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I volti della menzogna
Paul Ekman I volti della menzogna Gli indizi dell'inganno nei rapporti interpersonali, negli affari, nella politica, nei tribunali Presentazione di Pio Enrico Ricci Bitti Il bugiardo non deve mai presumere troppo facilmente che la sua vittima non desideri altro che farsi ingannare. Né il cacciatore di bugie deve troppo facilmente presumere di avere il diritto di mettere a nudo qualunque menzogna: alcune sono innocue, perfino umane... «Come mentire con convinzione e come non farsi manipolare se non consapevolmente? Di piacevolissima lettura, questo libro mette la scienza della comunicazione non verbale al servizio del saper vivere». [Grazia Attili, Sapienza - Università di Roma] «Nell'applicazione accorta di astute tecniche sperimentali a questioni d'importanza personale e collettiva, questo libro non ha molti precedenti». [Howard Gardner, Harvard University] «Ekman ha fornito un contributo fondamentale alla comprensione dei meccanismi di regolazione e controllo dell'espressione delle emozioni. Oggi siamo in grado di valutare il tipo di influenza che il nostro comportamento non verbale determina sugli altri e di giudicare la competenza delle persone ad inviare segnali non verbali o ad interpretarli...». [Pio E. Ricci Bitti, Università di Bologna] Traduzione di Gabriele Noferi Titolo originale: Telling lies. Clues to deceit in the marketplace, politics, and marriage © 1985 by Paul Ekman W.W. Norton & Company, New York, London © 1989, 2009 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia Via Dante 4, 20121 Milano – Italia Prima edizione: ottobre 1989 Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. Stabilimento di Prato Presentazione Da quando circa due decenni addietro alcuni ricercatori, fra cui spicca Paul Ekman, iniziarono a dedicarsi con spirito pionieristico allo studio del comportamento non verbale ed alle sue funzioni comunicative, nella convinzione che l'interazione umana ed i suoi effetti non dipendessero soltanto dagli scambi verbali, abbiamo assistito ad un rapido e significativo sviluppo delle conoscenze sulla comunicazione umana. Oggi siamo in grado di valutare il tipo di influenza che il nostro comportamento non verbale determina sugli altri e di giudicare la competenza delle persone ad inviare segnali non verbali o ad interpretarli; sappiamo che l'informazione fornita dalle parole in certi casi viene contraddetta e smentita dai segnali non verbali che la accompagnano e che quando non ci è possibile ricorrere alle parole possiamo inviare informazioni attraverso segnali non verbali. La comunicazione umana risulta dall'interdipendenza di diversi sistemi comunicativi: i processi di interazione si fondano infatti sul funzionamento integrato e simultaneo degli elementi verbali, intenzionali, paralinguistici e cinesici prodotti dai soggetti che comunicano. La comunicazione non verbale non ha ricevuto in passato l'attenzione dovuta per diverse ragioni: innanzitutto perché la prevalenza di un modello fortemente “razionalistico” dell'uomo ha messo in rilievo soprattutto gli aspetti verbali dello scambio comunicativo; inoltre occorre ricordare che gli aspetti non verbali del comportamento sono così connaturati nelle interazioni della vita quotidiana che risulta difficile essere pienamente consapevoli della loro funzione e dei loro significati. Eppure occorre riconoscere, per fare qualche esempio, che, quando ci facciamo un'idea (un'impressione) su una persona, utilizziamo essenzialmente informazioni che ci provengono dal suo comportamento non verbale e che per riconoscere le emozioni del nostro interlocutore o i sentimenti che egli prova nei nostri confronti (simpatia, ostilità, disponibilità...) prestiamo soprattutto attenzione al suo tono di voce, alla mimica, ai movimenti, ai gesti oltre che alle sue parole. Proprio attraverso l'interesse per la comunicazione non verbale Paul Ekman è giunto ad occuparsi dei comportamenti che si manifestano quando un individuo cerca di dissimulare, mascherare, falsificare, mentire... L'interesse di Ekman per la “menzogna” non origina quindi da preoccupazioni di tipo morale, ma dalla sua “passione” per il comportamento non verbale. Egli, per ovvie ragioni, esemplifica i suoi studi e le sue ricerche facendo riferimento a settori del comportamento umano che presentano un forte impatto sociale: le relazioni interpersonali fra uomini di stato, le relazioni fra psichiatra e paziente, le relazioni fra un investigatore ed un inquisito. Ma forse, per cogliere la reale portata del lavoro di Ekman, occorre andare oltre l'analisi della menzogna, o della bugia in senso stretto; è necessario considerare tutte quelle condizioni della vita quotidiana in cui un “emittente” adotta strategie particolari per tradurre proprie intenzioni in messaggi che influenzano il “destinatario”. Essere credibile, convincere, mascherare... sono gradazioni più sfumate di uno stesso processo: l'intenzione di esprimere uno stato emotivo, di manifestare un atteggiamento affettivo verso l'interlocutore, di descrivere un evento deve comunque tradursi in un comportamento comunicativo che, pur utilizzando segnali diversi (parole, espressioni mimiche, intonazioni, gesti...), produca un'informazione coerente e interpretabile in modo univoco dal destinatario. Non sempre il risultato ottenuto corrisponde all'intenzione dell'emittente: le ragioni di un tale “fallimento” possono essere ricondotte a diversi fattori. Risulta tuttavia particolarmente importante la coerenza fra i diversi sistemi comunicativi che insieme intervengono nella trasmissione di un'informazione. Parole coerenti con l'intenzione dell'emittente potrebbero essere tradite da un tono di voce non adeguato o da un'espressione mimica discrepante: in tal caso il destinatario, nel processo di attribuzione di significato e di ricostruzione delle intenzioni dell'emittente, viene messo sull'avviso dall'incoerenza fra sistemi comunicativi diversi e, tendenzialmente, ritiene i segnali non verbali più credibili delle parole. Se una discrepanza fra segnali prodotta intenzionalmente può sortire effetti particolari (ad esempio ironia o sarcasmo), quando essa risulta da un'inefficacia o da un fallimento dei meccanismi del controllo espressivo costituisce l'indizio più importante per “scoprire” un'eventuale menzogna o dissimulazione; l'inefficacia ha la sua origine nel fatto che risulta difficile controllare adeguatamente e simultaneamente due o più sistemi comunicativi. Tali problemi sono particolarmente evidenti quando la comunicazione riguarda le emozioni e gli atteggiamenti interpersonali, che, come è noto, vengono manifestati soprattutto attraverso i segnali non verbali. Proprio Ekman ha fornito un contributo fondamentale alla comprensione dei meccanismi di regolazione e controllo dell'espressione delle emozioni quando, nell'ambito della sua teoria “neuroculturale”, ha formulato e proposto il concetto di “regole di esibizione”. Una volta suscitata un'emozione, viene attivato un programma di espressione mimica sulla base di istruzioni codificate a livello neurale che modulano le risposte a livello del comportamento osservabile; con questo programma espressivo interagiscono alcune regole, definite appunto di “esibizione”, culturalmente determinate e quindi apprese: intensificazione, attenuazione, neutralizzazione e, soprattutto, dissimulazione o mascheramento. Queste regole rappresentano altrettante strategie adottate dall'individuo per far corrispondere l'esperienza interna e la sua manifestazione esterna alle specifiche norme che governano le situazioni sociali in cui si è coinvolti. Le rappresentazioni sociali inerenti alle modalità appropriate di sperimentare le emozioni in particolari situazioni sociali e le regole che ne governano le manifestazioni fanno parte di un sistema generale di regolazione dell'attivazione emozionale che viene appreso nel corso del processo di socializzazione. La regolazione dell'espressione emotiva (che in certi casi può anche produrre dissimulazione) può essere, ad esempio, richiesta da esigenze di ruolo o da regole situazionali: è pertanto comprensibile l'attenzione per i processi di apprendimento sociale attraverso i quali vengono acquisite queste “capacità regolatrici”, che permettono di controllare la coerenza o la corrispondenza fra stato interno, espressione e caratteristiche della situazione. Il rapporto fra emozioni e dissimulazione o menzogna va considerato tuttavia anche ad altri livelli; non esiste infatti soltanto la possibilità di mascherare o nascondere le proprie emozioni: esiste anche il fatto che l'atto stesso di mentire o ingannare produce un'attivazione emozionale legata forse alla paura di essere “scoperti”, che, se non ben controllata, può tradire l'intenzione dell'emittente. Proprio sulla base di questo rilievo ha trovato ampia applicazione (a dir il vero molto discutibile e comunque al centro di un acceso dibattito fra gli addetti ai lavori) l'uso della registrazione degli indici fisiologici dell'attivazione emozionale (ritmo cardiaco, ritmo respiratorio, pressione arteriosa, conduttività e temperatura cutanea...) per l'accertamento della “verità” in ambito investigativo. A sottolineare ulteriormente questo rapporto privilegiato fra emozioni e atto menzognero, vanno infine ricordati i sentimenti suscitati dagli effetti dell'atto stesso: la vergogna di essere scoperti, il senso di colpa per aver compiuto un atto disdicevole, la soddisfazione per essere riusciti nel proprio intento... PIO ENRICO RICCI BITTI I volti della menzogna Gli indizi dell'inganno nei rapporti interpersonali, negli affari, nella politica, nei tribunali Alla memoria di Erving Goffman, straordinario amico e collega e a mia moglie Mary Ann Mason critica e confidente Quando sembra che la situazione sia esattamente quella che appare, l'alternativa che segue immediatamente in ordine di probabilità è che la situazione sia del tutto contraffatta; quando la contraffazione sembra estremamente evidente, la possibilità più probabile subito dopo questa è che non ci sia nulla di falso. (Erving Goffman, Strategie Interaction) Il quadro di riferimento da tener presente non è la morale, ma la sopravvivenza. Ad ogni livello, dal mimetismo elementare alla visione poetica, la capacità linguistica di velare, disinformare, lasciare ambiguo, ipotizzare e inventare è indispensabile all'equilibrio della coscienza umana e allo sviluppo dell'uomo nella società. (George Steiner, After Babel) Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in condizioni migliori. Perché prenderemmo per certo l'opposto di ciò che il mentitore ha detto. Ma l'inverso della verità ha centomila forme e un campo illimitato. (Montaigne, Essais) RINGRAZIAMENTI - Sono grato alla Divisione di ricerca clinica del National Institute of Mental Health per il sostegno accordato alla mia ricerca sulla comunicazione non verbale dal 1963 al 1981. Il programma di contributi straordinari per la ricerca (Research Scientific Award) dello stesso istituto ha sovvenzionato lo sviluppo delle mie ricerche negli ultimi vent'anni e anche la stesura di questo libro. Desidero ringraziare la Fondazione Guggenheim e la Fondazione MacArthur per i contributi offerti ad alcune delle ricerche descritte nei Capp. IV e V. Wallace V. Friesen, con cui ho lavorato per oltre vent'anni, è responsabile quanto me dei risultati citati in quei capitoli: molte delle idee sviluppate in questo libro sono nate nel corso del nostro lungo dialogo. Ringrazio Silvan S. Tomkins, amico, collega e insegnante, di avermi incoraggiato a scrivere questo libro e delle osservazioni e dei suggerimenti che mi ha dato sul manoscritto. Mi sono giovato delle critiche di vari amici che hanno letto il mio lavoro ciascuno dal suo punto di vista: Robert Blau, medico; Stanley Caspar, penalista; Jo Carson, romanziere; Ross Mullaney, ex agente dell'FBI; Robert Pickus, attivista politico; Robert Ornstein, psicologo; Bill Williams, consulente di organizzazione aziendale. Mia moglie Mary Ann Mason, la mia prima lettrice, ha saputo essere paziente e costruttivamente critica. Molte delle idee presenti in queste pagine le ho discusse con Erving Goffman, che si interessava alla menzogna da una prospettiva assai diversa e sapeva apprezzare il contrasto dialettico fra i nostri punti di vista. I Introduzione È il 15 settembre 1938 e sta per cominciare un inganno dei più infami. Adolf Hitler, cancelliere del Reich, e Neville Chamberlain, primo ministro inglese, si incontrano per la prima volta. Il mondo li osserva, consapevole che questa può essere l'ultima speranza di evitare un'altra guerra mondiale (appena sei mesi prima le truppe di Hitler erano entrate in Austria, annettendola alla Germania, mentre Inghilterra e Francia protestavano senza intervenire). Il 12 settembre, tre giorni prima dell'incontro con Chamberlain, Hitler avanza la pretesa di annettere parte della Cecoslovacchia e fomenta la rivolta nel paese; ha già segretamente mobilitato le truppe per l'invasione, ma il suo esercito non sarà pronto fino alla fine di settembre. Se riesce a impedire ancora per qualche settimana una contromossa cecoslovacca, Hitler avrà il vantaggio di un attacco di sorpresa. Cercando di guadagnare tempo, Hitler nasconde a Chamberlain i suoi piani di guerra, dando la sua parola che la pace può essere salvata se i cechi accettano le sue richieste. Chamberlain cade nel tranello e cerca di convincere il governo cecoslovacco che esiste ancora una possibilità di negoziato. Dopo l'incontro con Hitler, scrive in una lettera alla sorella: «[...] malgrado la durezza e la crudeltà che mi è sembrato di vedere nel suo viso, ho avuto l'impressione che davanti a me ci fosse un uomo di cui ci si poteva fidare, una volta che avesse dato la sua parola».1 Difendendo la sua politica contro gli scettici che mettono in dubbio le parole di Hitler, cinque giorni dopo, in un discorso al Parlamento, Chamberlain spiega che il contatto personale avuto con lui gli permette di assicurare che Hitler «dice la verità».2 Quando cominciai a occuparmi della menzogna, quindici anni fa, non avevo affatto idea che il mio lavoro avrebbe avuto una qualche attinenza con una situazione del genere. Pensavo che sarebbe stato utile solo a chi lavora con pazienti psichiatrici. La mia ricerca è partita quando gli allievi terapeuti che seguivano il mio corso sulla mimica e i gesti mi chiesero se questi comportamenti non verbali potessero rivelare eventuali bugie dei pazienti.3 Tale interrogativo assume un'importanza estrema nel caso di pazienti ricoverati a seguito di un tentato suicidio. Qualunque medico ha il terrore di essere ingannato da un paziente che dice di sentirsi meglio e poi si suicida non appena liberato dalla sorveglianza ospedaliera. Questa preoccupazione pratica dei miei allievi poneva un interrogativo fondamentale a proposito della comunicazione umana: le persone sono capaci, anche in condizioni di grave turbamento, di controllare i messaggi che trasmettono, oppure il loro comportamento non verbale lascia trasparire ciò che le parole nascondono? Andai allora a ricercare nei miei filmati di colloqui con pazienti psichiatrici un esempio di menzogna dichiarata. Lo scopo per cui avevo raccolto il materiale era stato originariamente quello di isolare espressioni e gesti che potessero servire alla diagnosi. Ora che la mia attenzione era concentrata sugli indizi di menzogna, mi pareva di scorgerne in vari filmati. Il problema era come averne la certezza. In un solo caso non c'erano dubbi, dato quello che era successo dopo il colloquio filmato. Mary era una casalinga quarantenne. L'ultimo dei suoi tre tentativi di suicidio era stato molto serio e solo per un caso qualcuno l'aveva scoperta prima che una dose eccessiva di sonnifero la uccidesse. La sua storia non era molto diversa da quella di tante altre donne che soffrono di depressione intorno alla mezz'età: i figli erano cresciuti e non avevano più bisogno di lei, il marito sembrava tutto assorbito dal lavoro e Mary si sentiva inutile. Quando fu ricoverata, non era più in grado di mandare avanti la casa, soffriva d'insonnia e passava molto tempo seduta in un angolo a piangere. Nelle prime tre settimane di ospedale fu trattata con psicofarmaci e terapia di gruppo. Sembrava rispondere molto bene: i suoi modi erano più vivaci e non parlava più di suicidio. In uno dei colloqui filmati, Mary spiegava al medico di sentirsi molto meglio e chiedeva il permesso di trascorrere a casa il fine settimana. Il giorno dopo, prima di ricevere l'autorizzazione, confessò che aveva mentito per ottenerla e che voleva ancora assolutamente suicidarsi. Il trattamento in ospedale proseguì per altri tre mesi e alle dimissioni Mary era migliorata realmente, nonostante una ricaduta l'anno dopo; per molti anni in seguito non ci sono stati altri ricoveri e Mary apparentemente è stata bene. Il filmato del colloquio ha tratto in inganno la maggior parte dei miei allievi e anche molti psichiatri e psicologi esperti cui l'ho mostrato.4 L'abbiamo analizzato per centinaia di ore, ripassandolo continuamente, ispezionando ogni gesto ed espressione al rallentatore per scoprire eventuali indizi di menzogna. In una pausa brevissima, prima di rispondere alla domanda del medico circa i suoi progetti futuri, abbiamo potuto vedere, passando il filmato a velocità ridotta, un'espressione rapidissima di disperazione, tanto rapida che ci era sfuggita le prime volte che avevamo esaminato la scena. Una volta compreso che i sentimenti nascosti potevano rendersi visibili in queste brevissime microespressioni, siamo andati alla loro ricerca e ne abbiamo trovate molte altre, tipicamente coperte quasi subito da un sorriso. Abbiamo trovato anche un microgesto. Mentre diceva al medico che se la cavava bene coi suoi problemi, Mary presentava talvolta un frammento di scrollata di spalle, non il gesto intero, soltanto una parte: un piccolo movimento rotatorio della mano, come per scrollare qualcosa, oppure una spalla che si alzava per un attimo. Credevamo di vedere altri indizi non verbali di bugia, ma non potevamo sapere con certezza se li avevamo davvero scoperti o solo immaginati. Un comportamento del tutto innocente appare sospetto quando sappiamo che la persona ha mentito. Solo indici oggettivi, non influenzati dalla conoscenza della sincerità o falsità delle affermazioni, potevano confermare le nostre osservazioni. E per essere sicuri che i segni rivelatori di menzogna non fossero squisitamente individuali dovevamo studiare molti soggetti. Sarebbe più semplice scoprire l'inganno se i comportamenti che lo tradiscono fossero gli stessi da un individuo all'altro, ma c'è anche la possibilità che gli indizi siano peculiari di ciascuno. Abbiamo allora ideato un esperimento costruito sul modello della bugia di Mary, in modo che i soggetti fossero fortemente motivati a celare intense emozioni negative nel momento stesso in cui mentivano. Mentre assistevano al filmato di un intervento chirurgico, pieno di scene impressionanti e dettagli sanguinosi, i soggetti dovevano mascherare le loro autentiche sensazioni di disagio e repulsione e convincere l'intervistatore (che non vedeva il filmato) che quelle che passavano sullo schermo erano piacevoli immagini di fiori (i risultati della ricerca sono descritti nei Capp. IV e V). Era passato appena un anno e noi eravamo ancora alle fasi iniziali della sperimentazione, quando persone interessate a vario titolo a smascherare le bugie hanno cominciato a cercarmi. Forse che i miei dati o i miei metodi potevano essere usati per mettere le mani sui cittadini americani sospettati di spionaggio? Nel corso degli anni, via via che le nostre scoperte sugli indizi comportamentali di contraffazione nel colloquio medico-paziente comparivano sulle riviste scientifiche, le richieste crescevano. Per esempio, che ne pensavo della possibilità di addestrare le guardie del corpo di esponenti governativi, in modo che potessero riconoscere dall'andatura o dai gesti un terrorista pronto all'attentato? Potevamo indicare all'FBI come insegnare agli agenti a individuare le menzogne di un indiziato durante gli interrogatori? A quel punto non mi ha più sorpreso sentirmi chiedere se potevo aiutare i negoziatori a scoprire le bugie della controparte durante gli incontri ai massimi livelli, oppure se ero in grado di decidere, dalle foto di Patricia Hearst mentre partecipava a una rapina in banca, se la sua partecipazione fosse volontaria o sotto costrizione. Negli ultimi cinque anni l'interesse ha varcato i confini degli Stati Uniti: sono stato avvicinato da rappresentanti di due paesi amici e, durante un giro di conferenze in Unione Sovietica, da funzionari che si sono presentati come inviati di un istituto di ricerca “interessato ai metodi d'interrogatorio”. Questo interesse non mi ha fatto piacere, per il timore che i miei risultati fossero usati scorrettamente, accettati in maniera acritica, applicati con precipitazione. Avevo l'impressione che i nostri indizi non verbali non dovessero emergere spesso in sede politica, diplomatica o criminale. Era solo una sensazione e se mi si chiedeva il perché non sapevo spiegarlo. Per poterlo fare, avevo ancora da scoprire perché mai, per l'appunto, le persone commettono degli errori quando mentono. Non tutte le bugie finiscono male: alcune sono eseguite alla perfezione. Gli indizi comportamentali - un'espressione mantenuta troppo a lungo, un gesto mancante, un'inflessione momentanea della voce - possono non presentarsi. Non sempre ci sono segni rivelatori che tradiscono il mentitore. Eppure sapevo che possono esserci segni che permettono di riconoscere le bugie. Il bugiardo più incallito può tradirsi con il suo comportamento. Sapere quando le bugie riescono e quando fanno fiasco, come individuare gli indizi e quando non vale la pena di cercarli, significa capire le differenze che ci sono fra i vari tipi di bugie, di bugiardi e di acchiappabugiardi. La bugia di Hitler a Chamberlain e quella di Mary al medico implicavano entrambe inganni terribilmente seri, dove era in gioco la vita stessa. L'uno e l'altra nascondevano i loro progetti futuri e, come parte centrale dell'inganno, fingevano emozioni che non provavano. Ma le differenze fra le due menzogne sono enormi. Hitler era un attore nato e aveva molta più pratica di Mary nella menzogna. Un altro vantaggio per lui era di ingannare uno che non desiderava altro: Chamberlain era una vittima volontaria, che voleva credere a tutti i costi a Hitler quando diceva di non avere intenzioni aggressive, purché si ridisegnassero i confini della Cecoslovacchia per venire incontro alle sue richieste. Altrimenti, Chamberlain avrebbe dovuto ammettere che la sua politica di concessioni era fallita e in realtà aveva indebolito il suo paese. A proposito di una questione collegata, questo meccanismo è descritto dall'esperta diplomatica Roberta Sottostettero, che nella sua analisi delle frodi nella corsa al riarmo dice, esaminando le violazioni di Hitler all'accordo navale anglo-tedesco del 1936: «Il truffatore e il truffato [...] hanno un comune interesse a permettere la persistenza dell'errore. Entrambi hanno bisogno di mantenere l'illusione che l'accordo non sia stato violato. La paura inglese di una corsa al riarmo, manipolata tanto abilmente da Hitler, portò a un accordo navale in cui gli inglesi (senza consultare Francia e Italia) modificavano tacitamente il trattato di Versailles; e la paura di una corsa al riarmo impediva a Londra di vedere e riconoscere le violazioni del nuovo accordo».5 In molti casi la vittima sorvola sugli errori del mentitore, leggendo nel modo più ottimistico i suoi comportamenti ambigui, facendosi suo complice per evitare le terribili conseguenze della scoperta. Chiudendo gli occhi davanti ai segni dell'infedeltà della moglie, il marito può se non altro rimandare l'umiliazione di scoprirsi tradito e l'eventualità del divorzio. Anche se dentro di sé sa benissimo che lo tradisce, può collaborare a non smascherare le sue bugie, per non doverlo riconoscere anche davanti a lei o per evitare una resa dei conti. Finché non dice nulla può ancora sperare di averla mal giudicata, può ancora illudersi che non abbia un amante. Non tutte le vittime sono così volenterose. A volte non c'è nulla da guadagnare ad ignorare una bugia o collaborare a tenerla in piedi. Per esempio, il poliziotto che conduce l'interrogatorio ha soltanto da perderci se si lascia prendere nella rete e la stesso vale per il funzionario di banca addetto all'ufficio prestiti. A volte, invece, la vittima ha qualcosa da perdere e insieme qualcosa da guadagnare sia che si lasci trarre in inganno, sia che sveli la frode; ma i due piatti della bilancia non sempre sono equilibrati. Prendiamo i due esempi di Chamberlain e dello psichiatra. Per quest'ultimo, credere che Mary fosse davvero migliorata poteva rappresentare una piccola soddisfazione professionale, ma aveva molto di più da perdere se si lasciava imbrogliare. Nel caso di Chamberlain, se non c'era modo di fermare l'aggressione di Hitler, la sua carriera sarebbe finita e la guerra che pensava di poter impedire sarebbe scoppiata. A prescindere dai motivi di Chamberlain per credere alle parole di Hitler, l'inganno aveva buone probabilità di riuscita perché non c'erano da mascherare forti emozioni. Nella maggior parte dei casi le bugie fanno fiasco perché trapela qualche segno di un'emozione nascosta: quanto più intense e varie sono le emozioni che entrano in gioco, tanto più probabile è che la menzogna si tradisca involontariamente. Hitler, certamente, non doveva sentirsi in colpa nel mentire al rappresentante del paese che aveva imposto alla Germania un'umiliante sconfitta militare. Invece Mary per riuscire nell'inganno doveva nascondere forti emozioni, reprimere la disperazione e il tormento che la spingevano al suicidio. Non solo, ma aveva tutte le ragioni di sentirsi in colpa nel mentire così ai suoi medici, verso i quali provava simpatia e ammirazione, sapendo che volevano soltanto aiutarla. Per tutte queste ragioni ed altre ancora è generalmente molto più facile cogliere indizi comportamentali di menzogna in un paziente con tendenze suicide o nel coniuge adultero che in un diplomatico o in un agente che fa il doppio gioco. Ma non tutti i diplomatici, i criminali o gli agenti dei servizi sono mentitori perfetti e a volte errori ne commettono. Le mie analisi permettono di formulare una stima delle probabilità di riuscire a cogliere indizi rivelatori, oppure di essere ingannati. Il messaggio che posso dare a chi è interessato a scoprire le menzogne in sede politica o giudiziaria è di non ignorare gli indizi comportamentali ma di usare maggior cautela, nella consapevolezza dei limiti e delle opportunità che si pongono. E vero che esiste qualche prova dell'esistenza di segni comportamentali rivelatori della bugia, ma non sono ancora prove solide. Le analisi che ho condotto per capire come e perché le persone mentono e quando le bugie falliscono corrispondono ai dati che si ricavano dagli esperimenti sulla menzogna e dalla tradizione storica e narrativa. Ma non c'è stato ancora il tempo di vedere se queste teorie reggono alla prova di nuove ricerche sperimentali e di possibili obiezioni. Ho deciso di rompere gli indugi e scrivere questo libro perché nel frattempo tutti quelli che per mestiere cercano di acciuffare i bugiardi non restino con le mani in mano e già da ora si sforzino di cogliere gli indizi non verbali di menzogna. “Esperti” improvvisati offrono i loro servizi nella selezione del personale o nella formazione delle giurie. A poliziotti e tecnici che usano la “macchina della verità” si insegna quali sono gli indizi non verbali di menzogna: circa la metà delle informazioni contenute nei manuali che ho avuto modo di vedere è sbagliata. I funzionari della dogana frequentano un corso speciale per individuare dal comportamento i sospetti contrabbandieri. Mi si dice che in questi corsi si utilizzano i miei lavori, ma alle ripetute richieste di vedere i materiali didattici ho ricevuto soltanto reiterate promesse di informazioni. Altrettanto impossibile è sapere che cosa stiano facendo i servizi di controspionaggio, perché il loro lavoro è coperto dal segreto. So che sono interessati, perché il Dipartimento della Difesa, sei anni fa, mi ha invitato a spiegare ai responsabili dei servizi quali fossero secondo me le possibilità e i rischi d'errore. Da allora ho sentito delle voci secondo cui il lavoro starebbe andando avanti e ho raccolto i nomi di qualcuna delle persone che forse vi partecipano. Le lettere che ho scritto a queste persone sono rimaste senza risposta, oppure mi è stato risposto semplicemente che non possono dirmi nulla. Mi preoccupa l'idea di “esperti” che procedono indisturbati, senza dover rispondere all'opinione pubblica e alle critiche agguerrite della comunità scientifica. Questo libro servirà a chiarire a loro e agli enti per cui lavorano quello che penso dei rischi e delle possibilità offerte da queste ricerche. La mia intenzione nello scrivere questo libro non era quella di rivolgermi solo alle persone interessate professionalmente ai casi più eclatanti e pericolosi di contraffazione. Ho finito per convincermi che analizzare come e quando le persone mentono e dicono la verità possa servire a capire meglio molti rapporti umani. Ce ne sono pochi esenti dall'inganno o almeno dalla sua possibilità. I genitori mentono ai figli sulla vita sessuale, per risparmiare ai bambini una conoscenza per la quale non sono ancora pronti, così come i figli, diventati adolescenti, nasconderanno le loro avventure sessuali perché i genitori non li capirebbero. Le bugie si dicono fra amici (neppure il nostro migliore amico ce lo confesserà), insegnanti e alunni, medico e paziente, marito e moglie, testimoni e giurati, avvocato e cliente, venditore e acquirente. La menzogna è una caratteristica così centrale della vita che una sua migliore comprensione è rilevante in quasi tutti i rapporti umani. Qualcuno forse inorridirà a questa affermazione, perché considera riprovevole la menzogna. Io non sono d'accordo: è troppo facile sostenere che nessuno, in nessuna relazione personale, debba mai mentire, né mi sentirei di prescrivere che ogni e qualunque bugia debba essere smascherata. Le bugie possono essere crudeli, ma a volte anche la verità lo è. Alcune (molto meno di quanto pretenderebbero i bugiardi) sono altruistiche. Certi rapporti sociali sono vissuti piacevolmente in grazia dei miti che esse alimentano. Ma il bugiardo non deve mai presumere troppo facilmente che la sua vittima non desideri altro che farsi ingannare. Né il cacciatore di bugie deve troppo facilmente presumere di avere il diritto di mettere a nudo qualunque menzogna: alcune sono innocue, perfino umane, e smascherare certi inganni può umiliare la vittima o una terza persona. Ma tutto questo va approfondito meglio e dopo aver esaminato molti altri argomenti. Per cominciare, bisogna partire dalla definizione della menzogna, da una descrizione delle sue due forme fondamentali e dalla distinzione dei due tipi di indizi che permettono di scoprirla. II Bugie e indizi che trapelano Otto anni dopo le sue dimissioni dalla presidenza, Richard Nixon negava di aver mentito ma riconosceva che, come altri uomini politici, aveva dissimulato. È una pratica necessaria per ottenere e mantenere cariche pubbliche, spiegava: «Non puoi dire quello che pensi di questo o quell'individuo perché può accadere che ti debba servire di lui... non puoi dichiarare le tue opinioni sui leader mondiali perché può capitarti di dover trattare con loro in futuro».6 Nixon non è il solo ad evitare il termine “menzogna” quando il non dire la verità è in qualche modo giustificabile.7 Come leggiamo nell'Oxford English Dictionary alla voce “lie”, «nell'uso moderno la parola è un'espressione violenta di riprovazione morale, che nella conversazione educata tende ad essere evitata, sostituita spesso dai sinonimi “falsehood” e “untruth” in quanto relativamente 8 eufemistici». È facile chiamare “bugiardo” un individuo non sincero quando ci è antipatico, ma è difficile usare questo termine, malgrado la sua insincerità, se ci piace o lo ammiriamo. Molti anni prima dello scandalo Watergate, Nixon riassumeva tutti i caratteri del bugiardo per i suoi avversari democratici («Comprereste un'auto usata da quest'uomo?»), mentre per i suoi sostenitori repubblicani le sue doti di simulatore erano segno di abilità politica. Questi aspetti sono però irrilevanti ai fini della mia definizione della menzogna o dell'inganno (termini che uso indifferentemente). Molte persone, per esempio quelle che involontariamente forniscono informazioni false, sono non veritiere senza per questo mentire. Una paziente che ha il delirio paranoico di essere Maria Maddalena non è bugiarda, anche se la sua affermazione non è vera. Dare cattivi consigli finanziari non è una menzogna, a meno che il commercialista sapesse che l'investimento era sbagliato al momento di raccomandarlo ai suoi clienti. Chi ha un aspetto che suggerisce un'impressione falsa non necessariamente cerca di ingannare gli altri: una mantide religiosa mimetizzata in modo da somigliare a una foglia non mente, come non mente un uomo la cui fronte alta fa sospettare un'intelligenza maggiore di quella che ha.9 Il mentitore può scegliere se mentire o no. Trarre in inganno la vittima è un atto deliberato: il bugiardo vuole fornire un'informazione sbagliata. La menzogna può essere o non essere giustificata, nell'opinione dell'autore o degli altri. Il bugiardo può essere o non essere una persona buona o cattiva, può piacere o non piacere, ma sta di fatto che può decidere di mentire o essere sincero e conosce la differenza fra le due alternative.10 Non corrispondono ai requisiti di questa definizione i mentitori patologici, che sanno di mentire ma non riescono a farne a meno, così come non rientrano nella categoria quelle persone che non sanno nemmeno di mentire, quelle che chiamiamo vittime di un autoinganno.11 Può succedere che il mentitore col tempo finisca per credere alle proprie bugie. In questo caso, non abbiamo più a che fare con un autentico mentitore e i suoi inganni, per ragioni che spiegherò nel prossimo capitolo, diventano molto più difficili da scoprire. Un episodio della vita di Mussolini dimostra che credere alle proprie menzogne non sempre è così utile: «Nel 1938 la composizione delle divisioni dell'esercito [italiano] era stata ridotta da tre a due reggimenti. Questo piaceva a Mussolini perché gli permetteva di dire che il fascismo disponeva di 60 divisioni invece di 40, ma il cambiamento causò un'enorme disorganizzazione proprio quando la guerra stava per scoppiare; e siccome aveva dimenticato la passata direttiva, vari anni dopo Mussolini commetteva tragici errori di calcolo nel valutare la vera consistenza delle sue forze. A quanto pare, lo stratagemma aveva ingannato pochi altri, a parte lui stesso».12 Quando si definisce la menzogna non basta considerare solo l'autore: occorre tener conto anche del destinatario. In un'autentica bugia il destinatario non chiede di essere tratto in inganno, né il bugiardo ha notificato in precedenza l'intenzione di farlo. Sarebbe curioso chiamare bugiardi gli attori: il loro pubblico è d'accordo di lasciarsi ingannare per qualche tempo e loro sono lì apposta. A differenza del truffatore, l'attore si camuffa avvertendo esplicitamente che il personaggio impersonato è una finzione temporanea. Nella mia definizione di menzogna, allora, una persona intende trarre in inganno un'altra deliberatamente, senza avvertire delle sue intenzioni e senza che il destinatario dell'inganno gliel'abbia esplicitamente chiesto.13 Ci sono due modi principali di mentire: dissimulare e falsificare.14 Nella dissimulazione, chi mente nasconde certe informazioni senza dire effettivamente nulla di falso. Chi falsifica si spinge oltre: non solo l'informazione vera è taciuta, ma viene presentata un'informazione falsa come se fosse vera. Spesso è necessario combinare le due operazioni per portare a termine l'inganno, ma a volte basta la sola dissimulazione. Non tutti considerano la dissimulazione una menzogna; alcuni riservano questo termine solo all'atto più netto e sfacciato della falsificazione.15 Se il medico non dice al paziente che la sua malattia è incurabile, se il marito non racconta di aver passato l'intervallo del pranzo in un motel con la migliore amica della moglie, se il poliziotto non informa il sorvegliato speciale che c'è un microfono nascosto che registra la sua conversazione con l'avvocato, in tutti questi casi non vengono trasmesse informazioni false, ma ognuno di questi è un esempio che corrisponde alla mia definizione di menzogna. I destinatari non hanno chiesto di essere tratti in inganno e chi lo fa agisce deliberatamente, senza notificare in precedenza le proprie intenzioni. L'informazione è stata taciuta consapevolmente, con intenzione, non per caso. Esistono delle eccezioni, nelle quali l'occultamento di informazioni non è menzogna perché è stato preavvertito o autorizzato dalla controparte. Se marito e moglie si mettono d'accordo per mandare avanti un rapporto di coppia aperta, in cui ciascuno ha diritto a tacere le sue relazioni extraconiugali, a meno che l'altro non faccia domande dirette, ecco che nascondere l'appuntamento al motel non è più una bugia. Così, se il paziente chiede al medico di non dirgli se il responso è sfavorevole, tacere la gravità della malattia non è un inganno. Quanto all'ultimo esempio, l'inquisito ha diritto per legge a colloqui riservati con l'avvocato, cosicché nascondere la violazione di questo diritto è comunque una menzogna. Quando c'è la possibilità di scegliere come mentire, generalmente si preferisce la dissimulazione alla falsificazione. Ci sono molti vantaggi. Intanto, nascondere qualcosa è più facile che riferire il falso. Non c'è bisogno di inventare nulla e non c'è il rischio di farsi cogliere in fallo senza essersi preparati in anticipo una storia ben congegnata. Si racconta che Lincoln dicesse di avere troppo poca memoria per essere bugiardo. Se il medico, per nascondere al malato che la sua malattia è senza speranza, gli dà una falsa spiegazione dei sintomi, dovrà ricordarsi quello che ha detto per non cadere in contraddizione quando sarà interrogato di nuovo. La dissimulazione forse è preferita anche perché sembra meno riprovevole dell'esplicita falsificazione. È un comportamento passivo, non attivo, e anche se la vittima può esserne altrettanto danneggiata, il mentitore può sentirsi meno colpevole di aver taciuto la verità che di aver affermato il falso.16 Può conservare la rassicurante convinzione che l'ingannato veramente conosce la verità ma non vuole affrontarla. Una moglie infedele che inganna il marito in questo modo può pensare, per esempio: «Mio marito deve sapere che mi do al bel tempo, perché non mi chiede mai dove sono stata il pomeriggio. La mia discrezione è un riguardo per lui; di certo non gli mento su quello che faccio. Ho scelto di non umiliarlo, di non costringerlo a prendere atto delle mie relazioni». Queste bugie per omissione sono anche molto più facili da coprire se in seguito vengono scoperte. Il mentitore non si è avventurato tanto lontano e può trovare sempre molte scuse: ignoranza, dimenticanza, l'intenzione di rivelare la cosa più tardi, ecc. Il testimone sotto giuramento, quando dice «a quanto mi riesce di ricordare» si procura una via d'uscita se più avanti gli verrà contestato qualcosa che ha taciuto. L'affermazione di non ricordare ciò che in realtà si ricorda benissimo è una via di mezzo fra la semplice dissimulazione e la falsificazione. Il mentitore vi ricorre quando non può più limitarsi a tacere: gli è stata fatta una domanda esplicita, gli è stato contestato qualcosa. Falsificando solo il vuoto di memoria, evita di dover ricordare una storia inventata. Se poi la verità viene a galla, potrà sempre dire di essersene dimenticato. Questa strategia è illustrata da un episodio dello scandalo Watergate che portò alle dimissioni di Nixon. Accumulandosi le prove del loro coinvolgimento nel furto di documenti e nei tentativi di coprire i colpevoli, gli assistenti presidenziali Ehrlichman e Haldeman sono costretti a dimettersi. Alexander Haig prende il posto di Haldeman mentre la pressione su Nixon va crescendo. «Haig era tornato alla Casa Bianca da meno di un mese quando, il 4 giugno 1973, si trovò a discutere con Nixon come reagire alle gravi accuse sollevate da John W. Dean, ex consigliere della Casa Bianca. Secondo la registrazione della discussione Nixon-Haig, resa pubblica durante la procedura per l'impeachment, Haig consigliò a Nixon di eludere le domande circa gli addebiti, dicendo semplicemente “Non ricordo”».17 Un vuoto di memoria, però, è credibile solo in certe particolari circostanze. Interrogato sui risultati delle analisi, il medico non può rispondere di non ricordarsene, così come non può il poliziotto, se gli viene fatta una domanda esplicita sulla presenza di microfoni nascosti. Questa scusa può essere invocata solo per faccende insignificanti o che risalgono a qualche tempo fa. Ma neppure il trascorrere del tempo può giustificare la dimenticanza di eventi straordinari che chiunque dovrebbe ricordare anche a distanza di anni. E comunque non c'è più scelta fra le due strategie, una volta che la vittima contesta qualcosa. Se la moglie chiede al marito perché non l'ha trovato quando gli ha telefonato all'ora di pranzo, egli deve inventare un falso se vuol mantenere segreta la sua avventura. Si potrebbe sostenere che anche l'innocente domanda «Com'è andata oggi?», nella normale conversazione serale a tavola, è una richiesta d'informazioni, ma può essere elusa: il marito può parlare d'altro, tacendo l'appuntamento, a meno che una domanda diretta non lo costringa a scegliere fra inventare una storia o dire la verità. Alcune bugie esigono fin dall'inizio la falsificazione; la dissimulazione della verità, da sola, non basta. Così Mary, la paziente del nostro esempio, non solo doveva nascondere la sua disperazione e i progetti di suicidio, ma anche fingere di sentirsi meglio e di voler passare il sabato e la domenica in famiglia. Quando si mente circa le precedenti esperienze per ottenere un impiego non basta tacere il vero: non solo si dovrà nascondere la propria inesperienza, ma anche inventarsi dei precedenti professionali adeguati al posto che si desidera. Per evitare un invito noioso senza offendere l'ospite non basta tacere la verità (che si preferisce restare a casa a guardare la TV piuttosto che andare alla sua festa), ma bisogna anche costruirsi una scusa accettabile (un appuntamento di lavoro l'indomani mattina presto, i bambini che non si sa a chi affidare, ecc.). La falsificazione interviene, benché la menzogna di per sé non la richieda, anche per coprire le prove di ciò che si vuol nascondere. Questo uso del falso per mascherare la verità che si vuol dissimulare è specialmente necessario quando si devono nascondere le emozioni. È facile passare sotto silenzio un'emozione già passata, molto più difficile nasconderne una che si prova nel momento in cui si mente, specie se è intensa. Il terrore è più difficile da dissimulare di una lieve preoccupazione, la rabbia più del fastidio. Quanto più intensa è l'emozione, tanto più è probabile che qualche segno trapeli, nonostante gli sforzi per nasconderla. Fingere un'emozione diversa può aiutare a mascherare quella autentica che si vuol dissimulare. Falsificare un'emozione può coprire l'emozione celata che minaccia di trasparire. Un episodio di un romanzo di John Updike, Marry Me, illustra bene questo ed altri punti che ho toccato finora. Jerry, il marito, sente per caso una telefonata di Ruth all'amante. Fino a questo punto del romanzo, Ruth è riuscita a tener nascosta la sua relazione senza dover ricorrere ad esplicite falsificazioni, ma ora, direttamente interrogata dal marito, non può farne a meno. Oggetto del suo inganno era mantenere il marito all'oscuro dell'adulterio, ma questo episodio mostra anche con quanta facilità nella menzogna entrano in gioco le emozioni e come, una volta messe in moto, rendono tutto più difficile, andando ad aggiungersi alle altre cose da nascondere. «Jerry l'aveva impaurita ascoltando per caso la fine di una conversazione telefonica con Dick [questo è il nome dell'amante di Ruth]. Lei credeva che stesse rastrellando il prato. Sbucando dalla cucina le chiese: “Chi era?”. Lei entrò in panico. “Ah, non lo so. Era una della parrocchia che chiedeva se vogliamo iscrivere Joanna e Charlie al catechismo”».18 Il panico di per sé non è una dimostrazione di menzogna, ma avrebbe insospettito Jerry se l'avesse notato: Ruth non si sarebbe impaurita, avrebbe pensato, se non avesse avuto nulla da nascondere. È vero che persone del tutto innocenti possono impaurirsi quando sono interrogate, ma chi le interroga non tiene conto di questo fatto. Ruth è in una posizione difficile: non avendo previsto la necessità di inventare una bugia, non ha preparato una linea di difesa e, colta in questa situazione, entra in panico per essere stata scoperta; il panico è difficilissimo da nascondere e ciò non fa che accrescere il rischio di essere smascherata. Una scappatoia che potrebbe tentare sarebbe quella di essere sincera sui sentimenti che prova, visto che difficilmente potrebbe dissimularli, mentendo piuttosto sulla causa che li ha suscitati. Potrebbe ammettere il suo panico, dicendo però che si sente così per la paura che Jerry non le creda, non perché abbia qualcosa da nascondere. Una scusa del genere non funziona se non ci sono state prima altre storie di incredulità da parte del marito, dimostratasi regolarmente infondata: in quel caso, l'accenno alle sue accuse irragionevoli potrebbe dissuaderlo dal continuare l'indagine. Ruth probabilmente non riesce nell'impresa se cerca di sembrare fredda e distaccata, totalmente impassibile. Quando le mani cominciano a tremare è molto più facile usarle per fare qualcosa (stringerle a pugno, intrecciarle) che tenerle ferme. Quando le labbra si stringono e si stirano, le sopracciglia e le palpebre superiori si sollevano dalla paura, è difficilissimo mantenere il viso immobile. Queste espressioni si nascondono meglio aggiungendo altri movimenti muscolari: digrignare i denti, stringere le labbra, aggrottare la fronte, guardare in cagnesco. Il modo migliore per dissimulare le forti emozioni è mettersi una maschera. Coprirsi la faccia con la mano o distoglierla dall'interlocutore di solito è impossibile senza tradire la bugia. La maschera migliore è un'emozione finta: non solo serve a sviare, ma è il miglior camuffamento. È tremendamente difficile mantenere un volto impassibile e restare immobili con le mani quando si prova un'emozione intensa: molto più facile è assumere un atteggiamento fittizio, bloccare o contrastare con azioni diverse quelle che esprimerebbero l'emozione autentica. Nel romanzo di Updike, subito dopo Jerry dice a Ruth che non le crede. È probabile che il panico aumenti, diventando ancora più difficile da nascondere: Ruth può cercare di usare la rabbia, la sorpresa o lo sgomento per mascherare la paura, oppure può aggredire il marito perché la spia e diffida di lei, o anche mostrarsi stupefatta che non le creda e che stia ad ascoltare le sue telefonate. Non tutte le situazioni permettono a chi mente di mascherare con altre le emozioni autentiche: alcune menzogne impongono la più difficile impresa di dissimulare qualunque emozione, senza esibirne una finta. Ezer Weizman, ex ministro della difesa israeliano, ha descritto una di queste difficili situazioni. Erano in corso colloqui fra le delegazioni militari di Egitto e Israele per avviare il negoziato dopo la storica visita di Sadat a Gerusalemme. Durante una delle sedute, Mohamed el-Gamasy, capo della delegazione egiziana, dice a Weizman che ha appena saputo che gli israeliani stanno costituendo un nuovo insediamento nel Sinai. Weizman sa che ciò potrebbe mettere a repentaglio i negoziati, dato che è ancora in discussione il diritto di Israele a mantenere gli insediamenti preesistenti. «Ero indignato, anche se non potevo esprimere la mia rabbia in pubblico. Eravamo lì a discutere intese di sicurezza, cercando di dare un'altra spintarella in avanti al vagone della pace ed ecco che i miei colleghi di Gerusalemme, invece di far tesoro della lezione degli insediamenti fantasma, ne costruivano un altro, proprio nel momento in cui i negoziati erano in corso».19 Weizman non poteva permettere alla sua collera verso i colleghi di gabinetto a Gerusalemme di manifestarsi. Dissimulare la rabbia gli avrebbe anche permesso di nascondere il fatto che il governo non l'aveva consultato. Doveva quindi occultare un'intensa emozione senza poter usare come maschera un'altra emozione fittizia: non poteva mostrarsi felice, impaurito, addolorato, sorpreso o indignato, ma doveva semplicemente apparire attento e impassibile, senza lasciar capire che l'informazione di Gamasy fosse una novità di qualche rilievo. Dal suo libro non si capisce se ci sia riuscito o no. Il poker è un'altra situazione in cui non è possibile usare un camuffamento per nascondere le emozioni. Quando si eccita alla prospettiva di vincere un grosso piatto per le magnifiche carte che ha avuto, il giocatore deve dissimulare qualunque segno di entusiasmo per evitare che gli avversari si ritirino dal gioco. Ma se maschera la propria gioia con un'altra emozione, come l'irritazione o la delusione, gli altri giocatori penseranno che le sue carte non siano buone, e si aspetteranno che esca, invece di stare al gioco e rilanciare. Deve mantenere un viso totalmente inespressivo, quello che si chiama appunto poker face. Se invece si trattasse di nascondere la delusione per le carte cattive con un bluff cercando di mandar via dal gioco gli avversari, sarebbe possibile, forse, fingere gioia o eccitazione, ma la cosa non sarà credibile, a meno di esser considerato un principiante. Un esperto giocatore di poker si suppone abbia assimilato la capacità di non manifestare nessuna emozione per il gioco che gli è toccato.20 Incidentalmente, la mancanza di sincerità nel poker non corrisponde alla mia definizione di menzogna, perché nessuno si aspetta che i giocatori rivelino le carte che hanno in mano: il gioco stesso avverte in partenza che i giocatori cercheranno di trarsi in inganno l'un l'altro. Si può fingere qualunque emozione per cercar di nasconderne qualunque altra. Il sorriso è la maschera usata più spesso. Esso controbilancia tutta la gamma delle emozioni negative: paura, rabbia, dolore, disgusto, ecc. Spesso la si sceglie perché un'espressione di felicità è il messaggio atto a coprire molti tipi d'inganno. Un'altra ragione per cui il sorriso è usato tanto spesso come maschera è che fa parte del cerimoniale corrente del saluto ed è spesso richiesto nel corso delle semplici formule di cortesia. Il fatto che uno si senta malissimo di solito non dev'essere mostrato o riconosciuto durante uno scambio di saluti: in risposta al «Come va?» ci si aspetta invariabilmente la formula «Non c'è male, grazie». I sentimenti autentici probabilmente passano inosservati non perché il sorriso sia una maschera tanto efficace, ma perché negli scambi di cortesia è raro che ci si preoccupi davvero di come sta l'altro: tutto quello che ci si aspetta è una fittizia amabilità e piacevolezza. Questi sorrisi stereotipati raramente vengono analizzati a fondo dai destinatari. Le persone sono abituate a fingere di non vedere le menzogne nel contesto di un puro e semplice scambio di saluti. Si potrebbe anche sostenere che è sbagliato parlare di bugie in questo caso, perché la regola implicita nelle formule di saluto costituisce in partenza un avvertimento che non si daranno notizie veritiere delle proprie emozioni. Un'altra ragione ancora della popolarità del sorriso come maschera è che è la mimica emotiva più facile da assumere volontariamente: molto prima dell'anno, i lattanti sono in grado di sorridere deliberatamente. Il sorriso è una delle primissime espressioni usate dal bambino in maniera intenzionale per compiacere gli altri. Per tutta la vita il sorriso sociale continua a presentare emozioni che non si provano ma che è utile o necessario mostrare agli altri. Si possono sbagliare i tempi di questi sorrisi non sentiti, che possono risultare precipitosi o ritardati, così come si può sbagliare la loro collocazione, troppo in anticipo o troppo in ritardo rispetto alla parola o all'espressione che dovrebbero accompagnare. Ma i movimenti del sorriso di per sé sono facili da eseguire, cosa che non si può dire per l'espressione di tutte le altre emozioni. Le emozioni negative sono quelle più difficili da simulare per la maggior parte delle persone. Le mie ricerche, descritte nel Cap. V, dimostrano che la maggioranza dei soggetti è incapace di muovere volontariamente quei particolari muscoli che sono necessari per fingere realisticamente dolore e paura. Rabbia e disgusto sono un po' più facili da esibire quando non si provano, ma sono frequenti gli errori di esecuzione. Se la menzogna esige la simulazione di un'emozione negativa, anziché un sorriso finto, il bugiardo può incontrare qualche difficoltà. Ci sono delle eccezioni: Hitler era evidentemente un ottimo attore, capace di fingere con la massima disinvoltura e in maniera convincente anche emozioni negative. Ricevendo l'ambasciatore inglese, una volta sembrava assolutamente furioso, nell'impossibilità di proseguire oltre la discussione. Un diplomatico tedesco presente alla scena riferisce: «La porta si era appena chiusa alle spalle dell'ambasciatore che Hitler si batté una pacca sulla coscia ridendo e disse: “Chamberlain non sopravviverà a questa conversazione; il suo gabinetto cadrà stasera”».21 Ci sono vari altri modi di mentire, oltre alla dissimulazione e all'attiva falsificazione. Uno l'ho già indicato a proposito del romanzo di Updike, considerando le possibili vie d'uscita di Ruth per reggere l'inganno malgrado il panico improvviso. Invece di cercare di nascondere la paura, cosa difficile, poteva ammetterla e mentire invece sulle cause dei suoi sentimenti. Indicando una causa diversa da quella vera, poteva proclamarsi del tutto innocente e impaurita solo all'idea che il marito non le avrebbe creduto. Così Mary, se lo psichiatra le avesse chiesto perché pareva un po' nervosa, avrebbe potuto ammettere il nervosismo, ma attribuirlo a una causa fittizia: «Sono nervosa perché ci tengo tanto a poter stare di nuovo un po' in famiglia». Sincera quanto all'emozione provata, la menzogna trae in inganno circa le ragioni che l'hanno causata. Un'altra tecnica affine consiste nel dire la verità, ma con fare sprezzante, in modo che la vittima non ci creda. È come mentire dicendo il vero. Quando il marito chiede a Ruth con chi stava parlando al telefono, lei gli potrebbe rispondere: «Ma parlavo col mio amante, mi chiama a tutte le ore. Siccome vado a letto con lui tre volte al giorno dobbiamo tenerci sempre in contatto per combinare». Esagerare la verità serve a mettere in ridicolo i sospetti altrui, rende più difficile approfondire le indagini. Un tono di voce o un'espressione di scherno sono altri ingredienti che servono allo scopo. Un altro esempio di verità detta per sviare i sospetti lo troviamo nel libro di Robert Daley, Prince of the City: The True Story of a Cop Who Knew Too Much, da cui è stato tratto un film di successo. A quanto proclama il sottotitolo, è una storia autentica, non un'opera d'immaginazione. Robert Leuci è il poliziotto che si infiltrò nella malavita lavorando come informatore per le autorità federali, che volevano raccogliere le prove della corruzione e complicità di poliziotti, avvocati e garanti su cauzione con mafiosi e trafficanti di droga. La maggior parte delle prove le ottenne con un piccolo registratore nascosto negli abiti. A un certo punto cominciano a sospettare di lui: se gli trovano addosso l'apparecchio è spacciato. Ecco che cosa dice Leuci a De Stefano, uno dei criminali su cui indaga: «“Non ci sediamo accanto al Jukebox stasera, perché sennò non riesco a registrare nulla”. “Non fa ridere”, disse De Stefano. Leuci cominciò a vantarsi che lavorava davvero per il governo, come anche quella cameriera in fondo alla sala, che aveva la trasmittente infilata nella... Tutti risero, ma la risata di De Stefano era acida». 22 Leuci mette in ridicolo De Stefano dicendo sfacciatamente la verità: è vero che non può ottenere una buona registrazione accanto al Jukebox, come è vero che lavora per il governo federale. Ammettendolo con tanta faccia di bronzo e scherzando sulla cameriera col registratore nascosto fra le cosce o nel reggiseno, rende difficile all'avversario insistere nei suoi sospetti senza sembrare ridicolo. Parente stretta della tecnica di dire la verità per fuorviare i sospetti è la dissimulazione a metà. Si dice la verità, ma solo in parte. Un tono di noncuranza o un elenco incompleto che omette l'elemento cruciale permette al mentitore di reggere l'inganno pur senza dire niente di falso. Poco dopo l'episodio che ho citato dal romanzo di Updike, Jerry raggiunge Ruth a letto e rannicchiandosi accanto a lei le chiede di dirgli chi le piace. «“Mi piaci tu”, rispose, “e tutti i piccioni in quell'albero e tutti i cani della città, meno quelli che ci rovesciano i secchi della spazzatura, e tutti i gatti, meno quello che ha messo incinta Lulu. E poi mi piacciono i bagnini della spiaggia e i vigili giù in centro, meno quello che mi ha fatto quella scenata per un'inversione di marcia, e mi piace qualcuno dei nostri insopportabili amici, specialmente quando sono ubriaca... ” “E Dick Mathias ti piace? ” [È l'amante di Ruth]. “Non mi dispiace”». 23 Un'altra tecnica che permette di mentire senza essere costretti a dire nulla di falso è la risposta evasiva che suggerisce una conclusione sbagliata. Una rubrica di costume su un quotidiano dà una descrizione spiritosa di come usare questo metodo per risolvere un problema che tutti conosciamo bene: che cosa dire a un amico quando i suoi lavori non ci piacciono. Siamo alla vernice della mostra di un amico. I suoi quadri ci sembrano orribili ma, prima che riusciamo a svignarcela, ecco che ci blocca e ci chiede che cosa ne pensiamo. Nella rubrica si consiglia di chiamare l'amico ripetutamente per nome «Jerry, Jerry, Jerry» (supponiamo che si chiami Jerry) fissandolo profondamente negli occhi come sopraffatti dall'emozione. Non mollare la sua mano, mentre si continua a guardarlo negli occhi. Nove volte su dieci Jerry, alla fine, si sottrarrà alla presa, borbottando una frase modesta, e passerà ad altri... Ci sono delle variazioni. C'è la versione in due tempi, da intenditore che parla in terza persona: «Jerry. Jerry. Che cosa dire?». O quella più sornionamente dimessa: «Jerry. Non ho parole». O quella un po' più ironica: «Jerry. Tutti, tutti non parlano d'altro».24 Il pregio di questo stratagemma, come della dissimulazione a metà o della verità proclamata perché non sia creduta, è che il mentitore non deve dire nulla di falso. Le considero egualmente bugie, però, in quanto c'è un tentativo deliberato di trarre in inganno il destinatario. Tutti questi tipi di menzogna possono essere traditi da qualche aspetto del comportamento di chi mente. Ci sono due tipi di indizi: un errore può svelare la verità, oppure può suggerire soltanto che ciò che l'altro dice o cerca comunque di far credere non è vero, senza però indicare come stanno esattamente le cose. Quando l'errore mette a nudo la verità, parlo di indizi rivelatori; quando il comportamento del mentitore fa capire soltanto che mente, parlo invece di semplici indizi di falso. Se il medico si accorge che Mary, mentre dice che si sente bene, si torce le mani, ecco che ha un indizio di falso, una ragione di sospettare che gli stia mentendo. Non sa che cosa prova realmente la paziente (potrebbe essere arrabbiata con l'ospedale, disgustata di se stessa, timorosa del futuro), se non ricava anche un qualche segno più eloquente, un vero e proprio indizio rivelatore: un'espressione del viso, il tono della voce, un lapsus o un gesto involontario potrebbero lasciar trasparire i suoi reali sentimenti. Un indizio di falso risponde all'interrogativo se la persona mente o dice la verità, anche se non rivela che cosa nasconda. Solo un indizio più esplicito servirebbe a quest'ultimo scopo. Spesso non ce n'è bisogno: se il problema è quello di accertare se la persona in questione mente o no, basta un generico indizio di falso. In genere le informazioni che vengono taciute possono essere facilmente indovinate, oppure sono irrilevanti. Ma non sempre basta. In certi casi può essere importante sapere esattamente che cosa si celi dietro la bugia. Chamberlain, se avesse notato un qualche indizio di falso, avrebbe solo saputo che Hitler mentiva, ma in quella situazione sarebbe stato importantissimo anche mettere a nudo i suoi reali piani di conquista, scoprire fino a che punto intendeva spingersi. A volte quello che traspare è solo parte della verità: qualcosa di più di un semplice indizio di falso, ma non tutto quello che la vittima vorrebbe sapere. Torniamo all'episodio del romanzo di Updike citato prima, quando Ruth entrava in panico non sapendo quanto avesse sentito il marito della sua telefonata con l'amante. Probabilmente alla domanda di Jerry c'è stato un gesto di lei (un tremito delle braccia, l'occhio sbarrato) che ha tradito il suo panico. Dato il contesto, un tale sintomo di paura implicava una menzogna: perché altrimenti avrebbe dovuto essere turbata dalla sua domanda? Ma un tale indizio di falso non gli dice su che cosa la moglie mente, né a chi parla. Questa informazione, almeno in parte, Jerry la ottiene da qualcosa che trapela nella voce di Ruth. Spiegandole perché non crede alle sue parole, le dice: «“... non era il tuo tono di voce”. “Davvero? Come? ”. Cercò di ridacchiare. Lo sguardo di lui era fisso nel vuoto come se considerasse un problema estetico. Sembrava stanco, giovane, magro. I suoi capelli erano tagliati troppo corti. “Era diverso”, disse. “Più caldo. Era la voce di una donna”. “Io sono una donna”. “La tua voce con me”, disse lui, “è da ragazzina”».25 Il tono di voce non si accorda con la telefonata della parrocchia, ma corrisponde a un colloquio clandestino con un amante. Tradisce il fatto che la bugia ha a che fare probabilmente con una relazione extraconiugale, ma non dice tutto: Jerry non può capire se la relazione sta per cominciare o è già in pieno svolgimento, né chi sia l'amante. Tuttavia, ne sa di più di quanto avrebbe potuto ricavare da un semplice indizio di falso, che gli avrebbe suggerito soltanto che la moglie mentiva. Riassumendo, ho definito la menzogna come la scelta deliberata e non dichiarata di trarre in inganno il destinatario. La menzogna ha due forme principali: la dissimulazione, cioè occultare informazioni vere, e la falsificazione, cioè presentare informazioni false come se fossero vere. Altri modi di mentire sono: sviare i sospetti, ammettendo un'emozione ma indicandone una causa falsa, mentire dicendo la verità, cioè ammettendo la verità in maniera così esagerata o umoristica che il destinatario viene tratto in inganno, dissimulare a metà, ammettendo solo parte della verità in modo da sviare l'interesse della vittima da ciò che rimane celato, e la tecnica di eludere la domanda suscitando un'interpretazione sbagliata, dire cioè la verità ma in modo da lasciar intendere il contrario. Esistono due tipi di indizi di menzogna: indizi rivelatori che mettono inavvertitamente a nudo la verità e semplici indizi di falso, dove il comportamento del bugiardo fa sospettare soltanto che quello che dice non è vero. Gli uni e gli altri indizi sono errori, ma non sempre succedono. Il prossimo capitolo spiega perché in certi casi il mentitore vi incorre. III Perché le bugie fanno fiasco Le menzogne falliscono per le ragioni più varie. La vittima dell'inganno può scoprire accidentalmente le prove; oppure il mentitore può essere tradito da qualcun altro: un collega invidioso, il coniuge abbandonato, un informatore prezzolato, sono tutte fonti importanti per smascherare un inganno. Quelli che interessano a noi, però, sono gli errori commessi all'atto di mentire, errori che il bugiardo compie suo malgrado. Indizi di falso o segni rivelatori ancor più eloquenti possono comparire in un cambiamento d'espressione del volto, un movimento del corpo, un'inflessione di voce, l'atto di deglutire saliva, una respirazione troppo profonda o affannosa, lunghe pause fra una parola e l'altra, un lapsus, una microespressione del viso, un gesto involontario. La domanda che ci si pone è: perché il mentitore a volte non può impedire questi comportamenti che lo tradiscono? Ci sono due ragioni, una che chiama in causa il pensiero, l'altra le emozioni. ERRORI STRATEGICI Non sempre chi mente può prevedere quando si presenterà la necessità di mentire. Non sempre c'è tempo di prepararsi una strategia, ripassarla e mandarla a memoria. Ruth, nel romanzo di Updike, non poteva prevedere che il marito avrebbe sentito la sua telefonata con l'amante. La scusa che inventa sul momento (che era la parrocchia che aveva chiamato per il catechismo dei bambini) la tradisce perché non corrisponde a quanto il marito ha potuto ascoltare. Anche quando c'è un ampio preavviso e si è potuta inventare con cura una falsa storia, non è facile prevedere tutte le domande e soppesare fino in fondo le risposte. E nemmeno l'astuzia basta quando cambiamenti imprevisti delle circostanze possono mettere in crisi una linea che peraltro sarebbe stata efficace. Durante le indagini del gran giurì sullo scandalo Watergate, un problema del genere è stato osservato dal giudice federale a proposito della testimonianza del consigliere speciale di Nixon, Fred Buzhardt: «Il primo problema che Fred Buzhardt si è trovato ad affrontare quando ha cercato di spiegare perché mancassero i nastri delle registrazioni è stato quello di non cadere in contraddizione. Il primo giorno di udienza disse che non c'erano nastri dell'incontro del 15 aprile fra il Presidente e Dean perché un timer si era guastato [...]. Ma ben presto dovette correggere questa prima spiegazione [Buzhardt aveva saputo che da altri dati si sarebbe potuto scoprire che i timer in realtà non avevano avuto nessun guasto]. Stavolta disse che l'incontro del 15 aprile con Dean [...] non era stato registrato perché i nastri disponibili erano già stati consumati in un'intensa giornata di riunioni».26 Anche quando le circostanze non lo costringono a cambiare strategia, chi mente può avere difficoltà a ricordare quella che aveva adottato in precedenza, cosicché rischia di cadere in contraddizione di fronte a nuove domande. Uno qualunque di questi errori - non aver previsto quando insorge la necessità di mentire, non aver inventato una storia che si adatti a nuove circostanze, non ricordare la linea di condotta adottata - produce indizi di falso facili da scoprire: la storia mostra incoerenze o divergenze rispetto a fatti incontrovertibili, noti sul momento o rivelati più tardi. Indizi così ovvi, però, non sono sempre univoci come sembrano. Basta pensare che proprio una strategia impeccabile può essere il segno di una truffa ben preparata, in cui il mentitore si è ripassato la parte alla perfezione. A peggiorare ulteriormente le cose c'è il fatto che certi truffatori, consapevoli di questo rischio, introducono a bella posta lievi errori per non dare l'impressione di recitare la lezione. Un caso in cui questo trucco viene usato in modo esemplare lo descrive James Phelan, il giornalista che ha condotto un'inchiesta sulla truffa della falsa biografia di Howard Hughes. Nessuno aveva più visto Hughes da anni, il che aggiungeva un tocco di mistero all'interesse del pubblico per questo miliardario, produttore cinematografico e proprietario di una compagnia aerea e della più grande casa da gioco di Las Vegas. Era tanto tempo che nessuno lo vedeva, che si cominciava a dubitare che fosse ancora vivo. Era stupefacente che una persona che si sottraeva con tanta tenacia agli occhi del mondo autorizzasse qualcuno a scrivere la sua biografia. Eppure era proprio la biografia autorizzata di Hughes ciò che Clifford Irving dichiarava di avere scritto. La casa editrice McGraw-Hill gli versò 750.000 dollari per i diritti di pubblicazione e la rivista Live altri 250.000 per tre estratti; poi invece risultò che la biografia era un falso clamoroso. Ecco il racconto di Phelan: «Irving è un grande truffatore, uno dei migliori. Quando l'abbiamo sottoposto a interrogatori incrociati, non ha mai fatto l'errore di raccontare versioni sempre identiche della sua storia. Ogni volta c'erano minime discrepanze e quando lo coglievamo in contraddizione le ammetteva senza difficoltà. Il truffatore medio si prepara il suo racconto alla perfezione, così da poterlo ripetere alla lettera senza discrepanze. Un uomo onesto di solito fa dei piccoli errori, specialmente se deve raccontare una storia lunga e complicata, com'era appunto la sua. Ma Cliff era abbastanza intelligente da saperlo e riuscì a impersonare a meraviglia l'onestuomo senza segreti da nascondere. Quando lo coglievamo su un particolare che sembrava accusarlo, diceva con disinvoltura: “Ahi! Questa cosa mi mette nei guai, vero? Ma ci posso fare poco, è andata proprio così”. Dava l'impressione del massimo candore, di uno che è sincero anche a proprio svantaggio, mentre non faceva altro che infilare una bugia dietro l'altra».27 Non c'è difesa contro un'abilità del genere e infatti i truffatori più bravi riescono nell'impresa. Ma la maggior parte delle persone che mentono non è così astuta. Non aver preparato una linea di condotta o non ricordare bene quella che si è adottata può produrre indizi di falso che trapelano dal modo in cui si dicono le cose, anche se ciò che si dice non presenta nessuna contraddizione. La necessità di riflettere su ogni singola parola prima di pronunciarla - soppesando le possibilità, cercando parole e concetti adatti può evidenziarsi in eventuali pause del discorso, oppure, in maniera più sottile, in movimenti involontari delle ciglia e delle sopracciglia, o in certi cambiamenti nei gesti (che descriverò dettagliatamente nei Capp. IV e V). Non che riflettere su ogni parola prima di parlare sia sempre un segno di menzogna, ma in qualche circostanza lo è: per esempio, quando Jerry chiede a Ruth con chi stava parlando al telefono, qualunque segno di esitazione nella scelta delle parole avrebbe immediatamente suggerito che mentiva. MENZOGNA CIRCA I SENTIMENTI La mancanza di un piano strategico o di un'adeguata spiegazione è solo una delle ragioni per cui al momento di mentire si commettono degli errori che fanno subodorare l'inganno. Ma errori si fanno anche per la difficoltà di nascondere o mascherare le emozioni. Non tutte le bugie implicano particolari emozioni, ma quando queste entrano in gioco creano problemi del tutto particolari. Il tentativo di nascondere un'emozione potrebbe tradirsi anche nelle parole, ma tranne che per un lapsus, generalmente non succede: salvo il caso che desideri confessare quello che prova, chi mente non ha nessun bisogno di esprimere a parole i suoi sentimenti. Meno scelta c'è quando si tratta di dissimulare un'espressione del viso, un'accelerazione del respiro, una tensione della voce. Quando si mette in moto un'emozione, i cambiamenti sono automatici, senza una scelta o una decisione cosciente. E sono cambiamenti immediati. Nell'episodio del romanzo, quando Jerry l'accusa di mentire, Ruth non ha nessuna difficoltà a non lasciarsi sfuggire dalla bocca le parole «Sì, è vero!». Ma il terrore che l'adulterio sia scoperto si impadronisce di lei, producendo segni visibili e udibili. La donna non decide di farsi prendere dal panico, né può decidere di smettere di provare terrore. Tutto questo è al di fuori del suo controllo. Ciò fa parte, a mio avviso, della natura fondamentale dell'esperienza emotiva. Non possiamo decidere attivamente se e quando provare una certa emozione. Le emozioni sono al contrario vissute passivamente come qualcosa che ci capita e, nel caso di emozioni negative come la paura o la rabbia, ci capita nostro malgrado. Non solo c'è poca scelta quanto al momento in cui provare un'emozione, ma spesso non possiamo nemmeno impedire che i segni espressivi dell'emozione siano manifesti a chi ci sta di fronte. Ruth non poteva semplicemente decidere di eliminare qualunque segno del terrore che provava: non esiste un pulsante che comandi il rilassamento immediato, da premere per interrompere ogni reazione emotiva. Può essere impossibile addirittura controllare le proprie azioni, quando l'emozione è molto intensa. Un'emozione violenta spiega, anche se non sempre giustifica, certi atti inconsulti: «Non volevo alzare la voce (oppure: picchiare il pugno sul tavolo, offendere, mettere le mani addosso), ma ho perso il controllo. Ero fuori di me». Quando un'emozione si attiva per gradi anziché all'improvviso, i cambiamenti comportamentali sono limitati e relativamente facili da nascondere, purché ci si renda conto di quello che si prova. Ma nella maggior parte dei casi non ce ne rendiamo conto: quando un'emozione si instaura gradualmente e rimane contenuta, può essere più avvertibile agli altri che all'interessato, non essendo registrata dalla coscienza finché non cresce d'intensità. E una volta cresciuta è molto più difficile da controllare. Dissimulare i cambiamenti del viso, del corpo e della voce richiede uno sforzo. Anche quando lo sforzo riesce e i sentimenti non traspaiono, a volte è proprio lo sforzo stesso a dare nell'occhio. Se è vero che non è facile nascondere un'emozione, non lo è neppure fingere un'emozione che non si prova, anche quando non c'è da occultarne nessun'altra. Non basta dav v ero dire «Sono arrabbiato», oppure «Ho paura». Se vuol essere creduto, chi finge dovrà anche apparire arrabbiato o impaurito. Non è facile mettere insieme tutti i movimenti giusti, le particolari alterazioni della voce che sono indispensabili per falsificare un'emozione. Ci sono dei movimenti del volto, per esempio, che pochissimi sono capaci di eseguire volontariamente (li vedremo nel Cap. V), ma che sono cruciali per fingere efficacemente dolore, paura o rabbia. Fingere un'emozione diventa molto più difficile proprio quando ce n'è più bisogno, per nasconderne un'altra. Cercare di mostrarsi arrabbiato non è facile, ma se si prova paura e si vuol sembrare arrabbiati diventa un tormento: tutto un insieme di impulsi suscitati dalla paura tira in una direzione, mentre il tentativo deliberato di mostrare collera tira nella direzione opposta. Le sopracciglia, per esempio, nella paura si sollevano involontariamente, ma per fingere la rabbia bisogna aggrottarle. Spesso bastano i segni di questa lotta interiore fra l'emozione autentica e quella simulata a tradire l'inganno. E le menzogne che non riguardano emozioni, azioni, progetti, pensieri, intenzioni, fatti o fantasie? Anche quelle sono tradite dal comportamento? SENTIMENTI CIRCA LA MENZOGNA Non sempre l'inganno implica la dissimulazione o la simulazione di sentimenti. L'impiegato disonesto nasconde il fatto che si appropria indebitamente di denaro dell'azienda. Il plagiario nasconde il fatto di aver preso il lavoro di un altro fingendo che sia il proprio. Il vanesio di mezz'età nasconde gli anni che ha, tingendosi i capelli e dichiarando un'età inferiore al vero. Tuttavia, anche quando la bugia riguarda qualcos'altro, le emozioni possono entrare in gioco lo stesso. Il vanesio potrebbe essere imbarazzato della sua stessa vanità: per riuscire nell'inganno deve nascondere non solo i suoi anni, ma anche l'imbarazzo. Il plagiario potrebbe provare disprezzo per quelli che si lasciano ingannare da lui: dovrebbe allora non solo occultare le fonti della sua opera e fingere un'abilità che non possiede, ma anche dissimulare il suo disprezzo. Il malversatore può restare sorpreso quando un altro viene accusato della sua colpa: dovrà nascondere la sua meraviglia, o almeno la ragione di questa. Così le emozioni spesso intervengono in menzogne che in partenza non avevano lo scopo di celare emozioni. Ecco che, una volta entrate in gioco, devono essere nascoste se non si vuole che l'inganno venga tradito. Questo può riguardare qualunque emozione, ma ce ne sono tre che sono così legate alla menzogna da meritare un discorso a parte: la paura di essere scoperto, il senso di colpa per aver mentito, la soddisfazione di aver beffato qualcuno. LA PAURA DI ESSERE SCOPERTO Questo timore nelle sue forme più lievi non ha effetti disastrosi, ma anzi - accrescendo la vigilanza - può essere utile ad evitare gli errori. Un livello medio di paura può dar luogo a segni comportamentali percettibili a un occhio esperto; quando invece è intensa, la paura di essere scoperto ha proprio l'effetto temuto. Se potesse valutare in partenza il livello di apprensione all'idea di essere smascherato, nel caso in cui dovesse imbarcarsi in una menzogna, l'individuo potrebbe meglio decidere se correre il rischio. Anche una volta in ballo, avere un'idea di quanta paura può provare gli servirebbe a prendere contromisure per ridurla o dissimularla. Conoscere un dato del genere sarebbe utile anche al cacciatore di bugie: sapendo che il sospettato prova un'intensa apprensione all'idea di poter essere scoperto, starebbe all'erta per cogliere ogni eventuale indizio di paura. Molti fattori intervengono a determinare l'intensità di questo sentimento. Il primo riguarda l'idea che il mentitore ha circa le abilità della vittima potenziale. Se il destinatario della bugia ha fama di essere ingenuo, facile da abbindolare, l'apprensione di essere scoperto non sarà molta. Invece, una persona che non si lascia ingannare facilmente, anzi ha fama di essere un esperto conoscitore della menzogna, susciterà molta ansia in chi cerca di mentirle. I genitori spesso riescono a far credere ai bambini di possedere una simile arte: «Mi basta guardarti negli occhi per sapere se mi dici la verità o una bugia». Il bambino che mente prova una tale paura di essere scoperto che la paura lo tradisce, oppure confessa perché pensa che non c'è nessuna possibilità di farla franca. Questa manovra è usata con molta abilità da un personaggio della commedia di Terence Rattigan The Winslow Boy (da cui è stato tratto un film nel 1950), che esige la verità dal figlio adolescente, espulso dall'Accademia navale con l'accusa di aver rubato un vaglia postale: ARTHUR [il padre]. In questa lettera c'è scritto che hai rubato un vaglia postale. (Ronnie [il figlio] apre la bocca per parlare. Arthur lo interrompe.) Ora non voglio che tu dica una parola finché non hai sentito quello che ho da dire. Se l'hai fatto, me lo devi dire. Non mi arrabbierò con te, Ronnie, purché tu mi dica la verità. Ma se mi dici una bugia, lo saprò, perché una bugia fra te e me non può restare nascosta. Lo saprò, Ronnie, sicché ricordatelo prima di parlare. (Fa una pausa.) Hai rubato questo vaglia? RONNIE (Con esitazione). No, papà. Non l'ho rubato. (Arthur fa un passo verso di lui). ARTHUR (Guardandolo negli occhi). Hai rubato questo vaglia? RONNIE. No, papà. Non l'ho rubato. (Arthur continua a fissarlo negli occhi per un secondo, poi si rilassa.)28 Arthur crede alle parole del figlio e la commedia racconta la storia degli enormi sacrifici sopportati dal padre e dal resto della famiglia per riabilitarlo. Non sempre un genitore può usare questa strategia per ottenere la verità: un ragazzo che già altre volte è riuscito a ingannare il padre sarà convinto di poterla fare franca ancora; il genitore stesso può non essere disposto ad offrire il perdono in cambio della confessione; inoltre, un genitore che è stato ingiustamente sospettoso in altre occasioni, non credendo al figlio quando diceva la verità, susciterà paura in lui anche se è innocente. Ciò solleva un problema cruciale nella scoperta della menzogna: è quasi impossibile distinguere la paura di non essere creduto dell'innocente dalla paura di essere scoperto del colpevole, dato che i segni di timore saranno gli stessi. Questi problemi non riguardano esclusivamente la situazione genitori-figli: è sempre un problema riconoscere le due forme di paura, distinguendo fra il colpevole e l'innocente. La difficoltà è accresciuta quando colui che deve smascherare eventuali bugie ha la reputazione di persona sospettosa e diffidente e in passato ha dimostrato di non credere a chi gli diceva il vero: in seguito, gli sarà sempre più difficile distinguere fra la paura degli altri di essere smascherati e il loro timore di non esser creduti. La pratica dell'inganno e il fatto di essersela cavata bene in passato hanno l'effetto di ridurre l'apprensione. Il marito infedele che è arrivato a collezionare la quattordicesima amante non si preoccuperà molto di essere colto in fallo: ha una buona pratica di sotterfugi, sa precostituirsi un alibi e correre ai ripari quando è necessario, ma soprattutto sa che può farla franca. La fiducia in se stesso riduce al minimo la paura di essere scoperto. A lungo andare, però, c'è il rischio di commettere errori per disattenzione: un certo livello di apprensione probabilmente è utile a chi mente. Il poligrafo usato come rivelatore delle menzogne funziona sugli stessi principi che guidano la ricerca dei segni comportamentali di falsità e risente degli stessi problemi. La “macchina della verità” non individua le menzogne, ma soltanto segni di emozione. I fili della macchina sono applicati al soggetto in modo da misurare variazioni della sudorazione, della respirazione e della pressione sanguigna. Un aumento della pressione o della traspirazione non sono di per sé segni di bugia: il palmo delle mani diventa umido e il cuore batte forte quando c'è un'emozione. Prima di sottoporre il soggetto al test, la maggior parte dei tecnici cerca di convincerlo che la macchina non sbaglia mai, sottoponendolo a una prova preliminare, cosiddetta di “stimolazione”. Il metodo più comune consiste nel dimostrare che la macchina riconosce la carta che il soggetto ha estratto da un mazzo: dopo aver guardato la carta e averla rimessa nel mazzo, il soggetto deve rispondere negativamente ogni volta che l'esaminatore gliene mostra una chiedendo se è quella lì. Alcuni esaminatori riescono con questo sistema a dimostrare la propria infallibilità, perché non si affidano alla macchina, ma usano un mazzo di carte segnato. Giustificano questo trucco con due considerazioni: se è innocente, è importante che il soggetto sia convinto che la macchina è infallibile, altrimenti potrebbe temere di non esser creduto; se è colpevole, è importante che abbia paura di essere scoperto, altrimenti la macchina non funziona proprio. La maggior parte dei tecnici, però, non ricorre a stratagemmi e si basa davvero sui tracciati del poligrafo per riconoscere la carta incriminata.29 Come nella commedia di Rattigan, il sospettato deve credere nella capacità dell'inquisitore. I segni di paura sarebbero ambigui se non si predisponessero le cose in maniera tale che solo il bugiardo, e non chi dice il vero, debba avere paura. L'esame con il poligrafo fallisce non solo perché alcuni innocenti continuano a temere di essere accusati falsamente o, per qualunque altra ragione, sono turbati dalla procedura d'esame, ma anche perché alcuni colpevoli non credono alla magia della macchina: sanno di poterla fare franca e, sapendo questo, hanno più probabilità di riuscirci davvero.30 Un altro parallelo con la situazione della commedia è il tentativo dell'esaminatore di estorcere una confessione. Come il padre di Ronnie vantava speciali poteri di riconoscere le menzogne per indurlo a confessare la sua colpa eventuale, così alcuni tecnici cercano di ottenere una confessione convincendo il sospettato che non ha nessuna possibilità di ingannare la macchina. Se non confessa, alcuni esaminatori ricorrono all'intimidazione, dicendogli che la macchina ha dimostrato che mentiva: accrescendo l'apprensione di essere scoperto, si spera di indurre il colpevole a confessare. Purtroppo, sottoposti a pressioni di questo genere, anche alcuni innocenti confessano, per sfuggire a una situazione insopportabile. Di solito l'investigatore non ha, come un genitore, la possibilità di strappare una confessione offrendo in cambio l'impunità. Una procedura simile consiste nel far balenare la prospettiva di una riduzione di pena in caso di confessione. Pur non potendo offrire un condono totale, gli investigatori offrono una sorta di condono psicologico, lasciando intendere al sospettato che non deve necessariamente provare vergogna per quello che ha fatto. Chi conduce l'interrogatorio può mostrargli, per esempio, tutta la sua simpatia, dicendo che trova la cosa del tutto comprensibile e che avrebbe potuto farlo lui stesso trovandosi nella stessa situazione. Una variante è quella di suggerire un movente onorevole, che permetta al sospettato di salvare la faccia. Finora abbiamo considerato come la reputazione dell'inquisitore può influire sul livello di ansia, nel mentitore come nell'innocente. Un altro fattore che interviene nell'ansia di essere smascherato è la personalità del mentitore. Alcuni si trovano in gravi ambasce quando mentono, altri lo fanno con una disinvoltura allarmante. Si sa molto di più dei soggetti che mentono senza difficoltà che di quelli che non ci riescono. Tuttavia, qualcosa su di loro ho potuto scoprire nella mia ricerca sulla dissimulazione di emozioni negative. Ho cominciato nel 1970 una serie di ricerche per verificare sperimentalmente gli indizi di menzogna che avevo scoperto analizzando filmati di colloqui con pazienti psichiatrici, come quello di Mary descritto nel primo capitolo. Si ricorderà che Mary cercava di dissimulare la sua disperazione per ottenere dal medico un permesso e potere quindi, senza sorveglianza, mettere in atto il suicidio. Dovevo esaminare analoghe menzogne in altri soggetti, per scoprire se gli indizi scoperti nel filmato erano un fenomeno generale o un caso del tutto particolare. Non speravo molto di trovare abbastanza esempi nella pratica clinica, poiché in tale contesto è difficile essere assolutamente sicuri di una bugia: quindi pensai di creare una situazione sperimentale analoga a quella della menzogna di Mary, così da esaminare gli eventuali errori commessi da altri soggetti all'atto di mentire. Perché l'esperimento avesse una qualche rilevanza rispetto alla situazione-modello, bisognava che i soggetti provassero emozioni negative molto intense e fossero motivati a nasconderle. Per indurre emozioni negative, facevo visionare dei documentari chirurgici molto realistici, con la richiesta di dissimulare le proprie reazioni emotive di fronte alle scene cruente. Sulle prime l'esperimento fallì: nessuno si sforzava davvero di fingere. Non avevo previsto quanto sia difficile indurre le persone a mentire in un laboratorio sperimentale. Anzitutto sono imbarazzate sapendo che questo loro comportamento “scorretto” si svolge sotto l'occhio dei ricercatori. Inoltre, spesso la posta in palio è così piccola che anche quando mentono non si impegnano come farebbero nella vita reale. Come soggetti ho scelto allora un gruppo di allieve infermiere, perché per loro era importante riuscire a dissimulare proprio questo tipo di emozioni e l'esperimento offriva l'occasione di esercitare una competenza professionalmente utile. Un'altra ragione era evitare il problema etico di esporre persone qualunque a scene così sgradevoli. Le istruzioni che venivano fornite erano le seguenti: «Se lavorate in un pronto soccorso e arriva trafelata una madre con un bambino ridotto in condizioni disperate, non potete manifestare la vostra pena, anche se sapete che il bambino soffre moltissimo e ha scarse probabilità di sopravvivere. Dovete tenervi dentro i vostri sentimenti e calmare la madre finché non arriva il medico. Oppure, immaginate come farete quando dovrete ripulire dalle feci un paziente che non controlla più i movimenti intestinali. Il paziente proverà imbarazzo o vergogna di essere ridotto in uno stato infantile. Voi probabilmente sentirete disgusto, ma dovrete nascondere questa sensazione. L'esperimento vi offre un'occasione di mettere alla prova e di esercitare la vostra capacità di controllare l'espressione delle emozioni. Prima vedrete un filmato che mostra piacevoli scene marine; mentre lo guardate dovrete descrivere sinceramente le vostre impressioni a un intervistatore che non vede il film. Poi vi presenteremo le più orribili scene che può capitarvi di vedere in anni di lavoro ospedaliero. Mentre guarderete questo secondo filmato, dovrete nascondere le vostre reali sensazioni e far credere all'intervistatore che state vedendo un gradevole documentario; potete dire che vedete scene di fiori nel Golden Gate Park. Sforzatevi più che potete». Abbiamo scelto i filmati peggiori che abbiamo trovato. Una ricerca preliminare ci aveva indicato che per alcuni risultava più impressionante un film che mostrava gravissime ustioni, per altri una scena di amputazione: abbiamo montato i due film insieme, in modo che sembrasse che un grave ustionato venisse amputato d'una gamba. Con questo materiale, potevamo vedere fino a che punto i soggetti riuscivano a dissimulare intense emozioni, volendo o dovendo farlo. Data la forte selezione esistente per l'ammissione alla scuola infermiere, le studentesse del gruppo campione avevano tutte punteggi ottimi nei vari test di profitto, voti altissimi ed eccellenti note per quanto riguarda il carattere. Pur essendo un gruppo così selezionato, differivano moltissimo nella capacità di mascherare i propri sentimenti: alcune ci riuscivano alla perfezione, altre per niente. Dai colloqui condotti dopo l'esperimento, ho trovato che l'incapacità di mentire non era un fenomeno circoscritto a quella situazione: alcune riferivano di aver sempre avuto difficoltà a mentire circa le loro emozioni. Certe persone sono particolarmente vulnerabili all'apprensione di essere scoperte. Hanno una grande paura di essere colte in fallo, sono sicure che chiunque le guardi si accorga se stanno mentendo e questa diventa automaticamente una profezia che si realizza per forza propria. Ho sottoposto tutto il gruppo a numerosi test di personalità e con sorpresa ho scoperto che quelle che non riuscivano a mentire non differivano affatto dal resto del gruppo. Ho cercato di sapere qualcosa di più anche dei soggetti all'estremo opposto, capaci di mentire con disinvoltura e con successo. I cosiddetti “attori nati” conoscono questa loro capacità, come anche impara a conoscerla a sue spese chi li frequenta. Fin da bambini l'hanno sempre fatta franca, riuscendo a ingannare genitori, insegnanti e amici tutte le volte che volevano. Non provano nessuna ansia all'idea di essere scoperti: si fidano della propria capacità di ingannare il prossimo. Una tale sicurezza, il non provare grande apprensione all'atto di mentire, è uno dei segni della personalità psicopatica. Ma questa è l'unica caratteristica che le mie attrici nate avevano in comune con gli psicopatici: a differenza di questi ultimi, non presentavano difetti di giudizio, né erano incapaci di apprendere dall'esperienza. Inoltre, i test di personalità mostravano che, come il resto del gruppo, non avevano altre caratteristiche psicopatiche come: «Fascino superficiale [...] mancanza di rimorsi o di vergogna, comportamento antisociale senza pentimento apparente, egocentrismo patologico e incapacità di amare»31 (vedremo meglio più avanti come il rimorso e la vergogna possono tradire l'inganno). Infatti le allieve che nel mio esperimento dimostravano grandi doti naturali per la menzogna, a differenza degli psicopatici, non usavano la capacità di mentire per nuocere agli altri.32 Un attore nato, molto abile nel fingere e dissimulare ma non privo di una coscienza morale, dovrebbe poter sfruttare il suo talento in certe professioni: il teatro, le vendite, l'avvocatura, la politica, i servizi segreti, la diplomazia. Gli studiosi che si sono occupati del problema dal punto di vista politico-militare hanno analizzato caratteristiche di questo tipo di persona: «Deve avere una mente combinatoria flessibile, una mente che lavora scomponendo idee, concetti o “parole” nei loro elementi base e ricombinandoli poi nei modi più vari (un esempio di questo tipo di pensiero si trova nel gioco dello Scarabeo) [...] manipolatori del passato [...] sono persone estremamente individualistiche e competitive; non si adatterebbero facilmente a una grossa organizzazione [...] e tendono a lavorare da soli. Sono spesso convinti della superiorità delle proprie idee. In un certo senso corrispondono al supposto carattere dell'artista eccentrico e solitario, solo che praticano un'arte diversa. Questo è apparentemente l'unico denominatore comune di grandi artisti dell'inganno come Churchill, Hitler, Dayan e T. E. Lawrence».33 Questi “grandi artisti” hanno forse bisogno di due abilità molto diverse: quella necessaria a ideare una strategia fondata sull'inganno e quella indispensabile a sviare i sospetti dell'avversario in un incontro faccia a faccia. Hitler a quanto sembra le possedeva entrambe, ma non è escluso che qualcuno possa eccellere in una e non nell'altra. Purtroppo l'argomento non è molto studiato né sappiamo se ci siano differenze di personalità a seconda del campo in cui l'inganno è esercitato. Sospetto di no e sono convinto che le persone capaci di mentire con successo nel campo politico-militare se la caverebbero bene anche nel mondo degli affari. È una facile tentazione bollare come psicopatico e antisociale qualunque avversario politico di cui siano note le menzogne. Non ho dati per contestarli, ma diffido molto di simili giudizi. Come Nixon può esser considerato un acuto statista o un farabutto a seconda della parte politica di chi lo giudica, così le valutazioni sui leader d'altri paesi sono spesso strumentali. La mia ipotesi è che raramente uno psicopatico sopravvive in una struttura burocratica tanto a lungo da acquisire una posizione di comando a livello nazionale. Finora ho descritto due fattori che intervengono nella paura di essere colti in fallo: la personalità di chi mente e, prima di questa, la reputazione e il carattere di chi dovrebbe scoprirlo. Non meno importante è la posta in gioco. C'è una semplice regola: quanto maggiore è la posta, tanto più intensa è l'emozione. Applicare questa regola così semplice può essere complicato perché, tranne qualche caso, non sempre è facile capire che cos'è in gioco. Data la forte motivazione a riuscire nella carriera prescelta, specie all'inizio della formazione professionale, nel nostro esperimento con le allieve infermiere la posta era piuttosto alta. Il timore di essere colte in fallo sarebbe stato minore se non ci fosse entrato il loro futuro professionale (per esempio, se si fosse chiesto di dissimulare i propri sentimenti circa la moralità o immoralità dei furti nei grandi magazzini), mentre la posta in gioco sarebbe stata ancora più grande se avessimo fatto credere che la riuscita nell'esperimento era un requisito per l'ammissione alla scuola.34 Un venditore che cerca di ingannare il cliente dovrebbe essere più preoccupato se si tratta di un affare che comporta una grossa commissione. La regola infatti dovrebbe essere questa: quanto più alta è la ricompensa, tanto maggiore è l'apprensione di essere colto in fallo. Ma le cose non sono così semplici. A volte la ricompensa più evidente non è quella che conta. Il nostro venditore potrebbe tenere soprattutto all'ammirazione dei colleghi e concorrenti: darla a bere a un cliente che è un osso duro può procurare grosse ricompense in termini di prestigio professionale, anche se la commissione è modesta. Per certe persone vincere è tutto: non importa se si tratta di spiccioli o di grosse somme, per loro la posta è alta in qualunque competizione. La posta in gioco può essere così squisitamente individuale che un osservatore esterno faticherebbe a capire di che si tratta: il donnaiolo può divertirsi a ingannare la moglie, per esempio, non per soddisfare una lussuria sfrenata, ma ripetendo all'infinito una sua coazione infantile a fare le cose di nascosto, senza che la mamma se ne accorga. La paura di essere scoperto dovrebbe essere maggiore quando è in gioco non solo una ricompensa, ma anche il rischio di una punizione. Quando all'inizio si prende la decisione di ricorrere all'inganno, di solito è in gioco la possibilità di ottenere certe ricompense. L'impiegato disonesto, quando inizia la sua opera di malversazione, probabilmente pensa solo alla bella vita che potrà fare, ma quando la truffa è in corso da un certo tempo, può succedere che i facili guadagni non siano più a portata di mano: l'azienda magari si è accorta delle perdite e si è fatta così sospettosa che non è più possibile sottrarre altro denaro. A questo punto la menzogna dev'essere mantenuta in piedi per evitare la punizione, perché ormai è in gioco solo questa. Sono due i tipi di punizione che si rischiano: quella che è in serbo se l'inganno viene scoperto e quella che è legata all'atto stesso di mentire. L'apprensione sarà maggiore se sono in ballo entrambe. A volte la punizione per essere colto a mentire è di gran lunga peggiore di quella che la bugia dovrebbe evitare (è quello che il padre chiarisce al ragazzo nella commedia di Rattigan). I genitori dovrebbero sapere che la severità delle loro punizioni è uno dei fattori che determinano se i figli confesseranno le loro colpe o mentiranno per coprirle. Una classica enunciazione di questo principio la troviamo nella biografia romanzata di Washington (Mason Locke Weems, The Life and Memorable Actions of George Washington). Ecco come il padre parla al piccolo George: «Molti genitori, in verità, addirittura costringono i loro figli a questa vile pratica [del mentire], battendoli selvaggiamente per ogni piccola colpa; quindi, alla prossima occasione, la piccola creatura terrorizzata si lascia sfuggire una menzogna! Solo per sfuggire alla verga. Ma quanto a te, George, tu sai che ti ho sempre detto, e ora te lo ripeto, che ogniqualvolta per accidente tu fai qualcosa di sbagliato, il che deve avvenire spesso, dacché tu non sei ancora che un povero bambino, senza esperienza o conoscenza, non devi mai dire il falso per nasconderlo; ma venire da me coraggiosamente, come un ometto, e raccontarmelo; e invece di batterti, George, non farò che amarti e rispettarti di più per questo, mio caro». Sappiamo da altri aneddoti come George si sia fidato di questa dichiarazione paterna. Non sono soltanto i bambini a rischiare di più per l'atto in sé di mentire che dicendo la verità. Può succedere, per esempio, che il marito dica alla moglie che, benché offeso, avrebbe potuto scusare la sua infedeltà se non gli avesse mentito: la perdita di fiducia, a suo dire, è più grave della perdita di convinzione nella sua fedeltà. Forse la moglie non lo sapeva e forse non è nemmeno vero. La confessione di un tradimento può essere interpretata come una crudeltà e il coniuge offeso può affermare che la discrezione è un dovere per riguardo all'altro. Marito e moglie possono dissentire su questo punto, le idee possono cambiare nel corso del matrimonio e gli atteggiamenti possono mutare radicalmente una volta che una relazione extraconiugale c'è stata davvero e non si tratta più di un evento ipotetico. Anche quando è certo che il danno a esser colti in flagrante menzogna è maggiore di quello provocato dalla confessione della colpa, la bugia può lo stesso essere allettante, dato che dire la verità comporta svantaggi certi e immediati, mentre la menzogna fa intravedere la possibilità di evitare qualunque danno. La prospettiva di risparmiarsi una punizione immediata può essere così attraente che il desiderio di imboccare questa strada induce a sottovalutare la probabilità di essere scoperti in seguito e i costi che ne verrebbero. Che la confessione sarebbe stata una miglior politica viene riconosciuto troppo tardi, quando ormai l'inganno è stato mandato avanti così a lungo e con tale impegno che la confessione non ottiene più una riduzione di pena. A volte, invece, ci sono pochi dubbi circa i costi che deriverebbero dalla confessione della verità. Ci sono azioni che sono di per sé così riprovevoli che a confessarle il colpevole non otterrà certo un grande apprezzamento, mentre il tentativo di nasconderle aggiunge poco alla punizione che lo attende. È questo il caso se la menzogna serve a tener nascosti fatti come l'abuso dell'infanzia, l'incesto, l'omicidio, l'alto tradimento o il terrorismo. A differenza dei vantaggi possibili per il donnaiolo pentito, non c'è da aspettarsi il perdono per chi confessi delitti del genere (anche se confessione e pentimento possono ottenere una riduzione di pena). Né c'è il rischio che la menzogna di per sé accresca l'indignazione morale, una volta smascherata. In questa situazione non si trovano solo persone malvagie o crudeli: l'ebreo che celava la sua identità in un paese occupato dai nazisti, o la spia in tempo di guerra, non hanno nulla da guadagnare confessando e nulla da perdere cercando di mantenere in piedi l'inganno. Ma anche quando non ci sono prospettive di veder ridotta la punizione, può succedere lo stesso che sia resa confessione, per scaricarsi dal peso di reggere la menzogna, per eliminare la sofferenza causata da un'intensa paura di essere scoperti, o per alleviare il sentimento di colpa. Un altro fattore da considerare a proposito dell'influenza che la posta in gioco ha sul timore di essere scoperto è quanto ha da perderci o guadagnarci il destinatario dell'inganno, non il suo autore. Di solito i vantaggi di quest'ultimo sono a spese dell'altro: l'impiegato che fa un'appropriazione indebita guadagna esattamente quanto perde l'azienda. Ma i due aspetti non sono sempre proporzionali: la commissione che il venditore ottiene barando sulle qualità del prodotto può esser molto minore della perdita sofferta dal cliente che si lascia ingannare. La posta in gioco per le due parti può differire non solo quantitativamente ma anche qualitativamente: una relazione extraconiugale per il coniuge infedele può significare solo un po' d'avventura, mentre per quello tradito una perdita nel rispetto di sé. Quando le due poste in gioco sono diverse, l'una o l'altra indifferentemente possono determinare il livello di ansia del mentitore. Il bugiardo ha certo tutto l'interesse a credere quello che serve ai suoi scopi e gli è comodo pensare che il destinatario della menzogna ne sia beneficato altrettanto, se non più, di lui stesso. A volte è possibile: non tutte le bugie nocciono agli altri. Ci sono anche bugie altruistiche: «Un bambino pallido e magro di 11 anni, ferito ma vivo, è stato estratto ieri dalla carcassa di un piccolo aereo precipitato domenica nelle montagne dello Yosemite National Park. Il suo organismo è sopravvissuto a giorni di tormenta e a nottate sotto zero a 3.000 metri d'altezza, avvolto in un sacco a pelo nel sedile posteriore del relitto sepolto nella neve. Completamente solo. “Come stanno mamma e babbo?”, ha chiesto il ragazzino mezzo stordito. “Stanno bene?”. I soccorritori non gli hanno detto che il patrigno e la madre erano morti, ancora legati ai sedili nel posto di guida distrutto, a pochi centimetri di distanza da lui».35 Nessuno può negare che questa sia una bugia altruistica, che giova soltanto al destinatario e non all'autore. Questo non vuol dire che l'apprensione all'idea di essere smascherati non esista: se la posta in gioco è alta, anche l'ansia sarà intensa, chiunque sia il beneficiario. Preoccupati che il ragazzo non potesse reggere al trauma, i soccorritori dovevano essere molto in ansia per la riuscita del loro pietoso inganno. Riassumendo, l'apprensione per il rischio di essere scoperti è massima quando: il destinatario ha fama di essere duro da raggirare; la vittima è sospettosa fin dall'inizio; il mentitore ha poca pratica e nessun precedente successo; il mentitore è particolarmente sensibile alla paura di essere colto in fallo; la posta in gioco è alta; sono in gioco sia ricompense che punizioni, o comunque è in gioco una punizione; la punizione per la bugia smascherata è grande, oppure la punizione per la colpa da nascondere è così grande che non c'è nessun incentivo a confessare; il destinatario non trae nessun vantaggio dalla menzogna. IL SENSO DI COLPA Il senso di colpa per la menzogna riguarda l'emozione spiacevole che si prova per il fatto stesso di mentire, ed è distinto dai sensi di colpa per il contenuto della bugia: si può attivare anche quando non ci si sente colpevoli per le azioni che si cerca di nascondere. Basta ripensare alla situazione del ragazzo nella commedia di Rattigan. Supponiamo che avesse rubato il vaglia a un compagno che aveva usato dei trucchi sleali per vincerlo in una gara scolastica: il furto gli sarebbe parso forse soltanto una giusta vendetta, ma avrebbe potuto provare egualmente senso di colpa per aver nascosto il fatto all'insegnante o al padre. Così Mary, la paziente psichiatrica, non si sentiva in colpa per i suoi progetti di suicidio, ma solo per aver mentito al medico. Come l'apprensione, anche il senso di colpa legato all'inganno può variare d'intensità. Può essere lievissimo o così forte da far fallire l'inganno, producendo indizi che mettono in sospetto la vittima o che lasciano addirittura trapelare la verità. Nei casi estremi, diventa un'esperienza tormentosa, che mina i più fondamentali sentimenti di autostima: il bisogno di sollievo da un senso di colpa così intenso può indurre alla confessione, malgrado la prospettiva di essere punito per i misfatti rivelati. Anzi, la punizione può esser precisamente quello che ci vuole per placare il proprio tormento. Al momento di architettare una bugia, non sempre si riesce a prevedere esattamente l'intensità del senso di colpa che si proverà in seguito: non è facile rendersi conto dell'effetto che potrà fare sentirsi ringraziare dalla vittima per un'apparente benevolenza, oppure vedere qualcun altro accusato dei propri misfatti. Normalmente situazioni del genere suscitano un sentimento di colpa, ma per qualcuno è proprio questo che dà sapore alla cosa (parlerò più avanti di questa reazione, a proposito del piacere della beffa). Un'altra ragione per cui il senso di colpa per l'inganno viene normalmente sottovalutato è che solo col passare del tempo ci si accorge che non basta una sola bugia, che la menzogna dev'essere ripetuta all'infinito, spesso con costruzioni sempre più elucubrate per tenere in piedi l'inganno di partenza. La vergogna è affine al senso di colpa, ma c'è una differenza cruciale. Per sentirsi in colpa non c'è bisogno di avere un pubblico, non importa che qualcun altro sia al corrente, perché il colpevole è il giudice di se stesso. Non così per la vergogna: l'umiliazione in questo caso richiede la disapprovazione o lo scherno degli altri. Se nessuno viene mai a sapere di un misfatto non ci sarà vergogna, ma può sempre esserci il senso di colpa. Ovviamente, possono esser presenti tutti e due. La distinzione fra vergogna e senso di colpa è molto importante, in quanto queste due emozioni possono produrre due impulsi contraddittori: il desiderio di calmare il senso di colpa può indurre alla confessione, il desiderio di evitare la vergogna può impedirla. Supponiamo che Ronnie, il ragazzo della commedia, avesse rubato davvero e si sentisse estremamente in colpa per questo e per aver nascosto la cosa. Può darsi che voglia confessare per liberarsi dalla tortura della coscienza sporca, ma che la vergogna che prova all'idea della reazione paterna lo blocchi. Per incoraggiare una confessione, si ricorderà che il padre offre totale amnistia. Ridurre il timore della punizione dovrebbe attenuare la paura di essere scoperto, ma c'è ancora il problema di eliminare o almeno diminuire la vergogna se si vuole che il ragazzo si decida a confessare. È quello che fa il padre dicendo che lo perdonerà, ma l'effetto avrebbe potuto essere potenziato aggiungendo per esempio: «Posso capire il furto, avrei potuto farlo anch'io se fossi stato nella tua situazione, con una tentazione così forte. Tutti facciamo degli sbagli nella vita e si fanno cose che più tardi si riconoscono sbagliate. A volte proprio non se ne può fare a meno». Certe persone sono particolarmente vulnerabili alla vergogna e ai sensi di colpa. Fra loro troveremo quelli che sono stati educati molto rigidamente nella convinzione che mentire sia uno dei peccati più tremendi. In altri casi non ci sarà stata una condanna particolare della menzogna, ma più in generale i genitori avranno installato un diffuso e intenso sentimento di colpa. Queste persone sembra che cerchino proprio quelle esperienze che possono esasperare il loro senso di colpa ed esporle con vergogna agli occhi del prossimo. Purtroppo esistono pochissime ricerche su questi individui, mentre sappiamo qualcosa di più su quelli che si collocano all'altro estremo. Il giornalista Jack Anderson ci dà una vivace descrizione del comportamento di un bugiardo che non prova né vergogna né senso di colpa. In un corsivo polemico descrive questo quadretto di vita familiare che ha per protagonista un noto personaggio, di cui Anderson contesta appunto la credibilità: la moglie ha appena scoperto che la tradisce da quattordici anni e lui, «quando finalmente arrivò a casa, si sbarazzò con un'alzata di spalle delle richieste di spiegazione: “Sicché mi hai scoperto”, disse alla moglie. “Te l'ho sempre detto che sono il più grande bugiardo del mondo”. Poi si accomodò sulla sua poltrona favorita, ordinò per cena un piatto cinese e chiese alla moglie di fargli un po' di manicure».36 L'incapacità assoluta di provare vergogna o sentirsi in colpa per i propri misfatti è considerato segno caratteristico dello psicopatico, se si estende a quasi tutti gli aspetti della vita. Fra gli specialisti si discute se attribuire l'assenza di questi sentimenti alle esperienze infantili o a una qualche determinante biologica, ma c'è accordo sul fatto che né la colpa per la menzogna né la paura di essere scoperto indurranno uno psicopatico a commettere degli errori. Quando però non c'è comunanza di valori fra l'autore e la vittima dell'inganno, il senso di colpa è scarso. Si prova poco imbarazzo a mentire a persone che secondo noi si comportano male: se la moglie è frigida e scostante, il marito non si sentirà in colpa se la tradisce; un rivoluzionario o terrorista difficilmente prova sentimenti di colpa se cerca di ingannare i rappresentanti dello Stato e lo stesso vale per una spia nei rapporti con gli agenti avversari. Com'ebbe a dire concisamente un ex agente della CIA, «tolte le chiacchiere propagandistiche, il mestiere della spia è tradire la fiducia del prossimo».37 Quando mi è stata chiesta una consulenza dai servizi di sicurezza, sulle tracce di un gruppo di terroristi che progettava un attentato contro un importante funzionario governativo, ho dovuto prescindere dal senso di colpa per l'inganno, ai fini di eventuali segni rivelatori. Un attentatore può aver paura di essere catturato, specialmente se non è un professionista, ma è improbabile che si senta in colpa per l'omicidio che ha progettato. Un professionista del crimine non prova sentimenti di colpa per il fatto di ingannare chi è all'oscuro dei suoi piani. Lo stesso principio serve a spiegare perché un diplomatico o un agente del controspionaggio non si senta in colpa quando mente alla parte avversa. Non esistono valori in comune: chi mente fa bene, per la parte che rappresenta. D'altra parte, in questi casi la menzogna è autorizzata: chi mente si richiama a una ben definita norma sociale che legittima l'inganno nei confronti della parte avversa. Il senso di colpa è ridotto al minimo se il destinatario è portatore di valori diversi e incompatibili. Ma può esserci menzogna autorizzata anche quando l'ingannato non è un avversario e condivide i valori di chi l'inganna. Il medico può non sentirsi in colpa nel mentire al paziente, se pensa di farlo per il suo bene. La somministrazione di placebo, innocue pillole di zucchero fatte passare per medicine, è un antico e rispettabile trucco. Se il paziente si sente meglio, o almeno smette di perseguitare il curante con la richiesta di un farmaco inutile o magari anche dannoso, molti medici pensano che la bugia sia giustificata. D'altra parte, il giuramento d'Ippocrate non esige l'onestà verso il paziente: il medico è tenuto a fare quello che è utile al paziente.38 Il prete che tace alla polizia il nome del colpevole appreso in confessione non si sente in colpa per questo: i suoi voti lo autorizzano, anzi l'obbligano a tacere, senza che gliene venga alcun vantaggio. Neppure le allieve infermiere del mio esperimento provavano sentimenti di colpa per il fatto di dissimulare le loro emozioni, cosa esplicitamente legittimata dalle mie istruzioni e dagli esempi che spiegavano come nascondere le reazioni spontanee sia un dovere professionale nel lavoro ospedaliero. Chi mente può non ammettere che una cosiddetta “bugia pietosa”, anziché essere del tutto altruistica, torni anche a suo vantaggio; è vero che tacendo su verità spiacevoli si risparmia al destinatario un dispiacere, ma anche chi tace si risparmia il fastidio di fare i conti con la delusione dell'altro, se non con le sue proteste. La menzogna risparmia qualcosa di spiacevole a tutti e due. Naturalmente, si potrebbe anche sostenere che l'interessato ne è danneggiato, in quanto gli manca un'informazione che, per quanto sgradevole, potrebbe indurlo a far meglio o a prendere certe precauzioni. Per esempio, si può sostenere che il medico che somministra un placebo, pur mentendo a vantaggio del paziente, ottiene qualche vantaggio anche per sé: si evita la noia di affrontare la frustrazione o il disappunto del paziente per il fatto che non esistono medicine per la sua malattia, oppure la sua rabbia se dovesse scoprire che il medico gli prescrive dei placebo perché lo considera un ipocondriaco. Ancora una volta, è discutibile se la bugia in realtà sia utile o nociva al paziente. Esistono tuttavia menzogne totalmente altruistiche (quella del prete vincolato dalla confessione, quella dei soccorritori che non dicono al bambino ferito che i suoi genitori sono morti nell'incidente), menzogne nelle quali l'autore non ha nessun tornaconto personale. Se pensa di non ricavarne alcun vantaggio, chi mente non si sentirà in colpa per la sua bugia. Anche le menzogne dichiaratamente utilitarie possono non creare sensi di colpa quando sono autorizzate dalla situazione. I giocatori di poker non si sentono certo in colpa quando bluffano, come non si sente in colpa chi negozia un affare, non importa se in un bazar levantino, a Wall Street, o in un'agenzia immobiliare. In un articolo sull'uso degli inganni nel mondo dell'industria leggiamo: «Forse la più famosa di tutte le bugie è: “Questa è la mia ultima offerta”. Un tale linguaggio non solo è accettato nel mondo degli affari, ma tutti se lo aspettano... Durante una contrattazione collettiva, per esempio, nessuno si presume che debba mettere tutte le carte in tavola fin dall'inizio».39 Così il proprietario che chiede per un immobile un prezzo maggiore di quello a cui è in realtà disposto a venderlo non si sentirà in colpa se riesce a venderlo al prezzo richiesto: la sua è una menzogna autorizzata. Poiché i partecipanti si aspettano informazioni inattendibili, non la verità, situazioni come le trattative commerciali o il gioco del poker non soddisfano nessuna definizione di menzogna. Sono situazioni che per loro natura preavvertono che nessuno sarà sincero. Solo uno sciocco mostrerebbe le carte che ha in mano, o dichiarerebbe in partenza il prezzo più basso che è disposto ad accettare per la casa che mette in vendita. Il senso di colpa per l'inganno è ovviamente più probabile quando la menzogna non è autorizzata. Dovrebbe essere particolarmente intenso quando la vittima è fiduciosa e non si aspetta di essere tratta in inganno. In queste menzogne opportunistiche, il senso di colpa sarà maggiore se il danno per la vittima è almeno altrettanto grande quanto il vantaggio del mentitore. Ma anche in questi casi bisogna che ci sia un minimo di valori in comune. La ragazzina che fuma spinelli di nascosto dai genitori può non provare nessun sentimento di colpa per questo suo inganno se pensa che i genitori hanno torto a considerare dannosa la marijuana e crede di sapere per esperienza che il loro giudizio è sbagliato. Se poi li considera anche degli ipocriti, che si ubriacano regolarmente ma non le permettono di usare la droga di sua scelta, è ancora più improbabile che si senta in colpa per il fatto di ingannarli. Ma pur in disaccordo con loro sugli spinelli e su altro, il suo legame affettivo con i genitori potrebbe farle provare vergogna se scoprissero le sue bugie. La vergogna presuppone un certo rispetto verso coloro che manifestano la loro disapprovazione, altrimenti quest'ultima susciterà soltanto rabbia o disprezzo. Il sentimento di colpa è minore quando la vittima dell'inganno è impersonale o totalmente anonima. La cliente che tace alla cassiera un errore di conto a proprio favore si sente meno in colpa se non conosce l'impiegata. Se invece di un'impiegata alla cassa c'è il proprietario e il negozio è un esercizio a conduzione familiare, la cliente si sentirà più colpevole che in un grosso supermercato. È più facile indulgere alla fantasia rassicurante che la vittima dell'inganno non soffre un danno reale, non se ne cura e non se ne accorgerà nemmeno (o addirittura si merita di essere ingannata), se è totalmente anonima.40 Spesso c'è una correlazione inversa fra il senso di colpa per l'inganno e il timore di essere scoperti: tutto ciò che attenua la colpa accresce la paura di essere colti in fallo. Quando l'inganno è legittimato dalla situazione non ci sarà senso di colpa, ma l'autorizzazione aumenta la posta in gioco, esasperando l'ansia. Proprio perché la dissimulazione era rilevante ai fini della loro professione (e quindi del tutto legittima) le allieve infermiere del mio esperimento si preoccupavano abbastanza da aver paura di fallire lasciando trasparire le loro autentiche emozioni: in sostanza, minimo senso di colpa e alto livello d'ansia. Così il datore di lavoro che mente all'impiegato sospetto di malversazioni, dissimulando i suoi sospetti per coglierlo in flagrante, proverà forse una certa apprensione all'idea che l'altro se ne accorga, ma non si sentirà in colpa perché lo inganna. Viceversa, i fattori stessi che accrescono il senso di colpa possono attenuare l'apprensione di essere scoperti. Il bugiardo si sentirà più in colpa se mente a qualcuno che si fida di lui, ma avrà anche meno paura di essere smascherato da una persona che non si aspetta di essere sfruttata. Naturalmente, è possibile provare entrambe le emozioni con intensità, oppure non provare né l'una né l'altra: dipende dalle caratteristiche particolari della situazione, di chi mente e di chi dovrebbe smascherarlo. Alcuni sguazzano nel senso di colpa per le bugie che dicono. Parte della motivazione a mentire può essere addirittura un pretesto per sentirsi colpevoli. Ma la maggior parte delle persone trova l'esperienza della colpa così insopportabile che cerca il modo di ridurla. Ci sono tante maniere di giustificare l'inganno. Si può considerarlo una rappresaglia per un'ingiustizia subita. Una persona crudele o meschina non merita onestà e sincerità, oppure la vittima può apparire così ingenua e credulona che «se lo merita», agli occhi del truffatore: il pollo aspetta solo di essere spennato. Di altre due giustificazioni che attenuano il senso di colpa si è già parlato. Una è uno scopo nobile o un'esigenza dettata dalla propria posizione (si ricorderà che Nixon rifiutava di chiamare “menzogne” le sue non-verità, considerandole necessarie per ottenere e mantenere il suo incarico). L'altra giustificazione è proteggere il destinatario dell'inganno. A volte il bugiardo si spinge fino ad affermare che la vittima era una vittima volontaria. Se il destinatario della menzogna ha collaborato, ha sempre saputo la verità ma ha finto di non conoscerla, allora in un certo senso non c'è stata menzogna e l'autore dell'inganno è libero da qualunque responsabilità. Una vittima davvero volontaria aiuta il bugiardo a reggere l'inganno, fingendo di non vedere eventuali segni rivelatori. Un esempio interessante di vittima consenziente lo troviamo in alcune recenti rivelazioni su Robert Leuci, il poliziotto infiltrato nella malavita come informatore della magistratura federale, la cui storia è stata divulgata in un libro e in un film di successo (vi ho già accennato nel Cap. II). Quando offrì la sua collaborazione ai procuratori federali, questi gli chiesero quanti reati avesse commesso egli stesso. Leuci ne ammise tre soli. I poliziotti e avvocati corrotti incriminati in seguito sulla base delle sue rivelazioni affermavano che i reati a suo carico erano molto più numerosi: avendo mentito sul proprio conto, la sua testimonianza a loro carico avrebbe dovuto essere screditata. Queste affermazioni non sono però mai state provate e molti sono stati condannati grazie alla testimonianza di Leuci. Alan Dershowitz, il difensore di uno di questi, riferisce questa conversazione con Leuci al termine del processo: «Gli dissi che mi era difficile credere che il procuratore non fosse al corrente già prima degli altri suoi reati. Leuci mi rispose: “Sono convinto che in cuor suo lo sapesse bene che ne avevo commessi di più. Non poteva non saperlo, non è mica uno sciocco”. “E allora come poteva starsene lì seduto a guardarti mentre testimoniavi il falso?”, gli chiesi. “Consciamente non sapeva per certo che mentivo”, continuò. “Sicuramente lo sospettava e probabilmente lo credeva, ma io gli avevo detto di non mettermi alle strette e lui non l'ha fatto. Quando gli ho risposto 'tre reati' (qui Leuci alzò tre dita con un largo sorriso) ha dovuto accettarlo per buono. Lo sai bene, la pubblica accusa non fa altro che subornare i testimoni”».41 In seguito Dershowitz venne a sapere che anche questa confessione di menzogna era falsa, ma, quale che sia la verità, la conversazione fra il poliziotto e l'avvocato ci dà un ottimo esempio di come il destinatario consapevole di una menzogna che torna a suo vantaggio possa aiutare l'autore dell'inganno a portarlo a buon fine. La collaborazione può essere data per ragioni più o meno machiavelliche. Nelle forme mondane di cortesia, il destinatario della bugia è spesso consenziente. La padrona di casa accetta la scusa accampata dall'ospite per andar via prima del tempo, senza indagare troppo a fondo: quello che conta è l'assenza di maleducazione, un pretesto qualunque per non ferire la sua sensibilità. Poiché il destinatario è non solo consenziente ma ha in un certo senso autorizzato in partenza l'inganno, le non-verità richieste dalle buone maniere non rientrano nella mia definizione della menzogna. I rapporti amorosi offrono altri esempi di innocua menzogna, in cui entrambi collaborano dando corda ciascuno alle bugie dell'altro. Scrive Shakespeare: Se giura l'amor mio d'essermi tutta fede, Io le credo, pur sapendo quanto mente Tanto m'abbia per un ignaro giovane Poco esperto nelle sottili falsità del mondo. Così, nella lusinga vana ch'ella mi creda giovane, Pur sapendo i miei giorni già volti sul declino, Sciocco do fede alla sua lingua menzognera, In tal modo è a vicenda la chiara verità taciuta: Ma perché ella mi tace che m'inganna? E io, perché non dico che son vecchio oramai? Oh, ad amor si addice una apparente fiducia, E in amor la vecchiaia non ama che si contino gli anni. Per questo io le mentisco e lei mentisce a me E nei nostri difetti menzogna ci lusinga.42 Naturalmente non tutti gli inganni amorosi sono così innocui, né sempre il destinatario è così consenziente. Non possiamo fidarci di quello che ne dicono i bugiardi, che hanno tutto l'interesse a considerare vittime volontarie i destinatari dei loro inganni, per sentirsi meno colpevoli. La vittima involontaria può col tempo diventare volontaria, per evitare di pagare il prezzo che comporta la scoperta dell'inganno. Roberta Wohlstetter descrive vari casi di statisti che sono diventati vittime volontarie dei loro avversari (Chamberlain non è davvero un caso isolato): «In tutti questi esempi di errore persistente, a fronte di crescenti e talora piuttosto crude prove a sfavore, un ruolo importantissimo lo svolgono le credenze lungamente accarezzate e le supposizioni rassicuranti circa la buona fede del potenziale avversario e circa i supposti interessi comuni condivisi dall'antagonista [...]. All'avversario può bastare mettere un po' la vittima sulla strada; ci penserà poi quest'ultima a giustificare con qualche spiegazione quelle che altrimenti potrebbero apparire mosse minacciose».43 Riassumendo, il senso di colpa per l'inganno sarà massimo quando: il destinatario non è una vittima volontaria; l'inganno è totalmente egoistico e il destinatario non ne ricava alcun vantaggio, in particolare se la sua perdita è almeno pari al guadagno del mentitore; l'inganno non è autorizzato dalla situazione, che prevede invece un rapporto d'onestà; chi mente non esercita da lungo tempo l'arte di mentire; autore e vittima dell'inganno condividono gli stessi valori sociali; autore e vittima si conoscono personalmente; la vittima non può essere incolpata per la sua meschinità o ingenuità eccessiva; la vittima non ha ragione di aspettarsi un inganno, anzi l'autore ha agito in modo da guadagnarsi la sua fiducia. IL PIACERE DELLA BEFFA Finora ho parlato soltanto di sentimenti negativi: il timore di essere smascherato, il senso di colpa per il fatto d'ingannare la vittima. Ma la bugia può suscitare anche sentimenti positivi. L'inganno può esser visto come un'impresa riuscita ed assumere così un aspetto decisamente migliore: chi mente può provare eccitazione sia prima che durante l'azione, quando ancora il successo è incerto, e, dopo il piacere del sollievo, l'orgoglio di avercela fatta, il senso di superiorità verso la vittima. Il piacere della beffa riguarda tutte queste emozioni che possono, se non vengono dissimulate, tradire l'inganno. Un esempio innocente di piacere della beffa si ha quando questa prende la forma di uno scherzo ai danni di un amico credulone: chi conduce la beffa deve nascondere il piacere che prova, anche se la sua recita può essere in gran parte rivolta ad altri che si divertono a vedere come cade in trappola l'ingenuo. Il piacere della beffa varia d'intensità. Può essere del tutto assente, quasi insignificante in confronto all'ansia, oppure tanto forte che qualche segno traspare a livello di comportamento. Qualcuno arriva a confessare l'inganno perché non riesce a tenere tutta per sé la soddisfazione di averla fatta franca. Si sa di criminali che hanno rivelato il loro delitto ad amici, ad estranei, perfino alla polizia, pur di vedersi riconosciuta e apprezzata l'astuzia con cui hanno saputo portare a termine un inganno. Come gli scacchi o l'alpinismo, la menzogna può essere godibile solo se c'è qualche rischio. Quando, nei primi anni '50, ero studente all'Università di Chicago, era di moda rubare alla libreria universitaria. Quasi un rito d'iniziazione per le matricole, il furto si limitava generalmente a qualche libro e la conquista era abbondantemente esibita e apprezzata. Il senso di colpa era minimo: secondo la cultura studentesca, la libreria dell'Università avrebbe dovuto essere una cooperativa, e siccome invece era gestita a scopo di lucro meritava questo trattamento (le librerie private nei dintorni venivano al contrario rispettate). Anche il timore di essere scoperti era scarso, perché nel locale non c'erano misure di sicurezza. Una persona sola è stata scoperta in tutto il tempo che ho frequentato la libreria, e a tradirla è stato proprio il piacere della beffa. A Bernard non bastavano i soliti furti. Doveva aumentare i rischi per soddisfare il proprio orgoglio, mostrare tutto il disprezzo che provava verso la libreria e ottenere l'ammirazione dei compagni. Rubava solo grossi libri d'arte, difficilissimi da nascondere. Dopo un po' questo gioco divenne monotono, e allora aumentò la posta prendendo due o tre libri d'arte per volta. Era ancora troppo facile. Cominciò a provocare i commessi. Indugiando nei pressi della cassa coi suoi trofei sotto braccio, non faceva nessun tentativo di nascondere i libri. Sfidava i commessi a interrogarlo. Il piacere della beffa lo motivava a provocare sempre di più il destino. In parte a tradirlo furono proprio i segni comportamentali di gioia e divertimento. Quando finalmente fu colto sul fatto, nella sua stanza furono trovati quasi cinquecento libri rubati. Bernard in seguito è diventato un ricchissimo uomo d'affari, assolutamente rispettabile. Ci sono altri modi per alimentare il piacere della beffa. Se la vittima dell'inganno ha fama di essere un osso duro, questo dà sapore alla cosa, accrescendo il piacere della beffa. Un altro elemento che contribuisce a dare maggior soddisfazione è la presenza di altre persone al corrente della cosa. Non è necessaria la presenza fisica del pubblico, purché questo sia attento e in grado di apprezzare. Se poi il pubblico è presente alla scena, il piacere è al culmine, ma è anche più difficile non lasciarlo trasparire. Un abile giocatore di poker riesce a controllare qualunque segno del piacere che gli dà l'idea di beffare gli avversari: quando si trova servito con un punto molto forte, le sue azioni devono sviare i sospetti, in modo che gli altri, convinti che non abbia in mano buone carte, rilancino e restino in gioco. Anche se c'è intorno qualche spettatore che ha visto le sue carte, deve saper inibire ogni manifestazione di allegria: la cosa più facile in questi casi è evitare assolutamente di incontrare gli sguardi dei ficcanaso. All'atto di mentire, è possibile provare (contemporaneamente o in successione) sia il piacere della beffa che il senso di colpa per l'inganno o il timore di essere scoperti. Pensiamo ancora una volta al poker. In un bluff, il giocatore che ha carte pessime e finge di averne così buone da indurre gli altri a uscire dal gioco può provare una certa apprensione se il piatto è diventato molto ricco; via via che gli altri si ritirano impauriti, sopravviene anche il piacere della beffa. Non dovrebbero esserci sensi di colpa, a meno che il giocatore abbia in qualche modo barato, visto che il gioco autorizza l'inganno. L'impiegata che truffa la sua ditta può provare tutti e tre questi sentimenti: la soddisfazione di aver beffato i colleghi e il datore di lavoro, l'apprensione ogni qualvolta pensa che possono esserci dei sospetti sul suo conto e magari il senso di colpa per aver violato la legge e tradito la fiducia degli altri. Riassumendo, il piacere della beffa sarà massimo quando: la vittima pone una sfida, avendo fama di osso duro; l'inganno stesso è una sfida, a ragione di ciò che dev'essere dissimulato o delle invenzioni che questo richiede; altri osservano o sono al corrente della cosa e apprezzano l'abilità del mentitore. Senso di colpa, paura e piacere possono manifestarsi tutti nell'espressione del viso, nella voce, nei movimenti del corpo, anche quando si cerca di nasconderli. Pur riuscendo a non far trasparire queste emozioni, lo sforzo per impedirlo può dar luogo a indizi che fanno sospettare un inganno. I prossimi due capitoli spiegano come si può individuare la bugia dalle parole, dalla voce, dalla mimica e dai movimenti del corpo. IV Riconoscere l'inganno dalle parole, dalla voce o dai gesti «Come mai sapete che ho detto una bugia?». «Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie. Vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l'appunto è di quelle che hanno il naso lungo» [Pinocchio]. Se ciò che viene detto a Pinocchio fosse vero, certamente la gente direbbe meno bugie, ma il fatto è che non c'è nessun segno della menzogna in sé, nessun gesto, espressione del viso o spasmo muscolare che in sé e per sé significhi che una persona sta mentendo. Ci sono soltanto indizi indiretti da cui può trasparire qualcosa. Chi cerca di mascherare bugie deve sapere come si manifestano le emozioni nel linguaggio, nella voce, nella mimica e nei gesti, deve conoscere le tracce che possono restare malgrado gli sforzi per dissimulare i sentimenti e che cosa tradisce la falsità di emozioni simulate. Cogliere sul fatto la bugia non è una cosa semplice. Un problema è il bombardamento d'informazioni. Ci sono troppe cose da prendere in considerazione, troppe fonti da tener d'occhio: parole, pause, tono di voce, espressioni, movimenti del capo, gesti, posizione, respirazione, rossore o pallore, sudore, ecc. E tutte queste fonti possono trasmettere informazioni contemporaneamente o quasi, contendendosi l'attenzione dell'osservatore. Per fortuna non è necessario scrutinarle tutte con la stessa cura: non tutte le fonti d'informazione sono attendibili nella conversazione e alcune lasciano trasparire più di altre. Stranamente, la maggior parte della gente presta più attenzione alle fonti meno degne di fede (le parole e la mimica facciale) e così si lascia facilmente trarre in inganno. Chi mente di solito non sorveglia, controlla e camuffa tutto quanto il proprio comportamento. Probabilmente non potrebbe farlo nemmeno se volesse: è difficile immaginare che si possa controllare efficacemente tutta la gamma di aspetti comportamentali che potrebbero tradirci. Semmai il bugiardo nasconderà e camufferà quello su cui si aspetta che gli altri debbano concentrare l'attenzione. La massima cura è dedicata, per cominciare, alla scelta delle parole. Ciascuno di noi impara fin da bambino che la gente ascolta attentamente quello che si dice. Le parole ricevono tutta questa attenzione perché sono, ovviamente, il modo più ricco e differenziato di comunicare, capaci di trasmettere messaggi più numerosi e incomparabilmente più rapidi rispetto alla mimica, alla voce o ai movimenti del corpo. Il bugiardo esercita una forte censura su quello che dice, occultando con cura i messaggi che non vuole inviare, non solo perché è consapevole che tutti fanno attenzione a questo canale d'informazione, ma anche perché sa che gli verrà chiesta ragione più delle parole dette che di come le ha dette. Un'espressione irata o un tono di voce aspro possono sempre esser negati, costringendo l'accusatore alla difensiva: «Sei tu che l'hai sentita così. Nella mia voce non c'era nessuna rabbia». È molto più difficile negare di aver detto una parola irata: la sua realtà è innegabile, facile da rinfacciare. Un'altra ragione per cui le parole sono sorvegliate con tanta cura è che è facile fingere a parole, cioè affermare cose non vere: è possibile addirittura mettere giù per iscritto quello che si vuol dire e rivederlo e riformularlo in anticipo. Solo un attore ottimamente addestrato potrebbe programmare con la stessa precisione ogni espressione del viso, ogni gesto ed inflessione della voce. Le parole si possono ripassare quante volte si vuole. Chi parla dispone di una continua informazione di ritorno, ascoltando le proprie parole, cosicché può aggiustare il tiro, mentre l'informazione di ritorno proveniente dagli altri canali (mimica, voce, corpo) è molto meno precisa. Dopo le parole, il viso è quello che riceve la maggiore attenzione dagli altri. Capita di sentirsi fare osservazioni circa l'aspetto del proprio viso: «Non mi guardare con codesta aria da presa in giro», «Potresti sorridere quando lo dici», «Togliti dalla faccia codesta espressione!». Al viso si presta attenzione soprattutto perché è il segno distintivo e il simbolo dell'identità personale: i volti sono icone, celebrate in fotografie appese alle pareti, esposte sulla scrivania, portate con sé nel portafoglio. Recenti ricerche hanno evidenziato che una parte del cervello è specializzata nel riconoscimento dei visi umani.44 Ci sono varie altre ragioni per cui le persone fanno tanta attenzione al volto. Il volto è la sede primaria per manifestare le emozioni, sebbene non dia sempre informazioni attendibili. Se c'è qualche difficoltà a udire le parole, osservare le labbra può aiutare la comprensione. L'attenzione rivolta al viso dell'interlocutore fornisce inoltre un segnale importante per la prosecuzione del dialogo: colui che parla vuol sapere se gli altri l'ascoltano ed essere guardato in faccia lo rassicura in questo senso (anche se, questo va detto, non sempre a ragione).45 In confronto all'attenzione riservata alle parole e al volto, il corpo e la voce non ne ricevono molta. Non si perde granché, dato che di solito il corpo fornisce molte meno informazioni del viso, la voce molte meno delle parole. I gesti delle mani potrebbero trasmettere molti messaggi ma, se si prescinde dal caso particolare dell'alfabeto dei sordomuti, non sono usati normalmente nella conversazione, a meno che il linguaggio verbale non sia impedito.46 La voce, come il viso, può mostrare se una persona è emozionata o no, ma forse non ci dice di quale emozione esattamente si tratti. Il bugiardo di solito sorveglia e cerca di controllare le parole e l'espressione del viso, sapendo che gli altri concentrano lì la loro attenzione. La finzione e la dissimulazione riescono meglio con le parole che con la mimica, perché sono più facili da sorvegliare e da sottoporre a censura. È infatti molto più difficile sapere che faccia mostriamo agli altri: per avere un'altrettanto chiara informazione di ritorno dovremmo tenere uno specchio sempre davanti agli occhi. È vero che certe sensazioni provenienti dai muscoli facciali potrebbero segnalarci le loro tensioni e i loro movimenti, ma le mie ricerche dimostrano che la gente non utilizza molto questo tipo d'informazione: solo pochi si rendono conto delle espressioni che si stanno dipingendo sul loro volto, finché queste non diventano estremamente vistose.47 Ma c'è una ragione anche più importante che spiega la scarsa capacità di controllo sui movimenti del viso: esso, a differenza del linguaggio verbale, è direttamente collegato a quelle zone del cervello che intervengono nelle emozioni. Quando nasce un'emozione, i muscoli facciali si attivano in maniera automatica. È solo per abitudine o per scelta volontaria che impariamo a impedire queste espressioni, cercando un modo più o meno efficace per nasconderle. L'espressione iniziale che si affaccia in concomitanza con l'emozione non è scelta deliberatamente, a meno che sia falsa. La mimica facciale è un sistema duplice, volontario e involontario, capace di mentire e di dire la verità, spesso contemporaneamente. È per questo che le espressioni del volto possono essere così complesse, ambigue e affascinanti. Nel prossimo capitolo spiegherò meglio la base neurologica di questa distinzione fra espressioni volontarie e involontarie. Chi sospetta un inganno dovrebbe fare più attenzione alla voce e al corpo. Anche la voce, come il viso, è collegata a zone del cervello coinvolte nelle emozioni. È difficilissimo nascondere alcuni cambiamenti che intervengono nella voce quando si è emozionati. E l'informazione di ritorno circa il suono della propria voce, necessaria per controllare il messaggio inviato agli altri quando si mente, forse non è altrettanto attendibile quanto quella delle parole pronunciate. Quasi tutti siamo sorpresi la prima volta che ci ascoltiamo al registratore, perché normalmente il suono della nostra voce ci arriva per via ossea, con un effetto diverso da quello che risulta nella trasmissione aerea. Anche il corpo è un buon canale per lasciar trasparire indizi compromettenti. A differenza della mimica facciale o della voce, la maggior parte dei movimenti corporei non è legata a vie nervose che fanno capo a zone cerebrali direttamente interessate dalle emozioni. Non è che controllare i movimenti corporei sia difficile in sé; una persona sente e spesso vede che cosa sta facendo il suo corpo e nascondere i movimenti degli arti è molto più facile che dissimulare un'espressione spontanea del viso o l'alterazione della voce nell'emozione, ma generalmente non ce ne preoccupiamo: fino da piccoli abbiamo imparato che non ce n'è bisogno. È raro che uno debba rendere ragione di quello che rivelano i suoi movimenti corporei. Il corpo lascia trapelare molto proprio perché viene ignorato: tutti sono troppo occupati a soppesare le parole e a spiare il volto di chi parla. Tutti sappiamo che le parole possono mentire, ma le mie ricerche dimostrano che la gente bada soprattutto alle parole e si lascia spesso fuorviare. Questo ovviamente non vuol dire che il contenuto del discorso debba essere ignorato: a parte certi errori rivelatori, spesso è proprio la discrepanza fra le parole e ciò che rivelano la voce, i gesti, l'espressione facciale, a tradire una menzogna. Tuttavia, la maggior parte degli indizi che provengono da questi tre canali viene ignorata o interpretata male. Ho potuto verificare questa tendenza in numerose ricerche in cui chiedevo ai soggetti di valutare la sincerità delle persone sulla base di interviste videoregistrate. Ad alcuni presentavo soltanto il viso dei soggetti, ad altri solo il corpo, ad altri ancora le parole filtrate in modo da renderle inintelligibili, ma conservando intatto il tono della voce, ad altri infine le parole al naturale o la loro trascrizione. Il materiale era stato raccolto tutto sullo stesso gruppo di persone, le allieve infermiere di cui ho parlato nel capitolo precedente. Come si ricorderà, metà delle risposte alle interviste erano sincere e metà false. Nella ricerca sulla capacità di riconoscere sincerità e menzogne, non ci interessava soltanto accertare quale canale fosse il più efficace (viso, corpo, voce o parole), ma anche vedere se le persone messe in sospetto se la cavassero meglio di quelle che non si aspettavano un inganno. Abbiamo diviso quindi i soggetti in due gruppi. Un gruppo è stato messo al corrente delle condizioni effettive in cui erano state raccolte le videoregistrazioni, l'altro l'abbiamo lasciato del tutto all'oscuro, senza parlare affatto di possibili menzogne; per non sollevare sospetti, la domanda circa l'onestà delle intervistate era nascosta fra tante altre sulla cordialità, estroversione, dominanza, goffaggine, autocontrollo, ecc. Qualcuna delle allieve infermiere era assolutamente incapace di mentire e veniva scoperta facilmente, ma la maggior parte traeva in inganno gli osservatori. I risultati peggiori sono stati ottenuti dai soggetti che hanno visto soltanto la faccia o sentito le parole: giudicavano più oneste proprio le interviste dove le allieve mentivano. I giudici messi in sospetto, cioè al corrente della situazione reale, non hanno fatto registrare un successo maggiore. Pochissimi hanno ottenuto risultati al di sopra del livello del caso. Meglio di tutti se la sono cavata quelli che vedevano solo il corpo, ma anche in quel caso i giudizi esatti erano appena il 65%, quando rispondendo a caso si può imbroccare la risposta esatta al 50% .48 Qualcuno è stato bravissimo, identificando esattamente l'85% delle menzogne. A volte si trattava di psicoterapeuti con una lunga esperienza clinica, in altri casi semplicemente di persone molto acute e sensibili.49 Non è inevitabile lasciarsi trarre in inganno così. Soggetti che abbiamo istruito sui temi trattati in questo e nel capitolo seguente se la sono cavati benissimo nell'esperimento, all'altezza degli psicoterapeuti più esperti. Pare quindi che si possa imparare ad individuare certi indizi di menzogna. LE PAROLE Fatto sorprendente, molti bugiardi sono traditi dalle parole per pura e semplice disattenzione. Non è che non potessero camuffare meglio il loro pensiero, o che ci abbiano provato senza riuscirci: semplicemente non si sono curati di inventare una storia come si deve. Il direttore di un'agenzia per la ricerca e la selezione di personale direttivo descrive un tale che si è rivolto alla sua organizzazione con due nomi diversi nell'arco d'uno stesso anno. Alla domanda su come dovevano chiamarlo, «l'uomo, che prima si era presentato come Leslie D'Ainter, ma poi si era cambiato in Lester Dainter, non fece una piega. Spiegò che aveva cambiato il nome di battesimo perché Leslie suonava troppo femminile e aveva modificato il cognome per renderlo più facile da pronunciare. Ma a tradirlo furono le sue referenze. Presentava tre splendide lettere di raccomandazione, ma dei tre “datori di lavoro” non ce n'era uno che scrivesse il suo nome con la stessa ortografia».50 Anche un mentitore più accorto può esser tradito da uno di quei lapsus di cui parla Freud. I n Psicopatologia della vita quotidiana Freud mostra come gli sbagli che capitano nella vita di tutti i giorni (lapsus, dimenticanza di nomi familiari, errori di lettura e scrittura) non siano fatti accidentali ma eventi significativi che rivelano conflitti psicologici interni. Il lapsus esprime a suo avviso «qualcosa che non si desiderava dire; esso diventa un modo di tradire se stessi».51 Freud non si occupava specificamente della menzogna, ma uno dei suoi esempi riguarda proprio una bugia rivelata da un lapsus. Freud riferisce un'esperienza occorsa al Dr. Brill, uno dei suoi primi allievi: Una sera sono uscito a passeggio col Dr. Frink e abbiamo discusso certe questioni della Società psicoanalitica di New York. Abbiamo incontrato un collega, il Dr. R., che non vedevo da anni e della cui vita privata non sapevo nulla. Ci fece molto piacere ritrovarci e su mio invito ci accompagnò in un caffè, dove passammo due ore in animata conversazione. Il Dr. R. sembrava abbastanza informato sul mio conto, perché dopo le consuete formule di saluto mi chiese del mio bambino e mi disse che di tanto in tanto aveva notizie da un amico comune e si interessava del mio lavoro da quando aveva letto qualcosa in proposito sulle riviste mediche. Alla mia domanda se fosse sposato rispose di no, aggiungendo: «Perché un uomo come me dovrebbe sposarsi?». Al momento di uscire, si rivolse improvvisamente verso di me e mi disse: «Vorrei sapere che cosa faresti in un caso come questo: conosco un'infermiera che è stata indicata come correa in un caso di divorzio. La moglie ha citato in giudizio il marito per adulterio, facendo il suo nome come complice, e lui ha ottenuto il divorzio». Lo interruppi, dicendo: «Vuoi dire che lei ha ottenuto il divorzio». Si corresse immediatamente: «Sì, certo, lei ha ottenuto il divorzio». Poi continuò spiegando che l'infermiera aveva risentito a tal punto del procedimento legale e dello scandalo che aveva cominciato a bere, era diventata molto nervosa, e così via; mi chiedeva un consiglio su come trattarla. Appena corretto il suo errore gli chiesi di spiegarmelo, ma ricevetti le solite risposte meravigliate: forse che uno non ha diritto di fare un lapsus? Era solo un caso, non c'era dietro niente, e così via. Gli risposi che dev'esserci una ragione per ogni errore che si commette parlando e che, se prima non mi avesse detto di non essere sposato, sarei stato tentato di supporre che fosse lui stesso il protagonista del racconto; perché in quel caso il lapsus si sarebbe spiegato col desiderio di aver ottenuto lui il divorzio, invece della moglie, in modo da non essere tenuto (in base alle nostre leggi) a pagare gli alimenti e da potersi risposare nello Stato di New York. Negò risolutamente la mia congettura, ma l'esagerata reazione emotiva che accompagnava le sue parole (segni accentuati di agitazione, poi una risata) non fece che rafforzare i miei sospetti. Al mio appello a dire la verità nell'interesse della scienza, rispose: «A meno che tu non voglia che io ti dica una bugia, devi credere che non sono mai stato sposato e quindi la tua interpretazione psicoanalitica è sbagliata». Aggiunse che uno che dava tanta importanza a qualunque sciocchezza era decisamente una persona pericolosa. Poi d'un tratto si ricordò che aveva un altro appuntamento e si accomiatò. Il Dr. Frink ed io eravamo ancora convinti dell'esattezza della mia interpretazione, cosicché decisi di fare qualche indagine per averne la conferma o la smentita definitiva. Qualche giorno dopo andai a trovare un vicino, un vecchio amico del Dr. R., il quale poté confermarmi la mia spiegazione in ogni particolare. L'udienza si era tenuta qualche settimana prima, e l'infermiera era stata citata come correa 52 nell'adulterio. Freud scriveva che «la soppressione dell'intenzione di dire qualcosa è la condizione indispensabile per la comparsa di un lapsus linguae»53 (il corsivo è nell'originale). La soppressione potrebbe essere deliberata se il soggetto mente, ma a Freud interessavano soprattutto i casi in cui chi parla non è consapevole della soppressione. Una volta intervenuto il lapsus, il soggetto può riconoscere ciò che aveva soppresso, oppure continuare a ignorarlo. Chi vuole smascherare bugie dev'esser cauto e non partire dal presupposto che ogni lapsus debba essere prova di menzogna. Di solito il contesto dovrebbe aiutare a capire se il lapsus rivela una bugia o no. Si deve evitare anche l'errore di considerare sincera una persona solo perché non incorre in nessun lapsus: molte bugie non ne contengono affatto. Freud non ha spiegato perché certe menzogne siano tradite dal lapsus e la maggior parte invece no. E suggestivo supporre che i lapsus avvengano quando il bugiardo vuole essere smascherato, quando esiste un certo senso di colpa. Di sicuro il Dr. R. dev'essersi sentito in colpa nel mentire al collega stimato. Comunque non c'è nessuna ricerca (né molte ipotesi) che spieghi perché solo certe menzogne vengono svelate dai lapsus. Un altro modo in cui il bugiardo può tradirsi con le sue stesse parole sono le tirate declamatorie. Qui l'errore diventa vistoso, non più limitato, come nel lapsus, a una parola o due. L'informazione non sguscia fuori fra una parola e l'altra, ma trabocca a fiotti. L'individuo si lascia trasportare dall'emozione e solo quando è troppo tardi si rende conto delle conseguenze di ciò che sta rivelando. Probabilmente, se avesse mantenuto il sangue freddo, non avrebbe lasciato venire alla luce un'informazione che lo danneggia tanto. È la pressione di un'emozione incontenibile (furore, spavento, orrore o disperazione) a indurre il bugiardo a tradirsi così. Una quarta fonte di indizi puramente verbali l'ha descritta Tom Brokaw quando era conduttore di «Today Show», una rubrica di interviste della NBC: «La maggior parte degli indizi che ricavo dalla gente sono verbali, non fisici. Non guardo la faccia dell'intervistato per capire se sta mentendo. Quelle di cui vado a caccia sono le risposte involute o i giri di parole evasivi e complicati».54 Esiste qualche ricerca che conferma il suggerimento di Brokaw: alcuni soggetti quando mentono danno davvero risposte indirette, piene di circonlocuzioni, più abbondanti di quello che era richiesto. Altri lavori però indicano esattamente l'opposto: nella maggior parte dei casi chi mente è troppo furbo per dare risposte indirette o evasive.55 Queste persone sfuggirebbero a Tom Brokaw, ma il rischio peggiore è quello di malgiudicare una persona sincera che per l'appunto si esprime in maniera involuta o evasiva. Alcuni in effetti parlano sempre così: nel loro caso non è un segno di menzogna, ma semplicemente il loro modo di parlare. Qualunque comportamento che costituisce un utile indizio per scoprire le menzogne sarà sempre per alcuni nient'altro che una parte integrante del comportamento abituale. La possibilità di valutare ingiustamente persone del genere la chiamerò “effetto Brokaw”. Chi va a caccia di bugie è esposto a questo rischio quando non conosce l'indiziato e non ha familiarità con certi tratti peculiari del suo comportamento tipico. Parlerò nel Cap. VI dei modi per evitare l'effetto Brokaw. Finora non sono state scoperte dalla ricerca altre fonti di indizi rivelatori ricavabili dalle parole stesse di chi mente e tendo a pensare che non si troverà molto altro in questa direzione. Come ho spiegato, è troppo facile dissimulare e fingere con le parole, anche se come abbiamo visto gli errori non mancano. LA VOCE Sotto questo titolo si raccoglie tutto quanto attiene al linguaggio parlato, meno le parole. Gli indizi vocali più comuni fra quelli che fanno sospettare un inganno sono le pause nel discorso. Le pause possono essere troppo lunghe o troppo frequenti. L'esitazione al momento di attaccare a parlare, soprattutto in risposta a una domanda, può far nascere sospetti. Altrettanto vale per frequenti pause più brevi durante il discorso. Altri indizi possono essere gli errori, come l'intromissione nel discorso di “non parole” («ehm», «uhm», ecc.), le ripetizioni («Io, io, io veramente...») e le parole ripetute a metà («Vera-veramente io...»). Questi indizi (errori e pause) possono presentarsi per due ragioni affini. Chi mente può non aver elaborato a puntino la sua versione: se non si aspettava di dover mentire, o anche soltanto non aveva previsto una certa domanda, può esitare o confondersi. Ma la cosa può succedere anche quando una bugia è ben preparata: un alto livello di apprensione all'idea di poter essere scoperto può avere lo stesso effetto. D'altra parte l'ansia può aggravare gli errori del bugiardo impreparato: sentendo il misero effetto delle parole che sta improvvisando, avrà ancor più paura di essere scoperto e la paura a sua volta accentuerà le pause e gli intoppi. L'inganno può trapelare anche dal suono della voce. Quasi tutti siamo convinti che il tono di voce possa rivelare che emozioni prova una persona, ma la ricerca scientifica su questo punto non ha dato ancora conferme definite. Si sono trovati vari modi per distinguere la voce in concomitanza con emozioni positive o negative, ma ancora non sappiamo se la voce differisce nelle varie emozioni spiacevoli (rabbia, paura, dolore, disgusto, disprezzo). Sono convinto, però, che tali differenze verranno alla luce col tempo. Per il momento, mi limiterò a esporre i fatti noti e gli spunti più promettenti. Il segno vocale di emozione più documentato è l'acutezza: in circa il settanta per cento delle persone esaminate, la voce diventa più acuta in situazioni di turbamento. Probabilmente questo avviene soprattutto quando l'emozione che agita il soggetto è rabbia o paura. Qualche dato sembra indicare che la voce cali di tono con la tristezza e il dispiacere, ma non è certo. Infine, non sappiamo se ci siano variazioni in caso di eccitazione, disgusto o disprezzo. Altri segni, non così sicuri ma promettenti, sono l'accelerazione e l'aumento di volume in situazioni di collera o di paura, il rallentamento e l'abbassamento di volume con la tristezza. Importanti novità si avranno probabilmente misurando altri aspetti della voce: ad esempio il timbro, lo spettro di energia in diverse bande di frequenza, i cambiamenti legati alla respirazione.56 Le alterazioni della voce prodotte dalle emozioni non sono facili da nascondere. Se la bugia riguarda in particolare le emozioni provate sul momento, ci sono buone speranze che trapeli la verità. Se la menzogna tende a dissimulare la paura o la rabbia, per esempio, la voce dovrebbe suonare più acuta e più forte e il discorso dovrebbe essere accelerato. L'opposto nel caso che i sentimenti che si cerca di nascondere siano tristezza e dispiacere. Il suono della voce può tradire anche bugie che non miravano in partenza a coprire certe emozioni: basta che l'emozione entri in gioco. Per esempio il timore di essere scoperto produrrà l'alterazione tipica della paura. Il senso di colpa per il fatto stesso di mentire potrebbe causare le stesse alterazioni che accompagnano uno stato di tristezza, ma questa è solo un'ipotesi, così come non è chiaro se il piacere della beffa si possa riconoscere e misurare dalla voce. Personalmente sono convinto che ogni tipo di eccitazione ha un suo particolare contrassegno vocale, ma la cosa è ancora da dimostrare. Il nostro esperimento con le allieve infermiere è stato uno dei primi a documentare un'alterazione del tono di voce durante la menzogna.57 Abbiamo trovato infatti che la voce in questi casi diventava più acuta. Siamo convinti che il fenomeno fosse dovuto al timore. Come si ricorderà c'erano due ragioni per provare questa emozione: avevamo fatto il possibile perché la posta in gioco fosse alta e le allieve provassero apprensione all'idea di non riuscire nell'inganno; inoltre, alcune provavano certamente paura per empatia, assistendo alle sanguinose scene chirurgiche. La voce acuta non è segno di falsità: è segno di paura, di collera, forse anche di eccitazione. È pericoloso interpretare un qualunque segno vocale di emozione come prova di menzogna. Una persona sincera, preoccupata di non esser creduta, può di conseguenza manifestare la stessa alterazione del tono di voce di un bugiardo che ha paura di essere colto in fallo. Esaminando come questa tendenza confonda l'interpretazione di altri potenziali indizi, parlerò di “errore di Otello”, un errore che analizzerò in dettaglio nel Cap. VI, spiegando le precauzioni che si possono prendere per evitarlo (purtroppo la cosa non è facile). Basarsi sulle alterazioni della voce per scoprire le menzogne espone anche all'effetto Brokaw (differenze individuali nel comportamento emotivo), di cui ho già parlato a proposito delle pause e degli errori nel discorso. Così come il segno vocale di un'emozione (poniamo, l'alterazione del tono) non sempre rivela una bugia, anche l'assenza di questi segni non necessariamente è prova di sincerità. La credibilità della testimonianza di John Dean durante le udienze del Senato sul caso Watergate si fondava in parte sull'assenza di emozione nella sua voce, più esattamente sull'interpretazione che fu data del suo tono di voce particolarmente freddo e monotono. Erano passati dodici mesi dal furto nel quartier generale democratico nel complesso di Watergate, quando John Dean, consigliere del presidente in carica Richard Nixon, si presentò in tribunale a testimoniare. Nixon aveva finalmente ammesso, un mese prima, che i suoi assistenti avevano cercato di coprire i responsabili, ma continuava a negare di esserne stato al corrente di persona. Scrive il giudice federale John Sirica: «I pesci piccoli coinvolti nel tentativo di soffocare lo scandalo erano stati presi nella rete, soprattutto grazie alle reciproche chiamate di correo. Quella che restava da determinare era la reale colpevolezza o innocenza degli uomini al vertice. Ed era la testimonianza di Dean quella che avrebbe toccato il nodo cruciale [...]. Dean riferì di aver ripetuto a Nixon che ci sarebbe voluto un milione di dollari per far tacere i due incriminati del furto e Nixon rispose che i soldi si potevano trovare: non un segno di sorpresa, nessuna indignazione, nessun rifiuto. Questa era la più sensazionale accusa di Dean. Diceva che Nixon stesso aveva approvato l'esborso per tappare la bocca ai due imputati».58 Il giorno seguente la Casa Bianca contestò le dichiarazioni di Dean. Nelle sue memorie, pubblicate cinque anni dopo, Nixon scriveva: «Vidi nella testimonianza di John Dean sullo Watergate un'accorta miscela di vero e non vero, di fraintendimenti magari sinceri e distorsioni chiaramente consapevoli. Nel tentativo di ridimensionare il proprio ruolo, trasferiva la sua totale conoscenza 59 delle manovre per soffocare lo scandalo e la sua propria ansia sulle parole e le azioni degli altri».60 Sul momento l'attacco contro Dean era stato molto più rozzo. Venivano fatti filtrare alla stampa racconti, presumibilmente ispirati dalla Casa Bianca, secondo cui Dean mentiva aggredendo il presidente perché aveva paura di essere aggredito sessualmente se fosse finito in carcere. Era la parola di Dean contro quella di Nixon e pochi sapevano per certo chi dei due dicesse la verità. Il giudice Sirica, descrivendo i suoi dubbi, scrive: «Devo dire che ero scettico sulle dichiarazioni di Dean. Egli stesso era evidentemente una figura chiave nel complotto [...]. Aveva moltissimo da perdere [...]. Mi pareva, all'epoca, che avrebbe potuto benissimo interessargli di più proteggersi coinvolgendo il presidente che non dire la verità». Sirica prosegue descrivendo l'impressione che gli aveva fatto la voce di Dean: «Per vari giorni dopo che ebbe letto la sua dichiarazione i membri della commissione continuarono a punzecchiarlo con domande ostili. Ma lui rimase fedele al suo racconto. Non sembrava in alcun modo turbato. Il suo tono di voce incolore, che non tradiva nessuna emozione, lo rendeva credibile».61 Ad altri, una persona che parla con voce monotona e uniforme può dar l'impressione di controllarsi, il che potrebbe suggerire che abbia qualcosa da nascondere. Per non interpretare erroneamente il suo modo di parlare, bisognerebbe sapere se questo tono di voce è tipico di lui o no. Il fatto di non tradire alcuna emozione nella voce non è necessariamente prova di sincerità; alcune persone non mostrano mai emozioni, almeno non nella voce. E anche persone che si emozionano facilmente possono non turbarsi affatto per quanto riguarda una particolare menzogna che stanno dicendo. Il giudice Sirica era esposto all'effetto Brokaw. Si ricorderà come questo conduttore televisivo dicesse di interpretare come segno di falsità le risposte contorte ed evasive: ho spiegato che questo può essere un errore, dal momento che certe persone parlano sempre attraverso perifrasi elaborate. Ora il giudice Sirica poteva fare l'errore opposto: giudicare sincera una persona solo perché non mostra un certo indizio di menzogna, senza tener conto che alcuni non lo fanno mai. Entrambi gli errori nascono dal fatto che esistono differenze individuali nella risposta emotiva e nel modo di manifestarla. Chi cerca di smascherare una bugia incorre in questi errori, se non sa com'è normalmente il comportamento emotivo dell'indiziato. Non ci sarebbe l'effetto Brokaw se non esistesse nessun indizio attendibile: in quel caso non ci sarebbe nulla da cercare. Così, non ci sarebbe un effetto Brokaw se gli indizi fossero perfettamente attendibili per tutti, anziché soltanto per la maggioranza delle persone. Nessun indizio di falsità è attendibile per tutti gli esseri umani, ma singolarmente o in combinazione possono aiutare a giudicare la sincerità della maggior parte delle persone. La moglie, gli amici e i collaboratori di John Dean potrebbero dire se è come la maggioranza della gente per quanto riguarda il lasciar trapelare le emozioni nel tono di voce. Il giudice Sirica, non conoscendolo in precedenza, era esposto all'effetto Brokaw. Dalla testimonianza resa da Dean con voce piana e inespressiva si può ricavare anche un altro insegnamento. Bisogna sempre considerare la possibilità che la persona sotto esame sia un attore particolarmente dotato, così capace di camuffare il proprio comportamento che è impossibile sapere se mente o dice la verità. Secondo quanto riferisce egli stesso, John Dean è una persona del genere. Sembra che sapesse in anticipo come avrebbero interpretato il suo comportamento il giudice Sirica e gli altri inquirenti. Racconta di aver pensato, mentre si faceva un piano della sua testimonianza: «Sarebbe stato facile drammatizzare all'eccesso o sembrare troppo agitato [...]. Decisi quindi di leggere con voce piana, senza nessuna emozione, il più freddamente possibile, e di rispondere con lo stesso tono alle domande [...]. La gente tende a pensare che uno che dice la verità è calmo e tranquillo».62 Finita la deposizione, quando cominciò il contraddittorio, Dean cominciò ad emozionarsi: «Sapevo che mi stavo bloccando, sentendomi solo e impotente di fronte al potere del presidente. Feci un respiro profondo, come se stessi riflettendo; lottavo per controllarmi... Non puoi mostrare emozione, mi dissi. La stampa ci si getterà sopra come segno di debolezza poco virile».63 Il fatto che l'esecuzione fosse studiata ad arte e che Dean fosse così abile nel controllare il proprio comportamento non significa necessariamente che dicesse il falso, ma solo che gli altri avrebbero dovuto essere più cauti nell'interpretarlo. In realtà, prove successive fanno pensare che la testimonianza di Dean fosse in gran parte veritiera e che Nixon (il quale, a differenza del suo consigliere, non è un attore di talento) dicesse il falso. L'ultimo punto da toccare prima di lasciare l'argomento è l'affermazione di chi pretende che le menzogne si possano riconoscere automaticamente e con precisione analizzando la voce con macchine come il Psychological Stress Evaluator, il Mark II Voice Analyzer, il Voice Stress Analyzer, il Psychological Stress Analyzer, lo Hagoth, il Voice Stress Monitor. I produttori di questi apparecchi dichiarano che sono in grado di riconoscere una bugia dalla voce, perfino al telefono. Ovviamente, come suggeriscono i nomi stessi, sono macchine che registrano i segni di stress, non la menzogna. Non esiste nessun segno vocale della bugia in sé e per sé, ma soltanto sintomi che tradiscono emozioni negative. I fabbricanti di questi giocattoli costosi non hanno l'onestà di avvertire gli utenti circa il rischio di non riconoscere un mentitore che non prova emozioni negative, o di malgiudicare un innocente agitato e turbato. Lo studio scientifico della voce umana e l'utilizzazione corretta di altre tecniche per l'individuazione delle menzogne hanno dimostrato che queste macchine danno risultati prossimi al livello del caso quando si tratta di distinguere fra bugia e verità e non riescono granché bene nemmeno nel più facile compito di riconoscere se una persona è emotivamente scossa.64 A quanto pare, ciò non ha influito sulle vendite: la possibilità stessa che esista un modo semplice e non ingombrante di riconoscere a colpo sicuro la falsità è di per sé troppo seducente. IL CORPO Uno dei tanti modi in cui i movimenti corporei possono tradire i sentimenti nascosti ebbi modo di vederlo in un esperimento condotto quando ero ancora studente, oltre trent'anni fa. All'epoca non c'erano molti dati sulla questione se i movimenti e la postura rispecchino con una qualche esattezza le emozioni o la personalità. Ne era convinto qualche psicoterapeuta, ma tali affermazioni erano scartate come irrilevanti e aneddotiche dai comportamentisti, che in quegli anni dominavano la psicologia accademica. Molte ricerche dal 1914 al 1954 non avevano portato conferma all'ipotesi che il comportamento non verbale fornisca informazioni esatte circa le emozioni o la personalità. La psicologia accademica si faceva un certo vanto di aver saputo smascherare come un mito la credenza dei profani di poter leggere i sentimenti o la personalità nel viso o nel corpo. Quei pochi autori di psicologia clinica o sociale che continuavano a parlare del movimento corporeo erano guardati alla stessa stregua di chi si occupava di ESP (Extra-Sensorial Percepiton: percezione extra-sensoriale) o di grafologia, come ingenui, sciocchi o ciarlatani. Non riuscivo a credere che le cose stessero così. Osservando i movimenti del corpo durante le sedute di terapia di gruppo, ero convinto di poter dire in ogni momento chi era turbato e a che proposito. Con tutto l'ottimismo di uno studente al primo anno di specializzazione, mi disposi a far cambiare idea alla psicologia accademica. Ideai un esperimento per dimostrare che i movimenti corporei si alterano in condizioni di stress. La fonte dello stress era il mio professore, che accettò di seguire il mio piano, interrogando i miei compagni di corso su argomenti che sapevo bene essere molto delicati per tutti noi. Mentre la cinepresa nascosta filmava il loro comportamento, il professore chiedeva a questi psicologi in erba che cosa progettavano di fare al termine degli studi. Quelli che parlavano di un lavoro di ricerca li attaccava, rimproverandoli di imboscarsi in un laboratorio eludendo la responsabilità di portare un aiuto alle persone sofferenti. A quelli che invece pensavano di dedicarsi per l'appunto alla psicoterapia rimproverava di mirare solo al guadagno e di sottrarsi alla responsabilità della ricerca, indispensabile per trovare nuovi metodi d'intervento in campo clinico. Quindi chiedeva al malcapitato se aveva fatto una psicoterapia personale: se questo rispondeva di sì, gli domandava come potesse sperare di aiutare gli altri se era lui per primo malato; se la risposta era «No», gli contestava di voler aiutare gli altri senza prima conoscere se stesso. Era una situazione disperata. Per peggiorare le cose, il professore interrompeva continuamente, senza lasciare mai allo studente il tempo di rispondere alle sue frecciate. Gli studenti si erano prestati come volontari a questa infelice esperienza per aiutare me, loro compagno di corso. Sapevano che si trattava di un'intervista a fini di ricerca e sapevano che ci sarebbe stato dello stress, ma saperlo non fu per loro di grande conforto, una volta cominciato il colloquio. Al di fuori dell'esperimento il professore, che ora si comportava in maniera così bizzarra, aveva su di loro un potere enorme. Il suo giudizio era cruciale ai fini della laurea e le sue referenze sarebbero state determinanti per trovare lavoro dopo l'università. Dopo qualche minuto i soggetti boccheggiavano: nell'impossibilità di andarsene o di difendersi, ribollenti di rabbia frustrata, erano ridotti al silenzio o a suoni inarticolati. Questa tortura durava poco: prima di cinque minuti il professore metteva fine alle loro sofferenze, spiegando che cosa aveva fatto e perché e lodando il malcapitato per aver saputo reggere così bene allo stress. Io osservavo la scena attraverso uno schermo unidirezionale e manovravo la cinepresa. Alla primissima intervista, quasi non credevo ai miei occhi: dopo il terzo attacco, la ragazza puntava il dito medio contro il professore, nel gesto convenzionale di «Va' a farti fottere». Rimase con la mano in quella posizione per quasi un minuto, eppure non sembrava fuori di sé dalla rabbia, né il professore dava l'impressione di averlo notato (Fig. 4-1). Appena finita l'intervista, mi precipitai nella stanza. Tutti e due mi dissero che me l'ero inventato: la ragazza ammetteva di essersi arrabbiata ma negava assolutamente di averlo manifestato e il professore dal canto suo diceva che non avrebbe potuto sfuggirgli un gesto osceno. Quando la pellicola fu sviluppata, la prova era lì. Questo lapsus gestuale non esprimeva un sentimento inconscio: la studentessa sapeva di essere arrabbiata, non consapevole era invece l'espressione di quei sentimenti. Non si rendeva conto di aver fatto un gesto osceno al suo persecutore. Erano trapelati in un gesto involontario i sentimenti che cercava di dissimulare. Figura 4-1. L'intervista agli studenti. Per dimostrare che i movimenti corporei si alterano in condizioni di stress, si ideò il seguente esperimento: si invitò un insigne docente universitario ad interrogare alcuni studenti su un argomento per loro molto delicato: che cosa avrebbero fatto dopo la laurea? Ad ogni loro possibile risposta, la reazione del professore era comunque di notevole disapprovazione. Alla prima intervista, una studentessa puntò il dito medio contro il professore mantenendo la posizione per quasi un minuto. Eppure non sembrava fuori di sé dalla rabbia, né il professore dava l'impressione di averlo notato. Quindici anni dopo ho osservato lo stesso tipo di segnale rivelatore non verbale, un altro lapsus gestuale, nell'esperimento con le allieve infermiere che cercavano di nascondere le loro autentiche reazioni alle scene raccapriccianti del documentario medico. Stavolta si trattava di una scrollata di spalle. Una dopo l'altra le ragazze alzavano impercettibilmente le spalle mentre rispondevano con una bugia alle domande dell'intervistatore («Ha voglia di vederne ancora?», «Lo farebbe vedere a un bambino questo film?»). Fare spallucce e mostrare il dito sono due esempi di gesti emblematici, veri e propri segnali convenzionali, a differenza di tutti gli altri gesti. Questi segnali non verbali hanno un senso molto preciso, noto a tutti nell'ambito di un certo gruppo culturale. Per qualunque americano il dito medio puntato vuol dire «Va' a farti fottere» e stringersi nelle spalle significa «Non lo so», «Non so che fare» o «Che importa?». La maggior parte degli altri gesti non hanno una definizione così precisa e il loro significato è vago. Senza parole, i gesti non significano molto. Non così i gesti convenzionali che possono essere usati in luogo di parole, o quando non si può parlare. Oggi negli Stati Uniti sono in uso circa 60 di questi segnali gestuali (il vocabolario gestuale è diverso da un paese all'altro e spesso a seconda dei gruppi regionali in uno stesso paese). Alcuni esempi di altri gesti emblematici comuni: annuire, scuotere la testa, chiamare con la mano, fare ciao, le dita in croce («Vergogna!»), la mano all'orecchio («Parla più forte»), il pollice alzato dell'autostoppista, ecc.65 Questo tipo di gesti è quasi sempre eseguito deliberatamente: chi fa un gesto del genere sa quello che sta facendo, ha deciso di formulare un messaggio. Ma ci sono delle eccezioni. Come esistono i lapsus linguae, così ci sono anche i lapsus gestuali: il soggetto si lascia sfuggire un gesto che tradisce qualcosa che sta cercando di nascondere. Ci sono due elementi che permettono di capire che un certo gesto è involontario, un vero e proprio lapsus che tradisce un'informazione nascosta, e non un messaggio intenzionale. Uno è che viene eseguito solo un frammento del gesto, non l'intera azione. La scrollata di spalle, per esempio, può essere eseguita sollevando entrambe le spalle, ruotando il palmo delle mani verso l'alto, con mimica (sopracciglia sollevate, palpebra abbassata, bocca a ferro di cavallo), oppure combinando tutte queste azioni, magari piegando la testa di lato. Quando abbiamo a che fare con un lapsus, comparirà un unico elemento e anche quello incompleto: una sola spalla alzata e di poco, il labbro inferiore che si solleva, la rotazione della mano appena accennata. Il gesto osceno col dito non implica solo una certa posizione delle dita, ma anche il movimento, spesso ripetuto, della mano in avanti e verso l'alto: nel caso della studentessa, dove il gesto non era volontario ma tradiva la sua collera repressa, il movimento mancava del tutto. La seconda spia che segnala un lapsus anziché un messaggio deliberato è che l'azione è eseguita fuori della normale posizione di presentazione. Questi gesti infatti sono eseguiti normalmente in faccia al destinatario, all'altezza del torso. Non è possibile che il segnale passi inosservato in questa posizione. Quando sfugge involontariamente, il gesto non è mai eseguito nella posizione regolamentare. Così la studentessa puntava il dito contro il professore, ma tenendo la mano ferma su un ginocchio, e nell'esperimento con le allieve infermiere, le scrollate di spalle erano ridotte ai minimi termini: lievi rotazioni delle mani, tenute in grembo. Se il gesto non fosse frammentario e fuori posto, il soggetto che mente se ne accorgerebbe e censurerebbe il movimento in questione. Naturalmente, queste caratteristiche che distinguono i lapsus gestuali dai segnali consapevoli rendono difficile anche agli altri notarli. Può succedere che il mentitore si lasci sfuggire ripetutamente uno di questi gesti rivelatori, senza che se ne avvedano né lui né la vittima. Non è affatto garantito che il bugiardo incorra in uno di questi lapsus gestuali. Le ricerche a tutt'oggi sono troppo scarse per poter valutare la frequenza del fenomeno. Dei cinque studenti tormentati dal professore, due hanno presentato un lapsus gestuale; nel gruppo delle allieve infermiere, il fenomeno si presentava nella metà abbondante dei casi. Non so perché alcuni si lascino sfuggire questi gesti rivelatori e altri no.66 Se è vero che non capitano sempre, quando si presentano i lapsus gestuali sono un segno molto attendibile. Possiamo fidarcene come segno autentico di un messaggio che la persona non vorrebbe rivelare. La loro interpretazione è molto meno esposta ai rischi dell'effetto Brokaw o dell'errore di Otello, rispetto alla maggior parte degli altri indizi di falso. Mentre alcuni parlano sempre in maniera indiretta e tortuosa, sono davvero pochi quelli che commettono regolarmente lapsus gestuali. Gli intoppi del discorso possono indicare uno stress di qualunque genere, non solo quello legato alla menzogna. Invece i lapsus gestuali, dal momento che il gesto convenzionale ha un messaggio molto specifico, proprio come le parole, non sono così ambigui: se una persona si lascia sfuggire il gesto che indica «Va' a farti fottere», «Sono arrabbiato», «No» o «Laggiù», non dovrebbero esserci grandi problemi a interpretare che cosa pensi in realtà. Che gesto in particolare sfugga come un lapsus durante una bugia, quale messaggio trapeli, dipende da quello che si cerca di dissimulare. Gli studenti sottoposti a quella specie di terzo grado dal professore cercavano di nascondere la rabbia e l'indignazione: i gesti emblematici sfuggiti a due di loro erano infatti il dito puntato e un pugno chiuso. Nell'esperimento con le allieve infermiere, il sentimento in questione non era la collera, ma la sensazione di non riuscire a simulare abbastanza bene: ecco che il lapsus gestuale era una spallucciata. Non c'è bisogno di insegnare a nessuno il vocabolario dei gesti convenzionali: ciascuno conosce il significato di quelli in uso nella sua cultura. Quello che invece molti non sanno è che questi segnali possono presentarsi sotto forma di lapsus: se non è messo sull'avviso, chi vuole smascherare una bugia non coglierà questi segni rivelatori perché sono frammentari e compaiono fuori della sede deputata di presentazione. G l i illustratori sono un altro tipo di movimento corporeo che può offrire indizi di falso. Si confondono spesso con i gesti emblematici, ma è importante distinguerli perché i due tipi di movimento possono subire un'alterazione di segno opposto in concomitanza con le menzogne: i lapsus gestuali tendono ad accentuarsi, mentre i gesti illustrativi di solito diminuiscono. Questi gesti devono il loro nome al fatto che illustrano il discorso mentre viene pronunciato. I modi sono vari: si può dare enfasi a una parola o a un'espressione, come un segno d'accento o una sottolineatura; si può tracciare in aria il percorso del pensiero, come se chi parla conducesse materialmente il discorso; le mani possono disegnare un'immagine o mostrare un'azione, ripetendo o amplificando ciò che si sta dicendo. Sono le mani di solito a illustrare il discorso, ma anche i movimenti delle sopracciglia e delle palpebre possono intervenire spesso a sottolineare le parole, come possono servire allo scopo il tronco e tutto il corpo. L'atteggiamento sociale, quanto al maggiore o minore decoro dei gesti illustrativi, ha oscillato nel corso dei secoli. Ci sono stati periodi in cui erano appannaggio delle classi dominanti, altri in cui sono stati considerati segno di ineducazione. Nei libri di oratoria si trovano normalmente descritti i gesti di illustrazione e commento utili per far presa sull'uditorio. Lo studio scientifico dei gesti illustrativi non è partito inizialmente per mettere in luce indizi di falso, ma con tutt'altro scopo: contestare le affermazioni degli scienziati nazisti. I risultati di quelle ricerche possono servire a evitare errori dovuti all'ignoranza delle differenze culturali in questo tipo di gestualità. Negli anni '30 comparvero in Germania molti articoli che affermavano che gli illustratori sarebbero una caratteristica innata e che le “razze inferiori”, come gli ebrei o gli zingari, gesticolano molto parlando, a differenza degli ariani, la razza “superiore” (non si faceva cenno, però, alla grandiosa gestualità degli alleati italiani!). David Efronx,67 un ebreo argentino che studiava alla Columbia University con l'antropologo Franz Boas, si mise allora a esaminare i gesti illustrativi usati da persone di varia origine che vivevano nel Lower East Side di New York. Trovò che gli immigrati siciliani ricorrevano ai gesti per tracciare figure o mostrare azioni, mentre gli ebrei lituani usavano illustratori che aggiungevano enfasi al discorso o delineavano il corso dei pensieri. I figli di questi immigrati, che erano nati negli Stati Uniti e frequentavano scuole integrate, non differivano fra loro nell'uso dei gesti illustrativi: i figli degli immigrati siciliani gesticolavano in maniera indistinguibile dai coetanei ebrei. In questo modo Efron dimostrava che lo stile dei gesti illustrativi è acquisito, non innato. Non solo ci sono differenze nel tipo di illustratori usato in questa o quella cultura, ma in alcune il loro uso è abbondantissimo, in altre ridotto al minimo. Anche all'interno di una stessa cultura, ci sono grosse differenze individuali.68 Non è quindi il numero puro e semplice di questi gesti o il loro tipo che può tradire una bugia. L'indizio viene dall'osservare una diminuzione dei gesti illustrativi, quando una persona parlando gesticola meno del suo solito. Per evitare di fraintendere le ragioni per cui può intervenire una diminuzione in questo o quel caso, bisogna prima spiegare un po' meglio perché la gente ricorre a questi movimenti per accompagnare il discorso. Anzitutto consideriamo perché mai si gesticola in generale. I gesti illustrativi sono usati per spiegare idee difficili da mettere in parole. Abbiamo trovato che sono più frequenti se chiediamo a una persona di definire che cosa vuol dire “zigzag” che non “sedia”, più frequenti dovendo spiegare la strada per andare all'ufficio postale che per esporre le proprie scelte professionali. Gli illustratori sono usati anche quando non si riesce a trovare una parola: far schioccare le dita o allungare la mano nel vuoto sembra che aiuti a trovare la parola, come se questa galleggiasse da qualche parte intorno. Se non altro questi gesti servono a far capire all'interlocutore che la ricerca è in corso e che non si è ancora finito di parlare. Gli illustratori possono anche servire a darsi l'imbeccata da soli, in modo da mettere insieme un discorso accettabilmente coerente. La gestualità aumenta di pari passo con la partecipazione al discorso: si gesticola più del solito quando si è arrabbiati, inorriditi, in preda all'agitazione, al dolore o all'entusiasmo. Ora vediamo le ragioni per cui a volte le persone gesticolano meno del solito, perché questo ci farà capire in quali occasioni tale diminuzione può essere indizio di menzogna. La prima ragione è l'assenza di investimento emotivo in quello che si dice: si tende ad accompagnare il discorso con meno gesti quando si è distratti, annoiati, disinteressati o profondamente rattristati. Uno che volesse fingere entusiasmo e partecipazione può essere tradito dal fatto che le sue parole non sono affatto accompagnate da gesti più vivaci del solito. Gli illustratori si riducono anche quando si ha difficoltà a decidere che cosa dire esattamente. Quando uno soppesa attentamente ogni parola, considerando quello che deve dire prima di aprire bocca, non gesticola molto. Quando si tiene un discorso per la prima o la seconda volta, si tratti di una lezione o di una promozione di vendite, i gesti illustrativi sono molto più contenuti di quello che saranno le volte successive, quando ormai non c'è da fare più tanta fatica per trovare le parole. Gli illustratori tendono a scomparire ogniqualvolta ci sono preoccupazione e cautela nel parlare. Tutto questo può non aver nulla a che fare con le bugie. La cautela può esser dovuta alla grossa posta che è in gioco: la prima impressione che si farà al principale, la risposta da dare a un quiz a premi, le prime parole rivolte a una persona che finora si è ammirata da lontano. Anche il bugiardo, se non ha preparato bene in anticipo la sua strategia, dev'essere cauto, soppesare attentamente tutte le parole prima di pronunciarle. Se non si è ripassato la parte, se non ha molta pratica in quel tipo particolare di menzogna, se non ha previsto le domande che gli verranno fatte, certamente nel parlare avrà una gestualità meno vivace del solito. Ma anche se l'inganno è ben preparato e chi lo conduce ha una buona pratica, i gesti illustrativi possono diminuire a causa dell'interferenza di certe emozioni (in particolare la paura), che possono ostacolare la coerenza del discorso. L'impegno richiesto per far fronte a quasi tutte le emozioni, se sono intense, distrae dal processo necessario a mettere in fila le parole. Se poi l'emozione in questione deve anche esser tenuta nascosta, è molto probabile che anche la bugia ben preparata venga pronunciata con una certa difficoltà, ed ecco allora che i gesti d'accompagnamento si riducono. Nel nostro esperimento con le allieve infermiere, quando dovevano fingere c'erano meno gesti illustrativi che quando descrivevano onestamente le loro reazioni al documentario innocuo. Il fenomeno aveva almeno due ragioni: da una parte, non erano preparate e non avevano avuto tempo di mettere a punto una linea di condotta, dall'altra erano in gioco emozioni intense: sia la paura di tradirsi che le emozioni suscitate dalla visione di scene raccapriccianti. Molti altri autori hanno confermato questo dato: quando mentono, i soggetti gesticolano meno che dicendo la verità. In queste ricerche non entravano in gioco emozioni di rilievo, ma comunque le bugie dovevano essere improvvisate. Introducendo il discorso su questo tipo di gesti, ho detto che è importante distinguerli dai segnali emblematici, perché nella menzogna i due tipi di movimento possono presentare una variazione di segno opposto: i lapsus gestuali tendono ad aumentare, mentre i gesti illustrativi diminuiscono. La differenza fondamentale fra i due tipi di gesto sta nella precisione del movimento e del messaggio, che nel caso dei gesti convenzionali sono prescritti con una certa rigidezza: non va bene un movimento qualunque, solo un gesto ben definito trasmette un messaggio anch'esso ben preciso. Gli illustratori, invece, possono implicare una vasta gamma di movimenti e possono trasmettere un messaggio vago, non univoco. Prendiamo il gesto di OK: c'è un modo solo per eseguirlo, con pollice e indice uniti; se il pollice si oppone al medio o all'anulare, il messaggio non è più tanto chiaro. E d'altro canto il significato è anch'esso molto specifico: «Va bene», «D'accordo».69 Se invece osserviamo una persona che gesticola senza udirne le parole, non riusciamo a capire granché; non così se la persona in questione esegue un gesto emblematico convenzionale. Un'altra differenza è che, pur essendo entrambi usati nella conversazione, i segni convenzionali possono sostituire le parole, mentre i gesti illustrativi per definizione accompagnano il discorso. Quando si va a caccia di menzogne, bisogna essere più cauti nell'interpretare i gesti d'illustrazione che i lapsus gestuali, a causa dell'errore di Otello e dell'effetto Brokaw. Se si nota una riduzione della gestualità, prima di concludere che la persona sta mentendo bisogna escludere tutte le altre ragioni che potrebbero indurla a pesare le sue parole. Inoltre ci sono enormi differenze individuali, cosicché non è possibile dare un giudizio se non si ha una base di confronto. Interpretare i gesti illustrativi, come la maggior parte degli altri indizi di falsità, esige una conoscenza precedente. E difficilissimo riconoscere la menzogna a una prima occhiata. La ragione per cui vale la pena di parlare di un terzo tipo di movimenti corporei, le manipolazioni, è mettere in guardia il lettore dall'interpretarli come segni di menzogna. Abbiamo trovato che un errore comune consiste nel giudicare falsa una persona che dice il vero solo perché presenta molti di questi movimenti. Le manipolazioni possono essere un segno di turbamento, ma non sempre, e un loro aumento non è segno attendibile di menzogna, anche se la gente lo crede. In questa categoria rientrano tutti quei movimenti in cui una parte del corpo cura, massaggia, strofina, trattiene, pizzica, stuzzica, graffia o comunque manipola un'altra parte del corpo. Questi gesti possono avere durata brevissima oppure continuare per molti minuti. Quelli brevi a volte sembrano avere uno scopo: rimettere a posto i capelli, pulirsi l'orecchio, grattarsi. Altri, specialmente quelli che durano a lungo, appaiono privi di scopo: avvolgere e svolgere una ciocca di capelli, strofinarsi le dita, battere colpetti col piede. Tipicamente è la mano ad eseguire la manipolazione, ma può esserne anche oggetto, come può esserlo qualunque parte del corpo (fra le più comuni: capelli, orecchi, naso). Azioni del genere possono anche essere circoscritte all'interno del viso (la lingua contro l'interno della guancia, i denti che mordicchiano le labbra), oppure essere compiute da una gamba sull'altra. Nella manipolazione possono entrare oggetti pretesto come penne, fiammiferi, sigarette, fermagli. Benché a quasi tutti sia stato insegnato a non eseguire in pubblico questi gesti, generalmente non si impara a non farli, ma solo a smettere di accorgersene. Non che ne siamo completamente inconsapevoli: se ci avvediamo che qualcuno ci sta guardando smettiamo subito, o almeno riduciamo o mascheriamo il gesto in questione, magari occultandolo abilmente in un movimento più ampio. Ma neppure questa strategia complicata per dissimulare la manipolazione è messa in atto in maniera del tutto consapevole. Si tratta di comportamenti che sono ai margini della coscienza. La maggior parte delle persone non può fare a meno di metterli in atto per lungo tempo, neppure sforzandosi. La manipolazione è un'abitudine radicata. Le persone, in genere, si comportano molto più correttamente nel ruolo di spettatore che in quello di esecutore. Chi esegue un atto di manipolazione viene lasciato tranquillo a completarlo in perfetta libertà, anche se l'ha cominciato nel bel mezzo di una conversazione: gli altri distolgono lo sguardo per discrezione, finché la manipolazione non è finita. Certo, se si tratta di una di quelle attività apparentemente prive di senso (come arricciarsi una ciocca di capelli) che si ripresentano a intermittenza all'infinito, gli altri non distolgono lo sguardo per sempre; tuttavia, evitano di guardare a lungo direttamente l'atto in questione. Questa discrezione è un'abitudine profondamente assimilata, ormai automatica. È quello che guarda, non l'altro, a violare le norme di buona creanza: come se origliasse. Quando due auto si fermano al semaforo, è quello che sbircia nel finestrino il maleducato, non l'altro che approfitta della sosta per sturarsi un orecchio. Come altri che si sono occupati dell'argomento, anch'io mi sono chiesto perché le persone eseguano un certo tipo di automanipolazione anziché un altro. Significa qualcosa se uno si massaggia invece di pizzicarsi, si stuzzica invece di grattarsi? E poi, c'è da ricavare un messaggio dal fatto che a esser grattata sia la mano, o invece l'orecchio o il naso? La risposta, in parte, sta in peculiarità squisitamente individuali. Quasi tutti hanno un gesto favorito, un tipo particolare di manipolazione che è quasi un segno distintivo: per uno può essere girarsi l'anello, per un altro strapparsi le pellicine intorno alle unghie, per un altro ancora arricciarsi i baffi. Nessuno ha cercato di scoprire perché le persone preferiscano questo o quel gesto, o perché alcuni non ne abbiano nessuno in particolare. C'è qualche dato che sembra indicare che certe azioni manipolatone rivelino qualcosa di più del semplice disagio: abbiamo notato che certi pazienti psichiatrici che non esprimono la rabbia tendono più che altro a tormentarsi qualche parte del corpo, mentre coprirsi gli occhi è un gesto comune in quelli che provano vergogna. Ma si tratta di spunti puramente indicativi, in confronto al dato più generale che la manipolazione cresce in situazioni di disagio.70 La ricerca ha sostanzialmente confermato la convinzione del profano che la gente tamburelli con le dita e si muova con irrequietezza quando è nervosa o poco a suo agio. Tutte le forme di manipolazione (grattare, strizzare, stuzzicare, rassettare, ripulire gli orifizi, ecc.) aumentano in qualunque situazione di disagio. Io credo però che le persone mostrino molti di questi comportamenti anche quando sono del tutto rilassate, a proprio agio, e si lasciano andare. Quando sono fra amici, si preoccupano meno delle buone maniere: alcuni più di altri si lasceranno andare a comportamenti (dai rutti alle più varie manipolazioni) che nella maggior parte delle situazioni sono almeno in parte tenuti a freno. Se è così, allora le manipolazioni sono segni di disagio solo nelle situazioni più formali, in presenza di persone con le quali non c'è tanta familiarità. Questi movimenti semiautomatici sono inattendibili come indizi di falso, perché possono indicare stati d'animo opposti: malessere e rilassamento. Non solo, ma chi mente sa bene che deve cercare di reprimere questi gesti e generalmente ci riesce, almeno per qualche tempo. Non è che questo richieda una qualche speciale cognizione: è parte del senso comune corrente che i movimenti di manipolazione siano segni di nervosismo e di disagio. Chiunque pensa subito che il bugiardo tamburelli nervosamente con le dita, per tutti l'irrequietezza è un segno che desta sospetti. Quando abbiamo chiesto ai nostri soggetti come avrebbero fatto a dire se una persona mente o no, al primo posto nell'elenco dei segni abbiamo trovato “contorcersi sulla sedia” e “sfuggire lo sguardo”. Indizi di cui tutti sono al corrente, che implicano un comportamento facile da inibire, non sono molto attendibili se la posta in gioco è alta e chi mente non vuol essere scoperto. Le nostre allieve infermiere non mostravano un aumento delle manipolazioni mentre mentivano all'intervistatore. Altre ricerche hanno invece riscontrato una crescita di questi comportamenti durante la menzogna. Sono convinto che è la differenza delle poste in gioco il fattore che può spiegare questa contraddizione. Quando la posta è alta, le azioni manipolatorie possono essere intermittenti, perché probabilmente sono in azione forze contrarie: la grossa posta in gioco fa sì che il mentitore sorvegli e controlli quei comportamenti, come appunto le manipolazioni, che sono accessibili alla coscienza e che sa bene che possono tradirlo, ma nello stesso tempo la posta alta induce una maggiore ansia e il disagio a sua volta tende ad accentuare i comportamenti in questione. Può succedere allora una sequenza di questo genere: la manipolazione cresce, viene notata e soffocata, scompare per qualche tempo, ricompare e poi di nuovo viene notata e soppressa. Data l'alta posta in gioco, le allieve infermiere del nostro esperimento si impegnavano molto per controllare questi gesti. Nelle ricerche che hanno messo in luce un aumento di manipolazione durante la menzogna, la posta in gioco invece era minima. Nella nostra ricerca sulla capacità di giudicare la sincerità e la menzogna, abbiamo notato che i soggetti consideravano bugiardi quelli che presentavano molti gesti manipolatori. Dicessero il vero o no, gli osservatori li classificavano come disonesti se si manipolavano molto. E importante rendersi conto della probabilità di incorrere in questo errore. Rivediamo un momento le varie ragioni per cui i comportamenti di manipolazione non sono indizi attendibili. C'è un'enorme variabilità individuale nella frequenza e nel tipo di manipolazioni abituali. A questo problema delle differenze individuali (l'effetto Brokaw) si può ovviare se si ha una certa conoscenza precedente dell'indiziato e si possono fare raffronti. Anche l'errore di Otello interferisce nell'interpretazione delle manipolazioni, in quanto queste aumentano nelle situazioni di disagio di qualunque genere. Ciò costituisce un problema anche per altri indizi d'inganno, ma è particolarmente acuto in questo caso, dal momento che le manipolazioni non sono soltanto segni di disagio: in qualche caso (per esempio, in compagnia di amici con cui c'è una grande familiarità) possono testimoniare anche rilassamento e tranquillità. Tutti pensano che un eccesso di manipolazioni tradisca le bugie e quindi un mentitore motivato cercherà di inibirle. A differenza dell'espressione del viso, un'altra fonte di indizi che si può cercar di controllare, le manipolazioni sono piuttosto facili da inibire: se la posta è alta, chi mente ci riuscirà almeno in parte. Un altro aspetto del corpo, la postura, è stato esaminato da vari ricercatori, ma senza che si riuscisse a dimostrare l'esistenza di indizi posturali capaci di tradire la menzogna. La gente sa bene come deve stare seduta o in piedi: la posizione richiesta da un colloquio formale non è quella che si prende quando si chiacchiera con un amico. A quanto pare, la postura è ben controllata e governata quando si mente. Né io né altri che hanno studiato l'inganno e i suoi indizi abbiamo trovato differenze posturali nei soggetti mentre mentivano o dicevano il vero.71 INDIZI DAL SISTEMA VEGETATIVO Finora abbiamo parlato di risposte corporee prodotte dai muscoli scheletrici. Anche il sistema nervoso autonomo produce alcune alterazioni somatiche degne di nota, in concomitanza con le emozioni: nella respirazione, nella frequenza della deglutizione e nella sudorazione (i fenomeni vegetativi che si manifestano nel viso, come rossore, pallore e dilatazione delle pupille, saranno trattati nel capitolo seguente). Questi cambiamenti intervengono involontariamente quando c'è un'eccitazione emotiva, sono difficilissimi da inibire e per questo possono rappresentare indizi molto attendibili per scoprire eventuali menzogne. Il poligrafo, il cosiddetto lie-detector o “macchina della verità”, misura appunto queste alterazioni vegetative, ma molte di esse sono visibili senza necessità di ricorrere a speciali apparecchi. Se l'individuo che mente prova paura, rabbia, eccitazione, dolore, senso di colpa o vergogna, può esserci benissimo accelerazione del respiro, col petto che si solleva visibilmente, deglutizione frequente, sudorazione abbondante. A lungo gli psicologi hanno discusso se ad ogni singola emozione corrisponda un quadro particolare di alterazioni vegetative, oppure no. La maggioranza pensa che non ci sia questa corrispondenza e che qualunque emozione provochi accelerazione del respiro, sudorazione e deglutizione. Le alterazioni prodotte dal sistema nervoso autonomo indicherebbero quanto è intensa un'emozione, non di che emozione si tratta. Questa idea contraddice l'esperienza comune: proviamo sensazioni fisiche diverse quando abbiamo paura, per esempio, o quando invece siamo arrabbiati. La cosa, secondo molti autori, si spiega col fatto che nei due stati emotivi interpretiamo diversamente lo stesso insieme di sensazioni corporee, ma non prova che l'attività vegetativa di per sé differisca in situazioni di paura e di collera.72 Le mie ricerche più recenti, avviate quando avevo quasi terminato questo libro, mettono in crisi questa conclusione. Se i miei risultati sono esatti e se le modificazioni vegetative non sono uniformi ma specifiche alle singole emozioni, avremmo una risorsa importante per lo smascheramento della menzogna. In altre parole, sarebbe possibile scoprire, in base al tracciato del poligrafo e in qualche misura anche semplicemente guardando e ascoltando, non solo se l'indiziato è in uno stato di eccitazione emotiva, ma anche che emozione prova: ha paura o è arrabbiato, è triste o disgustato? Informazioni in questo senso si possono ricavare anche dal viso, come vedremo nel prossimo capitolo, ma mentre è possibile inibire gran parte delle reazioni mimiche, quelle vegetative sono molto più difficili da censurare. Due problemi, secondo me, avevano impedito di dimostrare che le varie emozioni producono quadri distinti di attività neurovegetativa, e per entrambi mi è sembrato di aver trovato la soluzione. Un problema è quello di ottenere esemplari “puri” di emozioni. Per mettere a confronto le alterazioni vegetative in situazioni di paura e quelle che accompagnano la collera, il ricercatore dev'esser certo che i soggetti provino l'una o l'altra emozione. Dato che la misurazione delle modificazioni causate dal sistema nervoso autonomo richiede un'apparecchiatura complessa, gli esemplari in questione devono essere raccolti in laboratorio. Il problema è come fare a suscitare emozioni in un ambiente sterile, non naturale. E come si fa a suscitare solo la paura o la rabbia e non entrambe contemporaneamente? Va da sé che è importantissimo evitare di produrre quella che si chiama una miscela di emozioni diverse. Se non si riesce a tener separate le emozioni, se non otteniamo dei campioni puri, non c'è modo di determinare se l'attività neurovegetativa differisca nelle singole emozioni. Non è facile evitare le mescolanze, in laboratorio come nella vita reale: le miscele emotive sono più comuni delle emozioni pure. La tecnica più comune per produrre in laboratorio certi tipi di emozione è chiedere al soggetto di ricordare o immaginare una situazione, per esempio, di paura. Supponiamo che il soggetto immagini di essere attaccato alle spalle da un rapinatore. Il ricercatore dev'essere certo che oltre alla paura il soggetto non provi anche un po' di rabbia, o contro l'aggressore o contro se stesso, per essersi impaurito così o per essersi cacciato stupidamente nei guai. Gli stessi rischi di ottenere miscele anziché emozioni pure si hanno con altre tecniche sperimentali. Supponiamo che si presenti al soggetto un film pauroso, per esempio la famosa scena di Psycho in cui Janet Leigh è accoltellata sotto la doccia da Tony Perkins: ecco che il soggetto può arrabbiarsi col ricercatore perché cerca di fargli paura, o magari con se stesso perché si lascia impressionare, o ancora con l'assassino del film, oppure può provare disgusto per il sangue che scorre, dolore per la vittima, sorpresa per l'azione improvvisa, ecc. Non è tanto facile mettere a punto un metodo per ottenere esemplari puri di emozioni. La maggior parte degli autori che hanno studiato le alterazioni vegetative si è limitata a supporre, a mio avviso sbagliando, che i soggetti facessero esattamente quello che volevano loro e quando lo volevano, producendo senza difficoltà le emozioni desiderate allo stato puro. Nessuno si è curato di prendere precauzioni per garantire o verificare che i suoi campioni di emozioni fossero davvero non inquinati. Il secondo problema nasce dalla necessità di ottenere le risposte emotive in laboratorio ed è legato all'impatto con le apparecchiature usate per la ricerca. La maggior parte dei soggetti, già quando varca la porta, è preoccupata di quello che potrà succedere. Poi le cose si complicano: per misurare le risposte vegetative si devono applicare elettrodi in varie parti del corpo e se anche ci limitiamo a registrare respirazione, ritmo cardiaco, temperatura corporea e sudorazione, i cavetti cominciano a essere numerosi. Trovarsi lì impacchettati, coi ricercatori che si danno da fare per scrutare quello che succede all'interno del corpo e spesso con le telecamere puntate per registrare ogni segno visibile, imbarazza quasi tutti. Anche l'imbarazzo è un'emozione e se produce un'attività vegetativa, ecco che i suoi effetti si insinueranno in ogni campione di emozione che si cerca di ottenere. Il ricercatore può pensare che il soggetto ricordi ora un episodio di paura, ora un episodio di rabbia, ma quello magari in entrambi i momenti prova solo una sensazione di imbarazzo. Nessuno si è preoccupato di ridurre l'imbarazzo, né di verificare che questo non inquinasse le emozioni oggetto dell'esame. Con i miei colleghi abbiamo eliminato il problema dell'imbarazzo scegliendo come soggetti degli attori professionisti.73 Gli attori sono abituati ad essere scrutati con attenzione e non si turbano quando qualcuno spia ogni loro mossa. Anziché imbarazzo, hanno avuto piacere all'idea che volessimo registrare attraverso gli elettrodi quello che succedeva all'interno del loro organismo. Il fatto di studiare degli attori ci è servito anche a risolvere il primo problema: come ottenere campioni puri di emozioni. Potevamo avvalerci del loro lungo addestramento col metodo Stanislavski, che sviluppa la capacità di ricordare e rivivere le emozioni. Gli attori praticano regolarmente questa tecnica, cosicché possono utilizzare i ricordi sensoriali per rappresentare un certo ruolo. Nel nostro esperimento chiedevamo ai soggetti, collegati al poligrafo e con le telecamere puntate sul viso, di ricordare e rivivere il più intensamente possibile un momento in cui avevano provato più rabbia che in tutta la vita e poi di nuovo la stessa cosa per la paura, la tristezza, la sorpresa, la felicità e il disgusto. Già altri avevano usato questa tecnica prima di noi, ma pensavamo di avere migliori probabilità di successo perché ci servivamo di professionisti addestrati proprio in questo metodo, che non avrebbero provato alcun imbarazzo. Inoltre, non davamo per scontato che i soggetti eseguissero esattamente quello che chiedevamo noi e abbiamo fatto una verifica per accertarci che le emozioni attivate fossero pure e non inquinate: dopo ogni rievocazione e riattivazione, chiedevamo al soggetto di indicare l'intensità con cui aveva provato l'emozione richiesta e se ne avesse provate altre. Abbiamo quindi escluso dalla ricerca tutte le prove in cui i nostri attori riferivano di aver avvertito altre emozioni oltre a quella desiderata. Il fatto di avere fra le mani degli attori ci ha permesso di tentare una seconda tecnica per ricavare esemplari puri delle varie emozioni, una tecnica mai usata in precedenza. L'avevamo scoperta per caso anni prima, nel corso di un'altra ricerca. Per studiare la meccanica delle espressioni del viso (quali muscoli esattamente producono le varie espressioni), i miei colleghi ed io abbiamo eseguito sistematicamente migliaia di movimenti dei muscoli del viso, filmando e analizzando i risultati, per verificare in che modo ogni singola combinazione di contrazioni muscolari ne modifica l'aspetto. Con nostra sorpresa, mentre eseguivamo le azioni muscolari attinenti alle varie emozioni, avvertivamo improvvisamente dei cambiamenti delle funzioni corporee, alterazioni dovute all'attività del sistema nervoso autonomo. Non avevamo nessuna ragione di sospettare che muovere intenzionalmente i muscoli facciali potesse produrre involontari cambiamenti neurovegetativi, ma il fenomeno si ripeteva con regolarità. Non sapevamo ancora se la risposta neurovegetativa fosse diversa in concomitanza con le varie mimiche dell'emozione. Abbiamo quindi indicato agli attori quali muscoli facciali esattamente muovere. Le istruzioni erano di sei tipi, una per ognuna delle sei emozioni che ci interessavano. Non imbarazzati dal compito né dal fatto di essere osservati mentre lo eseguivano ed abili com'erano nella mimica, hanno soddisfatto senza sforzo quasi tutte le nostre richieste. Ancora una volta, non ci siamo fidati soltanto delle loro capacità, ma abbiamo utilizzato solo quelle videoregistrazioni che a un esame analitico dimostravano che i soggetti avevano effettivamente eseguito tutti i movimenti richiesti. Dal nostro esperimento sono emerse convincenti indicazioni che le risposte neurovegetative non sono le stesse in tutte le emozioni. Le alterazioni del ritmo cardiaco, della temperatura corporea e della sudorazione sono diverse nei vari casi. Per esempio, quando i soggetti eseguivano i movimenti muscolari corrispondenti alla mimica della rabbia e a quella della paura (si ricordi che l'istruzione non era di fingere le emozioni, ma semplicemente di eseguire certe contrazioni muscolari), il ritmo cardiaco si accelerava in entrambi i casi, ma la temperatura corporea aumentava per la collera e diminuiva per la paura. Abbiamo appena finito di ripetere l'esperimento con altri soggetti, ottenendo gli stessi risultati. Se questi dati saranno replicati da altri ricercatori, potrebbero cambiare la situazione per quanto riguarda le informazioni che si possono estrarre dai tracciati della “macchina della verità”. Invece di cercare di scoprire soltanto se l'indiziato è in preda a un'emozione qualunque, si potrebbe stabilire, in base a una serie di indici neurovegetativi, quale emozione sta provando. Anche senza apparecchiature, si potrebbero notare alterazioni nella respirazione o nella sudorazione, indicative di emozioni ben precise. Gli errori (sia a danno dell'innocente non creduto che a vantaggio del bugiardo) potrebbero diminuire se l'attività del sistema nervoso centrale, che è difficilissimo inibire, potesse rivelarci quale emozione prova la persona sotto esame. Finora non sappiamo se sia possibile distinguere le emozioni in base soltanto ai segni visibili e udibili di attività neurovegetativa, ma ora c'è comunque una buona ragione per cercare di scoprirlo. In che modo i segni di specifiche emozioni (dalla mimica, dal corpo, dalla voce, dalle parole o dalle reazioni vegetative) possono servire a determinare se una persona mente o dice la verità, oltre ai rischi di errori e alle precauzioni per evitarli, sarà argomento del Cap. VI. Nel Cap. II ho spiegato che ci sono due modi principali di mentire: dissimulare e fingere. Finora, in questo capitolo, mi sono occupato dei tentativi di dissimulare i sentimenti e di come essi possano esser traditi dalle parole, dalla voce o dal corpo. Chi mente può anche simulare un'emozione, quando è richiesta dalla parte, oppure quando deve camuffarne un'altra, autentica. Per esempio, uno può fingere un'aria triste alla notizia che il cognato ha fatto bancarotta: se la cosa lo lascia del tutto indifferente, l'espressione falsa serve a mostrare il contegno dovuto in questi casi, ma se in segreto il nostro è felice della disgrazia dell'altro, allora l'espressione afflitta serve anche a mascherare i suoi veri sentimenti. E possibile che le parole, la voce o i movimenti del corpo tradiscano la falsità di espressioni del genere, rivelando che la manifestazione emotiva non è sentita? Non si sa. I difetti nella falsa rappresentazione di emozioni sono stati studiati meno a fondo rispetto al problema inverso delle emozioni che si cerca di occultare e tuttavia vengono alla luce. Tutto quello che posso fare è presentare alcune mie osservazioni e impressioni. Mentre le parole sono fatte apposta per inventare e costruire, non è facile per nessuno, sincero o no, descrivere a parole le sue emozioni. Solo un poeta sa comunicare le sfumature sottili rivelate da un'espressione. Forse non è per nulla più difficile dichiarare a parole un sentimento falso che uno autentico: di solito né l'una né l'altra dichiarazione risulterà molto eloquente, elaborata o convincente. Sono la voce, il corpo, l'espressione del viso a dare un significato all'enunciazione verbale di un sentimento. Personalmente, sospetto che la maggior parte della gente sia in grado di fingere la voce della rabbia, della paura, del dolore, della felicità, del disgusto o della sorpresa abbastanza bene da trarre in inganno gli altri. Mentre è molto difficile occultare l'alterazione della voce che accompagna queste emozioni, non è così difficile falsificarla. La maggior parte delle persone probabilmente si lascia ingannare dalla voce. Neanche certe reazioni neurovegetative sono difficili da simulare. Se non è facile nascondere i segni dell'emozione che si manifestano nella respirazione o nella deglutizione, non ci vuole nessuna particolare arte per fingerli, accelerando il respiro o deglutendo spesso (il sudore è un altro discorso, difficile da nascondere e difficile da produrre su richiesta). Comunque, non credo che molti lo facciano di proposito per fingere collera o paura. Allo stesso modo, per quanto non sia affatto impossibile accentuare i gesti manipolatori per dare l'impressione di essere a disagio, pochi probabilmente si ricorderanno di farlo quando è il caso. Quanto ai gesti illustrativi, possono essere eseguiti ad arte, probabilmente senza molto successo, per dare l'impressione di partecipazione e di entusiasmo verso quello che si dice, quando la cosa ci lascia invece indifferenti. I giornali dicevano, per esempio, che Nixon e Ford erano stati istruiti ad accentuare i gesti di illustrazione. Guardandoli in televisione, pensavo che queste lezioni spesso li facevano sembrare falsi. È difficile collocare di proposito un gesto esattamente dove dev'essere in relazione alle parole: spesso è in anticipo, o in ritardo, o dura troppo a lungo. È un po' come cercar di sciare pensando via via ogni singola azione mentre la si esegue: la coordinazione è approssimativa e si vede. Ho descritto indizi comportamentali che possono lasciar trasparire informazioni che dovrebbero restare nascoste, indicare che la linea di condotta non è stata ben preparata, o tradire un'emozione che non corrisponde a quello che si vuol dare ad intendere. Lapsus, sia verbali che gestuali, e tirate oratorie incontrollate possono lasciar emergere informazioni d'ogni tipo: emozioni, azioni passate, progetti, intenzioni, idee, fantasie, ecc. Circonlocuzioni e discorsi evasivi, pause, errori nel parlare, diminuzione dei gesti illustrativi sono tutti segni che possono indicare che chi parla è molto cauto, non avendo preparato bene quello che deve dire. Tutti questi sono indizi di una qualunque emozione negativa, non meglio identificata. Una minore gesticolazione accompagna inoltre una situazione di noia e disinteresse. Un tono di voce più acuto, un parlare più forte e più rapido si hanno nella rabbia, nella paura e forse nell'eccitazione. L'alterazione della voce è di segno opposto nel caso della tristezza e forse del senso di colpa. Modificazioni del respiro o della sudorazione, una frequente deglutizione e la bocca molto arida sono segni di emozioni intense e forse in futuro si potrà determinare più esattamente di che emozioni si tratta, considerando il quadro d'insieme di questi segni neurovegetativi. V Indizi di menzogna nel viso Il viso può essere una fonte preziosa d'informazioni per chi cerca di scoprire gli inganni. Il viso è infatti capace di mentire e dire la verità e spesso fa entrambe le cose contemporaneamente. Contiene allora due messaggi: ciò che il bugiardo vuol mostrare e ciò che vuole nascondere. Alcune espressioni sono al servizio della bugia, fornendo false informazioni, ma altre la tradiscono perché appaiono finte e perché a volte i sentimenti autentici traspaiono malgrado gli sforzi per dissimularli. Espressioni false ma convincenti possono comparire in un dato momento e il momento successivo esser seguite da espressioni autentiche che traspaiono involontariamente. E possibile perfino che il vero e il falso si mostrino in parti diverse del viso, componendo un'unica espressione mista. Io credo che la ragione per cui la maggior parte delle persone non riesce a indovinare le bugie guardando in viso chi parla sia proprio che non sa distinguere le espressioni autentiche da quelle fittizie. Le espressioni vere, sentite, dell'emozione si presentano perché il movimento dei muscoli facciali può essere involontario, senza che intervengano pensieri o intenzioni. Quelle false compaiono perché c'è un controllo volontario sul proprio viso, che permette di inibire la mimica autentica e assumere un'espressione finta. Il viso è un sistema duplice, che comprende espressioni scelte intenzionalmente ed altre che emergono in maniera spontanea, a volte senza che l'interessato nemmeno sappia che cosa si dipinge sul suo stesso viso. C'è un territorio intermedio fra il volontario e l'involontario, occupato da espressioni che sono state apprese un tempo, ma hanno finito per agire automaticamente senza una scelta volontaria, o magari addirittura a dispetto delle intenzioni, in maniera tipicamente inconsapevole. Manierismi e abitudini assimilate che costringono a tenere a bada certe espressioni (come l'incapacità di manifestare collera verso figure d'autorità) sono esempi di questo tipo. Ma quelle che mi interessano qui sono le false espressioni volontarie, intenzionali, reclutate ai fini di un tentativo di trarre in inganno gli altri, e quelle espressioni emotive involontarie e spontanee che possono di quando in quando lasciar trasparire gli autentici sentimenti malgrado gli sforzi per celarli. Gli studi su pazienti che presentano vari tipi di lesioni cerebrali dimostrano con evidenza drammatica come la mimica volontaria e quella involontaria chiamino in causa parti diverse del cervello. Pazienti colpiti in una zona che coinvolga i cosiddetti sistemi piramidali, per esempio, sono incapaci di sorridere su richiesta, ma sorridono spontaneamente quando si divertono. Se invece la lesione tocca una zona interessata da sistemi extrapiramidali, il quadro è ribaltato: il paziente può eseguire un sorriso su richiesta, ma rimane impassibile quando qualcosa lo diverte. I pazienti con lesioni al sistema piramidale dovrebbero essere incapaci di mentire con l'espressione del viso, non potendo inibire la mimica involontaria o assumere espressioni false. Gli altri, colpiti nei sistemi extrapiramidali, dovrebbero essere capaci di ottime finzioni mimiche, non dovendo inibire nessuna espressione autenticamente sentita.74 La mimica involontaria delle emozioni è un prodotto dell'evoluzione della specie. Molte espressioni umane sono le stesse che si osservano in altri primati. Alcune mimiche emotive, almeno quelle indicanti felicità, paura, rabbia, disgusto, tristezza, sofferenza, sono universali, eguali per tutti a prescindere da età, sesso, razza o cultura.75 Queste espressioni facciali sono la fonte più ricca d'informazioni circa le emozioni, rivelando sfumature sottili di sentimenti momentanei. Il viso umano è capace di rivelare quei dettagli dell'esperienza emotiva che solo un poeta saprebbe catturare in parole. La faccia può mostrare: quale emozione si prova: collera, tristezza, disgusto, sofferenza, gioia, soddisfazione, eccitazione, sorpresa e disprezzo possono tutte esser comunicate da espressioni ben distinte; se due emozioni sono mescolate insieme: succede spesso di provare due emozioni diverse e il viso registra elementi di entrambe; l'intensità dell'emozione: ogni emozione può essere più o meno forte, dal fastidio al furore, dall'apprensione al terrore, ecc. Ma, come ho detto, il viso non è solo un sistema di segnalazione emotiva involontaria. Nei primi anni di vita il bambino impara a controllare alcune di queste mimiche, dissimulando i sentimenti autentici e fingendo l'espressione di altri che non prova. I genitori insegnano a controllare l'espressione del viso sia con l'esempio, sia più direttamente con inviti di questo tipo: «Non mi guardare con codesta aria arrabbiata»; «Fatti vedere contento quando la zia ti dà il regalo»; «Smetti di avere codesta faccia annoiata». Crescendo si imparano le regole di manifestazione tanto bene che diventano abitudini profonda mente radicate. Col tempo molte di queste regole che governano la manifestazione delle emozioni finiscono per entrare in azione automaticamente, modulando l'espressione del volto senza una decisione intenzionale e senza neppure consapevolezza. Anche quando ci si rende conto di queste norme acquisite, non sempre è possibile (e certo non è mai facile) smettere di seguirle. Una volta consolidata, un'abitudine è difficile da annullare. Sono convinto che le abitudini relative al controllo delle emozioni, appunto le regole che presiedono alla loro manifestazione, sono le più difficili da rompere. Sono queste regole apprese, talvolta diverse da cultura a cultura, che spiegano l'impressione di tanti viaggiatori che le espressioni del viso non siano una costante universale. Ho trovato, per esempio, che di fronte a un film emozionante la mimica dei giapponesi non differiva affatto da quella degli americani, purché i giapponesi fossero soli. Quando era presente un'altra persona, particolarmente una figura d'autorità, i giapponesi seguivano molto più della maggior parte degli americani precise regole di contegno che li inducevano a mascherare qualunque espressione di emozioni negative con un sorriso cortese.76 Oltre a questi controlli automatici della mimica, possiamo decidere deliberatamente, in piena consapevolezza, di censurare l'espressione dei nostri veri sentimenti o di fuggire l'espressione di un'emozione che non proviamo. La maggior parte di noi ci riesce almeno qualche volta. Quasi tutti possiamo ricordare casi in cui ci siamo lasciati ingannare completamente dall'espressione del viso di qualcuno. Tuttavia, a chiunque forse è capitata anche l'esperienza opposta: accorgersi che le parole dell'interlocutore erano false grazie a un'espressione che gli ha attraversato il volto. Quasi tutti sono convinti di saper riconoscere le espressioni finte, ma le nostre ricerche hanno dimostrato che la maggior parte delle persone non ci riesce affatto. Nel capitolo precedente ho descritto l'esperimento in cui i soggetti dovevano capire se le allieve infermiere dicevano il vero o il falso in risposta alle domande dell'intervistatore sul film che stavano vedendo. I risultati erano generalmente poco incoraggianti, ma i soggetti che dovevano basarsi soltanto sull'espressione del viso hanno ottenuto risultati peggiori che indovinando a caso: in pratica, tendevano a giudicare sincere le risposte soprattutto quando erano false. Si lasciavano convincere dalla mimica finta, ignorando le espressioni da cui trasparivano i sentimenti autentici. Quando una persona mente, le sue espressioni più evidenti, quelle più visibili e su cui si concentra l'attenzione degli altri, sono spesso false. I segni sottili da cui si potrebbe capire che quelle espressioni non sono sentite davvero, così come i cenni fuggevoli delle emozioni autentiche, passano di solito inosservati. La maggior parte dei ricercatori non si è occupata dell'espressione del viso durante le menzogne, concentrando piuttosto l'analisi su comportamenti più facili da quantificare, come i gesti illustrativi o le pause del discorso. Quei pochi che hanno preso in considerazione il viso si sono limitati al sorriso e anche il sorriso l'hanno esaminato in maniera troppo semplicistica. E risultato che il sorriso è altrettanto frequente quando si dice la verità e quando si mente. Ma questi autori non si sono curati di distinguere il tipo di sorriso. Non tutti i sorrisi sono eguali. La nostra tecnica per l'analisi della mimica è in grado di distinguere oltre cinquanta sorrisi diversi. Quando mentivano, le allieve infermiere del nostro esperimento sorridevano in maniera diversa da quando dicevano la verità. Descriverò meglio quei risultati alla fine del capitolo. Proprio perché ci sono tante espressioni diverse da distinguere, gli autori interessati alla comunicazione non verbale e alla rivelazione della menzogna hanno evitato di analizzare il viso. Fino a poco tempo fa non c'era un metodo esauriente e oggettivo per quantificare le espressioni facciali. Ci siamo messi al lavoro per sviluppare un tale metodo perché sapevamo, dalle videoregistrazioni dei nostri soggetti impegnati a fingere, che per scoprire nel viso segni di falsità ci sarebbe voluta una misurazione rigorosa. Abbiamo dedicato quasi dieci anni alla messa a punto di una tecnica per rilevare e quantificare esattamente le espressioni facciali.77 Esistono migliaia di espressioni del viso, ciascuna diversa dalle altre. Molte non hanno nulla a che fare con le emozioni ma sono segnali di conversazione, i quali, come i gesti illustrativi, sottolineano le parole o integrano la sintassi del discorso (punti interrogativi o punti esclamativi facciali). Esiste anche un certo numero di segni mimici convenzionali: la strizzata d'occhio, il sopracciglio sollevato a indicare scetticismo, la mimica che accompagna o sostituisce la spallucciata (sopracciglia sollevate, palpebre abbassate, bocca a ferro di cavallo), per citarne solo qualcuno. Ci sono anche equivalenti facciali dei gesti manipolatori, come mordersi le labbra, succhiarle o leccarle, gonfiare le gote, ecc. E poi ci sono le espressioni delle emozioni, quelle vere e quelle false. Non c'è un'unica espressione per ogni emozione ma decine e per qualcuna centinaia. A ciascuna emozione corrisponde una famiglia di espressioni, visibilmente diverse fra loro. La cosa non deve sorprendere. Non c'è infatti un'unica esperienza soggettiva per ogni singola emozione, ma una famiglia di esperienze. Consideriamo per un momento i membri della famiglia che corrisponde genericamente alla collera. La collera varia quanto a: intensità, dal fastidio al furore; controllo, da esplosiva a soffocata; tempi di avvio, da istantanea a subdola; tempi di spegnimento, da rapidi a lenti; temperatura, da calda a fredda; autenticità, dalla collera genuina a quella che si può fingere per divertimento giocando con un bambino piccolo. Se poi teniamo conto delle combinazioni della collera con altre emozioni (collera piacevole, piena di sensi di colpa, di disprezzo, di dignità offesa, ecc.), la famiglia diventa sterminata. Non sappiamo per ora se esistano mimiche diverse per ciascuna di queste diverse esperienze di collera. Io credo di sì. Già oggi abbiamo la prova che le espressioni del viso sono più numerose delle parole indicanti emozioni diverse. La mimica segnala sfumature e sottigliezze che il linguaggio non riesce a fissare in vocaboli. Il nostro lavoro di rilevamento del repertorio di espressioni facciali, per determinare esattamente quante espressioni esistono per ogni emozione, quali sono equivalenti e quali segnalano stati interni diversi ma affini, è in corso solo dal 1978. Parte di quanto dirò circa gli indizi mimici della menzogna si basa su ricerche sistematiche che utilizzano questa nuova tecnica di analisi quantitativa del viso umano, parte su migliaia di ore di osservazione attenta di videoregistrazioni. Quanto riferisco è provvisorio perché nessun altro ricercatore ha ancora cercato di replicare le nostre ricerche sulle differenze fra espressioni volontarie e involontarie. Cominciamo dalla più inafferrabile tra le fonti che, nel viso, possono far trasparire emozioni nascoste, le microespressioni. Sono espressioni che forniscono il quadro completo del sentimento che l'individuo cerca di dissimulare, ma così rapidamente che di solito passano inosservate. Una microespressione passa sul viso in meno di un quarto di secondo. Abbiamo scoperto questo fenomeno nella nostra prima ricerca sugli indizi di inganno, quasi vent'anni fa. Stavamo esaminando il filmato di un colloquio nel quale Mary, la paziente psichiatrica di cui ho parlato nel Cap. I, cercava con successo di dissimulare il suo piano di suicidio. Mary presentava vari lapsus gestuali (movimenti abbreviati e parziali di chi si stringe nelle spalle) e una diminuzione dei gesti illustrativi. Inoltre, abbiamo scoperto anche una microespressione: usando ripetuti passaggi al rallentatore abbiamo potuto vedere, ma solo per un istante, una completa mimica di tristezza, subito coperta da un sorriso. Le microespressioni sono mimiche emotive complete, a tutto viso, che durano solo una frazione del tempo normale, così rapide che generalmente non si vedono. La Fig. 5-1 mostra l'espressione di tristezza.78 È molto facile da interpretare, perché è fissata sulla pagina, ma se la si vedesse solo per un 25º di secondo e fosse immediatamente coperta da un'altra, come succede per le microespressioni, probabilmente sfuggirebbe. Poco dopo che avevamo scoperto questo fenomeno, altri autori hanno pubblicato un articolo in cui riferivano un'analoga scoperta, attribuendo le microespressioni a un processo di rimozione e considerandole rivelatrici di emozioni 79 inconsce. Certamente nel caso di Mary i sentimenti non erano affatto inconsci e la paziente era dolorosamente consapevole della tristezza rivelata dalla microespressione. Abbiamo sottoposto a vari soggetti estratti del filmato di Mary, chiedendo di valutare i sentimenti della paziente. Gli osservatori privi di esperienza clinica si lasciavano trarre in inganno: non notando il messaggio contenuto nelle microespressioni, pensavano che si sentisse bene. Solo usando la proiezione al rallentatore riuscivano a cogliere il messaggio di tristezza. Clinici esperti, invece, non avevano bisogno della visione al rallentatore e riuscivano a cogliere la microespressione di tristezza osservando il filmato in tempo reale. Figura 5-1. La tristezza. Con un'ora circa di esercizio la maggior parte delle persone può imparare a vedere queste espressioni brevissime. Abbiamo montato un otturatore sull'obiettivo di un proiettore, in modo da poter esporre delle diapositive per tempi brevissimi. Da principio, quando si presenta un'espressione per un 50° di secondo, i soggetti dicono di non vedere nulla e pensano che non ci riusciranno mai. E invece lo imparano molto rapidamente. La cosa diventa così facile che a volte pensano che noi abbiamo allungato il tempo di esposizione. Dopo qualche centinaio di facce, tutti sono riusciti a riconoscere l'emozione espressa dalla mimica, malgrado i tempi brevissimi. Chiunque può acquisire questa abilità senza bisogno di un obiettivo speciale con otturatore, facendo balenare davanti agli occhi la foto di un viso atteggiato in un'espressione: si deve cercar di indovinare che emozione rappresenta, controllando poi con calma sulla fotografia per vedere se l'impressione corrisponde al vero, e poi passare a un'altra. L'esercizio dev'essere continuato per almeno qualche centinaio di foto.80 Le microespressioni sono esasperanti perché, ricche come sono e capaci di rivelare appieno un'emozione nascosta, non capitano tanto di frequente. Ne abbiamo trovate poche nel nostro esperimento con le allieve infermiere. Molto più comuni erano le espressioni soffocate: non appena un'espressione emerge sul viso, il soggetto sembra accorgersi di quello che rischia di manifestare e l'interrompe bruscamente, a volte coprendola con un'espressione diversa. Il sorriso è la copertura o maschera più comune. A volte la soppressione è così rapida che è difficile cogliere il messaggio emotivo che l'espressione interrotta avrebbe comunicato. Anche se il messaggio non arriva a trasparire, l'atto stesso di metterlo a tacere può esser notato e costituire un indizio significativo. Le espressioni soffocate di solito durano più a lungo, ma sono anche meno complete delle microespressioni: queste ultime, infatti, sono compresse nel tempo, ma contengono abbreviata l'intera manifestazione mimica. L'espressione soffocata viene interrotta, non sempre raggiunge la sua piena manifestazione, ma dura più a lungo di una microespressione e l'interruzione stessa può farsi notare. Sia le microespressioni che le espressioni soffocate e soppresse sono esposte, come indizi di falsità, ai due problemi che rendono difficile l'interpretazione di quasi tutti questi indizi. Si ricorderà quello che nell'ultimo capitolo ho chiamato effetto Brokaw: il non tener conto delle differenze individuali nell'espressione delle emozioni. Non tutti, quando nascondono una certa emozione, presenteranno microespressioni o espressioni soffocate rivelatrici: l'assenza di questi fenomeni non è quindi prova di verità. Ci sono differenze individuali nella capacità di controllare la mimica e certe persone, quelli che chiamo attori nati, lo sanno fare alla perfezione. Il secondo problema, che ho indicato come l'errore di Otello, nasce quando non si considera che certe persone, benché sincere, si turbano quando sono sospettate di mentire. Per evitare l'errore di Otello bisogna capire che la comparsa di una microespressione o di un'espressione rapidamente soppressa e camuffata non basta di per sé a dare la certezza che l'altro sta mentendo. Quasi tutte le emozioni che affiorano in queste espressioni può provarle benissimo un innocente che cerchi per qualche ragione di non darle a vedere. L'innocente può, ad esempio, aver paura di non essere creduto, oppure sentirsi in colpa per qualcos'altro, essere arrabbiato o disgustato per l'accusa ingiusta, allegro alla prospettiva di smentire il suo accusatore, sorpreso per l'accusa, ecc.: nel caso che egli voglia dissimulare questi sentimenti, può benissimo comparire una microespressione rivelatrice o un'espressione incompleta, rapidamente soffocata. Come affrontare tali problemi nell'interpretazione di questo tipo di indizi lo vedremo nel prossimo capitolo. Non tutti i muscoli che producono le espressioni emotive sono altrettanto facili da controllare. Alcuni sono più attendibili di altri, impossibili da usare per produrre false espressioni, in quanto non accessibili al controllo volontario; viceversa, chi mente si trova a mal partito nel nasconderne l'azione quando cerca di dissimulare un certo sentimento, in quanto non sono facili da inibire. Abbiamo imparato quali sono i muscoli difficilmente controllabili, chiedendo ai nostri soggetti di muovere deliberatamente uno per uno i singoli muscoli facciali e di fingere la mimica delle varie emozioni.81 Ci sono certi movimenti muscolari che pochissimi sono capaci di eseguire deliberatamente. Per esempio, appena il 10% delle persone esaminate è capace di abbassare gli angoli delle labbra senza muovere il muscolo del mento. Però quegli stessi muscoli si muovono quando si prova l'emozione corrispondente. Per esempio, le stesse persone che non sono capaci di abbassare deliberatamente gli angoli delle labbra eseguono questa azione quando provano tristezza, dispiacere, dolore. Siamo riusciti a insegnare ai nostri soggetti a muovere volontariamente questi muscoli di non facile controllo, anche se di solito sono necessarie centinaia di ore di esercizio. Questi muscoli sono attendibili perché non sappiamo inviare al muscolo il messaggio per dispiegare una falsa espressione. Il mio ragionamento è che se non si può ordinare a un muscolo un'espressione fittizia, allora sarà difficile anche inviargli un messaggio di “stop” per bloccarlo quando un'emozione autentica lo mette in azione.82 Ci sono altri modi per occultare un'espressione senza riuscire a inibirla: può essere mascherata, normalmente da un sorriso, ma questo non potrà coprire i segni dell'emozione autentica nella fronte e nelle palpebre superiori. Oppure, si possono contrarre i muscoli antagonisti per controllare l'espressione vera. Un sorriso di piacere, per esempio, può essere attenuato stringendo le labbra e sollevando il muscolo del mento. Spesso, però, l'uso dei muscoli antagonisti può di per sé costituire un indizio di falso, dato che l'azione congiunta dei muscoli antagonisti e di quelli impegnati nell'espressione autentica può dare al viso un aspetto innaturale, rigido o controllato. Il modo migliore di occultare un'emozione sarebbe inibire totalmente il movimento dei muscoli che partecipano alla sua espressione, ma ciò non è facile se si tratta di muscoli non accessibili al controllo volontario. La fronte è la sede principale dei movimenti muscolari difficili da falsificare. La Fig. 5-2A mostra quelli tipici di tristezza, dolore, malessere e probabilmente anche senso di colpa (è la stessa espressione della Fig. 5-1, ma qui è più facile concentrare l'attenzione sulla fronte, dato che il resto del viso è neutro). Si noti che gli angoli interni delle sopracciglia sono sollevati; di solito ciò dà una forma triangolare alla palpebra superiore e produce un certo corrugamento al centro della fronte. Meno del 15% dei soggetti che abbiamo esaminato era capace di produrre volontariamente questo movimento. Non si dovrebbe quindi incontrarlo in una falsa esibizione di questi sentimenti, mentre dovrebbe comparire quando il soggetto è triste o addolorato (o magari si sente in colpa), anche se cerca di nasconderlo. In questa e nelle altre fotografie si presenta una versione estrema dell'espressione, per renderla chiara nonostante i limiti di una raffigurazione statica che ovviamente non può mostrare il formarsi e lo svanire dell'espressione emotiva. Se i sentimenti sono meno intensi, l'aspetto della fronte dovrebbe essere analogo, ma su scala ridotta. Una volta che si conosce lo schema generale di un'espressione, si riesce a cogliere anche le sue versioni attenuate, specialmente avendo a che fare con il movimento reale e non con una raffigurazione statica. La Figura 5-2A. Figura 5-2B. Figura 5-2C. Figura 5-2D. Fig. 5-2B presenta i movimenti muscolari più attendibili in caso di paura, preoccupazione, apprensione o terrore. Si noti che le sopracciglia sono sollevate e ravvicinate, una combinazione di movimenti che è estremamente difficile da eseguire intenzionalmente (meno del 10% dei nostri soggetti ci riusciva). Nella foto sono visibili anche il sollevamento della palpebra superiore e lo stiramento dell'inferiore, che sono segni tipici della paura. Quando una persona cerca di dissimulare la paura, questi movimenti palpebrali possono mancare, non essendo difficile controllarli, mentre la posizione delle sopracciglia probabilmente rimane nonostante gli sforzi per nascondere l'emozione. Le Figg. 5-2C e 5-2D mostrano la mimica delle sopracciglia e delle palpebre che indica la collera e la sorpresa. Si tratta di una mimica scarsamente attendibile, in quanto questi movimenti può eseguirli chiunque a volontà, cosicché li troviamo nelle espressioni finte e viceversa non li troviamo quando l'emozione viene dissimulata. Li presento per completare il quadro della mimica emotiva a livello delle palpebre e sopracciglia e per sottolineare le differenze rispetto alle mimiche, quelle sì attendibili, delle Figg. 5-2A e 5-2B. L'azione delle sopracciglia riprodotta nelle Figg. 5-2C e 5-2D - alzarle o abbassarle costituisce la coppia di espressioni d'uso più frequente. Sono mimiche spesso utilizzate come segnali di conversazione per accentuare o sottolineare il discorso: le sopracciglia sollevate sono dispiegate anche come punti esclamativi o punti interrogativi, oltre che come gesti convenzionali di incredulità e scetticismo. Darwin chiamava il muscolo che abbassa e avvicina le sopracciglia il “muscolo della difficoltà”. Aveva ragione nel dire che questo movimento accompagna difficoltà di qualunque tipo, da sollevare un oggetto pesante a risolvere un complicato problema di matematica. Le sopracciglia abbassate e ravvicinate sono tipiche anche della perplessità e della concentrazione. Figura 5-3. Un altro elemento mimico attendibile riguarda la bocca. Uno dei più sicuri indizi di collera è il rimpicciolimento delle labbra: la superficie rossa si riduce, senza che le labbra siano risucchiate all'interno o necessariamente premute. Questo movimento è molto difficile da eseguire intenzionalmente e ho notato che spesso compare quando una persona comincia ad arrabbiarsi, anche prima che se ne renda conto. E però un movimento sottile e anche facile da mascherare con il sorriso. La Fig. 5-3 mostra come cambia l'aspetto delle labbra per effetto di questa contrazione muscolare. L'interpretazione anche delle mimiche più attendibili è complicata dall'errore di Otello: non tener conto che una persona sincera sospettata di mentire può presentare gli stessi segni di emozione del bugiardo. Così, l'innocente può esibire la mimica della paura (Fig. 5-2B) perché appunto ha paura di essere falsamente accusato: preoccupato dal fatto che se mostra timore gli altri penseranno che mente, cercherà magari di nascondere quello che prova, cosicché gli unici segni visibili resteranno le sopracciglia, più difficili da inibire. Il bugiardo che teme di essere scoperto e cerca di dissimulare la paura presenterà probabilmente la stessa espressione. Nel Cap. VI vedremo come affrontare questo problema. Quanto all'effetto Brokaw, cioè non considerare differenze individuali, dev'essere evitato anche quando si interpretano gli indizi mimici più attendibili. Alcune persone (sia gli psicopatici che gli attori nati) hanno una straordinaria attitudine a inibire le espressioni che potrebbero tradire i loro autentici sentimenti. Nel loro caso neppure i muscoli facciali generalmente sottratti al controllo volontario meritano fiducia. Molti capi carismatici hanno tali straordinarie capacità di recitazione. Stando ai resoconti, il papa Giovanni Paolo II ha dimostrato questa abilità durante la sua visita in Polonia nel 1983.83 Appena qualche anno prima, lo sciopero dei cantieri navali di Danzica aveva acceso la speranza che il governo comunista accettasse in Polonia alcune libertà politiche. Molti temevano che Lech Walesa, il dirigente del sindacato Solidarnosc, si spingesse troppo avanti, inducendo le truppe sovietiche a invadere il paese, come avevano fatto in passato in Ungheria, Cecoslovacchia e Germania Orientale. Per mesi l'Armata Rossa era rimasta impegnata in “esercitazioni militari” presso i confini polacchi. Infine, il gruppo dirigente che aveva tollerato Solidarnosc si dimise e i militari, con l'approvazione di Mosca, presero il potere. Il generale Jaruzelski sospese l'attività dei sindacati, sottomise a rigidi controlli i dirigenti sindacali come Lech Walesa e impose la legge marziale. Ora, diciotto mesi dopo l'avvento al potere dei militari, la visita del papa polacco poteva avere grosse conseguenze. Avrebbe manifestato appoggio a Walesa, riattizzando con la sua presenza gli scioperi e la rivolta, oppure avrebbe dato la sua benedizione al generale Jaruzelski? Il giornalista William Safire descrisse così il film dell'incontro del papa col generale: «Il pontefice e l'uomo di paglia esibivano sorrisi e strette di mano. Il papa sa bene come può essere utilizzata l'apparenza pubblica e calibra le espressioni del suo viso in questi eventi. Qui il segno era inequivocabile: stato e chiesa hanno raggiunto un qualche accordo segreto e la benedizione politica ricercata dal capo polacco scelto da Mosca è stata data, così che la televisione di stato potesse mandarla in onda a ripetizione».84 Non tutti i politici sono così abili nel controllare l'espressione del viso. Anwar Sadat, il presidente egiziano tragicamente scomparso, scriveva a proposito dei suoi tentativi da ragazzo per imparare a controllare i muscoli facciali: «La mia passione era la politica. A quel tempo in Italia c'era Mussolini. Vedevo le sue fotografie e leggevo di come sapeva cambiare espressione quando parlava alla folla, assumendo variamente una posa di forza o di aggressività, cosicché la gente poteva guardarlo e leggere nei suoi stessi lineamenti forza e potenza. Ero affascinato da questa cosa. Mi mettevo davanti allo specchio a casa e cercavo di imitare questa espressione imperiosa, ma per me i risultati erano molto deludenti. Tutto quello che succedeva era che i muscoli della faccia mi diventavano stanchissimi. La faccia mi doleva».85 Pur non sapendo fingere con la mimica, il successo di Sadat nell'organizzare segretamente un attacco di sorpresa congiunto con la Siria contro Israele nel 1973 dimostra che era, tuttavia, abile nel mentire. Non c'è contraddizione. L'inganno non sempre richiede abilità di simulazione o dissimulazione nella mimica, nei movimenti corporei o nella voce. Ciò è necessario solo nelle situazioni ravvicinate, quando l'autore e la vittima dell'inganno sono faccia a faccia, come nell'incontro in cui Hitler riuscì tanto bene a ingannare Chamberlain. A quanto riferisce, Sadat non ha mai cercato di nascondere i suoi veri sentimenti quando si è incontrato direttamente con gli avversari. Secondo Ezer Weizman, il ministro della difesa israeliano che ha condotto negoziati diretti con Sadat dopo la guerra del 1973, «non era uomo da tenere per sé i suoi sentimenti: questi erano immediatamente visibili nella mimica, oltre che nella voce e nei gesti».86 C'è un'altra, più limitata, interferenza delle differenze individuali ai fini dell'interpretazione dei segni mimici attendibili. Ha a che fare con i segnali mimici di conversazione cui ho già accennato. Alcuni di questi sono molto simili ai gesti illustrativi, servendo a dare enfasi alle parole al momento di pronunciarle. La maggior parte delle persone solleva le sopracciglia o le abbassa intenzionalmente (vedi Figg. 5-2C e 52D), mentre sono pochissimi quelli che usano i movimenti delle sopracciglia tipici della tristezza o della paura (Figg. 5-2A e 5-2B) per sottolineare il discorso. Per quei pochi che lo sanno fare, comunque, questi elementi mimici cessano di essere indizi attendibili. Woody Allen è per esempio una di queste persone: del movimento delle sue sopracciglia non ci si può fidare come spia dei sentimenti nascosti. Usa infatti la mimica della tristezza per colorire il discorso: mentre la maggior parte delle persone solleva o aggrotta le sopracciglia, Woody Allen di solito solleva l'angolo interno delle sopracciglia (a ciò è dovuta in parte la sua aria così partecipe e ansiosa). Chi come Woody Allen usa questa mossa delle sopracciglia per dare enfasi al discorso può facilmente eseguirla a comando: non dovrebbe avere difficoltà a usarla per fingere l'espressione di un sentimento che non prova, né a inibirla se vuole. Queste persone hanno accesso a muscoli che gli altri non possono controllare. Chi va a caccia di indizi di falsità può capire che non è il caso di fidarsi di questi elementi mimici se vede che l'indiziato li usa come segnali di conversazione per sottolineare il discorso. Un terzo problema può complicare l'interpretazione di questi e altri indizi di falso: per mettere in azione volontariamente anche questi muscoli più attendibili si può ricorrere a una tecnica di recitazione. Il metodo Stanislavski insegna all'attore a rappresentare esattamente un'emozione ricordando e rivivendo momenti in cui l'ha provata nella realtà. Ho accennato verso la fine del capitolo precedente all'uso che abbiamo fatto di questa tecnica per lo studio sperimentale delle reazioni neurovegetative. Quando un attore usa il metodo di Stanislavski, le espressioni del suo viso non sono eseguite deliberatamente ma sono il prodotto dell'emozione rivissuta che, come sembrano indicare le nostre ricerche, può attivare le reazioni fisiologiche autentiche. In qualche caso, quando uno dei nostri soggetti non riusciva ad eseguire volontariamente le azioni delle Figg. 5-2A o 5-2B, gli ho chiesto di usare la tecnica Stanislavski, con la consegna di rievocare e rivivere un'esperienza triste o paurosa. Spesso, con questo sistema, comparivano espressioni che il soggetto non era capace di eseguire a comando. Anche chi mente potrebbe usare la tecnica Stanislavski e in questo caso non dovrebbero esserci segni indicanti che l'espressione è falsa perché, in un certo senso, falsa non è. Nella mimica simulata in questo modo entrerebbero in azione anche i muscoli facciali più attendibili, perché il soggetto in qualche misura prova davvero l'emozione che vuole fingere. La linea di demarcazione fra vero e falso diventa confusa quando si attivano le emozioni con la tecnica Stanislavski. Peggio ancora quando chi mente riesce a ingannare anche se stesso, finendo per credere alle proprie bugie. Finora ho descritto tre modi in cui possono trasparire sentimenti nascosti: le microespressioni, quelle espressioni che si riescono a vedere prima che siano soffocate e le tracce che rimangono sul viso perché non è stato possibile inibire l'azione dei muscoli più attendibili. La maggior parte delle persone crede in una quarta fonte di informazioni: gli occhi, considerati la “finestra dell'anima”, si dice che rivelino i più riposti sentimenti. L'antropologa Margaret Mead cita un professore sovietico che non era di questo avviso: «Prima della Rivoluzione si usava dire: “Gli occhi sono lo specchio dell'anima”. Gli occhi possono mentire, eccome. Si può esprimere con gli occhi un'attenzione devota che in realtà non si prova. Si può manifestare serenità o sorpresa».87 Questo disaccordo si può risolvere considerando separatamente ciascuna delle cinque fonti dell'informazione che si può ottenere dagli occhi dell'interlocutore: di queste, tre sole sono attendibili. Anzitutto ci sono i cambiamenti prodotti dai muscoli che circondano il globo oculare. Questi muscoli modificano la forma delle palpebre, la quantità di iride e di bianco visibile, l'impressione generale prodotta dalla zona degli occhi (Figg. 5-2A, 5-2B, 5-2C, 5-2 D), ma come ho già detto la loro azione non offre indizi attendibili per scoprire eventuali inganni. È relativamente facile muoverli volontariamente o inibirne l'azione: non trapelerà molto, se non brevissimi movimenti nell'ambito di una microespressione o di una mimica immediatamente soffocata. La seconda fonte d'informazione è la direzione dello sguardo. Si può distogliere lo sguardo nel caso di varie emozioni: tristezza (occhi bassi), vergogna o senso di colpa (bassi o sfuggenti), disgusto (sfuggenti). E tuttavia neppure il bugiardo che si sente in colpa distoglierà molto lo sguardo dall'interlocutore, perché sa bene che tutti pensano di poter riconoscere le menzogne da questo segno. Il professore sovietico citato dalla Mead notava quanto è facile controllare la direzione del proprio sguardo. Fa meraviglia che la gente continui a lasciarsi ingannare dai bugiardi abbastanza abili da non distogliere gli occhi mentre mentono. Gli altri tre canali d'informazione sono più promettenti come fonti di indizi che lascino trapelare la verità o almeno permettano di sospettare l'inganno. L'ammiccamento può essere eseguito volontariamente, ma è anche una risposta involontaria, che aumenta quando siamo emozionati. Le pupille si dilatano con l'emozione, mentre non c'è nessuna via nervosa volontaria che permetta di produrre a volontà questa modificazione dell'occhio. La dilatazione della pupilla è prodotta dal sistema nervoso autonomo, lo stesso che causa le alterazioni descritte nel capitolo precedente a proposito di salivazione, respirazione e sudorazione, oltre ad alcuni altri cambiamenti del viso di cui parleremo fra poco. Se è vero che un più frequente sbattere delle palpebre e le pupille dilatate indicano un'emozione, non dicono però di che emozione si tratti: possono essere segni di eccitazione, collera o paura, indifferentemente. Potrebbero costituire indizi utili solo a condizione che si possa escludere che siano puro e semplice segno della paura dell'innocente di essere accusato a torto. Anche le lacrime, la quinta ed ultima fonte di informazioni provenienti dall'occhio, sono prodotte dall'attività del sistema nervoso autonomo, ma in questo caso abbiamo a che fare con il segno di alcune emozioni soltanto: dolore, tristezza, sollievo, certe forme di gioia e il riso incontrollato. Il pianto può tradire il dolore o la tristezza, ma certo, una volta cominciato a piangere, diventa difficile negare quello che si prova. Quanto alle lacrime di gioia, compaiono solo in situazioni estreme, quando il riso non viene affatto represso. Il sistema nervoso autonomo produce altri cambiamenti visibili nel volto: rossore, pallore e sudorazione. Come per tutte le altre alterazioni di origine vegetativa, è difficile nascondere questi segni. Non sappiamo con certezza se il sudore, come lo sbattere delle palpebre e la dilatazione delle pupille, sia indizio generico di attivazione emotiva o invece specifico di un'emozione o due. Quanto al rossore e al pallore, i dati in realtà sono scarsi. Il rossore si presume sia un segno d'imbarazzo, che compare anche nella vergogna e forse nel senso di colpa. Si dice che sia più comune nelle donne che negli uomini, anche se non si sa quale potrebbe esserne la ragione. Il rossore può tradire l'imbarazzo o la vergogna, si arrossisce anche per la collera e non sappiamo se questo tipo di arrossamento differisce in qualche modo dal rossore di vergogna e imbarazzo. Presumibilmente in entrambi i casi entra in gioco la dilatazione dei vasi sanguigni periferici, ma i due tipi di arrossamento potrebbero differire per quantità, durata e zone del volto interessate. Personalmente, penso che il viso si imporpori per la rabbia solo quando questa è incontrollata, oppure quando c'è un grosso sforzo per impedirle di esplodere: se è così, allora dovrebbero esserci altri segni di collera nel viso e nella voce. In casi di collera più controllata, il viso può al contrario sbiancarsi o impallidire, come può succedere anche nella paura. Il pallore può comparire anche quando la mimica di queste emozioni è perfettamente dissimulata. In effetti, ci sono pochissime ricerche sulle lacrime, il rossore o il pallore in rapporto all'espressione o alla dissimulazione di emozioni specifiche. Lasciamo adesso i segni attraverso i quali il viso può tradire un'emozione nascosta e passiamo a considerare quegli indizi che fanno capire che una mimica è falsa. Una possibilità in questo senso, di cui ho già parlato, è che i muscoli meno controllabili, e perciò più attendibili, non entrino in azione in una mimica non sincera (purché non intervenga a complicare le cose la tecnica Stanislavski, o non si abbia a che fare con casi specialissimi come Woody Allen). Ci sono altri tre indizi che fanno pensare che un'espressione non sia sincera: asimmetria, scelta di tempo e collocazione nel corso della conversazione. In un'espressione facciale asimmetrica, le stesse azioni compaiono nelle due metà del viso, ma sono più intense in una che nell'altra. Non vanno confuse con le espressioni unilaterali, che appaiono solo su metà del viso. Queste mimiche dimezzate non sono segni di emozioni, se si eccettuano quelle espressioni di disprezzo in cui il labbro superiore viene sollevato, serrando contemporaneamente uno degli angoli della bocca: generalmente si tratta invece di segni convenzionali, come la strizzata d'occhio o il sopracciglio rialzato per indicare scetticismo. Le espressioni asimmetriche sono più sottili, molto più comuni e molto più interessanti. L'idea che l'emisfero cerebrale destro fosse specializzato nel trattamento delle emozioni ha fatto pensare che un lato del viso potesse essere più autenticamente emotivo. Dato che l'emisfero destro controlla gran parte dei muscoli della metà sinistra del viso e il sinistro quelli della metà destra, alcuni hanno avanzato l'ipotesi che le emozioni si mostrassero con maggiore intensità sulla parte sinistra del volto. Cercando di puntualizzare certe contraddizioni in uno di questi esperimenti, mi capitò incidentalmente di scoprire che l'asimmetria può essere un indizio di menzogna. Le espressioni contorte, in cui l'azione dei muscoli è un po' più accentuata su una metà del viso, sono in effetti un segno rivelatore della falsità del sentimento manifestato. Il caso si verificò perché il gruppo di ricercatori che fu il primo a pubblicare risultati a sostegno di quell'ipotesi non aveva usato materiale proprio, ma di seconda mano - più precisamente, una serie di fotografie scattate da me. Esaminai quindi i dati con maggiore attenzione e potei ricavarne cose che gli altri non avevano visto, proprio perché avevo fotografato io quei visi. Harold Sackeim e i suoi collaboratori avevano diviso a metà le foto, in modo da avere due serie di volti, tutti destri e tutti sinistri, ottenuti con l'immagine speculare dell'una o dell'altra metà. I soggetti cui presentarono i volti così ottenuti giudicarono più intense le emozioni espresse dai visi “sinistri” che dai “destri”.88 Notai che c'era un'eccezione: nessuna differenza di giudizio nel caso delle espressioni allegre e gioiose. Sackeim non vi aveva dato molta importanza, ma io sì. Avendo scattato le foto, sapevo che quelle espressioni erano le uniche autentiche: le altre le avevo ottenute chiedendo ai miei modelli di muovere intenzionalmente certi muscoli facciali; i visi allegri, invece, li avevo ripresi dal vero mentre i soggetti si divertivano per proprio conto. Mettendo insieme questo dato alle ricerche sulle lesioni cerebrali e la mimica di cui ho già parlato in questo capitolo, veniva fuori un'interpretazione molto diversa dell'asimmetria facciale. Quelle ricerche avevano dimostrato che nella mimica volontaria e involontaria entrano in gioco circuiti nervosi diversi, perché a seconda della sede della lesione può essere danneggiata l'una o l'altra. Dal momento che le espressioni volontarie e involontarie possono essere indipendenti fra loro, può darsi che se le une sono asimmetriche le altre non lo siano. L'ultimo anello del ragionamento si basava sul fatto certo che gli emisferi cerebrali dirigono i movimenti volontari del viso, non quelli involontari, che sono generati dai centri inferiori, più primitivi, del cervello. Le differenze fra emisfero sinistro e destro dovrebbero influire sulla mimica volontaria, non su quella involontaria. Sackeim aveva scoperto, secondo il mio ragionamento, esattamente l'opposto di quello che credeva di dimostrare. Non era vero che le due metà del viso differivano nell'espressione delle emozioni, ma al contrario l'asimmetria si manifestava proprio quando l'espressione era una posa volontaria, assunta su richiesta. Quando l'espressione era involontaria, come nei visi allegri fotografati di sorpresa, c'era poca asimmetria. L'asimmetria è un indizio dell'emozione non sentita.89 Abbiamo condotto numerosi esperimenti per verificare questa idea, confrontando espressioni volontarie e spontanee. La discussione su questo argomento è stata vivace e solo di recente è emerso un accordo parziale, limitato all'espressione di emozioni positive. La maggior parte dei ricercatori attualmente concorda nell'accettare il nostro risultato, secondo cui quando l'espressione non è sentita, il muscolo principale che interviene nel sorriso agisce più intensamente su un lato del viso, mentre nei sorrisi autentici l'asimmetria è molto più rara.90 Abbiamo riscontrato asimmetria anche nella mimica di alcune azioni non spontanee. Per esempio, l'aggrottare le sopracciglia (collera) è generalmente più accentuato a sinistra quando è eseguito volontariamente, mentre l'arricciare il naso (disgusto) e lo stirare le labbra all'indietro (paura) sono di solito più intensi a destra. Questi risultati sono stati appena pubblicati e non è ancora certo che possano convincere chi, come Sackeim, ha avanzato l'idea dell'asimmetria nelle risposte emotive.91 Non pensavo che la cosa avesse molta importanza per chi vuole smascherare la menzogna: l'asimmetria di solito è così sottile che ritenevo impossibile coglierla senza una precisa misurazione. Mi sbagliavo: chiedendo ai soggetti di valutare, in base a un filmato normale, senza rallentatore o ripetizioni, se le espressioni del viso sono simmetriche o asimmetriche, si ottengono risultati di gran lunga superiori al livello del caso.92 È chiaro che nella situazione sperimentale c'è il vantaggio di non aver altro da fare: non sappiamo se le persone potranno cavarsela altrettanto bene dovendo fare i conti con le distrazioni rappresentate dai movimenti del corpo, dalle parole dell'interlocutore e dalla necessità di rispondergli. Se molte espressioni del viso sono asimmetriche è probabile che non siano sentite, ma l'asimmetria non è prova certa della falsità dell'emozione. Anche certe espressioni autentiche possono essere asimmetriche: tutto quello che sappiamo è che la maggior parte non lo è. Analogamente, l'assenza di asimmetria non prova che la mimica corrisponda a un'emozione davvero sentita: l'osservatore semplicemente può non averla notata e, a parte questo problema, non tutte le espressioni volontarie sono asimmetriche, solo la maggior parte. Chi vuole smascherare bugie non deve mai basarsi su un solo indizio, ma deve averne molti. Gli indizi ricavati dall'espressione del viso devono essere confermati da altri: nella voce, nelle parole o nei movimenti corporei. Anche restando al viso, un qualunque singolo indizio non dev'essere interpretato se non è ripetuto o, ancor meglio, confermato da un altro elemento della mimica. Finora, abbiamo considerato tre fonti di indizi rivelatori, cioè tre modi in cui il viso può tradire sentimenti nascosti: i muscoli facciali non volontari, gli occhi e le alterazioni vegetative nell'aspetto del viso. L'asimmetria rientra in un altro gruppo di tre indizi, che non rivelano le emozioni nascoste ma semplicemente indicano che l'espressione mostrata non è sincera. Di questo gruppo fanno parte i dati relativi ai tempi di esecuzione. Ne i tempi rientrano tanto la durata totale dell'espressione, quanto il tempo di attacco (quanto ci mette a comparire) e di stacco (quanto ci mette a scomparire dal viso). Tutti e tre questi elementi possono costituire indizi utili. Le espressioni di lunga durata (di certo dai 10“ in su, generalmente anche intorno ai 5”) sono probabilmente false. La maggior parte delle espressioni autentiche non dura così a lungo: a meno che non si tratti di esperienze limite - il culmine dell'estasi, una rabbia furiosa, il fondo della depressione - la mimica che esprime emozioni davvero sentite non resta sul viso più di qualche secondo. E anche in quei casi estremi è raro che l'espressione si mantenga invariata a lungo: c'è piuttosto una rapida successione di molte espressioni più brevi. La mimica sostenuta per lunghe durate è generalmente un'espressione convenzionale, oppure è finta. Non ci sono invece regole semplici per i tempi di attacco e di stacco, salvo per la sorpresa: se la sorpresa è autentica, tutti i tempi (attacco, stacco e durata totale) devono essere brevissimi, inferiori al secondo. Se la mimica dura più a lungo, è una sorpresa finta, un gesto convenzionale per indicare sorpresa, o un vero e proprio falso: la persona cerca di sembrare sorpresa ma non lo è. La sorpresa è sempre un'emozione brevissima, che dura solo finché non si è capito con che cosa si ha a che fare. La maggior parte delle persone è in grado di fingere la sorpresa, ma pochi sanno farlo in maniera convincente, con quei tempi rapidi di attacco e di stacco che una sorpresa naturale deve avere. Tutte le altre espressioni emotive possono essere brevissime, passando sul viso in un lampo, oppure durare qualche secondo. L'inizio e la fine possono essere bruschi o graduali: dipende dal contesto in cui l'emozione si presenta. Supponiamo che un impiegato si trovi a fingere divertimento per una barzelletta scema che sente raccontare per la quarta volta dal principale, uomo di scarsa memoria e del tutto privo di senso dell'umorismo. Quanto tempo ci vuole perché il sorriso compaia dipende da come funziona la battuta, a seconda che ci sia un accumulo graduale di elementi umoristici o una conclusione brusca. E il tempo necessario alla scomparsa del sorriso dipenderà dal tipo di barzelletta: il ripensamento e riassaporamento è anch'esso proporzionato alla storiella. Chiunque è capace di fare un qualche genere di sorriso per fingere divertimento, ma quando si mente è più difficile adeguare esattamente i tempi di attacco e di stacco del sorriso alle particolari esigenze del contesto. Infine, l'esatta collocazione di un'espressione rispetto al flusso del discorso, alle alterazioni della voce e ai movimenti del corpo è la terza fonte di indizi che possono far capire che la mimica non corrisponde ai reali sentimenti. Supponiamo che uno finga di arrabbiarsi e dica «Non ne posso più di come ti comporti»: se la mimica incollerita viene dopo le parole è più probabilmente falsa che se compare all'inizio della frase o addirittura un attimo prima. I limiti sono anche più ristretti quanto alla collocazione della mimica rispetto ai movimenti del corpo. Supponiamo che il «non ne posso più» sia accompagnato da un pugno sul tavolo: se l'espressione del viso segue il gesto è ancora più probabile che sia falsa. Espressioni del viso che non sono sincronizzate coi movimenti del corpo costituiscono probabili indizi di falso. Una trattazione dei segni di menzogna che si possono ricavare dal viso non potrebbe essere completa senza toccare una delle mimiche più frequenti, il sorriso. È unica fra tutte le espressioni del viso: basta l'azione di un solo muscolo per mostrare gioia, mentre la maggior parte delle altre mimiche emotive richiede l'intervento coordinato di tre-cinque muscoli diversi. Il sorriso è anche l'espressione più facile da riconoscere: abbiamo trovato che è visibile a maggior distanza (100 metri) e con esposizioni più brevi rispetto alle altre mimiche emotive.93 È difficile non rispondere al sorriso (perfino al sorriso di una fotografia) e alla gente piace guardare visi sorridenti, come sanno bene i pubblicitari. Il sorriso è probabilmente la più sottovalutata delle espressioni del viso, molto più complicata di quanto la gente supponga. Ci sono decine di sorrisi diversi, ognuno con un aspetto e un messaggio particolare. Ci sono numerose emozioni positive segnalate dal sorriso: gioia, piacere fisico o sensoriale, soddisfazione, divertimento, per nominarne solo qualcuna. Ma si sorride anche quando si è infelici. E poi ci sono i sorrisi falsi usati per convincere il prossimo che si provano sentimenti positivi quando non è vero. Abbiamo accertato che le persone si lasciano ingannare facilmente da questi falsi sorrisi. Presentando ai soggetti i sorrisi delle nostre allieve infermiere in risposta al documentario piacevole e al filmato orripilante, questi dovevano giudicare se erano autentici o no, ma i risultati non sono stati migliori che rispondendo a caso. Sono convinto che la difficoltà nasca anche da una generale ignoranza circa la gran quantità di sorrisi diversi che esistono: non è possibile distinguere i veri dai falsi senza conoscere le somiglianze e le differenze che ci sono fra tutti i principali membri della famiglia. Quella che segue è la descrizione di diciotto tipi diversi di sorriso, tutti autentici. L'elemento comune a quasi tutta la famiglia dei sorrisi è il cambiamento di aspetto prodotto dal muscolo zigomatico maggiore. Questo muscolo parte dall'osso dello zigomo e attraversa la guancia raggiungendo l'angolo delle labbra: quando si contrae, solleva gli angoli della bocca inclinandoli verso gli zigomi. Se l'azione è forte, inoltre, stira le labbra, solleva le gote, rigonfiando la pelle sotto gli occhi e producendo le “zampe di gallina” agli angoli dell'occhio (in qualcuno, questo muscolo abbassa leggermente la punta del naso, in altri stira la pelle vicino all'orecchio). Altri muscoli collaborano con lo zigomatico maggiore per formare i vari membri della famiglia dei sorrisi; inoltre, c'è qualche forma di sorriso che è prodotta non da questo ma da muscoli diversi. L'azione semplice del muscolo zigomatico maggiore produce il sorriso che si manifesta in caso di autentiche e non controllate emozioni positive. Nessun altro muscolo nella parte inferiore della faccia interviene in questo sorriso sentito. L'unico movimento che può comparire nella parte superiore del viso è il restringimento del muscolo che circonda gli occhi, in grado di produrre la maggior parte dei cambiamenti che (sempre nella parte superiore del viso) derivano da un'azione intensa dello zigomatico maggiore: sollevamento della guancia, “borse” sotto gli occhi e “zampe di gallina”. La Fig. 5-4A riproduce il sorriso autentico e sentito. Questo sorriso dura più a lungo ed è più accentuato quando i sentimenti positivi sono più intensi.94 Penso che tutte quante le esperienze emotive positive si mostrino in questo tipo di sorriso, differendo solo nei tempi e nell'intensità della mimica. Il sorriso di paura (Fig. 5-4B) non ha nulla a che fare con emozioni positive, ma a volte dà luogo a equivoci. È prodotto dal muscolo risorio che stira gli angoli delle labbra orizzontalmente verso gli orecchi, cosicché le labbra si distendono in una forma rettangolare. Nonostante il nome di questo muscolo, la sua azione interviene principalmente nella paura, non nel riso. La confusione è nata probabilmente perché a volte le labbra, stirate orizzontalmente dal muscolo risorio, piegano gli angoli verso l'alto, somigliando a una versione molto larga del sorriso autentico. Nell'espressione della paura, la forma rettangolare della bocca (con o senza gli angoli piegati in alto) sarà accompagnata dalla forma degli occhi e delle sopracciglia riportata nella Fig. 5-4B. Il sorriso di disprezzo è un altro nome improprio, perché questa espressione non ha molto a che fare con emozioni positive. La versione che ne presentiamo alla Fig. 5-4C implica una contrazione del muscolo agli angoli della bocca, che produce in quella zona un rigonfiamento, spesso una fossetta e una lieve inclinazione verso l'alto degli angoli della bocca.95 Ancora una volta è il sollevamento degli angoli della bocca, una caratteristica in comune con l'autentico sorriso di piacere, a causare la confusione. Un'altra caratteristica in comune è la fossetta, che a volte compare nel sorriso sentito. La differenza principale fra il sorriso di disprezzo e quello autentico è il restringimento degli angoli della bocca, presente solo nel cosiddetto sorriso di disprezzo. In un sorriso smorzato, l'individuo prova davvero emozioni positive ma cerca di far credere che siano meno intense di quanto sono in realtà. Lo scopo è attenuare (non sopprimere) l'espressione di emozioni positive, mantenendo la mimica entro certi limiti. Le labbra possono essere premute, gli angoli delle labbra stretti, il labbro inferiore sollevato, gli angoli della bocca abbassati. La Fig. 5-4D mostra un sorriso smorzato in cui intervengono tutte e tre queste azioni, fondendosi col sorriso sentito. Il sorriso triste segnala l'esperienza di emozioni negative. Non è un tentativo di nascondere la propria infelicità, ma piuttosto un accompagnamento mimico. Questo sorriso generalmente significa anche che il soggetto non ha intenzione, almeno per il momento, di protestare molto per la sua infelicità, ma farà buon viso a cattivo gioco. Figura 5-4A. Sorriso sentito. Figura 5-4B. Sorriso di paura. Figura 5-4C. Sorriso di disprezzo. Figura 5-4D. Sorriso smorzato. Figura 5-4E. Sorriso triste. Figura 5-4F. Sorriso di Chaplin. Abbiamo osservato questo tipo di sorriso sul volto delle persone che sedevano da sole nel nostro laboratorio di fronte allo schermo su cui si proiettava il filmato dell'amputazione, senza sapere che venivano riprese dalla telecamera nascosta. Spesso il sorriso compariva presto, non appena cominciavano a rendersi conto di quanto fossero terribili le scene. Lo stesso sorriso l'abbiamo visto sul volto di pazienti depressi, come una sorta di commento alla loro situazione disgraziata. Il sorriso triste è spesso asimmetrico; in molti casi si sovrappone a una chiara espressione di emozioni negative, non per mascherarla ma per completarla, oppure può seguirvi a ruota. Quando attesta un tentativo di controllare l'espressione di paura, collera o dolore, questo sorriso può apparire molto simile al sorriso smorzato: le labbra strette, quello inferiore sollevato dal muscolo del mento e gli angoli tirati o abbassati possono servire a controllare l'esplosione di uno di questi sentimenti negativi. La differenza centrale fra questa versione del sorriso triste (Fig. 5-4 E) e il sorriso smorzato è l'assenza di qualunque segno di contrazione del muscolo intorno agli occhi. L'azione di quel muscolo (la pelle che si raccoglie intorno all'occhio, le “zampe di gallina”) è presente nel sorriso smorzato perché la gioia è sentita, mentre manca nel sorriso triste per la ragione opposta. Il sorriso triste può anche mostrare nella fronte e nelle sopracciglia le emozioni negative che il soggetto prova e riconosce apertamente. In un'esperienza emotiva mista, due o più emozioni sono vissute e si manifestano nella stessa espressione del viso. Qualunque emozione può mescolarsi con qualunque altra. Qui ci interessa solo l'aspetto del viso nel caso delle emozioni che più spesso si mescolano a quelle positive. Quando uno è piacevolmente arrabbiato, la miscela collera-piacere si manifesterà nelle labbra che si restringono (talvolta quello superiore si solleva), oltre al sorriso sentito e all'aspetto della parte superiore del viso riprodotto nella Fig. 5-2c (si potrebbe anche parlare di sorriso crudele, o sadico). Nell'espressione di piacevole disprezzo il sorriso sentito si fonde con lo stringersi dell'angolo della bocca (uno solo o entrambi). Anche tristezza e paura possono dare piacere, come ben sa chi produce film e libri lacrimevoli o dell'orrore. Nel caso della tristezza piacevole, gli angoli della bocca possono essere stirati verso il basso, in aggiunta al sollevamento proprio del sorriso sentito, oppure può succedere che il sorriso sentito si fonda semplicemente con l'aspetto della parte superiore del viso riprodotto nella Fig. 5-2A. La m is c e la piacere-paura presenta la parte superiore del viso come nella Fig. 5-2B, insieme col sorriso sentito, unito allo stiramento orizzontale delle labbra. Alcune esperienze piacevoli sono caratterizzate da calma e soddisfazione, ma a volte il piacere si mescola con l'eccitazione. Nell'eccitazione piacevole, oltre al sorriso sentito ci sono le palpebre superiori che si sollevano: Harpo Marx mostrava spesso questo sorriso eccitato e giulivo. Nella piacevole sorpresa le sopracciglia si sollevano, la mascella ricade, le palpebre superiori si alzano, mentre si mostra il sorriso sentito di piacere. In altri due tipi di sorriso l'aspetto tipico del sorriso autentico si accompagna a uno sguardo particolare. Il sorriso di corteggiamento viene mostrato dal corteggiatore mentre questi distoglie il viso e lo sguardo dalla persona che gli interessa, lanciandole poi uno sguardo furtivo, abbastanza a lungo da esser notato, mentre gli occhi si distolgono nuovamente. Uno degli elementi che rendono così particolare la Monna Lisa è che Leonardo l'ha colta nel momento di questo sorriso seduttivo, col viso rivolto da un'altra parte ma lo sguardo gettato obliquamente verso l'oggetto del suo interesse. Nella vita reale questa è un'azione rapida, con lo sguardo che devia solo per un attimo. Nel sorriso d'imbarazzo lo sguardo è abbassato o laterale, in modo da non incontrare gli occhi dell'interlocutore. A volte, durante il sorriso, c'è un sollevamento momentaneo del mento; in un'altra versione l'imbarazzo si manifesta combinando il sorriso, non aperto ma smorzato, con l'occhiata laterale o rivolta in basso. Il sorriso di Chaplin è un movimento insolito, prodotto da un muscolo che la maggior parte delle persone non è in grado di muovere deliberatamente. Charlie Chaplin sapeva farlo, tanto che questo sorriso, in cui le labbra formano un angolo molto più acuto che nel sorriso normale, era la sua specialità. È un sorriso un po' sussiegoso, che sorride dell'atto stesso di sorridere (vedi Fig. 5 -4F). I prossimi quattro tipi di sorriso hanno tutti lo stesso aspetto, ma servono a funzioni sociali molto diverse. In tutti e quattro i casi il sorriso è eseguito intenzionalmente e spesso questi sorrisi presentano una certa asimmetria. Il sorriso correttivo serve a smussare un messaggio altrimenti spiacevole o critico, spesso col risultato di indurre con questo tranello il destinatario della critica, tutt'altro che felice, a restituire il sorriso. È un'azione volontaria, con un avvio rapido e brusco. Gli angoli della bocca possono essere stretti e a volte anche il labbro inferiore è sollevato per un momento. Il sorriso correttivo è spesso accompagnato da un cenno di assenso della testa, magari appena inclinata di lato, in modo da guardare un po' dall'alto in basso l'interlocutore. Il sorriso di acquiescenza dà atto che un boccone amaro viene inghiottito senza protestare. Nessuno pensa che la persona che mostra questo sorriso sia felice: questa mimica segnala soltanto che accetta un destino non voluto. Somiglia al sorriso correttivo, a parte la posizione della testa. Semmai, può essere accompagnato da un sospiro, da un'alzata di spalle o dalle sopracciglia che si alzano per un attimo. Il sorriso di coordinazione regola gli scambi fra due o più persone. È un sorriso di cortesia, che serve a manifestare senza intoppi accordo, comprensione, l'intenzione di eseguire quanto richiesto o il riconoscimento che l'altro ha fatto come si deve. Si tratta di un lieve sorriso, di solito asimmetrico, senza l'azione dei muscoli orbitali degli occhi. Il sorriso di risposta dell'ascoltatore è un particolare sorriso di coordinazione usato quando si ascolta, per far capire a chi parla che si è capito tutto e che non ha bisogno di ripetere o spiegare meglio: è equivalente ai segni o mormorii di assenso che spesso accompagna. Chi parla non pensa che l'ascoltatore che sorride sia felice, ma prende questo sorriso come un incoraggiamento a continuare. Ciascuno di questi quattro sorrisi (correttivo, di acquiescenza, di coordinazione e di ascolto) può a volte essere sostituito da un sorriso veramente sentito: uno che si diverte a criticare e correggere, o prova piacere nell'accondiscendere o nel partecipare a uno scambio sociale ben coordinato può mostrare benissimo il sorriso autentico anziché uno di quelli non sentiti che ho descritto finora. Consideriamo adesso il sorriso falso, un sorriso che mira a convincere l'interlocutore che si sta provando un'emozione positiva quando non è vero: può darsi che non si provi nulla di particolare, oppure che si cerchi di nascondere con la maschera del sorriso un'emozione negativa che non si vuol mostrare. A differenza del sorriso triste, che riconosce che non si prova nessun piacere, il sorriso falso cerca di far credere che si stanno provando sentimenti positivi e piacevoli. È l'unico sorriso che mente. Ci sono vari indizi per distinguere i sorrisi falsi dal sorriso autenticamente sentito che fingono di essere. Il sorriso falso è più asimmetrico del sorriso sentito. Il sorriso falso non è accompagnato dall'azione dei muscoli intorno agli occhi, cosicché (a meno che il sorriso non sia molto accentuato), non si notano il sollevamento delle guance, le borse sotto gli occhi, le zampe di gallina o il lieve abbassamento delle sopracciglia che compaiono nel sorriso autentico, anche di scarsa o media intensità. Un esempio è riprodotto alla Fig. 5-5: lo si confronti con la Fig. 5-4A, riportata accanto per comodità. Figura 5-5. Sorriso falso. Figura 5-4A. Sorriso sentito. Se il sorriso falso è più ampio, l'azione stessa del muscolo zigomatico maggiore avrà l'effetto di sollevare le guance, raccogliere la pelle sotto gli occhi e produrre le zampe di gallina. Ma non abbassa il sopracciglio. Se vi mettete davanti allo specchio e fate lentamente un sorriso sempre più accentuato, noterete che piano piano le guance si sollevano e le zampe di gallina compaiono; ma le sopracciglia non si abbasseranno, a meno che mettiate in azione i muscoli intorno all'occhio. La mancata partecipazione delle sopracciglia è un indizio sottile, ma cruciale per distinguere il sorriso autentico da quello falso, quando è molto largo. Il tempo di stacco del sorriso falso può apparire sensibilmente inappropriato: in altre parole, il sorriso può scomparire bruscamente, oppure a scatti. Quando è usato come una maschera, il sorriso falso copre solo le azioni della parte inferiore del viso e della palpebra inferiore. I movimenti muscolari attendibili che compaiono nella fronte a segnalare paura o dolore possono essere visibili lo stesso. Anche nella parte inferiore del viso, il sorriso falso può non riuscire a coprire totalmente i segni dell'emozione che dovrebbe dissimulare; può esserci invece una fusione di elementi, cosicché qualche traccia compare egualmente, come in un'emozione mista. La nostra prima verifica sperimentale è consistita nella misurazione oggettiva delle espressioni sorridenti mostrate dalle allieve infermiere nel nostro esperimento. Se le mie idee sono giuste, nel corso dell'intervista “onesta” (quando cioè descrivevano francamente le loro impressioni alla vista del documentario piacevole) si sarebbero dovuti osservare sorrisi corrispondenti a questa descrizione del sorriso sentito, mentre i sorrisi falsi avrebbero dovuto fare la loro comparsa nell'intervista condotta durante la visione del documentario orripilante. Abbiamo considerato solo due segni del sorriso falso: mancata partecipazione dei muscoli intorno agli occhi e presenza di segni di disgusto (naso arricciato) o disprezzo (angoli della bocca stretti). I risultati sono stati esattamente come previsto e molto netti: nell'intervista onesta c'erano più sorrisi autentici e non ce n'era nessuno che tradisse disprezzo o disgusto, mentre nell'altra erano più numerosi i sorrisi falsi e comparivano quelli che lasciavano trapelare apertamente emozioni spiacevoli. Mi ha molto colpito il fatto che questi due indizi di inganno funzionassero tanto bene, specialmente avendo notato che le persone non se ne servono quando devono giudicare la sincerità degli altri. In ricerche precedenti avevamo presentato le stesse videoregistrazioni, chiedendo ai soggetti di indicare in quali casi le allieve infermiere stavano mentendo: i risultati, si è visto, non erano migliori di quelli che si possono ottenere tirando a sorte. Come stanno le cose? Stiamo misurando qualcosa che è troppo sottile per poterlo vedere, oppure il fatto è che la gente non sa dove guardare? Cercheremo di capirlo nella prossima ricerca che abbiamo in programma: insegneremo ai nostri soggetti come riconoscere quando i muscoli dell'occhio entrano in azione e quando compaiono sorrisi che lasciano trapelare emozioni contrastanti e poi vedremo se in questo modo sono in grado di individuare più esattamente le bugie. Il viso può contenere molti indizi diversi di menzogna: microespressioni, espressioni soffocate, segni che trapelano attraverso i muscoli facciali meno controllabili, ammiccamento, dilatazione della pupilla, lacrime, rossore e pallore, asimmetria, errori nei tempi e nella scelta del momento, sorrisi falsi. Alcuni di questi indizi lasciano trasparire informazioni che il mentitore vorrebbe nascondere, altri fanno capire semplicemente che viene nascosto qualcosa, altri ancora indicano solo che un'espressione non è autentica. Fra questi segni facciali, come in quelli ricavabili dalle parole, dalla voce o dal corpo che abbiamo visto nell'ultimo capitolo, c'è molta varietà quanto alla precisione delle informazioni che permettono di ricavare. Alcuni rivelano esattamente qual è l'emozione autentica, anche se si cerca di dissimularla, altri dicono solo se l'emozione dissimulata è positiva o negativa, altri ancora sono più generici, lasciando capire semplicemente che c'è un'emozione che non si vorrebbe mostrare. A volte può bastare anche questo, ma spesso ciò non è sufficiente a tradire la menzogna in assenza di informazioni più precise. Tutto dipende dal tipo di menzogna, dalla linea scelta per sviare i sospetti, dalla situazione e dalle spiegazioni alternative che, a prescindere dalla bugia, possono giustificare come mai una certa emozione non viene apertamente manifestata. È importante tenere a mente quali indizi forniscono informazioni specifiche e quali soltanto un'informazione più generica. Le Tabb. 1 e 2 dell'Appendice riassumono l'informazione ricavabile da tutti gli indizi di falso descritti in questo capitolo e nel precedente. La Tab. 3 riguarda invece i segni espliciti di finzione. VI Pericoli e precauzioni La maggior parte delle menzogne va a segno.96 Anche i bambini a otto-nove anni sono in grado di ingannare i genitori. Gli errori nell'individuare l'inganno consistono non solo nel credere a un bugiardo ma anche, il che spesso è peggio, nel non credere a una persona sincera; un errore di giudizio che, nel caso del bambino, può impaurirlo malgrado successivi tentativi di correggere lo sbaglio. Le conseguenze possono essere disastrose anche per l'adulto, che rischia di perdere un'amicizia, il posto di lavoro, in casi estremi la vita. Fa notizia quando un innocente viene rimesso in libertà dopo anni di carcere immeritato, ma non è un caso così raro da avere un titolo in prima pagina. Benché non sia possibile evitare completamente gli errori, si possono prendere precauzioni per ridurli. La prima precauzione consiste nel rendere più esplicito il processo d'interpretazione degli indizi comportamentali. Quello che ho spiegato negli ultimi due capitoli non impedirà errori di giudizio, ma forse potrà renderli più evidenti e correggibili. Chi cerca di smascherare le bugie non si affiderà più soltanto a vaghe impressioni: sarà più informato circa le basi su cui si fondano i suoi giudizi e potrà quindi imparare dall'esperienza, scartando, correggendo o mettendo in rilievo questo o quell'indizio. Anche chi è accusato a torto potrebbe trarne giovamento, potendo più facilmente contestare un giudizio quando le basi di quel giudizio siano specificate. Un'altra precauzione è capire meglio la natura degli errori. Ci sono due tipi di errori esattamente opposti nella causa e nelle conseguenze: non credere-alla-verità, cioè un “falso positivo” in cui l'inquisitore ritiene a torto di aver smascherato una menzogna inesistente, e credere-alla-bugia, cioè un “falso negativo”, in cui l'inquisitore non si accorge dell'inganno. Poco importa se il giudizio si basi su dati strumentali (la “macchina della verità”) ovvero sull'interpretazione personale di indizi comportamentali: in entrambi i casi è esposto a questi due tipi d'errore. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Hitler commise un errore del tipo “falso negativo”, mentre uno sbaglio altrettanto disastroso in senso opposto lo fece Stalin. Attraverso vari mezzi (falsi concentramenti di truppe, voci lasciate filtrare, piani militari passati ad arte ai servizi segreti tedeschi), gli alleati convinsero i tedeschi che lo sbarco in Europa, l'apertura del “secondo fronte”, sarebbe avvenuto a Calais, non sulla costa normanna. Per sei settimane dopo lo sbarco in Normandia i tedeschi perseverarono nell'errore, tenendo molte truppe in stato di all'erta a Calais invece di portare rinforzi all'armata impegnata in Normandia, nella convinzione che lo sbarco fosse solo una manovra diversiva in vista di un attacco a Calais. Ecco un tipico errore del genere “falso-negativo”: i tedeschi giudicavano autentici i rapporti su un piano di sbarco a Calais, mentre erano falsi costruiti con grande cura. Esattamente l'errore opposto, giudicare falsa quella che era la verità, fu il rifiuto di Stalin di credere ai numerosi avvertimenti ricevuti (in gran parte dal suo stesso controspionaggio infiltrato nei comandi tedeschi) circa un imminente attacco di Hitler contro l'Unione Sovietica. Fu un clamoroso falso positivo: i rapporti autentici circa i piani tedeschi erano considerati dei falsi. Questa distinzione fra i due tipi d'errore è importante, perché costringe a concentrare l'attenzione sul duplice pericolo che minaccia chi cerca di individuare una menzogna. Non c'è modo di evitare completamente entrambi gli errori: si può solo decidere quale rischio correre. Sta a chi indaga valutare quando è preferibile rischiare di lasciarsi ingannare e quando sarebbe invece meglio rischiare un'accusa ingiusta. Quali possono essere i vantaggi o gli svantaggi sospettando un innocente o dando credito a un bugiardo dipende dal tipo di bugia e dalla situazione delle due parti interessate. Le conseguenze possono in qualche caso essere peggiori per l'uno o l'altro tipo di errore, oppure i due errori possono essere altrettanto disastrosi. Non esiste una regola generale che dica quale tipo di errore può essere evitato più facilmente: ancora una volta, dipende dalla bugia, dalla personalità e dalla situazione di chi mente e di chi deve scoprirlo. I temi da prendere in considerazione per decidere quale dei due errori opposti rischiare sono elencati alla fine del prossimo capitolo, dedicato al poligrafo e al confronto fra dati strumentali e comportamentali. Ora mi limiterò a descrivere come i singoli indizi comportamentali siano esposti all'uno o all'altro tipo di errore e quali precauzioni si possono prendere per evitare gli errori. L e differenze individuali (che prima ho chiamato effetto Brokaw) sono responsabili di entrambi i tipi di errore. Nessun indizio di menzogna, nel viso, nel corpo, nella voce o nelle parole, è a prova di errore, neppure l'attività del sistema nervoso autonomo misurata dalla “macchina della verità”. I falsi negativi capitano perché certe persone semplicemente non commettono errori quando mentono: non solo psicopatici ma anche attori nati, chi adotta la tecnica Stanislavski e chi addirittura riesce a credere alle sue stesse bugie. Chi cerca di smascherare le menzogne deve ricordare che l'assenza di segni di inganno non è prova di verità. Ma anche la presenza di un segno di falso può indurre in errore, causando lo sbaglio opposto (falso positivo), cosicché una persona sincera non viene creduta. Oppure, un indizio di bugia può essere esibito volontariamente dal truffatore, per sfruttare l'errata convinzione della vittima di averlo colto in fallo. Si dice che certi giocatori di poker usino questo trucco, creando quello che si può chiamare un falso segnale rivelatore: «Per esempio, un giocatore può continuare per ore a tossicchiare deliberatamente ogni volta che fa un bluff. L'avversario, che crede e spera di essere abbastanza astuto, ben presto nota questa coincidenza. In una mano decisiva del gioco, quando le poste sono molto salite, l'ingannatore tossisce di nuovo, ma stavolta ha un buon punto in mano e vince un piatto strepitoso al suo avversario, che non sa più cosa pensare».97 Il giocatore di questo esempio mette in piedi volontariamente a proprio vantaggio un falso positivo, ma è un caso raro. Più normale è che la persona giudicata a torto bugiarda ci rimetta. A far sì che certe persone non siano credute quando in effetti dicono la verità è spesso una qualche peculiarità del loro comportamento, un aspetto tutto personale del loro stile espressivo. Quello che per la maggior parte della gente potrebbe essere un indizio di falso non lo è per una persona del genere. C'è chi: parla con molti giri di parole; fa molte pause lunghe e brevi nel discorso; commette molti errori parlando; usa pochi gesti illustrativi; esegue molti gesti manipolatori; manifesta spesso nel viso segni di paura, collera o malessere, a prescindere da ciò che prova in realtà; ha una mimica asimmetrica. Ci sono differenze enormi fra gli individui in tutti questi comportamenti e queste differenze producono errori di valutazione in entrambi i sensi: giudicare bugiarda una persona sincera che normalmente parla con perifrasi ed espressioni indirette, oppure credere al mentitore di lingua sciolta. L'unico modo per ridurre gli errori dovuti all'effetto Brokaw è fondare i giudizi su una variazione nel comportamento del sospettato. Bisogna fare un confronto fra il suo comportamento normale e quello che manifesta quando viene in qualche modo inquisito. È facile essere tratti in errore a un primo incontro perché non c'è nessuna base di raffronto, nessuna possibilità di notare variazioni di comportamento. I giudizi assoluti («Questa persona sta facendo così tanti gesti di manipolazione che dev'essere molto a disagio a proposito di qualcosa che non dice») hanno buone probabilità di essere sbagliati. I giudizi relativi («Sta facendo molti più gesti di manipolazione del solito: dev'essere a disagio») sono il solo modo di ridurre gli errori dovuti a differenze individuali nello stile espressivo. I più abili giocatori di poker seguono questa pratica quando imparano a memoria gli indizi rivelatori tipici dei loro avversari abituali.98 Quando il giudizio dev'essere formulato al primo incontro, quest'ultimo dovrebbe essere prolungato il più possibile, in modo da offrire l'opportunità di osservare il comportamento abituale del sospettato. Si può, ad esempio, cercare di mantenere per qualche tempo il discorso sulle generali. Ma a volte ciò non è possibile: tutta quanta la situazione può essere stressante per una persona che sa di essere sospettata e ne è offesa o impaurita. In questo caso, chi deve formulare il giudizio deve rendersi conto di essere esposto ad errori dovuti all'effetto Brokaw, essendo all'oscuro di ogni eventuale peculiarità nel comportamento consueto del sospettato. Nel primo incontro, il rischio di errori di giudizio è particolarmente elevato, anche a seguito delle differenze individuali nel modo di reagire a questa situazione. Alcuni rendono al massimo, seguendo regole di recitazione ben assimilate, e per questa ragione offrono un campione poco rappresentativo del loro comportamento. Per altri un primo incontro è una situazione ansiogena e anche il loro comportamento, per la ragione opposta, costituisce un cattivo termine di paragone. Se possibile, il giudizio dovrebbe essere basato su una serie di incontri, nella speranza di formare, con la conoscenza reciproca, un termine di raffronto più adeguato. Si potrebbe pensare che l'individuazione delle menzogne sia facilitata da un tipo di rapporti che vanno al di là di una conoscenza superficiale, ma non sempre è così. Nella coppia, nella famiglia, ma anche fra amici o colleghi che lavorano a stretto contatto, si sviluppano preconcetti e incomprensioni che interferiscono in un esatto giudizio degli indizi comportamentali di menzogna. L'interpretazione di quattro tipi di segni che lasciano trasparire ciò che viene dissimulato (lapsus, tirate oratorie incontrollate, gesti emblematici involontari, microespressioni) non è invece così esposta all'effetto Brokaw. In questo caso non c'è bisogno di avere termini di paragone, perché questi indizi hanno un significato in sé e per sé, in termini assoluti. Si ricordi l'esempio citato da Freud, in cui il Dott. R. fingeva di parlare del divorzio di un altro: «Conosco un'infermiera che è stata indicata come correa in un caso di divorzio. La moglie ha citato in giudizio il marito per adulterio, facendo il suo nome come complice, e lui ha ottenuto il divorzio». Il lapsus aveva un significato molto preciso, comprensibile di per sé: il Dott. R. avrebbe desiderato che fosse il marito e non la moglie a ottenere, come parte lesa, il divorzio. A differenza degli altri indizi, un lapsus, una microespressione, un discorso avventato rivelano direttamente un'informazione, rompendo la cortina della dissimulazione. Si ripensi all'esempio della studentessa del mio esperimento, che si lasciava sfuggire il gesto del dito puntato contro il professore che l'aggrediva. Trattandosi di un vero e proprio lapsus gestuale, con un significato ben noto, il messaggio si poteva interpretare con sicurezza come indizio rivelatore di sentimenti che la ragazza cercava di dissimulare. Oppure quando Mary, la paziente che cercava di non lasciar trapelare i suoi progetti di suicidio, presentava per un attimo un'espressione disperata, il messaggio era interpretabile in sé e per sé. Conoscere il contesto della conversazione può servire a intendere tutta la portata di una menzogna, ma il messaggio fornito da lapsus, discorsi avventati, lapsus gestuali e microespressioni tradisce l'informazione nascosta ed è di per sé significativo. Queste quattro fonti d'informazione sono uniche sotto questo profilo, in confronto a tutti gli altri indizi di falso. Non c'è bisogno di avere termini di confronto per evitare i falsi positivi, cioè il rischio di non credere a chi dice la verità. Se si può tralasciare per questi quattro tipi d'indizio la precauzione di avere un termine di paragone, vale sempre la messa in guardia per l'errore opposto: l'assenza di questi, come di qualunque altro indizio di bugia, non può essere interpretata come prova di sincerità. Finora abbiamo considerato una sola fonte di errori nell'individuazione degli inganni, l'effetto Brokaw, cioè il non tener conto delle differenze individuali. Un altro problema non meno importante, causa frequente di falsi positivi, è l'errore di Otello. Questo errore capita quando l'inquisitore non tiene conto del fatto che l'inquisito sotto stress, anche se è sincero, può sembrare che menta. Ognuno dei sentimenti che ho descritto nel Cap. III come possibili concomitanti emotive della menzogna può essere provato per altre ragioni quando un innocente sa di essere sospettato a torto. Può aver paura di non esser creduto e questa sua paura può essere confusa con il timore del bugiardo di essere smascherato. Oppure, certe persone hanno tali sensi di colpa per altri motivi che basta un sospetto o un'accusa qualunque a riattivarli: ecco che quei sentimenti di colpa possono essere frettolosamente attribuiti alla menzogna. Ma la persona sincera ingiustamente sospettata può provare anche disprezzo per chi l'accusa, eccitazione di fronte alla sfida di dimostrare la propria innocenza, o piacere alla prospettiva di vedere l'inquisitore scornato, e i segni di queste emozioni possono somigliare al piacere della beffa tipico del truffatore. Tante altre emozioni possono essere vissute indifferentemente dal bugiardo o dall'innocente che sa di essere inquisito: le ragioni saranno diverse, ma l'uno e l'altro possono provare sorpresa, rabbia, delusione, dispiacere o disgusto di fronte ai sospetti o agli interrogatori. L'ho chiamato errore di Otello perché la scena della morte di Desdemona nel dramma di Shakespeare ne è un esempio eccellente e notissimo. Otello ha appena accusato la moglie di amare Cassio e le ordina di confessare la sua colpa, perché sta per ucciderla per questo suo tradimento. Desdemona chiede di chiamare Cassio a testimoniare la sua innocenza, ma Otello le risponde che l'ha già fatto uccidere. Desdemona si rende conto che non potrà dimostrare la propria innocenza e che Otello l'ucciderà. DESDEMONA: Ahimè ! Lui tradito e io rovinata ! OTELLO: Via, sgualdrina! Tu piangi per lui in faccia a me? DESDEMONA: Oh, scacciami, mio signore, ma non mi uccidere! OTELLO: Giù, sgualdrina!99 Otello interpreta la paura e il dolore di Desdemona come una reazione alla notizia della morte dell'amante, e vi trova quindi una conferma alla propria convinzione della sua colpa. Otello non si rende conto che Desdemona può benissimo provare queste stesse emozioni anche se è innocente: dolore e disperazione vedendo che Otello non le crede e che l'ultima speranza di dimostrare la propria innocenza è perduta, ora che Otello ha fatto uccidere Cassio; paura perché sa che Otello ucciderà anche lei. Desdemona piange per la propria vita, per la situazione in cui si trova, per la sfiducia di Otello, non per la morte di un amante. L'errore di Otello è anche un esempio di come i preconcetti possono distorcere il giudizio. Otello è convinto della colpevolezza di Desdemona già da prima: ignora tutte le spiegazioni alternative del comportamento di Desdemona, senza considerare che le sue reazioni emotive non dimostrano nulla, né in un senso né nell'altro. Otello cerca solo la conferma della sua convinzione che Desdemona l'ha tradito. Questo è un esempio estremo, ma i preconcetti distorcono spesso il giudizio, inducendo a trascurare idee, possibilità o dati di fatto che non corrispondono a quello che si pensa già. Ciò avviene anche quando la convinzione preconcetta è causa di sofferenza: Otello è torturato dall'idea che Desdemona gli menta, ma ciò non lo induce a prendere l'altra strada, cercando di scagionarla. Interpreta il comportamento di Desdemona in modo da confermare proprio quello che meno di tutto desidera, nella maniera più dolorosa per lui. Questo tipo di preconcetti può nascere da molte fonti. In Otello, l'idea che Desdemona sia infedele è opera di Jago, il malvagio che a proprio vantaggio procura la rovina di Otello, creando e alimentando i suoi sospetti. Jago non ci sarebbe riuscito se Otello non avesse avuto un carattere così geloso e sospettoso. Persone ancora più gelose possono non aver bisogno di nessun Jago per mettere in moto i sospetti: cercano la conferma alle loro peggiori paure, scoprendo poi esattamente quello che sospettavano. Anche persone che non soffrono di una sospettosità patologica possono cadere vittime di questi errori quando la posta in gioco è molto alta e quando si lasciano trascinare da emozioni incontrollate. A volte, però, per vedere l'inganno dove non c'è non è necessaria una tempesta emotiva, una personalità gelosa e sospettosa, uno Jago. Si può anche semplicemente sospettare l'inganno perché costituisce una spiegazione comoda e potente. Scrive un funzionario che è stato per ventotto anni alle dipendenze della CIA: «Come spiegazione causale, l'inganno è intrinsecamente soddisfacente proprio perché così conforme all'ordine e alla razionalità. Quando mancano altre spiegazioni persuasive (magari perché i fenomeni che cerchiamo di spiegare sono stati causati in realtà da errori, ordini non eseguiti o altri fattori a noi ignoti), l'inganno offre una spiegazione facile e comoda. È comoda perché i funzionari dei servizi sono generalmente sensibilizzati alla possibilità di un inganno e il fatto di scoprirne uno è preso spesso come indicativo di un'analisi raffinata e penetrante [...]. È facile perché quasi ogni dato di fatto può essere razionalizzato in modo da farlo corrispondere all'ipotesi di un inganno; anzi, si potrebbe sostenere che, una volta sollevata come una seria possibilità l'ipotesi dell'inganno, questa è quasi immune da ogni tentativo di confutazione».100 Queste considerazioni hanno un campo d'applicazione molto più vasto del lavoro investigativo o spionistico. Anche quando un errore di questo tipo significa accettare l'idea che una persona cara ha tradito la nostra fiducia, si può incorrervi lo stesso, sospettando a torto un inganno solo perché questo spiega l'inesplicabile. Una volta attivato, il preconcetto che quella persona amata ci sta mentendo fa da filtro a ogni nuova informazione, impedendo la smentita. Chi vuole smascherare le bugie dovrebbe sforzarsi di prendere coscienza dei propri preconcetti circa il sospettato. Siano essi dovuti alla sua stessa personalità, a un circolo vizioso di emozioni incontrollate, a suggerimenti altrui, esperienze passate, esigenze dettate dalla situazione professionale, o dal puro e semplice bisogno di ridurre l'incertezza, una volta riconosciuti esplicitamente i preconcetti c'è qualche probabilità di difendersi dal rischio d'interpretare le cose a senso unico. Nella peggiore delle ipotesi si può se non altro rendersi conto di essere talmente vittima dei preconcetti da non potersi fidare dei propri giudizi. Si deve a tutti i costi considerare la possibilità che un segno di emozione non sia necessariamente indizio di menzogna ma possa essere indizio di ciò che l'innocente prova ad esser sospettato di mentire. Occorre valutare quali emozioni una data persona può provare in quella data situazione nel caso che menta e, non meno importante, nel caso che dica il vero. Così come non tutti i mentitori proveranno tutte le possibili emozioni attinenti alla menzogna, così non tutti gli innocenti proveranno indiscriminatamente tutte le emozioni che può suscitare il fatto di essere inquisiti. Nel Cap. III ho spiegato come valutare quali possono essere i sentimenti più probabili da parte dell'autore dell'inganno: la paura di essere scoperto, il senso di colpa o il piacere della beffa. Ora vediamo invece come valutare le emozioni che può provare una persona sincera quando si accorge di essere sospettata di mentire. Può darsi che per poter fare questa valutazione si debba basarsi su una conoscenza precedente della personalità del sospettato. Per esempio, una persona che ha un alto concetto di sé può andare in collera sapendo che qualcuno non crede alle sue parole, ma non avrà molta paura di non riuscire a dimostrare la sua innocenza, né darà segno di sentirsi in colpa. Un altro, timoroso e sfiduciato, che si aspetta quasi sempre il peggio, avrà soprattutto paura di non esser creduto. Come ho già accennato, certe persone sono così piene di sensi di colpa da sentirsi colpevoli non appena qualcuno sospetta di loro per qualcosa che non hanno commesso. Chi va alla caccia delle menzogne deve scartare come indizio significativo qualunque segno di emozione se la personalità dell'indiziato è tale da far prevedere quel tipo di emozione anche in caso di innocenza. Le eventuali reazioni emotive dell'innocente a un'accusa o a un sospetto infondato dipendono anche dal rapporto che ha con chi lo accusa o sospetta di lui, dalla lezione che può ricavare dalla storia precedente delle loro relazioni reciproche. Nella commedia di Rattigan, The Winslow Boy, il padre sapeva che il figlio Ronnie lo considerava un uomo giusto: non lo aveva mai accusato a torto né l'aveva punito quando non aveva fatto nulla di male. Dato questo rapporto precedente, eventuali segni di paura sarebbero stati significativi: il ragazzo non aveva ragione di temere di non esser creduto se diceva il vero. Persone che muovono spesso accuse infondate, che ripetutamente hanno rifiutato di credere alle parole di chi era sincero, istituiscono un tipo di rapporto che rende ambiguo qualunque segno di paura, molto probabile da parte dell'accusato in ogni caso, colpevole o innocente che sia. Una moglie che è stata ripetutamente accusata di avere degli amanti e che è stata maltrattata e picchiata malgrado la sua innocenza ha ragione di temere il marito che sospetta di lei, a torto o a ragione. Il marito in questo caso ha perso, fra le altre cose, anche la possibilità di basarsi sulla paura di lei per capire se i suoi sospetti sono fondati. Si deve scartare come indizio ogni segno di emozione quando la storia dei rapporti fra inquisitore e inquisito è tale da suscitare in quest'ultimo sentimenti del genere anche se sta dicendo la pura verità. In occasione di un primo incontro fra due persone, malgrado il fatto che non ci sia una storia di rapporti precedenti, può succedere che uno sospetti l'altro di mentire. Può trattarsi di un primo appuntamento galante: lei sospetta che lui le nasconda il fatto di essere già sposato. Oppure, l'aspirante a un posto sospetta che il datore di lavoro menta quando dice che deve ancora avere un colloquio con altri candidati prima di prendere una decisione. Il criminale interrogato dalla polizia può sospettare che il poliziotto menta quando gli dice che il suo complice ha parlato. Il compratore può chiedersi se l'agente immobiliare non sta gonfiando il prezzo quando gli dice che il proprietario non prenderebbe nemmeno in considerazione un'offerta così bassa. In mancanza di una conoscenza precedente, chi sospetta un inganno si trova molto svantaggiato, ma anche in questo caso sapere quali sono le aspettative del sospettato circa la persona che sospetta di lui può offrire a quest'ultima una qualche base di valutazione. Supponiamo ad esempio che oggetto dei sospetti sia un'impiegata che ha libero accesso a documenti riservati e che è stata vista in rapporti di confidenza con persone che l'FBI sospetta come agenti sovietici. Non c'è bisogno che la sospettata abbia avuto precedenti contatti con l'FBI, perché abbia delle generiche aspettative di cui si dovrebbe tener conto. Mettiamo che consideri l'FBI del tutto affidabile, praticamente infallibile: in questo caso, sintomi di paura da parte sua vanno presi in considerazione come indizi significativi, da interpretare come segni di apprensione all'idea di essere smascherata. Se invece la sua opinione sull'FBI è che si tratti di un'organizzazione inefficiente, tutta dedita a incastrare la gente ad ogni costo, ecco che eventuali manifestazioni di paura non dovrebbero esser prese in considerazione: potrebbe essere la paura di non poter dimostrare la propria innocenza, tanto quanto quella di essere scoperta. Si deve quindi scartare come indizio un segno di emozione se le aspettative del sospettato sono tali da indurlo di per sé a quel tipo di reazione anche in caso d'innocenza. Finora ci siamo occupati solo della confusione determinata dalla possibile reazione emotiva dell'innocente a un sospetto infondato. Ma le reazioni emotive dell'innocente possono servire anche a chiarire le cose anziché confonderle, aiutando a distinguere la persona sincera dal bugiardo. Un esempio l'abbiamo nella commedia di Rattigan, The Winslow Boy. In quel caso, il padre aveva a disposizione informazioni abbondanti (conoscenza della personalità del figlio e dei loro rapporti precedenti), che gli permettevano di valutare molto precisamente come avrebbe dovuto sentirsi il figlio nel caso che dicesse il vero o che mentisse. Sapeva che Ronnie non era un attore nato né uno psicopatico, che non era oppresso da sensi di colpa e che condivideva i suoi stessi valori, cosicché, se avesse mentito, il senso di colpa sarebbe stato immenso. Fra l'altro, come si ricorderà, la bugia avrebbe riguardato il fatto di aver commesso un furto e il padre sapeva che il carattere di Ronnie era tale che si sarebbe sentito colpevole per un reato del genere, a prescindere dal fatto di mentire o no. Quindi, se davvero avesse rubato il vaglia postale e poi avesse cercato di nasconderlo a suo padre, Ronnie poteva esser tradito da un duplice senso di colpa, quello per il furto e quello per la bugia. Se invece avesse detto la verità quando negava il fatto, non avrebbe dovuto provare nessun senso di colpa. Il padre sapeva anche che il figlio si fidava di lui. I rapporti precedenti fra loro erano tali che Ronnie avrebbe accettato l'affermazione paterna, che gli avrebbe creduto se gli avesse detto la verità. Quindi il ragazzo non doveva temere che la sua innocenza non sarebbe stata creduta. Per accrescere in lui la paura di essere smascherato in caso di colpa, il padre, come l'operatore della “macchina della verità”, affermava di essere a prova d'inganno: «... se mi dici una bugia, lo saprò, perché una bugia fra te e me non può restare nascosta. Lo saprò, Ronnie, sicché ricordatelo prima di parlare». Ronnie, probabilmente in base alle esperienze passate, ci crede. Quindi, non può non aver paura di essere scoperto se mente. Infine, il padre gli offre il perdono in caso di confessione: «Se l'hai fatto, devi dirmelo. Non mi arrabbierò con te, Ronnie, purché tu mi dica la verità». Con quest'ultima affermazione, il padre ottiene anche l'effetto di alzare la posta in gioco: se Ronnie mente, sarà oggetto della sua collera. Una volta valutato quali emozioni proverebbe Ronnie se mentisse (paura, senso di colpa) e avendo un termine di paragone per concludere che emozioni del genere sono improbabili nel caso che il ragazzo dica la verità, c'è un altro passo necessario per ridurre il rischio di errore nell'interpretazione di indizi di menzogna. Il padre dev'essere sicuro che, se dice la verità, Ronnie non provi altre emozioni che potrebbero manifestarsi in maniera simile alla paura o al senso di colpa, così da confondere il giudizio sulla sua sincerità. Ronnie potrebbe essere arrabbiato con il direttore della scuola che l'ha giudicato a torto un ladro; sicché, segni di collera, specialmente parlando delle autorità scolastiche, non devono essere tenuti in nessun conto. Probabilmente, Ronnie proverà dispiacere per le circostanze in cui si trova e questo turbamento può riguardare in genere tutta quanta la sua situazione, non in particolare gli accenni a questo o a quell'aspetto. Il padre, quindi, può legittimamente interpretare paura e senso di colpa come prove di menzogna, mentre collera o dolore possono essere presenti anche se Ronnie dice la verità. Anche quando le cose sono così chiare, quando cioè si ha modo di sapere quali emozioni il sospettato proverebbe nel caso che dica la verità o una bugia, interpretare gli indizi comportamentali può tuttavia essere rischioso. Molti comportamenti sono segni di più d'una emozione, e in tal caso vanno espunti se una di queste emozioni è adeguata nel caso che il sospettato dica la verità e l'altra invece in caso di menzogna. Dalle Tabb. 1 e 2 dell'Appendice si ricava rapidamente quali emozioni possono produrre i singoli indizi comportamentali. Supponiamo che il padre di Ronnie avesse notato che il ragazzo sudava e inghiottiva spesso saliva. Questi segni non avrebbero avuto nessun valore, essendo tipici di qualunque emozione: se mentiva, si sarebbero potuti attribuire alla paura o al senso di colpa, se diceva la verità alla rabbia o al dispiacere. Neppure un gran numero di gesti manipolatori poteva essere messo in conto, perché questi aumentano con qualunque emozione negativa. Ma anche segni caratteristici solo di alcune emozioni negative, come l'abbassamento del tono di voce, dovevano essere messi da parte: se dovuto al senso di colpa sarebbe stato segno di menzogna, ma poteva anche esser dovuto a tristezza e dolore e non avere quindi nessun significato discriminante. Solo quei comportamenti che contraddistinguono la paura o il sentimento di colpa, ma non la collera, la tristezza o il malessere, possono in una situazione come questa essere interpretati come indizi di falso. Viceversa, quei comportamenti che sono tipici della rabbia o del dolore ma non della paura o del senso di colpa si possono interpretare come indizi di sincerità. Esaminando le Tabb. 1 e 2 si vede che, in un caso come quello di Ronnie, i seguenti comportamenti potevano indicare se mentiva o diceva il vero: lapsus (verbali e gestuali), microespressioni e movimenti dei muscoli facciali non controllabili volontariamente. Sono questi gli unici comportamenti in grado di segnalare informazioni con esattezza sufficiente da poter distinguere la paura o il senso di colpa dalla rabbia o dal dispiacere. Valutare quali emozioni dovrebbe provare il sospettato sincero e distinguerle da quelle provate dal bugiardo, come si vede dalla mia analisi dell'esempio di Ronnie e suo padre, è tutt'altro che semplice. È indispensabile una conoscenza molto approfondita del sospettato, una conoscenza che in molti casi non abbiamo. E quando l'abbiamo, può darsi che le nostre valutazioni non ci aiutino a individuare chi mente o no: quello che sappiamo può benissimo indicare che le stesse emozioni sono altrettanto probabili in caso di colpa o di innocenza, come si è visto per Desdemona. Anche quando una valutazione fondata della situazione indica che le emozioni sarebbero diverse nei due casi, gli indizi comportamentali possono essere ambigui, senza che ne emerga nessuno che sia specifico proprio di quelle emozioni che distinguerebbero il bugiardo dalla persona sincera. In tutti questi casi non è possibile valersi di quegli indizi che chiamano in causa le reazioni emotive.101 La mia esposizione dei pericoli e delle precauzioni nella caccia alle menzogne finora si è occupata solo di situazioni in cui il sospettato sa di esserlo. Tuttavia, una persona sincera può non rendersi conto del fatto che in qualche momento ogni sua parola, ogni suo gesto è passato al setaccio da qualcuno che la sospetta di menzogna; naturalmente succede anche l'inverso, cioè che una persona che ha detto il vero pensi di essere sotto inchiesta mentre non lo è. Nemmeno il bugiardo sa sempre se la sua vittima è insospettita o no: una scusa complicata mirante a sviare i sospetti può suscitare un dubbio nella mente di una vittima finora fiduciosa. Dal canto suo, la vittima di un inganno può a sua volta mentire, dissimulando i sospetti, per indurre il colpevole a una mossa sbagliata. Ci sono anche altre ragioni per cui la vittima può lasciare che l'autore dell'inganno si culli nell'illusione di essere completamente al sicuro. Nel controspionaggio, per esempio, si può occultare il fatto che un agente nemico è stato scoperto, in modo da poter passare per suo tramite false informazioni alla parte avversa. In altri casi, la vittima dell'inganno può dissimulare la sua scoperta per godersi il rovesciamento delle parti e stare a guardare per un po' il bugiardo che continua a tessere le sue macchinazioni senza rendersi conto che l'altro ormai sa tutto. Ci sono sia vantaggi che svantaggi se l'indiziato non sa di esserlo: il bugiardo magari non si dà la pena di nascondere le tracce, di prevedere le domande che gli si possono fare, di prepararsi delle scuse e ripassare la sua parte, se non pensa che ogni sua mossa è passata al setaccio dalla vittima insospettita. Col passare del tempo, quando ormai sembra che la bugia sia stata completamente assimilata, il mentitore può rilassarsi al punto da lasciarsi sfuggire degli errori per eccesso di sicurezza. Questo vantaggio è controbilanciato dal fatto che un bugiardo così tranquillo da trascurare certe cautele difficilmente proverà grande apprensione. Gli errori per trascuratezza sono pagati a prezzo degli errori per eccesso di ansia. Soprattutto, non ci sarà quella tortura che per l'autore dell'inganno può diventare la paura di essere smascherato: ben difficilmente potrà essere indotto a confessare per avere sollievo, visto che non pensa che ci sia qualcuno a dargli la caccia. Ross Mullaney, un esperto che si è occupato della preparazione e dell'aggiornamento del personale investigativo addetto agli interrogatori, difende quella che chiama la “strategia del cavallo di Troia”: il poliziotto finge di credere al sospettato, per indurlo a parlare di più e finire invischiato nelle sue stesse invenzioni. Secondo Mullaney, anche se può diminuire l'ansia, l'indiziato ha maggiori probabilità di incorrere in un errore rivelatore: «Il poliziotto deve incoraggiare l'interrogato nella sua menzogna, spingendolo avanti, cercando di avere sempre più dettagli su quella storia (si presume inventata) che l'altro gli presenta. In un certo senso, anche il poliziotto mente quando finge di credere al sospettato [...]. La cosa non può danneggiare chi rende una deposizione onesta. Se il poliziotto sbaglia nel suo sospetto iniziale che [...] l'interrogato menta [...], [questa tecnica d'interrogatorio] non può fare nessun danno. Solo il bugiardo deve temerla».102 Questa strategia ricorda il consiglio di Schopenhauer: «Se avete ragione di sospettare che una persona vi stia dicendo una menzogna, cercate di apparire come se credeste ad ogni parola che ha detto. Ciò gli darà il coraggio di continuare; diventerà più energico nelle sue affermazioni e finirà per tradirsi».103 Se è vero che quasi certamente l'idea che la vittima dell'inganno sia fiduciosa riduce nel bugiardo la paura di essere scoperto, è difficile dire l'effetto che questa convinzione può avere sugli altri suoi sentimenti. Qualcuno può sentirsi più in colpa se pensa di ingannare una persona che si fida di lui, qualcun altro invece si sentirà meno colpevole, razionalizzando così: finché l'altro non sa nulla e non è tormentato dai sospetti, non gli faccio nessun male. Questo tipo di persone può convincersi che la bugia sia motivata principalmente da gentilezza d'animo, per non offendere la suscettibilità della vittima. Anche un'altra reazione emotiva, il piacere della beffa, può essere sia rafforzata che attenuata dall'idea che la vittima dell'inganno si fidi del tutto. Beffare una vittima ciecamente fiduciosa può essere un piacere sopraffino, ma anche prendere in giro una persona piena di sospetti può essere eccitante proprio per la difficoltà dell'impresa. Non c'è quindi modo di prevedere se il mentitore ha maggiori o minori probabilità di commettere errori se il destinatario dell'inganno rende noti i suoi sospetti. Naturalmente c'è la possibilità che i sospetti siano infondati: il sospettato può essere del tutto innocente. È più facile in questo caso arrivare a scagionarlo se non sa di essere sospettato? In effetti, se non lo sa non deve temere di non esser creduto, né proverà collera o dispiacere per un sospetto ingiusto e, se anche fosse pieno di sensi di colpa per altre ragioni, la situazione non gli offrirebbe nessuno spunto per riattivarli. Tutto questo va bene, dato che eventuali segni di queste emozioni possono essere interpretati tranquillamente come indizi di falso, senza doversi preoccupare della possibilità che rappresentino la reazione dell'innocente a un ingiusto sospetto. Ma questo vantaggio si trasforma in uno svantaggio nel caso in cui il sospettato abbia invece mentito. Quando l'indiziato non sa di esserlo, sono meno probabili i falsi positivi, ma si verificano molto più facilmente i falsi negativi. L'inverso succederà quando il sospettato sa di essere nel mirino. Altri due problemi complicano la questione e impediscono di decidere una volta per tutte se l'ignoranza del sospettato circa l'indagine in corso la faciliti o no. Primo, può non esserci possibilità di scelta: non tutte le situazioni permettono di tener celati i sospetti e, anche quando è possibile, non tutti sono disposti a tacerli nella speranza di smascherare l'inganno. Non solo, ma non tutti hanno sufficiente talento come simulatori da riuscire a ingannare l'ingannatore. Il secondo problema è il peggiore. Mentre cerca di dissimulare i suoi sospetti, l'inquisitore rischia di non riuscirci, senza tuttavia rendersene conto. Certi bugiardi affrontano spavaldamente la vittima non appena notano che comincia a sospettare qualcosa, specialmente se possono permettersi il lusso di smascherare la sua finzione di aver dissimulato i sospetti: in questo caso possono assumere la posa della dignità offesa, perché la vittima del raggiro non ha dichiarato apertamente i suoi sospetti, privandoli slealmente della possibilità di difendersi. Non tutti sono così sfacciati. Qualcuno può tener nascosto il fatto di essersi accorto dei sospetti contro di lui, in modo da guadagnare tempo per nascondere delle prove, prepararsi una via d'uscita, ecc. Come se non bastasse, non è detto che solo il bugiardo taccia in questi casi. Anche gli innocenti possono tacere, per le ragioni più varie: per evitare una scena spiacevole, per guadagnare tempo nella speranza di raccogliere prove a discarico, per intraprendere azioni che parleranno a loro favore. Un vantaggio certo che si ottiene rivelando subito i sospetti è di evitare questo intrico di dubbi: se non altro, il destinatario dell'inganno sa che il sospettato sa di esserlo. C'è poi un altro vantaggio. È la possibilità di utilizzare un metodo messo a punto da David Lykken, per l'esame con il lie detector, la tecnica della “conoscenza colpevole” (Guilty Knowledge Technique): in pratica, anziché chiedere direttamente al sospettato se ha commesso il delitto in questione, lo si interroga su dati di fatto di cui solo il colpevole dovrebbe essere a conoscenza. Supponiamo che una persona sia sospettata di omicidio: ha un movente, è stato veduto sulla scena del delitto, ecc. Con la tecnica di Lykken, le si presenta una serie di domande a scelta multipla: per ogni domanda, una delle risposte a scelta indica quello che esattamente è successo, mentre le altre, apparentemente non meno plausibili, descrivono dettagli che non corrispondono alla realtà. Solo il colpevole può sapere qual è la risposta vera e quali no. Per esempio, una domanda può essere: «Il corpo della vittima era bocconi? Supino? Di fianco? A sedere?». L'interrogato deve rispondere «No» o «Non so» ad ognuna delle alternative. Solo l'assassino sa che la vittima giaceva supina. In ricerche sperimentali sulla menzogna, Lykken ha trovato che il soggetto che è a conoscenza di particolari noti solo al colpevole presenta un'alterazione dell'attività neurovegetativa, rilevata dal poligrafo, in risposta all'alternativa giusta, mentre l'innocente risponde in maniera sostanzialmente uniforme a tutte le alternative. Malgrado il tentativo di tener nascosta la conoscenza di particolari compromettenti, quando si usa questa tecnica i tracciati delle risposte neurovegetative sono in grado di smascherare il colpevole.104 Il pregio di questo metodo è che reazioni insolite non possono essere dovute alla reazione emotiva dell'innocente di fronte a ingiusti sospetti. Anche se ha paura di non poter dimostrare la sua innocenza, è arrabbiato perché lo accusano a torto o infelice per la situazione in cui si trova, solo per un caso può avere una risposta più accentuata alla parola “supino”, per esempio, che alle rimanenti alternative. Usando un gran numero di queste domande, qualunque reazione insolita di un innocente dovrà distribuirsi a caso fra le alternative vere e quelle false. Abbiamo quindi una tecnica d'esame che elimina il pericolo più grave nell'individuazione della menzogna: i falsi positivi dovuti alla confusione fra le reazioni emotive dell'innocente e del colpevole. Purtroppo, questa tecnica così promettente non è stata finora oggetto di molte ricerche che ne valutassero l'esattezza e quei pochi studi condotti sull'argomento non sempre confermano i risultati originali di Lykken. Il recente rapporto dell'Ufficio federale per la valutazione tecnologica, che passa in rassegna la letteratura esistente sul poligrafo, osserva che l a Guilty Knowledge Technique «individua in media una percentuale leggermente inferiore di colpevoli». Inoltre, risulta una percentuale relativamente più alta di falsi negativi rispetto ai metodi convenzionali, mentre sono più rari i falsi positivi.105 In ogni caso, si tratta di una tecnica che presenta scarsissime possibilità di utilizzazione al di fuori delle indagini penali. Troppo spesso la persona che sospetta di essere ingannata non dispone delle informazioni che invece ha il mentitore e in assenza di questi dati il metodo non può essere usato: nel romanzo di Updike, la moglie sapeva benissimo di avere una relazione extraconiugale e con chi l'aveva, mentre il marito aveva solo i suoi sospetti. Non essendo a conoscenza di particolari accessibili solo ai colpevoli, il marito non poteva certamente condurre un interrogatorio sul modello di Lykken: per poterlo fare, bisogna sapere esattamente che cos'è successo e avere dei dubbi solo su chi è il responsabile. Anche quando si fosse a conoscenza di tutte le alternative possibili, questa tecnica non può servire per scoprire quale di queste è la giusta. È necessaria un'assoluta certezza circa lo svolgimento dei fatti: l'interrogativo è solo se il sospettato ne è o no l'autore. Se invece la domanda è «Che cos'ha fatto questa persona?» o «Che cosa prova questa persona?», il metodo di Lykken non serve. CAUTELE NELL'INTERPRETAZIONE DEGLI INDIZI COMPORTAMENTALI Valutare indizi comportamentali di falso è rischioso. L'elenco che segue riassume tutte le precauzioni per ridurre i pericoli descritti in questo capitolo. In ogni caso, si tratta sempre di v a lu t a r e improbabilità che un gesto o un'espressione sia indizio di bugia o di sincerità; raramente c'è la certezza assoluta. Nei casi in cui ciò avviene (un'emozione che contraddice la menzogna, che si manifesta in un'espressione del viso a tutto campo, oppure una parte dell'informazione nascosta che viene fuori di getto in un discorso avventato), anche il sospettato se ne accorge e a quel punto non può fare a meno di confessare. 1. Cercare di rendere esplicite le basi di ogni impressione o intuizione circa la sincerità o la menzogna del sospettato. Prendendo coscienza di come noi stessi interpretiamo gli indizi comportamentali, si impara a vedere i nostri errori e a riconoscere quando ci sono scarse probabilità di dare un giudizio esatto. 2. Ricordare che nell'individuazione delle menzogne ci sono due rischi opposti: falsi positivi (giudicare bugiarda una persona onesta) e falsi negativi (giudicare onesto un bugiardo). Non c'è modo di evitare completamente entrambi gli errori. Si considerino le conseguenze che possono derivare dall'uno o dall'altro. 3. L'assenza di indizi di menzogna non è prova di sincerità: alcune persone non lasciano trapelare nulla. Viceversa, la presenza di un indizio non sempre è prova di menzogna: alcune persone sembrano in colpa e a disagio anche quando dicono la verità. Si può ridurre l'effetto Brokaw, dovuto alle differenze individuali nel comportamento espressivo, basando il giudizio su una variazione nel comportamento del sospettato. 4. Ricercare nella propria mente eventuali preconcetti circa l'indiziato. Considerare se i preconcetti possono alterare le possibilità di giudizio corretto. Non cercare di dare un giudizio quando si è travolti dalla gelosia o da altre emozioni incontrollate. Evitare la tentazione di sospettare un inganno per il solo fatto che spiega eventi altrimenti inspiegabili. 5. Considerare sempre la possibilità che un segno d'emozione non sia indizio di menzogna ma dei sentimenti dell'innocente di fronte a sospetti ingiusti. Scartare come indizio ogni segno d'emozione se è tale che il sospettato potrebbe ragionevolmente provarla a causa del suo tipo di personalità, dei suoi rapporti precedenti con l'inquisitore o 6. 7. 8. 9. delle sue aspettative. Tenere a mente che molti indizi di falso sono segni di più d'una emozione: in questo caso non tenerne conto se una di tali emozioni è attribuibile al colpevole, una all'innocente. Considerare se il sospettato sa di esserlo e quali possono essere nell'uno o nell'altro caso i vantaggi o gli svantaggi ai fini dell'accertamento della verità. Essendo a conoscenza di particolari che il sospettato può conoscere solo se mente e avendo la possibilità di sottoporlo a interrogatorio, mettere a punto un esame con la tecnica della “conoscenza colpevole”. Non trarre mai conclusioni definitive circa la sincerità o falsità del sospettato esclusivamente in base all'interpretazione di indizi comportamentali. Questi devono servire soltanto a mettere sull'avviso della necessità di ulteriori informazioni e indagini. Gli indizi comportamentali, come il poligrafo, non possono mai fornire prove assolute. 10. Utilizzare il prontuario riportato in Appendice (Tab. 4) per valutare il tipo di menzogna, di mentitore e di inquisitore, per stimare la probabilità di errori o di giudizi esatti. Anche cercare di individuare le bugie usando il poligrafo come rivelatore della menzogna è rischioso. Benché oggetto principale del mio interesse siano gli indizi di natura comportamentale, non il poligrafo, e una vasta gamma di situazioni in cui le persone possono mentire o sospettare una bugia, e non i confini angusti di un esame strumentale, nel prossimo capitolo parlerò di questo metodo. Il poligrafo è usato in molte situazioni importanti (controspionaggio, investigazioni criminali e sempre più spesso anche in sede aziendale). Ritengo che la mia analisi della menzogna possa servire a capire meglio le possibilità e i punti deboli del poligrafo come lie detector (rivelatore delle menzogne). Inoltre, esaminare i problemi posti dal poligrafo può servire a capire meglio certi rischi di cui si è già parlato. Infine, c'è una questione interessante (e non priva di risvolti pratici) da affrontare: che cos'è più preciso nel rilevamento della menzogna, il poligrafo o l'analisi dei segni comportamentali? VII Il poligrafo come rivelatore della menzogna Un agente proveniente da un'altra città californiana chiese di essere assunto presso il Dipartimento di polizia della nostra città. Sembrava possedere tutte le qualità di un poliziotto modello, conosceva i codici e avendo già esperienza in questo lavoro pareva un candidato ideale. Non fece nessuna ammissione durante l'intervista preliminare all'esame con il poligrafo. Solo dopo che questo ebbe indicato la menzogna confessò di aver commesso oltre dodici furti con scasso mentre era in servizio, usando l'auto della polizia per trasportare le merci rubate, di aver affibbiato a persone innocenti droga rubata per eseguire degli arresti e di aver avuto più volte rapporti sessuali nella macchina di servizio anche con ragazzine di sedici anni [Risposta del Sergente W. C. Meek, poligrafista del Dipartimento di polizia di Salinas (California) a un sondaggio sull'uso del poligrafo presso i vari Dipartimenti di polizia].106 Un uomo di nome Fay fu arrestato a Toledo nel 1978 sotto l'accusa di aver ucciso per rapina un suo conoscente il quale, prima di morire, aveva detto che il rapinatore mascherato «sembrava Fay». Rimase due mesi sotto inchiesta a piede libero mentre la polizia cercava invano delle prove che lo inchiodassero. Alla fine, il procuratore offrì di lasciar cadere l'accusa se Fay accettava di sottoporsi alla prova del poligrafo, purché riconoscesse preventivamente l'ammissibilità dei risultati come prova a suo carico, nel caso che il test indicasse menzogna. Fay sottoscrisse l'accordo, fallì la prova, ne fallì una seconda con un diverso esaminatore, fu processato, riconosciuto colpevole di omicidio aggravato e condannato all'ergastolo. Dopo oltre due anni, i veri assassini furono catturati; confessarono, scagionando Fay che fu quindi immediatamente rimesso in libertà [Caso descritto dallo psicologo David Lykken in un articolo in cui definisce l'esame col poligrafo una “tecnica pseudoscientifica”].107 Esempi come questi, a favore e contro, alimentano la controversia sulla “macchina della verità”, ma i dati scientifici in proposito sono scarsissimi. Su oltre 4.000 fra articoli e libri, meno di 400 riportano ricerche e di questi non più di 30-40 soddisfano requisiti minimi di rigore scientifico.108 Non risolta dalla ricerca, la controversia sulla validità del poligrafo è aspra e accesa. La maggior parte dei difensori del metodo, più che da ambienti scientifici, proviene dalle file della polizia e del controspionaggio, o dal mondo dell'industria, preoccupato dello spionaggio industriale e delle malversazioni. Fra gli oppositori si trovano soprattutto esponenti del movimento dei diritti civili, alcuni giuristi e procuratori, oltre a qualche ricercatore che ha studiato 109 l'argomento. Il mio scopo in questo capitolo è rendere la discussione più comprensibile, non certo chiuderla definitivamente. Non ho linee di condotta da proporre circa l'opportunità di usare il poligrafo. Cerco piuttosto di chiarire la natura del problema per coloro che devono prendere simili decisioni, rendendo espliciti i termini delle scelte e noti i limiti delle prove scientifiche. Ma il mio discorso non è indirizzato soltanto a funzionari governativi, poliziotti, magistrati o procuratori: chiunque oggi dovrebbe capire i termini della discussione perché l'uso del lie-detector è questione di grande rilievo civile che non può essere correttamente risolta senza una migliore informazione dell'opinione pubblica. In più, possono esserci anche ragioni personali che consigliano a chiunque di avere le idee più chiare in proposito. In molte situazioni professionali, anche in lavori che non riguardano la sicurezza dello Stato, a livelli sia qualificati che non, persone che non hanno mai dato adito a sospetti di alcun genere si sentono chiedere di sottoporsi a un esame con il poligrafo per ottenere il posto, mantenerlo o avere una promozione. Molte delle idee che ho esposto finora a proposito degli indizi comportamentali di falso valgono altrettanto per la scoperta della menzogna sulla base di dati strumentali. Chi mente può tradirsi in un esame col poligrafo a causa del timore di essere scoperto, dei sensi di colpa o dell'eccitazione che gli dà il piacere della beffa. Chi conduce l'esame deve stare attento all'errore di Otello e all'effetto Brokaw, errori dovuti alle differenze individuali nel comportamento emotivo, e deve fare i conti con i due rischi opposti del falso positivo e del falso negativo. La maggior parte delle precauzioni e dei pericoli è la stessa, sia che per smascherare la menzogna ci si basi su indizi comportamentali, sia che ci si affidi ai risultati del poligrafo. Ma ci sono alcuni concetti nuovi, non semplici, che si devono chiarire quando si parla del poligrafo come rivelatore delle bugie: la differenza fra esattezza e utilità; la ricerca della verità di base, cioè la necessità di sapere con assoluta certezza chi ha mentito e chi no, per valutare l'esattezza del test; la frequenza base della menzogna, in particolare il rischio di molti errori se nel gruppo di sospettati i mentitori sono pochissimi; l'effetto di dissuasione, cioè la possibilità che la minaccia di essere sottoposti all'esame inibisca in qualche caso la menzogna, anche se la procedura d'esame è difettosa. CHI USA IL POLIGRAFO COME RIVELATORE DELLA MENZOGNA L'uso del poligrafo a fini investigativi è molto diffuso e in aumento. È difficile indicare con certezza una cifra, ma secondo le stime più attendibili si supera negli Stati Uniti il milione di esami l'anno.110 La maggior parte di questi (circa 300.000 l'anno) viene eseguita da aziende private, nell'ambito delle procedure di selezione del personale, nelle indagini sulla criminalità interna e nel quadro dei procedimenti per le promozioni dei dipendenti. L'uso del poligrafo negli esami di selezione del personale è abbondantemente praticato da aziende affiliate a varie associazioni, specialmente di commercianti (la National Association of Drug Stores, la National Association of Convenience, la Associated Grocers), oltre che da banche, società di custodia e trasporto valori come la Brinks, ecc.111 Pur essendo illegale in 18 Stati chiedere ai dipendenti di sottoporsi all'esame, sembra che i datori di lavoro trovino il modo di aggirare la legge: «L'azienda può comunicare al dipendente che è sospettato di furto ma non lo licenzierà se riesce a dimostrare la sua innocenza».112 In 31 Stati, invece, questa pratica è del tutto legale. Le ditte private che fanno più uso del poligrafo sono banche ed esercizi commerciali al minuto. Circa metà dei 4.700 esercizi della catena McDonald, per esempio, sottopone all'esame col poligrafo gli aspiranti in sede di selezione del personale.113 Dopo le aziende, l'uso più frequente si incontra nell'ambito dell'attività investigativa. Il poligrafo non è usato solo con gli indiziati di delitti, ma a volte anche con i testimoni o le vittime, quando le loro deposizioni danno adito a dubbi. Il Dipartimento di giustizia, l'FBI e la maggior parte delle polizie locali seguono il criterio di ricorrere all'esame con il rivelatore delle menzogne solo quando le indagini hanno ristretto la rosa dei sospettati. La legislazione della maggior parte degli Stati americani non ammette i risultati dell'esame come prova processuale. In 22 Stati sono ammessi, purché l'ammissibilità sia concordata in anticipo fra accusa e difesa. La difesa generalmente sottoscrive un accordo del genere in cambio della rinuncia della pubblica accusa a mandare avanti il procedimento se l'esame indica che l'imputato dice la verità. È per l'appunto quanto è successo nel caso Fay descritto all'inizio del capitolo. Di solito, come in questo caso, il procuratore non offre un accordo del genere se dispone di indizi che ritiene sufficienti a convincere la corte della colpevolezza dell'imputato. Nel Nuovo Messico e nel Massachusetts, i risultati dell'esame possono essere portati in dibattimento nonostante l'opposizione di una delle parti. Nelle Corti d'Appello federali (salvo poche eccezioni) i risultati costituiscono prove ammissibili solo a seguito di accordo fra le parti. Non è mai successo che una Corte d'Appello abbia annullato una sentenza di primo grado per non aver ammesso in dibattimento i risultati del rivelatore di menzogne. Secondo quanto afferma Richard K. Willard, viceprocuratore generale degli Stati Uniti, «non esistono sentenze della Corte Suprema sull'ammissibilità dei dati del poligrafo nei tribunali federali».114 Il terzo utente su larga scala di questo metodo è il governo federale. Nel 1982, i vari Enti federali hanno dichiarato di aver effettuato un totale di 22.597 esami,115 la maggior parte dei quali nell'ambito di indagini di polizia, eccettuati quelli eseguiti dai servizi di sicurezza, NSA (National Security Agency) e CIA (Central Intelligence Agency), che se ne servono in sede di spionaggio e controspionaggio (su presunti agenti nemici, su funzionari che hanno accesso a materiale riservato, nella selezione del personale). La NSA dichiarava nel 1982 9.672 esami, soprattutto a scopo di selezione. La CIA non pubblica questi dati, ma ammette di utilizzare il poligrafo in situazioni analoghe a quelle indicate dall'altro servizio di sicurezza. Nel 1982 il Dipartimento della difesa ha proposto alcune correzioni ai suoi regolamenti relativi all'esame con il poligrafo. Queste correzioni andavano in direzione di un più vasto uso del metodo in sede di selezione e di controllo del personale con accesso a informazioni riservate. Un altro grosso cambiamento sarebbe stato che il rifiuto dell'esame da parte dell'interessato avrebbe potuto comportare “conseguenze negative”. Nel 1983 il Presidente Reagan proponeva un ulteriore ampliamento nell'uso del metodo in questione: tutti i dipartimenti del governo federale, secondo questa proposta, erano autorizzati a «richiedere ai dipendenti di sottoporsi ad esame col poligrafo nel quadro di indagini sulla diffusione non autorizzata di materiale riservato [...]. [Come nelle proposte del Dipartimento della difesa, il rifiuto] di sottoporsi all'esame può sfociare in [...] sanzioni amministrative e nella negazione dell'accesso a informazioni riservate [...]. [Un'altra innovazione nelle direttive governative] permetterebbe inoltre l'uso del poligrafo su scala nazionale per tutti i dipendenti federali (e gli aspiranti) con libero accesso a informazioni riservate. Le nuove direttive danno ai dirigenti dei servizi l'autorità di sottoporre all'esame con il poligrafo (a intervalli sia regolari che irregolari) campioni di dipendenti che occupano posizioni delicate, oltre che di negare tali mansioni a chi rifiuti di sottoporsi all'esame».116 Il Congresso ha risposto alla proposta del Pentagono con una deliberazione che rimandava l'applicazione delle nuove circolari all'aprile 1984, chiedendo nel frattempo all'Ufficio per la valutazione delle tecnologie (OTA: Office of Technology Assessment) un rapporto sui dati scientifici circa la precisione del poligrafo.117 Il rapporto è stato pubblicato nel novembre 1983 e mentre sto scrivendo la Casa Bianca ha appena riveduto le sue proposte e il Congresso è in procinto di avviare le udienze conoscitive sull'argomento. Il rapporto dell'OTA è un documento straordinario che fornisce una completa e imparziale rassegna e analisi critica dei dati sulla validità scientifica dell'esame con il poligrafo.118 La sua stesura non era cosa facile, perché i temi in discussione sono complessi e l'argomento accende forti passioni anche fra gli addetti ai lavori. Non è da sottovalutare il fatto che del comitato consultivo fossero chiamati a far parte i protagonisti del dibattito scientifico: anche se chi li conosce non avrebbe pensato che fosse facile metterli d'accordo sull'equità di un qualunque rapporto... in effetti ci sono riusciti. I cavilli sono di poco conto, anche se ovviamente c'è qualche voce di dissenso. Alcuni specialisti, estranei peraltro alla comunità scientifica, ritengono che il rapporto dell'OTA sia troppo negativo circa la precisione del metodo. Fra questi ci sono gli operatori del Pentagono. Esiste un rapporto del 1983 a cura della NSA, sulla «Esattezza e utilità dell'esame col poligrafo», approvato dai direttori delle apposite ripartizioni delle tre armi, oltre che dall'Ente per la sicurezza nazionale che l'ha commissionato.119 Questo rapporto, che per ammissione degli stessi autori è stato preparato nel giro di un mese, non si avvale di consulenti che facciano parte a pieno titolo della comunità scientifica, ad eccezione di un singolo ricercatore, notoriamente un sostenitore del poligrafo. I due rapporti, quello dell'OTA e quello della NSA, sono concordi su un unico tipo di utilizzazione del metodo, anche se l'OTA è più cauto in proposito: sembra che l'esame con il poligrafo ottenga risultati superiori al caso se usato nelle indagini su certi tipi di episodi criminali. In seguito spiegherò meglio le divergenze fra i due rapporti nel valutare questi dati sperimentali. Il rapporto dell'OTA non fornisce conclusioni semplici o univoche da tradurre direttamente in proposte di legge. Come si può facilmente immaginare, l'esattezza del poligrafo, come di qualunque altra tecnica per l'individuazione delle menzogne, dipende dal tipo di menzogna, dal suo autore e da chi è chiamato a smascherarla. Quando si usa il poligrafo come rivelatore delle menzogne, l'esattezza dei risultati dipende anche dalla particolare tecnica d'interrogatorio, dall'abilità dell'esaminatore nel preparare il questionario e dal modo di leggere i tracciati. COME FUNZIONA IL POLIGRAFO Il Dizionario Webster, alla voce “poligrafo”, dà questa definizione: «Uno strumento per registrare simultaneamente i tracciati di varie pulsazioni diverse; in senso lato: RIVELATORE DELLA MENZOGNA». Le pulsazioni sono registrate dagli spostamenti di punte scriventi su una carta graduata che scorre a velocità costante. Di solito il termine “poligrafo” si riferisce alla misurazione di cambiamenti nell'attività del sistema nervoso autonomo, anche se le punte scriventi possono registrare qualunque tipo di funzione. Nel Cap. IV ho spiegato che le attività neurovegetative variazioni del ritmo cardiaco, della pressione arteriosa, della conduttività e temperatura cutanea, ecc. - sono indizi di attivazione emotiva. Ho anche accennato al fatto che alcune di queste alterazioni, come l'aumento dell'attività respiratoria, il sudore, oppure l'impallidire o arrossire del volto, si possono osservare senza l'ausilio di strumenti. Il poligrafo registra queste variazioni con maggior precisione, individuando anche cambiamenti più piccoli, invisibili a occhio nudo, e registrando certe attività vegetative, come il ritmo cardiaco, che altrimenti non sono osservabili. A questo scopo, amplifica i segnali raccolti da sensori applicati a diverse parti del corpo. Nell'uso tipico del poligrafo come rivelatore della menzogna, si applicano al soggetto quattro sensori: una cintura pneumatica o una benda attorno al petto e una allo stomaco misurano cambiamenti nella profondità e nel ritmo della respirazione, mentre un manicotto al braccio registra l'attività cardiaca e il quarto sensore è costituito da elettrodi metallici applicati alle dita, che rilevano i minimi cambiamenti della traspirazione. Il Dizionario Webster ha ragione di scrivere che il poligrafo a volte viene chiamato “rivelatore della menzogna”, ma questo è un termine che si presta ad equivoci. Il poligrafo non rivela la menzogna in sé. Tutto sarebbe enormemente più semplice se esistesse un qualche segno esclusivo della menzogna. Purtroppo non ce ne sono. Malgrado le controversie, su questo sono d'accordo tutti quelli che lo usano: la macchina non misura direttamente la menzogna. Tutto ciò che il poligrafo rivela sono segni di alterazione neurovegetativa, cambiamenti fisiologici prodotti principalmente dalle emozioni.120 Lo stesso vale per gli indizi comportamentali: si ricorderà che ho spiegato come nessun gesto, nessuna espressione del viso o alterazione della voce sia in sé e per sé un segno di bugia. Tutti questi comportamenti non segnalano altro che un'attivazione emotiva o una difficoltà nei processi di pensiero. Se ne può ricavare per inferenza la conclusione che la persona sta mentendo perché l'emozione che manifesta non corrisponde alla linea di difesa che si è scelta, oppure perché visibilmente sta facendo degli sforzi per inventare una storia plausibile. Il poligrafo fornisce informazioni meno precise quanto al tipo di emozione attivata: mentre una microespressione può rilevare rabbia, paura, senso di colpa, ecc., il poligrafo può dirci soltanto che l'interrogato prova una qualche emozione. Per scoprire la menzogna, l'esaminatore confronta l'attività registrata dal grafico in risposta alla domanda cruciale, l'unica rilevante in ordine all'esame («Li ha rubati lei i 750 dollari?», per esempio), con la reazione ad altre domande non attinenti al problema («Che giorno è oggi?», «Ha mai rubato qualcosa in vita sua?»). Il sospettato viene individuato come colpevole se dimostra un'attività neurovegetativa maggiore in risposta alla domanda cruciale rispetto alle altre. L'esame col poligrafo, come gli indizi comportamentali di bugia, è vulnerabile a quello che ho chiamato l'errore di Otello. Anche gli innocenti, non solo i colpevoli, possono emozionarsi quando sanno di essere sospettati. Trovandosi sotto inchiesta per un delitto, per un'attività che potrebbe mettere a repentaglio il proprio posto di lavoro in un settore delicato dell'amministrazione, per una fuga di notizie, una persona innocente ha tutte le ragioni di emozionarsi. L'emozione può essere tanto più intensa se il sospettato ha qualche motivo per credere che l'esaminatore e la polizia abbiano dei pregiudizi nei suoi confronti. Inoltre, la paura non è l'unica emozione che può entrare in gioco, come ho spiegato nel Cap. III, per l'innocente non meno che per il colpevole. LA TECNICA DELLA DOMANDA DI CONTROLLO Tutti quelli che usano il poligrafo, come coloro che ne criticano l'uso, riconoscono la necessità di ridurre questa particolare fonte di errore. Allo scopo dovrebbero servire le specifiche procedure d'esame, ma è dubbio fino a che punto possano ridurre o eliminare questo rischio. Le procedure d'interrogatorio in uso sono quattro (di più, se si considerano alcune varianti), ma qui ci limiteremo a considerarne solo due. La prima di queste, la tecnica della domanda di controllo, è usata soprattutto nelle indagini di polizia. Al sospettato vengono poste non solo domande rilevanti riguardo al delitto («Li ha rubati lei i 750 dollari?»), ma anche domande di controllo. Gran parte della controversia su questa tecnica nasce dal disaccordo su ciò che esattamente queste domande possono controllare e fino a che punto. Citerò la descrizione che di questa tecnica fa David Raskin, in quanto in campo scientifico è il suo principale sostenitore: «L'esaminatore può dire al soggetto: “Siccome questa è una faccenda di furti, ho bisogno di farle alcune domande generali a proposito del furto e sulla sua onestà personale. Dobbiamo farlo per stabilire che tipo di persona è lei rispetto a questo problema e determinare se è o non è quel tipo di persona che potrebbe aver rubato e poi mentire in proposito. Quindi, se le chiedo: durante i primi diciotto anni della sua vita ha mai preso qualcosa che non le apparteneva? Come risponderebbe a questa domanda?”. Il modo in cui è posta la domanda e l'atteggiamento dell'esaminatore mirano entrambi a mettere il soggetto sulla difensiva, inducendolo a rispondere “No” [...]. Questa procedura è ideata per creare la possibilità che un innocente sia più preoccupato della sincerità delle sue risposte alle domande di controllo che alle domande rilevanti. Un colpevole invece continuerebbe ad essere più preoccupato della menzogna che dice in risposta alle domande rilevanti, perché queste rappresentano per lui la minaccia più grave ed immediata. D'altro canto, l'innocente sa di rispondere sinceramente alle domande rilevanti e quindi si preoccupa di più della falsità o della dubbia verità delle sue risposte alle domande di controllo».121 David Lykken, lo psicologo che propone la tecnica della “conoscenza colpevole” che ho descritto nel capitolo precedente, è il principale critico del metodo della domanda di controllo (Raskin, dal canto suo, critica il metodo di Lykken). Nel suo libro recente sull'uso del poligrafo, Lykken scrive: «Perché la tecnica della domanda di controllo funzioni come pretendono i suoi sostenitori, bisogna che ogni soggetto sia indotto a credere che il test sia quasi infallibile (falso) e che avere una risposta emotiva intensa alle domande di controllo lo metta in pericolo (falso: è vero il contrario). È poco plausibile supporre che tutti gli esaminatori riescano a convincere tutti i soggetti della verità di queste due proposizioni false».122 Lykken ha ragione quando dice che queste due proposizioni che il sospettato deve prendere per buone sono entrambe false. Nessuno che usi il poligrafo crede alla sua infallibilità, nemmeno i suoi sostenitori più acritici. La macchina commette degli errori. E tuttavia Lykken ha probabilmente ragione a sottolineare che l'interrogato non deve saperlo.123 Se pensa che la macchina è soggetta a errori, l'innocente può avere paura per tutto il corso dell'esame, temendo di essere mal giudicato da una tecnica difettosa. Un soggetto così diffidente e intimorito potrebbe non presentare nessuna differenza di risposta alle domande rilevanti e di controllo e se presenta segni di attivazione emotiva a tutte le domande l'esaminatore non ha nessuna base di giudizio. Peggio ancora, può capitare che in questa situazione il soggetto mostri maggior paura in risposta alle domande che riguardano direttamente il delitto in questione, cosicché verrebbe giudicato colpevole.124 La seconda proposizione - che una risposta emotivamente intensa alle domande di controllo sia compromettente - è anch'essa falsa e ovviamente tutti gli specialisti lo sanno. E vero esattamente l'opposto: se l'interrogato si mostra più emozionato nella risposta alla domanda di controllo («Prima dei diciotto anni si è mai appropriato di qualcosa che non le apparteneva?») che a quella rilevante («Ha rubato lei i 750 dollari?»), è fuori da ogni pericolo, avendo dimostrato la propria innocenza. È il ladro, non l'innocente sospettato a torto, che si presume debba essere più turbato dalla domanda rilevante sui 750 dollari rubati. Perché l'esame funzioni, bisogna che la domanda di controllo produca nell'innocente una risposta emotiva almeno pari a quella causata dalla domanda cruciale, rilevante in ordine al delitto. Si spera di indurre nell'innocente una preoccupazione maggiore circa la domanda di controllo, facendogli credere che la sua risposta abbia un gran peso e influisca sul giudizio. Per esempio, l'esaminatore parte dal presupposto che quasi tutti prima dei diciotto anni abbiano commesso qualche furtarello. In condizioni normali, si può ammettere senza difficoltà una malefatta così remota e di poco conto, ma durante l'esame con il poligrafo no, perché l'esaminatore fa credere che una risposta affermativa potrebbe costituire un'ammissione compromettente: l'esaminatore vuole che l'innocente menta alla domanda di controllo, negando di aver mai preso qualcosa che non gli apparteneva. In questo modo, si aspetta che la menzogna produca una risposta emotiva che sarà registrata dai tracciati. Quando risponde alla domanda rilevante («Ha rubato lei i 750 dollari?») l'innocente risponde sinceramente di no. Poiché non mente, non sarà turbato, o almeno non come quando mente in risposta alla domanda di controllo, e i tracciati mostreranno un'attivazione minore. Anche il ladro risponderà di no alla domanda sui 750 dollari, ma sarà molto più turbato in questa che nella menzogna in risposta alla domanda di controllo. La logica vorrebbe quindi che il tracciato dell'innocente presentasse delle punte di attività in coincidenza con la domanda di controllo e quello del colpevole in coincidenza con la domanda rilevante. La tecnica della domanda di controllo elimina il rischio di falso positivo solo se l'innocente è più turbato dalla domanda di controllo che da quella relativa al delitto. Ma non sempre è così: sul piano intellettuale è facile capire che la domanda «Ha rubato lei i 750 dollari?» è più pericolosa dell'altra sui furtarelli da ragazzo.125 E ci sono varie ragioni per cui anche l'innocente può turbarsi di più a questa domanda più pericolosa. 1. La polizia è fallibile. All'esame col poligrafo non vengono sottoposti tutti quanti coloro che potrebbero teoricamente aver commesso un certo delitto. L'innocente invitato a sottoporsi alla prova sa che la polizia ha già commesso un grave errore sospettandolo, un errore che forse ha già compromesso la sua reputazione. Ha già fornito le sue spiegazioni e giustificazioni e chiaramente non hanno creduto alle sue parole. Può anche darsi che veda la prova del poligrafo come un'occasione fortunata per dimostrare la propria innocenza, ma potrebbe anche pensare che chi ha già fatto l'errore di sospettarlo continui a commetterne altri. Se i metodi della polizia sono così poco infallibili, forse non lo sarà nemmeno questa loro macchina. 2. La polizia è sleale. Una persona può nutrire ostilità e diffidenza verso forze dell'ordine già prima di essere sospettata di un delitto. Se l'indiziato innocente è membro di un gruppo di minoranza o appartiene a una sottocultura che disprezza la polizia o ne diffida, è probabile che si aspetti e tema di essere giudicato scorrettamente dall'esaminatore. 3. Le macchine sono fallibili. Naturalmente c'è anche chi ritiene del tutto ragionevole che la polizia indaghi sul suo conto per un delitto che non ha commesso. Anche una persona del genere può tuttavia diffidare del poligrafo: può essere una sfiducia verso la tecnologia in generale, oppure il frutto di uno dei tanti articoli o servizi televisivi che criticano la “macchina della verità”. 4. Il sospettato è un individuo pieno di paura, ostilità o sensi di colpa. Una persona che è generalmente incline alla paura o al senso di colpa potrebbe avere una risposta più intensa alle domande più specifiche e minacciose; lo stesso vale per un individuo generalmente ostile, specialmente se questo sentimento si rivolge contro le figure d'autorità. Tutte quante queste emozioni saranno registrate dai tracciati del poligrafo. 5. Il sospettato, benché innocente, ha una reazione emotiva agli eventi relativi al delitto in questione. Non solo il colpevole può avere una reazione più vivace alle domande rilevanti che a quelle di controllo. Immaginiamo per un momento una persona innocente, sospettata di aver ucciso un collega. Magari lo invidiava per la sua carriera più rapida: ora che il rivale è morto, può provare rimorso per questi sentimenti, un certo piacere per la sua “vittoria”, sensi di colpa per questo piacere, ecc. Oppure, supponiamo che sia stato lui a trovare il cadavere straziato: quando viene interrogato sul delitto, il ricordo di quella scena riattiva sentimenti di orrore che però, fiero com'è della sua virilità, rifiuta di ammettere. Può anche darsi che il sospettato non abbia nessuna consapevolezza di tutti questi sentimenti. In un caso del genere il poligrafo può benissimo individuare delle menzogne reali, che però riguardano non un omicidio ma soltanto dei sentimenti inconfessabili. Nel prossimo capitolo descriverò un caso del genere, in cui un innocente ha fallito la prova del poligrafo ed è stato condannato per omicidio. I sostenitori della tecnica della domanda di controllo riconoscono alcune di queste fonti d'errore, ma affermano che si tratta di casi rari. I critici sostengono che un'alta percentuale di innocenti (fino al 50%, secondo gli avversari più accesi di questo metodo) presenta una risposta emotiva più intensa alle domande rilevanti che a quelle di controllo. In questi casi il poligrafo sbaglia: è l'errore di Otello e un innocente non viene creduto. IL METODO DELLA CONOSCENZA COLPEVOLE La Guilty Knowledge Technique, che ho già descritto, riduce i rischi di questo tipo di errori. Per poterla usare, l'investigatore deve essere al corrente di certi particolari del delitto che solo il colpevole conosce. Supponiamo che nessuno, esclusi il datore di lavoro, il ladro e l'investigatore, sappia esattamente quanto denaro è stato sottratto, oppure che era tutto in biglietti da 50 dollari. Nel corso della prova col metodo della conoscenza colpevole, si chiederebbe al sospettato: «Se è stato lei a rubare il denaro dalla cassa, saprà quanto era. Quanti erano: 150 dollari? 350 dollari? 550 dollari? 750 dollari? 950 dollari?». Oppure: «Il denaro rubato era tutto in banconote dello stesso taglio. Se ha preso lei i soldi saprà di che taglio erano le banconote. Erano: biglietti da 5? Biglietti da 10? Biglietti da 20? Biglietti da 50? Biglietti da 100?». «Un innocente avrebbe solo una probabilità su cinque di reagire più intensamente alla risposta esatta se la domanda è una sola, una probabilità su venticinque se sono due e appena una su dieci milioni se si costruissero dieci domande del genere sui particolari del delitto»,126 afferma Lykken. E ancora: «La differenza psicologica importante fra il colpevole e un sospettato innocente è che uno solo era presente sulla scena del delitto; sa che cos'è successo; la sua mente contiene immagini che non sono accessibili all'innocente [...]. Data questa conoscenza, il colpevole riconoscerà persone, oggetti ed eventi associati al delitto [...] questo riconoscimento lo stimolerà e provocherà in lui un'attivazione emotiva».127 Una limitazione di questa tecnica è che non può essere usata sempre, neppure nelle indagini di polizia. Le informazioni circa il delitto possono aver ricevuto una tale pubblicità che non solo il colpevole, ma chiunque altro è al corrente dei fatti. Anche se la stampa non diffonde certe informazioni, lo fa la polizia nel corso degli interrogatori. Inoltre, certi delitti di per sé non si prestano altrettanto bene a questo metodo: sarebbe difficile, per esempio, decidere se una persona che ha confessato un omicidio menta o dica la verità quando afferma di aver ucciso per legittima difesa. In qualche caso, infine, un innocente sospettato può essere stato presente sulla scena del delitto e conoscere tutti i dettagli pertinenti. Raskin, che propugna la tecnica della domanda di controllo, afferma che il metodo della conoscenza colpevole dà luogo a più errori del tipo falso negativo: «Si deve presumere che il responsabile del delitto abbia cognizione dei particolari toccati dalle domande. Se però non ha fatto abbastanza attenzione a quei dettagli, non ha avuto modo di osservarli, o era ubriaco al momento del delitto, un esame imperniato sulle cognizioni di fatto non sarebbe adatto su quel soggetto».128 Il metodo non servirà a molto se per l'appunto il sospettato è una di quelle persone che non hanno reazioni neurovegetative visibili. Come ho detto nel capitolo precedente a proposito degli indizi comportamentali che permettono di individuare l'inganno, esistono ampie differenze individuali nel comportamento emotivo. Non c'è nessun segno di attivazione emotiva che sia completamente attendibile, nessuno che compaia necessariamente in chiunque. A prescindere da quello che si esamina - mimica, gesti, voce, ritmo cardiaco, respirazione - per alcune persone non sarà un indice sensibile. Ho già sottolineato come l'assenza di un lapsus, verbale o gestuale che sia, non dimostri affatto che il sospettato dica la verità. Analogamente, l'assenza di reazioni neurovegetative come quelle misurate dal poligrafo non dimostra, almeno non per tutti, che il soggetto non sia emozionato. Con la tecnica della conoscenza colpevole, persone che anche quando sono turbate non presentano un'accentuata attivazione del sistema nervoso autonomo daranno risultati inconcludenti. Il rapporto dell'OTA, frutto di una rassegna critica di tutto il materiale esistente, ha trovato che entrambi i metodi di interrogatorio sono esposti agli errori indicati dai rispettivi critici. La prova della conoscenza colpevole produce più falsi negativi, la tecnica delle domande di controllo più falsi positivi. Anche questa conclusione, tuttavia, è contestata da alcuni tecnici e ricercatori. Ambiguità continuano a sussistere in parte per la scarsità degli studi scientifici,129 in parte per la difficoltà intrinseca di organizzare una ricerca che accerti la validità del poligrafo. Difetti si possono riscontrare in quasi tutti i lavori eseguiti finora sull'argomento. Un problema cruciale è quello di stabilire quella che ho chiamato verità di base, cioè un qualche modo di sapere con certezza, indipendentemente dal poligrafo, se i soggetti dicono il vero o il falso. Se il ricercatore non conosce la verità di base, chi ha mentito e chi no, non c'è maniera di valutare la precisione del test. LA RICERCA SULLA VALIDITÀ DEL POLIGRAFO Gli approcci possibili allo studio scientifico della validità e attendibilità del poligrafo differiscono dal punto di vista della certezza che sono in grado di garantire circa la verità di base. Le ricerche sul campo prendono in esame episodi effettivamente avvenuti nella vita reale, mentre le ricerche analogiche considerano una situazione, di solito un esperimento, che è stata accuratamente predisposta dal ricercatore stesso. I due metodi sono esattamente complementari nei loro vantaggi e svantaggi. Nelle ricerche sul campo i soggetti hanno davvero a cuore l'esito dell'esame, cosicché ci sono buone probabilità che si mettano in moto emozioni intense; un altro vantaggio è che si tratta del tipo giusto di soggetti, non studenti universitari ma autentici sospettati di illeciti o delitti. Il punto debole di queste ricerche è l'incertezza che sussiste quanto alla verità di base. Il fatto di garantire dati certi in proposito è il maggior punto di forza della ricerca analogica: in un esperimento di laboratorio, il ricercatore sa esattamente chi mente e chi no, perché è lui a determinarlo in partenza. Il punto debole è che i “sospettati” di solito hanno poco o nulla da perdere e quindi non si può supporre che siano in gioco le stesse emozioni come in un interrogatorio di polizia; inoltre, i soggetti esaminati forse non somigliano al tipo di persone che di norma viene sottoposto all'esame col poligrafo. LA RICERCA SUL CAMPO Consideriamo perché è tanto difficile stabilire un criterio di verità di base nelle ricerche sul campo. Individui realmente sospettati di un reato sono sottoposti all'esame non a fini di ricerca scientifica ma nel quadro delle indagini. In un momento successivo si potrà disporre di informazioni circa eventuali confessioni dell'imputato, proscioglimento per mancanza d'indizi, sentenza di assoluzione o di colpevolezza. Parrebbe che con tutti questi dati non dovesse essere difficile accertare la verità di base, ma non è così. Cito dal rapporto dell'OTA: Il proscioglimento in istruttoria può esser dovuto a insufficienza di indizi piuttosto che all'innocenza del sospettato. Nel caso che il tribunale assolva l'imputato, non è possibile determinare fino a che punto la giuria fosse convinta della sua effettiva innocenza oppure soltanto che le prove non soddisfacessero il criterio della “colpevolezza al di là di un ragionevole dubbio”. Molto spesso la linea difensiva del colpevole è in realtà una confessione di colpevolezza per reati di minor conto; come nota Raskin, è difficile interpretare il significato di tali posizioni difensive per quanto riguarda la colpevolezza rispetto all'imputazione originaria. Il risultato è che, facendo riferimento all'esito dei procedimenti giudiziari, gli esami col poligrafo possono dare l'impressione di produrre un alto numero di falsi positivi nel caso di sentenze di assoluzione, oppure falsi negativi nel caso di non rinvio a giudizio.130 Si potrebbe pensare di risolvere questi problemi chiedendo a un comitato di esperti di riesaminare tutta la documentazione, per giungere a una decisione di colpevolezza o innocenza, ma la cosa presenta due difficoltà fondamentali: gli esperti non sempre sono unanimi e anche quando lo sono non abbiamo modo di escludere che sbaglino. Neppure la confessione dell'imputato è in ogni caso priva di ombre. Ci sono degli innocenti che si dichiarano colpevoli e, anche quando le confessioni sono valide, riguardano sempre una percentuale piccola (e forse tutt'altro che rappresentativa) dei casi sottoposti all'esame del poligrafo. Quasi tutte le ricerche sul campo risentono del problema che la popolazione di casi da cui è prelevato il campione non è identificata con certezza. RICERCHE ANALOGICHE Negli studi sperimentali i problemi non sono più facili, sono soltanto diversi. Qui abbiamo la certezza quanto alla verità di base: è il ricercatore che dà ad alcuni soggetti l'istruzione di commettere un “reato”, ad altri l'istruzione opposta. Il dubbio è se un reato fittizio potrà mai esser preso sul serio come vero. I ricercatori hanno elaborato procedure sperimentali capaci di coinvolgere i soggetti, cercando di motivarli con una ricompensa nel caso che non si lascino smascherare dal poligrafo; in qualche caso, c'è anche la minaccia di una punizione se la bugia viene scoperta, ma per ovvie ragioni deontologiche si tratta di punizioni di poco conto (per esempio, non viene accreditata nel curriculum dello studente la partecipazione all'esperimento se fallisce la prova). Quasi tutti gli autori che adottano la tecnica della domanda di controllo hanno usato per i loro esperimenti una qualche variante del modello di simulazione di reato proposto da Raskin: La metà dei soggetti riceve un nastro registrato che si limita ad informarli che in un ufficio dell'università è stato rubato un anello e che saranno sottoposti a un test col rivelatore delle menzogne per stabilire se hanno detto o meno la verità negando di aver partecipato al furto. Inoltre, se appariranno sinceri riceveranno un premio in denaro (10 $). All'altra metà dei soggetti si danno istruzioni sul reato che devono commettere [...]. Devono entrare in una stanza a un altro piano dell'edificio, far uscire l'impiegata con un pretesto, entrare nel suo ufficio appena è uscita, cercare nella scrivania una cassetta metallica contenente un anello, nasconderselo addosso e poi ritornare al laboratorio per il test col poligrafo. Sono avvertiti di non rivelare a nessuno il fatto che stanno partecipando a un esperimento e di prepararsi una scusa nel caso che qualcuno li sorprenda nell'ufficio. Inoltre, non devono rivelare nulla all'esaminatore perché in quel caso perderebbero ogni accredito per la partecipazione all'esperimento, oltre alla possibilità di ottenere il premio nel caso che superino la prova con il rivelatore della menzogna.131 Questo rappresenta un tentativo notevole di simulare una situazione reale di reato, ma rimane la questione se basti a mettere in moto le reazioni emotive dei soggetti. Dal momento che il poligrafo misura l'attivazione emotiva, un delitto simulato può dirci qualcosa sulla validità della prova solo se entrano in gioco le stesse emozioni, altrettanto forti che in una situazione reale. Nel Cap. III ho descritto tre emozioni che possono essere messe in moto dal fatto di mentire e per ognuna di queste ho spiegato quali sono i fattori che possono renderla più o meno intensa. Vediamo se queste emozioni sono o non sono prevedibili nel caso di un reato fittizio commesso nell'ambito di una ricerca sperimentale. Timore di essere scoperto. La posta in palio è la determinante principale ai fini del timore di essere smascherati. Nel Cap. III ho indicato le ragioni per cui sono convinto che l'apprensione sia direttamente proporzionale alla ricompensa per il successo e alla punizione per l'insuccesso; inoltre, penso che la severità della punizione sia fra le due la più importante. La gravità della minaccia influisce sulla paura dell'innocente di essere mal giudicato non meno che sulla paura del bugiardo di essere smascherato: l'uno e l'altro subiranno le stesse conseguenze. Nei delitti simulati le ricompense sono piccole e non ci sono punizioni; né chi mente né chi dice la verità dovrebbe provare grande apprensione. Può darsi che i soggetti siano un po' preoccupati di eseguire come si deve il compito per cui vengono pagati, ma quasi certamente si tratta di un sentimento molto tenue in confronto alla paura provata (sia dall'innocente che dal colpevole) in una vera inchiesta di polizia. Senso di colpa. Questa emozione tende a scomparire se la menzogna è autorizzata, richiesta e approvata. Nelle situazioni di delitto simulato, il soggetto riceve espressamente l'istruzione di mentire, perché con la sua menzogna collabora alla ricerca scientifica. È probabile quindi che i soggetti provino scarsissimo senso di colpa in questi esperimenti. Piacere della beffa. L'eccitazione della sfida, il piacere di avere la meglio, sono tanto più intensi se il destinatario dell'inganno ha la reputazione di essere difficile da mettere nel sacco. Riuscire a ingannare la macchina dovrebbe rappresentare una sfida del genere e questo sentimento dovrebbe essere particolarmente intenso in mancanza di altre emozioni concorrenti, come paura o senso di colpa.132 Solo chi mente, non chi è sincero, dovrebbe provare questa emozione. Da questa mia analisi sembra che i delitti simulati debbano attivare una sola delle tre emozioni possibili nel caso di un delitto autentico, precisamente il piacere della beffa. Inoltre, questa emozione dovrebbe provarla solo chi mente, non chi dice il vero. Dal momento che l'unico ad avere una reazione emotiva è probabilmente il bugiardo, dovrebbe essere facile scoprirlo, più facile a mio avviso che nelle situazioni di indagini reali, dove anche l'innocente è esposto agli stessi pericoli del colpevole. Le ricerche basate sul metodo del delitto simulato dovrebbero, secondo questo ragionamento, sopravvalutare l'esattezza del poligrafo come rivelatore della menzogna. RICERCHE IBRIDE C'è una terza impostazione sperimentale che cerca di evitare i difetti tipici sia delle ricerche sul campo che delle simulazioni analogiche, combinando i vantaggi di entrambi i metodi. In questo modello ibrido lo sperimentatore predispone le cose in modo che possa essere compiuto un reato autentico. Non ci sono dubbi sulla verità di base, come nella sperimentazione classica, ma la posta in gioco è alta per tutti i sospettati, innocenti o colpevoli, proprio come nelle situazioni reali. In una tesi di laurea pubblicata da Netzer Daie, membro dell'unità specializzata per gli interrogatori scientifici della polizia israeliana a Gerusalemme, si riferisce proprio un esperimento del genere. La menzogna era «autentica e perpetrata volontariamente anziché simulata [...] i soggetti erano convinti che chi li interrogava non sapesse chi aveva commesso l'irregolarità; i soggetti [...] [erano] sinceramente preoccupati dei risultati della prova [...] e l'operatore non conosceva la percentuale di colpevoli e di innocenti nei campione».133 I soggetti erano 21 poliziotti sottoposti a test carta e matita «che erano presentati come test attitudinali richiesti dal servizio; dovevano correggere da soli i test e questo offriva il destro per barare, rettificando le risposte iniziali (i fogli di risposta erano però trattati chimicamente in modo da rivelare le alterazioni). Dei 21 soggetti, 7 alterarono le risposte iniziali. In seguito, a tutti è stato detto che si sospettava che avessero contraffatto i risultati del test, che avevano la possibilità di sottoporsi a un esame con il poligrafo per dimostrare la loro innocenza e che dall'esito della prova poteva dipendere la loro carriera».134 È realistico permettere ai soggetti di rifiutare la prova: nelle indagini di polizia l'esame col poligrafo è opzionale, non può essere imposto al sospettato. Dei 7 colpevoli di falso 3 hanno confessato spontaneamente, un altro colpevole e due innocenti hanno rifiutato la prova e un quinto colpevole non si è presentato al test.135 In totale, quindi, solo 15 dei 21 soggetti iniziali si sono sottoposti alla prova, 2 colpevoli e 13 innocenti. L'esame è stato condotto con la tecnica delle domande di controllo ed entrambi i falsari sono stati esattamente individuati; dei 13 innocenti, 2 sono stati erroneamente indicati come mentitori. Nessuna conclusione definitiva si può trarre da questo lavoro, data l'esiguità del campione, ma il modello di ricerca potrebbe rivelarsi molto utile, anche se si pongono alcuni problemi etici inducendo i soggetti a comportamenti scorretti. I ricercatori israeliani ritengono che la cosa sia giustificata dall'importanza di valutare esattamente la validità e attendibilità del poligrafo: «Migliaia di persone vengono sottoposte annualmente a interrogatori con il poligrafo [...] e decisioni importanti si basano sui risultati di questi esami. Eppure la validità di questo strumento non è conosciuta».136 Forse è più giustificato imporre una procedura sperimentale di questo tipo quando i soggetti sono poliziotti, dato che queste persone si assumono rischi speciali nel quadro della loro professione e dato che sono più direttamente coinvolti nell'uso o abuso del poligrafo. Il punto di forza di questo modello ibrido di ricerca è che è reale. In effetti alcuni poliziotti barano davvero nei test: «Un'indagine interna riservata condotta da funzionari direttivi dell'FBI ha accertato che varie centinaia di impiegati d'ufficio erano coinvolti in un diffuso fenomeno di falsificazione dei risultati negli esami per l'assegnazione di incarichi speciali particolarmente ambiti».137 L'esperimento di Gerusalemme non era un gioco, non si trattava solo dell'eccitazione di riuscire a mettere nel sacco lo sperimentatore: la paura di essere scoperti doveva essere forte e in alcuni almeno doveva esserci anche qualche senso di colpa, perché era in gioco, se non la carriera, almeno una reputazione di onestà. RISULTATI DELLE RICERCHE Rispondenti a requisiti minimi di scientificità, abbiamo dieci ricerche sul campo e quattordici analogiche basate sulla tecnica delle domande di controllo e sei (tutte analogiche) basate sul metodo della conoscenza colpevole.138 Il grafico riprodotto nelle pagine seguenti, costruito sulla base di questi lavori, dimostra che il poligrafo in effetti funziona: riesce a individuare i bugiardi più spesso che no, ma fa anche degli errori. Quanti errori - e di che tipo - dipende dal tipo di ricerca, sperimentale o sul campo, e dal metodo utilizzato, domande di controllo o conoscenza colpevole, oltre che dalle condizioni particolari dei singoli lavori. Ci sono comunque alcuni risultati complessivi: 1. L'esattezza è maggiore nelle ricerche sul campo che in quelle analogiche. Vari fattori possono influirvi: nelle ricerche sul campo c'è una maggiore attivazione emotiva, i soggetti sono meno istruiti, c'è meno certezza circa la verità di base e spesso rispetto alla rappresentatività dei campioni. 2. I falsi positivi sono frequenti, salvo che col metodo della conoscenza colpevole. C'è bisogno di molte altre ricerche, specialmente sul campo o del tipo ibrido, che usino il metodo della conoscenza colpevole. 3. I falsi negativi sono frequenti, soprattutto col metodo della conoscenza colpevole. Sebbene Raskin sia convinto che i dati del grafico sottovalutino l'esattezza del poligrafo e Lykken che la sopravvalutino, entrambi concordano con questi tre dati complessivi. Il disaccordo permane sui vari punti cruciali riguardo all'affidamento che si può fare sui risultati della prova con il poligrafo. Per esempio, gli psicopatici sono più capaci degli altri di sfuggire all'individuazione? I dati in proposito sono contraddittori, soprattutto per quanto riguarda la tecnica della domanda di controllo. Per ciò che concerne la tecnica della conoscenza colpevole, Lykken ritiene che le menzogne degli psicopatici possano essere smascherate attraverso l'uso di questo metodo: infatti, sebbene questi individui non dimostrino alcuna paura di essere scoperti, né alcun segno di ciò che chiamo piacere della beffa, il semplice fatto di riconoscere la risposta corretta fra le alternative presentate produrrà in sé cambiamenti nel sistema neurovegetativo. Tuttavia, non vi sono finora ricerche sperimentali che confermino la validità di esami col poligrafo, condotti col metodo della conoscenza colpevole, quando il soggetto è uno psicopatico. Si rende necessario un approfondimento degli studi, coinvolgendo magari altre tipologie di soggetti la cui responsività agli esami col poligrafo è minima. Figura 7-1. Il grafico riporta le medie, che non sempre rispecchiano adeguatamente la gamma dei risultati delle varie ricerche. Le percentuali massime e minime sono le seguenti. Colpevoli esattamente individuati: nelle ricerche sul campo, 71-99%; nelle ricerche sperimentali con le domande di controllo, 35-100%; nelle ricerche sperimentali con il metodo della conoscenza colpevole, 61-95%. Innocenti esattamente individuati: ricerche sul campo, 13-94%; ricerche sperimentali (domande di controllo), 32-91%; ricerche sperimentali (conoscenza colpevole), 80-100%. Innocenti individuati erroneamente come colpevoli: ricerche sul campo, 0-75%; ricerche sperimentali (domande di controllo), 2-51%; ricerche sperimentali (conoscenza colpevole), 0-12%. Colpevoli erroneamente giudicati innocenti: ricerche sul campo, 0-29%; ricerche sperimentali (domande di controllo), 0-29%; ricerche sperimentali (conoscenza colpevole), 5-39%. Inoltre, certe contromisure, cioè tentativi deliberati messi in atto per sfuggire all'individuazione, possono essere efficaci? Anche in questo caso, ci vorrebbero altre ricerche per risolvere la contraddizione nei dati fin qui esistenti. Ritengo che sarebbe giudizioso ammettere questa possibilità, soprattutto per soggetti addestrati (penso in particolare agli agenti dei servizi segreti). Il capoverso conclusivo del rapporto dell'OTA afferma che la ricerca fornisce «qualche prova della validità dell'esame col poligrafo in aggiunta alle procedure normali di indagine su certi tipi di episodi penali».139 Io penso che sia possibile spingersi un po' oltre tale cauta conclusione, pur mantenendo una qualche sembianza di consenso fra i principali specialisti. Si dovrebbe dare maggior peso ai risultati che indicano l'innocenza rispetto a quelli che indicano menzogna. A meno che le prove non siano per altri versi convincenti, gli investigatori possono ben decidere di lasciar cadere le accuse contro un sospettato che risulti sincero al test. Raskin ed altri autori fanno questa proposta soprattutto quando si usa il metodo delle domande di controllo, in quanto dà luogo a pochi falsi negativi. Quando i risultati della prova indicano menzogna, ciò non dev'essere considerato «base sufficiente per la condanna e nemmeno per l'incriminazione [...] un tale risultato deve indurre semplicemente ad approfondire l'indagine sul sospettato».140 Lykken è sostanzialmente d'accordo con questa affermazione di Raskin, anche se con qualche riserva.141 Nel Cap. VIII spiegherò quello che chiamo procedimento di verifica e controllo e nell'Appendice (Tab. 4) riporterò l'elenco delle 38 domande che si possono porre a riguardo di una qualunque bugia per avere una stima delle probabilità di scoprirla sia dal poligrafo che dagli indizi comportamentali. Fra gli esempi che citerò per illustrare il procedimento c'è un resoconto dettagliato dell'esame col poligrafo condotto su un indiziato di omicidio, un esempio che offrirà un'altra occasione per riesaminare il problema di come dev'essere usata questa tecnica in sede di indagini di polizia. UN CONFRONTO FRA POLIGRAFO E INDIZI COMPORTAMENTALI I tecnici del poligrafo non formulano il giudizio esclusivamente sulla base dei tracciati. Non sempre l'esaminatore sa che cosa hanno rivelato le indagini precedenti, ma nel corso dell'intervista preliminare ottiene certe informazioni, mentre spiega la procedura d'esame e mette a punto le domande da usare nel corso della prova, inoltre, ricava certe espressioni dalla mimica, dalla voce, dai gesti e dal modo di parlare del soggetto durante questo colloquio iniziale, nell'esame stesso e nell'intervista conclusiva. Ci sono due scuole di pensiero circa l'opportunità o meno che l'esaminatore tenga conto anche degli indizi comportamentali. Le istruzioni che vengono fornite agli operatori quando si vuole che li prendano in considerazione, almeno quelle che ho potuto vedere, sono deprecabilmente poco aggiornate, infarcite di idee sbagliate accanto a qualcuna giusta. Esistono quattro sole ricerche in cui si mettono a confronto i giudizi fondati sul poligrafo e insieme sull'osservazione del comportamento del sospettato, con giudizi ricavati dal solo esame dei tracciati. Due lavori indicano che l'esattezza dei giudizi basati sui soli indizi comportamentali era pari a quella dei giudizi fondati sui soli dati strumentali; un terzo lavoro indica che gli indizi comportamentali davano luogo a giudizi validi, ma non come quelli fondati sul solo tracciato del poligrafo. Tutte e tre queste ricerche presentavano grossi difetti: incertezza circa la verità di base, un numero troppo piccolo di soggetti e di esaminatori.142 Questi problemi sono stati eliminati nel quarto lavoro, curato da Raskin e Kircher, tuttora inedito,143 da cui risulta che i giudizi basati sugli indizi comportamentali non erano migliori di quelli ottenibili tirando a sorte, mentre i giudizi ricavati dal solo esame dei tracciati, senza alcun contatto con i soggetti, avevano una precisione molto superiore al livello del caso. Le persone si lasciano spesso trarre in inganno, interpretando male gli indizi comportamentali o lasciandoseli sfuggire del tutto. Noi tuttavia sappiamo che gli indizi significativi esistono e pensiamo che con uno specifico addestramento la capacità di coglierli esattamente possa aumentare. Sarebbe importante, in uno studio come quello di Raskin e Kircher, confrontare l'esattezza dei giudizi ricavati dal tracciato del poligrafo con i giudizi di osservatori addestrati. La mia ipotesi è che, almeno per alcuni soggetti, i dati comportamentali in aggiunta al tracciato del poligrafo accrescerebbero la validità dell'esame. Gli indizi comportamentali possono dirci qual è l'emozione che il soggetto prova: quella che produce i segni di attivazione neurovegetativa visibili sul tracciato è paura, rabbia, sorpresa, dolore o eccitazione? Forse è possibile ricavare informazioni più specifiche anche dallo stesso tracciato. Il lettore ricorderà i nostri dati (descritti alla fine del Cap. IV) circa un diverso modello di risposta neurovegetativa per le varie emozioni. Nessuno finora ha tentato questo approccio all'interpretazione dei dati strumentali, ma certo sapere qual è l'emozione specifica potrebbe servire a ridurre l'incidenza degli errori. Un'altra questione importante che dev'essere studiata è se, combinando l'analisi degli indizi comportamentali con l'interpretazione qualitativa dei tracciati del poligrafo, si possano individuare eventuali contromisure per sfuggire al test. Il poligrafo si può utilizzare solo con un sospettato che sia disposto a collaborare e dia il consenso all'esame. Gli indizi comportamentali si possono sempre leggere, senza permesso, senza preavviso e senza che il sospettato sappia di esserlo. Mentre è possibile che l'esame col poligrafo sia vietato in certe situazioni, non si potrà mai mettere fuori legge l'uso degli indizi comportamentali per cercar di scoprire le menzogne. In molti casi in cui si sospetta un inganno, si tratti di rapporti coniugali, diplomatici o commerciali, ovviamente il poligrafo è fuori discussione. Non importa se nessuno si aspetta la sincerità della controparte: sta di fatto che non è lecita neppure una serie di domande che somigli lontanamente a un interrogatorio. Quando si presume un rapporto di fiducia, come fra coniugi, amici, genitori e figli, una serie ininterrotta di domande scottanti rischia di mettere a repentaglio quel rapporto. Anche un genitore, che magari ha sul figlio più autorità di quanta ne abbia la maggior parte degli inquisitori sugli inquisiti, può non potersi permettere un vero e proprio interrogatorio: non accettare l'iniziale affermazione d'innocenza da parte del figlio potrebbe minare per sempre i loro rapporti, anche se il figlio si sottomette all'interrogatorio, cosa che non tutti farebbero. Alcuni forse pensano che è meglio, più morale, non cercare di smascherare le menzogne, accettare le persone sulla parola, prendere la vita per quello che appare e non far nulla per ridurre le probabilità di essere ingannati. In questo modo si sceglie di non correre il rischio di accusare qualcuno a torto, anche se ciò implica il rischio di lasciarsi ingannare. A volte questa può essere la decisione migliore. Dipende dalla posta in gioco, da chi sarebbe il sospettato, dalla probabilità di essere ingannati e dalla personalità della vittima potenziale dell'inganno. Nel romanzo di Updike, Marry Me, che cosa avrebbe avuto da perdere Jerry credendo alla fedeltà della moglie e come valutare questo rischio a paragone del rischio opposto, di non credere alle sue parole se invece Ruth fosse stata del tutto innocente e sincera? In alcuni matrimoni, per esempio, il danno causato da un'accusa ingiusta può essere maggiore di quello che si rischia lasciando correre un inganno finché le prove non diventano schiaccianti, ma non sempre è così: tutto dipende dai caratteri peculiari di ogni singola situazione. L'unico suggerimento su ciò che deve sempre esser preso in considerazione quando si cerca di soppesare i rischi opposti è di non giungere mai a conclusioni definitive circa la sincerità o falsità di una persona sulla sola base del poligrafo o di indizi comportamentali. Il Cap. VI ha esposto i pericoli nell'interpretazione degli indizi comportamentali, insieme con le precauzioni che si possono prendere per ridurli. Quanto ho detto in questo capitolo dovrebbe a sua volta aver chiarito i rischi che si corrono interpretando il tracciato del poligrafo come prova di menzogna. Chi cerca di smascherare le bugie deve sempre fare una stima della probabilità che un gesto, un'espressione, una risposta neurovegetativa indichino menzogna o sincerità: è raro che ci sia la certezza assoluta. Riconoscere la presenza di indizi (comportamentali o strumentali) di menzogna o verità può costituire solo una base per decidere se proseguire o meno l'indagine. Si deve inoltre valutare la probabilità di smascherare la menzogna con cui eventualmente abbiamo a che fare: certi inganni sono così facili da portare a buon fine che ci sono scarse probabilità che emerga un qualunque indizio, altri invece sono così difficili che gli indizi saranno numerosi. Nel prossimo capitolo vedremo quali fattori considerare per valutare la probabilità che abbiamo di individuare i vari tipi di menzogna. VIII Verifica e controllo La maggior parte delle bugie riesce perché nessuno si prende la briga di vedere come può smascherarle. Di solito poco importa. Ma quando la posta in gioco è alta, vale la pena di fare questa fatica. La procedura di verifica e controllo che propongo non è un lavoro né semplice né rapido. Molte domande vanno prese in considerazione per stimare se sono probabili degli errori da parte dell'autore dell'inganno e, in caso affermativo, quali errori aspettarsi e come coglierli in certi indizi comportamentali. Bisogna interrogarsi sulla natura stessa dell'inganno, sulle caratteristiche del suo autore e infine di chi dovrebbe smascherarlo. Nessuno può avere l'assoluta certezza quanto al fatto che il bugiardo riesca o no a farla franca o che una persona sincera riesca a dimostrare la propria innocenza. La procedura di verifica che suggerisco permette solo di fare delle congetture sulla base di cognizioni di fatto, ma una stima del genere dovrebbe ridurre entrambi i tipi di errore, falsi negativi (credere alla bugia) e falsi positivi (non credere alla verità). Se non altro, rende edotti sia l'autore che il destinatario dell'inganno di quanto è complicato prevedere se l'inganno potrà o non potrà essere smascherato. La verifica sistematica delle alternative permetterà di valutare le probabilità di avere la conferma o la smentita dei sospetti. In qualche caso tutto quello che si verrà a sapere è che non è possibile averla (magari l'avesse saputo Otello). Oppure, si può capire quali sono gli errori più probabili del bugiardo e quindi dove cercarli. Un lavoro del genere potrebbe essere utile anche al bugiardo: qualcuno potrebbe decidere che le probabilità sono troppo sfavorevoli e quindi desistere dal suo piano, altri invece potrebbero essere incoraggiati dalla facilità dell'inganno, oppure rendersi conto di dove devono concentrare gli sforzi per evitare gli errori più probabili. Nel prossimo capitolo, spiegherò perché le informazioni contenute in questo e in altri capitoli generalmente si risolvono a vantaggio più della vittima che dell'autore dell'inganno. Per una verifica completa, bisogna rispondere a 38 domande. La maggior parte di queste le ho già indicate parlando di altri argomenti. Ora le ho raccolte in un unico prontuario, con l'aggiunta di poche voci che finora non avevo avuto ragione di scrivere. In queste pagine analizzerò alcune bugie di varia natura, usando il prontuario per mostrare perché certe sono facili da portare a termine e altre invece difficili (il prontuario con le 38 domande è riportato nella Tab. 4 dell'Appendice). Una bugia facile dovrebbe dar luogo a pochi errori e quindi essere difficile da scoprire, mentre una bugia difficile per il suo autore dovrebbe risultare facile da smascherare. Una bugia per essere facile non deve obbligare a dissimulare o fingere certe emozioni, deve poter essere preparata e il suo autore deve avere una lunga esperienza, mentre il destinatario dev'essere fiducioso e senza sospetti. Un articolo di giornale, il cui titolo suona all'incirca Cacciatori di teste nella giungla aziendale,144 descrive un certo numero di casi in cui l'inganno è facilissimo. “Cacciatori di teste”, nel gergo aziendale, sono gli investigatori incaricati di scoprire quei dirigenti che potrebbero essere tentati di abbandonare la ditta a favore di un concorrente. Ovviamente nessuna ditta vuol perdere i suoi dirigenti migliori, cosicché le domande non possono essere molto dirette ed esplicite. Sara Jones, una cacciatrice di teste per conto di un'agenzia di New York, racconta come fa ad estorcere informazioni dalle sue “prede”, fingendo di intervistarle per una ricerca industriale: «Stiamo facendo uno studio sulla correlazione fra tipo d'istruzione e carriera. Potrei farle un paio di domande? Il suo nome non mi interessa, ma solo i dati statistici sugli studi che ha fatto e la sua carriera». Poi gli chiede tutto quello che lo riguarda: «quanto guadagna, se è sposato, quanti anni ha, numero di figli... Fare il cacciatore di teste vuol dire manipolare gli altri perché ti diano informazioni. Un raggiro, ecco che cos'è».145 Il colloquio fra lo psichiatra e Mary, la paziente di cui ho parlato nel primo capitolo, ci fornisce l'esempio di una bugia difficilissima: MEDICO: Allora, Mary, come si sente oggi? MARY: Bene, dottore. Non vedo l'ora di passare sabato e domenica con i miei, capisce. Sono, ecco, sono cinque settimane ora da quando sono venuta all'ospedale. MEDICO: Niente più depressione, Mary? Niente idee di suicidio, ne è sicura adesso? MARY: Mi vergogno davvero di questa cosa. No, di certo non mi sento a quel modo ora. Voglio solo andar via, stare a casa con mio marito. Anche Mary, come Sara, riesce nella sua bugia. Né l'una né l'altra viene smascherata, ma Mary avrebbe potuto esserlo. Da tutti i punti di vista, le probabilità erano contro di lei, mentre erano tutte a favore nel caso di Sara. Quella di Mary è di per sé una menzogna più difficile da far passare; inoltre, Mary è meno abile ed esercitata come bugiarda, mentre il medico ha diversi vantaggi dalla sua come cacciatore di bugie. Vediamo anzitutto le differenze fra le due bugie, a prescindere dalle caratteristiche dei protagonisti. Mary deve mentire circa i propri sentimenti, Sara no. Mary cerca di dissimulare la disperazione che la spinge al suicidio: questi sentimenti possono trapelare, oppure la difficoltà di nasconderli potrebbe tradire la sua finta serenità. Non solo deve nascondere quello che prova, ma, a differenza di Sara, Mary prova anche sentimenti piuttosto intensi per il fatto stesso di mentire, e deve cercare di nascondere anche questi. L'inganno di Sara è in qualche modo autorizzato, fa parte del suo lavoro, cosicché non suscita in lei nessun sentimento di colpa. La bugia di Mary la fa sentire in colpa perché non è autorizzata: una paziente dev'essere onesta col medico che cerca di aiutarla e, in più, Mary ha simpatia per il suo medico. Inoltre si vergogna di mentire e anche di progettare il suicidio. Le bugie più difficili sono quelle che riguardano le emozioni provate sul momento; quanto più le emozioni sono intense e quanto maggiore è il numero di emozioni da nascondere, tanto più difficile sarà l'inganno. Finora ho spiegato perché, oltre alla sua infelicità, Mary doveva provare anche vergogna e senso di colpa. Ora dall'inganno in sé passiamo a considerare i suoi autori: vedremo che Mary deve provare anche una quarta emozione, che deve cercare di tenere nascosta. È meno abile e meno addestrata a mentire in confronto a Sara. Non le è mai capitato prima di cercar di nascondere la depressione e i progetti di suicidio, né ha esperienza di menzogne di alcun tipo nei confronti di uno psichiatra. La mancanza di pratica le fa temere di essere scoperta e questa paura, naturalmente, può trapelare, aumentando così il carico di emozioni da dissimulare. La malattia psichiatrica la rende inoltre particolarmente esposta alla paura, ai sensi di colpa e alla vergogna, né si può supporre che le riesca facile nascondere queste emozioni. Mary non ha previsto tutte le domande che il medico le può fare e deve improvvisare sul momento. La situazione di Sara è del tutto opposta: ha pratica in questo tipo di bugia, l'ha già fatto tante volte e i successi passati le danno fiducia nelle proprie capacità; inoltre, ha una linea già pronta, studiata e ripassata a puntino. Come se non bastasse, ha il vantaggio di aver studiato e praticato recitazione, cosa che la mette in condizione di impersonare abilmente ruoli fittizi, a volte fino al punto di convincere perfino se stessa. Il medico ha tre vantaggi sul dirigente intervistato da Sara, ai fini di scoprire l'inganno. Questo non è il primo incontro e la conoscenza che ha di Mary gli permette più facilmente di evitare gli errori dovuti alle differenze individuali. Non tutti gli psichiatri sono specificamente preparati a cogliere gli indizi di emozioni nascoste, ma il nostro psichiatra ha questa competenza. A differenza del dirigente intervistato, sta sul chi vive: sa che può essere ingannato, perché gli hanno insegnato che dopo qualche settimana d'ospedale un paziente con tendenze suicide può nascondere i suoi veri sentimenti per ottenere un permesso o la dimissione e poter mettere in atto i suoi piani. Gli errori di Mary sono evidenti nelle parole, nella voce, nei gesti e nelle espressioni. Non ha pratica di bugie, non è una gran parlatrice e si lascia sfuggire molti indizi nelle parole che sceglie e nella voce stessa: errori, giri di parole, contraddizioni, pause. Le forti emozioni contribuiscono a causare questi errori e a rendere più acuta la sua voce. Indizi che rivelano queste emozioni nascoste (disperazione, paura, senso di colpa, vergogna) sono inoltre evidenti in certi lapsus gestuali (come stringersi nelle spalle), nei movimenti manipolatori, nella riduzione dei gesti illustrativi e in microespressioni del viso. Tutte e quattro le emozioni trapelano nel movimento dei muscoli facciali involontari, malgrado gli sforzi per nasconderle. Conoscendo già la paziente, il medico avrebbe dovuto essere in grado di interpretare esattamente gli indizi costituiti dai movimenti illustrativi e manipolatori, indizi che in condizioni diverse si sarebbero prestati ad equivoci a causa di differenze individuali incontrollabili. In realtà, il medico non è riuscito a cogliere gli indizi che rivelavano l'inganno di Mary, anche se presumo che se ne sarebbe accorto se fosse stato al corrente di quanto ho spiegato fin qui. La situazione di Sara, invece, è quasi ideale per chi mente: nessuna emozione da nascondere; pratica abbondante proprio in questo tipo di bugia; tempo di prepararsi; fiducia nei propri mezzi, grazie ai successi precedenti; talenti naturali e acquisiti da utilizzare nell'inganno; autorizzazione a mentire; una vittima fiduciosa che è tanto più esposta ad errori in un primo incontro; infine, una vittima che non ha speciali competenze per giudicare le persone. Naturalmente, nel caso di Sara non ho a disposizione nessun filmato da analizzare in cerca di eventuali indizi rivelatori, dato che l'unica fonte è un articolo di giornale. Posso solo presumere che né io né nessun altro riusciremmo a scoprire indizi significativi. La sua era una bugia molto facile e non c'era ragione che commettesse degli errori. L'unico vantaggio che mancava a Sara sarebbe stata una vittima che collaborasse attivamente a farsi ingannare, che avesse bisogno per ragioni sue di credere alla bugia. Né Sara né Mary godevano questo vantaggio, che invece aveva Ruth, la moglie adultera del romanzo di Updike di cui ho già parlato varie volte. La sua era una bugia molto difficile che doveva essere infarcita di sbagli, ma il marito, vittima volontaria, non la scopre. Jerry non approfondisce e il romanziere lascia capire che non si sforza di mettere alle corde la moglie perché ha una ragione tutta sua per evitare uno scontro a proposito della fedeltà coniugale: anche lui ha una relazione e, come si viene a sapere, proprio con la moglie dell'amante di Ruth. Confrontiamo la bugia di Ruth, difficile ma andata a buon fine, con un'altra, molto facile, non scoperta per tutt'altre ragioni. La troviamo descritta in una recente analisi delle tecniche usate dai truffatori di professione: Nel trucco dello “specchio” [...] il truffatore sbatte in faccia alla vittima un suo pensiero nascosto, e così la disarma giocando d'anticipo. John Hamrak, uno dei truffatori più geniali, attivo in Ungheria ai primi del secolo, si presentò un giorno, con un complice vestito da operaio, nell'ufficio di un assessore al comune, annunciando che erano venuti a prendere la pendola che doveva essere riparata. L'assessore, probabilmente per il grande valore dell'orologio, era riluttante a consegnarlo. Invece di insistere nella parte, Hamrik reagì richiamando l'attenzione dell'assessore sul valore straordinario dell'oggetto, dichiarando che era questa la ragione per cui era venuto di persona. In questo modo il truffatore abile si presta volentieri a richiamare l'attenzione della vittima sul punto più delicato, ottenendo con questa mossa che sembra nuocere alla sua causa l'effetto di rendere più credibile il proprio ruolo.146 La prima questione da considerare per valutare la probabilità che emerga qualche indizio significativo è se la menzogna comporta sul momento delle reazioni emotive. Come ho spiegato nel Cap. III e poi analizzando il caso di Mary, le più difficili da sostenere sono quelle menzogne che implicano intense emozioni nel momento stesso in cui vengono dette. Il discorso non finisce qui: anche solo per valutare se eventuali emozioni potranno o no essere efficacemente dissimulate, bisogna interrogarsi su altri aspetti. Comunque, la presenza più o meno probabile di reazioni emotive è un buon punto di partenza. Dissimulare certe emozioni può essere lo scopo principale della menzogna, come nel caso di Mary, ma non in quello di Ruth. Anche se non è così e l'oggetto dell'inganno non sono i sentimenti, possono sempre intervenire reazioni emotive al fatto stesso di mentire: ci sono molte ragioni per cui Ruth può provare, nella situazione del romanzo, apprensione all'idea di essere scoperta e senso di colpa perché inganna il marito. Chiaramente, deve temere le conseguenze nel caso che il suo tentativo di nascondere la relazione venga smascherato. Non solo rischia di perdere la ricompensa costituita dalla prosecuzione indisturbata dell'adulterio, ma rischia anche una punizione: il marito può lasciarla e, in caso di divorzio, Ruth può ottenere condizioni economiche più svantaggiose (il romanzo di Updike risale a un'epoca precedente all'introduzione del divorzio senza dichiarazione di colpa). Anche quando la legislazione non prevede il divorzio per colpa, tuttavia, l'adulterio può avere effetti negativi in ordine all'affidamento dei figli. Se invece il matrimonio dovesse continuare, il clima è destinato a peggiorare almeno per qualche tempo. Non tutti i bugiardi rischiano una punizione se scoperti: né Sara, la cacciatrice di teste, né Mary, l'aspirante suicida, sarebbero andate incontro a punizioni in caso d'insuccesso. Hamrak, il truffatore, sì, e tuttavia altri aspetti fanno sì che non provi molta apprensione: ha pratica di quel tipo di situazione e conosce bene le risorse che possono aiutarlo in quei casi. Ruth, invece, pur riuscendo a ingannare il marito, non è preparata alle mosse richieste da questo tipo di bugia (trovare una scusa plausibile per una telefonata compromettente), né ha molta fiducia nel proprio talento di attrice. Sapere che sarà punita se la bugia fa fiasco è solo una delle cause del timore di Ruth: la punizione la minaccia anche solo per il fatto stesso di mentire. Se infatti Jerry scopre che l'ha ingannato, la sua diffidenza può diventare in futuro una fonte di guai anche a prescindere dall'adulterio. Alcune vittime d'infedeltà coniugali affermano che è la fiducia tradita, non l'adulterio, l'offesa per loro imperdonabile. Ancora una volta, va notato che non sempre chi mente è esposto solo per questo a punizioni: ciò avviene esclusivamente nel caso che fra questi e la vittima vi siano prospettive di relazioni future che sarebbero messe a repentaglio dalla diffidenza. Se scoperta a mentire, la cacciatrice di teste Sara perderebbe solo la possibilità di ottenere informazioni da quella particolare vittima. Lo stesso Hamrak sarebbe punito per tentato furto, non per la parte che ha recitato. L'apprensione di Ruth dovrebbe essere accentuata se si accorge che Jerry è insospettito. Anche la vittima di Hamrak, l'assessore, sospetta di chiunque cerchi di portar via la sua preziosa pendola, ma la bellezza del trucco dello “specchio” è che, chiamando in causa pubblicamente un sospetto privato, lo attenua automaticamente. Questa logica può anche indurre a non tener conto di indizi significativi solo perché sembra incredibile che l'autore dell'inganno possa commettere un simile errore. Nella loro analisi della dissimulazione e simulazione nelle attività militari, Donald Daniel e Katherine Herbig notano che «quanto maggiore è la fuga di notizie, tanto più difficilmente la controparte ci crederà, perché sembra troppo bello per essere vero», e che in molti casi i responsabili militari non hanno tenuto in alcun conto certe fughe di notizie in quanto «troppo vistose per poter essere altro che trappole».147 Ruth, come Mary, condivide gli stessi valori con il destinatario dell'inganno e probabilmente si sentirà in colpa per il fatto di mentire, ma non è così chiaro se pensa che nascondere il suo adulterio è lecito o illecito. Anche persone che condannano l'adulterio non necessariamente ritengono che il coniuge infedele debba rivelarlo. Nel caso di Hamrak la situazione è chiara: come Sara, non prova sensi di colpa, essendo la menzogna parte integrante del mestiere che essi fanno per vivere. Probabilmente Hamrak è anche un attore nato, o magari uno psicopatico, nel qual caso sarebbe ancora più improbabile un sentimento di colpa. Certo è che nel mondo di Hamrak e dei suoi simili mentire a un “pollo” è perfettamente lecito. I casi di Ruth e di Hamrak illustrano altri due punti. La donna non ha previsto quando si presenterà la necessità di mentire, sicché non ha potuto sviluppare una linea difensiva e impratichirsi nell'esecuzione. Ciò dovrebbe accrescere la sua paura di essere smascherata, una volta in ballo, perché sa di non poter battere in ritirata con delle risposte già pronte. Hamrak, anche se fosse colto in questa situazione - e a un professionista non dovrebbe capitare spesso ha un talento d'improvvisatore che a lei manca. Ruth ha però un vantaggio su Hamrak, quello cui ho accennato all'inizio, precisamente una vittima volontaria che per ragioni sue non vuole metterla alle strette. Talvolta una vittima del genere può non rendersi nemmeno conto di farsi complice dell'inganno. Il romanziere lascia il lettore nel dubbio quanto alla consapevolezza che Jerry può avere della propria complicità e quanto al fatto che la moglie se ne accorga o no. Sono due i modi in cui una vittima volontaria facilita il compito del bugiardo: questi avrà meno paura di essere scoperto se sa che la vittima è cieca di fronte ai suoi errori; inoltre si sentirà meno in colpa, perché può credere di non far altro che quello che la vittima vuole che faccia. Finora abbiamo analizzato tre diverse menzogne, spiegando perché nel caso di Mary e di Ruth debbano esserci indizi significativi, mentre nei casi di Sara o di Hamrak questi dovrebbero mancare. Ora vediamo un caso in cui una persona innocente non è stata creduta ed è stata giudicata colpevole, per vedere in che modo un rigoroso processo di verifica e controllo avrebbe potuto servire a impedire l'errore. Gerald Anderson era accusato di aver violentato e ucciso Nancy Johnson, la moglie del vicino di casa. Il marito di Nancy era rientrato a casa dal lavoro nel cuore della notte, aveva trovato il cadavere ed era corso dagli Anderson chiedendo di chiamare la polizia. Vari incidenti rendevano Anderson sospetto. Il giorno dopo il delitto non era andato a lavorare, si era ubriacato a un bar della zona, parlando continuamente dell'omicidio e poi, quando l'avevano portato a casa, l'avevano sentito dire alla moglie, fra i singhiozzi: «Non lo volevo fare, ma non ne ho potuto fare a meno». La sua giustificazione successiva, di aver parlato della sbornia e non del delitto, non fu creduta. Quando la polizia lo interrogò circa una macchia sulla tappezzeria della sua auto, Anderson disse che c'era già quando l'aveva comprata. In seguito, nel corso degli interrogatori, ammise di aver mentito: si vergognava di ammettere che aveva dato uno schiaffo a sua moglie durante una discussione, facendole uscire il sangue dal naso. I poliziotti che l'interrogavano gli ripetevano continuamente che questo episodio dimostrava che era un violento, che avrebbe potuto anche uccidere, e un mentitore che l'avrebbe negato comunque. Durante l'interrogatorio Anderson ammise che a dodici anni era stato coinvolto in un piccolo reato sessuale, senza conseguenze per la ragazza; la cosa poi non si era più ripetuta. In seguito risultò che all'epoca del fatto non aveva dodici anni ma quindici. Questa, insistevano i poliziotti, era un'altra prova che non era sincero, oltre a indicare che aveva dei problemi sessuali e quindi avrebbe potuto benissimo essere lui quello che aveva violentato e ucciso la vicina di casa. Venne quindi introdotto Joe Townsend, uno specialista del poligrafo, presentato all'indiziato come uno che non si era sbagliato mai. Townsend inizialmente sottopose Anderson a due lunghe serie di prove, ottenendo delle letture contraddittorie e sfuggenti. Alle domande sul delitto in sé, il tracciato di Anderson presentava delle punte indicative di menzogna nel dichiararsi innocente. Ma quando la domanda riguardava l'arma del delitto, come e dove se n'era sbarazzato, ecco che il tracciato era “pulito”. In termini semplicistici, si può dire che Anderson dimostrava “colpa” per l'uccisione di Nancy e “innocenza” circa l'arma con cui la donna era stata massacrata. Quando l'esaminatore gli chiedeva dove aveva preso il coltello, che tipo di coltello era e dove l'aveva buttato, Anderson rispondeva «Non lo so», senza che il tracciato rivelasse nulla [...]. Townsend ripete tre volte l'interrogatorio sull'arma del delitto, ottenendo sempre gli stessi risultati. Terminata la prova, disse al sospettato che non aveva superato la prova del rivelatore di menzogne.148 Il giudizio del tecnico corrispondeva alla convinzione della polizia di aver trovato il colpevole. Anderson rimase sotto interrogatorio per un totale di sei giorni. I nastri degli interrogatori mostrano fino a che punto era distrutto quando alla fine confessò un delitto che non aveva commesso. Quasi fino alla fine continuò a protestare la sua innocenza: non poteva essere stato lui, perché non ricordava affatto di aver ucciso o violentato Nancy. I poliziotti replicarono che dopo un omicidio è possibile un'amnesia: che non ricordasse nulla non dimostrava che fosse innocente. Anderson firmò una confessione quando gli dissero che la moglie aveva dichiarato che sapeva che era stato lui a uccidere la vicina, una dichiarazione che la moglie in seguito ha negato di aver mai fatto. Qualche giorno dopo Anderson ritrattò la confessione. Sette mesi più tardi il vero assassino, accusato di un altro caso di stupro e omicidio, confessava di aver ucciso Nancy Johnson. La mia analisi fa supporre che le reazioni emotive di Anderson alle domande sul delitto durante l'esame col poligrafo si dovessero attribuire ad altri fattori, del tutto diversi dal fatto di mentire negando di averlo commesso. Non dimentichiamo che il poligrafo non è un rivelatore della menzogna, o addirittura una “macchina della verità”. Tutto quello che fa è rilevare i segni di attivazione emotiva. La questione è se Anderson avrebbe potuto avere risposte emotive alle domande sul delitto solo nel caso che avesse ucciso Nancy: ci sono altre ragioni che possono spiegare la sua emozione? In questo caso, la prova del poligrafo darebbe risultati sbagliati. La posta in gioco è così alta, la punizione così pesante, che il colpevole quasi certamente avrebbe paura; ma avrebbe paura anche qualche innocente. Gli esaminatori cercano di ridurre la paura dell'innocente e di accrescere quella del colpevole dicendo che la macchina non sbaglia mai. Una delle ragioni per cui Anderson poteva temere di non essere creduto era il tipo di interrogatori che aveva preceduto la prova del poligrafo. Gli specialisti della polizia149 distinguono fra la deposizione di un teste, che viene sentito in una situazione di intervista, mirante solo a raccogliere informazioni, e l'interrogatorio, che presume la colpevolezza ed è condotto in maniera accusatoria, cercando di strappare una confessione. Spesso chi conduce l'interrogatorio, come nel caso di Anderson, usa metodi intimidatori. Ciò può servire a indurre il colpevole a confessare, ma a prezzo di spaventare l'innocente, che si rende conto che la polizia è prevenuta contro di lui. Dopo ventiquattro ore di interrogatori ininterrotti, Anderson veniva sottoposto all'esame col poligrafo. Le sue reazioni emotive alle domande sul delitto, registrate dal poligrafo, potevano nascere non solo dal timore di non esser creduto, ma anche da sentimenti di vergogna e di colpa. Benché innocente dell'omicidio, Anderson si vergognava di altre due colpe: chi l'interrogava sapeva che si vergognava di aver picchiato la moglie e di aver commesso un piccolo reato sessuale da ragazzo. Si sentiva anche in colpa per i suoi maldestri tentativi di nascondere o minimizzare questi episodi. I poliziotti facevano ripetutamente leva su quei fatti per convincerlo che era proprio il tipo di persona che avrebbe potuto violentare e uccidere una donna, ma in questo modo potevano anche aver accentuato la sua vergogna e il suo senso di colpa, collegando fra l'altro questi sentimenti al delitto di cui era accusato. Il procedimento sistematico di verifica e controllo da me proposto spiega perché in quella situazione qualunque segno di paura, vergogna o senso di colpa, non importa se ricavato dall'espressione del viso, dai gesti, dalla voce, dalle parole di Anderson o dalle risposte neurovegetative misurate dal poligrafo, non poteva che essere ambiguo come indizio di menzogna. Queste emozioni erano infatti altrettanto probabili sia che Anderson fosse innocente, sia che fosse colpevole. Un altro episodio di cui i poliziotti non erano al corrente rendeva ancor più difficile dedurre dalle reazioni emotive di Anderson se mentiva o no. Dopo la sua scarcerazione, James Phelan, il giornalista che con i suoi servizi aveva contribuito a fargli ottenere la libertà, chiese a Anderson che cosa poteva avergli fatto fallire la prova del poligrafo. Anderson gli svelò allora un'altra fonte di reazioni emotive relative a un crimine che non aveva commesso. La notte del delitto, quando aveva accompagnato la polizia nella casa dei vicini, aveva per due volte sbirciato il corpo nudo della vittima. Gli sembrava di aver fatto una cosa orribile: ai propri occhi, era un delitto quello che aveva commesso, un delitto d'altro genere, che però gli causava vergogna e senso di colpa. Mentiva tacendo questa sua colpa ai poliziotti che l'interrogavano e al tecnico del poligrafo e naturalmente si sentiva in colpa anche per questa nuova bugia. La polizia, nel caso di Anderson, incorse nell'errore di Otello. Come Otello, chi l'interrogava aveva ragione a giudicarlo molto emozionato: l'errore riguardava la causa dell'emozione, il fatto di non rendersi conto che quelle reazioni emotive, benché autentiche, erano altrettanto probabili sia che il sospettato fosse o non fosse l'assassino. Come la disperazione di Desdemona non era per la perdita dell'amante, così la vergogna, il senso di colpa e la paura di Anderson non erano legate al delitto, ma ad altre colpe che pesavano sulla sua coscienza. Come Otello, i poliziotti caddero vittime dei loro preconcetti circa il sospettato. Anch'essi non tolleravano l'incertezza sulla sincerità o falsità delle dichiarazioni di Anderson. Fra parentesi, la polizia disponeva di informazioni dettagliate sull'arma del delitto, che solo il colpevole avrebbe avuto e che un innocente non poteva conoscere. Il fatto che Anderson non presentasse reazioni compromettenti alle domande sul coltello avrebbe dovuto suggerire all'esaminatore la possibilità che fosse innocente: invece di ripetere tre volte la prova, l'esaminatore avrebbe dovuto costruire una serie di domande col metodo della conoscenza colpevole, servendosi di particolari del delitto di cui solo l'autore sarebbe stato al corrente. Hamrak, l'artista della truffa, e Anderson, accusato a torto di omicidio, illustrano i due tipi di errore che affliggono i tentativi di smascherare le bugie nelle indagini penali. Nel corso di un interrogatorio o di un esame col poligrafo, Hamrak probabilmente non avrebbe avuto nessuna reazione emotiva, apparendo innocente di ogni malefatta. La mia procedura analitica di riscontro ha chiarito perché un professionista così esperto, attore nato o psicopatico che sia, raramente commette degli errori quando mente. Hamrak è l'esempio tipico della persona le cui menzogne vengono sistematicamente credute. Anderson rappresenta il problema opposto: un innocente giudicato colpevole, un caso esemplare di falso positivo. Il mio scopo, esaminando questi due casi, non è proporre la messa al bando delle indagini di polizia con il poligrafo o dell'esame degli indizi comportamentali di menzogna. Anche volendo, sarebbe impossibile impedire alle persone di interpretare gli indizi che lasciano trapelare un inganno. L'impressione che tutti noi abbiamo degli altri si basa in parte sul loro comportamento espressivo. Tale comportamento comunica impressioni su molte altre cose, a parte la sincerità: cordialità, apertura, dominanza, attrazione, intelligenza, interesse per quello che stiamo dicendo, ecc. Di solito queste impressioni si formano inconsapevolmente, senza che ci si renda conto di quali segni in particolare abbiamo preso in considerazione. Ho spiegato nel Cap. VI perché penso che gli errori siano più rari se questi giudizi vengono elaborati in maniera più esplicita. Rendendosi conto della fonte da cui si traggono certe impressioni, conoscendo le regole che si seguono nell'interpretare certi comportamenti, le correzioni sono più facili: i nostri giudizi risultano più aperti a contestazioni, più disponibili a far tesoro delle lezioni dell'esperienza. Generalmente, nella preparazione del personale di polizia non si dà molto peso agli indizi comportamentali di menzogna: suppongo che un investigatore di solito non sappia su che cosa si basano le sue intuizioni circa la colpevolezza o l'innocenza di un indiziato. È vero che nella preparazione di alcuni tecnici del poligrafo si comincia a dare importanza agli indizi comportamentali che possono facilitare il giudizio, ma le indicazioni circa i segni da prendere in considerazione sono poco aggiornate o prive di riscontri empirici e non considerano abbastanza in quali casi i segni in questione possono essere inutili o fuorvianti. Non è possibile abolire la ricerca di indizi comportamentali della menzogna negli interrogatori di polizia, né sono certo che ciò servirebbe la causa della giustizia. Quello che propongo, piuttosto, è rendere questo processo d'interpretazione più esplicito, più deliberato e più cauto. Ho sottolineato i rischi di errore e come si possa valutare in partenza, considerando una per una le domande del mio prontuario di controllo (Tab. 4 dell'Appendice), la probabilità di scoprire l'eventuale menzogna o di riconoscere la sincerità del sospettato. Sono convinto che una specifica preparazione sugli indizi di menzogna, che insegni tutti i rischi e le precauzioni del caso, e la pratica corrente della procedura di verifica e controllo potrebbero rendere più precisi gli investigatori nei loro giudizi, diminuendo l'incidenza degli errori. Quando i dirigenti di paesi in conflitto si incontrano durante una crisi internazionale, l'inganno può essere molto più pericoloso che nel lavoro investigativo e scoprirlo è anche più difficile. La posta in gioco per un giudizio sbagliato è ancora maggiore. Pochi studiosi di scienze politiche si sono occupati dell'importanza della menzogna e della sua rivelazione negli incontri personali fra capi di stato o funzionari di alto livello. Scrive Alexander Groth: «Il compito di indovinare l'atteggiamento, le intenzioni e la sincerità della controparte è decisivo ai fini di qualunque valutazione circa la linea politica da assumere».150 Se è vero che un uomo politico può non desiderare la reputazione di sfacciato mentitore, certo questo prezzo può essere compensato, secondo Robert Jervis, «quando un inganno riuscito può modificare i fondamentali rapporti di forza nel sistema internazionale. Perché se una menzogna può servire a un paese ad ottenere una posizione dominante nel mondo, forse non importa molto il fatto di avere una reputazione di bugiardi».151 Henry Kissinger non sembra d'accordo, quando afferma che trucchi e menzogne sono pratiche poco sagge: «Solo un ingenuo può pensare di avere la meglio, nei negoziati, con l'inganno [...] l'inganno per un diplomatico non è la via della saggezza, ma del disastro. Dal momento che si dovrà trattare ripetutamente con la stessa persona, con i trucchi si può spuntarla una volta nel migliore dei casi e solo a prezzo di compromettere le relazioni».152 Forse un diplomatico può ammettere l'importanza della menzogna solo alla fine della carriera e, in ogni caso, il resoconto che ci dà delle sue attività diplomatiche è infarcito di esempi di quelle che io chiamo menzogne di dissimulazione, completa o parziale, sia da parte sua che della controparte. Stalin è quello che mette la cosa nei termini più sbrigativi: «Le parole di un diplomatico non devono avere nessuna relazione con i suoi atti altrimenti che diplomazia è? - [...] Parole buone nascondono azioni cattive. La diplomazia sincera è possibile quanto l'acqua asciutta o il legno di ferro».153 Questa ovviamente è un'affermazione eccessiva. A volte i diplomatici sono davvero sinceri, ma certo non sempre, e di rado la loro sincerità è tale da danneggiare seriamente gli interessi del paese. Non sorprende allora che i governi cerchino di scoprire le menzogne degli avversari. L'inganno nelle relazioni internazionali può intervenire nei contesti più diversi e per gli scopi più vari. Una di queste situazioni, cui ho già fatto cenno, è quando capi di stato o loro rappresentanti ad alto livello si incontrano nel tentativo di risolvere una crisi internazionale. Ciascuna delle due parti può barare in qualche misura, facendo credere che certe concessioni, tutt'altro che definitive, siano l'ultima offerta, cercando di non lasciar capire le proprie reali intenzioni. In certi momenti, però, ognuna delle due parti può volersi accertare che l'avversario capisca esattamente quali minacce non sono fittizie, quali offerte negoziali sono davvero definitive, quali intenzioni saranno realizzate in concreto. La capacità di mentire o di scoprire le menzogne è importante anche per dissimulare o prevenire un attacco di sorpresa. Un esempio piuttosto recente è descritto da Michael Handel: «Verso i primi giorni di giugno [1967] era ormai chiaro al governo israeliano che la guerra era inevitabile. Il problema era come lanciare con successo un attacco di sorpresa me nt r e entrambe le parti erano in piena mobilitazione e in stato di allarme. Nel quadro di un piano per nascondere le intenzioni di Israele di aprire le ostilità, Dayan [all'epoca Ministro della Difesa] dichiarò a un giornalista inglese, il 2 giugno, che era insieme troppo presto e troppo tardi per fare la guerra. Ripeté questa affermazione il giorno seguente durante una conferenza stampa».154 Questo non fu l'unico mezzo usato da Israele per ingannare gli avversari, ma l'abilità di Dayan nel mentire fu un fattore rilevante ai fini della completa riuscita dell'attacco di sorpresa scatenato il 5 giugno. Un altro uso della menzogna nelle relazioni internazionali è nascondere all'avversario le proprie reali capacità militari, traendolo in errore sia per difetto che per eccesso. Barton Whaley, nella sua analisi del riarmo occulto della Germania fra il 1919 e il 1939, cita numerosi esempi dell'abilità dei tedeschi in questo senso. Nell'agosto 1938, mentre la crisi cecoslovacca si aggravava sotto le pressioni di Hitler, Göring invitò i capi dell'aeronautica francese a un giro d'ispezione della Luftwaffe. Il Generale Vuillemin, Capo di Stato Maggiore dell'Armée de l'Air, accettò prontamente [... il generale tedesco Ernst Udet] prese con sé Vuillemin nel suo aereo personale [...]. Mentre Udet faceva procedere il lento velivolo quasi a velocità di stallo, il momento accuratamente preparato [...] a beneficio dell'ospite arrivò. Improvvisamente uno Heinkel He-100 sfrecciò a tutto gas, appena il tempo di intravedere la sagoma e udire il sibilo. Entrambi gli aerei atterrarono e i tedeschi condussero gli stupefatti visitatori francesi nel giro d'ispezione [...]. «Dimmi un po' Udet», chiese con finta noncuranza Milch [un altro generale della Luftwaffe], «a che punto siamo con la produzione di serie?». Udet, imbeccato, rispose: «Oh, la seconda linea di montaggio è pronta e la terza sarà pronta in una quindicina di giorni». Vuillemin prese un'aria abbattuta e sbottò dicendo a Milch che era «sconvolto» [...]. La delegazione francese ritornò a Parigi con la rivelazione disfattista che la Luftwaffe era imbattibile.155 L'aereo He-100, la cui velocità era stata moltiplicata da quel semplice trucco, era uno dei tre soli esemplari che siano mai stati costruiti. Questo tipo di bluff, fingere una potenza aerea imbattibile «divenne un ingrediente importante nella diplomazia di Hitler che gli procurò una brillante serie di trionfi; la politica di appeasement era fondata in parte sulla paura della Luftwaffe» .156 Se è vero che non sempre l'inganno nelle relazioni internazionali richiede un contatto personale diretto (gli stessi risultati si possono ottenere con falsi comunicati, ecc.), questi esempi illustrano come in certi casi il mentitore e la sua vittima si trovino faccia a faccia. Negli ultimi anni è cresciuto l'interesse per la possibilità di utilizzare in questo ambito la ricerca scientifica sugli indizi comportamentali di menzogna. Ho spiegato nell'Introduzione che quando ho parlato con funzionari del governo americano e di altri paesi i miei inviti alla cautela non sembrano aver fatto molto effetto sui miei interlocutori. Uno dei motivi che mi hanno spinto a scrivere questo libro è ribadire le mie argomentazioni sui pericoli cui si può andare incontro, in maniera più completa e accurata e rivolgendomi a un pubblico più vasto di quei pochi funzionari che hanno richiesto il mio parere. Ancor più che nelle investigazioni criminali, il problema è complesso e gli indizi sfuggenti. Ritorniamo all'esempio che ho citato in apertura di libro, il primo incontro fra Chamberlain e Hitler a Berchtesgaden il 15 settembre 1938, quindici giorni prima della Conferenza di Monaco.157 Hitler cercò di persuadere Chamberlain che non aveva intenzione di far guerra all'Europa, ma desiderava soltanto risolvere il problema dei Sudeti in Cecoslovacchia. Se la Gran Bretagna avesse accettato il suo piano - un plebiscito in quelle regioni della Cecoslovacchia dove la popolazione era costituita in maggioranza da Sudeti di lingua tedesca, con successiva annessione al Reich nel caso, scontato, di vittoria dei «Sì» - Hitler avrebbe rinunciato ad aprire le ostilità. Segretamente Hitler aveva già deciso la guerra: aveva già mobilitato l'esercito per attaccare la Cecoslovacchia il 1° ottobre, né i suoi piani di conquista si fermavano lì. Si ricordi il brano che ho citato da una lettera di Chamberlain alla sorella dopo il primo colloquio con Hitler: «un uomo di cui ci si può fidare una volta che ha dato la sua parola».158 In risposta alle critiche dell'opposizione laburista, Chamberlain descrisse Hitler come una «creatura assolutamente straordinaria», un «uomo che farebbe di tutto pur di rispettare la parola data».159 Una settimana dopo, Hitler e Chamberlain si incontravano una seconda volta a Godesberg. Hitler questa volta avanzò nuove pretese: le truppe tedesche dovevano occupare immediatamente la regione dei Sudeti, il plebiscito sarebbe venuto solo dopo l'occupazione e la zona rivendicata ora era più ampia di prima. In seguito, nello sforzo di persuadere il suo governo ad accettare queste richieste, Chamberlain ebbe a dire: «Per comprendere le azioni delle persone è necessario valutare le loro motivazioni e capire come funziona la loro mente [...]. Herr Hitler ha una mentalità ristretta e nutre violenti pregiudizi su certi temi, ma non ingannerebbe deliberatamente un uomo che rispetta e con cui ha trattato, e sono sicuro che Herr Hitler nutre un certo rispetto per me. Quando Herr Hitler annuncia che intende fare una cosa, è certo che la farà».160 Dopo questa citazione di Chamberlain, lo storico Telford Taylor si chiede: «Hitler aveva ingannato fino a questo punto Chamberlain, oppure era Chamberlain che ingannava i suoi colleghi per ottenere l'accettazione delle richieste di Hitler?».161 Supponiamo per un momento, come Taylor, che Chamberlain credesse davvero a Hitler, almeno nel primo incontro di Berchtesgaden.162 L'altissima posta in gioco avrebbe potuto causare apprensione all'idea di essere smascherato, ma Hitler aveva una vittima consenziente. Sapeva che se Chamberlain avesse scoperto che mentiva, tutta quanta la sua politica di concessioni sarebbe entrata in crisi. A quel tempo appeasement indicava ancora una linea di prudenza, non una resa vergognosa; il significato del termine doveva cambiare qualche settimana dopo, quando l'attacco a sorpresa di Hitler avrebbe dimostrato che Chamberlain si era lasciato ingannare. Hitler era deciso a prendere l'Europa con la forza. Se Hitler avesse davvero meritato fiducia, se avesse rispettato gli accordi, Chamberlain avrebbe goduto il plauso del mondo intero per aver salvato l'Europa dalla guerra. Chamberlain voleva credere a Hitler e Hitler lo sapeva. Un altro fattore che contribuiva a ridurre il timore di essere smascherato era che Hitler sapeva esattamente quando avrebbe dovuto mentire e che cosa avrebbe dovuto dire, cosicché poteva prepararsi a dovere. Infine, non c'era nessuna ragione perché si sentisse in colpa o provasse vergogna per il suo inganno: ai suoi occhi, ingannare gli inglesi era un atto onorevole e doveroso, in considerazione del suo ruolo e dell'interpretazione che dava della storia. L'unica emozione che Hitler potrebbe aver provato è il piacere della beffa. Secondo certi resoconti, sembra che godesse della sua abilità nell'ingannare gli inglesi e certo la presenza di altri tedeschi che assistevano a questo inganno riuscito poteva amplificare il suo divertimento nel beffare Chamberlain. Ma Hitler era molto abile nel mentire e a quanto sembra riuscì a non far trapelare nulla di questi sentimenti. Quando l'autore e il destinatario dell'inganno provengono da culture diverse e non parlano la stessa lingua, scoprire gli inganni è molto più difficile, per varie ragioni.163 Anche se Hitler avesse commesso degli errori e Chamberlain non fosse stato una vittima così collaborativa, non sarebbe stato facile cogliere quegli errori. Una ragione è che la conversazione avveniva attraverso gli interpreti. Ciò offre al bugiardo due vantaggi rispetto alla conversazione diretta: se commette degli errori nel parlare lapsus, pause troppo lunghe, ecc. - l'interprete può coprirli; inoltre, il processo della traduzione dà tempo di riflettere sul modo migliore di formulare la frase successiva. Anche se l'interlocutore capisce la lingua, non essendo la sua lingua materna perderà certe sottigliezze nel modo di porgere o di formulare il discorso, che potrebbero essere indizi significativi. Differenze di cultura e nazionalità possono rendere più difficile anche l'interpretazione di indizi attinenti alla voce, alla mimica, ai gesti, pur se in maniera più intricata e complessa. Ogni cultura ha certe prescrizioni che governano in qualche misura il modo di parlare (altezza e volume della voce, rapidità di parola) e di accompagnare il discorso con la mimica e con i gesti. I segni mimici e vocali delle emozioni sono anche governati da quelle che nel Cap. V ho chiamato regole di presentazione, che dettano il modo di controllare e manifestare le espressioni emotive: anche queste regole variano da una cultura all'altra. Non conoscendo queste differenze e non tenendone conto esplicitamente, si è più esposti al rischio di interpretazioni sbagliate che possono condurre a errori nel giudizio sulla sincerità dell'interlocutore. Qualcuno potrebbe chiedere, a questo punto, quanto della mia analisi degli incontri Hitler-Chamberlain sarebbe stato possibile all'epoca. Se un'analisi del genere fosse praticabile solo a distanza di anni, non avrebbe nessuna utilità pratica per i protagonisti o i loro consiglieri. La lettura di resoconti dell'epoca fa pensare che molti dei miei giudizi erano ovvi, almeno per alcuni, già nel 1938. Per Chamberlain la posta in gioco nel voler credere alle parole di Hitler era così alta che gli altri, se non egli stesso, avrebbero dovuto rendersi conto della necessità di una grande cautela nel valutare i suoi giudizi sulla sincerità di Hitler. La disponibilità di Hitler a ingannare l'Inghilterra era anch'essa accertata al tempo dell'incontro di Berchtesgaden. Non c'era nemmeno bisogno che Chamberlain avesse letto Mein Kampf o credesse a quello che Hitler aveva scritto. Gli esempi erano tanti, dalle violazioni del patto navale anglo-tedesco alle menzogne sull'intenzione di invadere l'Austria. Prima di incontrarsi con lui, Chamberlain aveva manifestato i suoi sospetti che Hitler mentisse a proposito della Cecoslovacchia, dissimulando il suo piano di conquistare l'Europa.164 Era anche noto che Hitler sapeva mentire con grande abilità, non solo nelle manovre diplomatiche e militari, ma anche negli incontri faccia a faccia, capace com'era di passare dalla seduzione alla furia e maestro nell'impressionare o intimidire gli altri, nell'occultare o fingere sentimenti e pensieri. Vediamo ora un altro esempio più recente. Durante la crisi dei missili a Cuba, il 14 ottobre 1962, due giorni prima di incontrare il Ministro degli Esteri sovietico Andrei Gromyko,165 il Presidente Kennedy fu informato da McGeorge Bundy che un volo del ricognitore U-2 su Cuba aveva dato la prova inconfutabile che l'Unione Sovietica stava installando missili sull'isola. C'erano già state ripetutamente delle voci in questo senso e, nell'imminenza delle elezioni a novembre, Khrusciov «aveva assicurato il Presidente, attraverso i canali più diretti e personali, che comprendeva i suoi problemi di politica interna e che non avrebbe fatto nulla che potesse complicarli. Specificamente, aveva dato a Kennedy solenni assicurazioni che l'Unione Sovietica non avrebbe installato missili offensivi a Cuba».166 Secondo Schlesinger,167 Kennedy era “furioso”, tuttavia secondo quanto riferisce un altro consigliere del tempo, Theodore Sorensen, «benché arrabbiato per il tentativo di Khrusciov di ingannarlo, prese la notizia con calma, solo con un'espressione di sorpresa».168 Riferì in seguito Robert Kennedy: «Quella mattina, mentre i rappresentanti della CIA ci spiegavano le fotografie prese dall'U-2, ci rendemmo conto che erano state tutte bugie, un'enorme trama di bugie».169 I principali consiglieri del Presidente cominciarono quel giorno stesso le riunioni per esaminare le iniziative più opportune da prendere. Il Presidente decise che «non doveva esserci nessuna rivelazione pubblica del fatto che eravamo al corrente dei missili sovietici a Cuba, finché non si fosse decisa e approntata la linea d'azione [...]. La sicurezza era essenziale e il Presidente chiarì che era determinato a ottenere che per una volta nella storia della Casa Bianca non ci fossero assolutamente fughe di notizie».170 Due giorni dopo, il 16 ottobre, mentre i consiglieri discutevano ancora sulle iniziative da prendere, Kennedy ricevette Gromyko. «Gromyko era negli Stati Uniti da oltre una settimana, ma nessuno nell'amministrazione sapeva esattamente perché [...] aveva chiesto un'udienza alla Casa Bianca. La sua richiesta era arrivata quasi contemporaneamente alle [...] prove fotografiche. Forse i russi avevano avvistato l'U-2? Volevano parlare con Kennedy per sondare le sue reazioni? Avrebbero colto questa occasione per informare Washington che Khrusciov stava per rendere pubblica la notizia dei missili, rivelando il suo colpo prima che gli Stati Uniti potessero reagire?».171 Secondo Sorensen, Kennedy «era ansioso mentre si avvicinava l'ora dell'incontro, ma riuscì a sorridere mentre riceveva Gromyko e Dobrynin [l'ambasciatore sovietico] nel suo ufficio».172 Non ancora pronto ad agire, Kennedy considerava importante celare a Gromyko la scoperta dei missili, per non concedere ai russi un altro vantaggio.173 L'incontro cominciò alle 17 e durò fino alle 19 e un quarto. Da parte americana erano presenti il Segretario di Stato Dean Rusk, Llewellyn Thompson (ex ambasciatore a Mosca) e Martin Hildebrand (direttore dell'Ufficio per gli affari tedeschi), mentre Gromyko era accompagnato da Dobrynin, dal sottosegretario agli Esteri Vladimir Semenov e da un terzo funzionario. Erano inoltre presenti interpreti delle due parti. «Kennedy sedette sulla sua poltrona a dondolo di fronte al caminetto, Gromyko alla sua destra su uno dei divani beige. Entrarono i fotografi, scattarono foto per la posterità, poi uscirono. Il russo si accomodò meglio a sedere, appoggiandosi su un cuscino a righe, e cominciò a parlare».174 Dopo essersi dilungato un po' su Berlino, Gromyko finalmente parlò di Cuba. Secondo quanto riferito da Robert Kennedy, «Gromyko disse che voleva fare appello agli Stati Uniti e al Presidente Kennedy da parte di Khrusciov e dell'Unione Sovietica per ridurre le tensioni esistenti a proposito di Cuba. Il Presidente Kennedy ascoltava, stupefatto, ma anche un po' ammirato della sua sfrontatezza [...]. [Rispose] con fermezza ma anche con grande moderazione, considerando la 175 provocazione». E il giornalista Elie Abel racconta: «Il Presidente dette a Gromyko una chiara opportunità di rettificare, richiamandosi alle ripetute assicurazioni di Khrusciov e Dobrynin che i missili a Cuba non erano altro che armi antiaeree [...]. Gromyko ripeté ostinatamente le vecchie assicurazioni, che ora il Presidente sapeva essere false. Kennedy non gli contestò i fatti accertati».176 «Rimase impassibile senza dare segni di collera o di tensione».177 Gromyko era di «un'insolita giovialità»178 quando lasciò la Casa Bianca. I giornalisti gli chiesero di che cosa si fosse parlato nell'incontro: «Gromyko sorrise, evidentemente di buon umore, e disse che i colloqui erano stati “utili, molto utili”».179 Figura 8-1. L'incontro del 16 ottobre 1962. Seduti da sinistra: Anatoly Dobrynin, Andrei Gromyko, John F. Kennedy. Scrive Robert Kennedy: «Arrivai poco dopo che Gromyko se n'era andato. Il Presidente degli Stati Uniti, si può ben dire, era molto seccato col portavoce dell'Unione Sovietica».180 Secondo David Detzer, Kennedy ebbe a dire dopo l'incontro: «Morivo dalla voglia di mettergli davanti le nostre prove».181 Nel suo studio, parlando con Robert Lovett e McBundy che erano sopraggiunti, fece questo commento: «Gromyko [...] proprio in questa stanza non più di dieci minuti fa mi ha detto più bugie di quante io ne abbia mai sentite prima in così poco tempo. Durante tutto il tempo che ha continuato a negare [...] avevo le fotografie a bassa quota nel cassetto centrale della scrivania ed era una tentazione enorme mostrargliele».182 Consideriamo per primo l'ambasciatore Dobrynin. Probabilmente era l'unico che non fingesse. Robert Kennedy era convinto che i sovietici avessero mentito a Dobrynin, diffidando delle sue capacità di finzione, e che Dobrynin in occasione di precedenti incontri con lui fosse sincero, per quanto ne sapeva, nel negare l'esistenza di missili a Cuba. Non sarebbe la prima volta che un ambasciatore viene ingannato così dal suo governo per scopi analoghi. Kennedy aveva da poco fatto lo stesso con Adlai Stevenson, non informandolo della spedizione alla Baia dei Porci e, come rileva Allison, «analogamente l'ambasciatore giapponese non era stato informato di Pearl Harbor e l'ambasciatore tedesco a Mosca non era al corrente dell'operazione Barbarossa [il piano d'invasione dell'Unione Sovietica]».183 Nel periodo fra il giugno 1962, quando si presume che i sovietici decisero di installare missili a Cuba, e questo incontro della metà di ottobre, il governo di Mosca si servì di Dobrynin e di Georgi Bolshakov, un portavoce dell'ambasciata a Washington, per assicurare ripetutamente a personalità dell'amministrazione Kennedy (Robert Kennedy, Chester Bowles e Sorensen) che sull'isola non venivano installate armi offensive. Non necessariamente Bolshakov e Dobrynin erano al corrente della verità [...]. Probabilmente non lo erano. Né Khrusciov né Gromyko né altri che fossero sicuramente informati incontrarono rappresentanti della controparte fino al 14 ottobre, due giorni prima del colloquio fra Kennedy e Gromyko. In quella data, Khrusciov incontrò a Mosca l'ambasciatore americano, Foy Kohler, e negò la presenza di missili a Cuba. Solo allora per la prima volta i sovietici corsero il rischio di vedere scoperto l'inganno nel caso che Khrusciov o, due giorni dopo, Gromyko commettessero un qualche errore. Nell'incontro alla Casa Bianca le menzogne erano due, una da parte di Kennedy, l'altra di Gromyko. Il comportamento di Kennedy durante il colloquio, infatti, corrisponde esattamente alla mia definizione di menzogna mediante dissimulazione. Entrambi gli interlocutori tacevano quella che sapevano bene essere la verità, che i missili a Cuba c'erano. In base alla mia analisi, si può supporre che le probabilità di lasciarsi sfuggire qualche indizio rivelatore fossero maggiori da parte di Kennedy. Nella misura in cui ciascuno degli interlocutori si era preparato in anticipo - ed entrambi ne avevano avuto la possibilità - non avrebbe dovuto esserci nessun problema a nascondersi reciprocamente quella verità di cui entrambi erano al corrente. Tutti e due potevano provare una certa apprensione all'idea di essere scoperti, data l'importanza della posta in gioco. La posta in gioco era forse più alta per Kennedy, dato che gli Stati Uniti non avevano ancora deciso che cosa fare e ancora non era completa nemmeno la documentazione sul numero di missili o sullo stato dei lavori di installazione; inoltre, i consiglieri di Kennedy pensavano che la scoperta doveva restare segreta, nel timore che Khrusciov potesse in qualche modo giocare d'anticipo, sapendosi scoperto prima che gli americani passassero all'azione. Anche i sovietici avevano bisogno di tempo, per completare la costruzione delle rampe, ma non importava molto se gli americani l'avessero scoperto a quel punto; fra l'altro, sapevano bene che gli U-2 prima o poi avrebbero avvistato i missili, se non l'avevano già fatto. A prescindere dalla possibilità che Kennedy fosse più in apprensione di Gromyko per il rischio di essere scoperto, secondo le cronache dell'epoca egli aveva in più il compito non facile di nascondere altre emozioni. I resoconti che ho citato ci dicono che durante il colloquio Kennedy provò sorpresa, ammirazione e scontentezza, tutte emozioni che, se fossero trapelate, avrebbero potuto tradirlo: in quel contesto, infatti, sentimenti del genere avrebbero fatto capire che era già al corrente della verità. Dall'altra parte, Gromyko può aver assaporato il piacere della beffa (ciò corrisponderebbe bene alle cronache che lo descrivono così di buon umore all'uscita dal colloquio). Comunque, le probabilità che qualcosa trapelasse non erano molte, dato che entrambi gli interlocutori erano abili e capaci di nascondere qualunque emozione. Inoltre, le differenze di cultura e di lingua possono aver coperto ogni eventuale indizio. Semmai avrebbe dovuto essere in grado di scorgerli l'ambasciatore Dobrynin: conoscendo benissimo, dopo tanti anni, il comportamento degli americani, perfettamente padrone della lingua, aveva anche il vantaggio di essere lì come osservatore piuttosto che come partecipante diretto, potendosi così dedicare tutto a scrutinare le mosse dell'avversario. L'ambasciatore Thompson era in una posizione analoga, quello fra gli americani più in grado di scorgere eventuali indizi significativi nel comportamento di Gromyko. Ho potuto attingere a molte relazioni di parte americana su questo colloquio, mentre non esistono informazioni di parte sovietica e quindi non c'è modo di sapere se Dobrynin abbia subodorato qualcosa. Il fatto che Dobrynin, a quanto risulta dalle cronache, apparisse stupefatto e visibilmente scosso quando, quattro giorni dopo, il Segretario di Stato Dean Rusk lo informò della scoperta dei missili, comunicandogli l'inizio del blocco navale americano, è stato interpretato come prova che i sovietici fino ad allora non sapevano dell'avvenuta scoperta.184 Se il suo governo l'aveva tenuto all'oscuro circa l'installazione dei missili, questa sarebbe stata la prima volta che lo veniva a sapere. D'altra parte, se anche Dobrynin avesse saputo dei missili e anche che gli Stati Uniti li avevano scoperti, poteva benissimo essere stupito e turbato dalla decisione americana di rispondere militarmente. La maggior parte delle analisi su quell'episodio concorda nel ritenere che i sovietici non si aspettassero da Kennedy una risposta militare. Il punto non è determinare se la dissimulazione di Kennedy sia stata o no scoperta, ma spiegare perché avrebbe potuto esserlo e mostrare come riconoscere gli indizi di menzogna non sarebbe stato affatto semplice. Analizzando questi due esempi di menzogna nei rapporti internazionali, ho detto che Hitler, Kennedy e Gromyko erano tutti degli attori nati, abili e creativi nell'inventare, ottimi parlatori, loquaci e convincenti. Sono convinto che qualunque uomo politico che raggiunge il potere, in parte, grazie alla sua abilità nei dibattiti e nei discorsi pubblici, con un'immagine televisiva (o radiofonica) abbagliante, abbia tutto il talento per poter mentire come un attore nato. Quanto a Gromyko, è vero che non ha ottenuto il potere con questi mezzi, ma è non meno vero che è riuscito a mantenersi a galla per un periodo lunghissimo, cosa che pochissimi hanno saputo fare, e nel 1963 aveva ormai un'esperienza eccezionale sia in diplomazia che nella lotta politica interna al gruppo dirigente sovietico. Persone come queste sanno essere convincenti: è parte dei ferri del mestiere. Decidano o no di mentire, hanno tutti i requisiti per farlo bene. La particolare attitudine a dissimulare e fingere durante la conversazione, accompagnando le parole con le espressioni ed i gesti opportuni, non è necessaria finché l'autore dell'inganno non deve affrontare la sua vittima faccia a faccia. L'inganno può avvenire attraverso scritti, intermediari, comunicati stampa, azioni militari, ecc. Qualunque forma di inganno, tuttavia, fallisce se l'autore non ha capacità strategiche, non sa progettare le sue mosse e prevedere quelle dell'avversario. Penso che tutti i capi politici debbano essere acuti strateghi, ma che solo alcuni abbiano quel talento di conversatore che permette di mentire faccia a faccia con la vittima, in quel tipo di inganni che abbiamo considerato in questo libro. Non tutti sono capaci di mentire o, comunque, disposti a farlo. Presumo che la maggior parte dei politici accetti di mentire, almeno verso certi destinatari e in particolari circostanze. Perfino Jimmy Carter, che aveva condotto la sua campagna presidenziale affermando che non avrebbe mai mentito al popolo americano (e l'aveva dimostrato, ammettendo le sue fantasie licenziose in un'intervista a Playboy), in seguito si è trovato a mentire, dissimulando i piani per liberare con la forza gli ostaggi in Iran. Gli specialisti di studi strategici hanno cercato di individuare i capi politici più inclini a mentire. Una possibilità è che appartengano a culture che ammettono l'inganno,185 ma le indicazioni sull'esistenza stessa di culture del genere sono molto labili. Un'altra idea non verificata è che si incontrino soprattutto in quei paesi (specialmente a regime dittatoriale) dove i dirigenti politici hanno un ruolo di primo piano nelle decisioni militari.186 Un tentativo di scoprire sulla base del materiale storico un tipo di personalità ingannatrice propria di quegli uomini politici che sappiamo con certezza aver mentito non ha dato nessun esito, anche se di questo lavoro non si sa abbastanza per poter valutare le ragioni del fallimento.187 Tuttavia, non esistono dati solidi, né in un senso né nell'altro, quanto all'ipotesi che i dirigenti politici abbiano davvero particolari attitudini e disponibilità alla menzogna, maggiori, poniamo, di quelle dei dirigenti industriali. Se così fosse, l'inganno nelle relazioni internazionali sarebbe tanto più difficile; inoltre, diventerebbe importante, per chi voglia evitare di lasciarsi ingannare, riconoscere le eccezioni, cioè quei capi di stato o di governo che si distinguono per la mancanza di queste capacità. Consideriamo ora l'altra faccia della medaglia, se cioè i politici ai massimi livelli siano più abili della media nell'operazione inversa, cioè nell'individuazione delle menzogne. La ricerca ha dimostrato che alcune persone hanno in questo senso un'abilità del tutto particolare, abilità che non correla con l'abilità nel dire bugie.188 Purtroppo i soggetti di questi esperimenti sono per lo più studenti universitari: nessuno ha esaminato persone che occupino posizioni di rilievo in organizzazioni di alcun tipo. Se l'esame di soggetti del genere potesse indicare che alcuni di loro sono particolarmente dotati come cacciatori di menzogne, allora si porrebbe la domanda se sia possibile individuarli a distanza, senza doverli sottoporre a test e prove di laboratorio. Se spiccate capacità di riconoscere l'inganno potessero emergere da quel tipo di informazioni che sono generalmente accessibili circa i personaggi pubblici, allora un politico che progettasse un inganno avrebbe migliori probabilità di valutare in anticipo il rischio che l'avversario riesca a individuare un qualche indizio significativo nel suo comportamento. Secondo Groth (e le sue argomentazioni mi sembrano convincenti), i capi di stato o di governo sono meno prudenti dei diplomatici di carriera, troppo convinti della propria capacità di valutare il carattere e l'affidabilità degli avversari: «Ai capi di stato e ai ministri degli esteri mancano spesso le attitudini elementari al negoziato e alla comunicazione, o quelle informazioni di base, ad esempio, che permetterebbero loro di formulare giudizi competenti circa gli avversari».189 Jervis concorda con queste affermazioni, notando che questi personaggi possono sopravvalutare la propria capacità di smascherare gli inganni se «la loro ascesa al potere è dipesa in parte dall'acume nel giudicare il prossimo».190 Anche se ha ragione di ritenersi assai abile nel giudicare gli altri, negli affari internazionali l'uomo politico deve tener conto di quanto sia più difficile riconoscere la menzogna quando il sospettato appartiene a una cultura diversa e parla un'altra lingua. Ho giudicato Chamberlain una vittima volontaria dell'inganno, così impegnato ad evitare la guerra, purché ce ne fosse una minima possibilità, da voler disperatamente credere alle parole di Hitler e da sopravvalutare la propria capacità di leggere il suo carattere. Eppure Chamberlain non era uno sciocco, né era inconsapevole della possibilità che Hitler mentisse. Ma aveva una motivazione fortissima a credergli, perché se non avesse potuto credere alle assicurazioni di Hitler la guerra era alle porte. Simili errori di giudizio da parte di capi di stato o di governo e analoghe convinzioni sbagliate sul proprio acume, secondo Groth, non sono poi così rari. Nei termini della mia analisi, la cosa è particolarmente probabile ogniqualvolta la posta in gioco è molto alta: è allora, proprio quando il rischio è più grosso, che i responsabili sono più esposti a diventare vittime collaboranti dell'inganno ordito dall'avversario. Consideriamo un altro esempio di vittima volontaria. Stavolta, per pareggiare i conti, ho scelto il grande rivale di Chamberlain, Winston Churchill. Racconta Churchill che il fatto che Stalin «dicesse indifferentemente “Russia” e “Unione Sovietica” e nominasse spesso la divinità»191 lo indusse a chiedersi se non nutrisse ancora qualche residuo di convinzioni religiose. In un altro caso, di ritorno da Yalta nel 1945, Churchill difendeva la sua fiducia negli impegni presi da Stalin in questi termini: «Sento che per loro la parola data è sacra. Non conosco nessun governo che stia ai suoi impegni, anche a proprio danno, più saldamente del governo russo».192 Uno dei suoi biografi scrive di Churchill: «Per tutta la conoscenza che aveva del passato sovietico, Winston era preparato a concedere a Stalin il beneficio del dubbio e a fidarsi delle sue intenzioni. Era difficile per lui far altro che credere nella sostanziale onestà dei personaggi di alto rango con cui trattava».193 Stalin non contraccambiava quel rispetto. Milovan Gilas cita queste sue parole, pronunciate nel 1944: «Forse voi credete che perché siamo alleati degli inglesi [...] abbiamo dimenticato chi sono e chi è Churchill. Per loro non c'è niente di più bello che truffare gli alleati. Churchill è quel tipo di persona che, se non stai in guardia, ti ruba di tasca un copeco».194 L'interesse di Churchill, tutto concentrato sulla necessità di distruggere Hitler, e il bisogno che aveva dell'aiuto di Stalin possono aver fatto di lui una vittima consenziente degli inganni di Stalin. In questo capitolo ho dato molto spazio agli esempi di inganni nelle relazioni internazionali, non perché questo sia un campo particolarmente promettente, ma perché è il più pericoloso, quello in cui errori di giudizio possono costare più cari. Tuttavia, come nel caso delle indagini criminali, non ha senso dire che l'uso di indizi comportamentali per scoprire le menzogne dovrebbe essere abolito. Non si può impedire, in nessuna parte del mondo: è proprio della natura umana cercare di raccogliere questo tipo d'informazioni, almeno in maniera informale, partendo dal comportamento degli altri. E come ho già detto parlando dei rischi che si corrono negli interrogatori, probabilmente se i capi di stato e i loro consiglieri fossero consapevoli dei propri giudizi i pericoli di errore sarebbero più contenuti. L'ho già detto a proposito delle indagini di polizia: quand'anche fosse possibile abolire l'interpretazione del comportamento come possibile indizio di falsità negli incontri internazionali, non credo che sarebbe opportuno. Chiaramente la storia registra esempi infami di inganni in tempi recentissimi: chi non vorrebbe che il proprio paese fosse in grado di riconoscere meglio queste menzogne? Il problema è come farlo senza accrescere il rischio di giudizi sbagliati. In ogni caso, qualunque cosa si possa pensare della fiducia eccessiva di un Chamberlain nella propria capacità di leggere la menzogna e di valutare il carattere della controparte, temo che una tale sconsideratezza impallidisca a fronte dell'arroganza di uno specialista di scienze comportamentali che si guadagna da vivere affermando di essere capace di riconoscere gli indizi di menzogna nel comportamento dei partecipanti a negoziati internazionali. Ho cercato di lanciare una sfida, sia pure indirettamente, a qualunque specialista del ramo che lavori per un qualunque governo come esperto nella rivelazione scientifica della menzogna, rendendolo più avvertito della complessità dell'impresa e, nel contempo, cercando di rendere più scettici i clienti, quei governi che si valgono di queste consulenze. La mia contestazione non può essere che indiretta, perché questi tecnici, se esistono, lavorano in segreto,195 come anche i ricercatori che conducono studi coperti dal segreto militare sulla possibilità di riconoscere la menzogna in sede di negoziati internazionali. Spero di indurre in questi ricercatori anonimi una maggiore prudenza e in chi paga per i loro servizi un atteggiamento più critico ed esigente circa qualunque affermazione dell'utilità del loro lavoro. Non vorrei essere frainteso. Mi piacerebbe vedere ricerche del genere, penso che siano urgenti e capisco perché i governi vogliano mantenere il segreto almeno su parte di questo lavoro. Mi aspetto che ricerche miranti a individuare i soggetti più e meno dotati come autori e rivelatori di inganni, fra quel tipo di persone che detiene responsabilità decisionali a livello internazionale, dimostreranno che l'impresa è quasi impossibile. Tuttavia, la cosa andrebbe accettata. Analogamente, penso che ricerche su situazioni che somiglino da vicino a negoziati di alto livello durante le crisi internazionali - con partecipanti ben attrezzati e provenienti da nazioni diverse, con una situazione costruita in modo che la posta in gioco sia molto alta (non la solita sperimentazione con studenti universitari) dimostreranno che i risultati sono scarsissimi. Ma anche questo andrebbe accertato e se è così i risultati dovrebbero essere liberati dal vincolo del segreto militare e pubblicati. Questo capitolo ha mostrato come la riuscita o il fallimento di un inganno non dipendano dal terreno specifico: non è che tutti gli inganni coniugali falliscano, oppure che riescano tutti negli affari, nella criminalità o nelle relazioni internazionali. Il successo o l'insuccesso dipendono dai caratteri particolari della menzogna in questione e delle due parti interessate. Le cose diventano anche più complicate a livello internazionale che fra genitori e figli, ma qualunque genitore sa che non è sempre facile evitare l'errore, neppure con i bambini. La Tab, 4 dell'Appendice elenca tutte le 38 voci del mio prontuario. Quasi metà delle domande, 18 per l'esattezza, serve a determinare se chi mente dovrà o meno dissimulare o simulare delle emozioni, mentire sui propri sentimenti o nascondere i sentimenti suscitati dalla menzogna stessa. Non sempre l'uso del prontuario permetterà una valutazione. Può darsi che per molte domande non si sappia abbastanza da dare una risposta, oppure che le risposte siano contraddittorie, indicando alcune che la bugia sarebbe facile da riconoscere, altre difficile. Ma è lo stesso utile saperlo. Anche quando una valutazione è possibile, può darsi che non dia una predizione esatta, perché il mentitore può essere tradito non dal suo comportamento ma da terzi, ovvero gli indizi più vistosi possono, per un qualche accidente, passare inosservati. Tuttavia, sia l'autore sia la vittima potenziale dell'inganno vorrebbero conoscere questa stima di probabilità. A chi dei due servirebbe di più? È questo il primo punto che affronterò nella parte conclusiva. Epilogo Quello che ho scritto dovrebbe essere utile a chi cerca di svelare un inganno più che a chi spera di mandarlo a buon fine. Penso che sia più facile migliorare le proprie capacità di individuare le menzogne che non di perpetrarle. Quello che c'è da capire è più suscettibile di apprendimento: non c'è bisogno di speciali talenti per capire le mie idee sulle differenze che ci sono fra i vari tipi di bugia e chiunque abbia un minimo di diligenza può. usare il prontuario dell'Appendice per stimare le probabilità che il mentitore si lasci sfuggire qualche errore. Per diventare più bravi, ovviamente, non basta capire quello che ho spiegato, ma si deve anche sviluppare una certa attitudine con l'esercizio. Tuttavia, chiunque dedichi tempo a guardare e ascoltare con attenzione, osservando la comparsa degli indizi descritti nei Capp. IV e V, può effettivamente migliorare. Noi ed altri abbiamo addestrato delle persone a un'osservazione più attenta e precisa e la maggior parte di loro ne ha tratto un beneficio. Anche senza un addestramento così rigoroso, si può sempre esercitarsi da soli. Mentre potrebbe esserci una scuola di caccia alle bugie, una scuola di bugia non avrebbe senso. I bugiardi nati non ne hanno bisogno e tutti gli altri non hanno il talento necessario per trarne vantaggio. I mentitori nati sanno già e mettono in pratica quasi tutto quello che ho scritto, anche se non sempre se ne rendono conto. Mentire bene è una dote speciale, che non si acquista facilmente: bisogna essere attori nati, dalle maniere accattivanti e seducenti. Persone del genere sono capaci, senza pensarci, di gestire la propria espressione, in modo da lasciar passare esattamente quell'impressione che vogliono comunicare e non altre. Non hanno bisogno di molto aiuto. La maggior parte di noi ne avrebbe bisogno, ma mancando di un talento naturale per la recitazione, non riusciremo mai a mentire molto bene. Quanto ho spiegato su ciò che tradisce una bugia e ciò che invece la fa apparire credibile non serve a molto e può addirittura peggiorare le cose. La menzogna non può essere migliorata dal fatto di sapere che cosa fare e che cosa non fare e ho seri dubbi che possa essere molto utile lo stesso esercizio. Un bugiardo che si sorveglia continuamente e pensa ogni mossa mentre la fa sarebbe come uno sciatore che dovesse riflettere su ogni suo movimento mentre viene giù per la discesa. Ci sono due eccezioni, due lezioni sull'arte di mentire che possono essere utili a chiunque. I bugiardi devono avere più cura nel mettere a punto e mandare a memoria la storia che inventano. Nella maggior parte dei casi non si prevedono tutte le domande, tutti gli incidenti imprevisti che si possono incontrare. Chi mente deve avere pronte le risposte per un numero di casi maggiore di quelli che probabilmente gli capiteranno: inventare una risposta sul momento, rapida e convincente, una risposta che non contraddica quello che si è già detto e che forse dovrà essere tenuta a mente per il futuro, richiede capacità mentali e una presenza di spirito che pochi possiedono. L'altra lezione che il lettore ormai deve aver appreso è quanto sia difficile mentire senza fare errori: la maggior parte delle persone la fanno franca solo perché i destinatari dell'inganno non si danno abbastanza pena per smascherarli. È difficilissimo impedire che sfuggano indizi che possono mettere in sospetto o addirittura rivelare la verità. In realtà non ho mai cercato di insegnare a nessuno a mentire meglio. Il mio giudizio sulla scarsa utilità di un insegnamento del genere si basa sul ragionamento, non su dati di fatto. Spero che sia esatto, perché preferirei che le mie ricerche servissero al cacciatore di menzogne più che al bugiardo. Non che io consideri la bugia intrinsecamente cattiva. Molti hanno sostenuto con argomenti convincenti che almeno alcune menzogne possono essere moralmente giustificate e che l'onestà può talvolta essere brutale e crudele.196 Tuttavia le mie simpatie vanno più a chi cerca di scoprire l'inganno che non al suo autore. Forse perché il mio lavoro scientifico è una ricerca degli indizi rivelatori dei reali sentimenti delle persone: il camuffamento mi interessa, ma l'impresa che mi sta a cuore è mettere in luce l'emozione sentita, reale, che c'è sotto. Scoprire la differenza fra emozioni autentiche e false, trovare che la dissimulazione non è perfetta, che le espressioni simulate somigliano soltanto, ma non sono eguali alle espressioni di emozioni davvero sentite, tutto questo è gratificante. Lo studio della menzogna, posto in questi termini, riguarda molte altre cose a parte la menzogna: offre l'opportunità di assistere a una straordinaria lotta interiore fra parti volontarie e involontarie della nostra vita, di scoprire fino a che punto possiamo controllare deliberatamente i segni esteriori della nostra vita interna. Malgrado la mia simpatia vada non al bugiardo ma a chi vuole smascherarlo, mi rendo conto che svelare le menzogne non sempre è più virtuoso. L'amico che cortesemente cerca di nascondere la sua noia avrebbe ragione di offendersi se smascherato. Il marito che finge di divertirsi quando la moglie racconta male una barzelletta, o la moglie che finge interesse per il racconto del marito che le spiega come ha fatto a riparare qualcosa, può sentire come un'aggressione l'accusa di fingere. E ovviamente nel campo della strategia militare gli interessi nazionali possono a buon diritto stare dalla parte della menzogna: d'altra parte l'avversario ha ovviamente tutto il diritto di cercare di scoprire la verità, ma non sempre la caccia alle bugie è lecita. A volte le intenzioni devono essere onorate, a prescindere dai pensieri o sentimenti reali. A volte si ha diritto di essere presi in parola: un atteggiamento inquisitorio viola il diritto a tenere per sé certi pensieri o sentimenti. Esistono situazioni in cui la ricerca della verità è fuori discussione - investigazioni criminali, trattative commerciali, ecc. -, ma ce ne sono altre in cui le persone danno per scontato il diritto di tenersi per sé, se così vogliono, i propri sentimenti e pensieri, aspettandosi che quanto decidono di manifestare sia accettato per vero. Non è solo altruismo o rispetto per la vita privata quello che dovrebbe dare qualche tregua all'accanito cacciatore di bugie. A volte è meglio per lui se si lascia ingannare. Il padrone di casa sarà più contento se pensa che gli ospiti si sono divertiti, la moglie più soddisfatta se crede di aver detto al marito qualcosa di spiritoso. Il falso messaggio può non solo essere più gradevole, ma anche più utile della verità. La frase «Tutto bene» pronunciata entrando al lavoro, in risposta alla domanda del capo «Come va oggi?», può fornire un'informazione più rilevante di quanto farebbe la risposta sincera, «Sto ancora malissimo per il litigio che ho avuto a casa ieri sera»: la bugia convenzionale comunica esattamente l'intenzione di mettersi al lavoro malgrado il turbamento personale. Naturalmente lasciarsi ingannare comporta un prezzo anche in questi casi più innocui: il capo potrebbe regolarsi meglio se conoscesse la vera situazione del dipendente, la moglie potrebbe imparare a raccontare meglio le barzellette o rinunciarvi del tutto. Eppure penso che vada tenuto presente che talvolta smascherare la menzogna viola una relazione, tradisce la fiducia, estorce un'informazione che per buone ragioni non è stata data. Chi cerca a tutti i costi la verità dovrebbe almeno rendersi conto che andare alla caccia di indizi che rivelino la menzogna è un'ingerenza che passa sopra ai desideri dell'altro. Quando ho cominciato a studiare la menzogna non c'era modo di sapere che cosa esattamente avrei trovato. Le affermazioni in proposito erano contraddittorie. Scriveva per esempio Freud: «Chi ha occhi per vedere e orecchi per udire può convincersi che nessun mortale può tenere un segreto. Se le sue labbra tacciono, parlerà con la punta delle dita; ciò che lo tradisce gli trasuda da tutti i pori».197 Eppure sapevo di molti casi di menzogne perfettamente riuscite e nelle mie prime ricerche ho trovato che i risultati dei tentativi di riconoscere la menzogna non erano migliori di quelli che si possono ottenere tirando a sorte (peraltro, psichiatri e psicologi non erano affatto più bravi degli altri). Sono soddisfatto della risposta che ho trovato: non siamo né perfetti né impotenti come bugiardi e riconoscere l'inganno non è né facile, come diceva Freud, né impossibile. Questa risposta rende le cose più complicate e quindi più interessanti. La nostra imperfetta capacità di mentire è fondamentale, forse addirittura necessaria, per la nostra esistenza. Consideriamo per un momento come sarebbe la vita se chiunque sapesse mentire alla perfezione, oppure se nessuno potesse mentire affatto. Ci ho riflettuto soprattutto a proposito delle menzogne circa le emozioni, dato che sono le più difficili e dato che sono proprio le emozioni quello che mi interessa. Se non potessimo mai sapere che cosa prova una persona e ce ne rendessimo perfettamente conto, la vita sarebbe molto più inconsistente. Certo, sapendo che ogni manifestazione di emozioni potrebbe essere una pura e semplice recita per compiacere, manipolare o mettere fuori strada, tutti andrebbero più alla deriva, gli attaccamenti sarebbero molto meno solidi. Noi viviamo nella convinzione che esista un nocciolo di verità emotiva, che la maggior parte delle persone non possa o non voglia ingannarci sui propri sentimenti. Se il tradimento fosse altrettanto facile con le emozioni quanto con le idee, se espressioni e gesti potessero essere camuffati o falsificati altrettanto bene quanto le parole, la nostra vita emotiva sarebbe molto più povera e piena di cautele. E se non potessimo mai mentire, se il sorriso fosse un'espressione perfettamente attendibile, mai assente quando si prova piacere, mai presente se il piacere non c'è, la vita sarebbe più aspra e molti rapporti più difficili da mantenere. La gentilezza, il tentativo di appianare le difficoltà, di nascondere sentimenti che si vorrebbe non provare, tutto questo sarebbe perduto. Non ci sarebbe modo di tener nascosto nulla, nessuna possibilità di tenersi per sé il proprio malumore o di leccarsi le ferite, se non in perfetta solitudine. Immaginiamo di avere accanto un amico, un collega, peggio ancora una moglie o un marito, che dal punto di vista delle capacità di controllare o dissimulare le emozioni fosse come un bambino di tre mesi e sotto ogni altro rispetto un adulto: è una prospettiva poco piacevole. Non siamo né trasparenti come il lattante né perfettamente camuffati. Possiamo mentire o essere sinceri, riconoscere le bugie o non vederle, essere ingannati o riuscire a difenderci. Abbiamo possibilità di scelta, è questa la nostra natura. Appendice Le Tabb. 1 e 2 riassumono tutte le informazioni ricavabili da tutti gli indizi di menzogna descritti nei Capp. IV e V. La Tab. 1 è ordinata in base ai singoli indizi, la Tab. 2 in base all'informazione che se ne trae. Per sapere quali informazioni un particolare comportamento può rivelare, il lettore deve consultare la Tab. 1, per sapere quale comportamento può fornire un certo tipo d'informazione, la Tab. 2. Si ricordi che esistono due tipi principali di menzogna, dissimulazione e falsificazione. Le Tabb. 1 e 2 riguardano entrambe la dissimulazione. La Tab. 3 riporta gli indizi comportamentali di falsificazione. La Tab. 4 presenta l'intero prontuario di domande per la verifica e il controllo delle menzogne. TABELLA 1. DISSIMULAZIONE: INDIZI COMPORTAMENTALI E RELATIVO SIGNIFICATO. Indizi di menzogna Lapsus Tirate oratorie Linguaggio involuto Pause ed errori di linguaggio Voce più acuta Informazione rivelata Può essere specifico all'emozione; può rivelare informazioni non attinenti all'emozione Può essere specifico all'emozione; può rivelare informazioni non attinenti all'emozione Linea di difesa non preparata; oppure emozioni negative, soprattutto paura Linea di difesa non preparata; oppure emozioni negative, soprattutto paura Emozione negativa, probabilmente collera e/o paura Voce più grave Emozione negativa, probabilmente tristezza Discorso accelerato, voce Probabilmente collera, più alta paura e/o eccitazione Discorso rallentato, voce Probabilmente tristezza più bassa e/o noia Gesti emblematici Può essere specifico all'emozione; può rivelare informazioni non attinenti all'emozione Diminuzione dei gesti Noia; linea difensiva non illustrativi preparata; oppure soppesare ogni parola Aumento dei gesti Emozione negativa manipolatori Respiro rapido e poco Emozione, non specifico profondo Sudore Emozione, non specifico Deglutizione frequente Emozione, non specifico Microespressioni Qualunque emozione specifica Espressioni soffocate Emozione specifica; oppure può indicare solo che un'espressione è stata interrotta, ma non quale Muscoli facciali involontari Ammiccamento aumentato Dilatazione pupillare Lacrime Rossore Pallore Paura e tristezza Emozione, non specifico Emozione, non specifico Tristezza, dolore, riso incontrollato Imbarazzo, vergogna e collera; forse senso di colpa Paura o collera TABELLA 2. DISSIMULAZIONE: TIPI D'INFORMAZIONE E RELATIVI INDIZI Tipo d'informazione Linea difensiva non preparata Indizio comportamentale Discorso involuto, pause, errori nel discorso, diminuzione dei gesti illustrativi Informazione non attinente ad emozioni (fatti, progetti, fantasie) Emozioni (p. es. felicità, sorpresa, dolore) Paura Collera Tristezza (forse senso di colpa e vergogna) Imbarazzo Eccitazione Lapsus, tirate oratorie, gesti emblematici Lapsus, tirate oratorie, microespressioni, espressioni soffocate Discorso involuto, pause, errori del discorso, voce più acuta, discorso accelerato e voce più alta, muscoli facciali involontari, pallore Voce più acuta, discorso accelerato e voce più alta, rossore, pallore Voce più grave, discorso rallentato e voce più bassa, muscoli facciali involontari, lacrime, sguardo abbassato, rosso Rossore, sguardo abbassato o distolto Aumento dei gesti illustrativi, voce più acuta, discorso accelerato e voce più alta Noia Emozioni negative Qualunque emozione Diminuzione dei gesti illustrativi, discorso rallentato e voce più bassa Discorso involuto, pause, errori nel discorso, voce più acuta, voce più grave, aumento dei gesti manipolatori Cambiamenti respiratori, sudore, deglutizione, espressione soffocata, ammiccamento aumentato, dilatazione della pupilla TABELLA 3. INDIZI DI FALSIFICAZIONE DI UN'ESPRESSIONE Falsa emozione Indizio comportamentale Paura Tristezza Gioia Entusiasmo o interesse Emozioni negative Qualunque emozione Assenza della contrazione involontaria della fronte Assenza della contrazione involontaria della fronte Muscoli degli occhi non contratti I gesti illustrativi non aumentano o la scelta del tempo è sbagliata Assenza di: sudore, cambiamenti respiratori, aumento dei gesti manipolatori Espressione asimmetrica, inizio troppo brusco, fine troppo brusca o a scatti, collocazione sbagliata nel discorso TABELLA 4. PRONTUARIO DI VERIFICA E CONTROLLO Domande sulla bugia Bugie difficili da Bugie facili da scoprire scoprire 1. Chi mente può prevedere quando dovrà mentire? SÌ: ben preparato NO: impreparato 2. La bugia implica solo dissimulazione, senza bisogno di falsificare? SÌ NO 3. La bugia implica emozioni provate al momento? NO SÌ: specialmente difficile se A) bisogna fingere emozioni negative, come collera, paura o dolore B) bisogna sembrare impassibili e non si può mascherare l'emozione sentita con un'altra 4. C'è amnistia se il bugiardo confessa? NO: accentua la SÌ: probabilità di indurre motivazione del bugiardo la confessione 5. La posta in gioco (ricompensa o punizione) è molto alta? Difficile fare previsioni: una posta alta può accrescere la paura di esser scoperto, ma può anche motivare il mentitore a impegnarsi di più 6. Ci sono gravi punizioni per chi è scoperto a mentire? NO: scarsa apprensione; SÌ: accresce l'apprensione, ma può causare ma anche in certi disattenzione innocenti, producendo falsi positivi 7. Ci sono gravi punizioni per l'atto stesso di aver mentito, a parte i danni per l'inganno mancato? NO SÌ: accresce l'apprensione; può dissuadere dalla menzogna chi sa che la punizione sarebbe peggiore del danno subito dicendo la verità 8. Il destinatario non è danneggiato dall'inganno o ne è addirittura beneficato? È una bugia altruistica, senza vantaggi per il mentitore? SÌ: minore senso di colpa, NO: maggiore senso di se chi mente la vede così colpa 9. È una situazione tale che la vittima non ha sospetti? SÌ NO 10. Il mentitore è già riuscito a ingannare la vittima in precedenza? SÌ: minore apprensione; NO nel caso che la vittima possa vergognarsi di dover riconoscere che è stata già ingannata, può diventare una vittima volontaria 11. Autore e destinatario dell'inganno hanno gli stessi valori? NO: minore senso di colpa SÌ: maggiore senso di colpa 12. La menzogna è autorizzata? SÌ: minore senso di colpa NO: maggiore senso di colpa 13. La vittima è anonima? SÌ: minore senso di colpa NO: maggiore senso di colpa 14. Bugiardo e vittima si conoscono personalmente? NO SÌ: maggiore probabilità di evitare gli errori dovuti alle differenze individuali 15. Il cacciatore di bugie deve nascondere al bugiardo i suoi sospetti? SÌ: l'inquisitore può NO invischiarsi nel proprio tentativo di dissimulazione e perdere di vista il comportamento del mentitore 16. L'inquisitore conosce particolari che solo il colpevole potrebbe sapere? NO SÌ: può usare la tecnica della conoscenza colpevole, se il sospettato può essere interrogato 17. Il bugiardo ha un pubblico che è al corrente dell'inganno? NO SÌ: può accrescere il piacere della beffa, il timore di essere scoperto o il senso di colpa 18. Mentitore e inquisitore appartengano alla stessa cultura e parlano la stessa lingua? NO: più errori nel valutare SÌ: interpretazione degli gli indizi della menzogna indizi più facile Domande circa il mentitore Bugie difficili da scoprire Bugie facili da scoprire 19. Ha pratica di menzogne? SÌ: specialmente se di NO questo tipo 20. E creativo e astuto nell’inventare? SÌ NO 21. Ha una buona memoria? SÌ NO 22. È un buon parlatore, con maniere convincenti? SÌ NO 23. Utilizza i muscoli facciali involontari per sottolineare la conversazione? SÌ: più capace di NO nascondere o falsificare le espressioni del viso 24. È un buon attore, che usa il metodo Stanislavski? SÌ NO 25. Può convincersi della propria bugia, finendo per credere a quello che dice? SÌ NO 26. È un “attore nato” o uno psicopatico? SÌ NO 27. La sua personalità lo espone alla paura, al senso di colpa o al piacere della beffa? NO SÌ 28. Si vergogna di ciò che nasconde? Difficile fare previsioni: la vergogna tende a impedire la confessione, ma se trapela può tradire la bugia 29. Può il sospettato provare paura, senso di colpa, vergogna o piacere della beffa anche se è innocente, o mente su qualcos'altro? SÌ: impossibile NO: segni di queste interpretare gli indizi emozioni sono indizi di emotivi menzogna Domande sul cacciatore di buche Bugie difficili da Bugie facili da scoprire scoprire 30. Ha la reputazione di essere un osso duro? NO: specialmente se il SÌ: accresce l'apprensione; mentitore è già riuscito a può accrescere anche il ingannarlo in passato piacere della beffa 31. Ha la reputazione di essere diffidente? Difficile fare previsioni: può ridurre il senso di colpa, ma può anche accrescere l'apprensione 32. Ha una reputazione di equità? NO: meno probabile il SÌ: accresce il senso di senso di colpa colpa 33. È una persona che nega ed evita i problemi e tende sempre a pensare il meglio possibile della gente? SI: probabilmente NO trascurerà indizi di menzogna; vulnerabile a falsi negativi 34. Ha particolari capacità d'interpretare i comportamenti espressivi? NO SÌ 35. Ha dei preconcetti circa il sospettato? NO SÌ: più pronto a cogliere indizi di menzogna, ma anche esposto a falsi positivi 36. Ottiene vantaggi se non scopre la bugia? SÌ: ignorerà, NO volontariamente o involontariamente, gli indizi di menzogna 37. È incapace di tollerare l'incertezza circa l'eventualità di essere ingannato? Difficile fare previsioni: può causare errori di entrambi i tipi, sia falsi positivi che falsi negativi 38. È in preda a un'emozione incontrollabile? NO SI: chi mente viene scoperto, ma anche gli innocenti saranno giudicati colpevoli (falsi positivi) Paul Ekman è professore emerito di Psicologia all'Università della California a San Francisco. Esperto di espressione facciale, fisiologia delle emozioni e menzogna, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, in particolare il premio per meriti scientifici dell'American Psychological Association, Dello stesso autore Giunti ha pubblicato: Le bugie dei ragazzi (1993, 2009) e (Giù la maschera (con Wallace V. Friesen, 2007). La serie Lie to me, andata in onda su Fox, è basata sulle ricerche riportate in questo saggio. Sapendo che cosa cercare nel volto, nella voce, nell'atteggiamento, nelle parole, noi possiamo scoprire gli indizi che rivelano la menzogna. In questo libro Paul Ekman, un'autorità riconosciuta nello studio della psicologia delle emozioni e della comunicazione non verbale, rivela le più ingegnose tecniche di ricerca applicate all'esplorazione di alcuni degli impulsi più profondi del comportamento umano. 1) Sono debitore di Robert Jervis (The Logic of Images in International Relations, Princeton, N. J., Princeton University Press, 197 0) per molte delle mie idee sulla menzogna nelle relazioni internazionali e per aver richiamato la mia attenzione sugli scritti di Alexander Groth. Questa citazione è analizzata in un articolo di Groth, «On the Intelligence Aspects of Personal Diplomacy», in Orbis, 7 (1964), pp. 833-849. È ripresa da Keith Feiling, The Life of Neville Chamberlain, London, MacMillan, 1947 , p. 367 . ↵ 2) Discorso alla Camera dei Comuni, 28 settembre 1938. Neville Chamberlain, In Search of Peace, New York, Putnam & Sons, 1939, p. 210, citato da Groth. ↵ 3) Questo lavoro è esposto in una serie di articoli della seconda metà degli anni '60 e in un libro da me curato, su Darwin and Facial Expression, New York, Academic Press, 197 3. ↵ 4) La ricerca è descritta nel mio primo articolo sul tema della menzogna: Paul Ekman, Wallace V. Friesen, «Nonverbal Leakage and Clues to Deception», in Psychiatry, 32 (1969), pp. 88105. ↵ 5) Roberta Wohlstetter, Slow Pearl Harbors and the Pleasures of Deception, in Intelligence Policy and National Security, edited by Robert L. Pfaltzgraff jr., Uri Ra'anan, Warren Milberg, Hamdenn Conn., Anchor Books, 1981, pp. 2334. ↵ 6) San Francisco Chronicle, 28 ottobre 1982, p. 12. ↵ 7) Gli atteggiamenti forse stanno cambiando. Jody Powell, ex addetto stampa di Carter, giustifica certe bugie: «Dal primo giorno in cui il primo cronista pose la prima domanda imbarazzante a un rappresentante del governo, si è discusso se il governo ha il diritto di mentire. Lo ha. In certe circostanze, il governo non solo ha il diritto, ma ha il dovere di mentire. Nei quattro anni che ho passato alla Casa Bianca mi sono trovato in circostanze del genere due volte». Prosegue descrivendo un episodio in cui ha mentito per risparmiare «grande sofferenza e imbarazzo ad alcune persone del tutto innocenti». L'altra menzogna confessata da Powell riguarda l'aver occultato i piani del tentativo di liberare gli ostaggi americani in Iran (Jody Powell, The Other Side of the Story, New York, Morrow, 1984). ↵ 8) The Compact Edition of the Oxford English Dictionary, New York, Oxford University Press, 197 1, p. 1616. ↵ 9) È interessante cercare d'individuare la base di questi stereotipi. Presumibilmente la fronte alta viene considerata erroneamente come indice della grandezza del cervello, così come lo stereotipo secondo cui le labbra sottili denotano crudeltà si basa sull'osservazione esatta che le labbra in effetti si stringono nella collera. L'errore sta nel fatto di utilizzare l'indizio di uno stato emotivo transitorio per giudicare un tratto permanente di personalità. Un tale giudizio suppone che le persone dalle labbra sottili abbiano questo aspetto perché stringono continuamente le labbra per la rabbia; ma le labbra sottili possono essere anche un carattere ereditario permanente. Lo stereotipo secondo cui le labbra tumide indicherebbero sensualità nasce da un analogo errore logico: dall'osservazione esatta che le labbra si gonfiano per l'afflusso di sangue durante l'eccitazione sessuale, si ricava il giudizio sbagliato circa un tratto permanente della personalità. Anche in questo caso, la forma delle labbra può essere un carattere ereditario fissato una volta per tutte. A questo proposito, si veda Paul F. Secord, Facial Features and Inference Processes in Interpersonal Perception, in Person, Perception and Interpersonal Behavior, edited by R. Tagiuri, L. Petrullo, Stanford, Stanford University Press, 1958. Si veda anche Paul Ekman, Facial Signs: Facts, Fantasies and Possibilities, in Sight, Sound and Sense, edited by Thomas A. Sebeok, Bloomington, Indiana University Press, 197 8. ↵ 10) È ancora aperta la controversia se gli animali possano deliberatamente scegliere di mentire. Si veda in proposito David Premack, Ann James Premack, The Mind of an Ape, New York, W. W. Norton & Co., 1983. Inoltre, Premack, Premack, Communication as Evidence of Thinking, in Animal Mind-Human Mind, edited by D. R. Griffin, New York, Springer Verlag, 1982. ↵ 11) Non contesto l'esistenza di mentitori patologici e di individui che sono vittime di autoinganni, ma la cosa è difficile da dimostrare. Di certo non si può accettare come prova la parola del mentitore: una volta scoperto, qualunque bugiardo potrebbe avanzare a sua scusa affermazioni del genere. ↵ 12) Sono grato a Michael Handel per aver citato questo episodio nel suo articolo molto stimolante «Intelligence and Deception», in journal of Strategie Studies, 5 (1982), pp. 122154. La citazione è ripresa da Denis Mack Smith, Mussolini's Roman Empire, p. 17 0. ↵ 13) Il mio interesse è rivolto solo a quelle che Goffman chiamava menzogne sfacciate, quelle «per le quali può esistere la prova indiscutibile che chi le ha dette sapeva di mentire e l'ha fatto volontariamente». A Goffman, invece, non interessavano queste ma piuttosto altre rappresentazioni distorte, in cui la distinzione fra vero e falso è meno netta: «Forse non c'è nemmeno una legittima attività o relazione quotidiana in cui il soggetto non esegua pratiche nascoste che sono incompatibili con le impressioni che intende favorire negli altri». (Entrambe le citazioni sono riprese da The Presentation of Self in Everyday Life, New York, Anchor Books, 1959, pp. 59, 64 [tr. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969]). ↵ 14) Questa distinzione è adottata dalla maggior parte degli autori che analizzano l'inganno e la menzogna. Si vedano Handel, «Intelligence and Deception», e Barton Whaley, «Toward a General Theory of Deception, in Journal of Strategic Studies, 5 (1982), pp. 17 9-192, per un esame dell'utilità di questa distinzione nell'analisi di inganni in materia militare. ↵ 15) Sisela Bok riserva il termine “menzogna” a quella che io chiamo falsificazione, usando “reticenza” per quella che definisco dissimulazione. A suo avviso questa distinzione è importante sul piano morale, in quanto sostiene che, mentre mentire è «evidentemente scorretto, con una presunzione di colpa in ogni caso, la reticenza non necessariamente lo è» (Secrets, New York, Pantheon, 1982, p. xv). ↵ 16) Eve Sweetser fa una considerazione interessante a questo proposito. La vittima può sentirsi più ferita da una dissimulazione che da un esplicito falso: «Non può nemmeno lamentarsi che qualcuno le ha mentito e così ha l'impressione che l'avversario abbia tirato di soppiatto un colpo basso legale» (Sweetser, The Definition of a Lie, in Cultural Modern in Language and Thought, edited by Naomi Quinn e Dorothy Holland, 1987 , p. 56). ↵ 17 ) David E. Rosenbaum, in New York Times, 17 dicembre 1980. ↵ 18) John Updike, Marry Me, New York, Fawett Crest, 197 6, p. 90. ↵ 19) Ezer Weizman, The Battle for Peace, New York, Bantam Books, 1981, p. 182. ↵ 20) Nel suo studio sui giocatori di poker, David Hayano descrive un altro stile usato dai professionisti: «I giocatori vivaci chiacchierano continuamente durante il gioco per innervosire e mettere in ansia gli avversari [...]. La verità è detta come una bugia e la bugia come verità. Alla verbosità si accompagnano gesti esagerati [...]. “Si contorce più di una danzatrice di ventre”, mi hanno detto a proposito di uno di questi giocatori» («Poker Lies and Tells», in Human Behavior, 197 9, p. 20). ↵ 21) Alan Bullock, Hitler, New York, Harper & Row, 1964, p. 528. Citato da Robert Jervis, The Logic of Images in International Relations, Princeton, N. J., Princeton University Press, 197 0. ↵ 22) Robert Daley, The Prince of the City, New York, Berkeley Books, 1981, p. 101. ↵ 23) Updike, Marry Me. ↵ 24) John Carroll, «Everyday Hypocrisy. A User's Guide», in San Francisco Chronicle, 11 aprile 1983, p. 17 . ↵ 25) Updike, Marry Me, p. 90. ↵ 26) John J. Sirica, To Set the Record Straight, New York, New American Library, 1980, p. 142. ↵ 27 ) James Phelan, Scandals, Scamps and Scoundrels, New York, Random House, 1982, p. 22. ↵ 28) Terence Rattigan, The Winslow Boy, New York, Dramatists Play Service Inc., Acting Edition, 197 3, p. 29. ↵ 29) Il racconto è contenuto nel libro di David Lykken, A Tremar in the Blood: Uses and Abuses of the Lie Detector, New York, McGraw-Hill, 1981. ↵ 30) Alcuni specialisti pensano che le convinzioni dell'indiziato circa l'esattezza della macchina non abbiano molto peso. Di questo ed altri problemi relativi al poligrafo e alla sua efficacia nella rivelazione delle menzogne, in confronto agli indizi comportamentali, si parlerà nel Cap. VII. ↵ 31) Robert D. Hare, Psychopathy. Theory and Research, New York, John Wiley, 197 0, p. 5. ↵ 32) I criminali psicopatici riescono anche a ingannare gli esperti. «Robert Resllser, un funzionario dell'Unità di scienze comportamentali dell'FBI [...] che ha intervistato 36 pluriomicidi ha dichiarato: la maggior parte di loro sono persone normali all'aspetto e alla conversazione [...]. Ann Rule, una ex poliziotta, studiosa di psicologia e autrice di cinque libri su questo tipo di criminali [...] ha avuto modo di dare un'occhiata nella personalità di uno di loro quando, per una spaventosa coincidenza, si è trovata a lavorare per qualche tempo nello stesso ufficio con Ted Bundy [in seguito condannato per una serie di omicidi, alcuni dei quali commessi proprio in quel periodo]. Fecero rapidamente amicizia. Ha raccontato la Rule: Ted era un tale manipolatore che non si sapeva mai se fingeva o no [...]. La personalità antisociale sembra sempre sincera, la facciata è assolutamente perfetta. Credevo di sapere cosa cercare, ma quando lavoravo con Ted non ho notato nemmeno un segnale che lo tradisse in qualche modo» (Edward Iwata, «The Baffling Normalcy of Serial Murders», in San Francisco Chronicle, 5 maggio 1984). ↵ 33) Michael I. Handel, «Intelligence and Deception», in journal of Strategic Studies, 5 (1982), p. 136. ↵ 34) La nostra ricerca in effetti ha dimostrato che quelle che hanno dato le migliori prestazioni nell'esperimento, cioè le più capaci di controllare le emozioni, hanno ottenuto i risultati migliori nei successivi tre anni di scuola infermiere. ↵ 35) San Francisco Chronicle, 9 gennaio 1982, p. 1. ↵ 36) San Francisco Chronicle, 21 gennaio 1982, p. 43. ↵ 37 ) William Hood, Mole, New York, W. W. Norton & Co., 1982, p. 11. ↵ 38) Se è vero che il 30-40% dei pazienti ottiene sollievo dai placebo, alcuni ritengono che l'uso di placebo metta a repentaglio il rapporto di fiducia che deve esistere fra medico e paziente e apra la via a inganni più pericolosi. Per indicazioni bibliografiche e un esame del problema, si veda l'articolo di Lindsey Gruson, «Use of Placebos Being Argued on Ethical Grounds», in New York Times, 13 febbraio 1983, p. 19. ↵ 39) Bruce Horowitz, «When Should an Executive Lie?», in Industry Week, 16 novembre 1981, p. 83. ↵ 40) Questa idea è stata suggerita da Robert L. Wolk ed Arthur Henley nel loro libro The Right to Lie, New York, Peter H. Wyden, Inc., 197 0. ↵ 41) Alan Dershowitz, The Best Defense, New York, Random House, 1982, p.37 0. ↵ 42) Shakespeare, Sonetto 138; traduzione italiana di Alberto Rossi e Giorgio Melchiori, Torino, Einaudi, 197 0. ↵ 43) Roberta Wohlstetter, Slow Pearl Harbours and the Pleasures oh Deception, in Intelligence Policy and National Security, edited by Robert L. Pfaltzgraff Jr., Uri Ra'anan, Warren Milberg, Hamden, Conn., Archon Press, 1981. ↵ 44) Si veda J. Sergent e D. Bindra, «Differential Hemispheric Processing of Faces: Methodological Considerations and Reinterpretation», in Psychological Bulletin, 89 (1981), pp. 545-554. ↵ 45) La maggior parte delle persone, mentre parla, dipende da queste risposte dell'ascoltatore e se vengono a mancare ben presto chiede: «Mi stai ascoltando?». Pochissimi sono un sistema chiuso, capaci di parlare senza badare al fatto che gli ascoltatori li incoraggino o no. ↵ 46) Fra gli operai delle segherie, per esempio, che devono comunicare senza potersi servire delle parole a causa del rumore, è in uso un sistema molto elaborato di gesti. Per la stessa ragione usano un complicato sistema di linguaggio gestuale i piloti e il personale di pista. ↵ 47 ) I neurologi non sono certi dei circuiti nervosi che ci informano dei nostri cambiamenti d'espressione, né hanno chiaro se ad essere registrate sono variazioni nella muscolatura facciale o nella pelle. Fra gli psicologi c'è disaccordo circa la capacità soggettiva di avvertire le espressioni al momento in cui si dipingono sul volto. Dalle mie ricerche sembra che non abbiamo una sensibilità molto acuta della nostra mimica e che generalmente non prestiamo molta attenzione alle informazioni sensoriali provenienti dal viso. ↵ 48) Parte dei lavori sono descritti da Paul Ekman, Wallace V. Friesen, Maureen O'Sullivan, Klaus Scherer, «Relative Importance of Fare, Body and Speech in Judgments of Personality and Affect», in Journal of Personality and Social Psychology, 38 (1980), pp. 27 0-7 7 . ↵ 49) Molti psicologi hanno cercato di individuare i fattori che contribuiscono a rendere un individuo un buon giudice o un cattivo giudice degli altri, ma con esiti non molto soddisfacenti. Per una rassegna di queste ricerche, si veda Maureen O'Sullivan, Measuring the Ability to Recognize Facial Expressions of Emotion, in Emotion in the Human Face, edited by Paul Ekman, New York, Cambridge University Press, 1982. ↵ 50) Bruce Horowitz, «When Should and Executive Lie?», in Industry Week, 16 novembre 1981, p. 83. ↵ 51) S. Freud, The Psychopathology of Everyday Life (1901), vol. 6 of The Complete Psychological Works, edited by James Strachey, New York, W. W. Norton, 197 6, p. 86. ↵ 52) Freud cita molti interessanti esempi più brevi di lapsus, ma sono meno convincenti di quello che ho scelto, in quanto tradotti dall'originale tedesco. Il Dr. Brill era americano e Freud cita questo esempio in inglese. Ivi, pp. 89-90. ↵ 53) S. Freud, Parapraxes (1916), in The Complete Psychological Works, vol. 15, p.66. ↵ 54) John Weisman, «The Truth will Out», in TV Guide, 3 settembre 197 7 , p. 13. ↵ 55) Non è facile decidere su questa ed altre contraddizioni nella letteratura scientifica sull'argomento, dato che gli esperimenti sono di per sé non troppo affidabili. Quasi tutti i ricercatori hanno esaminato studenti che dovevano mentire su questioni irrilevanti, senza che ci fosse una seria posta in gioco. Nella maggior parte degli esperimenti sulla menzogna non sembra che si sia riflettuto molto sul tipo di inganno da prendere in esame: di solito la scelta era dettata solo dalla facilità di predisporre la situazione sperimentale. Per esempio, si trattava di difendere con argomenti persuasivi un'opinione contraria alla propria circa la pena di morte o l'aborto. Oppure si chiedeva al soggetto se gli piaceva una persona mostrata in fotografia; quindi, doveva fingere l'atteggiamento opposto. Di norma questi esperimenti trascurano di considerare la relazione fra l'autore e il destinatario dell'inganno e l'influenza che questa può avere ai fini del maggiore o minore impegno nella menzogna. Generalmente, fra i due non c'era alcuna conoscenza precedente né avevano ragione di pensare di doversi incontrare di nuovo in futuro. A volte non c'era nemmeno un vero e proprio destinatario, ma la bugia doveva semplicemente essere detta a un apparato di registrazione. Per un panorama recente, ma non sufficientemente critico, di questi esperimenti, si veda Miron Zuckerman, Bella M. De Paulo e Robert Rosenthal, «Verbal and Nonverbal Communication of Deception», in Advances in Experimental Social Psychology, vol. 14, New York, Academic Press, 1981. ↵ 56) Alcune nuove tecniche per l'analisi quantitativa della voce umana promettono grossi progressi a breve termine. Per un'esauriente rassegna di questi metodi, si veda Klaus Scherer, Methods of Research on Vocal Communication: Paradigms and Parameters, in Handbook of Methods in Nonverbal Behavior Research, edited by Klaus Scherer and Paul Ekman, New York, Cambridge University Press, 1982. ↵ 57 ) Questi risultati sono riferiti in Paul Ekman, Wallace V. Friesen, Klaus Scherer, «Body Movement and Voice Pitch in Deceptive Interaction», in Semiotica, 16 (197 6), pp. 23-7 . I risultati sono stati replicati da Scherer ed altri autori. ↵ 58) John J. Sirica, To Set the Record Straight, New York, W. W. Norton, 197 9, pp. 99-100. ↵ 59) Richard Nixon, The Memoirs of Richard Nixon, voi. 2, New York, Warner Books, 197 9, p. 440. ↵ 60) John J. Sirica, op. cit., pp. 99-100. ↵ 61) John J. Sirica, op. cit., pp. 99-100. ↵ 62) John Dean, Blind Ambition, New York, Simon & Schuster, 197 6, p. 304. ↵ 63) Ivi, pp. 309-10. ↵ 64) Per una rassegna critica di queste varie tecniche per l'individuazione dello stress attraverso la voce, si vedano David T. Lykken, A Tremar in the Blood, New York, McGraw-Hill, 1981, Cap. 13, e Harry Hollien, The Case against Stress Evaluators and Voice Lie Detection (ciclostilato inedito, Institute for Advanced Study of the Communication Processes, University of Florida, Gainesville). ↵ 65) Una descrizione del nostro metodo per ottenere un panorama dei segni emblematici d'uso comune, con i risultati per quanto riguarda la popolazione americana, è contenuta in Harold G. Johnson, Paul Ekman, Wallace V. Friesen, «Communicative Body Movements: American Emblems», in Semiotica, 15 (197 5), pp. 335-53. Per un confronto fra i gesti convenzionali in culture diverse, si veda Ekman, «Movements with Precise Meanings», in Journal of¯Communication, 26 (197 6), pp. 14-26. ↵ 66) Purtroppo, nessuno degli altri ricercatori che si sono occupati della menzogna si è curato di verificare se poteva replicare il nostro dato relativo ai lapsus gestuali. Sono convinto che ne avrebbero trovati, se li avessero cercati, dal momento che mi è capitato due volte nell'arco di 25 anni di imbattermi in un lapsus gestuale che tradiva le emozioni dissimulate. Purtroppo, nessuno degli altri ricercatori che si sono occupati della menzogna si è curato di verificare se poteva replicare il nostro dato relativo ai lapsus gestuali. Sono convinto che ne avrebbero trovati, se li avessero cercati, dal momento che mi è capitato due volte nell'arco di 25 anni di imbattermi in un lapsus gestuale che tradiva le emozioni dissimulate. ↵ 67 ) Il libro di Efron, Gesture and Environment, pubblicato la prima volta nel 1941, ed esaurito da tempo, è nuovamente in commercio sotto il titolo Gesture, Race, and Culture, The Hague, Mouton Press, 197 2. ↵ 68) Nelle famiglie immigrate da culture dove è frequente l'uso di gesti illustrativi spesso si insegna ai bambini a non gesticolare con le mani quando parlano: se gesticolano troppo fanno riconoscere le loro origini, mentre parlando senza muovere le mani potranno somigliare agli americani di ceppo anglosassone, di più antico insediamento. ↵ 69) Questo gesto ha un significato del tutto diverso, osceno, in alcuni paesi mediterranei. I gesti emblematici non sono universali, ma il loro significato varia da una cultura all'altra. ↵ 7 0) Per un'analisi dei gesti di automanipolazione, si veda Paul Ekman, Wallace V. Friesen, Nonverbal Behavior and Psychopathology, in The Psychology of Depression: Contemporary Theory and Research, edited by R. J. Friedman, M. N. Katz, Washington, D. C, J. Winston, 197 4. ↵ 7 1) Da un'unica ricerca risulta che le persone generalmente pensano che agitarsi molto sulla sedia o cambiar posizione sia segno di menzogna. In realtà, tuttavia, la postura risulta non correlata con la sincerità o falsità. Si veda in proposito Robert E. Kraut, Donald Poe, «Behavioral Roots of Person Perception: The Deception Judgments of Custom Inspectors and Laymen», in Journal of Personality and Social Psychology, 39 (1980), pp. 7 84-98. ↵ 7 2) Per conoscere di prima mano le argomentazioni di un esponente attuale di questa posizione, si veda George Mandler, Mind and Body: Psychology of Emotion and Stress, New York, W. W. Norton & Co., 1984. ↵ 7 3) Paul Ekman, Robert W. Levenson, Wallace V. Friesen, «Autonomic Nervous System Activity Distinguishes between Emotions», in Science, 221 (1983), pp. 1208-10. ↵ 7 4) La descrizione dell'impedimento dei sistemi volontari e involontari a seguito di lesioni diverse è ripresa dalla letteratura clinica. Si veda, per esempio, K. Tschiassny, «Eight Syndromes of Facial Paralysis and Their Significance in Locating the Lesion», in Annals of Otology, Rhinology and Laryngology, 62 (1953), pp. 67 7 -91. La descrizione delle maggiori o minori difficoltà di questi pazienti nel sostenere una finzione è una mia estrapolazione. ↵ 7 5) Per una rassegna di tutti i dati scientifici disponibili, si veda Paul Ekman, Darwin and Facial Expression: A Century of Research in Review, New York, Academic Press, 197 3. Per un discorso meno tecnico, corredato da fotografie che illustrano mimiche universali in una popolazione preletterata, isolata, della Nuova Guinea, si veda Ekman, Face of Man: Expressions of Universal Emotions in a New Guinea Village, New York, Garland STMP Press, 1980. ↵ 7 6) Ekman, Face of Man, pp. 133-6. ↵ 77) The Facial Action Coding System, elaborato da Paul Ekman e Wallace V. Friesen (Palo Alto, Consulting Psychologists Press, 197 8), è un corso programmato, completo di manuale, fotografie e filmati illustrativi e programma computerizzato, che insegna a descrivere e misurare qualunque espressione. ↵ 7 8) Per garantire la riservatezza ho usato fotografie che raffiguravano me, anziché i soggetti studiati. ↵ 7 9) E. A. Haggarcl, K. S. Isaacs, Micromomentary Facial Expressions, in Methods of Research in Psychotherapy, edited by L. A. Gottschalk and A. H. Auerbach, New York, Appleton Century Crofts, 1966. ↵ 80) Unmasking the Face, curato da Paul Ekman e Wallace V. Friesen, Palo Alto, Consulting Psychologists Press, 1984, fornisce al lettore le illustrazioni e le istruzioni per acquisire questa competenza. ↵ 81) Friesen ed io abbiamo messo a punto un test delle azioni mimiche eseguite su richiesta (Requested Facial Action Test), che esamina fino a che punto un individuo è capace di muovere deliberatamente ciascun muscolo facciale e di assumere la mimica delle varie emozioni. Per i risultati ottenuti con i bambini, si veda Paul Ekman, Gowen Roper e Joseph C. Hager, «Deliberate Facial Movement», in Child Development, 51 (1980), pp. 886-91. ↵ 82) Ho discusso questa idea con vari studiosi del sistema nervoso che si sono occupati del viso o delle emozioni, i quali ritengono che si tratti di un concetto ragionevole e plausibile. Comunque, non è stato ancora sottoposto a verifica sperimentale e va considerato un'ipotesi di lavoro. ↵ 83) La nostra disapprovazione della menzogna è così forte che l'uso che io faccio di questo termine a proposito di persone rispettabili sembra sbagliato. Come ho spiegato nel Cap. II, nella mia accezione del termine manca qualunque connotazione peggiorativa e, come spiegherò nell'ultimo capitolo, sono convinto che alcune menzogne siano moralmente difendibili. ↵ 84) Rubrica di William Safire, «Undetermined», in San Francisco Chronicle, 28 giugno 1983. ↵ 85) Anwar Sadat, in San Francisco Examiner, 11 ottobre 1981. ↵ 86) Ezer Weizman, The Battle for Peace, New York, Bantam, 1981, p. 165. ↵ 87 ) Margaret Mead, Soviet Attitudes toward Authority, New York, McGraw-Hill, 1951, pp. 65-66, citato da Erving Goffman, Strategic Interaction, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1969, p. 21. ↵ 88) Harold Sackeim, Ruben C. Gur, Marcel C. Saucy, «Emotions Are Expressed More Intensely on the Left Side of the Face», in Science, 202 (197 8), p. 434. ↵ 89) Paul Ekman, «Asymmetry in Facial Expression», con la replica di Sackeim, in Science, 209 (1980), pp. 833-836. ↵ 90) Paul Ekman, Joseph C. Hager, Wallace V. Friesen, «The Symmetry of Emotional and Deliberate Facial Actions», in Psychophysiology, 18/2 (1981), pp. 101-106. ↵ 91) Joseph C. Hager, Paul Ekman, «The Asymmetry of Facial Actions Is Inconsistent with Models of Hemispheric Specialization», in Psychophysiology, 49 (5) (1980), pp. 11251134. ↵ 92) Sono grato a Ronald van Gelder per il suo aiuto in questa ricerca inedita. ↵ 93) Paul Ekman, Joseph C. Hager, «Long Distance Transmission of Facial Affect Signals», in Ethology and Sociobiology, 1 (197 9), pp. 7 7 82. ↵ 94) Paul Ekman, Wallace V. Friesen, Sonia Ancoli, «Facial Signs of Emotional Experience», in Journal of Personality and Social Psychology, 39 (1980), pp. 1125-34. ↵ 95) Il disprezzo può essere mostrato anche da una versione unilaterale di questa espressione: un solo angolo della bocca si stringe e si solleva leggermente. ↵ 96) Le nostre ricerche hanno trovato che pochi individui ottengono risultati superiori al caso quando giudicano la sincerità o falsità di una persona. La maggior parte dei soggetti pensa di giudicare esattamente, anche se non è vero. Esistono pochi individui eccezionali capaci di individuare con molta esattezza la menzogna. Non so se queste persone hanno un dono naturale o acquistano tale capacità attraverso circostanze particolari. Le mie ricerche non si sono occupate del problema specifico, ma da quanto ho potuto vedere sembra che questa competenza non derivi dalla normale formazione professionale degli operatori della salute mentale. ↵ 97 ) David M. Hayano, «Communicative Competence among Poker Players», in journal of Communication, 30 (1980), p. 117 . ↵ 98) David M. Hayano, «Communicative Competence among Poker Players», in Journal of Communication, 30 (1980), p. 115. ↵ 99) William Shakespeare, Otello, Atto V, Scena II. ↵ 100) Richard J. Heuer Jr, Cognitive Factors in Deception and Counterdeception. In Strategic Military Deception, edited by Donald C. Daniel and Katherine L. Herbig, New York, Pergamon Press, 1982, p. 5. ↵ 101) Si ricordi che esistono altri indizi di falso in cui non entrano in gioco le emozioni, come i lapsus verbali e gestuali, le tirate oratorie incontrollate. ↵ 102) Ross Mullaney, The Third Way: The interview, ciclostilato inedito, 197 9. ↵ 103) Arthur Schopenhauer, Our Relation to Others, in The Works of Schopenhauer, edited by Will Durant, Garden City, N. J., Garden City Publishing Company, 1933. ↵ 104) Per una descrizione completa dell'uso di questa tecnica negli interrogatori di polizia con il poligrafo, si veda il libro di Lykken, Tremor in the Blood, New York, McGraw-Hill, 1981. ↵ 105) Scientific Validity of Poligraph Testing: A Research Review and Evaluation. A Technical Memorandum, Washington D. C, U. S. Congress, Office of Technology Assessment, OTA-TM-H-15, novembre 1983. ↵ 106) Richard O. Arther, «How Many Robbers, Burglars, Sex Criminals is Your Department Hiring This Year? (Hopefully, Just 10% of Those Employed!)», in Journal of Polygraph Studies, 6 (197 2). ↵ 107 ) David T. Lykken, «Polygraphic Interrogation», in Nature, 23 febbraio 1984, pp. 681-84. ↵ 108) Leonard Saxe, comunicazione personale. ↵ 109) Gli studiosi che hanno fatto ricerca scientifica sul poligrafo come rivelatore della menzogna si contano sulla punta delle dita. ↵ 110) La maggior parte dei miei dati sull'uso del poligrafo proviene da Scientific Validity of Polygraph Testing: A Research Review and Evaluation. Technical Memorandum, Washington D. C, U. S. Congress, Office of Technology Assessment, OTA-TM-H-15, novembre 1983. Essenzialmente lo stesso rapporto comparirà sotto il titolo «The Validity of Polygraph Testing», un articolo di Leonard Saxe, Denise Dougherty e Theodore Cross, pubblicato sul numero di gennaio 1984 di American Psychologist. ↵ 111) David C. Raskin, «The Truth about Lie Detectors», in The Wharton Magazine, autunno 1980, p. 29. ↵ 112) Rapporto OTA, p. 31. ↵ 113) Benjamin Kleinmuntz e Julian J. Szucko, «On the Fallibility of Lie Detection», in Lato and Society Review, 17 (1982), p. 91. ↵ 114) Dalla deposizione di Richard K. Willard, viceprocuratore generale presso il Dipartimento di giustizia, resa alla Sottocommissione per la legislazione e la sicurezza nazionale della Commissione parlamentare sulle Operazioni del Governo della Camera dei Rappresentanti, 19 ottobre 1983, ciclostilato, p. 22. ↵ 115) Il poligrafo attualmente è usato dai seguenti Enti federali: Comando investigativo-criminale dell'Esercito; Comando dei servizi di sicurezza e controspionaggio dell'Esercito; Servizio investigativo della Marina; Ufficio investigazioni speciali dell'Aeronautica; Divisione investigativa-criminale del Corpo dei Marines; National Security Agency (NSA); Servizio segreto; FBI; Servizio ispettivo postale; Alcohol Tobacco and Firearms Administration; Drug Enforcement Administration (DEA); Central Intelligence Agency (CIA); U.S. Marshalls; Servizio doganale; Dipartimento del lavoro. ↵ 116) Rapporto dell'OTA, p. 29. ↵ 117 ) L'OTA è stato creato nel 197 2 come braccio analitico del Congresso. ↵ 118) Mi sono basato abbondantemente sul rapporto dell'OTA per la stesura di questo capitolo. Sono grato a quattro persone che hanno letto la prima stesura formulando molti utili suggerimenti e critiche: Leonard Saxe (assistente di psicologia all'Università di Boston) e Denise Dougherty (analista dell'OTA), autori del rapporto in questione, David T. Lykken dell'Università del Minnesota e David C. Raskin dell'Università dello Utah. Denise Dougherty ha inoltre risposto pazientemente alle mie molte domande, mentre cercavo di orientarmi fra tante contraddizioni e problemi. ↵ 119) Marcia Garwood e Norman Ansley, The Accuracy and Utility of Polygraph Testing, Dipartimento della difesa, 1983, pagine non numerate. ↵ 120) Anche certi tipi di processi di pensiero (concentrarsi sul problema, ricerca d'informazione, forse la stessa perplessità) possono produrre alterazioni nell'attività del sistema nervoso autonomo. Benché in genere per spiegare l'efficacia del poligrafo nella rivelazione delle menzogne si insista sull'attivazione emotiva, sia Raskin che Lykken sono convinti che i processi di elaborazione mentale siano almeno altrettanto importanti nel dar luogo a risposte neurovegetative durante l'esame con il poligrafo. ↵ 121) David C. Raskin, The Scientific Basis of Polygraph Techniques and Their Uses in the Judicial Process, in Reconstructing the Past: The Role of Psychologists in Criminal Trials, edited by A. Trankell, Stockholm, Norstedt & Soners, 1982, p. 325. ↵ 122) David T. Lykken, Tremar in the Blood, New York, McGraw-Hill, 1981, p. 118. ↵ 123) Benché il ragionamento di Lykken su questo punto appaia plausibile e mi trovi d'accordo, Raskin fa notare che i dati in proposito non sono solidi. In due ricerche si sono introdotti a bella posta degli errori in sede di pre-test, in modo da far sapere ai soggetti che la procedura non è infallibile, ma non si sono avute riduzioni significative nella capacità di evidenziare la menzogna durante l'esame vero e proprio che seguiva. Peraltro, i due lavori citati da Lykken sono giudicati discutibili da altri. Questo è uno dei tanti problemi che richiederebbero un approfondimento delle ricerche. ↵ 124) Raskin afferma che un esaminatore esperto dovrebbe riuscire a nascondere al sospettato quale domanda è più importante per l'esito dell'esame, se quella rilevante o la domanda di controllo. A me, come ad altri che criticano la tecnica delle domande di controllo, non sembra plausibile che la cosa possa sempre riuscire, specialmente con soggetti intelligenti. ↵ 125) Nella pratica, le domande sia rilevanti che di controllo sono numerose, ma questo non cambia la sostanza della mia analisi. ↵ 126) David T. Lykken, comunicazione personale. ↵ 127 ) Lykken, Tremor in the Blood, p. 251. ↵ 128) Raskin, Scientific Basis, p. 341. ↵ 129) Pur esistendo migliaia di articoli sul poligrafo, pochi riguardano lavori di ricerca. L'OTA ha passato al vaglio 3.200 titoli fra articoli e libri, dei quali solo 320 riferivano ricerche. La maggior parte di queste, tuttavia, non soddisfaceva requisiti minimi di scientificità. A giudizio dell'OTA, esiste appena una trentina di lavori corretti sull'esattezza del poligrafo nella rivelazione delle menzogne. ↵ 130) Rapporto OTA, p. 50. ↵ 131) Raskin, Scientific Basis, p. 330. ↵ 132) Prima di conoscere la mia analisi dell'esame con il poligrafo, Raskin mi ha detto che a suo avviso quella che tradisce il bugiardo non è tanto l'apprensione o la gioia di farla franca, quanto la risposta a una sfida. Ciò non dimostra la validità del mio ragionamento, ma è un altro argomento a favore della mia conclusione che i delitti simulati non consentono di ottenere un ventaglio di emozioni sostanzialmente analogo a quello che abbiamo in casi reali, quando la posta in gioco è alta sia per l'innocente che per il colpevole. ↵ 133) Avital Ginton, Netzer Daie, Eitan Elaad, Gershon Ben-Shakhar, «A Method for Evaluating the Use of the Polygraph in a Real-Life Situation», in journal of Applied Psychology, 67 (1982), p. 132. ↵ 134) Rapporto OTA, p. 132. ↵ 135) Questi dati sembrano confermare quanto affermano gli specialisti del poligrafo, che cioè la minaccia di essere sottoposti all'esame produce effettivamente la confessione di alcuni colpevoli. Peraltro, il rifiuto di accettare l'esame non può davvero essere prova certa di colpevolezza. ↵ 136) Ginton e coll., Method for Evaluating, p. 136. ↵ 137 ) Jack Anderson, in San Francisco Chronicle, 21 maggio 1984. ↵ 138) Ho utilizzato il giudizio dell'OTA su quali delle ricerche sul campo e quali di quelle di laboratorio, condotte col metodo delle domande di controllo, rispondano a requisiti minimi di scientificità. Lykken mi ha detto che a suo parere TOTA ha ammesso ricerche sul campo in cui i campioni sono scelti in maniera selettiva, cosicché le stime circa le ricerche sul campo sarebbero errate per eccesso. L'OTA non include nel sommario conclusivo nessuno dei lavori condotti col metodo della conoscenza colpevole; io ne ho invece tenuto conto, in modo che il lettore possa confrontarne i risultati con quelli della prova con le domande di controllo. Ho incluso nei miei dati complessivi tutte le ricerche elencate nella Tab. 7 del rapporto OTA, eccettuato l'esperimento di Timm, dove non partecipavano soggetti innocenti. Del lavoro di Holmes ho utilizzato solo i dati del primo test e del lavoro di Bradley e Janisse solo quelli relativi alla risposta cutaneo-galvanica. Cfr. H. W. Timm, «Analyzing Deception from Respiration Patterns», in journal of Political Science and Administration, 10 (1982), pp. 47 -51; K. D. Balloun, D. S. Holmes, «Effects of Repeated Examinations on the Ability to Detect Guilt with a Polygraphic Examination: A Laboratory Experiment with a Real Crime», in Journal of Applied Psychology, 64 (197 9), pp. 316-22; M. T. Bradley, M. P. Janisse, «Accuracy Demonstrations, Threat, and the Detection of Deception: Cardiovascular, Electrodermal, and Pupillary Measures», in Psychophysiology, 18 (1981), pp. 307 -14. ↵ 139) Rapporto OTA, p. 102. ↵ 140) Dichiarazione di David C. Raskin all'udienza del 10 settembre 197 8 della Sottocommissione senatoriale sulla Costituzione (p. 14). ↵ 141) Mancando in proposito ricerche adeguate, non c'è modo di sapere quale potrebbe essere la precisione nell'uno e nell'altro caso, ma è poco probabile che arrivi al 90%. ↵ 142) Ginton e coll., A Method for Evaluating. Cfr. anche John A. Podlesny e David C. Raskin, «Effectiveness of Techniques and Physiological Measures in the Detection of Deception», in Psychophysiology, 15 (197 8), pp. 344-59, e Frank S. Horvath, «Verbal and Nonverbal Clues to Truth and Deception During Polygraph Examinations», in Journal of Police Science and Administration, 1 (197 3), pp. 138-52. ↵ 143) David C. Raskin, John C. Kircher, Accuracy of Diagnosing Truth and Deception from Behavioral Observation and Polygraph Recordings, manoscritto in preparazione. ↵ 144) Randall Rothenberg, «Bagging the Big Shot», in San Francisco Chronicle, 3 gennaio 1983, pp. 12-15. ↵ 145) Ibidem. ↵ 146) Agness Hankiss, «Games Con Men Play: The Semiosis of Deceptive Interaction», in Journal of Communication, 3 (1980), pp. 104-12. ↵ 147 ) Donald C. Daniel, Katherine L. Herbig, Propositions on Military Deception, in Strategic Military Deception, edited by Daniel and Herbig, New York, Pergamon Press, 1982, p. 17 . ↵ 148) Devo questo esempio all'appassionante narrazione di John Phelan nel Cap. 6 del suo libro Scandali, Scamps and Scoundrels, New York, Random House, 1982, p. 114. Ho riferito qui solo parte della storia. Chiunque sia interessato al problema della menzogna e della sua rivelazione nelle indagini penali dovrebbe leggere questo capitolo per imparare qualcosa su altri trabocchetti in cui si può cadere negli interrogatori e nei tentativi di accertare la verità. ↵ 149) Le mie conoscenze in tema di interrogatori le debbo a Rossiter C. Mullaney, agente dell'FBI dal 1948 al 197 1 e in seguito coordinatore dei programmi d'investigazione presso l'Accademia di polizia regionale del Texas (Centro-Nord) fino al 1981. Si veda il suo articolo, «Wanted! Performance Standards for Interrogation and Interview», in The Police Chief, giugno 197 7 , pp. 7 7 -80. ↵ 150) Alexander J. Groth, «On the Intelligence Aspects of Personal Diplomacy», in Orbis, 7 (1964), p. 848. ↵ 151) Robert Jervis, The Logic of Images in International Relations, Princeton, N. J., Princeton University Press, 197 0, pp. 67 -7 8. ↵ 152) Henry Kissinger, Years of Upheaval, Boston, Little, Brown & Co., 1982, pp. 214, 485. ↵ 153) Citato da Jervis, The Logic, pp. 69-7 0. ↵ 154) Michael I. Handel, «Intelligence and Deception», in journal of Strategic Studies, 5 (1982), pp. 123-53. ↵ 155) Barton Whaley, «Covert Rearmament in Germany, 1919-1939: Deception and Mismanagement», in Journal of Strategic Studies, 5 (1982), pp. 26-27 . ↵ 156) Kandel, Intelligence, p. 129. ↵ 157 ) Devo al libro di Telford Taylor, Munich, New York, Vintage, 1980, i dati relativi a Chamberlain e Hitler. Sono grato all'autore per aver controllato l'esattezza della mia interpretazione e l'uso che ho fatto del suo materiale. ↵ 158) Questa frase è analizzata Intelligence Aspects. ↵ da Groth, 159) Citato da Groth, Intelligence Aspects. ↵ 160) Telford Taylor, Munich, New York, Vintage, 1980, p. 7 52, ↵ 161) Ivi, p. 821. ↵ 162) Tutti i resoconti dei testimoni dell'epoca concordano su questo giudizio, salvo un'eccezione. Nel rapporto di Joseph Kennedy a Washington sull'incontro con Chamberlain si legge: «Chamberlain ne uscì con un'intensa antipatia per Hitler [...] è crudele, prepotente, ha uno sguardo duro e [...] sarebbe totalmente sfrenato in tutti i suoi scopi e metodi» (Taylor, Munich, p. 7 52). ↵ 163) Groth ha notato questo problema, anche se non spiega come o perché entrerebbe in gioco: «Le impressioni personali tenderanno ad essere erronee soprattutto in proporzione alla distanza politica, ideologica, sociale e culturale fra i partecipanti» (On the Intelligence Aspects of Personal Diplomacy, p. 848). ↵ 164) Telford Taylor, Munich, New York, Vintage, 1980, p. 629. ↵ 165) Sono grato a Graham Allison per aver verificato l'esattezza della mia interpretazione del colloquio fra Kennedy e Gromyko. Il mio resoconto è stato inoltre controllato da una persona che faceva parte dell'amministrazione Kennedy e all'epoca era a stretto contatto con tutti i protagonisti dell'episodio. ↵ 166) Graham T. Allison, Essence of Decisioni Explaining the Cuban Missile Crisis, Boston, Little, Brown & Co., 197 1, p. 193. ↵ 167 ) Arthur M. Schlesinger Jr, A Thousand Days: John F. Kennedy in the White House, New York, Fawcet Premier Books, 1965, p. 7 34. ↵ 168) Theodore C. Sorensen, Kennedy, New York, Harper & Row, 1965, p. 67 3. ↵ 169) Robert E. Kennedy, Thirteen Days: A Memoir of the Cuban Missile Crisis, New York, W. W. Norton, 197 1, p. 5. ↵ 17 0) Roger Hilsman, To Move a Nation, Garden City, N. Y., Doubleday & Co., 1967 , p. 98. ↵ 17 1) David Detzer, The Brink, New York, Thomas Crowell, 197 9. ↵ 17 2) Sorensen, Kennedy, p. 690. ↵ 17 3) Su questo punto i vari resoconti sono in disaccordo. Mentre Sorensen riferisce che Kennedy non aveva dubbi sulla necessità di ingannare Gromyko, Elie Abel (The Missile Crisis, New York, Bantam Books, 1966, p. 63) scrive che subito dopo Kennedy chiese a Rusk e Thompson se avesse commesso un errore non rivelando a Gromyko la verità. ↵ 17 4) Detzer, Brink, p. 142. ↵ 17 5) Robert E. Kennedy, Thirteen Days, p. 18. ↵ 17 6) Elie Abel, The Missile Crisis, Bantam Books, New York, 1966, p. 63. ↵ 17 7 ) Sorensen, Kennedy, p. 690. ↵ 17 8) Abel, Missile Crisis, p. 63. ↵ 17 9) Detzer, Brinnk, p. 143. ↵ 180) Kennedy, Thirteen Days, p. 20. ↵ 181) Detzer, Brink, p. 143. ↵ 182) Ivi, p. 144. ↵ 183) Allison, Essence, p. 135. ↵ 184) Allison, Essence, p. 134. ↵ 185) Daniel e Herbig, Propositions, p. 13. ↵ 186) Herbert Goldhainer, citato da Daniel e Herbig, cit. ↵ 187 ) Barton Whaley, citato da Daniel e Herbig, cit. ↵ 188) Maureen O'Sullivan, Measuring the Ability to Recognize Facial Expressions of Emotion, in Emotion in the Human Face, edited by Paul Ekman, New York, Cambridge University Press, 1982. ↵ 189) Groth, Intelligence Aspects, p. 847 . ↵ 190) Jervis, Logic, p. 33. ↵ 191) Winston Churchill, The Hinge of Fate, Boston, Houghton Mifflin, 1950, pp. 481, 493; citato da Groth, Intelligence Aspects, p. 841. ↵ 192) Lewis Broad, The War that Churchill Waged, London, Hutchinson & Co., 1960, p. 356; citato da Groth, Intelligence Aspects, p. 846. ↵ 193) Broad, The War, p. 358; citato da Groth, Intelligence Aspects, p. 846. ↵ 194) Milovan Gilas, Conversations with Stalin, New York, Harcourt, Brace, Jovanovich, 1962, p. 7 3; citato da Groth, Intelligence Aspects, p. 846. ↵ 195) Benché nessuno sia disposto ad ammettere di essere al lavoro su questo problema, ho avuto uno scambio di lettere con persone che lavoravano per il Dipartimento della difesa e alcune conversazioni telefoniche con la CIA, da cui risulta che c'è chi studia l'uso degli indizi di menzogna nel controspionaggio e in diplomazia. L'unica ricerca non coperta dal segreto militare che ho avuto modo di vedere in questo campo, finanziata dal Pentagono, era piuttosto disastrosa e non rispondeva ai normali requisiti scientifici. ↵ 196) Per gli argomenti contro l'esplicita falsificazione, si veda Sisela Bok, Lying: Moral Choice in Public and Private Life, New York, Pantheon, 197 8. Per un'argomentazione a favore della semplice dissimulazione nella vita privata, non in quella pubblica, si veda Bok, Secrets, New York, Pantheon, 1982. Per la posizione opposta, che difende le virtù della menzogna, si veda Robert L. Walk ed Arthur Henley, The Right to Lie: A Psychological Guide to the Uses of Deceit in Everyday Life, New York, Peter H. Wyden, 197 0. ↵ 197 ) Sigmund Freud, Frammento dell'analisi di un caso d'isteria, in Collected Papers, vol. 3, New York, Basic Books, 1959, p. 94. ↵