice Zanardelli (dal nome del ministro della giustizia dell'epoca) il quale, entrato in vigore il 1° gennaio 1890, andò a sostituire il codice penale sardo del 1859. Al centro del dibattito sulla riunificazione della legislazione penale vi fu soprattutto l'annosa questione circa l'abolizione della pena di morte (a lungo ritenuta irrinunciabile, specie nelle province del meridione, che erano infestate dal brigantaggio); e fu proprio a causa di questa diatriba che i lavori preparatori del nuovo codice durarono oltre vent'anni, al termine dei quali, tuttavia, prevalse l'opzione abolizionista, quanto alla pena capitale (che, di fatto, già non veniva applicata da oltre un decennio, al tempo della promulgazione del codice). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Va tenuto presente, in ogni caso, che il nuovo codice penale prevedeva, rispetto alla legislazione preunitaria, non solo l'abolizione della pena di morte, ma anche: • massimi e minimi di pena meno elevati; • la riprensione giudiziale, per i reati di lieve entità; • richiedeva, per la punibilità del tentativo, l'inizio di esecuzione del delitto; • distingueva e graduava la responsabilità dei concorrenti nel reato, prevedendo delle figure secondarie di compartecipi; • attenuava gli eccessi del cumulo materiale delle pene, nel concorso di reati; • disciplinava, per la prima volta, l'estradizione, escludendola per i reati politici; • introduceva, infine, l'istituto della liberazione condizionale dei condannati. Quanto alla funzione della pena, nei fatti il codice si manteneva ben saldo agli scopi della prevenzione generale: non mancavano, però, i riflessi di istanze retributive tipiche della dottrina liberale, che infatti emergevano nella fissazione dei presupposti e nella graduazione della responsabilità penale). Il codice, inoltre, dedicava degli ampi riferimenti alla categoria dell'imputabilità (che era fondata sulla coscienza e libertà dei propri atti), ai criteri di imputazione soggettiva del reato (dolo, colpa, responsabilità oggettiva), alle cause di giustificazione. Ovviamente, all'interno del nuovo codice venivano enunciati i princìpi fondamentali propri del garantismo illuministico-liberale: dal principio di legalità alla regola della irretroattività della legge penale. Per converso, nella parte speciale del codice affioravano, però, le esigenze di tutela di classe, sia nel sistema dei delitti contro la sicurezza dello Stato, che in relazione ad altre categorie di reati; d'altra parte, i contenuti garantistici del nuovo codice venivano puntualmente disattesi dal ricorso alla legislazione di pubblica sicurezza e alle misure di polizia: per cui, non ci si può sorprendere se il codice del 1889 (che certo segnava un momento fondamentale di unificazione e di progresso) provocò l'effetto di spaccare letteralmente in due la cultura giuridica italiana. c) la Scuola positiva del diritto penale A differenza della Scuola classica, la Scuola positiva del diritto penale prese le mosse da una visione del mondo che derivava dal positivismo scientifico; il fondatore di quest'indirizzo di pensiero fu il famoso antropologo Cesare Lombroso, il quale, nel suo manuale (L'uomo delinquente, 1876) ritenne di essere in grado di determinare il tipo antropologico del delinquente (il c.d. delinquente-nato). Poggiando su queste basi, però, il diritto penale vagheggiato dai seguaci della Scuola positiva non era più un diritto penale del fatto, bensì dell'autore, in quanto tutto era incentrato sulla pericolosità sociale del soggetto: ragionando in questi termini, allora, la funzione del diritto penale (e, in particolare, della sanzione penale) fu interamente spostata in un'ottica special-preventiva, da perseguirsi sia in forma di terapia, sia in via eliminativa (fino alla condanna a morte ovvero alla sanzione detentiva perpetua per i delinquenti incorreggibili). All'apice del suo successo, la Scuola positiva si fece promotore anche di un Progetto preliminare di codice penale italiano (si tratta del ed. progetto Ferri, del 1921), che era orientato all'accoglimento di tutti i presupposti (sia filosofici che politico-criminali) dell'indirizzo positivistico: dalla negazione della distinzione tra delinquenti imputabili e non imputabili, alla segregazione a tempo - assolutamente o relativamente - indeterminato, alla parificazione del tentativo al delitto consumato, alla costruzione delle circostanze, sia aggravanti che attenuanti, esclusivamente in Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com funzione della pericolosità del delinquente. Il progetto Ferri, in ogni caso, non riuscì ad ottenere la trasformazione in legge dello Stato, anche perché, di lì a poco, si sarebbero prodotti in Italia dei mutamenti politici molto significativi. §4. Il codice penale del 1930 (ed. Codice Rocco) Con l'avvento del fascismo, lo scontro ideologico tra Scuola classica e Scuola positiva venne superato da un nuovo indirizzo di pensiero, denominato tecnicismo giuridico: questi si contrassegnava per il rifiuto di ogni discussione concernente i presupposti filosofici e politico-criminali del diritto penale: a conferma di ciò, invero, discipline come l'antropologia, la filosofia del diritto e la politica criminale vennero additate come mere scienze speculative, idonee solo ad inquinare la purezza delle costruzioni giuridiche (per questa corrente di pensiero, dunque, solo il diritto positivo poteva formare oggetto della scienza giuridico-penale). E proprio al programma del tecnicismo giuridico si ispirò, in seguito, il nuovo codice penale, denominato Codice Rocco (dal nome del ministro guardasigilli dell'epoca), il quale entrò in vigore il 1° luglio 1931: in dettaglio, il nuovo codice penale, tutt'oggi ancora operante, presentava una parte generale fortemente strutturata che, accanto ai primi due titoli (dedicati alla legge penale ed alla pena), conteneva un Titolo HI (Del reato), ricco di definizioni analitiche degli elementi essenziali ed accidentali del reato e delle più collaudate ipotesi di non punibilità. È bene precisare, però, che (nonostante l'evidente chiusura del sistema nei confronti delle concezioni liberali) la nuova legge penale non rinunciò al più caratteristico dei principi illuministici in materia penale, vale a dire il principio di legalità dei reati e delle pene: e ciò sia per 1' ovvia difficoltà di rimuovere una regola radicata da ormai oltre un secolo nella coscienza giuridica europea, sia per la sostanziale irrilevanza di essa nel quadro dello Stato autoritario, che, ben più apertamente di quello liberale, poteva utilizzare contro i suoi avversari politici le misure di polizia ed il relativo apparato repressivo. Il principio di legalità, del resto, si inquadrava, a ben vedere, in un sistema orientato a ridurre al minimo non solo lo spazio di intervento della dottrina, ma anche quello della discrezionalità del giudice: basti pensare che la parificazione delle condotte di tutti i concorrenti nel reato, la disciplina del rapporto di causalità, la punibilità degli atti preparatori nel tentativo, l'estensione della responsabilità oggettiva, le particolari regole sul concorso di reati ed il regime delle circostanze aggravanti rappresentavano maglie tese ad imprigionare proprio l'interprete ed il giudice. Per quel che concerne la funzione della pena, essa veniva ricondotta dai compilatori del codice alla funzione di prevenzione generale, mediante intimidazione; va detto, però, che erano anche presenti elementi di prevenzione speciale: basti pensare agli istituti della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale (riservato ai minori, rispetto ai quali soltanto il nuovo codice riconosceva alla pena concorrenti finalità di rieducazione morale). A queste limitate concessioni alle istanze special-preventive, si affiancava la ben più corposa innovazione legislativa, costituita dall'introduzione delle misure di sicurezza (strumenti, come sappiamo, atti a prevenire l'ulteriore commissione di reati da parte dell'agente): in tal modo, il codice Rocco, introducendo il ed. sistema a doppio binario (pene e misure di sicurezza), finiva per raddoppiare le potenzialità repressive dello Stato. Nella parte speciale, invece, il codice penale esprimeva una sostanziale continuità con la legislazione precedente (e ciò perché l'avvento del fascismo non aveva modificato minimamente l'assetto socio-economico); in quest'ottica, una cura particolare venne Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com riservata al tema dei delitti contro la personalità dello Stato: in questo settore, infatti, le mutate condizioni politiche permisero al nuovo regime di costituire un efficace ed ampio sistema di repressione del dissenso politico, assicurato, quest'ultimo, da alcune disposizioni contenute nel Titolo dedicato ai delitti contro l'ordine pubblico e da alcuni illeciti contravvenzionali (artt. 654, 656 e 657 c.p.), che andavano a completare la serie dei numerosi reati di opinione criminalizzati dal codice. Ulteriori contrassegni del clima politico autoritario erano, poi, visibili nella creazione di un nuovo titolo (Dei delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe) e nella disciplina dei delitti in materia di religione, ove si registrava una tutela privilegiata per il culto cattolico (il quale, infatti, in seguito al Concordato con la Santa Sede, aveva assunto di nuovo il ruolo di religione dello Stato). Il nuovo codice incriminava, inoltre, le condotte di sciopero e di serrata, nonché altri comportamenti diretti contro la nuova facciata dirigistica di uno Stato che, in realtà, si guardava bene dall'intaccare l'assetto capitalistico dell'economia. Nel complesso, l'immagine che scaturiva dall'analisi del Codice Rocco poteva essere paragonata ad una piramide, che presentava - al suo vertice - l'idea dello Stato e che, discendendo gradatamente attraverso i reati contro i suoi organi, i suoi apparati e la sfera pubblica, trovava soltanto alla sua base i reati contro la sfera privata (famiglia, persona e proprietà). §5. Il diritto penale tra il codice Rocco e la Costituzione repubblicana Ad oltre 50 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e dalla caduta del regime fascista, non si sono mai determinate, in Italia, le condizioni per il varo di un nuovo codice penale; vi sono state, tuttavia, riforme parziali di stampo legislativo, nonché ripetuti interventi della Corte costituzionale, che hanno contribuito di sicuro a modificare la fisionomia del sistema codicistico. In particolare, tra gli interventi legislativi di più ampia portata ricordiamo: • la L. 220/74, la prima e la seconda legge penitenziaria (L. 354/75 e L. 663/86) e la L. 689/81 (denominata Modifiche al sistema penale); • altra importante novità legislativa è, poi, costituita dalla L. 274/2000, attraverso la quale sono state attribuite al giudice di pace limitate competenze in materia penale. Al di là delle riforme legislative citate, però, quel che conta qui rilevare è soprattutto l'importanza che rivestono, per il diritto penale, le norme della nostra Costituzione: ci riferiamo, in particolare, a quelle contenute negli artt. 25, co. 2 e 3 e 27, co. 1, 3 e 4 (principio di legalità e principio della personalità della responsabilità penale). Parte II La legge penale Capitolo I Legge penale e stato di diritto §1. Il principio di legalità (art. 1 c.p.) L'art. 1 c.p., statuendo che nessuno può essere punito per un fatto che non sia preveduto espressamente dalla legge come reato, né con pene che non siano da essa stabilite, codifica il ed. principio di legalità dei reati e delle pene, che, come detto, trova riconoscimento e garanzia anche nella Costituzione, ex art. 25, co. 2 (nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso): ciò significa che sia il fatto costituente reato, sia la relativa sanzione Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com devono essere previsti dalla legge. Il principio di legalità, nel nostro ordinamento giuridico, si articola nell'enunciazione di quattro regole fondamentali: • la c.d. riserva di legge in materia penale; • la regola della tassatività e determinatezza della fattispecie; • il divieto di applicazione analogica e l'irretroattività della legge penale. §2. La riserva di legge in materia penale Il principio della riserva di legge implica che ogni atto normativo, che sia in grado di determinare una restrizione dei diritti di libertà, deve scaturire dalla volontà popolare, per come essa si esprime attraverso la rappresentanza parlamentare: ciò sta a significare che soltanto i procedimenti di formazione delle leggi (ex artt. 70-74 Cost.), possono garantire un sufficiente controllo dell'utilizzo dello strumento penale. Bisogna, allora, risolvere in senso negativo, innanzitutto, la questione dell'eventuale potestà legislativa delle Regioni in materia penale: infatti, alla stregua della disposizione di cui all'art. 117, co. 2 Cost., in materia di ordinamento civile e penale vige la legislazione esclusiva dello Stato (i dubbi, in proposito, erano sorti a causa della sentenza 104/57, con la quale la Corte cost. ritenne la Regione Sicilia competente ad emanare norme penali a tutela della propria legge elettorale). Il divieto per le Regioni di emanare proprie norme penali viene, inoltre, confermato dalla formulazione dell'art. 120 Cost., il quale infatti, imponendo il divieto alle Regioni di limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro, implicitamente impedisce alle Regioni di limitare con norme penali la libertà personale. Decisivo, al riguardo, appare comunque il riferimento al principio di eguaglianza, ex art. 3 Cost., dato che, se ad ogni Regione fosse consentito di emanare proprie norme penali, verrebbe violato il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. a) leggi delegate e decreti legge Leggi delegate e decreti-legge, invece, possono essere fonte legittima di produzione di norme penali, in quanto la Costituzione riconosce agli stessi efficacia pari agli atti normativi cui compete la qualifica di legge. Sul piano sostanziale, tuttavia, sono state avanzate delle riserve; in particolare, per ciò che riguarda le leggi delegate (d.lgs.), è stato osservato che il potere legislativo si limita, in realtà, a formulare criteri direttivi più o meno dettagliati, ma il compito di concretizzare il precetto spetta all'esecutivo (a dire il vero, però, questa conclusione non può essere accolta, in quanto va tenuto presente che una scelta di penalizzazione non appartiene mai, in modo esclusivo, al potere esecutivo, anche perché, se così fosse, la legge in questione sarebbe costituzionalmente illegittima, ex art. 76 Cost.). Per quel che concerne, invece, i decreti-leggi (d.l.), da un lato, è stato affermato che le esigenze di ponderazione sottese alla produzione di norme penali sembrano in forte contrasto con le ragioni di necessità e urgenza (che giustificano l'emissione dei decreti) e, dall'altro lato, si è obiettato che per tutto il periodo di vigenza del decreto-legge (e prima della sua conversione in legge) è eluso, di fatto, il sindacato del Parlamento sull'eventuale normazione penale: tuttavia, queste obiezioni non sembra si possano condividere, perché il controllo che le Camere esercitano dopo l'entrata in vigore del decreto è totale. Tra l'altro, non va neppure dimenticato il fatto che le eventuali difficoltà connesse alla temporanea durata del d.l. sono state risolte dalla Consulta, la quale, con sent. 51/85 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il co. 5 (ora 6) dell'art. 2 c.p., nella parte in cui estendeva l'applicabilità delle norme relative ai casi di abolitio criminis ed al fenomeno Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com della successione di leggi penali anche ai casi di decadenza o di mancata ratifica di un d.l. e nel caso di un d.l. convertito in legge con emendamenti. b) le fonti comunitarie, ed il diritto penale Attualmente, bisogna escludere la legislazione comunitaria dalle fonti di produzione di incriminazioni penali, in quanto il principio della riserva di legge enunciato nell'art. 25, co. 2 Cost. non è derogabile. Né una deroga sarebbe proponibile in mancanza di una legittimazione democratica degli organi comunitari: e, invero, sia il Consiglio che la Commissione sono privi di un'adeguata rappresentatività popolare e manca loro, perciò, la legittimazione democratica necessaria all'emanazione di norme di stampo penalistico; invece, il Parlamento Europeo, che ha un'investitura popolare diretta, non è al momento dotato di una significativa potestà legislativa (esso, infatti, si limita a svolgere un'intensa attività di impulso e proposta, densa di significato politico, ma alquanto marginale sotto il profilo normativo). Si ammette, al contrario, che la norma comunitaria possa limitare, in caso di incompatibilità parziale, o neutralizzare, in caso di incompatibilità totale, l'efficacia di una norma penale interna che contrasti con essa: infatti, in applicazione dell'art. 11 Cost., nel caso in cui si verifichi un contrasto tra una norma nazionale e una norma comunitaria, il giudice nazionale, ove non sia possibile procedere ad un'interpretazione adeguatrice, in grado di eliminare l'incompatibilità, è tenuto a dare applicazione alla norma comunitaria, disapplicando, nel caso di specie, la normativa interna. Diversa questione è, invece, quella che riguarda la configurabilità di veri e propri obblighi di criminalizzazione a carico degli Stati membri, al fine di tutelare beni giuridici ritenuti comunitariamente rilevanti: al riguardo, è necessario sottolineare, innanzitutto, che il legislatore comunitario, per molto tempo, si era limitato a richiedere agli Stati membri l'adozione di misure effettive, in relazione alla tutela di questi beni giuridici (veniva, quindi, sempre rimessa al legislatore nazionale la scelta del tipo di misure sanzionatorie da adottare). Tutto ciò fino al 2005, quando la Corte di Giustizia delle Comunità europee è stata chiamata a pronunciarsi su di un ricorso presentato dalla Commissione Ue contro il Consiglio Ue: oggetto del ricorso era l'adozione, da parte del Consiglio, di una decisione-quadro, in materia ambientale, con cui, tra le altre cose, gli Stati membri venivano invitati ad adottare specifiche sanzioni penali nei confronti di determinati comportamenti illeciti. La Commissione, però, ritenendo la materia ambientale di sicura cognizione comunitaria, rivendicava a sé la competenza a pronunciarsi sull'oggetto. In quest'ottica, la Corte di Giustizia non solo ha dato ragione alla Commissione, ma, neirannullare la decisione del Consiglio, ha anche precisato che la legislazione penale, in via di principio, non rientra nella competenza dell'Unione europea; in ogni caso, però, questa constatazione non può impedire al legislatore comunitario di adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri, allorché l'applicazione di sanzioni penali da parte delle competenti autorità nazionali costituisca una misura di lotta indispensabile contro violazioni ambientali gravi. c) consuetudine e diritto penale In nessun caso la criminalizzazione di un comportamento umano può essere fondata sulla consuetudine, che consiste nella ripetitività costante e uniforme di un comportamento umano, accompagnato dalla convinzione della sua corrispondenza ad un precetto giuridico; per converso, non si potrà determinare neppure l'abrogazione tacita di una norma penale, per quanto costante nel tempo sia la desuetudine nella sua applicazione. È bene tener presente, però, che con l'esclusione della consuetudine dalle Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com fonti del diritto penale non hanno nulla a che vedere altri fenomeni: si pensi, ad es., ai casi in cui la legge penale fa rinvio a criteri di valutazione morali o sociali (ed eventualmente, quindi, anche consuetudinari) nella definizione di un comportamento vietato. In casi del genere, infatti, la norma penale recepisce solo un giudizio di valore extragiuridico ad essa preesistente: è questo, ad es., il caso degli artt. 527 e 529 c.p., il primo dei quali punisce la condotta di atti osceni, e cioè quelli che, a norma del co. 1 dell'art. 529 c.p., secondo il comune sentimento, offendono il pudore. Si pensi ancora alle ipotesi in cui la legge penale, nello stabilire determinate cause di non punibilità del fatto previsto come reato, implicitamente evoca anche la consuetudine, quale fonte del diritto: è questo, ad es., il caso dell'art. 51, co. 1 c.p., il quale statuisce la non punibilità del fatto costituente reato, che sia compiuto nell'esercizio di un diritto (nell'ordinamento giuridico generale, un diritto può, infatti, avere la sua fonte anche nella consuetudine). d) nulla poena sine lege La riserva di legge in materia penale implica, ovviamente, la predeterminazione non solo del fatto previsto come reato, ma anche della relativa sanzione (con riferimento non solo alla pena principale, ma anche alle pene accessorie e agli effetti penali della condanna). D'altra parte, una norma penale che prevedesse il fatto da punire, ma non la relativa sanzione, sarebbe un non senso e se, viceversa, ne rimettesse la determinazione alla discrezionalità del giudice (o, peggio, dell'esecutivo) tradirebbe in modo flagrante le istanze del principio di legalità. §3. Il principio di tipicità dell'azione punibile La riserva di legge in materia penale non avrebbe significato alcuno, ove non fosse integrata dal principio di tipicità delle azioni penalmente rilevanti: ciò significa che la disposizione penale deve fornirci una descrizione, più o meno dettagliata, del fatto punibile, mediante la previsione, astratta e generale, dei suoi caratteri essenziali. È, dunque, necessario che la fattispecie legale del reato sia delineata secondo criteri di tassatività e determinatezza, che rendano possibile la riconduzione del caso concreto al modello astratto delineato dal legislatore. E, però, mentre la tassatività ha riguardo al momento applicativo (avendo la funzione di non consentire al giudice di estendere l'incriminazione al di là dei casi espressamente previsti dalla norma incriminatrice), la determinatezza designa, invece, una caratteristica propria della formulazione della fattispecie: da questo punto di vista, in dottrina si è soliti distinguere tra fattispecie a forma vincolata, nelle quali il legislatore descrive in modo dettagliato le modalità di condotta rilevanti per il diritto penale (si pensi ad es., ai furto, di cui all'art. 624 c.p.), e fattispecie a forma aperta, nelle quali, viceversa, il legislatore appare indifferente alle modalità del comportamento, imperniando la previsione sul risultato dell'azione, in termini di lesione o di messa in pericolo (si pensi, ad es., all'omicidio, ex art. 575 c.p., in cui, infatti, è sufficiente che la condotta dell'agente sia idonea a produrre l'evento tipico, a nulla rilevando le modalità della condotta). Sotto altro punto di vista, è, invece, possibile distinguere tra clementi descrittivi della fattispecie penale, i quali, appunto, si concretano in una descrizione dei dati della realtà empirica, ed elementi normativi, per la cui individuazione è, invece, necessario far ricorso ad una norma giuridica diversa da quella mcriminatrice (ad es., nel furto, Yaltruità della cosa sottratta si ricava dalle leggi civili in materia di proprietà e possesso) ovvero ad un giudizio normativo non giuridico (in tal caso è necessario operare un rinvio a norme di costume: si pensi, ad es., alla definizione degli atti osceni). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §4. Il divieto di analogia Dalle fonti del diritto penale è esclusa anche l'analogia, vale a dire quel procedimento che consente di desumere la regolamentazione dei casi non espressamente previsti dalla legge dalla disciplina dettata per i casi simili (ed. analogia legis) o dai principi generali dell'ordinamento (ed. analogia juris). Il divieto di analogia in materia penale è contenuto nell'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, il quale stabilisce che le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerate: in questo modo si vuole, giustamente, impedire al giudice di creare nuove figure di reato. Diversa dall'analogia è, però, la ed. interpretazione estensiva, da intendere, questa, nel significato di interpretazione fino al limite massimo delle ipotesi normative consentite dal tenore letterale della norma: così, ad es., l'art. 625 c.p. prevede come ipotesi aggravata di furto quella del fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori, nelle stazioni, scali ovvero banchine; orbene, in questi casi deve essere l'interprete a stabilire se la qualifica di viaggiatore possa spettare, ad es., anche ai componenti del personale di un autoveicolo in servizio di trasporto viaggiatori; concreterebbe, invece, un vero e proprio procedimento per analogia l'estensione dell'aggravante anche ai componenti del personale in servizio presso le stazioni, a cui, in nessun modo, può attribuirsi la qualifica di viaggiatore. Il divieto di analogia in materia penale non trova, però, applicazione in bonam partem e cioè in relazione alle disposizioni che tolgono illiceità al fatto previsto come reato: in effetti, queste norme non sono norme penali, bensì autonome norme non penali, aventi efficacia sull'intero ordinamento giuridico. §5. Il principio di irretroattività (art. 2 c.p.) Il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici costituisce una garanzia fondamentale contro l'arbitrio sia del legislatore che del giudice. Il principio di irretroattività, nel nostro ordinamento, concerne, in generale, la legge: l'art. 11, co. 1 delle disposizioni sulla legge in generale stabilisce, infatti, che la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo; per la materia penale, però, la regola di cui all' art. 2, co. 1 c.p. (nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato) è assurta al rango di principio costituzionale del diritto penale attraverso la formulazione dell'art. 25, co. 2 Cost., il quale appunto afferma che nessuno può essere punito se non inforza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Ora, dal punto di vista politico-criminale, è evidente la connessione tra il principio di irretroattività e la funzione di prevenzione generale mediante orientamento culturale (il comando normativo può, infatti, motivare i consociati soltanto se esiste come legge); innegabile, del resto, è anche il legame che unisce il principio di irretroattività con quello della personalità della responsabilità penale (quest'ultimo, infatti, dal momento che implica la conoscibilità della norma da parte del soggetto agente, ne presuppone anzitutto l'esistenza nell'ordinamento positivo). Quanto, invece, al termine di riferimento relativo al tempo in cui fu commesso il fatto, bisogna fare riferimento al tempo in cui è stata realizzata la condotta, che la norma sopravvenuta qualifica come reato: se, infatti, si dovesse aver riguardo all'evento e la norma fosse emanata nel lasso di tempo intercorrente tra il compimento dell'azione e il verificarsi dell'evento, l'autore subirebbe punizione per aver violato una norma da lui non conosciuta, perché non esistente al momento dell'azione. Alla regola della irretroattività della legge penale fa da ovvio pendant il principio di non ultrattività Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com della norma penale: l'art. 2, co. 2 c.p. disciplina, infatti, la ed. abolitio criminis e stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce più reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali. Ciò sta a significare che, quando una norma penale successiva abroga una norma incriminatrice preesistente, la condotta, che in precedenza era connotata da disvalore sociale, non è più considerata come tale dalla legge successiva; per i fatti che si sono svolti sotto la vigenza della norma abrogata si applicherà, ovviamente, il principio di retroattività della legge successiva, perché sarebbe quanto mai illogico continuare a punire l'autore di un fatto che l'ordinamento giuridico non ritiene più perseguibile penalmente. L'art. 2, co. 4 c.p. stabilisce, invece, che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. In relazione a questa norma, è necessario, innanzitutto, precisare che la dottrina prevalente ha sempre ritenuto che il principio della retroattività della legge più favorevole avesse carattere costituzionale (nonostante l'assenza di una specifica previsione nella nostra Costituzione); di recente, tuttavia, quest'orientamento è stato fatto proprio dalla Consulta, la quale ha stabilito, infatti, che la retroattività della lex mitior (cioè della legge mitigatrice) trova un fondamento costituzionale nel principio di cui all'art. 3 Cost., in quanto il principio di eguaglianza impone di equiparare il trattamento sanzionatorio degli stessi fatti, a prescindere dal fatto che i medesimi siano stati commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto l'abolitio criminis o la modifica mitigatrice (sentt. 393 e 394/2006). Detto ciò, perché si possa parlare di successione di leggi (art. 2, co. 4 c.p.), è necessario che un determinato comportamento conservi il carattere di illecito penale, nonostante il susseguirsi nel tempo di atti legislativi che lo riguardano. In questa prospettiva, l'art. 2, co. 4 c.p. coinvolge quelle ipotesi di leggi che, senza introdurre nuovi reati o abolire reati preesistenti, si limitano a modificare il trattamento penale del fatto: in questi casi, qualora la nuova legge dovesse apportare modificazioni sfavorevoli al reo, continuerà ad applicarsi la legge precedente; qualora, invece, la nuova legge dovesse apportare modificazioni favorevoli al reo, si applicherà la nuova legge, che avrà, quindi, efficacia retroattiva. Una difficoltà che, tuttavia, spesso si incontra in queste situazioni è quella di riuscire a capire se la legge successiva abroghi quella precedente, ex art. 2, co. 2 c.p., facendo così divenire lecito il comportamento prima vietato, o la modifichi semplicemente, ai fini e per gli effetti dell'art. 2, co. 4 c.p., continuando, quindi, a prevedere come reato il comportamento precedente, salva l'applicazione della legge più favorevole. Per risolvere il problema, un primo orientamento dottrinale, sostenuto dalla dottrina italo-tedesca, ritiene che qualora sussista, tra la norma anteriore e quella successiva, una ed. continuità del tipo di illecito (in virtù della quale si può affermare che il fatto era prima punibile, dopo punibile e, quindi, punibile) saremo in presenza di un fenomeno di successione di leggi penali: in particolare, i parametri per verificare la sussistenza di tale continuità sono costituiti dall''identità del bene giuridico protetto e dalle modalità di aggressione allo stesso (in quest'ottica, si ha successione di leggi quando, nonostante la novazione legislativa, permangano identici gli elementi predetti). Un'altra parte della dottrina, invece, al criterio (sostanziale) della continuità del tipo di illecito ne oppone uno più rigoroso, di natura formale, che fa leva sull'esistenza o meno di un ed. rapporto di continenza tra la nuova e la vecchia fattispecie: in questo caso, si parlerà di modificazione ove la nuova legge penale presenti un'area comune alla Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com precedente normativa, aggiungendovi, però, degli elementi che la rendono più specifica, in modo tale che, se non fosse esistita la seconda norma (quella, cioè, più specifica), il fatto sarebbe sicuramente rientrato nell'ambito della prima [è questo, ad es., il caso dei rapporti che intercorrono tra l'ipotesi generale dell'art. 640 cpv. c.p. (Truffa in danno dello Stato o di un altro ente pubblico) e l'art. 640 ìris, c.p., introdotto ex L. 55/90, il quale prevede una pena più elevata nel massimo quando il fatto riguarda contributi, mutui e finanziamenti erogati dallo Stato]. Al contrario, quando una norma incriminatrice di carattere specifico viene sostituita da una fattispecie dal contenuto più generale, si potrà parlare di modificazione solo se la vecchia fattispecie (quella dal carattere più specifico) possieda caratteristiche tali da poter essere inglobate in quella nuova (dal carattere più generale), altrimenti si dovrà parlare di vera e propria un'abrogazione [così, ad es., la nuova fattispecie dell''infanticidio commesso dalla madre del neonato in condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, ex art. 578 c.p. (come modificato dalla L. 442/81), punisce un comportamento che non ha nulla in comune con la vecchia figura dell'infanticidio commesso per causa d'onore, il cui disvalore, conseguentemente all'abrogazione della rilevanza penale della causa d'onore (con la citata L. 442/81), viene fatto rifluire nella previsione generale del delitto di omicidio]. L'applicazione del co. 4 dell'art. 2 c.p. impone, come già detto, l'individuazione della legge più favorevole cui assoggettare le condotte (previste come reato) realizzate prima dell'innovazione legislativa. Al riguardo, è bene precisare che l'accertamento andrà fatto in concreto, non in astratto: così, ad es., ove una legge elevasse la pena minima applicabile ad un reato, ma contemporaneamente diminuisse la pena massima, l'una o l'altra legge risulterà più favorevole, a seconda che il giudice ritenga di applicare al caso concreto il minimo o il massimo della pena (così, ad es., qualora egli intenda applicare il minimo della pena, applicherà la legge precedente; viceversa, applicherà quella successiva). In questo contesto occorre inquadrare anche il nuovo co. 3 dell'art. 2 c.p. (inserito ex L. 85/2006), che fa riferimento ad una particolare ipotesi di successione modificativa (positiva) del trattamento sanzionatorio del fatto: questa disposizione stabilisce, in particolare, che laddove vi sia stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria. L'art. 2, co. 5 c.p. stabilisce, invece, che se si tratta di leggi eccezionali (ossia di leggi emanate in situazioni anormali, quali, ad es., guerre, epidemie, terremoti, etc.) ovvero temporanee (ossia quelle con vigenza limitata nel tempo) non si applicano le disposizioni degli articoli precedenti: in questi casi, infatti, si applicherà soltanto la disposizione in vigore al tempo in cui fu commesso il fatto. Ragionando diversamente, gli autori dei reati previsti da queste leggi potrebbero sottrarsi alle relative sanzioni, soprattutto per i fatti commessi poco prima della scadenza del termine o del venir meno della situazione eccezionale (così, ad es., se Tizio commette un reato che, secondo una legge temporanea, emanata per far fronte ad un'emergenza sociale, è punito con una pena più severa, non potrà godere, in alcun modo, del trattamento sanzionatorio più favorevole, previsto dalla normativa precedente). A non poche problematiche ha dato luogo, invece, l'interpretazione dell'art. 2, co. 6 c.p., ai sensi del quale le disposizioni contenute nell'art. 2 c.p. si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge, nonché nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com In realtà, questa disposizione, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione del 1948, si è posta in contrasto con l'art. 77, co. 3 Cost, il quale, infatti, dispone che i decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convcrtiti in legge entro 60 gg. dalla loro pubblicazione. A rimuovere tale incongruenza normativa è intervenuta la Consulta, la quale, con sent. 51/85, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del co. 6 dell'art. 2 c.p., nella parte in cui consente l'applicazione del decreto-legge non convertito (contenente disposizioni più favorevoli al reo) ai fatti realizzati anteriormente all'entrata in vigore del decreto stesso: pertanto, ove con il decreto-legge venga abrogata una incriminazione preesistente, la reviviscenza di tale incriminazione, a seguito della non conversione del d.l., non potrà spiegare effetti rispetto alle condotte realizzate nel periodo di provvisoria vigenza della norma contenuta nel d.l. (che non potranno essere punite, in quanto non costituenti reato secondo la legge del tempo in cui furono commesse); ma, né ì'abolitio criminis, né la modificazione in senso più favorevole potranno, invece, spiegare effetti nei confronti di quelle condotte realizzate prima dell'emanazione del decreto, la cui qualificazione resterà affidata alla legge previgente o a quella posteriore al d.l. non convertito, se più favorevole (così, ad es., se nel mese di gennaio 2013 Tizio ha commesso un reato punito con la pena di anni 4 di reclusione e nel mese di febbraio 2013 un decreto-legge, successivamente non convertito, ha previsto, per lo stesso reato, la pena di anni 2 di reclusione, a Tizio si applicherà la sanzione prevista dalla norma non modificata dal decreto non ratificato; se, invece, Tizio commette il reato nel periodo di provvisoria vigenza del decreto, che introduce norme più favorevoli al reo, anche se successivamente non convertito in legge, troveranno applicazione, in ossequio al principio di legalità, le disposizioni previste dall'atto governativo). Questioni in parte analoghe si ricollegano anche alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme penali, anche se ad una prima lettura, l'art. 136 Cost. non sembra lasciare spazio a dubbi circa l'efficacia ex nunc della dichiarazione di incostituzionalità: l'art. 136 Cost. stabilisce, infatti, che quando la Corte dichiara l'incostituzionalità di una norma di legge o di un altro atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Così ragionando, però, non si consentiva alla dichiarazione di incostituzionalità la possibilità di spiegare i propri effetti nella controversia in occasione della quale era stata sollevata l'eccezione di illegittimità: il che faceva venir meno l'interesse ad adire la Corte. La questione, in ogni caso, è stata risolta a seguito dell'entrata in vigore della 1. cost. 87/53, il cui art. 30, infatti, stabilisce che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando, a seguito dell'applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali: in questo modo, si consente alla dichiarazione di incostituzionalità di spiegare effetti nel procedimento nel quale era stata sollevata la relativa eccezione. §6. Il problema delle ed. norme penali in bianco Il nostro sistema riconosce anche la validità giuridica delle ed. norme penali in bianco: di quelle disposizioni cioè che contengono una sanzione ben determinata, mentre il precetto, presentando carattere generico, necessita di essere specificato attraverso atti normativi di grado inferiore (ad es., un regolamento o un atto amministrativo). Un simile procedimento, ovviamente, pone problemi di compatibilità col principio della riserva di legge e, in particolare, con i canoni della tassatività e determinatezza, in relazione ai quali si dovrebbe, senz'altro, optare per l'illegittimità costituzionale di queste norme. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com È bene precisare, però che problemi di questo genere non sussistono nel caso in cui la norma di legge rinvii a una fonte secondaria preesistente e ben specificata, perché qui è la stessa legge a predeterminare il precetto, sia pure mediante il rinvio ad un testo normativo non legislativo, di cui evita soltanto di recepire il contenuto. Il discorso è, invece, diverso nel caso in cui il rinvio venga operato nei confronti di una fonte secondaria non ancora esistente: qualora, infatti, la legge dovesse rimettere a questa fonte la determinazione della regola di condotta penalmente sanzionata, il contrasto con il principio della riserva di legge sarebbe del tutto evidente. Tuttavia, è bene precisare che questo contrasto non si verifica nel caso in cui sia la stessa legge a predeterminare, in via generale, la condotta vietata (poniamo, ad es., la detenzione di sostanze stupefacenti) demandando ad un'altra fonte (ad es., ad un decreto ministeriale) di specificare i presupposti specifici per il suo verificarsi (di stabilire, ad es., quali sono le sostanze stupefacenti): di conseguenza, laddove si rispetti tale modus operandi, sarà possibile procedere all'integrazione mediante fonti subordinate. Capitolo II L'efficacia della legge penale nello spazio §1. Nozione di territorio dello Stato (art. 3 c.p.) L'art. 3, co. 1 c.p. stabilisce che la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovino nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Questa disposizione codifica il ed. principio di territorialità e cioè l'ambito di validità spaziale della legge penale: più precisamente, quest'ambito territoriale è identificato dal legislatore nel territorio dello Stato, il quale, come stabilisce il co. 2 dell'art. 4 c.p., è costituito dalla superficie terrestre ricadente nei suoi confini geografico-politici, nonché dal mare costiero (ed. mare territoriale) e dallo spazio aereo; l'art. 4, co. 2 c.p. estende, inoltre, la nozione di territorio dello Stato anche alle navi e agli aeromobili che battono bandiera italiana. L'art. 6 c.p. invece, dal canto suo, dopo aver stabilito, al co. 1, che è punito secondo la legge penale italiana chiunque commette un reato nel territorio dello Stato, precisa, al co. 2, che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando la condotta (azione od omissione), che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, o si è ivi verificato l'evento, che è conseguenza dell'azione od omissione: ciò sta a significare che si applicherà la legge penale italiana, ad es., sia nell'ipotesi dell'omicidio commesso da chi, al di qua del confine di Stato, spara ed uccide una persona che si trova al di là del confine; sia nel caso inverso. Dovrà, altresì, considerarsi commesso nel territorio dello Stato anche quel reato, di cui solo un segmento si sia ivi realizzato: si pensi, ad es., al transito in Italia di un pacco postale contenente droga, proveniente da uno Stato estero e destinato a persona residente in un altro Stato estero. §2. Le deroghe al principio di territorialità a) i reati commessi all'estero Il cpv. dell'art. 3 c.p. dispone che la legge penale italiana obbliga, altresì, tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovino all'estero; ora, questa norma, come si può notare, prevede delle deroghe al principio di territorialità: deroghe che si concretizzano nel momento in cui lo Stato italiano punisce determinati reati commessi all'estero. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com In particolare, ai sensi dell'art. 7 c.p. è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero i seguenti reati: • i delitti contro la personalità dello Stato; • i delitti di contraffazione del sigillo dello Stato; • i delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato; • i delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri о violando i doveri inerenti alle loro funzioni. Tale disposizione, in sostanza, accoglie il c.d. principio di universalità della legge penale italiana e lo fa in considerazione della particolare natura dei delitti elencati. b) il delitto politico L'art. 8 ср., invece, punisce il cittadino о lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico (delitto non compreso tra quelli indicati nell'articolo precedente). A tal riguardo, occorre distinguere due tipologie di delitto politico: • il delitto oggettivamente politico, il quale offende un interesse politico dello Stato (ad es., l'integrità territoriale, la sovranità e la forma di governo) о un diritto politico del cittadino (ad es., i diritti elettorali, attivi e passivi); • il delitto soggettivamente politico, che rappresenta, invece, il delitto comune che sia stato determinato, in tutto о in parte, da motivi politici (secondo la giurisprudenza prevalente, perché un delitto comune possa essere ritenuto soggettivamente politico, è necessario che il soggetto agente sia stato spinto a delinquere al fine di poter incidere sull'esistenza о sul funzionamento dello Stato о al fine di favorire о contrastare idee politiche, sociali о religiose). c) il delitto comune commesso all'estero dal cittadino L'art. 9 c.p. punisce, secondo la legge italiana, il delitto comune commesso all'estero dal cittadino, a patto, però, che si tratti di delitto punito con la reclusione ed il cui autore sia presente nel territorio dello Stato: più precisamente, se il delitto è stato commesso a danno dello Stato о di un cittadino italiano, è necessaria una pena non inferiore, nel minimo, a 3 anni di reclusione (diversamente, si rende, altresì, necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia). Se, invece, il delitto è stato commesso a danno di uno Stato estero ovvero di un cittadino straniero, non solo occorre la richiesta del Ministro della Giustizia, ma è necessario, altresì, che l'estradizione, da lui chiesta, non sia stata concessa о non sia stata accolta dallo Stato estero. d) il delitto comune commesso all'estero dallo straniero L'art. 10 c.p. punisce, secondo la legge italiana, il delitto comune commesso all'estero dallo straniero, sempre a patto, però, che si tratti di delitto punito con la reclusione e il cui autore sia presente nel territorio dello Stato: più precisamente, ove il delitto sia commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano è necessaria una pena (per quel reato) non inferiore ad 1 anno di reclusione e la richiesta del Ministro della Giustizia. Se, invece, il delitto è commesso a danno di uno Stato estero o di un cittadino straniero è necessaria: una pena non inferiore, nel minimo, a 3 anni di reclusione; la richiesta del Ministro della Giustizia e la mancata concessione o accettazione dell'estradizione, sia da parte del Governo in cui il reato è stato commesso, sia da parte del Governo dello Stato cui appartiene il reo. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. L'estradizione L'estradizione è un istituto di stampo internazionale, che si estrinseca nella consegna di un individuo da parte di uno Stato a un altro Stato, perché sia da questi giudicato (in tal caso, si parla di estradizione processuale) o sottoposto all'esecuzione della pena, qualora sia stato già condannato (si parla, in tal caso, di estradizione esecutiva). L'estradizione si definisce attiva quando è richiesta; passiva quando è concessa. Per quanto riguarda l'estradizione passiva, la legge italiana, all'art. 13 c.p., stabilisce che il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione deve essere preveduto come reato sia dalla legge penale italiana che da quella straniera (è questo il ed. requisito della doppia incriminabilità); non si deve trattare di reati per i quali le convenzioni internazionali facciano espresso divieto di estradizione; l'estradando deve essere straniero (in caso contrario, l'estradizione può essere concessa solo ove espressamente consentita dalle convenzioni internazionali). Ad ogni modo, l'estradizione non può essere concessa: • per motivi di razza, di religione o di nazionalità; • per reati puniti all'estero con la pena di morte; • per reati politici (così come stabilito ex artt. 10 e 26 Cost.), dal novero dei quali sono esclusi i delitti di genocidio. La Cassazione ha, comunque, tenuto a precisare che, ai fini dell'estradizione, il concetto di delitto politico, contenuto nelle norme costituzionali, non coincide con quello contenuto nell'art. 8 c.p., in quanto nel codice tale concetto viene definito in funzione repressiva, mentre nelle disposizioni costituzionali esso è assunto a garanzia della persona. Capitolo III Le immunità Le immunità costituiscono delle particolari prerogative che sono riconosciute a quelle persone che adempiono funzioni o ricoprono uffici di particolare importanza; esse si sostanziano nell'esenzione di questi soggetti da ogni conseguenza di tipo penale, in ragione della loro qualifica professionale. Tradizionalmente, si distingue tra immunità di diritto pubblico interno ed immunità di diritto internazionale. Le immunità derivanti dal diritto pubblico interno concernono: • il Presidente della Repubblica (ed il Presidente del Senato quando sostituisce nelle sue funzioni il Capo dello Stato): questi, a norma dell'art. 90 Cost., non è responsabile penalmente degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, fatta eccezione per i reati di Alto tradimento e di attentato alla Costituzione; • i membri del Parlamento e quelli dei Consigli regionali, i quali, ai sensi dell'art. 68, co. 1 Cost., non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni; • i giudici della Corte Costituzionale; • i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Le immunità derivanti dal diritto internazionale riguardano, invece: • il Sommo Pontefice, la cui persona è definita Sacra ed Inviolabile; • i Capi di Stato ed i Reggenti, che si trovino nel territorio italiano; Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • i Capi di Governo ed i Ministri degli Affari Esteri; • gli agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato; • i Consoli, i vice-Consoli e gli agenti consolari; • i giudici della Corte dell'Aja; • i membri del Parlamento Europeo; • gli appartenenti ai reparti di truppe straniere, qualora si trovino nel territorio dello Stato (ovviamente, previa autorizzazione). Parte III Il reato Sezione I Introduzione alla dottrina del reato Capitolo unico §1. L'analisi del reato: l'articolazione bipartita e la concezione tripartita Sotto il profilo formale, il reato può essere definito come l'insieme dei requisiti necessari e sufficienti per il prodursi della conseguenza giuridica della sanzione penale: la definizione appena enunciata, però, può essere compresa solo mediante la scomposizione e la successiva ricomposizione degli elementi costituenti il fatto di reato. Ora, è chiaro che, nel prevedere un fatto come reato, il legislatore se lo rappresenta come un processo unitario: più precisamente, egli individua (e penalizza) un segmento di vita, costituito da un comportamento esteriore dell'uomo, al quale attribuisce una portata socialmente negativa; ma, per poterne cogliere la specifica rilevanza giuridica, è indispensabile analizzare questo dato unitario, attraverso la scomposizione dei dati di valore che lo costituiscono. In quest'ottica, è necessario precisare che l'analisi del reato è stata, storicamente, condotta secondo tre diverse schematiche. Analizziamole. • Un primo schema di analisi scompone il fatto delittuoso in due elementi: quello oggettivo (o anche detto della fisicità), e cioè l'accadere visibile nel mondo esterno; e quello soggettivo (anche detto psicologico), rappresentato, invece, dall'atteggiamento interiore che sostiene la condotta dell'autore. Questo schema è senz'altro caratteristico della Scuola classica, di carrariana memoria, la quale, infatti, tendeva a distinguere tra forza fisica e forza morale. • Il modello di dottrina elaborato, invece, in Germania e condiviso anche in Italia si caratterizza per un diverso approccio alla tematica, dal momento che i vari elementi che compongono il reato vengono ricavati dal collegamento che si instaura tra il fatto vietato e l'ordinamento giuridico. Questo procedimento di analisi, poiché dà luogo a tre elementi costitutivi del reato, prende il nome di concezione tripartita del reato: ora, il primo e fondamentale elemento di questo schema concerne la conformità del fatto alla descrizione normativa di un reato e prende il nome di tipicità. La conformità del fatto alla descrizione normativa di un reato da sola, tuttavia, non implica necessariamente anche la contrarietà del fatto con l'ordinamento giuridico: questa contrarietà, invero, potrà essere affermata solo nel caso in cui non sussistano particolari condizioni di liceità della condotta e, più precisamente, in assenza di cause di giustificazione (soltanto in presenza di tali condizioni il fatto tipico potrà essere considerato anche antigiuridico: ed è questo il secondo elemento fondamentale dello schema tripartito, che prende, appunto, il nome di antigiuridicità). L'ulteriore figura di qualificazione dello schema tripartito concerne, infine, la verifica dei presupposti di Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com ordine soggettivo, che vanno ad integrare il ed. giudizio di colpevolezza: ad essa (la colpevolezza), in origine, si assegnava il contenuto psichico dell'azione (cioè il dolo e la colpa), mentre nell'evoluzione della dottrina del reato ci si è andati man mano orientando verso una concezione normativa di colpevolezza, nella cui ottica ciò che viene in rilievo è la verifica dei presupposti della normalità e maturità psichica, da cui dipende l'imputabilità del soggetto. Tipicità, antigiuridicità e colpevolezza costituiscono, quindi, i predicati dell'azione penalmente rilevante nello schema tripartito. • Alla teoria tripartita si è da sempre contrapposta una ed. articolazione bipartita degli elementi costitutivi del reato, secondo la quale l'antigiuridicità non costituirebbe un autonomo elemento del reato, ma ne rappresenterebbe l'essenza. La fattispecie del reato verrebbe, in questo modo, a configurarsi come antigiuridicità tipizzata, in ragione del fatto che il carattere tipico dell'azione sarebbe dato dalla sua antigiuridicità: così ragionando, la mancanza di cause di giustificazione finirebbe per rientrare nel carattere della tipicità, mentre, all'inverso, la loro presenza finirebbe per configurarsi come una causa di esclusione dello stesso fatto tipico (in conseguenza di ciò, a quest'orientamento dogmatico si dà anche il nome di dottrina degli elementi negativi delfatto). Parte della dottrina, però, ha giustamente evidenziato che, se nella fattispecie legale del reato vengono inclusi momenti ed. negativi (che, poi, corrispondono alle ipotesi delle cause di giustificazione), la fattispecie incriminatrice viene, in sostanza, privata della sua funzione di tipicizzazione, perché in essa si fanno rientrare elementi che, in realtà, sono fuori dalla descrizione legale del reato. Del resto, va anche tenuto presente che la distinzione tra tipicità e antigiuridicità è fondata su precise differenze di valore giuridico, che non possono essere, in alcun modo, disconosciute: mentre, infatti, la tipicità rappresenta la ed. materia del divieto (attraverso di essa, cioè, il legislatore ci fornisce il quid del divieto, descrivendo concretamente cosa il diritto penale proibisce), l'antigiuridicità rappresenta, invece, un mero giudizio di relazione, che intercorre tra il fatto, penalmente sanzionato, e l'intero ordinamento giuridico. Essa, quindi, non limita o, comunque, non modifica la materia del divieto (vale a dire la tipicità del fatto tipico), ma elimina semplicemente l'obbligo di osservare il divieto, in presenza di particolari circostanze giustificanti: si pensi, ad es., all'uccisione di un uomo (azione penalmente sanzionata ex art. 575 c.p.), che sia compiuta al fine di difendersi ad un'aggressione ingiusta (art. 52 c.p.). In questo caso, invero, la materia del divieto (l'uccisione di un uomo) non viene eliminata attraverso la presenza del momento giustificante (legittima difesa), come suggeriscono i postulati della teoria degli elementi negativi del fatto (ed invero, resta il fatto che un uomo è stato ucciso, sia pure in stato legittima difesa); ciò che, a ben vedere, viene eliminata è solo l'efficacia del divieto di uccidere, che in questa particolare situazione non può trovare applicazione, stante la presenza dell'esimente (legittima difesa). §2. Lo schema tripartito del reato a) la concezione tripartita nella visione di E. Beling In connessione con Y affermarsi dei sistemi codificati di diritto penale, fondati sul principio di legalità, e grazie, soprattutto, ai contributi della dottrina di Ernst Beling, emerge con chiarezza il concetto della tipicità dell'azione punibile: solo l'azione tipica (cioè la condotta vietata, descritta dal legislatore) può entrare nel campo dell'illecito penale ed essere, ulteriormente, analizzata sotto i profili dell'antigiuridicità e della Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com colpevolezza, dai quali dipende l'esistenza stessa del reato e che presuppongono, in primis, la conformità del fatto alla descrizione legale di un reato (cioè la sua tipicità). La realizzazione del fatto tipico, però, nonostante la sua contrarietà ad una specifica norma di divieto, non presuppone necessariamente anche l'antigiuridicità del fatto, poiché l'ordinamento, oltre alle norme di divieto, contiene anche norme permissive, le quali hanno appunto la funzione di rendere lecito il compimento di azioni tipiche, altrimenti vietate: si pensi, ancora una volta, all'uccisione di un uomo compiuta in stato di legittima difesa. Ciò significa, pertanto, che un fatto tipico potrà risultare antigiuridico qualora esso sia riconducibile solo nell'ambito della norma penale che vieta la sua realizzazione; tale fatto, viceversa, risulterà essere conforme al diritto, quindi non antigiuridico, qualora sia riconducibile anche ad un'altra norma dell'ordinamento, che consente o impone la sua realizzazione (si pensi, ad es., all'adempimento di un dovere, ex art. 51 c.p.). Nel modello elaborato dal Beling, infine, il terzo elemento del reato, la colpevolezza, viene ad esprimere il rapporto psicologico dell'autore con il fatto, quale azione tipica ed antigiuridica: ora, come si può notare, il concetto belinghiano di colpevolezza nasce e si sviluppa sulla base della perfetta separazione tra il lato esterno (od oggettivo) e il lato interno (o soggettivo) del reato (in particolare, questo smembramento dell'azione ha, per il Beling, lo scopo precipuo di realizzare la funzione di certezza del diritto). Beling, infatti, ritiene che la tipicità della condotta dipende solo ed esclusivamente dalla corrispondenza dell'azione od omissione alla descrizione legale di un reato, nei suoi connotati esteriormente riconoscibili; con la precisazione che, a sua volta, questa condotta deve essere causalmente diretta alla lesione (o alla messa in pericolo) del bene tutelato (questi due elementi sono, ad avviso dell'autore, necessari e sufficienti per decidere dell'esistenza del fatto tipico). Al contrario, il contenuto psichico dell'azione (cioè il dolo e la colpa) viene distaccato dalla base oggettiva della tipicità ed inserito nel concetto del reato a rappresentare, come detto, la categoria della colpevolezza: Beling, infatti, ritiene che, per l'esistenza ed il riconoscimento della tipicità, è sufficiente l'esistenza di un'azione dell'uomo, causalmente produttrice di un evento, sorretta dalla volontà; ma ciò unicamente per individuare una differenza tra ciò che è azione e ciò che, invece, non lo è. Invero, allo scopo di determinare ciò che è azione è sufficiente la certezza che l'autore, in modo volontario, abbia agito o sia rimasto inattivo; che cosa egli abbia voluto è, viceversa, del tutto indifferente (sotto il profilo della tipicità), in quanto il contenuto della volontà ha importanza soltanto per il problema della colpevolezza. Per Beling, dunque, la colpevolezza deve essere analizzata soltanto da un punto di vista psicologico: ragion per cui, ragionando in questi termini, essa (la colpevolezza) si profila come un puro concetto di genere, al cui interno bisogna collocare i coefficienti psichici dell'azione: vale a dire il dolo e la colpa. b) i limiti della concezione bclinghiana e la teoria finalistica di Welzel La delimitazione belinghiana del fatto tipico all'insieme degli elementi esteriori dei singoli reati (con l'esclusione di ogni coefficiente psichico) serve ad escludere ogni tipo di valutazione e, quindi, di arbitrio da parte del giudice (lo stesso Beling tende a precisare che il fatto tipico è un insieme di dati obicttivi, idonei solo a costituire un indizio per la successiva valutazione dell'antigiuridicità). Tuttavia, nella evoluzione della dottrina del reato entra in crisi, fin da subito, sia la distinzione tra elementi descrìttivi ed elementi normative-valutativi, sia la separazione di principio tra oggettivo e soggettivo: infatti, in primis, si comincia col prendere atto del fatto che per l'accertamento del fatto tipico è impossibile, in molti casi, prescindere Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com da valutazioni normative (come, ad es., per stabilire l'altruità della cosa, nel furto). In secondo luogo, comincia a farsi strada l'idea che possano esistere fattispecie, in cui l'illiceità della condotta non può essere definita (e giudicata tale) senza il riferimento ad elementi di stampo psicologico (o, in ogni caso, soggettivo): si intuisce, infatti, che alcuni reati si possono, in realtà, distinguere da altri soltanto sulla base di un diverso atteggiamento intcriore del soggetto (si pensi, ad es., alla differenza tra il delitto di ratto a fine di matrimonio, ex art. 522 c.p., e quello di ratto a fine di libidine, ex art. 523 c.p.). Non solo: si comprende, inoltre, che vi sono dei fatti la cui contrarietà ad una norma di divieto può essere affermata soltanto se si punta l'attenzione allo scopo perseguito dall'agente (il delitto di furto, ad es., si configura soltanto se l'impossessamento della cosa altrui è compiuta alfine di trarne profitto, ex art. 624 c.p.). Tutte queste osservazioni condurranno, pertanto, l'originario modello tripartito del reato in una profonda crisi; una crisi che spianerà la strada ad un nuovo assetto della dottrina del reato. In particolare, una svolta decisiva in questa direzione si avrà con l'affermarsi della dottrina dell'illecito personale e, più precisamente, con l'importante teoria finalistica dell'azione elaborata dal giurista e filosofo Hans Welzel: quest'ultimo, in particolare, parte dall'essenziale affermazione secondo cui l'azione dell'uomo, per poter essere posta alla base del fatto penalmente rilevante, deve, in modo assoluto, assumere la fisionomia di azione volontaria. Ciò significa, in altri termini, che l'azione umana deve essere considerata alla stregua di un'attività orientata in modo finalistico: infatti, afferma Welzel, l'uomo, proprio perché è in grado di orientare i suoi comportamenti e di controllarne gli effetti, il suo agire, cosciente e volontario, finalisticamente determinato, si distingue in modo essenziale dal mero accadimento causale (è evidente, dunque, che, ad avviso di Welzel, l'idoneità dell'azione umana, intesa come elemento costitutivo del fatto tipico, non può essere determinata solo in base alla sua efficienza causale per la lesione del bene, ma deve essere stabilita a partire dal suo significato come processo della vita sociale). Così ragionando, il contenuto psichico dell'azione (quindi, il dolo e la colpa) viene in considerazione già a livello della tipicità, perché senza questo riferimento verrebbe a mancare proprio la descrizione legale del reato: ed ecco che, in questo modo, Welzel finisce per coniare i due tipi di azioni penalmente rilevanti: • il fatto doloso, che è un fatto che l'agente non doveva volere; • il fatto colposo, che, invece, è un fatto che l'agente non doveva produrre. L'anticipazione di dolo e colpa all'interno del fatto tipico, oltre a fornirci un'azione logicamente orientata, ci consente anche di configurare la categoria della colpevolezza come un puro concetto normativo: il dolo e la colpa, infatti, in quanto concetti relativi alla specie di fatto, attengono al modello legale del reato; il giudizio di colpevolezza, invece, viene ad esprimere la relazione che intercorre tra l'atteggiamento antidoveroso della volontà del soggetto (doloso o colposo) e la pretesa dell'ordinamento all'osservanza della norma (in termini di imputabilità). §3. La struttura del reato nell'ordinamento penale vigente L'interpretazione della parte generale del codice penale convalida la scelta di uno schema di analisi di struttura del reato imperniato sulla tripartizione dei suoi elementi essenziali (nelle categorie della tipicità, dell'antigiuridicità e della colpevolezza). È bene precisare, però, che una parte della dottrina (in particolare, Roxin) rivendica a Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com queste categorie dogmatiche del diritto penale anche una specifica ed importante funzione politico-criminale. Accogliendo questo punto di vista, va precisato che: • l'elaborazione del fatto tipico deve essere diretta a soddisfare le esigenze di certezza del diritto e di determinatezza legislativa (a garanzia della libertà del cittadino); • l'antigiuridicità deve, invece, essere improntata alla risoluzione dei conflitti sociali, che sorgono dalla collisione di interessi individuali; • la colpevolezza, infine, deve essere concepita come il presupposto e il limite necessari affinché lo Stato possa esercitare la pretesa punitiva (da intendere, questa, in termini di prevenzione, generale e speciale). In dettaglio, dal punto di vista politico-criminale, nell'ambito della dottrina del fatto tipico è necessario verificare il modo in cui il legislatore riesce a realizzare le esigenze del principio di legalità; a questo proposito, egli dispone di due metodi diversi, che possono essere utilizzati anche in maniera alternativa: il primo metodo consiste nella puntuale descrizione di azioni, di accadimenti materiali e di processi intcriori (in tal caso, si parla anche di reati di azione: si pensi, ad es., alla rapina). Del secondo metodo, invece, il legislatore si serve laddove non ritenga essenziali le specifiche modalità di comportamento del soggetto agente: in tal caso, il fondamento della sanzione riposa sul fatto che il soggetto non adempie alle prestazioni che il ruolo sociale da lui assunto gli impone di adempiere (in relazione a siffatte ipotesi, si è soliti parlare anche di reati d'obbligo: si pensi, ad es., all'infedele patrocinio ovvero alla procurata evasione). Si parla, invece, di reati impropri di azione nei casi in cui reati di obbligo siano inclusi in reati d'azione: è questo il caso, ad es., della madre che fa morire di fame suo figlio, omettendo di nutrirlo per un'intera giornata. Nell'ambito della dottrina dell'antigiuridicità è necessario, invece, verificare il modo in cui il legislatore cerca di risolvere i conflitti sociali. In quest'ottica, egli utilizza un numero limitato di principi ordinatori di natura sostanziale: così, ad es., nella legittima difesa entrano in gioco i principi dell'autotutela e della difesa del diritto (nel senso che ognuno può opporre resistenza contro le aggressioni vietate dalla legge). Autotutela e difesa del diritto trovano, però, il loro limite comune nel principio di proporzionalità, in base al quale, se per difendersi da attacchi insignificanti, come quelli provenienti, ad es., da parte di bambini o di incapaci, si cagionano gravi lesioni fisiche, si giunge al disconoscimento della scriminante. Nell'ambito, infine, della dottrina della colpevolezza si rende necessario accertare se il comportamento tenuto dall'agente, sotto il profilo politico-criminale, meriti di essere sanzionato con una pena: se, infatti, l'autore, per una qualsiasi ragione, non avrebbe potuto, comunque, evitare il fatto tipico e antigiuridico da lui realizzato, l'inflizione di una sanzione appare inutile, sia dal punto di vista della prevenzione generale che di quella speciale. Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo all'importanza che, per il diritto penale, riveste la nostra Carta Costituzionale: è in essa, infatti, che è possibile oggi rinvenire gli agganci normativi sui quali fondare le tre funzioni politico-criminali di tutela della libertà, di soluzione dei conflitti sociali e di esplicazione delle istanze di prevenzione. E, infatti, il principio della tutela della libertà trova esplicito riferimento negli artt. 13, 25, co. 2 e 111 Cost., i quali, nel loro insieme, tutelano l'individuo relativamente alla restrizione della libertà personale. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com A sua volta, il principio della risoluzione dei conflitti sociali trova riconoscimento negli artt. 2 e 3 Cost. Infine, il principio dell' esplicazione delle istanze di prevenzione trova un riconoscimento negli artt. 2,3,13,25, co. 2 e 27, co. 1, 3 e 4 Cost. Sezione II Il fatto Capitolo I La struttura del fatto tipico §1. La relazione tra norma incriminatrice e bene giuridico Come sappiamo, nel nostro ordinamento, una distinzione molto importante è quella tra le fattispecie a forma aperta e le fattispecie a forma vincolata: nelle prime, la condotta del soggetto agente è incriminata a priori, cioè indipendentemente dalle sue specifiche modalità esecutive. Nelle seconde, al contrario, giocano un ruolo essenziale anche le specifiche modalità del comportamento dell'agente. Beninteso, l'utilizzazione di fattispecie a forma aperta o, viceversa, a forma vincolata, dipende, in generale, dall'importanza che assume il bene giuridico cui il legislatore intende concedere protezione: nel senso che, quanto più alto è il valore che il bene in questione riveste per la salvaguardia delle condizioni di vita della comunità, tanto più rincriminazione tenderà a ricomprendere ogni possibile forma di aggressione al bene stesso. In questa prospettiva, è bene precisare che il bene giuridico svolge, nel nostro sistema penale, due importantissime funzioni: da un lato, infatti, esso rappresenta il punto di orientamento della legislazione (si parla, al riguardo, della ed. funzione ideologica del bene giuridico) e, dall'altro, svolge una funzione essenziale nell'interpretazione della fattispecie, perché concorre a definirne i confini, a distinguerla da altre fattispecie e dalla serie infinita dei fatti penalmente irrilevanti (si parla, in questo caso, della ed. funzione esegetica del bene giuridico). Il bene giuridico, così inteso, viene anche definito oggetto giuridico del reato: oggetto, cioè, sia della tutela normativa, sia dell'aggressione che si realizza con il compimento della condotta incriminata. §2. La struttura della fattispecie oggettiva del fatto tipico Dal punto di vista della teoria generale del reato, integrando le singole norme penali incriminatrici di parte speciale con la normativa di parte generale, si perviene ad una importante distinzione: quella tra fattispecie oggcttivo-materiale e fattispecie soggettiva. Quanto alla fattispecie oggettiva, va detto che il suo primo elemento caratteristico è costituito dall'autore (ed. soggetto attivo del reato), cioè colui che realizza, nel mondo esterno, il fatto tipico di un determinato reato; è bene precisare, però, che può essere autore solo una persona fisica (un essere umano), nonostante vi sia un forte dibattito in dottrina circa l'individuazione di forme di responsabilità penale delle ed. persone giuridiche: per esse, in realtà, il legislatore (con la L. 300/2000) ha ritenuto opportuno optare per un modello extrapenale di responsabilità, con riferimento ai reati commessi nel loro interesse dai loro organi o dai loro sottoposti (e questo tipo di responsabilità prende anche il nome di responsabilità amministrativa). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com La qualità di autore prescinde, ovviamente, dalla sua colpevolezza: si pensi, ad es., al minore non imputabile, che sottrae un oggetto dal banco di un supermercato: egli è, in ogni caso, autore del fatto tipico del furto, nonostante sia da considerare non punibile. Di regola, autore di un reato può essere chiunque, come nel caso disciplinato dall'art. 575 c.p.; tuttavia, anche se in un numero limitato di casi, la sfera dei potenziali autori è circoscritta dalla legge solo a determinate categorie di soggetti: così, ad es., il delitto di infanticidio può essere commesso solo dalla madre del neonato; i delitti di sciopero e serrata solo da lavoratori e datori di lavoro. In virtù di questa classificazione, si dicono, pertanto, reati comuni quei fatti che possono essere commessi da chiunque, mentre si dicono reati propri, quei fatti di cui possono essere autori solo specifiche categorie di soggetti. È importante chiarire, tra l'altro, che nel reato proprio, la speciale relazione che intercorre tra l'autore e il bene giuridico può assumere rilevanza in due casi: o perché determina l'esistenza stessa di un reato o perché configura un diverso tipo di illecito penale (un esempio del primo tipo è costituito, ad es., dall'omissione di referto, il cui fatto tipico può essere commesso solo da chi esercita una professione sanitaria; un esempio del secondo tipo è dato, invece, dai fatti di appropriazione indebita di denaro, la cui condotta tipica, se posta in essere da un pubblico ufficiale, integra il delitto di peculato, mentre, se posta in essere da un privato cittadino, integra il fatto tipico della appropriazione indebita). Soggetto passivo del reato (o persona offesa dal reato) è, invece, il portatore dell'interesse giuridico protetto, su cui incide la condotta tipica: così, ad es., soggetto passivo del reato di omicidio è la persona uccisa; soggetto passivo del reato di lesioni personali è la persona ferita. È necessario sottolineare, però, che la nozione di soggetto passivo del reato non si identifica necessariamente con quella di danneggiato dal reato, la quale designa, invece, la persona che, avendo subito il danno (patrimoniale o non) causato dal reato, potrà costituirsi parte civile nel processo penale: così, ad es., nell'omicidio, soggetto passivo è la vittima dell'azione omicida; danneggiati, invece, saranno gli stretti congiunti. Nel furto, soggetto passivo è il soggetto che viene privato della detenzione della cosa; ma se il detentore non si identifica con il proprietario, quest'ultimo, e non il soggetto passivo, sarà il danneggiato dal reato. Soggetti passivi possono essere, oltre alle persone fisiche, lo Stato, ramministrazione pubblica e le persone giuridiche. Quando, invece, il soggetto passivo è indeterminato si parla di reati vaghi o vaganti: si pensi, ad es., ai reati contro la pubblica incolumità. Un altro elemento essenziale della fattispecie oggettiva è, poi, Yoggetto materiale, che rappresenta l'entità sulla quale incide la condotta tipica, nel momento in cui questa si concretizzi nell'estrinsecazione di energia fisica: in particolare, si può trattare di una cosa (come, ad es., un atto o un documento, nei reati di falsità documentale), un animale o un essere umano (in questi ultimi due casi, come si può notare, la nozione di oggetto materiale viene a coincidere con quella di soggetto passivo del reato; il che, però, non determina una sovrapposizione tra le due nozioni). La nozione di oggetto materiale non va, inoltre, confusa con quella di oggetto giuridico del reato, il quale, invece, rappresenta, come già detto, il bene giuridico tutelato dalla norma: in realtà, bisogna precisare che, nella maggior parte dei casi, la distinzione tra le due nozioni è facilmente intuibile: ci riferiamo, in particolare, ai casi in cui il bene giuridico tutelato è costituito da un'entità concettuale ovvero spirituale (come, ad es., il sentimento religioso), mentre l'oggetto materiale della condotta può assumere varie determinazioni (si pensi, ad es., ad una reliquia danneggiata). Altro nucleo fondamentale della fattispecie oggettiva è, poi, la condotta dell'autore: in particolare, quest'ultima, per poter essere definita tipica, deve corrispondere a quella descritta in una norma incriminatrice di parte speciale (diversamente, essa non potrà Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com assumere alcuna rilevanza per il sistema penale, perché, a tal riguardo, il principio di legalità costituisce un limite insuperabile). Ovviamente, la condotta può essere attiva od omissiva, cioè può consistere in un comportamento positivo o negativo; è necessario tener presente, però, che, nella maggior parte dei casi, la legge penale non si limita solo a descrivere l'azione o l'omissione vietata, ma si preoccupa anche di descrivere, nel dettaglio, l'accadimento (il ed. evento) che consegue alla condotta dell'agente. In particolare, i reati, in relazione ai quali la legge descrive un determinato accadimento naturalistico come risultato conseguente alla condotta dell'agente, prendono il nome di reati di evento (è questo, ad es., il caso dell'omiddio); mentre i reati, la cui fattispecie si esaurisce nella descrizione della condotta incriminata, vengono definiti reati di pura condotta (attiva od omissiva: si pensi, ad es., ai falso giuramento o all'omessa denuncia di reato). Quanto detto, però, non deve far pensare che nei reati di pura condotta non vi sia il riferimento all'evento lesivo, perché il reato è, per definizione, aggressione ad un bene giuridico; ed il risultato di questa aggressione si traduce in un evento di lesione o di messa in pericolo del bene medesimo; quest'evento, tuttavia, non necessariamente corrisponde ad una modificazione naturalistica della realtà esterna preesistente. Allo scopo di risolvere questo problema, allora, la dottrina ha ritenuto opportuno coniare il concetto di offesa e lo ha, poi, distinto da quello di evento, precisando che: • per offesa si deve intendere la lesione o la messa in pericolo del bene tutelato (l'offesa, quindi, sarebbe presente in qualsiasi tipo di reato, anche in quelli di pura condotta); • l'evento, invece, deve essere inteso nei termini di una modificazione della realtà esterna preesistente (esso, di conseguenza, sarebbe presente solo in quelle fattispecie in cui lo stesso risulti essere scindibile dalla condotta). Tuttavia, questa distinzione, per quanto giusta, non può valere sempre e comunque, in quanto, in alcune disposizioni di legge, il termine evento coincide esattamente con quello di offesa: è questo, ad es., il caso di cui all'art. 43, co. 1 c.p., il quale, nel definire l'evento dannoso o pericoloso nel suo rapporto con l'elemento psicologico del reato, deve necessariamente riferirsi all'evento nel senso di offesa, perché, se così non fosse, esso conterrebbe una definizione solo parziale dell'elemento psicologico, in quanto non riferibile ai reati di pura condotta. §3. La classificazione dei reati a) i reati di danno ed i reati di pericolo I reati vengono tradizionalmente distinti in reati di danno e reati di pericolo: nel primo caso, la legge richiede la realizzazione di una effettiva lesione del bene protetto (così, ad es., perché si possa parlare di omicidio è necessario che all'azione omicida segua, in concreto, la morte di un uomo). Nel secondo caso, invece, per la punibilità dell'agente, è sufficiente che si realizzi la semplice esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato: il che avviene, di regola, quando il legislatore intenda proteggere beni giuridici particolarmente importanti, i quali, proprio per questa loro caratteristica, necessitano di una protezione anticipata (si pensi, ad es., alla previsione di cui all'art. 450 c.p., il quale punisce la condotta di chi, con la propria azione od omissione, fa sorgere o persistere il pericolo di un disastro ferroviario, di un'inondazione, di un naufragio, etc). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com I reati di pericolo vengono, a loro volta, distinti in reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto: i reati di pericolo concreto possono essere agevolmente individuati, perché qui il pericolo è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice. In questi casi, pertanto, il giudice, riportandosi idealmente al momento in cui l'agente ha posto in essere la condotta vietata, deve accertare l'esistenza in concreto del pericolo: egli, cioè, deve accertare l'esistenza di una situazione oggettiva, il cui evolversi avrebbe, in maniera verosimile, condotto a un evento di lesione del bene protetto (sono reati di pericolo concreto, ad es., la strage, di cui all'art. 422 c.p., consistente in atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, e l'incendio di cosa propria, di cui all'art. 423 c.p., che punisce, appunto, chiunque cagiona un incendio, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità). Nei reati di pericolo astratto, viceversa, il legislatore incrimina un certo tipo di fatto, sulla base della semplice presunzione che in esso sia insita l'esposizione a pericolo di un dato bene giuridico; di conseguenza, il legislatore, in casi del genere, non richiede l'accertamento, caso per caso, dell'esistenza del pericolo da parte del giudice. Va detto, però, che, nonostante la presunzione di pericolosità, in questo tipo di reati è, in ogni caso, ammessa la ed. prova contraria: si pensi, ad es., all'art. 441 c.p., il quale punisce il fatto di chi corrompe sostanze alimentari rendendole pericolose per la salute pubblica; in tal caso, il pericolo incriminato dal legislatore rimane astratto, nel senso che esso non si è ancora profilato come rischio concretamente corso da uno o più soggetti determinati. Ma l'affermazione della tipicità della condotta è interamente affidata ad un giudizio sulla sua attitudine offensiva: richiedendo, dunque, una valutazione, per così dire, in concreto, della pericolosità della condotta, non sembra azzardato utilizzare per questa categoria di fatti la definizione di reati di pericolo astratto-concreto, se non altro per renderne visibile la differenza rispetto ai pochi reati in cui si può parlare di una vera e propria presunzione del pericolo (casi di questo tipo si riscontrano, ad es., nelle norme che vietano la fabbricazione, la detenzione ed il commercio di armi e in quelle che vietano la detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti). b) i reati uni sussi sten ti e i reati plurisussistenti Si dicono unisussistcnti quei reati la cui condotta tipica si esaurisce con il compimento di un unico atto, che - da solo - è capace di configurarsi quale azione; quelli, invece, la cui realizzazione esige il compimento di una molteplicità di atti, prendono il nome di reati plurisussistenti. Va da sé, ovviamente, che il medesimo reato può manifestarsi sia nella forma della condotta unisussistente, sia nella forma di un'attività complessa: così, ad es., il reato di ingiurie può realizzarsi sia mediante la pronunzia di una sola parola, sia attraverso la redazione e l'invio di uno o più scritti (attività complessa, frazionabile in più atti). c) i reati abituali o a condotta plurima Il reato abituale si contrassegna per la reiterazione dei vari atti o delle varie condotte e per il loro collegamento in una serie significativa: reato abituale è, ad es., il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), che presuppone una serie di comportamenti aggressivi di uno o più beni giuridici (quali l'integrità personale, la dignità e la libertà di movimento), il cui protrarsi nel tempo finisce per ledere la personalità del soggetto. Altro esempio di reato abituale è l'ipotesi regolata ex art. 3, n. 3 L. 58/75, integrante il fatto del proprietario di un locale pubblico, che tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all'interno del locale, si danno alla prostituzione. Ora, in merito alla tematica che stiamo analizzando, parte della dottrina è dell'avviso che alle ipotesi Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com elencate dovrebbe essere riservata la denominazione di reati abituali propri, perché le stesse si concretano nella ripetizione di condotte che, isolatamente considerate, non integrerebbero gli estremi di un reato (così, riproponendo il caso dei maltrattamenti in famiglia, vediamo che gli stessi sono realizzabili con la reiterazione abituale di condotte che, prese isolatamente, non costituiscono reato). In tal modo, si riuscirebbe ad offrire una comoda distinzione rispetto a quelle ipotesi di reati abituali, che, al contrario, si concretano nella ripetizione di condotte che, già di per sé, costituiscono reato: è questo il caso, ad es., della relazione incestuosa, ex art. 564, co. 2 c.p., in relazione al quale il singolo episodio incestuoso già costituisce reato d'incesto. Proprio per tal motivo, a questa seconda categoria di reati, la dottrina ha riservato la denominazione di reati abituali impropri. Va tenuto presente, infine, che alcuni autori preferiscono denominare i reati abituali, in genere, reati a condotta plurima: quest'ultimo inciso, tuttavia, non è condivisibile, in quanto, laddove si accettasse, finirebbe per creare confusione rispetto a quelle ipotesi delittuose, per la cui configurazione la legge richiede il compimento di una pluralità di comportamenti (si pensi, ad es., all'art. 635 c.p., il quale punisce chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende inservibili cose altrui). d) i reati plurioffensivi Il reato può offendere un singolo bene giuridico ovvero dar luogo alla lesione di una molteplicità di beni o interessi: in questo secondo caso, la dottrina penalistica parla di reati plurioffensivi (si pensi, ad es., alla fattispecie della rapina, ex art. 628 c.p., ove si aggredisce sempre, allo stesso tempo, il patrimonio del soggetto passivo e l'incolumità personale dello stesso). Per converso, non è annoverabile nella categoria in esame la calunnia, ex art. 368 c.p., perché, se è vero che tale reato, oltre a cagionare una lesione all'interesse alla corretta amministrazione della giustizia, cagiona simultaneamente un danno alla reputazione e alla libertà personale del calunniato, tali interessi non assumono alcuna rilevanza ai fini della configurabilità del carattere plurioffensivo dell'azione. e) i reati istantanei e i reati permanenti Un'altra classificazione dei reati, sotto il profilo della struttura oggettiva, è costituita, poi, dalla distinzione tra reati istantanei e reati permanenti. In dettaglio, il reato istantaneo si caratterizza per il fatto che la condotta con la quale si viola la norma (e si produce, quindi, l'offesa al bene giuridico) si compie in un unico momento: si pensi, ad es., al reato di spari in luogo pubblico (art. 703 c.p.). Il reato permanente, invece, si caratterizza per il perdurare nel tempo della lesione di un bene giuridico, avallata da una condotta volontaria dell'agente: classico esempio di reato permanente è il sequestro di persona, di cui all'art. 605 c.p. Qui, invero, fin dal primo istante in cui il soggetto passivo è privato della libertà di movimento, il reato è perfetto in tutti i suoi elementi; e, tuttavia, il momento consumativo si dilata, fino a coprire tutto l'intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui la vittima del sequestro è stata privata della libertà e quello in cui la riconquista. In relazione al tema in esame, va precisato, tra l'altro, che una dottrina minoritaria è dell'avviso che il reato permanente sia caratterizzato da una ed. struttura bifásica: nel senso che, ad una condotta necessariamente attiva (diretta a provocare la lesione del bene giuridico), seguirebbe una parte di condotta omissiva, che si caratterizzerebbe per la mancata rimozione della condotta antigiuridica (determinata precedentemente dalla condotta attiva): così, ad es., nel sequestro di persona, alla privazione di libertà, realizzata con un comportamento Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com attivo, seguirebbe la messa in atto di una condotta omissiva, consistente nella mancata restituzione in libertà del soggetto passivo. Tuttavia, se si osserva bene, l'asserita struttura bifásica del reato permanente non è presente in tutti i casi: basti considerare, ad es., che nello stesso sequestro di persona, da un lato, è ben possibile ipotizzare una condotta, fin dall'inizio, omissiva (è questo il caso di chi approfitti di una situazione casualmente determinatasi per instaurare il sequestro); dall'altro lato, invece, è possibile che la condotta susseguente a quella che ha determinato la privazione della libertà si concreti in atteggiamenti attivi (quali, ad es., la custodia del prigioniero o il suo spostamento da un luogo a un altro). f) i delitti e le contravvenzioni L'art. 39 c.p. distingue, infine, i reati in delitti e contravvenzioni: più precisamente, sono delitti i fatti costituenti reato che il sistema punisce con l'ergastolo, la reclusione e la multa; sono, invece, contravvenzioni i fatti costituenti reato puniti con l'arresto e l'ammenda. Non esiste altro criterio, se non quello del riferimento alla pena prevista dalla legge, per stabilire se ci si trovi di fronte ad un delitto o ad una contravvenzione; di sicuro, però, non v'è alcun dubbio circa il fatto che le aggressioni più allarmanti e pericolose alle condizioni della civile convivenza trovino collocazione nella categoria dei delitti. Ciò, però, non è sempre vero: basti pensare, infatti, che beni giuridici di importanza primaria (quali la tutela ambientale o la prevenzione degli infortuni sul lavoro) vengono, di norma, tutelati mediante la previsione di reati contravvenzionali. In linea tendenziale, comunque, si può affermare che la scelta dell'incriminazione a titolo contravvenzionale è riservata, di norma, agli illeciti caratterizzati: • dall'inosservanza di norme a carattere prevenzionistico; • dall'inosservanza di norme riguardanti la disciplina di attività soggette a un potere amministrativo. §4. La causalità e l'imputazione oggettiva dell'evento nella struttura del fatto a) il nesso di causalità tra condotta ed evento (art. 40 c.p.) Perché l'evento possa essere attribuito, sotto il profilo oggettivo, ad un determinato soggetto, è necessario che, tra la condotta che questi pone in essere (il ed. antecedente causale) e l'evento che ne consegue, sussista un rapporto (o nesso) di causalità o, meglio, di conseguenzialità: locuzione, quest'ultima, che appare più appropriata, in quanto si deve considerare che il nesso di causalità interessa non soltanto quei processi propri della realtà naturale (come, accade, ad es., nell'omicidio, di cui all'art. 575 c.p., ove si punisce la condotta di chi cagiona la morte di un uomo), ma, a ben vedere, anche quei processi in cui il rapporto causale viene a coinvolgere entità di ordine astratto, cioè di stampo non naturalistico (si pensi, ad es., alla truffa, ex art. 640 c.p., ove si punisce la condotta di colui che, mediante artifizi o raggiri, induca taluno in errore, con l'effetto di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno). Dal punto di vista strutturale, è doveroso precisare che il nostro codice, a differenza di altri ordinamenti giuridici, contiene l'espressa menzione del rapporto di causalità: infatti, l'art. 40, co. 1 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso non è conseguenza della sua azione od omissione. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Il co. 2 dell'art. 40 c.p. stabilendo, invece, che non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, enuncia una regola che è destinata a operare esclusivamente per i reati a condotta omissiva. Questa norma, in particolare, racchiude quelle ipotesi nelle quali, a stretto rigore, non si potrebbe parlare di vero e proprio nesso causale (si pensi, ad es., alla condotta di un agente di polizia in servizio, che, pur potendo intervenire con successo, non si attivi al fine di impedire un omicidio che sta avvenendo sotto i suoi occhi). b) la disciplina delle concause (art. 41 c.p.) L'art. 40 c.p., come visto, si limita solo a enunciare l'esigenza di un nesso di causalità tra condotta ed evento; ma né chiarisce cosa debba intendersi per rapporto di causalità, né si preoccupa di specificare quali debbano essere i criteri necessari per stabilire la rilevanza giuridica del rapporto causale. Sulla base di queste considerazioni, dunque, è opportuno spostare l'analisi sul successivo art. 41 c.p., il quale contiene, invero, una disciplina più articolata e dettagliata del nesso di causalità. II co. 1 di questa norma stabilisce, in via di principio, l'irrilevanza delle ed. concause (o anche dette cause concomitanti dell'evento), cioè di quegli ulteriori fattori del processo causale diversi dalla condotta e che siano ad essa preesistenti, coevi o sopravvenuti: in altri termini, alla stregua delle regole enunciate nell'art. 41 c.p., il rapporto causale non potrebbe essere escluso né nel caso, ad es., dell'emofiliaco, che decede a seguito di una lieve ferita, inidonea, in genere, a cagionare la morte (ed. concausa preesistente), né nell'ipotesi di chi, in seguito ad una percossa non molto violenta, cade battendo la testa su di una pietra acuminata e muore (ed. concausa simultanea), né, infine, nel caso di chi perde la vita per l'insorgere di gravi complicazioni chirurgiche, collegate a una lieve lesione (ed. concausa sopravvenuta). Il co. 2 dell'art. 41 c.p., tuttavia, prevede una specifica eccezione a quanto detto, nella parte in cui statuisce che le cause sopravvenute escludono la rilevanza del rapporto causale quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Ad onor del vero, però, il cpv. dell'art. 41 c.c. suscita rilevanti perplessità perché, in primo luogo, non si comprende quando una causa sopravvenuta possa dirsi sufficiente da sola a cagionare un evento: ciò, invero, almeno a stretto rigore, risulta impossibile, perché la causa sopravvenuta si innesta, per definizione, su di un processo causale già avviato con caratteristiche ben determinate (tra l'altro, va anche detto che risulterebbe alquanto difficile segnare il confine che dovrebbe separare le cause sopravvenute sufficienti da sole a produrre l'evento, da quelle che, viceversa, non possiedono tale caratteristica). Quanto meno, allora, allo scopo di dare un senso logico alla norma, il co. 2 dell'art. 41 c.p. deve essere letto nel senso che la causa sopravvenuta può escludere la rilevanza del rapporto di causalità quando, per le sue caratteristiche, le si debba riconoscere, già in astratto, un'efficienza causale rispetto alla produzione dell'evento: da questo punto di vista, si può, ad es., notare la differenza che passa tra un incidente stradale, di cui il ferito rimane vittima mentre si sta procedendo al suo trasporto in ospedale (concausa che esclude la rilevanza del rapporto di causalità) e l'insorgere di gravi complicazioni mediche, collegate ad una lesione lieve (concausa che non esclude, in alcun modo, la rilevanza del nesso di causalità, perché è in stretta connessione con la produzione dell'evento). c) la teoria della condicio sine qua non Una volta chiarito che tra la condotta (che l'agente pone in essere) e l'evento che ne consegue deve sussistere un rapporto di conseguenzialità, dottrina e giurisprudenza sono state (e sono tuttora) chiamate a risolvere un altro problema: quello di stabilire, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com cioè, quando una determinata condotta possa dirsi causa di un determinato evento. A tal riguardo, tre sono le principali teorie che, in dottrina, si sono contese il campo: la prima è la ed. teoria della condicio sine qua non, la quale considera causa dell'evento qualsiasi condizione del suo verificarsi, che non possa essere (mentalmente) eliminata, senza che venga meno l'evento stesso. In altri termini, per la teoria della condicio sine qua non, qualsiasi condizione dell'evento assume il rango di causa di esso: proprio per questa ragione, la posizione teorica in esame prende anche il nome di teoria dell'equivalenza delle condizioni. Ricapitolando: secondo i canoni della teoria della condicio sine qua non, perché possa parlarsi di rapporto di causalità, è sufficiente che l'agente abbia posto in essere una qualsiasi condizione dell'evento, in considerazione del fatto che tutte le condizioni sono considerate equivalenti. A tal riguardo, però, è stato giustamente osservato che, ragionando in questi termini, la lista delle condizioni dell'evento potrebbe risultare illimitata (e, dunque, incapace di fornire una soluzione ai casi controversi), potendo in essa annoverarsi, ad es., la vendita dell'arma all'assassino, la sua fabbricazione o perfino le sue peculiari caratteristiche offensive (che siano tali, ad es., da permettere la perforazione di un giubbotto antiproiettile). d) la teoria della causalità adeguata Al fine di temperare gli eccessi cui potrebbe condurre una rigorosa applicazione dei principi della teoria della condicio sine qua non è intervenuta la ed. teoria della causalità adeguata, la quale ritiene che il rapporto di causalità sussiste quando un soggetto ha determinato l'evento con un'azione adeguata a produrlo, in chiave di verosimiglianza (o di probabilità). E, però, neppure questa teoria sembra possa andare esente da critiche: in effetti, ragionando sulla base dei parametri della causalità adeguata, il rapporto di causalità potrebbe non sussistere in tutti quei casi che sono contrassegnati da un ed. decorso causale atipico (come, ad es., quello dell'esito letale di una lieve ferita, causato per effetto di una complicazione medico-chirurgica del tutto eccezionale e, pertanto, non probabile). Come si può notare, quindi, la teoria in esame (a differenza di quella analizzata precedentemente) presenta un limite opposto: mentre, infatti, la teoria della condicio sine qua non finisce per considerare qualunque condizione dell'evento come causa giuridicamente rilevante dello stesso, la teoria della causalità adeguata finisce, al contrario, per limitare eccessivamente l'area della causalità rilevante. e) la teoria della causalità umana Gli eccessi cui sembrerebbe condurre il principio condizionalistico non hanno, però, mai influenzato del tutto dottrina e giurisprudenza, perché ci si è sempre resi conto che un certo genere di risultati sarebbero stati comunque evitabili in ragione della mancanza di un nesso psichico rilevante, tra la condotta e l'evento (è chiaro, infatti, che il padre dell'omicida o chi ha prodotto il veleno non potrebbe essere, in nessun caso, chiamato a rispondere di omicidio volontario, proprio per l'assenza del dolo). Questo tipo di soluzione è, però, solo in apparenza appagante, in quanto: • in primis, esso lascia scoperti tutti quei casi in cui, fondandosi l'addebito sulla ed. responsabilità oggettiva, è del tutto fuori luogo il riferimento all'elemento psicologico del reato (è questo il caso, ad es., dei delitti aggravati dall'evento); • in secondo luogo, va considerato che, nell'ipotesi in cui la correzione del principio condizionalistico dovesse fondarsi soltanto sul ricorso all'elemento psicologico della condotta, si giungerebbe a risultati aberranti proprio con riferimento ad alcuni casi Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com scolastici, per la cui soluzione il riferimento all'elemento psicologico non è di nessun aiuto: * si pensi, ad es., al caso del nipote che induca il ricco zio a intraprendere un viaggio in aereo, nella speranza che questi resti vittima di un disastro aviatorio; * o al caso di chi, avvicinandosi un temporale, induca taluno a fare una passeggiata in un bosco, con la speranza che questi venga incenerito da un fulmine. In questi (e in altri) casi, invero, se l'evento si verifica, risulterebbe problematico, una volta affermata l'esistenza del nesso causale, escludere la responsabilità dell'agente a titolo di dolo, non potendosi qui negare che l'evento è stato dallo stesso preveduto e voluto come conseguenza della sua azione: così operando, però, il problema verrebbe spostato dall'ambito dell'imputazione oggettiva a quello dell'imputazione soggettiva. Alle medesime critiche non si sottrae neanche una proposta di soluzione, largamente accreditata in dottrina, e tradizionalmente designata col nome di teoria della causalità umana: si tratta, in dettaglio, di un tentativo di soluzione del problema che prende le mosse dalla previsione ex art. 41, co. 2 c.p., che, come sappiamo, esclude la rilevanza del nesso causale ove siano presenti cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento. Secondo questa teoria, in particolare, la condotta potrebbe essere identificata come causa dell'evento solo a due condizioni: •che il soggetto abbia posto in essere una condizione dell'evento, senza la quale lo stesso non sarebbe venuto in essere; •che il verificarsi dell'evento non dipenda dalla concomitanza di eccezionali fattori causali, i quali, proprio perché tali, si sottrarrebbero alla dominabilità dell'agente (gli stessi fattori, infatti, verrebbero a trovarsi fuori dall'ambito delle sue conoscenze). Questa teoria, però, facendo esplicito riferimento all'ambito delle particolari cognizioni dell'agente, finisce per aumentare, in maniera eccessiva, il rischio di uno slittamento sul terreno dell'imputazione soggettiva. f) le ipotesi problematiche in relazione al rapporto di causalità Nella maggior parte dei casi che la quotidianità ci propone, accertare se, da un punto di vista logico-causale, un certo evento possa essere addebitato a un dato agente, non è affatto difficile: così, ad es., se Tizio esplode uno o più colpi di pistola contro Caio, colpendo un suo organo vitale, non è difficile stabilire che l'esplosione del colpo di pistola è stata la causa, giuridicamente rilevante, della morte di Caio, che vi ha fatto sèguito. In altri casi, invece, l'accertamento del rapporto causale può risultare controverso; in quest'ambito, le varie ipotesi possono essere suddivise come segue: • un primo gruppo di casi comprende le ipotesi nelle quali l'evento è il prodotto di una pluralità di fattori causali: ad es., Tizio vibra una pugnalata a Caio, mirando ad un organo vitale; nello stesso tempo, Sempronio colpisce Tizio al braccio, determinando la deviazione dell'arma, in modo che Caio resti solo lievemente ferito in altra parte del corpo; • un secondo gruppo è costituito, invece, dalle ipotesi di decorso causale atipico: ad es., Caio, emofiliaco, muore per dissanguamento, a seguito di una lieve ferita infertagli da Tizio; • rientrano, invece, in un terzo gruppo di casi le ipotesi di decorso causale ipotetico: ad es., Tizio uccide Caio un attimo prima che questi prenda posto su di un aereo che, in realtà, poco dopo il decollo, precipita, così che Caio sarebbe morto ugualmente; • in un quarto gruppo di casi vanno ricondotte, poi, le ipotesi di interruzione del nesso causale: ad es., Tizio inietta a Sempronio una dose mortale di veleno; quest'ultimo, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com però, muore per cause naturali, del tutto indipendenti, prima che il veleno produca i suoi effetti; • un quinto gruppo ricomprende, invece, i casi nei quali la condotta dell'agente si rivela causalmente rilevante solo ex post: ad es., Tizio, allo scopo di ereditare, convince il ricco zio a intraprendere un viaggio in aereo, nella speranza che egli perisca in un disastro aviatorio; il che effettivamente si verifica; • un ultimo gruppo ricomprende, infine, le ipotesi in cui risulta impossibile dimostrare il processo che ha determinato l'evento, se non sotto un profilo statistico: si è rilevato, ad es., che le donne che in gravidanza hanno ingerito il farmaco denominato thalidomide, da un punto di vista statistico, sono molto più esposte al rischio di partorire figli con gravi malformazioni; la medicina, però, non è in grado di accertare, attualmente, se vi sia un rapporto causale tra l'ingestione del farmaco e la malformazione dei neonati. Ne deriva, perciò, che, alla stregua delle diverse teorie finora analizzate, non sarebbe possibile spiegare il motivo per il quale, in mancanza della condotta (l'ingestione del farmaco), l'evento (la malformazione del neonato) non si sarebbe verificato. g) la riconduzione del rapporto causale sotto leggi scientìfiche L'interrogativo fondamentale a cui dovrebbe rispondere una teoria del nesso causale è il seguente: a quali condizioni una determinata condotta si può considerare, dal punto di vista giuridico, causa di un dato evento? A questa domanda, la dottrina dominante e la giurisprudenza (anche alla luce delle ipotesi problematiche esposte) hanno proposto di fare ricorso alla regola secondo la quale un antecedente può essere considerato causa di un determinato evento quando vi sia una legge (detta di copertura) con validità scientifica generale, la quale consenta di ritenere che, ad un determinato comportamento, segua, di norma, una determinata conseguenza. È bene precisare, tuttavia, che questa legge di copertura non deve necessariamente essere una legge universale (cioè una legge che sia in grado di fornire un criterio di giudizio di assoluta certezza), ma può anche essere una legge statistica (cioè una legge basata su criteri probabilistici); ragionando diversamente, infatti, l'accertamento del rapporto di causalità risulterebbe inibito in molti casi: basti pensare, ad es., alla differenza che passa tra l'accertamento del nesso causale nell'ipotesi di una morte per dissanguamento, conseguente a una grave ferita con arma da taglio, e l'accertamento del nesso causale nel caso della malformazione del feto, a seguito dell'ingestione del farmaco thalidomide da parte della madre del neonato. Beninteso, qualora si faccia affidamento su leggi di tipo statistico, si renderà necessario procedere ad una valutazione circa la fondatezza probabilistica della legge ai fini dell'accertamento del nesso di causalità: ciò significa, in altre parole, che la legge deve essere in grado di spiegare il maggior numero di casi possibili, compreso quello concretamente esaminato (il quale, ovviamente, deve trovare giustificazione solo in virtù della legge statistica). In questa prospettiva, però, particolari problemi possono sorgere in presenza di giudizi probabilistici non confortati da un riscontro statistico elevato: invero, dal momento che, in tali ipotesi, il caso concreto si fonderebbe su un giudizio chiaramente ipotetico (prossimo all'illazione), la giurisprudenza (S.U., sent. 30328/2002, caso Franzese) ha ritenuto opportuno integrare nel giudizio di causalità due diversi criteri e cioè: • la probabilità statistica, che consente di verificare in modo empirico, in base al grado di frequenza, il rapporto tra determinati eventi e le relative condotte (o antecedenti); • la probabilità logica, che, invece, cerca di fornire, sulla base della legge statistica, una spiegazione logica circa il verificarsi dell'evento preso in considerazione. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Va anche sottolineato, tra l'altro, che, allo scopo di risolvere i casi più problematici, la dottrina contemporanea ha cercato di integrare l'accertamento del nesso causale con specifiche valutazioni di politica criminale. Da questo punto di vista, l'imputazione al fatto tipico oggettivo può avvenire sulla base di tre principi: • il principio della realizzazione di un pericolo oltre il rischio consentito, in base al quale, un evento può essere imputato alla condotta di un determinato soggetto soltanto nel caso in cui questi abbia creato una situazione di pericolo non consentito per il bene tutelato e questo pericolo si sia anche realizzato (così, ad es., nelle ipotesi di pluralità di fattori causali, nel caso della deviazione del colpo di pugnale, a Sempronio non si potranno imputare le lesioni riportate da Caio, perché egli, col suo comportamento, non ha né creato, né accresciuto, ma semmai ha diminuito il rischio all'offesa tipica); • il principio dello scopo di tutela della norma violata, in base al quale l'evento può essere imputato alla condotta di un soggetto solo quando si concretizza il pericolo che la norma violata mirava a impedire (questo criterio di giudizio può essere utilizzato, ad es., nel caso della morte del tossicodipendente, a seguito dell'assunzione di droghe pesanti: in relazione a tale evento, si discute della responsabilità dello spacciatore, a titolo di colpa o di preterintenzionc, dal momento che egli ha, di sicuro, posto in essere una condizione dell'evento morte e, in ogni caso, non poteva non conoscere i pericoli connessi all'assunzione di tali droghe; ma, se e in che modo un fatto del genere possa o debba essere punito costituisce un tipico problema di applicazione della legge sugli stupefacenti perché il pericolo realizzato dalla condotta dello spacciatore non coincide con lo scopo di tutela della norma contenuta nell'art. 575 c.p.); • il principio di autonomia della vittima, in base al quale il soggetto agente sarà tenuto a evitare i pericoli che scaturiscono dalla propria condotta, ma non quelli derivanti dal comportamento altrui, quand'anche imprudente o negligente (è questo, ad es., il caso di Tizio, p.u., che sa che Caio, suo amico, accarezza da tempo l'ipotesi del suicidio; pur sapendolo, però, durante un viaggio in macchina con lui, posa nell'automobile la pistola d'ordinanza e in un momento di distrazione Caio la prende e si spara). §5. La fattispecie soggettiva Alla fattispecie soggettiva appartiene il contenuto psichico dell'azione (o dell'omissione) penalmente rilevante. In tal senso, invero, l'art. 42, co. 1 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un'azione od omissione che sia preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà: il che significa che potrà essere valutata, in termini di tipicità, antigiuridicità e colpevolezza, solo la condotta, oggettivamente tipica, che sia sorretta dalla volontà ed assistita dalla consapevolezza del proprio operare nel mondo esterno. A ogni modo, è bene precisare che il requisito della coscienza e volontà delimita, ma non esaurisce l'ambito dei requisiti di ordine psichico, che assumono rilevanza per la fattispecie soggettiva. Tant'è vero che, il co. 2 dell'art. 42 c.p. dispone che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo, espressamente previsti: da questa norma si evince, in altre parole, che il fatto tipico si intende commesso sempre come doloso, mentre per la configurabilità di un delitto colposo o preterintenzionale si rende sempre necessaria un'espressa previsione normativa. Il co. 4 dello stesso articolo precisa, invece, che nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa: come si può notare, per le contravvenzioni vale la regola dell'indifferenza dell'atteggiamento psicologico. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Non pochi problemi di ordine interpretativo ha posto, invece, il co. 3 dell'art. 42 c.p., il quale stabilisce che la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico del soggetto agente, come conseguenza della sua azione od omissione: questa norma, invero, introduce nel sistema la possibilità che si prescinda, nell'imputazione del fatto, da un criterio di imputazione soggettiva, attribuendo lo stesso a un soggetto sulla sola base dei criteri oggettivi e, in particolare, sulla base del solo rapporto di causalità (si parla al riguardo di ed. responsabilità oggettiva). a) nozione di dolo, colpa e preterintenzione Ai sensi dell'art. 43 c.p., il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della sua azione od omissione. Sulla base di questa norma, dunque, nella struttura del dolo si possono individuare due momenti costitutivi: • il primo è di carattere intellettivo ed è dato dalla previsione anticipata delle possibili conseguenze del proprio operare nel mondo esterno; • il secondo, invece, è di carattere volitivo e corrisponde all'atto di impulso mediante il quale la volontà del soggetto mette in moto le energie causali atte alla produzione l'evento (e prende il nome di volizione). L'art. 43 c.p. stabilisce, poi, che il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Dalla definizione data si intuisce, quindi, che la colpa si individua negativamente, in quanto il legislatore richiede espressamente che l'evento non deve essere voluto dal soggetto. Non solo: va anche specificato che nel delitto colposo si è soliti distinguere tra colpa cosciente, o con previsione, e colpa incosciente (nel primo caso, l'agente prevede come possibile la realizzazione dell'evento, ma agisce nella convinzione che lo stesso non si verificherà; nel secondo caso, invece, manca in toto la previsione dell'evento). L'art. 43 c.p. dispone, infine, che ¡7 delitto è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dal soggetto agente. La figura del delitto preterintenzionale, come si può notare, si caratterizza per il fatto che, mentre nell'atteggiamento psicologico dell'autore è presente il dolo di un certo reato, la sua condotta realizza, sotto il profilo oggettivo, un evento più grave rispetto a quello realmente voluto. §6. Le tipologie del reato Attraverso la combinazione degli elementi della fattispecie oggettiva con quelli della fattispecie soggettiva, si perviene tradizionalmente ad una tripartizione dei reati. Si individuano, in questo modo, tre categorie fondamentali dell'illecito penale: • il reato doloso di azione; • il reato doloso omissivo; • l'illecito colposo. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Capitolo II Condotta ed elemento psicologico nel reato doloso di azione §1. Il dolo inteso nel significato di volontà finalistica La fattispecie oggettiva del reato doloso di azione è costituita da una condotta attiva e cioè da un fare, inteso nel significato di impiego di energia fisica, che si manifesta nel mondo esterno. Del dolo, nel nostro ordinamento, si occupa, come sappiamo, l'art. 43 c.p., secondo il quale il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso è dal soggetto agente preveduto e voluto come conseguenza della propria condotta. L'ambito del dolo penalmente rilevante è, però, più ampio di quello che, nella prassi, designa lo scopo finale del soggetto agente: invero, partendo dal presupposto che non vi è nessuna azione umana cosciente (e, dunque, tipica) che non sia guidata da uno scopo (anche banale: come, ad es., placare la propria sete, aprire un uscio o afferrare un oggetto), il dolo, da intendere nel significato di volontà finalistica (nella prospettiva ivclzeliana), viene a ricomprendere non solo lo scopo che l'autore intende perseguire, ma anche i mezzi prescelti per il suo raggiungimento (e, beninteso, nel presceglierli, l'agente tiene anche conto delle conseguenze secondarie connesse al loro utilizzo, dal momento che egli, essendo a conoscenza della causalità, naturalisticamente intesa, è in grado, senza dubbio, di prevedere gli effetti della sua condotta nel mondo esterno). §2. L'oggetto del dolo Oggetto del dolo è, come stabilisce l'art. 47, co. 1 c.p., il fatto che costituisce il reato, vale a dire l'intero fatto tipico: ciò sta a significare, perciò, che il dolo implica la conoscenza di tutti gli elementi che sono necessari e sufficienti a realizzare la fattispecie obicttiva di un reato. È bene precisare, però, che le circostanze di fatto che l'agente deve conoscere e prevedere sono soltanto quelle che rivestono, per il fatto tipico, carattere essenziale: così, ad es., per la sussistenza del dolo nel reato di furto (art. 624 c.p.) è necessario che l'agente sappia che la cosa sottratta è altrui; è, invece, del tutto indifferente che egli sappia a chi, in particolare, la cosa stessa appartiene. Da quanto detto, si intuisce, di conseguenza, che l'agire doloso implica, in primo luogo, la conoscenza dei presupposti necessari per l'esistenza del fatto tipico (nell'esempio di cui sopra, pertanto, l'agente deve sapere che la cosa sottratta è altrui). Naturalmente, tra i presupposti del fatto rientrano, poi, le qualifiche soggettive del soggetto agente (come, ad es., la qualifica di pubblico ufficiale - p.u.), nonché gli elementi normativi della fattispecie, cioè quegli elementi che necessitano di essere valutati sulla base di altre norme giuridiche, non penali (si pensi, ancora una volta, aìYaltruità della cosa, nel furto). Rientrano nell'oggetto del dolo, altresì, le ipotesi di ed. antigiuridicità speciale: classici esempi di antigiuridicità speciale si riscontrano in quei casi in cui la norma richiede, ai fini della punibilità del fatto di reato, che lo stesso sia realizzato in modo abusivo, indebito o illegittimo). Per ciò che concerne, invece, il rapporto di causalità, va detto che anch'esso deve essere percepito, nell'essenziale, dall'agente (dunque, anche il rapporto di causalità rientra nell'oggetto del dolo): va specificato, però, che non è necessario che l'agente conosca, nel dettaglio, i processi causativi dell'evento (così, ad es., se Tizio colpisce Caio con una coltellata all'addome, è sufficiente che egli preveda la possibilità dell'instaurarsi di un decorso causale capace di condurre alla morte; ma è del tutto indifferente che egli sappia che la stessa avverrà per dissanguamento ovvero per un diverso processo fisiologico). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. Il dolo, la coscienza dell'offesa e la coscienza dell'antigiuridicità Nei reati con evento materiale l'agente, ovviamente, deve prevedere e volere, come conseguenza della propria condotta, l'evento dannoso o pericoloso; tuttavia, non v'è dubbio che anche nei reati senza evento naturalistico (vale a dire nei ed. reati di pura condotta) l'agente deve prevedere e volere la lesione dei beni, che risulta incriminata dalla fattispecie tipica: così, per fare un esempio, come nel delitto di omicidio (reato con evento materiale) l'autore sa che alla pugnalata inferta all'avversario seguirà la morte di questo, allo stesso modo, nei reati di falso giuramento e di falsa testimonianza (reati di pura condotta) egli si rappresenterà, come evento, la distorsione del corso della giustizia. E lo stesso dicasi per gli altri reati di pura condotta: così, ad es., nella diffamazione, l'agente si rappresenterà, come evento, la lesione della reputazione della persona offesa; nell'evasione fiscale, il mancato introito, da parte del fisco, di somme da lui dovute, etc. Da questi esempi si deve prendere atto, perciò, che, ai fini del dolo, il dato che viene ad assumere carattere rilevante è la ed. coscienza dell'offesa: più precisamente, l'agente deve essere consapevole che il suo agire presenta intrinsecamente un contenuto di offesa all'interesse tutelato dalla norma. La coscienza dell'offesa, tuttavia, non deve essere, in nessun modo, confusa con la coscienza dell'antigiuridicità, la quale, invece, si riferisce, molto più semplicemente alla conoscenza o meno (da parte dell'agente) della contrarietà del fatto realizzato a un divieto penalmente sanzionato: così delineata, perciò, la coscienza dell'antigiuridicità va fatta rientrare nell'ambito del principio dell'ignorantia legis non excusat, di cui all'art. 5 c.p. §4. Le forme, le classificazioni e le partizioni del dolo Il dolo può manifestarsi sotto diverse forme: anzitutto, quando l'evento realizzato è conforme a quello che l'agente ha preveduto e voluto, si parla di dolo intenzionale (o anche detto dolo diretto di primo grado): questo tipo di dolo, nel dettaglio, ricomprende al suo interno lo scopo che ha spinto l'autore ad agire e la selezione dei mezzi necessari al raggiungimento dello stesso (così, ad es., si ha dolo diretto di omicidio non soltanto quando si agisce allo scopo di uccidere qualcuno, ma anche quando l'uccisione di un uomo è il mezzo prescelto onde realizzare un evento di natura diversa: come, ad es., uccidere una sentinella allo scopo di penetrare in un'installazione militare). Si parla, viceversa, di dolo diretto di secondo grado con riferimento a quegli eventi che rientrano, comunque, nella volontà finalistica di azione, perché rappresentano effetti secondari, altamente probabili, delle specifiche modalità della condotta: così, ad es., se Tizio incendia uno stabile al fine di riscuotere un'assicurazione, pur sapendo che, in tal modo, cagionerà, con ogni probabilità, la morte di Caio, che si trova all'interno dello stabile, avrà agito dolosamente non solo in relazione alla fattispecie dell'incendio, ma anche rispetto a quella dell'omicidio. Va precisato, poi, che la legge considera come voluto anche ciò che il soggetto agente si è rappresentato soltanto come possibile conseguenza della propria condotta: in casi del genere, si parla di ed. dolo indiretto (o eventuale). Ora, il presupposto fondamentale di questa particolare tipologia di dolo è che l'autore si sia rappresentato, come possibile conseguenza della sua condotta, il verificarsi dell'evento; senonché, risulta alquanto difficile stabilire quando può dirsi voluto l'evento che l'autore si è rappresentato solo come possibile, ma dubbia conseguenza della propria condotta. Proprio per tal motivo, allora, per risolvere il problema, parte della dottrina ha ritenuto opportuno coniare la ed. teoria dell'accettazione del rischio, per la quale il dolo eventuale si identifica con l'atteggiamento psicologico di chi, pur ritenendo in concreto il verificarsi dell'evento una possibile (anche se dubbia) conseguenza della propria condotta, tuttavia non se ne Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com astiene, accettando consapevolmente il rischio del suo verificarsi (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio, mentre percorre con l'auto un centro abitato a velocità sostenuta, si avvede che a breve distanza un gruppo di ragazzi gioca a rincorrersi sul ciglio della strada, ma ciononostante non diminuisce la velocità, accettando consapevolmente il rischio di cagionare un evento nefasto). Occorre ricordare, in conclusione, che la dottrina ha individuato ulteriori partizioni del dolo. In primis, ricordiamo la distinzione tra dolo generico e dolo specifico: il primo corrisponde alla semplice previsione e volontà di realizzare l'evento; si ha, invece, dolo specifico quando la norma menziona, tra gli elementi costitutivi del fatto, anche la finalità particolare, in vista della quale il reato deve essere compiuto (il furto è, ad es., un reato a dolo specifico, perché esso ricorre soltanto se la sottrazione della cosa altrui avviene alfine di trarne profitto: in questo caso, tra l'altro, la sussistenza del dolo specifico si rende necessaria per la sussistenza stessa del reato. In altri casi, invece, il riferimento al dolo specifico serve solo a distinguere tra loro delle fattispecie di reato: così, ad es., il sequestro di persona si inquadra in fattispecie diverse, a seconda che esso sia commesso con mero dolo generico, a scopo di estorsione o a fine di terrorismo). Si distingue, poi, tra dolo iniziale, concomitante e successivo: il dolo iniziale è presente solo nel momento in cui inizia il processo causativo dell'evento (ad es., Tizio spiana un'arma contro Caio, con l'intenzione di sparargli, ma poi desiste dal farlo; mentre abbassa l'arma, però, esplode accidentalmente un colpo che uccide Caio). Il dolo concomitante, invece, è presente in tutto lo svolgersi del processo che porta alla produzione dell'evento. Il dolo successivo, infine, sorge soltanto dopo che il soggetto agente ha, senza dolo, realizzato la fattispecie oggettiva di un reato (è questo, ad es., il caso del medico che somministra accidentalmente a un paziente una sostanza letale invece del medicinale prescritto; avvedutosi di ciò, decide ugualmente di lasciarlo morire). Beninteso, le fattispecie del dolo iniziale e del dolo successivo non integrano ipotesi di dolo penalmente rilevante, in quanto in entrambi i casi l'autore non ha messo in moto, volontariamente, le energie dirette a cagionare l'evento. Diversa questione è se, invece, l'evento possa essergli addebitato a titolo di colpa (come nel caso del colpo di pistola esploso involontariamente da Tizio) o se la condotta successiva sia assistita o meno da dolo concomitante (come nel caso del medico che lascia morire il paziente). Si parla, invece, di dolo generale quando l'evento, pur costituendo l'originario oggetto del dolo, è, però, prodotto da una condotta non più dolosa dell'agente: ad es., Tizio, agendo allo scopo di uccidere Caio, lo tramortisce e, in seguito, credendo di averlo ucciso, ne getta il corpo nel fiume sottostante, ove, in realtà, Caio muore annegando (al riguardo, è importante sottolineare che parte della dottrina considera la figura del dolo generale come un'ipotesi di concorso tra un tentativo di omicidio ed un omicidio colposo). Un'ipotesi particolare di dolo diretto di secondo grado è, poi, il dolo alternativo che, secondo dottrina dominante, ricorre in tutti i casi in cui l'agente si rappresenta due o più eventi, dei quali, però, uno solo può realizzarsi e vuole l'uno o l'altro di essi: si pensi, ad es., a chi distribuisca, a scopo omicida, dei confetti, dei quali, però, uno solo sia avvelenato. Si parla, infine, di dolo d'impeto, quando la decisione criminosa sorge all'improvviso e viene subito eseguita; invece, quando tra la risoluzione e l'esecuzione intercorre un notevole lasso di tempo, si parla di dolo di proposito; nei casi in cui, però, questo lasso di tempo venga utilizzato al fine di preordinare i mezzi e le modalità della condotta, si avrà dolo di premeditazione. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §5. L'accertamento del dolo L'accertamento del dolo si fonda solo ed esclusivamente su delle regole di esperienza, che, tuttavia, circostanze del caso concreto, possono anche far disattendere: ad es., la mancanza di un movente o addirittura la prova vera di un sincero affetto tra autore e vittima possono rendere plausibile l'ipotesi di un gesto compiuto solo per scherzo. Perciò, alla luce di quanto affermato in questa sede, è d'obbligo concludere dicendo che il dolo deve costituire oggetto di un reale e specifico accertamento, in quanto è vero che la prova del dolo può risultare più o meno agevole, a seconda del tipo di fattispecie, ma in nessun caso esso può essere ritenuto implicitamente sussistente, una volta accertata l'esistenza dei requisiti della fattispecie oggettiva. Va, quindi, respinta, in linea di principio, l'idea del ed. dolus in re ipsa, cioè di quella categoria di invenzione giurisprudenziale, che tende a legittimare la presunzione del dolo nella commissione del fatto. Capitolo III L'illecito omissivo doloso §1. Nozione di reato omissivo e suo fondamento politico criminale Le disposizioni penali che prevedono reati omissivi contengono non un divieto ma un comando: esse, più precisamente, comandano di intraprendere determinate azioni, in quanto idonee a evitare il realizzarsi di situazioni socialmente indesiderate: in queste ipotesi, pertanto, ciò che viene criminalizzato dal legislatore è il mancato attivarsi del soggetto e non il semplice non fare (basti pensare, ad es., al caso della madre che, non allattando il proprio figlio, non fa alcunché, ma ci appare, in ogni caso, responsabile della morte del bambino). In virtù di queste considerazioni, dunque, è evidente che la nozione di omissione, ai fini che ci interessano, presenta carattere normativo: invero, dal momento che l'omissione è, da qualsiasi punto di vista, una non azione, essa può essere compresa e valutata solo ponendo come parametro di riferimento la condotta attiva che l'agente era tenuto a porre in essere. Per quanto riguarda, invece, il fondamento politico-criminale dei reati omissivi, occorre sottolineare che esso è identico a quello che fa da sfondo alle corrispondenti condotte commissive: infatti, l'agente, omettendo volontariamente di porre in essere la condotta doverosa, decide di non rispettare i valori propri dell'ordinamento (egli cioè decide di non compiere l'azione che l'ordinamento prescriveva al fine di scongiurare il verificarsi di situazioni socialmente - e, di riflesso, giuridicamente - indesiderate). §2.1 reati omissivi propri ed i reati omissivi impropri Tradizionalmente, in dottrina si distingue tra reati omissivi propri (o di pura omissione) e reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione): più precisamente, nei reati omissivi propri ad integrare la fattispecie tipica è sufficiente che l'agente non abbia compiuto l'azione doverosa, a prescindere dal fatto che si sia realizzato un evento di ordine naturalistico (tale è, ad es., l'omissióne di soccorso, di cui all'art. 593 c.p., per la cui realizzazione è sufficiente, infatti, che l'agente abbia omesso di prestare soccorso). L'essenza, invece, del reato commissivo mediante omissione risiede nella circostanza che il soggetto agente non impedisce il verificarsi di un evento (da lui non cagionato con una condotta attiva) che è obbligato ad impedire: è questo, ad es., il caso del p.u. che, pur avendo la possibilità di intervenire con successo, tuttavia non si attiva per impedire un omicidio che si sta consumando sotto i suoi occhi. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Nel nostro ordinamento giuridico, la configurabilità dei reati omissivi impropri, al di là di specifiche fattispecie contemplate all'interno del codice (si pensi, ad es., all'art. 450 c.p., che punisce chi, con la propria azione od omissione colposa, fa sorgere o persistere il pericolo di un disastro ferroviario), è affidata ad un'importante clausola normativa di carattere generale: ci riferiamo, nel dettaglio, all'art. 40 cpv. c.p., il quale statuisce che non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. §3. La fattispecie oggettiva dei reati omissivi a) i presupposti dell'omissione penalmente rilevante Per affermare l'esistenza di un'omissione che rilevi dal punto di vista penale, si deve poter affermare, innanzitutto, la possibilità di compiere l'azione omessa: sia in generale (cioè da parte di qualunque soggetto si venga a trovare nella condizione del soggetto agente), sia individualmente (cioè da parte dello specifico autore dell'omissione): si pensi, ad es., al caso in cui Tizio ometta di lanciarsi in acqua, al fine di salvare Caio, che sta annegando (in quest'ipotesi, a Tizio non si potrà imputare il reato di omissione di soccorso, qualora, per le condizioni dell'acqua, mancava ogni chance di effettuare il salvataggio). Viene, in tal modo, individuato il secondo presupposto dell'omissione penalmente rilevante, che è rappresentato dalla circostanza secondo la quale l'azione positiva che ci si attendeva dall'autore non deve presentare caratteri tali da esporre lo stesso a rischi o a pregiudizi non esigibili. In ogni caso, va precisato che i requisiti generali su descritti devono riferirsi ad una condotta di omissione tipica: ciò significa, dunque, che tali requisiti devono presentare le caratteristiche proprie di un reato di omissione (proprio o improprio) o devono, quanto meno, rientrare nello schema dell'equivalenza causale, ex art. 40 cpv. c.p. Tra l'altro, quanto detto comporta, in relazione ai reati omissivi impropri (previsti espressamente nel c.p.), la verifica di un ulteriore presupposto: è necessario, infatti, stabilire, con elevato grado di verosimiglianza, che il compimento dell'azione dovuta avrebbe scongiurato il verificarsi dell'evento lesivo. b) la regola dell'art. 40 cpv. c.p. L'art. 40 cpv. c.p. dispone, come già detto, che non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Ora, in relazione a questa disposizione, bisogna, anzitutto, chiedersi quale sia la sua reale portata: in effetti, va tenuto presente, al riguardo, che parte della dottrina tende a delimitare l'operatività della regola contenuta nell'art. 40 cpv. alle sole ipotesi delle fattispecie causalmente orientate (cioè, a quelle fattispecie che fondano la loro validità essenzialmente sulla realizzazione di un evento tipico); di esse, perciò, l'art. 40 cpv. comporterebbe una sostanziale duplicazione, autorizzando gli operatori del diritto ad affiancare ad ogni ipotesi di condotta attiva (dirette alla realizzazione di un evento specifico) l'qeuivalente condotta omissiva (consistente nel non aver impedito l'evento stesso, avendo l'obbligo giuridico di attivarsi per evitarlo). Al dì fuori delle ipotesi menzionate, invece, si ritiene che il cpv. dell'art. 40 cpv. non possa essere applicato, ad es., con riferimento a quelle fattispecie che presuppongono necessariamente una condotta attiva di carattere personale (si pensi, ad es., all'incesto, di cui all'art. 564 c.p.), nonché nei reati abituali, la cui struttura implica la reiterazione Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com di una molteplicità di attività positive (si pensi, ad es., ai maltrattamenti in famiglia, di cui all'art. 572 c.p.). Al contrario, l'intercambiabilità tra condotte positive e negative (nelle ipotesi in cui la fattispecie legale del reato sia incentrata sulla violazione di obblighi comportamentali incombenti sul soggetto) fa apparire incongruente il richiamo all'art. 40 cpv.: si pensi, ad es., ai reati come l'infedeltà del patrocinatore o del consulente, ex art. 380 c.p., in cui, a ben vedere, il danno agli interessi della parte può essere realizzato sia con un'azione positiva (ad es., interrogando un testimone in maniera pregiudizievole per il proprio cliente) ovvero con una condotta omissiva (ad es., omettendo di produrre una prova documentale risolutiva). Di conseguenza, il problema, per queste ipotesi, è quello di riuscire a decifrare con esattezza quale possa essere l'area di operatività della norma in esame; a questo proposito, la soluzione più interessante è stata quella offerta dalla dottrina contemporanea, la quale è pervenuta ad un'interessante conclusione: è stato affermato, in particolare, che, ferma restando l'incompatibilità di alcune fattispecie con il paradigma dell'art. 40 cpv., l'ambito di operatività di questa norma può essere utilmente circoscritto quando l'obbligo di agire, che incombe sull'agente, sia posto in relazione alle sue concrete possibilità di intervento (con il che si viene ad escludere una vera e propria efficienza causale dell'omissione penalmente rilevante, che potrebbe, infatti, condurre, ove accolta, a risultati imbarazzanti: si pensi, ad es., al caso in cui il superiore gerarchico non intervenga al fine di evitare la commissione di un reato da parte di un suo sottoposto). Quanto detto ci fa comprendere, tra l'altro, anche un altro dato: si deve decisamente negare che l'art. 40 cpv. possa ricomprendere nel termine evento la nozione di reato altrui, come è solita affermare, invece, la giurisprudenza, che, in più di un'occasione, ha preferito costruire la responsabilità dell'omittente in forma concorsuale, nella veste di partecipazione omissiva a reato commissivo altrui. c) il problema causale nei reati omissivi impropri L'omissione non è un dato della realtà empirica (esso, cioè, non può essere saggiato in modo pratico), ma un semplice concetto di natura giuridica (o normativa); per cui, il giudizio sul valore causale della condotta omissiva (nei reati omissivi impropri) non può essere identico a quello che caratterizza la verifica del nesso causale tra condotta ed evento, nei reati di azione (del resto, dalla lettura dello stesso art. 40 cpv. c.p., si intuisce che l'inciso non impedire un evento comporta l'adozione di un diverso criterio di imputazione oggettiva dell'evento stesso, in considerazione del fatto che l'evento in questione non può essere stato logicamente cagionato dall'omissione). Ciò, tuttavia, non ci impedisce di ricondurre nell'ambito di leggi scientifiche l'analisi dell'accadimento concreto, onde stabilire la sussistenza o meno dei presupposti atti a equiparare l'omesso intervento a un comportamento attivo (causativo dell'evento). In quest'ottica, è necessario, in dettaglio, verificare se in presenza dell'azione dovuta, che è stata omessa, l'evento non si sarebbe verificato: si tratta, come si può facilmente intuire, di un rovesciamento della formula della teoria della condicio sine qua non, in virtù della quale si potrà affermare che l'omissione è causa dell'evento quando la stessa non può essere mentalmente sostituita con l'azione doverosa, senza che l'evento venga meno. In altri termini, si dovrà accertare (sulla base di un giudizio prognostico o probabilistico) se l'attuazione della condotta attiva (doverosa) avrebbe comportato una deviazione del processo causale, tale da impedire il verificarsi dell'evento: così, ad es., nel caso di un ferroviere che ometta di attivare uno scambio, provocando lo scontro tra due treni, ci si dovrà chiedere se il compimento dell'azione doverosa avrebbe evitato il verificarsi della collisione. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Nonostante ciò, però, si deve anche prendere atto del fatto che, da un punto di vista pratico, data la mancanza di una sia pur minima indicazione legislativa in proposito, il compito di fondare giudizi di certezza (o confinanti con la certezza) circa l'efficacia impeditiva di una certa condotta è, nella stragrande maggioranza dei casi, affidata alla giurisprudenza, cui, in definitiva, è rimessa la funzione di segnare il confine tra punibile e non punibile. E il motivo di ciò trova giustificazione nella rilevanza effettiva che, ad oggi, hanno assunto i reati omissivi, con particolare riferimento ai casi della c.d. colpa medica (e, precisamente, in relazione al rapporto tra il trattamento terapeutico e la morte del paziente: si veda, in proposito, la sentenza Franzese, del 2002). Ecco il motivo per il quale, allora, una parte della dottrina ha proposto, al riguardo, una soluzione di parte speciale e, in particolare, la creazione, da parte del legislatore, di apposite fattispecie omissive proprie, in virtù delle quali il rimprovero legislativo non dovrebbe più avere per oggetto il non impedimento dell'evento, bensì il non essersi, l'autore, attivato in presenza di circostanze, predeterminate dalla legge, che rendevano tale attivazione doverosa. §4. L'ambito soggettivo a) la posizione di garante nell'illecito omissivo doloso L'obbligo di agire per la tutela del bene giuridico protetto costituisce un presupposto generale della responsabilità omissiva (e ciò sia nei reati di pura omissione che in quelli commissivi mediante omissione). In effetti, va tenuto presente che in qualunque tipo di illecito omissivo il fondamento dell'incriminazione deve essere ricercato nel fatto che al soggetto (o in virtù di una sua preesistente qualificazione o per la posizione in cui viene a trovarsi al momento del fatto) viene attribuito dall'ordinamento un ruolo di garanzia rispetto al bene giuridico: è bene precisare, però, che questa funzione di garanzia varia a seconda della tipologia di reato omissivo (proprio o improprio). Invero, nei reati omissivi propri (e in quelli impropri previsti dalla legge), essendo fonte diretta dell'obbligo di agire solo la legge penale, è agevole determinare l'ambito dei soggetti su cui incombe il dovere di agire: o perché quest'ambito è definito in via preliminare dalla norma penale, mediante il riferimento a una determinata categoria di persone (si pensi, ad es., al pubblico ufficiale o a colui che esercita una professione sanitaria), o perché lo stesso ambito può essere definito sulla base dei presupposti di fatto indicati dalla legge (così, ad es., nell'omissione di soccorso, di cui all'art. 593 c.p., l'obbligo di agire per la salvaguardia della vita e dell'incolumità altrui sorge, è vero, in capo a chiunque, ma soltanto quando ricorrono le condizioni descritte nella norma penale incriminatrice). Viceversa, per quel che riguarda i reati omissivi impropri (non previsti dalla legge), la dottrina ha proposto di scindere le posizioni di garanzia in due tipi fondamentali, quali la posizione di controllo e la posizione di protezione. In particolare, la posizione di controllo si caratterizza per l'esigenza di tutelare i beni giuridici contro una fonte di pericolo ben determinata; tale esigenza, a sua volta, può trovare origine: • in una precedente condotta antidoverosa dell'autore stesso (è questo, ad es., il caso del lavoro di scavo, di cui si omette l'adeguata segnalazione); • in obblighi di sorveglianza, relativi a edifici, strutture o manufatti (si pensi, ad es., al proprietario di uno stabile pericolante); • in obblighi di vigilanza nei confronti di persone, della cui condotta si è responsabili (si pensi, ad es., al soggetto cui è affidata la custodia di un alienato o di un incapace). La posizione di protezione si caratterizza, invece, per l'esigenza di tutelare determinati beni giuridici contro ogni pericolo; tale esigenza, a sua volta, può trovare origine: Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • in un rapporto con il titolare del bene giuridico da proteggere (è questo, ad es., il caso dei genitori, in merito al dovere di tutelare l'incolumità psicofisica dei figli minori); • in un contratto (si pensi, ad es., alla baby-sitter, che assume l'obbligo di sorvegliare il bambino in assenza dei genitori); • in altri rapporti giuridici, non inquadrabili nei precedenti (è questo, ad es., il caso del medico che intraprende la cura di un paziente). §5. Il dolo nei reati omissivi Il dolo di omissione è costituito: • dalla volontà dell'agente di non realizzare l'azione dovuta; • dalla consapevolezza di poter agire nel modo richiesto dalla norma. Ora, in relazione a questo secondo elemento, si rende necessario focalizzare tre punti fondamentali: • l'agente deve, anzitutto, conoscere le circostanze sulle quali si fonda l'obbligo di agire (così, ad es., ai fini del dolo dell'omissione di soccorso, è necessaria la percezione che una persona stia versando in una situazione di pericolo, ex art. 593 c.p.); • l'agente, in secondo luogo, deve trovarsi nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta (in tal senso si dovrà, ad es., escludere il dolo dell'omissione di soccorso, nel caso in cui l'azione sia realizzabile solo a patto di affrontare il guado di un torrente in piena); • nei reati omissivi impropri è, altresì, necessario che il soggetto si renda conto della valenza causale della propria omissione: egli deve, in altri termini, rappresentarsi il fatto che l'azione doverosa, con un alto grado di probabilità (vicino alla certezza), avrebbe scongiurato il prodursi dell'evento. Capitolo IV La fattispecie dell'illecito colposo §1. Premesse generali allo studio del reato colposo Il presupposto che fonda ogni ipotesi di reato colposo risiede nel fatto che il sistema giuridico pretende che tutti i consociati, nelle varie circostanze della vita di relazione, abbiano l'accortezza di adeguare (e controllare) il proprio comportamento, in modo da scongiurare il realizzarsi di danni o pericoli per i beni giuridici che l'ordinamento tutela. Il reato colposo, a lungo confinato in una zona marginale del nostro sistema penale, da molto tempo occupa, invece, uno spazio importante: basti pensare che la maggior parte degli illeciti connessi alla circolazione stradale, alle lavorazioni industriali o all'inquinamento ambientale vanno annoverati proprio nell'ambito dei reati colposi. Ora, sotto il profilo funzionale, nella incriminazione del reato colposo, ciò che la legge penalizza è l'intrapresa di azione, indirizzata a un fine lecito, quando l'agente abbia, però, trascurato di attivarsi nei modi opportuni, allo scopo di scongiurare l'ingresso di conseguenze dannose per i beni tutelati. Nel nostro ordinamento, come sappiamo, la definizione del fatto colposo è contenuta nell'art. 43 c.p., che, al co. 1, dispone che il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Come si può notare, da questa norma si evince che il contenuto dell'illecito colposo emerge dalla valutazione di tre specifici elementi: Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • l'esistenza di una condotta obiettivamente contraria ad una norma precauzionale (nei reati colposi di mera condotta) ovvero (nei reati colposi di evento) la produzione di un danno o di un pericolo per i beni protetti, attraverso una condotta obiettivamente inosservante di una regola di diligenza; • l'evitabilità della situazione di danno o di pericolo, attuabile mediante la tenuta di una condotta obiettivamente conforme alla regola di diligenza violata; • la possibilità, da parte dell'agente, di osservare la regola di diligenza prestabilita. §2. La fattispecie oggettiva dei reati colposi a) i reati colposi di mera condotta e i reati colposi di evento In dottrina si è soliti distinguere tra reati colposi di pura condotta (cioè senza evento materiale) e reati colposi di evento (nei quali è, viceversa, è richiesta una modificazione della realtà esterna, come conseguenza della condotta vietata). Le fattispecie colpose di mera condotta sono per lo più di carattere contravvenzionale, anche se non mancano delitti colposi di pura condotta (si pensi, ad es., all'art. 451 c.p., che, infatti, punisce con la multa chiunque omette di collocare ovvero rimuove apparecchi destinati all'estinzione di un incendio contro disastri o infortuni sul lavoro): quest'esempio, come si può notare, ci fa comprendere che, per far sì che si concretizzi la fattispecie oggettiva dei reati colposi di mera condotta, è sufficiente che l'agente abbia tenuto un comportamento obiettivamente contrario alla norma di diligenza violata. Viceversa, per la configurabilità di un reato colposo di evento è necessario accertare, anzitutto, l'esistenza di un rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, tenendo, però, presente che l'evento deve poter essere direttamente ricollegato alla violazione della norma di diligenza (la quale deve configurarsi come suo specifico antecedente): così, ad es., chi guida un'auto in direzione vietata, non per questo risponderà della morte di un passeggero, cagionata dal ribaltamento dell'autovettura, a meno che tale evento non sia connesso con la direzione vietata che il conducente stava percorrendo. Allo stesso modo, chi conduce la propria automobile a velocità sostenuta risponderà dei fatti direttamente collegati con la regola di diligenza che raccomandava di tenere un'andatura più moderata (in questo senso, il conducente dovrà rispondere, ad es., dell'investimento di un passante, in quanto, al fine di evitare tale evento, si rendeva necessario un più ampio spazio di frenatura). Per converso, però, v'è da dire che il rapporto causale non sempre assume rilevanza, ai fini della configurabilità di un reato colposo: questa rilevanza, infatti, non sussiste laddove si accerti che il rispetto della regola di diligenza non avrebbe, in ogni caso, contribuito ad evitare l'evento: si pensi, ad es., all'ipotesi in cui Tizio, nel sorpassare l'auto di Caio, invada (oltrepassando la linea spartitraffico continua) l'opposta corsia di marcia, a causa di uno sbandamento verso sinistra dell'auto di Caio. In tal caso, qualora si verifichi una collisione tra le due automobili, l'oltrepassamento della linea spartitraffico da parte di Tizio non potrà giocare alcun ruolo dal punto di vista della rilevanza penale, ove si riesca a dimostrare che una condotta conforme alla regola di diligenza violata (sorpasso effettuato mantenendo l'auto all'interno della carreggiata di marcia) non avrebbe, comunque, contribuito ad evitarne l'evento. b) l'obbligo di diligenza: la fonte (colpa generica e colpa specifica) Per quel che concerne la fonte dell'obbligo di diligenza si distingue tradizionalmente tra colpa generica e colpa specifica: Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com * con la colpa generica si fa riferimento ai casi in cui l'evento (in termini di offesa) si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia (cioè a causa della violazione di norme di cautela, dettate dalla comune prudenza o esperienza). Più precisamente: * negligente è la condotta che si caratterizza per la trascuratezza di una regola di tipo precauzionale e si concretizza, per lo più, in una omissione (come, ad es., il non aver guardato nello specchietto retrovisore prima di effettuare un sorpasso); * imprudente, invece, è la condotta che, per le sue modalità, genera ovvero aumenta il rischio che si verifichi una lesione dei beni protetti dall'ordinamento (ad es., guidare l'automobile ad elevata velocità); * l'imperizia, infine, è una forma qualificata di imprudenza e consiste nel non far uso (o nel fare un uso scorretto) delle specifiche capacità che l'autore possiede, necessarie per poter esercitare attività che richiedono particolari competenze (si pensi, ad es., all'uso delle armi da fuoco da parte della forza pubblica); * con la colpa specifica si fa, invece, riferimento alle ipotesi in cui l'evento si verifica per l'inosservanza di precise regole di comportamento, positivizzate in una norma. Nel dettaglio, tali regole possono estrinsecarsi: * in una norma di legge (anche penale); * in una norma regolamentare, contenuta in un atto normativo emanato da un'autorità amministrativa; * può trattarsi di un ordine proveniente da soggetti pubblici o privati (si pensi, ad es., al divieto temporaneo di circolazione in una strada minacciata da frane); * può trattarsi, infine, di una norma contenuta in regolamenti atti a regolare l'attività di cerchie predeterminate di soggetti (si pensi, ad es., ai regolamenti sportivi). c) l'obbligo di diligenza: la misura, il contenuto e i limiti Per affermare che vi sia stata negligenza, imprudenza o imperizia, occorre stabilire, innanzitutto, quale fosse la misura della diligenza richiesta (atta a scongiurare danni o pericoli per i beni tutelati); è bene precisare, infatti, che la diligenza pretesa non può corrispondere ad una misura tale da imporre ai consociati una sorta di immobilità permanente. Ed è proprio per questo motivo che la misura della diligenza richiesta è sottoposta a due limiti fondamentali: • in primo luogo, va tenuto presente che all'agente possono essere obiettivamente imputate solo le conseguenze prevedibili (prevedibili, cioè, da un agente ipotetico che si trovi nella stessa situazione del soggetto agente: è il ed. agente modello); • un secondo limite si ricava, invece, dal concetto del ed. rischio consentito, che viene a rappresentare quella specifica misura di rischio che è praticamente ineliminabile in quelle attività dirette ad accrescere lo sviluppo della vita collettiva (si pensi, ad es., ai voli spaziali, al traffico aereo o alla circolazione stradale). In presenza di tali limiti, la dottrina ha, pertanto, cercato di operare un'attenta analisi circa il contenuto dell'obbligo di diligenza. Si sono, in tal modo, individuate: • ipotesi in cui alla diligenza oggettiva corrisponde l'obbligo di astenersi dal compiere determinate azioni (ad es., non ci si deve porre alla guida dell'auto, dopo aver ingerito bevande alcoliche in quantità tali da attenuare la necessaria prontezza dei riflessi); • ipotesi nelle quali l'intrapresa dell'azione, nonostante presenti determinati rischi, non viola, di per sé, la diligenza oggettiva, purché sia accompagnata dall'adozione di particolari misure cautelari (si pensi, ad es., allo svolgimento della maggior parte delle attività industriali a rischio ovvero ai voli spaziali); • ipotesi in cui il contenuto dell'obbligo di diligenza implica uno specifico dovere di informazione: così, ad es., il medico ha il dovere di tenersi al corrente del progresso Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com della ricerca, in relazione all'introduzione di nuovi rimedi terapeutici e ai loro effetti collaterali. E necessario, comunque, sottolineare che la dottrina prevalente, oltre a quelli citati, ha individuato altri due specifici limiti al dovere di diligenza: • un primo limite è costituito dal ed. principio della divisione del lavoro, in relazione al quale viene in considerazione quella particolare forma di responsabilità per colpa, che prende il nome di ed. culpa in eligendo: quest'ultima ricorre nel momento in cui il soggetto, che ricopre una posizione gerarchicamente sovraordinata, viola l'obbligo di scegliere, in modo prudente, i suoi collaboratori e di controllarne l'operato; invero, soltanto se si rispettano queste condizioni può assumere rilevanza il fenomeno della delega e del relativo trasferimento di funzioni (che, nei congrui casi, può comportare anche il trasferimento del dovere di diligenza e della relativa responsabilità colposa); • ed ecco il secondo limite al dovere di diligenza: il principio dell'affidamento, in virtù del quale si afferma che colui che agisce nel rispetto dei doveri di diligenza oggettiva è legittimato a fare affidamento su un comportamento egualmente diligente da parte dei terzi, la cui condotta interferisce con la sua (questo principio è stato inizialmente elaborato con riferimento alla circolazione stradale, ma oggi esso assume importanza anche nell'ambito delle attività che si svolgono in equipe). È bene precisare, tra l'altro, che il principio dell'affidamento fornisce anche una soluzione adeguata quando si tratta di stabilire l'esistenza di una responsabilità colposa, in relazione al fatto di un terzo (sia esso doloso o colposo): così, ad es., se Tizio consente a Caio, in evidente stato di ubriachezza, l'uso della propria auto, in base al principio dell'affidamento, egli non potrà essere esonerato da responsabilità per colpa, in relazione all'incidente eventualmente provocato da Caio. d) azione ed omissione nella condotta colposa L'obbligo della diligenza oggettiva può essere violato sia con una condotta attiva, sia con una condotta omissiva: perciò, possono aversi delitti colposi di azione (commissivi) e delitti colposi di omissione (omissivi). Più precisamente, si ha delitto colposo commissivo quando la diligenza oggettiva si concreta in un dovere di astenersi dal compiere determinate azioni pericolose (quali, ad es., correre in auto a velocità eccessiva o vendere oggetti taglienti ai bambini), di modo che procedere ad alta velocità ovvero consegnare ai bambini strumenti atti ad offendere integrano ipotesi di condotta attiva, rilevanti per la fattispecie oggettiva di un reato colposo. Al contrario, quando il rispetto della diligenza oggettiva richiede il compimento di azioni ben determinate, è proprio nell'omissione di queste condotte doverose che si attualizza la contrarietà alla diligenza oggettiva. Ora, veri e propri reati colposi omissivi sono quelli di pura omissione, espressamente previsti dalla legge (sono tali, ad es., le ipotesi di cui agli artt. 451 e 672 c.p.) e quelli commissivi mediante omissione, nei quali venga in considerazione esclusivamente una condotta negativa (vale a dire un non fare): si pensi, ad es., alla madre che cagioni un pregiudizio nella salute al proprio figlio di poche settimane di età, omettendo, per dimenticanza, di nutrirlo per un'intera giornata. È bene precisare, in ogni caso, che nella maggior parte dei casi, la condotta rilevante ai fini dell'incriminazione di un reato colposo è una condotta mista, in quanto al suo interno si vengono ad intrecciare comportamenti attivi e comportamenti omissivi: si pensi, ad es., a chi, nell'intraprendere un lavoro stradale (azione) evita di apporre le dovute segnalazioni (omissione) o a chi, neh1'effettuare un sorpasso (azione), omette di guardare nello specchietto retrovisore (omissione) o, ancora, a chi trasporta in auto il Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com proprio figlioletto (azione), senza, però, assicurarlo all'apposito seggiolino (omissione). §3. La fattispecie soggettiva dei reati colposi a) la struttura psicologica: colpa cosciente e colpa incosciente Passando ora all'analisi della fattispecie soggettiva della condotta colposa, vediamo che essa si estrinseca essenzialmente su due tipologie di colpa: la colpa cosciente (o con previsione) e la colpa incosciente: • la colpa cosciente ricorre quando l'agente, nel momento in cui realizza una condotta obiettivamente contraria ad una regola di diligenza, si rappresenta come possibile il verificarsi dell'evento, come conseguenza della sua condotta, ma ritiene che l'evento stesso non si verificherà (ad es., Tizio, mentre percorre in auto ad elevata velocità un centro abitato, si avvede che, a breve distanza, un gruppo di ragazzi sta giocando a rincorrersi sul margine della strada, ma ciononostante non diminuisce la velocità, perché è convinto che sarà in grado di non investirli). Come si può notare, quindi, la struttura psicologica della colpa cosciente è contrassegnata da un elemento negativo (la non volizione dell'evento) e da un elemento positivo (la rappresentazione del medesimo evento come possibile conseguenza della propria condotta); occorre, però, precisare, che la colpa cosciente può riguardare i soli reati di evento, perché nei reati di pura condotta la consapevole violazione della regola precauzionale costituisce, senz'alcun dubbio, un'ipotesi di comportamento doloso. È importante osservare, infine, che la nozione di colpa cosciente può creare qualche confusione con la figura del dolo eventuale: per risolvere questo problema, allora, la dottrina ha proposto di fare ricorso alla ed. teoria del consenso, per la quale il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente si traccia attraverso l'utilizzo di un criterio, che assegna all'ambito del primo (il dolo eventuale) i casi in cui l'agente agisce sulla base di una ragionevole previsione che l'evento possa verificarsi e ne accetta consapevolmente il rischio, e assegna all'ambito della seconda (la colpa cosciente) i casi in cui l'autore ritiene possibile il realizzarsi dell'evento, ma è sicuro che lo stesso non si verificherà. Tuttavia, se si guarda bene, la distinzione tra le due figure (nonostante la soluzione addotta in dottrina) resta, in ogni caso, ambigua: ciò perché affermare che l'agente ha accettato il rischio che l'evento si verificasse, nonostante se lo fosse solo rappresentato come probabile (o possibile), significa proporre un criterio che non ci fa comprendere il dato differenziale rispetto alla colpa cosciente. Tant'è vero che anche quest'ultima figura (sulla base delle definizioni addotte in dottrina), si caratterizza per il fatto che l'agente, pur ritenendo possibile il verificarsi di un certo evento come conseguenza di una condotta contraria a una regola di cautela, agisce nonostante tale previsione, in quanto confida nel fatto che lo stesso non abbia a verificarsi (con ciò accettandone, in un certo senso, il rischio). In virtù di queste considerazioni, perciò, si può affermare che solo la realtà del caso concreto (preso in esame) potrà sciogliere tutti i dubbi in proposito: così, ad es., nel caso della madre, che lasci imprudentemente un medicinale alla portata del figlio di pochi anni di età, solo particolari circostanze del caso concreto potranno far pensare al dolo; si dovrà, viceversa, parlare di colpa cosciente, ove vi sia stato un errato calcolo di probabilità (se, ad es., la madre era sì consapevole del fatto che il figlio avrebbe potuto impossessarsi del medicinale, ma conoscendone le abitudini, aveva giudicato impossibile la realizzazione di un tale evento); Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • con la colpa incosciente si fa, invece, riferimento ai casi in cui l'agente, nell'attimo in cui realizza la fattispecie oggettiva di un reato colposo, non viola, in modo consapevole, la regola di diligenza, né si rappresenta il rischio a cui concretamente espone il bene tutelato: così, ad es., se un automobilista imbocca una strada in direzione vietata, ma non si avvede della relativa segnalazione, perché la sua attenzione era rivolta altrove, viene a mancare sia la previsione che la volontà dell'evento e, in generale, la consapevolezza di violare una regola di diligenza. Proprio per tal motivo, una parte della dottrina è propensa ad escludere, nella colpa incosciente, la presenza di componenti psicologiche reali: questa conclusione, però, non è condivisibile, in quanto, se si osserva bene, non si può non notare come nella colpa incosciente il legislatore punisca, in realtà, la mancata ovvero l'erronea rappresentazione delle circostanze, oggettivamente conoscibili, da cui scaturiva l'obbligo, per il soggetto agente, di osservare la regola di diligenza. b) la misura soggettiva della colpa Una volta stabilita la condotta oggettivamente dovuta, si dovrà verificare se l'agente, sulla base delle sue capacità, era in grado effettivamente di tenere la condotta richiesta (si parla, a tal proposito, della ed. misura soggettiva della colpa, la cui tematica, è bene precisarlo, non appartiene al piano del fatto tipico, bensì a quello della colpevolezza dell'autore). In relazione al tema della misura soggettiva della colpa, è necessario sottolineare che: • da ciascun autore è possibile pretendere di esprimere solo il massimo delle proprie capacità e non oltre (così, ad es., al medico condotto, che sia costretto a effettuare un'operazione d'urgenza con attrezzi di fortuna, non si potrà certamente pretendere lo stesso grado di perfezione tecnica, che si pretende, invece, da un chirurgo altamente qualificato); • emerge, in tal modo, un secondo criterio di valutazione della misura soggettiva della colpa e, cioè, l'anormalità delle circostanze nelle quali si agisce, quando da queste emerga l'impossibilità di esigere l'osservanza dei doveri di diligenza, che può essere, invero, pretesa solo in condizioni normali (si pensi, ad es., al guidatore di un bus, il quale, di fronte alla improvvisa rottura dei freni, si trovi a dover decidere, in poco tempo, la manovra più idonea a limitare il danno). c) il grado della colpa Una volta fissata la misura soggettiva, il giudice dovrà, poi, stabilire il ed. grado della colpa, così come richiesto dall'art. 133 c.p. E, tuttavia, nell'ambito del diritto penale, a differenza di quanto accade negli altri rami dell'ordinamento giuridico, può venire in rilievo anche la più lieve delle colpe, tant'è vero che tanto più grave sarà la colpa (cioè, più elevato il suo grado) quanto maggiore sarà il divario tra il comportamento tenuto e quello a cui ci si doveva attenere. Il giudice, in ogni caso, nello stabilire il grado della colpa, dovrà tener conto anche di quei fattori individualizzanti, che concorrono a formare il giudizio complessivo sulla gravità della colpa: in quest'ottica, non solo la colpa cosciente costituirà un'ipotesi di maggior gravità rispetto a quella incosciente, ma la stessa tipologia di errore colposo potrà avere un peso diverso, a seconda che si sia di fronte ad un soggetto di provata esperienza (dal quale era lecito attendersi una condotta pienamente rispettosa della diligenza pretesa) o, al contrario, di un apprendista. Assumono, infine, rilevanza le condizioni soggettive, che possono aver dato causa alla violazione della regola di diligenza: in questo senso, diversa, ad es., sarà nel grado la colpa del casellante che ometta una manovra di scambio, a seconda che egli sia stato Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com vinto dal sonno, perché stremato da un lungo turno di servizio o perché distrattosi a leggere un giornale. §4. Il caso della colpa medica alla luce dell'art. 3 L. 189/2012 Un accenno merita, infine, il tema della responsabilità penale (colposa) del sanitario, che è stato oggetto, di recente, di una riforma che ha provocato numerosi commenti da parte della dottrina e, più in generale, da parte degli operatori del diritto. Invero, come sappiamo, il medico (o l'esercente attività sanitaria) svolge un'attività che comporta un rischio per il paziente, ma, poiché la sua attività è fondamentale per garantire un diritto costituzionalmente rilevante, come quello alla salute, il rischio derivante rientra tra i ed. rischi consentiti; il rischio consentito, tuttavia, non può e né deve tramutarsi in licenza di ledere o uccidere e, dunque, va delimitato. In quest'ottica, la delimitazione è fornita, trattandosi di responsabilità in ambito professionale, dalle leges artis, cioè dai principi operativi e comportamentali che reggono l'attività medica, generalmente intesa; le leges artis sono, dunque, parametri di diligenza (o meglio, di perizia) a cui il medico deve attenersi, poiché indicano le regole a cui il sanitario deve ispirarsi per risolvere le questioni inerenti la salute del paziente. Premesso ciò, l'art. 3 L. 189/2012 recante Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute, ha disposto che l'esercente le professioni sanitarie, che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida o a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta, comunque, fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo. Ora, tralasciando il profilo relativo alla responsabilità civile - extracontrattuale -, sul piano penalistico va specificato, in primis, che il nuovo dettato normativo ci autorizza ad affermare che, attualmente, il sanitario che uniforma il proprio comportamento alle lince guida (le quali possono essere, a loro volta, definite come raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione della letteratura e delle opinioni scientifiche, allo scopo di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche) può essere chiamato a rispondere di lesioni colpose o di omicidio colposo solo nei casi in cui la peculiare situazione clinica del malato renda immediatamente riconoscibile da parte di qualunque sanitario, dotato delle competenze proprie dell'/ionio eiusdem condicionis et professionis, arricchite dalle cognizioni proprie dell'agente concreto (ove lo stesso sia in possesso di particolari competenze tecniche), la necessità di doversi scostare dalle stesse linee guida. Interpretata in tal modo, la portata incriminatrice che viene ad assumere la fattispecie penale di morte o lesioni (susseguenti ad una attività medica realizzata nel rispetto di quanto prescritto dalle linee guida o dalle virtuose pratiche mediche accreditate dalla comunità scientifica) appare paradossalmente più circoscritta in seguito all'entrata in vigore della novella legislativa; ciò comporta, conseguentemente, che, in applicazione dell'art. 3 L. 189/2012, nei settori in cui siano in vigore le predette linee guida, non potrà essere addebitata al medico l'offesa cagionata per colpa lieve, sempre che, però, il tutto rientri nei limiti di una condotta imperita (secondo le più recenti pronunce della Suprema Corte, infatti, la condotta imperita costituisce l'ambito esclusivo di afferenza delle linee guida, non potendo l'art. 3 della L. 189/2012 trovare applicazione nei casi di condotta imprudente o negligente del medico: in questo senso, si veda Cassazione, sent. 11943/2013). Va precisato, altresì, che il portato di questa novella, che va ad incidere sulla struttura della norma reale di omicidio o lesioni, colposamente realizzati da un esercente una Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com professione sanitaria, si riflette anche sul piano diacronico. Una recente pronuncia della Cassazione, ha, infatti, stabilito che la nuova normativa ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie colpose in esame, con conscguente applicazione dell'art. 2 c.p. In questo modo, la Corte ha dichiarato che l'innovazione esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve che si collochino nell'area segnata dalle linee guida ovvero dalle virtuose pratiche mediche, purché le stesse siano accreditate dalla comunità scientifica (in tal senso, Cassazione, sent. 16237/2013). Stando così le cose, pertanto, i medici - nei confronti dei quali siano state pronunciate sentenze di condanna per illeciti colposi connessi alla loro attività professionale -, ancorché la condotta produttiva dell'offesa fosse conforme alle linee guida o alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e la singolarità del caso clinico (concreto) non appalesasse macroscopicamente la necessità di discostarsene, potranno invocare l'effetto di cui all'art. 2, co. 2 c.p. che, com'è risaputo, ha la capacità di travolgere il giudicato facendo cessare l'esecuzione della pena e gli effetti penali ad essa connessi. Ed è proprio in quest'ambito che viene a collocarsi una recente pronuncia assunta in sede di incidente d'esecuzione (Tribunale di Trento, 2013) la quale, in applicazione dell'art. 3 L. 189/2012, ha revocato, ex art. 673 c.p.p., una sentenza di condanna nei confronti di un ortopedico, la cui condotta colposa aveva procurato la morte di un giovane sportivo. A ben vedere, però, il provvedimento giurisdizionale in esame non sembra fare corretto utilizzo della regula iuris introdotta dall'art. 3. L. 189/2012, così come interpretata dalla più recente giurisprudenza di legittimità pronunciatasi in merito; com'è stato giustamente sottolineato, infatti, nel caso menzionato verrebbero a mancare i presupposti sostanziali idonei per poter invocare l'applicazione della nuova legge: • in primo luogo, invero, va rilevato che non vi è una esatta individuazione di linee guida in campo ortopedico, il cui iter comportamentale è sì presupposto dal Tribunale, ma non è indicato espressamente; • in secondo luogo, come già detto poc'anzi, fin dalle prime sentenze pronunciate in seguito all'entrata in vigore dell'art. 3 L. 189/2012, la Cassazione (sent. 11943/2013) ha precisato che l'ambito di operatività della rilevanza penale della condotta colposa del medico può essere valutata soltanto sotto il profilo dell'imperizia e non anche su quello della negligenza e dell'imprudenza. Per contro, dalla lettura della pronuncia su richiamata emerge chiaramente che il profilo di antidoverosità nella condotta del medico assume i tratti della negligenza, atteso che l'ortopedico non ha avuto cura di scegliere il comportamento migliore, rivolgendosi a diverse professionalità in grado di decodificare il quadro clinico del ragazzo che gli appariva non chiaro. Un ultimo richiamo in merito alla tematica della colpa medica va, infine, dedicato alla questione di legittimità costituzionale che è stata sollevata dal Tribunale di Milano in merito all'art. 3 L. 189/2012. Nel dettaglio, la questione di legittimità è stata sollevata in ragione del fatto che, ad avviso del tribunale, il legislatore ha introdotto una norma ad professionem, delineando un'area di non punibilità riservata esclusivamente agli operatori sanitari che commettono un qualsiasi reato lievemente colposo, nel rispetto delle linee guida e delle buone pratiche operative. In particolare, l'ordinanza eccepisce che la formulazione, la delimitazione, la ratio essendi, le conseguenze, sia sostanziali che processuali, di quest'area di non punibilità appaiono stridere con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 24, 25, 27, 28, 32, 33 e 111 Cosi. (Tribunale di Milano, 21 marzo 2013). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Capitolo V Le cause generali di esclusione del fatto tipico Premessa L'esistenza di un fatto tipico, come sappiamo, costituisce un presupposto necessario, ma non sufficiente, per la punibilità; questa, infatti, può essere esclusa per effetto di una norma che, in concreto, autorizzi o addirittura imponga la realizzazione del fatto (si pensi, ad es., alle ipotesi della legittima difesa o dell'adempimento del dovere). La punibilità del fatto può essere esclusa, altresì, nel caso in cui ricorrano condizioni che precludono la possibilità di muovere all'autore un rimprovero nei termini propri della colpevolezza individuale (si pensi, ad es., al fatto commesso da un minore o da un incapace). In tutti questi casi, si può, dunque, affermare che la legge esclude l'applicabilità della pena, in relazione ad un fatto che presenta tutti i caratteri della tipicità. Proprio per questo motivo sorge l'esigenza di individuare quelle ipotesi normative che, invece, escludono i connotati essenziali dello stesso fatto tipico: in quest'ottica, si dovranno analizzare, nel dettaglio, le disposizioni contenute negli artt. 45,46, 47, 48 e 49 c.p., le quali, nel loro insieme, configurano cause generali di esclusione del fatto tipico (queste, infatti, escludono la sussistenza di un requisito essenziale della fattispecie, oggettiva o soggettiva). 81. Le ipotesi normative di esclusione del fatto penalmente rilevante a) la forza maggiore e il caso fortuito (art. 45 c.p.) L'art. 45 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore: la norma in esame, in dettaglio, fa riferimento ai casi in cui l'intervento di una energia fisica, proveniente dall'esterno e non riconducibile alla condotta di un terzo soggetto, determina il movimento corporeo di un soggetto, il quale, essendo impossibilitato a padroneggiarne le conseguenze, viene agito dalla forza naturale, che lo pervade. Il processo causativo dell'evento non appartiene, quindi, al soggetto, perché non è padroneggiato dalla sua coscienza e volontà e, perciò, non è azione, nel senso descritto dall'art. 42 c.p.: si pensi, ad es., ad un improvviso colpo di vento, che sospinga una persona, facendola rovinare addosso ad altri, che conseguentemente riportano delle lesioni. L'art. 45 c.p. disciplina anche l'ipotesi del caso fortuito: a differenza, però, della forza maggiore, il fortuito interferisce in una serie di eventi innescati dalla condotta umana, piegandone, tuttavia, il decorso (si pensi, ad es., alla deviazione dell'attrezzo lanciato da un discobolo, a causa di un improvviso colpo di vento, in conseguenza del quale si provocano lesioni a terze persone). In casi del genere, quindi, si può dire che ciò che manca è il presupposto dell'imputazione oggettiva, in considerazione del fatto che l'esposizione a pericolo del bene protetto è stata determinata interamente da un imprevedibile fattore di rischio, che, proprio per questo motivo, non può giocare alcun ruolo sotto il profilo dell'imputazione oggettiva. b) il costringimento fisico (art. 46 c.p.) L'art. 46 c.p., che disciplina il ed. costringimento fisico, stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri, mediante violenza fisica alla quale non poteva sottrarsi. In relazione a questa disposizione si distinguono due ipotesi: Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • se il movimento fisico del soggetto che subisce la violenza è stato determinato, per intero, dall'impiego di energia fisica da parte di chi l'ha posta in essere, si parla di vis absoluta (si pensi, ad es., al caso in cui un soggetto, fisicamente, guidi la mano di un terzo nell'apporre una firma apocrifa); • se, viceversa, per la vittima residuava uno spazio, anche se minimo, di libertà di movimento, si parla di ed. vis compulsiva; anche in tal caso, però, sembrano mancare i presupposti per l'imputazione oggettiva, in capo a chi subisce la violenza (si pensi, ad es., al fatto di chi riveli un segreto aziendale, perché sottoposto a torture fisiche); non a caso, il vero autore dell'illecito, ai sensi del co. 2 dell'art. 46 c.p., è l'autore della violenza, il quale si serve della vittima a ino' di strumento: egli prende il nome di ed. autore mediato (locuzione con la quale si vuole intendere che, dietro l'autore materiale del fatto, vi è il vero autore, che detiene l'effettiva padronanza dei decorsi causali). §2. L'esclusione dei presupposti dell'imputazione soggettiva a) l'errore sul fatto che costituisce il reato (art. 47, co. 1, 2 e 3 c.p.) Il co. 1 dell'art. 47 c.p. dispone che l'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente, ma se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo. Proponiamo alcuni tipici esempi di errore sul fatto: • Tizio, al termine di una riunione tra amici, indossa e porta con sé un soprabito di un altro ospite, scambiandolo per il proprio; • Caio, in un poligono di tiro, spara contro un uomo, uccidendolo, credendo di aver mirato a un fantoccio; • Mevio, che alloggia in un albergo, s'introduce nella camera di un terzo, ritenendo che si tratti del suo alloggio, che è situato, invece, al piano inferiore. Come si può notare, in tutti questi casi l'agente realizza effettivamente la fattispecie oggettiva dei reati di furto (ex art. 624 c.p.), di omicidio (ex art. 575 c.p.) e di violazione di domicilio (ex art. 614 c.p.); ma, ciò che manca è la fattispecie soggettiva di questi reati, dal momento che l'agente non si rappresenta (nel senso che ignora) uno o più elementi della fattispecie oggettiva e cioè: Yaltruità della cosa (nel furto), la qualità di uomo nella sagoma colpita (nell'omicidio) e Yaltruità dell'abitazione (nella violazione di domicilio). Di conseguenza, si può affermare che l'oggettiva ed erronea rappresentazione della realtà esclude anche una volizione rilevante per l'elemento psicologico del reato: in altre parole, dove c'è errore non può esservi dolo e viceversa. A proposito dell'art. 47 c.p. si parla spesso di un ed. errore di fatto e vi si contrappone un ed. errore di diritto; quando, però, si distingue tra errore di fatto ed errore di diritto si distingue in base alla natura dell'errore, ma non se ne ricava una differenza che sia in grado di assumere rilevanza sotto il profilo giuridico-penale: basti pensare, invero, che, dal punto di vista psicologico, il soggetto che, ad es., si impossessa di una cosa altrui, scambiandola per la propria (errore sul fatto), si trova esattamente nella stessa posizione di chi versa in errore sulla proprietà di una cosa, in seguito ad una erronea interpretazione di una complessa sentenza civile sull'oggetto (errore di diritto). La distinzione che conta allora, più precisamente, è quella tra errore sul fatto ed errore sul divieto: per cui, chi versa in errore sul fatto non sa quel che fa; chi versa, invece, in errore sul divieto, sa quel che fa, ma crede - erroneamente - che il suo fatto non ricada nell'ambito di un'incriminazione penale: l'autore, quindi, versa in errore sulla legge penale (che, di regola, ai sensi dell'art. 5 c.p., non è scusabile). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Da quanto detto se ne deve dedurre, allora, che anche la falsa rappresentazione di un dato di carattere giuridico (il ed. errore di diritto) può determinare un errore sul fatto e, pertanto, escludere la punibilità. Ciò, del resto, è confermato dal co. 3 dell'art. 47 c.p., nella parte in cui stabilisce che l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato: • verserà, così, in errore sul divieto, ad es., chi, legato da un precedente matrimonio, avente effetto civile nel nostro Paese, contragga un secondo matrimonio, credendo (erroneamente) che, in quanto musulmano, ciò gli sia consentito ex art. 8 Cost. [in tal caso, come si può notare, l'agente vuole il fatto incriminato dall'art. 556 c.p. (bigamia), ritenendolo erroneamente lecito]; • verserà, invece, in errore sul fatto chi contragga un secondo matrimonio, ritenendo di essere libero dal precedente, per effetto di una sentenza straniera di divorzio, non ancora, però, delibata in Italia (in questo secondo caso, a ben vedere, il soggetto non si rappresenta per nulla un fatto corrispondente al delitto di bigamia; tant'è vero che egli non vuole contrarre un secondo matrimonio in costanza del precedente, bensì vuole risposarsi credendo, erroneamente, che il precedente vincolo sia estinto). L'art. 47, co. 2 c.p. stabilisce, invece, che l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso: così, ad es., se Caio incendia una cosa altrui, credendola propria, non risponderà del delitto di cui all'art. 423, co. 1 c.p., che punisce l'incendio di cosa altrui, ma, sempre che ne consegua un pericolo per la pubblica incolumità, sarà punibile ai sensi del co. 2 della stessa norma, che incrimina, appunto, l'incendio di cosa propria. Allo stesso modo, se Tizio trattiene presso di sé un minore contro la sua volontà, credendo per errore che lo stesso sia consenziente, non dovrà rispondere di sequestro di persona, di cui all'art. 605 c.p., ma di sottrazione consensuale di minorenni. Quanto detto, ci fa comprendere, allora, che il nostro sistema giuridico ritiene responsabile l'agente per il reato di cui egli si è rappresentato la fattispecie oggettiva: tuttavia, è bene precisare che, in applicazione del principio del favor rei, la regola di cui al co. 2 dell'art. 47 c.p. non troverà applicazione nel caso in cui l'agente si rappresenti una figura di reato più grave di quello che realmente commette (così, ad es., se un corriere, incaricato da un'organizzazione criminale, introduce in Italia tabacchi lavorati, credendo di trasportare stupefacenti, l'agente non risponderà del reato di cui all'art. 73 d.p.r. 309/90, ma del ben più lieve reato di cui all'art. 291 bis t.u. delle disposizioni in materia doganale). b) l'errore sul fatto detcrminato dall'altrui inganno (art. 48 c.p.) L'art. 48 c.p. disciplina l'errore sul fatto determinato dall'altrui inganno: in tale ipotesi, del fatto commesso dal soggetto ingannato risponde chi l'ha convinto a commetterlo. Anche in questo caso, dunque, la legge prevede il trasferimento della responsabilità penale dall'autore materiale all'autore mediato del fatto: si pensi, ad es., al cacciatore che induca un compagno di battuta a sparare in direzione di un cespuglio, dietro il quale s'intravede una sagoma, assicurandogli che si tratta di un animale, mentre sa benissimo che trattasi di un suo nemico. L'art. 48 c.p., in altre parole, conferma che autore del fatto è chi ha la signoria sul fatto stesso, vale a dire la padronanza dei decorsi causali; è bene tener presente, tuttavia, che l'esecutore materiale, benché non preveda, né voglia il realizzarsi dell'evento, non sfuggirà, ad ogni modo, alla responsabilità per colpa (se è prevista l'incriminazione a titolo colposo), qualora abbia violato elementari misure di cautela: si pensi, ad es., al caso in cui il cacciatore accetti l'esortazione a sparare da parte del compagno, senza esercitare alcun controllo circa la veridicità delle sue affermazioni. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. Le ulteriori cause di esclusione della tipicità a) il reato putativo e il reato impossibile (art. 49 c.p.) Il co. 1 dell'art. 49 c.p., che prende in considerazione il reato putativo, dispone che non è punibile chi commette un fatto, nella supposizione erronea che esso costituisca reato: questa norma trova la propria ragion d'essere nell'art. 1 c.p., il quale vincola l'interprete e il giudice alla regola in forza della quale nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge come reato. Alquanto controversa è, invece, l'interpretazione della norma di cui al co. 2 dell'art. 49 c.p., il quale prende in considerazione il reato impossibile e dispone che la punibilità è esclusa quando, per l'inidoneità dell'azione ovvero per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso; da tale disposizione si desume che, ai fini della punibilità, la condotta dell'agente non solo deve essere tipica, ma deve essere anche dotata di attitudine offensiva. Tuttavia, questa tesi è stata criticata da una parte della dottrina, in quanto: • da un lato, si è detto che un fatto conforme al modello legale, ma al contempo privo di lesività, sembra costituire una vera e propria contraddizione in termini; • dall'altro lato, si è, invece, osservato che esigere, oltre alla tipicità, anche la lesività del fatto, introdurrebbe nel sistema il ricorso a giudizi extranormativi, con il rischio di aprire le porte all'arbitrio del giudice. Le obiezioni avanzate, tuttavia, non appaiono calzanti, anche perché, se si analizza, sotto un profilo storico, l'art. 49 c.p., appare evidente che esso, in realtà, è diretto a colmare proprio quegli eventuali spazi vacanti tra la tipicità e la lesività del fatto: si faccia, ad es., il caso dell'alterazione di banconote, in maniera talmente grossolana da non riuscire ad ingannare nessuno (ad es., aggiungendo, con un pennarello, uno zero alla cifra originale indicata sulle banconote). Si pensi, ancora, al caso in cui l'oggetto sottratto sia di così infimo valore economico (ad es., un foglio di carta o una spilla da balia) da non consentire la configurazione dell'offesa all'interesse protetto. Del resto, non va dimenticato che i casi che la giurisprudenza ha dovuto affrontare in merito all'art. 49, co. 2 c.p. concernono per l'appunto le ipotesi di falso documentale (innocuo o grossolano) e i reati contro il patrimonio. D'altro canto, però, va anche precisato che la disposizione in esame non può fungere da contenitore idoneo a convogliare quelle figure che, in dottrina, prendono il nome di reati bagattellari; al contrario, l'art. 49, co. 2 c.p. deve essere utilizzato come punto di riferimento idoneo a determinare l'esistenza dell'obesa, soprattutto nei casi in cui il bene giuridico protetto corrisponda ad una entità immateriale (come, ad es., la fedeltà all'ufficio, il comune senso del pudore o la fede pubblica). Di conseguenza, dovendosi stabilire, attraverso la norma in questione, il momento a partire dal quale la condotta dell'agente riesce a raggiungere quel grado di aggressività tale da rilevare penalmente, se ne deve dedurre che l'art. 49, co. 2 c.p. si presta anche a riconoscere l'irrilevanza di quelle figure che vanno sotto il nome di azioni socialmente adeguate, cioè di quelle azioni che trovano la propria giustificazione nello stile di vita della comunità in un certo momento storico. Tra l'altro, si deve prendere atto che è proprio utilizzando l'idea dell'adeguatezza sociale che si riesce a sostituire alla nozione statica del bene giuridico protetto una visione dinamico-funzionale del suo ruolo nella vita sociale: si pensi, ad es., alla condotta di atti osceni (fin quando si resterà legati ad un concetto meramente causale della condotta, non si riuscirà mai a comprendere la vera ragione per cui non è considerata punibile la modella che posa nuda davanti ad una classe di allievi di un'accademia d'arte oppure la madre che, nella sala d'aspetto di una stazione, scopre il seno per allattare il proprio figlio). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com b) l'errore sul reato impossibile e sull'adeguatezza sociale Un accenno occorre, infine, dedicarlo alla questione relativa alla rilevanza dell'errore sul reato impossibile e sull'adeguatezza sociale; a tal riguardo, occorre precisare che tale problematica, in realtà, deve essere risolta facendo affidamenti sugli stessi parametri che vengono, di regola, utilizzati per risolvere i problema di rilevanza dell'errore sul fatto. L'errore, pertanto: • risulterà irrilevante se corrisponde ad un errore sul divieto; • non sarà, invece, irrilevante se consiste in un errore su presupposti di fatto che, se esistenti, avrebbero escluso la tipicità della condotta (così, per quanto attiene al reato impossibile, non sarà punibile, ad es., chi abbia cagionato, seppellendone il corpo, la morte di un uomo, credendo di trovarsi di fronte ad un cadavere, mentre si trattava di morte apparente). E lo stesso dicasi per le ipotesi di errore sull'adeguatezza sociale: non sarà punibile, ad es., il p.u. che accetti in dono una preziosa incisione, nella errata convinzione che si tratti di una riproduzione fotografica di infimo valore. Viceversa, laddove l'errore sull'adeguatezza sociale dovesse radicarsi, anziché in un errore sul fatto, in un errore sul divieto, allora la punibilità non potrà essere esclusa: è questo, ad es., il caso in cui il p.u. accetti l'incisione ritenendo che sia socialmente adeguato accettare doni, anche se di elevato valore economico. Sezione III L'antigiuridicità Capitolo unico §1. Tipicità e antigiuridicità nella struttura dell'illecito penale L'antigiuridicità presuppone, da un lato, che sia stata accertata l'esistenza di un fatto che presenti tutti i requisiti (oggettivi e psicologici) descritti nella fattispecie legale di un reato e, dall'altro, invece, l'inesistenza di particolari situazioni cui l'ordinamento giuridico attribuisce un'efficacia ed. giustificante: in presenza di tali situazioni viene, infatti, meno il valore indiziante del fatto tipico, che, pur restando tale, non è, tuttavia, antigiuridico, per effetto di una norma permissiva che lo autorizza ovvero lo impone (in questi casi resta, quindi, esclusa l'applicabilità della norma di divieto). Si pensi, ad es., a chi uccide taluno da cui sia stato assalito: il caso appare, in astratto, disciplinato sia ex art. 575 c.p. (che punisce chiunque cagiona la morte di un uomo), che dall'art. 52 c.p. (che stabilisce la non punibilità dei fatti, preveduti dalla legge come reato, che vengono commessi per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di un'offesa ingiusta). Ora, se nell'ipotetico conflitto tra le due norme, a soccombere fosse l'art. 52 c.p. (vale a dire la norma permissiva), la disposizione ivi contenuta sarebbe, in realtà, inutiliter data, perché non potrebbe mai essere applicata. È bene tener presente, però, che il procedimento che conduce alla formazione delle fattispecie permissive è del tutto differente da quello utilizzato per l'individuazione degli elementi del fatto tipico: ciò, in realtà, dipende dal fatto che, mentre la risposta alle domande che riguardano l'esistenza di un fatto tipico è contenuta interamente nel sistema penalistico, la risposta alla domanda se quel fatto tipico sia anche un fatto antigiuridico va, invece, ricercata nell'intero ordinamento giuridico (e, quindi, non solo nell'ambito del diritto penale). Si pensi, ad es., alle disposizioni costituzionali e, nel dettaglio, all'art. 40 Cost. (disciplinante il diritto di sciopero) il quale rappresenta, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com per questa via, la fonte della non antigiuridicità di alcune condotte penalmente rilevanti, come, ad es., un fatto di interruzione di un pubblico servizio (ex art. 340 c.p.), che abbia luogo in occasione, appunto, di un'azione di sciopero. In virtù di queste considerazioni, se ne deve dedurre, perciò, che non è possibile, in alcun modo, proporre un catalogo fisso e completo delle fattispecie permissive (e, in particolare, delle cause di giustificazione), perché si tratta, come abbiamo visto, di una categoria aperta, al cui interno il legislatore e l'interprete possono aggiungere nuove voci (in materia, infatti, non vige il divieto di analogia, così come previsto, invece, per i connotati della fattispecie tipica). §2. L'individuazione della categoria delle esimenti (art. 59 c.p.) In considerazione del fatto che il legislatore non utilizza in nessuna disposizione la locuzione causa di giustificazione, limitandosi, per contro, ad aggettivare determinati soggetti o comportamenti come non punibili (si pensi, ad es., all'art. 376 c.p., il quale dichiara non punibile il soggetto che ritratta una falsa testimonianza, o all'art. 649 c.p., che dichiara non punibile il figlio che commette un furto ai danni del padre, o, ancora, alla classica ipotesi di cui all'art. 52 c.p., che dichiara non punibile chi agisce in stato di legittima difesa), la dottrina ha dovuto trovare un appiglio normativo sul quale poter appuntare le diverse ipotesi, che integrano le fattispecie permissive. Questo dato normativo, in dettaglio, è costituito dall'art. 59 c.p., il cui co. 1 stabilisce che le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute o da lui ritenute inesistenti per errore; a sua volta, il co. 4 dello stesso articolo precisa che se l'agente ritiene, per errore, che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Ora, dalla combinazione di queste due norme, si può facilmente intuire che il nostro codice (all'art. 59 citato), con le locuzioni circostanze che escludono la pena e circostanze di esclusione della pena ha inteso designare, ad avviso della dottrina prevalente, quelle ipotesi normative che, da un lato, presuppongono la completa realizzazione di un fatto tipico mentre, dall'altro, non prendono ancora in considerazione l'imputabilità del soggetto, rilevante per il giudizio di colpevolezza. In quest'ottica, per le circostanze di esclusione della pena, la dottrina ha proposto la denominazione di esimenti; si tratta, in particolare, di una categoria che, a sua volta, è suscettibile di essere suddivisa nei seguenti gruppi: • ad un primo gruppo di ipotesi corrisponde la tradizionale categoria delle ed. cause di giustificazione, di cui agli artt. 50-54 c.p.; • ad un secondo gruppo può, invece, riservarsi la denominazione di scusanti, nella cui categoria si fanno rientrare quelle situazioni in cui la non punibilità si giustifica sulla base dell'inesigibilità della pretesa normativa (si pensi, ad es., alla scusante di cui all'art. 384 c.p., prevista a favore di chi commette falsa testimonianza al fine di salvare un prossimo congiunto da un grave nocumento nella libertà); • un terzo gruppo di ipotesi ricomprende, infine, quei casi in cui il criterio della non punibilità appare essenzialmente collegato a valutazioni di ordine politico-criminale (si parla, in tal caso, di limiti istituzionali della punibilità): si pensi, ad es., all'esimente di cui all'art. 627, co. 2 c.p., che dichiara non punibile la sottrazione di cose comuni in danno del coerede, se il fatto è commesso su cose fungibili, il cui valore non ecceda la quota spettante all'autore. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. Il problema del fondamento delle cause di giustificazione Gli artt. 50 (consenso dell'avente diritto), 51 (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), 52 (difesa legittima), 53 («so legittimo delle armi), nonché 54 (stato di necessità) c.p. riflettono, in modo puntuale, il modello della causa di giustificazione. È necessario sottolineare, però, che se vi è sufficiente accordo, in dottrina, per ciò che concerne l'individuazione della rilevanza che accomuna queste ipotesi sotto il profilo degli effetti normativi, una eguale concordanza (in dottrina e in giurisprudenza) non si ritrova, invece, in relazione al fondamento della non punibilità (ricavabile dalle stesse ipotesi): anzi, proprio in rapporto a quest'ultimo elemento, bisogna specificare che la dottrina prevalente contesta, in radice, la stessa possibilità di operare una ed. reductio ad unum. A questa conclusione, molto probabilmente, la dottrina è pervenuta in virtù del fatto che il preteso fondamento unitario delle cause di giustificazione è stato da sempre racchiuso in formule disparate: invero, si è partiti dall'idea del perseguimento di uno scopo giuridicamente approvato attraverso un mezzo adeguato, si è passati per la regola della prevalenza del vantaggio sul danno e si è giunti al criterio del bilanciamento degli interessi in conflitto. Tuttavia, le formule menzionate (al di là del loro indiscutibile valore ontologico) non sembrano in grado di risolvere il problema in esame (quello, cioè, di individuare il fondamento unitario delle cause di giustificazione), dal momento che ognuna di esse esprime, a ben vedere, una realtà parziale: proprio per questa ragione, se proprio si vuole rinvenire un principio comune alle diverse cause di giustificazione, si rende, allora, necessario uscire dall'ottica della ricerca di un astratto principio regolativo e focalizzare, piuttosto, l'attenzione sul rapporto che intercorre tra la realizzazione del fatto tipico e l'instaurarsi della situazione descritta dalla norma permissiva. Soltanto se si ragiona in questi termini, infatti, diventa possibile rilevare un elemento che sembra accomunare tutte le ipotesi alle quali, tradizionalmente, si attribuisce la qualifica di cause di giustificazione; si tratta, più precisamente, di un dato che può essere espresso nei seguenti termini: il realizzarsi del diritto obiettivo passa necessariamente attraverso il compimento, da parte del soggetto agente, di un fatto preveduto dalla legge come reato. §4. Le singole cause di giustificazione a) il consenso dell'avente diritto (art. 50 c.p.) L'art. 50 c.p. stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne. Il fondamento di questa causa di giustificazione viene generalmente individuato nel venir meno dell'interesse, da parte dell'ordinamento, alla tutela di un bene giuridico, alla cui integrità lo stesso titolare non mostra di avere interesse: si pensi, ad es., al caso in cui Tizio presti il proprio consenso alla distruzione di un piccolo manufatto di sua proprietà, affinché Caio possa raggiungere con un escavatore il suo fondo, allo scopo di eseguire dei lavori; si pensi, ancora, al caso in cui Sempronio consenta a un ricercatore di inoculargli il virus del raffreddore, allo scopo di studiare le capacità di immunizzazione di questo procedimento. È bene precisare, però, che le ipotesi del consenso giustificante non devono essere confuse con quelle ipotesi nelle quali, invece, il consenso esclude, in radice, la tipicità dello stesso fatto: così, ad es., l'art. 614 c.p. incrimina la condotta di chi si introduce nell'abitazione altrui contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di escluderlo; ciò significa, dunque, che, nell'ipotesi dell'ospite gradito, che si reca a casa Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com dell'amico al fine di fargli visita, non v'è alcun bisogno di ricorrere all'art. 50 c.p., perché non vi è una condotta tipica (penalmente rilevante) da giustificare. Per quel che riguarda, invece, la validità del consenso, va sottolineato che questo (il consenso) deve essere prestato dal titolare dell'interesse protetto: in particolare, deve trattarsi di un soggetto avente la ed. capacità naturale e, cioè, sufficiente maturità di giudizio per valutare la lesione dei beni a cui presta il suo assenso (tuttavia, non va dimenticato che, in determinati casi, può essere richiesta anche una specifica capacità di agire: così, ad es., per la lesione dei diritti patrimoniali è necessario che il titolare del bene abbia compiuto il diciottesimo anno di età); il consenso deve essere, inoltre, prestato liberamente e, com'è ovvio, deve essere immune da errore. A ogni modo, va tenuto presente che l'efficacia del consenso giustificante dipende dal carattere disponibile del diritto: di regola, sono disponibili i diritti patrimoniali e i diritti riguardanti la sfera della personalità, quali, ad es., l'onore e la riservatezza (rispetto alla lesione di questi ultimi beni, tuttavia, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che il consenso non ha efficacia qualora abbia ad oggetto il sacrificio totale del bene tale sarebbe il caso di chi accettasse, ad es., di essere segregato in eterno nella sua stanza dai familiari). Indisponibile è, invece, il bene della vita e questo lo si può desumere sia sulla base degli artt. 579 e 580 c.p. (che disciplinano, rispettivamente, l'omicidio del consenziente e l'istigazione al suicidio) e sia, indirettamente, dall'art. 5 ce, il quale vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che siano in grado di cagionare una diminuzione permanente dell'integrità fìsica. Il consenso deve sussistere nel momento in cui il fatto viene commesso; esso, però, può anche essere tacito, cioè desumibile con certezza da un comportamento univoco del titolare del diritto (ed. facta concludentia): in questo caso, si parla anche di consenso presunto, il quale è, a sua volta, suscettibile di essere suddiviso in due sottogruppi: • nel primo si fanno rientrare tutte le ipotesi in cui, pur mancando il consenso nel momento in cui si svolge l'azione, si può presumere ragionevolmente che, se l'avente diritto fosse stato in condizioni di poter decidere, avrebbe, senza dubbio, prestato il suo consenso (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio si introduca nell'abitazione vuota del vicino, allo scopo di spegnere un incendio); • nel secondo, invece, si fanno rientrare tutti quei casi in cui il consenso si presume esistente perché non sembra esservi un interesse dell'avente diritto (è questo, ad es., il caso della moglie che decida di regalare gli abiti che il marito non indossa più a un mendicante, in forza di un'azione consuetudinaria). b) l'esercizio di un diritto (art. 51 c.p.) L'art. 51 c.p. stabilisce che l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. Ora, per quel che riguarda l'esercizio di un diritto (ma lo stesso discorso vale anche per l'adempimento di un dovere) l'antigiuridicità del fatto resta qui esclusa in virtù del principio di non contraddizione, in forza del quale l'ordinamento non può riconoscere l'esistenza di un diritto e, al tempo stesso, sanzionare penalmente le condotte in cui lo stesso si concreta. Diritto, nel senso dell'art. 51 c.p., è qualsiasi potere giuridico di agire: di conseguenza, vi si fanno rientrare i poteri degli organi pubblici, i diritti soggettivi (e, a determinate condizioni, gli interessi legittimi), le potestà (ad es., la potestà dei genitori), i ed. diritti potestativi e le mere facoltà giuridiche (ad es., la facoltà di arresto da parte dei soggetti privati nei casi previsti dall'art. 383 c.p.p.). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Detto ciò, per comprendere appieno la causa di giustificazione in esame è opportuno richiamare un concetto essenziale: quello, cioè, della prevalenza delle norme permissive sulle norme incriminatrici. In particolare, questa prevalenza riposa sul ed. principio di specialità, in applicazione del quale la fattispecie giustificante si configura come una ipotesi specializzante rispetto alla norma che prevede il reato. Tuttavia, nell'ambito dell'esercizio di un diritto sarà necessario stabilire se, in concreto, non sia piuttosto la norma penale incriminatrice ad apportare una limitazione al diritto in questione e a configurarsi, dunque, come norma speciale rispetto a quella che attribuisce il diritto (in tal caso, infatti, sarebbe la norma incriminatrice a prevalere su quella permissiva): così, ad es., l'art. 896 ce. attribuisce al proprietario il diritto di tagliare le radici degli alberi del vicino che si addentrino sul suo fondo; ora, è chiaro che il taglio delle radici corrisponde a un'ipotesi di danneggiamento, punibile ex art. 635 c.p.; in questo caso, però, essa si configura come un'ipotesi speciale di danneggiamento e, di conseguenza, la relativa condotta risulterà giustificata ai sensi dell'art. 896 ce. Per contro, invece, l'art. 423, co. 2 c.p., nel punto in cui prevede come reato l'incendio di cosa propria, che cagioni un pericolo per la pubblica incolumità, configura esso un'ipotesi speciale rispetto a quella che garantisce al proprietario il potere di disporre in modo pieno ed esclusivo delle cose che gli appartengono, così come stabilito ex art. 832 ce (il divieto contenuto nell'art. 423 c.p. prevale, quindi, sull'esercizio del diritto di proprietà). Infine, occorre precisare che la problematica dell'esercizio del diritto si manifesta con particolari caratteristiche quando si tratta dell'esercizio di un diritto riconosciuto a livello costituzionale; in tal caso, trovano applicazione due principi fondamentali: • la norma di legge ordinaria non può prevalere sulla norma costituzionale, almeno non nel senso di eliderne del tutto il valore precettivo (è questo il caso, ad es., della disposizione contenuta nell'art. 502 c.p., che prevedeva come reato lo sciopero a fini contrattuali; articolo non a caso abrogato dalla Consulta per manifesta incompatibilità con l'art. 40 Cost.); • l'esercizio di un diritto riconosciuto a livello costituzionale non è, tuttavia, senza limiti, perché esso deve essere contemperato con la tutela di altri diritti riconosciuti dalla stessa Costituzione (così, ad es., il diritto di cronaca giornalistica, riconosciuto ex art. 21 Cost., trova il proprio limite nell'esigenza di tutelare l'onore e la dignità della persona, quali valori di pari rango costituzionale). c) l'adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) All'esercizio di un diritto, l'art. 51 c.p. affianca, nell'effetto di escludere la punibilità del fatto, l'ipotesi dell'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità. In tal caso, dunque, la fonte del dovere di agire può essere una norma giuridica (cioè una legge o una norma di rango inferiore alla legge) o un ordine legittimo dell'autorità pubblica, laddove l'inciso ordine deve essere inteso nel significato di manifestazione di volontà che un supcriore gerarchico rivolge a un inferiore. È bene precisare, però, che tra il superiore e l'inferiore deve sussistere un rapporto di subordinazione di diritto pubblico: ciò significa che l'ordine deve provenire da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un esercente servizi di pubblica necessità. L'ordine, inoltre, deve essere legittimo non solo sotto il profilo formale, ma anche sotto il profilo sostanziale: in quest'ottica, si può dire che l'ordine è formalmente legittimo se il superiore è competente a emanarlo, l'inferiore è competente ad eseguirlo e se vi è stato il rispetto delle forme prescritte dalla legge (così, ad es., sarebbe formalmente Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com illegittima un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal pubblico ministero ovvero comunicata solo oralmente all'organo di polizia giudiziaria competente). La legittimità sostanziale dell'ordine dipende, invece, dall'esistenza dei presupposti di fatto o di diritto previsti ex lege (così, richiamando l'esempio di cui sopra, l'ordinanza di custodia cautelare presuppone l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del catturando). d) la difesa legittima (art. 52 c.p. modificato dalla L. 59/2006) - premessa L'art. 52 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui, contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa. Da un punto di vista ontologico, la non punibilità delle azioni commesse in stato di legittima difesa trova il proprio fondamento in due caratteri essenziali: • il primo si radica nel diritto di autotutela del singolo (si tratta di un principio che ha trovato eco in una remota sentenza della Cassazione - 1941 -, all'interno della quale il Supremo Collegio ebbe a precisare che la difesa individuale del diritto, proprio o altrui, contro una violenza attuale e ingiusta è legittima perché determinata dall'esigenza di evitare un danno irreparabile in un momento in cui la difesa dello Stato non può esercitarsi); • il secondo, invece, si radica nelle esigenze di difesa del diritto (nel senso che l'azione difensiva deve essere diretta a scongiurare un'aggressione che, qualora si realizzasse, comporterebbe la soccombenza del diritto dinanzi all'illecito). - I presupposti dell'azione difensiva legittima A norma dell'art. 52 c.p., versa in una situazione di legittima difesa chi viene a trovarsi nella condizione di dover agire per neutralizzare il pericolo attuale di una lesione di beni, derivante da un'aggressione che assuma il carattere dell'ingiustizia. Ora, onde poter determinare i requisiti della legittima difesa, è necessario, in primis, individuare l'ambito dei beni tutelabili attraverso l'azione difensiva. In quest'ottica, va precisato che la dottrina è incline ad assegnare al termine diritto, di cui all'art. 52 c.p., un'accezione alquanto estesa (coincidente, grossomodo, con la nozione di diritto soggettivo). Nella categoria dei beni suscettibili di tutela, perciò, vi si fanno rientrare: • i diritti elementari della persona (quali, ad es., il diritto alla vita, all'incolumità psicofìsica, alla libertà personale, all'immagine, alla riservatezza e all'inviolabilità del domicilio); • i diritti patrimoniali e tutti gli altri interessi giuridicamente tutelabili (a patto, però, che si tratti di interessi riconducibili alla tutela di un interesse individuale). Il secondo requisito (la cui presenza è essenziale per l'applicabilità dell'esimente in esame) è, invece, costituito dall'attualità del pericolo (da intendere, quest'ultimo, come probabilità di danno): così ragionando, si può affermare che: • non vi è attualità qualora il pericolo sia stato altrimenti scongiurato e, quindi, non è più esistente; • l'attualità del pericolo viene, altresì, a mancare nel caso in cui l'offesa sia stata ormai consumata (in tale ipotesi, infatti, non si potrebbe parlare di azione difensiva, bensì di azione punitiva o di ritorsione: si pensi, ad es., al caso in cui Tizio, avendo incontrato, per strada, Caio e avendolo riconosciuto come colui il quale, più volte, si è introdotto nel suo fondo abusivamente, lo percuota o lo ferisca). Ad ogni modo, per stabilire l'attualità del pericolo bisogna valutare l'utilità dell'azione difensiva in vista della salvaguardia del diritto minacciato; ciò significa, dunque, che l'intervento difensivo a tutela del bene attaccato (o minacciato) è ammissibile solo se lo Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com stesso appare idoneo ad impedirne la definitiva lesione: in quest'ottica, si può, ad es., giustificare l'uso della violenza nei confronti del ladro, già in possesso della cosa rubata, se questo può consentire il recupero della refurtiva. Per contro, l'intervento difensivo non è ammissibile quando il pericolo è così remoto da consentire il ricorso agli organi di pubblica sicurezza: si pensi, ad es., al caso di chi, avendo scorto delle persone sospette aggirarsi intorno alla sua abitazione, invece di limitarsi a richiedere l'intervento della polizia, decida di attaccarli. Intimamente connesso col requisito dell'attualità del pericolo è, poi, l'altro requisito della legittima difesa, vale a dire la nccessarietà dell'intervento difensivo: quest'ultimo, più precisamente, potrà dirsi necessitato solo qualora il compimento dell'azione tipica appaia come l'unica soluzione praticabile in quel momento. Ne consegue, allora, che il requisito della necessarietà dell'intervento difensivo non potrà trovare applicazione nel caso in cui all'agente si offrivano delle valide e praticabili alternative, rispetto al compimento del fatto tipico. Ed è proprio in questa chiave di lettura che dobbiamo affrontare il problema del ed. commodus discessus, locuzione con la quale la dottrina tende ad indicare quelle ipotesi nelle quali il soggetto avrebbe potuto sottrarsi al pericolo con la fuga: anche in casi del genere, però, va tenuto presente che la reazione difensiva resta del tutto valida e legittima, nel caso in cui la fuga, pur costituendo una concreta alternativa, avrebbe potuto esporre il soggetto aggredito a rischi analoghi o addirittura maggiori di quelli creati dall'aggressione; o anche a rischi diversi, ma comunque gravi (si pensi, ad es., al pericolo di un infarto), sia per lui che per i terzi (si pensi, ad es., ai passanti che potrebbero essere investiti, ove l'aggredito cerchi una precipitosa fuga in macchina). E bene chiarire, in ogni caso, che sussiste un vero e proprio obbligo di fuga nel caso in cui il pericolo di offesa provenga dall'azione inconsapevole di bambini o di incapaci. Da quanto detto, emerge, dunque, che l'esistenza di alternative valide, in luogo della reazione violenta, costituisce un limite tendenziale della legittima difesa, che viene tradizionalmente espresso con il riferimento alla inevitabilità della reazione difensiva. Occorre precisare che a questo criterio si rifa anche l'opinione (condivisa da dottrina e giurisprudenza) che esclude l'applicabilità della legittima difesa in presenza di una causazione volontaria del pericolo da parte del soggetto che si difende (si pensi, ad es., al caso di chi abbia determinato l'azione aggressiva con una grave provocazione): si ritiene, infatti, che in questa situazione venga meno o la necessità della difesa oppure l'ingiustizia dell'offesa (questa tesi, però, non può essere condivisa del tutto, perché non sempre si può dire che, in presenza di un pericolo volontariamente causato dal soggetto aggredito, venga a cadere la necessità della difesa o l'ingiustizia dell'offesa: si pensi, ad es., al caso della reazione del tutto sproporzionata alla provocazione altrui). E veniamo, così, all'ulteriore requisito per l'applicabilità dell'esimente in esame: ci riferiamo all'ingiustizia dell'offesa (o dell'attacco). Ora, in relazione a questo requisito, è opportuno segnalare che, in una brillante analisi del problema (Santamaria), è stato sottolineato che l'ingiustizia dell'attacco si configura ogni qualvolta l'offesa si presenti come un presupposto sufficiente per l'intervento degli organi di pubblica tutela, ai quali il privato si sostituisce, in via eccezionale, per l'incombenza della situazione di pericolo: questo significa che la rilevanza dell'ingiustizia dell'aggressione, ai fini del configurarsi di una reazione legittima, si desume dal fatto che, nella situazione data, gli organi di tutela pubblica avrebbero potuto e dovuto intervenire a scongiurare il pericolo (viene, in tal modo, richiamata la citata sentenza pronunciata nel 1941 dalla Cassazione). È bene precisare, comunque, che non potrà considerarsi contra jus (ingiusta) l'azione commessa, ad es., nell'esercizio di un diritto o di una facoltà legittima (compresa quella derivante da un consenso, nei termini fissati dall'art. 50 c.p.); e lo stesso discorso Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com vale anche per l'azione compiuta neh1'adempimento di un dovere (si pensi, ad es., all'arresto che sia compiuto nei casi in cui lo stesso è obbligatorio). L'ultimo requisito indispensabile per l'applicabilità della difesa legittima è costituito, infine, dalla proporzione tra offesa e difesa: questo giudizio di proporzionalità implica, in particolare, una valutazione concreta e globale, che tenga conto del valore dei beni in gioco, dei rapporti di forza tra aggredito e aggressore, delle modalità dell'attacco, dell'intensità dell'offesa, degli sviluppi dell'azione difensiva, della scelta dei mezzi di difesa che l'aggredito aveva a sua disposizione, del tempo e del luogo dell'azione. - il diritto all'autotutela in un privato domicilio (art. 52, co. 2 e 3 c.p.) L'art. 52 c.p. è stato di recente modificato dalla L. 59/2006, che ha aggiunto un co. 2, il quale stabilisce che, nei casi previsti dall'art. 614, co. 1 e 2 c.p., sussiste il rapporto di proporzione di cui al co. 1 del presente articolo, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati utilizza un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni, propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione. Questa disciplina viene, poi, estesa, ex co. 3 dell'art. 52, anche al caso in cui il fatto sia avvenuto in ogni altro luogo al cui interno si eserciti un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale. A ben vedere, con questa modifica (che ha ricevuto critiche unanimi da parte della dottrina, della giurisprudenza, della magistratura e dell'avvocatura), il legislatore ha introdotto un meccanismo di tipo presuntivo relativo al giudizio di proporzione: questo meccanismo presuntivo si attiva, invero, nel caso in cui il fatto si svolga in un luogo di privata dimora (o in luoghi equiparati), anche se (in apparenza) tale attivazione è subordinata al verificarsi di una serie di condizioni ulteriori (soprattutto quando la finalità difensiva non riguarda l'incolumità fisica, ma i beni). In realtà, però, appare opportuno sottolineare che il dichiarato intento del legislatore (rafforzare l'autotutela di coloro che subiscono aggressioni nel proprio domicilio o in luoghi a esso equiparati, dispensandoli dalla necessità di effettuare un bilanciamento degli interessi in conflitto) si è tradotto, in concreto, in una formulazione legislativa dalle potenzialità aberranti, dato che la nuova disposizione (per come è formulata) consente, ad es., al proprietario di sparare e uccidere il ladro (disarmato), il quale, sorpreso all'interno dell'abitazione o del negozio, allo scopo di assicurarsi una via di fuga, si lancia verso il proprietario per gettarlo a terra e scappare. Il vero problema risiede, quindi, nel fatto che la norma consente l'utilizzo di un'arma qualsiasi o di altro mezzo idoneo, senza che venga in alcuna considerazione la misura di quest'utilizzo: in questo senso, perciò, è senz'altro da apprezzare l'atteggiamento presentato dalla giurisprudenza, la quale (sin dalle prime applicazioni) ha cercato di neutralizzare le potenzialità aberranti della novella, cercando di limitarne gli effetti. E, tuttavia, anche se, in linea generale, quest'atteggiamento interpretativo può essere condiviso, non si può non notare, d'altra parte, che l'affidare le sorti applicative della norma in esame agli orientamenti oscillanti (per natura) della giurisprudenza non è affatto rassicurante: si auspica, perciò, un decisivo intervento da parte del legislatore. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com e) l'uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.) L'art. 53 c.p. dispone che, ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'Autorità. Dal testo di questa disposizione si possono desumere due cose: innanzitutto, occorre specificare che l'art. 53 c.p. è una scriminante propria, perché prevista a favore dei soli pubblici ufficiali; in secondo luogo, essa ha carattere sussidiario, perché può trovare applicazione solo nel caso in cui non risulti applicabile l'art. 51 o l'art. 52 c.p. Senonché, uno dei problemi applicativi dell'art. 53 c.p. è rappresentato proprio dalla difficoltà di riservare a questa norma un autonomo ambito di operatività: è chiaro, infatti, che il legislatore del 1930 aveva inteso, con l'art. 53 c.p., affermare con forza il principio della prevalenza del potere coercitivo pubblico sugli interessi individuali; e, tuttavia, da un punto di vista logico-sistematico, non si comprende, ancora oggi, il motivo per il quale il legislatore abbia avvertito l'esigenza di inserire nel codice una disposizione ad hoc, dato che gli artt. 51 e 52 erano già da soli idonei a legittimare, ad es., l'uso della forza pubblica per bloccare un catturando o per disperdere una folla in tumulto. Appare, pertanto, più che fondato il dubbio circa il fatto che, con l'art. 53 c.p., il legislatore abbia voluto soprattutto evitare di menzionare i requisiti di legittimità dell'operato del p.u. e della proporzione tra offesa e difesa, in modo tale da riservare alla norma un autonomo spazio rispetto a quello riservato agli artt. 51 e 52 c.p. E, però, interpretata in questo modo, la disposizione ex art. 53 c.p. dovrebbe essere ritenuta costituzionalmente illegittima, perché, in realtà, autorizzerebbe la lesione di diritti inviolabili della persona, anche al di fuori di ogni logica di proporzione tra mezzi e fini. In questa prospettiva, allora, dottrina e giurisprudenza hanno cercato di ricondurre l'esimente in esame nell'ambito dei princìpi propri del nostro ordinamento, offrendo una lettura restrittiva dei presupposti della giustificazione: si insiste, di conseguenza, sui requisiti della costrizione e della necessità dell'azione (proponendone una lettura molto simile a quella offerta in tema di legittima difesa). Si precisa, altresì, che l'arma (ovvero il diverso mezzo di coazione fisica) deve essere ricompresa nel novero di quelle con cui può essere adempiuto il dovere: ciò significa che l'esimente va riferita ai soli p.u. legittimati al porto di un'arma (per le finalità del proprio ufficio). Per ciò che riguarda, poi, l'aspetto relativo alle condotte di violenza (da respingere) o di resistenza (da vincere), la dottrina tende ad assimilare le ipotesi di comportamento in esame alle fattispecie delittuose descritte negli artt. 336 (violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale) e 337 (resistenza a un pubblico ufficiale) c.p. Per quel che concerne, invece, il carattere necessitato della condotta del p.u., va detto che esso viene inteso (in coerenza col principio di extrema ratio) come corrispondente ad una situazione in cui il p.u. non ha altra scelta, per compiere il proprio dovere, se non fare ricorso alle armi o ad altro mezzo di coazione fisica. Di conseguenza, molto controversa appare la possibilità di includere (tra le situazioni rilevanti per l'art. 53) la ed. resistenza passiva (ad es., il sit-in sui binari di una stazione ferroviaria) o la fuga; tuttavia, in relazione a tali ipotesi, la dottrina prevalente propende, comunque, per la soluzione positiva, ancorandola, però, al fondamentale requisito della proporzione: in quest'ottica, quindi, sia la resistenza passiva che la fuga potranno certo legittimare l'impiego della forza e, al limite, anche l'uso delle armi, purché tale utilizzo si ispiri a regole di cautela (così, ad es., contro un pericoloso latitante in fuga, il p.u. potrà anche esplodere colpi d'arma da fuoco, mirando, tuttavia, a parti del corpo non vitali; allo stesso modo, contro gli scioperanti distesi sui binari di una stazione potranno essere Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com utilizzati mezzi di coercizione, anche violenti, ma in ogni caso moderati, quali, ad es., idranti o sfollagente). È bene precisare, infine, che il legislatore, con l'art. 14 della L. 152/75, ha arricchito la disposizione in esame di ulteriori ipotesi: in particolare, si fa esplicito riferimento alla necessità di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, di disastro aviatorio, di disastro ferroviario, di omicidio volontario, di rapina a mano armata e sequestro di persona. A ben vedere, però, le ipotesi elencate sembrano riconducibili, se non proprio all'art. 52 c.p., almeno all'ambito della vecchia formulazione dell'art. 53 c.p., a meno che, con questa nuova disposizione, non si sia inteso anticipare l'intervento coercitivo del p.u. anche a un momento anteriore a quello dell'inizio di esecuzione di uno dei gravi delitti menzionati: ipotesi questa inquietante, qualora dovesse corrispondere a un'autentica licenza di uccidere, anche in presenza di meri atti preparatori (invero, chi compie atti preparatori è ben lungi dall'offendere il bene giuridico, per cui, sotto il profilo della prevenzione speciale, non potrebbe sostenersi che necessiti di risocializzazione colui che reagisca ad un attacco armato da parte della forza pubblica, scattato in presenza di meri atti preparatori; sul piano della prevenzione generale rileva, invece, il fatto che i consociati vedono esposta la loro stessa vita ad una possibile ed arbitraria decisione del p.u.). Quanto detto, ci fa comprendere, quindi, che la norma in esame è incompatibile con l'attuale sistema giuridico, perché è espressione di scelte autoritarie, ispirate a criteri di tipo repressivo (tipici dei regimi totalitari). f) lo stato di necessità (art. 54 c.p.) - Il fondamento dello stato di necessità e la relativa qualificazione dommatica Per l'art. 54 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se stesso o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. La disposizione in esame disciplina una particolare ipotesi di conflitto d'interessi: • da un lato, infatti, vi è un pericolo di lesione, che minaccia un interesse meritevole di tutela; • dall'altro lato, però, questo pericolo di lesione può essere evitato solo mediante il sacrificio di un altro interesse, egualmente meritevole di tutela. Dunque, rispetto alle altre cause di giustificazione, lo stato di necessità si differenzia per il fatto che questo conflitto di interessi non può essere inserito in uno schema di contrapposizione tra diritto ed illecito: così, mentre nella difesa legittima il pericolo di lesione per il bene (diritto) trova la sua fonte in un'azione ingiusta di un aggressore (illecito), nello stato di necessità, invece, il pericolo di lesione non solo può scaturire da eventi non direttamente ricollegabili ad una condotta umana (si pensi, ad es., a un evento naturale, come l'incendio causato da un fulmine), ma, a prescindere da quale sia la fonte del pericolo, può accadere che l'azione diretta ad impedire lo stesso vada, comunque, ad intaccare l'interesse di un terzo estraneo all'azione diretta a cagionare il pericolo di lesione (si pensi, ad es., a chi sia costretto a sfondare l'uscio di una casa altrui al fine di trovare riparo da una bufera di neve). In virtù di queste considerazioni, pertanto, è di tutta evidenza il fatto che il conflitto di interessi non può essere risolto facendo rientrare gli stessi (interessi) nell'ambito di diverse qualificazioni giuridiche. Nonostante ciò, la dottrina prevalente distingue, tradizionalmente, tra stato di necessità difensivo e aggressivo: lo stato di necessità si Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com dice difensivo quando la fonte del pericolo è riconducibile alla sfera giuridica del titolare dell'interesse che viene sacrificato (come, ad es., nel caso di chi provveda a demolire un manufatto del vicino, che minaccia di crollare, con pericolo per l'incolumità delle persone); lo stato di necessità si dice, viceversa, aggressivo quando il terzo, colpito nei suoi interessi, risulta estraneo alla situazione pericolosa, da cui nasce la necessità di agire (si pensi, ad es., al caso di chi trovi rifugio in un'abitazione altrui, allo scopo di mettersi in salvo da una tempesta). E bene precisare, in ogni caso, che la differenza tra le due ipotesi concerne essenzialmente il piano dei rapporti civilistici: infatti, l'art. 2045 ce. stabilisce che nel caso in cui il fatto dannoso sia commesso in stato di necessità, al danneggiato spetta un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice. Ed è proprio facendo leva sulla disposizione di carattere civilistico che, ancora oggi, una parte della dottrina ritiene che lo stato di necessità non debba essere annoverato tra le cause di giustificazione, bensì (a differenza delle altre ipotesi di non punibilità) tra le cause di esclusione della colpevolezza: ciò in quanto l'azione compiuta in stato di necessità non eliminerebbe, secondo quest'orientamento, il contrassegno antigiuridico del fatto. Questa conclusione, tuttavia, non può essere condivisa, perché, a ben vedere, essa si rifà essenzialmente alla concezione psicologica della colpevolezza: in altre parole, per i fautori della tesi su citata, l'azione commessa in stato di necessità si caratterizzerebbe per la presenza di una coazione psicologica tale da precludere all'agente la possibilità di autodeterminarsi. Ad ogni modo, anche se oggi la concezione psicologica della colpevolezza è del tutto superata, il dibattito circa il fondamento della non punibilità del fatto commesso in stato di necessità non è affatto venuto meno: tant'è che, mentre una parte della dottrina ha ritenuto di individuare questo fondamento nella impossibilità di esigere dall'agente una condotta rispettosa del precetto legislativo (risolvendosi, perciò, in un elemento negativo della colpevolezza), altra parte della dottrina ha, invece, individuato il fondamento della figura in esame nel principio del bilanciamento degli interessi in gioco (secondo quest'ultimo orientamento, cioè, si deve procedere ad una comparazione tra i beni in conflitto, in conseguenza della quale l'autore è chiamato ad effettuare un giudizio di prevalenza, in modo tale da dirigere l'azione, non antigiuridica, alla salvezza di uno dei due beni - il che comporta, di conseguenza, il sacrifico dell'altro). - Presupposti e limiti dello stato di necessità Lo stato di necessità presenta molte analogie con l'esimente della legittima difesa (in particolare, l'attualità del pericolo e la costrizione ad agire), ma diverge da essa in alcuni punti fondamentali: anzitutto, va tenuto presente che l'azione necessitata si rivolge verso un terzo estraneo e non contro l'autore dell'aggressione ingiusta; inoltre, mentre l'art. 52 c.p. richiama la necessità di salvare anche un diritto non attinente alla sfera della personalità, per l'art. 54 c.p., invece, ciò che rileva è soltanto il pericolo attuale di un danno grave alla persona. Si fa riferimento, in particolare, al pericolo di vita e a quello di gravi lesioni all'incolumità psicofisica; parte della dottrina vi include anche il pericolo attuale di lesione dei diritti inviolabili della persona (si pensi, ad es., allo stato di bisogno economico). Strettamente collegato all'attualità è, poi, il requisito della inevitabilità dello pericolo: più precisamente, inevitabilità del pericolo significa che nessun altro mezzo alternativo al compimento del fatto tipico (ed egualmente idoneo a scongiurare il pericolo) deve essere nella disponibilità dell'agente. Al riguardo, va precisato che la giurisprudenza, proprio facendo leva sul requisito dell'inevitabilità del pericolo, ha, in più occasioni, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com statuito l'irrilevanza del ed. stato di bisogno, in considerazione dell'esistenza di valide e concrete alternative messe a disposizione dall'organizzazione assistenziale: così, ad es., in relazione al problema riguardante il diritto all'abitazione, la Corte di cassazione ha ritenuto non giustificata, ex art. 54 c.p., l'occupazione di un edificio vuoto da parte di una famiglia priva di alloggio, perché nel caso concreto vi era l'effettiva e concreta possibilità di ottenere un alloggio corrispondente alle necessità del nucleo familiare. Tornando ai requisiti dell'esimente in esame, va, poi, specificato che il pericolo non deve essere stato volontariamente causato, perché se l'autore non ha subito l'alternativa, ma, al contrario, l'ha creata, la sua azione non potrà essere né scusata, né tanto meno giustificata: così, ad es., non potrà invocare l'esimente, ex art. 54 c.p., l'automobilista che, per aver imboccato una direzione vietata, sia costretto a effettuare una manovra di emergenza, produttiva di lesioni a terze persone. Il fatto commesso in stato di necessità, ex art. 54 c.p., deve essere, infine, proporzionato al pericolo: al riguardo, però, è bene precisare che il requisito della proporzione tra il fatto e il pericolo richiede una valutazione, per così dire, dinamica del valore dei beni in gioco. Per intenderci, quando il divario tra gli interessi in conflitto è alquanto elevato, l'azione sarà, di regola, giustificata: così, ad es., quando si tratti di salvare una vita umana mediante un'azione di danneggiamento (ad es., scardinare il cancello di una villa per trarre in salvo taluno in procinto di annegare in una piscina), l'azione sarà giustificata. Le cose, però, stanno in modo assai diverso ove i beni in gioco siano di pari importanza (così, ad es., il medico addetto a una macchina cuore-polmone, che decida di alterare l'ordine di priorità tra due pazienti, potrà essere giustificato, ex art. 54 c.p., soltanto se, da un lato, si aspettasse una morte imminente e, dall'altro lato, vi fossero rilevanti probabilità di sopravvivenza, affidate queste ultime all'uso tempestivo della macchina). - Limiti soggettivi all'applicabilità dell'esimente L'art. 54, co. 2 c.p. stabilisce che lo stato di necessità non può essere invocato dai soggetti che hanno un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo: è questo, ad es., il caso del vigile del fuoco, della guida alpina o dell'agente di pubblica sicurezza, i quali, infatti, non possono anteporre la propria incolumità personale ai doveri del proprio stato; e ciò in ragione del fatto che l'ordinamento pretende da costoro prestazioni adeguate all'addestramento e ai mezzi di cui li fornisce (attenzione: il limite della esigibilità non coincide, però, con la pretesa di prestazioni eroiche). - Lo stato di necessità detcrminato dall'altrui minaccia Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 54 c.p., qualora lo stato di necessità sia determinato dall'altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretto a commetterlo. L'ipotesi in esame prende il nome di costringimento psichico e si verifica nel momento in cui un soggetto viene costretto da un altro soggetto, mediante minaccia, a tenere un comportamento astrattamente antigiuridico: si pensi, ad es., all'automobilista che provoca un investimento, perché spinto a correre sotto la minaccia di una pistola. L'ipotesi del costringimento psichico, però, deve essere tenuta distinta da quella del costringimento fisico, ex art. 46 c.p.: questa norma, infatti, come sappiamo, comporta il trasferimento della responsabilità penale dall'autore materiale all'autore mediato del fatto, cioè a colui che ha l'effettiva signoria sul fatto. Nell'ipotesi di cui all'art. 54 c.p., invece, l'esecutore materiale del fatto (cioè, la persona minacciata) ne è, da qualsiasi punto di vista, anche autore, seppure non punibile: di conseguenza, il soggetto che ha Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com determinato la minaccia agisce qui come concorrente nel reato, assumendo il ruolo del ed. determinatore. §5. Ulteriori cause di giustificazione ed altre esimenti previste ex lege Oltre alle ipotesi descritte negli artt. 50-54 c.p., il nostro sistema disciplina altre cause di non punibilità (riconducibili allo schema delle cause di giustificazione), le quali si applicano, però, solo a determinate fattispecie di reato. In questa categoria possiamo, senz'altro, annoverare l'ipotesi prevista ex art. 242, co. 2 c.p., che dichiara non punibile il cittadino che, trovandosi nel territorio dello Stato nemico, porta le armi contro lo Stato italiano per esservi stato costretto da un obbligo impostogli dalle leggi dello Stato medesimo. Alla logica della giustificazione è, poi, riconducibile l'ipotesi prevista dall'art. 365, co. 2 c.p., il quale dichiara non punibile il sanitario che ometta il referto, nei casi in cui sarebbe obbligatorio, qualora esso esponga la persona assistita a procedimento penale. Fuori dal codice penale, invece, una speciale ipotesi di causa giustificazione è quella contenuta nell'art. 4 d.lgs.lt. 288/44, che esclude l'applicabilità delle disposizioni che incriminano i delitti di violenza e resistenza quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni. Un'ultima, interessante, novella legislativa si è registrata nel 2007 con l'introduzione della speciale causa di giustificazione ex artt. 17 e ss. L. 124/2007 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto): in particolare, l'art. 17 di tale legge dichiara non punibile il personale dei servizi di informazione per la sicurezza, che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate, di volta in volta, in quanto indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi. §6. Le scusanti: principi informatori e limiti di funzionamento Come già detto, nella categoria delle scusanti vanno annoverate tutte quelle ipotesi di parte speciale, ispirate al principio della non esigibilità della pretesa normativa: si pensi, ad es., all'art. 384 c.p., il quale prevede una scusante in favore di chi commetta falsa testimonianza, favoreggiamento o altri reati contro l'amministrazione della giustizia, al fine di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave pericolo nella libertà ovvero nell'onore. E nell'identica logica si inserisce anche l'ipotesi di non punibilità per ingiurie, ove il fatto sia commesso nello stato d'ira determinato dal fatto ingiusto altrui e nell'immediatezza di esso (si veda l'art. 599, co. 2 c.p.). Dagli esempi avanzati, emerge, così, con molta chiarezza la differenza che intercorre tra le cause di giustificazione e le scusanti: mentre, infatti, le prime fondano la loro ragion d'essere sulla prevalenza oggettiva di un interesse giuridicamente tutelato, le seconde, invece, radicano la propria validità su una prevalenza soggettiva, rilevante ai fini dell'esclusione della pena (ciò significa, in altri termini, che, nelle ipotesi prese in considerazione, l'ordinamento si preoccupa di individuare e positivizzare dei limiti soggettivi di esigibilità della pretesa normativa, che altrimenti sarebbe puntualmente non osservata. §7.1 limiti istituzionali della punibilità Al di fuori degli schemi propri delle cause di giustificazione e delle scusanti, vanno analizzate, infine, quelle ipotesi in cui la non punibilità rileva esclusivamente sotto un profilo, politico-criminale, di opportunità: esimenti di questo genere si rinvengono, ad es., nei citati artt. 627, co. 2 (che dichiara non punibile la sottrazione di cose comuni in Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com danno del socio o del coerede, se il fatto è commesso su cose fungibili, il cui valore non ecceda la quota spettante all'autore) e 649 c.p. (che dichiara non punibili i delitti non violenti contro il patrimonio del coniuge, di un ascendente o discendente, di un affine in linea retta, del fratello o della sorella che convivano con l'autore). Del resto, la particolarità del fondamento della non punibilità risalta, in relazione alle citate ipotesi, proprio da questa seconda norma (l'art. 649 c.p.), dal momento che la non punibilità trova qui giustificazione nel fatto che il soggetto agente compie il fatto all'interno del suo nucleo familiare. Ma, a ben vedere, anche l'ipotesi di cui all'art. 627, co. 2 c.p. è pervasa dallo stesso kit motiv: infatti, anche se, a prima vista, la ragione della non punibilità sembra risiedere nella mancanza di un pregiudizio economico, non può essere esclusa, in concreto, la sussistenza di un danno per il socio o il coerede (si pensi, ad es., ad un asse ereditario dal quale venga sottratto, anche se nei limiti della quota spettante all'autore, tutto il denaro contante). Se ne deduce, di conseguenza, che anche l'ipotesi di cui all'art. 627, co. 2 c.p. fa riferimento a un ambito (quello familiare) rispetto al quale l'ordinamento penale decide di non penetrare, onde evitare di rompere quei delicati equilibri, che ne costituiscono il substrato. §8. Aspetti problematici di alcune ipotesi di non punibilità Con l'espressione cause di giustificazione non codificate si intende far riferimento a una consuetudine interpretativa, che applica la ratio delle cause di giustificazione previste ex lege a situazioni apparentemente non ricomprese nella fattispecie giustificante; tra queste ipotesi ve ne sono, tuttavia, alcune che permangono alquanto problematiche, sia per quanto concerne la loro collocazione sistematica, sia per quel che riguarda i limiti della loro applicabilità. In questa prospettiva, particolarmente controversi appaiono i limiti entro i quali può esercitarsi, ad es., il ed. jus corrigendi di genitori, maestri ed educatori, nei confronti delle persone soggette alla loro autorità e vigilanza: il riconoscimento normativo di questa figura si ricava, in realtà, a contrario, dalla previsione di cui all'art. 571 c.p., il quale, incriminando l'abuso dei mezzi di correzione quando, dal loro esercizio, ne derivi il pericolo di una malattia o di una lesione personale, sembra lasciar desumere la liceità, al di fuori delle ipotesi incriminate, di un moderato esercizio dei mezzi di correzione. Controversa è anche l'efficacia dei ed. offendicula, cioè di quei mezzi predisposti a tutela della proprietà (ad es., filo spinato, recinzioni metalliche e cancelli sormontati da lance), che siano in grado di porre in pericolo l'incolumità di terzi: la collocazione di quest'esimente è da sempre in bilico tra l'esercizio del diritto e la difesa legittima (in particolare, è necessario tener presente che, se si opta per la configurabilità della legittima difesa, emerge l'idea della necessaria proporzione tra offesa e difesa: ragion per cui, non sarà, ad es., possibile che, a difesa di un fondo, si installi un dispositivo in grado di infliggere scariche elettriche mortali o comunque nocive). Problematica, infine, è anche la collocazione che concerne la liceità del ed. trattamento medico-chirurgico: la dottrina si rifa essenzialmente all'art. 51 c.p., essendo l'esercizio della professione sanitaria autorizzata dallo Stato; ma non si può certo qui negare il ruolo decisivo ricoperto dal consenso del paziente (allo stato attuale infatti, non v'è dubbio che, nei casi in cui l'attività chirurgica implichi un sicuro pregiudizio per la salute e l'integrità del corpo del paziente, ci troveremo di fronte ad un fatto di lesioni personali, che soltanto il consenso del soggetto passivo potrà giustificare). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §9. Le esimenti: la rilevanza oggettiva e il problema dell'elemento soggettivo L'art. 59, co. 1 c.p. stabilisce che le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti: da questa disposizione si evince, in altri termini, che le esimenti rilevano oggettivamente, cioè in virtù della loro esistenza, a prescindere dalla consapevolezza che l'agente ne abbia). Il co. 1 dell'art. 59 c.p. (nella sua formulazione originaria) conteneva, comunque, una specifica deroga, dal momento che faceva salvi i casi in cui la legge disponeva altrimenti: in particolare, si faceva riferimento alla scriminante della reazione agli atti arbitrari del p.u., per la cui configurabilità, infatti, era richiesta la sussistenza di stati psicologici (e, quindi, soggettivi). L'art. 1 L. 19/90 ha, tuttavia, soppresso l'inciso salvo che la legge disponga altrimenti: in questo modo, la rilevanza obiettiva delle esimenti, non trova più, nel nostro sistema giuridico, alcuna deroga. Attualmente, quindi, risulta difficile trovare la soluzione di quei casi in cui, nella struttura della esimente, sia presente un elemento di carattere soggettivo: si pensi, ad es., alfine di adempiere un dovere del proprio ufficio (ex art. 53, co. 1 c.p.) ovvero allo scopo scientifico o di cura (ex art. 728 c.p.) o, ancora, alla costrizione ad agire (artt. 52 e 54 c.p.). Ad ogni modo, è necessario considerare che, nonostante la novella entrata in vigore nel '90, per la giustificazione di un fatto tipico è assolutamente necessaria la presenza di requisiti soggettivi: ciò significa che il soggetto agente deve conoscere i presupposti della causa di giustificazione e deve agire per realizzare le specifiche finalità in essa contenute (così, ad es., in relazione al tema della legittima difesa, il soggetto agente deve conoscere la sussistenza della situazione giustificante, l'attualità di un pericolo di un'offesa ingiusta e deve agire con la volontà di difendersi). Queste conclusioni sono obbligate, dal momento che, laddove sussistano circostanze oggettivamente giustificabili, ma l'agente non ne sia a conoscenza, egli agisce per la realizzazione di un evento che, nella sua mente, è disapprovato dall'ordinamento: si faccia il caso, ad es., di uno spietato killer, che uccida due individui in uniforme da poliziotto, ritenendo che stiano per arrestarlo, mentre in realtà si tratta di persone incaricate, a loro volta, di eliminarlo (in questo caso, l'agente respinge, senza dubbio, un'aggressione alla sua vita, ma non è certamente animato da intenti difensivi, nel senso evocato dall'art. 52 c.p.). §10. L'eccesso colposo e il fatto colposo giustificato L'art. 55 c.p. stabilisce che quando, nel commettere taluno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell' Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Queste ipotesi corrispondono alla figura del ed. eccesso colposo, per la cui applicabilità è necessario: • che ricorrano i presupposti oggettivi di una causa di giustificazione; • che l'autore agisca nella consapevolezza di realizzare una condotta corrispondente a quella descritta nella norma permissiva; • che egli cagioni una lesione di beni più grave di quella funzionale alla realizzazione del fine contemplato nella norma; • che tale eccesso possa essergli addebitato a titolo di colpa (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio, nel reagire a un tentativo di rapina, compiuto da una persona disarmata, lo colpisca con un bastone, usandolo, però, con energia eccessiva, così da cagionare all'aggressore lesioni gravissime: in tal caso, l'agente agisce sì per uno scopo tutelato Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com dall'ordinamento giuridico, ma, per eccesso di precipitazione, si comporta in modo oggettivamente non appropriato alla situazione di fatto). Le ipotesi dell'eccesso colposo non vanno, però, confuse con le ipotesi concernenti il ed. fatto colposo giustificato: • l'eccesso, infatti, presuppone un'azione intenzionalmente diretta a cagionare una lesione di beni che, però, nei risultati appare sproporzionata, a causa di un'erronea valutazione della situazione di fatto; • viceversa, nel fatto colposo giustificato, l'azione non mira a cagionare una lesione di beni, ma la crea per la violazione della diligenza oggettiva (ad es., Tizio., aggredito da Caio, armato di coltello, estrae una pistola, e dall'arma, maldestramente impugnata, parte un colpo che ferisce o uccide Caio). Sezione IV La colpevolezza Capitolo I Funzioni e limiti del concetto di colpevolezza SI. Nozione di colpevolezza Dal punto di vista giuridico-penale, affinché si possa affermare la responsabilità di un soggetto, è indispensabile che allo stesso sia possibile rimproverare la commissione di un fatto illecito: proprio per questa ragione, si è soliti affermare che la colpevolezza è rimproverabilità. Beninteso, ai fini che qui interessano, il rimprovero in esame è un rimprovero giuridico, non morale: ciò significa che, sotto il profilo del diritto penale, ai fini del giudizio di colpevolezza, ciò che bisogna prendere in considerazione è il fatto che l'autore si è deciso a commettere l'illecito, nonostante fosse in grado di agire in modo conforme alle pretese normative positivizzate dal legislatore. Da quanto detto, pertanto, se ne deduce che i problemi della colpevolezza non vanno ad intaccare l'ambito del dover essere dell'agente, ma riguardano solo l'ambito della sua capacità personale e quello delle sue concrete possibilità di scegliere tra il diritto e l'illecito. Ora, sotto un profilo formale, con l'inciso colpevolezza si è soliti indicare l'insieme dei requisiti di ordine soggettivo, in base ai quali è possibile affermare la responsabilità di uno specifico autore, in relazione alla commissione di un fatto tipico ed antigiuridico. Da un punto di vista sostanziale, invece, l'oggetto, i contenuti e i limiti del giudizio di colpevolezza sono condizionati dagli scopi che ogni ordinamento assegna al diritto penale: se ne deve dedurre, perciò, che tali elementi risultano influenzati, in modo determinante, dai connotati ideologici e culturali dell'ordinamento di riferimento. A ogni modo, non v'è dubbio che tutti i sistemi penali più avanzati siano saldamente imperniati sul ed. principio di colpevolezza: sull'idea, cioè, che la colpevolezza individuale dell'autore costituisca un presupposto essenziale per l'applicazione della pena. §2. Il principio di colpevolezza: gli orientamenti della dottrina Nonostante il superamento della concezione retributiva della pena, ancora oggi il principio di colpevolezza continua a spiegare la sua efficacia e validità all'interno del nostro ordinamento giuridico; ciò dipende essenzialmente dalla circostanza che, nel linguaggio della vita quotidiana, ciascuno di noi sa cosa vuol dire quando afferma che taluno ha colpa o non ha colpa di qualcosa. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Va detto, tuttavia, che il motivo della persistente validità (e dell'irrinunciabilità) del principio di colpevolezza emerge anche dalla constatazione dei progressi, di cui il diritto penale gli è debitore; e, infatti: • l'elaborazione del principio di colpevolezza è alla base della formulazione di criteri d'imputazione soggettiva sempre più precisi, che hanno comportato il superamento delle ipotesi di responsabilità fondate sulla causazione dell'evento (ed. responsabilità oggettiva); • l'elaborazione del principio di colpevolezza ha consentito di attribuire rilevanza al ed. errore inevitabile sul divieto; • soltanto facendo affidamento sull'idea di colpevolezza è possibile comprendere il particolare rapporto tra dolo e imputabilità; • l'idea di colpevolezza è, infine, un criterio indispensabile per graduare la misura della pena. Ovviamente, nella prospettiva attuale, il ruolo della colpevolezza non può più essere quello di fondare la necessità di una pena, come avveniva nell'ambito della concezione retributiva; a quest'ultima, nel suo collegamento con la colpevolezza dell'autore, era riconosciuta la funzione di costituire un limite all'intervento punitivo statuale: non a caso, la retribuzione di colpevolezza non consentiva la possibilità di infliggere una pena né in assenza di colpevolezza, né in misura superiore all'entità della stessa colpevolezza. Queste considerazioni hanno, pertanto, indotto parte della dottrina (Roxin) a tentare un'operazione di recupero del semplice concetto di colpevolezza, sciogliendolo dai suoi legami con la retribuzione e per utilizzarlo, da un lato, come limite al potere punitivo statuale e, dall'altro lato, come un valore di ordine preventivo, sia speciale che generale. In dettaglio: • sotto il profilo special-preventivo, la presenza del concetto di colpevolezza elimina il rischio degli effetti desocializzanti, che potrebbero scaturire in seguito all'inflizione di una pena eccessiva, la quale sarebbe avvertita dal reo come un'ingiustizia; • sotto il profilo general-preventivo, invece, la presenza del concetto di colpevolezza contribuisce, senza dubbio, a stabilizzare la coscienza giuridica generale, in quanto la comunità avvertirà l'inflizione della sanzione come giusta, perché delimitata dalla colpevolezza per il fatto. Detto ciò, è importante a questo punto sottolineare che la dottrina contemporanea (in particolare, Moccio) nutre notevoli dubbi circa la reale validità e utilità di un concetto di colpevolezza, in ragione del fatto che, se si depura il concetto di colpevolezza dai suoi legami originari con la retribuzione, gli si lascia, a ben vedere, la sola funzione (fondamentale) di garantire la proporzione della pena con il fatto commesso da un soggetto imputabile. Pertanto, alla luce di quest'osservatone, appare opportuno procedere ad una sostituzione di questo concetto alquanto astratto di colpevolezza con un concetto più concreto di proporzionalità, che, unitamente all'esigenza di soddisfare le istanze di prevenzione, andrebbe ad agire all'interno di una rinnovata terza categoria del reato, denominata responsabilità personale: quest'ultima, a sua volta, secondo l'orientamento del Moccia, potrebbe essere definita come l'insieme dei presupposti che rendono possibile un giudizio su di un soggetto, a causa della commissione di un fatto tipico ed antigiuridico. Di conseguenza, in questa nuova categoria rientrerebbero, una volta recuperato dalla colpevolezza il solo aspetto della proporzione, sia il fatto dell'imputabile che quello del non imputabile, che già attualmente dovrebbero essere valutati secondo criteri di proporzione e in un'ottica di prevenzione. In questo contesto, perciò, l'imputabilità diverrebbe, insieme all'intensità del dolo e al grado della colpa, uno degli oggetti del giudizio di responsabilità penale: essa, cioè, andrebbe valutata non Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com per ammettere o escludere la punibilità, ma per adeguare il trattamento sanzionatorio al singolo reo (imputabile o meno). Come detto, questo è l'orientamento del Moccia; al contrario, ad avviso di chi scrive (Fiore) l'imputabilità rappresenta il presupposto della colpevolezza e corrisponde alla capacità di intendere e di volere, ex art. 85 c.p. Capitolo II Il principio di colpevolezza nella prospettiva costituzionale §1. L'articolo 27, comma 1 della Costituzione e la sentenza 364/88 Il riconoscimento di una fattispecie soggettiva accanto ad una fattispecie oggettiva ha evidenziato come il solo disvalore di evento (cioè, l'offesa in termini causali al bene giuridico), nonostante rivesta un ruolo essenziale, non può essere, da solo, oggetto del divieto penale; al contrario, esso deve essere accompagnato anche dal disvalore di azione, che scaturisce dalla struttura dolosa o colposa della condotta: ed è proprio questa l'acquisizione fondamentale della concezione personale dell'illecito penale, che trova un'esplicita conferma normativa nell'art. 27, co. 1 Cost., ove si stabilisce, infatti, che la responsabilità penale è personale. In questa prospettiva, del resto, anche la Consulta, con sent. 1085/88, ha ribadito con chiarezza la necessità dell'attribuibili tà psicologica, ai fini dell'attuazione del dettato costituzionale: i giudici hanno, infatti, affermato che, perché l'art. 27, co. 1 Cost. sia effettivamente rispettato e la responsabilità sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano collegati oggettivamente all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa). Non solo: sempre la Consulta, in una precedente e storica sentenza (la n. 364 del 1988 (relativa al tema della scusabilità dell'ignorantia juris), aveva affermato che gli elementi più significativi della fattispecie (cioè quegli elementi aventi la funzione di definire il disvalore ai fini della legge penale) non possono non essere coperti almeno dalla colpa dell'agente (cioè, dalla presenza di uno specifico titolo di imputazione soggettiva). È bene precisare, però, che secondo una parte della dottrina, il co. 1 dell'art. 27 Cost., interpretato nel senso della necessaria presenza del dolo e della colpa ai fini della realizzazione di un reato, va inteso come espressione della costituzionalizzazione del principio di colpevolezza o anche del fatto proprio colpevole: si sottolinea, infatti, che, se per fondare il rimprovero di colpevolezza è necessaria la realizzazione di un fatto connotato almeno dalla colpa del soggetto agente, non potrà parlarsi di colpevolezza nell'ipotesi in cui il fatto sia imputato sulla base del solo nesso di causalità. Chiaramente, questa lettura della norma costituzionale soddisfa in pieno le esigenze di garanzia formale e sostanziale che caratterizzano un ordinamento, come il nostro, ispirato ai princìpi dello stato sociale di diritto; e, tuttavia, esso, secondo altra parte della dottrina, sembra provare anche troppo: invero, da un punto di vista dogmatico e politico-criminale, appare più opportuno interpretare il fondamentale principio ex art. 27, co. 1 nel significato di responsabilità per fatto proprio, senz'altra qualificazione (in tal senso, dunque, la proprietà del fatto va intesa nel significato dell'attribuibilità sia fisica che psicologica: connotati che, come detto, costituiscono una caratteristica qualificante del fatto tipico). Analizziamo in dettaglio quanto detto finora. In seguito alla sent. 364/88, attraverso la quale la Corte costituzionale ha introdotto il principio della parziale scusabilità dell'ignorantia juris, si è parlato, in dottrina, di restaurazione del principio di colpevolezza; e ciò sulla base del riconoscimento, da Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com parte della stessa Corte, della necessità della presenza di dolo o colpa ai fini della realizzazione del principio di cui all'art. 27, co. 1 Cost. Tuttavia, ad avviso del Moccia, la presenza del requisito soggettivo, in realtà, viene dalla Consulta intesa, innanzitutto, nella sua funzione tipicizzante: si legge, infatti, in un passo della sentenza in esame, che il fatto dell'agente va costituzionalmente inteso in un'accezione larga e non in quella, riduttiva, d'insieme di elementi oggettivi; per questo motivo, prosegue la Corte, la tipicità, oggettiva e soggettiva, costituisce il primo, nonché necessario presupposto della punibilità ed è distinta dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso (in termini, cioè, di colpevolezza). In virtù di queste considerazioni è, pertanto, possibile affermare che, ai fini di un riconoscimento del principio di colpevolezza, la necessità della presenza, nel fatto tipico, di dolo e colpa non costituisce l'argomento decisivo: è, infatti, evidente che per il giudizio di colpevolezza devono essere presenti dolo o colpa (o meglio un fatto doloso o un fatto colposo), perché senza di essi mancherebbe proprio l'oggetto del giudizio di colpevolezza; questo dato, però, da solo, non è sufficiente. Invero, bisogna notare che, ai fini del riconoscimento del principio di colpevolezza, ciò che appare decisivo è, viceversa, il dato fornito dalla valorizzazione della coscienza dell'illiceità, attraverso la rilevanza dell'errore scusabile su di essa: rilevanza che, prima della sent. 364/88, era negata dalla presunzione assoluta di conoscenza della norma penale, sancita nella versione originaria dell'art. 5 c.p. Se ne deduce, perciò, che la Corte riconosce la validità del principio di colpevolezza non perché ritiene necessaria la presenza di dolo o colpa ai fini dell'attribuzione della responsabilità (tutto ciò appartiene, anzitutto, alla problematica concernente il fatto tipico), ma perché, con la parziale scusabilità dell'errar juris, la Corte introduce il requisito della coscienza dell'illiceità ai fini della responsabilità penale. Ma, a questo punto, dal momento che anche il non imputabile, che compie un errore scusabile sul precetto, va scusato (è questo il caso del soggetto non imputabile che agisca, ad es., in una situazione di eccesso nella legittima difesa), appare preferibile, anche sotto questo profilo, optare per un superamento del principio di colpevolezza, legato indissolubilmente al presupposto dell'imputabilità, per un concreto principio di responsabilità personale che comprenda il fatto, sia doloso che colposo, antigiuridico di un qualunque agente, a prescindere dalla sua imputabilità. §2. Responsabilità per fatto proprio e responsabilità oggettiva L'interpretazione del principio della personalità della responsabilità penale nel senso di responsabilità per fatto proprio comporta, tra le altre cose, che l'attribuzione di un fatto a titolo di responsabilità oggettiva viola il principio di colpevolezza, ma sul piano logico, è ancor prima violatrice del principio di tipicità. In quest'ottica, dunque, la costituzionalizzazione del principio della responsabilità per fatto proprio implica il ripudio di tutte le ipotesi di ed. responsabilità oggettiva: di quelle ipotesi, cioè, basate sul mero rapporto di causalità materiale, tra condotta ed evento, in assenza di uno specifico elemento psichico (dolo, colpa ovvero preterintenzione), in linea con quanto disposto ex art. 42, co. 3 c.p., il quale, infatti, stabilisce che la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione. È bene precisare, però, che, in un primo tempo, la Corte, in un'interessante sentenza del 1957, aveva dichiarato la legittimità costituzionale della responsabilità oggettiva, affermando che l'art. 27, co. 1 Cost. contiene solo un tassativo divieto della responsabilità per fatto altrui: quest'ultima, in particolare, si contrassegnava per l'estensione della responsabilità a persone ovvero a gruppi di persone estranee al reato e Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com diverse dal colpevole (più precisamente, si faceva riferimento alle pene collettive, alle decimazioni avvenute durante l'ultimo conflitto e ad alcune disposizioni emanate tra il '44 ed il '46, che prevedevano la confisca dei beni, sanzione che colpiva anche la famiglia del reo). L'orientamento della Consulta ha ricevuto, tuttavia, una svolta epocale nella storica sentenza 364/88: qui la Corte, infatti, facendo proprio il punto di vista unanime della dottrina, ha stabilito che, con il carattere personale della responsabilità penale, l'art. 27, co. 1 Cost. esprime non tanto l'esclusione della responsabilità per fatto altrui, ma anche della responsabilità oggettiva, perché è necessario non solo che il fatto sia opera di chi lo ha commesso, sotto il profilo causale, ma anche dal punto di vista dcll'attribuibilità psicologica. Questa conclusione trova conferma nella stessa sentenza 364/88, dal momento che la Corte, collegando in modo significativo il co. 1 dell'art. 27 Cost. con il co. 3 della stessa disposizione (ove si stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato), ha avuto modo di precisare che la funzione rieducativa della sanzione penale presuppone almeno la colpa dell'agente, con riferimento agli elementi più significativi della fattispecie; non avrebbe altrimenti senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa rispetto olfatto, non ha certo bisogno di essere rieducato. Va tenuto presente, in ogni caso, che la citata sent. 364/88 ha anche introdotto talune precisazioni, che sembrano delimitare solo ad alcune ipotesi il divieto costituzionale di prevedere forme di responsabilità oggettiva: la Corte, infatti, ha distinto i casi in cui il risultato vietato dal legislatore non è sorretto da alcun coefficiente psichico (che sono definiti casi di responsabilità oggettiva pura) da quelli in cui un solo elemento del fatto non è coperto dal dolo o dalla colpa dell'agente; ed è in relazione a questa seconda serie di ipotesi (definite di responsabilità spuria), che la Corte ha escluso esplicitamente che il co. 1 dell'art. 27 Cost. contenga un tassativo divieto di responsabilità oggettiva (con la conseguenza che in queste situazioni si dovrebbe stabilire, di volta in volta, quali sono gli elementi più significativi della fattispecie, che non possono non essere coperti almeno dalla colpa dell'agente, al fine di non incorrere nella violazione dell'art. 27, co. 1 Cost., nella parte relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto). Per poter far ciò, è necessario, però, decifrare l'esatto significato dell'inciso elementi più significativi della fattispecie; e la risposta al quesito ce l'ha fornita, ancora una volta, la Consulta nella sent. 1085/88: in questa fondamentale pronuncia, infatti, i giudici, chiamati a decidere sulla legittimità costituzionale dell'art. 626 c.p. (furto d'uso: figura che ricorre quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, cosicché la stessa, dopo l'uso momentaneo, è stata restituita), hanno dichiarato costituzionalmente illegittima la norma in esame, nella parte in cui non estende la disciplina del furto d'uso alle ipotesi di mancata restituzione, dopo il momentaneo utilizzo, della cosa sottratta, quando la mancata restituzione sia dovuta a caso fortuito o a forza maggiore (ad avviso della Corte, infatti, la restituzione della cosa costituisce elemento essenziale della fattispecie di furto d'uso; ma altrettanto significativa è la manata restituzione della cosa sottratta, al cui obicttivo verificarsi la legge collega l'inapplicabilità delle ridotte sanzioni previste per il furto d'uso e la conseguente applicazione delle più gravi sanzioni previste per il furto ordinario; pertanto, il dato obiettivo della mancata restituzione, affinché possa essere addebitato all'agente, va integrato con i correlativi requisiti soggettivi: deve essere, cioè, investito dal dolo o almeno dalla colpa dell'agente). Detto ciò, occorre precisare, comunque, che la Corte non ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 42 c.p., nella parte in cui annovera la responsabilità oggettiva tra Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com i criteri di imputazione del fatto: e, però, questa omissione di pronuncia da parte della Consulta appare inconcepibile, dal momento che l'enunciato ex co. 3 dell'art. 42 c.p., ipotizzando la responsabilità oggettiva per l'evento, sembra far riferimento a un elemento significativo della fattispecie e, quindi, a un elemento rilevante ex art. 27, co. 1 Cost.). La casistica della responsabilità oggettiva è, nel nostro ordinamento, particolarmente ricca: ad essa vengono ricondotti generalmente i ed. delitti aggravati dall'evento; parte della dottrina vi include la figura del delitto preterintenzionale, le previsioni di cui agli artt. 82 e 83 c.p. (i casi di aberratio) e le previsioni di cui agli artt. 116 e 117 c.p. La responsabilità oggettiva viene, poi, in rilievo in alcune ipotesi di parte speciale: ad es., a proposito dell'irrilevanza dell'errore sull'età della persona offesa, nei delitti contro la libertà sessuale, nonché nei reati commessi a mezzo della stampa. a) il problema del delitto preterintenzionale Come stabilisce l'art. 43 c.p., il delitto è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento più grave di quello voluto dall'agente: ipotesi di delitto preterintenzionale sono l'omicidio preterintenzionale, ex art. 584 c.p., e l'aborto preterintenzionale, di cui all'art. 18, co. 2 L. 194/78. Come si può notare, nel delitto preterintenzionale si individua, da un lato, la volontà di un evento minore (ad es. le percosse o le lesioni), che ne rappresenta la base dolosa, e, dall'altro, la non volontà di un evento più grave (ad es., la morte o l'aborto), che è, pur sempre, conseguenza della condotta dell'agente. Per tal motivo, parte della dottrina ravvisa nella preterintenzione un'ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva, nel senso che su una condotta dolosa, per definizione (quella diretta a cagionare l'evento meno grave), si innesterebbe una responsabilità per l'evento più grave, fondata sul rapporto di causalità tra condotta ed evento. Viceversa, secondo un'altra tesi, accreditata in dottrina, il delitto preterintenzionale sarebbe caratterizzato dalla combinazione di dolo e colpa. A nostro avviso, tuttavia, il delitto preterintenzionale, più che configurare un'ipotesi di dolo misto a colpa, rivela particolari analogie proprio con la condotta colposa, perché ciò che qui viene scriminata è un'azione, realizzata in modo volontario, cui, però, fa seguito un risultato diverso da quello voluto dal soggetto agente: più precisamente, l'addebito che, in questo caso, viene mosso all'agente è il fatto che egli ha violato le ordinarie regole di cautela, che è d'obbligo porre in essere nel pilotaggio finalistico di qualsiasi decorso causale nel mondo esterno. Quanto al delitto preterintenzionale, invece, poniamo la questione relativa al ruolo ricoperto dalla figura dell'omicidio preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p.: ora, ai sensi di questa norma si ritiene sufficiente, per l'imputazione dell'evento preterintenzionale morte, la commissione di atti diretti a realizzare i delitti di percosse o di lesioni personali, senz'altra qualificazione, né in termini di idoneità, né di univocità; ciò significa che potrebbero, quindi, risultare sufficienti anche un tentativo inidoneo o atti meramente preparatori e, di conseguenza, inoffensivi. Sulla base di tali considerazioni, la norma in esame appare intollerabile perché, se si considera che, ai fini della realizzazione della fattispecie, si ritengono sufficienti, da un lato, meri atti diretti a... (e cioè delle condotte ancora lecite) e, dall'altro, non è neanche richiesta la prevedibilità dell'evento morte, è irragionevole il trattamento sanzionatorio disposto ex 584 c.p. (reclusione dai 10 ai 18 anni), rispetto a quello previsto, ad es., per l'omicidio colposo, ex art. 589 c.p. (reclusione dai 6 mesi ai 5 anni), per il quale, in quanto fatto colposo, è richiesta, senza dubbio, la prevedibilità dell'evento. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Pertanto, tenendo conto di tutto quanto detto, sarebbe auspicabile l'abrogazione dal sistema dell'art. 584 c.p., dal momento che a disciplinare correttamente il fenomeno appaiono già sufficienti le norme in tema di tentativo, di colpa e di concorso formale di reati. b) i reati commessi a mezzo della stampa Nella formulazione originaria, l'art. 57 c.p. prevedeva un'ipotesi di responsabilità oggettiva del direttore (e, in determinati casi, anche del redattore e dell'editore) per i reati commessi a mezzo stampa: di questi reati, in altri termini, il direttore rispondeva per il fatto di rivestire la qualifica indicata dalla disposizione, a prescindere dal suo atteggiamento psicologico (salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione). L'entrata in vigore della L. 127/58 ha, però, modificato l'art. 57 c.p. ed ha introdotto l'art. 57 bis; in base alla nuova disciplina normativa è possibile oggi identificare tre diverse situazioni: • se il direttore omette il controllo con dolo, troveranno applicazione le norme sul concorso di persone nel reato (il direttore, in altri termini, risponderà del reato ai sensi dell'art. 110 c.p.: si tratterebbe, infatti, di un concorso doloso, mediante omissione, nel reato doloso commesso dall'autore della pubblicazione); • se, invece, il controllo viene omesso per negligenza, imprudenza ovvero imperizia, a carico del direttore si configurerà una fattispecie di reato colposo commissivo mediante omissione, la cui illiceità è imperniata sulla sua posizione di garante (ex art. 57 c.p.); • se, al contrario, nonostante un diligente controllo, viene commesso, per il tramite della pubblicazione, un reato che il direttore, senza sua colpa, non riesce a impedire, ovvero in caso di concreta impossibilità di effettuare il controllo (ad es., a causa di una malattia) nessun reato potrà, ovviamente, essere ascritto al direttore. c) le condizioni obiettive di punibilità Ai sensi dell'art. 44 c.p. quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto. Il nostro codice, come si può facilmente notare, attraverso l'art. 44, più che definire le condizioni di punibilità, si limita a fissarne il regime di imputazione; invero, la norma in esame potrebbe anche essere letta nel modo seguente: quando per la punibilità è richiesto l'avverarsi di una condizione, quel che conta è il suo oggettivo sopravvenire, senza che vi sia alcun bisogno di ricollegare tale avveramento alla volontà dell'agente. Va considerato, inoltre, che l'art. 44 c.p., dal momento che utilizza gli incisi colpevole e reato (inteso, quest'ultimo, nel significato di fatto tipico, antigiuridico e colpevole), sembra voler collocare le condizioni di punibilità in uno spazio esterno alla struttura dell'illecito penale, con la sola funzione di rendere punibile un reato, già completo di tutti i suoi elementi costitutivi (compresa la colpevolezza dell'autore). E così, in virtù di queste considerazioni, una parte della dottrina, allo scopo di rendere compatibile la disposizione, ex art. 44 c.p., con il principio espresso dall'art. 27, co. 1 Cost., ha ritenuto opportuno distinguere le condizioni di punibilità in intrinseche ed estrinseche. In particolare: • si ritiene che solo le condizioni di punibilità intrinseche possano partecipare al fatto-reato, perché comportano un aggravamento dell'offesa tipica (esse, perciò, dovranno essere imputate quanto meno a titolo di colpa, in quanto rientranti nell'ambito degli elementi più significativi della fattispecie: è questo, ad es., il caso del pericolo di malattia, al cui insorgere è subordinata la punibilità dell'abuso dei mezzi di correzione, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com ex art. 571 c.p.; si pensi, ancora, al pubblico scandalo, al cui verificarsi è subordinata la punibilità del delitto di incesto, di cui all'art. 564 c.p.); • viceversa, si ritiene che le condizioni di punibilità estrinseche siano del tutto estranee all'offensività del fatto-reato, in quanto si estrinsecano in valutazioni del legislatore, dettate da semplici ragioni di opportunità punitiva (si pensi, ad es., alla presenza del reo nel territorio dello Stato, alla cui condizione è subordinata la procedibilità dei reati contemplati negli artt. 9 e 10 c.p.). In virtù di questa distinzione, allora, parte della dottrina ha proposto di far confluire le condizioni di punibilità estrinseche nella categoria processuale delle ed. condizioni di procedibilità, di cui è pacifica l'estraneità al tema degli elementi del reato, in quanto si riferiscono all'esercizio dell'azione penale e la cui trattazione appartiene, dunque, all'ambito processual-penalistico (sono tali, ad es., gli istituti della querela, dell'istanza e dell'autorizzazione a procedere). Capitolo III La colpevolezza nella struttura del reato §1. Il ruolo della colpevolezza nella costruzione del reato Come sappiamo, la dottrina prevalente (sulla base della teoria tripartita) distingue tipicità ed antigiuridicità, da un lato, e colpevolezza, dall'altro: più precisamente, alla categoria del fatto tipico vanno assegnate tutte quelle componenti (sia oggettive che soggettive) dell'illecito penale; con il giudizio sull'antigiuridicità, invece, l'insieme degli elementi (oggettivi e soggettivi) che compongono il fatto vengono apprezzati sotto il profilo della loro contrarietà o conformità al diritto obiettivo; l'accertamento della colpevolezza, infine, fornisce la risposta alla domanda se l'autore di un fatto tipico ed antigiuridico possa anche essere ritenuto personalmente responsabile di quel fatto, sulla base di criteri individualizzanti, che mirano a stabilire, nel caso concreto, la sussistenza o meno della possibilità per l'autore di agire diversamente da come ha agito. Il tutto, ovviamente, nella prospettiva di un concetto normativo di colpevolezza, in cui dolo e colpa non appartengono al suo contenuto (in quanto elementi che rientrano nell'ambito del fatto tipico), ma rappresentano soltanto il suo oggetto, in quanto forme della volontà contraria all'obbligo: di conseguenza, il compito che viene assegnato alla categoria della colpevolezza è quello di individuare i parametri, predeterminati dalla legge, alla cui stregua dolo e colpa devono essere valutati, ai fini del giudizio sulla responsabilità dell'autore di un illecito penale. Più precisamente, i parametri ai quali bisogna ancorare tale giudizio sono: • la capacità di colpevolezza dell'agente (quindi, la sua imputabilità); • la coscienza del carattere antigiuridico del fatto; • l'inesistenza di situazioni idonee ad annullare le possibilità di scelta dell'agente. §2. L'imputabilità come presupposto della colpevolezza (art. 85 c.p.) a) la nozione di imputabilità Ai sensi dell'art. 85 c.p. è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere, al momento della commissione del fatto costituente reato; in particolare: • la capacità di intendere rappresenta la capacità di rendersi conto del valore assunto dai propri atti; • la capacità di volere consiste, viceversa, nella capacità di indirizzare i propri atti nel mondo esterno. Per la sussistenza dell'imputabilità, ovviamente, si richiede il possesso di entrambe le capacità, ma poiché la capacità di volere presuppone quella di rendersi conto del valore Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com assunto dai propri atti, essa entra in gioco soltanto se non debba già escludersi la capacità di intendere. Alla luce di quanto detto, si può affermare, dunque, che l'imputabilità rappresenta la capacità del soggetto di autodeterminarsi secondo valori (in particolare, secondo i valori di cui sono portatrici le disposizioni giuridiche): ciò, del resto, trova conferma nel fatto che la personale responsabilità della condotta ha un senso soltanto se riferita a un autore che possedeva la capacità di orientare diversamente il proprio agire e di essere, in tale direzione, motivato dalle norme giuridiche. Di conseguenza, ove la motivabilità attraverso le norme giuridiche dovesse mancare (come, ad es., nei soggetti immaturi o nei malati di mente), la sanzione penale non può essere applicata, perché essa non può assolvere nè alle funzioni general-preventive (coazione psicologica e orientamento culturale) né ai suoi compiti special-preventivi (recupero e risocializzazione del reo). b) i rapporti imputabilità-colpa e imputabilità-dolo L'affermarsi del concetto normativo di colpevolezza ha comportato la possibilità di distinguere il dato della riferibilità psicologica del fatto all'autore (nelle forme del dolo o della colpa) dalla sussistenza dei requisiti, normativamente stabiliti, che consentono di muovere all'autore un rimprovero per il suo fatto (ed. giudizio di colpevolezza). Tuttavia, appare utile fornire qualche ulteriore precisazione sul tema, soprattutto in relazione ai rapporti che intercorrono tra imputabilità e colpa e quelli che intercorrono tra imputabilità e dolo. In particolare, in relazione alle condotte colpose, va sottolineato che il riconoscimento dell'esigenza di una doppia valutazione della colpa (oggettiva e soggettiva) ha reso alquanto agevole l'impostazione dei rapporti intercorrenti tra la colpa e l'imputabilità: difatti, l'apprezzamento della colpa, secondo la sua misura soggettiva, è un giudizio che concerne la valutazione circa l'esigibilità, in concreto, della condotta rispettosa della diligenza, da parte di quel determinato autore (perciò, se l'autore non è imputabile non si può da lui pretendere l'osservanza della norma). Meno agevole, invece, è l'impostazione delle relazioni tra l'imputabilità e il dolo: più precisamente, la questione concerne la relazione che intercorre tra il dolo e il nonimputabile. Invero, nell'ambito della concezione psicologica della colpevolezza, si è a lungo discusso se il non-imputabile potesse essere ritenuto capace di dolo: parte della dottrina propendeva per la soluzione positiva, sulla base degli artt. 222 e 224 c.p., i quali ipotizzano un trattamento sanzionatorio differenziato per il non imputabile, a seconda del carattere, doloso o colposo, del fatto da lui commesso. Altra parte della dottrina, viceversa, partiva dall'assunto secondo cui una condotta qualificata come dolosa o colposa deve essere, per forza, espressione di conoscenza (o conoscibilità) e di volizione (o prevedibilità): e si tratta di requisiti che, a loro volta, presuppongono sanità e normalità psichica, assenti, per definizione, nel soggetto nonimputabile. Al di là di queste teorie (suggestive, ma non risolutive), il problema, in realtà, si inquadra nella giusta dimensione se lo si analizza dal punto di vista della concezione normativa della colpevolezza: questa, infatti, ci ha consentito di distinguere il dato della riferibilità psicologica del fatto all'autore, nelle forme del dolo e della colpa, dalla sussistenza dei requisiti, normativamente prestabiliti, sulla cui base è possibile muovere all'agente un rimprovero per il fatto da lui commesso: così ragionando, ad es., si deve dedurre che un omicidio volontario appartiene alla volontà e personalità di un soggetto paranoico, esattamente come a quella del soggetto sano di mente; solo che la mancanza di imputabilità del primo rende quel coefficiente psicologico rilevante non per l'applicazione di una pena, ma (eventualmente) per una misura di sicurezza, laddove sussistano i presupposti per affermare la pericolosità dell'agente. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. Le cause che escludono l'imputabilità Il nostro codice penale considera come cause di esclusione dell'imputabilità: la minore età, il vizio di mente, il sordomutismo, l'intossicazione cronica da alcol o da sostanze stupefacenti e l'ubriachezza accidentale. Analizziamole in dettaglio: • il primo fattore che la legge prende in considerazione ai fini dell'esclusione della imputabilità è la minore età (ex art. 97 c.p.): a tal riguardo, però, è bene precisare che la legge distingue il periodo che va fino ai 14 anni compiuti, in cui vige la presunzione assoluta di assenza di capacità di intendere e di volere, ed il periodo che va dai 14 ai 18 anni, durante il quale il giudice deve accertare caso per caso la sussistenza o meno della imputabilità; • l'art. 88 c.p. stabilisce che non è imputabile chi, al momento del fatto, era, per infermità, in tale stato di mente, da escludere la capacità di intendere e di volere. Dalla formulazione della disposizione si desume, innanzitutto, che qualsiasi infermità (non soltanto quella psichica, ma anche quella fisica) può assumere rilievo ai fini della esclusione dell'imputabilità, purché abbia avuto l'effetto di escludere la capacità di intendere o quella di volere; per contro, anche una conclamata malattia mentale può non escludere l'imputabilità, qualora la stessa non abbia compromesso, in concreto, la capacità di intendere o di volere. Detto ciò, è stato a lungo controverso se il concetto di infermità di cui all'art. 88 c.p., dovesse avere come punto di riferimento un modello medico (cioè, riconducibile ad una patologia classificabile sotto un profilo nosografico) o se potesse, invece, riferirsi anche a disturbi psichici atipici (si pensi, ad es., alle nevrosi): al riguardo, la dottrina penalistica, ritenendo inopportuno fare affidamento sul modello medico, ha affermato che la capacità di intendere e di volere (intesa, questa, nel significato di motivatilità attraverso norme giuridiche) può essere esclusa anche dalla presenza di disturbi della personalità, non ricompresi nella categoria delle malattie mentali classificate in un modello medico (questa linea interpretativa, tra l'altro, ha ricevuto anche conferma in sede giurisprudenziale, grazie ad una sentenza del 2005 delle Sezioni unite della Cassazione). Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo all'art. 89 c.p.: questa norma prende in considerazione i casi nei quali la capacità di intendere e di volere non è esclusa, ma risulta grandemente scemata: in queste ipotesi, ovviamente, la responsabilità penale sussiste, ma la pena è diminuita (salva la possibilità di assoggettare l'agente anche ad una misura di sicurezza); • l'art. 90 c.p. stabilisce che non escludono l'imputabilità gli stati emotivi e passionali; è doveroso precisare, però, che il significato di questa disposizione viene attualmente identificato con una specie di appello da parte della legge ad esercitare un controllo sulle proprie emozioni, onde evitare la produzione di eventi dannosi o pericolosi. Tuttavia, va anche detto che l'incidenza della norma nella prassi è talmente modesta che sia la dottrina che la giurisprudenza ne auspicano l'abrogazione: anche perché essa potrebbe costituire un ostacolo al riconoscimento di determinati stati patologici, capaci di sconfinare nell'infermità mentale (si pensi, ad es., al panico); • l'art. 96 c.p. prende in considerazione, quale causa di esclusione dell'imputabilità, il sordomutismo, se il sordomuto, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere e di volere: come si può notare, in questo caso non v'è nessuna presunzione di inimputabilità, dal momento che si richiede un concreto accertamento da parte del giudice circa il fatto che, a causa della sua infermità, il sordomuto si sia trovato in condizioni di incapacità di intendere o di volere; Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • le disposizioni di cui agli artt. 88 e 89 c.p. si applicano anche con riferimento ai fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti (ex art. 95 c.p.). Rispetto a questi casi, quindi, l'imputabilità è esclusa qualora lo stato di degrado psicofisico, prodotto dall'intossicazione, abbia causato l'instaurarsi di una condizione in virtù della quale il soggetto non può determinare le proprie scelte ed è, dunque, da considerarsi come un vero e proprio infermo di mente; • ai sensi degli artt. 91 e 93 c.p., lo stato di ebbrezza alcolica e l'equivalente condizione dovuta all'azione di sostanze stupefacenti, che abbiano fatto venir meno la capacità di intendere e di volere, escludono l'imputabilità qualora siano derivate da caso fortuito o da forza maggiore (si pensi, ad es., all'operaio di una distilleria reso ebbro dai vapori inalati a causa di un accidentale guasto all'impianto di depurazione o a chi ingerisca per errore una sostanza stupefacente in luogo di un medicinale). Fuori da questi casi, l'ubriachezza, beninteso, non esclude, né tanto meno diminuisce l'imputabilità. §4. La disciplina dell'ubriachezza e l'actio libera in causa Il nostro codice penale considera Y ubriachezza sotto cinque distinte figure: • l'ubriachezza accidentale, cioè quella derivante da caso fortuito o da forza maggiore (è questo il caso, ad es., di chi, lavorando in una distilleria, rimanga ebbro dei fumi inalati dell'alcool); • l'ubriachezza volontaria; • l' ubriachezza colposa, di cui all'art. 92, co. 1 c.p., che ricorre nei casi in cui, pur non essendo stata l'ubriachezza voluta dal soggetto, essa, tuttavia, non è derivata da caso fortuito o da forza maggiore; • l'ubriachezza preordinata, di cui all'art. 92, cpv. c.p.; • l'ubriachezza abituale (art. 94 c.p.). Come detto in precedenza, soltanto l'ubriachezza accidentale esclude l'imputabilità del soggetto; per tutti gli altri casi, al contrario, il codice deroga espressamente alla regola che esige, ai fini della punibilità, la presenza della capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto. Non solo: in questa sede, non si può non notare la particolare severità del trattamento sanzionatorio che il legislatore ha riservato all'ubriaco abituale, al quale, infatti, oltre alla pena, può essere inflitta anche la misura di sicurezza della libertà vigilata. In questa prospettiva, quindi, la disciplina dell'ubriachezza, ad avviso di parte della dottrina (Moccio) sembra essere, in realtà, ispirata alla volontà di accogliere illiberali formule di responsabilità a sfondo eticizzante, riconducibili al modello della ed. colpa d'autore. L'asserzione è corretta, anche perché la stessa trova conferma su di un piano normativo e, precisamente, nell'atteggiamento repressivo adottato dal legislatore del '30 nei confronti dei fenomeni di etilismo: si tratta, in dettaglio, di un atteggiamento che si manifesta in maniera lampante nel trattamento dell' ubriachezza preordinata, ex art. 92, cpv. c.p., ai sensi del quale, se l'ubriachezza era preordinata alfine di commettere il reato o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata. Ora, il profilo di estremo rigore di questa norma si coglie in modo particolare quando si consideri che la preordinazione dello stato di incapacità non è considerata come circostanza aggravante nell'ipotesi di carattere generale dell'actìo libera in causa, ex art. 87 c.p., ma solo in riferimento ai casi in cui l'incapacità preordinata derivi da ubriachezza: in questo caso, pertanto, il sovrappiù di pena appare giustificato soltanto in base ad un intollerabile giudizio di tipo etico-personale. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Passiamo, quindi, ad analizzare dettagliatamente il caso delineato nell'art. 87 c.p.: la norma stabilisce che la disposizione della prima parte dell'art. 85 c.p. non si applica a chi si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere, al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa. L'ipotesi di cui all'art. 87 c.p. corrisponde, come detto, al tipico schema dell'actio libera in causa: espressione con la quale si è soliti designare i casi nei quali l'autore del fatto commesso in stato di incapacità di intendere e di volere, in un momento antecedente nel tempo, trovandosi nel pieno possesso delle proprie facoltà di autodeterminazione, tiene una condotta (si tratta della ed. actio praecedens) diretta a programmare lo stato di incapacità, nel quale verrà a trovarsi nel momento della commissione del fatto. Ora, poiché nel momento in cui realizza Yactio praecedens, il soggetto agisce in modo del tutto consapevole, libero e responsabile, egli sarà chiamato a rispondere anche della condotta posta in essere, in séguito, in stato di incapacità: di qui l'espressione actio libera in causa. Ora, nei casi di incapacità procurata: • qualora l'agente realizzi esattamente il reato programmato, egli ne risponderà a titolo di dolo intenzionale; • se invece tale omogeneità non sussiste, il soggetto agente potrà essere chiamato a risponderne a titolo di colpa, a condizione che il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo (così, ad es., Tizio, avendo progettato di uccidere Caio, dopo essersi drogato, per trovare il coraggio di eseguire l'omicidio, nel recarsi in auto nel luogo in cui intende assassinarlo, cagiona la morte di un terzo o addirittura dello stesso Caio, a seguito di un incidente cagionato dall'eccessiva velocità di guida). A questo punto, però, sorge il problema di stabilire il titolo della responsabilità che va attribuito alle azioni che, pur essendo connesse alla perdita di autocontrollo da parte dell'agente (che, in modo doloso o colposo, si è posto in stato di incapacità), non sono preordinate alla commissione di un reato. Ora, in relazione a quest'interrogativo, va detto che in dottrina sono state avanzate due diverse teorie: • ad avviso della prima teoria, il titolo di responsabilità dovrebbe essere stabilito ed attribuito avendo riguardo all'elemento psicologico con il quale l'agente ha commesso il fatto; • ad avviso del secondo orientamento, invece, la qualificazione e l'attribuzione del titolo di responsabilità dovrebbero essere stabilite avendo riguardo all'actio precedens, di modo che la responsabilità dovrebbe essere a titolo di dolo (eventuale) nei casi in cui l'agente, nel momento in cui si pone in stato di incapacità, si rappresenta come possibile il verificarsi dell'illecito, accettandone, però, il rischio; e a titolo di colpa nel caso in cui, dopo essersi posto in stato di incapacità, l'agente non si rappresenti come possibile la commissione di un reato, ma avrebbe potuto, in ogni caso, prevederla. Questa seconda teoria, tuttavia, non può essere accolta, in quanto il fatto commesso, non essendo preceduto da un'azione preordinata alla sua realizzazione, può essere qualificato soltanto facendo riferimento al tipo di elemento psicologico con il quale il soggetto ha agito (dolo, colpa o preterintezione) e, dunque, sulla base dei canonici e ordinari parametri di accertamento. Se ne deduce, pertanto, che la sola funzione che, nei casi di non preordinazione, va attribuita all'actio precedens è quella di evitare che la condizione di incapacità possa non rilevare penalmente, escludendo la responsabilità dell'autore del fatto. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §5. Le altre cause di esclusione della colpevolezza a) il principio dell'ignoranti a legis non excusat (art. 5 c.p.) Ai fini del riconoscimento del principio di colpevolezza (o, anche, del fatto proprio colpevole), ciò che risulta decisivo è il dato fornito dalla valorizzazione della coscienza dell'illiceità, attraverso la rilevanza dell'errore scusabile su di essa (così come sancito dalla Consulta nella sent. 364/88). L'art. 5 c.p., nella sua formulazione originaria, stabiliva che nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale: la disposizione trovava il suo fondamento nell'esigenza di non compromettere l'efficacia delle norme penali (diversamente, per sfuggire ai rigori delle stesse sarebbe stato sufficiente tenersene all'oscuro). Tuttavia, la norma in esame è stata parzialmente modificata, in quanto nella sent. 364/88 la Corte cost., dando rilevanza all'errar juris scusabile ha stabilito che, affinché la relazione tra l'agente e la legge penale possa assumere una rilevanza giuridica, è necessario che il soggetto sia effettivamente in grado di conoscere la norma penale; in virtù di questa considerazione, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude, dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale, l'ignoranza inevitabile o invincibile: è chiaro, infatti, che se l'ignoranza è inevitabile non ha alcun senso l'inflizione di una sanzione penale, né da un punto di vista special-preventivo (perché l'agente, al momento della commissione del fatto, non sapeva di violare consapevolmente la legge penale), né da un punto di vista general-preventivo (perché l'inflizione di una sanzione, nel caso di chi viola la legge penale in scusabile buona fede, non contribuisce certamente ad aggregare consensi intorno alla validità delle norme giuridiche). La Corte, però, ha tenuto a precisare che il fondamento della scusa vale soprattutto per quei soggetti che versano in condizioni soggettive di inferiorità e non, invece, per quei soggetti dai quali si pretendono comportamenti adeguati alla loro condizione tecnica e sociale. La Consulta ha, altresì, stabilito che: • la scusabilità dell'errore è delimitata soltanto a quei reati che, pur presentando un certo disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illecito penale (si pensi, ad es., allo straniero, proveniente da una cultura del tutto diversa dalla nostra, che, giunto da poco nel nostro Paese, attribuisca all'incesto una portata più ristretta di quella prevista ex art. 564, co. 1 c.p.); • la scusabilità dell'errore va esclusa qualora l'agente, pur ignorando l'antigiuridicità del fatto, si sia, però, rappresentata tale possibilità; • il giudice deve valutare attentamente le ragioni per cui l'agente non si è neppure prospettato un minimo dubbio sull'illiceità del fatto (in tal caso, qualora l'assenza di tale dubbio dipenda dalla carenza di socializzazione del soggetto agente, l'ignoranza della legge penale deve essere ritenuta inevitabile). b) l'ignoranza dell'età della vittima nella L. 172/2012 Con la L. 172/2012 è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale. Una delle più rilevanti novità proposte dalla nuova legge è indubbiamente costituita dall'introduzione, nell'inedito art. 602 quater c.p., di una norma sull'ignoranza dell'età della vittima dei delitti contro la personalità individuale. Al riguardo, occorre ricordare, preliminarmente, che l'originario disegno, di cui alla L. 269/98, contemplava una regola analoga a quella dettata ex art. 609 sexies c.p. per i reati contro la libertà sessuale commessi ai danni di infraquattordicenni, che fu, però, soppressa al momento dell'approvazione della legge. Conseguentemente, l'effettiva Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com ignoranza dell'età della persona offesa, in quanto integrante un errore di fatto, ha finora escluso la sussistenza del dolo nei reati di prostituzione e pedopornografia, consentendo al più di contestare, ove ne ricorressero i presupposti, i consueti reati in materia di prostituzione previsti dall'art. 3 L. 75/58 (atteso che, come chiarito dalla giurisprudenza, non era possibile estendere agli stessi la clausola contenuta nell'art. 609 sexies c.p., in forza del divieto di analogia in malam partem). Nel frattempo, però, la Consulta (2007), pur dichiarando, per l'ennesima volta, inammissibile la questione di legittimità costituzionale della citata deroga ai principi generali sul dolo prevista per i reati sessuali sollevata con riferimento all'art. 27, co. 1 e 3 Cost., ha fornito una interpretazione adeguatrice dell'art. 609 sexies in grado di non sacrificare del tutto il principio di colpevolezza sull'altare delle pur legittime istanze di tutela di altri valori costituzionalmente protetti, senza per questo disporre la totale ablazione della norma impugnata. E proprio in tal senso, il giudice delle leggi ha sostanzialmente stabilito, ispirandosi ai principi affermati nella storica sent. 364/1988, che l'ignoranza sull'età della persona offesa può effettivamente ritenersi irrilevante penalmente solo se inescusabile. La novella del 2012 ha recepito l'insegnamento del giudice delle leggi, provvedendo per un verso ad adeguare la clausola contenuta nell'art. 609 sexies e per l'altro, come accennato, a introdurne una identica nell'art. 602 quater, valida per tutti i reati contro la personalità individuale (e non solo per quelli di prostituzione e pornografia minorili). La nuova versione della clausola prevede, oggi, che il colpevole non può invocare a propria scusa l'ignoranza dell'età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, dovendosi intendere come tale l'ignoranza non rimproverabile, quanto meno, a titolo di colpa. Ma, nel rimodulare il regime di rilevanza dell'ignoranza, il legislatore ha introdotto anche un'altra novità: come già detto, infatti, nella sua formulazione previgente, l'art. 609 sexies limitava la portata della disposizione all'ipotesi che la persona offesa avesse un'età inferiore ai quattordici anni, mentre quella nuova (nonché l'art. 602 quater) la estende alla minore età in generale. c) l'erronea supposizione di un'esimente (art. 59, ultimo comma c.p.) L'art. 59, ult. co. c.p. stabilisce che se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Questa norma legittima, nel nostro sistema, quelle figure che la dottrina denomina esimenti putative: si tratta, in particolare, di una categoria nella quale sono ricomprese quelle ipotesi nelle quali l'agente crede di trovarsi in presenza dei presupposti di una causa di giustificazione, in realtà inesistente; ecco alcuni classici esempi: •Caio, in una strada buia, scambia l'amico Sempronio (che, in modo scherzoso, gli si avvicina agitando un bastone) per un aggressore, e lo ferisce a un braccio (legittima difesa putativa); •Mevio porta via con sé una cosa altrui, equivocando sul significato di un gesto del proprietario della stessa, che ha scambiato per consenso all'impossessamento della cosa (consenso putativo); •Tizio, al fine di salvarsi da un incendio, danneggia la proprietà di Caio, svellendo un infisso, mentre esisteva una diversa via di fuga (stato di necessità putativo). È importante precisare, tuttavia, che una parte della dottrina tende ad assimilare le esimenti putative ai casi di errore sul fatto, di cui all'art. 47 c.p. A ben vedere, però, le due ipotesi disciplinano situazioni alquanto differenti: •infatti, nel caso dell'art. 47 c.p. manca il dolo, perché l'agente non sa quel che fa (vi è, quindi, un errore sul fatto che costituisce il reato); Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com •viceversa, nell'ipotesi delineata ex art. 59 c.p., non è il dolo che viene a mancare, dal momento che l'agente sa benissimo cosa sta facendo (egli, non a caso, si rappresenta, in modo compiuto, gli elementi costituivi del fatto tipico: condotta, evento e rapporto di causalità); crede, però, erroneamente che gli sia permesso farlo. Quel che viene a mancare, perciò, è la colpevolezza, in ragione del fatto che l'atteggiamento dell'agente è simile a quello del soggetto che versa in errore sulla legge penale (quest'ultimo, infatti, non conosce la norma di divieto; il primo, al contrario, crede che il divieto non operi per la presenza di una norma antagonista). d) l'ordine illegittimo vincolante L'art. 51 c.p. stabilisce, ai commi 2, 3 e 4, che, se l'ordine è illegittimo, la responsabilità del reato ricade sia sul pubblico ufficiale che lo ha impartito, sia sull'esecutore dell'ordine, tranne che, per un errore sul fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo; ovvero, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine: è questo, ad es., il caso dei rapporti di subordinazione di natura militare. L'insindacabilità dell'ordine, però, è solo sostanziale, mai formale, per cui sarà sempre possibile, per il subordinato, verificare: • la forma dell'ordine (vale a dire, il modo in cui l'ordine è stato dato); • l'attinenza dell'ordine al servizio (l'ordine dato, cioè, deve rientrare tra le competenze ed i poteri che la legge attribuisce al superiore nei confronti del subordinato, nonché nella sfera di attribuzioni spettanti al subordinato stesso); • la competenza dell'autorità ordinante (nel senso che si deve trattare di un'autorità pubblica investita del potere di emanare determinati ordini). Va precisato, poi, che un altro limite all'insindacabilità dell'ordine è costituito dalla sua manifesta criminosità: in presenza di questo carattere, infatti, l'inferiore non è più vincolato alla pronta obbedienza, ma ha il dovere di opporre un rifiuto (è questo, ad es., il caso dell'ufficiale di polizia, ubriaco, che ordini ai suoi subordinati di sparare su una pacifica folla manifestante). Sotto il profilo strutturale, occorre specificare che un riferimento preciso al carattere manifestamente criminoso dell'ordine era contenuto nell'abrogato art. 40 c.p.m.p., il quale, invero, stabiliva che se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore o di altra autorità, del reato risponde sempre chi ha dato l'ordine, a meno che l'esecuzione dello stesso non costituisca manifestamente reato, nel qual caso del fatto risponde anche il militare che ha eseguito l'ordine. Una disposizione analoga è contenuta, oggi, nell'art. 25, co. 2 d.p.r. 545/86 (si tratta del ed. regolamento di disciplina militare), il quale stabilisce che il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato ha il dovere di non eseguire l'ordine e di informare al più presto i superiori. Ora, dal tenore di queste norme si evince, a contrario, un dato molto interessante: solo nelle ipotesi in cui la criminosità dell'ordine non risulti manifesta, l'inferiore (che ha eseguito lo stesso) potrà invocarne, a sua scusa, l'insindacabilità, sempre che, però, la criminosità del medesimo ordine non sia a lui ben nota, in ragione delle sue particolari conoscenze. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Parte IV Le forme di manifestazione del reato Premessa Con la locuzione forme di manifestazione del reato si vuole esprimere un concetto di genere, destinato a raggruppare tutte quelle ipotesi in cui il reato (considerato nella sua struttura di base) appare contrassegnato, nel suo manifestarsi, da caratteristiche peculiari, che lo differenziano dal prototipo dell'illecito penale fin qui analizzato. a) Può accadere, anzitutto, che il reato si presenti in forma incompiuta: o perché non si è realizzata la lesione dei beni verso la quale era diretta la condotta (così, ad es., Tizio esplode un colpo di fucile contro Caio, ma sbaglia la mira e il colpo lo sfiora) ovvero perché la stessa condotta esecutiva del reato non è stata portata a compimento (ad es., Mevio si introduce in un appartamento per rubare, ma, mentre fruga nei cassetti, viene sorpreso e messo in fuga dal proprietario). b) Un reato può essere, inoltre, il frutto del contributo di più persone, che dirigono le proprie energie e volontà verso la produzione di un evento di lesione dei beni (così, ad es., Tizio e Caio cooperano nel! asportare una cassaforte, al fine di impossessarsi del suo contenuto). c) Il reato, infine, può presentarsi sottoforma di reato circostanziato: qui il fatto tipico, presente nel suo nucleo essenziale, risulta arricchito da particolari modalità della sua esecuzione (come, ad es., il mezzo adoperato) o da speciali circostanze di fatto (come, ad es., il tempo e il luogo) o da particolari condizioni di carattere soggettivo (come, ad es., il movente), che la legge considera rilevanti ai fini di una maggiore o minore gravità del reato. Sezione I Il reato circostanziato Capitolo unico §1. Il fatto tipico e l'individuazione delle circostanze La nozione di circostanza del reato può essere compresa soltanto se rapportata ad una fattispecie non circostanziata (il ed. reato semplice): questa costituisce, infatti, il punto di riferimento per l'individuazione della circostanza, la cui presenza determina, come conseguenza giuridica, un'aumento o una diminuzione della pena-base. In quest'ottica, nella struttura del reato si distinguono tradizionalmente: • elementi essenziali (quali, ad es., la condotta, l'evento e il rapporto di causalità), che non possono mai mancare; • clementi accidentali, i quali, invece, incidono sulla gravità del reato, determinando, in tal modo, un adeguamento della pena al reale disvalore del fatto; di conseguenza, la presenza di questi elementi (ed. accidentalia delicti) trasforma il reato da semplice in circostanziato (così, ad es., l'uccisione di un uomo, comunque realizzata, è sufficiente a costituire il delitto di omicidio, nella sua forma semplice; ma, se l'omicidio, ad es., è stato commesso con il mezzo di sostanze venefiche, saremo di fronte ad un omicidio aggravato; viceversa, ci troveremo di fronte ad un omicidio attenuato, se l'omicidio è stato commesso a seguito di una grave provocazione). È bene precisare, inoltre, che gli elementi circostanziali del reato si presentano come elementi specializzanti dei corrispondenti elementi essenziali della fattispecie semplice: si pensi, ad es., all'uso di sostanze venefiche, che, in realtà, altro non rappresenta se non una delle possibili estrinsecazioni della condotta omicida. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §2. La classificazione delle circostanze Le circostanze del reato si distinguono, anzitutto, in aggravanti e attenuanti, a seconda che alla loro applicazione consegua un aggravamento o, viceversa, una diminuzione della pena: ovviamente, sia l'aggravamento che l'attenuazione possono essere di tipo quantitativo (ad es., aumento o diminuzione della penammo ad un terzo) o, al contrario, di tipo qualitativo (ad es., passaggio dalla reclusione all'ergastolo). Le circostanze aggravanti e quelle attenuanti, a loro volta, possono essere suddivise in comuni o speciali: sono comuni le aggravanti e le attenuanti previste nella parte generale del codice penale (artt. 61, 62,112 e 114), le quali sono applicabili a qualsiasi reato; si definiscono, invece, speciali le circostanze che fanno riferimento esclusivo a singoli reati (si pensi, ad es., agli artt. 625 e 628, co. 3 c.p.). Si definiscono, poi, circostanze ad effetto proporzionale le aggravanti e le attenuanti in presenza delle quali l'aumento o la diminuzione di pena si esplicano in un rapporto di proporzione rispetto alla pena-base (ad es., la pena è aumentata fino alla metà); si definiscono, invece, autonome le circostanze in presenza delle quali la legge stabilisce una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il reato-base (si veda, ad es., l'art. 577, co. 1 c.p.). Ancora, si definiscono circostanze ad effetto comune le circostanze che comportano un aumento o una diminuzione della pena fino a un terzo della pena prevista per il reato nella sua forma semplice; si definiscono, viceversa, circostanze ad effetto speciale quelle circostanze che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo della pena prevista per il reato non circostanziato. L'art. 70 c.p. distingue, altresì, le circostanze in oggettive e soggettive: • quelle oggettive concernono la natura, l'oggetto, il tempo, il luogo, la gravità del danno 0del pericolo, le condizioni e le qualità dell'offeso; • quelle soggettive riguardano l'intensità del dolo, il grado della colpa, le condizioni e le qualità del colpevole e i rapporti tra il colpevole e l'offeso. La dottrina prevalente distingue, ancora, le circostanze in intrinseche ed estrinseche: le prime si riferiscono a uno o più elementi costitutivi del fatto tipico (così è, ad es., per 1nn. 3, 4 e 7 dell'art. 61 c.p.); le seconde, viceversa, fanno riferimento ad altri aspetti dell'illecito, tali da condizionarne la gravità (così è, ad es., per i nn. 2, 6 e 8 dell'art. 62 c.p.). Le circostanze si distinguono, poi, in antecedenti, concomitanti e successive, a seconda che esse precedano, accompagnino ovvero seguano la condotta del soggetto agente (antecedente è, ad es., la circostanza ex art. 61, n. 3 c.p.; concomitante è la circostanza contenuta nell'art. 61, n. 4 c.p.; susseguente è la circostanza ex art. 62, n. 2 c.p.). Le circostanze del reato si distinguono, infine, in tipiche ed indefinite (o discrezionali): le prime sono espressamente individuate dalla legge (si pensi, ad es., agli artt. 61 e 62 c.p.); l'individuazione delle seconde, invece, è rimessa alla discrezionalità del giudice (tali sono, ad es., le ed. attenuanti generiche, di cui all'art. 62 bis c.p., le quali possono essere prese in considerazione dal giudice qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena). §3.1 criteri di imputazione delle circostanze (art. 59 c.p.) Nel testo originario del codice penale, il criterio di imputazione delle circostanze era di carattere rigorosamente oggettivo: l'art. 59, co. 1 c.p. stabiliva, infatti, che, salvo che la legge disponga altrimenti, le circostanze che aggravano o attenuano la pena sono valutate a carico o a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute ovvero da lui ritenute, per errore, inesistenti. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Dal tenore della disposizione in esame si comprende che l'effetto di aggravamento o di attenuazione della sanzione conseguiva automaticamente (vale a dire a prescindere dall'atteggiamento psicologico del soggetto agente): così, ad es., chi sottraeva, al fine di trarne profitto, dei gioielli di grande valore, rispondeva del fatto con l'aggravante costituita dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, anche se, per errore, aveva creduto di impossessarsi di bigiotteria di modestissimo valore. La previsione ex co. 1 dell'art. 59 c.p. implicava, quindi (almeno con riferimento alle aggravanti), una macroscopica lesione del principio di colpevolezza, in ragione del fatto che si facevano ricadere sull'agente conseguenze di carattere sanzionatorio, a prescindere dal legame psicologico con il dato da lui ignorato. A quest'anomalia, ha posto, però, riparo l'art. 1 L. 19/90, attraverso il quale, infatti, il legislatore ha riformulato il co. 1 dell'art. 59 c.p. ed ha inserito un nuovo co. 2, con il dichiarato intento di separare la disciplina dell'errore sulle circostanze attenuanti da quella dell'errore sulle circostanze aggravanti: a tal fine, il legislatore, per le attenuanti (nuovo co. 1 dell'art. 59 c.p.) ha mantenuto ferma la regola della rilevanza oggettiva (per cui, le circostanze che attenuano la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute o da lui ritenute, per errore, inesistenti); quanto alle aggravanti, invece, il nuovo co. 2 dell'art. 59 c.p. ha sostituito la regola della rilevanza obiettiva con una disciplina fondata sul canone della responsabilità colpevole (in pratica, le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente solo se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa: in tal modo, chi, ad es., si impossessa di cose di ingente valore risponderà di furto aggravato solo se conosceva il reale valore delle cose o, quanto meno, era in condizione di poterlo conoscere, sulla base dei parametri delle doverosa diligenza). È bene precisare, in ogni caso, che le modifiche apportate dalla L. 19/90 al regime di imputazione delle circostanze non hanno intaccato la regola della irrilevanza delle circostanze putative (aggravanti ed attenuanti): stabilisce, infatti, l'attuale art. 59, co. 3 c.p. che, se l'agente ritiene, per errore, che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui (tale regola, tuttavia, subisce una deroga in relazione alla disciplina dell'errar in persona, ex art. 60 c.p.). a) la disciplina dell'error in persona (art. 60 c.p.) Prima ancora dell'intervento operato dalla L. 19/90, un'espressa deroga al criterio dell'imputazione oggettiva delle circostanze aggravanti era contenuta nella norma di cui all'art. 60, co. 1 c.p, il quale stabilisce che, nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell'agente le aggravanti concernenti le condizioni o le qualità della persona offesa o i rapporti tra il colpevole e l'offeso: in tal modo, non risponderà, ad es., dell'aggravante ex co. 1 dell'art. 577 c.p. (rubricato omicidio contro l'ascendente o il discendente) chi uccida il proprio padre, scambiandolo, però, per un'altra persona, o chi commetta un reato in danno di un pubblico ufficiale nell'atto di adempiere le sue funzioni (art. 61, n. 10 c.p.), ignorandone, però, la qualifica. Il co. 2 dell'art. 60 c.p. precisa, invece, che sono valutate a favore dell'agente le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, concernenti le condizioni, le qualità o i rapporti predetti: in questa prospettiva, potrà invocare, ad es., l'attenuante della provocazione anche chi uccida o ferisca taluno, nella erronea convinzione di avere a che fare con la persona che aveva commesso ai suoi danni il fatto ingiusto (art. 62, n. 2 c.p.). Con l'art. 60, co. 3 c.p., il legislatore ripristinava, tuttavia, la regola generale della rilevanza obiettiva delle circostanze: questa norma stabiliva, infatti, che le disposizioni precedenti non possono trovare applicazione in presenza di circostanze riguardanti Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com l'età o altre condizioni o qualità psicofìsiche della persona offesa. E, però, nonostante il tenore lampante della disposizione in esame, è necessario sottolineare che, dopo l'entrata in vigore della L.19/90, anche per le circostanze relative all'età o ad altre condizioni o qualità psicofisiche della persona offesa dovrà obbligatoriamente valere la regola in virtù della quale l'agente potrà rispondere della circostanza aggravante solo se questa era da lui conosciuta o conoscibile con l'ordinaria diligenza: in tal modo, ad es., non potrà essere imputata l'aggravante di cui all'art. 4 L. 75/58 a colui che agevoli la prostituzione di una minorenne, credendola maggiorenne, per errore scusabile, ovvero a colui che determini al suicidio un minore di anni 18, ignorandone incolpevolmente la minore età (art. 580 c.p. in relazione all'art. 579, n. 1 c.p.). b) i reati aggravati dall'evento Si parla di reati aggravati dall'evento nei casi in cui il verificarsi di un evento, come conseguenza della condotta del soggetto agente, comporta l'applicazione di una pena più grave di quella prevista per la realizzazione della medesima condotta in assenza dell'evento o in presenza di un evento meno grave: così, ad es., l'art. 571 c.p., mentre punisce con la reclusione fino a 6 mesi chi abusa dei mezzi di correzione, quando ne derivi il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, prevede l'applicazione di pene più severe quando ne derivi una lesione personale o, addirittura, la morte. A ben vedere, però, la categoria dei reati aggravati dall'evento dà luogo, nel nostro ordinamento, a una grave anomalia, perché essa si sostanzia nell'imputazione di una circostanza (che, poi, corrisponde all'evento del reato) sulla base di un puro criterio oggettivo: non a caso, la figura del reato aggravato dall'evento costituisce una classica ipotesi di responsabilità oggettiva. È doveroso precisare, in ogni caso, che con la problematica relativa ai reati aggravati dall'evento non hanno nulla a che vedere quei casi in cui la legge, nell'incriminare in via autonoma le condotte intenzionalmente dirette a cagionare un determinato evento, preveda l'applicazione di pene più severe nell'ipotesi in cui il risultato perseguito dall'agente abbia oggettivamente a realizzarsi (proponiamo, a tal riguardo, l'esempio seguente: l'art. 243 c.p., mentre - al co. 1 - punisce, con la reclusione non inferiore a 10 anni, chi tiene intelligenze con lo straniero, affinché uno Stato estero muova guerra contro lo Stato italiano, al co. 2 stabilisce che se la guerra segue si applica l'ergastolo: ora, come si può notare, a differenza del reato aggravato dall'evento, qui la condotta dell'agente è fin dall'inizio diretta a realizzare l'evento in questione - scoppio della guerra -, per cui, qualora lo stesso dovesse verificarsi, l'agente ne risponderà, avendolo cagionato intenzionalmente). Da quanto detto si intuisce, quindi, che solo al di fuori delle ipotesi su menzionate (delle quali l'art. 243 c.p. costituisce un valido esempio) l'evento più grave, cagionato dalla condotta del soggetto agente, potrà configurarsi come circostanza del reato ed il relativo regime giuridico sarà quello previsto dal nuovo co. 2 dell'art. 59 c.p.: ciò sta a significare, dunque, che la circostanza aggravante, costituita dall'evento, sarà imputabile all'autore solo nel caso in cui egli se la sia rappresentata o avrebbe dovuto rappresentarsela come possibile conseguenza della propria condotta. §4. L'applicazione delle circostanze Per ciò che concerne l'applicazione delle circostanze bisogna distinguere diverse ipotesi: • qualora ricorra una sola circostanza (aggravante o attenuante) ad effetto proporzionale, il giudice praticherà l'aumento o la diminuzione in misura Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com proporzionale (ad es., un terzo, la metà, etc.) sulla pena-base preventivamente determinata; • qualora ricorra una circostanza autonoma, il giudice procederà, invece, a stabilirne in concreto la misura, dato che, in presenza di una circostanza di questo tipo, la pena è fissata dalla legge in modo indipendente da quella prevista per il reato-base; • nel caso in cui ricorrano più circostanze, tutte aggravanti o tutte attenuanti (ed. concorso omogeneo), si farà luogo a tanti aumenti o a tante diminuzioni di pena, in conformità a quanto stabilito dal co. 2 dell'art. 63 c.p., cui si rinvia per un'articolata disamina); • qualora ricorrano contemporaneamente circostanze aggravanti e circostanze attenuanti (è il ed. concorso eterogeneo) il giudice, invece, dovrà procedere, in virtù dell'art. 69 c.p., ad un giudizio di comparazione tra le due serie di circostanze, in conseguenza del quale egli: • potrà dichiarare equivalenti tra loro le aggravanti e le attenuanti, con l'effetto di escludere ogni modificazione della pena-base (come se il reato non fosse mai stato circostanziato); • potrà ritenere la prevalenza delle aggravanti o, al contrario, delle attenuanti, con la conseguente applicazione delle une o delle altre (nel rispetto delle regole di cui agli artt. 63-68 c.p.). È bene precisare, in ogni caso, che sulla disciplina del giudizio di comparazione è, di recente, intervenuta la L. 251/2005 (ed. ex Ciriclli), attraverso la quale il legislatore ha inteso ridurre gli spazi di discrezionalità del giudice: in dettaglio, con questa legge (che ha aggiunto un ultimo comma all'art. 69 c.p.) è preclusa al giudice la possibilità di procedere ad un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti nei casi in cui la comparazione abbia ad oggetto la recidiva reiterata o le circostanze di cui agli artt. Ili e 112, co. 1, n. 4 c.p. La nuova regola introdotta dalla legge del 2005 appare, però, illegittima (in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.), perché essa non si limita soltanto ad escludere la soccombenza di determinate circostanze aggravanti (in modo specifico, la recidiva), ma finisce per attirare, nel del divieto di prevalenza, tutte le circostanze attenuanti (a prescindere dal loro numero, dalla loro natura ovvero dal loro grado di significatività). §5. Le singole circostanze a) le circostanze aggravanti comuni (art. 61 c.p.) L'art. 61 c.p. disciplina le seguenti circostanze aggravanti comuni: • art. 61, n. 1 (l'aver agito per motivi abietti o futili): è abietto il motivo turpe o ignobile, cioè quello che fa emergere la particolare perversità del reo, così da suscitare un forte senso di riprovazione nella coscienza morale dei consociati (si pensi, ad es., al caso di chi uccida un uomo per mantenere la relazione con la di lui moglie); il motivo si definisce, invece, futile quando lo stimolo a delinquere è talmente lieve da apparire insufficiente a provocare il delitto (si pensi, ad es., al reato commesso al solo scopo di dar sfogo alla propria prepotenza teppistica); • art. 61, n. 2 (l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, o per conseguire il prodotto, il profitto o il prezzo ovvero l'impunità di un altro reato): nell'aggravante in esame viene, innanzitutto, in rilievo la ed. connessione teleologica, che sussiste quando il reato è stato commesso per eseguirne un altro; successivamente, viene in rilievo la ed. connessione conseguenziale, che sussiste, invece, quando il reato Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com è stato commesso al fine di occultarne un altro (si pensi, ad es., all'occultamento di cadavere a seguito di omicidio); • art. 61, n. 3 (l'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento): questa circostanza, come si può notare, corrisponde alla nozione di colpa cosciente; • art. 61, n. 4 (l'aver adoperato sevizie o l'aver agito con crudeltà verso le persone): adoperare sevizie significa infliggere alla vittima sofferenze fisiche assolutamente non necessarie ai fini della commissione del reato (ad es., torturare senza necessità un sequestrato); agire con crudeltà significa, invece, infliggere alla vittima delle sofferenze morali che eccedono quelle, di regola, necessarie a commettere il reato (come, ad es., costringere la vittima designata a scavarsi la fossa); • art. 61, n. 5 (l'aver profittato di circostanze di tempo, di luogo ovvero di persona, anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa): con riferimento a questa aggravante (che prende il nome di minorata difesa), l'inciso profittare sta a significare che il soggetto agente si avvantaggia di una situazione favorevole, sia essa casuale o dallo stesso provocata; con l'inciso circostanze di tempo e di luogo, invece, si intende far riferimento a quelle particolari situazioni ambientali (ad es., il furto commesso in una casa abbandonata, in fretta, dai suoi abitanti a seguito di una calamità naturale) e temporali (ad es., la notte) nelle quali si realizza il reato; le circostanze concernenti le persone, infine, sono quelle che si riferiscono al soggetto passivo del reato e, in modo particolare, al suo stato di menomazione (si pensi, ad es., all'aggressione realizzata ai danni di una persona incapace di difendersi o di reagire, perché mutilata). Occorre precisare, infine, che l'inciso anche in riferimento all'età è stato aggiunto con l'entrata in vigore della L. 94/2009 (per età si deve intendere, ovviamente, sia quella senile che quella infantile); • art. 61, n. 6 (l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente all'esecuzione di un mandato ovvero di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato): l'aggravante in parola ha natura soggettiva, dato che si riferisce ad una particolare condizione del colpevole (e, precisamente, a quella di latitante); • art. 61, n. 7 (l'avere, nei delitti contro il patrimonio o che offendono il patrimonio ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità): l'aggravante in parola si applica ad un'ampia serie di ipotesi, visto che, oltre ai reati che hanno propriamente come oggetto il patrimonio, essa si applica anche a quelli che comunque possono offenderlo (si pensi, ad es., ai casi di falso, concussione, malversazione e peculato), nonché a quelli determinati da motivi di lucro; • art. 61, n. 8 (l'aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso): quest'aggravante si traduce, molto spesso, in elemento costitutivo o in circostanza aggravante di un altro reato (si pensi, ad es., al caso di chi ostacoli i soccorsi dopo un ferimento o di chi rimuova un bendaggio con cui la vittima cercava di tamponare la ferita); • art. 61, n. 9 (l'aver commesso il fatto con abuso di poteri o con violazione di doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto): come si può notare, per l'applicabilità di quest'aggravante è necessario che l'abuso presenti un nesso di strumentatila con il reato commesso (ad es., abusi sessuali da parte di un insegnate sulla scolaresca); • art. 61, n. 10 (l'aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com del servizio): l'aggravante in esame è diretta ad assicurare una tutela rafforzata a determinati soggetti, in ragione del ruolo da essi rivestito; • art. 61, n. 11 (l'aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, o con abuso di relazioni d'ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione ovvero di ospitabilità): la circostanza in esame, che ha natura soggettiva (perché attiene ai rapporti intercorrenti tra il colpevole e l'offeso) colpisce un aspetto dell'illecito penale, all'interno del quale si manifestano diverse forme di abuso di rapporti fiduciari (quali, relazioni domestiche, coabitazione, ospitabilità, etc), tali da creare le condizioni ideali e idonee ad agevolare la commissione di specifici reati; • art. 61, n. 11 bis (l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente nel territorio nazionale): la circostanza aggravante in esame, introdotta dalla L. 125/2008, si inserisce, a ben vedere, in quel filone di misure penali, attraverso cui il legislatore cerca di fornire risposte (il più delle volte inefficaci) al clima di allarme sociale che, in Italia, si è creato intorno ai fenomeni di criminalità, che vedono come agenti cittadini extracomunitari (non a caso, a norma dell'art. 1, co. 1 L. 94/2009, la disposizione in esame si intende riferita ai cittadini di paesi non appartenenti all'Ile ed agli apolidi). Con l'introduzione di quest'aggravante, quindi, viene ridata vita a una figura tristemente nota alla nostra memoria (ci riferiamo al ed. tipo di autore): ciò in considerazione del fatto che l'extracomunitario, illegalmente presente in Italia, viene punito (per aver commesso il reato) più gravemente (rispetto al cittadino comunitario) sulla base di una pura condizione soggettiva, che non solo non incide sulla gravità oggettiva del fatto, ma che non consente neppure di presumere, in alcun modo, un più elevato grado di pericolosità dell'autore: di conseguenza, la norma appare certamente lesiva del principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost.: e, non a caso, la Corte Cost. con le sentt. 249 e 250/2010 ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale); • art. 61, n. 11 ter (l'aver commesso un delitto contro la persona, ai danni di un soggetto minore, all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o formazione): l'aggravante in esame, introdotta dalla L. 94/2009, essendo connessa al luogo di realizzazione del fatto, lascia molto perplessi; perciò, nella prospettiva di una lettura restrittiva della norma, si può affermare che l'aggravante potrà ritenersi sussistente solo nel caso in cui il contesto spaziale preso in considerazione denoti, concretamente, la maggiore gravità del fatto (in tal senso, ad es., non si potrà invocare l'aumento di pena per un delitto realizzato nei confronti di un minorenne che non frequenti quella scuola, ma che solo casualmente si trovi nelle adiacenze di quell'istituto). b) Le circostanze attenuanti comuni (art. 62 c.p.) L'art. 62 c.p. disciplina le seguenti circostanze attenuanti comuni: • art. 62, n. 1 (l'aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale): l'attenuante in parola fa riferimento a quegli impulsi psicologici che possono determinare l'agente ad agire e che trovano particolare considerazione da un punto di vista etico-sociale (si pensi, ad es., ai motivi politici non contrastanti con l'ordinamento); non sono, invece, tali la gelosia, l'eutanasia o il fine di eversione dell'ordinamento costituzionale; • art. 62, n. 2 (l'aver agito in stato d'ira, determinato da un fatto ingiusto altrui): con riferimento a quest'attenuante (che prende il nome di provocazione), per stato d'ira si intende la perdita di controllo delle proprie azioni (tale stato, quindi, non va confuso con sentimenti di carattere diverso, quali l'odio, la gelosia, etc); per fatto ingiusto altrui si intende, invece, qualsiasi comportamento che sia contrario a norme giuridiche o anche a precetti morali o di costume, accettati in un contesto di civile convivenza (si pensi, ad es., all'infedeltà coniugale); Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • art. 62, n. 3 (l'aver agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall'autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale o delinquente per tendenza): in relazione a questa attenuante, è importante precisare il significato dell'inciso folla in tumulto: con esso si designa, tradizionalmente, l'agire tumultuoso di una moltitudine di persone, che crea una confusione turbolenta, in grado di allentare i freni inibitori del soggetto agente, spingendolo, così, a commettere reati (è bene sottolineare, però, che l'attenuante in esame non potrà essere invocata da chi si sia mescolato alla folla proprio allo scopo di commettere il reato); • art. 62, n. 4 (l'avere, nei delitti contro il patrimonio, cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti determinati da motwi di lucro, l'aver agito per conseguire un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità): la circostanza qui descritta è la ed. attenuante del danno di lieve entità e risulta speculare alla corrispondente aggravante del danno di rilevante gravità, ex art. 61, n.7c.p.); • art. 62, n. 5 (l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa): è bene precisare che per la configurabilità di quest'attenuante non è sufficiente che la persona offesa abbia contribuito, con la propria condotta, alla causazione dell'evento, ma è necessario che la stessa, sotto il profilo psicologico, abbia avuto di mira lo stesso evento preveduto e voluto dall'agente (ciò comporta, pertanto, un'estrema difficoltà di applicazione dell'attenuante nei casi concreti); • art. 62, n. 6 (l'avere, prima del giudizio, riparato il danno, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo cpv. dell'art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato): la norma in esame disciplina, anzitutto, la riparazione del danno mediante il risarcimento e le restituzioni (in particolare, il risarcimento, che deve essere volontario, può anche essere effettuato da una persona diversa incaricata dal colpevole, ma in ogni caso, deve essere integrale; la restituzione, invece, deve essere volontaria, ma non necessariamente spontanea); la seconda parte della norma disciplina, invece, l'ipotesi della riparazione del danno mediante l'elisione delle conseguenze del fatto criminoso (si tratta, come si può notare, di un'ipotesi che fa riferimento alle conseguenze del reato, che non possono essere eliminate mediante il risarcimento: come, ad es., in caso di ferimento). §6. Le attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.) L'art. 62 bis c.p. stabilisce che il giudice, indipendentemente dalle circostaiize prevedute nell'art. 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nell'art. 62. L'art. 62 bis c.p. (inserito nel codice penale con il d.lgs.lt. 288/44) riprende, in realtà, una figura già esistente nel codice del 1889 e che il codice del 1930 aveva soppresso, nell'intento di restringere gli spazi di discrezionalità del giudice. Con la loro reintroduzione nel sistema, quindi, il legislatore ha inteso concedere al giudice la possibilità di adeguare la pena al caso concreto, cogliendo, ove esistente, un valore Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com attenuante nel fatto punibile (un valore che, anche se posto al di fuori della tipizzazione legislativa, non per questo può sfuggire al diritto). Detto ciò, è bene precisare, comunque, che le attenuanti generiche, essendo applicabili a qualsiasi tipo di reato, sotto un profilo classificatorio, devono essere considerate alla stregua di circostanze comuni; a differenza di queste ultime, però, le attenuanti generiche appartengono, come detto in precedenza, alla categoria delle circostanze indefinite e discrezionali, essendo rimessa al giudice la ricerca e l'apprezzamento del valore attenuante. Per quanto riguarda, infine, l'aspetto applicativo, occorre precisare che le attenuanti generiche sono obbligatorie, nel senso che, una volta riconosciuta l'esistenza del dato circostanziale attenuante, il giudice deve obbligatoriamente tenerne conto ai fini della diminuzione della pena. È necessario sottolineare, in ogni caso, che anche l'art. 62 bis c.p. è stato modificato a seguito dell'entrata in vigore della L. 251/2005: la novella, infatti, prevede che, nel caso in cui vi sia stata dichiarazione di recidiva reiterata, se il reato commesso è uno di quelli previsti ex art. 407, co. 2 lett. a) c.p.p. ed è punito con una pena non inferiore a 5 anni, il giudice (nel decidere se concedere o meno al reo le attenuanti generiche) non può tener conto dell'intensità del dolo e degli indici riguardanti la sua capacità a delinquere. La riforma in esame, però, a parte i modesti effetti che gioca su di un piano politico-criminale, appare irragionevole, dal momento che né la condizione di recidivo, né gli elencati reati in sé considerati escludono il fatto che, nel caso di specie, il dolo possa essere di minore intensità o che sia possibile apprezzare una diversa graduazione della capacità a delinquere del reo. §7. La recidiva Ai sensi dell'art. 99, co. 1 c.p. (modificato ex L. 251/2005), si considera recidivo colui che dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro. Dalla lettura della disposizione citata, se ne deve dedurre che la nozione di recidiva, in realtà, non va riferita al semplice fatto che il colpevole è ricaduto nel reato, quanto piuttosto alla circostanza che egli ha commesso un delitto non colposo, dopo essere stato già condannato per un precedente delitto non colposo; per cui, ove si verifichi una situazione del genere, il nostro codice penale prevede che il reo possa essere assoggettato ad un aumento della pena da infliggere in concreto. Le diverse ipotesi di recidiva sono disciplinate dagli artt. 99 e 101 c.p.: analizziamole, iniziando dalla recidiva semplice. La recidiva si definisce semplice nel caso in cui il reo, dopo aver subito una condanna per un qualsiasi delitto doloso, commette un nuovo delitto doloso (art. 99, co. 1 c.p.): in questo caso, la legge prevede l'aumento (facoltativo) fino ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto (doloso). La recidiva si definisce, invece, aggravata, quando il reato è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena ovvero durante il tempo in cui il condannato si è sottratto, in modo volontario, all'esecuzione della pena: in tal caso, la legge prevede un aumento (facoltativo) della pena fino alla metà (art. 99, co. 2 c.p.). La recidiva aggravata, a sua volta, si distingue in specifica ed infraquinquennale; in particolare: la recidiva aggravata si definisce specifica quando il nuovo delitto (non colposo) è della stessa indole del delitto oggetto della precedente condanna (ai sensi dell'art. 101 c.p., reati della stessa indole sono non solo quelli che violano una identica norma di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da disposizioni diverse, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni: si pensi, ad es., alla truffa, alla bancarotta fraudolenta e alla frode fiscale). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com La recidiva aggravata si definisce, invece, infraquinquennale nei casi in cui il colpevole commetta il nuovo delitto (doloso) nei cinque anni dalla condanna precedente. In relazione alla tematica riguardante la recidiva aggravata, appare utile sottolineare, tra l'altro, che, qualora siano presenti entrambi le ipotesi che ad essa danno luogo (e, quindi, sia la recidiva specifica che quella infraquinquennale), l'aumento (definito, oggi, in misura fissa) è della metà della pena da infliggere (art. 99, co. 3 c.p.). La recidiva si definisce, ancora, reiterata quando, chi versa già nella condizione di recidivo, commette un altro delitto doloso; anche in questo caso gli aumenti di pena sono determinati in misura fissa e sono: della metà, ove si tratti di recidiva semplice, e di due terzi, nei casi di recidiva aggravata (art. 99, co. 4 c.p.). Infine, con il co. 5 dell'art. 99 c.p. (introdotto con la L. 251/2005), il legislatore ha previsto un'ipotesi di recidiva obbligatoria quando il nuovo reato commesso è uno dei delitti indicati all'art. 407, co. 2 leti, a) c.p.p.: è necessario sottolineare, tuttavia, che in merito a questa nuova figura si nutrono (a ragione) molte perplessità, dal momento che la scelta (inopportuna) di reintrodurre nel sistema ipotesi di obbligatorietà non solo si presenta in contrasto con molte pronunce della Consulta, ma fa arretrare la nostra cultura, riportandola indietro di più di trent'armi (a prima della riforma del 1974, con la quale, tra l'altro, la dichiarazione di recidiva era stata resa facoltativa). Pertanto, non può meravigliare affatto che l'inasprimento prodotto dalla recente riforma abbia fomentato le controversie concernenti il fondamento politico-criminale della recidiva: al riguardo, v'è da dire che la dottrina retribuzionistica ha sempre considerato con un certo sfavore l'istituto in esame, dato che l'aggravamento di pena, correlato a episodi di vita antefatta del reo, non appariva per nulla in sintonia con l'idea di un rigido rapporto di proporzione tra la gravità del reato e la pena da infliggere in concreto. Non a caso, la funzione politico-criminale della recidiva risulta molto più tangibile nel quadro di un'impostazione di tipo special-preventivo: infatti, la ricaduta nel delitto rappresenta un indice di accentuata capacità a delinquere dell'agente, nei confronti del quale c'è bisogno, quindi, di un più penetrante intervento da parte dello Stato. Sezione II Il delitto tentato Capitolo unico §1. Nozione generale di tentativo e suo fondamento politico-criminale Sotto il profilo normativo, la figura del tentativo evoca il concetto della consumazione del reato: e ciò perché l'idea stessa del tentativo è concepibile solo facendo riferimento alla nozione del reato consumato, in cui sono presenti tutti gli elementi descritti nella norma incriminatrice che lo prevede (ivi compreso l'evento lesivo). Ragionando in questi termini, dunque, la nozione del tentativo appare strettamente collegata al concetto dell'iter criminis, nel quale l'illecito (doloso) si presenta come un processo che si snoda in quattro diverse fasi: • l'ideazione del reato, che culmina nella risoluzione ad agire (o ad omettere); • la preparazione del reato, che è soltanto una fase eventuale (propria di quei reati particolarmente complessi); • l'esecuzione del reato, che rappresenta la fase corrispondente all'attivazione o al non impedimento dei decorsi causali capaci di condurre, sotto il profilo oggettivo, alla produzione dell'offesa; Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • la consumazione del reato, che rappresenta il momento nel quale si produce l'offesa al bene protetto. A tal riguardo, occorre precisare, comunque, che, almeno negli ordinamenti penali contemporanei, una condotta che si arresti alla semplice fase dell'ideazione è sempre considerata irrilevante, in forza del principio cogitationis poenam nono patitur: nessuno può subire una pena per i suoi pensieri. Viceversa, l'avvenuta consumazione del reato, rappresentando il momento conclusivo dell'iter criminis, toglie qualsiasi spazio di rilevanza alla figura del tentativo (che, per definizione, concerne le ipotesi in cui il fatto tipico non è stato realizzato per intero). Di conseguenza (ragionando a contrario), è facile intuire che l'ambito della rilevanza del tentativo fluttua tra la fase della preparazione e quella dell'esecuzione del reato. Per quanto riguarda, invece, la questione riguardante il fondamento politico-criminale dell'istituto, nella nostra cultura giuridica si sono sempre contrapposte due diverse teorie: quella soggettiva e quella oggettiva. Più precisamente: • nel quadro della teoria soggettivistica, la condotta di tentativo viene equiparata a quella del delitto consumato (perché in entrambi i casi si manifesterebbe la volontà di ribellione del soggetto agente alla norma giuridica); • viceversa, nel quadro della teoria oggettivistica (sulla quale si fonda la figura del tentativo nel nostro sistema), il tentativo ha una minore rilevanza penale (rispetto al reato consumato), per il semplice motivo che l'evento lesivo qui non si è realizzato. §2. Gli elementi della fattispecie del delitto tentato (art. 56 c.p.) L'art. 56, co. 1 c.p. stabilisce che chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica. Volendo analizzare, in dettaglio, questa disposizione, si evince che la punibilità del tentativo, nel nostro ordinamento, è limitata soltanto ai delitti, restando esclusa per le contravvenzioni: queste ultime, infatti, dal punto di vista strutturale, non sembrano compatibili con la figura del tentativo, perché rappresentano già forme anticipate di tutela di determinati beni giuridici. È il caso di segnalare, inoltre, che la figura del delitto tentato (così come delineata ex art. 56 c.p.) ha un senso solo in rapporto ai delitti dolosi, dato che la condotta colposa, proprio per sua natura, non può consistere in atti diretti a commettere un delitto. È bene precisare, infine, che la fattispecie - generale ed astratta - del delitto tentato scaturisce dalla puntuale combinazione delle singole ipotesi di delitto, incriminate nella parte speciale del codice, con lo schema generale delineato nell'art. 56 c.p., in mancanza del quale, quindi, il tentativo di un delitto non potrebbe essere punito per carenza di tipicità: ciò significa che non si potrà configurare una fattispecie a sé stante di delitto tentato, ma solo tipiche fattispecie di tentato omicidio, tentata violenza carnale, tentato furto, etc. Ai sensi del co. 2 dell'art. 56 c.p., il delitto tentato è punito con una pena inferiore a quella prevista per il corrispondente delitto consumato: infatti, nei casi di ergastolo, si applica la reclusione dai 12 ai 24 anni; negli altri casi, invece, la pena stabilita per il delitto consumato è diminuita da un terzo a due terzi. Fatta questa disamina, a questo punto occorre notare che l'art. 56 c.p. disciplina, in realtà, due distinte fattispecie di delitto tentato: • il tentativo incompiuto, ove la condotta si realizza solo parzialmente (si pensi, ad es., al caso in cui un ladro venga sorpreso dalla polizia nell'atto di perforare, con una fiamma ossidrica, una cassaforte, allo scopo di asportarne il contenuto); Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • il tentativo compiuto, nel quale, invece, l'azione tìpica si realizza per intero, ma quel che viene a mancare è l'evento voluto dall'agente (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio esploda contro Caio, a scopo omicida, uno o più colpi di pistola, i quali, però, vanno a vuoto). In definitiva, dall'attenta analisi dell'art. 56 c.p. si ricavano i requisiti essenziali della condotta punibile come tentativo; essi sono: • il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto; • la mancata consumazione del medesimo delitto, che non dipenda da una volontaria risoluzione dell'agente. §3.1 requisiti della fattispecie oggettiva del delitto tentato a) l'idoneità degli atti di tentativo Per quel che concerne la fattispecie oggettiva del delitto tentato, la prima questione che bisogna affrontare è quella che riguarda l'inizio dell'attività punibile: la controversia riguarda essenzialmente la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi. Al riguardo, invero, il nostro ordinamento giuridico ha visto il passaggio da una formula (quella utilizzata dal codice Zanardelli), in cui la punibilità degli atti di preparazione era normalmente esclusa, all'attuale disciplina normativa, in cui, invece, la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi non è, in alcun modo, presa in considerazione: • infatti, l'art. 61 c.p. del 1889 indicava come colpevole di delitto tentato chi, alfine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione; • il codice del 1930, viceversa, ha ripudiato la formula del ed. cominciamento di azione, sostituendovi, come detto in precedenza, l'indifferenziato riferimento al compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto (ex art. 56 c.p.); e ciò, ovviamente, nel dichiarato intento di superare la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi. Tuttavia, è necessario sottolineare che, attualmente, la premessa per una rilettura del dettato legislativo contenuto nell'art. 56 c.p. è costituita dalla valorizzazione, sotto il profilo sistematico, di un'altra norma presente nel nostro codice, vale a dire l'art. 115: questa norma, infatti, stabilisce che quando due o più persone si accordano per commettere un delitto e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo. Ora, alla luce di quest'enunciato, appare, in realtà, inconcepibile che determinati atti (come quelli, ad es., di organizzazione, di allestimento dei mezzi, di ricognizione dei luoghi, etc.) siano da considerare non punibili, se commessi in occasione di un accordo (ex art. 115 c.p.) e punibili, per contro, se commessi da un individuo isolato (ex art. 56 c.p.). In questa prospettiva, quindi, bisogna giungere alla conclusione che all'art. 115 c.p. si deve riconoscere una ed. forza di espansione logica, tale da indurre a riservare lo stesso trattamento giuridico a tutti quegli atti che, anche se non sono commessi in occasione di un accordo, presentano, tuttavia, la loro stessa natura giuridica. Così ragionando, allora, potranno (e dovranno) essere considerati idonei gli atti non meramente preparatori, bensì esecutivi del delitto intrapreso, che siano, quanto meno, riconducibili alla categoria dei ed. atti iniziali: così, ad es., non saranno, di regola, considerati atti iniziali l'acquisto di un potente veleno o la pulizia di un'arma, con i quali si intende commettere un omicidio, o l'approntamento di un falso documento al fine di realizzare una truffa (tali atti, infatti, sono sì idonei a realizzare la specifica finalità a cui ciascuno di essi è destinato, ma, come in genere si ammette, condotte di questo genere non sono considerate attività Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com punibili come tentativo, in ragione del fatto che il requisito dell'idoneità degli atti deve essere delimitato ai soli atti concreti e cioè esecutivi del delitto). Una volta stabilito il significato del termine idoneità, occorre analizzare lo schema che il giudice è chiamato a utilizzare, onde stabilire l'idoneità degli atti; a tal proposito, va tenuto presente che l'idoneità degli atti di tentativo deve essere valutata mediante un giudizio prognostico: in pratica, il giudice, riportandosi idealmente nella posizione in cui il soggetto agente si trovava al momento del fatto, dovrà accertare, sulla base delle conoscenze proprie di un uomo medio (arricchite eventualmente delle ulteriori conoscenze dell'autore concreto), se gli atti fino a quel momento compiuti rendevano probabile la consumazione del delitto. Ragionando in questi termini, gli atti potranno essere considerati inidonei qualora, ad es., venga a mancare l'oggetto materiale dell'azione, come nel caso di chi esploda dei colpi di fucile contro una casa disabitata, da cui la vittima è assente da tempo; gli atti, per contro, saranno considerati idonei laddove la mancanza dell'oggetto dell'azione sia del tutto occasionale, come nel caso in cui la vittima si sia spostata in un ambiente diverso della stessa casa, contro la cui finestra vengono esplosi dei colpi di fucile. b) l'univocità degli atti di tentativo Gli atti, come già detto, oltre ad essere idonei devono anche essere diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto; in relazione a questo punto, però, parte della dottrina ritiene che il requisito dell' univocità abbia soltanto una valenza probatoria: varrebbe, in altri termini, a provare il dolo dell'agente. Viceversa, altra parte della dottrina sostiene che l'univocità andrebbe desunta dalle caratteristiche intrinseche della condotta, così da poterla cogliere in modo oggettivo. Ad onor del vero, però, gli orientamenti della dottrina dominante, ma soprattutto la maggior parte delle soluzioni offerte dalla giurisprudenza, sembrano confermare che gli atti di tentativo possono essere considerati diretti in modo non equivoco a commettere un delitto quando essi si presentino prossimi all'esecuzione del reato (sia dal punto di vista spazio-temporale, che da quello logico-causale): in questa prospettiva, allora, il tentativo, ad es., sarà da considerare punibile nel caso di malviventi sorpresi nelle immediate adiacenze di una banca, con pistole cariche ed in possesso di una serie di strumenti idonei a compiere una rapina, con le auto parcheggiate in modo tale da facilitare la fuga; e lo si escluderà, per contro, se il proposito criminoso è scoperto quando i banditi, pur avendo predisposto ogni cosa, non si sono, tuttavia, ancora mossi dalla loro base logistica. §4. L'elemento psicologico del delitto tentato a) tentativo e dolo eventuale L'atteggiamento psicologico rilevante per il tentativo è costituito dal dolo: questo lo si desume sia dalla struttura dell'azione del tentare, sia dalla formula propria dell'art. 56 c.p., che implica la direzione degli atti verso la commissione di un delitto. In nessun caso, quindi, potrebbe ipotizzarsi un delitto colposo tentato, anche perché mancherebbe, in questo caso, una espressa previsione legislativa; allo stesso modo, il tentativo non è configurabile neppure nel delitto preterintenzionale, perché il delitto più grave è un delitto ormai consumato, mentre gli atti diretti a realizzare il delitto meno grave hanno cagionato un evento più grave di quello voluto dall'agente. Una questione alquanto controversa concerne, invece, il rapporto tra tentativo e dolo eventuale: al riguardo, parte della dottrina sembra orientata per la non configurabilità del dolo Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com eventuale, dal momento che non si potrebbe considerare diretta in modo non equivoco alla commissione di un delitto l'azione di chi si rappresenta solo come possibile la verificazione di un certo evento. E, però, come ha precisato la dottrina dominante, non si comprende il motivo per il quale ciò che al momento dell'azione sarebbe sufficiente a costituire l'agente in dolo eventuale, rispetto al delitto consumato, ex post dovrebbe ritenersi insufficiente, se l'evento non si verifica per ragioni indipendenti dalla volontà dell'agente: così, ad es., se Tizio, al fine di cagionare la morte di Caio, gli esplode contro una rivoltellata, prevedendo che da ciò potrà anche derivare la morte di Mevio, che cammina accanto a Caio, Tizio risponderà, qualora Mevio resti illeso o ferito, anche di tentato omicidio nella persona di costui, così come avrebbe risposto di omicidio doloso nel caso in cui Mevio fosse rimasto ucciso. b) tentativo e circostanze Particolarmente interessante è, poi, anche il rapporto tra delitto tentato e circostanze del reato; a tal proposito, la dottrina suggerisce di distinguere, in via preliminare, due ipotesi: il tentativo di delitto circostanziato e il tentativo circostanziato di delitto. Il tentativo di delitto circostanziato è un tentativo di un delitto che, ove fosse pervenuto a consumazione, sarebbe stato qualificato da una o più circostanze: tale è, ad es., nel piano dell'agente, l'azione diretta allo svuotamento di una cassaforte contenente dei gioielli di inestimabile valore). Tuttavia, in questa sede, è opportuno sottolineare che l'art. 59 c.p., nel disciplinare l'imputazione oggettiva della circostanza, ne presuppone, in ogni caso, l'esistenza; di conseguenza, almeno in quanto trattasi di circostanza che si realizza solo in presenza della compiuta realizzazione della fattispecie tipica, violerebbe il principio di legalità l'imputazione oggettiva di un elemento accidentale del reato (dato che lo stesso non si è ancora realizzato). In dottrina ed in giurisprudenza, invece, si ammette la configurabilità del tentativo circostanziato di delitto, perché, in tal caso, l'azione di tentativo si presenta essa stessa corredata dalla presenza della circostanza (così, ad es., Tizio tenta, senza riuscirvi, di forzare la porta di ingresso di un'abitazione, al cui interno si propone di commettere un furto: in tal caso, sarà configurabile, a carico dell'agente, l'aggravante prevista nel n. 2 dell'art. 625 c.p., cioè la violenza sulle cose). §5. Tentativo e tipologie delittuose Per quanto l'art. 56 c.p. si riferisca in modo indifferenziato a qualsiasi categoria di delitti, non v'è dubbio, comunque, che la fattispecie del tentativo punibile non può trovare applicazione per talune tipologie delittuose. Innanzitutto, il delitto tentato non è configurabile nei reati di pericolo concreto, perché la condotta che determina l'insorgere di un pericolo per il bene giuridico assume già rilevanza come reato consumato; il delitto tentato è, invece, configurabile nei reati di pericolo astratto o presunto, in quanto è perfettamente ipotizzabile la rilevanza di atti diretti in modo non equivoco a produrre la situazione pericolosa, che per un intervento esterno siano bloccati sul nascere: si pensi, ad es., a chi viene sorpreso e bloccato mentre sta cospargendo di benzina una costruzione, allo scopo di appiccarvi il fuoco. Il delitto tentato è configurabile anche nei reati di pura condotta, ma solo nella forma del tentativo incompiuto: se, infatti, la condotta si è interamente realizzata c'è quanto basta per la consumazione del reato; viceversa, nei reati unisussistenti il delitto tentato è concepibile solo nella forma del tentativo compiuto, dato che per la configurabilità del tentativo incompiuto è necessario che la condotta si configuri come iter divisibile (iter che, per definizione, non è presente nei reati unisussistenti). Il delitto tentato è, poi, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com configurabile anche nei reati abituali: è ben possibile, infatti, il compimento, senza successo, di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere quei fatti che, da soli o aggiungendosi ai precedenti, avrebbero certamente integrato la serie minima richiesta per l'esistenza del reato abituale (è questo, ad es., il caso del lenone che richieda alle sue protette il versamento di somme di denaro con l'invio di lettere, che vengono, però, intercettate). Il delitto tentato è configurabile anche nei reati permanenti, ma solo nel caso in cui la condotta esecutiva sia frazionabile e l'interruzione dell'iter criminis intervenga prima della consumazione: così, ad es., un tentato sequestro di persona sarà configurabile solo se l'iniziativa fallisca sul nascere (ad es., per la resistenza della vittima). Il delitto tentato è, altresì, configurabile nei delitti sottoposti ad una condizione oggettiva di punibilità, sempre che, ovviamente, la condizione si sia verificata in modo concreto e che il suo verificarsi non richieda la consumazione del delitto: ad es., il tentativo non è configurabile nel delitto di induzione al matrimonio mediante inganno (ove per inganno si deve intendere l'occultamento di un impedimento diverso dal precedente matrimonio), perché la condizione di punibilità ivi prevista (cioè l'annullamento del matrimonio a cagione dell'impedimento occultato) richiede l'avvenuta commissione del reato. Il delitto tentato è, poi, configurabile nei delitti omissivi: beninteso, nessun problema sorge in relazione ai delitti omissivi impropri, ove il delitto tentato è configurabile sia nella forma del tentativo compiuto che in quella del tentativo incompiuto (si pensi, ad es., alla madre che ometta di nutrire il proprio figlio, allo scopo di farlo morire, senza tuttavia riuscire nell'intento criminoso). Per quanto riguarda, invece, i delitti omissivi propri, è necessario sottolineare che la dottrina dominante propende per l'inammissibilità del tentativo, perché se il termine utile per compiere l'azione doverosa non è ancora scaduto, il non averla compiuta non implica ancora violazione dell'obbligo; mentre, una volta scaduto il termine, il reato è consumato. Una parte minoritaria della dottrina ammette, invece, la configurabilità del tentativo anche nei delitti omissivi propri, a condizione, però, che possa individuarsi un iter frazionabile: in quest'ottica, potrà, ad es., configurarsi una condotta di tentativo nel caso in cui l'agente abbia posto in essere atti diretti in modo non equivoco e si sia messo nell'impossibilità di adempiere all'obbligo (è questo il caso di chi si reca in un paese lontano, al fine di trovarsi nell'impossibilità materiale di compiere un atto d'ufficio, ma altri al suo posto vi provvede; o di chi, essendo tenuto al soccorso, ex art. 593 c.p., tenti di allontanarsi dal luogo dell'incidente, ma venga costretto dai soggetti presenti a prestare il dovuto soccorso). Il tentativo non è, invece, configurabile nel c.d. delitti di attentato (o a consumazione anticipata), perché in questi tipi di illecito la condotta necessaria e sufficiente per il delitto tentato è già rilevante per la consumazione: in questi casi, in realtà, ci si trova di fronte ad un'ipotesi di concorso di norme, in cui la norma speciale (quella che prevede il delitto di attentato) prevale sulla norma generale (che prevede il delitto tentato). §6. Desistenza volontaria e recesso attivo a) la desistenza volontaria Il co. 3 dell'art. 56 c.p. stabilisce che se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. La disposizione in esame disciplina la ed. desistenza volontaria: figura che ricorre nel caso in cui la condotta tipica, prima di giungere a compimento, venga interrotta per Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com decisione dello stesso autore; nonostante ciò, però, il colpevole sarà considerato, in ogni caso, responsabile per il reato diverso, che ha eventualmente cagionato: così, ad es., chi interrompe un'azione di furto, che implichi l'effrazione di una serratura, sarà chiamato a rispondere di danneggiamento, ex art. 635 c.p., se avrà desistito solo dopo aver danneggiato, più o meno gravemente, la serratura stessa. Ovviamente, nei delitti commissivi (come nell'esempio di cui sopra) ad integrare la desistenza è sufficiente che il soggetto agente arresti il compimento degli atti diretti a commettere il delitto; viceversa, nei delitti omissivi si richiede, per la configurabilità della desistenza, che l'autore si attivi nella direzione opposta (quella del compimento dell'azione doverosa): è questo il caso, ad es., della madre che riprenda a nutrire il bambino, che aveva deciso di lasciar morire (in tal caso, si parlerà di desistenza dal tentativo di commettere un reato omissivo improprio) o il caso del pubblico ufficiale che, essendo partito per luoghi lontani, allo scopo di porsi nella condizione di non poter compiere l'atto nei termini dovuti, discenda dall'aereo al primo scalo e ritorni in sede, in tempo per adempiere ai doveri del suo ufficio (in questo caso, si parlerà di desistenza dal tentativo di commettere un reato omissivo proprio). Da quanto detto si intuisce, tra l'altro, che la figura della desistenza volontaria può riguardare solo un tentativo incompiuto, perché non è affatto possibile desistere da un'azione che si è già compiuta per intero. Per quel che riguarda, invece, il fondamento politico-criminale dell'istituto, occorre sottolineare che in dottrina risulta ormai superata la tesi di coloro i quali ritenevano che la ratio della desistenza andasse ricercata (da un punto di vista general-preventivo) nel fatto che il legislatore avrebbe preferito creare, in determinate situazioni, un ed. ponte d'oro per il soggetto che avesse deciso di abbandonare il proposito criminoso: in altre parole, si riteneva che, fino a quando non si fosse verificata la consumazione del reato, era opportuno (onde scongiurarla) mettere a disposizione dell'agente una via d'uscita, consistente nella promessa di impunità per il tentativo incompiuto, qualora l'autore avesse volontariamente rinunziato alla prosecuzione dell'azione. Contrariamente a quest'orientamento, la dottrina prevalente ritiene, invece, che la ratio dell'istituto deve essere ricercata sotto l'angolo visuale della prevenzione speciale, dal momento che colui che, di sua iniziativa, è ritornato sui suoi passi, rinunciando a commettere il delitto, manifesta una scarsa determinazione a delinquere, ragion per cui, nei suoi confronti, non sorgerebbero esigenze né di rieducazione, né tanto meno di risocializzazione. Quanto detto ci fa deve far comprendere, perciò, che la questione della desistenza dal tentativo rappresenta uno specifico problema di politica criminale (in tal senso, Roxin), perché l'effetto dell'impunità, che scaturisce dalla desistenza, si ricollega al requisito della volontarietà; e si tratta di un requisito che andrà appunto interpretato dal punto di vista della teoria degli scopi della pena: così, ad es., se un soggetto lascia ricadere il braccio già pronto a vibrare il colpo mortale, perché all'ultimo momento non trova il coraggio di uccidere la vittima, per il riconoscimento del requisito della volontarietà non rileva la questione se per l'agente fosse stato ancora psichicamente possibile un ulteriore comportamento. Al contrario, ciò che è essenziale è il fatto che la desistenza si presenti come irrazionale e si configuri come un ritorno alla legalità; se, invece, l'autore desiste solo perché è stato visto e teme una denuncia, certamente gli può essere ancora molto facile la consumazione del delitto; ma ciò non ha alcuna importanza, perché quel che conta è che la desistenza risulta, in tal caso, razionale: ci troviamo, cioè, di fronte ad un delinquente intelligente, nei cui confronti non vengono assolutamente attenuate le esigenze di natura special-preventiva. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com b) il recesso attivo Ai sensi del co. 4 dell'art. 56 c.p., se il colpevole di un delitto tentato volontariamente impedisce l'evento, soggiace solo alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà. Questa disposizione disciplina il ed. recesso attivo: figura attraverso la quale il nostro legislatore ha inserito nel sistema una circostanza attenuante speciale (perché riferibile al solo delitto tentato) e ad effetto speciale. Quando si parla di recesso attivo si vuole alludere, in particolare, ad una condotta susseguente al compimento dell'azione, che sia diretta volontariamente a impedire il verificarsi dell'evento (si pensi, ad es., al caso in cui Tizio, dopo aver gettato Caio in un fiume, lo salvi prima che lo stesso anneghi). A prima vista, quindi, desistenza e recesso sembrano presentarsi come due ipotesi differenti, perché la prima (cioè la desistenza) si riferisce ad una condotta che non si compie, mentre il secondo (il recesso) presuppone un tentativo compiuto. A ben vedere, tuttavia, la distinzione tra recesso e desistenza non esclude la presenza di particolari difficoltà, che possono riscontrarsi in concreto e che, in realtà, fanno entrare in crisi lo stesso criterio di delimitazione tra le due figure: così, ad es., premesso che non si può parlare di desistenza volontaria una volta che l'agente abbia liberato le proprie energie dirette a cagionare l'evento, e che il recesso, invece, implica un'attività di controintervento, si dovrebbe pervenire alla paradossale conclusione di escludere sia la desistenza che il recesso nel caso di chi, dopo aver esploso, contro la vittima designata di un omicidio, un solo colpo d'arma da fuoco, andato a vuoto, (quindi, l'autore non può più desistere dall'azione) rinunci poi a esplodere gli altri colpi che ha in canna (dunque, non si può parlare di recesso attivo, perché l'autore si astiene solo dall'agire ulteriormente). Tra l'altro, è necessario tener presente che la difficoltà di tracciare un confine netto tra desistenza e recesso emerge, in modo significativo, nel settore dei reati omissivi impropri, perché in tali casi la condotta doverosa implica necessariamente un'attività impeditiva dell'evento (vi potrebbe, quindi, essere una sovrapposizione tra desistenza e recesso): per risolvere il problema, allora, la dottrina dominante ha precisato che, se per paralizzare l'efficienza del processo causale, è sufficiente intraprendere l'azione doverosa, che era stata omessa, si dovrà parlare di desistenza volontaria (si pensi, ad es., alla madre che riprenda a nutrire l'infante, desistendo dal tentativo di omicidio); al contrario, se per scongiurare il verificarsi dell'evento è necessario intraprendere una azione diversa, si dovrà parlare di recesso attivo (così, ad es., nel caso in cui la madre si ravveda in modo tardivo, solo un energico intervento terapeutico potrà salvare il bambino). Sezione III Il concorso di persone nel reato Capitolo unico §1. Il fenomeno della partecipazione di più persone ad un reato Nel nostro ordinamento la norma-base dettata per la disciplina del concorso di persone è contenuta nell'art. 110 c.p., il quale stabilisce che quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. Nell'ambito del concorso di persone occorre, però, distinguere, in via preliminare, le ipotesi del ed. concorso necessario da quelle del ed. concorso eventuale: invero, nei reati a concorso necessario, la presenza di più soggetti appartiene necessariamente, appunto, alla struttura del fatto tipico (si pensi, ad es., all'uso delle armi in duello, alla bigamia, alla rissa, all'associazione per delinquere, all'associazione mafiosa e ai reati Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com associativi). Si parla, invece, di reati a concorso eventuale in riferimento ai casi in cui, la fattispecie legale è costruita sullo schema del reato monosoggettivo, ma in concreto il fatto può essere realizzato anche con la partecipazione ed il contributo di più soggetti: per questi reati l'art. 110 c.p. svolge una funzione costitutiva, perché dà la possibilità di sanzionare condotte che altrimenti non potrebbero essere punite, in quanto atipiche e, quindi, penalmente irrilevanti (si pensi, ad es., al mandante di un omicidio ovvero alla condotta di chi fa da palo). §2. Le tecniche di incriminazione delle condotte di partecipazione Dal punto di vista politico-criminale, l'esigenza di punire tutti coloro che abbiano fornito un contributo, comunque, significativo alla commissione di un reato, non può essere certamente perseguita mediante l'implicita estensione della nozione di autore del reato a tutti i concorrenti. Pertanto, allo scopo di risolvere questo problema, gli ordinamenti penali più evoluti prevedono attualmente due specifiche tecniche di incriminazione: la prima è quella che va sotto il nome di modello differenziato, così denominato perché esso distingue le diverse forme di partecipazione in base al ruolo rivestito da ciascun concorrente nella commissione del fatto (questo modello era stato adottato dal codice Zanardelli del 1889, il quale, agli artt. 63 e 64, distingueva, infatti, tra correi e determinatori, da un lato, ed istigatori, dall'altro). La seconda tecnica di incriminazione è, invece, detta del modello unitario, in virtù del quale tutti i compartecipi sono, in identica misura, responsabili, a prescindere dalla forma di partecipazione al reato: il modello unitario è stato scelto dai compilatori del codice Rocco, così come si può ricavare dalla lettura dell'art. 110 c.p. Tuttavia, è bene precisare che la presenza di questa norma nel nostro sistema non ha eliminato l'esigenza di distinguere, ancora oggi, le diverse forme di partecipazione al reato; ciò, del resto, è confermato dalla constatazione circa il fatto che la differenza di ruolo e di apporto psichico o materiale alla realizzazione del reato può incidere sulla pena, nel momento in cui il giudice provvedere alla sua concreta commisurazione. §3. Le teorie giuridiche del concorso La dottrina del concorso di persone nel reato oscilla essenzialmente tra due poli: • quello dell' accessorietà delle condotte di concorso; • quello della riconduzione del fenomeno concorsuale all'idea di una o più fattispecie plurisoggettive eventuali. In dettaglio, l'idea dell' accessorietà, tipica dei modelli differenziati di disciplina del concorso, cerca di porre nel giusto rilievo le ed. condotte atipiche di partecipazione al reato (determinazione, istigazione, agevolazione, età): la rilevanza penale di queste condotte implica, infatti, l'esistenza di un rapporto servente rispetto alla realizzazione di una fattispecie conforme a quella descritta, nella forma monosoggettiva, da una norma incriminatrice di parte speciale. Tuttavia, in ragione del fatto che il principio dell'accessorietà presuppone l'esistenza di un fatto principale (a cui accede la condotta di concorso), parte della dottrina ritiene che esso non sarebbe idoneo ad esprimere, in una formula unitaria, la struttura del concorso di persone nel reato: si osserva, ad es., che nessun rapporto di accessorietà lega tra di loro quelle condotte di concorso caratterizzate dal compimento dell'intera azione tipica da parte di tutti i correi (come nel caso in cui più persone sparino contemporaneamente contro lo stesso bersaglio). Il principio dell'accessorietà manifesta, poi, particolari problemi anche in relazione ai casi di ed. esecuzione frazionata del reato: qui, infatti, il carattere complementare delle condotte dei concorrenti può essere ricondotto all'idea dell'accessorietà solo con una Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com certa forzatura, visto che verrebbe a mancare, comunque, la realizzazione, per intero, di un fatto principale (come descritto in una norma incriminatrice di parte speciale, in forma monosoggettiva): si pensi, ad es., al caso in cui Tizio minacci con una pistola Caio, ma è Mevio che sottrae il portafogli alla vittima (in tale ipotesi, la condotta dei due concorrenti è frazionata, ma nessuna delle due accede all'altra, perché entrambi i concorrenti realizzano, ciascuno per la sua parte, un fatto principale). In ogni caso, al di là delle critiche mosse al principio in esame, è bene tener presente che il carattere dell' accessorietà costituisce una figura di qualificazione assolutamente insostituibile, perché è solo attraverso tale principio che si riesce a cogliere, in modo puntuale, la rilevanza del fenomeno della ed. tipicità indiretta (cioè, la rilevanza delle condotte atipiche). Per quel che riguarda, invece, la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale (tipica dei modelli unitari), va detto che tale principio riesce a cogliere, in modo puntuale, l'importanza del rapporto che intercorre tra la norma incriminatrice di parte speciale e l'art. 110 c.p.: non v'è dubbio, infatti, che dall'integrazione delle due norme (cioè, tra la norma speciale e l'art. 110) scaturisce non solo l'effetto di attribuire rilevanza penale a condotte di per sé atipiche, ma anche quello di dar luogo ad un'autonoma fattispecie normativa (una fattispecie che, da un lato, include, tra i propri elementi, il verificarsi dell'ipotesi descritta nella norma penale incriminatrice speciale, in forma monosoggettiva e, dall'altro lato, estende l'imputazione della sua realizzazione anche a soggetti diversi dall'esecutore, o dagli esecutori, per il tramite dell'art. 110 c.p.). §4. La struttura del concorso di persone (art. 110 c.p.) a) il significato del termine reato, ex art. 110 c.p. Perché si possa parlare di concorso di persone nel reato è necessario, anzitutto, che più persone (cioè, più soggetti attivi) prendano parte alla realizzazione di un reato, nei termini stabiliti ex art. 110 c.p.; tuttavia, ai fini che ci riguardano, è bene precisare che alla locuzione reato, ex art. 110 c.p., non può qui assegnarsi il significato tradizionale di fatto tipico, antigiuridico e colpevole. E, invero, che la colpevolezza personale dell'esecutore non costituisca una condicio sine qua non per la rilevanza giuridica del concorso risulta comprovato non solo dalla formulazione dell'art. Ili c.p. (il quale, infatti, prevede un aggravamento della pena per chi abbia determinato a commettere un reato una persona non imputabile o non punibile a cagione di una sua condizione personale), ma anche dalla formulazione del successivo art. 119, co. 1 c.p., ad avviso del quale le circostanze soggettive che escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto nei confronti delle persone cui si riferiscono. Volendo, allora, essere più chiari: se la legge, da un lato, prevede un aggravamento di pena per chi abbia determinato a commettere il reato una persona non imputabile ovvero non punibile (a causa di una sua condizione o qualità personale) e, dall'altro, lascia inalterata la rilevanza giuridica delle condotte di concorso, anche nel caso in cui la responsabilità di taluno di coloro che sono concorsi nel reato (compreso, quindi, anche l'esecutore) venga meno per la sussistenza di una circostanza soggettiva di esclusione della pena, se ne deve dedurre che la colpevolezza dell'autore non appartiene alla nozione di reato, nel significato che quest'inciso assume nel contesto degli artt. 110 e ss. c.p.). Ma dallo stesso art. 119 c.p. si desume anche l'irrilevanza del carattere antigiuridico del fatto in cui si concorre: la norma in esame, al co. 2, stabilisce, infatti, che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com tutti coloro che sono concorsi nel reato (in questo modo, il fenomeno della compartecipazione criminosa viene collocato in uno stadio antecedente alla valutazione della sussistenza di una esimente, che sia capace di escludere l'antigiuridicità del fatto). Perciò, dalla combinazione delle disposizioni esaminate, si può concludere dicendo che la base di riferimento per il configurarsi di una condotta di concorso penalmente rilevante è, senza dubbio, costituita dalla realizzazione di un fatto che sia conforme a una fattispecie legale (ed. fatto tipico), a prescindere non solo dalla sua antigiuridicità, ma anche dalla colpevolezza personale dell'autore (o degli autori) del fatto. b) la determinazione del concetto di reato, ex art. 115 c.p. Perché si possa configurare il fenomeno del concorso di persone nel reato, dal punto di vista della fattispecie oggettiva, è necessario che almeno uno dei concorrenti realizzi un fatto che rivesta, almeno, il carattere di inizio dell'attività esecutiva di un reato: compia, in altre parole, atti non meramente preparatori e diretti in modo non equivoco alla commissione di un reato; ciò, del resto, risulta confermato dalla formulazione dell'art. 115 c.p., il quale, come sappiamo, stabilisce che qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo (in tal modo, ad es., la condotta di chi fa da palo potrà assumere il carattere di inizio dell'attività criminosa se egli si pone di guardia davanti ad un negozio, nell'attimo stesso in cui il complice vi si introduce per eseguire il furto; per contro, la stessa condotta non potrà assumere alcuna rilevanza penale, se il compito di colui che fa da palo è quello di sorvegliare una strada, in cui segnalare al complice potenziali vittime di furti, almeno fino a quando il concorrente non ponga in essere qualche atto iniziale dell'esecuzione criminosa). c) il valore causale dell'atto di partecipazione Una volta assodato che, dal punto di vista oggettivo, per l'esistenza di una fattispecie rilevante come concorso, è necessario che più persone prendano parte alla comune realizzazione di un reato, bisogna chiedersi: a quali condizioni è rilevante il concorso nel reato? Ora, secondo la teoria tradizionale, accolta dai compilatori del codice, perché si configuri il concorso di persone nel reato è necessario che la condotta di ciascun concorrente sia stata condicio sine qua non del fatto di reato, nel senso che, in assenza del contributo di tutti i concorrenti, il fatto non si sarebbe assolutamente configurato. Così ragionando, però, si escludono dal concorso di persone tutte quelle ipotesi nelle quali l'attività del partecipe si riveli inutile o, addirittura, dannosa: si pensi, ad es., alla condotta del concorrente che abbia fornito un sofisticato strumento da scasso, poi non adoperato; o del palo che, però, non abbia dovuto svolgere alcuna attività. Per superare queste difficoltà, allora, la dottrina contemporanea e la giurisprudenza della Cassazione hanno (a ragione) sottolineato che, accanto all'ovvia rilevanza dei contributi causali, è necessario, ai fini del concorso, tener conto anche e soprattutto di quei contributi che ricadono nel quadro della ed. causalità agevolatrice: cioè, di quei contributi che abbiano facilitato la realizzazione del reato, dal punto di vista materiale o dal punto di vista psichico (sostenendo, cioè, il proposito criminoso). Ragionando in questi termini, dottrina e giurisprudenza sono, altresì, giunte a fissare alcuni punti fermi, in modo da sgombrare il campo da eventuali dubbi; in dettaglio, questi punti si estrinsecano nel modo seguente: • nell'ambito del concorso di persone, rilevano anche le condotte omissive (non aver impedito il reato), laddove queste abbiano assunto un preciso valore causale (così, ad es., concorre nel reato di furto anche il custode che ometta di chiudere le porte o di attivare gli appositi allarmi, sì da facilitare l'ingresso e la connessa opera dei ladri); Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • tra la fine degli anni '80 e gli inizi degli anni '90 del secolo scorso, la Cassazione è intervenuta più volte al fine di chiarire la differenza che intercorre tra la connivenza e il concorso nel reato. In questa prospettiva, la Corte ha precisato che ricorre la prima (connivenza) nel caso in cui taluno sia a conoscenza del fatto che altri soggetti stanno per commettere un reato; ricorre, invece, la seconda figura (concorso) nell'ipotesi in cui un soggetto apporti un qualsiasi contributo alla realizzazione del fatto collettivo (in virtù di questa distinzione, il Collegio, tra l'altro, ha avuto modo di precisare che nell'ambito della seconda figura vi rientra anche la mera presenza alla commissione del reato, la quale, invero, può assumere i connotati del fatto di partecipazione nel caso in cui la stessa abbia agevolato la realizzazione del reato ovvero abbia rafforzato l'altrui proposito criminoso). d) l'elemento psicologico del concorso e i casi di reità mediata Quanto alla fattispecie soggettiva, è necessario che la condotta dell'esecutore (o degli esecutori) sia assistita non solo dalla coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico, ma anche dalla volontà di collaborare con altri alla realizzazione del fatto collettivo. E bene tener presente, però, che non è richiesto anche il ed. previo concerto: in questo modo, concorre, ad es., nel reato anche la domestica infedele che, in odio ai suoi datori di lavoro, essendo venuta casualmente a conoscenza che nella notte avrà luogo un furto in casa, lasci di proposito socchiusa la porta, così da facilitare l'accesso ai ladri. Tuttavia, nonostante quanto detto, la dottrina dominante ritiene che, nell'ambito del concorso di persone, per reato, ai fini e per gli effetti dell'art. 110 c.p., si dovrebbe intendere la semplice realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato da parte di taluno dei correi; in altri termini, per aversi concorso di persone, sarebbe sufficiente che almeno uno dei compartecipi abbia realizzato la condotta oggettiva descritta nella norma penale, a prescindere dal fatto che l'autore materiale (l'esecutore) abbia agito o meno con l'elemento psicologico caratteristico del tipo. E, però, è evidente che dietro questa concezione si annida il vecchio concetto causale dell'azione, che, a sua volta, lascia affiorare i residui della concezione psicologica della colpevolezza: di conseguenza, ragionando in questi termini, l'intero fenomeno della compartecipazione criminosa viene ricondotto allo schema dell'efficienza causale e al meccanismo del concorso di cause (ex art. 41 c.p.). Ad ogni modo, per quanto ancora largamente accreditata, la citata teoria non può essere condivisa, perché le regole dell'interpretazione suggeriscono la conclusione opposta: e cioè quella per la quale la nozione giuridica di reato, ai fini della struttura del concorrere, non può essere ricostruita, in termini penalistici, se non in riferimento al contenuto della volontà dell'autore (non è, infatti, difficile dimostrare la differenza che passa tra il fatto di chi induce all'azione un soggetto privo di dolo - come, ad es., avviene, nei casi di ed. reità mediata - e quello di chi concorre nel fatto doloso altrui). Ora, come sappiamo, le ipotesi classiche di reità mediata, nel nostro ordinamento, sono rappresentate dalle fattispecie del costringimento fisico e dell'errore determinato dall'altrui inganno: queste ipotesi comportano il trasferimento della responsabilità penale dall'autore materiale all'autore mediato, che detiene l'effettiva padronanza dei decorsi causali (cioè, la signoria del fatto). Al contrario, non concreta un caso di reità mediata l'ipotesi del costringimento psichico (ex art. 54 c.p.), perché in tal caso la condotta dell'esecutore materiale, integrando gli estremi di un fatto tipico doloso (anche se non punibile), realizza i requisiti minimi richiesti per il concorso del ed. detcrminatore: non a caso, il tipo di fatto di cui questi sarà chiamato a rispondere dipenderà dalla decisione di chi subisce la minaccia (sarà quest'ultimo, cioè, a scegliere per entrambi il reato): così, ad es., Tizio, inseguito con Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com intenzioni omicide da un malvivente armato, trova una via di scampo mediante un fatto lesivo dell'altrui proprietà (che potrà essere l'effrazione di una serratura, con conseguente violazione di domicilio, o il furto di un'autovettura o, ancora, l'incendio di cose altrui, con l'intento di tagliare la strada all'inseguitore). Ovviamente nei casi citati il determinatore dovrà essere qualificato (insieme all'esecutore materiale) come coautore del fatto, perché ne compossiede il dominio finalistico. §5. Autori e partecipi nella struttura del concorso di persone La struttura dell'azione collettiva pone l'esigenza di stabilire con precisione il ruolo di tutti i concorrenti nell'ambito della realizzazione del fatto comune: a ciò si riferisce la distinzione che tradizionalmente viene fatta tra autori e partecipi (distinzione che, pur non trovando un esplicito riconoscimento normativo nel sistema, vede, tuttavia, riproposta la sua rilevanza attraverso la formulazione degli artt. Ili ss. c.p.). In questa prospettiva, ai fini e per gli effetti del concorso di persone nel reato, si considera autore (o coautore) del fatto colui che realizza, con l'elemento psicologico richiesto, la fattispecie esecutiva di un reato; è bene precisare, però, che la qualità di autore può anche essere composseduta da altri soggetti, i quali, pur non prendendo parte all'esecuzione del reato, possono, tuttavia, decidere se lo stesso debba essere o meno commesso. In effetti, va tenuto presente che la qualità di autore dipende dalla circostanza che il soggetto possiede la signoria del fatto (nel senso che la commissione del reato dipende dalla sua decisione): si pensi, ad es., al capo di un'organizzazione criminale, che ordini ad un gregario di sopprimere un avversario. La posizione di autore non spetta, invece, ai soggetti, il cui contributo si risolve in un semplice sostegno alla realizzazione del fatto, eseguito però da altri; pertanto, non è autore, ma mero partecipe colui che vuole sì il fatto, ma pur sempre sotto condizione della decisione dell'autore e che, pertanto, non ne compossiede il dominio finalistico; rientrano in questa categoria le ipotesi del c.d. concorso morale e, in particolare, la condotta del determinatore e quella dell'istigatore: più precisamente, determinatore è il soggetto che fa sorgere in altri un proposito criminoso, che prima non esisteva (va sottolineato, però, che il determinatore, qualora compossieda il dominio finalistico dell'azione, deve essere assolutamente qualificato come coautore del fatto: si pensi, ad es., ai casi dell'ordine illegittimo vincolante e allo stato di necessità determinato dall'altrui minaccia). Istigatore, invece, è colui che rafforza in altri un proposito criminoso già esistente: a tal riguardo, occorre sottolineare che la condotta istigatoria può esplicarsi mediante l'utilizzo di diversi strumenti (dalla più subdola forma di stimolo, al mandato vero e proprio, al suggerimento). Un accenno occorre, infine, dedicarlo ai ed. complici e agevolatori: cioè, a quei soggetti che apportano un qualsiasi contributo materiale alla preparazione e all'esecuzione del reato (come, ad es., fornire il veleno per commettere un assassinio, confezionare un ordigno esplosivo o disinnescare l'allarme). §6. Il concorso nelle fattispecie omissive Per la configurabilità del concorso di persone nei reati omissivi dolosi è necessario che il soggetto o i soggetti che ricoprono la posizione di garante agiscano come coautori del fatto, in quanto, in mancanza della volontaria omissione dell'azione dovuta, non si configura neppure il realizzarsi del reato, a cui dovrebbero accedere le condotte degli eventuali concorrenti. È bene precisare, però, che se l'omissione dell'atto dovuto si verifica, ma per una causa riconducibile a terze persone (e non è, quindi, imputabile alla volontà dell'obbligato), saremo in presenza di un classico caso di reità mediata: si Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com pensi, ad es., al casellante che viene legato da un gruppo di terroristi, allo scopo di impedirgli di azionare uno scambio, così da provocare un disastro ferroviario. §7. La cooperazione colposa (art. 113 c.p.) L'art. 113, co. 1 c.p., stabilisce che nel delitto colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. È bene precisare da subito, però, che il fenomeno della cooperazione colposa non deve essere confuso con il concorso di cause illecite (art. 41 c.p.): in quest'ultimo caso, infatti, vi è la semplice coincidenza causale di più condotte colpose, che non sono collegate tra loro da alcun vincolo psicologico. Nell'art. 113 c.p., viceversa, secondo il costante orientamento dottrinale e giurisprudenziale, a risultare decisive sono la coscienza e la volontà di partecipare ciascuno al fatto dell'altro (di conseguenza, è del tutto evidente che anche nell'ambito della cooperazione colposa è fondamentale il ruolo che gioca l'elemento psicologico). Ovviamente, i soggetti che cooperano in un delitto colposo possono agire tutti come coautori del fatto: come avviene, ad es., nel caso degli automobilisti che danno vita ad una spericolata gara di velocità nel centro cittadino, provocando un sinistro mortale. In altre ipotesi, invece, la condotta di taluno dei concorrenti risulta incriminabile solo perché accede ad una condotta tipica altrui: come nel caso di chi noleggia un'auto ad una persona inesperta nella guida, che in seguito provoca un sinistro mortale (a tal proposito, però, è importante precisare che, in virtù del ruolo ricoperto dall'elemento psicologico, la condotta del noleggiatore potrà assumere rilevanza giuridico-penale, rispetto all'ipotesi dell'omicidio colposo, solo se questo sarà dipeso da imperizia nella guida); allo stesso modo, nel caso in cui un passeggero inciti l'autista del taxi, sul quale è salito, a procedere ad elevata velocità, la sua condotta risulterà incriminabile soltanto se si verificherà un evento che dipenda da una colpa del guidatore, che sia consistita proprio nella violazione della norma di prudenza, in cui il concorrente (cioè il passeggero) si è inserito, da un punto di vista psicologico, con la sua istigazione (e non, invece, se l'evento sarà dipeso da altre cause ovvero sia dovuto a caso fortuito o addirittura sia stato cagionato, dal tassista, con dolo). a) l'inammissibilità di particolari ipotesi di concorso Mentre il concorso colposo nel fatto colposo integra la particolare forma di partecipazione contemplata nell'art. 113 c.p., risulta, invece, impossibile configurare sia l'ipotesi del concorso doloso nel fatto colposo altrui, sia quella del concorso colposo in un fatto doloso altrui. Infatti, l'ipotesi del concorso doloso nel fatto colposo altrui integra, in realtà, un classico caso di reità mediata, perché l'esecutore materiale viene a trovarsi nella condizione di semplice strumento, non doloso, per la realizzazione del fatto: si pensi, ad es., al caso di chi sostituisca, con un potente veleno, il preparato medico che un'infermiera deve iniettare ad un ammalato e che venga effettivamente somministrato, nonostante la differenza di colore e di densità, di cui l'infermiera si sarebbe dovuta accorgere (perciò, qualora l'ammalato dovesse morire, colui che ha sostituito il preparato sarà chiamato a rispondere di omicidio volontario, ex art. 48 c.p.; mentre all'infermiera, lo stesso evento potrà essere addebitato a titolo di colpa, ex art. 47, co. 1 c.p.). L'inammissibilità, invece, del concorso colposo in un fatto doloso altrui trova la propria giustificazione nel fatto che l'agente è tenuto ad evitare i pericoli che derivano dalla propria condotta, ma non ha anche il dovere di impedire che altre persone sfruttino, in modo volontario, una qualsiasi occasione, fornita dal suo comportamento Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com (anche se imprudente o negligente), al fine di commettere un reato: si pensi, ad es., al caso di chi approfitti di un'arma lasciata incustodita per commettere un omicidio (in tal caso, non si potrà assolutamente parlare di concorso nel reato). §8. Il concorso di persone nei reati contravvenzionali La dottrina dominante è concorde nell'ammettere la configurabilità del concorso di persone nelle contravvenzioni dolose, in quanto il termine reato, di cui all'art. 110 c.p., è riconducibile, ovviamente, sia ai delitti che alle contravvenzioni. Al contrario, la rilevanza del concorso nelle contravvenzioni colpose rimane racchiusa nell'ambito di applicazione del concorso di cause, ex art. 41 c.p.: questa conclusione appare obbligata, dato che l'art. 113 c.p. ha limitato l'ammissibilità del concorso nei fatti colposi solo alle ipotesi più gravi (vale a dire ai delitti colposi), lasciando, perciò, fuori le contravvenzioni. §9. Le circostanze aggravanti ed attenuanti del concorso Nonostante l'art. 110 c.p. esprima il principio della pari responsabilità dei concorrenti, il legislatore non ha, tuttavia, escluso la possibilità di graduare la responsabilità di ciascuno dei compartecipi a seconda del contributo apportato alla realizzazione del fatto criminoso. Il codice Rocco, infatti, ammette una diversa graduazione della pena attraverso la previsione di un sistema di circostanze (sia aggravanti che attenuanti), specificamente previste per il concorso di persone (artt. Ili, 112 e 114 c.p.). Analizziamo, anzitutto, l'art. Ili c.p.: questa disposizione, come detto in precedenza, stabilisce un aggravamento della pena per chi abbia determinato al reato una persona non imputabile o non punibile a cagione di una condizione o qualità personale. È bene precisare, però, che la norma in esame pone il problema di distinguere tra determinazione ed istigazione: per la sua applicabilità, infatti, la dottrina ritiene che non sia sufficiente un'opera di convincimento, tendente a rafforzare, nel soggetto non imputabile o non punibile, una decisione criminosa (istigazione), ma si richiede un intervento vero e proprio sulla volontà del soggetto, in modo tale da determinarne le scelte di azione. In quest'ottica, perciò, non v'è dubbio che il determinatore debba essere configurato come autore del fatto: e ciò perché, ove ricorrano le condizioni previste e disciplinate dall'art. Ili c.p., si può affermare che egli (com)possiede il dominio finalistico del fatto (del resto, bisogna tener presente che la ratio di quest'aggravante sta proprio nel disvalore di azione che caratterizza il fatto di chi approfitta dell'immaturità o della condizione di non punibilità di un soggetto, inducendolo a delinquere, assumendosi, in tal modo, anche una sorta di paternità del fatto). L'art. 112, co. 1 c.p. disciplina, invece, quattro diversi tipi di circostanze aggravanti del concorso di persone; in particolare: • il n. 1 stabilisce che la pena da infliggere per il reato commesso è aumentata se il numero di persone che sono concorse nel reato è di cinque o più (va da sé, però, che dal computo dei concorrenti bisogna escludere coloro che, pur avendo contribuito materialmente al fatto, hanno, tuttavia, agito in assenza dell'elemento psicologico richiesto: ad es., la Corte di cassazione, con sent. 1327/91, ha optato per l'esclusione dal computo di chi sia stato assolto per mancanza di dolo); • il n. 2 dell'art. 112 c.p. prevede, invece, come ipotesi aggravante il fatto di chi ha promosso o organizzato la cooperazione nel reato (quest'aggravante, come si può notare, colpisce la condotta di colui che ha rivestito una posizione di dominio dell'azione collettiva, esercitando sui concorrenti una supremazia che gli attribuisce, almeno, la qualità di correo); Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • il n. 3 della norma in esame stabilisce un aggravamento della pena per colui che, nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha detcrminato a commettere un reato persone ad esso soggette (a tal riguardo, è necessario sottolineare che l'inciso autorità, direzione o vigilanza deve essere inteso in modo ampio: quindi, comprensivo di ogni rapporto di subordinazione o di soggezione); • il n. 4 dell'art. 112 c.p. (così come modificato dalla L. 94/2009) statuisce, infine, che la pena è aumentata per chi ha determinato a commettere il reato un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi o con gli stessi ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto l'arresto in flagranza (è bene precisare, però, che nella nozione di infermità deve essere ricompresa non soltanto la condizione del non imputabile o del semi-imputabile, ma anche, ad es., la vecchiaia, nonché tutte le forme di decadimento intellettuale). Dall'analisi delle aggravanti descritte, si può notare come esse si adattino alla figura del correo (o co-autore); per contro, la speciale circostanza attenuante prevista dal co. I dell'art. 114 c.p. sembra riferirsi solo ed esclusivamente all'opera dei meri partecipi: stabilisce, infatti, questa disposizione che il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da taluna delle persone concorse nel reato abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione dello stesso, può diminuire la pena (in effetti, com'è stato affermato in sede giurisprudenziale, solo l'opera di un complice, e non quella di un correo, può assumere una rilevanza così ridotta da potersi definire minima). a) i limiti di comunicabilità delle circostanze ordinarie II reato in cui si concorre può anche risultare circostanziato: cioè, può presentare gli estremi per l'applicazione di una o più circostanze aggravanti o attenuanti ordinarie (ex artt. 61 e 62 c.p.). Tuttavia, dato che solo in alcune ipotesi la circostanza si può dire attinente all'intera fattispecie plurisoggettiva (si pensi, ad es., all'aggravante del danno di rilevante gravità o all'omologa attenuante del danno lieve), in dottrina si è posto il problema di stabilire l'estensibilità agli altri concorrenti delle circostanze che si riferiscono alle qualità ed ai comportamenti solo di alcuni di essi. Nel nostro ordinamento, il problema è stato risolto alla stregua dell'art. 118 c.p., il quale, infatti, stabilisce che le circostanze aggravanti ed attenuanti riguardanti i motivi a delinquere, l'intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole (cioè, quelle attinenti all'imputabilità ed alla recidiva) sono valutate solo con riguardo alla persona cui si riferiscono: da questa disposizione, pertanto, se ne deduce, a contrario, che tutte le altre circostanze si estendono anche agli altri concorrenti (nei limiti, ovviamente, di quanto disposto dall'art. 59, co. 1 e 2 c.p.). Così, ad es., sono estensibili ai concorrenti (se da essi conosciute) anche le eventuali circostanze aggravanti che derivano da una qualità personale di un altro concorrente (diverse da quelle riguardanti l'imputabilità o la recidiva): si pensi al concorso in un reato comune con un pubblico ufficiale (art. 61, n. 9 c.p.). §10. Il concorso anomalo (art. 116 c.p.) È nell'ordine naturale delle cose la possibilità che l'esecutore o gli esecutori di un reato realizzino, in luogo dell'azione concordata, un fatto che integra un diverso tipo di reato, non rientrante nel piano collettivo (si faccia, ad es., il caso di chi, avendo ricevuto l'ordine di sequestrare taluno, decida, viceversa, di ucciderlo). In questi casi opera l'art. 116 c.p., il quale, infatti, stabilisce che, ove il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com della sua azione od omissione: ora, come si può evincere dalla disposizione in esame, i compilatori del codice hanno optato per la piena responsabilità del correo per il fatto diverso, configurando in tal modo una classica ipotesi di responsabilità oggettiva. A ogni modo, va precisato che l'applicazione della disposizione richiede, comunque, la realizzazione dolosa del fatto diverso da parte dell'esecutore materiale: infatti, ove l'evento diverso sia stato commesso per colpa, la soluzione andrà ricercata nell'art. 83 c.p., il quale dispone che, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole ne risponderà a titolo di colpa; è, perciò, impensabile che il concorrente possa rispondere del medesimo fatto a titolo di dolo: così, ad es., se Tizio, incaricato da Caio di danneggiare la vetrina di un magazzino lanciandovi contro un sasso, per errore di mira manchi la vetrina e ferisca, invece, il commesso, entrambi risponderanno di lesioni colpose (oltre che di concorso in tentativo di danneggiamento); viceversa, l'art. 116 c.p. entrerà in gioco se l'esecutore, nel cercare di anticipare la reazione difensiva del commesso, lo colpisca volontariamente con il sasso destinato alla vetrina. Una volta delineato l'ambito di applicazione dell'art. 116 c.p., è facile rendersi conto che questa norma configura, in realtà, un ed. concorso anomalo, dal momento che nella condotta del partecipe manca, per definizione, il dolo del reato diverso e spesso non è neanche riscontrabile un atteggiamento che si possa ricondurre alla colpa; tant'è vero che la giurisprudenza richiede costantemente, per l'applicabilità della norma, qualcosa in più del mero nesso di causalità: in particolare, si richiede uno specifico rapporto di causalità psichica tra le azioni dei partecipi. Quest'orientamento, del resto, è stato confermato anche dalla Consulta, la quale, investita della questione (nella sent. 42/65), ha precisato che, per farsi luogo alla responsabilità del partecipe per il reato diverso, non è sufficiente la mera imputazione oggettiva dell'evento diverso, ma è necessario che esso si rappresenti alla psiche dell'agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (così, ad es., se dalla modalità concordata di un furto esulava qualsiasi disegno di azione violenta, il partecipe non risponderà dell'eventuale rapina commessa dagli esecutori). §11. Il concorso nei reati propri (art. 117 c.p.) L'art. 117 c.p. stabilisce che se muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato: il nostro ordinamento, attraverso questa disposizione, disciplina il ed. concorso nei reati propri. A tal riguardo, la prima questione che suscita la formulazione dell'art. 117 c.p. concerne l'elemento psicologico richiesto per il concorso dell'estraneo: ci si chiede, in altri termini, se, per rispondere del reato proprio, il concorrente estraneo debba conoscere la particolare qualità rivestita dall'intráneo; ora, è ovvio che l'idea che si possa rispondere dello speciale titolo del reato proprio, anche quando non si conosca la particolare condizione dell'intraneo, è chiaramente condizionata da una concezione causale del concorso, poiché disconosce la rilevanza dell'elemento psicologico. E evidente, pertanto, che l'art. 117 c.p., nella parte in cui stabilisce l'identità del titolo di responsabilità per tutti i concorrenti, non per questo si sottrae ai principi generali in tema di dolo e di colpa: perciò, i concorrenti non qualificati, per rispondere del diverso titolo di reato, dovranno necessariamente conoscere la qualità dell'intraneo. Il secondo problema che suscita la formulazione dell'art. 117 c.p., riguarda, invece, le condizioni necessarie affinché la partecipazione dell'intraneo determini il mutamento del titolo del reato: a tal proposito, v'è da dire che il titolo del reato muta nei casi in cui sia 1'intráneo ad eseguire materialmente il reato. Ma, al di fuori di quest'ipotesi, non è agevole rinvenire un criterio di certezza per la soluzione dei casi più Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com controversi: si faccia il caso del pubblico ufficiale che promuova e renda possibile la sottrazione di somme di denaro, di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio, senza partecipare, in alcun modo, alla realizzazione del fatto criminoso; in questo caso occorre stabilire se si configura un concorso in furto da parte del pubblico ufficiale o, viceversa, un concorso degli estranei nel delitto di peculato. In realtà, il problema si risolve solo ragionando in questi termini: il mutamento del titolo del reato potrà aversi soltanto se 1'intráneo, a prescindere dal fatto che sia egli o meno ad eseguire materialmente il reato, agisca con la volontà di realizzare, insieme con l'estraneo, il reato proprio. §12. Desistenza e recesso attivo nel concorso di persone Problemi sorgono in relazione alla configurabilità della desistenza volontaria nei casi in cui il reato si presenti in forma plurisoggettiva: ovviamente, in queste ipotesi, se a desistere è l'unico esecutore o, se gli esecutori sono più d'uno, tutti gli esecutori, sarà sufficiente applicare l'art. 56, co. 3 c.p.; quando, invece, a desistere non è l'esecutore, ma un compartecipe diverso da colui o da coloro che eseguono l'azione, è necessario che questi abbandoni l'originario proposito di cooperazione prima che la propria opera individuale di correità sia stata portata a termine: è questo, ad es., il caso di chi, dopo aver fornito ai complici gli strumenti per poter condurre a termine una sofisticata effrazione, se li riprenda prima che l'azione tipica giunga a compimento; a questo punto, qualora i complici dovessero portare ugualmente a termine l'azione, servendosi di altri strumenti, il concorrente che ha desistito non sarà, in ogni caso, punibile, perché egli ha annullato il suo contributo (materiale e psichico) all'opera di partecipazione. Per la configurabilità, invece, del recesso attivo è necessario che il fatto collettivo sia stato interamente compiuto e che uno o più dei concorrenti si adoperi efficacemente per impedire il verificarsi dell'evento: si pensi, ad es., all'ipotesi in cui Tizio e Caio aggrediscano, a scopo omicida, Sempronio e che Caio, invece di fuggire dal posto, preso da rimorso, curi il trasporto della vittima in ospedale, riuscendo a salvargli la vita. §13.1 reati a concorso necessario Come detto in precedenza, si parla di reati a concorso necessario quando la struttura della condotta incriminata richiede la necessaria partecipazione di più soggetti. Si distingue, tuttavia, tra reati a concorso necessari propri, nei quali tutti i concorrenti sono assoggettati a pena (si pensi alla rissa o ai ed. reati associativi) e reati a concorso necessario impropri, nei quali, invece, solo alcuni concorrenti sono considerati punibili (si pensi, ad es., alla corruzione di minorenne): in quest'ultimo caso, al concorrente non assoggettato a pena in modo espresso (nell'esempio: il minore) non potrà applicarsi la disciplina prevista dall'art. 110 c.p., perché altrimenti si tradirebbe il principio del nullum crimen sine lege. Una particolare ipotesi di reato a concorso necessario è, poi, quella concernente i ed. reati associativi, in relazione ai quali sorgono due distinti ordini di problemi: in primo luogo, ci si chiede se ed entro quali limiti ai singoli associati possa essere attribuita una responsabilità per la realizzazione dei singoli reati-scopo (quali, ad es., omicidi e rapine); in merito a questo punto, la dottrina e la giurisprudenza hanno precisato che dei ed. reati-scopo saranno chiamati a rispondere penalmente solo quegli associati che vi hanno contribuito mediante una partecipazione materiale e morale. Il secondo problema concerne, invece, la possibilità di configurare o non il concorso eventuale nel reato associativo, dall'esterno dell'associazione: è questo, ad es., il caso del politico che, anche se non inserito in un'associazione per delinquere di stampo mafioso, contribuisca al suo rafforzamento, deliberando l'attribuzione di un appalto a determinate ditte di cui Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com ben conosce i legami con il sodalizio mafioso. Ora, è chiaro che, da un punto di vista politico-criminale, l'esigenza di reprimere comportamenti del genere è del tutto evidente; e, tuttavia, a parte il ricorso ad autonome fattispecie di reato (dall'abuso di potere, al favoreggiamento, al reato di scambio elettorale politico-mafioso) non sembra sussistere un autonomo spazio per l'applicabilità delle norme sul concorso eventuale. Parte V Concorso di reati e concorso di norme Premessa A norma degli artt. 71 ss. c.p. si ha concorso di reati nei casi in cui uno stesso soggetto viola più volte la legge penale e, perciò, deve essere giudicato per più reati. Si parla, invece, di concorso di norme quando due o più norme penali mcriminatirci si presentano come applicabili a una stessa condotta: ovviamente, è bene tener presente che il concorso di norme penali è, per definizione, concorso apparente, dal momento che ogni singola fattispecie concreta può essere ricondotta ad una sola norma. Detto ciò, il concorso di reati si definisce: • formale, quando il soggetto agente, con una sola azione od omissione, viola una o più disposizioni di legge; • materiale, quando l'agente, con più azioni od omissioni, viola una o più disposizioni di legge. Ora, dal punto di vista dei rapporti con il fenomeno del concorso apparente di norme, l'ipotesi del concorso materiale di reati non presenta alcun problema, in quanto l'esistenza di più condotte esclude ogni interferenza con la disciplina del concorso di norme. Al contrario, per quel che concerne il concorso formale di reati, è necessario stabilire, nel caso concreto, se non ci si trovi di fronte ad un concorso apparente di norme (a cui consegue l'applicabilità di una sola norma): così, ad es., nel caso di chi, mediante artifizi o raggiri, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto, consistente in contributi o in finanziamenti agevolati da parte dello Stato, la riconducibilità del fatto sia all'art. 640 cpv., n. 1 c.p., che al successivo art. 640 bis c.p. è solo apparente (l'applicabilità della prima disposizione resta, infatti, esclusa in virtù del carattere specializzante dell'art. 640 bis c.p.). Sezione I Il concorso di reati Capitolo unico §1. Il concorso materiale di reati Si parla di concorso materiale di reati quando un soggetto, con più azioni od omissioni, realizza più violazioni della legge penale. In particolare, il concorso materiale si dice omogeneo quando l'autore, con diverse azioni od omissioni, realizza più volte lo stesso reato: come nel caso di chi commetta in rapida successione più furti ovvero uccida, una dopo l'altra, con distinte azioni, più persone. Il concorso materiale si dice, invece, eterogeneo quando l'autore, con diverse azioni od omissioni, dà vita a reati diversi: è questo, ad es., il caso di chi, dopo aver commesso una rapina, ruba un'auto per fuggire e durante la fuga investe ed uccide, per colpa, un passante. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Per quanto riguarda il regime sanzionatorio, per il concorso materiale, il codice, agli artt. 73 ss., ha adottato il sistema del ed. cumulo materiale temperato, nel senso che si sommano aritmeticamente le pene da infliggere per i singoli reati in concorso, ma con opportuni temperamenti, consistenti nella fissazione di limiti massimi di pena che non possono essere superati: l'art. 78 c.p. stabilisce, infatti, che in conseguenza del cumulo, non può essere ecceduto il limite di 30 anni per la reclusione, di 6 anni per l'arresto, di 15.493 € per la multa e di 3098 €per V ammenda. Va precisato, però, che, sempre in relazione al concorso materiale, il codice penale prevede anche una sorta di cumulo giuridico sui generis: infatti, ai sensi dell'art. 72 c.p., qualora concorrano più delitti, ciascuno dei quali comporti la pena dell'ergastolo, si applica tale ultima pena (l'ergastolo) con l'aggiunta dell'isolamento diurno da 6 mesi a 3 anni. §2. Il concorso formale di reati Si parla di concorso formale di reati quando un soggetto, mediante una sola azione od omissione, viola più volte la legge penale. Il concorso formale si dice omogeneo quando il soggetto agente, con una sola azione od omissione, viola più volte la medesima norma di legge: come nel caso di chi, con un solo colpo d'arma da fuoco, uccide due persone. Il concorso formale si dice, invece, eterogeneo quando l'autore, con una sola azione od omissione, viola diverse norme di legge: si faccia, ad es., l'ipotesi della congiunzione carnale violenta con la propria sorella, ove risultano violate due distinte disposizioni del codice: l'art. 519 e l'art. 564 (in tal caso si realizza il ed. rapporto di interferenza, dato che la congiunzione carnale con la propria sorella integra la fattispecie dell' incesto; mentre il suo carattere violento rende la serie esecutiva del reato idonea a violare anche l'art. 519 c.p.). Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, per il concorso formale di reati, il testo originario del codice prevedeva il cumulo materiale delle pene; il legislatore del 1974, invece, ha optato per la sostituzione del cumulo materiale con quello giuridico: in tal senso, l'art. 81, co. 1 c.p. stabilisce che, chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge, è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata sino al triplo (l'opzione a favore del cumulo giuridico è tradizionalmente motivata in dottrina con il rilievo che, a fronte della somma aritmetica delle pene, in questo caso la sofferenza cresce, invece, geometricamente). In ogni caso, va precisato che, ai sensi dell'art. 81, co. 3 c.p., la pena unica inflitta non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti (cioè, qualora vigesse il regime del cumulo materiale, in forza del quale bisognerebbe applicare tante pene per quanti reati commessi). Come si può notare, quindi, in relazione al concorso formale di reati, il giudice deve determinare l'aumento di pena in uno spazio edittale che è vincolato sì, ma solo nel massimo e che dipende dal numero e dalla gravità dei reati commessi; tuttavia, il co. 4 dell'art. 81 (introdotto dalla L. 251/2005) prevede che, fermi restando i limiti di cui al co. 3, se i reati in concorso formale sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva (ex art. 99, co. 4 c.p.), l'aumento della quantità di pena non può essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave (viene fissata, così, una misura minima dell'aumento di pena). L'orientamento del legislatore del 2005, però, non può essere condiviso, perché, procedendo in questa direzione, si finisce, in realtà, per inasprire ulteriormente il quadro sanzionatorio derivante dalla dichiarazione di recidiva. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §3. Il reato continuato (art. 81 cpv. c.p.): profili sostanziali e processuali L'art. 81 cpv. c.p. estende la regola del cumulo giurìdico anche all'ipotesi di chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge. L'ipotesi di cui all'art. 81 cpv. c.p. corrisponde, più precisamente, alla figura del reato continuato che, come si evince chiaramente dalla norma in esame, altro non è che una ipotesi di concorso materiale di reati, contrassegnata, però, dalla circostanza che le diverse violazioni di legge sono legate tra loro dall' identità del disegno criminoso, cioè dal coefficiente psicologico che unisce i diversi reati e che consente di distinguere la continuazione dal mero concorso di reati. Perciò, i requisiti necessari per l'applicazione della regola contenuta nell'art. 81 cpv. c.p. sono: • una pluralità di azioni o di omissioni, cioè una pluralità di condotte; • una pluralità di violazioni di legge: a tal proposito, occorre precisare che, in seguito all'innovazione legislativa del 1974, è oggi ammessa non solo la continuazione tra fatti omogenei, ma anche la continuazione tra reati diversi e, quindi, eterogenei (ad es., furto, lesioni, detenzione di armi, danneggiamento, etc), purché gli stessi siano cementati dal requisito dell'identità del disegno criminoso; • l'identità del disegno criminoso, cioè, come detto, il coefficiente psicologico che lega tra loro i reati in concorso; in merito a questo requisito, occorre sottolineare che una parte della dottrina è dell'avviso che, per la sua configurabilità, sarebbe sufficiente la mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli fatti delittuosi, poi commessi dal soggetto agente (una sorta, cioè, di programmazione iniziale); secondo altra parte della dottrina, invece, si renderebbe necessaria anche la riconoscibilità di una prospettiva finalistica, capace di unire i diversi fatti: occorrerebbe, cioè, un elemento volitivo oltre che intellettivo (si pensi, ad es., all'uccisione di più componenti della stessa famiglia, al fine di conseguire per intero un'eredità). Il problema, in realtà, si inquadra nella giusta dimensione se si tiene conto del fatto che l'art. 81 cpv. c.p. fa genericamente riferimento ad azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ma non sembra richiedere anche la volizione dell'evento, da parte del soggetto agente: si faccia il caso, ad es., dell'imprenditore che, allo scopo di abbassare i costi, programmi una serie di violazioni delle norme antinfortunistiche, in conseguenza delle quali scaturisce la morte di alcuni operai (morte che, sebbene non sia stata voluta dall'imprenditore, si ricollega, in ogni caso, alle condotte omissive, esecutive dell'originario programma criminoso). In relazione a quanto detto fino ad ora, il reato continuato viene considerato come un fatto unitario; sotto altri aspetti, invece (ci riferiamo, in particolare, ai profili di ordine processuale), i reati legati tra loro dal vincolo di continuazione sono considerati in modo isolato, cioè come semplici reati in concorso materiale: ciò accade, ad es., con riferimento alla procedibilità (a querela o ex officio), ove, infatti, si deve prendere in considerazione il singolo episodio criminoso, ovvero, in relazione alle cause estintive del reato e della pena, per la cui applicabilità si deve aver riguardo ai singoli fatti che compongono il reato continuato (ciò significa, ad es., che un'amnistia o un indulto potranno essere applicati soltanto a quei fatti di reato non esclusi dall'applicabilità del beneficio). Sotto altro profilo, infine, va tenuto presente che la continuazione cessa nel momento in cui si perfeziona l'ultimo reato commesso in esecuzione dell'originario disegno criminoso; a tal riguardo, però, è opportuno precisare che, secondo l'orientamento della dottrina, la continuazione può essere interrotta anche per il sopravvenire di alcuni Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com eventi di tipo processuale: in particolare, intendiamo far qui riferimento alla sentenza di condanna passata in giudicato: quest'orientamento va senz'altro condiviso, in ragione del fatto che la pronuncia della sentenza passata in giudicato interrompe la continuazione e impedisce che possano assumere rilevanza, ai fini della pena da applicare, fatti commessi successivamente alla formazione del giudicato (giudicato che, viceversa, non preclude la possibilità di valutare, sempre ai fini dell'applicabilità della pena da applicare, i fatti commessi anteriormente alla pronuncia della sentenza definitiva). §4. Il reato aberrante (artt. 82 e 83 c.p.) a) l'aberratio ictus Il co. 1 dell'art. 82 c.p. stabilisce che quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, si cagiona offesa a persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che si voleva offendere. L'ipotesi in esame prende il nome di aberratio ictus monolesiva e si verifica nel caso in cui l'agente realizza il reato che aveva in animo di commettere, però in danno di una persona diversa dalla vittima designata: così, ad es., Tizio spara a Caio, ma uccide Sempronio, che si trovava a passare per caso. L'ordinamento, ovviamente, in questi casi considera irrilevante che l'agente volesse offendere un soggetto, ma ne ha offeso un altro, perché quel che conta è che egli ha, comunque, realizzato un fatto tipico corrispondente a quello che voleva realmente commettere; tuttavia, a ben vedere, appare arbitraria la scelta dell'incriminazione a titolo di dolo, perché qui manca la congruenza tra l'atteggiamento psicologico del soggetto agente e l'evento che si è verificato (ed è proprio questa la ragione per cui la dottrina dominante propende per una modificazione della disposizione in esame, in quanto essa integra una chiara ipotesi di responsabilità oggettiva). In ogni caso, appare opportuno chiarire che per l'applicabilità dell'art. 82, co. 1 c.p. è necessario che, nei confronti della vittima designata, si realizzino, almeno, gli estremi del tentativo punibile (si faccia, ad es., il caso di chi, al fine di cagionare la morte della vecchia zia, avvelena dei cioccolatini, che si ripromette di regalarle, e li nasconde in un cassetto della sua scrivania; la cameriera, facendo le pulizie, trova i cioccolatini, ne mangia uno e muore: in questo caso, se ritenessimo applicabile l'art. 82, co. 1 c.p., l'agente sarebbe chiamato a rispondere di omicidio volontario, per una condotta che non è né tipica né diretta in modo non equivoco alla realizzazione dell'evento da lui voluto, cioè l'uccisione della zia). L'art. 82 cpv. c.p. stabilisce, invece, che qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà. In relazione a quest'ipotesi, che prende il nome di cd. aberratio ictus plurilesiva, parte della dottrina sostiene che qui si sia in presenza di due reati: l'uno più grave, l'altro meno grave (ciò significa, in altre parole, che, accanto al reato doloso, commesso in danno della vittima designata, sarebbe presente un altro reato, che dovrebbe essere ricondotto nell'alveo della responsabilità per colpa); quest'interpretazione, però, per quanto suggestiva, non sembra sia compatibile con l'attuale formulazione dell'art. 82 cpv. c.p., il quale, infatti, punisce entrambi i reati a titolo di dolo: il primo (quello in danno della vittima designata) perché voluto; il secondo (quello in danno a persona diversa dalla vittima designata) addebitatogli allo stesso titolo, in forza della norma disposizione di cui all'art. 82, co. 1 c.p. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com b) I'aberratio delicti Il co. 1 dell'art. 83 c.p. stabilisce che fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Quest'ipotesi (che prende il nome di cd. aberratio delicti monolesiva) ricorre quando il soggetto agente offende un bene giuridico diverso da quello che voleva offendere: si ha, ad es., aberratio delicti nel caso di chi, lanciando un sasso contro un'automobile, allo scopo di danneggiarla, ferisca, invece, un passante, per errore nella mira). L'art. 83 cpv. c.p. dispone, inoltre, che se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso di reati: l'autore, cioè, risponderà a titolo di dolo per il reato voluto e a titolo di colpa per quello non voluto (in tal caso, si parla di aberratio delicti plurioffensiva). Da sottolineare, infine, che una specifica ipotesi di aberratio delicti è prevista anche nella parte speciale del codice e, precisamente, nell'art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), il quale stabilisce, infatti, che quando da un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso, deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'art. 83 c.p.: è il caso di precisare, però, che il delitto doloso, da cui deriva la morte di taluno, non può essere costituito da un fatto di percosse o lesioni, perché in questo caso ricorre, viceversa, la figura del delitto preterintenzionale, ex art. 43 c.p. Sezione II Il concorso apparente di norme Capitolo unico §1. Il concorso di norme nel nostro ordinamento Si parla di concorso apoparen te di norme nel caso in cui due o più norme incriminatrici sembrano, in astratto, applicabili a un medesimo fatto, ma in concreto l'applicazione di una di esse esclude l'altra o le altre. Ovviamente, non si potrà parlare di concorso di norme in presenza di norme tra loro eterogenee (ad es., falsità di atti e furto, violazione di domicilio e lesioni personali) ovvero in presenza di norme che si trovano in una relazione di incompatibilità, nel senso che le rispettive fattispecie, accanto ad elementi comuni, ne presentano altri tra loro non compatibili: si pensi, ad es., al rapporto tra l'appropriazione indebita ed il furto, che si configurano, entrambi, come reati contro il patrimonio; mentre, però, l'appropriazione indebita, di cui all'art. 646 c.p., si caratterizza per il possesso della cosa altrui da parte dell'agente, il furto, ex art. 624 c.p., si contrassegna, invece, per l'impossessamento della cosa originariamente detenuta da altri. Dall'ambito del concorso di norme restano, poi, escluse anche le ipotesi in cui due o più disposizioni si trovino in una ed. relazione di interferenza: in questo caso, infatti, le fattispecie legali hanno sì un nucleo comportamentale in comune, su cui si innestano, però, elementi tra loro eterogenei (si pensi, ad es., alla congiunzione carnale, presente come elemento costitutivo del fatto, sia nell'incesto che nella violenza carnale). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §2.1 criteri di determinazione della norme prevalente Per dirimere il conflitto di norme vengono utilizzati diversi criteri. Il primo è il criterio di specialità, disciplinato ex art. 15 c.p., il quale stabilisce che, se tradue norme esiste un rapporto di genere a specie, la norma speciale prevale su quella generale, perché contiene, oltre agli elementi compresi nella fattispecie generale, anche degli elementi, appunto, specializzanti: ad es., l'art. 630 c.p., che disciplina il sequestro di persona a scopo di estorsione, rappresenta una norma speciale rispetto al sequestro di persona, ex art. 605 c.p., perché aggiunge ai requisiti richiesti per il sequestro, lo scopo di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione. Le cose, però, stanno in modo del tutto diverso nel caso in cui il rapporto tra le due norme sia di ed. specialità reciproca, nel senso che ciascuna delle due norme contiene uno o più elementi specializzanti: si pensi, ad es., al rapporto tra l'aggiotaggio comune, di cui all'art. 501, co. 1 c.p. e l'aggiotaggio societario, di cui all'art. 2628 ce. (queste due norme, invero, hanno sì in comune l'aspetto oggettivo della condotta di aggiotaggio, ma mentre la prima disposizione è contrassegnata dal dolo specifico costituito dal fine di turbare il mercato interno, la seconda è contrassegnata, invece, dalla particolare qualifica del soggetto agente: amministratore o sindaco di s.p.a.). In questi casi, perciò, si tende a considerare come speciale la fattispecie che presenta il maggior numero di elementi specializzanti. In ogni caso, occorre sottolineare che molti dei casi di specialità reciproca trovano soluzione nella stessa legge penale, attraverso il ed. criterio di sussidiarietà: criterio che si sostanzia nella previsione di specifiche clausole di riserva, che conferiscono ad una delle norme in concorso carattere sussidiario rispetto all'altra o alle altre. A loro volta, queste clausole di riserva si definiscono: • determinate, quando individuano in modo esatto e preciso la disposizione rispetto alla quale sussiste un rapporto di sussidiarietà (si pensi, ad es., alla clausola di cui all'art. 595 c.p.: fuori dei casi indicati nell'articolo precedente); • relativamente determinate, quando il rinvio è operato nei confronti di disposizioni che prevedono sanzioni più gravi (ad es., se il fatto non costituisce un più grave reato); • indeterminate quando il rinvio ha carattere generico (ad es., se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge). Il criterio di sussidiarietà evoca naturalmente quello dell' assorbimento, il quale ultimo è richiamato dall'art. 84 c.p.: tale criterio trova esplicita applicazione nell'ambito del reato complesso e di quello progressivo. §3. Il reato complesso e il reato progressivo a) il reato complesso Il reato complesso (art. 84 c.p.) rappresenta quel reato, i cui elementi costitutivi o le cui circostanze aggravanti sono previsti come reati a sé stanti da altre norme penali: si pensi, ad es., alla rapina (art. 628 c.p.), la quale assorbe i reati di furto (art. 624 c.p.) e di violenza privata (art. 610 c.p.); si pensi ancora al danneggiamento di una serratura (di per sé rilevante ex art. 635 c.p.), che perde la sua autonoma rilevanza nel momento in cui il suo disvalore viene fatto rifluire nell'ipotesi prevista dal n. 1 dell'art. 625 c.p., come circostanza aggravante del delitto di furto. In questo senso, si intuisce che la funzione che il legislatore ha inteso dare all'art. 84 c.p. è stata quella di concedere all'interprete e soprattutto il giudice un criterio-guida idoneo ad escludere, in presenza dei requisiti richiesti, l'applicabilità del regime del concorso di Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com reati. Nonostante ciò, però, una parte della dottrina tende ad estendere la disciplina propria dell'art. 84 c.p. a due distinte categorie: il reato complesso in senso lato ed il reato eventualmente complesso. In dettaglio: • nella categoria del reato complesso in senso lato dovrebbero essere annoverate tutte quelle fattispecie tipiche che, accanto ad un nucleo normativo comune ad altre figure di reato, presentino un ulteriore elemento, penalmente irrilevante (come esempio si adduce il caso della violenza carnale, in cui l'elemento irrilevante - il congiungimento carnale - verrebbe a innestarsi sulla fattispecie della violenza privata). Questa ipotesi, però, non sembra si possa ricondurre nell'alveo dell'art. 84 c.p., dal momento che quest'ultima norma presuppone la rilevanza penale di tutti gli elementi. Se ne deduce, allora, che il caso in esame deve essere risolto facendo riferimento alla regola della specialità, ex art. 15 c.p.; • nella categoria del reato eventualmente complesso, viceversa, andrebbero annoverate tutte quelle ipotesi in cui la complessità non si manifesta in astratto, ma si riscontra nel momento in cui la concreta realizzazione di una fattispecie tipica (rectius: di un reato) passa attraverso la realizzazione di un reato diverso, il quale, in questo modo, viene a rappresentare un elemento costituivo del primo reato. Come esempio si adduce il caso della truffa, di cui all'art. 640 c.p., realizzata, però, mediante una sostituzione di persona, ex art. 494 c.p.: sostituzione che viene a rappresentare un elemento costitutivo della prima fattispecie. A ben vedere, tuttavia, neppure questa ipotesi sembra potersi conciliare con la figura del reato complesso ex art. 84 c.p., in ragione del fatto che la norma in esame presuppone la contenenza di una fattispecie legale in un'altra, come suo elemento costitutivo e non come una sua particolare modalità di esecuzione. b) il reato progressivo, l'antefatto e il postfatto non punibili L'idea della progressione criminosa implica l'idea del passaggio - attraverso momenti, che progressivamente divengono sempre più gravi - di offesa al bene giuridico: in tal senso, la figura del reato progressivo si configura tutte le volte in cui la realizzazione di una determinata fattispecie delittuosa comporta necessariamente la realizzazione di una fattispecie delittuosa minore, il cui disvalore penale resta incluso in quello della fattispecie delittuosa principale (così, ad es., nel ferimento seguito da morte, il disvalore inerente al delitto di lesioni personali è incluso nel disvalore finale inerente al delitto di omicidio). Detto ciò, è bene precisare, in ogni caso, che alla nozione di reato progressivo sono anche collegate le figure dell'antefatto (in qualità di premessa) e del postfatto (in qualità di conseguenza) non punibili del reato commesso; ora, nella stragrande maggioranza dei casi, l'irrilevanza di queste due figure emerge esplicitamente dal testo normativo: come, ad es., nel caso della spendita di monete falsificate, ex art. 455 c.p., realizzata dallo stesso soggetto che, in precedenza, ha contraffatto le monete, ex art. 453 c.p. (ipotesi di postfatto non punibile). In altri casi, invece, l'irrilevanza è soltanto implicita: si pensi, ad es., al caso in cui il postfatto non punibile costituisca semplicemente uno degli strumenti attraverso i quali viene, poi, commesso il reato principale (come nel caso del danneggiamento della cosa rubata, che altro non è se non una espressione, penalmente irrilevante, del potere di disposizione su di essa illecitamente conseguito dall'agente). È necessario sottolineare, ad ogni modo, che le figure dell'antefatto e del postfatto non punibili non debbono essere confuse con altre figure, nelle quali i diversi fatti sono legati semmai da un vincolo di continuazione: si pensi, ad es., al possesso ingiustificato di grimaldelli che sia seguito da furto. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Parte VI Le sanzioni Premessa Il vigente ordinamento penale organizza la risposta statuale ai fenomeni di devianza criminale secondo tre linee di intervento, che si articolano nella comminatoria delle pene, delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (queste, nel loro insieme, compongono il sistema unitario delle sanzioni criminali). Con ciò, ovviamente, non si vogliono affatto ignorare le differenze, nei contenuti e nei presupposti, tra pene, misure di sicurezza e misure di prevenzione: al contrario, questi meccanismi di difesa sociale, anche se si prestano ad una trattazione unitaria, conservano un'irriducibile separatezza, che ne impone la distinta descrizione. Sezione I Le pene Capitolo I La fisionomia della pena nell'ordinamento vigente §1. Le teorie penali Sotto il profilo concettuale, la pena rappresenta una reazione, la risposta a qualcosa che è già accaduto; in particolare, secondo l'indicazione di Hegel (contenuta nei suoi Lineamenti di Filosofia del diritto) la pena rappresenta lo schema logico del ristabilimento del diritto violato dal reato; in quanto schema logico, essa appare, pertanto, funzionale al perseguimento di qualsiasi finalità (a partire dalla retribuzione, come erroneamente e per lungo tempo è stata intesa la teoria hegeliana, fino alle più avanzate forme di risocializzazione): il fondamento della pena riposa, quindi, sul passato, mentre per quel che concerne la funzione da esplicare, essa è rivolta al futuro. Ora, in rapporto al momento della funzione, si distinguono, in linea generale, teorie assolute e teorie relative: le prime si caratterizzano in negativo per l'assenza di ulteriori finalità rispetto all'inflizione della sanzione; le seconde, invece, conoscono una o più finalità. Un'ulteriore distinzione è, poi, quella tra teorie pure, che prendono in considerazione una sola finalità, e teorie eclettiche, che, al contrario, combinano più finalità; mentre, però, le teorie eclettiche non rappresentano un numerus clausus, quelle pure, invece, si riducono sostanzialmente a quattro: la teoria retributiva, la teoria della prevenzione generale, la teoria della prevenzione speciale e la teoria dell'emenda (è bene precisare, in ogni caso, che le teorie citate trovano il loro denominatore comune nell'ambito del pensiero penalistico di estrazione kantiana). a) la teoria retributiva di Immanuel Kant Kant tratta espressamente del problema della pena nella prima parte della Metafisica dei Costumi: qui l'autore definisce il diritto penale come il diritto che ha il sovrano di infliggere una pena ad un soggetto quando questi si sia reso colpevole di un delitto. Come si può notare, questa definizione si caratterizza per la presenza del principio di colpevolezza, di cui, però, si precisa la portata unilaterale: infatti, Kant nega alla pena la legittimazione a perseguire un qualsiasi scopo, oltre quello, naturalmente, di una giusta retribuzione per il male commesso. Ma non è tutto: il problema principale, invero, è Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com costituito dal fatto che Kant elabora un sistema di retribuzione morale, al cui interno la pena deve avere un fondamento etico assoluto; quest'orientamento risulta confermato nel momento in cui l'autore definisce la legge penale come un imperativo categorico (tipica espressione, quest'ultimo, della legge morale). Così ragionando, però, vengono a confondersi prospettive etiche e prospettive giuridiche, dal momento che è impossibile definire imperativo categorico (tipico della moralità) una legge giuridica, come quella penale, che, tra l'altro, se non rispettata, commina anche sanzioni gravi: ne consegue, perciò, che nel sistema elaborato da Kant la norma penale, per risultare in armonia con l'imperativo categorico, non dovrebbe prevedere né sanzioni (pene), né giudizi esterni al soggetto (in quanto l'autonomia presuppone l'autogiudizio). Sulla base di queste considerazioni, quindi, se ne deduce che il sistema di retribuzione morale elaborato da Kant segna un decisivo passo indietro rispetto alle concezioni illuministiche: aspra fu, non a caso, la diatriba ideologica con il Beccaria. Nonostante ciò, la dottrina penale kantiana diede origine a due correnti filosofiche contrastanti: una prima fu costituita da autori (quali, Beck e Zacharia) che accettarono l'insegnamento dell'autore (accettarono, cioè, il binomio concettuale legge-imperativo categorico e la retribuzione come criterio dell'inflizione). Alternativamente a quest'orientamento si pose, invece, la parte più qualificata dei penalisti veri e propri, i quali individuarono, con lucidità, le contraddizioni di fondo della teoria penale di Kant, mediante l'utilizzo degli strumenti offerti dal criticismo giuridico (in particolare, attraverso la distinzione tra il diritto e la morale). Su questi presupposti furono, così, elaborate delle teorie relative, finalizzate al perseguimento di uno scopo diverso da quello della mera inflizione (retribuzione); tra i teorizzatori di queste teorie spiccano su tutti: Feuerbach e Grolman. b) la teoria del costringimento psicologico di Ansclm Feuerbach A differenza di Kant, il suo allievo A. von Feuerbach elabora un concetto della pena di tipo general-preventivo: alla pena, cioè, viene affidata la funzione di trattenere, attraverso la minaccia, prima della commissione del reato, e l'inflessibile inflizione, dopo, la generalità dei consociati. Feuerbach, in tal modo, collega lo scopo della pena direttamente allo scopo dello Stato e, cioè, la difesa della libertà individuale: egli, infatti, afferma (nel suo Anti-Hobbes) che lo scopo dello Stato è quello di garantire a tutti i cittadini la possibilità di esercitare i propri diritti, al sicuro dalle offese. A questo punto, però, sorge il preciso compito di individuare lo strumento idoneo a impedire la produzione di offese: strumento che Feuerbach individua attraverso la predisposizione di puntuali ostacoli di natura psicologica (a suo avviso, infatti, gli ostacoli di natura fisica non sarebbero praticabili). Ora, il più efficace tra gli ostacoli di ordine psicologico è, per Feuerbach, la pena civile (o giuridica) che, ovviamente, è una pena diversa da quella morale (di natura kantiana): per la pena morale, infatti, il fondamento (naturale) dell'inflizione del male risiede nell'infrazione della legge del dovere (o nell'immoralità dell'intenzione dell'autore); la pena giuridica, al contrario, deve avere come punto di riferimento la sola azione esterna dell'uomo (e la conformità di questa alla legge giuridico-statuale). Da questo assunto scaturiranno le solide basi per la formulazione della teoria penale di Feuerbach, che segue pressappoco questo schema: il delitto è un mezzo che serve a procurare piacere a chi lo commette; al fine, perciò, di evitare che vengano commessi fatti criminosi nella società, è necessario che alla rappresentazione del piacere venga contrapposta la rappresentazione di un dolore, di una intensità superiore al piacere derivante dalla commissione del delitto (ed. controspinta alla spinta criminosa). In tal Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com modo, si tende ad operare, nei confronti dei consociati, una sorta di coazione psicologica, in modo da prevenire, in generale, la commissione dei reati. c) la prevenzione speciale nell'elaborazione di Karl Grolman Alla teoria della coazione psicologica (di stampo general-preventivo) di Feuerbach, prima Stiibel e poi Grolman (penalista di estrazione kantiana) oppongono il punto di vista della prevenzione speciale. In particolare, secondo Grolman, il delinquente, con il suo reato, si è dimostrato un essere non ragionevole, perché pone a base delle proprie azioni il soddisfacimento delle sue personali esigenze, anziché del rispetto dell'altrui diritto; sicché è altamente probabile che egli ripeta l'azione delittuosa. In questa prospettiva, è necessario, pertanto, influire sul delinquente, in maniera tale da indurlo a non portare a compimento la sua futura minaccia. Ora, questo scopo, secondo l'autore, può essere perseguito o mediante una concreta intimidazione individuale (attraverso l'inflizione di un male) ovvero con il porre il soggetto nella fisica impossibilità di attuare la sua minaccia; in ogni caso, Grolman si affretta a precisare che questo diritto punitivo può essere esercitato esclusivamente dallo Stato, il quale, a sua volta, è tenuto ad esercitarlo nel rispetto di alcuni principi fondamentali: anzitutto, la pena dovrà essere inflitta solo qualora risulti impossibile applicare un altro provvedimento che incida di meno sulla libertà individuale del soggetto (è il ed. principio di sussidiarietà del diritto penale); in secondo luogo, dovrà essere osservata la regola della ragionevole proporzione tra l'entità del fatto commesso e la misura della pena da applicare. È bene precisare, però, che la teoria del Grolman non abbraccia i contenuti della risocializzazione del delinquente: questi saranno presi in considerazione soltanto verso la fine del 1800 (ad opera del penalista Franz von Listz). d) l'emenda nella versione di Karl Krausc Un diretto antecedente dell'idea di risocializzazione è contenuto nella teoria elaborata da Karl Krausc, il quale (come Kant) si occupa della tematica della pena nell'ambito dell'elaborazione di un sistema filosofico di matrice universalistica, che può essere schematizzato come segue: secondo Krause, la finalità essenziale del diritto consiste nel consentire la massima esplicazione della personalità dell'individuo. Su questa premessa, ovviamente, non poteva che essere fondata una teoria penale correzionalista: infatti, iZ delinquente, per quanto concerne il delitto da lui commesso, è da considerare come un minore o un incapace, cioè come un individuo che non è in grado di esprimere correttamente la propria personalità nel rispetto degli altri. Nei suoi confronti, perciò, è concepibile, ad avviso di Krause, soltanto un'opera di emenda, che dovrà principalmente servire ad annullare i motivi interiori che spingono il delinquente a compiere il male; per raggiungere un risultato di questo tipo, è necessario, anzitutto, suscitare la naturale buona volontà del reo; fatto ciò, occorrerà isolarlo dagli altri condannati, allo scopo di puntare al suo recupero morale. Raggiunto tale risultato, Krause propone, infine, di indirizzare le energie fisiche del delinquente alla pratica del bene: ciò significa, in linea generale, avviamento al lavoro (retribuito in equa misura), quanto più creativo possibile, in modo tale da esaltare le peculiari attitudini del delinquente. Tuttavia, è necessario precisare che il programma di Krause, per poter essere attuato, richiedeva la privazione a tempo indeterminato della libertà del reo, almeno fino al raggiungimento totale dell'emenda (il che comportava, ovviamente, un ampliamento del potere discrezionale del giudice, sia in fase di giudizio, sia in fase di esecuzione). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §2. La pena intesa come integrazione sociale L'art. 27, co. 3 Cost. stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; da questa disposizione si evince che la nostra Costituzione considera incompatibile con i principi operanti nel nostro sistema la teoria assoluta della retribuzione, perché questa non solo si presenta in contrasto strutturale con i principi fondamentali dello Stato di diritto, ma appare anche irrazionale (sotto il profilo ontologico) e sterile (da un punto di vista politico-criminale). L'abbandono di una prospettiva meramente retribuzionistica della pena comporta, di conseguenza, la scelta di un'opzione in termini di prevenzione, sia speciale che generale; se, però, le finalità della pena devono solo essere di ordine preventivo, va, tuttavia, precisato che andranno privilegiate soltanto alcune forme di prevenzione e questo perché sia la prevenzione generale che quella speciale possono esprimere due aspetti distinti: l'uno negativo, l'altro positivo. In particolare: • l'aspetto negativo della prevenzione generale consiste nell'adozione di strumenti atti al raggiungimento di risultati di tipo intimidativo-deterrente (questi vengono presi in considerazione all'atto della creazione della fattispecie); • l'aspetto positivo della prevenzione generale è, invece, collegato al rafforzamento della fiducia dei consociati intorno alla validità delle norme dell'ordinamento (tale aspetto assume notevole importanza sia nella fase della creazione della fattispecie che nella fase dell'esecuzione); • l'aspetto negativo della prevenzione speciale si traduce, invece, in un atteggiamento che conduce all'intimidazione individuale (quest'aspetto assume importanza nella fase dell'inflizione); • l'aspetto positivo della prevenzione speciale consiste, infine, nel recupero sociale del reo (quest'aspetto assume importanza sia all'atto della creazione della fattispecie, perché tra illecito e sanzione deve sussistere un determinato equilibrio, in modo tale che il condannato possa poi recepire la norma violata come regola di condotta, e sia nella fase dell'esecuzione: a tal riguardo, va anche specificato che il recupero del reo può essere perseguito attraverso una terapia emancipante, che sia, però, espressione di una libera scelta del condannato, in modo da favorire il suo completo reinserimento nel tessuto sociale). In conclusione, si può allora affermare che, in rapporto alla funzione della pena, il nostro ordinamento giuridico consente di perseguire legittimamente gli scopi positivi della prevenzione (generale e speciale): questi ultimi, a loro volta, possono essere unitariamente ricompresi sotto il concetto di genere dell' integrazione sociale. Capitolo II Le tipologie della pena edittale §1. Le pene principali e le pene accessorie Il codice penale vigente distingue le pene in principali ed accessorie; quanto alle prime, l'art. 17 c.p. separa le pene principali stabilite per i delitti (ergastolo, reclusione e multa) da quelle stabilite per le contravvenzioni (arresto e ammenda). Il seguente art. 18 c.p. suddivide, invece, le pene principali in base al loro contenuto, denominando pene detentive o restrittive della libertà personale: l'ergastolo, la reclusione e l'arresto; pene pecuniarie: la multa e l'ammenda. Il catalogo delle pene principali si apriva, come è noto, con la menzione della pena di morte che, abolita dal Codice Zanardelli, era stata reintrodotta dal codice del '30, in virtù delle scelte politico-criminali ispirate ad una strategia di estrema prevenzione generale mediante intimidazione. Tuttavia, con l'entrata in vigore del d.lgs.lt. 244/44 la Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com pena di morte è stata nuovamente soppressa dal nostro ordinamento ed è stato stabilito che, in suo luogo, sia applicata la pena dell'ergastolo. Con il d.lgs. 21/48 la pena di morte è stata eliminata, poi, anche dalle leggi speciali, diverse da quelle militari di guerra, nelle quali restava invece in vigore (di recente, però, anche questa ipotesi di ammissibilità è stata eliminata, a seguito dell'entrata in vigore della L. 689/94). §2. Le pene detentive a) le pene principali detentive Le pene principali detentive sono l'ergastolo, la reclusione e l'arresto. L'ergastolo (art. 22 c.p.) è la pena detentiva perpetua, in quanto si estende, almeno potenzialmente, tanto quanto è destinata a durare la vita residua del condannato: la pena dell'ergastolo è scontata in uno degli appositi stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. Va detto, però, che, per la sua dubbia compatibilità con il principio rieducativo, la legittimità costituzionale della pena dell'ergastolo è stata più volte contestata, anche se la Corte cost., con una sentenza del 1974, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità, e ciò sulla base di una concezione polifunzionale della pena, che valorizza, tra gli scopi della sanzione penale, accanto all'obiettivo della rieducazione del condannato, anche la difesa sociale e la neutralizzazione a tempo indeterminato di particolari delinquenti (va precisato, tra l'altro, che nel 1981 è stato indetto, sull'istituto, anche un referendum popolare, che si è, tuttavia, concluso con il diniego della proposta di abrogazione della pena dell'ergastolo). Sta di fatto, comunque, che, a seguito di diverse modifiche legislative, attualmente risultano alquanto ridimensionate le riserve di ordine costituzionale sull'ergastolo: il condannato alla pena dell'ergastolo, infatti, attualmente, è ammesso a godere della liberazione condizionale, dopo che abbia scontato 26 anni di pena; può, inoltre, essere ammesso a godere della liberazione anticipata e del regime di semilibertà, dopo aver scontato 20 anni di pena. La reclusione (art. 23 c.p.) è la pena detentiva temporanea prevista per i delitti; la sua durata può estendersi da un minimo di 15 gg. ad un massimo di 24 anni (la durata massima può, però, giungere fino ai 30 anni, per effetto della presenza di circostanze aggravanti ovvero di concorso di reati). La pena in esame viene scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno: a tal proposito, è bene precisare, tuttavia, che la legge sull'ordinamento penitenziario del '75 ha stabilito che il trattamento penitenziario deve essere scontato avendo riguardo alle particolari esigenze della personalità del condannato e deve agevolare i rapporti del recluso con il mondo esterno e con la famiglia. L'arresto (art. 25 c.p.) è la pena detentiva temporanea prevista per le contravvenzioni; la sua durata va da un minimo di 5 gg. ad un massimo di 3 anni (questo limite può essere elevato a 5 anni per la presenza di circostanze aggravanti e fino ai 6 anni per effetto del cumulo conseguente al concorso di reati). A differenza del condannato alla reclusione, però, il condannato all'arresto può anche essere addetto a svolgere lavori diversi da quelli organizzati all'interno dell'apposito stabilimento. Da sottolineare, infine, che la pena dell' arresto può essere scontata anche in regime di semilibertà. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com b) le pene non detentive, limitative della libertà personale L'art. 52 d.lgs. 274/2000, al fine di rendere realizzabili gli obiettivi di decarcerizzazione (nonché di risocializzazione), ha assegnato al giudice di pace la possibilità di irrogare determinate sanzioni non detentive, ma, in ogni caso, limitative della libertà personale. Queste ultime vanno, quindi, ad arricchire il catalogo delle pene principali, ex art. 17 c.p.: ci riferiamo, in dettaglio, alla permanenza domiciliare e al lavoro di pubblica utilità. La pena della permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione o altro luogo di privata dimora ovvero presso un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e di domenica: la durata della sanzione non può essere inferiore ai 6 gg. né superiore ai 45 gg. La pena del lavoro di pubblica utilità consiste, invece, nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, da svolgersi presso lo Stato, le province, i comuni o presso enti od organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato: la durata della sanzione non può essere inferiore ai 10 gg. né superiore ai 6 mesi (questa pena può essere, però, irrogata soltanto laddove l'imputato ne faccia esplicita richiesta). c) le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi La L. 689/81 (rubricato Modifiche al sistema penale) ha introdotto nel nostro sistema giuridico determinate sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Invero, l'art. 53 di questa legge prevede che il giudice, nell'atto in cui emette la sentenza di condanna, può irrogare una sanzione sostitutiva: * quando la pena detentiva, per la sua brevità, non appare idonea al perseguimento delle finalità di risocializzazione; * nei casi in cui non appare opportuno punire, con la privazione della libertà, fatti che destano modesto allarme sociale; * quando la carcerazione, specialmente per chi vi è soggetto per la prima volta, può risultare altamente desocializzante. Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi sono: la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria. La semidetenzione è una sanzione che viene inflitta dal giudice in sostituzione delle pene detentive superiori ad 1 anno e non superiori a 2 anni. La sanzione comporta: * l'obbligo di trascorrere 10 ore al giorno in uno degli appositi istituti di pena; * il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi; * la sospensione della patente di guida ed il ritiro del passaporto. La libertà controllata è, invece, una sanzione che il giudice infligge in luogo delle pene detentive superiori a 6 mesi, ma non superiori ad 1 anno. Questa sanzione comporta: * il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza (salvo autorizzazione concessa per motivi di lavoro o di studio); * l'obbligo di presentarsi una volta al giorno (o anche più volte, a seconda dei casi) presso gli uffici di pubblica sicurezza o, in mancanza, presso il Comando dell'Arma dei Carabinieri, territorialmente competente; * il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi; * la sospensione della patente di guida ed il ritiro del passaporto. La pena pecuniaria, infine, è una sanzione che viene inflitta dal giudice in sostituzione delle pene detentive non superiori a 6 mesi: in altri termini, il giudice può disporre la sostituzione della pena detentiva breve con una pena pecuniaria della stessa specie (ad es., la sostituzione della reclusione con la multa o dell'arresto con l'ammenda). Nel determinare la pena sostitutiva da applicare, il giudice deve adottare il modello dei ed. tassi giornalieri, introdotto nel 2003 con la L. n. 134: in questa prospettiva, nel procedere alla sostituzione, il giudice, dopo aver accertato la condizione economica Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com dell'imputato e del relativo nucleo familiare, determina l'entità della quota giornaliera compresa tra un minimo di 38 € ed un massimo di 380 €, che viene poi moltiplicata per il numero dei giorni di pena detentiva da sostituire. d) le misure alternative alla detenzione Il legislatore, con la legge sull'ordinamento penitenziario del 1975, ha introdotto nel sistema delle misure alternative alla detenzione, che, sostituendosi alle pene detentive, rendono più efficace, almeno in teoria, l'opera di rieducazione e di risocializzazione: le sanzioni in esame, però, possono essere irrogate esclusivamente dalla Magistratura di sorveglianza, perché esse costituiscono semplicemente una possibile modalità di esecuzione della pena detentiva. Le misure alternative alla detenzione previste dal vigente ordinamento penitenziario sono: l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà e la liberazione anticipata. L'affidamento in prova al servizio sociale (definito come il fiore all'occhiello della riforma penitenziaria) presenta delle chiare analogie con l'istituto anglosassone del probation e consiste nell'affidamento in prova del condannato a pena detentiva, non superiore a 3 anni, ad un Centro di servizio sociale fuori dall'istituto; la ratio giustificatrice del beneficio va individuata nel fatto che in tal modo si evitano al condannato i probabili danni che scaturirebbero dal contatto con l'ambiente penitenziario. Il servizio sociale controlla il comportamento del soggetto e lo coadiuva nel reinserimento nella vita sociale, riferendo periodicamente al magistrato di sorveglianza. Se il periodo di affidamento in prova ha esito favorevole, ne consegue l'estinzione della pena; se, invece, il comportamento dell'affidato si mostra incompatibile con la prosecuzione della prova, l'affidamento è revocato. La detenzione domiciliare, invece, è una misura alternativa che consente di espiare la pena della reclusione (non superiore a 4 anni) e la pena dell'arresto all'interno della propria abitazione o in un luogo pubblico di cura o assistenza (quando il condannato è una donna incinta ovvero una persona in condizioni di salute precarie o, ancora, una persona di età superiore agli anni 60 o minore degli anni 21, per comprovate ragioni di salute, di studio o di lavoro). Da notare, tra l'altro, che con la L. 165/98 è stata introdotta una figura sussidiaria di detenzione domiciliare, così denominata perché può essere applicata (a prescindere dalle condizioni su menzionate) a qualsiasi condannato che debba scontare una pena detentiva non superiore a 2 anni, ove non ricorrano i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale. Da ultimo, è necessario sottolineare che sulla detenzione domiciliare è intervenuta la L. 251/2005, la quale ha introdotto delle restrizioni alla concedibilità del beneficio per i soggetti recidivi: infatti, per i soggetti condannati con l'aggravante di cui all'art. 99, co. 4 c.p., il limite di pena detentiva che può essere scontato mediante detenzione domiciliare è abbassato a 3 anni (rispetto ai 4 previsti). Sempre con la novella del 2005 è stata, altresì, esclusa la possibilità di applicare ai soggetti recidivi reiterati (che debbano scontare una pena detentiva non superiore a 2 anni, come previsto dalla L. 165/98) la detenzione domiciliare nei casi in cui non ricorrano i presupposti per l'affidamento in prova ai servizi sociali. La semilibertà dà la possibilità al condannato di trascorrere parte del giorno al di fuori dell'istituto di pena, al fine di partecipare ad attività lavorative, istruttive o, in ogni caso, utili al suo graduale reinserimento nella società. In dettaglio, i soggetti ammessi a godere del regime di semilibertà sono: il condannato all'ergastolo, che abbia però scontato almeno 20 anni di pena, ed il condannato alla pena dell'arresto o a quella della reclusione non superiore a 6 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com mesi (anche prima che abbia inizio l'espiazione della pena, qualora abbia dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale). Viceversa, per il soggetto al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, co. 4 c.p., la legge del 2005 ha stabilito che, per godere del regime di semilibertà, il soggetto deve aver scontato almeno due terzi della pena. La liberazione anticipata, invece, a differenza delle precedenti figure, rappresenta una particolare ipotesi di anticipata cessazione di esecuzione della sanzione penale. In particolare, la finalità dell'istituto consiste nel rendere più efficace il reinserimento del condannato nella società: infatti, nella prospettiva di poter ottenere il beneficio, il condannato è incentivato a collaborare all'opera di rieducazione-risocializzazione. In virtù di queste considerazioni, perciò, se ne deduce che la liberazione anticipata, può essere concessa al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipare attivamente all'opera di rieducazione: più precisamente, al reo viene riconosciuta una riduzione di pena di 45 gg. per ciascun semestre di pena detentiva scontata. §3. Le pene pecuniarie Le pene pecuniarie sono la multa e l'ammenda. La multa (art. 24 c.p., come modificato dalla L. 94/2009) è la pena pecuniaria prevista per i delitti e consiste nel pagamento allo Stato di una somma di denaro compresa tra i 50ed i50.000€. Occorre specificare, inoltre, che per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce solo la pena della reclusione, il giudice ha la facoltà di aggiungere anche una multa compresa tra i 50 e i 25000 €. L'ammenda (art. 26 c.p., così come modificato dalla L. 94/2009) è, al contrario, la pena pecuniaria stabilita per le contravvenzioni e consiste nel pagamento allo Stato di una somma di denaro compresa tra i 20 ed i 10000 €. L'art. 133 bis c.p., introdotto dalla L. 689/81, ha tenuto a precisare, però, che il giudice, nell'irrogare la pena pecuniaria, deve tener conto delle condizioni economiche del reo: per tal motivo, il giudice potrà aumentare l'ammontare della pena pecuniaria fino al triplo del massimo previsto dalla legge, ove ritenga che, per le condizioni economiche del reo, la misura massima risulti inefficace; diversamente, diminuirà la pena fino ad un terzo, nel caso in cui ritenga che la misura minima risulti eccessivamente gravosa. §4. Le pene accessorie Le pene accessorie sono delle sanzioni che limitano la capacità del condannato ovvero rendono più afflittiva la pena principale; esse si applicano di diritto alla condanna principale e possono essere perpetue o temporanee (in quest'ultimo caso, la loro durata corrisponderà alla durata della pena principale). Le pene accessorie previste per i delitti sono: l'interdizione dai pubblici uffici, l'interdizione da una professione o da un'arte, l'interdizione legale, l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l'incapacità di contrattare con la P.A. e la decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori. • L'interdizione dai pubblici uffici (ex art. 28 c.p.) può essere perpetua o temporanea: è perpetua se segue alla condanna all'ergastolo o alla reclusione non inferiore a 5 anni; è temporanea (compresa tra 1 e 5 anni), se segue alla condanna alla reclusione non inferiore a 3 anni. La pena viene irrogata ai condannati per i delitti commessi con l'abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • L'interdizione da una professione o da un'arte (ex art. 30 c.p.) viene irrogata ai soggetti condannati per i delitti commessi con abuso della professione ovvero dell'arte (la sua durata è compresa tra un minimo di 1 mese ed un massimo di 5 anni). • L'interdizione legale (disciplinata ex art. 32 c.p.) produce, invece, le incapacità tipiche dell'interdizione giudiziale (essa, dunque, comporta l'incapacità di agire): da notare che è legalmente interdetto il condannato all'ergastolo e il condannato alla reclusione non inferiore a 5 anni. • L'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 32 bis c.p., come modificato a seguito dell'introduzione della L. 262/2005) priva il condannato della capacità di esercitare l'ufficio di amministratore o sindaco, nonché di ogni altro potere di rappresentanza della persona giuridica (l'interdizione consegue ad ogni condanna alla reclusione non inferiore a 6 mesi per i delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti all'ufficio). • L'incapacità di contrattare con la P.A. (art. 32 ter c.p.) importa il divieto di stipulare e concludere contratti con la P.A., salvo che per ottenere le prestazioni concernenti un pubblico servizio. • L'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (di cui all'art. 32 quinques c.p.) è una pena accessoria introdotta nel 2001 e comporta l'estinzione del rapporto di lavoro per il dipendente di amministrazioni ovvero di enti pubblici o di enti a prevalente partecipazione pubblica. • La decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori (di cui all'art. 34 c.p.) importa la perdita o la temporanea privazione dei poteri che la legge riconosce al genitore sul figlio e sui suoi beni. Le pene accessorie previste per le contravvenzioni sono, invece: • la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte (art. 35 c.p.), che è una pena accessoria che consegue ad ogni condanna per contravvenzione commessa con abuso della professione o con la violazione dei relativi doveri, quando la pena principale inflitta non è inferiore ad 1 anno di arresto; la sua durata va da un minimo di 15 gg. ad un massimo di 2 anni; • la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (di cui all'art. 35 bis c.p., modificato dalla L. 262/2005), la quale è una pena accessoria che priva il condannato, durante il periodo di sospensione, della capacità di esercitare l'ufficio di amministratore o sindaco e di qualsiasi altro potere di rappresentanza della persona giuridica. Pena accessoria comune sia ai delitti che alle contravvenzioni è, infine, la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 36 c.p., modificato dalla L. 69/2009 e dalla L. 111/2011): in particolare, la sentenza di condanna all'ergastolo è pubblicata mediante affissione nel comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l'ultima residenza. La sentenza di condanna è, inoltre, pubblicata sul web, nel sito internet del Ministero della giustizia: la durata della pubblicazione nel sito è stabilita dal giudice in misura non superiore a 30 gg. (in mancanza, la durata è di 15 gg.). La pubblicazione è fatta per estratto, salvo che il giudice disponga la pubblicazione per intero; essa è eseguita d'ufficio e a spese del condannato. §5.1 criteri per la determinazione giudiziale della pena (art. 133 c.p.) La determinazione concreta della pena è rimessa al potere discrezionale del giudice (come dispone l'art. 132, co. 1 c.p.), il quale, però, deve obbligatoriamente tener conto di alcuni elementi di giudizio indicati dall'art. 133 c.p.: infatti, questa disposizione, nei due commi di cui si compone, accorpa gli indici di determinazione della pena, riferendoli, rispettivamente, Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com al dato della gravità del reato (art. 133, co. 1) e a quello della capacità a delinquere del colpevole (art. 133, co. 2). Più precisamente, la gravità del reato è desunta: • dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; • dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa; • dall'intensità del dolo o dal grado della colpa. La capacità a delinquere è, invece, desunta: • dai motivi a delinquere del reo (vale a dire dagli impulsi, dalle motivazioni e dai sentimenti che hanno spinto il reo ad agire: si pensi, ad es., alla gelosia o alla paura); • dal carattere del reo (cioè dagli aspetti strutturali della sua personalità); • dai precedenti penali, giudiziari e, in generale, dalla condotta e dalla vita anteatta del reo; •dalla condotta antecedente, concomitante e susseguente al reato; •dalle condizioni di vita familiare e sociale del reo. Capitolo III Le cause di estinzione del reato e le cause di estinzione della pena §1. Le cause di estinzione del reato Le cause di estinzione del reato (disciplinate agli artt. 150-170 c.p.) intervengono prima della sentenza definitiva di condanna; esse sono: la morte del reo, l'amnistia propria, la prescrizione del reato, l'oblazione, la remissione della querela, la sospensione condizionale della pena, il perdono giudiziale, la messa alla prova, l'estinzione del reato a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti e le forme di definizione alternativa del procedimento davanti al giudice di pace. In particolare: • la morte del reo (ex art. 150 c.p.) estingue il reato se interviene prima della sentenza definitiva di condanna; • l'amnistia (art. 151 c.p.) è un atto legislativo di carattere generale attraverso il quale lo Stato rinuncia alla punizione di un certo numero di reati commessi anteriormente all'emanazione del provvedimento (estingue il reato, però, solo l'amnistia propria, dal momento che è questa che interviene prima della sentenza definitiva di condanna). Da segnalare che mentre in precedenza l'amnistia era concessa dal Presidente della Repubblica, su legge di delegazione delle Camere, a seguito dell'entrata in vigore della 1. cost. 1/92 (che ha modificato l'art. 79 Cost.), essa oggi viene concessa con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera: in tal modo, si è cercato di porre un freno a quelle amnistie che non fossero dettate da esigenze di pacificazione sociale; • la prescrizione del reato (artt. 157-161 c.p. e successive modifiche apportate dalla L. 251/2005) è una causa di estinzione del reato che ha come presupposto il decorso del tempo (decorso che rende inopportuno l'esercizio della funzione repressiva); in ogni caso, occorre precisare due cose: la prima è che l'imputato ha sempre la possibilità di rinunciare alla prescrizione; la seconda è che i delitti puniti con l'ergastolo non si prescrivono in nessun caso. In linea generale, il quadro normativo può essere, così, schematizzato: mentre prima della riforma del 2005, la durata della prescrizione si determinava in scaglioni di 5 anni e multipli di 5, a seconda della fascia a cui apparteneva la pena massima del reato contestato (fissando, ad es., la prescrizione in 10 anni per i delitti puniti, nel massimo, con la reclusione non inferiore a 5 anni), nella formulazione attuale della norma di cui all'art. 157 c.p., invece, si stabilisce che il tempo necessario a prescrivere corrisponde direttamente al massimo della pena edittale. In particolare: per i reati puniti con pena Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com elevata (intorno ai 10 anni di reclusione), il termine di prescrizione è notevolmente più breve (prima era di 15 anni, mentre adesso non può superare il massimo della pena edittale: quindi, se la pena massima è di 10 anni, il termine di prescrizione sarà anch'esso di 10 anni); invece, i reati di media gravità (che prima si collocavano nella fascia di prescrizione decennale) ora hanno, come tetto massimo, quello di 6 anni; infine, per i reati di lieve entità, i termini prescrizionali risultano più elevati (tenendo anche conto del fatto che per le contravvenzioni il limite è stato portato a 4 anni). È bene precisare, però, che i termini di prescrizione sono raddoppiati qualora ci si trovi in presenza dei reati previsti dagli artt. 449 e 589, co. 2, 3 e 4 c.p. (si tratta di reati colposi ritenuti di particolare gravità, quali, ad es., l'incendio e l'omicidio colposo, se commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale o di quella sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero aggravato dalla morte di più persone). I termini raddoppiano anche nel caso in cui ci si trovi in presenza di reati per i quali il codice di procedura penale prevede la competenza della procura distrettuale: si tratta, in particolare, di gravi delitti legati alla criminalità organizzata (ex art. 51, co. 3 bis e 3 quater c.p.p.). La L. 172/2012 ha, altresì, disposto che i termini sono raddoppiati per le seguenti fattispecie: maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, prostituzione minorile, pornografia minorile (anche virtuale), detenzione di materiale pornografico, turismo sessuale, violenza sessuale semplice e di gruppo, atti sessuali con minorenne e corruzione di minorenne. Per quel che riguarda, invece, i termini di decorrenza, l'art. 158 c.p. stabilisce che il termine di prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza. Un ultimo accenno occorre dedicarlo, infine, agli artt. 159 e 160 c.p.: il primo prevede che, in caso di sospensione, la prescrizione riprende il suo decorso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione ed il nuovo termine si somma a quello trascorso in precedenza. In particolare, la sospensione ha luogo: * nei casi di autorizzazione a procedere; * nel caso di deferimento della questione ad altro giudizio; * nel caso di sospensione del procedimento o del processo. L'art. 160 c.p., invece, stabilisce che, in caso di interruzione, il periodo di tempo in precedenza trascorso si annulla, di modo che il termine ricomincia a decorrere dal principio (cioè ex novo). Gli atti interruttivi della prescrizione sono: * l'ordinanza che applica le misure cautelari; * la richiesta di rinvio a giudizio; * il decreto di fissazione dell'udienza preliminare; * il decreto che dispone il giudizio; * la sentenza di condanna ed il decreto di condanna; * l'oblazione (disciplinata dall'art. 162 c.p.) è una causa di estinzione del reato che consiste nel pagamento, a domanda dell'interessato, di una somma di denaro, prima dell'apertura del dibattimento o prima della sentenza definitiva di condanna. Tradizionalmente, si distingue tra oblazione comune e oblazione speciale: l'oblazione comune consiste nel pagamento, a richiesta dell'interessato, di una somma di denaro corrispondente ad un terzo della pena massima stabilita dalla legge (essa estingue le contravvenzioni punite con la sola ammenda). L'oblazione speciale (introdotta dalla L. 689/81) viene, invece, concessa dal giudice, su richiesta dell'imputato, e consiste nel pagamento di una somma corrispondente alla 131 metà del massimo della pena edittale (essa estingue le contravvenzioni punite sia con l'arresto che con l'ammenda); * la remissione della querela (art. 152 c.p.) estingue i reati perseguibili a querela e per i quali la querela era stata proposta; la remissione consiste, più precisamente, in una manifestazione contraria a quella manifestata con la presentazione della querela. Si distingue, di regola, tra remissione della querela processuale ed extraprocessuale: la prima si estrinseca in un atto interno al processo; quella extraprocessuale, invece, si estrinseca al di fuori di esso; * la sospensione condizionale della pena (artt. 163-168 c.p.) è una causa di estinzione del reato, in base alla quale l'Autorità giudiziaria, inflitta una condanna alla reclusione o all'arresto per un tempo non superiore a 2 anni ovvero inflitta una condanna a pena pecuniaria che, da sola o congiunta alla pena detentiva, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo massimo di 2 anni, ne può sospendere l'esecuzione per un periodo di tempo di 5 anni, in caso di delitto, e di 2 anni, in caso di contravvenzione. Se, durante questo periodo, il reo non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, il reato si estingue e cessa anche l'esecuzione delle pene accessorie; in caso contrario, il soggetto sconterà sia la vecchia sanzione, che era stata sospesa, sia la nuova; • il perdono giudiziale (art. 169 c.p.) è una speciale causa di estinzione del reato, che consiste nella rinuncia da parte dello Stato a condannare il colpevole di un reato in considerazione della sua età e per consentirgli, perciò, un più facile recupero sociale; in ogni caso, è necessario che il colpevole abbia, nel momento in cui ha commesso il reato, meno di 18 anni e che il reato commesso non sia particolarmente grave. È bene specificare, però, che il perdono giudiziale può essere concesso soltanto se il giudice, avuto riguardo alle circostanze ex art. 133 c.p., presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati; • la sospensione del processo con messa alla prova (d.p.r. 448/88 e d.lgs.12/91) è, insieme a quella precedente, l'altra speciale causa di estinzione dei reati commessi da minori: più precisamente, questa causa di estinzione si caratterizza per il fatto che il giudice dei minori può sospendere il processo per un periodo non superiore a 3 anni (ove si tratti di reati puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore ai 12 anni) o per non più di 1 anno (negli altri casi), affidando, nel frattempo, l'imputato ai servizi minorili della giustizia; • infine, vanno analizzate le due forme di definizione alternativa del procedimento dinanzi al giudice di pace. La prima delle due forme è l'esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. 274/2000), che si fonda sull'irrilevanza penale del fatto. In particolare, gli indici sui quali si fonda la particolare tenuità del fatto sono: * l'esiguità del danno o del pericolo rispetto all'interesse tutelato, * l'occasionali tà; * il grado della colpevolezza. La seconda forma di definizione alternativa del procedimento è, invece, l'estinzione del reato conseguente a condotte riparatone (ex art. 35 d.lgs. 274/2000): estinzione che il giudice dichiara con sentenza quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla integrale riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com §2. Le cause di estinzione della pena Le cause di estinzione della pena intervengono dopo la sentenza definitiva di condanna; esse sono: la morte del reo, l'amnistia impropria, la prescrizione della pena, la liberazione condizionale, la riabilitazione, l'indulto, la grazia e la non menzione della condanna nei certificati del Casellario giudiziale. In particolare: • la morte del reo (ex art. 171 c.p.) estingue la pena se interviene dopo la sentenza definitiva di condanna; • l'amnistia impropria (art. 151 c.p.) estingue le pene principali e quelle accessorie, ma non gli altri effetti penali della condanna; • la prescrizione della pena (ex artt. 172 e 173 c.p.) estingue la punibilità in concreto, in quanto può trovare applicazione soltanto dopo la sentenza definitiva di condanna (il fondamento di questa causa di estinzione della pena trova la sua ratio nella scarsa necessarietà di eseguire una pena a grande distanza di tempo dalla sua inflizione). La prescrizione della pena ha ad oggetto solo le pene principali; più precisamente: la pena della reclusione si estingue soltanto dopo che sia trascorso un periodo di tempo compreso tra i 10 e i 30 anni; la pena della multa, invece, si estingue dopo 10 anni, mentre la pena dell'Arresto e quella dell' ammenda dopo 5 anni; • la liberazione condizionale (art. 176 c.p.) rappresenta una specie di premio concesso ai condannati a pena detentiva che, avendo tenuto una condotta tale da rendere certo un loro ravvedimento, abbiano scontato 30 mesi o, almeno, metà della pena irrogata, qualora il rimanente della pena da scontare non superi i 5 anni (anche l'ergastolano può usufruire di tale istituto, dopo che abbia scontato almeno 26 anni di pena); • la riabilitazione (artt. 179-181 c.p.) estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna e può essere applicata quando il condannato abbia dato prove effettive di buona condotta; la riabilitazione può essere concessa solo dopo che il reo abbia scontato almeno 3 anni di pena; il termine è di 8 anni, invece, se si tratta di recidivi qualificati e di 10 anni se si tratta di delinquenti abituali, professionali e per tendenza; • l'indulto (ex art. 174 c.p.) è un atto di clemenza generale che opera esclusivamente sulla pena principale, che viene, così, condonata o commutata in altra specie di pena. Titolare del potere di indulto è il Parlamento, il quale deve deliberare a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera (1. cost. 1/92); • la grazia (di cui all'art. 174 c.p.) è un istituto il cui fondamento giuridico si rinviene nel riconoscimento dell'avvenuta risocializzazione del reo, che, proprio perché tale, rende inutile il proseguimento dell'esecuzione della pena. La grazia è un provvedimento individuale di clemenza, emesso dal Presidente della Repubblica e, pertanto, in quanto provvedimento individuale, va a beneficio di una determinata persona. La grazia condona, in tutto o in parte, la pena principale, ma non le pene accessorie e gli effetti penali della condanna; • la non menzione della condanna nei certificati del Casellario giudiziale (ex art. 175 c.p.) rappresenta, infine, un atto attraverso cui il giudice dispone che della condanna non si farà menzione nei certificati rilasciati dal Casellario; essa può essere concessa al condannato solo nel caso di prima condanna e per reati non particolarmente gravi. 133 Capitolo IV Le altre conseguenze giuridiche del reato Si definiscono effetti penali della condanna le conseguenze giuridiche che derivano di diritto dalla condanna stessa (diverse dalle pene e dalle misure di sicurezza). Tuttavia, è bene precisare che una enumerazione degli effetti penali della condanna non è affatto possibile, dal momento che essi non rappresentano un numerus clausus e sono previsti, oltre che nel codice, anche in molte leggi speciali. In ogni caso, si possono citare come esempi classici di effetti penali della condanna: • l'impossibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena in conseguenza di una o più condanne precedenti; • l'iscrizione della condanna nel Casellario giudiziale; • l'impossibilità a svolgere determinate attività; • l'impossibilità di ottenere determinate autorizzazioni o concessioni. Va sottolineato, però, che gli effetti penali della condanna vengono a cessare con la riabilitazione. La maggior parte dei reati comporta, poi, anche conseguenze di natura civile, tra le quali ricordiamo: • l'obbligo alle restituzioni; • l'obbligo al risarcimento del danno; • l'obbligo del rimborso delle spese allo Stato per il mantenimento del condannato; • l'obbligazione civile per la multa e l'ammenda. Infine, va sottolineato che negli ultimi decenni è andata crescendo, nel nostro Paese, la discussione intorno alla possibilità di introdurre delle forme di responsabilità penale a carico delle persone giuridiche; la ragione di questa discussione risiede nel fatto che, soprattutto nell'ambito della criminalità economica (ma certo non soltanto in quella), l'illecito trova quasi sempre origine in comportamenti che non sono riconducibili a singoli soggetti, ma che rappresentano piuttosto il frutto di precise scelte di politica d'impresa, difficilmente collocabili nel quadro della responsabilità penale. È con queste premesse che la L. 300/2000 ha introdotto nel nostro sistema il principio della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti collcttivi per i reati commessi dai loro organi o dai loro sottoposti; questa legge è stata successivamente regolata con il d.lgs. 231/2001, il cui art. 6 stabilisce che l'ente è considerato responsabile quando il reato commesso dipende da una colpa di organizzazione (intesa, questa colpa, come mancata adozione di specifici protocolli di comportamento e di determinati strumenti di controllo, necessari a prevenire lo specifico rischio-reato). Un accenno va, infine, dedicato al sistema dei ed. illeciti depenalizzati: a tal proposito, appare opportuno precisare che, pur costituendo l'amministrazione della giustizia penale uno specifico settore della P.A., non per questo il diritto penale può essere confuso con il diritto amministrativo (inteso, quest'ultimo, come il complesso delle regole che concernono la P.A. nel suo momento organizzativo); sotto questo profilo, pertanto, può risultare fuorviante l'utilizzo dell'inciso diritto penale amministrativo: con questa locuzione, invero, da qualche tempo si intende designare il settore dei ed. illeciti depenalizzati (categoria di fatti corrispondenti a figure di reato che leggi recenti hanno trasformato in infrazioni amministrative, punibili con sanzioni pecuniarie non penali). Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com Sezione II Le misure di sicurezza Capitolo unico §1. La crisi del sistema del c.d. doppio binario Le misure di sicurezza (m.s.) costituiscono una importante innovazione introdotta dal Codice Rocco del 1930, come mezzi posti a difesa dell'ordinamento contro il pericolo che determinate persone possano commettere reati. Le m.s. sono disciplinate agli artt. 199 e ss. c.p.; in particolare, l'art. 199 c.p. stabilisce che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente previste dalla legge: è questo il ed. principio di legalità delle misure di sicurezza (principio che, tra l'altro, trova un riconoscimento normativo anche nell'art. 25, co. 3 Cost., ai sensi del quale nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi espressamente preveduti dalla legge. La coesistenza delle pene e delle m.s. ha dato vita, nel nostro ordinamento, al sistema sanzionatorio del ed. doppio binario, il quale mira, da un lato, a sanzionare il soggetto mediante l'applicazione di una pena proporzionata alla gravità del reato e, dall'altro, a prevenirne la pericolosità sociale. Tuttavia, va anche detto che il nostro codice, nell'affiancare le m.s. alle pene non ha fatto altro che raddoppiare le potenzialità repressive del sistema, specialmente in riferimento ai casi in cui, all'esecuzione di una pena, si aggiunga l'inflizione di una m.s. detentiva, per di più a tempo indeterminato. §2.1 presupposti per l'applicabilità delle misure di sicurezza Il presupposto oggettivo per l'applicabilità di una m.s. è che sia stato commesso un fatto preveduto dalla legge come reato o come quasi-reato (quest'ultimo ricomprende le figure del reato impossibile e dell''accordo per commettere un reato). Il presupposto soggettivo per l'applicazione di una m.s. è, invece, la pericolosità sociale dell'agente (in particolare, si può dire che una persona è socialmente pericolosa quando è probabile che la stessa commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato); al riguardo, il nostro codice conosce e distingue tre tipologie di delinquenti socialmente pericolosi: • il delinquente abituale, cioè colui che dopo essere stato condannato per due delitti non colposi, riporta un'altra condanna per delitto non colposo; • il delinquente professionale, cioè colui che vive abitualmente dei proventi derivanti dal reato; • il delinquente per tendenza, cioè colui che commette un delitto non colposo contro la vita o contro l'incolumità individuale, quando la commissione di tale delitto riveli una speciale inclinazione al delitto. §3. Le singole misure di sicurezza Le m.s. si distinguono tradizionalmente in personali (detentive e non detentive) e patrimoniali. Le m.s. personali detentive sono: la colonia agricola, la casa di lavoro, la casa di cura e custodia, l'ospedale psichiatrico giudiziario, il riformatorio giudiziario. • Sono assegnati alla colonia agricola ovvero alla casa di lavoro i delinquenti abituali, professionali e per tendenza, nonché i condannati o i prosciolti nei casi previsti dalla legge; la durata minima è di 1 anno (elevata a 2 anni per i delinquenti abituali; a 3 anni per i delinquenti professionali e a 4 anni per i delinquenti per tendenza). 135 • Il ricovero presso una casa di cura e custodia è, invece, prevista per i condannati a pena diminuita per infermità psichica ovvero per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti o, ancora, per sordomutismo; la misura si applica anche agli ubriachi abituali (la durata della misura è compresa tra i 6 mesi e i 5 anni). • Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) si applica, invece, ai soggetti che siano stati prosciolti per infermità psichica o per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti (la durata della misura non può essere inferiore a 2 anni, salvo particolari ipotesi previste dalla legge). È bene precisare, però, che il 25 gennaio 2012 il Senato della Repubblica ha approvato un emendamento al ed. decreto svuota-carceri (convertito, il 17 febbraio, in L. 9/2012), con il quale si dispone il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Neil'affermare che, in virtù di tale decreto, gli Opg saranno chiusi, occorre evitare, però, di incappare in equivoci terminologici: infatti, possiamo utilizzare la dicitura Opg sia per riferirci alla struttura ospedaliera, sia per indicare l'istituto ex art. 222 c.p. Ebbene, il decreto varato dispone la chiusura (entro marzo 2013) dei sei ospedali psichiatrici giudiziari attualmente in funzione in Italia, ma non abroga né modifica la misura di sicurezza dell'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario. Certo, le innovazioni positive in cui si può - ragionevolmente - sperare sono: * l'abbandono delle sei grandi strutture esistenti, che, tra l'altro, sono situate in luoghi lontani da quelli di origine degli internati; * la costruzione di un maggior numero di piccole strutture distribuite sul territorio, auspicabilmente in condizioni di minore degrado; * il controllo sulle stesse svolto direttamente dal Servizio sanitario nazionale (SSN) e non dal sistema penitenziario, con la conseguente utilizzazione di personale sanitario anziché di custodia (è stato previsto, infatti, un servizio di vigilanza perimetrale solo all'esterno degli istituti). Le nuove strutture, ad ogni modo, svolgeranno la medesima funzione delle vecchie, perché l'impalcatura normativa dell'esecuzione della misura, così come contenuta nel codice penale, rimane inalterata (ivi compresi gli aspetti più controversi, come quello concernente l'indeterminatezza della durata dell'internamento e la sua prorogabilità). Né si prevedono misure per dare maggior spazio alla libera adesione dei pazienti ai percorsi terapeutici (che rimangono, invero, di carattere coercitivo): e si tratterebbe di un'innovazione - oltre che auspicabile - necessaria, soprattutto in un ambito, come quello psichiatrico, in cui la convinta partecipazione del malato al progetto di cura è di importanza fondamentale per la riuscita dello stesso. * Il riformatorio giudiziario è, infine, una m.s. speciale prevista per i minori, imputabili e non, ritenuti pericolosi (occorre precisare, però, che, al compimento della maggiore età, il soggetto viene assegnato alla colonia agricola o alla casa di lavoro); la durata minima della misura è di 1 anno. Le m.s. personali non detentive sono: la libertà vigilata, il divieto di soggiorno, il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche e l'espulsione dello straniero dallo Stato. * La libertà vigilata consiste in una limitazione della libertà personale diretta a evitare le occasioni di nuovi reati; a tale scopo, è fatto obbligo al vigilato di trovare un lavoro stabile, di non ritirarsi la sera dopo una certa ora, di non uscire la mattina prima di una certa ora e di non accompagnarsi a soggetti pregiudicati (l'inosservanza di tali obblighi comporta la sostituzione della libertà vigilata con una m.s. detentiva). La sottoposizione alla libertà vigilata non può essere inferiore a 3 anni, ove sia stata inflitta la pena della reclusione non inferiore ai 10 anni, ed è obbligatoria quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale. Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) www.giammohelpsyou.com • Il divieto di soggiorno è una m.s. che consiste nelTobbligo di non soggiornare in uno o più Comuni ovvero in una o più Province ed è applicabile agli autori dei delitti commessi contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico o, ancora, per motivi politici. • Il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche è una m.s. che si applica ai condannati per ubriachezza abituale ovvero per reati commessi in stato di ubriachezza, sempre abituale. La sua durata minima è di 1 anno. • L'espulsione dello straniero dallo Stato (ovvero di un cittadino di uno Stato membro dell'Ue) si applica qualora lo straniero (o il cittadino europeo) sia condannato alla reclusione superiore ai 2 anni o ad una pena restrittiva della libertà personale per taluno dei delitti commessi contro la personalità dello Stato (ciò a seguito dell'entrata in vigore della L. 125/2008). Le m.s. patrimoniali sono la cauzione di buona condotta e la confisca. La cauzione di buona condotta consiste nel deposito di una somma di denaro presso la Cassa delle ammende (somma che verrà restituita solo se il soggetto non commetterà reati entro il periodo di tempo determinato dal giudice). La confisca consiste invece nell'espropriazione, in favore dello Stato, delle cose che servirono a commettere il reato: si pensi, ad es., agli arnesi da scasso utilizzati per commettere un furto. Sezione III Le misure di prevenzione Le misure di prevenzione (m.p.) sono dei provvedimenti i cui destinatari sono soggetti ritenuti socialmente pericolosi: la funzione di tali misure, dunque, è quella di prevenire la possibilità di commettere reati; a differenza delle misure di sicurezza, però, le m.p. sono disposte indipendentemente dalla commissione di un delitto (per questo motivo esse prendono il nome di misure ante o praeter delictum ovvero pene del sospetto, in quanto sfuggono ai principi della stretta legalità e della certezza del diritto). L'attuale disciplina delle m.p. è contenuta nella L. 1423/56 (integrata, negli anni, da altri provvedimenti legislativi). Tra le più importanti m.p. ricordiamo la sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, che può essere applicata nei confronti delle persone che vivono abitualmente con i proventi derivanti da attività delittuose; con una legge del 1965, la sorveglianza speciale è stata estesa, altresì, agli indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso; e con una legge del 1975 (la Legge Reale) è stata estesa anche agli autori di atti preparatori, aventi lo scopo di sovvertire il sistema costituzionale. Il modello in esame è stato, in seguito, elevato a importante strumento di lotta contro la criminalità organizzata: in questo senso, il sistema è stato reso più severo dalla L. 646/82 (la c.d. Legge Rognoni-La Torre), che ha introdotto determinate m.p. di carattere patrimoniale, aventi lo scopo preciso di combattere lo sfruttamento di ingenti capitali destinati a finanziare attività illecite, proprie delle società legate al sodalizio mafioso: esse sono il sequestro e la confisca (in materia, comunque, sono intervenuti, di recente, la L. 125/2008 ed il d.lgs. 136/2010, con cui è stato varato il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, suddiviso in cinque libri, il secondo dei quali è dedicato, appunto, alle misure di prevenzione). 137