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I volti della menzogna

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I volti della menzogna
Paul Ekman
I volti della menzogna
Gli indizi dell'inganno
nei rapporti interpersonali,
negli affari, nella politica, nei
tribunali
Presentazione di
Pio Enrico Ricci Bitti
Il bugiardo non deve mai presumere
troppo facilmente che la sua vittima
non desideri altro che farsi ingannare.
Né il cacciatore di bugie deve troppo
facilmente presumere di avere il diritto
di mettere a nudo qualunque
menzogna: alcune sono innocue, perfino
umane...
«Come mentire con convinzione e
come non farsi manipolare se non
consapevolmente? Di piacevolissima
lettura, questo libro mette la scienza
della comunicazione non verbale al
servizio del saper vivere».
[Grazia Attili, Sapienza - Università
di Roma]
«Nell'applicazione accorta di astute
tecniche sperimentali a questioni
d'importanza personale e collettiva,
questo libro non ha molti precedenti».
[Howard Gardner, Harvard
University]
«Ekman ha fornito un contributo
fondamentale alla comprensione dei
meccanismi di regolazione e controllo
dell'espressione delle emozioni. Oggi
siamo in grado di valutare il tipo di
influenza che il nostro comportamento
non verbale determina sugli altri e di
giudicare la competenza delle persone
ad inviare segnali non verbali o ad
interpretarli...».
[Pio E. Ricci Bitti, Università di
Bologna]
Traduzione di Gabriele Noferi
Titolo originale:
Telling lies. Clues to deceit in the marketplace,
politics, and marriage
© 1985 by Paul Ekman
W.W. Norton & Company, New York, London
© 1989, 2009 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia
Via Dante 4, 20121 Milano – Italia
Prima edizione: ottobre 1989
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche
S.p.A.
Stabilimento di Prato
Presentazione
Da quando circa due decenni addietro alcuni
ricercatori, fra cui spicca Paul Ekman, iniziarono
a dedicarsi con spirito pionieristico allo studio
del comportamento non verbale ed alle sue
funzioni comunicative, nella convinzione che
l'interazione umana ed i suoi effetti non
dipendessero soltanto dagli scambi verbali,
abbiamo assistito ad un rapido e significativo
sviluppo delle conoscenze sulla comunicazione
umana.
Oggi siamo in grado di valutare il tipo di
influenza che il nostro comportamento non
verbale determina sugli altri e di giudicare la
competenza delle persone ad inviare segnali
non verbali o ad interpretarli; sappiamo che
l'informazione fornita dalle parole in certi casi
viene contraddetta e smentita dai segnali non
verbali che la accompagnano e che quando non
ci è possibile ricorrere alle parole possiamo
inviare informazioni attraverso segnali non
verbali. La comunicazione umana risulta
dall'interdipendenza
di
diversi
sistemi
comunicativi: i processi di interazione si
fondano infatti sul funzionamento integrato e
simultaneo degli elementi verbali, intenzionali,
paralinguistici e cinesici prodotti dai soggetti
che comunicano. La comunicazione non verbale
non ha ricevuto in passato l'attenzione dovuta
per diverse ragioni: innanzitutto perché la
prevalenza di un modello fortemente
“razionalistico” dell'uomo ha messo in rilievo
soprattutto gli aspetti verbali dello scambio
comunicativo; inoltre occorre ricordare che gli
aspetti non verbali del comportamento sono
così connaturati nelle interazioni della vita
quotidiana che risulta difficile essere
pienamente consapevoli della loro funzione e dei
loro significati.
Eppure occorre riconoscere, per fare
qualche esempio, che, quando ci facciamo
un'idea (un'impressione) su una persona,
utilizziamo essenzialmente informazioni che ci
provengono dal suo comportamento non
verbale e che per riconoscere le emozioni del
nostro interlocutore o i sentimenti che egli
prova nei nostri confronti (simpatia, ostilità,
disponibilità...)
prestiamo
soprattutto
attenzione al suo tono di voce, alla mimica, ai
movimenti, ai gesti oltre che alle sue parole.
Proprio attraverso l'interesse per la
comunicazione non verbale Paul Ekman è
giunto ad occuparsi dei comportamenti che si
manifestano quando un individuo cerca di
dissimulare, mascherare, falsificare, mentire...
L'interesse di Ekman per la “menzogna” non
origina quindi da preoccupazioni di tipo morale,
ma dalla sua “passione” per il comportamento
non verbale.
Egli, per ovvie ragioni, esemplifica i suoi
studi e le sue ricerche facendo riferimento a
settori del comportamento umano che
presentano un forte impatto sociale: le relazioni
interpersonali fra uomini di stato, le relazioni
fra psichiatra e paziente, le relazioni fra un
investigatore ed un inquisito.
Ma forse, per cogliere la reale portata del
lavoro di Ekman, occorre andare oltre l'analisi
della menzogna, o della bugia in senso stretto; è
necessario considerare tutte quelle condizioni
della vita quotidiana in cui un “emittente”
adotta strategie particolari per tradurre proprie
intenzioni in messaggi che influenzano il
“destinatario”. Essere credibile, convincere,
mascherare... sono gradazioni più sfumate di
uno stesso processo: l'intenzione di esprimere
uno stato emotivo, di manifestare un
atteggiamento affettivo verso l'interlocutore, di
descrivere un evento deve comunque tradursi
in un comportamento comunicativo che, pur
utilizzando segnali diversi (parole, espressioni
mimiche, intonazioni, gesti...), produca
un'informazione coerente e interpretabile in
modo univoco dal destinatario.
Non sempre il risultato ottenuto corrisponde
all'intenzione dell'emittente: le ragioni di un tale
“fallimento” possono essere ricondotte a diversi
fattori. Risulta tuttavia particolarmente
importante la coerenza fra i diversi sistemi
comunicativi che insieme intervengono nella
trasmissione di un'informazione. Parole coerenti
con l'intenzione dell'emittente potrebbero
essere tradite da un tono di voce non adeguato
o da un'espressione mimica discrepante: in tal
caso il destinatario, nel processo di attribuzione
di significato e di ricostruzione delle intenzioni
dell'emittente, viene
messo sull'avviso
dall'incoerenza fra sistemi comunicativi diversi
e, tendenzialmente, ritiene i segnali non verbali
più credibili delle parole. Se una discrepanza fra
segnali prodotta intenzionalmente può sortire
effetti particolari (ad esempio ironia o
sarcasmo), quando essa risulta da un'inefficacia
o da un fallimento dei meccanismi del controllo
espressivo costituisce l'indizio più importante
per “scoprire” un'eventuale menzogna o
dissimulazione; l'inefficacia ha la sua origine nel
fatto che
risulta
difficile
controllare
adeguatamente e simultaneamente due o più
sistemi comunicativi.
Tali problemi sono particolarmente evidenti
quando la comunicazione riguarda le emozioni e
gli atteggiamenti interpersonali, che, come è
noto,
vengono
manifestati
soprattutto
attraverso i segnali non verbali.
Proprio Ekman ha fornito un contributo
fondamentale
alla
comprensione
dei
meccanismi di regolazione e controllo
dell'espressione delle emozioni quando,
nell'ambito della sua teoria “neuroculturale”, ha
formulato e proposto il concetto di “regole di
esibizione”. Una volta suscitata un'emozione,
viene attivato un programma di espressione
mimica sulla base di istruzioni codificate a livello
neurale che modulano le risposte a livello del
comportamento osservabile; con questo
programma espressivo interagiscono alcune
regole, definite appunto di “esibizione”,
culturalmente determinate e quindi apprese:
intensificazione, attenuazione, neutralizzazione
e,
soprattutto,
dissimulazione
o
mascheramento.
Queste regole rappresentano altrettante
strategie adottate dall'individuo per far
corrispondere l'esperienza interna e la sua
manifestazione esterna alle specifiche norme
che governano le situazioni sociali in cui si è
coinvolti.
Le rappresentazioni sociali inerenti alle
modalità appropriate di sperimentare le
emozioni in particolari situazioni sociali e le
regole che ne governano le manifestazioni fanno
parte di un sistema generale di regolazione
dell'attivazione emozionale che viene appreso
nel corso del processo di socializzazione. La
regolazione dell'espressione emotiva (che in
certi casi può anche produrre dissimulazione)
può essere, ad esempio, richiesta da esigenze di
ruolo o da regole situazionali: è pertanto
comprensibile l'attenzione per i processi di
apprendimento sociale attraverso i quali
vengono acquisite queste “capacità regolatrici”,
che permettono di controllare la coerenza o la
corrispondenza fra stato interno, espressione e
caratteristiche della situazione.
Il rapporto fra emozioni e dissimulazione o
menzogna va considerato tuttavia anche ad altri
livelli; non esiste infatti soltanto la possibilità di
mascherare o nascondere le proprie emozioni:
esiste anche il fatto che l'atto stesso di mentire
o ingannare produce un'attivazione emozionale
legata forse alla paura di essere “scoperti”, che,
se non ben controllata, può tradire l'intenzione
dell'emittente. Proprio sulla base di questo
rilievo ha trovato ampia applicazione (a dir il
vero molto discutibile e comunque al centro di
un acceso dibattito fra gli addetti ai lavori) l'uso
della registrazione degli indici fisiologici
dell'attivazione emozionale (ritmo cardiaco,
ritmo respiratorio, pressione arteriosa,
conduttività e temperatura cutanea...) per
l'accertamento della “verità” in ambito
investigativo.
A sottolineare ulteriormente questo
rapporto privilegiato fra emozioni e atto
menzognero, vanno infine ricordati i sentimenti
suscitati dagli effetti dell'atto stesso: la
vergogna di essere scoperti, il senso di colpa per
aver compiuto un atto disdicevole, la
soddisfazione per essere riusciti nel proprio
intento...
PIO ENRICO RICCI BITTI
I volti della menzogna
Gli indizi dell'inganno
nei rapporti interpersonali,
negli affari, nella politica, nei
tribunali
Alla memoria di Erving Goffman,
straordinario amico e collega
e a mia moglie Mary Ann Mason
critica e confidente
Quando sembra che la situazione sia
esattamente quella che appare,
l'alternativa che segue
immediatamente in ordine di
probabilità è che la situazione sia del
tutto contraffatta; quando la
contraffazione sembra estremamente
evidente, la possibilità più probabile
subito dopo questa è che non ci sia
nulla di falso.
(Erving Goffman, Strategie Interaction)
Il quadro di riferimento da tener
presente non è la morale, ma la
sopravvivenza. Ad ogni livello, dal
mimetismo elementare alla visione
poetica, la capacità linguistica di
velare, disinformare, lasciare ambiguo,
ipotizzare e inventare è indispensabile
all'equilibrio della coscienza umana e
allo sviluppo dell'uomo nella società.
(George Steiner, After Babel)
Se la menzogna, come la verità, avesse
una sola faccia, saremmo in condizioni
migliori. Perché prenderemmo per
certo l'opposto di ciò che il mentitore
ha detto. Ma l'inverso della verità ha
centomila forme e un campo illimitato.
(Montaigne, Essais)
RINGRAZIAMENTI - Sono grato alla
Divisione di ricerca clinica del National Institute
of Mental Health per il sostegno accordato alla
mia ricerca sulla comunicazione non verbale dal
1963 al 1981. Il programma di contributi
straordinari per la ricerca (Research Scientific
Award) dello stesso istituto ha sovvenzionato lo
sviluppo delle mie ricerche negli ultimi
vent'anni e anche la stesura di questo libro.
Desidero ringraziare la Fondazione Guggenheim
e la Fondazione MacArthur per i contributi
offerti ad alcune delle ricerche descritte nei
Capp. IV e V. Wallace V. Friesen, con cui ho
lavorato per oltre vent'anni, è responsabile
quanto me dei risultati citati in quei capitoli:
molte delle idee sviluppate in questo libro sono
nate nel corso del nostro lungo dialogo.
Ringrazio Silvan S. Tomkins, amico, collega e
insegnante, di avermi incoraggiato a scrivere
questo libro e delle osservazioni e dei
suggerimenti che mi ha dato sul manoscritto.
Mi sono giovato delle critiche di vari amici che
hanno letto il mio lavoro ciascuno dal suo punto
di vista: Robert Blau, medico; Stanley Caspar,
penalista; Jo Carson, romanziere; Ross
Mullaney, ex agente dell'FBI; Robert Pickus,
attivista politico; Robert Ornstein, psicologo;
Bill Williams, consulente di organizzazione
aziendale. Mia moglie Mary Ann Mason, la mia
prima lettrice, ha saputo essere paziente e
costruttivamente critica. Molte delle idee
presenti in queste pagine le ho discusse con
Erving Goffman, che si interessava alla
menzogna da una prospettiva assai diversa e
sapeva apprezzare il contrasto dialettico fra i
nostri punti di vista.
I
Introduzione
È il 15 settembre 1938 e sta per cominciare
un inganno dei più infami. Adolf Hitler,
cancelliere del Reich, e Neville Chamberlain,
primo ministro inglese, si incontrano per la
prima volta. Il mondo li osserva, consapevole
che questa può essere l'ultima speranza di
evitare un'altra guerra mondiale (appena sei
mesi prima le truppe di Hitler erano entrate in
Austria, annettendola alla Germania, mentre
Inghilterra e Francia protestavano senza
intervenire). Il 12 settembre, tre giorni prima
dell'incontro con Chamberlain, Hitler avanza la
pretesa di annettere parte della Cecoslovacchia
e fomenta la rivolta nel paese; ha già
segretamente mobilitato le truppe per
l'invasione, ma il suo esercito non sarà pronto
fino alla fine di settembre.
Se riesce a impedire ancora per qualche
settimana una contromossa cecoslovacca, Hitler
avrà il vantaggio di un attacco di sorpresa.
Cercando di guadagnare tempo, Hitler nasconde
a Chamberlain i suoi piani di guerra, dando la
sua parola che la pace può essere salvata se i
cechi accettano le sue richieste. Chamberlain
cade nel tranello e cerca di convincere il
governo cecoslovacco che esiste ancora una
possibilità di negoziato. Dopo l'incontro con
Hitler, scrive in una lettera alla sorella: «[...]
malgrado la durezza e la crudeltà che mi è
sembrato di vedere nel suo viso, ho avuto
l'impressione che davanti a me ci fosse un uomo
di cui ci si poteva fidare, una volta che avesse
dato la sua parola».1
Difendendo la sua politica contro gli scettici
che mettono in dubbio le parole di Hitler, cinque
giorni dopo, in un discorso al Parlamento,
Chamberlain spiega che il contatto personale
avuto con lui gli permette di assicurare che
Hitler «dice la verità».2
Quando cominciai a occuparmi della
menzogna, quindici anni fa, non avevo affatto
idea che il mio lavoro avrebbe avuto una
qualche attinenza con una situazione del genere.
Pensavo che sarebbe stato utile solo a chi lavora
con pazienti psichiatrici. La mia ricerca è partita
quando gli allievi terapeuti che seguivano il mio
corso sulla mimica e i gesti mi chiesero se questi
comportamenti non verbali potessero rivelare
eventuali bugie dei pazienti.3 Tale interrogativo
assume un'importanza estrema nel caso di
pazienti ricoverati a seguito di un tentato
suicidio. Qualunque medico ha il terrore di
essere ingannato da un paziente che dice di
sentirsi meglio e poi si suicida non appena
liberato dalla sorveglianza ospedaliera. Questa
preoccupazione pratica dei miei allievi poneva
un interrogativo fondamentale a proposito della
comunicazione umana: le persone sono capaci,
anche in condizioni di grave turbamento, di
controllare i messaggi che trasmettono, oppure
il loro comportamento non verbale lascia
trasparire ciò che le parole nascondono?
Andai allora a ricercare nei miei filmati di
colloqui con pazienti psichiatrici un esempio di
menzogna dichiarata. Lo scopo per cui avevo
raccolto il materiale era stato originariamente
quello di isolare espressioni e gesti che
potessero servire alla diagnosi. Ora che la mia
attenzione era concentrata sugli indizi di
menzogna, mi pareva di scorgerne in vari
filmati. Il problema era come averne la
certezza. In un solo caso non c'erano dubbi, dato
quello che era successo dopo il colloquio filmato.
Mary era una casalinga quarantenne.
L'ultimo dei suoi tre tentativi di suicidio era
stato molto serio e solo per un caso qualcuno
l'aveva scoperta prima che una dose eccessiva
di sonnifero la uccidesse. La sua storia non era
molto diversa da quella di tante altre donne che
soffrono di depressione intorno alla mezz'età: i
figli erano cresciuti e non avevano più bisogno
di lei, il marito sembrava tutto assorbito dal
lavoro e Mary si sentiva inutile. Quando fu
ricoverata, non era più in grado di mandare
avanti la casa, soffriva d'insonnia e passava
molto tempo seduta in un angolo a piangere.
Nelle prime tre settimane di ospedale fu
trattata con psicofarmaci e terapia di gruppo.
Sembrava rispondere molto bene: i suoi modi
erano più vivaci e non parlava più di suicidio. In
uno dei colloqui filmati, Mary spiegava al
medico di sentirsi molto meglio e chiedeva il
permesso di trascorrere a casa il fine settimana.
Il giorno dopo, prima di ricevere
l'autorizzazione, confessò che aveva mentito per
ottenerla e che voleva ancora assolutamente
suicidarsi. Il trattamento in ospedale proseguì
per altri tre mesi e alle dimissioni Mary era
migliorata realmente, nonostante una ricaduta
l'anno dopo; per molti anni in seguito non ci
sono stati altri ricoveri e Mary apparentemente
è stata bene.
Il filmato del colloquio ha tratto in inganno la
maggior parte dei miei allievi e anche molti
psichiatri e psicologi esperti cui l'ho mostrato.4
L'abbiamo analizzato per centinaia di ore,
ripassandolo continuamente, ispezionando ogni
gesto ed espressione al rallentatore per scoprire
eventuali indizi di menzogna. In una pausa
brevissima, prima di rispondere alla domanda
del medico circa i suoi progetti futuri, abbiamo
potuto vedere, passando il filmato a velocità
ridotta,
un'espressione
rapidissima
di
disperazione, tanto rapida che ci era sfuggita le
prime volte che avevamo esaminato la scena.
Una volta compreso che i sentimenti nascosti
potevano rendersi visibili in queste brevissime
microespressioni, siamo andati alla loro ricerca
e ne abbiamo trovate molte altre, tipicamente
coperte quasi subito da un sorriso. Abbiamo
trovato anche un microgesto. Mentre diceva al
medico che se la cavava bene coi suoi problemi,
Mary presentava talvolta un frammento di
scrollata di spalle, non il gesto intero, soltanto
una parte: un piccolo movimento rotatorio della
mano, come per scrollare qualcosa, oppure una
spalla che si alzava per un attimo.
Credevamo di vedere altri indizi non verbali
di bugia, ma non potevamo sapere con certezza
se li avevamo davvero scoperti o solo
immaginati. Un comportamento del tutto
innocente appare sospetto quando sappiamo
che la persona ha mentito. Solo indici oggettivi,
non influenzati dalla conoscenza della sincerità o
falsità delle affermazioni, potevano confermare
le nostre osservazioni. E per essere sicuri che i
segni rivelatori di menzogna non fossero
squisitamente individuali dovevamo studiare
molti soggetti. Sarebbe più semplice scoprire
l'inganno se i comportamenti che lo tradiscono
fossero gli stessi da un individuo all'altro, ma c'è
anche la possibilità che gli indizi siano peculiari
di ciascuno.
Abbiamo allora ideato un esperimento
costruito sul modello della bugia di Mary, in
modo che i soggetti fossero fortemente motivati
a celare intense emozioni negative nel momento
stesso in cui mentivano. Mentre assistevano al
filmato di un intervento chirurgico, pieno di
scene impressionanti e dettagli sanguinosi, i
soggetti dovevano mascherare le loro
autentiche sensazioni di disagio e repulsione e
convincere l'intervistatore (che non vedeva il
filmato) che quelle che passavano sullo schermo
erano piacevoli immagini di fiori (i risultati della
ricerca sono descritti nei Capp. IV e V).
Era passato appena un anno e noi eravamo
ancora alle fasi iniziali della sperimentazione,
quando persone interessate a vario titolo a
smascherare le bugie hanno cominciato a
cercarmi. Forse che i miei dati o i miei metodi
potevano essere usati per mettere le mani sui
cittadini americani sospettati di spionaggio?
Nel corso degli anni, via via che le nostre
scoperte sugli indizi comportamentali di
contraffazione nel colloquio medico-paziente
comparivano sulle riviste scientifiche, le
richieste crescevano. Per esempio, che ne
pensavo della possibilità di addestrare le
guardie del corpo di esponenti governativi, in
modo che potessero riconoscere dall'andatura o
dai gesti un terrorista pronto all'attentato?
Potevamo indicare all'FBI come insegnare agli
agenti a individuare le menzogne di un indiziato
durante gli interrogatori? A quel punto non mi
ha più sorpreso sentirmi chiedere se potevo
aiutare i negoziatori a scoprire le bugie della
controparte durante gli incontri ai massimi
livelli, oppure se ero in grado di decidere, dalle
foto di Patricia Hearst mentre partecipava a
una rapina in banca, se la sua partecipazione
fosse volontaria o sotto costrizione.
Negli ultimi cinque anni l'interesse ha
varcato i confini degli Stati Uniti: sono stato
avvicinato da rappresentanti di due paesi amici
e, durante un giro di conferenze in Unione
Sovietica, da funzionari che si sono presentati
come inviati di un istituto di ricerca “interessato
ai metodi d'interrogatorio”.
Questo interesse non mi ha fatto piacere,
per il timore che i miei risultati fossero usati
scorrettamente, accettati in maniera acritica,
applicati
con
precipitazione.
Avevo
l'impressione che i nostri indizi non verbali non
dovessero emergere spesso in sede politica,
diplomatica o criminale. Era solo una sensazione
e se mi si chiedeva il perché non sapevo
spiegarlo. Per poterlo fare, avevo ancora da
scoprire perché mai, per l'appunto, le persone
commettono degli errori quando mentono.
Non tutte le bugie finiscono male: alcune
sono eseguite alla perfezione. Gli indizi
comportamentali - un'espressione mantenuta
troppo a lungo, un gesto mancante,
un'inflessione momentanea della voce - possono
non presentarsi. Non sempre ci sono segni
rivelatori che tradiscono il mentitore. Eppure
sapevo che possono esserci segni che
permettono di riconoscere le bugie. Il bugiardo
più incallito può tradirsi con il suo
comportamento. Sapere quando le bugie
riescono e quando fanno fiasco, come
individuare gli indizi e quando non vale la pena
di cercarli, significa capire le differenze che ci
sono fra i vari tipi di bugie, di bugiardi e di
acchiappabugiardi.
La bugia di Hitler a Chamberlain e quella di
Mary al medico implicavano entrambe inganni
terribilmente seri, dove era in gioco la vita
stessa. L'uno e l'altra nascondevano i loro
progetti futuri e, come parte centrale
dell'inganno, fingevano emozioni che non
provavano. Ma le differenze fra le due
menzogne sono enormi. Hitler era un attore
nato e aveva molta più pratica di Mary nella
menzogna.
Un altro vantaggio per lui era di ingannare
uno che non desiderava altro: Chamberlain era
una vittima volontaria, che voleva credere a
tutti i costi a Hitler quando diceva di non avere
intenzioni aggressive, purché si ridisegnassero i
confini della Cecoslovacchia per venire incontro
alle sue richieste. Altrimenti, Chamberlain
avrebbe dovuto ammettere che la sua politica
di concessioni era fallita e in realtà aveva
indebolito il suo paese.
A proposito di una questione collegata,
questo meccanismo è descritto dall'esperta
diplomatica Roberta Sottostettero, che nella sua
analisi delle frodi nella corsa al riarmo dice,
esaminando le violazioni di Hitler all'accordo
navale anglo-tedesco del 1936: «Il truffatore e
il truffato [...] hanno un comune interesse a
permettere la persistenza dell'errore. Entrambi
hanno bisogno di mantenere l'illusione che
l'accordo non sia stato violato. La paura inglese
di una corsa al riarmo, manipolata tanto
abilmente da Hitler, portò a un accordo navale
in cui gli inglesi (senza consultare Francia e
Italia) modificavano tacitamente il trattato di
Versailles; e la paura di una corsa al riarmo
impediva a Londra di vedere e riconoscere le
violazioni del nuovo accordo».5
In molti casi la vittima sorvola sugli errori
del mentitore, leggendo nel modo più
ottimistico i suoi comportamenti ambigui,
facendosi suo complice per evitare le terribili
conseguenze della scoperta. Chiudendo gli occhi
davanti ai segni dell'infedeltà della moglie, il
marito può se non altro rimandare l'umiliazione
di scoprirsi tradito e l'eventualità del divorzio.
Anche se dentro di sé sa benissimo che lo
tradisce, può collaborare a non smascherare le
sue bugie, per non doverlo riconoscere anche
davanti a lei o per evitare una resa dei conti.
Finché non dice nulla può ancora sperare di
averla mal giudicata, può ancora illudersi che
non abbia un amante.
Non tutte le vittime sono così volenterose. A
volte non c'è nulla da guadagnare ad ignorare
una bugia o collaborare a tenerla in piedi. Per
esempio,
il
poliziotto
che
conduce
l'interrogatorio ha soltanto da perderci se si
lascia prendere nella rete e la stesso vale per il
funzionario di banca addetto all'ufficio prestiti.
A volte, invece, la vittima ha qualcosa da
perdere e insieme qualcosa da guadagnare sia
che si lasci trarre in inganno, sia che sveli la
frode; ma i due piatti della bilancia non sempre
sono equilibrati. Prendiamo i due esempi di
Chamberlain e
dello psichiatra. Per
quest'ultimo, credere che Mary fosse davvero
migliorata poteva rappresentare una piccola
soddisfazione professionale, ma aveva molto di
più da perdere se si lasciava imbrogliare. Nel
caso di Chamberlain, se non c'era modo di
fermare l'aggressione di Hitler, la sua carriera
sarebbe finita e la guerra che pensava di poter
impedire sarebbe scoppiata.
A prescindere dai motivi di Chamberlain per
credere alle parole di Hitler, l'inganno aveva
buone probabilità di riuscita perché non c'erano
da mascherare forti emozioni. Nella maggior
parte dei casi le bugie fanno fiasco perché
trapela qualche segno di un'emozione nascosta:
quanto più intense e varie sono le emozioni che
entrano in gioco, tanto più probabile è che la
menzogna si tradisca involontariamente. Hitler,
certamente, non doveva sentirsi in colpa nel
mentire al rappresentante del paese che aveva
imposto alla Germania un'umiliante sconfitta
militare. Invece Mary per riuscire nell'inganno
doveva nascondere forti emozioni, reprimere la
disperazione e il tormento che la spingevano al
suicidio. Non solo, ma aveva tutte le ragioni di
sentirsi in colpa nel mentire così ai suoi medici,
verso i quali provava simpatia e ammirazione,
sapendo che volevano soltanto aiutarla.
Per tutte queste ragioni ed altre ancora è
generalmente molto più facile cogliere indizi
comportamentali di menzogna in un paziente
con tendenze suicide o nel coniuge adultero che
in un diplomatico o in un agente che fa il doppio
gioco. Ma non tutti i diplomatici, i criminali o gli
agenti dei servizi sono mentitori perfetti e a
volte errori ne commettono. Le mie analisi
permettono di formulare una stima delle
probabilità di riuscire a cogliere indizi rivelatori,
oppure di essere ingannati. Il messaggio che
posso dare a chi è interessato a scoprire le
menzogne in sede politica o giudiziaria è di non
ignorare gli indizi comportamentali ma di usare
maggior cautela, nella consapevolezza dei limiti
e delle opportunità che si pongono.
E vero che esiste qualche prova
dell'esistenza di segni comportamentali
rivelatori della bugia, ma non sono ancora prove
solide. Le analisi che ho condotto per capire
come e perché le persone mentono e quando le
bugie falliscono corrispondono ai dati che si
ricavano dagli esperimenti sulla menzogna e
dalla tradizione storica e narrativa. Ma non c'è
stato ancora il tempo di vedere se queste teorie
reggono alla prova di nuove ricerche
sperimentali e di possibili obiezioni. Ho deciso di
rompere gli indugi e scrivere questo libro
perché nel frattempo tutti quelli che per
mestiere cercano di acciuffare i bugiardi non
restino con le mani in mano e già da ora si
sforzino di cogliere gli indizi non verbali di
menzogna. “Esperti” improvvisati offrono i loro
servizi nella selezione del personale o nella
formazione delle giurie. A poliziotti e tecnici che
usano la “macchina della verità” si insegna quali
sono gli indizi non verbali di menzogna: circa la
metà delle informazioni contenute nei manuali
che ho avuto modo di vedere è sbagliata. I
funzionari della dogana frequentano un corso
speciale per individuare dal comportamento i
sospetti contrabbandieri. Mi si dice che in
questi corsi si utilizzano i miei lavori, ma alle
ripetute richieste di vedere i materiali didattici
ho ricevuto soltanto reiterate promesse di
informazioni. Altrettanto impossibile è sapere
che cosa stiano facendo i servizi di
controspionaggio, perché il loro lavoro è coperto
dal segreto. So che sono interessati, perché il
Dipartimento della Difesa, sei anni fa, mi ha
invitato a spiegare ai responsabili dei servizi
quali fossero secondo me le possibilità e i rischi
d'errore. Da allora ho sentito delle voci secondo
cui il lavoro starebbe andando avanti e ho
raccolto i nomi di qualcuna delle persone che
forse vi partecipano. Le lettere che ho scritto a
queste persone sono rimaste senza risposta,
oppure mi è stato risposto semplicemente che
non possono dirmi nulla. Mi preoccupa l'idea di
“esperti” che procedono indisturbati, senza
dover rispondere all'opinione pubblica e alle
critiche agguerrite della comunità scientifica.
Questo libro servirà a chiarire a loro e agli enti
per cui lavorano quello che penso dei rischi e
delle possibilità offerte da queste ricerche.
La mia intenzione nello scrivere questo libro
non era quella di rivolgermi solo alle persone
interessate professionalmente ai casi più
eclatanti e pericolosi di contraffazione. Ho finito
per convincermi che analizzare come e quando
le persone mentono e dicono la verità possa
servire a capire meglio molti rapporti umani. Ce
ne sono pochi esenti dall'inganno o almeno dalla
sua possibilità. I genitori mentono ai figli sulla
vita sessuale, per risparmiare ai bambini una
conoscenza per la quale non sono ancora pronti,
così come i figli, diventati adolescenti,
nasconderanno le loro avventure sessuali
perché i genitori non li capirebbero. Le bugie si
dicono fra amici (neppure il nostro migliore
amico ce lo confesserà), insegnanti e alunni,
medico e paziente, marito e moglie, testimoni e
giurati, avvocato e cliente, venditore e
acquirente.
La menzogna è una caratteristica così
centrale della vita che una sua migliore
comprensione è rilevante in quasi tutti i
rapporti umani. Qualcuno forse inorridirà a
questa affermazione, perché considera
riprovevole la menzogna. Io non sono d'accordo:
è troppo facile sostenere che nessuno, in
nessuna relazione personale, debba mai
mentire, né mi sentirei di prescrivere che ogni e
qualunque bugia debba essere smascherata. Le
bugie possono essere crudeli, ma a volte anche
la verità lo è. Alcune (molto meno di quanto
pretenderebbero i bugiardi) sono altruistiche.
Certi rapporti sociali sono vissuti piacevolmente
in grazia dei miti che esse alimentano. Ma il
bugiardo non deve mai presumere troppo
facilmente che la sua vittima non desideri altro
che farsi ingannare. Né il cacciatore di bugie
deve troppo facilmente presumere di avere il
diritto di mettere a nudo qualunque menzogna:
alcune sono innocue, perfino umane, e
smascherare certi inganni può umiliare la
vittima o una terza persona. Ma tutto questo va
approfondito meglio e dopo aver esaminato
molti altri argomenti. Per cominciare, bisogna
partire dalla definizione della menzogna, da una
descrizione delle sue due forme fondamentali e
dalla distinzione dei due tipi di indizi che
permettono di scoprirla.
II
Bugie e indizi che trapelano
Otto anni dopo le sue dimissioni dalla
presidenza, Richard Nixon negava di aver
mentito ma riconosceva che, come altri uomini
politici, aveva dissimulato. È una pratica
necessaria per ottenere e mantenere cariche
pubbliche, spiegava: «Non puoi dire quello che
pensi di questo o quell'individuo perché può
accadere che ti debba servire di lui... non puoi
dichiarare le tue opinioni sui leader mondiali
perché può capitarti di dover trattare con loro
in futuro».6
Nixon non è il solo ad evitare il termine
“menzogna” quando il non dire la verità è in
qualche modo giustificabile.7 Come leggiamo
nell'Oxford English Dictionary alla voce “lie”,
«nell'uso moderno la parola è un'espressione
violenta di riprovazione morale, che nella
conversazione educata tende ad essere evitata,
sostituita spesso dai sinonimi “falsehood” e
“untruth”
in
quanto
relativamente
8
eufemistici». È facile chiamare “bugiardo” un
individuo non sincero quando ci è antipatico, ma
è difficile usare questo termine, malgrado la sua
insincerità, se ci piace o lo ammiriamo. Molti
anni prima dello scandalo Watergate, Nixon
riassumeva tutti i caratteri del bugiardo per i
suoi avversari democratici («Comprereste
un'auto usata da quest'uomo?»), mentre per i
suoi sostenitori repubblicani le sue doti di
simulatore erano segno di abilità politica.
Questi aspetti sono però irrilevanti ai fini
della mia definizione della menzogna o
dell'inganno
(termini
che
uso
indifferentemente). Molte persone, per esempio
quelle che involontariamente forniscono
informazioni false, sono non veritiere senza per
questo mentire. Una paziente che ha il delirio
paranoico di essere Maria Maddalena non è
bugiarda, anche se la sua affermazione non è
vera. Dare cattivi consigli finanziari non è una
menzogna, a meno che il commercialista
sapesse che l'investimento era sbagliato al
momento di raccomandarlo ai suoi clienti. Chi
ha un aspetto che suggerisce un'impressione
falsa non necessariamente cerca di ingannare gli
altri: una mantide religiosa mimetizzata in
modo da somigliare a una foglia non mente,
come non mente un uomo la cui fronte alta fa
sospettare un'intelligenza maggiore di quella
che ha.9
Il mentitore può scegliere se mentire o no.
Trarre in inganno la vittima è un atto
deliberato: il bugiardo vuole fornire
un'informazione sbagliata. La menzogna può
essere o non essere giustificata, nell'opinione
dell'autore o degli altri. Il bugiardo può essere o
non essere una persona buona o cattiva, può
piacere o non piacere, ma sta di fatto che può
decidere di mentire o essere sincero e conosce
la differenza fra le due alternative.10 Non
corrispondono ai requisiti di questa definizione i
mentitori patologici, che sanno di mentire ma
non riescono a farne a meno, così come non
rientrano nella categoria quelle persone che non
sanno nemmeno di mentire, quelle che
chiamiamo vittime di un autoinganno.11 Può
succedere che il mentitore col tempo finisca per
credere alle proprie bugie. In questo caso, non
abbiamo più a che fare con un autentico
mentitore e i suoi inganni, per ragioni che
spiegherò nel prossimo capitolo, diventano
molto più difficili da scoprire. Un episodio della
vita di Mussolini dimostra che credere alle
proprie menzogne non sempre è così utile: «Nel
1938 la composizione delle divisioni dell'esercito
[italiano] era stata ridotta da tre a due
reggimenti. Questo piaceva a Mussolini perché
gli permetteva di dire che il fascismo disponeva
di 60 divisioni invece di 40, ma il cambiamento
causò un'enorme disorganizzazione proprio
quando la guerra stava per scoppiare; e siccome
aveva dimenticato la passata direttiva, vari
anni dopo Mussolini commetteva tragici errori
di calcolo nel valutare la vera consistenza delle
sue forze. A quanto pare, lo stratagemma aveva
ingannato pochi altri, a parte lui stesso».12
Quando si definisce la menzogna non basta
considerare solo l'autore: occorre tener conto
anche del destinatario. In un'autentica bugia il
destinatario non chiede di essere tratto in
inganno, né il bugiardo ha notificato in
precedenza l'intenzione di farlo. Sarebbe
curioso chiamare bugiardi gli attori: il loro
pubblico è d'accordo di lasciarsi ingannare per
qualche tempo e loro sono lì apposta. A
differenza del truffatore, l'attore si camuffa
avvertendo esplicitamente che il personaggio
impersonato è una finzione temporanea.
Nella mia definizione di menzogna, allora,
una persona intende trarre in inganno un'altra
deliberatamente, senza avvertire delle sue
intenzioni e senza che il destinatario
dell'inganno gliel'abbia esplicitamente chiesto.13
Ci sono due modi principali di mentire:
dissimulare
e falsificare.14
Nella
dissimulazione, chi mente nasconde certe
informazioni senza dire effettivamente nulla di
falso. Chi falsifica si spinge oltre: non solo
l'informazione vera è taciuta, ma viene
presentata un'informazione falsa come se fosse
vera. Spesso è necessario combinare le due
operazioni per portare a termine l'inganno, ma
a volte basta la sola dissimulazione.
Non tutti considerano la dissimulazione una
menzogna; alcuni riservano questo termine solo
all'atto più netto e sfacciato della
falsificazione.15 Se il medico non dice al paziente
che la sua malattia è incurabile, se il marito non
racconta di aver passato l'intervallo del pranzo
in un motel con la migliore amica della moglie,
se il poliziotto non informa il sorvegliato speciale
che c'è un microfono nascosto che registra la
sua conversazione con l'avvocato, in tutti questi
casi non vengono trasmesse informazioni false,
ma ognuno di questi è un esempio che
corrisponde alla mia definizione di menzogna. I
destinatari non hanno chiesto di essere tratti in
inganno e chi lo fa agisce deliberatamente,
senza notificare in precedenza le proprie
intenzioni. L'informazione è stata taciuta
consapevolmente, con intenzione, non per caso.
Esistono
delle
eccezioni,
nelle
quali
l'occultamento di informazioni non è menzogna
perché è stato preavvertito o autorizzato dalla
controparte. Se marito e moglie si mettono
d'accordo per mandare avanti un rapporto di
coppia aperta, in cui ciascuno ha diritto a tacere
le sue relazioni extraconiugali, a meno che
l'altro non faccia domande dirette, ecco che
nascondere l'appuntamento al motel non è più
una bugia. Così, se il paziente chiede al medico
di non dirgli se il responso è sfavorevole, tacere
la gravità della malattia non è un inganno.
Quanto all'ultimo esempio, l'inquisito ha diritto
per legge a colloqui riservati con l'avvocato,
cosicché nascondere la violazione di questo
diritto è comunque una menzogna.
Quando c'è la possibilità di scegliere come
mentire, generalmente si preferisce la
dissimulazione alla falsificazione. Ci sono molti
vantaggi. Intanto, nascondere qualcosa è più
facile che riferire il falso. Non c'è bisogno di
inventare nulla e non c'è il rischio di farsi
cogliere in fallo senza essersi preparati in
anticipo una storia ben congegnata. Si racconta
che Lincoln dicesse di avere troppo poca
memoria per essere bugiardo. Se il medico, per
nascondere al malato che la sua malattia è
senza speranza, gli dà una falsa spiegazione dei
sintomi, dovrà ricordarsi quello che ha detto
per non cadere in contraddizione quando sarà
interrogato di nuovo.
La dissimulazione forse è preferita anche
perché sembra meno riprovevole dell'esplicita
falsificazione. È un comportamento passivo, non
attivo, e anche se la vittima può esserne
altrettanto danneggiata, il mentitore può
sentirsi meno colpevole di aver taciuto la verità
che di aver affermato il falso.16 Può conservare
la rassicurante convinzione che l'ingannato
veramente conosce la verità ma non vuole
affrontarla. Una moglie infedele che inganna il
marito in questo modo può pensare, per
esempio: «Mio marito deve sapere che mi do al
bel tempo, perché non mi chiede mai dove sono
stata il pomeriggio. La mia discrezione è un
riguardo per lui; di certo non gli mento su quello
che faccio. Ho scelto di non umiliarlo, di non
costringerlo a prendere atto delle mie
relazioni».
Queste bugie per omissione sono anche
molto più facili da coprire se in seguito vengono
scoperte. Il mentitore non si è avventurato
tanto lontano e può trovare sempre molte
scuse: ignoranza, dimenticanza, l'intenzione di
rivelare la cosa più tardi, ecc. Il testimone sotto
giuramento, quando dice «a quanto mi riesce di
ricordare» si procura una via d'uscita se più
avanti gli verrà contestato qualcosa che ha
taciuto. L'affermazione di non ricordare ciò che
in realtà si ricorda benissimo è una via di mezzo
fra la semplice dissimulazione e la falsificazione.
Il mentitore vi ricorre quando non può più
limitarsi a tacere: gli è stata fatta una domanda
esplicita, gli è stato contestato qualcosa.
Falsificando solo il vuoto di memoria, evita di
dover ricordare una storia inventata. Se poi la
verità viene a galla, potrà sempre dire di
essersene dimenticato.
Questa strategia è illustrata da un episodio
dello scandalo Watergate che portò alle
dimissioni di Nixon. Accumulandosi le prove del
loro coinvolgimento nel furto di documenti e nei
tentativi di coprire i colpevoli, gli assistenti
presidenziali Ehrlichman e Haldeman sono
costretti a dimettersi. Alexander Haig prende il
posto di Haldeman mentre la pressione su
Nixon va crescendo. «Haig era tornato alla Casa
Bianca da meno di un mese quando, il 4 giugno
1973, si trovò a discutere con Nixon come
reagire alle gravi accuse sollevate da John W.
Dean, ex consigliere della Casa Bianca. Secondo
la registrazione della discussione Nixon-Haig,
resa pubblica durante la procedura per
l'impeachment, Haig consigliò a Nixon di
eludere le domande circa gli addebiti, dicendo
semplicemente “Non ricordo”».17
Un vuoto di memoria, però, è credibile solo
in certe particolari circostanze. Interrogato sui
risultati delle analisi, il medico non può
rispondere di non ricordarsene, così come non
può il poliziotto, se gli viene fatta una domanda
esplicita sulla presenza di microfoni nascosti.
Questa scusa può essere invocata solo per
faccende insignificanti o che risalgono a qualche
tempo fa. Ma neppure il trascorrere del tempo
può giustificare la dimenticanza di eventi
straordinari che chiunque dovrebbe ricordare
anche a distanza di anni.
E comunque non c'è più scelta fra le due
strategie, una volta che la vittima contesta
qualcosa. Se la moglie chiede al marito perché
non l'ha trovato quando gli ha telefonato all'ora
di pranzo, egli deve inventare un falso se vuol
mantenere segreta la sua avventura. Si
potrebbe sostenere che anche l'innocente
domanda «Com'è andata oggi?», nella normale
conversazione serale a tavola, è una richiesta
d'informazioni, ma può essere elusa: il marito
può parlare d'altro, tacendo l'appuntamento, a
meno che una domanda diretta non lo costringa
a scegliere fra inventare una storia o dire la
verità.
Alcune bugie esigono fin dall'inizio la
falsificazione; la dissimulazione della verità, da
sola, non basta. Così Mary, la paziente del
nostro esempio, non solo doveva nascondere la
sua disperazione e i progetti di suicidio, ma
anche fingere di sentirsi meglio e di voler
passare il sabato e la domenica in famiglia.
Quando si mente circa le precedenti esperienze
per ottenere un impiego non basta tacere il
vero: non solo si dovrà nascondere la propria
inesperienza, ma anche inventarsi dei
precedenti professionali adeguati al posto che si
desidera. Per evitare un invito noioso senza
offendere l'ospite non basta tacere la verità (che
si preferisce restare a casa a guardare la TV
piuttosto che andare alla sua festa), ma bisogna
anche costruirsi una scusa accettabile (un
appuntamento di lavoro l'indomani mattina
presto, i bambini che non si sa a chi affidare,
ecc.).
La falsificazione interviene, benché la
menzogna di per sé non la richieda, anche per
coprire le prove di ciò che si vuol nascondere.
Questo uso del falso per mascherare la verità
che si vuol dissimulare è specialmente
necessario quando si devono nascondere le
emozioni. È facile passare sotto silenzio
un'emozione già passata, molto più difficile
nasconderne una che si prova nel momento in
cui si mente, specie se è intensa. Il terrore è più
difficile da dissimulare di una lieve
preoccupazione, la rabbia più del fastidio.
Quanto più intensa è l'emozione, tanto più è
probabile che qualche segno trapeli, nonostante
gli sforzi per nasconderla. Fingere un'emozione
diversa può aiutare a mascherare quella
autentica che si vuol dissimulare. Falsificare
un'emozione può coprire l'emozione celata che
minaccia di trasparire.
Un episodio di un romanzo di John Updike,
Marry Me, illustra bene questo ed altri punti
che ho toccato finora. Jerry, il marito, sente per
caso una telefonata di Ruth all'amante.
Fino a questo punto del romanzo, Ruth è
riuscita a tener nascosta la sua relazione senza
dover ricorrere ad esplicite falsificazioni, ma
ora, direttamente interrogata dal marito, non
può farne a meno. Oggetto del suo inganno era
mantenere il marito all'oscuro dell'adulterio, ma
questo episodio mostra anche con quanta
facilità nella menzogna entrano in gioco le
emozioni e come, una volta messe in moto,
rendono tutto più difficile, andando ad
aggiungersi alle altre cose da nascondere.
«Jerry l'aveva impaurita ascoltando per
caso la fine di una conversazione telefonica con
Dick [questo è il nome dell'amante di Ruth]. Lei
credeva che stesse rastrellando il prato.
Sbucando dalla cucina le chiese: “Chi era?”.
Lei entrò in panico. “Ah, non lo so. Era una
della parrocchia che chiedeva se vogliamo
iscrivere Joanna e Charlie al catechismo”».18
Il panico di per sé non è una dimostrazione
di menzogna, ma avrebbe insospettito Jerry se
l'avesse notato: Ruth non si sarebbe impaurita,
avrebbe pensato, se non avesse avuto nulla da
nascondere.
È vero che persone del tutto innocenti
possono impaurirsi quando sono interrogate,
ma chi le interroga non tiene conto di questo
fatto. Ruth è in una posizione difficile: non
avendo previsto la necessità di inventare una
bugia, non ha preparato una linea di difesa e,
colta in questa situazione, entra in panico per
essere stata scoperta; il panico è difficilissimo
da nascondere e ciò non fa che accrescere il
rischio di essere smascherata. Una scappatoia
che potrebbe tentare sarebbe quella di essere
sincera sui sentimenti che prova, visto che
difficilmente potrebbe dissimularli, mentendo
piuttosto sulla causa che li ha suscitati.
Potrebbe ammettere il suo panico, dicendo però
che si sente così per la paura che Jerry non le
creda, non perché abbia qualcosa da
nascondere. Una scusa del genere non funziona
se non ci sono state prima altre storie di
incredulità da parte del marito, dimostratasi
regolarmente infondata: in quel caso, l'accenno
alle sue accuse irragionevoli potrebbe
dissuaderlo dal continuare l'indagine.
Ruth probabilmente non riesce nell'impresa
se cerca di sembrare fredda e distaccata,
totalmente impassibile. Quando le mani
cominciano a tremare è molto più facile usarle
per fare qualcosa (stringerle a pugno,
intrecciarle) che tenerle ferme. Quando le
labbra si stringono e si stirano, le sopracciglia e
le palpebre superiori si sollevano dalla paura, è
difficilissimo mantenere il viso immobile.
Queste espressioni si nascondono meglio
aggiungendo altri movimenti muscolari:
digrignare i denti, stringere le labbra,
aggrottare la fronte, guardare in cagnesco.
Il modo migliore per dissimulare le forti
emozioni è mettersi una maschera. Coprirsi la
faccia
con
la
mano o distoglierla
dall'interlocutore di solito è impossibile senza
tradire la bugia. La maschera migliore è
un'emozione finta: non solo serve a sviare, ma è
il miglior camuffamento. È tremendamente
difficile mantenere un volto impassibile e
restare immobili con le mani quando si prova
un'emozione intensa: molto più facile è
assumere un atteggiamento fittizio, bloccare o
contrastare con azioni diverse quelle che
esprimerebbero l'emozione autentica.
Nel romanzo di Updike, subito dopo Jerry
dice a Ruth che non le crede. È probabile che il
panico aumenti, diventando ancora più difficile
da nascondere: Ruth può cercare di usare la
rabbia, la sorpresa o lo sgomento per
mascherare la paura, oppure può aggredire il
marito perché la spia e diffida di lei, o anche
mostrarsi stupefatta che non le creda e che stia
ad ascoltare le sue telefonate.
Non tutte le situazioni permettono a chi
mente di mascherare con altre le emozioni
autentiche: alcune menzogne impongono la più
difficile impresa di dissimulare qualunque
emozione, senza esibirne una finta. Ezer
Weizman, ex ministro della difesa israeliano, ha
descritto una di queste difficili situazioni. Erano
in corso colloqui fra le delegazioni militari di
Egitto e Israele per avviare il negoziato dopo la
storica visita di
Sadat a Gerusalemme. Durante una delle
sedute, Mohamed el-Gamasy, capo della
delegazione egiziana, dice a Weizman che ha
appena saputo che gli israeliani stanno
costituendo un nuovo insediamento nel Sinai.
Weizman sa che ciò potrebbe mettere a
repentaglio i negoziati, dato che è ancora in
discussione il diritto di Israele a mantenere gli
insediamenti preesistenti.
«Ero indignato, anche se non potevo
esprimere la mia rabbia in pubblico. Eravamo lì
a discutere intese di sicurezza, cercando di dare
un'altra spintarella in avanti al vagone della
pace ed ecco che i miei colleghi di
Gerusalemme, invece di far tesoro della lezione
degli insediamenti fantasma, ne costruivano un
altro, proprio nel momento in cui i negoziati
erano in corso».19
Weizman non poteva permettere alla sua
collera verso i colleghi di gabinetto a
Gerusalemme di manifestarsi. Dissimulare la
rabbia gli avrebbe anche permesso di
nascondere il fatto che il governo non l'aveva
consultato. Doveva quindi occultare un'intensa
emozione senza poter usare come maschera
un'altra emozione fittizia: non poteva mostrarsi
felice, impaurito, addolorato, sorpreso o
indignato, ma doveva semplicemente apparire
attento e impassibile, senza lasciar capire che
l'informazione di Gamasy fosse una novità di
qualche rilievo. Dal suo libro non si capisce se ci
sia riuscito o no.
Il poker è un'altra situazione in cui non è
possibile usare un camuffamento per
nascondere le emozioni. Quando si eccita alla
prospettiva di vincere un grosso piatto per le
magnifiche carte che ha avuto, il giocatore deve
dissimulare qualunque segno di entusiasmo per
evitare che gli avversari si ritirino dal gioco. Ma
se maschera la propria gioia con un'altra
emozione, come l'irritazione o la delusione, gli
altri giocatori penseranno che le sue carte non
siano buone, e si aspetteranno che esca, invece
di stare al gioco e rilanciare. Deve mantenere
un viso totalmente inespressivo, quello che si
chiama appunto poker face. Se invece si
trattasse di nascondere la delusione per le carte
cattive con un bluff cercando di mandar via dal
gioco gli avversari, sarebbe possibile, forse,
fingere gioia o eccitazione, ma la cosa non sarà
credibile, a meno di esser considerato un
principiante. Un esperto giocatore di poker si
suppone abbia assimilato la capacità di non
manifestare nessuna emozione per il gioco che
gli è toccato.20 Incidentalmente, la mancanza di
sincerità nel poker non corrisponde alla mia
definizione di menzogna, perché nessuno si
aspetta che i giocatori rivelino le carte che
hanno in mano: il gioco stesso avverte in
partenza che i giocatori cercheranno di trarsi in
inganno l'un l'altro.
Si può fingere qualunque emozione per
cercar di nasconderne qualunque altra. Il
sorriso è la maschera usata più spesso. Esso
controbilancia tutta la gamma delle emozioni
negative: paura, rabbia, dolore, disgusto, ecc.
Spesso la si sceglie perché un'espressione di
felicità è il messaggio atto a coprire molti tipi
d'inganno.
Un'altra ragione per cui il sorriso è usato
tanto spesso come maschera è che fa parte del
cerimoniale corrente del saluto ed è spesso
richiesto nel corso delle semplici formule di
cortesia. Il fatto che uno si senta malissimo di
solito non dev'essere mostrato o riconosciuto
durante uno scambio di saluti: in risposta al
«Come va?» ci si aspetta invariabilmente la
formula «Non c'è male, grazie». I sentimenti
autentici probabilmente passano inosservati
non perché il sorriso sia una maschera tanto
efficace, ma perché negli scambi di cortesia è
raro che ci si preoccupi davvero di come sta
l'altro: tutto quello che ci si aspetta è una fittizia
amabilità e piacevolezza. Questi sorrisi
stereotipati raramente vengono analizzati a
fondo dai destinatari. Le persone sono abituate
a fingere di non vedere le menzogne nel
contesto di un puro e semplice scambio di saluti.
Si potrebbe anche sostenere che è sbagliato
parlare di bugie in questo caso, perché la regola
implicita nelle formule di saluto costituisce in
partenza un avvertimento che non si daranno
notizie veritiere delle proprie emozioni.
Un'altra ragione ancora della popolarità del
sorriso come maschera è che è la mimica
emotiva
più
facile
da
assumere
volontariamente: molto prima dell'anno, i
lattanti sono in grado di sorridere
deliberatamente. Il sorriso è una delle
primissime espressioni usate dal bambino in
maniera intenzionale per compiacere gli altri.
Per tutta la vita il sorriso sociale continua a
presentare emozioni che non si provano ma che
è utile o necessario mostrare agli altri. Si
possono sbagliare i tempi di questi sorrisi non
sentiti, che possono risultare precipitosi o
ritardati, così come si può sbagliare la loro
collocazione, troppo in anticipo o troppo in
ritardo rispetto alla parola o all'espressione che
dovrebbero accompagnare. Ma i movimenti del
sorriso di per sé sono facili da eseguire, cosa che
non si può dire per l'espressione di tutte le altre
emozioni.
Le emozioni negative sono quelle più difficili
da simulare per la maggior parte delle persone.
Le mie ricerche, descritte nel Cap. V,
dimostrano che la maggioranza dei soggetti è
incapace di muovere volontariamente quei
particolari muscoli che sono necessari per
fingere realisticamente dolore e paura. Rabbia e
disgusto sono un po' più facili da esibire quando
non si provano, ma sono frequenti gli errori di
esecuzione. Se la menzogna esige la simulazione
di un'emozione negativa, anziché un sorriso
finto, il bugiardo può incontrare qualche
difficoltà. Ci sono delle eccezioni: Hitler era
evidentemente un ottimo attore, capace di
fingere con la massima disinvoltura e in
maniera convincente anche emozioni negative.
Ricevendo l'ambasciatore inglese, una volta
sembrava
assolutamente
furioso,
nell'impossibilità di proseguire oltre la
discussione. Un diplomatico tedesco presente
alla scena riferisce: «La porta si era appena
chiusa alle spalle dell'ambasciatore che Hitler si
batté una pacca sulla coscia ridendo e disse:
“Chamberlain non sopravviverà a questa
conversazione; il suo gabinetto cadrà
stasera”».21
Ci sono vari altri modi di mentire, oltre alla
dissimulazione e all'attiva falsificazione. Uno l'ho
già indicato a proposito del romanzo di Updike,
considerando le possibili vie d'uscita di Ruth per
reggere l'inganno malgrado il panico
improvviso. Invece di cercare di nascondere la
paura, cosa difficile, poteva ammetterla e
mentire invece sulle cause dei suoi sentimenti.
Indicando una causa diversa da quella vera,
poteva proclamarsi del tutto innocente e
impaurita solo all'idea che il marito non le
avrebbe creduto. Così Mary, se lo psichiatra le
avesse chiesto perché pareva un po' nervosa,
avrebbe potuto ammettere il nervosismo, ma
attribuirlo a una causa fittizia: «Sono nervosa
perché ci tengo tanto a poter stare di nuovo un
po' in famiglia». Sincera quanto all'emozione
provata, la menzogna trae in inganno circa le
ragioni che l'hanno causata.
Un'altra tecnica affine consiste nel dire la
verità, ma con fare sprezzante, in modo che la
vittima non ci creda. È come mentire dicendo il
vero. Quando il marito chiede a Ruth con chi
stava parlando al telefono, lei gli potrebbe
rispondere: «Ma parlavo col mio amante, mi
chiama a tutte le ore. Siccome vado a letto con
lui tre volte al giorno dobbiamo tenerci sempre
in contatto per combinare». Esagerare la verità
serve a mettere in ridicolo i sospetti altrui,
rende più difficile approfondire le indagini. Un
tono di voce o un'espressione di scherno sono
altri ingredienti che servono allo scopo.
Un altro esempio di verità detta per sviare i
sospetti lo troviamo nel libro di Robert Daley,
Prince of the City: The True Story of a Cop
Who Knew Too Much, da cui è stato tratto un
film di successo. A quanto proclama il
sottotitolo, è una storia autentica, non un'opera
d'immaginazione. Robert Leuci è il poliziotto che
si infiltrò nella malavita lavorando come
informatore per le autorità federali, che
volevano raccogliere le prove della corruzione e
complicità di poliziotti, avvocati e garanti su
cauzione con mafiosi e trafficanti di droga. La
maggior parte delle prove le ottenne con un
piccolo registratore nascosto negli abiti. A un
certo punto cominciano a sospettare di lui: se gli
trovano addosso l'apparecchio è spacciato. Ecco
che cosa dice Leuci a De Stefano, uno dei
criminali su cui indaga:
«“Non ci sediamo accanto al Jukebox
stasera, perché sennò non riesco a registrare
nulla”.
“Non fa ridere”, disse De Stefano.
Leuci cominciò a vantarsi che lavorava
davvero per il governo, come anche quella
cameriera in fondo alla sala, che aveva la
trasmittente infilata nella...
Tutti risero, ma la risata di De Stefano era
acida». 22
Leuci mette in ridicolo De Stefano dicendo
sfacciatamente la verità: è vero che non può
ottenere una buona registrazione accanto al
Jukebox, come è vero che lavora per il governo
federale. Ammettendolo con tanta faccia di
bronzo e scherzando sulla cameriera col
registratore nascosto fra le cosce o nel
reggiseno, rende difficile all'avversario insistere
nei suoi sospetti senza sembrare ridicolo.
Parente stretta della tecnica di dire la verità
per fuorviare i sospetti è la dissimulazione a
metà. Si dice la verità, ma solo in parte. Un tono
di noncuranza o un elenco incompleto che
omette l'elemento cruciale permette al
mentitore di reggere l'inganno pur senza dire
niente di falso. Poco dopo l'episodio che ho citato
dal romanzo di Updike, Jerry raggiunge Ruth a
letto e rannicchiandosi accanto a lei le chiede di
dirgli chi le piace.
«“Mi piaci tu”, rispose, “e tutti i piccioni in
quell'albero e tutti i cani della città, meno quelli
che ci rovesciano i secchi della spazzatura, e
tutti i gatti, meno quello che ha messo incinta
Lulu. E poi mi piacciono i bagnini della spiaggia
e i vigili giù in centro, meno quello che mi ha
fatto quella scenata per un'inversione di marcia,
e mi piace qualcuno dei nostri insopportabili
amici, specialmente quando sono ubriaca... ”
“E Dick Mathias ti piace? ” [È l'amante di
Ruth].
“Non mi dispiace”». 23
Un'altra tecnica che permette di mentire
senza essere costretti a dire nulla di falso è la
risposta evasiva che suggerisce una conclusione
sbagliata. Una rubrica di costume su un
quotidiano dà una descrizione spiritosa di come
usare questo metodo per risolvere un problema
che tutti conosciamo bene: che cosa dire a un
amico quando i suoi lavori non ci piacciono.
Siamo alla vernice della mostra di un amico.
I suoi quadri ci sembrano orribili ma, prima che
riusciamo a svignarcela, ecco che ci blocca e ci
chiede che cosa ne pensiamo.
Nella rubrica si consiglia di chiamare l'amico
ripetutamente per nome «Jerry, Jerry, Jerry»
(supponiamo che si chiami Jerry) fissandolo
profondamente negli occhi come sopraffatti
dall'emozione. Non mollare la sua mano, mentre
si continua a guardarlo negli occhi. Nove volte
su dieci Jerry, alla fine, si sottrarrà alla presa,
borbottando una frase modesta, e passerà ad
altri... Ci sono delle variazioni. C'è la versione in
due tempi, da intenditore che parla in terza
persona: «Jerry. Jerry. Che cosa dire?». O
quella più sornionamente dimessa: «Jerry. Non
ho parole». O quella un po' più ironica: «Jerry.
Tutti, tutti non parlano d'altro».24
Il pregio di questo stratagemma, come della
dissimulazione a metà o della verità proclamata
perché non sia creduta, è che il mentitore non
deve dire nulla di falso. Le considero
egualmente bugie, però, in quanto c'è un
tentativo deliberato di trarre in inganno il
destinatario.
Tutti questi tipi di menzogna possono essere
traditi da qualche aspetto del comportamento
di chi mente. Ci sono due tipi di indizi: un errore
può svelare la verità, oppure può suggerire
soltanto che ciò che l'altro dice o cerca
comunque di far credere non è vero, senza però
indicare come stanno esattamente le cose.
Quando l'errore mette a nudo la verità, parlo di
indizi rivelatori; quando il comportamento del
mentitore fa capire soltanto che mente, parlo
invece di semplici indizi di falso. Se il medico si
accorge che Mary, mentre dice che si sente
bene, si torce le mani, ecco che ha un indizio di
falso, una ragione di sospettare che gli stia
mentendo. Non sa che cosa prova realmente la
paziente (potrebbe essere arrabbiata con
l'ospedale, disgustata di se stessa, timorosa del
futuro), se non ricava anche un qualche segno
più eloquente, un vero e proprio indizio
rivelatore: un'espressione del viso, il tono della
voce, un lapsus o un gesto involontario
potrebbero lasciar trasparire i suoi reali
sentimenti.
Un indizio di falso risponde all'interrogativo
se la persona mente o dice la verità, anche se
non rivela che cosa nasconda. Solo un indizio più
esplicito servirebbe a quest'ultimo scopo.
Spesso non ce n'è bisogno: se il problema è
quello di accertare se la persona in questione
mente o no, basta un generico indizio di falso. In
genere le informazioni che vengono taciute
possono essere facilmente indovinate, oppure
sono irrilevanti.
Ma non sempre basta. In certi casi può
essere importante sapere esattamente che cosa
si celi dietro la bugia. Chamberlain, se avesse
notato un qualche indizio di falso, avrebbe solo
saputo che Hitler mentiva, ma in quella
situazione sarebbe stato importantissimo anche
mettere a nudo i suoi reali piani di conquista,
scoprire fino a che punto intendeva spingersi.
A volte quello che traspare è solo parte della
verità: qualcosa di più di un semplice indizio di
falso, ma non tutto quello che la vittima
vorrebbe sapere. Torniamo all'episodio del
romanzo di Updike citato prima, quando Ruth
entrava in panico non sapendo quanto avesse
sentito il marito della sua telefonata con
l'amante. Probabilmente alla domanda di Jerry
c'è stato un gesto di lei (un tremito delle
braccia, l'occhio sbarrato) che ha tradito il suo
panico. Dato il contesto, un tale sintomo di
paura implicava una menzogna: perché
altrimenti avrebbe dovuto essere turbata dalla
sua domanda? Ma un tale indizio di falso non gli
dice su che cosa la moglie mente, né a chi parla.
Questa informazione, almeno in parte, Jerry la
ottiene da qualcosa che trapela nella voce di
Ruth. Spiegandole perché non crede alle sue
parole, le dice:
«“... non era il tuo tono di voce”.
“Davvero? Come? ”. Cercò di ridacchiare.
Lo sguardo di lui era fisso nel vuoto come se
considerasse un problema estetico. Sembrava
stanco, giovane, magro. I suoi capelli erano
tagliati troppo corti. “Era diverso”, disse. “Più
caldo. Era la voce di una donna”.
“Io sono una donna”.
“La tua voce con me”, disse lui, “è da
ragazzina”».25
Il tono di voce non si accorda con la
telefonata della parrocchia, ma corrisponde a un
colloquio clandestino con un amante. Tradisce il
fatto che la bugia ha a che fare probabilmente
con una relazione extraconiugale, ma non dice
tutto: Jerry non può capire se la relazione sta
per cominciare o è già in pieno svolgimento, né
chi sia l'amante. Tuttavia, ne sa di più di quanto
avrebbe potuto ricavare da un semplice indizio
di falso, che gli avrebbe suggerito soltanto che la
moglie mentiva.
Riassumendo, ho definito la menzogna come
la scelta deliberata e non dichiarata di trarre in
inganno il destinatario. La menzogna ha due
forme principali: la dissimulazione, cioè
occultare informazioni vere, e la falsificazione,
cioè presentare informazioni false come se
fossero vere. Altri modi di mentire sono: sviare
i sospetti, ammettendo un'emozione ma
indicandone una causa falsa, mentire dicendo la
verità, cioè ammettendo la verità in maniera
così esagerata o umoristica che il destinatario
viene tratto in inganno, dissimulare a metà,
ammettendo solo parte della verità in modo da
sviare l'interesse della vittima da ciò che rimane
celato, e la tecnica di eludere la domanda
suscitando un'interpretazione sbagliata, dire
cioè la verità ma in modo da lasciar intendere il
contrario. Esistono due tipi di indizi di
menzogna: indizi rivelatori che mettono
inavvertitamente a nudo la verità e semplici
indizi di falso, dove il comportamento del
bugiardo fa sospettare soltanto che quello che
dice non è vero.
Gli uni e gli altri indizi sono errori, ma non
sempre succedono. Il prossimo capitolo spiega
perché in certi casi il mentitore vi incorre.
III
Perché le bugie fanno fiasco
Le menzogne falliscono per le ragioni più
varie. La vittima dell'inganno può scoprire
accidentalmente le prove; oppure il mentitore
può essere tradito da qualcun altro: un collega
invidioso, il coniuge abbandonato, un
informatore prezzolato, sono tutte fonti
importanti per smascherare un inganno. Quelli
che interessano a noi, però, sono gli errori
commessi all'atto di mentire, errori che il
bugiardo compie suo malgrado. Indizi di falso o
segni rivelatori ancor più eloquenti possono
comparire in un cambiamento d'espressione del
volto, un movimento del corpo, un'inflessione di
voce, l'atto di deglutire saliva, una respirazione
troppo profonda o affannosa, lunghe pause fra
una parola e l'altra, un lapsus, una
microespressione del viso, un gesto
involontario. La domanda che ci si pone è:
perché il mentitore a volte non può impedire
questi comportamenti che lo tradiscono? Ci
sono due ragioni, una che chiama in causa il
pensiero, l'altra le emozioni.
ERRORI STRATEGICI
Non sempre chi mente può prevedere
quando si presenterà la necessità di mentire.
Non sempre c'è tempo di prepararsi una
strategia, ripassarla e mandarla a memoria.
Ruth, nel romanzo di Updike, non poteva
prevedere che il marito avrebbe sentito la sua
telefonata con l'amante. La scusa che inventa
sul momento (che era la parrocchia che aveva
chiamato per il catechismo dei bambini) la
tradisce perché non corrisponde a quanto il
marito ha potuto ascoltare.
Anche quando c'è un ampio preavviso e si è
potuta inventare con cura una falsa storia, non
è facile prevedere tutte le domande e soppesare
fino in fondo le risposte. E nemmeno l'astuzia
basta quando cambiamenti imprevisti delle
circostanze possono mettere in crisi una linea
che peraltro sarebbe stata efficace. Durante le
indagini del gran giurì sullo scandalo Watergate,
un problema del genere è stato osservato dal
giudice federale a proposito della testimonianza
del consigliere speciale di Nixon, Fred
Buzhardt: «Il primo problema che Fred
Buzhardt si è trovato ad affrontare quando ha
cercato di spiegare perché mancassero i nastri
delle registrazioni è stato quello di non cadere in
contraddizione. Il primo giorno di udienza disse
che non c'erano nastri dell'incontro del 15 aprile
fra il Presidente e Dean perché un timer si era
guastato [...]. Ma ben presto dovette correggere
questa prima spiegazione [Buzhardt aveva
saputo che da altri dati si sarebbe potuto
scoprire che i timer in realtà non avevano avuto
nessun guasto]. Stavolta disse che l'incontro del
15 aprile con Dean [...] non era stato registrato
perché i nastri disponibili erano già stati
consumati in un'intensa giornata di riunioni».26
Anche quando le circostanze non lo
costringono a cambiare strategia, chi mente può
avere difficoltà a ricordare quella che aveva
adottato in precedenza, cosicché rischia di
cadere in contraddizione di fronte a nuove
domande.
Uno qualunque di questi errori - non aver
previsto quando insorge la necessità di mentire,
non aver inventato una storia che si adatti a
nuove circostanze, non ricordare la linea di
condotta adottata - produce indizi di falso facili
da scoprire: la storia mostra incoerenze o
divergenze rispetto a fatti incontrovertibili, noti
sul momento o rivelati più tardi. Indizi così
ovvi, però, non sono sempre univoci come
sembrano. Basta pensare che proprio una
strategia impeccabile può essere il segno di una
truffa ben preparata, in cui il mentitore si è
ripassato la parte alla perfezione. A peggiorare
ulteriormente le cose c'è il fatto che certi
truffatori, consapevoli di questo rischio,
introducono a bella posta lievi errori per non
dare l'impressione di recitare la lezione. Un caso
in cui questo trucco viene usato in modo
esemplare lo descrive James Phelan, il
giornalista che ha condotto un'inchiesta sulla
truffa della falsa biografia di Howard Hughes.
Nessuno aveva più visto Hughes da anni, il
che aggiungeva un tocco di mistero all'interesse
del pubblico per questo miliardario, produttore
cinematografico e proprietario di una
compagnia aerea e della più grande casa da
gioco di Las Vegas. Era tanto tempo che
nessuno lo vedeva, che si cominciava a dubitare
che fosse ancora vivo. Era stupefacente che una
persona che si sottraeva con tanta tenacia agli
occhi del mondo autorizzasse qualcuno a
scrivere la sua biografia. Eppure era proprio la
biografia autorizzata di Hughes ciò che Clifford
Irving dichiarava di avere scritto. La casa
editrice McGraw-Hill gli versò 750.000 dollari
per i diritti di pubblicazione e la rivista Live altri
250.000 per tre estratti; poi invece risultò che
la biografia era un falso clamoroso. Ecco il
racconto di Phelan: «Irving è un grande
truffatore, uno dei migliori. Quando l'abbiamo
sottoposto a interrogatori incrociati, non ha mai
fatto l'errore di raccontare versioni sempre
identiche della sua storia. Ogni volta c'erano
minime discrepanze e quando lo coglievamo in
contraddizione le ammetteva senza difficoltà. Il
truffatore medio si prepara il suo racconto alla
perfezione, così da poterlo ripetere alla lettera
senza discrepanze. Un uomo onesto di solito fa
dei piccoli errori, specialmente se deve
raccontare una storia lunga e complicata,
com'era appunto la sua. Ma Cliff era abbastanza
intelligente da saperlo e riuscì a impersonare a
meraviglia l'onestuomo senza segreti da
nascondere. Quando lo coglievamo su un
particolare che sembrava accusarlo, diceva con
disinvoltura: “Ahi! Questa cosa mi mette nei
guai, vero? Ma ci posso fare poco, è andata
proprio così”. Dava l'impressione del massimo
candore, di uno che è sincero anche a proprio
svantaggio, mentre non faceva altro che infilare
una bugia dietro l'altra».27 Non c'è difesa contro
un'abilità del genere e infatti i truffatori più
bravi riescono nell'impresa. Ma la maggior
parte delle persone che mentono non è così
astuta.
Non aver preparato una linea di condotta o
non ricordare bene quella che si è adottata può
produrre indizi di falso che trapelano dal modo
in cui si dicono le cose, anche se ciò che si dice
non presenta nessuna contraddizione. La
necessità di riflettere su ogni singola parola
prima di pronunciarla - soppesando le
possibilità, cercando parole e concetti adatti può evidenziarsi in eventuali pause del discorso,
oppure, in maniera più sottile, in movimenti
involontari delle ciglia e delle sopracciglia, o in
certi cambiamenti nei gesti (che descriverò
dettagliatamente nei Capp. IV e V). Non che
riflettere su ogni parola prima di parlare sia
sempre un segno di menzogna, ma in qualche
circostanza lo è: per esempio, quando Jerry
chiede a Ruth con chi stava parlando al telefono,
qualunque segno di esitazione nella scelta delle
parole avrebbe immediatamente suggerito che
mentiva.
MENZOGNA CIRCA I SENTIMENTI
La mancanza di un piano strategico o di
un'adeguata spiegazione è solo una delle ragioni
per cui al momento di mentire si commettono
degli errori che fanno subodorare l'inganno. Ma
errori si fanno anche per la difficoltà di
nascondere o mascherare le emozioni. Non
tutte le bugie implicano particolari emozioni, ma
quando queste entrano in gioco creano problemi
del tutto particolari. Il tentativo di nascondere
un'emozione potrebbe tradirsi anche nelle
parole, ma tranne che per un lapsus,
generalmente non succede: salvo il caso che
desideri confessare quello che prova, chi mente
non ha nessun bisogno di esprimere a parole i
suoi sentimenti. Meno scelta c'è quando si
tratta di dissimulare un'espressione del viso,
un'accelerazione del respiro, una tensione della
voce.
Quando si mette in moto un'emozione, i
cambiamenti sono automatici, senza una scelta
o una decisione cosciente. E sono cambiamenti
immediati. Nell'episodio del romanzo, quando
Jerry l'accusa di mentire, Ruth non ha nessuna
difficoltà a non lasciarsi sfuggire dalla bocca le
parole «Sì, è vero!». Ma il terrore che l'adulterio
sia scoperto si impadronisce di lei, producendo
segni visibili e udibili. La donna non decide di
farsi prendere dal panico, né può decidere di
smettere di provare terrore. Tutto questo è al
di fuori del suo controllo. Ciò fa parte, a mio
avviso,
della
natura
fondamentale
dell'esperienza emotiva.
Non possiamo decidere attivamente se e
quando provare una certa emozione. Le
emozioni
sono
al
contrario
vissute
passivamente come qualcosa che ci capita e, nel
caso di emozioni negative come la paura o la
rabbia, ci capita nostro malgrado. Non solo c'è
poca scelta quanto al momento in cui provare
un'emozione, ma spesso non possiamo
nemmeno impedire che i segni espressivi
dell'emozione siano manifesti a chi ci sta di
fronte. Ruth non poteva semplicemente
decidere di eliminare qualunque segno del
terrore che provava: non esiste un pulsante che
comandi il rilassamento immediato, da premere
per interrompere ogni reazione emotiva. Può
essere impossibile addirittura controllare le
proprie azioni, quando l'emozione è molto
intensa. Un'emozione violenta spiega, anche se
non sempre giustifica, certi atti inconsulti: «Non
volevo alzare la voce (oppure: picchiare il pugno
sul tavolo, offendere, mettere le mani addosso),
ma ho perso il controllo. Ero fuori di me».
Quando un'emozione si attiva per gradi
anziché
all'improvviso,
i
cambiamenti
comportamentali sono limitati e relativamente
facili da nascondere, purché ci si renda conto di
quello che si prova. Ma nella maggior parte dei
casi non ce ne rendiamo conto: quando
un'emozione si instaura gradualmente e rimane
contenuta, può essere più avvertibile agli altri
che all'interessato, non essendo registrata dalla
coscienza finché non cresce d'intensità. E una
volta cresciuta è molto più difficile da
controllare. Dissimulare i cambiamenti del viso,
del corpo e della voce richiede uno sforzo.
Anche quando lo sforzo riesce e i sentimenti non
traspaiono, a volte è proprio lo sforzo stesso a
dare nell'occhio.
Se è vero che non è facile nascondere
un'emozione, non lo è neppure fingere
un'emozione che non si prova, anche quando
non c'è da occultarne nessun'altra. Non basta
dav v ero dire «Sono arrabbiato», oppure «Ho
paura». Se vuol essere creduto, chi finge dovrà
anche apparire arrabbiato o impaurito. Non è
facile mettere insieme tutti i movimenti giusti,
le particolari alterazioni della voce che sono
indispensabili per falsificare un'emozione. Ci
sono dei movimenti del volto, per esempio, che
pochissimi
sono
capaci
di
eseguire
volontariamente (li vedremo nel Cap. V), ma
che sono cruciali per fingere efficacemente
dolore, paura o rabbia.
Fingere un'emozione diventa molto più
difficile proprio quando ce n'è più bisogno, per
nasconderne un'altra. Cercare di mostrarsi
arrabbiato non è facile, ma se si prova paura e
si vuol sembrare arrabbiati diventa un
tormento: tutto un insieme di impulsi suscitati
dalla paura tira in una direzione, mentre il
tentativo deliberato di mostrare collera tira
nella direzione opposta. Le sopracciglia, per
esempio,
nella
paura
si
sollevano
involontariamente, ma per fingere la rabbia
bisogna aggrottarle. Spesso bastano i segni di
questa lotta interiore fra l'emozione autentica e
quella simulata a tradire l'inganno.
E le menzogne che non riguardano emozioni,
azioni, progetti, pensieri, intenzioni, fatti o
fantasie? Anche quelle sono tradite dal
comportamento?
SENTIMENTI CIRCA LA MENZOGNA
Non sempre l'inganno implica la
dissimulazione o la simulazione di sentimenti.
L'impiegato disonesto nasconde il fatto che si
appropria indebitamente di denaro dell'azienda.
Il plagiario nasconde il fatto di aver preso il
lavoro di un altro fingendo che sia il proprio. Il
vanesio di mezz'età nasconde gli anni che ha,
tingendosi i capelli e dichiarando un'età
inferiore al vero. Tuttavia, anche quando la
bugia riguarda qualcos'altro, le emozioni
possono entrare in gioco lo stesso. Il vanesio
potrebbe essere imbarazzato della sua stessa
vanità: per riuscire nell'inganno deve
nascondere non solo i suoi anni, ma anche
l'imbarazzo. Il plagiario potrebbe provare
disprezzo per quelli che si lasciano ingannare da
lui: dovrebbe allora non solo occultare le fonti
della sua opera e fingere un'abilità che non
possiede, ma anche dissimulare il suo disprezzo.
Il malversatore può restare sorpreso quando
un altro viene accusato della sua colpa: dovrà
nascondere la sua meraviglia, o almeno la
ragione di questa.
Così le emozioni spesso intervengono in
menzogne che in partenza non avevano lo scopo
di celare emozioni. Ecco che, una volta entrate
in gioco, devono essere nascoste se non si vuole
che l'inganno venga tradito. Questo può
riguardare qualunque emozione, ma ce ne sono
tre che sono così legate alla menzogna da
meritare un discorso a parte: la paura di essere
scoperto, il senso di colpa per aver mentito, la
soddisfazione di aver beffato qualcuno.
LA PAURA DI ESSERE SCOPERTO
Questo timore nelle sue forme più lievi non
ha effetti disastrosi, ma anzi - accrescendo la
vigilanza - può essere utile ad evitare gli errori.
Un livello medio di paura può dar luogo a segni
comportamentali percettibili a un occhio
esperto; quando invece è intensa, la paura di
essere scoperto ha proprio l'effetto temuto. Se
potesse valutare in partenza il livello di
apprensione all'idea di essere smascherato, nel
caso in cui dovesse imbarcarsi in una menzogna,
l'individuo potrebbe meglio decidere se correre
il rischio. Anche una volta in ballo, avere un'idea
di quanta paura può provare gli servirebbe a
prendere contromisure per ridurla o
dissimularla. Conoscere un dato del genere
sarebbe utile anche al cacciatore di bugie:
sapendo che il sospettato prova un'intensa
apprensione all'idea di poter essere scoperto,
starebbe all'erta per cogliere ogni eventuale
indizio di paura.
Molti fattori intervengono a determinare
l'intensità di questo sentimento. Il primo
riguarda l'idea che il mentitore ha circa le abilità
della vittima potenziale. Se il destinatario della
bugia ha fama di essere ingenuo, facile da
abbindolare, l'apprensione di essere scoperto
non sarà molta. Invece, una persona che non si
lascia ingannare facilmente, anzi ha fama di
essere un esperto conoscitore della menzogna,
susciterà molta ansia in chi cerca di mentirle. I
genitori spesso riescono a far credere ai
bambini di possedere una simile arte: «Mi basta
guardarti negli occhi per sapere se mi dici la
verità o una bugia». Il bambino che mente
prova una tale paura di essere scoperto che la
paura lo tradisce, oppure confessa perché pensa
che non c'è nessuna possibilità di farla franca.
Questa manovra è usata con molta abilità da
un personaggio della commedia di Terence
Rattigan The Winslow Boy (da cui è stato
tratto un film nel 1950), che esige la verità dal
figlio adolescente, espulso dall'Accademia
navale con l'accusa di aver rubato un vaglia
postale:
ARTHUR [il padre]. In questa lettera c'è
scritto che hai rubato un vaglia postale. (Ronnie
[il figlio] apre la bocca per parlare. Arthur lo
interrompe.) Ora non voglio che tu dica una
parola finché non hai sentito quello che ho da
dire. Se l'hai fatto, me lo devi dire. Non mi
arrabbierò con te, Ronnie, purché tu mi dica la
verità. Ma se mi dici una bugia, lo saprò, perché
una bugia fra te e me non può restare nascosta.
Lo saprò, Ronnie, sicché ricordatelo prima di
parlare. (Fa una pausa.) Hai rubato questo
vaglia?
RONNIE (Con esitazione). No, papà. Non l'ho
rubato. (Arthur fa un passo verso di lui).
ARTHUR (Guardandolo negli occhi). Hai rubato
questo vaglia?
RONNIE. No, papà. Non l'ho rubato. (Arthur
continua a fissarlo negli occhi per un secondo,
poi si rilassa.)28
Arthur crede alle parole del figlio e la
commedia racconta la storia degli enormi
sacrifici sopportati dal padre e dal resto della
famiglia per riabilitarlo. Non sempre un
genitore può usare questa strategia per
ottenere la verità: un ragazzo che già altre volte
è riuscito a ingannare il padre sarà convinto di
poterla fare franca ancora; il genitore stesso
può non essere disposto ad offrire il perdono in
cambio della confessione; inoltre, un genitore
che è stato ingiustamente sospettoso in altre
occasioni, non credendo al figlio quando diceva
la verità, susciterà paura in lui anche se è
innocente. Ciò solleva un problema cruciale
nella scoperta della menzogna: è quasi
impossibile distinguere la paura di non essere
creduto dell'innocente dalla paura di essere
scoperto del colpevole, dato che i segni di
timore saranno gli stessi.
Questi
problemi
non
riguardano
esclusivamente la situazione genitori-figli: è
sempre un problema riconoscere le due forme
di paura, distinguendo fra il colpevole e
l'innocente. La difficoltà è accresciuta quando
colui che deve smascherare eventuali bugie ha
la reputazione di persona sospettosa e
diffidente e in passato ha dimostrato di non
credere a chi gli diceva il vero: in seguito, gli
sarà sempre più difficile distinguere fra la paura
degli altri di essere smascherati e il loro timore
di non esser creduti.
La pratica dell'inganno e il fatto di essersela
cavata bene in passato hanno l'effetto di ridurre
l'apprensione. Il marito infedele che è arrivato a
collezionare la quattordicesima amante non si
preoccuperà molto di essere colto in fallo: ha
una buona pratica di sotterfugi, sa precostituirsi
un alibi e correre ai ripari quando è necessario,
ma soprattutto sa che può farla franca. La
fiducia in se stesso riduce al minimo la paura di
essere scoperto. A lungo andare, però, c'è il
rischio di commettere errori per disattenzione:
un certo livello di apprensione probabilmente è
utile a chi mente.
Il poligrafo usato come rivelatore delle
menzogne funziona sugli stessi principi che
guidano la ricerca dei segni comportamentali di
falsità e risente degli stessi problemi. La
“macchina della verità” non individua le
menzogne, ma soltanto segni di emozione. I fili
della macchina sono applicati al soggetto in
modo da misurare variazioni della sudorazione,
della respirazione e della pressione sanguigna.
Un aumento della pressione o della
traspirazione non sono di per sé segni di bugia:
il palmo delle mani diventa umido e il cuore
batte forte quando c'è un'emozione.
Prima di sottoporre il soggetto al test, la
maggior parte dei tecnici cerca di convincerlo
che la macchina non sbaglia mai,
sottoponendolo a una prova preliminare,
cosiddetta di “stimolazione”. Il metodo più
comune consiste nel dimostrare che la macchina
riconosce la carta che il soggetto ha estratto da
un mazzo: dopo aver guardato la carta e averla
rimessa nel mazzo, il soggetto deve rispondere
negativamente ogni volta che l'esaminatore
gliene mostra una chiedendo se è quella lì.
Alcuni esaminatori riescono con questo sistema
a dimostrare la propria infallibilità, perché non
si affidano alla macchina, ma usano un mazzo di
carte segnato. Giustificano questo trucco con
due considerazioni: se è innocente, è importante
che il soggetto sia convinto che la macchina è
infallibile, altrimenti potrebbe temere di non
esser creduto; se è colpevole, è importante che
abbia paura di essere scoperto, altrimenti la
macchina non funziona proprio. La maggior
parte dei tecnici, però, non ricorre a
stratagemmi e si basa davvero sui tracciati del
poligrafo per riconoscere la carta incriminata.29
Come nella commedia di Rattigan, il
sospettato deve credere nella capacità
dell'inquisitore. I segni di paura sarebbero
ambigui se non si predisponessero le cose in
maniera tale che solo il bugiardo, e non chi dice
il vero, debba avere paura. L'esame con il
poligrafo fallisce non solo perché alcuni
innocenti continuano a temere di essere
accusati falsamente o, per qualunque altra
ragione, sono turbati dalla procedura d'esame,
ma anche perché alcuni colpevoli non credono
alla magia della macchina: sanno di poterla fare
franca e, sapendo questo, hanno più probabilità
di riuscirci davvero.30
Un altro parallelo con la situazione della
commedia è il tentativo dell'esaminatore di
estorcere una confessione. Come il padre di
Ronnie vantava speciali poteri di riconoscere le
menzogne per indurlo a confessare la sua colpa
eventuale, così alcuni tecnici cercano di ottenere
una confessione convincendo il sospettato che
non ha nessuna possibilità di ingannare la
macchina. Se non confessa, alcuni esaminatori
ricorrono all'intimidazione, dicendogli che la
macchina ha dimostrato che mentiva:
accrescendo l'apprensione di essere scoperto, si
spera di indurre il colpevole a confessare.
Purtroppo, sottoposti a pressioni di questo
genere, anche alcuni innocenti confessano, per
sfuggire a una situazione insopportabile.
Di solito l'investigatore non ha, come un
genitore, la possibilità di strappare una
confessione offrendo in cambio l'impunità. Una
procedura simile consiste nel far balenare la
prospettiva di una riduzione di pena in caso di
confessione. Pur non potendo offrire un
condono totale, gli investigatori offrono una
sorta di condono psicologico, lasciando
intendere al sospettato che non deve
necessariamente provare vergogna per quello
che ha fatto. Chi conduce l'interrogatorio può
mostrargli, per esempio, tutta la sua simpatia,
dicendo che trova la cosa del tutto
comprensibile e che avrebbe potuto farlo lui
stesso trovandosi nella stessa situazione. Una
variante è quella di suggerire un movente
onorevole, che permetta al sospettato di salvare
la faccia.
Finora abbiamo considerato come la
reputazione dell'inquisitore può influire sul
livello di ansia, nel mentitore come
nell'innocente. Un altro fattore che interviene
nell'ansia di essere smascherato è la personalità
del mentitore. Alcuni si trovano in gravi
ambasce quando mentono, altri lo fanno con
una disinvoltura allarmante. Si sa molto di più
dei soggetti che mentono senza difficoltà che di
quelli che non ci riescono. Tuttavia, qualcosa su
di loro ho potuto scoprire nella mia ricerca sulla
dissimulazione di emozioni negative.
Ho cominciato nel 1970 una serie di ricerche
per verificare sperimentalmente gli indizi di
menzogna che avevo scoperto analizzando
filmati di colloqui con pazienti psichiatrici, come
quello di Mary descritto nel primo capitolo. Si
ricorderà che Mary cercava di dissimulare la
sua disperazione per ottenere dal medico un
permesso e potere quindi, senza sorveglianza,
mettere in atto il suicidio. Dovevo esaminare
analoghe menzogne in altri soggetti, per
scoprire se gli indizi scoperti nel filmato erano
un fenomeno generale o un caso del tutto
particolare. Non speravo molto di trovare
abbastanza esempi nella pratica clinica, poiché
in tale contesto è difficile essere assolutamente
sicuri di una bugia: quindi pensai di creare una
situazione sperimentale analoga a quella della
menzogna di Mary, così da esaminare gli
eventuali errori commessi da altri soggetti
all'atto di mentire.
Perché l'esperimento avesse una qualche
rilevanza rispetto alla situazione-modello,
bisognava che i soggetti provassero emozioni
negative molto intense e fossero motivati a
nasconderle. Per indurre emozioni negative,
facevo visionare dei documentari chirurgici
molto realistici, con la richiesta di dissimulare le
proprie reazioni emotive di fronte alle scene
cruente. Sulle prime l'esperimento fallì: nessuno
si sforzava davvero di fingere. Non avevo
previsto quanto sia difficile indurre le persone a
mentire in un laboratorio sperimentale.
Anzitutto sono imbarazzate sapendo che questo
loro comportamento “scorretto” si svolge sotto
l'occhio dei ricercatori. Inoltre, spesso la posta
in palio è così piccola che anche quando
mentono non si impegnano come farebbero
nella vita reale. Come soggetti ho scelto allora
un gruppo di allieve infermiere, perché per loro
era importante riuscire a dissimulare proprio
questo tipo di emozioni e l'esperimento offriva
l'occasione di esercitare una competenza
professionalmente utile. Un'altra ragione era
evitare il problema etico di esporre persone
qualunque a scene così sgradevoli. Le istruzioni
che venivano fornite erano le seguenti:
«Se lavorate in un pronto soccorso e arriva
trafelata una madre con un bambino ridotto in
condizioni disperate, non potete manifestare la
vostra pena, anche se sapete che il bambino
soffre moltissimo e ha scarse probabilità di
sopravvivere. Dovete tenervi dentro i vostri
sentimenti e calmare la madre finché non arriva
il medico. Oppure, immaginate come farete
quando dovrete ripulire dalle feci un paziente
che non controlla più i movimenti intestinali. Il
paziente proverà imbarazzo o vergogna di
essere ridotto in uno stato infantile. Voi
probabilmente sentirete disgusto, ma dovrete
nascondere questa sensazione. L'esperimento vi
offre un'occasione di mettere alla prova e di
esercitare la vostra capacità di controllare
l'espressione delle emozioni. Prima vedrete un
filmato che mostra piacevoli scene marine;
mentre lo guardate dovrete descrivere
sinceramente le vostre impressioni a un
intervistatore che non vede il film. Poi vi
presenteremo le più orribili scene che può
capitarvi di vedere in anni di lavoro ospedaliero.
Mentre guarderete questo secondo filmato,
dovrete nascondere le vostre reali sensazioni e
far credere all'intervistatore che state vedendo
un gradevole documentario; potete dire che
vedete scene di fiori nel Golden Gate Park.
Sforzatevi più che potete».
Abbiamo scelto i filmati peggiori che
abbiamo trovato. Una ricerca preliminare ci
aveva indicato che per alcuni risultava più
impressionante un film che mostrava
gravissime ustioni, per altri una scena di
amputazione: abbiamo montato i due film
insieme, in modo che sembrasse che un grave
ustionato venisse amputato d'una gamba. Con
questo materiale, potevamo vedere fino a che
punto i soggetti riuscivano a dissimulare intense
emozioni, volendo o dovendo farlo.
Data la forte selezione esistente per
l'ammissione alla scuola infermiere, le
studentesse del gruppo campione avevano tutte
punteggi ottimi nei vari test di profitto, voti
altissimi ed eccellenti note per quanto riguarda
il carattere. Pur essendo un gruppo così
selezionato, differivano moltissimo nella
capacità di mascherare i propri sentimenti:
alcune ci riuscivano alla perfezione, altre per
niente. Dai colloqui condotti dopo l'esperimento,
ho trovato che l'incapacità di mentire non era
un fenomeno circoscritto a quella situazione:
alcune riferivano di aver sempre avuto difficoltà
a mentire circa le loro emozioni. Certe persone
sono
particolarmente
vulnerabili
all'apprensione di essere scoperte. Hanno una
grande paura di essere colte in fallo, sono sicure
che chiunque le guardi si accorga se stanno
mentendo e questa diventa automaticamente
una profezia che si realizza per forza propria.
Ho sottoposto tutto il gruppo a numerosi test di
personalità e con sorpresa ho scoperto che
quelle che non riuscivano a mentire non
differivano affatto dal resto del gruppo.
Ho cercato di sapere qualcosa di più anche
dei soggetti all'estremo opposto, capaci di
mentire con disinvoltura e con successo. I
cosiddetti “attori nati” conoscono questa loro
capacità, come anche impara a conoscerla a sue
spese chi li frequenta. Fin da bambini l'hanno
sempre fatta franca, riuscendo a ingannare
genitori, insegnanti e amici tutte le volte che
volevano. Non provano nessuna ansia all'idea di
essere scoperti: si fidano della propria capacità
di ingannare il prossimo. Una tale sicurezza, il
non provare grande apprensione all'atto di
mentire, è uno dei segni della personalità
psicopatica. Ma questa è l'unica caratteristica
che le mie attrici nate avevano in comune con
gli psicopatici: a differenza di questi ultimi, non
presentavano difetti di giudizio, né erano
incapaci di apprendere dall'esperienza. Inoltre, i
test di personalità mostravano che, come il
resto
del
gruppo, non avevano altre
caratteristiche psicopatiche come: «Fascino
superficiale [...] mancanza di rimorsi o di
vergogna, comportamento antisociale senza
pentimento apparente, egocentrismo patologico
e incapacità di amare»31 (vedremo meglio più
avanti come il rimorso e la vergogna possono
tradire l'inganno).
Infatti le allieve che nel mio esperimento
dimostravano grandi doti naturali per la
menzogna, a differenza degli psicopatici, non
usavano la capacità di mentire per nuocere agli
altri.32 Un attore nato, molto abile nel fingere e
dissimulare ma non privo di una coscienza
morale, dovrebbe poter sfruttare il suo talento
in certe professioni: il teatro, le vendite,
l'avvocatura, la politica, i servizi segreti, la
diplomazia.
Gli studiosi che si sono occupati del
problema dal punto di vista politico-militare
hanno analizzato caratteristiche di questo tipo
di persona: «Deve avere una mente
combinatoria flessibile, una mente che lavora
scomponendo idee, concetti o “parole” nei loro
elementi base e ricombinandoli poi nei modi più
vari (un esempio di questo tipo di pensiero si
trova nel gioco dello Scarabeo) [...] manipolatori
del passato [...] sono persone estremamente
individualistiche e competitive; non si
adatterebbero facilmente a una grossa
organizzazione [...] e tendono a lavorare da soli.
Sono spesso convinti della superiorità delle
proprie idee. In un certo senso corrispondono al
supposto carattere dell'artista eccentrico e
solitario, solo che praticano un'arte diversa.
Questo è apparentemente l'unico denominatore
comune di grandi artisti dell'inganno come
Churchill, Hitler, Dayan e T. E. Lawrence».33
Questi “grandi artisti” hanno forse bisogno
di due abilità molto diverse: quella necessaria a
ideare una strategia fondata sull'inganno e
quella indispensabile a sviare i sospetti
dell'avversario in un incontro faccia a faccia.
Hitler a quanto sembra le possedeva entrambe,
ma non è escluso che qualcuno possa eccellere
in una e non nell'altra. Purtroppo l'argomento
non è molto studiato né sappiamo se ci siano
differenze di personalità a seconda del campo in
cui l'inganno è esercitato. Sospetto di no e sono
convinto che le persone capaci di mentire con
successo nel campo politico-militare se la
caverebbero bene anche nel mondo degli affari.
È una facile tentazione bollare come
psicopatico e antisociale qualunque avversario
politico di cui siano note le menzogne. Non ho
dati per contestarli, ma diffido molto di simili
giudizi. Come Nixon può esser considerato un
acuto statista o un farabutto a seconda della
parte politica di chi lo giudica, così le valutazioni
sui leader d'altri paesi sono spesso strumentali.
La mia ipotesi è che raramente uno psicopatico
sopravvive in una struttura burocratica tanto a
lungo da acquisire una posizione di comando a
livello nazionale.
Finora ho descritto due fattori che
intervengono nella paura di essere colti in fallo:
la personalità di chi mente e, prima di questa, la
reputazione e il carattere di chi dovrebbe
scoprirlo. Non meno importante è la posta in
gioco.
C'è una semplice regola: quanto maggiore è
la posta, tanto più intensa è l'emozione.
Applicare questa regola così semplice può
essere complicato perché, tranne qualche caso,
non sempre è facile capire che cos'è in gioco.
Data la forte motivazione a riuscire nella
carriera prescelta, specie all'inizio della
formazione
professionale,
nel
nostro
esperimento con le allieve infermiere la posta
era piuttosto alta. Il timore di essere colte in
fallo sarebbe stato minore se non ci fosse
entrato il loro futuro professionale (per
esempio, se si fosse chiesto di dissimulare i
propri sentimenti circa la moralità o immoralità
dei furti nei grandi magazzini), mentre la posta
in gioco sarebbe stata ancora più grande se
avessimo fatto credere che la riuscita
nell'esperimento era un requisito per
l'ammissione alla scuola.34
Un venditore che cerca di ingannare il
cliente dovrebbe essere più preoccupato se si
tratta di un affare che comporta una grossa
commissione. La regola infatti dovrebbe essere
questa: quanto più alta è la ricompensa, tanto
maggiore è l'apprensione di essere colto in fallo.
Ma le cose non sono così semplici. A volte la
ricompensa più evidente non è quella che conta.
Il nostro venditore potrebbe tenere soprattutto
all'ammirazione dei colleghi e concorrenti: darla
a bere a un cliente che è un osso duro può
procurare grosse ricompense in termini di
prestigio professionale, anche se la commissione
è modesta. Per certe persone vincere è tutto:
non importa se si tratta di spiccioli o di grosse
somme, per loro la posta è alta in qualunque
competizione. La posta in gioco può essere così
squisitamente individuale che un osservatore
esterno faticherebbe a capire di che si tratta: il
donnaiolo può divertirsi a ingannare la moglie,
per esempio, non per soddisfare una lussuria
sfrenata, ma ripetendo all'infinito una sua
coazione infantile a fare le cose di nascosto,
senza che la mamma se ne accorga.
La paura di essere scoperto dovrebbe
essere maggiore quando è in gioco non solo una
ricompensa, ma anche il rischio di una
punizione. Quando all'inizio si prende la
decisione di ricorrere all'inganno, di solito è in
gioco la possibilità di ottenere certe ricompense.
L'impiegato disonesto, quando inizia la sua
opera di malversazione, probabilmente pensa
solo alla bella vita che potrà fare, ma quando la
truffa è in corso da un certo tempo, può
succedere che i facili guadagni non siano più a
portata di mano: l'azienda magari si è accorta
delle perdite e si è fatta così sospettosa che non
è più possibile sottrarre altro denaro. A questo
punto la menzogna dev'essere mantenuta in
piedi per evitare la punizione, perché ormai è in
gioco solo questa.
Sono due i tipi di punizione che si rischiano:
quella che è in serbo se l'inganno viene scoperto
e quella che è legata all'atto stesso di mentire.
L'apprensione sarà maggiore se sono in ballo
entrambe. A volte la punizione per essere colto
a mentire è di gran lunga peggiore di quella che
la bugia dovrebbe evitare (è quello che il padre
chiarisce al ragazzo nella commedia di
Rattigan).
I genitori dovrebbero sapere che la severità
delle loro punizioni è uno dei fattori che
determinano se i figli confesseranno le loro
colpe o mentiranno per coprirle. Una classica
enunciazione di questo principio la troviamo
nella biografia romanzata di Washington
(Mason
Locke
Weems, The Life and
Memorable Actions of George Washington).
Ecco come il padre parla al piccolo George:
«Molti genitori, in verità, addirittura
costringono i loro figli a questa vile pratica [del
mentire], battendoli selvaggiamente per ogni
piccola colpa; quindi, alla prossima occasione, la
piccola creatura terrorizzata si lascia sfuggire
una menzogna! Solo per sfuggire alla verga. Ma
quanto a te, George, tu sai che ti ho sempre
detto, e ora te lo ripeto, che ogniqualvolta per
accidente tu fai qualcosa di sbagliato, il che deve
avvenire spesso, dacché tu non sei ancora che
un povero bambino, senza esperienza o
conoscenza, non devi mai dire il falso per
nasconderlo;
ma
venire
da
me
coraggiosamente, come un ometto, e
raccontarmelo; e invece di batterti, George, non
farò che amarti e rispettarti di più per questo,
mio caro». Sappiamo da altri aneddoti come
George si sia fidato di questa dichiarazione
paterna.
Non sono soltanto i bambini a rischiare di
più per l'atto in sé di mentire che dicendo la
verità. Può succedere, per esempio, che il
marito dica alla moglie che, benché offeso,
avrebbe potuto scusare la sua infedeltà se non
gli avesse mentito: la perdita di fiducia, a suo
dire, è più grave della perdita di convinzione
nella sua fedeltà. Forse la moglie non lo sapeva
e forse non è nemmeno vero. La confessione di
un tradimento può essere interpretata come
una crudeltà e il coniuge offeso può affermare
che la discrezione è un dovere per riguardo
all'altro. Marito e moglie possono dissentire su
questo punto, le idee possono cambiare nel
corso del matrimonio e gli atteggiamenti
possono mutare radicalmente una volta che una
relazione extraconiugale c'è stata davvero e non
si tratta più di un evento ipotetico.
Anche quando è certo che il danno a esser
colti in flagrante menzogna è maggiore di quello
provocato dalla confessione della colpa, la bugia
può lo stesso essere allettante, dato che dire la
verità comporta svantaggi certi e immediati,
mentre la menzogna fa intravedere la
possibilità di evitare qualunque danno. La
prospettiva di risparmiarsi una punizione
immediata può essere così attraente che il
desiderio di imboccare questa strada induce a
sottovalutare la probabilità di essere scoperti in
seguito e i costi che ne verrebbero. Che la
confessione sarebbe stata una miglior politica
viene riconosciuto troppo tardi, quando ormai
l'inganno è stato mandato avanti così a lungo e
con tale impegno che la confessione non ottiene
più una riduzione di pena.
A volte, invece, ci sono pochi dubbi circa i
costi che deriverebbero dalla confessione della
verità. Ci sono azioni che sono di per sé così
riprovevoli che a confessarle il colpevole non
otterrà certo un grande apprezzamento,
mentre il tentativo di nasconderle aggiunge
poco alla punizione che lo attende. È questo il
caso se la menzogna serve a tener nascosti fatti
come l'abuso dell'infanzia, l'incesto, l'omicidio,
l'alto tradimento o il terrorismo. A differenza
dei vantaggi possibili per il donnaiolo pentito,
non c'è da aspettarsi il perdono per chi confessi
delitti del genere (anche se confessione e
pentimento possono ottenere una riduzione di
pena). Né c'è il rischio che la menzogna di per sé
accresca l'indignazione morale, una volta
smascherata. In questa situazione non si
trovano solo persone malvagie o crudeli: l'ebreo
che celava la sua identità in un paese occupato
dai nazisti, o la spia in tempo di guerra, non
hanno nulla da guadagnare confessando e nulla
da perdere cercando di mantenere in piedi
l'inganno. Ma anche quando non ci sono
prospettive di veder ridotta la punizione, può
succedere lo stesso che sia resa confessione, per
scaricarsi dal peso di reggere la menzogna, per
eliminare la sofferenza causata da un'intensa
paura di essere scoperti, o per alleviare il
sentimento di colpa.
Un altro fattore da considerare a proposito
dell'influenza che la posta in gioco ha sul timore
di essere scoperto è quanto ha da perderci o
guadagnarci il destinatario dell'inganno, non il
suo autore. Di solito i vantaggi di quest'ultimo
sono a spese dell'altro: l'impiegato che fa
un'appropriazione
indebita
guadagna
esattamente quanto perde l'azienda. Ma i due
aspetti non sono sempre proporzionali: la
commissione che il venditore ottiene barando
sulle qualità del prodotto può esser molto
minore della perdita sofferta dal cliente che si
lascia ingannare. La posta in gioco per le due
parti può differire non solo quantitativamente
ma anche qualitativamente: una relazione
extraconiugale per il coniuge infedele può
significare solo un po' d'avventura, mentre per
quello tradito una perdita nel rispetto di sé.
Quando le due poste in gioco sono diverse, l'una
o l'altra indifferentemente possono determinare
il livello di ansia del mentitore.
Il bugiardo ha certo tutto l'interesse a
credere quello che serve ai suoi scopi e gli è
comodo pensare che il destinatario della
menzogna ne sia beneficato altrettanto, se non
più, di lui stesso. A volte è possibile: non tutte le
bugie nocciono agli altri. Ci sono anche bugie
altruistiche:
«Un bambino pallido e magro di 11 anni,
ferito ma vivo, è stato estratto ieri dalla
carcassa di un piccolo aereo precipitato
domenica nelle montagne dello Yosemite
National Park. Il suo organismo è sopravvissuto
a giorni di tormenta e a nottate sotto zero a
3.000 metri d'altezza, avvolto in un sacco a pelo
nel sedile posteriore del relitto sepolto nella
neve. Completamente solo. “Come stanno
mamma e babbo?”, ha chiesto il ragazzino
mezzo stordito. “Stanno bene?”. I soccorritori
non gli hanno detto che il patrigno e la madre
erano morti, ancora legati ai sedili nel posto di
guida distrutto, a pochi centimetri di distanza
da lui».35
Nessuno può negare che questa sia una
bugia altruistica, che giova soltanto al
destinatario e non all'autore. Questo non vuol
dire che l'apprensione all'idea di essere
smascherati non esista: se la posta in gioco è
alta, anche l'ansia sarà intensa, chiunque sia il
beneficiario. Preoccupati che il ragazzo non
potesse reggere al trauma, i soccorritori
dovevano essere molto in ansia per la riuscita
del loro pietoso inganno.
Riassumendo, l'apprensione per il rischio di
essere scoperti è massima quando:
il destinatario ha fama di essere duro da
raggirare;
la vittima è sospettosa fin dall'inizio;
il mentitore ha poca pratica e nessun
precedente successo;
il mentitore è particolarmente sensibile
alla paura di essere colto in fallo;
la posta in gioco è alta;
sono in gioco sia ricompense che punizioni,
o comunque è in gioco una punizione;
la punizione per la bugia smascherata è
grande, oppure la punizione per la colpa
da nascondere è così grande che non c'è
nessun incentivo a confessare;
il destinatario non trae nessun vantaggio
dalla menzogna.
IL SENSO DI COLPA
Il senso di colpa per la menzogna riguarda
l'emozione spiacevole che si prova per il fatto
stesso di mentire, ed è distinto dai sensi di colpa
per il contenuto della bugia: si può attivare
anche quando non ci si sente colpevoli per le
azioni che si cerca di nascondere. Basta
ripensare alla situazione del ragazzo nella
commedia di Rattigan. Supponiamo che avesse
rubato il vaglia a un compagno che aveva usato
dei trucchi sleali per vincerlo in una gara
scolastica: il furto gli sarebbe parso forse
soltanto una giusta vendetta, ma avrebbe
potuto provare egualmente senso di colpa per
aver nascosto il fatto all'insegnante o al padre.
Così Mary, la paziente psichiatrica, non si
sentiva in colpa per i suoi progetti di suicidio,
ma solo per aver mentito al medico.
Come l'apprensione, anche il senso di colpa
legato all'inganno può variare d'intensità. Può
essere lievissimo o così forte da far fallire
l'inganno, producendo indizi che mettono in
sospetto la vittima o che lasciano addirittura
trapelare la verità. Nei casi estremi, diventa
un'esperienza tormentosa, che mina i più
fondamentali sentimenti di autostima: il bisogno
di sollievo da un senso di colpa così intenso può
indurre alla confessione, malgrado la
prospettiva di essere punito per i misfatti
rivelati. Anzi, la punizione può esser
precisamente quello che ci vuole per placare il
proprio tormento.
Al momento di architettare una bugia, non
sempre si riesce a prevedere esattamente
l'intensità del senso di colpa che si proverà in
seguito: non è facile rendersi conto dell'effetto
che potrà fare sentirsi ringraziare dalla vittima
per un'apparente benevolenza, oppure vedere
qualcun altro accusato dei propri misfatti.
Normalmente situazioni del genere suscitano un
sentimento di colpa, ma per qualcuno è proprio
questo che dà sapore alla cosa (parlerò più
avanti di questa reazione, a proposito del
piacere della beffa).
Un'altra ragione per cui il senso di colpa per
l'inganno viene normalmente sottovalutato è
che solo col passare del tempo ci si accorge che
non basta una sola bugia, che la menzogna
dev'essere ripetuta all'infinito, spesso con
costruzioni sempre più elucubrate per tenere in
piedi l'inganno di partenza.
La vergogna è affine al senso di colpa, ma c'è
una differenza cruciale. Per sentirsi in colpa non
c'è bisogno di avere un pubblico, non importa
che qualcun altro sia al corrente, perché il
colpevole è il giudice di se stesso. Non così per la
vergogna: l'umiliazione in questo caso richiede
la disapprovazione o lo scherno degli altri. Se
nessuno viene mai a sapere di un misfatto non
ci sarà vergogna, ma può sempre esserci il
senso di colpa. Ovviamente, possono esser
presenti tutti e due. La distinzione fra vergogna
e senso di colpa è molto importante, in quanto
queste due emozioni possono produrre due
impulsi contraddittori: il desiderio di calmare il
senso di colpa può indurre alla confessione, il
desiderio di evitare la vergogna può impedirla.
Supponiamo che Ronnie, il ragazzo della
commedia, avesse rubato davvero e si sentisse
estremamente in colpa per questo e per aver
nascosto la cosa. Può darsi che voglia confessare
per liberarsi dalla tortura della coscienza
sporca, ma che la vergogna che prova all'idea
della reazione paterna lo blocchi. Per
incoraggiare una confessione, si ricorderà che il
padre offre totale amnistia. Ridurre il timore
della punizione dovrebbe attenuare la paura di
essere scoperto, ma c'è ancora il problema di
eliminare o almeno diminuire la vergogna se si
vuole che il ragazzo si decida a confessare. È
quello che fa il padre dicendo che lo perdonerà,
ma l'effetto avrebbe potuto essere potenziato
aggiungendo per esempio: «Posso capire il
furto, avrei potuto farlo anch'io se fossi stato
nella tua situazione, con una tentazione così
forte. Tutti facciamo degli sbagli nella vita e si
fanno cose che più tardi si riconoscono sbagliate.
A volte proprio non se ne può fare a meno».
Certe persone sono particolarmente
vulnerabili alla vergogna e ai sensi di colpa. Fra
loro troveremo quelli che sono stati educati
molto rigidamente nella convinzione che
mentire sia uno dei peccati più tremendi. In
altri casi non ci sarà stata una condanna
particolare della menzogna, ma più in generale i
genitori avranno installato un diffuso e intenso
sentimento di colpa. Queste persone sembra
che cerchino proprio quelle esperienze che
possono esasperare il loro senso di colpa ed
esporle con vergogna agli occhi del prossimo.
Purtroppo esistono pochissime ricerche su
questi individui, mentre sappiamo qualcosa di
più su quelli che si collocano all'altro estremo.
Il giornalista Jack Anderson ci dà una vivace
descrizione del comportamento di un bugiardo
che non prova né vergogna né senso di colpa. In
un corsivo polemico descrive questo quadretto
di vita familiare che ha per protagonista un noto
personaggio, di cui Anderson contesta appunto
la credibilità: la moglie ha appena scoperto che
la tradisce da quattordici anni e lui, «quando
finalmente arrivò a casa, si sbarazzò con
un'alzata di spalle delle richieste di spiegazione:
“Sicché mi hai scoperto”, disse alla moglie. “Te
l'ho sempre detto che sono il più grande
bugiardo del mondo”. Poi si accomodò sulla sua
poltrona favorita, ordinò per cena un piatto
cinese e chiese alla moglie di fargli un po' di
manicure».36
L'incapacità assoluta di provare vergogna o
sentirsi in colpa per i propri misfatti è
considerato
segno
caratteristico
dello
psicopatico, se si estende a quasi tutti gli aspetti
della vita. Fra gli specialisti si discute se
attribuire l'assenza di questi sentimenti alle
esperienze infantili o a una qualche
determinante biologica, ma c'è accordo sul fatto
che né la colpa per la menzogna né la paura di
essere scoperto indurranno uno psicopatico a
commettere degli errori.
Quando però non c'è comunanza di valori fra
l'autore e la vittima dell'inganno, il senso di
colpa è scarso. Si prova poco imbarazzo a
mentire a persone che secondo noi si
comportano male: se la moglie è frigida e
scostante, il marito non si sentirà in colpa se la
tradisce; un rivoluzionario o terrorista
difficilmente prova sentimenti di colpa se cerca
di ingannare i rappresentanti dello Stato e lo
stesso vale per una spia nei rapporti con gli
agenti avversari. Com'ebbe a dire concisamente
un ex agente della CIA, «tolte le chiacchiere
propagandistiche, il mestiere della spia è tradire
la fiducia del prossimo».37 Quando mi è stata
chiesta una consulenza dai servizi di sicurezza,
sulle tracce di un gruppo di terroristi che
progettava un attentato contro un importante
funzionario governativo, ho dovuto prescindere
dal senso di colpa per l'inganno, ai fini di
eventuali segni rivelatori. Un attentatore può
aver paura di essere catturato, specialmente se
non è un professionista, ma è improbabile che si
senta in colpa per l'omicidio che ha progettato.
Un professionista del crimine non prova
sentimenti di colpa per il fatto di ingannare chi è
all'oscuro dei suoi piani. Lo stesso principio
serve a spiegare perché un diplomatico o un
agente del controspionaggio non si senta in
colpa quando mente alla parte avversa. Non
esistono valori in comune: chi mente fa bene,
per la parte che rappresenta.
D'altra parte, in questi casi la menzogna è
autorizzata: chi mente si richiama a una ben
definita norma sociale che legittima l'inganno
nei confronti della parte avversa. Il senso di
colpa è ridotto al minimo se il destinatario è
portatore di valori diversi e incompatibili. Ma
può esserci menzogna autorizzata anche quando
l'ingannato non è un avversario e condivide i
valori di chi l'inganna. Il medico può non sentirsi
in colpa nel mentire al paziente, se pensa di
farlo per il suo bene. La somministrazione di
placebo, innocue pillole di zucchero fatte
passare per medicine, è un antico e rispettabile
trucco. Se il paziente si sente meglio, o almeno
smette di perseguitare il curante con la
richiesta di un farmaco inutile o magari anche
dannoso, molti medici pensano che la bugia sia
giustificata.
D'altra parte, il giuramento d'Ippocrate non
esige l'onestà verso il paziente: il medico è
tenuto a fare quello che è utile al paziente.38 Il
prete che tace alla polizia il nome del colpevole
appreso in confessione non si sente in colpa per
questo: i suoi voti lo autorizzano, anzi
l'obbligano a tacere, senza che gliene venga
alcun vantaggio. Neppure le allieve infermiere
del mio esperimento provavano sentimenti di
colpa per il fatto di dissimulare le loro emozioni,
cosa esplicitamente legittimata dalle mie
istruzioni e dagli esempi che spiegavano come
nascondere le reazioni spontanee sia un dovere
professionale nel lavoro ospedaliero.
Chi mente può non ammettere che una
cosiddetta “bugia pietosa”, anziché essere del
tutto altruistica, torni anche a suo vantaggio; è
vero che tacendo su verità spiacevoli si
risparmia al destinatario un dispiacere, ma
anche chi tace si risparmia il fastidio di fare i
conti con la delusione dell'altro, se non con le
sue proteste. La menzogna risparmia qualcosa
di spiacevole a tutti e due. Naturalmente, si
potrebbe anche sostenere che l'interessato ne è
danneggiato,
in
quanto
gli
manca
un'informazione che, per quanto sgradevole,
potrebbe indurlo a far meglio o a prendere
certe precauzioni. Per esempio, si può sostenere
che il medico che somministra un placebo, pur
mentendo a vantaggio del paziente, ottiene
qualche vantaggio anche per sé: si evita la noia
di affrontare la frustrazione o il disappunto del
paziente per il fatto che non esistono medicine
per la sua malattia, oppure la sua rabbia se
dovesse scoprire che il medico gli prescrive dei
placebo perché lo considera un ipocondriaco.
Ancora una volta, è discutibile se la bugia in
realtà sia utile o nociva al paziente.
Esistono tuttavia menzogne totalmente
altruistiche (quella del prete vincolato dalla
confessione, quella dei soccorritori che non
dicono al bambino ferito che i suoi genitori sono
morti nell'incidente), menzogne nelle quali
l'autore non ha nessun tornaconto personale. Se
pensa di non ricavarne alcun vantaggio, chi
mente non si sentirà in colpa per la sua bugia.
Anche le menzogne dichiaratamente
utilitarie possono non creare sensi di colpa
quando sono autorizzate dalla situazione. I
giocatori di poker non si sentono certo in colpa
quando bluffano, come non si sente in colpa chi
negozia un affare, non importa se in un bazar
levantino, a Wall Street, o in un'agenzia
immobiliare. In un articolo sull'uso degli inganni
nel mondo dell'industria leggiamo: «Forse la più
famosa di tutte le bugie è: “Questa è la mia
ultima offerta”. Un tale linguaggio non solo è
accettato nel mondo degli affari, ma tutti se lo
aspettano... Durante una contrattazione
collettiva, per esempio, nessuno si presume che
debba mettere tutte le carte in tavola fin
dall'inizio».39 Così il proprietario che chiede per
un immobile un prezzo maggiore di quello a cui
è in realtà disposto a venderlo non si sentirà in
colpa se riesce a venderlo al prezzo richiesto: la
sua è una menzogna autorizzata. Poiché i
partecipanti
si
aspettano
informazioni
inattendibili, non la verità, situazioni come le
trattative commerciali o il gioco del poker non
soddisfano nessuna definizione di menzogna.
Sono situazioni che per loro natura
preavvertono che nessuno sarà sincero. Solo
uno sciocco mostrerebbe le carte che ha in
mano, o dichiarerebbe in partenza il prezzo più
basso che è disposto ad accettare per la casa
che mette in vendita.
Il senso di colpa per l'inganno è ovviamente
più probabile quando la menzogna non è
autorizzata. Dovrebbe essere particolarmente
intenso quando la vittima è fiduciosa e non si
aspetta di essere tratta in inganno. In queste
menzogne opportunistiche, il senso di colpa
sarà maggiore se il danno per la vittima è
almeno altrettanto grande quanto il vantaggio
del mentitore. Ma anche in questi casi bisogna
che ci sia un minimo di valori in comune. La
ragazzina che fuma spinelli di nascosto dai
genitori può non provare nessun sentimento di
colpa per questo suo inganno se pensa che i
genitori hanno torto a considerare dannosa la
marijuana e crede di sapere per esperienza che
il loro giudizio è sbagliato. Se poi li considera
anche degli ipocriti, che si ubriacano
regolarmente ma non le permettono di usare la
droga di sua scelta, è ancora più improbabile
che si senta in colpa per il fatto di ingannarli.
Ma pur in disaccordo con loro sugli spinelli e su
altro, il suo legame affettivo con i genitori
potrebbe farle provare vergogna se scoprissero
le sue bugie. La vergogna presuppone un certo
rispetto verso coloro che manifestano la loro
disapprovazione,
altrimenti
quest'ultima
susciterà soltanto rabbia o disprezzo.
Il sentimento di colpa è minore quando la
vittima dell'inganno è impersonale o totalmente
anonima. La cliente che tace alla cassiera un
errore di conto a proprio favore si sente meno
in colpa se non conosce l'impiegata. Se invece di
un'impiegata alla cassa c'è il proprietario e il
negozio è un esercizio a conduzione familiare, la
cliente si sentirà più colpevole che in un grosso
supermercato. È più facile indulgere alla
fantasia rassicurante che la vittima dell'inganno
non soffre un danno reale, non se ne cura e non
se ne accorgerà nemmeno (o addirittura si
merita di essere ingannata), se è totalmente
anonima.40
Spesso c'è una correlazione inversa fra il
senso di colpa per l'inganno e il timore di essere
scoperti: tutto ciò che attenua la colpa accresce
la paura di essere colti in fallo. Quando l'inganno
è legittimato dalla situazione non ci sarà senso
di colpa, ma l'autorizzazione aumenta la posta in
gioco, esasperando l'ansia. Proprio perché la
dissimulazione era rilevante ai fini della loro
professione (e quindi del tutto legittima) le
allieve infermiere del mio esperimento si
preoccupavano abbastanza da aver paura di
fallire lasciando trasparire le loro autentiche
emozioni: in sostanza, minimo senso di colpa e
alto livello d'ansia. Così il datore di lavoro che
mente all'impiegato sospetto di malversazioni,
dissimulando i suoi sospetti per coglierlo in
flagrante, proverà forse una certa apprensione
all'idea che l'altro se ne accorga, ma non si
sentirà in colpa perché lo inganna.
Viceversa, i fattori stessi che accrescono il
senso di colpa possono attenuare l'apprensione
di essere scoperti. Il bugiardo si sentirà più in
colpa se mente a qualcuno che si fida di lui, ma
avrà anche meno paura di essere smascherato
da una persona che non si aspetta di essere
sfruttata. Naturalmente, è possibile provare
entrambe le emozioni con intensità, oppure non
provare né l'una né l'altra: dipende dalle
caratteristiche particolari della situazione, di chi
mente e di chi dovrebbe smascherarlo.
Alcuni sguazzano nel senso di colpa per le
bugie che dicono. Parte della motivazione a
mentire può essere addirittura un pretesto per
sentirsi colpevoli. Ma la maggior parte delle
persone trova l'esperienza della colpa così
insopportabile che cerca il modo di ridurla. Ci
sono tante maniere di giustificare l'inganno. Si
può considerarlo una rappresaglia per
un'ingiustizia subita. Una persona crudele o
meschina non merita onestà e sincerità, oppure
la vittima può apparire così ingenua e credulona
che «se lo merita», agli occhi del truffatore: il
pollo aspetta solo di essere spennato.
Di altre due giustificazioni che attenuano il
senso di colpa si è già parlato. Una è uno scopo
nobile o un'esigenza dettata dalla propria
posizione (si ricorderà che Nixon rifiutava di
chiamare “menzogne” le sue non-verità,
considerandole necessarie per ottenere e
mantenere
il
suo
incarico).
L'altra
giustificazione è proteggere il destinatario
dell'inganno. A volte il bugiardo si spinge fino ad
affermare che la vittima era una vittima
volontaria. Se il destinatario della menzogna ha
collaborato, ha sempre saputo la verità ma ha
finto di non conoscerla, allora in un certo senso
non c'è stata menzogna e l'autore dell'inganno è
libero da qualunque responsabilità. Una vittima
davvero volontaria aiuta il bugiardo a reggere
l'inganno, fingendo di non vedere eventuali
segni rivelatori.
Un esempio interessante di vittima
consenziente lo troviamo in alcune recenti
rivelazioni su Robert Leuci, il poliziotto infiltrato
nella malavita come informatore della
magistratura federale, la cui storia è stata
divulgata in un libro e in un film di successo (vi
ho già accennato nel Cap. II). Quando offrì la
sua collaborazione ai procuratori federali, questi
gli chiesero quanti reati avesse commesso egli
stesso. Leuci ne ammise tre soli. I poliziotti e
avvocati corrotti incriminati in seguito sulla
base delle sue rivelazioni affermavano che i
reati a suo carico erano molto più numerosi:
avendo mentito sul proprio conto, la sua
testimonianza a loro carico avrebbe dovuto
essere screditata. Queste affermazioni non sono
però mai state provate e molti sono stati
condannati grazie alla testimonianza di Leuci.
Alan Dershowitz, il difensore di uno di questi,
riferisce questa conversazione con Leuci al
termine del processo:
«Gli dissi che mi era difficile credere che il
procuratore non fosse al corrente già prima
degli altri suoi reati. Leuci mi rispose: “Sono
convinto che in cuor suo lo sapesse bene che ne
avevo commessi di più. Non poteva non saperlo,
non è mica uno sciocco”.
“E allora come poteva starsene lì seduto a
guardarti mentre testimoniavi il falso?”, gli
chiesi.
“Consciamente non sapeva per certo che
mentivo”, continuò. “Sicuramente lo sospettava
e probabilmente lo credeva, ma io gli avevo
detto di non mettermi alle strette e lui non l'ha
fatto. Quando gli ho risposto 'tre reati' (qui
Leuci alzò tre dita con un largo sorriso) ha
dovuto accettarlo per buono. Lo sai bene, la
pubblica accusa non fa altro che subornare i
testimoni”».41
In seguito Dershowitz venne a sapere che
anche questa confessione di menzogna era falsa,
ma, quale che sia la verità, la conversazione fra
il poliziotto e l'avvocato ci dà un ottimo esempio
di come il destinatario consapevole di una
menzogna che torna a suo vantaggio possa
aiutare l'autore dell'inganno a portarlo a buon
fine. La collaborazione può essere data per
ragioni più o meno machiavelliche. Nelle forme
mondane di cortesia, il destinatario della bugia è
spesso consenziente. La padrona di casa accetta
la scusa accampata dall'ospite per andar via
prima del tempo, senza indagare troppo a
fondo: quello che conta è l'assenza di
maleducazione, un pretesto qualunque per non
ferire la sua sensibilità. Poiché il destinatario è
non solo consenziente ma ha in un certo senso
autorizzato in partenza l'inganno, le non-verità
richieste dalle buone maniere non rientrano
nella mia definizione della menzogna.
I rapporti amorosi offrono altri esempi di
innocua menzogna, in cui entrambi collaborano
dando corda ciascuno alle bugie dell'altro. Scrive
Shakespeare:
Se giura l'amor mio d'essermi tutta
fede,
Io le credo, pur sapendo quanto mente
Tanto m'abbia per un ignaro giovane
Poco esperto nelle sottili falsità del
mondo.
Così, nella lusinga vana ch'ella mi creda
giovane,
Pur sapendo i miei giorni già volti sul
declino,
Sciocco do fede alla sua lingua
menzognera,
In tal modo è a vicenda la chiara verità
taciuta:
Ma perché ella mi tace che m'inganna?
E io, perché non dico che son vecchio
oramai?
Oh, ad amor si addice una apparente
fiducia,
E in amor la vecchiaia non ama che si
contino gli anni.
Per questo io le mentisco e lei mentisce
a me
E nei nostri difetti menzogna ci
lusinga.42
Naturalmente non tutti gli inganni amorosi
sono così innocui, né sempre il destinatario è
così consenziente. Non possiamo fidarci di
quello che ne dicono i bugiardi, che hanno tutto
l'interesse a considerare vittime volontarie i
destinatari dei loro inganni, per sentirsi meno
colpevoli.
La vittima involontaria può col tempo
diventare volontaria, per evitare di pagare il
prezzo che comporta la scoperta dell'inganno.
Roberta Wohlstetter descrive vari casi di
statisti che sono diventati vittime volontarie dei
loro avversari (Chamberlain non è davvero un
caso isolato): «In tutti questi esempi di errore
persistente, a fronte di crescenti e talora
piuttosto crude prove a sfavore, un ruolo
importantissimo lo svolgono le credenze
lungamente accarezzate e le supposizioni
rassicuranti circa la buona fede del potenziale
avversario e circa i supposti interessi comuni
condivisi dall'antagonista [...]. All'avversario
può bastare mettere un po' la vittima sulla
strada; ci penserà poi quest'ultima a giustificare
con qualche spiegazione quelle che altrimenti
potrebbero apparire mosse minacciose».43
Riassumendo, il senso di colpa per l'inganno
sarà massimo quando:
il destinatario non è una vittima
volontaria;
l'inganno è totalmente egoistico e il
destinatario non ne ricava alcun
vantaggio, in particolare se la sua perdita
è almeno pari al guadagno del mentitore;
l'inganno non è autorizzato dalla
situazione, che prevede invece un
rapporto d'onestà;
chi mente non esercita da lungo tempo
l'arte di mentire;
autore e vittima dell'inganno condividono
gli stessi valori sociali;
autore e vittima si conoscono
personalmente;
la vittima non può essere incolpata per la
sua meschinità o ingenuità eccessiva;
la vittima non ha ragione di aspettarsi un
inganno, anzi l'autore ha agito in modo da
guadagnarsi la sua fiducia.
IL PIACERE DELLA BEFFA
Finora ho parlato soltanto di sentimenti
negativi: il timore di essere smascherato, il
senso di colpa per il fatto d'ingannare la vittima.
Ma la bugia può suscitare anche sentimenti
positivi. L'inganno può esser visto come
un'impresa riuscita ed assumere così un aspetto
decisamente migliore: chi mente può provare
eccitazione sia prima che durante l'azione,
quando ancora il successo è incerto, e, dopo il
piacere del sollievo, l'orgoglio di avercela fatta, il
senso di superiorità verso la vittima. Il piacere
della beffa riguarda tutte queste emozioni che
possono, se non vengono dissimulate, tradire
l'inganno. Un esempio innocente di piacere della
beffa si ha quando questa prende la forma di
uno scherzo ai danni di un amico credulone: chi
conduce la beffa deve nascondere il piacere che
prova, anche se la sua recita può essere in gran
parte rivolta ad altri che si divertono a vedere
come cade in trappola l'ingenuo.
Il piacere della beffa varia d'intensità. Può
essere del tutto assente, quasi insignificante in
confronto all'ansia, oppure tanto forte che
qualche segno traspare a livello di
comportamento. Qualcuno arriva a confessare
l'inganno perché non riesce a tenere tutta per
sé la soddisfazione di averla fatta franca. Si sa di
criminali che hanno rivelato il loro delitto ad
amici, ad estranei, perfino alla polizia, pur di
vedersi riconosciuta e apprezzata l'astuzia con
cui hanno saputo portare a termine un inganno.
Come gli scacchi o l'alpinismo, la menzogna
può essere godibile solo se c'è qualche rischio.
Quando, nei primi anni '50, ero studente
all'Università di Chicago, era di moda rubare
alla libreria universitaria. Quasi un rito
d'iniziazione per le matricole, il furto si limitava
generalmente a qualche libro e la conquista era
abbondantemente esibita e apprezzata. Il senso
di colpa era minimo: secondo la cultura
studentesca, la libreria dell'Università avrebbe
dovuto essere una cooperativa, e siccome
invece era gestita a scopo di lucro meritava
questo trattamento (le librerie private nei
dintorni venivano al contrario rispettate).
Anche il timore di essere scoperti era scarso,
perché nel locale non c'erano misure di
sicurezza. Una persona sola è stata scoperta in
tutto il tempo che ho frequentato la libreria, e a
tradirla è stato proprio il piacere della beffa. A
Bernard non bastavano i soliti furti. Doveva
aumentare i rischi per soddisfare il proprio
orgoglio, mostrare tutto il disprezzo che
provava verso la libreria e ottenere
l'ammirazione dei compagni. Rubava solo grossi
libri d'arte, difficilissimi da nascondere. Dopo un
po' questo gioco divenne monotono, e allora
aumentò la posta prendendo due o tre libri
d'arte per volta. Era ancora troppo facile.
Cominciò a provocare i commessi. Indugiando
nei pressi della cassa coi suoi trofei sotto
braccio, non faceva nessun tentativo di
nascondere i libri. Sfidava i commessi a
interrogarlo. Il piacere della beffa lo motivava a
provocare sempre di più il destino. In parte a
tradirlo furono proprio i segni comportamentali
di gioia e divertimento. Quando finalmente fu
colto sul fatto, nella sua stanza furono trovati
quasi cinquecento libri rubati. Bernard in
seguito è diventato un ricchissimo uomo
d'affari, assolutamente rispettabile.
Ci sono altri modi per alimentare il piacere
della beffa. Se la vittima dell'inganno ha fama di
essere un osso duro, questo dà sapore alla cosa,
accrescendo il piacere della beffa. Un altro
elemento che contribuisce a dare maggior
soddisfazione è la presenza di altre persone al
corrente della cosa. Non è necessaria la
presenza fisica del pubblico, purché questo sia
attento e in grado di apprezzare. Se poi il
pubblico è presente alla scena, il piacere è al
culmine, ma è anche più difficile non lasciarlo
trasparire. Un abile giocatore di poker riesce a
controllare qualunque segno del piacere che gli
dà l'idea di beffare gli avversari: quando si
trova servito con un punto molto forte, le sue
azioni devono sviare i sospetti, in modo che gli
altri, convinti che non abbia in mano buone
carte, rilancino e restino in gioco. Anche se c'è
intorno qualche spettatore che ha visto le sue
carte, deve saper inibire ogni manifestazione di
allegria: la cosa più facile in questi casi è evitare
assolutamente di incontrare gli sguardi dei
ficcanaso.
All'atto di mentire, è possibile provare
(contemporaneamente o in successione) sia il
piacere della beffa che il senso di colpa per
l'inganno o il timore di essere scoperti.
Pensiamo ancora una volta al poker. In un bluff,
il giocatore che ha carte pessime e finge di
averne così buone da indurre gli altri a uscire
dal gioco può provare una certa apprensione se
il piatto è diventato molto ricco; via via che gli
altri si ritirano impauriti, sopravviene anche il
piacere della beffa. Non dovrebbero esserci
sensi di colpa, a meno che il giocatore abbia in
qualche modo barato, visto che il gioco autorizza
l'inganno. L'impiegata che truffa la sua ditta può
provare tutti e tre questi sentimenti: la
soddisfazione di aver beffato i colleghi e il
datore di lavoro, l'apprensione ogni qualvolta
pensa che possono esserci dei sospetti sul suo
conto e magari il senso di colpa per aver violato
la legge e tradito la fiducia degli altri.
Riassumendo, il piacere della beffa sarà
massimo quando:
la vittima pone una sfida, avendo fama di
osso duro;
l'inganno stesso è una sfida, a ragione di
ciò che dev'essere dissimulato o delle
invenzioni che questo richiede;
altri osservano o sono al corrente della
cosa e apprezzano l'abilità del mentitore.
Senso di colpa, paura e piacere possono
manifestarsi tutti nell'espressione del viso, nella
voce, nei movimenti del corpo, anche quando si
cerca di nasconderli. Pur riuscendo a non far
trasparire queste emozioni, lo sforzo per
impedirlo può dar luogo a indizi che fanno
sospettare un inganno. I prossimi due capitoli
spiegano come si può individuare la bugia dalle
parole, dalla voce, dalla mimica e dai movimenti
del corpo.
IV
Riconoscere l'inganno dalle
parole, dalla voce o dai gesti
«Come mai sapete che ho detto una bugia?».
«Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito,
perché ve ne sono di due specie. Vi sono le
bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che
hanno il naso lungo: la tua per l'appunto è di
quelle che hanno il naso lungo» [Pinocchio].
Se ciò che viene detto a Pinocchio fosse vero,
certamente la gente direbbe meno bugie, ma il
fatto è che non c'è nessun segno della
menzogna in sé, nessun gesto, espressione del
viso o spasmo muscolare che in sé e per sé
significhi che una persona sta mentendo. Ci
sono soltanto indizi indiretti da cui può
trasparire qualcosa. Chi cerca di mascherare
bugie deve sapere come si manifestano le
emozioni nel linguaggio, nella voce, nella mimica
e nei gesti, deve conoscere le tracce che possono
restare malgrado gli sforzi per dissimulare i
sentimenti e che cosa tradisce la falsità di
emozioni simulate.
Cogliere sul fatto la bugia non è una cosa
semplice. Un problema è il bombardamento
d'informazioni. Ci sono troppe cose da prendere
in considerazione, troppe fonti da tener
d'occhio: parole, pause, tono di voce,
espressioni, movimenti del capo, gesti,
posizione, respirazione, rossore o pallore,
sudore, ecc. E tutte queste fonti possono
trasmettere informazioni contemporaneamente
o
quasi,
contendendosi
l'attenzione
dell'osservatore. Per fortuna non è necessario
scrutinarle tutte con la stessa cura: non tutte le
fonti d'informazione sono attendibili nella
conversazione e alcune lasciano trasparire più
di altre. Stranamente, la maggior parte della
gente presta più attenzione alle fonti meno
degne di fede (le parole e la mimica facciale) e
così si lascia facilmente trarre in inganno.
Chi mente di solito non sorveglia, controlla e
camuffa tutto quanto il proprio comportamento.
Probabilmente non potrebbe farlo nemmeno se
volesse: è difficile immaginare che si possa
controllare efficacemente tutta la gamma di
aspetti comportamentali che potrebbero
tradirci. Semmai il bugiardo nasconderà e
camufferà quello su cui si aspetta che gli altri
debbano concentrare l'attenzione. La massima
cura è dedicata, per cominciare, alla scelta delle
parole. Ciascuno di noi impara fin da bambino
che la gente ascolta attentamente quello che si
dice.
Le parole ricevono tutta questa attenzione
perché sono, ovviamente, il modo più ricco e
differenziato di comunicare, capaci di
trasmettere messaggi più numerosi e
incomparabilmente più rapidi rispetto alla
mimica, alla voce o ai movimenti del corpo. Il
bugiardo esercita una forte censura su quello
che dice, occultando con cura i messaggi che non
vuole inviare, non solo perché è consapevole
che tutti fanno attenzione a questo canale
d'informazione, ma anche perché sa che gli
verrà chiesta ragione più delle parole dette che
di come le ha dette.
Un'espressione irata o un tono di voce aspro
possono sempre esser negati, costringendo
l'accusatore alla difensiva: «Sei tu che l'hai
sentita così. Nella mia voce non c'era nessuna
rabbia». È molto più difficile negare di aver
detto una parola irata: la sua realtà è
innegabile, facile da rinfacciare.
Un'altra ragione per cui le parole sono
sorvegliate con tanta cura è che è facile fingere
a parole, cioè affermare cose non vere: è
possibile addirittura mettere giù per iscritto
quello che si vuol dire e rivederlo e riformularlo
in anticipo. Solo un attore ottimamente
addestrato potrebbe programmare con la
stessa precisione ogni espressione del viso, ogni
gesto ed inflessione della voce. Le parole si
possono ripassare quante volte si vuole. Chi
parla dispone di una continua informazione di
ritorno, ascoltando le proprie parole, cosicché
può aggiustare il tiro, mentre l'informazione di
ritorno proveniente dagli altri canali (mimica,
voce, corpo) è molto meno precisa.
Dopo le parole, il viso è quello che riceve la
maggiore attenzione dagli altri. Capita di
sentirsi fare osservazioni circa l'aspetto del
proprio viso: «Non mi guardare con codesta
aria da presa in giro», «Potresti sorridere
quando lo dici», «Togliti dalla faccia codesta
espressione!». Al viso si presta attenzione
soprattutto perché è il segno distintivo e il
simbolo dell'identità personale: i volti sono
icone, celebrate in fotografie appese alle pareti,
esposte sulla scrivania, portate con sé nel
portafoglio. Recenti ricerche hanno evidenziato
che una parte del cervello è specializzata nel
riconoscimento dei visi umani.44
Ci sono varie altre ragioni per cui le persone
fanno tanta attenzione al volto. Il volto è la sede
primaria per manifestare le emozioni, sebbene
non dia sempre informazioni attendibili. Se c'è
qualche difficoltà a udire le parole, osservare le
labbra può aiutare la comprensione.
L'attenzione rivolta al viso dell'interlocutore
fornisce inoltre un segnale importante per la
prosecuzione del dialogo: colui che parla vuol
sapere se gli altri l'ascoltano ed essere guardato
in faccia lo rassicura in questo senso (anche se,
questo va detto, non sempre a ragione).45
In confronto all'attenzione riservata alle
parole e al volto, il corpo e la voce non ne
ricevono molta. Non si perde granché, dato che
di solito il corpo fornisce molte meno
informazioni del viso, la voce molte meno delle
parole. I gesti delle mani potrebbero
trasmettere molti messaggi ma, se si prescinde
dal caso particolare dell'alfabeto dei sordomuti,
non
sono
usati
normalmente
nella
conversazione, a meno che il linguaggio verbale
non sia impedito.46 La voce, come il viso, può
mostrare se una persona è emozionata o no, ma
forse non ci dice di quale emozione esattamente
si tratti.
Il bugiardo di solito sorveglia e cerca di
controllare le parole e l'espressione del viso,
sapendo che gli altri concentrano lì la loro
attenzione. La finzione e la dissimulazione
riescono meglio con le parole che con la mimica,
perché sono più facili da sorvegliare e da
sottoporre a censura. È infatti molto più difficile
sapere che faccia mostriamo agli altri: per avere
un'altrettanto chiara informazione di ritorno
dovremmo tenere uno specchio sempre davanti
agli occhi. È vero che certe sensazioni
provenienti dai muscoli facciali potrebbero
segnalarci le loro tensioni e i loro movimenti,
ma le mie ricerche dimostrano che la gente non
utilizza molto questo tipo d'informazione: solo
pochi si rendono conto delle espressioni che si
stanno dipingendo sul loro volto, finché queste
non diventano estremamente vistose.47 Ma c'è
una ragione anche più importante che spiega la
scarsa capacità di controllo sui movimenti del
viso: esso, a differenza del linguaggio verbale, è
direttamente collegato a quelle zone del cervello
che intervengono nelle emozioni. Quando nasce
un'emozione, i muscoli facciali si attivano in
maniera automatica. È solo per abitudine o per
scelta volontaria che impariamo a impedire
queste espressioni, cercando un modo più o
meno efficace per nasconderle.
L'espressione iniziale che si affaccia in
concomitanza con l'emozione non è scelta
deliberatamente, a meno che sia falsa. La
mimica facciale è un sistema duplice, volontario
e involontario, capace di mentire e di dire la
verità, spesso contemporaneamente. È per
questo che le espressioni del volto possono
essere così complesse, ambigue e affascinanti.
Nel prossimo capitolo spiegherò meglio la base
neurologica di questa distinzione fra espressioni
volontarie e involontarie.
Chi sospetta un inganno dovrebbe fare più
attenzione alla voce e al corpo. Anche la voce,
come il viso, è collegata a zone del cervello
coinvolte nelle emozioni. È difficilissimo
nascondere
alcuni
cambiamenti
che
intervengono nella voce quando si è emozionati.
E l'informazione di ritorno circa il suono della
propria voce, necessaria per controllare il
messaggio inviato agli altri quando si mente,
forse non è altrettanto attendibile quanto quella
delle parole pronunciate. Quasi tutti siamo
sorpresi la prima volta che ci ascoltiamo al
registratore, perché normalmente il suono della
nostra voce ci arriva per via ossea, con un
effetto diverso da quello che risulta nella
trasmissione aerea.
Anche il corpo è un buon canale per lasciar
trasparire indizi compromettenti. A differenza
della mimica facciale o della voce, la maggior
parte dei movimenti corporei non è legata a vie
nervose che fanno capo a zone cerebrali
direttamente interessate dalle emozioni. Non è
che controllare i movimenti corporei sia difficile
in sé; una persona sente e spesso vede che cosa
sta facendo il suo corpo e nascondere i
movimenti degli arti è molto più facile che
dissimulare un'espressione spontanea del viso o
l'alterazione della voce nell'emozione, ma
generalmente non ce ne preoccupiamo: fino da
piccoli abbiamo imparato che non ce n'è
bisogno. È raro che uno debba rendere ragione
di quello che rivelano i suoi movimenti corporei.
Il corpo lascia trapelare molto proprio perché
viene ignorato: tutti sono troppo occupati a
soppesare le parole e a spiare il volto di chi
parla.
Tutti sappiamo che le parole possono
mentire, ma le mie ricerche dimostrano che la
gente bada soprattutto alle parole e si lascia
spesso fuorviare. Questo ovviamente non vuol
dire che il contenuto del discorso debba essere
ignorato: a parte certi errori rivelatori, spesso è
proprio la discrepanza fra le parole e ciò che
rivelano la voce, i gesti, l'espressione facciale, a
tradire una menzogna. Tuttavia, la maggior
parte degli indizi che provengono da questi tre
canali viene ignorata o interpretata male. Ho
potuto verificare questa tendenza in numerose
ricerche in cui chiedevo ai soggetti di valutare la
sincerità delle persone sulla base di interviste
videoregistrate.
Ad alcuni presentavo soltanto il viso dei
soggetti, ad altri solo il corpo, ad altri ancora le
parole filtrate in modo da renderle inintelligibili,
ma conservando intatto il tono della voce, ad
altri infine le parole al naturale o la loro
trascrizione. Il materiale era stato raccolto tutto
sullo stesso gruppo di persone, le allieve
infermiere di cui ho parlato nel capitolo
precedente. Come si ricorderà, metà delle
risposte alle interviste erano sincere e metà
false.
Nella ricerca sulla capacità di riconoscere
sincerità e menzogne, non ci interessava
soltanto accertare quale canale fosse il più
efficace (viso, corpo, voce o parole), ma anche
vedere se le persone messe in sospetto se la
cavassero meglio di quelle che non si
aspettavano un inganno. Abbiamo diviso quindi
i soggetti in due gruppi. Un gruppo è stato
messo al corrente delle condizioni effettive in
cui erano state raccolte le videoregistrazioni,
l'altro l'abbiamo lasciato del tutto all'oscuro,
senza parlare affatto di possibili menzogne; per
non sollevare sospetti, la domanda circa l'onestà
delle intervistate era nascosta fra tante altre
sulla cordialità, estroversione, dominanza,
goffaggine, autocontrollo, ecc.
Qualcuna delle allieve infermiere era
assolutamente incapace di mentire e veniva
scoperta facilmente, ma la maggior parte traeva
in inganno gli osservatori. I risultati peggiori
sono stati ottenuti dai soggetti che hanno visto
soltanto la faccia o sentito le parole: giudicavano
più oneste proprio le interviste dove le allieve
mentivano. I giudici messi in sospetto, cioè al
corrente della situazione reale, non hanno fatto
registrare un successo maggiore. Pochissimi
hanno ottenuto risultati al di sopra del livello
del caso. Meglio di tutti se la sono cavata quelli
che vedevano solo il corpo, ma anche in quel
caso i giudizi esatti erano appena il 65%, quando
rispondendo a caso si può imbroccare la
risposta esatta al 50% .48 Qualcuno è stato
bravissimo, identificando esattamente l'85%
delle menzogne. A volte si trattava di
psicoterapeuti con una lunga esperienza clinica,
in altri casi semplicemente di persone molto
acute e sensibili.49
Non è inevitabile lasciarsi trarre in inganno
così. Soggetti che abbiamo istruito sui temi
trattati in questo e nel capitolo seguente se la
sono cavati benissimo nell'esperimento,
all'altezza degli psicoterapeuti più esperti. Pare
quindi che si possa imparare ad individuare
certi indizi di menzogna.
LE PAROLE
Fatto sorprendente, molti bugiardi sono
traditi dalle parole per pura e semplice
disattenzione. Non è che non potessero
camuffare meglio il loro pensiero, o che ci
abbiano provato senza riuscirci: semplicemente
non si sono curati di inventare una storia come
si deve. Il direttore di un'agenzia per la ricerca
e la selezione di personale direttivo descrive un
tale che si è rivolto alla sua organizzazione con
due nomi diversi nell'arco d'uno stesso anno.
Alla domanda su come dovevano chiamarlo,
«l'uomo, che prima si era presentato come
Leslie D'Ainter, ma poi si era cambiato in Lester
Dainter, non fece una piega. Spiegò che aveva
cambiato il nome di battesimo perché Leslie
suonava troppo femminile e aveva modificato il
cognome per renderlo più facile da pronunciare.
Ma a tradirlo furono le sue referenze.
Presentava
tre
splendide
lettere
di
raccomandazione, ma dei tre “datori di lavoro”
non ce n'era uno che scrivesse il suo nome con
la stessa ortografia».50
Anche un mentitore più accorto può esser
tradito da uno di quei lapsus di cui parla Freud.
I n Psicopatologia della vita quotidiana Freud
mostra come gli sbagli che capitano nella vita di
tutti i giorni (lapsus, dimenticanza di nomi
familiari, errori di lettura e scrittura) non siano
fatti accidentali ma eventi significativi che
rivelano conflitti psicologici interni. Il lapsus
esprime a suo avviso «qualcosa che non si
desiderava dire; esso diventa un modo di
tradire se stessi».51
Freud non si occupava specificamente della
menzogna, ma uno dei suoi esempi riguarda
proprio una bugia rivelata da un lapsus. Freud
riferisce un'esperienza occorsa al Dr. Brill, uno
dei suoi primi allievi:
Una sera sono uscito a passeggio col Dr.
Frink e abbiamo discusso certe
questioni della Società psicoanalitica di
New York. Abbiamo incontrato un
collega, il Dr. R., che non vedevo da anni
e della cui vita privata non sapevo nulla.
Ci fece molto piacere ritrovarci e su mio
invito ci accompagnò in un caffè, dove
passammo due ore in animata
conversazione. Il Dr. R. sembrava
abbastanza informato sul mio conto,
perché dopo le consuete formule di
saluto mi chiese del mio bambino e mi
disse che di tanto in tanto aveva notizie
da un amico comune e si interessava del
mio lavoro da quando aveva letto
qualcosa in proposito sulle riviste
mediche. Alla mia domanda se fosse
sposato rispose di no, aggiungendo:
«Perché un uomo come me dovrebbe
sposarsi?».
Al momento di uscire, si rivolse
improvvisamente verso di me e mi
disse: «Vorrei sapere che cosa faresti in
un caso come questo: conosco
un'infermiera che è stata indicata come
correa in un caso di divorzio. La moglie
ha citato in giudizio il marito per
adulterio, facendo il suo nome come
complice, e lui ha ottenuto il divorzio».
Lo interruppi, dicendo: «Vuoi dire che
lei ha ottenuto il divorzio». Si corresse
immediatamente: «Sì, certo, lei ha
ottenuto il divorzio». Poi continuò
spiegando che l'infermiera aveva
risentito a tal punto del procedimento
legale e dello scandalo che aveva
cominciato a bere, era diventata molto
nervosa, e così via; mi chiedeva un
consiglio su come trattarla.
Appena corretto il suo errore gli chiesi
di spiegarmelo, ma ricevetti le solite
risposte meravigliate: forse che uno non
ha diritto di fare un lapsus? Era solo un
caso, non c'era dietro niente, e così via.
Gli risposi che dev'esserci una ragione
per ogni errore che si commette
parlando e che, se prima non mi avesse
detto di non essere sposato, sarei stato
tentato di supporre che fosse lui stesso
il protagonista del racconto; perché in
quel caso il lapsus si sarebbe spiegato
col desiderio di aver ottenuto lui il
divorzio, invece della moglie, in modo
da non essere tenuto (in base alle
nostre leggi) a pagare gli alimenti e da
potersi risposare nello Stato di New
York. Negò risolutamente la mia
congettura, ma l'esagerata reazione
emotiva che accompagnava le sue
parole (segni accentuati di agitazione,
poi una risata) non fece che rafforzare i
miei sospetti. Al mio appello a dire la
verità nell'interesse della scienza,
rispose: «A meno che tu non voglia che
io ti dica una bugia, devi credere che
non sono mai stato sposato e quindi la
tua interpretazione psicoanalitica è
sbagliata». Aggiunse che uno che dava
tanta
importanza
a
qualunque
sciocchezza era decisamente una
persona pericolosa. Poi d'un tratto si
ricordò
che
aveva
un
altro
appuntamento e si accomiatò. Il Dr.
Frink ed io eravamo ancora convinti
dell'esattezza della mia interpretazione,
cosicché decisi di fare qualche indagine
per averne la conferma o la smentita
definitiva. Qualche giorno dopo andai a
trovare un vicino, un vecchio amico del
Dr. R., il quale poté confermarmi la mia
spiegazione in ogni particolare.
L'udienza si era tenuta qualche
settimana prima, e l'infermiera era
stata
citata
come
correa
52
nell'adulterio.
Freud scriveva che «la soppressione
dell'intenzione di dire qualcosa è la condizione
indispensabile per la comparsa di un lapsus
linguae»53 (il corsivo è nell'originale). La
soppressione potrebbe essere deliberata se il
soggetto mente, ma a Freud interessavano
soprattutto i casi in cui chi parla non è
consapevole della soppressione. Una volta
intervenuto il lapsus, il soggetto può riconoscere
ciò che aveva soppresso, oppure continuare a
ignorarlo.
Chi vuole smascherare bugie dev'esser
cauto e non partire dal presupposto che ogni
lapsus debba essere prova di menzogna. Di
solito il contesto dovrebbe aiutare a capire se il
lapsus rivela una bugia o no. Si deve evitare
anche l'errore di considerare sincera una
persona solo perché non incorre in nessun
lapsus: molte bugie non ne contengono affatto.
Freud non ha spiegato perché certe
menzogne siano tradite dal lapsus e la maggior
parte invece no. E suggestivo supporre che i
lapsus avvengano quando il bugiardo vuole
essere smascherato, quando esiste un certo
senso di colpa. Di sicuro il Dr. R. dev'essersi
sentito in colpa nel mentire al collega stimato.
Comunque non c'è nessuna ricerca (né molte
ipotesi) che spieghi perché solo certe menzogne
vengono svelate dai lapsus.
Un altro modo in cui il bugiardo può tradirsi
con le sue stesse parole sono le tirate
declamatorie. Qui l'errore diventa vistoso, non
più limitato, come nel lapsus, a una parola o
due. L'informazione non sguscia fuori fra una
parola e l'altra, ma trabocca a fiotti. L'individuo
si lascia trasportare dall'emozione e solo quando
è troppo tardi si rende conto delle conseguenze
di ciò che sta rivelando. Probabilmente, se
avesse mantenuto il sangue freddo, non
avrebbe
lasciato
venire
alla
luce
un'informazione che lo danneggia tanto. È la
pressione di un'emozione incontenibile (furore,
spavento, orrore o disperazione) a indurre il
bugiardo a tradirsi così.
Una quarta fonte di indizi puramente
verbali l'ha descritta Tom Brokaw quando era
conduttore di «Today Show», una rubrica di
interviste della NBC: «La maggior parte degli
indizi che ricavo dalla gente sono verbali, non
fisici. Non guardo la faccia dell'intervistato per
capire se sta mentendo. Quelle di cui vado a
caccia sono le risposte involute o i giri di parole
evasivi e complicati».54 Esiste qualche ricerca
che conferma il suggerimento di Brokaw: alcuni
soggetti quando mentono danno davvero
risposte indirette, piene di circonlocuzioni, più
abbondanti di quello che era richiesto. Altri
lavori però indicano esattamente l'opposto:
nella maggior parte dei casi chi mente è troppo
furbo per dare risposte indirette o evasive.55
Queste persone sfuggirebbero a Tom
Brokaw, ma il rischio peggiore è quello di
malgiudicare una persona sincera che per
l'appunto si esprime in maniera involuta o
evasiva. Alcuni in effetti parlano sempre così:
nel loro caso non è un segno di menzogna, ma
semplicemente il loro modo di parlare.
Qualunque comportamento che costituisce un
utile indizio per scoprire le menzogne sarà
sempre per alcuni nient'altro che una parte
integrante del comportamento abituale. La
possibilità di valutare ingiustamente persone
del genere la chiamerò “effetto Brokaw”. Chi va
a caccia di bugie è esposto a questo rischio
quando non conosce l'indiziato e non ha
familiarità con certi tratti peculiari del suo
comportamento tipico. Parlerò nel Cap. VI dei
modi per evitare l'effetto Brokaw.
Finora non sono state scoperte dalla ricerca
altre fonti di indizi rivelatori ricavabili dalle
parole stesse di chi mente e tendo a pensare
che non si troverà molto altro in questa
direzione. Come ho spiegato, è troppo facile
dissimulare e fingere con le parole, anche se
come abbiamo visto gli errori non mancano.
LA VOCE
Sotto questo titolo si raccoglie tutto quanto
attiene al linguaggio parlato, meno le parole. Gli
indizi vocali più comuni fra quelli che fanno
sospettare un inganno sono le pause nel
discorso. Le pause possono essere troppo
lunghe o troppo frequenti. L'esitazione al
momento di attaccare a parlare, soprattutto in
risposta a una domanda, può far nascere
sospetti. Altrettanto vale per frequenti pause
più brevi durante il discorso. Altri indizi
possono essere gli errori, come l'intromissione
nel discorso di “non parole” («ehm», «uhm»,
ecc.), le ripetizioni («Io, io, io veramente...») e le
parole ripetute a metà («Vera-veramente
io...»).
Questi indizi (errori e pause) possono
presentarsi per due ragioni affini. Chi mente
può non aver elaborato a puntino la sua
versione: se non si aspettava di dover mentire,
o anche soltanto non aveva previsto una certa
domanda, può esitare o confondersi. Ma la cosa
può succedere anche quando una bugia è ben
preparata: un alto livello di apprensione all'idea
di poter essere scoperto può avere lo stesso
effetto. D'altra parte l'ansia può aggravare gli
errori del bugiardo impreparato: sentendo il
misero effetto delle parole che sta
improvvisando, avrà ancor più paura di essere
scoperto e la paura a sua volta accentuerà le
pause e gli intoppi.
L'inganno può trapelare anche dal suono
della voce. Quasi tutti siamo convinti che il tono
di voce possa rivelare che emozioni prova una
persona, ma la ricerca scientifica su questo
punto non ha dato ancora conferme definite. Si
sono trovati vari modi per distinguere la voce in
concomitanza con emozioni positive o negative,
ma ancora non sappiamo se la voce differisce
nelle varie emozioni spiacevoli (rabbia, paura,
dolore, disgusto, disprezzo). Sono convinto,
però, che tali differenze verranno alla luce col
tempo. Per il momento, mi limiterò a esporre i
fatti noti e gli spunti più promettenti.
Il segno vocale di emozione più documentato
è l'acutezza: in circa il settanta per cento delle
persone esaminate, la voce diventa più acuta in
situazioni di turbamento. Probabilmente questo
avviene soprattutto quando l'emozione che
agita il soggetto è rabbia o paura. Qualche dato
sembra indicare che la voce cali di tono con la
tristezza e il dispiacere, ma non è certo. Infine,
non sappiamo se ci siano variazioni in caso di
eccitazione, disgusto o disprezzo. Altri segni,
non così sicuri ma promettenti, sono
l'accelerazione e l'aumento di volume in
situazioni di collera o di paura, il rallentamento
e l'abbassamento di volume con la tristezza.
Importanti novità si avranno probabilmente
misurando altri aspetti della voce: ad esempio il
timbro, lo spettro di energia in diverse bande di
frequenza, i cambiamenti legati alla
respirazione.56
Le alterazioni della voce prodotte dalle
emozioni non sono facili da nascondere. Se la
bugia riguarda in particolare le emozioni
provate sul momento, ci sono buone speranze
che trapeli la verità. Se la menzogna tende a
dissimulare la paura o la rabbia, per esempio, la
voce dovrebbe suonare più acuta e più forte e il
discorso dovrebbe essere accelerato. L'opposto
nel caso che i sentimenti che si cerca di
nascondere siano tristezza e dispiacere. Il suono
della voce può tradire anche bugie che non
miravano in partenza a coprire certe emozioni:
basta che l'emozione entri in gioco. Per esempio
il timore di essere scoperto produrrà
l'alterazione tipica della paura. Il senso di colpa
per il fatto stesso di mentire potrebbe causare
le stesse alterazioni che accompagnano uno
stato di tristezza, ma questa è solo un'ipotesi,
così come non è chiaro se il piacere della beffa si
possa riconoscere e misurare dalla voce.
Personalmente sono convinto che ogni tipo di
eccitazione ha un suo particolare contrassegno
vocale, ma la cosa è ancora da dimostrare.
Il nostro esperimento con le allieve
infermiere è stato uno dei primi a documentare
un'alterazione del tono di voce durante la
menzogna.57 Abbiamo trovato infatti che la
voce in questi casi diventava più acuta. Siamo
convinti che il fenomeno fosse dovuto al timore.
Come si ricorderà c'erano due ragioni per
provare questa emozione: avevamo fatto il
possibile perché la posta in gioco fosse alta e le
allieve provassero apprensione all'idea di non
riuscire nell'inganno; inoltre, alcune provavano
certamente paura per empatia, assistendo alle
sanguinose scene chirurgiche.
La voce acuta non è segno di falsità: è segno
di paura, di collera, forse anche di eccitazione. È
pericoloso interpretare un qualunque segno
vocale di emozione come prova di menzogna.
Una persona sincera, preoccupata di non esser
creduta, può di conseguenza manifestare la
stessa alterazione del tono di voce di un
bugiardo che ha paura di essere colto in fallo.
Esaminando come questa tendenza confonda
l'interpretazione di altri potenziali indizi, parlerò
di “errore di Otello”, un errore che analizzerò in
dettaglio nel Cap. VI, spiegando le precauzioni
che si possono prendere per evitarlo (purtroppo
la cosa non è facile). Basarsi sulle alterazioni
della voce per scoprire le menzogne espone
anche all'effetto Brokaw (differenze individuali
nel comportamento emotivo), di cui ho già
parlato a proposito delle pause e degli errori nel
discorso.
Così come il segno vocale di un'emozione
(poniamo, l'alterazione del tono) non sempre
rivela una bugia, anche l'assenza di questi segni
non necessariamente è prova di sincerità. La
credibilità della testimonianza di John Dean
durante le udienze del Senato sul caso
Watergate si fondava in parte sull'assenza di
emozione nella sua voce, più esattamente
sull'interpretazione che fu data del suo tono di
voce particolarmente freddo e monotono. Erano
passati dodici mesi dal furto nel quartier
generale democratico nel complesso di
Watergate, quando John Dean, consigliere del
presidente in carica Richard Nixon, si presentò
in tribunale a testimoniare. Nixon aveva
finalmente ammesso, un mese prima, che i suoi
assistenti avevano cercato di coprire i
responsabili, ma continuava a negare di esserne
stato al corrente di persona.
Scrive il giudice federale John Sirica: «I
pesci piccoli coinvolti nel tentativo di soffocare
lo scandalo erano stati presi nella rete,
soprattutto grazie alle reciproche chiamate di
correo. Quella che restava da determinare era
la reale colpevolezza o innocenza degli uomini al
vertice. Ed era la testimonianza di Dean quella
che avrebbe toccato il nodo cruciale [...]. Dean
riferì di aver ripetuto a Nixon che ci sarebbe
voluto un milione di dollari per far tacere i due
incriminati del furto e Nixon rispose che i soldi
si potevano trovare: non un segno di sorpresa,
nessuna indignazione, nessun rifiuto. Questa
era la più sensazionale accusa di Dean. Diceva
che Nixon stesso aveva approvato l'esborso per
tappare la bocca ai due imputati».58
Il giorno seguente la Casa Bianca contestò le
dichiarazioni di Dean. Nelle sue memorie,
pubblicate cinque anni dopo, Nixon scriveva:
«Vidi nella testimonianza di John Dean sullo
Watergate un'accorta miscela di vero e non
vero, di fraintendimenti magari sinceri e
distorsioni chiaramente consapevoli. Nel
tentativo di ridimensionare il proprio ruolo,
trasferiva la sua totale conoscenza 59 delle
manovre per soffocare lo scandalo e la sua
propria ansia sulle parole e le azioni degli
altri».60 Sul momento l'attacco contro Dean era
stato molto più rozzo. Venivano fatti filtrare alla
stampa racconti, presumibilmente ispirati dalla
Casa Bianca, secondo cui Dean mentiva
aggredendo il presidente perché aveva paura di
essere aggredito sessualmente se fosse finito in
carcere.
Era la parola di Dean contro quella di Nixon
e pochi sapevano per certo chi dei due dicesse la
verità. Il giudice Sirica, descrivendo i suoi
dubbi, scrive: «Devo dire che ero scettico sulle
dichiarazioni di Dean. Egli stesso era
evidentemente una figura chiave nel complotto
[...]. Aveva moltissimo da perdere [...]. Mi
pareva, all'epoca, che avrebbe potuto benissimo
interessargli di più proteggersi coinvolgendo il
presidente che non dire la verità».
Sirica prosegue descrivendo l'impressione
che gli aveva fatto la voce di Dean: «Per vari
giorni dopo che ebbe letto la sua dichiarazione i
membri della commissione continuarono a
punzecchiarlo con domande ostili. Ma lui rimase
fedele al suo racconto. Non sembrava in alcun
modo turbato. Il suo tono di voce incolore, che
non tradiva nessuna emozione, lo rendeva
credibile».61 Ad altri, una persona che parla con
voce monotona e uniforme può dar
l'impressione di controllarsi, il che potrebbe
suggerire che abbia qualcosa da nascondere.
Per non interpretare erroneamente il suo modo
di parlare, bisognerebbe sapere se questo tono
di voce è tipico di lui o no.
Il fatto di non tradire alcuna emozione nella
voce non è necessariamente prova di sincerità;
alcune persone non mostrano mai emozioni,
almeno non nella voce. E anche persone che si
emozionano facilmente possono non turbarsi
affatto per quanto riguarda una particolare
menzogna che stanno dicendo. Il giudice Sirica
era esposto all'effetto Brokaw. Si ricorderà
come questo conduttore televisivo dicesse di
interpretare come segno di falsità le risposte
contorte ed evasive: ho spiegato che questo può
essere un errore, dal momento che certe
persone parlano sempre attraverso perifrasi
elaborate. Ora il giudice Sirica poteva fare
l'errore opposto: giudicare sincera una persona
solo perché non mostra un certo indizio di
menzogna, senza tener conto che alcuni non lo
fanno mai.
Entrambi gli errori nascono dal fatto che
esistono differenze individuali nella risposta
emotiva e nel modo di manifestarla. Chi cerca di
smascherare una bugia incorre in questi errori,
se non sa com'è normalmente il comportamento
emotivo dell'indiziato. Non ci sarebbe l'effetto
Brokaw se non esistesse nessun indizio
attendibile: in quel caso non ci sarebbe nulla da
cercare. Così, non ci sarebbe un effetto Brokaw
se gli indizi fossero perfettamente attendibili
per tutti, anziché soltanto per la maggioranza
delle persone. Nessun indizio di falsità è
attendibile per tutti gli esseri umani, ma
singolarmente o in combinazione possono
aiutare a giudicare la sincerità della maggior
parte delle persone. La moglie, gli amici e i
collaboratori di John Dean potrebbero dire se è
come la maggioranza della gente per quanto
riguarda il lasciar trapelare le emozioni nel tono
di voce. Il giudice Sirica, non conoscendolo in
precedenza, era esposto all'effetto Brokaw.
Dalla testimonianza resa da Dean con voce
piana e inespressiva si può ricavare anche un
altro
insegnamento.
Bisogna
sempre
considerare la possibilità che la persona sotto
esame sia un attore particolarmente dotato,
così capace di camuffare il proprio
comportamento che è impossibile sapere se
mente o dice la verità. Secondo quanto riferisce
egli stesso, John Dean è una persona del genere.
Sembra che sapesse in anticipo come avrebbero
interpretato il suo comportamento il giudice
Sirica e gli altri inquirenti. Racconta di aver
pensato, mentre si faceva un piano della sua
testimonianza:
«Sarebbe
stato
facile
drammatizzare all'eccesso o sembrare troppo
agitato [...]. Decisi quindi di leggere con voce
piana, senza nessuna emozione, il più
freddamente possibile, e di rispondere con lo
stesso tono alle domande [...]. La gente tende a
pensare che uno che dice la verità è calmo e
tranquillo».62 Finita la deposizione, quando
cominciò il contraddittorio, Dean cominciò ad
emozionarsi: «Sapevo che mi stavo bloccando,
sentendomi solo e impotente di fronte al potere
del presidente. Feci un respiro profondo, come
se stessi riflettendo; lottavo per controllarmi...
Non puoi mostrare emozione, mi dissi. La
stampa ci si getterà sopra come segno di
debolezza poco virile».63 Il fatto che
l'esecuzione fosse studiata ad arte e che Dean
fosse così abile nel controllare il proprio
comportamento non significa necessariamente
che dicesse il falso, ma solo che gli altri
avrebbero
dovuto
essere
più
cauti
nell'interpretarlo. In realtà, prove successive
fanno pensare che la testimonianza di Dean
fosse in gran parte veritiera e che Nixon (il
quale, a differenza del suo consigliere, non è un
attore di talento) dicesse il falso.
L'ultimo punto da toccare prima di lasciare
l'argomento è l'affermazione di chi pretende che
le menzogne si possano riconoscere
automaticamente e con precisione analizzando
la voce con macchine come il Psychological
Stress Evaluator, il Mark II Voice Analyzer, il
Voice Stress Analyzer, il Psychological Stress
Analyzer, lo Hagoth, il Voice Stress Monitor. I
produttori di questi apparecchi dichiarano che
sono in grado di riconoscere una bugia dalla
voce, perfino al telefono. Ovviamente, come
suggeriscono i nomi stessi, sono macchine che
registrano i segni di stress, non la menzogna.
Non esiste nessun segno vocale della bugia in sé
e per sé, ma soltanto sintomi che tradiscono
emozioni negative. I fabbricanti di questi
giocattoli costosi non hanno l'onestà di avvertire
gli utenti circa il rischio di non riconoscere un
mentitore che non prova emozioni negative, o di
malgiudicare un innocente agitato e turbato. Lo
studio scientifico della voce umana e
l'utilizzazione corretta di altre tecniche per
l'individuazione
delle
menzogne
hanno
dimostrato che queste macchine danno risultati
prossimi al livello del caso quando si tratta di
distinguere fra bugia e verità e non riescono
granché bene nemmeno nel più facile compito di
riconoscere se una persona è emotivamente
scossa.64 A quanto pare, ciò non ha influito sulle
vendite: la possibilità stessa che esista un modo
semplice e non ingombrante di riconoscere a
colpo sicuro la falsità è di per sé troppo
seducente.
IL CORPO
Uno dei tanti modi in cui i movimenti
corporei possono tradire i sentimenti nascosti
ebbi modo di vederlo in un esperimento
condotto quando ero ancora studente, oltre
trent'anni fa. All'epoca non c'erano molti dati
sulla questione se i movimenti e la postura
rispecchino con una qualche esattezza le
emozioni o la personalità. Ne era convinto
qualche psicoterapeuta, ma tali affermazioni
erano scartate come irrilevanti e aneddotiche
dai comportamentisti, che in quegli anni
dominavano la psicologia accademica. Molte
ricerche dal 1914 al 1954 non avevano portato
conferma all'ipotesi che il comportamento non
verbale fornisca informazioni esatte circa le
emozioni o la personalità. La psicologia
accademica si faceva un certo vanto di aver
saputo smascherare come un mito la credenza
dei profani di poter leggere i sentimenti o la
personalità nel viso o nel corpo. Quei pochi
autori di psicologia clinica o sociale che
continuavano a parlare del movimento corporeo
erano guardati alla stessa stregua di chi si
occupava di ESP (Extra-Sensorial Percepiton:
percezione extra-sensoriale) o di grafologia,
come ingenui, sciocchi o ciarlatani.
Non riuscivo a credere che le cose stessero
così. Osservando i movimenti del corpo durante
le sedute di terapia di gruppo, ero convinto di
poter dire in ogni momento chi era turbato e a
che proposito. Con tutto l'ottimismo di uno
studente al primo anno di specializzazione, mi
disposi a far cambiare idea alla psicologia
accademica. Ideai un esperimento per
dimostrare che i movimenti corporei si alterano
in condizioni di stress. La fonte dello stress era
il mio professore, che accettò di seguire il mio
piano, interrogando i miei compagni di corso su
argomenti che sapevo bene essere molto
delicati per tutti noi. Mentre la cinepresa
nascosta filmava il loro comportamento, il
professore chiedeva a questi psicologi in erba
che cosa progettavano di fare al termine degli
studi. Quelli che parlavano di un lavoro di
ricerca li attaccava, rimproverandoli di
imboscarsi in un laboratorio eludendo la
responsabilità di portare un aiuto alle persone
sofferenti. A quelli che invece pensavano di
dedicarsi per l'appunto alla psicoterapia
rimproverava di mirare solo al guadagno e di
sottrarsi alla responsabilità della ricerca,
indispensabile per trovare nuovi metodi
d'intervento in campo clinico. Quindi chiedeva
al malcapitato se aveva fatto una psicoterapia
personale: se questo rispondeva di sì, gli
domandava come potesse sperare di aiutare gli
altri se era lui per primo malato; se la risposta
era «No», gli contestava di voler aiutare gli altri
senza prima conoscere se stesso. Era una
situazione disperata. Per peggiorare le cose, il
professore interrompeva continuamente, senza
lasciare mai allo studente il tempo di rispondere
alle sue frecciate.
Gli studenti si erano prestati come volontari
a questa infelice esperienza per aiutare me, loro
compagno di corso. Sapevano che si trattava di
un'intervista a fini di ricerca e sapevano che ci
sarebbe stato dello stress, ma saperlo non fu
per loro di grande conforto, una volta
cominciato il colloquio. Al di fuori
dell'esperimento il professore, che ora si
comportava in maniera così bizzarra, aveva su
di loro un potere enorme. Il suo giudizio era
cruciale ai fini della laurea e le sue referenze
sarebbero state determinanti per trovare
lavoro dopo l'università. Dopo qualche minuto i
soggetti boccheggiavano: nell'impossibilità di
andarsene o di difendersi, ribollenti di rabbia
frustrata, erano ridotti al silenzio o a suoni
inarticolati. Questa tortura durava poco: prima
di cinque minuti il professore metteva fine alle
loro sofferenze, spiegando che cosa aveva fatto
e perché e lodando il malcapitato per aver
saputo reggere così bene allo stress.
Io osservavo la scena attraverso uno
schermo unidirezionale e manovravo la
cinepresa. Alla primissima intervista, quasi non
credevo ai miei occhi: dopo il terzo attacco, la
ragazza puntava il dito medio contro il
professore, nel gesto convenzionale di «Va' a
farti fottere». Rimase con la mano in quella
posizione per quasi un minuto, eppure non
sembrava fuori di sé dalla rabbia, né il
professore dava l'impressione di averlo notato
(Fig. 4-1). Appena finita l'intervista, mi
precipitai nella stanza. Tutti e due mi dissero
che me l'ero inventato: la ragazza ammetteva di
essersi arrabbiata ma negava assolutamente di
averlo manifestato e il professore dal canto suo
diceva che non avrebbe potuto sfuggirgli un
gesto osceno. Quando la pellicola fu sviluppata,
la prova era lì. Questo lapsus gestuale non
esprimeva un sentimento inconscio: la
studentessa sapeva di essere arrabbiata, non
consapevole era invece l'espressione di quei
sentimenti. Non si rendeva conto di aver fatto
un gesto osceno al suo persecutore. Erano
trapelati in un gesto involontario i sentimenti
che cercava di dissimulare.
Figura 4-1. L'intervista agli studenti.
Per dimostrare che i movimenti corporei si alterano in
condizioni di stress, si ideò il seguente esperimento: si
invitò un insigne docente universitario ad interrogare
alcuni studenti su un argomento per loro molto
delicato: che cosa avrebbero fatto dopo la laurea? Ad
ogni loro possibile risposta, la reazione del professore
era comunque di notevole disapprovazione. Alla prima
intervista, una studentessa puntò il dito medio contro il
professore mantenendo la posizione per quasi un
minuto. Eppure non sembrava fuori di sé dalla rabbia,
né il professore dava l'impressione di averlo notato.
Quindici anni dopo ho osservato lo stesso
tipo di segnale rivelatore non verbale, un altro
lapsus gestuale, nell'esperimento con le allieve
infermiere che cercavano di nascondere le loro
autentiche reazioni alle scene raccapriccianti del
documentario medico. Stavolta si trattava di
una scrollata di spalle. Una dopo l'altra le
ragazze alzavano impercettibilmente le spalle
mentre rispondevano con una bugia alle
domande dell'intervistatore («Ha voglia di
vederne ancora?», «Lo farebbe vedere a un
bambino questo film?»).
Fare spallucce e mostrare il dito sono due
esempi di gesti emblematici, veri e propri
segnali convenzionali, a differenza di tutti gli
altri gesti. Questi segnali non verbali hanno un
senso molto preciso, noto a tutti nell'ambito di
un certo gruppo culturale. Per qualunque
americano il dito medio puntato vuol dire «Va' a
farti fottere» e stringersi nelle spalle significa
«Non lo so», «Non so che fare» o «Che
importa?». La maggior parte degli altri gesti
non hanno una definizione così precisa e il loro
significato è vago. Senza parole, i gesti non
significano molto. Non così i gesti convenzionali
che possono essere usati in luogo di parole, o
quando non si può parlare. Oggi negli Stati Uniti
sono in uso circa 60 di questi segnali gestuali (il
vocabolario gestuale è diverso da un paese
all'altro e spesso a seconda dei gruppi regionali
in uno stesso paese). Alcuni esempi di altri gesti
emblematici comuni: annuire, scuotere la testa,
chiamare con la mano, fare ciao, le dita in croce
(«Vergogna!»), la mano all'orecchio («Parla più
forte»), il pollice alzato dell'autostoppista, ecc.65
Questo tipo di gesti è quasi sempre eseguito
deliberatamente: chi fa un gesto del genere sa
quello che sta facendo, ha deciso di formulare
un messaggio. Ma ci sono delle eccezioni. Come
esistono i lapsus linguae, così ci sono anche i
lapsus gestuali: il soggetto si lascia sfuggire un
gesto che tradisce qualcosa che sta cercando di
nascondere. Ci sono due elementi che
permettono di capire che un certo gesto è
involontario, un vero e proprio lapsus che
tradisce un'informazione nascosta, e non un
messaggio intenzionale. Uno è che viene
eseguito solo un frammento del gesto, non
l'intera azione. La scrollata di spalle, per
esempio, può essere eseguita sollevando
entrambe le spalle, ruotando il palmo delle mani
verso l'alto, con mimica (sopracciglia sollevate,
palpebra abbassata, bocca a ferro di cavallo),
oppure combinando tutte queste azioni, magari
piegando la testa di lato. Quando abbiamo a che
fare con un lapsus, comparirà un unico
elemento e anche quello incompleto: una sola
spalla alzata e di poco, il labbro inferiore che si
solleva, la rotazione della mano appena
accennata. Il gesto osceno col dito non implica
solo una certa posizione delle dita, ma anche il
movimento, spesso ripetuto, della mano in
avanti e verso l'alto: nel caso della studentessa,
dove il gesto non era volontario ma tradiva la
sua collera repressa, il movimento mancava del
tutto.
La seconda spia che segnala un lapsus
anziché un messaggio deliberato è che l'azione è
eseguita fuori della normale posizione di
presentazione. Questi gesti infatti sono eseguiti
normalmente in faccia al destinatario, all'altezza
del torso. Non è possibile che il segnale passi
inosservato in questa posizione. Quando sfugge
involontariamente, il gesto non è mai eseguito
nella posizione regolamentare. Così la
studentessa puntava il dito contro il professore,
ma tenendo la mano ferma su un ginocchio, e
nell'esperimento con le allieve infermiere, le
scrollate di spalle erano ridotte ai minimi
termini: lievi rotazioni delle mani, tenute in
grembo. Se il gesto non fosse frammentario e
fuori posto, il soggetto che mente se ne
accorgerebbe e censurerebbe il movimento in
questione. Naturalmente, queste caratteristiche
che distinguono i lapsus gestuali dai segnali
consapevoli rendono difficile anche agli altri
notarli. Può succedere che il mentitore si lasci
sfuggire ripetutamente uno di questi gesti
rivelatori, senza che se ne avvedano né lui né la
vittima.
Non è affatto garantito che il bugiardo
incorra in uno di questi lapsus gestuali. Le
ricerche a tutt'oggi sono troppo scarse per poter
valutare la frequenza del fenomeno. Dei cinque
studenti tormentati dal professore, due hanno
presentato un lapsus gestuale; nel gruppo delle
allieve infermiere, il fenomeno si presentava
nella metà abbondante dei casi. Non so perché
alcuni si lascino sfuggire questi gesti rivelatori e
altri no.66
Se è vero che non capitano sempre, quando
si presentano i lapsus gestuali sono un segno
molto attendibile. Possiamo fidarcene come
segno autentico di un messaggio che la persona
non vorrebbe rivelare. La loro interpretazione è
molto meno esposta ai rischi dell'effetto Brokaw
o dell'errore di Otello, rispetto alla maggior
parte degli altri indizi di falso. Mentre alcuni
parlano sempre in maniera indiretta e tortuosa,
sono davvero pochi quelli che commettono
regolarmente lapsus gestuali. Gli intoppi del
discorso possono indicare uno stress di
qualunque genere, non solo quello legato alla
menzogna. Invece i lapsus gestuali, dal
momento che il gesto convenzionale ha un
messaggio molto specifico, proprio come le
parole, non sono così ambigui: se una persona si
lascia sfuggire il gesto che indica «Va' a farti
fottere», «Sono arrabbiato», «No» o «Laggiù»,
non dovrebbero esserci grandi problemi a
interpretare che cosa pensi in realtà.
Che gesto in particolare sfugga come un
lapsus durante una bugia, quale messaggio
trapeli, dipende da quello che si cerca di
dissimulare. Gli studenti sottoposti a quella
specie di terzo grado dal professore cercavano
di nascondere la rabbia e l'indignazione: i gesti
emblematici sfuggiti a due di loro erano infatti il
dito puntato e
un
pugno chiuso.
Nell'esperimento con le allieve infermiere, il
sentimento in questione non era la collera, ma
la sensazione di non riuscire a simulare
abbastanza bene: ecco che il lapsus gestuale era
una spallucciata. Non c'è bisogno di insegnare a
nessuno il vocabolario dei gesti convenzionali:
ciascuno conosce il significato di quelli in uso
nella sua cultura. Quello che invece molti non
sanno è che questi segnali possono presentarsi
sotto forma di lapsus: se non è messo
sull'avviso, chi vuole smascherare una bugia
non coglierà questi segni rivelatori perché sono
frammentari e compaiono fuori della sede
deputata di presentazione.
G l i illustratori sono un altro tipo di
movimento corporeo che può offrire indizi di
falso. Si confondono spesso con i gesti
emblematici, ma è importante distinguerli
perché i due tipi di movimento possono subire
un'alterazione di segno opposto in concomitanza
con le menzogne: i lapsus gestuali tendono ad
accentuarsi, mentre i gesti illustrativi di solito
diminuiscono.
Questi gesti devono il loro nome al fatto che
illustrano il discorso mentre viene pronunciato.
I modi sono vari: si può dare enfasi a una parola
o a un'espressione, come un segno d'accento o
una sottolineatura; si può tracciare in aria il
percorso del pensiero, come se chi parla
conducesse materialmente il discorso; le mani
possono disegnare un'immagine o mostrare
un'azione, ripetendo o amplificando ciò che si
sta dicendo. Sono le mani di solito a illustrare il
discorso, ma anche i movimenti delle
sopracciglia e delle palpebre possono
intervenire spesso a sottolineare le parole,
come possono servire allo scopo il tronco e tutto
il corpo. L'atteggiamento sociale, quanto al
maggiore o minore decoro dei gesti illustrativi,
ha oscillato nel corso dei secoli. Ci sono stati
periodi in cui erano appannaggio delle classi
dominanti, altri in cui sono stati considerati
segno di ineducazione. Nei libri di oratoria si
trovano normalmente descritti i gesti di
illustrazione e commento utili per far presa
sull'uditorio.
Lo studio scientifico dei gesti illustrativi non
è partito inizialmente per mettere in luce indizi
di falso, ma con tutt'altro scopo: contestare le
affermazioni degli scienziati nazisti. I risultati di
quelle ricerche possono servire a evitare errori
dovuti all'ignoranza delle differenze culturali in
questo tipo di gestualità. Negli anni '30
comparvero in Germania molti articoli che
affermavano che gli illustratori sarebbero una
caratteristica innata e che le “razze inferiori”,
come gli ebrei o gli zingari, gesticolano molto
parlando, a differenza degli ariani, la razza
“superiore” (non si faceva cenno, però, alla
grandiosa gestualità degli alleati italiani!). David
Efronx,67 un ebreo argentino che studiava alla
Columbia University con l'antropologo Franz
Boas, si mise allora a esaminare i gesti
illustrativi usati da persone di varia origine che
vivevano nel Lower East Side di New York.
Trovò che gli immigrati siciliani ricorrevano ai
gesti per tracciare figure o mostrare azioni,
mentre gli ebrei lituani usavano illustratori che
aggiungevano enfasi al discorso o delineavano il
corso dei pensieri. I figli di questi immigrati, che
erano nati negli Stati Uniti e frequentavano
scuole integrate, non differivano fra loro nell'uso
dei gesti illustrativi: i figli degli immigrati
siciliani gesticolavano in maniera indistinguibile
dai coetanei ebrei.
In questo modo Efron dimostrava che lo
stile dei gesti illustrativi è acquisito, non innato.
Non solo ci sono differenze nel tipo di illustratori
usato in questa o quella cultura, ma in alcune il
loro uso è abbondantissimo, in altre ridotto al
minimo. Anche all'interno di una stessa cultura,
ci sono grosse differenze individuali.68 Non è
quindi il numero puro e semplice di questi gesti
o il loro tipo che può tradire una bugia. L'indizio
viene dall'osservare una diminuzione dei gesti
illustrativi, quando una persona parlando
gesticola meno del suo solito. Per evitare di
fraintendere le ragioni per cui può intervenire
una diminuzione in questo o quel caso, bisogna
prima spiegare un po' meglio perché la gente
ricorre a questi movimenti per accompagnare il
discorso.
Anzitutto consideriamo perché mai si
gesticola in generale. I gesti illustrativi sono
usati per spiegare idee difficili da mettere in
parole. Abbiamo trovato che sono più frequenti
se chiediamo a una persona di definire che cosa
vuol dire “zigzag” che non “sedia”, più frequenti
dovendo spiegare la strada per andare all'ufficio
postale che per esporre le proprie scelte
professionali. Gli illustratori sono usati anche
quando non si riesce a trovare una parola: far
schioccare le dita o allungare la mano nel vuoto
sembra che aiuti a trovare la parola, come se
questa galleggiasse da qualche parte intorno. Se
non altro questi gesti servono a far capire
all'interlocutore che la ricerca è in corso e che
non si è ancora finito di parlare. Gli illustratori
possono anche servire a darsi l'imbeccata da
soli, in modo da mettere insieme un discorso
accettabilmente coerente. La gestualità
aumenta di pari passo con la partecipazione al
discorso: si gesticola più del solito quando si è
arrabbiati, inorriditi, in preda all'agitazione, al
dolore o all'entusiasmo.
Ora vediamo le ragioni per cui a volte le
persone gesticolano meno del solito, perché
questo ci farà capire in quali occasioni tale
diminuzione può essere indizio di menzogna. La
prima ragione è l'assenza di investimento
emotivo in quello che si dice: si tende ad
accompagnare il discorso con meno gesti
quando si è distratti, annoiati, disinteressati o
profondamente rattristati. Uno che volesse
fingere entusiasmo e partecipazione può essere
tradito dal fatto che le sue parole non sono
affatto accompagnate da gesti più vivaci del
solito.
Gli illustratori si riducono anche quando si
ha difficoltà a decidere che cosa dire
esattamente.
Quando
uno
soppesa
attentamente ogni parola, considerando quello
che deve dire prima di aprire bocca, non
gesticola molto. Quando si tiene un discorso per
la prima o la seconda volta, si tratti di una
lezione o di una promozione di vendite, i gesti
illustrativi sono molto più contenuti di quello
che saranno le volte successive, quando ormai
non c'è da fare più tanta fatica per trovare le
parole. Gli illustratori tendono a scomparire
ogniqualvolta ci sono preoccupazione e cautela
nel parlare. Tutto questo può non aver nulla a
che fare con le bugie. La cautela può esser
dovuta alla grossa posta che è in gioco: la prima
impressione che si farà al principale, la risposta
da dare a un quiz a premi, le prime parole
rivolte a una persona che finora si è ammirata
da lontano.
Anche il bugiardo, se non ha preparato bene
in anticipo la sua strategia, dev'essere cauto,
soppesare attentamente tutte le parole prima
di pronunciarle. Se non si è ripassato la parte,
se non ha molta pratica in quel tipo particolare
di menzogna, se non ha previsto le domande
che gli verranno fatte, certamente nel parlare
avrà una gestualità meno vivace del solito. Ma
anche se l'inganno è ben preparato e chi lo
conduce ha una buona pratica, i gesti illustrativi
possono diminuire a causa dell'interferenza di
certe emozioni (in particolare la paura), che
possono ostacolare la coerenza del discorso.
L'impegno richiesto per far fronte a quasi tutte
le emozioni, se sono intense, distrae dal
processo necessario a mettere in fila le parole.
Se poi l'emozione in questione deve anche esser
tenuta nascosta, è molto probabile che anche la
bugia ben preparata venga pronunciata con una
certa difficoltà, ed ecco allora che i gesti
d'accompagnamento si riducono.
Nel nostro esperimento con le allieve
infermiere, quando dovevano fingere c'erano
meno gesti illustrativi che quando descrivevano
onestamente le loro reazioni al documentario
innocuo. Il fenomeno aveva almeno due ragioni:
da una parte, non erano preparate e non
avevano avuto tempo di mettere a punto una
linea di condotta, dall'altra erano in gioco
emozioni intense: sia la paura di tradirsi che le
emozioni suscitate dalla visione di scene
raccapriccianti.
Molti altri autori hanno confermato questo
dato: quando mentono, i soggetti gesticolano
meno che dicendo la verità. In queste ricerche
non entravano in gioco emozioni di rilievo, ma
comunque le bugie dovevano essere
improvvisate.
Introducendo il discorso su questo tipo di
gesti, ho detto che è importante distinguerli dai
segnali emblematici, perché nella menzogna i
due tipi di movimento possono presentare una
variazione di segno opposto: i lapsus gestuali
tendono ad aumentare, mentre i gesti
illustrativi diminuiscono. La differenza
fondamentale fra i due tipi di gesto sta nella
precisione del movimento e del messaggio, che
nel caso dei gesti convenzionali sono prescritti
con una certa rigidezza: non va bene un
movimento qualunque, solo un gesto ben
definito trasmette un messaggio anch'esso ben
preciso. Gli illustratori, invece, possono
implicare una vasta gamma di movimenti e
possono trasmettere un messaggio vago, non
univoco. Prendiamo il gesto di OK: c'è un modo
solo per eseguirlo, con pollice e indice uniti; se il
pollice si oppone al medio o all'anulare, il
messaggio non è più tanto chiaro. E d'altro
canto il significato è anch'esso molto specifico:
«Va bene», «D'accordo».69 Se invece
osserviamo una persona che gesticola senza
udirne le parole, non riusciamo a capire
granché; non così se la persona in questione
esegue un gesto emblematico convenzionale.
Un'altra differenza è che, pur essendo entrambi
usati nella conversazione, i segni convenzionali
possono sostituire le parole, mentre i gesti
illustrativi per definizione accompagnano il
discorso.
Quando si va a caccia di menzogne, bisogna
essere più cauti nell'interpretare i gesti
d'illustrazione che i lapsus gestuali, a causa
dell'errore di Otello e dell'effetto Brokaw. Se si
nota una riduzione della gestualità, prima di
concludere che la persona sta mentendo
bisogna escludere tutte le altre ragioni che
potrebbero indurla a pesare le sue parole.
Inoltre ci sono enormi differenze individuali,
cosicché non è possibile dare un giudizio se non
si ha una base di confronto. Interpretare i gesti
illustrativi, come la maggior parte degli altri
indizi di falsità, esige una conoscenza
precedente. E difficilissimo riconoscere la
menzogna a una prima occhiata.
La ragione per cui vale la pena di parlare di
un terzo tipo di movimenti corporei, le
manipolazioni, è mettere in guardia il lettore
dall'interpretarli come segni di menzogna.
Abbiamo trovato che un errore comune
consiste nel giudicare falsa una persona che dice
il vero solo perché presenta molti di questi
movimenti. Le manipolazioni possono essere un
segno di turbamento, ma non sempre, e un loro
aumento non è segno attendibile di menzogna,
anche se la gente lo crede.
In questa categoria rientrano tutti quei
movimenti in cui una parte del corpo cura,
massaggia, strofina, trattiene, pizzica, stuzzica,
graffia o comunque manipola un'altra parte del
corpo. Questi gesti possono avere durata
brevissima oppure continuare per molti minuti.
Quelli brevi a volte sembrano avere uno scopo:
rimettere a posto i capelli, pulirsi l'orecchio,
grattarsi. Altri, specialmente quelli che durano
a lungo, appaiono privi di scopo: avvolgere e
svolgere una ciocca di capelli, strofinarsi le dita,
battere colpetti col piede. Tipicamente è la
mano ad eseguire la manipolazione, ma può
esserne anche oggetto, come può esserlo
qualunque parte del corpo (fra le più comuni:
capelli, orecchi, naso). Azioni del genere possono
anche essere circoscritte all'interno del viso (la
lingua contro l'interno della guancia, i denti che
mordicchiano le labbra), oppure essere
compiute da una gamba sull'altra. Nella
manipolazione possono entrare oggetti pretesto
come penne, fiammiferi, sigarette, fermagli.
Benché a quasi tutti sia stato insegnato a
non eseguire in pubblico questi gesti,
generalmente non si impara a non farli, ma solo
a smettere di accorgersene. Non che ne siamo
completamente inconsapevoli: se ci avvediamo
che qualcuno ci sta guardando smettiamo
subito, o almeno riduciamo o mascheriamo il
gesto in questione, magari occultandolo
abilmente in un movimento più ampio. Ma
neppure questa strategia complicata per
dissimulare la manipolazione è messa in atto in
maniera del tutto consapevole. Si tratta di
comportamenti che sono ai margini della
coscienza. La maggior parte delle persone non
può fare a meno di metterli in atto per lungo
tempo, neppure sforzandosi. La manipolazione
è un'abitudine radicata.
Le persone, in genere, si comportano molto
più correttamente nel ruolo di spettatore che in
quello di esecutore. Chi esegue un atto di
manipolazione viene lasciato tranquillo a
completarlo in perfetta libertà, anche se l'ha
cominciato nel bel mezzo di una conversazione:
gli altri distolgono lo sguardo per discrezione,
finché la manipolazione non è finita. Certo, se si
tratta di una di quelle attività apparentemente
prive di senso (come arricciarsi una ciocca di
capelli) che si ripresentano a intermittenza
all'infinito, gli altri non distolgono lo sguardo per
sempre; tuttavia, evitano di guardare a lungo
direttamente l'atto in questione. Questa
discrezione è un'abitudine profondamente
assimilata, ormai automatica. È quello che
guarda, non l'altro, a violare le norme di buona
creanza: come se origliasse. Quando due auto si
fermano al semaforo, è quello che sbircia nel
finestrino il maleducato, non l'altro che
approfitta della sosta per sturarsi un orecchio.
Come altri che si sono occupati
dell'argomento, anch'io mi sono chiesto perché
le persone eseguano un certo tipo di automanipolazione anziché un altro. Significa
qualcosa se uno si massaggia invece di
pizzicarsi, si stuzzica invece di grattarsi? E poi,
c'è da ricavare un messaggio dal fatto che a
esser grattata sia la mano, o invece l'orecchio o
il naso? La risposta, in parte, sta in peculiarità
squisitamente individuali. Quasi tutti hanno un
gesto favorito, un tipo particolare di
manipolazione che è quasi un segno distintivo:
per uno può essere girarsi l'anello, per un altro
strapparsi le pellicine intorno alle unghie, per
un altro ancora arricciarsi i baffi. Nessuno ha
cercato di scoprire perché le persone
preferiscano questo o quel gesto, o perché
alcuni non ne abbiano nessuno in particolare.
C'è qualche dato che sembra indicare che certe
azioni manipolatone rivelino qualcosa di più del
semplice disagio: abbiamo notato che certi
pazienti psichiatrici che non esprimono la rabbia
tendono più che altro a tormentarsi qualche
parte del corpo, mentre coprirsi gli occhi è un
gesto comune in quelli che provano vergogna.
Ma si tratta di spunti puramente indicativi, in
confronto al dato più generale che la
manipolazione cresce in situazioni di disagio.70
La ricerca ha sostanzialmente confermato la
convinzione del profano che la gente tamburelli
con le dita e si muova con irrequietezza quando
è nervosa o poco a suo agio. Tutte le forme di
manipolazione (grattare, strizzare, stuzzicare,
rassettare, ripulire gli orifizi, ecc.) aumentano in
qualunque situazione di disagio. Io credo però
che le persone mostrino molti di questi
comportamenti anche quando sono del tutto
rilassate, a proprio agio, e si lasciano andare.
Quando sono fra amici, si preoccupano meno
delle buone maniere: alcuni più di altri si
lasceranno andare a comportamenti (dai rutti
alle più varie manipolazioni) che nella maggior
parte delle situazioni sono almeno in parte
tenuti a freno. Se è così, allora le manipolazioni
sono segni di disagio solo nelle situazioni più
formali, in presenza di persone con le quali non
c'è tanta familiarità.
Questi movimenti semiautomatici sono
inattendibili come indizi di falso, perché possono
indicare stati d'animo opposti: malessere e
rilassamento. Non solo, ma chi mente sa bene
che deve cercare di reprimere questi gesti e
generalmente ci riesce, almeno per qualche
tempo. Non è che questo richieda una qualche
speciale cognizione: è parte del senso comune
corrente che i movimenti di manipolazione
siano segni di nervosismo e di disagio. Chiunque
pensa subito che il bugiardo tamburelli
nervosamente con le dita, per tutti
l'irrequietezza è un segno che desta sospetti.
Quando abbiamo chiesto ai nostri soggetti come
avrebbero fatto a dire se una persona mente o
no, al primo posto nell'elenco dei segni abbiamo
trovato “contorcersi sulla sedia” e “sfuggire lo
sguardo”. Indizi di cui tutti sono al corrente,
che implicano un comportamento facile da
inibire, non sono molto attendibili se la posta
in gioco è alta e chi mente non vuol essere
scoperto.
Le nostre allieve infermiere non mostravano
un aumento delle manipolazioni mentre
mentivano all'intervistatore. Altre ricerche
hanno invece riscontrato una crescita di questi
comportamenti durante la menzogna. Sono
convinto che è la differenza delle poste in gioco
il fattore che può spiegare questa
contraddizione. Quando la posta è alta, le azioni
manipolatorie possono essere intermittenti,
perché probabilmente sono in azione forze
contrarie: la grossa posta in gioco fa sì che il
mentitore
sorvegli
e
controlli
quei
comportamenti, come appunto le manipolazioni,
che sono accessibili alla coscienza e che sa bene
che possono tradirlo, ma nello stesso tempo la
posta alta induce una maggiore ansia e il disagio
a sua volta tende ad accentuare i
comportamenti in questione. Può succedere
allora una sequenza di questo genere: la
manipolazione cresce, viene notata e soffocata,
scompare per qualche tempo, ricompare e poi
di nuovo viene notata e soppressa. Data l'alta
posta in gioco, le allieve infermiere del nostro
esperimento si impegnavano molto per
controllare questi gesti. Nelle ricerche che
hanno messo in luce un aumento di
manipolazione durante la menzogna, la posta in
gioco invece era minima.
Nella nostra ricerca sulla capacità di
giudicare la sincerità e la menzogna, abbiamo
notato che i soggetti consideravano bugiardi
quelli che
presentavano molti gesti
manipolatori. Dicessero il vero o no, gli
osservatori li classificavano come disonesti se si
manipolavano molto. E importante rendersi
conto della probabilità di incorrere in questo
errore. Rivediamo un momento le varie ragioni
per cui i comportamenti di manipolazione non
sono indizi attendibili.
C'è un'enorme variabilità individuale nella
frequenza e nel tipo di manipolazioni abituali.
A questo problema delle differenze individuali
(l'effetto Brokaw) si può ovviare se si ha una
certa conoscenza precedente dell'indiziato e si
possono fare raffronti.
Anche l'errore di Otello interferisce
nell'interpretazione delle manipolazioni, in
quanto queste aumentano nelle situazioni di
disagio di qualunque genere. Ciò costituisce un
problema anche per altri indizi d'inganno, ma è
particolarmente acuto in questo caso, dal
momento che le manipolazioni non sono
soltanto segni di disagio: in qualche caso (per
esempio, in compagnia di amici con cui c'è una
grande familiarità) possono testimoniare anche
rilassamento e tranquillità.
Tutti pensano che un eccesso di
manipolazioni tradisca le bugie e quindi un
mentitore motivato cercherà di inibirle. A
differenza dell'espressione del viso, un'altra
fonte di indizi che si può cercar di controllare, le
manipolazioni sono piuttosto facili da inibire: se
la posta è alta, chi mente ci riuscirà almeno in
parte.
Un altro aspetto del corpo, la postura, è
stato esaminato da vari ricercatori, ma senza
che si riuscisse a dimostrare l'esistenza di indizi
posturali capaci di tradire la menzogna. La
gente sa bene come deve stare seduta o in
piedi: la posizione richiesta da un colloquio
formale non è quella che si prende quando si
chiacchiera con un amico. A quanto pare, la
postura è ben controllata e governata quando si
mente. Né io né altri che hanno studiato
l'inganno e i suoi indizi abbiamo trovato
differenze posturali nei soggetti mentre
mentivano o dicevano il vero.71
INDIZI DAL SISTEMA VEGETATIVO
Finora abbiamo parlato di risposte corporee
prodotte dai muscoli scheletrici. Anche il
sistema nervoso autonomo produce alcune
alterazioni somatiche degne di nota, in
concomitanza con le emozioni: nella
respirazione, nella frequenza della deglutizione
e nella sudorazione (i fenomeni vegetativi che si
manifestano nel viso, come rossore, pallore e
dilatazione delle pupille, saranno trattati nel
capitolo seguente). Questi cambiamenti
intervengono involontariamente quando c'è
un'eccitazione emotiva, sono difficilissimi da
inibire e per questo possono rappresentare
indizi molto attendibili per scoprire eventuali
menzogne.
Il poligrafo, il cosiddetto lie-detector o
“macchina della verità”, misura appunto queste
alterazioni vegetative, ma molte di esse sono
visibili senza necessità di ricorrere a speciali
apparecchi. Se l'individuo che mente prova
paura, rabbia, eccitazione, dolore, senso di colpa
o vergogna, può esserci benissimo accelerazione
del respiro, col petto che si solleva visibilmente,
deglutizione
frequente,
sudorazione
abbondante. A lungo gli psicologi hanno discusso
se ad ogni singola emozione corrisponda un
quadro particolare di alterazioni vegetative,
oppure no. La maggioranza pensa che non ci sia
questa corrispondenza e che qualunque
emozione provochi accelerazione del respiro,
sudorazione e deglutizione. Le alterazioni
prodotte dal sistema nervoso autonomo
indicherebbero quanto è intensa un'emozione,
non di che emozione si tratta. Questa idea
contraddice l'esperienza comune: proviamo
sensazioni fisiche diverse quando abbiamo
paura, per esempio, o quando invece siamo
arrabbiati. La cosa, secondo molti autori, si
spiega col fatto che nei due stati emotivi
interpretiamo diversamente lo stesso insieme
di sensazioni corporee, ma non prova che
l'attività vegetativa di per sé differisca in
situazioni di paura e di collera.72
Le mie ricerche più recenti, avviate quando
avevo quasi terminato questo libro, mettono in
crisi questa conclusione. Se i miei risultati sono
esatti e se le modificazioni vegetative non sono
uniformi ma specifiche alle singole emozioni,
avremmo una risorsa importante per lo
smascheramento della menzogna. In altre
parole, sarebbe possibile scoprire, in base al
tracciato del poligrafo e in qualche misura anche
semplicemente guardando e ascoltando, non
solo se l'indiziato è in uno stato di eccitazione
emotiva, ma anche che emozione prova: ha
paura o è arrabbiato, è triste o disgustato?
Informazioni in questo senso si possono
ricavare anche dal viso, come vedremo nel
prossimo capitolo, ma mentre è possibile inibire
gran parte delle reazioni mimiche, quelle
vegetative sono molto più difficili da censurare.
Due problemi, secondo me, avevano
impedito di dimostrare che le varie emozioni
producono quadri distinti di attività
neurovegetativa, e per entrambi mi è sembrato
di aver trovato la soluzione. Un problema è
quello di ottenere esemplari “puri” di emozioni.
Per mettere a confronto le alterazioni
vegetative in situazioni di paura e quelle che
accompagnano la collera, il ricercatore dev'esser
certo che i soggetti provino l'una o l'altra
emozione. Dato che la misurazione delle
modificazioni causate dal sistema nervoso
autonomo
richiede
un'apparecchiatura
complessa, gli esemplari in questione devono
essere raccolti in laboratorio. Il problema è
come fare a suscitare emozioni in un ambiente
sterile, non naturale. E come si fa a suscitare
solo la paura o la rabbia e non entrambe
contemporaneamente? Va da sé che è
importantissimo evitare di produrre quella che
si chiama una miscela di emozioni diverse. Se
non si riesce a tener separate le emozioni, se
non otteniamo dei campioni puri, non c'è modo
di determinare se l'attività neurovegetativa
differisca nelle singole emozioni. Non è facile
evitare le mescolanze, in laboratorio come nella
vita reale: le miscele emotive sono più comuni
delle emozioni pure.
La tecnica più comune per produrre in
laboratorio certi tipi di emozione è chiedere al
soggetto di ricordare o immaginare una
situazione, per esempio, di paura. Supponiamo
che il soggetto immagini di essere attaccato alle
spalle da un rapinatore. Il ricercatore
dev'essere certo che oltre alla paura il soggetto
non provi anche un po' di rabbia, o contro
l'aggressore o contro se stesso, per essersi
impaurito così o per essersi cacciato
stupidamente nei guai. Gli stessi rischi di
ottenere miscele anziché emozioni pure si
hanno con altre tecniche sperimentali.
Supponiamo che si presenti al soggetto un
film pauroso, per esempio la famosa scena di
Psycho in cui Janet Leigh è accoltellata sotto la
doccia da Tony Perkins: ecco che il soggetto può
arrabbiarsi col ricercatore perché cerca di fargli
paura, o magari con se stesso perché si lascia
impressionare, o ancora con l'assassino del film,
oppure può provare disgusto per il sangue che
scorre, dolore per la vittima, sorpresa per
l'azione improvvisa, ecc. Non è tanto facile
mettere a punto un metodo per ottenere
esemplari puri di emozioni. La maggior parte
degli autori che hanno studiato le alterazioni
vegetative si è limitata a supporre, a mio avviso
sbagliando, che i soggetti facessero esattamente
quello che volevano loro e quando lo volevano,
producendo senza difficoltà le emozioni
desiderate allo stato puro. Nessuno si è curato
di prendere precauzioni per garantire o
verificare che i suoi campioni di emozioni
fossero davvero non inquinati.
Il secondo problema nasce dalla necessità di
ottenere le risposte emotive in laboratorio ed è
legato all'impatto con le apparecchiature usate
per la ricerca. La maggior parte dei soggetti, già
quando varca la porta, è preoccupata di quello
che potrà succedere. Poi le cose si complicano:
per misurare le risposte vegetative si devono
applicare elettrodi in varie parti del corpo e se
anche ci limitiamo a registrare respirazione,
ritmo cardiaco, temperatura corporea e
sudorazione, i cavetti cominciano a essere
numerosi. Trovarsi lì impacchettati, coi
ricercatori che si danno da fare per scrutare
quello che succede all'interno del corpo e spesso
con le telecamere puntate per registrare ogni
segno visibile, imbarazza quasi tutti. Anche
l'imbarazzo è un'emozione e se produce
un'attività vegetativa, ecco che i suoi effetti si
insinueranno in ogni campione di emozione che
si cerca di ottenere. Il ricercatore può pensare
che il soggetto ricordi ora un episodio di paura,
ora un episodio di rabbia, ma quello magari in
entrambi i momenti prova solo una sensazione
di imbarazzo. Nessuno si è preoccupato di
ridurre l'imbarazzo, né di verificare che questo
non inquinasse le emozioni oggetto dell'esame.
Con i miei colleghi abbiamo eliminato il
problema dell'imbarazzo scegliendo come
soggetti degli attori professionisti.73 Gli attori
sono abituati ad essere scrutati con attenzione e
non si turbano quando qualcuno spia ogni loro
mossa. Anziché imbarazzo, hanno avuto piacere
all'idea che volessimo registrare attraverso gli
elettrodi quello che succedeva all'interno del
loro organismo. Il fatto di studiare degli attori ci
è servito anche a risolvere il primo problema:
come ottenere campioni puri di emozioni.
Potevamo
avvalerci
del
loro
lungo
addestramento col metodo Stanislavski, che
sviluppa la capacità di ricordare e rivivere le
emozioni. Gli attori praticano regolarmente
questa tecnica, cosicché possono utilizzare i
ricordi sensoriali per rappresentare un certo
ruolo. Nel nostro esperimento chiedevamo ai
soggetti, collegati al poligrafo e con le
telecamere puntate sul viso, di ricordare e
rivivere il più intensamente possibile un
momento in cui avevano provato più rabbia che
in tutta la vita e poi di nuovo la stessa cosa per
la paura, la tristezza, la sorpresa, la felicità e il
disgusto. Già altri avevano usato questa tecnica
prima di noi, ma pensavamo di avere migliori
probabilità di successo perché ci servivamo di
professionisti addestrati proprio in questo
metodo, che non avrebbero provato alcun
imbarazzo. Inoltre, non davamo per scontato
che i soggetti eseguissero esattamente quello
che chiedevamo noi e abbiamo fatto una verifica
per accertarci che le emozioni attivate fossero
pure e non inquinate: dopo ogni rievocazione e
riattivazione, chiedevamo al soggetto di indicare
l'intensità con cui aveva provato l'emozione
richiesta e se ne avesse provate altre. Abbiamo
quindi escluso dalla ricerca tutte le prove in cui i
nostri attori riferivano di aver avvertito altre
emozioni oltre a quella desiderata.
Il fatto di avere fra le mani degli attori ci ha
permesso di tentare una seconda tecnica per
ricavare esemplari puri delle varie emozioni,
una tecnica mai usata in precedenza.
L'avevamo scoperta per caso anni prima, nel
corso di un'altra ricerca. Per studiare la
meccanica delle espressioni del viso (quali
muscoli esattamente producono le varie
espressioni), i miei colleghi ed io abbiamo
eseguito
sistematicamente
migliaia
di
movimenti dei muscoli del viso, filmando e
analizzando i risultati, per verificare in che
modo ogni singola combinazione di contrazioni
muscolari ne modifica l'aspetto. Con nostra
sorpresa, mentre eseguivamo le azioni
muscolari attinenti alle varie emozioni,
avvertivamo
improvvisamente
dei
cambiamenti delle funzioni corporee, alterazioni
dovute all'attività del sistema nervoso
autonomo. Non avevamo nessuna ragione di
sospettare che muovere intenzionalmente i
muscoli facciali potesse produrre involontari
cambiamenti neurovegetativi, ma il fenomeno si
ripeteva con regolarità. Non sapevamo ancora
se la risposta neurovegetativa fosse diversa in
concomitanza
con le
varie
mimiche
dell'emozione. Abbiamo quindi indicato agli
attori quali muscoli facciali esattamente
muovere. Le istruzioni erano di sei tipi, una per
ognuna delle sei emozioni che ci interessavano.
Non imbarazzati dal compito né dal fatto di
essere osservati mentre lo eseguivano ed abili
com'erano nella mimica, hanno soddisfatto
senza sforzo quasi tutte le nostre richieste.
Ancora una volta, non ci siamo fidati soltanto
delle loro capacità, ma abbiamo utilizzato solo
quelle videoregistrazioni che a un esame
analitico dimostravano che i soggetti avevano
effettivamente eseguito tutti i movimenti
richiesti.
Dal nostro esperimento sono emerse
convincenti indicazioni che le risposte
neurovegetative non sono le stesse in tutte le
emozioni. Le alterazioni del ritmo cardiaco, della
temperatura corporea e della sudorazione sono
diverse nei vari casi. Per esempio, quando i
soggetti eseguivano i movimenti muscolari
corrispondenti alla mimica della rabbia e a
quella della paura (si ricordi che l'istruzione non
era di fingere le emozioni, ma semplicemente di
eseguire certe contrazioni muscolari), il ritmo
cardiaco si accelerava in entrambi i casi, ma la
temperatura corporea aumentava per la collera
e diminuiva per la paura. Abbiamo appena
finito di ripetere l'esperimento con altri
soggetti, ottenendo gli stessi risultati.
Se questi dati saranno replicati da altri
ricercatori, potrebbero cambiare la situazione
per quanto riguarda le informazioni che si
possono estrarre dai tracciati della “macchina
della verità”. Invece di cercare di scoprire
soltanto se l'indiziato è in preda a un'emozione
qualunque, si potrebbe stabilire, in base a una
serie di indici neurovegetativi, quale emozione
sta provando. Anche senza apparecchiature, si
potrebbero notare alterazioni nella respirazione
o nella sudorazione, indicative di emozioni ben
precise. Gli errori (sia a danno dell'innocente
non creduto che a vantaggio del bugiardo)
potrebbero diminuire se l'attività del sistema
nervoso centrale, che è difficilissimo inibire,
potesse rivelarci quale emozione prova la
persona sotto esame. Finora non sappiamo se
sia possibile distinguere le emozioni in base
soltanto ai segni visibili e udibili di attività
neurovegetativa, ma ora c'è comunque una
buona ragione per cercare di scoprirlo. In che
modo i segni di specifiche emozioni (dalla
mimica, dal corpo, dalla voce, dalle parole o
dalle reazioni vegetative) possono servire a
determinare se una persona mente o dice la
verità, oltre ai rischi di errori e alle precauzioni
per evitarli, sarà argomento del Cap. VI.
Nel Cap. II ho spiegato che ci sono due modi
principali di mentire: dissimulare e fingere.
Finora, in questo capitolo, mi sono occupato dei
tentativi di dissimulare i sentimenti e di come
essi possano esser traditi dalle parole, dalla
voce o dal corpo. Chi mente può anche simulare
un'emozione, quando è richiesta dalla parte,
oppure quando deve camuffarne un'altra,
autentica. Per esempio, uno può fingere un'aria
triste alla notizia che il cognato ha fatto
bancarotta: se la cosa lo lascia del tutto
indifferente, l'espressione falsa serve a
mostrare il contegno dovuto in questi casi, ma
se in segreto il nostro è felice della disgrazia
dell'altro, allora l'espressione afflitta serve
anche a mascherare i suoi veri sentimenti. E
possibile che le parole, la voce o i movimenti del
corpo tradiscano la falsità di espressioni del
genere, rivelando che la manifestazione emotiva
non è sentita? Non si sa. I difetti nella falsa
rappresentazione di emozioni sono stati studiati
meno a fondo rispetto al problema inverso delle
emozioni che si cerca di occultare e tuttavia
vengono alla luce. Tutto quello che posso fare è
presentare alcune mie osservazioni e
impressioni.
Mentre le parole sono fatte apposta per
inventare e costruire, non è facile per nessuno,
sincero o no, descrivere a parole le sue
emozioni. Solo un poeta sa comunicare le
sfumature sottili rivelate da un'espressione.
Forse non è per nulla più difficile dichiarare a
parole un sentimento falso che uno autentico: di
solito né l'una né l'altra dichiarazione risulterà
molto eloquente, elaborata o convincente. Sono
la voce, il corpo, l'espressione del viso a dare un
significato all'enunciazione verbale di un
sentimento. Personalmente, sospetto che la
maggior parte della gente sia in grado di fingere
la voce della rabbia, della paura, del dolore,
della felicità, del disgusto o della sorpresa
abbastanza bene da trarre in inganno gli altri.
Mentre è molto difficile occultare l'alterazione
della voce che accompagna queste emozioni,
non è così difficile falsificarla. La maggior parte
delle persone probabilmente si lascia ingannare
dalla voce.
Neanche certe reazioni neurovegetative
sono difficili da simulare. Se non è facile
nascondere i segni dell'emozione che si
manifestano nella respirazione o nella
deglutizione, non ci vuole nessuna particolare
arte per fingerli, accelerando il respiro o
deglutendo spesso (il sudore è un altro discorso,
difficile da nascondere e difficile da produrre su
richiesta). Comunque, non credo che molti lo
facciano di proposito per fingere collera o paura.
Allo stesso modo, per quanto non sia affatto
impossibile accentuare i gesti manipolatori per
dare l'impressione di essere a disagio, pochi
probabilmente si ricorderanno di farlo quando è
il caso.
Quanto ai gesti illustrativi, possono essere
eseguiti ad arte, probabilmente senza molto
successo,
per
dare
l'impressione
di
partecipazione e di entusiasmo verso quello che
si dice, quando la cosa ci lascia invece
indifferenti. I giornali dicevano, per esempio,
che Nixon e Ford erano stati istruiti ad
accentuare i gesti di illustrazione. Guardandoli
in televisione, pensavo che queste lezioni spesso
li facevano sembrare falsi. È difficile collocare di
proposito un gesto esattamente dove
dev'essere in relazione alle parole: spesso è in
anticipo, o in ritardo, o dura troppo a lungo. È
un po' come cercar di sciare pensando via via
ogni singola azione mentre la si esegue: la
coordinazione è approssimativa e si vede.
Ho descritto indizi comportamentali che
possono lasciar trasparire informazioni che
dovrebbero restare nascoste, indicare che la
linea di condotta non è stata ben preparata, o
tradire un'emozione che non corrisponde a
quello che si vuol dare ad intendere. Lapsus, sia
verbali che gestuali, e tirate oratorie
incontrollate possono lasciar emergere
informazioni d'ogni tipo: emozioni, azioni
passate, progetti, intenzioni, idee, fantasie, ecc.
Circonlocuzioni e discorsi evasivi, pause, errori
nel parlare, diminuzione dei gesti illustrativi
sono tutti segni che possono indicare che chi
parla è molto cauto, non avendo preparato bene
quello che deve dire. Tutti questi sono indizi di
una qualunque emozione negativa, non meglio
identificata. Una minore gesticolazione
accompagna inoltre una situazione di noia e
disinteresse. Un tono di voce più acuto, un
parlare più forte e più rapido si hanno nella
rabbia, nella paura e forse nell'eccitazione.
L'alterazione della voce è di segno opposto nel
caso della tristezza e forse del senso di colpa.
Modificazioni del respiro o della sudorazione,
una frequente deglutizione e la bocca molto
arida sono segni di emozioni intense e forse in
futuro si potrà determinare più esattamente di
che emozioni si tratta, considerando il quadro
d'insieme di questi segni neurovegetativi.
V
Indizi di menzogna nel viso
Il viso può essere una fonte preziosa
d'informazioni per chi cerca di scoprire gli
inganni. Il viso è infatti capace di mentire e dire
la verità e spesso fa entrambe le cose
contemporaneamente. Contiene allora due
messaggi: ciò che il bugiardo vuol mostrare e ciò
che vuole nascondere. Alcune espressioni sono
al servizio della bugia, fornendo false
informazioni, ma altre la tradiscono perché
appaiono finte e perché a volte i sentimenti
autentici traspaiono malgrado gli sforzi per
dissimularli. Espressioni false ma convincenti
possono comparire in un dato momento e il
momento successivo esser seguite da
espressioni
autentiche
che
traspaiono
involontariamente. E possibile perfino che il
vero e il falso si mostrino in parti diverse del
viso, componendo un'unica espressione mista.
Io credo che la ragione per cui la maggior parte
delle persone non riesce a indovinare le bugie
guardando in viso chi parla sia proprio che non
sa distinguere le espressioni autentiche da
quelle fittizie.
Le espressioni vere, sentite, dell'emozione si
presentano perché il movimento dei muscoli
facciali può essere involontario, senza che
intervengano pensieri o intenzioni. Quelle false
compaiono perché c'è un controllo volontario sul
proprio viso, che permette di inibire la mimica
autentica e assumere un'espressione finta. Il
viso è un sistema duplice, che comprende
espressioni scelte intenzionalmente ed altre che
emergono in maniera spontanea, a volte senza
che l'interessato nemmeno sappia che cosa si
dipinge sul suo stesso viso. C'è un territorio
intermedio fra il volontario e l'involontario,
occupato da espressioni che sono state apprese
un tempo, ma hanno finito per agire
automaticamente senza una scelta volontaria, o
magari addirittura a dispetto delle intenzioni, in
maniera tipicamente inconsapevole. Manierismi
e abitudini assimilate che costringono a tenere a
bada certe espressioni (come l'incapacità di
manifestare collera verso figure d'autorità) sono
esempi di questo tipo. Ma quelle che mi
interessano qui sono le false espressioni
volontarie, intenzionali, reclutate ai fini di un
tentativo di trarre in inganno gli altri, e quelle
espressioni emotive involontarie e spontanee
che possono di quando in quando lasciar
trasparire gli autentici sentimenti malgrado gli
sforzi per celarli.
Gli studi su pazienti che presentano vari tipi
di lesioni cerebrali dimostrano con evidenza
drammatica come la mimica volontaria e quella
involontaria chiamino in causa parti diverse del
cervello. Pazienti colpiti in una zona che
coinvolga i cosiddetti sistemi piramidali, per
esempio, sono incapaci di sorridere su richiesta,
ma sorridono spontaneamente quando si
divertono. Se invece la lesione tocca una zona
interessata da sistemi extrapiramidali, il quadro
è ribaltato: il paziente può eseguire un sorriso
su richiesta, ma rimane impassibile quando
qualcosa lo diverte. I pazienti con lesioni al
sistema piramidale dovrebbero essere incapaci
di mentire con l'espressione del viso, non
potendo inibire la mimica involontaria o
assumere espressioni false. Gli altri, colpiti nei
sistemi extrapiramidali, dovrebbero essere
capaci di ottime finzioni mimiche, non dovendo
inibire nessuna espressione autenticamente
sentita.74
La mimica involontaria delle emozioni è un
prodotto dell'evoluzione della specie. Molte
espressioni umane sono le stesse che si
osservano in altri primati. Alcune mimiche
emotive, almeno quelle indicanti felicità, paura,
rabbia, disgusto, tristezza, sofferenza, sono
universali, eguali per tutti a prescindere da età,
sesso, razza o cultura.75 Queste espressioni
facciali sono la fonte più ricca d'informazioni
circa le emozioni, rivelando sfumature sottili di
sentimenti momentanei. Il viso umano è capace
di rivelare quei dettagli dell'esperienza emotiva
che solo un poeta saprebbe catturare in parole.
La faccia può mostrare:
quale emozione si prova: collera, tristezza,
disgusto, sofferenza, gioia, soddisfazione,
eccitazione, sorpresa e disprezzo possono
tutte esser comunicate da espressioni ben
distinte;
se due emozioni sono mescolate insieme:
succede spesso di provare due emozioni
diverse e il viso registra elementi di
entrambe;
l'intensità dell'emozione: ogni emozione
può essere più o meno forte, dal fastidio al
furore, dall'apprensione al terrore, ecc.
Ma, come ho detto, il viso non è solo un
sistema di segnalazione emotiva involontaria.
Nei primi anni di vita il bambino impara a
controllare alcune di queste mimiche,
dissimulando i sentimenti autentici e fingendo
l'espressione di altri che non prova. I genitori
insegnano a controllare l'espressione del viso sia
con l'esempio, sia più direttamente con inviti di
questo tipo: «Non mi guardare con codesta aria
arrabbiata»; «Fatti vedere contento quando la
zia ti dà il regalo»; «Smetti di avere codesta
faccia annoiata». Crescendo si imparano le
regole di manifestazione tanto bene che
diventano abitudini profonda mente radicate.
Col tempo molte di queste regole che governano
la manifestazione delle emozioni finiscono per
entrare in azione automaticamente, modulando
l'espressione del volto senza una decisione
intenzionale e senza neppure consapevolezza.
Anche quando ci si rende conto di queste norme
acquisite, non sempre è possibile (e certo non è
mai facile) smettere di seguirle. Una volta
consolidata, un'abitudine è difficile da annullare.
Sono convinto che le abitudini relative al
controllo delle emozioni, appunto le regole che
presiedono alla loro manifestazione, sono le più
difficili da rompere.
Sono queste regole apprese, talvolta diverse
da cultura a cultura, che spiegano l'impressione
di tanti viaggiatori che le espressioni del viso
non siano una costante universale. Ho trovato,
per esempio, che di fronte a un film
emozionante la mimica dei giapponesi non
differiva affatto da quella degli americani,
purché i giapponesi fossero soli. Quando era
presente un'altra persona, particolarmente una
figura d'autorità, i giapponesi seguivano molto
più della maggior parte degli americani precise
regole di contegno che li inducevano a
mascherare qualunque espressione di emozioni
negative con un sorriso cortese.76
Oltre a questi controlli automatici della
mimica, possiamo decidere deliberatamente, in
piena
consapevolezza,
di
censurare
l'espressione dei nostri veri sentimenti o di
fuggire l'espressione di un'emozione che non
proviamo. La maggior parte di noi ci riesce
almeno qualche volta. Quasi tutti possiamo
ricordare casi in cui ci siamo lasciati ingannare
completamente dall'espressione del viso di
qualcuno. Tuttavia, a chiunque forse è capitata
anche l'esperienza opposta: accorgersi che le
parole dell'interlocutore erano false grazie a
un'espressione che gli ha attraversato il volto.
Quasi tutti sono convinti di saper riconoscere le
espressioni finte, ma le nostre ricerche hanno
dimostrato che la maggior parte delle persone
non ci riesce affatto.
Nel capitolo precedente ho descritto
l'esperimento in cui i soggetti dovevano capire
se le allieve infermiere dicevano il vero o il falso
in risposta alle domande dell'intervistatore sul
film che stavano vedendo. I risultati erano
generalmente poco incoraggianti, ma i soggetti
che dovevano basarsi soltanto sull'espressione
del viso hanno ottenuto risultati peggiori che
indovinando a caso: in pratica, tendevano a
giudicare sincere le risposte soprattutto quando
erano false. Si lasciavano convincere dalla
mimica finta, ignorando le espressioni da cui
trasparivano i sentimenti autentici. Quando una
persona mente, le sue espressioni più evidenti,
quelle più visibili e su cui si concentra
l'attenzione degli altri, sono spesso false. I segni
sottili da cui si potrebbe capire che quelle
espressioni non sono sentite davvero, così come
i cenni fuggevoli delle emozioni autentiche,
passano di solito inosservati.
La maggior parte dei ricercatori non si è
occupata dell'espressione del viso durante le
menzogne, concentrando piuttosto l'analisi su
comportamenti più facili da quantificare, come i
gesti illustrativi o le pause del discorso. Quei
pochi che hanno preso in considerazione il viso
si sono limitati al sorriso e anche il sorriso
l'hanno esaminato in maniera troppo
semplicistica. E risultato che il sorriso è
altrettanto frequente quando si dice la verità e
quando si mente. Ma questi autori non si sono
curati di distinguere il tipo di sorriso. Non tutti i
sorrisi sono eguali. La nostra tecnica per l'analisi
della mimica è in grado di distinguere oltre
cinquanta sorrisi diversi. Quando mentivano, le
allieve infermiere del nostro esperimento
sorridevano in maniera diversa da quando
dicevano la verità. Descriverò meglio quei
risultati alla fine del capitolo.
Proprio perché ci sono tante espressioni
diverse da distinguere, gli autori interessati alla
comunicazione non verbale e alla rivelazione
della menzogna hanno evitato di analizzare il
viso. Fino a poco tempo fa non c'era un metodo
esauriente e oggettivo per quantificare le
espressioni facciali. Ci siamo messi al lavoro per
sviluppare un tale metodo perché sapevamo,
dalle videoregistrazioni dei nostri soggetti
impegnati a fingere, che per scoprire nel viso
segni di falsità ci sarebbe voluta una
misurazione rigorosa. Abbiamo dedicato quasi
dieci anni alla messa a punto di una tecnica per
rilevare e quantificare esattamente le
espressioni facciali.77
Esistono migliaia di espressioni del viso,
ciascuna diversa dalle altre. Molte non hanno
nulla a che fare con le emozioni ma sono segnali
di conversazione, i quali, come i gesti
illustrativi, sottolineano le parole o integrano la
sintassi del discorso (punti interrogativi o punti
esclamativi facciali). Esiste anche un certo
numero di segni mimici convenzionali: la
strizzata d'occhio, il sopracciglio sollevato a
indicare scetticismo, la mimica che accompagna
o sostituisce la spallucciata (sopracciglia
sollevate, palpebre abbassate, bocca a ferro di
cavallo), per citarne solo qualcuno. Ci sono
anche equivalenti facciali dei gesti manipolatori,
come mordersi le labbra, succhiarle o leccarle,
gonfiare le gote, ecc. E poi ci sono le espressioni
delle emozioni, quelle vere e quelle false.
Non c'è un'unica espressione per ogni
emozione ma decine e per qualcuna centinaia. A
ciascuna emozione corrisponde una famiglia di
espressioni, visibilmente diverse fra loro. La
cosa non deve sorprendere. Non c'è infatti
un'unica esperienza soggettiva per ogni singola
emozione, ma una famiglia di esperienze.
Consideriamo per un momento i membri della
famiglia che corrisponde genericamente alla
collera. La collera varia quanto a:
intensità, dal fastidio al furore;
controllo, da esplosiva a soffocata;
tempi di avvio, da istantanea a subdola;
tempi di spegnimento, da rapidi a lenti;
temperatura, da calda a fredda;
autenticità, dalla collera genuina a quella
che si può fingere per divertimento
giocando con un bambino piccolo.
Se poi teniamo conto delle combinazioni
della collera con altre emozioni (collera
piacevole, piena di sensi di colpa, di disprezzo, di
dignità offesa, ecc.), la famiglia diventa
sterminata.
Non sappiamo per ora se esistano mimiche
diverse per ciascuna di queste diverse
esperienze di collera. Io credo di sì. Già oggi
abbiamo la prova che le espressioni del viso
sono più numerose delle parole indicanti
emozioni diverse. La mimica segnala sfumature
e sottigliezze che il linguaggio non riesce a
fissare in vocaboli. Il nostro lavoro di
rilevamento del repertorio di espressioni
facciali, per determinare esattamente quante
espressioni esistono per ogni emozione, quali
sono equivalenti e quali segnalano stati interni
diversi ma affini, è in corso solo dal 1978. Parte
di quanto dirò circa gli indizi mimici della
menzogna si basa su ricerche sistematiche che
utilizzano questa nuova tecnica di analisi
quantitativa del viso umano, parte su migliaia di
ore
di
osservazione
attenta
di
videoregistrazioni.
Quanto
riferisco
è
provvisorio perché nessun altro ricercatore ha
ancora cercato di replicare le nostre ricerche
sulle differenze fra espressioni volontarie e
involontarie.
Cominciamo dalla più inafferrabile tra le
fonti che, nel viso, possono far trasparire
emozioni nascoste, le microespressioni. Sono
espressioni che forniscono il quadro completo
del sentimento che l'individuo cerca di
dissimulare, ma così rapidamente che di solito
passano inosservate. Una microespressione
passa sul viso in meno di un quarto di secondo.
Abbiamo scoperto questo fenomeno nella
nostra prima ricerca sugli indizi di inganno,
quasi vent'anni fa. Stavamo esaminando il
filmato di un colloquio nel quale Mary, la
paziente psichiatrica di cui ho parlato nel Cap. I,
cercava con successo di dissimulare il suo piano
di suicidio.
Mary presentava vari lapsus gestuali
(movimenti abbreviati e parziali di chi si stringe
nelle spalle) e una diminuzione dei gesti
illustrativi. Inoltre, abbiamo scoperto anche una
microespressione: usando ripetuti passaggi al
rallentatore abbiamo potuto vedere, ma solo
per un istante, una completa mimica di
tristezza, subito coperta da un sorriso. Le
microespressioni sono mimiche emotive
complete, a tutto viso, che durano solo una
frazione del tempo normale, così rapide che
generalmente non si vedono. La Fig. 5-1 mostra
l'espressione di tristezza.78 È molto facile da
interpretare, perché è fissata sulla pagina, ma
se la si vedesse solo per un 25º di secondo e
fosse immediatamente coperta da un'altra,
come succede per le microespressioni,
probabilmente sfuggirebbe. Poco dopo che
avevamo scoperto questo fenomeno, altri autori
hanno pubblicato un articolo in cui riferivano
un'analoga
scoperta,
attribuendo
le
microespressioni a un processo di rimozione e
considerandole
rivelatrici
di
emozioni
79
inconsce. Certamente nel caso di Mary i
sentimenti non erano affatto inconsci e la
paziente era dolorosamente consapevole della
tristezza rivelata dalla microespressione.
Abbiamo sottoposto a vari soggetti estratti
del filmato di Mary, chiedendo di valutare i
sentimenti della paziente. Gli osservatori privi
di esperienza clinica si lasciavano trarre in
inganno: non notando il messaggio contenuto
nelle microespressioni, pensavano che si
sentisse bene. Solo usando la proiezione al
rallentatore riuscivano a cogliere il messaggio di
tristezza. Clinici esperti, invece, non avevano
bisogno della visione al rallentatore e riuscivano
a cogliere la microespressione di tristezza
osservando il filmato in tempo reale.
Figura 5-1. La
tristezza.
Con un'ora circa di esercizio la maggior parte
delle persone può imparare a vedere queste
espressioni brevissime. Abbiamo montato un
otturatore sull'obiettivo di un proiettore, in
modo da poter esporre delle diapositive per
tempi brevissimi. Da principio, quando si
presenta un'espressione per un 50° di secondo,
i soggetti dicono di non vedere nulla e pensano
che non ci riusciranno mai. E invece lo imparano
molto rapidamente. La cosa diventa così facile
che a volte pensano che noi abbiamo allungato il
tempo di esposizione. Dopo qualche centinaio di
facce, tutti sono riusciti a riconoscere l'emozione
espressa dalla mimica, malgrado i tempi
brevissimi. Chiunque può acquisire questa
abilità senza bisogno di un obiettivo speciale con
otturatore, facendo balenare davanti agli occhi
la foto di un viso atteggiato in un'espressione: si
deve cercar di indovinare che emozione
rappresenta, controllando poi con calma sulla
fotografia per vedere se l'impressione
corrisponde al vero, e poi passare a un'altra.
L'esercizio dev'essere continuato per almeno
qualche centinaio di foto.80 Le microespressioni
sono esasperanti perché, ricche come sono e
capaci di rivelare appieno un'emozione
nascosta, non capitano tanto di frequente. Ne
abbiamo trovate poche nel nostro esperimento
con le allieve infermiere. Molto più comuni
erano le espressioni soffocate: non appena
un'espressione emerge sul viso, il soggetto
sembra accorgersi di quello che rischia di
manifestare e l'interrompe bruscamente, a
volte coprendola con un'espressione diversa. Il
sorriso è la copertura o maschera più comune.
A volte la soppressione è così rapida che è
difficile cogliere il messaggio emotivo che
l'espressione interrotta avrebbe comunicato.
Anche se il messaggio non arriva a trasparire,
l'atto stesso di metterlo a tacere può esser
notato e costituire un indizio significativo. Le
espressioni soffocate di solito durano più a
lungo, ma sono anche meno complete delle
microespressioni: queste ultime, infatti, sono
compresse nel tempo, ma contengono
abbreviata l'intera manifestazione mimica.
L'espressione soffocata viene interrotta, non
sempre raggiunge la sua piena manifestazione,
ma dura più a lungo di una microespressione e
l'interruzione stessa può farsi notare.
Sia le microespressioni che le espressioni
soffocate e soppresse sono esposte, come indizi
di falsità, ai due problemi che rendono difficile
l'interpretazione di quasi tutti questi indizi. Si
ricorderà quello che nell'ultimo capitolo ho
chiamato effetto Brokaw: il non tener conto
delle differenze individuali nell'espressione delle
emozioni. Non tutti, quando nascondono una
certa
emozione,
presenteranno
microespressioni o espressioni soffocate
rivelatrici: l'assenza di questi fenomeni non è
quindi prova di verità. Ci sono differenze
individuali nella capacità di controllare la
mimica e certe persone, quelli che chiamo attori
nati, lo sanno fare alla perfezione. Il secondo
problema, che ho indicato come l'errore di
Otello, nasce quando non si considera che certe
persone, benché sincere, si turbano quando
sono sospettate di mentire. Per evitare l'errore
di Otello bisogna capire che la comparsa di una
microespressione
o
di
un'espressione
rapidamente soppressa e camuffata non basta
di per sé a dare la certezza che l'altro sta
mentendo. Quasi tutte le emozioni che affiorano
in queste espressioni può provarle benissimo un
innocente che cerchi per qualche ragione di non
darle a vedere. L'innocente può, ad esempio,
aver paura di non essere creduto, oppure
sentirsi in colpa per qualcos'altro, essere
arrabbiato o disgustato per l'accusa ingiusta,
allegro alla prospettiva di smentire il suo
accusatore, sorpreso per l'accusa, ecc.: nel caso
che egli voglia dissimulare questi sentimenti,
può benissimo comparire una microespressione
rivelatrice o un'espressione incompleta,
rapidamente soffocata. Come affrontare tali
problemi nell'interpretazione di questo tipo di
indizi lo vedremo nel prossimo capitolo.
Non tutti i muscoli che producono le
espressioni emotive sono altrettanto facili da
controllare. Alcuni sono più attendibili di altri,
impossibili da usare per produrre false
espressioni, in quanto non accessibili al controllo
volontario; viceversa, chi mente si trova a mal
partito nel nasconderne l'azione quando cerca di
dissimulare un certo sentimento, in quanto non
sono facili da inibire.
Abbiamo imparato quali sono i muscoli
difficilmente controllabili, chiedendo ai nostri
soggetti di muovere deliberatamente uno per
uno i singoli muscoli facciali e di fingere la
mimica delle varie emozioni.81 Ci sono certi
movimenti muscolari che pochissimi sono capaci
di eseguire deliberatamente. Per esempio,
appena il 10% delle persone esaminate è capace
di abbassare gli angoli delle labbra senza
muovere il muscolo del mento. Però quegli
stessi muscoli si muovono quando si prova
l'emozione corrispondente. Per esempio, le
stesse persone che non sono capaci di abbassare
deliberatamente gli angoli delle labbra eseguono
questa azione quando provano tristezza,
dispiacere, dolore. Siamo riusciti a insegnare ai
nostri soggetti a muovere volontariamente
questi muscoli di non facile controllo, anche se
di solito sono necessarie centinaia di ore di
esercizio. Questi muscoli sono attendibili perché
non sappiamo inviare al muscolo il messaggio
per dispiegare una falsa espressione. Il mio
ragionamento è che se non si può ordinare a un
muscolo un'espressione fittizia, allora sarà
difficile anche inviargli un messaggio di “stop”
per bloccarlo quando un'emozione autentica lo
mette in azione.82 Ci sono altri modi per
occultare un'espressione senza riuscire a
inibirla: può essere mascherata, normalmente
da un sorriso, ma questo non potrà coprire i
segni dell'emozione autentica nella fronte e nelle
palpebre superiori. Oppure, si possono
contrarre i muscoli antagonisti per controllare
l'espressione vera. Un sorriso di piacere, per
esempio, può essere attenuato stringendo le
labbra e sollevando il muscolo del mento.
Spesso, però, l'uso dei muscoli antagonisti può
di per sé costituire un indizio di falso, dato che
l'azione congiunta dei muscoli antagonisti e di
quelli impegnati nell'espressione autentica può
dare al viso un aspetto innaturale, rigido o
controllato. Il modo migliore di occultare
un'emozione sarebbe inibire totalmente il
movimento dei muscoli che partecipano alla sua
espressione, ma ciò non è facile se si tratta di
muscoli non accessibili al controllo volontario.
La fronte è la sede principale dei movimenti
muscolari difficili da falsificare. La Fig. 5-2A
mostra quelli tipici di tristezza, dolore,
malessere e probabilmente anche senso di colpa
(è la stessa espressione della Fig. 5-1, ma qui è
più facile concentrare l'attenzione sulla fronte,
dato che il resto del viso è neutro). Si noti che
gli angoli interni delle sopracciglia sono
sollevati; di solito ciò dà una forma triangolare
alla palpebra superiore e produce un certo
corrugamento al centro della fronte. Meno del
15% dei soggetti che abbiamo esaminato era
capace di produrre volontariamente questo
movimento. Non si dovrebbe quindi incontrarlo
in una falsa esibizione di questi sentimenti,
mentre dovrebbe comparire quando il soggetto
è triste o addolorato (o magari si sente in colpa),
anche se cerca di nasconderlo. In questa e nelle
altre fotografie si presenta una versione
estrema dell'espressione, per renderla chiara
nonostante i limiti di una raffigurazione statica
che ovviamente non può mostrare il formarsi e
lo svanire dell'espressione emotiva. Se i
sentimenti sono meno intensi, l'aspetto della
fronte dovrebbe essere analogo, ma su scala
ridotta. Una volta che si conosce lo schema
generale di un'espressione, si riesce a cogliere
anche le sue versioni attenuate, specialmente
avendo a che fare con il movimento reale e non
con una raffigurazione statica.
La
Figura 5-2A.
Figura 5-2B.
Figura 5-2C.
Figura 5-2D.
Fig. 5-2B presenta
i movimenti
muscolari più attendibili in caso di paura,
preoccupazione, apprensione o terrore. Si noti
che le sopracciglia sono sollevate e ravvicinate,
una combinazione di movimenti che è
estremamente
difficile
da
eseguire
intenzionalmente (meno del 10% dei nostri
soggetti ci riusciva). Nella foto sono visibili
anche il sollevamento della palpebra superiore e
lo stiramento dell'inferiore, che sono segni tipici
della paura. Quando una persona cerca di
dissimulare la paura, questi movimenti
palpebrali possono mancare, non essendo
difficile controllarli, mentre la posizione delle
sopracciglia probabilmente rimane nonostante
gli sforzi per nascondere l'emozione.
Le Figg. 5-2C e 5-2D mostrano la mimica
delle sopracciglia e delle palpebre che indica la
collera e la sorpresa. Si tratta di una mimica
scarsamente attendibile, in quanto questi
movimenti può eseguirli chiunque a volontà,
cosicché li troviamo nelle espressioni finte e
viceversa non li troviamo quando l'emozione
viene dissimulata. Li presento per completare il
quadro della mimica emotiva a livello delle
palpebre e sopracciglia e per sottolineare le
differenze rispetto alle mimiche, quelle sì
attendibili, delle Figg. 5-2A e 5-2B.
L'azione delle sopracciglia riprodotta nelle
Figg. 5-2C e 5-2D - alzarle o abbassarle costituisce la coppia di espressioni d'uso più
frequente. Sono mimiche spesso utilizzate come
segnali di conversazione per accentuare o
sottolineare il discorso: le sopracciglia sollevate
sono dispiegate anche come punti esclamativi o
punti interrogativi, oltre che come gesti
convenzionali di incredulità e scetticismo.
Darwin chiamava il muscolo che abbassa e
avvicina le sopracciglia il “muscolo della
difficoltà”. Aveva ragione nel dire che questo
movimento accompagna difficoltà di qualunque
tipo, da sollevare un oggetto pesante a risolvere
un complicato problema di matematica. Le
sopracciglia abbassate e ravvicinate sono
tipiche anche della perplessità e della
concentrazione.
Figura 5-3.
Un altro elemento mimico attendibile
riguarda la bocca. Uno dei più sicuri indizi di
collera è il rimpicciolimento delle labbra: la
superficie rossa si riduce, senza che le labbra
siano risucchiate all'interno o necessariamente
premute. Questo movimento è molto difficile da
eseguire intenzionalmente e ho notato che
spesso compare quando una persona comincia
ad arrabbiarsi, anche prima che se ne renda
conto. E però un movimento sottile e anche
facile da mascherare con il sorriso. La Fig. 5-3
mostra come cambia l'aspetto delle labbra per
effetto di questa contrazione muscolare.
L'interpretazione anche delle mimiche più
attendibili è complicata dall'errore di Otello:
non tener conto che una persona sincera
sospettata di mentire può presentare gli stessi
segni di emozione del bugiardo. Così, l'innocente
può esibire la mimica della paura (Fig. 5-2B)
perché appunto ha paura di essere falsamente
accusato: preoccupato dal fatto che se mostra
timore gli altri penseranno che mente, cercherà
magari di nascondere quello che prova, cosicché
gli unici segni visibili resteranno le sopracciglia,
più difficili da inibire. Il bugiardo che teme di
essere scoperto e cerca di dissimulare la paura
presenterà
probabilmente
la
stessa
espressione. Nel Cap. VI vedremo come
affrontare questo problema.
Quanto all'effetto Brokaw, cioè non
considerare differenze individuali, dev'essere
evitato anche quando si interpretano gli indizi
mimici più attendibili. Alcune persone (sia gli
psicopatici che gli attori nati) hanno una
straordinaria attitudine a inibire le espressioni
che potrebbero tradire i loro autentici
sentimenti. Nel loro caso neppure i muscoli
facciali generalmente sottratti al controllo
volontario meritano fiducia. Molti capi
carismatici hanno tali straordinarie capacità di
recitazione. Stando ai resoconti, il papa
Giovanni Paolo II ha dimostrato questa abilità
durante la sua visita in Polonia nel 1983.83
Appena qualche anno prima, lo sciopero dei
cantieri navali di Danzica aveva acceso la
speranza che il governo comunista accettasse in
Polonia alcune libertà politiche. Molti temevano
che Lech Walesa, il dirigente del sindacato
Solidarnosc, si spingesse troppo avanti,
inducendo le truppe sovietiche a invadere il
paese, come avevano fatto in passato in
Ungheria,
Cecoslovacchia
e
Germania
Orientale. Per mesi l'Armata Rossa era rimasta
impegnata in “esercitazioni militari” presso i
confini polacchi. Infine, il gruppo dirigente che
aveva tollerato Solidarnosc si dimise e i militari,
con l'approvazione di Mosca, presero il potere.
Il generale Jaruzelski sospese l'attività dei
sindacati, sottomise a rigidi controlli i dirigenti
sindacali come Lech Walesa e impose la legge
marziale. Ora, diciotto mesi dopo l'avvento al
potere dei militari, la visita del papa polacco
poteva avere grosse conseguenze. Avrebbe
manifestato appoggio a Walesa, riattizzando con
la sua presenza gli scioperi e la rivolta, oppure
avrebbe dato la sua benedizione al generale
Jaruzelski? Il giornalista William Safire
descrisse così il film dell'incontro del papa col
generale: «Il pontefice e l'uomo di paglia
esibivano sorrisi e strette di mano. Il papa sa
bene come può essere utilizzata l'apparenza
pubblica e calibra le espressioni del suo viso in
questi eventi. Qui il segno era inequivocabile:
stato e chiesa hanno raggiunto un qualche
accordo segreto e la benedizione politica
ricercata dal capo polacco scelto da Mosca è
stata data, così che la televisione di stato
potesse mandarla in onda a ripetizione».84
Non tutti i politici sono così abili nel
controllare l'espressione del viso. Anwar Sadat,
il presidente egiziano tragicamente scomparso,
scriveva a proposito dei suoi tentativi da
ragazzo per imparare a controllare i muscoli
facciali: «La mia passione era la politica. A quel
tempo in Italia c'era Mussolini. Vedevo le sue
fotografie e leggevo di come sapeva cambiare
espressione quando parlava alla folla,
assumendo variamente una posa di forza o di
aggressività, cosicché la gente poteva guardarlo
e leggere nei suoi stessi lineamenti forza e
potenza. Ero affascinato da questa cosa. Mi
mettevo davanti allo specchio a casa e cercavo
di imitare questa espressione imperiosa, ma per
me i risultati erano molto deludenti. Tutto
quello che succedeva era che i muscoli della
faccia mi diventavano stanchissimi. La faccia mi
doleva».85
Pur non sapendo fingere con la mimica, il
successo di Sadat nell'organizzare segretamente
un attacco di sorpresa congiunto con la Siria
contro Israele nel 1973 dimostra che era,
tuttavia, abile nel mentire. Non c'è
contraddizione. L'inganno non sempre richiede
abilità di simulazione o dissimulazione nella
mimica, nei movimenti corporei o nella voce.
Ciò è necessario solo nelle situazioni ravvicinate,
quando l'autore e la vittima dell'inganno sono
faccia a faccia, come nell'incontro in cui Hitler
riuscì tanto bene a ingannare Chamberlain. A
quanto riferisce, Sadat non ha mai cercato di
nascondere i suoi veri sentimenti quando si è
incontrato direttamente con gli avversari.
Secondo Ezer Weizman, il ministro della difesa
israeliano che ha condotto negoziati diretti con
Sadat dopo la guerra del 1973, «non era uomo
da tenere per sé i suoi sentimenti: questi erano
immediatamente visibili nella mimica, oltre che
nella voce e nei gesti».86
C'è un'altra, più limitata, interferenza delle
differenze individuali ai fini dell'interpretazione
dei segni mimici attendibili. Ha a che fare con i
segnali mimici di conversazione cui ho già
accennato. Alcuni di questi sono molto simili ai
gesti illustrativi, servendo a dare enfasi alle
parole al momento di pronunciarle. La maggior
parte delle persone solleva le sopracciglia o le
abbassa intenzionalmente (vedi Figg. 5-2C e 52D), mentre sono pochissimi quelli che usano i
movimenti delle sopracciglia tipici della
tristezza o della paura (Figg. 5-2A e 5-2B) per
sottolineare il discorso. Per quei pochi che lo
sanno fare, comunque, questi elementi mimici
cessano di essere indizi attendibili. Woody Allen
è per esempio una di queste persone: del
movimento delle sue sopracciglia non ci si può
fidare come spia dei sentimenti nascosti. Usa
infatti la mimica della tristezza per colorire il
discorso: mentre la maggior parte delle persone
solleva o aggrotta le sopracciglia, Woody Allen
di solito solleva l'angolo interno delle
sopracciglia (a ciò è dovuta in parte la sua aria
così partecipe e ansiosa). Chi come Woody Allen
usa questa mossa delle sopracciglia per dare
enfasi al discorso può facilmente eseguirla a
comando: non dovrebbe avere difficoltà a usarla
per fingere l'espressione di un sentimento che
non prova, né a inibirla se vuole. Queste
persone hanno accesso a muscoli che gli altri
non possono controllare. Chi va a caccia di indizi
di falsità può capire che non è il caso di fidarsi di
questi elementi mimici se vede che l'indiziato li
usa come segnali di conversazione per
sottolineare il discorso.
Un terzo problema può complicare
l'interpretazione di questi e altri indizi di falso:
per mettere in azione volontariamente anche
questi muscoli più attendibili si può ricorrere a
una tecnica di recitazione. Il metodo
Stanislavski insegna all'attore a rappresentare
esattamente un'emozione ricordando e
rivivendo momenti in cui l'ha provata nella
realtà. Ho accennato verso la fine del capitolo
precedente all'uso che abbiamo fatto di questa
tecnica per lo studio sperimentale delle reazioni
neurovegetative. Quando un attore usa il
metodo di Stanislavski, le espressioni del suo
viso non sono eseguite deliberatamente ma
sono il prodotto dell'emozione rivissuta che,
come sembrano indicare le nostre ricerche, può
attivare le reazioni fisiologiche autentiche. In
qualche caso, quando uno dei nostri soggetti
non riusciva ad eseguire volontariamente le
azioni delle Figg. 5-2A o 5-2B, gli ho chiesto di
usare la tecnica Stanislavski, con la consegna di
rievocare e rivivere un'esperienza triste o
paurosa. Spesso, con questo sistema,
comparivano espressioni che il soggetto non era
capace di eseguire a comando. Anche chi mente
potrebbe usare la tecnica Stanislavski e in
questo caso non dovrebbero esserci segni
indicanti che l'espressione è falsa perché, in un
certo senso, falsa non è. Nella mimica simulata
in questo modo entrerebbero in azione anche i
muscoli facciali più attendibili, perché il soggetto
in qualche misura prova davvero l'emozione che
vuole fingere. La linea di demarcazione fra vero
e falso diventa confusa quando si attivano le
emozioni con la tecnica Stanislavski. Peggio
ancora quando chi mente riesce a ingannare
anche se stesso, finendo per credere alle
proprie bugie.
Finora ho descritto tre modi in cui possono
trasparire
sentimenti
nascosti:
le
microespressioni, quelle espressioni che si
riescono a vedere prima che siano soffocate e le
tracce che rimangono sul viso perché non è
stato possibile inibire l'azione dei muscoli più
attendibili. La maggior parte delle persone
crede in una quarta fonte di informazioni: gli
occhi, considerati la “finestra dell'anima”, si dice
che rivelino i più riposti sentimenti.
L'antropologa Margaret Mead cita un
professore sovietico che non era di questo
avviso: «Prima della Rivoluzione si usava dire:
“Gli occhi sono lo specchio dell'anima”. Gli occhi
possono mentire, eccome. Si può esprimere con
gli occhi un'attenzione devota che in realtà non
si prova. Si può manifestare serenità o
sorpresa».87 Questo disaccordo si può risolvere
considerando separatamente ciascuna delle
cinque fonti dell'informazione che si può
ottenere dagli occhi dell'interlocutore: di queste,
tre sole sono attendibili.
Anzitutto ci sono i cambiamenti prodotti dai
muscoli che circondano il globo oculare. Questi
muscoli modificano la forma delle palpebre, la
quantità di iride e di bianco visibile,
l'impressione generale prodotta dalla zona degli
occhi (Figg. 5-2A, 5-2B, 5-2C, 5-2 D), ma come
ho già detto la loro azione non offre indizi
attendibili per scoprire eventuali inganni. È
relativamente facile muoverli volontariamente
o inibirne l'azione: non trapelerà molto, se non
brevissimi movimenti nell'ambito di una
microespressione
o
di
una
mimica
immediatamente soffocata.
La seconda fonte d'informazione è la
direzione dello sguardo. Si può distogliere lo
sguardo nel caso di varie emozioni: tristezza
(occhi bassi), vergogna o senso di colpa (bassi o
sfuggenti), disgusto (sfuggenti). E tuttavia
neppure il bugiardo che si sente in colpa
distoglierà molto lo sguardo dall'interlocutore,
perché sa bene che tutti pensano di poter
riconoscere le menzogne da questo segno. Il
professore sovietico citato dalla Mead notava
quanto è facile controllare la direzione del
proprio sguardo. Fa meraviglia che la gente
continui a lasciarsi ingannare dai bugiardi
abbastanza abili da non distogliere gli occhi
mentre mentono.
Gli altri tre canali d'informazione sono più
promettenti come fonti di indizi che lascino
trapelare la verità o almeno permettano di
sospettare l'inganno. L'ammiccamento può
essere eseguito volontariamente, ma è anche
una risposta involontaria, che aumenta quando
siamo emozionati. Le pupille si dilatano con
l'emozione, mentre non c'è nessuna via nervosa
volontaria che permetta di produrre a volontà
questa modificazione dell'occhio. La dilatazione
della pupilla è prodotta dal sistema nervoso
autonomo, lo stesso che causa le alterazioni
descritte nel capitolo precedente a proposito di
salivazione, respirazione e sudorazione, oltre ad
alcuni altri cambiamenti del viso di cui
parleremo fra poco. Se è vero che un più
frequente sbattere delle palpebre e le pupille
dilatate indicano un'emozione, non dicono però
di che emozione si tratti: possono essere segni
di
eccitazione,
collera
o
paura,
indifferentemente. Potrebbero costituire indizi
utili solo a condizione che si possa escludere che
siano puro e semplice segno della paura
dell'innocente di essere accusato a torto.
Anche le lacrime, la quinta ed ultima fonte di
informazioni provenienti dall'occhio, sono
prodotte dall'attività del sistema nervoso
autonomo, ma in questo caso abbiamo a che
fare con il segno di alcune emozioni soltanto:
dolore, tristezza, sollievo, certe forme di gioia e
il riso incontrollato. Il pianto può tradire il
dolore o la tristezza, ma certo, una volta
cominciato a piangere, diventa difficile negare
quello che si prova. Quanto alle lacrime di gioia,
compaiono solo in situazioni estreme, quando il
riso non viene affatto represso.
Il sistema nervoso autonomo produce altri
cambiamenti visibili nel volto: rossore, pallore e
sudorazione. Come per tutte le altre alterazioni
di origine vegetativa, è difficile nascondere
questi segni. Non sappiamo con certezza se il
sudore, come lo sbattere delle palpebre e la
dilatazione delle pupille, sia indizio generico di
attivazione emotiva o invece specifico di
un'emozione o due. Quanto al rossore e al
pallore, i dati in realtà sono scarsi.
Il rossore si presume sia un segno
d'imbarazzo, che compare anche nella vergogna
e forse nel senso di colpa. Si dice che sia più
comune nelle donne che negli uomini, anche se
non si sa quale potrebbe esserne la ragione. Il
rossore può tradire l'imbarazzo o la vergogna, si
arrossisce anche per la collera e non sappiamo
se questo tipo di arrossamento differisce in
qualche modo dal rossore di vergogna e
imbarazzo. Presumibilmente in entrambi i casi
entra in gioco la dilatazione dei vasi sanguigni
periferici, ma i due tipi di arrossamento
potrebbero differire per quantità, durata e zone
del volto interessate. Personalmente, penso che
il viso si imporpori per la rabbia solo quando
questa è incontrollata, oppure quando c'è un
grosso sforzo per impedirle di esplodere: se è
così, allora dovrebbero esserci altri segni di
collera nel viso e nella voce. In casi di collera più
controllata, il viso può al contrario sbiancarsi o
impallidire, come può succedere anche nella
paura. Il pallore può comparire anche quando la
mimica di queste emozioni è perfettamente
dissimulata. In effetti, ci sono pochissime
ricerche sulle lacrime, il rossore o il pallore in
rapporto all'espressione o alla dissimulazione di
emozioni specifiche.
Lasciamo adesso i segni attraverso i quali il
viso può tradire un'emozione nascosta e
passiamo a considerare quegli indizi che fanno
capire che una mimica è falsa. Una possibilità in
questo senso, di cui ho già parlato, è che i
muscoli meno controllabili, e perciò più
attendibili, non entrino in azione in una mimica
non sincera (purché non intervenga a
complicare le cose la tecnica Stanislavski, o non
si abbia a che fare con casi specialissimi come
Woody Allen). Ci sono altri tre indizi che fanno
pensare che un'espressione non sia sincera:
asimmetria, scelta di tempo e collocazione nel
corso della conversazione.
In un'espressione facciale asimmetrica, le
stesse azioni compaiono nelle due metà del viso,
ma sono più intense in una che nell'altra. Non
vanno confuse con le espressioni unilaterali, che
appaiono solo su metà del viso. Queste mimiche
dimezzate non sono segni di emozioni, se si
eccettuano quelle espressioni di disprezzo in cui
il labbro superiore viene sollevato, serrando
contemporaneamente uno degli angoli della
bocca: generalmente si tratta invece di segni
convenzionali, come la strizzata d'occhio o il
sopracciglio rialzato per indicare scetticismo. Le
espressioni asimmetriche sono più sottili, molto
più comuni e molto più interessanti.
L'idea che l'emisfero cerebrale destro fosse
specializzato nel trattamento delle emozioni ha
fatto pensare che un lato del viso potesse essere
più autenticamente emotivo. Dato che
l'emisfero destro controlla gran parte dei
muscoli della metà sinistra del viso e il sinistro
quelli della metà destra, alcuni hanno avanzato
l'ipotesi che le emozioni si mostrassero con
maggiore intensità sulla parte sinistra del volto.
Cercando di puntualizzare certe contraddizioni
in uno di questi esperimenti, mi capitò
incidentalmente di scoprire che l'asimmetria
può essere un indizio di menzogna. Le
espressioni contorte, in cui l'azione dei muscoli è
un po' più accentuata su una metà del viso, sono
in effetti un segno rivelatore della falsità del
sentimento manifestato.
Il caso si verificò perché il gruppo di
ricercatori che fu il primo a pubblicare risultati
a sostegno di quell'ipotesi non aveva usato
materiale proprio, ma di seconda mano - più
precisamente, una serie di fotografie scattate da
me. Esaminai quindi i dati con maggiore
attenzione e potei ricavarne cose che gli altri
non avevano visto, proprio perché avevo
fotografato io quei visi. Harold Sackeim e i suoi
collaboratori avevano diviso a metà le foto, in
modo da avere due serie di volti, tutti destri e
tutti sinistri, ottenuti con l'immagine speculare
dell'una o dell'altra metà. I soggetti cui
presentarono i volti così ottenuti giudicarono
più intense le emozioni espresse dai visi
“sinistri” che dai “destri”.88 Notai che c'era
un'eccezione: nessuna differenza di giudizio nel
caso delle espressioni allegre e gioiose. Sackeim
non vi aveva dato molta importanza, ma io sì.
Avendo scattato le foto, sapevo che quelle
espressioni erano le uniche autentiche: le altre
le avevo ottenute chiedendo ai miei modelli di
muovere intenzionalmente certi muscoli
facciali; i visi allegri, invece, li avevo ripresi dal
vero mentre i soggetti si divertivano per
proprio conto.
Mettendo insieme questo dato alle ricerche
sulle lesioni cerebrali e la mimica di cui ho già
parlato in questo capitolo, veniva fuori
un'interpretazione
molto
diversa
dell'asimmetria facciale. Quelle ricerche
avevano dimostrato che nella mimica volontaria
e involontaria entrano in gioco circuiti nervosi
diversi, perché a seconda della sede della
lesione può essere danneggiata l'una o l'altra.
Dal momento che le espressioni volontarie e
involontarie possono essere indipendenti fra
loro, può darsi che se le une sono asimmetriche
le altre non lo siano. L'ultimo anello del
ragionamento si basava sul fatto certo che gli
emisferi cerebrali dirigono i movimenti
volontari del viso, non quelli involontari, che
sono generati dai centri inferiori, più primitivi,
del cervello. Le differenze fra emisfero sinistro
e destro dovrebbero influire sulla mimica
volontaria, non su quella involontaria.
Sackeim aveva scoperto, secondo il mio
ragionamento, esattamente l'opposto di quello
che credeva di dimostrare. Non era vero che le
due metà del viso differivano nell'espressione
delle emozioni, ma al contrario l'asimmetria si
manifestava proprio quando l'espressione era
una posa volontaria, assunta su richiesta.
Quando l'espressione era involontaria, come nei
visi allegri fotografati di sorpresa, c'era poca
asimmetria. L'asimmetria è un indizio
dell'emozione non sentita.89 Abbiamo condotto
numerosi esperimenti per verificare questa
idea, confrontando espressioni volontarie e
spontanee.
La discussione su questo argomento è stata
vivace e solo di recente è emerso un accordo
parziale, limitato all'espressione di emozioni
positive. La maggior parte dei ricercatori
attualmente concorda nell'accettare il nostro
risultato, secondo cui quando l'espressione non
è sentita, il muscolo principale che interviene
nel sorriso agisce più intensamente su un lato
del viso, mentre nei sorrisi autentici
l'asimmetria è molto più rara.90
Abbiamo riscontrato asimmetria anche nella
mimica di alcune azioni non spontanee. Per
esempio, l'aggrottare le sopracciglia (collera) è
generalmente più accentuato a sinistra quando
è eseguito volontariamente, mentre l'arricciare
il naso (disgusto) e lo stirare le labbra
all'indietro (paura) sono di solito più intensi a
destra. Questi risultati sono stati appena
pubblicati e non è ancora certo che possano
convincere chi, come Sackeim, ha avanzato
l'idea dell'asimmetria nelle risposte emotive.91
Non pensavo che la cosa avesse molta
importanza per chi vuole smascherare la
menzogna: l'asimmetria di solito è così sottile
che ritenevo impossibile coglierla senza una
precisa misurazione. Mi sbagliavo: chiedendo ai
soggetti di valutare, in base a un filmato
normale, senza rallentatore o ripetizioni, se le
espressioni del viso sono simmetriche o
asimmetriche, si ottengono risultati di gran
lunga superiori al livello del caso.92 È chiaro che
nella situazione sperimentale c'è il vantaggio di
non aver altro da fare: non sappiamo se le
persone potranno cavarsela altrettanto bene
dovendo fare i conti con le distrazioni
rappresentate dai movimenti del corpo, dalle
parole dell'interlocutore e dalla necessità di
rispondergli.
Se molte espressioni del viso sono
asimmetriche è probabile che non siano sentite,
ma l'asimmetria non è prova certa della falsità
dell'emozione. Anche
certe
espressioni
autentiche possono essere asimmetriche: tutto
quello che sappiamo è che la maggior parte non
lo è. Analogamente, l'assenza di asimmetria non
prova che la mimica corrisponda a un'emozione
davvero sentita: l'osservatore semplicemente
può non averla notata e, a parte questo
problema, non tutte le espressioni volontarie
sono asimmetriche, solo la maggior parte. Chi
vuole smascherare bugie non deve mai basarsi
su un solo indizio, ma deve averne molti. Gli
indizi ricavati dall'espressione del viso devono
essere confermati da altri: nella voce, nelle
parole o nei movimenti corporei. Anche
restando al viso, un qualunque singolo indizio
non dev'essere interpretato se non è ripetuto o,
ancor meglio, confermato da un altro elemento
della mimica. Finora, abbiamo considerato tre
fonti di indizi rivelatori, cioè tre modi in cui il
viso può tradire sentimenti nascosti: i muscoli
facciali non volontari, gli occhi e le alterazioni
vegetative nell'aspetto del viso. L'asimmetria
rientra in un altro gruppo di tre indizi, che non
rivelano
le
emozioni
nascoste
ma
semplicemente indicano che l'espressione
mostrata non è sincera. Di questo gruppo fanno
parte i dati relativi ai tempi di esecuzione.
Ne i tempi rientrano tanto la durata totale
dell'espressione, quanto il tempo di attacco
(quanto ci mette a comparire) e di stacco
(quanto ci mette a scomparire dal viso). Tutti e
tre questi elementi possono costituire indizi
utili. Le espressioni di lunga durata (di certo dai
10“ in su, generalmente anche intorno ai 5”)
sono probabilmente false. La maggior parte
delle espressioni autentiche non dura così a
lungo: a meno che non si tratti di esperienze
limite - il culmine dell'estasi, una rabbia furiosa,
il fondo della depressione - la mimica che
esprime emozioni davvero sentite non resta sul
viso più di qualche secondo. E anche in quei casi
estremi è raro che l'espressione si mantenga
invariata a lungo: c'è piuttosto una rapida
successione di molte espressioni più brevi. La
mimica sostenuta per lunghe durate è
generalmente un'espressione convenzionale,
oppure è finta.
Non ci sono invece regole semplici per i
tempi di attacco e di stacco, salvo per la
sorpresa: se la sorpresa è autentica, tutti i
tempi (attacco, stacco e durata totale) devono
essere brevissimi, inferiori al secondo. Se la
mimica dura più a lungo, è una sorpresa finta,
un gesto convenzionale per indicare sorpresa, o
un vero e proprio falso: la persona cerca di
sembrare sorpresa ma non lo è. La sorpresa è
sempre un'emozione brevissima, che dura solo
finché non si è capito con che cosa si ha a che
fare. La maggior parte delle persone è in grado
di fingere la sorpresa, ma pochi sanno farlo in
maniera convincente, con quei tempi rapidi di
attacco e di stacco che una sorpresa naturale
deve avere.
Tutte le altre espressioni emotive possono
essere brevissime, passando sul viso in un
lampo, oppure durare qualche secondo. L'inizio
e la fine possono essere bruschi o graduali:
dipende dal contesto in cui l'emozione si
presenta. Supponiamo che un impiegato si trovi
a fingere divertimento per una barzelletta
scema che sente raccontare per la quarta volta
dal principale, uomo di scarsa memoria e del
tutto privo di senso dell'umorismo. Quanto
tempo ci vuole perché il sorriso compaia
dipende da come funziona la battuta, a seconda
che ci sia un accumulo graduale di elementi
umoristici o una conclusione brusca. E il tempo
necessario alla scomparsa del sorriso dipenderà
dal tipo di barzelletta: il ripensamento e
riassaporamento è anch'esso proporzionato alla
storiella. Chiunque è capace di fare un qualche
genere di sorriso per fingere divertimento, ma
quando si mente è più difficile adeguare
esattamente i tempi di attacco e di stacco del
sorriso alle particolari esigenze del contesto.
Infine,
l'esatta collocazione
di
un'espressione rispetto al flusso del discorso,
alle alterazioni della voce e ai movimenti del
corpo è la terza fonte di indizi che possono far
capire che la mimica non corrisponde ai reali
sentimenti. Supponiamo che uno finga di
arrabbiarsi e dica «Non ne posso più di come ti
comporti»: se la mimica incollerita viene dopo le
parole è più probabilmente falsa che se
compare all'inizio della frase o addirittura un
attimo prima. I limiti sono anche più ristretti
quanto alla collocazione della mimica rispetto ai
movimenti del corpo. Supponiamo che il «non
ne posso più» sia accompagnato da un pugno sul
tavolo: se l'espressione del viso segue il gesto è
ancora più probabile che sia falsa. Espressioni
del viso che non sono sincronizzate coi
movimenti del corpo costituiscono probabili
indizi di falso.
Una trattazione dei segni di menzogna che si
possono ricavare dal viso non potrebbe essere
completa senza toccare una delle mimiche più
frequenti, il sorriso. È unica fra tutte le
espressioni del viso: basta l'azione di un solo
muscolo per mostrare gioia, mentre la maggior
parte delle altre mimiche emotive richiede
l'intervento coordinato di tre-cinque muscoli
diversi. Il sorriso è anche l'espressione più facile
da riconoscere: abbiamo trovato che è visibile a
maggior distanza (100 metri) e con esposizioni
più brevi rispetto alle altre mimiche emotive.93
È difficile non rispondere al sorriso (perfino al
sorriso di una fotografia) e alla gente piace
guardare visi sorridenti, come sanno bene i
pubblicitari.
Il sorriso è probabilmente la più
sottovalutata delle espressioni del viso, molto
più complicata di quanto la gente supponga. Ci
sono decine di sorrisi diversi, ognuno con un
aspetto e un messaggio particolare. Ci sono
numerose emozioni positive segnalate dal
sorriso: gioia, piacere fisico o sensoriale,
soddisfazione, divertimento, per nominarne solo
qualcuna. Ma si sorride anche quando si è
infelici. E poi ci sono i sorrisi falsi usati per
convincere il prossimo che si provano
sentimenti positivi quando non è vero. Abbiamo
accertato che le persone si lasciano ingannare
facilmente da questi falsi sorrisi. Presentando ai
soggetti i sorrisi delle nostre allieve infermiere
in risposta al documentario piacevole e al
filmato orripilante, questi dovevano giudicare
se erano autentici o no, ma i risultati non sono
stati migliori che rispondendo a caso. Sono
convinto che la difficoltà nasca anche da una
generale ignoranza circa la gran quantità di
sorrisi diversi che esistono: non è possibile
distinguere i veri dai falsi senza conoscere le
somiglianze e le differenze che ci sono fra tutti i
principali membri della famiglia. Quella che
segue è la descrizione di diciotto tipi diversi di
sorriso, tutti autentici.
L'elemento comune a quasi tutta la famiglia
dei sorrisi è il cambiamento di aspetto prodotto
dal muscolo zigomatico maggiore. Questo
muscolo parte dall'osso dello zigomo e
attraversa la guancia raggiungendo l'angolo
delle labbra: quando si contrae, solleva gli angoli
della bocca inclinandoli verso gli zigomi. Se
l'azione è forte, inoltre, stira le labbra, solleva le
gote, rigonfiando la pelle sotto gli occhi e
producendo le “zampe di gallina” agli angoli
dell'occhio (in qualcuno, questo muscolo
abbassa leggermente la punta del naso, in altri
stira la pelle vicino all'orecchio). Altri muscoli
collaborano con lo zigomatico maggiore per
formare i vari membri della famiglia dei sorrisi;
inoltre, c'è qualche forma di sorriso che è
prodotta non da questo ma da muscoli diversi.
L'azione semplice del muscolo zigomatico
maggiore produce il sorriso che si manifesta in
caso di autentiche e non controllate emozioni
positive. Nessun altro muscolo nella parte
inferiore della faccia interviene in questo sorriso
sentito. L'unico movimento che può comparire
nella parte superiore del viso è il restringimento
del muscolo che circonda gli occhi, in grado di
produrre la maggior parte dei cambiamenti che
(sempre nella parte superiore del viso)
derivano da un'azione intensa dello zigomatico
maggiore: sollevamento della guancia, “borse”
sotto gli occhi e “zampe di gallina”. La Fig. 5-4A
riproduce il sorriso autentico e sentito. Questo
sorriso dura più a lungo ed è più accentuato
quando i sentimenti positivi sono più intensi.94
Penso che tutte quante le esperienze emotive
positive si mostrino in questo tipo di sorriso,
differendo solo nei tempi e nell'intensità della
mimica.
Il sorriso di paura (Fig. 5-4B) non ha nulla a
che fare con emozioni positive, ma a volte dà
luogo a equivoci. È prodotto dal muscolo risorio
che stira gli angoli delle labbra orizzontalmente
verso gli orecchi, cosicché le labbra si
distendono in una forma rettangolare.
Nonostante il nome di questo muscolo, la sua
azione interviene principalmente nella paura,
non nel riso. La confusione è nata
probabilmente perché a volte le labbra, stirate
orizzontalmente dal muscolo risorio, piegano gli
angoli verso l'alto, somigliando a una versione
molto
larga
del
sorriso
autentico.
Nell'espressione della paura, la forma
rettangolare della bocca (con o senza gli angoli
piegati in alto) sarà accompagnata dalla forma
degli occhi e delle sopracciglia riportata nella
Fig. 5-4B.
Il sorriso di disprezzo è un altro nome
improprio, perché questa espressione non ha
molto a che fare con emozioni positive. La
versione che ne presentiamo alla Fig. 5-4C
implica una contrazione del muscolo agli angoli
della bocca, che produce in quella zona un
rigonfiamento, spesso una fossetta e una lieve
inclinazione verso l'alto degli angoli della
bocca.95 Ancora una volta è il sollevamento
degli angoli della bocca, una caratteristica in
comune con l'autentico sorriso di piacere, a
causare la confusione. Un'altra caratteristica in
comune è la fossetta, che a volte compare nel
sorriso sentito. La differenza principale fra il
sorriso di disprezzo e quello autentico è il
restringimento degli angoli della bocca,
presente solo nel cosiddetto sorriso di
disprezzo.
In un sorriso smorzato, l'individuo prova
davvero emozioni positive ma cerca di far
credere che siano meno intense di quanto sono
in realtà. Lo scopo è attenuare (non
sopprimere) l'espressione di emozioni positive,
mantenendo la mimica entro certi limiti. Le
labbra possono essere premute, gli angoli delle
labbra stretti, il labbro inferiore sollevato, gli
angoli della bocca abbassati. La Fig. 5-4D
mostra un sorriso smorzato in cui intervengono
tutte e tre queste azioni, fondendosi col sorriso
sentito.
Il sorriso triste segnala l'esperienza di
emozioni negative. Non è un tentativo di
nascondere la propria infelicità, ma piuttosto un
accompagnamento mimico. Questo sorriso
generalmente significa anche che il soggetto non
ha intenzione, almeno per il momento, di
protestare molto per la sua infelicità, ma farà
buon viso a cattivo gioco.
Figura 5-4A. Sorriso
sentito.
Figura 5-4B. Sorriso
di paura.
Figura 5-4C. Sorriso
di disprezzo.
Figura 5-4D. Sorriso
smorzato.
Figura 5-4E. Sorriso
triste.
Figura 5-4F. Sorriso
di Chaplin.
Abbiamo osservato questo tipo di sorriso sul
volto delle persone che sedevano da sole nel
nostro laboratorio di fronte allo schermo su cui
si proiettava il filmato dell'amputazione, senza
sapere che venivano riprese dalla telecamera
nascosta. Spesso il sorriso compariva presto,
non appena cominciavano a rendersi conto di
quanto fossero terribili le scene. Lo stesso
sorriso l'abbiamo visto sul volto di pazienti
depressi, come una sorta di commento alla loro
situazione disgraziata. Il sorriso triste è spesso
asimmetrico; in molti casi si sovrappone a una
chiara espressione di emozioni negative, non
per mascherarla ma per completarla, oppure
può seguirvi a ruota. Quando attesta un
tentativo di controllare l'espressione di paura,
collera o dolore, questo sorriso può apparire
molto simile al sorriso smorzato: le labbra
strette, quello inferiore sollevato dal muscolo
del mento e gli angoli tirati o abbassati possono
servire a controllare l'esplosione di uno di questi
sentimenti negativi. La differenza centrale fra
questa versione del sorriso triste (Fig. 5-4 E) e il
sorriso smorzato è l'assenza di qualunque segno
di contrazione del muscolo intorno agli occhi.
L'azione di quel muscolo (la pelle che si raccoglie
intorno all'occhio, le “zampe di gallina”) è
presente nel sorriso smorzato perché la gioia è
sentita, mentre manca nel sorriso triste per la
ragione opposta. Il sorriso triste può anche
mostrare nella fronte e nelle sopracciglia le
emozioni negative che il soggetto prova e
riconosce apertamente.
In un'esperienza emotiva mista, due o più
emozioni sono vissute e si manifestano nella
stessa espressione del viso. Qualunque
emozione può mescolarsi con qualunque altra.
Qui ci interessa solo l'aspetto del viso nel caso
delle emozioni che più spesso si mescolano a
quelle positive. Quando uno è piacevolmente
arrabbiato, la miscela collera-piacere si
manifesterà nelle labbra che si restringono
(talvolta quello superiore si solleva), oltre al
sorriso sentito e all'aspetto della parte
superiore del viso riprodotto nella Fig. 5-2c (si
potrebbe anche parlare di sorriso crudele, o
sadico). Nell'espressione di piacevole disprezzo
il sorriso sentito si fonde con lo stringersi
dell'angolo della bocca (uno solo o entrambi).
Anche tristezza e paura possono dare
piacere, come ben sa chi produce film e libri
lacrimevoli o dell'orrore. Nel caso della tristezza
piacevole, gli angoli della bocca possono essere
stirati verso il basso, in aggiunta al
sollevamento proprio del sorriso sentito, oppure
può succedere che il sorriso sentito si fonda
semplicemente con l'aspetto della parte
superiore del viso riprodotto nella Fig. 5-2A. La
m is c e la piacere-paura presenta la parte
superiore del viso come nella Fig. 5-2B, insieme
col sorriso sentito, unito allo stiramento
orizzontale delle labbra. Alcune esperienze
piacevoli sono caratterizzate da calma e
soddisfazione, ma a volte il piacere si mescola
con l'eccitazione. Nell'eccitazione piacevole,
oltre al sorriso sentito ci sono le palpebre
superiori che si sollevano: Harpo Marx
mostrava spesso questo sorriso eccitato e
giulivo. Nella piacevole sorpresa le sopracciglia
si sollevano, la mascella ricade, le palpebre
superiori si alzano, mentre si mostra il sorriso
sentito di piacere.
In altri due tipi di sorriso l'aspetto tipico del
sorriso autentico si accompagna a uno sguardo
particolare. Il sorriso di corteggiamento viene
mostrato dal corteggiatore mentre questi
distoglie il viso e lo sguardo dalla persona che gli
interessa, lanciandole poi uno sguardo furtivo,
abbastanza a lungo da esser notato, mentre gli
occhi si distolgono nuovamente. Uno degli
elementi che rendono così particolare la Monna
Lisa è che Leonardo l'ha colta nel momento di
questo sorriso seduttivo, col viso rivolto da
un'altra parte ma lo sguardo gettato
obliquamente verso l'oggetto del suo interesse.
Nella vita reale questa è un'azione rapida, con lo
sguardo che devia solo per un attimo. Nel
sorriso d'imbarazzo lo sguardo è abbassato o
laterale, in modo da non incontrare gli occhi
dell'interlocutore. A volte, durante il sorriso, c'è
un sollevamento momentaneo del mento; in
un'altra versione l'imbarazzo si manifesta
combinando il sorriso, non aperto ma smorzato,
con l'occhiata laterale o rivolta in basso.
Il sorriso di Chaplin è un movimento
insolito, prodotto da un muscolo che la maggior
parte delle persone non è in grado di muovere
deliberatamente. Charlie Chaplin sapeva farlo,
tanto che questo sorriso, in cui le labbra
formano un angolo molto più acuto che nel
sorriso normale, era la sua specialità. È un
sorriso un po' sussiegoso, che sorride dell'atto
stesso di sorridere (vedi Fig. 5 -4F).
I prossimi quattro tipi di sorriso hanno tutti
lo stesso aspetto, ma servono a funzioni sociali
molto diverse. In tutti e quattro i casi il sorriso
è eseguito intenzionalmente e spesso questi
sorrisi presentano una certa asimmetria.
Il sorriso correttivo serve a smussare un
messaggio altrimenti spiacevole o critico, spesso
col risultato di indurre con questo tranello il
destinatario della critica, tutt'altro che felice, a
restituire il sorriso. È un'azione volontaria, con
un avvio rapido e brusco. Gli angoli della bocca
possono essere stretti e a volte anche il labbro
inferiore è sollevato per un momento. Il sorriso
correttivo è spesso accompagnato da un cenno
di assenso della testa, magari appena inclinata
di lato, in modo da guardare un po' dall'alto in
basso l'interlocutore.
Il sorriso di acquiescenza dà atto che un
boccone amaro viene inghiottito senza
protestare. Nessuno pensa che la persona che
mostra questo sorriso sia felice: questa mimica
segnala soltanto che accetta un destino non
voluto. Somiglia al sorriso correttivo, a parte la
posizione della testa. Semmai, può essere
accompagnato da un sospiro, da un'alzata di
spalle o dalle sopracciglia che si alzano per un
attimo.
Il sorriso di coordinazione regola gli scambi
fra due o più persone. È un sorriso di cortesia,
che serve a manifestare senza intoppi accordo,
comprensione, l'intenzione di eseguire quanto
richiesto o il riconoscimento che l'altro ha fatto
come si deve. Si tratta di un lieve sorriso, di
solito asimmetrico, senza l'azione dei muscoli
orbitali degli occhi.
Il sorriso di risposta dell'ascoltatore è un
particolare sorriso di coordinazione usato
quando si ascolta, per far capire a chi parla che
si è capito tutto e che non ha bisogno di ripetere
o spiegare meglio: è equivalente ai segni o
mormorii di assenso che spesso accompagna.
Chi parla non pensa che l'ascoltatore che sorride
sia felice, ma prende questo sorriso come un
incoraggiamento a continuare.
Ciascuno di questi quattro sorrisi
(correttivo, di acquiescenza, di coordinazione e
di ascolto) può a volte essere sostituito da un
sorriso veramente sentito: uno che si diverte a
criticare e correggere, o prova piacere
nell'accondiscendere o nel partecipare a uno
scambio sociale ben coordinato può mostrare
benissimo il sorriso autentico anziché uno di
quelli non sentiti che ho descritto finora.
Consideriamo adesso il sorriso falso, un
sorriso che mira a convincere l'interlocutore che
si sta provando un'emozione positiva quando
non è vero: può darsi che non si provi nulla di
particolare, oppure che si cerchi di nascondere
con la maschera del sorriso un'emozione
negativa che non si vuol mostrare. A differenza
del sorriso triste, che riconosce che non si prova
nessun piacere, il sorriso falso cerca di far
credere che si stanno provando sentimenti
positivi e piacevoli. È l'unico sorriso che mente.
Ci sono vari indizi per distinguere i sorrisi
falsi dal sorriso autenticamente sentito che
fingono di essere.
Il sorriso falso è più asimmetrico del
sorriso sentito.
Il sorriso falso non è accompagnato
dall'azione dei muscoli intorno agli occhi,
cosicché (a meno che il sorriso non sia molto
accentuato), non si notano il sollevamento delle
guance, le borse sotto gli occhi, le zampe di
gallina o il lieve abbassamento delle sopracciglia
che compaiono nel sorriso autentico, anche di
scarsa o media intensità. Un esempio è
riprodotto alla Fig. 5-5: lo si confronti con la Fig.
5-4A, riportata accanto per comodità.
Figura 5-5. Sorriso
falso.
Figura 5-4A. Sorriso
sentito.
Se il sorriso falso è più ampio, l'azione stessa
del muscolo zigomatico maggiore avrà l'effetto
di sollevare le guance, raccogliere la pelle sotto
gli occhi e produrre le zampe di gallina. Ma non
abbassa il sopracciglio. Se vi mettete davanti
allo specchio e fate lentamente un sorriso
sempre più accentuato, noterete che piano
piano le guance si sollevano e le zampe di gallina
compaiono; ma le sopracciglia non si
abbasseranno, a meno che mettiate in azione i
muscoli intorno all'occhio. La mancata
partecipazione delle sopracciglia è un indizio
sottile, ma cruciale per distinguere il sorriso
autentico da quello falso, quando è molto largo.
Il tempo di stacco del sorriso falso può
apparire sensibilmente inappropriato: in altre
parole, il sorriso può scomparire bruscamente,
oppure a scatti.
Quando è usato come una maschera, il
sorriso falso copre solo le azioni della parte
inferiore del viso e della palpebra inferiore. I
movimenti muscolari attendibili che compaiono
nella fronte a segnalare paura o dolore possono
essere visibili lo stesso. Anche nella parte
inferiore del viso, il sorriso falso può non
riuscire a coprire totalmente i segni
dell'emozione che dovrebbe dissimulare; può
esserci invece una fusione di elementi, cosicché
qualche traccia compare egualmente, come in
un'emozione mista.
La nostra prima verifica sperimentale è
consistita nella misurazione oggettiva delle
espressioni sorridenti mostrate dalle allieve
infermiere nel nostro esperimento. Se le mie
idee sono giuste, nel corso dell'intervista
“onesta”
(quando
cioè
descrivevano
francamente le loro impressioni alla vista del
documentario piacevole) si sarebbero dovuti
osservare sorrisi corrispondenti a questa
descrizione del sorriso sentito, mentre i sorrisi
falsi avrebbero dovuto fare la loro comparsa
nell'intervista condotta durante la visione del
documentario orripilante. Abbiamo considerato
solo due segni del sorriso falso: mancata
partecipazione dei muscoli intorno agli occhi e
presenza di segni di disgusto (naso arricciato) o
disprezzo (angoli della bocca stretti). I risultati
sono stati esattamente come previsto e molto
netti: nell'intervista onesta c'erano più sorrisi
autentici e non ce n'era nessuno che tradisse
disprezzo o disgusto, mentre nell'altra erano più
numerosi i sorrisi falsi e comparivano quelli che
lasciavano trapelare apertamente emozioni
spiacevoli. Mi ha molto colpito il fatto che questi
due indizi di inganno funzionassero tanto bene,
specialmente avendo notato che le persone non
se ne servono quando devono giudicare la
sincerità degli altri. In ricerche precedenti
avevamo
presentato
le
stesse
videoregistrazioni, chiedendo ai soggetti di
indicare in quali casi le allieve infermiere
stavano mentendo: i risultati, si è visto, non
erano migliori di quelli che si possono ottenere
tirando a sorte. Come stanno le cose? Stiamo
misurando qualcosa che è troppo sottile per
poterlo vedere, oppure il fatto è che la gente
non sa dove guardare? Cercheremo di capirlo
nella prossima ricerca che abbiamo in
programma: insegneremo ai nostri soggetti
come riconoscere quando i muscoli dell'occhio
entrano in azione e quando compaiono sorrisi
che lasciano trapelare emozioni contrastanti e
poi vedremo se in questo modo sono in grado di
individuare più esattamente le bugie.
Il viso può contenere molti indizi diversi di
menzogna:
microespressioni,
espressioni
soffocate, segni che trapelano attraverso i
muscoli
facciali
meno
controllabili,
ammiccamento, dilatazione della pupilla,
lacrime, rossore e pallore, asimmetria, errori
nei tempi e nella scelta del momento, sorrisi
falsi. Alcuni di questi indizi lasciano trasparire
informazioni che il mentitore vorrebbe
nascondere, altri fanno capire semplicemente
che viene nascosto qualcosa, altri ancora
indicano solo che un'espressione non è
autentica.
Fra questi segni facciali, come in quelli
ricavabili dalle parole, dalla voce o dal corpo che
abbiamo visto nell'ultimo capitolo, c'è molta
varietà quanto alla precisione delle informazioni
che permettono di ricavare. Alcuni rivelano
esattamente qual è l'emozione autentica, anche
se si cerca di dissimularla, altri dicono solo se
l'emozione dissimulata è positiva o negativa,
altri ancora sono più generici, lasciando capire
semplicemente che c'è un'emozione che non si
vorrebbe mostrare. A volte può bastare anche
questo, ma spesso ciò non è sufficiente a tradire
la menzogna in assenza di informazioni più
precise. Tutto dipende dal tipo di menzogna,
dalla linea scelta per sviare i sospetti, dalla
situazione e dalle spiegazioni alternative che, a
prescindere dalla bugia, possono giustificare
come mai una certa emozione non viene
apertamente manifestata.
È importante tenere a mente quali indizi
forniscono informazioni specifiche e quali
soltanto un'informazione più generica. Le Tabb.
1 e 2 dell'Appendice riassumono l'informazione
ricavabile da tutti gli indizi di falso descritti in
questo capitolo e nel precedente. La Tab. 3
riguarda invece i segni espliciti di finzione.
VI
Pericoli e precauzioni
La maggior parte delle menzogne va a
segno.96 Anche i bambini a otto-nove anni sono
in grado di ingannare i genitori. Gli errori
nell'individuare l'inganno consistono non solo
nel credere a un bugiardo ma anche, il che
spesso è peggio, nel non credere a una persona
sincera; un errore di giudizio che, nel caso del
bambino, può impaurirlo malgrado successivi
tentativi di correggere lo sbaglio. Le
conseguenze possono essere disastrose anche
per l'adulto, che rischia di perdere un'amicizia, il
posto di lavoro, in casi estremi la vita. Fa notizia
quando un innocente viene rimesso in libertà
dopo anni di carcere immeritato, ma non è un
caso così raro da avere un titolo in prima
pagina. Benché non sia possibile evitare
completamente gli errori, si possono prendere
precauzioni per ridurli.
La prima precauzione consiste nel rendere
più esplicito il processo d'interpretazione degli
indizi comportamentali. Quello che ho spiegato
negli ultimi due capitoli non impedirà errori di
giudizio, ma forse potrà renderli più evidenti e
correggibili.
Chi cerca di smascherare le bugie non si
affiderà più soltanto a vaghe impressioni: sarà
più informato circa le basi su cui si fondano i
suoi giudizi e potrà quindi imparare
dall'esperienza, scartando, correggendo o
mettendo in rilievo questo o quell'indizio. Anche
chi è accusato a torto potrebbe trarne
giovamento, potendo più facilmente contestare
un giudizio quando le basi di quel giudizio siano
specificate.
Un'altra precauzione è capire meglio la
natura degli errori. Ci sono due tipi di errori
esattamente opposti nella causa e nelle
conseguenze: non credere-alla-verità, cioè un
“falso positivo” in cui l'inquisitore ritiene a torto
di aver smascherato una menzogna inesistente,
e credere-alla-bugia, cioè un “falso negativo”,
in cui l'inquisitore non si accorge dell'inganno.
Poco importa se il giudizio si basi su dati
strumentali (la “macchina della verità”) ovvero
sull'interpretazione
personale
di
indizi
comportamentali: in entrambi i casi è esposto a
questi due tipi d'errore.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Hitler
commise un errore del tipo “falso negativo”,
mentre uno sbaglio altrettanto disastroso in
senso opposto lo fece Stalin. Attraverso vari
mezzi (falsi concentramenti di truppe, voci
lasciate filtrare, piani militari passati ad arte ai
servizi segreti tedeschi), gli alleati convinsero i
tedeschi che lo sbarco in Europa, l'apertura del
“secondo fronte”, sarebbe avvenuto a Calais,
non sulla costa normanna. Per sei settimane
dopo lo sbarco in Normandia i tedeschi
perseverarono nell'errore, tenendo molte
truppe in stato di all'erta a Calais invece di
portare rinforzi all'armata impegnata in
Normandia, nella convinzione che lo sbarco
fosse solo una manovra diversiva in vista di un
attacco a Calais. Ecco un tipico errore del
genere “falso-negativo”: i tedeschi giudicavano
autentici i rapporti su un piano di sbarco a
Calais, mentre erano falsi costruiti con grande
cura.
Esattamente l'errore opposto, giudicare
falsa quella che era la verità, fu il rifiuto di
Stalin di credere ai numerosi avvertimenti
ricevuti (in gran parte dal suo stesso
controspionaggio infiltrato nei comandi
tedeschi) circa un imminente attacco di Hitler
contro l'Unione Sovietica. Fu un clamoroso falso
positivo: i rapporti autentici circa i piani
tedeschi erano considerati dei falsi.
Questa distinzione fra i due tipi d'errore è
importante, perché costringe a concentrare
l'attenzione sul duplice pericolo che minaccia chi
cerca di individuare una menzogna. Non c'è
modo di evitare completamente entrambi gli
errori: si può solo decidere quale rischio
correre. Sta a chi indaga valutare quando è
preferibile rischiare di lasciarsi ingannare e
quando sarebbe invece meglio rischiare
un'accusa ingiusta. Quali possono essere i
vantaggi o gli svantaggi sospettando un
innocente o dando credito a un bugiardo
dipende dal tipo di bugia e dalla situazione delle
due parti interessate. Le conseguenze possono
in qualche caso essere peggiori per l'uno o l'altro
tipo di errore, oppure i due errori possono
essere altrettanto disastrosi. Non esiste una
regola generale che dica quale tipo di errore può
essere evitato più facilmente: ancora una volta,
dipende dalla bugia, dalla personalità e dalla
situazione di chi mente e di chi deve scoprirlo. I
temi da prendere in considerazione per
decidere quale dei due errori opposti rischiare
sono elencati alla fine del prossimo capitolo,
dedicato al poligrafo e al confronto fra dati
strumentali e comportamentali. Ora mi limiterò
a descrivere come i singoli indizi
comportamentali siano esposti all'uno o all'altro
tipo di errore e quali precauzioni si possono
prendere per evitare gli errori.
L e differenze individuali (che prima ho
chiamato effetto Brokaw) sono responsabili di
entrambi i tipi di errore. Nessun indizio di
menzogna, nel viso, nel corpo, nella voce o nelle
parole, è a prova di errore, neppure l'attività
del sistema nervoso autonomo misurata dalla
“macchina della verità”. I falsi negativi capitano
perché certe persone semplicemente non
commettono errori quando mentono: non solo
psicopatici ma anche attori nati, chi adotta la
tecnica Stanislavski e chi addirittura riesce a
credere alle sue stesse bugie. Chi cerca di
smascherare le menzogne deve ricordare che
l'assenza di segni di inganno non è prova di
verità.
Ma anche la presenza di un segno di falso
può indurre in errore, causando lo sbaglio
opposto (falso positivo), cosicché una persona
sincera non viene creduta. Oppure, un indizio di
bugia può essere esibito volontariamente dal
truffatore, per sfruttare l'errata convinzione
della vittima di averlo colto in fallo. Si dice che
certi giocatori di poker usino questo trucco,
creando quello che si può chiamare un falso
segnale rivelatore: «Per esempio, un giocatore
può continuare per ore a tossicchiare
deliberatamente ogni volta che fa un bluff.
L'avversario, che crede e spera di essere
abbastanza astuto, ben presto nota questa
coincidenza. In una mano decisiva del gioco,
quando le poste sono molto salite, l'ingannatore
tossisce di nuovo, ma stavolta ha un buon punto
in mano e vince un piatto strepitoso al suo
avversario, che non sa più cosa pensare».97
Il giocatore di questo esempio mette in piedi
volontariamente a proprio vantaggio un falso
positivo, ma è un caso raro. Più normale è che la
persona giudicata a torto bugiarda ci rimetta. A
far sì che certe persone non siano credute
quando in effetti dicono la verità è spesso una
qualche peculiarità del loro comportamento, un
aspetto tutto personale del loro stile espressivo.
Quello che per la maggior parte della gente
potrebbe essere un indizio di falso non lo è per
una persona del genere. C'è chi:
parla con molti giri di parole;
fa molte pause lunghe e brevi nel
discorso;
commette molti errori parlando;
usa pochi gesti illustrativi;
esegue molti gesti manipolatori;
manifesta spesso nel viso segni di paura,
collera o malessere, a prescindere da ciò
che prova in realtà;
ha una mimica asimmetrica.
Ci sono differenze enormi fra gli individui in
tutti questi comportamenti e queste differenze
producono errori di valutazione in entrambi i
sensi: giudicare bugiarda una persona sincera
che normalmente parla con perifrasi ed
espressioni indirette, oppure credere al
mentitore di lingua sciolta.
L'unico modo per ridurre gli errori dovuti
all'effetto Brokaw è fondare i giudizi su una
variazione nel comportamento del sospettato.
Bisogna fare un confronto fra il suo
comportamento normale e quello che manifesta
quando viene in qualche modo inquisito. È facile
essere tratti in errore a un primo incontro
perché non c'è nessuna base di raffronto,
nessuna possibilità di notare variazioni di
comportamento. I giudizi assoluti («Questa
persona sta facendo così tanti gesti di
manipolazione che dev'essere molto a disagio a
proposito di qualcosa che non dice») hanno
buone probabilità di essere sbagliati. I giudizi
relativi («Sta facendo molti più gesti di
manipolazione del solito: dev'essere a disagio»)
sono il solo modo di ridurre gli errori dovuti a
differenze individuali nello stile espressivo. I più
abili giocatori di poker seguono questa pratica
quando imparano a memoria gli indizi rivelatori
tipici dei loro avversari abituali.98 Quando il
giudizio dev'essere formulato al primo incontro,
quest'ultimo dovrebbe essere prolungato il più
possibile, in modo da offrire l'opportunità di
osservare il comportamento abituale del
sospettato. Si può, ad esempio, cercare di
mantenere per qualche tempo il discorso sulle
generali. Ma a volte ciò non è possibile: tutta
quanta la situazione può essere stressante per
una persona che sa di essere sospettata e ne è
offesa o impaurita. In questo caso, chi deve
formulare il giudizio deve rendersi conto di
essere esposto ad errori dovuti all'effetto
Brokaw, essendo all'oscuro di ogni eventuale
peculiarità nel comportamento consueto del
sospettato.
Nel primo incontro, il rischio di errori di
giudizio è particolarmente elevato, anche a
seguito delle differenze individuali nel modo di
reagire a questa situazione. Alcuni rendono al
massimo, seguendo regole di recitazione ben
assimilate, e per questa ragione offrono un
campione poco rappresentativo del loro
comportamento. Per altri un primo incontro è
una situazione ansiogena e anche il loro
comportamento, per la ragione opposta,
costituisce un cattivo termine di paragone. Se
possibile, il giudizio dovrebbe essere basato su
una serie di incontri, nella speranza di formare,
con la conoscenza reciproca, un termine di
raffronto più adeguato. Si potrebbe pensare che
l'individuazione delle menzogne sia facilitata da
un tipo di rapporti che vanno al di là di una
conoscenza superficiale, ma non sempre è così.
Nella coppia, nella famiglia, ma anche fra amici
o colleghi che lavorano a stretto contatto, si
sviluppano preconcetti e incomprensioni che
interferiscono in un esatto giudizio degli indizi
comportamentali di menzogna.
L'interpretazione di quattro tipi di segni che
lasciano trasparire ciò che viene dissimulato
(lapsus, tirate oratorie incontrollate, gesti
emblematici involontari, microespressioni) non
è invece così esposta all'effetto Brokaw. In
questo caso non c'è bisogno di avere termini di
paragone, perché questi indizi hanno un
significato in sé e per sé, in termini assoluti. Si
ricordi l'esempio citato da Freud, in cui il Dott.
R. fingeva di parlare del divorzio di un altro:
«Conosco un'infermiera che è stata indicata
come correa in un caso di divorzio. La moglie ha
citato in giudizio il marito per adulterio, facendo
il suo nome come complice, e lui ha ottenuto il
divorzio». Il lapsus aveva un significato molto
preciso, comprensibile di per sé: il Dott. R.
avrebbe desiderato che fosse il marito e non la
moglie a ottenere, come parte lesa, il divorzio.
A differenza degli altri indizi, un lapsus, una
microespressione, un discorso avventato
rivelano
direttamente
un'informazione,
rompendo la cortina della dissimulazione. Si
ripensi all'esempio della studentessa del mio
esperimento, che si lasciava sfuggire il gesto del
dito puntato contro il professore che
l'aggrediva. Trattandosi di un vero e proprio
lapsus gestuale, con un significato ben noto, il
messaggio si poteva interpretare con sicurezza
come indizio rivelatore di sentimenti che la
ragazza cercava di dissimulare. Oppure quando
Mary, la paziente che cercava di non lasciar
trapelare i suoi progetti di suicidio, presentava
per un attimo un'espressione disperata, il
messaggio era interpretabile in sé e per sé.
Conoscere il contesto della conversazione può
servire a intendere tutta la portata di una
menzogna, ma il messaggio fornito da lapsus,
discorsi avventati, lapsus gestuali e
microespressioni
tradisce
l'informazione
nascosta ed è di per sé significativo.
Queste quattro fonti d'informazione sono
uniche sotto questo profilo, in confronto a tutti
gli altri indizi di falso. Non c'è bisogno di avere
termini di confronto per evitare i falsi positivi,
cioè il rischio di non credere a chi dice la verità.
Se si può tralasciare per questi quattro tipi
d'indizio la precauzione di avere un termine di
paragone, vale sempre la messa in guardia per
l'errore opposto: l'assenza di questi, come di
qualunque altro indizio di bugia, non può essere
interpretata come prova di sincerità.
Finora abbiamo considerato una sola fonte
di errori nell'individuazione degli inganni,
l'effetto Brokaw, cioè il non tener conto delle
differenze individuali. Un altro problema non
meno importante, causa frequente di falsi
positivi, è l'errore di Otello. Questo errore
capita quando l'inquisitore non tiene conto del
fatto che l'inquisito sotto stress, anche se è
sincero, può sembrare che menta. Ognuno dei
sentimenti che ho descritto nel Cap. III come
possibili concomitanti emotive della menzogna
può essere provato per altre ragioni quando un
innocente sa di essere sospettato a torto. Può
aver paura di non esser creduto e questa sua
paura può essere confusa con il timore del
bugiardo di essere smascherato. Oppure, certe
persone hanno tali sensi di colpa per altri motivi
che basta un sospetto o un'accusa qualunque a
riattivarli: ecco che quei sentimenti di colpa
possono essere frettolosamente attribuiti alla
menzogna. Ma la persona sincera ingiustamente
sospettata può provare anche disprezzo per chi
l'accusa, eccitazione di fronte alla sfida di
dimostrare la propria innocenza, o piacere alla
prospettiva di vedere l'inquisitore scornato, e i
segni di queste emozioni possono somigliare al
piacere della beffa tipico del truffatore. Tante
altre emozioni possono essere vissute
indifferentemente dal bugiardo o dall'innocente
che sa di essere inquisito: le ragioni saranno
diverse, ma l'uno e l'altro possono provare
sorpresa, rabbia, delusione, dispiacere o
disgusto di fronte ai sospetti o agli interrogatori.
L'ho chiamato errore di Otello perché la
scena della morte di Desdemona nel dramma di
Shakespeare ne è un esempio eccellente e
notissimo. Otello ha appena accusato la moglie
di amare Cassio e le ordina di confessare la sua
colpa, perché sta per ucciderla per questo suo
tradimento. Desdemona chiede di chiamare
Cassio a testimoniare la sua innocenza, ma
Otello le risponde che l'ha già fatto uccidere.
Desdemona si rende conto che non potrà
dimostrare la propria innocenza e che Otello
l'ucciderà.
DESDEMONA: Ahimè ! Lui tradito e io
rovinata !
OTELLO: Via, sgualdrina! Tu piangi per
lui in faccia a me?
DESDEMONA: Oh, scacciami, mio signore,
ma non mi uccidere!
OTELLO: Giù, sgualdrina!99
Otello interpreta la paura e il dolore di
Desdemona come una reazione alla notizia della
morte dell'amante, e vi trova quindi una
conferma alla propria convinzione della sua
colpa. Otello non si rende conto che Desdemona
può benissimo provare queste stesse emozioni
anche se è innocente: dolore e disperazione
vedendo che Otello non le crede e che l'ultima
speranza di dimostrare la propria innocenza è
perduta, ora che Otello ha fatto uccidere Cassio;
paura perché sa che Otello ucciderà anche lei.
Desdemona piange per la propria vita, per la
situazione in cui si trova, per la sfiducia di
Otello, non per la morte di un amante.
L'errore di Otello è anche un esempio di
come i preconcetti possono distorcere il giudizio.
Otello è convinto della colpevolezza di
Desdemona già da prima: ignora tutte le
spiegazioni alternative del comportamento di
Desdemona, senza considerare che le sue
reazioni emotive non dimostrano nulla, né in un
senso né nell'altro. Otello cerca solo la conferma
della sua convinzione che Desdemona l'ha
tradito. Questo è un esempio estremo, ma i
preconcetti distorcono spesso il giudizio,
inducendo a trascurare idee, possibilità o dati di
fatto che non corrispondono a quello che si
pensa già. Ciò avviene anche quando la
convinzione preconcetta è causa di sofferenza:
Otello è torturato dall'idea che Desdemona gli
menta, ma ciò non lo induce a prendere l'altra
strada, cercando di scagionarla. Interpreta il
comportamento di Desdemona in modo da
confermare proprio quello che meno di tutto
desidera, nella maniera più dolorosa per lui.
Questo tipo di preconcetti può nascere da
molte fonti. In Otello, l'idea che Desdemona sia
infedele è opera di Jago, il malvagio che a
proprio vantaggio procura la rovina di Otello,
creando e alimentando i suoi sospetti. Jago non
ci sarebbe riuscito se Otello non avesse avuto
un carattere così geloso e sospettoso. Persone
ancora più gelose possono non aver bisogno di
nessun Jago per mettere in moto i sospetti:
cercano la conferma alle loro peggiori paure,
scoprendo poi esattamente quello che
sospettavano. Anche persone che non soffrono
di una sospettosità patologica possono cadere
vittime di questi errori quando la posta in gioco
è molto alta e quando si lasciano trascinare da
emozioni incontrollate.
A volte, però, per vedere l'inganno dove non
c'è non è necessaria una tempesta emotiva, una
personalità gelosa e sospettosa, uno Jago. Si può
anche semplicemente sospettare l'inganno
perché costituisce una spiegazione comoda e
potente. Scrive un funzionario che è stato per
ventotto anni alle dipendenze della CIA: «Come
spiegazione causale, l'inganno è intrinsecamente
soddisfacente proprio perché così conforme
all'ordine e alla razionalità. Quando mancano
altre spiegazioni persuasive (magari perché i
fenomeni che cerchiamo di spiegare sono stati
causati in realtà da errori, ordini non eseguiti o
altri fattori a noi ignoti), l'inganno offre una
spiegazione facile e comoda. È comoda perché i
funzionari dei servizi sono generalmente
sensibilizzati alla possibilità di un inganno e il
fatto di scoprirne uno è preso spesso come
indicativo di un'analisi raffinata e penetrante
[...]. È facile perché quasi ogni dato di fatto può
essere razionalizzato in modo da farlo
corrispondere all'ipotesi di un inganno; anzi, si
potrebbe sostenere che, una volta sollevata
come una seria possibilità l'ipotesi dell'inganno,
questa è quasi immune da ogni tentativo di
confutazione».100
Queste considerazioni hanno un campo
d'applicazione molto più vasto del lavoro
investigativo o spionistico. Anche quando un
errore di questo tipo significa accettare l'idea
che una persona cara ha tradito la nostra
fiducia, si può incorrervi lo stesso, sospettando
a torto un inganno solo perché questo spiega
l'inesplicabile. Una volta attivato, il preconcetto
che quella persona amata ci sta mentendo fa da
filtro a ogni nuova informazione, impedendo la
smentita.
Chi vuole smascherare le bugie dovrebbe
sforzarsi di prendere coscienza dei propri
preconcetti circa il sospettato. Siano essi
dovuti alla sua stessa personalità, a un circolo
vizioso di emozioni incontrollate, a suggerimenti
altrui, esperienze passate, esigenze dettate
dalla situazione professionale, o dal puro e
semplice bisogno di ridurre l'incertezza, una
volta riconosciuti esplicitamente i preconcetti
c'è qualche probabilità di difendersi dal rischio
d'interpretare le cose a senso unico. Nella
peggiore delle ipotesi si può se non altro
rendersi conto di essere talmente vittima dei
preconcetti da non potersi fidare dei propri
giudizi.
Si deve a tutti i costi considerare la
possibilità che un segno di emozione non sia
necessariamente indizio di menzogna ma possa
essere indizio di ciò che l'innocente prova ad
esser sospettato di mentire. Occorre valutare
quali emozioni una data persona può provare in
quella data situazione nel caso che menta e, non
meno importante, nel caso che dica il vero. Così
come non tutti i mentitori proveranno tutte le
possibili emozioni attinenti alla menzogna, così
non
tutti
gli
innocenti
proveranno
indiscriminatamente tutte le emozioni che può
suscitare il fatto di essere inquisiti. Nel Cap. III
ho spiegato come valutare quali possono essere
i sentimenti più probabili da parte dell'autore
dell'inganno: la paura di essere scoperto, il
senso di colpa o il piacere della beffa. Ora
vediamo invece come valutare le emozioni che
può provare una persona sincera quando si
accorge di essere sospettata di mentire.
Può darsi che per poter fare questa
valutazione si debba basarsi su una conoscenza
precedente della personalità del sospettato. Per
esempio, una persona che ha un alto concetto di
sé può andare in collera sapendo che qualcuno
non crede alle sue parole, ma non avrà molta
paura di non riuscire a dimostrare la sua
innocenza, né darà segno di sentirsi in colpa. Un
altro, timoroso e sfiduciato, che si aspetta quasi
sempre il peggio, avrà soprattutto paura di non
esser creduto. Come ho già accennato, certe
persone sono così piene di sensi di colpa da
sentirsi colpevoli non appena qualcuno sospetta
di loro per qualcosa che non hanno commesso.
Chi va alla caccia delle menzogne deve scartare
come indizio significativo qualunque segno di
emozione se la personalità dell'indiziato è tale
da far prevedere quel tipo di emozione anche
in caso di innocenza.
Le eventuali reazioni emotive dell'innocente
a un'accusa o a un sospetto infondato dipendono
anche dal rapporto che ha con chi lo accusa o
sospetta di lui, dalla lezione che può ricavare
dalla storia precedente delle loro relazioni
reciproche. Nella commedia di Rattigan, The
Winslow Boy, il padre sapeva che il figlio
Ronnie lo considerava un uomo giusto: non lo
aveva mai accusato a torto né l'aveva punito
quando non aveva fatto nulla di male. Dato
questo rapporto precedente, eventuali segni di
paura sarebbero stati significativi: il ragazzo
non aveva ragione di temere di non esser
creduto se diceva il vero. Persone che muovono
spesso accuse infondate, che ripetutamente
hanno rifiutato di credere alle parole di chi era
sincero, istituiscono un tipo di rapporto che
rende ambiguo qualunque segno di paura,
molto probabile da parte dell'accusato in ogni
caso, colpevole o innocente che sia. Una moglie
che è stata ripetutamente accusata di avere
degli amanti e che è stata maltrattata e
picchiata malgrado la sua innocenza ha ragione
di temere il marito che sospetta di lei, a torto o
a ragione. Il marito in questo caso ha perso, fra
le altre cose, anche la possibilità di basarsi sulla
paura di lei per capire se i suoi sospetti sono
fondati. Si deve scartare come indizio ogni
segno di emozione quando la storia dei
rapporti fra inquisitore e inquisito è tale da
suscitare in quest'ultimo sentimenti del genere
anche se sta dicendo la pura verità.
In occasione di un primo incontro fra due
persone, malgrado il fatto che non ci sia una
storia di rapporti precedenti, può succedere che
uno sospetti l'altro di mentire. Può trattarsi di
un primo appuntamento galante: lei sospetta
che lui le nasconda il fatto di essere già sposato.
Oppure, l'aspirante a un posto sospetta che il
datore di lavoro menta quando dice che deve
ancora avere un colloquio con altri candidati
prima di prendere una decisione. Il criminale
interrogato dalla polizia può sospettare che il
poliziotto menta quando gli dice che il suo
complice ha parlato. Il compratore può
chiedersi se l'agente immobiliare non sta
gonfiando il prezzo quando gli dice che il
proprietario non prenderebbe nemmeno in
considerazione un'offerta così bassa. In
mancanza di una conoscenza precedente, chi
sospetta un inganno si trova molto
svantaggiato, ma anche in questo caso sapere
quali sono le aspettative del sospettato circa la
persona che sospetta di lui può offrire a
quest'ultima una qualche base di valutazione.
Supponiamo ad esempio che oggetto dei
sospetti sia un'impiegata che ha libero accesso a
documenti riservati e che è stata vista in
rapporti di confidenza con persone che l'FBI
sospetta come agenti sovietici. Non c'è bisogno
che la sospettata abbia avuto precedenti
contatti con l'FBI, perché abbia delle generiche
aspettative di cui si dovrebbe tener conto.
Mettiamo che consideri l'FBI del tutto
affidabile, praticamente infallibile: in questo
caso, sintomi di paura da parte sua vanno presi
in considerazione come indizi significativi, da
interpretare come segni di apprensione all'idea
di essere smascherata. Se invece la sua opinione
sull'FBI è che si tratti di un'organizzazione
inefficiente, tutta dedita a incastrare la gente ad
ogni costo, ecco che eventuali manifestazioni di
paura non dovrebbero esser prese in
considerazione: potrebbe essere la paura di non
poter dimostrare la propria innocenza, tanto
quanto quella di essere scoperta. Si deve quindi
scartare come indizio un segno di emozione se
le aspettative del sospettato sono tali da
indurlo di per sé a quel tipo di reazione anche
in caso d'innocenza.
Finora ci siamo occupati solo della
confusione determinata dalla possibile reazione
emotiva dell'innocente a un sospetto infondato.
Ma le reazioni emotive dell'innocente possono
servire anche a chiarire le cose anziché
confonderle, aiutando a distinguere la persona
sincera dal bugiardo.
Un esempio l'abbiamo nella commedia di
Rattigan, The Winslow Boy. In quel caso, il
padre aveva a disposizione informazioni
abbondanti (conoscenza della personalità del
figlio e dei loro rapporti precedenti), che gli
permettevano di valutare molto precisamente
come avrebbe dovuto sentirsi il figlio nel caso
che dicesse il vero o che mentisse. Sapeva che
Ronnie non era un attore nato né uno
psicopatico, che non era oppresso da sensi di
colpa e che condivideva i suoi stessi valori,
cosicché, se avesse mentito, il senso di colpa
sarebbe stato immenso. Fra l'altro, come si
ricorderà, la bugia avrebbe riguardato il fatto di
aver commesso un furto e il padre sapeva che il
carattere di Ronnie era tale che si sarebbe
sentito colpevole per un reato del genere, a
prescindere dal fatto di mentire o no. Quindi, se
davvero avesse rubato il vaglia postale e poi
avesse cercato di nasconderlo a suo padre,
Ronnie poteva esser tradito da un duplice senso
di colpa, quello per il furto e quello per la bugia.
Se invece avesse detto la verità quando negava
il fatto, non avrebbe dovuto provare nessun
senso di colpa.
Il padre sapeva anche che il figlio si fidava di
lui. I rapporti precedenti fra loro erano tali che
Ronnie avrebbe accettato l'affermazione
paterna, che gli avrebbe creduto se gli avesse
detto la verità. Quindi il ragazzo non doveva
temere che la sua innocenza non sarebbe stata
creduta. Per accrescere in lui la paura di essere
smascherato in caso di colpa, il padre, come
l'operatore della “macchina della verità”,
affermava di essere a prova d'inganno: «... se
mi dici una bugia, lo saprò, perché una bugia fra
te e me non può restare nascosta. Lo saprò,
Ronnie, sicché ricordatelo prima di parlare».
Ronnie, probabilmente in base alle esperienze
passate, ci crede. Quindi, non può non aver
paura di essere scoperto se mente. Infine, il
padre gli offre il perdono in caso di confessione:
«Se l'hai fatto, devi dirmelo. Non mi arrabbierò
con te, Ronnie, purché tu mi dica la verità». Con
quest'ultima affermazione, il padre ottiene
anche l'effetto di alzare la posta in gioco: se
Ronnie mente, sarà oggetto della sua collera.
Una volta valutato quali emozioni
proverebbe Ronnie se mentisse (paura, senso di
colpa) e avendo un termine di paragone per
concludere che emozioni del genere sono
improbabili nel caso che il ragazzo dica la verità,
c'è un altro passo necessario per ridurre il
rischio di errore nell'interpretazione di indizi di
menzogna. Il padre dev'essere sicuro che, se
dice la verità, Ronnie non provi altre emozioni
che potrebbero manifestarsi in maniera simile
alla paura o al senso di colpa, così da confondere
il giudizio sulla sua sincerità. Ronnie potrebbe
essere arrabbiato con il direttore della scuola
che l'ha giudicato a torto un ladro; sicché, segni
di collera, specialmente parlando delle autorità
scolastiche, non devono essere tenuti in nessun
conto. Probabilmente, Ronnie
proverà
dispiacere per le circostanze in cui si trova e
questo turbamento può riguardare in genere
tutta quanta la sua situazione, non in
particolare gli accenni a questo o a quell'aspetto.
Il padre, quindi, può legittimamente
interpretare paura e senso di colpa come prove
di menzogna, mentre collera o dolore possono
essere presenti anche se Ronnie dice la verità.
Anche quando le cose sono così chiare,
quando cioè si ha modo di sapere quali emozioni
il sospettato proverebbe nel caso che dica la
verità o una bugia, interpretare gli indizi
comportamentali può tuttavia essere rischioso.
Molti comportamenti sono segni di più d'una
emozione, e in tal caso vanno espunti se una di
queste emozioni è adeguata nel caso che il
sospettato dica la verità e l'altra invece in caso
di menzogna. Dalle Tabb. 1 e 2 dell'Appendice
si ricava rapidamente quali emozioni possono
produrre i singoli indizi comportamentali.
Supponiamo che il padre di Ronnie avesse
notato che il ragazzo sudava e inghiottiva
spesso saliva. Questi segni non avrebbero avuto
nessun valore, essendo tipici di qualunque
emozione: se mentiva, si sarebbero potuti
attribuire alla paura o al senso di colpa, se
diceva la verità alla rabbia o al dispiacere.
Neppure un gran numero di gesti manipolatori
poteva essere messo in conto, perché questi
aumentano con qualunque emozione negativa.
Ma anche segni caratteristici solo di alcune
emozioni negative, come l'abbassamento del
tono di voce, dovevano essere messi da parte:
se dovuto al senso di colpa sarebbe stato segno
di menzogna, ma poteva anche esser dovuto a
tristezza e dolore e non avere quindi nessun
significato
discriminante.
Solo
quei
comportamenti che contraddistinguono la paura
o il sentimento di colpa, ma non la collera, la
tristezza o il malessere, possono in una
situazione come questa essere interpretati
come indizi di falso. Viceversa, quei
comportamenti che sono tipici della rabbia o del
dolore ma non della paura o del senso di colpa si
possono interpretare come indizi di sincerità.
Esaminando le Tabb. 1 e 2 si vede che, in un
caso come quello di Ronnie, i seguenti
comportamenti potevano indicare se mentiva o
diceva il vero: lapsus (verbali e gestuali),
microespressioni e movimenti dei muscoli
facciali non controllabili volontariamente. Sono
questi gli unici comportamenti in grado di
segnalare informazioni con esattezza sufficiente
da poter distinguere la paura o il senso di colpa
dalla rabbia o dal dispiacere.
Valutare quali emozioni dovrebbe provare il
sospettato sincero e distinguerle da quelle
provate dal bugiardo, come si vede dalla mia
analisi dell'esempio di Ronnie e suo padre, è
tutt'altro che semplice. È indispensabile una
conoscenza molto approfondita del sospettato,
una conoscenza che in molti casi non abbiamo. E
quando l'abbiamo, può darsi che le nostre
valutazioni non ci aiutino a individuare chi
mente o no: quello che sappiamo può benissimo
indicare che le stesse emozioni sono altrettanto
probabili in caso di colpa o di innocenza, come si
è visto per Desdemona. Anche quando una
valutazione fondata della situazione indica che
le emozioni sarebbero diverse nei due casi, gli
indizi comportamentali possono essere ambigui,
senza che ne emerga nessuno che sia specifico
proprio di quelle emozioni che distinguerebbero
il bugiardo dalla persona sincera. In tutti questi
casi non è possibile valersi di quegli indizi che
chiamano in causa le reazioni emotive.101
La mia esposizione dei pericoli e delle
precauzioni nella caccia alle menzogne finora si
è occupata solo di situazioni in cui il sospettato
sa di esserlo. Tuttavia, una persona sincera può
non rendersi conto del fatto che in qualche
momento ogni sua parola, ogni suo gesto è
passato al setaccio da qualcuno che la sospetta
di menzogna; naturalmente succede anche
l'inverso, cioè che una persona che ha detto il
vero pensi di essere sotto inchiesta mentre non
lo è. Nemmeno il bugiardo sa sempre se la sua
vittima è insospettita o no: una scusa
complicata mirante a sviare i sospetti può
suscitare un dubbio nella mente di una vittima
finora fiduciosa. Dal canto suo, la vittima di un
inganno può a sua volta mentire, dissimulando i
sospetti, per indurre il colpevole a una mossa
sbagliata. Ci sono anche altre ragioni per cui la
vittima può lasciare che l'autore dell'inganno si
culli nell'illusione di essere completamente al
sicuro. Nel controspionaggio, per esempio, si
può occultare il fatto che un agente nemico è
stato scoperto, in modo da poter passare per
suo tramite false informazioni alla parte
avversa. In altri casi, la vittima dell'inganno può
dissimulare la sua scoperta per godersi il
rovesciamento delle parti e stare a guardare
per un po' il bugiardo che continua a tessere le
sue macchinazioni senza rendersi conto che
l'altro ormai sa tutto.
Ci sono sia vantaggi che svantaggi se
l'indiziato non sa di esserlo: il bugiardo magari
non si dà la pena di nascondere le tracce, di
prevedere le domande che gli si possono fare, di
prepararsi delle scuse e ripassare la sua parte,
se non pensa che ogni sua mossa è passata al
setaccio dalla vittima insospettita. Col passare
del tempo, quando ormai sembra che la bugia
sia stata completamente assimilata, il mentitore
può rilassarsi al punto da lasciarsi sfuggire degli
errori per eccesso di sicurezza. Questo
vantaggio è controbilanciato dal fatto che un
bugiardo così tranquillo da trascurare certe
cautele
difficilmente
proverà
grande
apprensione. Gli errori per trascuratezza sono
pagati a prezzo degli errori per eccesso di ansia.
Soprattutto, non ci sarà quella tortura che per
l'autore dell'inganno può diventare la paura di
essere smascherato: ben difficilmente potrà
essere indotto a confessare per avere sollievo,
visto che non pensa che ci sia qualcuno a dargli
la caccia.
Ross Mullaney, un esperto che si è occupato
della preparazione e dell'aggiornamento del
personale
investigativo
addetto
agli
interrogatori, difende quella che chiama la
“strategia del cavallo di Troia”: il poliziotto finge
di credere al sospettato, per indurlo a parlare di
più e finire invischiato nelle sue stesse
invenzioni. Secondo Mullaney, anche se può
diminuire l'ansia, l'indiziato ha maggiori
probabilità di incorrere in un errore rivelatore:
«Il poliziotto deve incoraggiare l'interrogato
nella sua menzogna, spingendolo avanti,
cercando di avere sempre più dettagli su quella
storia (si presume inventata) che l'altro gli
presenta. In un certo senso, anche il poliziotto
mente quando finge di credere al sospettato
[...]. La cosa non può danneggiare chi rende una
deposizione onesta. Se il poliziotto sbaglia nel
suo sospetto iniziale che [...] l'interrogato menta
[...], [questa tecnica d'interrogatorio] non può
fare nessun danno. Solo il bugiardo deve
temerla».102 Questa strategia ricorda il
consiglio di Schopenhauer: «Se avete ragione di
sospettare che una persona vi stia dicendo una
menzogna, cercate di apparire come se credeste
ad ogni parola che ha detto. Ciò gli darà il
coraggio di continuare; diventerà più energico
nelle sue affermazioni e finirà per tradirsi».103
Se è vero che quasi certamente l'idea che la
vittima dell'inganno sia fiduciosa riduce nel
bugiardo la paura di essere scoperto, è difficile
dire l'effetto che questa convinzione può avere
sugli altri suoi sentimenti. Qualcuno può sentirsi
più in colpa se pensa di ingannare una persona
che si fida di lui, qualcun altro invece si sentirà
meno colpevole, razionalizzando così: finché
l'altro non sa nulla e non è tormentato dai
sospetti, non gli faccio nessun male. Questo tipo
di persone può convincersi che la bugia sia
motivata principalmente da gentilezza d'animo,
per non offendere la suscettibilità della vittima.
Anche un'altra reazione emotiva, il piacere della
beffa, può essere sia rafforzata che attenuata
dall'idea che la vittima dell'inganno si fidi del
tutto. Beffare una vittima ciecamente fiduciosa
può essere un piacere sopraffino, ma anche
prendere in giro una persona piena di sospetti
può essere eccitante proprio per la difficoltà
dell'impresa.
Non c'è quindi modo di prevedere se il
mentitore ha maggiori o minori probabilità di
commettere errori se il destinatario
dell'inganno rende noti i suoi sospetti.
Naturalmente c'è la possibilità che i sospetti
siano infondati: il sospettato può essere del
tutto innocente. È più facile in questo caso
arrivare a scagionarlo se non sa di essere
sospettato? In effetti, se non lo sa non deve
temere di non esser creduto, né proverà collera
o dispiacere per un sospetto ingiusto e, se anche
fosse pieno di sensi di colpa per altre ragioni, la
situazione non gli offrirebbe nessuno spunto per
riattivarli. Tutto questo va bene, dato che
eventuali segni di queste emozioni possono
essere interpretati tranquillamente come indizi
di falso, senza doversi preoccupare della
possibilità che rappresentino la reazione
dell'innocente a un ingiusto sospetto. Ma questo
vantaggio si trasforma in uno svantaggio nel
caso in cui il sospettato abbia invece mentito.
Quando l'indiziato non sa di esserlo, sono meno
probabili i falsi positivi, ma si verificano molto
più facilmente i falsi negativi. L'inverso
succederà quando il sospettato sa di essere nel
mirino.
Altri due problemi complicano la questione e
impediscono di decidere una volta per tutte se
l'ignoranza del sospettato circa l'indagine in
corso la faciliti o no. Primo, può non esserci
possibilità di scelta: non tutte le situazioni
permettono di tener celati i sospetti e, anche
quando è possibile, non tutti sono disposti a
tacerli nella speranza di smascherare l'inganno.
Non solo, ma non tutti hanno sufficiente talento
come simulatori da riuscire a ingannare
l'ingannatore.
Il secondo problema è il peggiore. Mentre
cerca di dissimulare i suoi sospetti, l'inquisitore
rischia di non riuscirci, senza tuttavia
rendersene conto. Certi bugiardi affrontano
spavaldamente la vittima non appena notano
che comincia a sospettare qualcosa,
specialmente se possono permettersi il lusso di
smascherare la sua finzione di aver dissimulato
i sospetti: in questo caso possono assumere la
posa della dignità offesa, perché la vittima del
raggiro non ha dichiarato apertamente i suoi
sospetti, privandoli slealmente della possibilità
di difendersi. Non tutti sono così sfacciati.
Qualcuno può tener nascosto il fatto di essersi
accorto dei sospetti contro di lui, in modo da
guadagnare tempo per nascondere delle prove,
prepararsi una via d'uscita, ecc. Come se non
bastasse, non è detto che solo il bugiardo taccia
in questi casi. Anche gli innocenti possono
tacere, per le ragioni più varie: per evitare una
scena spiacevole, per guadagnare tempo nella
speranza di raccogliere prove a discarico, per
intraprendere azioni che parleranno a loro
favore.
Un vantaggio certo che si ottiene rivelando
subito i sospetti è di evitare questo intrico di
dubbi: se non altro, il destinatario dell'inganno
sa che il sospettato sa di esserlo. C'è poi un altro
vantaggio. È la possibilità di utilizzare un
metodo messo a punto da David Lykken, per
l'esame con il lie detector, la tecnica della
“conoscenza colpevole” (Guilty Knowledge
Technique): in pratica, anziché chiedere
direttamente al sospettato se ha commesso il
delitto in questione, lo si interroga su dati di
fatto di cui solo il colpevole dovrebbe essere a
conoscenza.
Supponiamo che una persona sia sospettata
di omicidio: ha un movente, è stato veduto sulla
scena del delitto, ecc. Con la tecnica di Lykken,
le si presenta una serie di domande a scelta
multipla: per ogni domanda, una delle risposte a
scelta indica quello che esattamente è successo,
mentre le altre, apparentemente non meno
plausibili, descrivono dettagli che non
corrispondono alla realtà. Solo il colpevole può
sapere qual è la risposta vera e quali no. Per
esempio, una domanda può essere: «Il corpo
della vittima era bocconi? Supino? Di fianco? A
sedere?». L'interrogato deve rispondere «No» o
«Non so» ad ognuna delle alternative. Solo
l'assassino sa che la vittima giaceva supina. In
ricerche sperimentali sulla menzogna, Lykken
ha trovato che il soggetto che è a conoscenza di
particolari noti solo al colpevole presenta
un'alterazione dell'attività neurovegetativa,
rilevata dal poligrafo, in risposta all'alternativa
giusta, mentre l'innocente risponde in maniera
sostanzialmente uniforme a tutte le alternative.
Malgrado il tentativo di tener nascosta la
conoscenza di particolari compromettenti,
quando si usa questa tecnica i tracciati delle
risposte neurovegetative sono in grado di
smascherare il colpevole.104
Il pregio di questo metodo è che reazioni
insolite non possono essere dovute alla reazione
emotiva dell'innocente di fronte a ingiusti
sospetti. Anche se ha paura di non poter
dimostrare la sua innocenza, è arrabbiato
perché lo accusano a torto o infelice per la
situazione in cui si trova, solo per un caso può
avere una risposta più accentuata alla parola
“supino”, per esempio, che alle rimanenti
alternative. Usando un gran numero di queste
domande, qualunque reazione insolita di un
innocente dovrà distribuirsi a caso fra le
alternative vere e quelle false. Abbiamo quindi
una tecnica d'esame che elimina il pericolo più
grave nell'individuazione della menzogna: i falsi
positivi dovuti alla confusione fra le reazioni
emotive dell'innocente e del colpevole.
Purtroppo, questa tecnica così promettente
non è stata finora oggetto di molte ricerche che
ne valutassero l'esattezza e quei pochi studi
condotti
sull'argomento
non
sempre
confermano i risultati originali di Lykken. Il
recente rapporto dell'Ufficio federale per la
valutazione tecnologica, che passa in rassegna la
letteratura esistente sul poligrafo, osserva che
l a Guilty Knowledge Technique «individua in
media una percentuale leggermente inferiore di
colpevoli». Inoltre, risulta una percentuale
relativamente più alta di falsi negativi rispetto
ai metodi convenzionali, mentre sono più rari i
falsi positivi.105
In ogni caso, si tratta di una tecnica che
presenta scarsissime possibilità di utilizzazione
al di fuori delle indagini penali. Troppo spesso la
persona che sospetta di essere ingannata non
dispone delle informazioni che invece ha il
mentitore e in assenza di questi dati il metodo
non può essere usato: nel romanzo di Updike, la
moglie sapeva benissimo di avere una relazione
extraconiugale e con chi l'aveva, mentre il
marito aveva solo i suoi sospetti. Non essendo a
conoscenza di particolari accessibili solo ai
colpevoli, il marito non poteva certamente
condurre un interrogatorio sul modello di
Lykken: per poterlo fare, bisogna sapere
esattamente che cos'è successo e avere dei
dubbi solo su chi è il responsabile.
Anche quando si fosse a conoscenza di tutte
le alternative possibili, questa tecnica non può
servire per scoprire quale di queste è la giusta.
È necessaria un'assoluta certezza circa lo
svolgimento dei fatti: l'interrogativo è solo se il
sospettato ne è o no l'autore. Se invece la
domanda è «Che cos'ha fatto questa persona?»
o «Che cosa prova questa persona?», il metodo
di Lykken non serve.
CAUTELE NELL'INTERPRETAZIONE DEGLI
INDIZI COMPORTAMENTALI
Valutare indizi comportamentali di falso è
rischioso. L'elenco che segue riassume tutte le
precauzioni per ridurre i pericoli descritti in
questo capitolo. In ogni caso, si tratta sempre di
v a lu t a r e improbabilità che un gesto o
un'espressione sia indizio di bugia o di sincerità;
raramente c'è la certezza assoluta. Nei casi in
cui ciò avviene (un'emozione che contraddice la
menzogna, che si manifesta in un'espressione
del viso a tutto campo, oppure una parte
dell'informazione nascosta che viene fuori di
getto in un discorso avventato), anche il
sospettato se ne accorge e a quel punto non può
fare a meno di confessare.
1. Cercare di rendere esplicite le basi di ogni
impressione o intuizione circa la sincerità
o la menzogna del sospettato. Prendendo
coscienza di come noi stessi interpretiamo
gli indizi comportamentali, si impara a
vedere i nostri errori e a riconoscere
quando ci sono scarse probabilità di dare
un giudizio esatto.
2. Ricordare che nell'individuazione delle
menzogne ci sono due rischi opposti: falsi
positivi (giudicare bugiarda una persona
onesta) e falsi negativi (giudicare onesto
un bugiardo). Non c'è modo di evitare
completamente entrambi gli errori. Si
considerino le conseguenze che possono
derivare dall'uno o dall'altro.
3. L'assenza di indizi di menzogna non è
prova di sincerità: alcune persone non
lasciano trapelare nulla. Viceversa, la
presenza di un indizio non sempre è prova
di menzogna: alcune persone sembrano in
colpa e a disagio anche quando dicono la
verità. Si può ridurre l'effetto Brokaw,
dovuto alle differenze individuali nel
comportamento espressivo, basando il
giudizio su una variazione nel
comportamento del sospettato.
4. Ricercare nella propria mente eventuali
preconcetti circa l'indiziato. Considerare
se i preconcetti possono alterare le
possibilità di giudizio corretto. Non
cercare di dare un giudizio quando si è
travolti dalla gelosia o da altre emozioni
incontrollate. Evitare la tentazione di
sospettare un inganno per il solo fatto che
spiega eventi altrimenti inspiegabili.
5. Considerare sempre la possibilità che un
segno d'emozione non sia indizio di
menzogna ma dei sentimenti
dell'innocente di fronte a sospetti ingiusti.
Scartare come indizio ogni segno
d'emozione se è tale che il sospettato
potrebbe ragionevolmente provarla a
causa del suo tipo di personalità, dei suoi
rapporti precedenti con l'inquisitore o
6.
7.
8.
9.
delle sue aspettative.
Tenere a mente che molti indizi di falso
sono segni di più d'una emozione: in
questo caso non tenerne conto se una di
tali emozioni è attribuibile al colpevole,
una all'innocente.
Considerare se il sospettato sa di esserlo e
quali possono essere nell'uno o nell'altro
caso i vantaggi o gli svantaggi ai fini
dell'accertamento della verità.
Essendo a conoscenza di particolari che il
sospettato può conoscere solo se mente e
avendo la possibilità di sottoporlo a
interrogatorio, mettere a punto un esame
con la tecnica della “conoscenza
colpevole”.
Non trarre mai conclusioni definitive circa
la sincerità o falsità del sospettato
esclusivamente in base all'interpretazione
di indizi comportamentali. Questi devono
servire soltanto a mettere sull'avviso della
necessità di ulteriori informazioni e
indagini. Gli indizi comportamentali, come
il poligrafo, non possono mai fornire prove
assolute.
10. Utilizzare il prontuario riportato in
Appendice (Tab. 4) per valutare il tipo di
menzogna, di mentitore e di inquisitore,
per stimare la probabilità di errori o di
giudizi esatti.
Anche cercare di individuare le bugie
usando il poligrafo come rivelatore della
menzogna è rischioso. Benché oggetto principale
del mio interesse siano gli indizi di natura
comportamentale, non il poligrafo, e una vasta
gamma di situazioni in cui le persone possono
mentire o sospettare una bugia, e non i confini
angusti di un esame strumentale, nel prossimo
capitolo parlerò di questo metodo. Il poligrafo è
usato in molte situazioni importanti
(controspionaggio, investigazioni criminali e
sempre più spesso anche in sede aziendale).
Ritengo che la mia analisi della menzogna possa
servire a capire meglio le possibilità e i punti
deboli del poligrafo come lie detector
(rivelatore delle menzogne). Inoltre, esaminare
i problemi posti dal poligrafo può servire a
capire meglio certi rischi di cui si è già parlato.
Infine, c'è una questione interessante (e non
priva di risvolti pratici) da affrontare: che cos'è
più preciso nel rilevamento della menzogna, il
poligrafo o l'analisi dei segni comportamentali?
VII
Il poligrafo come rivelatore
della menzogna
Un agente proveniente da un'altra città
californiana chiese di essere assunto
presso il Dipartimento di polizia della
nostra città. Sembrava possedere tutte
le qualità di un poliziotto modello,
conosceva i codici e avendo già
esperienza in questo lavoro pareva un
candidato ideale. Non fece nessuna
ammissione
durante
l'intervista
preliminare all'esame con il poligrafo.
Solo dopo che questo ebbe indicato la
menzogna confessò di aver commesso
oltre dodici furti con scasso mentre era
in servizio, usando l'auto della polizia
per trasportare le merci rubate, di aver
affibbiato a persone innocenti droga
rubata per eseguire degli arresti e di
aver avuto più volte rapporti sessuali
nella macchina di servizio anche con
ragazzine di sedici anni [Risposta del
Sergente W. C. Meek, poligrafista del
Dipartimento di polizia di Salinas
(California) a un sondaggio sull'uso del
poligrafo presso i vari Dipartimenti di
polizia].106
Un uomo di nome Fay fu arrestato a
Toledo nel 1978 sotto l'accusa di aver
ucciso per rapina un suo conoscente il
quale, prima di morire, aveva detto che
il rapinatore mascherato «sembrava
Fay». Rimase due mesi sotto inchiesta a
piede libero mentre la polizia cercava
invano delle prove che lo inchiodassero.
Alla fine, il procuratore offrì di lasciar
cadere l'accusa se Fay accettava di
sottoporsi alla prova del poligrafo,
purché riconoscesse preventivamente
l'ammissibilità dei risultati come prova
a suo carico, nel caso che il test
indicasse menzogna. Fay sottoscrisse
l'accordo, fallì la prova, ne fallì una
seconda con un diverso esaminatore, fu
processato, riconosciuto colpevole di
omicidio aggravato e condannato
all'ergastolo. Dopo oltre due anni, i veri
assassini furono catturati; confessarono,
scagionando Fay che fu quindi
immediatamente rimesso in libertà
[Caso descritto dallo psicologo David
Lykken in un articolo in cui definisce
l'esame col poligrafo una “tecnica
pseudoscientifica”].107
Esempi come questi, a favore e contro,
alimentano la controversia sulla “macchina della
verità”, ma i dati scientifici in proposito sono
scarsissimi. Su oltre 4.000 fra articoli e libri,
meno di 400 riportano ricerche e di questi non
più di 30-40 soddisfano requisiti minimi di
rigore scientifico.108 Non risolta dalla ricerca, la
controversia sulla validità del poligrafo è aspra
e accesa. La maggior parte dei difensori del
metodo, più che da ambienti scientifici,
proviene dalle file della polizia e del
controspionaggio, o dal mondo dell'industria,
preoccupato dello spionaggio industriale e delle
malversazioni. Fra gli oppositori si trovano
soprattutto esponenti del movimento dei diritti
civili, alcuni giuristi e procuratori, oltre a
qualche
ricercatore
che
ha studiato
109
l'argomento.
Il mio scopo in questo capitolo è rendere la
discussione più comprensibile, non certo
chiuderla definitivamente. Non ho linee di
condotta da proporre circa l'opportunità di
usare il poligrafo. Cerco piuttosto di chiarire la
natura del problema per coloro che devono
prendere simili decisioni, rendendo espliciti i
termini delle scelte e noti i limiti delle prove
scientifiche. Ma il mio discorso non è indirizzato
soltanto a funzionari governativi, poliziotti,
magistrati o procuratori: chiunque oggi
dovrebbe capire i termini della discussione
perché l'uso del lie-detector è questione di
grande rilievo civile che non può essere
correttamente risolta senza una migliore
informazione dell'opinione pubblica. In più,
possono esserci anche ragioni personali che
consigliano a chiunque di avere le idee più
chiare in proposito. In molte situazioni
professionali, anche in lavori che non
riguardano la sicurezza dello Stato, a livelli sia
qualificati che non, persone che non hanno mai
dato adito a sospetti di alcun genere si sentono
chiedere di sottoporsi a un esame con il
poligrafo per ottenere il posto, mantenerlo o
avere una promozione.
Molte delle idee che ho esposto finora a
proposito degli indizi comportamentali di falso
valgono altrettanto per la scoperta della
menzogna sulla base di dati strumentali. Chi
mente può tradirsi in un esame col poligrafo a
causa del timore di essere scoperto, dei sensi di
colpa o dell'eccitazione che gli dà il piacere della
beffa. Chi conduce l'esame deve stare attento
all'errore di Otello e all'effetto Brokaw, errori
dovuti alle differenze individuali nel
comportamento emotivo, e deve fare i conti con
i due rischi opposti del falso positivo e del falso
negativo. La maggior parte delle precauzioni e
dei pericoli è la stessa, sia che per smascherare
la menzogna ci si basi su indizi
comportamentali, sia che ci si affidi ai risultati
del poligrafo. Ma ci sono alcuni concetti nuovi,
non semplici, che si devono chiarire quando si
parla del poligrafo come rivelatore delle bugie:
la differenza fra esattezza e utilità;
la ricerca della verità di base, cioè la
necessità di sapere con assoluta certezza
chi ha mentito e chi no, per valutare
l'esattezza del test;
la frequenza base della menzogna, in
particolare il rischio di molti errori se nel
gruppo di sospettati i mentitori sono
pochissimi;
l'effetto di dissuasione, cioè la possibilità
che la minaccia di essere sottoposti
all'esame inibisca in qualche caso la
menzogna, anche se la procedura d'esame
è difettosa.
CHI USA IL POLIGRAFO COME RIVELATORE
DELLA MENZOGNA
L'uso del poligrafo a fini investigativi è molto
diffuso e in aumento. È difficile indicare con
certezza una cifra, ma secondo le stime più
attendibili si supera negli Stati Uniti il milione di
esami l'anno.110 La maggior parte di questi
(circa 300.000 l'anno) viene eseguita da
aziende private, nell'ambito delle procedure di
selezione del personale, nelle indagini sulla
criminalità interna e nel quadro dei
procedimenti per le promozioni dei dipendenti.
L'uso del poligrafo negli esami di selezione
del personale è abbondantemente praticato da
aziende affiliate a varie associazioni,
specialmente di commercianti (la National
Association of Drug Stores, la National
Association of Convenience, la Associated
Grocers), oltre che da banche, società di
custodia e trasporto valori come la Brinks,
ecc.111 Pur essendo illegale in 18 Stati chiedere
ai dipendenti di sottoporsi all'esame, sembra
che i datori di lavoro trovino il modo di aggirare
la legge: «L'azienda può comunicare al
dipendente che è sospettato di furto ma non lo
licenzierà se riesce a dimostrare la sua
innocenza».112
In 31 Stati, invece, questa pratica è del tutto
legale. Le ditte private che fanno più uso del
poligrafo sono banche ed esercizi commerciali al
minuto. Circa metà dei 4.700 esercizi della
catena McDonald, per esempio, sottopone
all'esame col poligrafo gli aspiranti in sede di
selezione del personale.113
Dopo le aziende, l'uso più frequente si
incontra nell'ambito dell'attività investigativa. Il
poligrafo non è usato solo con gli indiziati di
delitti, ma a volte anche con i testimoni o le
vittime, quando le loro deposizioni danno adito
a dubbi. Il Dipartimento di giustizia, l'FBI e la
maggior parte delle polizie locali seguono il
criterio di ricorrere all'esame con il rivelatore
delle menzogne solo quando le indagini hanno
ristretto la rosa dei sospettati. La legislazione
della maggior parte degli Stati americani non
ammette i risultati dell'esame come prova
processuale. In 22 Stati sono ammessi, purché
l'ammissibilità sia concordata in anticipo fra
accusa e difesa. La difesa generalmente
sottoscrive un accordo del genere in cambio
della rinuncia della pubblica accusa a mandare
avanti il procedimento se l'esame indica che
l'imputato dice la verità. È per l'appunto quanto
è successo nel caso Fay descritto all'inizio del
capitolo. Di solito, come in questo caso, il
procuratore non offre un accordo del genere se
dispone di indizi che ritiene sufficienti a
convincere la corte della colpevolezza
dell'imputato.
Nel Nuovo Messico e nel Massachusetts, i
risultati dell'esame possono essere portati in
dibattimento nonostante l'opposizione di una
delle parti. Nelle Corti d'Appello federali (salvo
poche eccezioni) i risultati costituiscono prove
ammissibili solo a seguito di accordo fra le parti.
Non è mai successo che una Corte d'Appello
abbia annullato una sentenza di primo grado
per non aver ammesso in dibattimento i
risultati del rivelatore di menzogne. Secondo
quanto afferma Richard K. Willard, viceprocuratore generale degli Stati Uniti, «non
esistono sentenze della Corte Suprema
sull'ammissibilità dei dati del poligrafo nei
tribunali federali».114
Il terzo utente su larga scala di questo
metodo è il governo federale. Nel 1982, i vari
Enti federali hanno dichiarato di aver effettuato
un totale di 22.597 esami,115 la maggior parte
dei quali nell'ambito di indagini di polizia,
eccettuati quelli eseguiti dai servizi di sicurezza,
NSA (National Security Agency) e CIA (Central
Intelligence Agency), che se ne servono in sede
di spionaggio e controspionaggio (su presunti
agenti nemici, su funzionari che hanno accesso a
materiale riservato, nella selezione del
personale). La NSA dichiarava nel 1982 9.672
esami, soprattutto a scopo di selezione. La CIA
non pubblica questi dati, ma ammette di
utilizzare il poligrafo in situazioni analoghe a
quelle indicate dall'altro servizio di sicurezza.
Nel 1982 il Dipartimento della difesa ha
proposto alcune correzioni ai suoi regolamenti
relativi all'esame con il poligrafo. Queste
correzioni andavano in direzione di un più vasto
uso del metodo in sede di selezione e di
controllo del personale con accesso a
informazioni riservate. Un altro grosso
cambiamento sarebbe stato che il rifiuto
dell'esame da parte dell'interessato avrebbe
potuto comportare “conseguenze negative”. Nel
1983 il Presidente Reagan proponeva un
ulteriore ampliamento nell'uso del metodo in
questione: tutti i dipartimenti del governo
federale, secondo questa proposta, erano
autorizzati a «richiedere ai dipendenti di
sottoporsi ad esame col poligrafo nel quadro di
indagini sulla diffusione non autorizzata di
materiale riservato [...]. [Come nelle proposte
del Dipartimento della difesa, il rifiuto] di
sottoporsi all'esame può sfociare in [...] sanzioni
amministrative e nella negazione dell'accesso a
informazioni
riservate
[...].
[Un'altra
innovazione nelle direttive governative]
permetterebbe inoltre l'uso del poligrafo su
scala nazionale per tutti i dipendenti federali (e
gli aspiranti) con libero accesso a informazioni
riservate. Le nuove direttive danno ai dirigenti
dei servizi l'autorità di sottoporre all'esame con
il poligrafo (a intervalli sia regolari che
irregolari) campioni di dipendenti che occupano
posizioni delicate, oltre che di negare tali
mansioni a chi rifiuti di sottoporsi all'esame».116
Il Congresso ha risposto alla proposta del
Pentagono con una deliberazione che
rimandava l'applicazione delle nuove circolari
all'aprile 1984, chiedendo nel frattempo
all'Ufficio per la valutazione delle tecnologie
(OTA: Office of Technology Assessment) un
rapporto sui dati scientifici circa la precisione
del poligrafo.117 Il rapporto è stato pubblicato
nel novembre 1983 e mentre sto scrivendo la
Casa Bianca ha appena riveduto le sue proposte
e il Congresso è in procinto di avviare le udienze
conoscitive sull'argomento.
Il rapporto dell'OTA è un documento
straordinario che fornisce una completa e
imparziale rassegna e analisi critica dei dati
sulla validità scientifica dell'esame con il
poligrafo.118 La sua stesura non era cosa facile,
perché i temi in discussione sono complessi e
l'argomento accende forti passioni anche fra gli
addetti ai lavori. Non è da sottovalutare il fatto
che del comitato consultivo fossero chiamati a
far parte i protagonisti del dibattito scientifico:
anche se chi li conosce non avrebbe pensato che
fosse facile metterli d'accordo sull'equità di un
qualunque rapporto... in effetti ci sono riusciti. I
cavilli sono di poco conto, anche se ovviamente
c'è qualche voce di dissenso.
Alcuni specialisti, estranei peraltro alla
comunità scientifica, ritengono che il rapporto
dell'OTA sia troppo negativo circa la precisione
del metodo. Fra questi ci sono gli operatori del
Pentagono. Esiste un rapporto del 1983 a cura
della NSA, sulla «Esattezza e utilità dell'esame
col poligrafo», approvato dai direttori delle
apposite ripartizioni delle tre armi, oltre che
dall'Ente per la sicurezza nazionale che l'ha
commissionato.119
Questo rapporto, che per ammissione degli
stessi autori è stato preparato nel giro di un
mese, non si avvale di consulenti che facciano
parte a pieno titolo della comunità scientifica, ad
eccezione
di un
singolo
ricercatore,
notoriamente un sostenitore del poligrafo. I due
rapporti, quello dell'OTA e quello della NSA,
sono concordi su un unico tipo di utilizzazione
del metodo, anche se l'OTA è più cauto in
proposito: sembra che l'esame con il poligrafo
ottenga risultati superiori al caso se usato nelle
indagini su certi tipi di episodi criminali. In
seguito spiegherò meglio le divergenze fra i due
rapporti nel valutare questi dati sperimentali.
Il rapporto dell'OTA non fornisce conclusioni
semplici o univoche da tradurre direttamente in
proposte di legge. Come si può facilmente
immaginare, l'esattezza del poligrafo, come di
qualunque altra tecnica per l'individuazione
delle menzogne, dipende dal tipo di menzogna,
dal suo autore e da chi è chiamato a
smascherarla. Quando si usa il poligrafo come
rivelatore delle menzogne, l'esattezza dei
risultati dipende anche dalla particolare tecnica
d'interrogatorio, dall'abilità dell'esaminatore nel
preparare il questionario e dal modo di leggere i
tracciati.
COME FUNZIONA IL POLIGRAFO
Il Dizionario Webster, alla voce “poligrafo”,
dà questa definizione: «Uno strumento per
registrare simultaneamente i tracciati di varie
pulsazioni diverse; in senso lato: RIVELATORE
DELLA MENZOGNA». Le pulsazioni sono
registrate dagli spostamenti di punte scriventi
su una carta graduata che scorre a velocità
costante. Di solito il termine “poligrafo” si
riferisce alla misurazione di cambiamenti
nell'attività del sistema nervoso autonomo,
anche se le punte scriventi possono registrare
qualunque tipo di funzione. Nel Cap. IV ho
spiegato che le attività neurovegetative variazioni del ritmo cardiaco, della pressione
arteriosa, della conduttività e temperatura
cutanea, ecc. - sono indizi di attivazione
emotiva. Ho anche accennato al fatto che alcune
di queste alterazioni, come l'aumento
dell'attività respiratoria, il sudore, oppure
l'impallidire o arrossire del volto, si possono
osservare senza l'ausilio di strumenti. Il
poligrafo registra queste variazioni con maggior
precisione, individuando anche cambiamenti più
piccoli, invisibili a occhio nudo, e registrando
certe attività vegetative, come il ritmo cardiaco,
che altrimenti non sono osservabili. A questo
scopo, amplifica i segnali raccolti da sensori
applicati a diverse parti del corpo. Nell'uso
tipico del poligrafo come rivelatore della
menzogna, si applicano al soggetto quattro
sensori: una cintura pneumatica o una benda
attorno al petto e una allo stomaco misurano
cambiamenti nella profondità e nel ritmo della
respirazione, mentre un manicotto al braccio
registra l'attività cardiaca e il quarto sensore è
costituito da elettrodi metallici applicati alle
dita, che rilevano i minimi cambiamenti della
traspirazione. Il Dizionario Webster ha ragione
di scrivere che il poligrafo a volte viene
chiamato “rivelatore della menzogna”, ma
questo è un termine che si presta ad equivoci. Il
poligrafo non rivela la menzogna in sé. Tutto
sarebbe enormemente più semplice se esistesse
un qualche segno esclusivo della menzogna.
Purtroppo non ce ne sono. Malgrado le
controversie, su questo sono d'accordo tutti
quelli che lo usano: la macchina non misura
direttamente la menzogna. Tutto ciò che il
poligrafo rivela sono segni di alterazione
neurovegetativa,
cambiamenti
fisiologici
prodotti principalmente dalle emozioni.120 Lo
stesso vale per gli indizi comportamentali: si
ricorderà che ho spiegato come nessun gesto,
nessuna espressione del viso o alterazione della
voce sia in sé e per sé un segno di bugia. Tutti
questi comportamenti non segnalano altro che
un'attivazione emotiva o una difficoltà nei
processi di pensiero. Se ne può ricavare per
inferenza la conclusione che la persona sta
mentendo perché l'emozione che manifesta non
corrisponde alla linea di difesa che si è scelta,
oppure perché visibilmente sta facendo degli
sforzi per inventare una storia plausibile. Il
poligrafo fornisce informazioni meno precise
quanto al tipo di emozione attivata: mentre una
microespressione può rilevare rabbia, paura,
senso di colpa, ecc., il poligrafo può dirci soltanto
che l'interrogato prova una qualche emozione.
Per scoprire la menzogna, l'esaminatore
confronta l'attività registrata dal grafico in
risposta alla domanda cruciale, l'unica rilevante
in ordine all'esame («Li ha rubati lei i 750
dollari?», per esempio), con la reazione ad altre
domande non attinenti al problema («Che
giorno è oggi?», «Ha mai rubato qualcosa in vita
sua?»). Il sospettato viene individuato come
colpevole
se
dimostra
un'attività
neurovegetativa maggiore in risposta alla
domanda cruciale rispetto alle altre.
L'esame col poligrafo, come gli indizi
comportamentali di bugia, è vulnerabile a quello
che ho chiamato l'errore di Otello. Anche gli
innocenti, non solo i colpevoli, possono
emozionarsi quando sanno di essere sospettati.
Trovandosi sotto inchiesta per un delitto, per
un'attività che potrebbe mettere a repentaglio il
proprio posto di lavoro in un settore delicato
dell'amministrazione, per una fuga di notizie,
una persona innocente ha tutte le ragioni di
emozionarsi. L'emozione può essere tanto più
intensa se il sospettato ha qualche motivo per
credere che l'esaminatore e la polizia abbiano
dei pregiudizi nei suoi confronti. Inoltre, la
paura non è l'unica emozione che può entrare in
gioco, come ho spiegato nel Cap. III, per
l'innocente non meno che per il colpevole.
LA TECNICA DELLA DOMANDA DI
CONTROLLO
Tutti quelli che usano il poligrafo, come
coloro che ne criticano l'uso, riconoscono la
necessità di ridurre questa particolare fonte di
errore. Allo scopo dovrebbero servire le
specifiche procedure d'esame, ma è dubbio fino
a che punto possano ridurre o eliminare questo
rischio. Le procedure d'interrogatorio in uso
sono quattro (di più, se si considerano alcune
varianti), ma qui ci limiteremo a considerarne
solo due. La prima di queste, la tecnica della
domanda di controllo, è usata soprattutto nelle
indagini di polizia. Al sospettato vengono poste
non solo domande rilevanti riguardo al delitto
(«Li ha rubati lei i 750 dollari?»), ma anche
domande
di controllo. Gran parte della
controversia su questa tecnica nasce dal
disaccordo su ciò che esattamente queste
domande possono controllare e fino a che
punto.
Citerò la descrizione che di questa tecnica fa
David Raskin, in quanto in campo scientifico è il
suo principale sostenitore: «L'esaminatore può
dire al soggetto: “Siccome questa è una
faccenda di furti, ho bisogno di farle alcune
domande generali a proposito del furto e sulla
sua onestà personale. Dobbiamo farlo per
stabilire che tipo di persona è lei rispetto a
questo problema e determinare se è o non è
quel tipo di persona che potrebbe aver rubato e
poi mentire in proposito. Quindi, se le chiedo:
durante i primi diciotto anni della sua vita ha
mai preso qualcosa che non le apparteneva?
Come risponderebbe a questa domanda?”. Il
modo in cui è posta la domanda e
l'atteggiamento
dell'esaminatore
mirano
entrambi a mettere il soggetto sulla difensiva,
inducendolo a rispondere “No” [...]. Questa
procedura è ideata per creare la possibilità che
un innocente sia più preoccupato della sincerità
delle sue risposte alle domande di controllo che
alle domande rilevanti. Un colpevole invece
continuerebbe ad essere più preoccupato della
menzogna che dice in risposta alle domande
rilevanti, perché queste rappresentano per lui
la minaccia più grave ed immediata. D'altro
canto, l'innocente sa di rispondere sinceramente
alle domande rilevanti e quindi si preoccupa di
più della falsità o della dubbia verità delle sue
risposte alle domande di controllo».121
David Lykken, lo psicologo che propone la
tecnica della “conoscenza colpevole” che ho
descritto nel capitolo precedente, è il principale
critico del metodo della domanda di controllo
(Raskin, dal canto suo, critica il metodo di
Lykken). Nel suo libro recente sull'uso del
poligrafo, Lykken scrive: «Perché la tecnica
della domanda di controllo funzioni come
pretendono i suoi sostenitori, bisogna che ogni
soggetto sia indotto a credere che il test sia
quasi infallibile (falso) e che avere una risposta
emotiva intensa alle domande di controllo lo
metta in pericolo (falso: è vero il contrario). È
poco plausibile supporre che tutti gli
esaminatori riescano a convincere tutti i
soggetti della verità di queste due proposizioni
false».122
Lykken ha ragione quando dice che queste
due proposizioni che il sospettato deve
prendere per buone sono entrambe false.
Nessuno che usi il poligrafo crede alla sua
infallibilità, nemmeno i suoi sostenitori più
acritici. La macchina commette degli errori. E
tuttavia Lykken ha probabilmente ragione a
sottolineare che l'interrogato non deve
saperlo.123 Se pensa che la macchina è soggetta
a errori, l'innocente può avere paura per tutto il
corso dell'esame, temendo di essere mal
giudicato da una tecnica difettosa. Un soggetto
così diffidente e intimorito potrebbe non
presentare nessuna differenza di risposta alle
domande rilevanti e di controllo e se presenta
segni di attivazione emotiva a tutte le domande
l'esaminatore non ha nessuna base di giudizio.
Peggio ancora, può capitare che in questa
situazione il soggetto mostri maggior paura in
risposta alle domande che riguardano
direttamente il delitto in questione, cosicché
verrebbe giudicato colpevole.124
La seconda proposizione - che una risposta
emotivamente intensa alle domande di controllo
sia compromettente - è anch'essa falsa e
ovviamente tutti gli specialisti lo sanno. E vero
esattamente l'opposto: se l'interrogato si
mostra più emozionato nella risposta alla
domanda di controllo («Prima dei diciotto anni
si è mai appropriato di qualcosa che non le
apparteneva?») che a quella rilevante («Ha
rubato lei i 750 dollari?»), è fuori da ogni
pericolo, avendo dimostrato la propria
innocenza. È il ladro, non l'innocente sospettato
a torto, che si presume debba essere più
turbato dalla domanda rilevante sui 750 dollari
rubati.
Perché l'esame funzioni, bisogna che la
domanda di controllo produca nell'innocente
una risposta emotiva almeno pari a quella
causata dalla domanda cruciale, rilevante in
ordine al delitto. Si spera di indurre
nell'innocente una preoccupazione maggiore
circa la domanda di controllo, facendogli credere
che la sua risposta abbia un gran peso e
influisca sul giudizio. Per esempio, l'esaminatore
parte dal presupposto che quasi tutti prima dei
diciotto anni abbiano commesso qualche
furtarello. In condizioni normali, si può
ammettere senza difficoltà una malefatta così
remota e di poco conto, ma durante l'esame con
il poligrafo no, perché l'esaminatore fa credere
che una risposta affermativa potrebbe
costituire un'ammissione compromettente:
l'esaminatore vuole che l'innocente menta alla
domanda di controllo, negando di aver mai
preso qualcosa che non gli apparteneva. In
questo modo, si aspetta che la menzogna
produca una risposta emotiva che sarà
registrata dai tracciati. Quando risponde alla
domanda rilevante («Ha rubato lei i 750
dollari?») l'innocente risponde sinceramente di
no. Poiché non mente, non sarà turbato, o
almeno non come quando mente in risposta alla
domanda di controllo, e i tracciati mostreranno
un'attivazione minore. Anche il ladro risponderà
di no alla domanda sui 750 dollari, ma sarà
molto più turbato in questa che nella menzogna
in risposta alla domanda di controllo. La logica
vorrebbe quindi che il tracciato dell'innocente
presentasse delle punte di attività in
coincidenza con la domanda di controllo e quello
del colpevole in coincidenza con la domanda
rilevante.
La tecnica della domanda di controllo
elimina il rischio di falso positivo solo se
l'innocente è più turbato dalla domanda di
controllo che da quella relativa al delitto. Ma
non sempre è così: sul piano intellettuale è facile
capire che la domanda «Ha rubato lei i 750
dollari?» è più pericolosa dell'altra sui furtarelli
da ragazzo.125 E ci sono varie ragioni per cui
anche l'innocente può turbarsi di più a questa
domanda più pericolosa.
1. La polizia è fallibile. All'esame col poligrafo
non vengono sottoposti tutti quanti coloro
che potrebbero teoricamente aver
commesso un certo delitto. L'innocente
invitato a sottoporsi alla prova sa che la
polizia ha già commesso un grave errore
sospettandolo, un errore che forse ha già
compromesso la sua reputazione. Ha già
fornito le sue spiegazioni e giustificazioni e
chiaramente non hanno creduto alle sue
parole. Può anche darsi che veda la prova
del poligrafo come un'occasione fortunata
per dimostrare la propria innocenza, ma
potrebbe anche pensare che chi ha già
fatto l'errore di sospettarlo continui a
commetterne altri. Se i metodi della
polizia sono così poco infallibili, forse non
lo sarà nemmeno questa loro macchina.
2. La polizia è sleale. Una persona può
nutrire ostilità e diffidenza verso forze
dell'ordine già prima di essere sospettata
di un delitto. Se l'indiziato innocente è
membro di un gruppo di minoranza o
appartiene a una sottocultura che
disprezza la polizia o ne diffida, è
probabile che si aspetti e tema di essere
giudicato scorrettamente
dall'esaminatore.
3. Le macchine sono fallibili. Naturalmente
c'è anche chi ritiene del tutto ragionevole
che la polizia indaghi sul suo conto per un
delitto che non ha commesso. Anche una
persona del genere può tuttavia diffidare
del poligrafo: può essere una sfiducia
verso la tecnologia in generale, oppure il
frutto di uno dei tanti articoli o servizi
televisivi che criticano la “macchina della
verità”.
4. Il sospettato è un individuo pieno di
paura, ostilità o sensi di colpa. Una
persona che è generalmente incline alla
paura o al senso di colpa potrebbe avere
una risposta più intensa alle domande più
specifiche e minacciose; lo stesso vale per
un individuo generalmente ostile,
specialmente se questo sentimento si
rivolge contro le figure d'autorità. Tutte
quante queste emozioni saranno
registrate dai tracciati del poligrafo.
5. Il sospettato, benché innocente, ha una
reazione emotiva agli eventi relativi al
delitto in questione. Non solo il colpevole
può avere una reazione più vivace alle
domande rilevanti che a quelle di
controllo. Immaginiamo per un momento
una persona innocente, sospettata di aver
ucciso un collega. Magari lo invidiava per
la sua carriera più rapida: ora che il rivale
è morto, può provare rimorso per questi
sentimenti, un certo piacere per la sua
“vittoria”, sensi di colpa per questo
piacere, ecc. Oppure, supponiamo che sia
stato lui a trovare il cadavere straziato:
quando viene interrogato sul delitto, il
ricordo di quella scena riattiva sentimenti
di orrore che però, fiero com'è della sua
virilità, rifiuta di ammettere. Può anche
darsi che il sospettato non abbia nessuna
consapevolezza di tutti questi sentimenti.
In un caso del genere il poligrafo può
benissimo individuare delle menzogne
reali, che però riguardano non un omicidio
ma soltanto dei sentimenti inconfessabili.
Nel prossimo capitolo descriverò un caso
del genere, in cui un innocente ha fallito la
prova del poligrafo ed è stato condannato
per omicidio.
I sostenitori della tecnica della domanda di
controllo riconoscono alcune di queste fonti
d'errore, ma affermano che si tratta di casi rari.
I critici sostengono che un'alta percentuale di
innocenti (fino al 50%, secondo gli avversari più
accesi di questo metodo) presenta una risposta
emotiva più intensa alle domande rilevanti che
a quelle di controllo. In questi casi il poligrafo
sbaglia: è l'errore di Otello e un innocente non
viene creduto.
IL METODO DELLA CONOSCENZA
COLPEVOLE
La Guilty Knowledge Technique, che ho già
descritto, riduce i rischi di questo tipo di errori.
Per poterla usare, l'investigatore deve essere al
corrente di certi particolari del delitto che solo il
colpevole conosce. Supponiamo che nessuno,
esclusi il datore di lavoro, il ladro e
l'investigatore, sappia esattamente quanto
denaro è stato sottratto, oppure che era tutto in
biglietti da 50 dollari. Nel corso della prova col
metodo della conoscenza colpevole, si
chiederebbe al sospettato: «Se è stato lei a
rubare il denaro dalla cassa, saprà quanto era.
Quanti erano: 150 dollari? 350 dollari? 550
dollari? 750 dollari? 950 dollari?». Oppure: «Il
denaro rubato era tutto in banconote dello
stesso taglio. Se ha preso lei i soldi saprà di che
taglio erano le banconote. Erano: biglietti da 5?
Biglietti da 10? Biglietti da 20? Biglietti da 50?
Biglietti da 100?».
«Un innocente avrebbe solo una probabilità
su cinque di reagire più intensamente alla
risposta esatta se la domanda è una sola, una
probabilità su venticinque se sono due e appena
una su dieci milioni se si costruissero dieci
domande del genere sui particolari del
delitto»,126 afferma Lykken. E ancora: «La
differenza psicologica importante fra il colpevole
e un sospettato innocente è che uno solo era
presente sulla scena del delitto; sa che cos'è
successo; la sua mente contiene immagini che
non sono accessibili all'innocente [...]. Data
questa conoscenza, il colpevole riconoscerà
persone, oggetti ed eventi associati al delitto
[...] questo riconoscimento lo stimolerà e
provocherà in lui un'attivazione emotiva».127
Una limitazione di questa tecnica è che non
può essere usata sempre, neppure nelle
indagini di polizia. Le informazioni circa il delitto
possono aver ricevuto una tale pubblicità che
non solo il colpevole, ma chiunque altro è al
corrente dei fatti. Anche se la stampa non
diffonde certe informazioni, lo fa la polizia nel
corso degli interrogatori. Inoltre, certi delitti di
per sé non si prestano altrettanto bene a questo
metodo: sarebbe difficile, per esempio, decidere
se una persona che ha confessato un omicidio
menta o dica la verità quando afferma di aver
ucciso per legittima difesa. In qualche caso,
infine, un innocente sospettato può essere stato
presente sulla scena del delitto e conoscere tutti
i dettagli pertinenti.
Raskin, che propugna la tecnica della
domanda di controllo, afferma che il metodo
della conoscenza colpevole dà luogo a più errori
del tipo falso negativo: «Si deve presumere che
il responsabile del delitto abbia cognizione dei
particolari toccati dalle domande. Se però non
ha fatto abbastanza attenzione a quei dettagli,
non ha avuto modo di osservarli, o era ubriaco
al momento del delitto, un esame imperniato
sulle cognizioni di fatto non sarebbe adatto su
quel soggetto».128
Il metodo non servirà a molto se per
l'appunto il sospettato è una di quelle persone
che non hanno reazioni neurovegetative visibili.
Come ho detto nel capitolo precedente a
proposito degli indizi comportamentali che
permettono di individuare l'inganno, esistono
ampie differenze individuali nel comportamento
emotivo. Non c'è nessun segno di attivazione
emotiva che sia completamente attendibile,
nessuno che compaia necessariamente in
chiunque. A prescindere da quello che si
esamina - mimica, gesti, voce, ritmo cardiaco,
respirazione - per alcune persone non sarà un
indice sensibile. Ho già sottolineato come
l'assenza di un lapsus, verbale o gestuale che
sia, non dimostri affatto che il sospettato dica la
verità. Analogamente, l'assenza di reazioni
neurovegetative come quelle misurate dal
poligrafo non dimostra, almeno non per tutti,
che il soggetto non sia emozionato. Con la
tecnica della conoscenza colpevole, persone che
anche quando sono turbate non presentano
un'accentuata attivazione del sistema nervoso
autonomo daranno risultati inconcludenti.
Il rapporto dell'OTA, frutto di una rassegna
critica di tutto il materiale esistente, ha trovato
che entrambi i metodi di interrogatorio sono
esposti agli errori indicati dai rispettivi critici.
La prova della conoscenza colpevole produce
più falsi negativi, la tecnica delle domande di
controllo più falsi positivi. Anche questa
conclusione, tuttavia, è contestata da alcuni
tecnici e ricercatori. Ambiguità continuano a
sussistere in parte per la scarsità degli studi
scientifici,129 in parte per la difficoltà intrinseca
di organizzare una ricerca che accerti la validità
del poligrafo. Difetti si possono riscontrare in
quasi tutti i lavori eseguiti finora
sull'argomento. Un problema cruciale è quello di
stabilire quella che ho chiamato verità di base,
cioè un qualche modo di sapere con certezza,
indipendentemente dal poligrafo, se i soggetti
dicono il vero o il falso. Se il ricercatore non
conosce la verità di base, chi ha mentito e chi
no, non c'è maniera di valutare la precisione del
test.
LA RICERCA SULLA VALIDITÀ DEL
POLIGRAFO
Gli approcci possibili allo studio scientifico
della validità e attendibilità del poligrafo
differiscono dal punto di vista della certezza che
sono in grado di garantire circa la verità di base.
Le ricerche sul campo prendono in esame
episodi effettivamente avvenuti nella vita reale,
mentre le ricerche analogiche considerano una
situazione, di solito un esperimento, che è stata
accuratamente predisposta dal ricercatore
stesso. I due metodi sono esattamente
complementari nei loro vantaggi e svantaggi.
Nelle ricerche sul campo i soggetti hanno
davvero a cuore l'esito dell'esame, cosicché ci
sono buone probabilità che si mettano in moto
emozioni intense; un altro vantaggio è che si
tratta del tipo giusto di soggetti, non studenti
universitari ma autentici sospettati di illeciti o
delitti. Il punto debole di queste ricerche è
l'incertezza che sussiste quanto alla verità di
base. Il fatto di garantire dati certi in proposito
è il maggior punto di forza della ricerca
analogica: in un esperimento di laboratorio, il
ricercatore sa esattamente chi mente e chi no,
perché è lui a determinarlo in partenza. Il punto
debole è che i “sospettati” di solito hanno poco o
nulla da perdere e quindi non si può supporre
che siano in gioco le stesse emozioni come in un
interrogatorio di polizia; inoltre, i soggetti
esaminati forse non somigliano al tipo di
persone che di norma viene sottoposto
all'esame col poligrafo.
LA RICERCA SUL CAMPO
Consideriamo perché è tanto difficile
stabilire un criterio di verità di base nelle
ricerche sul campo. Individui realmente
sospettati di un reato sono sottoposti all'esame
non a fini di ricerca scientifica ma nel quadro
delle indagini. In un momento successivo si
potrà disporre di informazioni circa eventuali
confessioni dell'imputato, proscioglimento per
mancanza d'indizi, sentenza di assoluzione o di
colpevolezza. Parrebbe che con tutti questi dati
non dovesse essere difficile accertare la verità
di base, ma non è così. Cito dal rapporto
dell'OTA:
Il proscioglimento in istruttoria può esser
dovuto a insufficienza di indizi piuttosto che
all'innocenza del sospettato. Nel caso che il
tribunale assolva l'imputato, non è possibile
determinare fino a che punto la giuria fosse
convinta della sua effettiva innocenza oppure
soltanto che le prove non soddisfacessero il
criterio della “colpevolezza al di là di un
ragionevole dubbio”. Molto spesso la linea
difensiva del colpevole è in realtà una
confessione di colpevolezza per reati di minor
conto; come nota Raskin, è difficile interpretare
il significato di tali posizioni difensive per
quanto riguarda la colpevolezza rispetto
all'imputazione originaria. Il risultato è che,
facendo riferimento all'esito dei procedimenti
giudiziari, gli esami col poligrafo possono dare
l'impressione di produrre un alto numero di
falsi positivi nel caso di sentenze di assoluzione,
oppure falsi negativi nel caso di non rinvio a
giudizio.130
Si potrebbe pensare di risolvere questi
problemi chiedendo a un comitato di esperti di
riesaminare tutta la documentazione, per
giungere a una decisione di colpevolezza o
innocenza, ma la cosa presenta due difficoltà
fondamentali: gli esperti non sempre sono
unanimi e anche quando lo sono non abbiamo
modo di escludere che sbaglino. Neppure la
confessione dell'imputato è in ogni caso priva di
ombre. Ci sono degli innocenti che si dichiarano
colpevoli e, anche quando le confessioni sono
valide, riguardano sempre una percentuale
piccola (e forse tutt'altro che rappresentativa)
dei casi sottoposti all'esame del poligrafo. Quasi
tutte le ricerche sul campo risentono del
problema che la popolazione di casi da cui è
prelevato il campione non è identificata con
certezza.
RICERCHE ANALOGICHE
Negli studi sperimentali i problemi non sono
più facili, sono soltanto diversi. Qui abbiamo la
certezza quanto alla verità di base: è il
ricercatore che dà ad alcuni soggetti l'istruzione
di commettere un “reato”, ad altri l'istruzione
opposta. Il dubbio è se un reato fittizio potrà
mai esser preso sul serio come vero. I
ricercatori hanno elaborato procedure
sperimentali capaci di coinvolgere i soggetti,
cercando di motivarli con una ricompensa nel
caso che non si lascino smascherare dal
poligrafo; in qualche caso, c'è anche la minaccia
di una punizione se la bugia viene scoperta, ma
per ovvie ragioni deontologiche si tratta di
punizioni di poco conto (per esempio, non viene
accreditata nel curriculum dello studente la
partecipazione all'esperimento se fallisce la
prova). Quasi tutti gli autori che adottano la
tecnica della domanda di controllo hanno usato
per i loro esperimenti una qualche variante del
modello di simulazione di reato proposto da
Raskin:
La metà dei soggetti riceve un nastro
registrato che si limita ad informarli che
in un ufficio dell'università è stato
rubato un anello e che saranno
sottoposti a un test col rivelatore delle
menzogne per stabilire se hanno detto o
meno la verità negando di aver
partecipato al furto. Inoltre, se
appariranno sinceri riceveranno un
premio in denaro (10 $). All'altra metà
dei soggetti si danno istruzioni sul reato
che devono commettere [...]. Devono
entrare in una stanza a un altro piano
dell'edificio, far uscire l'impiegata con
un pretesto, entrare nel suo ufficio
appena è uscita, cercare nella scrivania
una cassetta metallica contenente un
anello, nasconderselo addosso e poi
ritornare al laboratorio per il test col
poligrafo. Sono avvertiti di non rivelare
a nessuno il fatto che stanno
partecipando a un esperimento e di
prepararsi una scusa nel caso che
qualcuno li sorprenda nell'ufficio.
Inoltre, non devono rivelare nulla
all'esaminatore perché in quel caso
perderebbero ogni accredito per la
partecipazione all'esperimento, oltre
alla possibilità di ottenere il premio nel
caso che superino la prova con il
rivelatore della menzogna.131
Questo rappresenta un tentativo notevole di
simulare una situazione reale di reato, ma
rimane la questione se basti a mettere in moto
le reazioni emotive dei soggetti. Dal momento
che il poligrafo misura l'attivazione emotiva, un
delitto simulato può dirci qualcosa sulla validità
della prova solo se entrano in gioco le stesse
emozioni, altrettanto forti che in una situazione
reale. Nel Cap. III ho descritto tre emozioni che
possono essere messe in moto dal fatto di
mentire e per ognuna di queste ho spiegato
quali sono i fattori che possono renderla più o
meno intensa. Vediamo se queste emozioni sono
o non sono prevedibili nel caso di un reato
fittizio commesso nell'ambito di una ricerca
sperimentale.
Timore di essere scoperto. La posta in palio
è la determinante principale ai fini del timore di
essere smascherati. Nel Cap. III ho indicato le
ragioni per cui sono convinto che l'apprensione
sia direttamente proporzionale alla ricompensa
per il successo e alla punizione per l'insuccesso;
inoltre, penso che la severità della punizione sia
fra le due la più importante. La gravità della
minaccia influisce sulla paura dell'innocente di
essere mal giudicato non meno che sulla paura
del bugiardo di essere smascherato: l'uno e
l'altro subiranno le stesse conseguenze. Nei
delitti simulati le ricompense sono piccole e non
ci sono punizioni; né chi mente né chi dice la
verità dovrebbe provare grande apprensione.
Può darsi che i soggetti siano un po' preoccupati
di eseguire come si deve il compito per cui
vengono pagati, ma quasi certamente si tratta
di un sentimento molto tenue in confronto alla
paura provata (sia dall'innocente che dal
colpevole) in una vera inchiesta di polizia.
Senso di colpa. Questa emozione tende a
scomparire se la menzogna è autorizzata,
richiesta e approvata. Nelle situazioni di delitto
simulato, il soggetto riceve espressamente
l'istruzione di mentire, perché con la sua
menzogna collabora alla ricerca scientifica. È
probabile quindi che i soggetti provino
scarsissimo senso di colpa in questi esperimenti.
Piacere della beffa. L'eccitazione della sfida,
il piacere di avere la meglio, sono tanto più
intensi se il destinatario dell'inganno ha la
reputazione di essere difficile da mettere nel
sacco. Riuscire a ingannare la macchina
dovrebbe rappresentare una sfida del genere e
questo
sentimento
dovrebbe
essere
particolarmente intenso in mancanza di altre
emozioni concorrenti, come paura o senso di
colpa.132 Solo chi mente, non chi è sincero,
dovrebbe provare questa emozione.
Da questa mia analisi sembra che i delitti
simulati debbano attivare una sola delle tre
emozioni possibili nel caso di un delitto
autentico, precisamente il piacere della beffa.
Inoltre, questa emozione dovrebbe provarla
solo chi mente, non chi dice il vero. Dal
momento che l'unico ad avere una reazione
emotiva è probabilmente il bugiardo, dovrebbe
essere facile scoprirlo, più facile a mio avviso
che nelle situazioni di indagini reali, dove anche
l'innocente è esposto agli stessi pericoli del
colpevole. Le ricerche basate sul metodo del
delitto simulato dovrebbero, secondo questo
ragionamento, sopravvalutare l'esattezza del
poligrafo come rivelatore della menzogna.
RICERCHE IBRIDE
C'è una terza impostazione sperimentale che
cerca di evitare i difetti tipici sia delle ricerche
sul campo che delle simulazioni analogiche,
combinando i vantaggi di entrambi i metodi. In
questo
modello ibrido lo sperimentatore
predispone le cose in modo che possa essere
compiuto un reato autentico. Non ci sono dubbi
sulla verità di base, come nella sperimentazione
classica, ma la posta in gioco è alta per tutti i
sospettati, innocenti o colpevoli, proprio come
nelle situazioni reali. In una tesi di laurea
pubblicata da Netzer Daie, membro dell'unità
specializzata per gli interrogatori scientifici della
polizia israeliana a Gerusalemme, si riferisce
proprio un esperimento del genere. La
menzogna era «autentica e perpetrata
volontariamente anziché simulata [...] i soggetti
erano convinti che chi li interrogava non
sapesse chi aveva commesso l'irregolarità; i
soggetti [...] [erano] sinceramente preoccupati
dei risultati della prova [...] e l'operatore non
conosceva la percentuale di colpevoli e di
innocenti nei campione».133 I soggetti erano 21
poliziotti sottoposti a test carta e matita «che
erano presentati come test attitudinali richiesti
dal servizio; dovevano correggere da soli i test e
questo offriva il destro per barare, rettificando
le risposte iniziali (i fogli di risposta erano però
trattati chimicamente in modo da rivelare le
alterazioni). Dei 21 soggetti, 7 alterarono le
risposte iniziali. In seguito, a tutti è stato detto
che si sospettava che avessero contraffatto i
risultati del test, che avevano la possibilità di
sottoporsi a un esame con il poligrafo per
dimostrare la loro innocenza e che dall'esito
della prova poteva dipendere la loro
carriera».134
È realistico permettere ai soggetti di
rifiutare la prova: nelle indagini di polizia
l'esame col poligrafo è opzionale, non può essere
imposto al sospettato. Dei 7 colpevoli di falso 3
hanno confessato spontaneamente, un altro
colpevole e due innocenti hanno rifiutato la
prova e un quinto colpevole non si è presentato
al test.135 In totale, quindi, solo 15 dei 21
soggetti iniziali si sono sottoposti alla prova, 2
colpevoli e 13 innocenti. L'esame è stato
condotto con la tecnica delle domande di
controllo ed entrambi i falsari sono stati
esattamente individuati; dei 13 innocenti, 2
sono stati erroneamente indicati come
mentitori.
Nessuna conclusione definitiva si può trarre
da questo lavoro, data l'esiguità del campione,
ma il modello di ricerca potrebbe rivelarsi molto
utile, anche se si pongono alcuni problemi etici
inducendo i soggetti a comportamenti scorretti.
I ricercatori israeliani ritengono che la cosa sia
giustificata dall'importanza di valutare
esattamente la validità e attendibilità del
poligrafo: «Migliaia di persone vengono
sottoposte annualmente a interrogatori con il
poligrafo [...] e decisioni importanti si basano sui
risultati di questi esami. Eppure la validità di
questo strumento non è conosciuta».136 Forse è
più giustificato imporre una procedura
sperimentale di questo tipo quando i soggetti
sono poliziotti, dato che queste persone si
assumono rischi speciali nel quadro della loro
professione e dato che sono più direttamente
coinvolti nell'uso o abuso del poligrafo. Il punto
di forza di questo modello ibrido di ricerca è che
è reale. In effetti alcuni poliziotti barano
davvero nei test: «Un'indagine interna
riservata condotta da funzionari direttivi
dell'FBI ha accertato che varie centinaia di
impiegati d'ufficio erano coinvolti in un diffuso
fenomeno di falsificazione dei risultati negli
esami per l'assegnazione di incarichi speciali
particolarmente ambiti».137 L'esperimento di
Gerusalemme non era un gioco, non si trattava
solo dell'eccitazione di riuscire a mettere nel
sacco lo sperimentatore: la paura di essere
scoperti doveva essere forte e in alcuni almeno
doveva esserci anche qualche senso di colpa,
perché era in gioco, se non la carriera, almeno
una reputazione di onestà.
RISULTATI DELLE RICERCHE
Rispondenti a requisiti minimi di
scientificità, abbiamo dieci ricerche sul campo e
quattordici analogiche basate sulla tecnica delle
domande di controllo e sei (tutte analogiche)
basate sul metodo della conoscenza
colpevole.138 Il grafico riprodotto nelle pagine
seguenti, costruito sulla base di questi lavori,
dimostra che il poligrafo in effetti funziona:
riesce a individuare i bugiardi più spesso che no,
ma fa anche degli errori. Quanti errori - e di che
tipo - dipende dal tipo di ricerca, sperimentale o
sul campo, e dal metodo utilizzato, domande di
controllo o conoscenza colpevole, oltre che dalle
condizioni particolari dei singoli lavori. Ci sono
comunque alcuni risultati complessivi:
1. L'esattezza è maggiore nelle ricerche sul
campo che in quelle analogiche. Vari
fattori possono influirvi: nelle ricerche sul
campo c'è una maggiore attivazione
emotiva, i soggetti sono meno istruiti, c'è
meno certezza circa la verità di base e
spesso rispetto alla rappresentatività dei
campioni.
2. I falsi positivi sono frequenti, salvo che col
metodo della conoscenza colpevole. C'è
bisogno di molte altre ricerche,
specialmente sul campo o del tipo ibrido,
che usino il metodo della conoscenza
colpevole.
3. I falsi negativi sono frequenti, soprattutto
col metodo della conoscenza colpevole.
Sebbene Raskin sia convinto che i dati del
grafico sottovalutino l'esattezza del poligrafo e
Lykken che la sopravvalutino, entrambi
concordano con questi tre dati complessivi. Il
disaccordo permane sui vari punti cruciali
riguardo all'affidamento che si può fare sui
risultati della prova con il poligrafo. Per
esempio, gli psicopatici sono più capaci degli
altri di sfuggire all'individuazione? I dati in
proposito sono contraddittori, soprattutto per
quanto riguarda la tecnica della domanda di
controllo. Per ciò che concerne la tecnica della
conoscenza colpevole, Lykken ritiene che le
menzogne degli psicopatici possano essere
smascherate attraverso l'uso di questo metodo:
infatti, sebbene questi individui non dimostrino
alcuna paura di essere scoperti, né alcun segno
di ciò che chiamo piacere della beffa, il semplice
fatto di riconoscere la risposta corretta fra le
alternative presentate produrrà in sé
cambiamenti nel sistema neurovegetativo.
Tuttavia, non vi sono finora ricerche
sperimentali che confermino la validità di esami
col poligrafo, condotti col metodo della
conoscenza colpevole, quando il soggetto è uno
psicopatico.
Si rende
necessario
un
approfondimento degli studi, coinvolgendo
magari altre tipologie di soggetti la cui
responsività agli esami col poligrafo è minima.
Figura 7-1. Il grafico riporta le medie, che non sempre
rispecchiano adeguatamente la gamma dei risultati
delle varie ricerche. Le percentuali massime e minime
sono le seguenti. Colpevoli esattamente individuati:
nelle ricerche sul campo, 71-99%; nelle ricerche
sperimentali con le domande di controllo, 35-100%;
nelle ricerche sperimentali con il metodo della
conoscenza colpevole, 61-95%. Innocenti esattamente
individuati: ricerche sul campo, 13-94%; ricerche
sperimentali (domande di controllo), 32-91%; ricerche
sperimentali (conoscenza colpevole), 80-100%.
Innocenti individuati erroneamente come colpevoli:
ricerche sul campo, 0-75%; ricerche sperimentali
(domande di controllo), 2-51%; ricerche sperimentali
(conoscenza
colpevole),
0-12%.
Colpevoli
erroneamente giudicati innocenti: ricerche sul campo,
0-29%; ricerche sperimentali (domande di controllo),
0-29%; ricerche sperimentali (conoscenza colpevole),
5-39%.
Inoltre, certe contromisure, cioè tentativi
deliberati messi in atto per sfuggire
all'individuazione, possono essere efficaci?
Anche in questo caso, ci vorrebbero altre
ricerche per risolvere la contraddizione nei dati
fin qui esistenti. Ritengo che sarebbe giudizioso
ammettere questa possibilità, soprattutto per
soggetti addestrati (penso in particolare agli
agenti dei servizi segreti).
Il capoverso conclusivo del rapporto
dell'OTA afferma che la ricerca fornisce
«qualche prova della validità dell'esame col
poligrafo in aggiunta alle procedure normali di
indagine su certi tipi di episodi penali».139 Io
penso che sia possibile spingersi un po' oltre tale
cauta conclusione, pur mantenendo una qualche
sembianza di consenso fra i principali specialisti.
Si dovrebbe dare maggior peso ai risultati
che indicano l'innocenza rispetto a quelli che
indicano menzogna. A meno che le prove non
siano per altri versi convincenti, gli investigatori
possono ben decidere di lasciar cadere le accuse
contro un sospettato che risulti sincero al test.
Raskin ed altri autori fanno questa proposta
soprattutto quando si usa il metodo delle
domande di controllo, in quanto dà luogo a pochi
falsi negativi.
Quando i risultati della prova indicano
menzogna, ciò non dev'essere considerato
«base sufficiente per la condanna e nemmeno
per l'incriminazione [...] un tale risultato deve
indurre semplicemente ad approfondire
l'indagine sul sospettato».140 Lykken è
sostanzialmente
d'accordo
con
questa
affermazione di Raskin, anche se con qualche
riserva.141
Nel Cap. VIII spiegherò quello che chiamo
procedimento di verifica e controllo e
nell'Appendice (Tab. 4) riporterò l'elenco delle
38 domande che si possono porre a riguardo di
una qualunque bugia per avere una stima delle
probabilità di scoprirla sia dal poligrafo che dagli
indizi comportamentali. Fra gli esempi che
citerò per illustrare il procedimento c'è un
resoconto dettagliato dell'esame col poligrafo
condotto su un indiziato di omicidio, un esempio
che offrirà un'altra occasione per riesaminare il
problema di come dev'essere usata questa
tecnica in sede di indagini di polizia.
UN CONFRONTO FRA POLIGRAFO E INDIZI
COMPORTAMENTALI
I tecnici del poligrafo non formulano il
giudizio esclusivamente sulla base dei tracciati.
Non sempre l'esaminatore sa che cosa hanno
rivelato le indagini precedenti, ma nel corso
dell'intervista preliminare ottiene certe
informazioni, mentre spiega la procedura
d'esame e mette a punto le domande da usare
nel corso della prova, inoltre, ricava certe
espressioni dalla mimica, dalla voce, dai gesti e
dal modo di parlare del soggetto durante questo
colloquio iniziale, nell'esame stesso e
nell'intervista conclusiva. Ci sono due scuole di
pensiero circa l'opportunità o meno che
l'esaminatore tenga conto anche degli indizi
comportamentali. Le istruzioni che vengono
fornite agli operatori quando si vuole che li
prendano in considerazione, almeno quelle che
ho potuto vedere, sono deprecabilmente poco
aggiornate, infarcite di idee sbagliate accanto a
qualcuna giusta.
Esistono quattro sole ricerche in cui si
mettono a confronto i giudizi fondati sul
poligrafo e insieme sull'osservazione del
comportamento del sospettato, con giudizi
ricavati dal solo esame dei tracciati. Due lavori
indicano che l'esattezza dei giudizi basati sui soli
indizi comportamentali era pari a quella dei
giudizi fondati sui soli dati strumentali; un terzo
lavoro indica che gli indizi comportamentali
davano luogo a giudizi validi, ma non come
quelli fondati sul solo tracciato del poligrafo.
Tutte e tre queste ricerche presentavano grossi
difetti: incertezza circa la verità di base, un
numero troppo piccolo di soggetti e di
esaminatori.142 Questi problemi sono stati
eliminati nel quarto lavoro, curato da Raskin e
Kircher, tuttora inedito,143 da cui risulta che i
giudizi basati sugli indizi comportamentali non
erano migliori di quelli ottenibili tirando a sorte,
mentre i giudizi ricavati dal solo esame dei
tracciati, senza alcun contatto con i soggetti,
avevano una precisione molto superiore al
livello del caso.
Le persone si lasciano spesso trarre in
inganno, interpretando male gli indizi
comportamentali o lasciandoseli sfuggire del
tutto. Noi tuttavia sappiamo che gli indizi
significativi esistono e pensiamo che con uno
specifico addestramento la capacità di coglierli
esattamente possa aumentare.
Sarebbe importante, in uno studio come
quello di Raskin e Kircher, confrontare
l'esattezza dei giudizi ricavati dal tracciato del
poligrafo con i giudizi di osservatori addestrati.
La mia ipotesi è che, almeno per alcuni soggetti,
i dati comportamentali in aggiunta al tracciato
del poligrafo accrescerebbero la validità
dell'esame. Gli indizi comportamentali possono
dirci qual è l'emozione che il soggetto prova:
quella che produce i segni di attivazione
neurovegetativa visibili sul tracciato è paura,
rabbia, sorpresa, dolore o eccitazione?
Forse è possibile ricavare informazioni più
specifiche anche dallo stesso tracciato. Il lettore
ricorderà i nostri dati (descritti alla fine del Cap.
IV) circa un diverso modello di risposta
neurovegetativa per le varie emozioni. Nessuno
finora
ha
tentato
questo
approccio
all'interpretazione dei dati strumentali, ma
certo sapere qual è l'emozione specifica
potrebbe servire a ridurre l'incidenza degli
errori. Un'altra questione importante che
dev'essere studiata è se, combinando l'analisi
degli
indizi
comportamentali
con
l'interpretazione qualitativa dei tracciati del
poligrafo, si possano individuare eventuali
contromisure per sfuggire al test.
Il poligrafo si può utilizzare solo con un
sospettato che sia disposto a collaborare e dia il
consenso all'esame. Gli indizi comportamentali
si possono sempre leggere, senza permesso,
senza preavviso e senza che il sospettato sappia
di esserlo. Mentre è possibile che l'esame col
poligrafo sia vietato in certe situazioni, non si
potrà mai mettere fuori legge l'uso degli indizi
comportamentali per cercar di scoprire le
menzogne.
In molti casi in cui si sospetta un inganno, si
tratti di rapporti coniugali, diplomatici o
commerciali, ovviamente il poligrafo è fuori
discussione. Non importa se nessuno si aspetta
la sincerità della controparte: sta di fatto che
non è lecita neppure una serie di domande che
somigli lontanamente a un interrogatorio.
Quando si presume un rapporto di fiducia, come
fra coniugi, amici, genitori e figli, una serie
ininterrotta di domande scottanti rischia di
mettere a repentaglio quel rapporto. Anche un
genitore, che magari ha sul figlio più autorità di
quanta ne abbia la maggior parte degli
inquisitori sugli inquisiti, può non potersi
permettere un vero e proprio interrogatorio:
non accettare l'iniziale affermazione d'innocenza
da parte del figlio potrebbe minare per sempre i
loro rapporti, anche se il figlio si sottomette
all'interrogatorio, cosa che non tutti farebbero.
Alcuni forse pensano che è meglio, più
morale, non cercare di smascherare le
menzogne, accettare le persone sulla parola,
prendere la vita per quello che appare e non far
nulla per ridurre le probabilità di essere
ingannati. In questo modo si sceglie di non
correre il rischio di accusare qualcuno a torto,
anche se ciò implica il rischio di lasciarsi
ingannare. A volte questa può essere la
decisione migliore. Dipende dalla posta in gioco,
da chi sarebbe il sospettato, dalla probabilità di
essere ingannati e dalla personalità della
vittima potenziale dell'inganno. Nel romanzo di
Updike, Marry Me, che cosa avrebbe avuto da
perdere Jerry credendo alla fedeltà della moglie
e come valutare questo rischio a paragone del
rischio opposto, di non credere alle sue parole
se invece Ruth fosse stata del tutto innocente e
sincera? In alcuni matrimoni, per esempio, il
danno causato da un'accusa ingiusta può essere
maggiore di quello che si rischia lasciando
correre un inganno finché le prove non
diventano schiaccianti, ma non sempre è così:
tutto dipende dai caratteri peculiari di ogni
singola situazione.
L'unico suggerimento su ciò che deve
sempre esser preso in considerazione quando si
cerca di soppesare i rischi opposti è di non
giungere mai a conclusioni definitive circa la
sincerità o falsità di una persona sulla sola
base del poligrafo o di indizi comportamentali.
Il Cap. VI ha esposto i pericoli
nell'interpretazione
degli
indizi
comportamentali, insieme con le precauzioni
che si possono prendere per ridurli. Quanto ho
detto in questo capitolo dovrebbe a sua volta
aver chiarito i rischi che si corrono
interpretando il tracciato del poligrafo come
prova di menzogna. Chi cerca di smascherare le
bugie deve sempre fare una stima della
probabilità che un gesto, un'espressione, una
risposta neurovegetativa indichino menzogna o
sincerità: è raro che ci sia la certezza assoluta.
Riconoscere
la
presenza
di
indizi
(comportamentali o strumentali) di menzogna o
verità può costituire solo una base per decidere
se proseguire o meno l'indagine.
Si deve inoltre valutare la probabilità di
smascherare
la
menzogna
con
cui
eventualmente abbiamo a che fare: certi
inganni sono così facili da portare a buon fine
che ci sono scarse probabilità che emerga un
qualunque indizio, altri invece sono così difficili
che gli indizi saranno numerosi. Nel prossimo
capitolo vedremo quali fattori considerare per
valutare la probabilità che abbiamo di
individuare i vari tipi di menzogna.
VIII
Verifica e controllo
La maggior parte delle bugie riesce perché
nessuno si prende la briga di vedere come può
smascherarle. Di solito poco importa. Ma
quando la posta in gioco è alta, vale la pena di
fare questa fatica. La procedura di verifica e
controllo che propongo non è un lavoro né
semplice né rapido. Molte domande vanno
prese in considerazione per stimare se sono
probabili degli errori da parte dell'autore
dell'inganno e, in caso affermativo, quali errori
aspettarsi e come coglierli in certi indizi
comportamentali. Bisogna interrogarsi sulla
natura stessa dell'inganno, sulle caratteristiche
del suo autore e infine di chi dovrebbe
smascherarlo. Nessuno può avere l'assoluta
certezza quanto al fatto che il bugiardo riesca o
no a farla franca o che una persona sincera
riesca a dimostrare la propria innocenza. La
procedura di verifica che suggerisco permette
solo di fare delle congetture sulla base di
cognizioni di fatto, ma una stima del genere
dovrebbe ridurre entrambi i tipi di errore, falsi
negativi (credere alla bugia) e falsi positivi (non
credere alla verità). Se non altro, rende edotti
sia l'autore che il destinatario dell'inganno di
quanto è complicato prevedere se l'inganno
potrà o non potrà essere smascherato.
La verifica sistematica delle alternative
permetterà di valutare le probabilità di avere la
conferma o la smentita dei sospetti. In qualche
caso tutto quello che si verrà a sapere è che non
è possibile averla (magari l'avesse saputo
Otello). Oppure, si può capire quali sono gli
errori più probabili del bugiardo e quindi dove
cercarli. Un lavoro del genere potrebbe essere
utile anche al bugiardo: qualcuno potrebbe
decidere che le probabilità sono troppo
sfavorevoli e quindi desistere dal suo piano,
altri invece potrebbero essere incoraggiati dalla
facilità dell'inganno, oppure rendersi conto di
dove devono concentrare gli sforzi per evitare
gli errori più probabili. Nel prossimo capitolo,
spiegherò perché le informazioni contenute in
questo e in altri capitoli generalmente si
risolvono a vantaggio più della vittima che
dell'autore dell'inganno.
Per una verifica completa, bisogna
rispondere a 38 domande. La maggior parte di
queste le ho già indicate parlando di altri
argomenti. Ora le ho raccolte in un unico
prontuario, con l'aggiunta di poche voci che
finora non avevo avuto ragione di scrivere. In
queste pagine analizzerò alcune bugie di varia
natura, usando il prontuario per mostrare
perché certe sono facili da portare a termine e
altre invece difficili (il prontuario con le 38
domande è riportato nella Tab. 4
dell'Appendice).
Una bugia facile dovrebbe dar luogo a pochi
errori e quindi essere difficile da scoprire,
mentre una bugia difficile per il suo autore
dovrebbe risultare facile da smascherare. Una
bugia per essere facile non deve obbligare a
dissimulare o fingere certe emozioni, deve poter
essere preparata e il suo autore deve avere una
lunga esperienza, mentre il destinatario
dev'essere fiducioso e senza sospetti. Un
articolo di giornale, il cui titolo suona all'incirca
Cacciatori di teste nella giungla aziendale,144
descrive un certo numero di casi in cui l'inganno
è facilissimo.
“Cacciatori di teste”, nel gergo aziendale,
sono gli investigatori incaricati di scoprire quei
dirigenti che potrebbero essere tentati di
abbandonare la ditta a favore di un
concorrente. Ovviamente nessuna ditta vuol
perdere i suoi dirigenti migliori, cosicché le
domande non possono essere molto dirette ed
esplicite. Sara Jones, una cacciatrice di teste per
conto di un'agenzia di New York, racconta come
fa ad estorcere informazioni dalle sue “prede”,
fingendo di intervistarle per una ricerca
industriale: «Stiamo facendo uno studio sulla
correlazione fra tipo d'istruzione e carriera.
Potrei farle un paio di domande? Il suo nome
non mi interessa, ma solo i dati statistici sugli
studi che ha fatto e la sua carriera». Poi gli
chiede tutto quello che lo riguarda: «quanto
guadagna, se è sposato, quanti anni ha, numero
di figli... Fare il cacciatore di teste vuol dire
manipolare gli altri perché ti diano informazioni.
Un raggiro, ecco che cos'è».145
Il colloquio fra lo psichiatra e Mary, la
paziente di cui ho parlato nel primo capitolo, ci
fornisce l'esempio di una bugia difficilissima:
MEDICO: Allora, Mary, come si sente
oggi?
MARY: Bene, dottore. Non vedo l'ora di
passare sabato e domenica con i miei,
capisce. Sono, ecco, sono cinque
settimane ora da quando sono venuta
all'ospedale.
MEDICO: Niente più depressione, Mary?
Niente idee di suicidio, ne è sicura
adesso?
MARY: Mi vergogno davvero di questa
cosa. No, di certo non mi sento a quel
modo ora. Voglio solo andar via, stare a
casa con mio marito.
Anche Mary, come Sara, riesce nella sua
bugia. Né l'una né l'altra viene smascherata, ma
Mary avrebbe potuto esserlo. Da tutti i punti di
vista, le probabilità erano contro di lei, mentre
erano tutte a favore nel caso di Sara. Quella di
Mary è di per sé una menzogna più difficile da
far passare; inoltre, Mary è meno abile ed
esercitata come bugiarda, mentre il medico ha
diversi vantaggi dalla sua come cacciatore di
bugie. Vediamo anzitutto le differenze fra le due
bugie, a prescindere dalle caratteristiche dei
protagonisti.
Mary deve mentire circa i propri
sentimenti, Sara no. Mary cerca di dissimulare
la disperazione che la spinge al suicidio: questi
sentimenti possono trapelare, oppure la
difficoltà di nasconderli potrebbe tradire la sua
finta serenità. Non solo deve nascondere quello
che prova, ma, a differenza di Sara, Mary prova
anche sentimenti piuttosto intensi per il fatto
stesso di mentire, e deve cercare di nascondere
anche questi. L'inganno di Sara è in qualche
modo autorizzato, fa parte del suo lavoro,
cosicché non suscita in lei nessun sentimento di
colpa. La bugia di Mary la fa sentire in colpa
perché non è autorizzata: una paziente
dev'essere onesta col medico che cerca di
aiutarla e, in più, Mary ha simpatia per il suo
medico. Inoltre si vergogna di mentire e anche
di progettare il suicidio. Le bugie più difficili
sono quelle che riguardano le emozioni
provate sul momento; quanto più le emozioni
sono intense e quanto maggiore è il numero di
emozioni da nascondere, tanto più difficile
sarà l'inganno. Finora ho spiegato perché, oltre
alla sua infelicità, Mary doveva provare anche
vergogna e senso di colpa. Ora dall'inganno in sé
passiamo a considerare i suoi autori: vedremo
che Mary deve provare anche una quarta
emozione, che deve cercare di tenere nascosta.
È meno abile e meno addestrata a mentire in
confronto a Sara. Non le è mai capitato prima di
cercar di nascondere la depressione e i progetti
di suicidio, né ha esperienza di menzogne di
alcun tipo nei confronti di uno psichiatra. La
mancanza di pratica le fa temere di essere
scoperta e questa paura, naturalmente, può
trapelare, aumentando così il carico di emozioni
da dissimulare. La malattia psichiatrica la rende
inoltre particolarmente esposta alla paura, ai
sensi di colpa e alla vergogna, né si può
supporre che le riesca facile nascondere queste
emozioni.
Mary non ha previsto tutte le domande che
il medico le può fare e deve improvvisare sul
momento. La situazione di Sara è del tutto
opposta: ha pratica in questo tipo di bugia, l'ha
già fatto tante volte e i successi passati le danno
fiducia nelle proprie capacità; inoltre, ha una
linea già pronta, studiata e ripassata a puntino.
Come se non bastasse, ha il vantaggio di aver
studiato e praticato recitazione, cosa che la
mette in condizione di impersonare abilmente
ruoli fittizi, a volte fino al punto di convincere
perfino se stessa.
Il medico ha tre vantaggi sul dirigente
intervistato da Sara, ai fini di scoprire l'inganno.
Questo non è il primo incontro e la conoscenza
che ha di Mary gli permette più facilmente di
evitare gli errori dovuti alle differenze
individuali. Non tutti gli psichiatri sono
specificamente preparati a cogliere gli indizi di
emozioni nascoste, ma il nostro psichiatra ha
questa competenza. A differenza del dirigente
intervistato, sta sul chi vive: sa che può essere
ingannato, perché gli hanno insegnato che dopo
qualche settimana d'ospedale un paziente con
tendenze suicide può nascondere i suoi veri
sentimenti per ottenere un permesso o la
dimissione e poter mettere in atto i suoi piani.
Gli errori di Mary sono evidenti nelle parole,
nella voce, nei gesti e nelle espressioni. Non ha
pratica di bugie, non è una gran parlatrice e si
lascia sfuggire molti indizi nelle parole che
sceglie e nella voce stessa: errori, giri di parole,
contraddizioni, pause. Le forti emozioni
contribuiscono a causare questi errori e a
rendere più acuta la sua voce. Indizi che
rivelano
queste
emozioni
nascoste
(disperazione, paura, senso di colpa, vergogna)
sono inoltre evidenti in certi lapsus gestuali
(come stringersi nelle spalle), nei movimenti
manipolatori, nella riduzione dei gesti
illustrativi e in microespressioni del viso. Tutte
e quattro le emozioni trapelano nel movimento
dei muscoli facciali involontari, malgrado gli
sforzi per nasconderle. Conoscendo già la
paziente, il medico avrebbe dovuto essere in
grado di interpretare esattamente gli indizi
costituiti dai movimenti illustrativi e
manipolatori, indizi che in condizioni diverse si
sarebbero prestati ad equivoci a causa di
differenze individuali incontrollabili. In realtà, il
medico non è riuscito a cogliere gli indizi che
rivelavano l'inganno di Mary, anche se presumo
che se ne sarebbe accorto se fosse stato al
corrente di quanto ho spiegato fin qui.
La situazione di Sara, invece, è quasi ideale
per chi mente: nessuna emozione da
nascondere; pratica abbondante proprio in
questo tipo di bugia; tempo di prepararsi;
fiducia nei propri mezzi, grazie ai successi
precedenti; talenti naturali e acquisiti da
utilizzare nell'inganno; autorizzazione a
mentire; una vittima fiduciosa che è tanto più
esposta ad errori in un primo incontro; infine,
una vittima che non ha speciali competenze per
giudicare le persone. Naturalmente, nel caso di
Sara non ho a disposizione nessun filmato da
analizzare in cerca di eventuali indizi rivelatori,
dato che l'unica fonte è un articolo di giornale.
Posso solo presumere che né io né nessun altro
riusciremmo a scoprire indizi significativi. La
sua era una bugia molto facile e non c'era
ragione che commettesse degli errori.
L'unico vantaggio che mancava a Sara
sarebbe stata una vittima che collaborasse
attivamente a farsi ingannare, che avesse
bisogno per ragioni sue di credere alla bugia. Né
Sara né Mary godevano questo vantaggio, che
invece aveva Ruth, la moglie adultera del
romanzo di Updike di cui ho già parlato varie
volte. La sua era una bugia molto difficile che
doveva essere infarcita di sbagli, ma il marito,
vittima volontaria, non la scopre. Jerry non
approfondisce e il romanziere lascia capire che
non si sforza di mettere alle corde la moglie
perché ha una ragione tutta sua per evitare uno
scontro a proposito della fedeltà coniugale:
anche lui ha una relazione e, come si viene a
sapere, proprio con la moglie dell'amante di
Ruth.
Confrontiamo la bugia di Ruth, difficile ma
andata a buon fine, con un'altra, molto facile,
non scoperta per tutt'altre ragioni. La troviamo
descritta in una recente analisi delle tecniche
usate dai truffatori di professione:
Nel trucco dello “specchio” [...] il
truffatore sbatte in faccia alla vittima
un suo pensiero nascosto, e così la
disarma giocando d'anticipo. John
Hamrak, uno dei truffatori più geniali,
attivo in Ungheria ai primi del secolo, si
presentò un giorno, con un complice
vestito da operaio, nell'ufficio di un
assessore al comune, annunciando che
erano venuti a prendere la pendola che
doveva essere riparata. L'assessore,
probabilmente per il grande valore
dell'orologio,
era
riluttante
a
consegnarlo. Invece di insistere nella
parte, Hamrik reagì richiamando
l'attenzione dell'assessore sul valore
straordinario dell'oggetto, dichiarando
che era questa la ragione per cui era
venuto di persona. In questo modo il
truffatore abile si presta volentieri a
richiamare l'attenzione della vittima sul
punto più delicato, ottenendo con
questa mossa che sembra nuocere alla
sua causa l'effetto di rendere più
credibile il proprio ruolo.146
La prima questione da considerare per
valutare la probabilità che emerga qualche
indizio significativo è se la menzogna comporta
sul momento delle reazioni emotive. Come ho
spiegato nel Cap. III e poi analizzando il caso di
Mary, le più difficili da sostenere sono quelle
menzogne che implicano intense emozioni nel
momento stesso in cui vengono dette. Il
discorso non finisce qui: anche solo per valutare
se eventuali emozioni potranno o no essere
efficacemente dissimulate, bisogna interrogarsi
su altri aspetti. Comunque, la presenza più o
meno probabile di reazioni emotive è un buon
punto di partenza.
Dissimulare certe emozioni può essere lo
scopo principale della menzogna, come nel caso
di Mary, ma non in quello di Ruth. Anche se non
è così e l'oggetto dell'inganno non sono i
sentimenti, possono sempre intervenire
reazioni emotive al fatto stesso di mentire: ci
sono molte ragioni per cui Ruth può provare,
nella situazione del romanzo, apprensione
all'idea di essere scoperta e senso di colpa
perché inganna il marito. Chiaramente, deve
temere le conseguenze nel caso che il suo
tentativo di nascondere la relazione venga
smascherato. Non solo rischia di perdere la
ricompensa costituita dalla prosecuzione
indisturbata dell'adulterio, ma rischia anche una
punizione: il marito può lasciarla e, in caso di
divorzio, Ruth può ottenere condizioni
economiche più svantaggiose (il romanzo di
Updike risale a un'epoca precedente
all'introduzione del divorzio senza dichiarazione
di colpa). Anche quando la legislazione non
prevede il divorzio per colpa, tuttavia,
l'adulterio può avere effetti negativi in ordine
all'affidamento dei figli. Se invece il matrimonio
dovesse continuare, il clima è destinato a
peggiorare almeno per qualche tempo.
Non tutti i bugiardi rischiano una punizione
se scoperti: né Sara, la cacciatrice di teste, né
Mary, l'aspirante suicida, sarebbero andate
incontro a punizioni in caso d'insuccesso.
Hamrak, il truffatore, sì, e tuttavia altri aspetti
fanno sì che non provi molta apprensione: ha
pratica di quel tipo di situazione e conosce bene
le risorse che possono aiutarlo in quei casi.
Ruth, invece, pur riuscendo a ingannare il
marito, non è preparata alle mosse richieste da
questo tipo di bugia (trovare una scusa
plausibile per una telefonata compromettente),
né ha molta fiducia nel proprio talento di
attrice.
Sapere che sarà punita se la bugia fa fiasco è
solo una delle cause del timore di Ruth: la
punizione la minaccia anche solo per il fatto
stesso di mentire. Se infatti Jerry scopre che
l'ha ingannato, la sua diffidenza può diventare in
futuro una fonte di guai anche a prescindere
dall'adulterio. Alcune vittime d'infedeltà
coniugali affermano che è la fiducia tradita, non
l'adulterio, l'offesa per loro imperdonabile.
Ancora una volta, va notato che non sempre chi
mente è esposto solo per questo a punizioni: ciò
avviene esclusivamente nel caso che fra questi
e la vittima vi siano prospettive di relazioni
future che sarebbero messe a repentaglio dalla
diffidenza. Se scoperta a mentire, la cacciatrice
di teste Sara perderebbe solo la possibilità di
ottenere informazioni da quella particolare
vittima. Lo stesso Hamrak sarebbe punito per
tentato furto, non per la parte che ha recitato.
L'apprensione di Ruth dovrebbe essere
accentuata se si accorge che Jerry è
insospettito. Anche la vittima di Hamrak,
l'assessore, sospetta di chiunque cerchi di
portar via la sua preziosa pendola, ma la
bellezza del trucco dello “specchio” è che,
chiamando in causa pubblicamente un sospetto
privato, lo attenua automaticamente. Questa
logica può anche indurre a non tener conto di
indizi significativi solo perché sembra
incredibile che l'autore dell'inganno possa
commettere un simile errore. Nella loro analisi
della dissimulazione e simulazione nelle attività
militari, Donald Daniel e Katherine Herbig
notano che «quanto maggiore è la fuga di
notizie, tanto più difficilmente la controparte ci
crederà, perché sembra troppo bello per essere
vero», e che in molti casi i responsabili militari
non hanno tenuto in alcun conto certe fughe di
notizie in quanto «troppo vistose per poter
essere altro che trappole».147
Ruth, come Mary, condivide gli stessi valori
con il destinatario dell'inganno e probabilmente
si sentirà in colpa per il fatto di mentire, ma non
è così chiaro se pensa che nascondere il suo
adulterio è lecito o illecito. Anche persone che
condannano l'adulterio non necessariamente
ritengono che il coniuge infedele debba
rivelarlo. Nel caso di Hamrak la situazione è
chiara: come Sara, non prova sensi di colpa,
essendo la menzogna parte integrante del
mestiere che essi fanno per vivere.
Probabilmente Hamrak è anche un attore nato,
o magari uno psicopatico, nel qual caso sarebbe
ancora più improbabile un sentimento di colpa.
Certo è che nel mondo di Hamrak e dei suoi
simili mentire a un “pollo” è perfettamente
lecito.
I casi di Ruth e di Hamrak illustrano altri
due punti. La donna non ha previsto quando si
presenterà la necessità di mentire, sicché non
ha potuto sviluppare una linea difensiva e
impratichirsi nell'esecuzione. Ciò dovrebbe
accrescere la sua paura di essere smascherata,
una volta in ballo, perché sa di non poter
battere in ritirata con delle risposte già pronte.
Hamrak, anche se fosse colto in questa
situazione - e a un professionista non dovrebbe
capitare
spesso
ha
un
talento
d'improvvisatore che a lei manca. Ruth ha però
un vantaggio su Hamrak, quello cui ho
accennato all'inizio, precisamente una vittima
volontaria che per ragioni sue non vuole
metterla alle strette. Talvolta una vittima del
genere può non rendersi nemmeno conto di
farsi complice dell'inganno. Il romanziere lascia
il lettore nel dubbio quanto alla consapevolezza
che Jerry può avere della propria complicità e
quanto al fatto che la moglie se ne accorga o no.
Sono due i modi in cui una vittima volontaria
facilita il compito del bugiardo: questi avrà
meno paura di essere scoperto se sa che la
vittima è cieca di fronte ai suoi errori; inoltre si
sentirà meno in colpa, perché può credere di
non far altro che quello che la vittima vuole che
faccia.
Finora abbiamo analizzato tre diverse
menzogne, spiegando perché nel caso di Mary e
di Ruth debbano esserci indizi significativi,
mentre nei casi di Sara o di Hamrak questi
dovrebbero mancare. Ora vediamo un caso in
cui una persona innocente non è stata creduta
ed è stata giudicata colpevole, per vedere in che
modo un rigoroso processo di verifica e
controllo avrebbe potuto servire a impedire
l'errore.
Gerald Anderson era accusato di aver
violentato e ucciso Nancy Johnson, la moglie del
vicino di casa. Il marito di Nancy era rientrato a
casa dal lavoro nel cuore della notte, aveva
trovato il cadavere ed era corso dagli Anderson
chiedendo di chiamare la polizia.
Vari incidenti rendevano Anderson sospetto.
Il giorno dopo il delitto non era andato a
lavorare, si era ubriacato a un bar della zona,
parlando continuamente dell'omicidio e poi,
quando l'avevano portato a casa, l'avevano
sentito dire alla moglie, fra i singhiozzi: «Non lo
volevo fare, ma non ne ho potuto fare a meno».
La sua giustificazione successiva, di aver parlato
della sbornia e non del delitto, non fu creduta.
Quando la polizia lo interrogò circa una macchia
sulla tappezzeria della sua auto, Anderson disse
che c'era già quando l'aveva comprata. In
seguito, nel corso degli interrogatori, ammise di
aver mentito: si vergognava di ammettere che
aveva dato uno schiaffo a sua moglie durante
una discussione, facendole uscire il sangue dal
naso. I poliziotti che l'interrogavano gli
ripetevano continuamente che questo episodio
dimostrava che era un violento, che avrebbe
potuto anche uccidere, e un mentitore che
l'avrebbe
negato
comunque.
Durante
l'interrogatorio Anderson ammise che a dodici
anni era stato coinvolto in un piccolo reato
sessuale, senza conseguenze per la ragazza; la
cosa poi non si era più ripetuta. In seguito
risultò che all'epoca del fatto non aveva dodici
anni ma quindici. Questa, insistevano i poliziotti,
era un'altra prova che non era sincero, oltre a
indicare che aveva dei problemi sessuali e
quindi avrebbe potuto benissimo essere lui
quello che aveva violentato e ucciso la vicina di
casa.
Venne quindi introdotto Joe Townsend, uno
specialista del poligrafo, presentato all'indiziato
come uno che non si era sbagliato mai.
Townsend
inizialmente
sottopose
Anderson a due lunghe serie di prove,
ottenendo delle letture contraddittorie
e sfuggenti. Alle domande sul delitto in
sé, il tracciato di Anderson presentava
delle punte indicative di menzogna nel
dichiararsi innocente. Ma quando la
domanda riguardava l'arma del delitto,
come e dove se n'era sbarazzato, ecco
che il tracciato era “pulito”. In termini
semplicistici, si può dire che Anderson
dimostrava “colpa” per l'uccisione di
Nancy e “innocenza” circa l'arma con
cui la donna era stata massacrata.
Quando l'esaminatore gli chiedeva dove
aveva preso il coltello, che tipo di
coltello era e dove l'aveva buttato,
Anderson rispondeva «Non lo so»,
senza che il tracciato rivelasse nulla [...].
Townsend
ripete
tre
volte
l'interrogatorio sull'arma del delitto,
ottenendo sempre gli stessi risultati.
Terminata la prova, disse al sospettato
che non aveva superato la prova del
rivelatore di menzogne.148
Il giudizio del tecnico corrispondeva alla
convinzione della polizia di aver trovato il
colpevole. Anderson rimase sotto interrogatorio
per un totale di sei giorni. I nastri degli
interrogatori mostrano fino a che punto era
distrutto quando alla fine confessò un delitto
che non aveva commesso. Quasi fino alla fine
continuò a protestare la sua innocenza: non
poteva essere stato lui, perché non ricordava
affatto di aver ucciso o violentato Nancy. I
poliziotti replicarono che dopo un omicidio è
possibile un'amnesia: che non ricordasse nulla
non dimostrava che fosse innocente. Anderson
firmò una confessione quando gli dissero che la
moglie aveva dichiarato che sapeva che era
stato lui a uccidere la vicina, una dichiarazione
che la moglie in seguito ha negato di aver mai
fatto. Qualche giorno dopo Anderson ritrattò la
confessione. Sette mesi più tardi il vero
assassino, accusato di un altro caso di stupro e
omicidio, confessava di aver ucciso Nancy
Johnson.
La mia analisi fa supporre che le reazioni
emotive di Anderson alle domande sul delitto
durante l'esame col poligrafo si dovessero
attribuire ad altri fattori, del tutto diversi dal
fatto di mentire negando di averlo commesso.
Non dimentichiamo che il poligrafo non è un
rivelatore della menzogna, o addirittura una
“macchina della verità”. Tutto quello che fa è
rilevare i segni di attivazione emotiva. La
questione è se Anderson avrebbe potuto avere
risposte emotive alle domande sul delitto solo
nel caso che avesse ucciso Nancy: ci sono altre
ragioni che possono spiegare la sua emozione?
In questo caso, la prova del poligrafo darebbe
risultati sbagliati.
La posta in gioco è così alta, la punizione così
pesante, che il colpevole quasi certamente
avrebbe paura; ma avrebbe paura anche
qualche innocente. Gli esaminatori cercano di
ridurre la paura dell'innocente e di accrescere
quella del colpevole dicendo che la macchina
non sbaglia mai. Una delle ragioni per cui
Anderson poteva temere di non essere creduto
era il tipo di interrogatori che aveva preceduto
la prova del poligrafo. Gli specialisti della
polizia149 distinguono fra la deposizione di un
teste, che viene sentito in una situazione di
intervista, mirante solo a raccogliere
informazioni, e l'interrogatorio, che presume la
colpevolezza ed è condotto in maniera
accusatoria, cercando di strappare una
confessione. Spesso chi conduce l'interrogatorio,
come nel caso di Anderson, usa metodi
intimidatori. Ciò può servire a indurre il
colpevole a confessare, ma a prezzo di
spaventare l'innocente, che si rende conto che la
polizia è prevenuta contro di lui. Dopo
ventiquattro ore di interrogatori ininterrotti,
Anderson veniva sottoposto all'esame col
poligrafo.
Le sue reazioni emotive alle domande sul
delitto, registrate dal poligrafo, potevano
nascere non solo dal timore di non esser
creduto, ma anche da sentimenti di vergogna e
di colpa. Benché innocente dell'omicidio,
Anderson si vergognava di altre due colpe: chi
l'interrogava sapeva che si vergognava di aver
picchiato la moglie e di aver commesso un
piccolo reato sessuale da ragazzo. Si sentiva
anche in colpa per i suoi maldestri tentativi di
nascondere o minimizzare questi episodi. I
poliziotti facevano ripetutamente leva su quei
fatti per convincerlo che era proprio il tipo di
persona che avrebbe potuto violentare e
uccidere una donna, ma in questo modo
potevano anche aver accentuato la sua
vergogna e il suo senso di colpa, collegando fra
l'altro questi sentimenti al delitto di cui era
accusato.
Il procedimento sistematico di verifica e
controllo da me proposto spiega perché in
quella situazione qualunque segno di paura,
vergogna o senso di colpa, non importa se
ricavato dall'espressione del viso, dai gesti, dalla
voce, dalle parole di Anderson o dalle risposte
neurovegetative misurate dal poligrafo, non
poteva che essere ambiguo come indizio di
menzogna. Queste emozioni erano infatti
altrettanto probabili sia che Anderson fosse
innocente, sia che fosse colpevole. Un altro
episodio di cui i poliziotti non erano al corrente
rendeva ancor più difficile dedurre dalle
reazioni emotive di Anderson se mentiva o no.
Dopo la sua scarcerazione, James Phelan, il
giornalista che con i suoi servizi aveva
contribuito a fargli ottenere la libertà, chiese a
Anderson che cosa poteva avergli fatto fallire la
prova del poligrafo. Anderson gli svelò allora
un'altra fonte di reazioni emotive relative a un
crimine che non aveva commesso.
La notte del delitto, quando aveva
accompagnato la polizia nella casa dei vicini,
aveva per due volte sbirciato il corpo nudo della
vittima. Gli sembrava di aver fatto una cosa
orribile: ai propri occhi, era un delitto quello che
aveva commesso, un delitto d'altro genere, che
però gli causava vergogna e senso di colpa.
Mentiva tacendo questa sua colpa ai poliziotti
che l'interrogavano e al tecnico del poligrafo e
naturalmente si sentiva in colpa anche per
questa nuova bugia.
La polizia, nel caso di Anderson, incorse
nell'errore di Otello. Come Otello, chi
l'interrogava aveva ragione a giudicarlo molto
emozionato: l'errore riguardava la causa
dell'emozione, il fatto di non rendersi conto che
quelle reazioni emotive, benché autentiche,
erano altrettanto probabili sia che il sospettato
fosse o non fosse l'assassino. Come la
disperazione di Desdemona non era per la
perdita dell'amante, così la vergogna, il senso di
colpa e la paura di Anderson non erano legate al
delitto, ma ad altre colpe che pesavano sulla sua
coscienza. Come Otello, i poliziotti caddero
vittime dei loro preconcetti circa il sospettato.
Anch'essi non tolleravano l'incertezza sulla
sincerità o falsità delle dichiarazioni di
Anderson. Fra parentesi, la polizia disponeva di
informazioni dettagliate sull'arma del delitto,
che solo il colpevole avrebbe avuto e che un
innocente non poteva conoscere. Il fatto che
Anderson
non
presentasse
reazioni
compromettenti alle domande sul coltello
avrebbe dovuto suggerire all'esaminatore la
possibilità che fosse innocente: invece di
ripetere tre volte la prova, l'esaminatore
avrebbe dovuto costruire una serie di domande
col metodo della conoscenza colpevole,
servendosi di particolari del delitto di cui solo
l'autore sarebbe stato al corrente.
Hamrak, l'artista della truffa, e Anderson,
accusato a torto di omicidio, illustrano i due tipi
di errore che affliggono i tentativi di
smascherare le bugie nelle indagini penali. Nel
corso di un interrogatorio o di un esame col
poligrafo, Hamrak probabilmente non avrebbe
avuto nessuna reazione emotiva, apparendo
innocente di ogni malefatta. La mia procedura
analitica di riscontro ha chiarito perché un
professionista così esperto, attore nato o
psicopatico che sia, raramente commette degli
errori quando mente. Hamrak è l'esempio tipico
della persona le cui menzogne vengono
sistematicamente
credute.
Anderson
rappresenta il problema opposto: un innocente
giudicato colpevole, un caso esemplare di falso
positivo. Il mio scopo, esaminando questi due
casi, non è proporre la messa al bando delle
indagini di polizia con il poligrafo o dell'esame
degli indizi comportamentali di menzogna.
Anche volendo, sarebbe impossibile impedire
alle persone di interpretare gli indizi che
lasciano trapelare un inganno. L'impressione
che tutti noi abbiamo degli altri si basa in parte
sul loro comportamento espressivo. Tale
comportamento comunica impressioni su molte
altre cose, a parte la sincerità: cordialità,
apertura, dominanza, attrazione, intelligenza,
interesse per quello che stiamo dicendo, ecc. Di
solito queste impressioni si formano
inconsapevolmente, senza che ci si renda conto
di quali segni in particolare abbiamo preso in
considerazione. Ho spiegato nel Cap. VI perché
penso che gli errori siano più rari se questi
giudizi vengono elaborati in maniera più
esplicita. Rendendosi conto della fonte da cui si
traggono certe impressioni, conoscendo le
regole che si seguono nell'interpretare certi
comportamenti, le correzioni sono più facili: i
nostri giudizi risultano più aperti a
contestazioni, più disponibili a far tesoro delle
lezioni dell'esperienza. Generalmente, nella
preparazione del personale di polizia non si dà
molto peso agli indizi comportamentali di
menzogna: suppongo che un investigatore di
solito non sappia su che cosa si basano le sue
intuizioni circa la colpevolezza o l'innocenza di
un indiziato. È vero che nella preparazione di
alcuni tecnici del poligrafo si comincia a dare
importanza agli indizi comportamentali che
possono facilitare il giudizio, ma le indicazioni
circa i segni da prendere in considerazione sono
poco aggiornate o prive di riscontri empirici e
non considerano abbastanza in quali casi i segni
in questione possono essere inutili o fuorvianti.
Non è possibile abolire la ricerca di indizi
comportamentali della menzogna negli
interrogatori di polizia, né sono certo che ciò
servirebbe la causa della giustizia. Quello che
propongo, piuttosto, è rendere questo processo
d'interpretazione più esplicito, più deliberato e
più cauto. Ho sottolineato i rischi di errore e
come si possa valutare in partenza,
considerando una per una le domande del mio
prontuario di controllo (Tab. 4 dell'Appendice),
la probabilità di scoprire l'eventuale menzogna
o di riconoscere la sincerità del sospettato. Sono
convinto che una specifica preparazione sugli
indizi di menzogna, che insegni tutti i rischi e le
precauzioni del caso, e la pratica corrente della
procedura di verifica e controllo potrebbero
rendere più precisi gli investigatori nei loro
giudizi, diminuendo l'incidenza degli errori.
Quando i dirigenti di paesi in conflitto si
incontrano durante una crisi internazionale,
l'inganno può essere molto più pericoloso che
nel lavoro investigativo e scoprirlo è anche più
difficile. La posta in gioco per un giudizio
sbagliato è ancora maggiore. Pochi studiosi di
scienze
politiche
si
sono
occupati
dell'importanza della menzogna e della sua
rivelazione negli incontri personali fra capi di
stato o funzionari di alto livello. Scrive
Alexander Groth: «Il compito di indovinare
l'atteggiamento, le intenzioni e la sincerità della
controparte è decisivo ai fini di qualunque
valutazione circa la linea politica da
assumere».150 Se è vero che un uomo politico
può non desiderare la reputazione di sfacciato
mentitore, certo questo prezzo può essere
compensato, secondo Robert Jervis, «quando
un inganno riuscito può modificare i
fondamentali rapporti di forza nel sistema
internazionale. Perché se una menzogna può
servire a un paese ad ottenere una posizione
dominante nel mondo, forse non importa molto
il fatto di avere una reputazione di bugiardi».151
Henry Kissinger non sembra d'accordo,
quando afferma che trucchi e menzogne sono
pratiche poco sagge: «Solo un ingenuo può
pensare di avere la meglio, nei negoziati, con
l'inganno [...] l'inganno per un diplomatico non è
la via della saggezza, ma del disastro. Dal
momento che si dovrà trattare ripetutamente
con la stessa persona, con i trucchi si può
spuntarla una volta nel migliore dei casi e solo a
prezzo di compromettere le relazioni».152 Forse
un diplomatico può ammettere l'importanza
della menzogna solo alla fine della carriera e, in
ogni caso, il resoconto che ci dà delle sue attività
diplomatiche è infarcito di esempi di quelle che
io chiamo menzogne di dissimulazione, completa
o parziale, sia da parte sua che della
controparte.
Stalin è quello che mette la cosa nei termini
più sbrigativi: «Le parole di un diplomatico non
devono avere nessuna relazione con i suoi atti altrimenti che diplomazia è? - [...] Parole buone
nascondono azioni cattive. La diplomazia
sincera è possibile quanto l'acqua asciutta o il
legno di ferro».153 Questa ovviamente è
un'affermazione eccessiva. A volte i diplomatici
sono davvero sinceri, ma certo non sempre, e di
rado la loro sincerità è tale da danneggiare
seriamente gli interessi del paese.
Non sorprende allora che i governi cerchino
di scoprire le menzogne degli avversari.
L'inganno nelle relazioni internazionali può
intervenire nei contesti più diversi e per gli
scopi più vari. Una di queste situazioni, cui ho
già fatto cenno, è quando capi di stato o loro
rappresentanti ad alto livello si incontrano nel
tentativo di risolvere una crisi internazionale.
Ciascuna delle due parti può barare in qualche
misura, facendo credere che certe concessioni,
tutt'altro che definitive, siano l'ultima offerta,
cercando di non lasciar capire le proprie reali
intenzioni. In certi momenti, però, ognuna delle
due parti può volersi accertare che l'avversario
capisca esattamente quali minacce non sono
fittizie, quali offerte negoziali sono davvero
definitive, quali intenzioni saranno realizzate in
concreto.
La capacità di mentire o di scoprire le
menzogne è importante anche per dissimulare o
prevenire un attacco di sorpresa. Un esempio
piuttosto recente è descritto da Michael
Handel: «Verso i primi giorni di giugno [1967]
era ormai chiaro al governo israeliano che la
guerra era inevitabile. Il problema era come
lanciare con successo un attacco di sorpresa
me nt r e entrambe le parti erano in piena
mobilitazione e in stato di allarme. Nel quadro
di un piano per nascondere le intenzioni di
Israele di aprire le ostilità, Dayan [all'epoca
Ministro della Difesa] dichiarò a un giornalista
inglese, il 2 giugno, che era insieme troppo
presto e troppo tardi per fare la guerra. Ripeté
questa affermazione il giorno seguente durante
una conferenza stampa».154 Questo non fu
l'unico mezzo usato da Israele per ingannare gli
avversari, ma l'abilità di Dayan nel mentire fu
un fattore rilevante ai fini della completa
riuscita dell'attacco di sorpresa scatenato il 5
giugno.
Un altro uso della menzogna nelle relazioni
internazionali è nascondere all'avversario le
proprie reali capacità militari, traendolo in
errore sia per difetto che per eccesso. Barton
Whaley, nella sua analisi del riarmo occulto
della Germania fra il 1919 e il 1939, cita
numerosi esempi dell'abilità dei tedeschi in
questo senso.
Nell'agosto 1938, mentre la crisi
cecoslovacca si aggravava sotto le
pressioni di Hitler, Göring invitò i capi
dell'aeronautica francese a un giro
d'ispezione della Luftwaffe. Il Generale
Vuillemin, Capo di Stato Maggiore
dell'Armée
de
l'Air,
accettò
prontamente [... il generale tedesco
Ernst Udet] prese con sé Vuillemin nel
suo aereo personale [...]. Mentre Udet
faceva procedere il lento velivolo quasi
a velocità di stallo, il momento
accuratamente preparato [...] a
beneficio
dell'ospite
arrivò.
Improvvisamente uno Heinkel He-100
sfrecciò a tutto gas, appena il tempo di
intravedere la sagoma e udire il sibilo.
Entrambi gli aerei atterrarono e i
tedeschi condussero gli stupefatti
visitatori francesi nel giro d'ispezione
[...]. «Dimmi un po' Udet», chiese con
finta noncuranza Milch [un altro
generale della Luftwaffe], «a che punto
siamo con la produzione di serie?».
Udet, imbeccato, rispose: «Oh, la
seconda linea di montaggio è pronta e la
terza sarà pronta in una quindicina di
giorni». Vuillemin prese un'aria
abbattuta e sbottò dicendo a Milch che
era «sconvolto» [...]. La delegazione
francese ritornò a Parigi con la
rivelazione disfattista che la Luftwaffe
era imbattibile.155
L'aereo He-100, la cui velocità era stata
moltiplicata da quel semplice trucco, era uno dei
tre soli esemplari che siano mai stati costruiti.
Questo tipo di bluff, fingere una potenza aerea
imbattibile «divenne un ingrediente importante
nella diplomazia di Hitler che gli procurò una
brillante serie di trionfi; la politica di
appeasement era fondata in parte sulla paura
della Luftwaffe» .156
Se è vero che non sempre l'inganno nelle
relazioni internazionali richiede un contatto
personale diretto (gli stessi risultati si possono
ottenere con falsi comunicati, ecc.), questi
esempi illustrano come in certi casi il mentitore
e la sua vittima si trovino faccia a faccia. Negli
ultimi anni è cresciuto l'interesse per la
possibilità di utilizzare in questo ambito la
ricerca scientifica sugli indizi comportamentali
di menzogna. Ho spiegato nell'Introduzione che
quando ho parlato con funzionari del governo
americano e di altri paesi i miei inviti alla
cautela non sembrano aver fatto molto effetto
sui miei interlocutori. Uno dei motivi che mi
hanno spinto a scrivere questo libro è ribadire
le mie argomentazioni sui pericoli cui si può
andare incontro, in maniera più completa e
accurata e rivolgendomi a un pubblico più vasto
di quei pochi funzionari che hanno richiesto il
mio parere. Ancor più che nelle investigazioni
criminali, il problema è complesso e gli indizi
sfuggenti.
Ritorniamo all'esempio che ho citato in
apertura di libro, il primo incontro fra
Chamberlain e Hitler a Berchtesgaden il 15
settembre 1938, quindici giorni prima della
Conferenza di Monaco.157 Hitler cercò di
persuadere Chamberlain che non aveva
intenzione di far guerra all'Europa, ma
desiderava soltanto risolvere il problema dei
Sudeti in Cecoslovacchia. Se la Gran Bretagna
avesse accettato il suo piano - un plebiscito in
quelle regioni della Cecoslovacchia dove la
popolazione era costituita in maggioranza da
Sudeti di lingua tedesca, con successiva
annessione al Reich nel caso, scontato, di
vittoria dei «Sì» - Hitler avrebbe rinunciato ad
aprire le ostilità. Segretamente Hitler aveva già
deciso la guerra: aveva già mobilitato l'esercito
per attaccare la Cecoslovacchia il 1° ottobre, né
i suoi piani di conquista si fermavano lì. Si
ricordi il brano che ho citato da una lettera di
Chamberlain alla sorella dopo il primo colloquio
con Hitler: «un uomo di cui ci si può fidare una
volta che ha dato la sua parola».158 In risposta
alle
critiche
dell'opposizione
laburista,
Chamberlain descrisse Hitler come una
«creatura assolutamente straordinaria», un
«uomo che farebbe di tutto pur di rispettare la
parola data».159
Una settimana dopo, Hitler e Chamberlain si
incontravano una seconda volta a Godesberg.
Hitler questa volta avanzò nuove pretese: le
truppe
tedesche
dovevano
occupare
immediatamente la regione dei Sudeti, il
plebiscito sarebbe venuto solo dopo
l'occupazione e la zona rivendicata ora era più
ampia di prima. In seguito, nello sforzo di
persuadere il suo governo ad accettare queste
richieste, Chamberlain ebbe a dire: «Per
comprendere le azioni delle persone è
necessario valutare le loro motivazioni e capire
come funziona la loro mente [...]. Herr Hitler ha
una mentalità ristretta e nutre violenti
pregiudizi su certi temi, ma non ingannerebbe
deliberatamente un uomo che rispetta e con cui
ha trattato, e sono sicuro che Herr Hitler nutre
un certo rispetto per me. Quando Herr Hitler
annuncia che intende fare una cosa, è certo che
la farà».160 Dopo questa citazione di
Chamberlain, lo storico Telford Taylor si
chiede: «Hitler aveva ingannato fino a questo
punto Chamberlain, oppure era Chamberlain
che ingannava i suoi colleghi per ottenere
l'accettazione delle richieste di Hitler?».161
Supponiamo per un momento, come Taylor, che
Chamberlain credesse davvero a Hitler, almeno
nel primo incontro di Berchtesgaden.162
L'altissima posta in gioco avrebbe potuto
causare apprensione all'idea di essere
smascherato, ma Hitler aveva una vittima
consenziente. Sapeva che se Chamberlain
avesse scoperto che mentiva, tutta quanta la
sua politica di concessioni sarebbe entrata in
crisi. A quel tempo appeasement indicava
ancora una linea di prudenza, non una resa
vergognosa; il significato del termine doveva
cambiare qualche settimana dopo, quando
l'attacco a sorpresa di Hitler avrebbe
dimostrato che Chamberlain si era lasciato
ingannare. Hitler era deciso a prendere l'Europa
con la forza. Se Hitler avesse davvero meritato
fiducia, se avesse rispettato gli accordi,
Chamberlain avrebbe goduto il plauso del
mondo intero per aver salvato l'Europa dalla
guerra. Chamberlain voleva credere a Hitler e
Hitler lo sapeva. Un altro fattore che
contribuiva a ridurre il timore di essere
smascherato era che Hitler sapeva esattamente
quando avrebbe dovuto mentire e che cosa
avrebbe dovuto dire, cosicché poteva
prepararsi a dovere. Infine, non c'era nessuna
ragione perché si sentisse in colpa o provasse
vergogna per il suo inganno: ai suoi occhi,
ingannare gli inglesi era un atto onorevole e
doveroso, in considerazione del suo ruolo e
dell'interpretazione che dava della storia.
L'unica emozione che Hitler potrebbe aver
provato è il piacere della beffa. Secondo certi
resoconti, sembra che godesse della sua abilità
nell'ingannare gli inglesi e certo la presenza di
altri tedeschi che assistevano a questo inganno
riuscito poteva amplificare il suo divertimento
nel beffare Chamberlain. Ma Hitler era molto
abile nel mentire e a quanto sembra riuscì a non
far trapelare nulla di questi sentimenti.
Quando l'autore e il destinatario dell'inganno
provengono da culture diverse e non parlano la
stessa lingua, scoprire gli inganni è molto più
difficile, per varie ragioni.163 Anche se Hitler
avesse commesso degli errori e Chamberlain
non fosse stato una vittima così collaborativa,
non sarebbe stato facile cogliere quegli errori.
Una ragione è che la conversazione avveniva
attraverso gli interpreti. Ciò offre al bugiardo
due vantaggi rispetto alla conversazione
diretta: se commette degli errori nel parlare lapsus, pause troppo lunghe, ecc. - l'interprete
può coprirli; inoltre, il processo della traduzione
dà tempo di riflettere sul modo migliore di
formulare la frase successiva. Anche se
l'interlocutore capisce la lingua, non essendo la
sua lingua materna perderà certe sottigliezze
nel modo di porgere o di formulare il discorso,
che potrebbero essere indizi significativi.
Differenze di cultura e nazionalità possono
rendere più difficile anche l'interpretazione di
indizi attinenti alla voce, alla mimica, ai gesti,
pur se in maniera più intricata e complessa.
Ogni cultura ha certe prescrizioni che
governano in qualche misura il modo di parlare
(altezza e volume della voce, rapidità di parola)
e di accompagnare il discorso con la mimica e
con i gesti. I segni mimici e vocali delle emozioni
sono anche governati da quelle che nel Cap. V
ho chiamato regole di presentazione, che
dettano il modo di controllare e manifestare le
espressioni emotive: anche queste regole
variano da una cultura all'altra. Non conoscendo
queste differenze e non tenendone conto
esplicitamente, si è più esposti al rischio di
interpretazioni sbagliate che possono condurre
a errori nel giudizio sulla sincerità
dell'interlocutore.
Qualcuno potrebbe chiedere, a questo
punto, quanto della mia analisi degli incontri
Hitler-Chamberlain sarebbe stato possibile
all'epoca. Se un'analisi del genere fosse
praticabile solo a distanza di anni, non avrebbe
nessuna utilità pratica per i protagonisti o i loro
consiglieri. La lettura di resoconti dell'epoca fa
pensare che molti dei miei giudizi erano ovvi,
almeno per alcuni, già nel 1938. Per
Chamberlain la posta in gioco nel voler credere
alle parole di Hitler era così alta che gli altri, se
non egli stesso, avrebbero dovuto rendersi
conto della necessità di una grande cautela nel
valutare i suoi giudizi sulla sincerità di Hitler.
La disponibilità di Hitler a ingannare
l'Inghilterra era anch'essa accertata al tempo
dell'incontro di Berchtesgaden. Non c'era
nemmeno bisogno che Chamberlain avesse letto
Mein Kampf o credesse a quello che Hitler
aveva scritto. Gli esempi erano tanti, dalle
violazioni del patto navale anglo-tedesco alle
menzogne sull'intenzione di invadere l'Austria.
Prima di incontrarsi con lui, Chamberlain aveva
manifestato i suoi sospetti che Hitler mentisse a
proposito della Cecoslovacchia, dissimulando il
suo piano di conquistare l'Europa.164 Era anche
noto che Hitler sapeva mentire con grande
abilità, non solo nelle manovre diplomatiche e
militari, ma anche negli incontri faccia a faccia,
capace com'era di passare dalla seduzione alla
furia e maestro nell'impressionare o intimidire
gli altri, nell'occultare o fingere sentimenti e
pensieri. Vediamo ora un altro esempio più
recente.
Durante la crisi dei missili a Cuba, il 14
ottobre 1962, due giorni prima di incontrare il
Ministro degli Esteri sovietico Andrei
Gromyko,165 il Presidente Kennedy fu
informato da McGeorge Bundy che un volo del
ricognitore U-2 su Cuba aveva dato la prova
inconfutabile che l'Unione Sovietica stava
installando missili sull'isola. C'erano già state
ripetutamente delle voci in questo senso e,
nell'imminenza delle elezioni a novembre,
Khrusciov «aveva assicurato il Presidente,
attraverso i canali più diretti e personali, che
comprendeva i suoi problemi di politica interna
e che non avrebbe fatto nulla che potesse
complicarli. Specificamente, aveva dato a
Kennedy solenni assicurazioni che l'Unione
Sovietica non avrebbe installato missili offensivi
a Cuba».166 Secondo Schlesinger,167 Kennedy
era “furioso”, tuttavia secondo quanto riferisce
un altro consigliere del tempo, Theodore
Sorensen, «benché arrabbiato per il tentativo di
Khrusciov di ingannarlo, prese la notizia con
calma, solo con un'espressione di sorpresa».168
Riferì in seguito Robert Kennedy: «Quella
mattina, mentre i rappresentanti della CIA ci
spiegavano le fotografie prese dall'U-2, ci
rendemmo conto che erano state tutte bugie,
un'enorme trama di bugie».169
I principali consiglieri del Presidente
cominciarono quel giorno stesso le riunioni per
esaminare le iniziative più opportune da
prendere. Il Presidente decise che «non doveva
esserci nessuna rivelazione pubblica del fatto
che eravamo al corrente dei missili sovietici a
Cuba, finché non si fosse decisa e approntata la
linea d'azione [...]. La sicurezza era essenziale e
il Presidente chiarì che era determinato a
ottenere che per una volta nella storia della
Casa Bianca non ci fossero assolutamente fughe
di notizie».170
Due giorni dopo, il 16 ottobre, mentre i
consiglieri discutevano ancora sulle iniziative da
prendere, Kennedy ricevette Gromyko.
«Gromyko era negli Stati Uniti da oltre una
settimana, ma nessuno nell'amministrazione
sapeva esattamente perché [...] aveva chiesto
un'udienza alla Casa Bianca. La sua richiesta era
arrivata quasi contemporaneamente alle [...]
prove fotografiche. Forse i russi avevano
avvistato l'U-2? Volevano parlare con Kennedy
per sondare le sue reazioni? Avrebbero colto
questa occasione per informare Washington che
Khrusciov stava per rendere pubblica la notizia
dei missili, rivelando il suo colpo prima che gli
Stati Uniti potessero reagire?».171 Secondo
Sorensen, Kennedy «era ansioso mentre si
avvicinava l'ora dell'incontro, ma riuscì a
sorridere mentre riceveva Gromyko e
Dobrynin [l'ambasciatore sovietico] nel suo
ufficio».172 Non ancora pronto ad agire,
Kennedy considerava importante celare a
Gromyko la scoperta dei missili, per non
concedere ai russi un altro vantaggio.173
L'incontro cominciò alle 17 e durò fino alle 19
e un quarto. Da parte americana erano presenti
il Segretario di Stato Dean Rusk, Llewellyn
Thompson (ex ambasciatore a Mosca) e Martin
Hildebrand (direttore dell'Ufficio per gli affari
tedeschi), mentre Gromyko era accompagnato
da Dobrynin, dal sottosegretario agli Esteri
Vladimir Semenov e da un terzo funzionario.
Erano inoltre presenti interpreti delle due parti.
«Kennedy sedette sulla sua poltrona a dondolo
di fronte al caminetto, Gromyko alla sua destra
su uno dei divani beige. Entrarono i fotografi,
scattarono foto per la posterità, poi uscirono. Il
russo si accomodò meglio a sedere,
appoggiandosi su un cuscino a righe, e cominciò
a parlare».174
Dopo essersi dilungato un po' su Berlino,
Gromyko finalmente parlò di Cuba. Secondo
quanto riferito da Robert Kennedy, «Gromyko
disse che voleva fare appello agli Stati Uniti e al
Presidente Kennedy da parte di Khrusciov e
dell'Unione Sovietica per ridurre le tensioni
esistenti a proposito di Cuba. Il Presidente
Kennedy ascoltava, stupefatto, ma anche un po'
ammirato della sua sfrontatezza [...]. [Rispose]
con fermezza ma anche con grande
moderazione,
considerando
la
175
provocazione».
E il giornalista Elie Abel
racconta: «Il Presidente dette a Gromyko una
chiara opportunità di rettificare, richiamandosi
alle ripetute assicurazioni di Khrusciov e
Dobrynin che i missili a Cuba non erano altro
che armi antiaeree [...]. Gromyko ripeté
ostinatamente le vecchie assicurazioni, che ora
il Presidente sapeva essere false. Kennedy non
gli contestò i fatti accertati».176 «Rimase
impassibile senza dare segni di collera o di
tensione».177 Gromyko era di «un'insolita
giovialità»178 quando lasciò la Casa Bianca. I
giornalisti gli chiesero di che cosa si fosse
parlato nell'incontro: «Gromyko sorrise,
evidentemente di buon umore, e disse che i
colloqui erano stati “utili, molto utili”».179
Figura 8-1. L'incontro del 16
ottobre 1962. Seduti da
sinistra: Anatoly Dobrynin,
Andrei Gromyko, John F.
Kennedy.
Scrive Robert Kennedy: «Arrivai poco dopo
che Gromyko se n'era andato. Il Presidente
degli Stati Uniti, si può ben dire, era molto
seccato col portavoce dell'Unione Sovietica».180
Secondo David Detzer, Kennedy ebbe a dire
dopo l'incontro: «Morivo dalla voglia di
mettergli davanti le nostre prove».181 Nel suo
studio, parlando con Robert Lovett e McBundy
che erano sopraggiunti, fece questo commento:
«Gromyko [...] proprio in questa stanza non più
di dieci minuti fa mi ha detto più bugie di
quante io ne abbia mai sentite prima in così
poco tempo. Durante tutto il tempo che ha
continuato a negare [...] avevo le fotografie a
bassa quota nel cassetto centrale della scrivania
ed
era
una
tentazione
enorme
mostrargliele».182
Consideriamo per primo l'ambasciatore
Dobrynin. Probabilmente era l'unico che non
fingesse. Robert Kennedy era convinto che i
sovietici avessero mentito a Dobrynin,
diffidando delle sue capacità di finzione, e che
Dobrynin in occasione di precedenti incontri con
lui fosse sincero, per quanto ne sapeva, nel
negare l'esistenza di missili a Cuba. Non
sarebbe la prima volta che un ambasciatore
viene ingannato così dal suo governo per scopi
analoghi. Kennedy aveva da poco fatto lo stesso
con Adlai Stevenson, non informandolo della
spedizione alla Baia dei Porci e, come rileva
Allison,
«analogamente
l'ambasciatore
giapponese non era stato informato di Pearl
Harbor e l'ambasciatore tedesco a Mosca non
era al corrente dell'operazione Barbarossa [il
piano d'invasione dell'Unione Sovietica]».183
Nel periodo fra il giugno 1962, quando si
presume che i sovietici decisero di installare
missili a Cuba, e questo incontro della metà di
ottobre, il governo di Mosca si servì di Dobrynin
e di Georgi Bolshakov, un portavoce
dell'ambasciata a Washington, per assicurare
ripetutamente
a
personalità
dell'amministrazione
Kennedy
(Robert
Kennedy, Chester Bowles e Sorensen) che
sull'isola non venivano installate armi offensive.
Non necessariamente Bolshakov e Dobrynin
erano al corrente della verità [...].
Probabilmente non lo erano. Né Khrusciov né
Gromyko né altri che fossero sicuramente
informati incontrarono rappresentanti della
controparte fino al 14 ottobre, due giorni prima
del colloquio fra Kennedy e Gromyko. In quella
data,
Khrusciov
incontrò
a
Mosca
l'ambasciatore americano, Foy Kohler, e negò la
presenza di missili a Cuba. Solo allora per la
prima volta i sovietici corsero il rischio di
vedere scoperto l'inganno nel caso che
Khrusciov o, due giorni dopo, Gromyko
commettessero un qualche errore.
Nell'incontro alla Casa Bianca le menzogne
erano due, una da parte di Kennedy, l'altra di
Gromyko. Il comportamento di Kennedy
durante il colloquio, infatti, corrisponde
esattamente alla mia definizione di menzogna
mediante
dissimulazione. Entrambi gli
interlocutori tacevano quella che sapevano bene
essere la verità, che i missili a Cuba c'erano. In
base alla mia analisi, si può supporre che le
probabilità di lasciarsi sfuggire qualche indizio
rivelatore fossero maggiori da parte di
Kennedy.
Nella misura in cui ciascuno degli
interlocutori si era preparato in anticipo - ed
entrambi ne avevano avuto la possibilità - non
avrebbe dovuto esserci nessun problema a
nascondersi reciprocamente quella verità di cui
entrambi erano al corrente. Tutti e due
potevano provare una certa apprensione
all'idea di essere scoperti, data l'importanza
della posta in gioco. La posta in gioco era forse
più alta per Kennedy, dato che gli Stati Uniti
non avevano ancora deciso che cosa fare e
ancora non era completa nemmeno la
documentazione sul numero di missili o sullo
stato dei lavori di installazione; inoltre, i
consiglieri di Kennedy pensavano che la
scoperta doveva restare segreta, nel timore che
Khrusciov potesse in qualche modo giocare
d'anticipo, sapendosi scoperto prima che gli
americani passassero all'azione. Anche i
sovietici avevano bisogno di tempo, per
completare la costruzione delle rampe, ma non
importava molto se gli americani l'avessero
scoperto a quel punto; fra l'altro, sapevano bene
che gli U-2 prima o poi avrebbero avvistato i
missili, se non l'avevano già fatto.
A prescindere dalla possibilità che Kennedy
fosse più in apprensione di Gromyko per il
rischio di essere scoperto, secondo le cronache
dell'epoca egli aveva in più il compito non facile
di nascondere altre emozioni. I resoconti che ho
citato ci dicono che durante il colloquio Kennedy
provò sorpresa, ammirazione e scontentezza,
tutte emozioni che, se fossero trapelate,
avrebbero potuto tradirlo: in quel contesto,
infatti, sentimenti del genere avrebbero fatto
capire che era già al corrente della verità.
Dall'altra parte, Gromyko può aver assaporato
il piacere della beffa (ciò corrisponderebbe bene
alle cronache che lo descrivono così di buon
umore all'uscita dal colloquio).
Comunque, le probabilità che qualcosa
trapelasse non erano molte, dato che entrambi
gli interlocutori erano abili e capaci di
nascondere qualunque emozione. Inoltre, le
differenze di cultura e di lingua possono aver
coperto ogni eventuale indizio. Semmai avrebbe
dovuto essere in grado di scorgerli
l'ambasciatore
Dobrynin:
conoscendo
benissimo, dopo tanti anni, il comportamento
degli americani, perfettamente padrone della
lingua, aveva anche il vantaggio di essere lì
come osservatore piuttosto che come
partecipante diretto, potendosi così dedicare
tutto a scrutinare le mosse dell'avversario.
L'ambasciatore Thompson era in una posizione
analoga, quello fra gli americani più in grado di
scorgere eventuali indizi significativi nel
comportamento di Gromyko.
Ho potuto attingere a molte relazioni di
parte americana su questo colloquio, mentre
non esistono informazioni di parte sovietica e
quindi non c'è modo di sapere se Dobrynin
abbia subodorato qualcosa. Il fatto che
Dobrynin, a quanto risulta dalle cronache,
apparisse stupefatto e visibilmente scosso
quando, quattro giorni dopo, il Segretario di
Stato Dean Rusk lo informò della scoperta dei
missili, comunicandogli l'inizio del blocco navale
americano, è stato interpretato come prova che
i sovietici fino ad allora non sapevano
dell'avvenuta scoperta.184 Se il suo governo
l'aveva tenuto all'oscuro circa l'installazione dei
missili, questa sarebbe stata la prima volta che
lo veniva a sapere. D'altra parte, se anche
Dobrynin avesse saputo dei missili e anche che
gli Stati Uniti li avevano scoperti, poteva
benissimo essere stupito e turbato dalla
decisione
americana
di
rispondere
militarmente. La maggior parte delle analisi su
quell'episodio concorda nel ritenere che i
sovietici non si aspettassero da Kennedy una
risposta militare.
Il punto non è determinare se la
dissimulazione di Kennedy sia stata o no
scoperta, ma spiegare perché avrebbe potuto
esserlo e mostrare come riconoscere gli indizi di
menzogna non sarebbe stato affatto semplice.
Analizzando questi due esempi di menzogna
nei rapporti internazionali, ho detto che Hitler,
Kennedy e Gromyko erano tutti degli attori
nati, abili e creativi nell'inventare, ottimi
parlatori, loquaci e convincenti. Sono convinto
che qualunque uomo politico che raggiunge il
potere, in parte, grazie alla sua abilità nei
dibattiti e nei discorsi pubblici, con un'immagine
televisiva (o radiofonica) abbagliante, abbia
tutto il talento per poter mentire come un
attore nato. Quanto a Gromyko, è vero che non
ha ottenuto il potere con questi mezzi, ma è non
meno vero che è riuscito a mantenersi a galla
per un periodo lunghissimo, cosa che pochissimi
hanno saputo fare, e nel 1963 aveva ormai
un'esperienza eccezionale sia in diplomazia che
nella lotta politica interna al gruppo dirigente
sovietico. Persone come queste sanno essere
convincenti: è parte dei ferri del mestiere.
Decidano o no di mentire, hanno tutti i requisiti
per farlo bene.
La particolare attitudine a dissimulare e
fingere
durante
la
conversazione,
accompagnando le parole con le espressioni ed i
gesti opportuni, non è necessaria finché l'autore
dell'inganno non deve affrontare la sua vittima
faccia a faccia. L'inganno può avvenire
attraverso scritti, intermediari, comunicati
stampa, azioni militari, ecc. Qualunque forma di
inganno, tuttavia, fallisce se l'autore non ha
capacità strategiche, non sa progettare le sue
mosse e prevedere quelle dell'avversario. Penso
che tutti i capi politici debbano essere acuti
strateghi, ma che solo alcuni abbiano quel
talento di conversatore che permette di
mentire faccia a faccia con la vittima, in quel
tipo di inganni che abbiamo considerato in
questo libro.
Non tutti sono capaci di mentire o,
comunque, disposti a farlo. Presumo che la
maggior parte dei politici accetti di mentire,
almeno verso certi destinatari e in particolari
circostanze. Perfino Jimmy Carter, che aveva
condotto la sua campagna presidenziale
affermando che non avrebbe mai mentito al
popolo americano (e l'aveva dimostrato,
ammettendo le sue fantasie licenziose in
un'intervista a Playboy), in seguito si è trovato
a mentire, dissimulando i piani per liberare con
la forza gli ostaggi in Iran. Gli specialisti di studi
strategici hanno cercato di individuare i capi
politici più inclini a mentire. Una possibilità è
che appartengano a culture che ammettono
l'inganno,185 ma le indicazioni sull'esistenza
stessa di culture del genere sono molto labili.
Un'altra idea non verificata è che si incontrino
soprattutto in quei paesi (specialmente a
regime dittatoriale) dove i dirigenti politici
hanno un ruolo di primo piano nelle decisioni
militari.186 Un tentativo di scoprire sulla base
del materiale storico un tipo di personalità
ingannatrice propria di quegli uomini politici che
sappiamo con certezza aver mentito non ha
dato nessun esito, anche se di questo lavoro non
si sa abbastanza per poter valutare le ragioni
del fallimento.187
Tuttavia, non esistono dati solidi, né in un
senso né nell'altro, quanto all'ipotesi che i
dirigenti politici abbiano davvero particolari
attitudini e disponibilità alla menzogna,
maggiori, poniamo, di quelle dei dirigenti
industriali. Se così fosse, l'inganno nelle relazioni
internazionali sarebbe tanto più difficile; inoltre,
diventerebbe importante, per chi voglia evitare
di lasciarsi ingannare, riconoscere le eccezioni,
cioè quei capi di stato o di governo che si
distinguono per la mancanza di queste capacità.
Consideriamo ora l'altra faccia della
medaglia, se cioè i politici ai massimi livelli siano
più abili della media nell'operazione inversa,
cioè nell'individuazione delle menzogne. La
ricerca ha dimostrato che alcune persone hanno
in questo senso un'abilità del tutto particolare,
abilità che non correla con l'abilità nel dire
bugie.188 Purtroppo i soggetti di questi
esperimenti sono per lo più studenti
universitari: nessuno ha esaminato persone che
occupino posizioni di rilievo in organizzazioni di
alcun tipo. Se l'esame di soggetti del genere
potesse indicare che alcuni di loro sono
particolarmente dotati come cacciatori di
menzogne, allora si porrebbe la domanda se sia
possibile individuarli a distanza, senza doverli
sottoporre a test e prove di laboratorio. Se
spiccate capacità di riconoscere l'inganno
potessero emergere da quel tipo di informazioni
che sono generalmente accessibili circa i
personaggi pubblici, allora un politico che
progettasse un inganno avrebbe migliori
probabilità di valutare in anticipo il rischio che
l'avversario riesca a individuare un qualche
indizio significativo nel suo comportamento.
Secondo Groth (e le sue argomentazioni mi
sembrano convincenti), i capi di stato o di
governo sono meno prudenti dei diplomatici di
carriera, troppo convinti della propria capacità
di valutare il carattere e l'affidabilità degli
avversari: «Ai capi di stato e ai ministri degli
esteri mancano spesso le attitudini elementari
al negoziato e alla comunicazione, o quelle
informazioni di base, ad esempio, che
permetterebbero loro di formulare giudizi
competenti circa gli avversari».189 Jervis
concorda con queste affermazioni, notando che
questi personaggi possono sopravvalutare la
propria capacità di smascherare gli inganni se
«la loro ascesa al potere è dipesa in parte
dall'acume nel giudicare il prossimo».190 Anche
se ha ragione di ritenersi assai abile nel
giudicare gli altri, negli affari internazionali
l'uomo politico deve tener conto di quanto sia
più difficile riconoscere la menzogna quando il
sospettato appartiene a una cultura diversa e
parla un'altra lingua.
Ho giudicato Chamberlain una vittima
volontaria dell'inganno, così impegnato ad
evitare la guerra, purché ce ne fosse una
minima possibilità, da voler disperatamente
credere alle parole di Hitler e da sopravvalutare
la propria capacità di leggere il suo carattere.
Eppure Chamberlain non era uno sciocco, né
era inconsapevole della possibilità che Hitler
mentisse. Ma aveva una motivazione fortissima
a credergli, perché se non avesse potuto
credere alle assicurazioni di Hitler la guerra era
alle porte. Simili errori di giudizio da parte di
capi di stato o di governo e analoghe convinzioni
sbagliate sul proprio acume, secondo Groth, non
sono poi così rari. Nei termini della mia analisi,
la cosa è
particolarmente
probabile
ogniqualvolta la posta in gioco è molto alta: è
allora, proprio quando il rischio è più grosso, che
i responsabili sono più esposti a diventare
vittime collaboranti dell'inganno ordito
dall'avversario.
Consideriamo un altro esempio di vittima
volontaria. Stavolta, per pareggiare i conti, ho
scelto il grande rivale di Chamberlain, Winston
Churchill. Racconta Churchill che il fatto che
Stalin «dicesse indifferentemente “Russia” e
“Unione Sovietica” e nominasse spesso la
divinità»191 lo indusse a chiedersi se non
nutrisse ancora qualche residuo di convinzioni
religiose. In un altro caso, di ritorno da Yalta nel
1945, Churchill difendeva la sua fiducia negli
impegni presi da Stalin in questi termini:
«Sento che per loro la parola data è sacra. Non
conosco nessun governo che stia ai suoi
impegni, anche a proprio danno, più saldamente
del governo russo».192 Uno dei suoi biografi
scrive di Churchill: «Per tutta la conoscenza che
aveva del passato sovietico, Winston era
preparato a concedere a Stalin il beneficio del
dubbio e a fidarsi delle sue intenzioni. Era
difficile per lui far altro che credere nella
sostanziale onestà dei personaggi di alto rango
con
cui
trattava».193
Stalin
non
contraccambiava quel rispetto. Milovan Gilas
cita queste sue parole, pronunciate nel 1944:
«Forse voi credete che perché siamo alleati
degli inglesi [...] abbiamo dimenticato chi sono e
chi è Churchill. Per loro non c'è niente di più
bello che truffare gli alleati. Churchill è quel tipo
di persona che, se non stai in guardia, ti ruba di
tasca un copeco».194 L'interesse di Churchill,
tutto concentrato sulla necessità di distruggere
Hitler, e il bisogno che aveva dell'aiuto di Stalin
possono aver fatto di lui una vittima
consenziente degli inganni di Stalin.
In questo capitolo ho dato molto spazio agli
esempi di inganni nelle relazioni internazionali,
non perché questo sia un campo
particolarmente promettente, ma perché è il
più pericoloso, quello in cui errori di giudizio
possono costare più cari. Tuttavia, come nel
caso delle indagini criminali, non ha senso dire
che l'uso di indizi comportamentali per scoprire
le menzogne dovrebbe essere abolito. Non si
può impedire, in nessuna parte del mondo: è
proprio della natura umana cercare di
raccogliere questo tipo d'informazioni, almeno
in maniera
informale,
partendo dal
comportamento degli altri. E come ho già detto
parlando dei rischi che si corrono negli
interrogatori, probabilmente se i capi di stato e i
loro consiglieri fossero consapevoli dei propri
giudizi i pericoli di errore sarebbero più
contenuti.
L'ho già detto a proposito delle indagini di
polizia: quand'anche fosse possibile abolire
l'interpretazione del comportamento come
possibile indizio di falsità negli incontri
internazionali, non credo che sarebbe
opportuno. Chiaramente la storia registra
esempi infami di inganni in tempi recentissimi:
chi non vorrebbe che il proprio paese fosse in
grado di riconoscere meglio queste menzogne?
Il problema è come farlo senza accrescere il
rischio di giudizi sbagliati. In ogni caso,
qualunque cosa si possa pensare della fiducia
eccessiva di un Chamberlain nella propria
capacità di leggere la menzogna e di valutare il
carattere della controparte, temo che una tale
sconsideratezza
impallidisca
a
fronte
dell'arroganza di uno specialista di scienze
comportamentali che si guadagna da vivere
affermando di essere capace di riconoscere gli
indizi di menzogna nel comportamento dei
partecipanti a negoziati internazionali.
Ho cercato di lanciare una sfida, sia pure
indirettamente, a qualunque specialista del
ramo che lavori per un qualunque governo
come esperto nella rivelazione scientifica della
menzogna, rendendolo più avvertito della
complessità dell'impresa e, nel contempo,
cercando di rendere più scettici i clienti, quei
governi che si valgono di queste consulenze. La
mia contestazione non può essere che indiretta,
perché questi tecnici, se esistono, lavorano in
segreto,195 come anche i ricercatori che
conducono studi coperti dal segreto militare
sulla possibilità di riconoscere la menzogna in
sede di negoziati internazionali. Spero di
indurre in questi ricercatori anonimi una
maggiore prudenza e in chi paga per i loro
servizi un atteggiamento più critico ed esigente
circa qualunque affermazione dell'utilità del loro
lavoro.
Non vorrei essere frainteso. Mi piacerebbe
vedere ricerche del genere, penso che siano
urgenti e capisco perché i governi vogliano
mantenere il segreto almeno su parte di questo
lavoro. Mi aspetto che ricerche miranti a
individuare i soggetti più e meno dotati come
autori e rivelatori di inganni, fra quel tipo di
persone che detiene responsabilità decisionali a
livello internazionale, dimostreranno che
l'impresa è quasi impossibile. Tuttavia, la cosa
andrebbe accettata. Analogamente, penso che
ricerche su situazioni che somiglino da vicino a
negoziati di alto livello durante le crisi
internazionali - con partecipanti ben attrezzati e
provenienti da nazioni diverse, con una
situazione costruita in modo che la posta in
gioco sia molto alta (non la solita
sperimentazione con studenti universitari) dimostreranno che i risultati sono scarsissimi.
Ma anche questo andrebbe accertato e se è così
i risultati dovrebbero essere liberati dal vincolo
del segreto militare e pubblicati.
Questo capitolo ha mostrato come la riuscita
o il fallimento di un inganno non dipendano dal
terreno specifico: non è che tutti gli inganni
coniugali falliscano, oppure che riescano tutti
negli affari, nella criminalità o nelle relazioni
internazionali. Il successo o l'insuccesso
dipendono dai caratteri particolari della
menzogna in questione e delle due parti
interessate. Le cose diventano anche più
complicate a livello internazionale che fra
genitori e figli, ma qualunque genitore sa che
non è sempre facile evitare l'errore, neppure
con i bambini.
La Tab, 4 dell'Appendice elenca tutte le 38
voci del mio prontuario. Quasi metà delle
domande, 18 per l'esattezza, serve a
determinare se chi mente dovrà o meno
dissimulare o simulare delle emozioni, mentire
sui propri sentimenti o nascondere i sentimenti
suscitati dalla menzogna stessa.
Non sempre l'uso del prontuario permetterà
una valutazione. Può darsi che per molte
domande non si sappia abbastanza da dare una
risposta, oppure che le risposte siano
contraddittorie, indicando alcune che la bugia
sarebbe facile da riconoscere, altre difficile. Ma
è lo stesso utile saperlo. Anche quando una
valutazione è possibile, può darsi che non dia
una predizione esatta, perché il mentitore può
essere tradito non dal suo comportamento ma
da terzi, ovvero gli indizi più vistosi possono,
per un qualche accidente, passare inosservati.
Tuttavia, sia l'autore sia la vittima potenziale
dell'inganno vorrebbero conoscere questa stima
di probabilità. A chi dei due servirebbe di più? È
questo il primo punto che affronterò nella parte
conclusiva.
Epilogo
Quello che ho scritto dovrebbe essere utile a
chi cerca di svelare un inganno più che a chi
spera di mandarlo a buon fine. Penso che sia più
facile migliorare le proprie capacità di
individuare le menzogne che non di perpetrarle.
Quello che c'è da capire è più suscettibile di
apprendimento: non c'è bisogno di speciali
talenti per capire le mie idee sulle differenze
che ci sono fra i vari tipi di bugia e chiunque
abbia un minimo di diligenza può. usare il
prontuario dell'Appendice per stimare le
probabilità che il mentitore si lasci sfuggire
qualche errore. Per diventare più bravi,
ovviamente, non basta capire quello che ho
spiegato, ma si deve anche sviluppare una certa
attitudine con l'esercizio. Tuttavia, chiunque
dedichi tempo a guardare e ascoltare con
attenzione, osservando la comparsa degli indizi
descritti nei Capp. IV e V, può effettivamente
migliorare. Noi ed altri abbiamo addestrato
delle persone a un'osservazione più attenta e
precisa e la maggior parte di loro ne ha tratto
un beneficio. Anche senza un addestramento
così rigoroso, si può sempre esercitarsi da soli.
Mentre potrebbe esserci una scuola di caccia
alle bugie, una scuola di bugia non avrebbe
senso. I bugiardi nati non ne hanno bisogno e
tutti gli altri non hanno il talento necessario per
trarne vantaggio. I mentitori nati sanno già e
mettono in pratica quasi tutto quello che ho
scritto, anche se non sempre se ne rendono
conto. Mentire bene è una dote speciale, che
non si acquista facilmente: bisogna essere attori
nati, dalle maniere accattivanti e seducenti.
Persone del genere sono capaci, senza pensarci,
di gestire la propria espressione, in modo da
lasciar passare esattamente quell'impressione
che vogliono comunicare e non altre. Non hanno
bisogno di molto aiuto.
La maggior parte di noi ne avrebbe bisogno,
ma mancando di un talento naturale per la
recitazione, non riusciremo mai a mentire molto
bene. Quanto ho spiegato su ciò che tradisce
una bugia e ciò che invece la fa apparire
credibile non serve a molto e può addirittura
peggiorare le cose. La menzogna non può essere
migliorata dal fatto di sapere che cosa fare e che
cosa non fare e ho seri dubbi che possa essere
molto utile lo stesso esercizio. Un bugiardo che
si sorveglia continuamente e pensa ogni mossa
mentre la fa sarebbe come uno sciatore che
dovesse riflettere su ogni suo movimento
mentre viene giù per la discesa.
Ci sono due eccezioni, due lezioni sull'arte di
mentire che possono essere utili a chiunque. I
bugiardi devono avere più cura nel mettere a
punto e mandare a memoria la storia che
inventano. Nella maggior parte dei casi non si
prevedono tutte le domande, tutti gli incidenti
imprevisti che si possono incontrare. Chi mente
deve avere pronte le risposte per un numero di
casi maggiore di quelli che probabilmente gli
capiteranno: inventare una risposta sul
momento, rapida e convincente, una risposta
che non contraddica quello che si è già detto e
che forse dovrà essere tenuta a mente per il
futuro, richiede capacità mentali e una presenza
di spirito che pochi possiedono. L'altra lezione
che il lettore ormai deve aver appreso è quanto
sia difficile mentire senza fare errori: la maggior
parte delle persone la fanno franca solo perché i
destinatari dell'inganno non si danno
abbastanza pena per smascherarli. È
difficilissimo impedire che sfuggano indizi che
possono mettere in sospetto o addirittura
rivelare la verità.
In realtà non ho mai cercato di insegnare a
nessuno a mentire meglio. Il mio giudizio sulla
scarsa utilità di un insegnamento del genere si
basa sul ragionamento, non su dati di fatto.
Spero che sia esatto, perché preferirei che le
mie ricerche servissero al cacciatore di
menzogne più che al bugiardo. Non che io
consideri la bugia intrinsecamente cattiva.
Molti hanno sostenuto con argomenti
convincenti che almeno alcune menzogne
possono essere moralmente giustificate e che
l'onestà può talvolta essere brutale e
crudele.196 Tuttavia le mie simpatie vanno più
a chi cerca di scoprire l'inganno che non al suo
autore. Forse perché il mio lavoro scientifico è
una ricerca degli indizi rivelatori dei reali
sentimenti delle persone: il camuffamento mi
interessa, ma l'impresa che mi sta a cuore è
mettere in luce l'emozione sentita, reale, che c'è
sotto. Scoprire la differenza fra emozioni
autentiche e false, trovare che la dissimulazione
non è perfetta, che le espressioni simulate
somigliano soltanto, ma non sono eguali alle
espressioni di emozioni davvero sentite, tutto
questo è gratificante. Lo studio della menzogna,
posto in questi termini, riguarda molte altre
cose a parte la menzogna: offre l'opportunità di
assistere a una straordinaria lotta interiore fra
parti volontarie e involontarie della nostra vita,
di scoprire fino a che punto possiamo
controllare deliberatamente i segni esteriori
della nostra vita interna.
Malgrado la mia simpatia vada non al
bugiardo ma a chi vuole smascherarlo, mi rendo
conto che svelare le menzogne non sempre è
più virtuoso. L'amico che cortesemente cerca di
nascondere la sua noia avrebbe ragione di
offendersi se smascherato. Il marito che finge di
divertirsi quando la moglie racconta male una
barzelletta, o la moglie che finge interesse per il
racconto del marito che le spiega come ha fatto
a riparare qualcosa, può sentire come
un'aggressione l'accusa di fingere. E ovviamente
nel campo della strategia militare gli interessi
nazionali possono a buon diritto stare dalla
parte della menzogna: d'altra parte l'avversario
ha ovviamente tutto il diritto di cercare di
scoprire la verità, ma non sempre la caccia alle
bugie è lecita. A volte le intenzioni devono
essere onorate, a prescindere dai pensieri o
sentimenti reali. A volte si ha diritto di essere
presi in parola: un atteggiamento inquisitorio
viola il diritto a tenere per sé certi pensieri o
sentimenti. Esistono situazioni in cui la ricerca
della verità è fuori discussione - investigazioni
criminali, trattative commerciali, ecc. -, ma ce
ne sono altre in cui le persone danno per
scontato il diritto di tenersi per sé, se così
vogliono, i propri sentimenti e pensieri,
aspettandosi che quanto decidono di
manifestare sia accettato per vero.
Non è solo altruismo o rispetto per la vita
privata quello che dovrebbe dare qualche
tregua all'accanito cacciatore di bugie. A volte è
meglio per lui se si lascia ingannare. Il padrone
di casa sarà più contento se pensa che gli ospiti
si sono divertiti, la moglie più soddisfatta se
crede di aver detto al marito qualcosa di
spiritoso. Il falso messaggio può non solo essere
più gradevole, ma anche più utile della verità.
La frase «Tutto bene» pronunciata entrando al
lavoro, in risposta alla domanda del capo «Come
va oggi?», può fornire un'informazione più
rilevante di quanto farebbe la risposta sincera,
«Sto ancora malissimo per il litigio che ho avuto
a casa ieri sera»: la bugia convenzionale
comunica esattamente l'intenzione di mettersi
al lavoro malgrado il turbamento personale.
Naturalmente lasciarsi ingannare comporta un
prezzo anche in questi casi più innocui: il capo
potrebbe regolarsi meglio se conoscesse la vera
situazione del dipendente, la moglie potrebbe
imparare a raccontare meglio le barzellette o
rinunciarvi del tutto. Eppure penso che vada
tenuto presente che talvolta smascherare la
menzogna viola una relazione, tradisce la
fiducia, estorce un'informazione che per buone
ragioni non è stata data. Chi cerca a tutti i costi
la verità dovrebbe almeno rendersi conto che
andare alla caccia di indizi che rivelino la
menzogna è un'ingerenza che passa sopra ai
desideri dell'altro.
Quando ho cominciato a studiare la
menzogna non c'era modo di sapere che cosa
esattamente avrei trovato. Le affermazioni in
proposito erano contraddittorie. Scriveva per
esempio Freud: «Chi ha occhi per vedere e
orecchi per udire può convincersi che nessun
mortale può tenere un segreto. Se le sue labbra
tacciono, parlerà con la punta delle dita; ciò che
lo tradisce gli trasuda da tutti i pori».197
Eppure sapevo di molti casi di menzogne
perfettamente riuscite e nelle mie prime
ricerche ho trovato che i risultati dei tentativi di
riconoscere la menzogna non erano migliori di
quelli che si possono ottenere tirando a sorte
(peraltro, psichiatri e psicologi non erano affatto
più bravi degli altri). Sono soddisfatto della
risposta che ho trovato: non siamo né perfetti
né impotenti come bugiardi e riconoscere
l'inganno non è né facile, come diceva Freud, né
impossibile. Questa risposta rende le cose più
complicate e quindi più interessanti. La nostra
imperfetta capacità di mentire è fondamentale,
forse addirittura necessaria, per la nostra
esistenza.
Consideriamo per un momento come
sarebbe la vita se chiunque sapesse mentire alla
perfezione, oppure se nessuno potesse mentire
affatto. Ci ho riflettuto soprattutto a proposito
delle menzogne circa le emozioni, dato che sono
le più difficili e dato che sono proprio le
emozioni quello che mi interessa. Se non
potessimo mai sapere che cosa prova una
persona e ce ne rendessimo perfettamente
conto, la vita sarebbe molto più inconsistente.
Certo, sapendo che ogni manifestazione di
emozioni potrebbe essere una pura e semplice
recita per compiacere, manipolare o mettere
fuori strada, tutti andrebbero più alla deriva, gli
attaccamenti sarebbero molto meno solidi. Noi
viviamo nella convinzione che esista un nocciolo
di verità emotiva, che la maggior parte delle
persone non possa o non voglia ingannarci sui
propri sentimenti. Se il tradimento fosse
altrettanto facile con le emozioni quanto con le
idee, se espressioni e gesti potessero essere
camuffati o falsificati altrettanto bene quanto le
parole, la nostra vita emotiva sarebbe molto più
povera e piena di cautele.
E se non potessimo mai mentire, se il sorriso
fosse un'espressione perfettamente attendibile,
mai assente quando si prova piacere, mai
presente se il piacere non c'è, la vita sarebbe
più aspra e molti rapporti più difficili da
mantenere. La gentilezza, il tentativo di
appianare le difficoltà, di nascondere sentimenti
che si vorrebbe non provare, tutto questo
sarebbe perduto. Non ci sarebbe modo di tener
nascosto nulla, nessuna possibilità di tenersi per
sé il proprio malumore o di leccarsi le ferite, se
non in perfetta solitudine. Immaginiamo di
avere accanto un amico, un collega, peggio
ancora una moglie o un marito, che dal punto di
vista delle capacità di controllare o dissimulare
le emozioni fosse come un bambino di tre mesi e
sotto ogni altro rispetto un adulto: è una
prospettiva poco piacevole.
Non siamo né trasparenti come il lattante né
perfettamente camuffati. Possiamo mentire o
essere sinceri, riconoscere le bugie o non
vederle, essere ingannati o riuscire a difenderci.
Abbiamo possibilità di scelta, è questa la nostra
natura.
Appendice
Le Tabb. 1 e 2 riassumono tutte le
informazioni ricavabili da tutti gli indizi di
menzogna descritti nei Capp. IV e V. La Tab. 1
è ordinata in base ai singoli indizi, la Tab. 2 in
base all'informazione che se ne trae. Per sapere
quali
informazioni
un
particolare
comportamento può rivelare, il lettore deve
consultare la Tab. 1, per sapere quale
comportamento può fornire un certo tipo
d'informazione, la Tab. 2. Si ricordi che esistono
due tipi principali di menzogna, dissimulazione e
falsificazione. Le Tabb. 1 e 2 riguardano
entrambe la dissimulazione. La Tab. 3 riporta
gli indizi comportamentali di falsificazione. La
Tab. 4 presenta l'intero prontuario di domande
per la verifica e il controllo delle menzogne.
TABELLA 1. DISSIMULAZIONE: INDIZI
COMPORTAMENTALI E RELATIVO
SIGNIFICATO.
Indizi di menzogna
Lapsus
Tirate oratorie
Linguaggio involuto
Pause ed errori di
linguaggio
Voce più acuta
Informazione rivelata
Può essere specifico
all'emozione; può rivelare
informazioni non attinenti
all'emozione
Può essere specifico
all'emozione; può rivelare
informazioni non attinenti
all'emozione
Linea di difesa non
preparata; oppure
emozioni negative,
soprattutto paura
Linea di difesa non
preparata; oppure
emozioni negative,
soprattutto paura
Emozione negativa,
probabilmente collera e/o
paura
Voce più grave
Emozione negativa,
probabilmente tristezza
Discorso accelerato, voce Probabilmente collera,
più alta
paura e/o eccitazione
Discorso rallentato, voce Probabilmente tristezza
più bassa
e/o noia
Gesti emblematici
Può essere specifico
all'emozione; può rivelare
informazioni non attinenti
all'emozione
Diminuzione dei gesti
Noia; linea difensiva non
illustrativi
preparata; oppure
soppesare ogni parola
Aumento dei gesti
Emozione negativa
manipolatori
Respiro rapido e poco
Emozione, non specifico
profondo
Sudore
Emozione, non specifico
Deglutizione frequente
Emozione, non specifico
Microespressioni
Qualunque emozione
specifica
Espressioni soffocate
Emozione specifica;
oppure può indicare solo
che un'espressione è stata
interrotta, ma non quale
Muscoli facciali
involontari
Ammiccamento
aumentato
Dilatazione pupillare
Lacrime
Rossore
Pallore
Paura e tristezza
Emozione, non specifico
Emozione, non specifico
Tristezza, dolore, riso
incontrollato
Imbarazzo, vergogna e
collera; forse senso di
colpa
Paura o collera
TABELLA 2. DISSIMULAZIONE: TIPI
D'INFORMAZIONE E RELATIVI INDIZI
Tipo d'informazione
Linea difensiva non
preparata
Indizio
comportamentale
Discorso involuto, pause,
errori nel discorso,
diminuzione dei gesti
illustrativi
Informazione non
attinente ad emozioni
(fatti, progetti, fantasie)
Emozioni (p. es. felicità,
sorpresa, dolore)
Paura
Collera
Tristezza (forse senso di
colpa e vergogna)
Imbarazzo
Eccitazione
Lapsus, tirate oratorie,
gesti emblematici
Lapsus, tirate oratorie,
microespressioni,
espressioni soffocate
Discorso involuto, pause,
errori del discorso, voce
più acuta, discorso
accelerato e voce più alta,
muscoli facciali
involontari, pallore
Voce più acuta, discorso
accelerato e voce più alta,
rossore, pallore
Voce più grave, discorso
rallentato e voce più
bassa, muscoli facciali
involontari, lacrime,
sguardo abbassato, rosso
Rossore, sguardo
abbassato o distolto
Aumento dei gesti
illustrativi, voce più
acuta, discorso accelerato
e voce più alta
Noia
Emozioni negative
Qualunque emozione
Diminuzione dei gesti
illustrativi, discorso
rallentato e voce più bassa
Discorso involuto, pause,
errori nel discorso, voce
più acuta, voce più grave,
aumento dei gesti
manipolatori
Cambiamenti respiratori,
sudore, deglutizione,
espressione soffocata,
ammiccamento
aumentato, dilatazione
della pupilla
TABELLA 3. INDIZI DI FALSIFICAZIONE DI
UN'ESPRESSIONE
Falsa emozione
Indizio
comportamentale
Paura
Tristezza
Gioia
Entusiasmo o interesse
Emozioni negative
Qualunque emozione
Assenza della contrazione
involontaria della fronte
Assenza della contrazione
involontaria della fronte
Muscoli degli occhi non
contratti
I gesti illustrativi non
aumentano o la scelta del
tempo è sbagliata
Assenza di: sudore,
cambiamenti respiratori,
aumento dei gesti
manipolatori
Espressione asimmetrica,
inizio troppo brusco, fine
troppo brusca o a scatti,
collocazione sbagliata nel
discorso
TABELLA 4. PRONTUARIO DI VERIFICA E
CONTROLLO
Domande sulla bugia
Bugie difficili da
Bugie facili da scoprire
scoprire
1. Chi mente può prevedere quando dovrà mentire?
SÌ: ben preparato
NO: impreparato
2. La bugia implica solo dissimulazione, senza
bisogno di falsificare?
SÌ
NO
3. La bugia implica emozioni provate al momento?
NO
SÌ: specialmente difficile
se
A) bisogna fingere
emozioni negative, come
collera, paura o dolore
B) bisogna sembrare
impassibili e non si può
mascherare l'emozione
sentita con un'altra
4. C'è amnistia se il bugiardo confessa?
NO: accentua la
SÌ: probabilità di indurre
motivazione del bugiardo la confessione
5. La posta in gioco (ricompensa o punizione) è
molto alta?
Difficile fare previsioni: una posta alta può accrescere
la paura di esser scoperto, ma può anche motivare il
mentitore a impegnarsi di più
6. Ci sono gravi punizioni per chi è scoperto a
mentire?
NO: scarsa apprensione; SÌ: accresce l'apprensione,
ma può causare
ma anche in certi
disattenzione
innocenti, producendo
falsi positivi
7. Ci sono gravi punizioni per l'atto stesso di aver
mentito, a parte i danni per l'inganno mancato?
NO
SÌ: accresce l'apprensione;
può dissuadere dalla
menzogna chi sa che la
punizione sarebbe
peggiore del danno subito
dicendo la verità
8. Il destinatario non è danneggiato dall'inganno o
ne è addirittura beneficato? È una bugia altruistica,
senza vantaggi per il mentitore?
SÌ: minore senso di colpa, NO: maggiore senso di
se chi mente la vede così colpa
9. È una situazione tale che la vittima non ha
sospetti?
SÌ
NO
10. Il mentitore è già riuscito a ingannare la vittima
in precedenza?
SÌ: minore apprensione; NO
nel caso che la vittima
possa vergognarsi di
dover riconoscere che è
stata già ingannata, può
diventare una vittima
volontaria
11. Autore e destinatario dell'inganno hanno gli
stessi valori?
NO: minore senso di colpa SÌ: maggiore senso di
colpa
12. La menzogna è autorizzata?
SÌ: minore senso di colpa NO: maggiore senso di
colpa
13. La vittima è anonima?
SÌ: minore senso di colpa NO: maggiore senso di
colpa
14. Bugiardo e vittima si conoscono personalmente?
NO
SÌ: maggiore probabilità
di evitare gli errori dovuti
alle differenze individuali
15. Il cacciatore di bugie deve nascondere al
bugiardo i suoi sospetti?
SÌ: l'inquisitore può
NO
invischiarsi nel proprio
tentativo di
dissimulazione e perdere
di vista il comportamento
del mentitore
16. L'inquisitore conosce particolari che solo il
colpevole potrebbe sapere?
NO
SÌ: può usare la tecnica
della conoscenza
colpevole, se il sospettato
può essere interrogato
17. Il bugiardo ha un pubblico che è al corrente
dell'inganno?
NO
SÌ: può accrescere il
piacere della beffa, il
timore di essere scoperto
o il senso di colpa
18. Mentitore e inquisitore appartengano alla stessa
cultura e parlano la stessa lingua?
NO: più errori nel valutare SÌ: interpretazione degli
gli indizi della menzogna indizi più facile
Domande circa il mentitore
Bugie difficili da
scoprire
Bugie facili da scoprire
19. Ha pratica di menzogne?
SÌ: specialmente se di
NO
questo tipo
20. E creativo e astuto nell’inventare?
SÌ
NO
21. Ha una buona memoria?
SÌ
NO
22. È un buon parlatore, con maniere convincenti?
SÌ
NO
23. Utilizza i muscoli facciali involontari per
sottolineare la conversazione?
SÌ: più capace di
NO
nascondere o falsificare le
espressioni del viso
24. È un buon attore, che usa il metodo Stanislavski?
SÌ
NO
25. Può convincersi della propria bugia, finendo per
credere a quello che dice?
SÌ
NO
26. È un “attore nato” o uno psicopatico?
SÌ
NO
27. La sua personalità lo espone alla paura, al senso
di colpa o al piacere della beffa?
NO
SÌ
28. Si vergogna di ciò che nasconde?
Difficile fare previsioni: la vergogna tende a impedire
la confessione, ma se trapela può tradire la bugia
29. Può il sospettato provare paura, senso di colpa,
vergogna o piacere della beffa anche se è innocente,
o mente su qualcos'altro?
SÌ: impossibile
NO: segni di queste
interpretare gli indizi
emozioni sono indizi di
emotivi
menzogna
Domande sul cacciatore di buche
Bugie difficili da
Bugie facili da scoprire
scoprire
30. Ha la reputazione di essere un osso duro?
NO: specialmente se il
SÌ: accresce l'apprensione;
mentitore è già riuscito a può accrescere anche il
ingannarlo in passato
piacere della beffa
31. Ha la reputazione di essere diffidente?
Difficile fare previsioni: può ridurre il senso di colpa,
ma può anche accrescere l'apprensione
32. Ha una reputazione di equità?
NO: meno probabile il
SÌ: accresce il senso di
senso di colpa
colpa
33. È una persona che nega ed evita i problemi e
tende sempre a pensare il meglio possibile della
gente?
SI: probabilmente
NO
trascurerà indizi di
menzogna; vulnerabile a
falsi negativi
34. Ha particolari capacità d'interpretare i
comportamenti espressivi?
NO
SÌ
35. Ha dei preconcetti circa il sospettato?
NO
SÌ: più pronto a cogliere
indizi di menzogna, ma
anche esposto a falsi
positivi
36. Ottiene vantaggi se non scopre la bugia?
SÌ: ignorerà,
NO
volontariamente o
involontariamente, gli
indizi di menzogna
37. È incapace di tollerare l'incertezza circa
l'eventualità di essere ingannato?
Difficile fare previsioni: può causare errori di
entrambi i tipi, sia falsi positivi che falsi negativi
38. È in preda a un'emozione incontrollabile?
NO
SI: chi mente viene
scoperto, ma anche gli
innocenti saranno
giudicati colpevoli (falsi
positivi)
Paul Ekman è professore emerito di
Psicologia all'Università della California a San
Francisco. Esperto di espressione facciale,
fisiologia delle emozioni e menzogna, ha
ricevuto numerosi riconoscimenti, in particolare
il premio per meriti scientifici dell'American
Psychological Association, Dello stesso autore
Giunti
ha
pubblicato: Le bugie dei
ragazzi (1993, 2009) e (Giù la maschera (con
Wallace V. Friesen, 2007). La serie Lie to
me, andata in onda su Fox, è basata sulle
ricerche riportate in questo saggio.
Sapendo che cosa cercare nel volto, nella
voce, nell'atteggiamento, nelle parole, noi
possiamo scoprire gli indizi che rivelano la
menzogna. In questo libro Paul Ekman,
un'autorità riconosciuta nello studio della
psicologia delle emozioni e della comunicazione
non verbale, rivela le più ingegnose tecniche di
ricerca applicate all'esplorazione di alcuni degli
impulsi più profondi del comportamento
umano.
1)
Sono debitore di Robert Jervis (The Logic of
Images in International Relations, Princeton, N.
J., Princeton University Press, 197 0) per molte
delle mie idee sulla menzogna nelle relazioni
internazionali e per aver richiamato la mia
attenzione sugli scritti di Alexander Groth.
Questa citazione è analizzata in un articolo di
Groth, «On the Intelligence Aspects of Personal
Diplomacy», in Orbis, 7 (1964), pp. 833-849. È
ripresa da Keith Feiling, The Life of Neville
Chamberlain, London, MacMillan, 1947 , p. 367 .
↵
2)
Discorso alla Camera dei Comuni, 28
settembre 1938. Neville Chamberlain, In Search
of Peace, New York, Putnam & Sons, 1939, p.
210, citato da Groth. ↵
3)
Questo lavoro è esposto in una serie di
articoli della seconda metà degli anni '60 e in un
libro da me curato, su Darwin and Facial
Expression, New York, Academic Press, 197 3. ↵
4)
La ricerca è descritta nel mio primo articolo
sul tema della menzogna: Paul Ekman, Wallace V.
Friesen, «Nonverbal Leakage and Clues to
Deception», in Psychiatry, 32 (1969), pp. 88105. ↵
5)
Roberta Wohlstetter, Slow Pearl Harbors and
the Pleasures of Deception, in Intelligence
Policy and National Security, edited by Robert
L. Pfaltzgraff jr., Uri Ra'anan, Warren Milberg,
Hamdenn Conn., Anchor Books, 1981, pp. 2334. ↵
6)
San Francisco Chronicle, 28 ottobre 1982, p.
12. ↵
7)
Gli atteggiamenti forse stanno cambiando.
Jody Powell, ex addetto stampa di Carter,
giustifica certe bugie: «Dal primo giorno in cui il
primo cronista pose la prima domanda
imbarazzante a un rappresentante del governo,
si è discusso se il governo ha il diritto di mentire.
Lo ha. In certe circostanze, il governo non solo
ha il diritto, ma ha il dovere di mentire. Nei
quattro anni che ho passato alla Casa Bianca mi
sono trovato in circostanze del genere due
volte». Prosegue descrivendo un episodio in cui
ha mentito per risparmiare «grande sofferenza e
imbarazzo ad alcune persone del tutto
innocenti». L'altra menzogna confessata da
Powell riguarda l'aver occultato i piani del
tentativo di liberare gli ostaggi americani in Iran
(Jody Powell, The Other Side of the Story, New
York, Morrow, 1984). ↵
8)
The Compact Edition of the Oxford English
Dictionary, New York, Oxford University Press,
197 1, p. 1616. ↵
9)
È interessante cercare d'individuare la base di
questi stereotipi. Presumibilmente la fronte alta
viene considerata erroneamente come indice
della grandezza del cervello, così come lo
stereotipo secondo cui le labbra sottili denotano
crudeltà si basa sull'osservazione esatta che le
labbra in effetti si stringono nella collera.
L'errore sta nel fatto di utilizzare l'indizio di uno
stato emotivo transitorio per giudicare un tratto
permanente di personalità. Un tale giudizio
suppone che le persone dalle labbra sottili
abbiano questo aspetto perché stringono
continuamente le labbra per la rabbia; ma le
labbra sottili possono essere anche un carattere
ereditario permanente. Lo stereotipo secondo
cui le labbra tumide indicherebbero sensualità
nasce da un analogo errore logico:
dall'osservazione esatta che le labbra si gonfiano
per l'afflusso di sangue durante l'eccitazione
sessuale, si ricava il giudizio sbagliato circa un
tratto permanente della personalità. Anche in
questo caso, la forma delle labbra può essere un
carattere ereditario fissato una volta per tutte. A
questo proposito, si veda Paul F. Secord, Facial
Features and Inference Processes in
Interpersonal Perception, in Person, Perception
and Interpersonal Behavior, edited by R.
Tagiuri, L. Petrullo, Stanford, Stanford
University Press, 1958. Si veda anche Paul
Ekman, Facial Signs: Facts, Fantasies and
Possibilities, in Sight, Sound and Sense, edited
by Thomas A. Sebeok, Bloomington, Indiana
University Press, 197 8. ↵
10)
È ancora aperta la controversia se gli animali
possano deliberatamente scegliere di mentire. Si
veda in proposito David Premack, Ann James
Premack, The Mind of an Ape, New York, W. W.
Norton & Co., 1983. Inoltre, Premack, Premack,
Communication as Evidence of Thinking, in
Animal Mind-Human Mind, edited by D. R.
Griffin, New York, Springer Verlag, 1982. ↵
11)
Non contesto l'esistenza di mentitori
patologici e di individui che sono vittime di
autoinganni, ma la cosa è difficile da dimostrare.
Di certo non si può accettare come prova la
parola del mentitore: una volta scoperto,
qualunque bugiardo potrebbe avanzare a sua
scusa affermazioni del genere. ↵
12)
Sono grato a Michael Handel per aver citato
questo episodio nel suo articolo molto
stimolante «Intelligence and Deception», in
journal of Strategie Studies, 5 (1982), pp. 122154. La citazione è ripresa da Denis Mack Smith,
Mussolini's Roman Empire, p. 17 0. ↵
13)
Il mio interesse è rivolto solo a quelle che
Goffman chiamava menzogne sfacciate, quelle
«per le quali può esistere la prova indiscutibile
che chi le ha dette sapeva di mentire e l'ha fatto
volontariamente». A Goffman, invece, non
interessavano queste ma piuttosto altre
rappresentazioni distorte, in cui la distinzione
fra vero e falso è meno netta: «Forse non c'è
nemmeno una legittima attività o relazione
quotidiana in cui il soggetto non esegua pratiche
nascoste che sono incompatibili con le
impressioni che intende favorire negli altri».
(Entrambe le citazioni sono riprese da The
Presentation of Self in Everyday Life, New York,
Anchor Books, 1959, pp. 59, 64 [tr. it. La vita
quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il
Mulino, 1969]). ↵
14)
Questa distinzione è adottata dalla maggior
parte degli autori che analizzano l'inganno e la
menzogna. Si vedano Handel, «Intelligence and
Deception», e Barton Whaley, «Toward a General
Theory of Deception, in Journal of Strategic
Studies, 5 (1982), pp. 17 9-192, per un esame
dell'utilità di questa distinzione nell'analisi di
inganni in materia militare. ↵
15)
Sisela Bok riserva il termine “menzogna” a
quella che io chiamo falsificazione, usando
“reticenza”
per
quella che
definisco
dissimulazione. A suo avviso questa distinzione
è importante sul piano morale, in quanto
sostiene che, mentre mentire è «evidentemente
scorretto, con una presunzione di colpa in ogni
caso, la reticenza non necessariamente lo è»
(Secrets, New York, Pantheon, 1982, p. xv). ↵
16)
Eve Sweetser fa una considerazione
interessante a questo proposito. La vittima può
sentirsi più ferita da una dissimulazione che da
un esplicito falso: «Non può nemmeno
lamentarsi che qualcuno le ha mentito e così ha
l'impressione che l'avversario abbia tirato di
soppiatto un colpo basso legale» (Sweetser, The
Definition of a Lie, in Cultural Modern in
Language and Thought, edited by Naomi Quinn
e Dorothy Holland, 1987 , p. 56). ↵
17 )
David E. Rosenbaum, in New York Times, 17
dicembre 1980. ↵
18)
John Updike, Marry Me, New York, Fawett
Crest, 197 6, p. 90. ↵
19)
Ezer Weizman, The Battle for Peace, New
York, Bantam Books, 1981, p. 182. ↵
20)
Nel suo studio sui giocatori di poker, David
Hayano descrive un altro stile usato dai
professionisti: «I giocatori vivaci chiacchierano
continuamente durante il gioco per innervosire
e mettere in ansia gli avversari [...]. La verità è
detta come una bugia e la bugia come verità. Alla
verbosità si accompagnano gesti esagerati [...].
“Si contorce più di una danzatrice di ventre”, mi
hanno detto a proposito di uno di questi
giocatori» («Poker Lies and Tells», in Human
Behavior, 197 9, p. 20). ↵
21)
Alan Bullock, Hitler, New York, Harper &
Row, 1964, p. 528. Citato da Robert Jervis, The
Logic of Images in International Relations,
Princeton, N. J., Princeton University Press,
197 0. ↵
22)
Robert Daley, The Prince of the City, New
York, Berkeley Books, 1981, p. 101. ↵
23)
Updike, Marry Me. ↵
24)
John Carroll, «Everyday Hypocrisy. A User's
Guide», in San Francisco Chronicle, 11 aprile
1983, p. 17 . ↵
25)
Updike, Marry Me, p. 90. ↵
26)
John J. Sirica, To Set the Record Straight,
New York, New American Library, 1980, p. 142.
↵
27 )
James
Phelan, Scandals, Scamps and
Scoundrels, New York, Random House, 1982, p.
22. ↵
28)
Terence Rattigan, The Winslow Boy, New
York, Dramatists Play Service Inc., Acting
Edition, 197 3, p. 29. ↵
29)
Il racconto è contenuto nel libro di David
Lykken, A Tremar in the Blood: Uses and Abuses
of the Lie Detector, New York, McGraw-Hill,
1981. ↵
30)
Alcuni specialisti pensano che le convinzioni
dell'indiziato circa l'esattezza della macchina non
abbiano molto peso. Di questo ed altri problemi
relativi al poligrafo e alla sua efficacia nella
rivelazione delle menzogne, in confronto agli
indizi comportamentali, si parlerà nel Cap. VII.
↵
31)
Robert D. Hare, Psychopathy. Theory and
Research, New York, John Wiley, 197 0, p. 5. ↵
32)
I criminali psicopatici riescono anche a
ingannare gli esperti. «Robert Resllser, un
funzionario
dell'Unità
di
scienze
comportamentali dell'FBI [...] che ha intervistato
36 pluriomicidi ha dichiarato: la maggior parte
di loro sono persone normali all'aspetto e alla
conversazione [...]. Ann Rule, una ex poliziotta,
studiosa di psicologia e autrice di cinque libri su
questo tipo di criminali [...] ha avuto modo di
dare un'occhiata nella personalità di uno di loro
quando, per una spaventosa coincidenza, si è
trovata a lavorare per qualche tempo nello
stesso ufficio con Ted Bundy [in seguito
condannato per una serie di omicidi, alcuni dei
quali commessi proprio in quel periodo]. Fecero
rapidamente amicizia. Ha raccontato la Rule:
Ted era un tale manipolatore che non si sapeva
mai se fingeva o no [...]. La personalità
antisociale sembra sempre sincera, la facciata è
assolutamente perfetta. Credevo di sapere cosa
cercare, ma quando lavoravo con Ted non ho
notato nemmeno un segnale che lo tradisse in
qualche modo» (Edward Iwata, «The Baffling
Normalcy of Serial Murders», in San Francisco
Chronicle, 5 maggio 1984). ↵
33)
Michael I. Handel, «Intelligence and
Deception», in journal of Strategic Studies, 5
(1982), p. 136. ↵
34)
La nostra ricerca in effetti ha dimostrato che
quelle che hanno dato le migliori prestazioni
nell'esperimento, cioè le più capaci di
controllare le emozioni, hanno ottenuto i
risultati migliori nei successivi tre anni di scuola
infermiere. ↵
35)
San Francisco Chronicle, 9 gennaio 1982, p.
1. ↵
36)
San Francisco Chronicle, 21 gennaio 1982, p.
43. ↵
37 )
William Hood, Mole, New York, W. W. Norton
& Co., 1982, p. 11. ↵
38)
Se è vero che il 30-40% dei pazienti ottiene
sollievo dai placebo, alcuni ritengono che l'uso
di placebo metta a repentaglio il rapporto di
fiducia che deve esistere fra medico e paziente e
apra la via a inganni più pericolosi. Per
indicazioni bibliografiche e un esame del
problema, si veda l'articolo di Lindsey Gruson,
«Use of Placebos Being Argued on Ethical
Grounds», in New York Times, 13 febbraio 1983,
p. 19. ↵
39)
Bruce Horowitz, «When Should an Executive
Lie?», in Industry Week, 16 novembre 1981, p.
83. ↵
40)
Questa idea è stata suggerita da Robert L.
Wolk ed Arthur Henley nel loro libro The Right
to Lie, New York, Peter H. Wyden, Inc., 197 0. ↵
41)
Alan Dershowitz, The Best Defense, New
York, Random House, 1982, p.37 0. ↵
42)
Shakespeare, Sonetto 138; traduzione italiana
di Alberto Rossi e Giorgio Melchiori, Torino,
Einaudi, 197 0. ↵
43)
Roberta Wohlstetter, Slow Pearl Harbours
and the Pleasures oh Deception, in Intelligence
Policy and National Security, edited by Robert
L. Pfaltzgraff Jr., Uri Ra'anan, Warren Milberg,
Hamden, Conn., Archon Press, 1981. ↵
44)
Si veda J. Sergent e D. Bindra, «Differential
Hemispheric
Processing
of
Faces:
Methodological
Considerations
and
Reinterpretation», in Psychological Bulletin, 89
(1981), pp. 545-554. ↵
45)
La maggior parte delle persone, mentre parla,
dipende da queste risposte dell'ascoltatore e se
vengono a mancare ben presto chiede: «Mi stai
ascoltando?». Pochissimi sono un sistema
chiuso, capaci di parlare senza badare al fatto
che gli ascoltatori li incoraggino o no. ↵
46)
Fra gli operai delle segherie, per esempio, che
devono comunicare senza potersi servire delle
parole a causa del rumore, è in uso un sistema
molto elaborato di gesti. Per la stessa ragione
usano un complicato sistema di linguaggio
gestuale i piloti e il personale di pista. ↵
47 )
I neurologi non sono certi dei circuiti nervosi
che ci informano dei nostri cambiamenti
d'espressione, né hanno chiaro se ad essere
registrate sono variazioni nella muscolatura
facciale o nella pelle. Fra gli psicologi c'è
disaccordo circa la capacità soggettiva di
avvertire le espressioni al momento in cui si
dipingono sul volto. Dalle mie ricerche sembra
che non abbiamo una sensibilità molto acuta
della nostra mimica e che generalmente non
prestiamo molta attenzione alle informazioni
sensoriali provenienti dal viso. ↵
48)
Parte dei lavori sono descritti da Paul Ekman,
Wallace V. Friesen, Maureen O'Sullivan, Klaus
Scherer, «Relative Importance of Fare, Body and
Speech in Judgments of Personality and Affect»,
in Journal of Personality and Social Psychology,
38 (1980), pp. 27 0-7 7 . ↵
49)
Molti psicologi hanno cercato di individuare i
fattori che contribuiscono a rendere un
individuo un buon giudice o un cattivo giudice
degli altri, ma con esiti non molto soddisfacenti.
Per una rassegna di queste ricerche, si veda
Maureen O'Sullivan, Measuring the Ability to
Recognize Facial Expressions of Emotion, in
Emotion in the Human Face, edited by Paul
Ekman, New York, Cambridge University Press,
1982. ↵
50)
Bruce Horowitz, «When Should and
Executive Lie?», in Industry Week, 16 novembre
1981, p. 83. ↵
51)
S. Freud, The Psychopathology of Everyday
Life (1901), vol. 6 of The Complete
Psychological Works, edited by James Strachey,
New York, W. W. Norton, 197 6, p. 86. ↵
52)
Freud cita molti interessanti esempi più brevi
di lapsus, ma sono meno convincenti di quello
che ho scelto, in quanto tradotti dall'originale
tedesco. Il Dr. Brill era americano e Freud cita
questo esempio in inglese. Ivi, pp. 89-90. ↵
53)
S. Freud, Parapraxes (1916), in The Complete
Psychological Works, vol. 15, p.66. ↵
54)
John Weisman, «The Truth will Out», in TV
Guide, 3 settembre 197 7 , p. 13. ↵
55)
Non è facile decidere su questa ed altre
contraddizioni nella letteratura scientifica
sull'argomento, dato che gli esperimenti sono di
per sé non troppo affidabili. Quasi tutti i
ricercatori hanno esaminato studenti che
dovevano mentire su questioni irrilevanti, senza
che ci fosse una seria posta in gioco. Nella
maggior parte degli esperimenti sulla menzogna
non sembra che si sia riflettuto molto sul tipo di
inganno da prendere in esame: di solito la scelta
era dettata solo dalla facilità di predisporre la
situazione sperimentale. Per esempio, si trattava
di difendere con argomenti persuasivi
un'opinione contraria alla propria circa la pena
di morte o l'aborto. Oppure si chiedeva al
soggetto se gli piaceva una persona mostrata in
fotografia;
quindi,
doveva
fingere
l'atteggiamento opposto. Di norma questi
esperimenti trascurano di considerare la
relazione fra l'autore e il destinatario
dell'inganno e l'influenza che questa può avere ai
fini del maggiore o minore impegno nella
menzogna. Generalmente, fra i due non c'era
alcuna conoscenza precedente né avevano
ragione di pensare di doversi incontrare di
nuovo in futuro. A volte non c'era nemmeno un
vero e proprio destinatario, ma la bugia doveva
semplicemente essere detta a un apparato di
registrazione. Per un panorama recente, ma non
sufficientemente critico, di questi esperimenti, si
veda Miron Zuckerman, Bella M. De Paulo e
Robert Rosenthal, «Verbal and Nonverbal
Communication of Deception», in Advances in
Experimental Social Psychology, vol. 14, New
York, Academic Press, 1981. ↵
56)
Alcune nuove tecniche per l'analisi
quantitativa della voce umana promettono
grossi progressi a breve termine. Per
un'esauriente rassegna di questi metodi, si veda
Klaus Scherer, Methods of Research on Vocal
Communication: Paradigms and Parameters, in
Handbook of Methods in Nonverbal Behavior
Research, edited by Klaus Scherer and Paul
Ekman, New York, Cambridge University Press,
1982. ↵
57 )
Questi risultati sono riferiti in Paul Ekman,
Wallace V. Friesen, Klaus Scherer, «Body
Movement and Voice Pitch in Deceptive
Interaction», in Semiotica, 16 (197 6), pp. 23-7 .
I risultati sono stati replicati da Scherer ed altri
autori. ↵
58)
John J. Sirica, To Set the Record Straight,
New York, W. W. Norton, 197 9, pp. 99-100. ↵
59)
Richard Nixon, The Memoirs of Richard
Nixon, voi. 2, New York, Warner Books, 197 9, p.
440. ↵
60)
John J. Sirica, op. cit., pp. 99-100. ↵
61)
John J. Sirica, op. cit., pp. 99-100. ↵
62)
John Dean, Blind Ambition, New York, Simon
& Schuster, 197 6, p. 304. ↵
63)
Ivi, pp. 309-10. ↵
64)
Per una rassegna critica di queste varie
tecniche per l'individuazione dello stress
attraverso la voce, si vedano David T. Lykken, A
Tremar in the Blood, New York, McGraw-Hill,
1981, Cap. 13, e Harry Hollien, The Case against
Stress Evaluators and Voice Lie Detection
(ciclostilato inedito, Institute for Advanced
Study of the Communication Processes,
University of Florida, Gainesville). ↵
65)
Una descrizione del nostro metodo per
ottenere un panorama dei segni emblematici
d'uso comune, con i risultati per quanto riguarda
la popolazione americana, è contenuta in Harold
G. Johnson, Paul Ekman, Wallace V. Friesen,
«Communicative Body Movements: American
Emblems», in Semiotica, 15 (197 5), pp. 335-53.
Per un confronto fra i gesti convenzionali in
culture diverse, si veda Ekman, «Movements
with
Precise
Meanings»,
in Journal
of¯Communication, 26 (197 6), pp. 14-26. ↵
66)
Purtroppo, nessuno degli altri ricercatori che
si sono occupati della menzogna si è curato di
verificare se poteva replicare il nostro dato
relativo ai lapsus gestuali. Sono convinto che ne
avrebbero trovati, se li avessero cercati, dal
momento che mi è capitato due volte nell'arco di
25 anni di imbattermi in un lapsus gestuale che
tradiva le emozioni dissimulate. Purtroppo,
nessuno degli altri ricercatori che si sono
occupati della menzogna si è curato di verificare
se poteva replicare il nostro dato relativo ai
lapsus gestuali. Sono convinto che ne avrebbero
trovati, se li avessero cercati, dal momento che
mi è capitato due volte nell'arco di 25 anni di
imbattermi in un lapsus gestuale che tradiva le
emozioni dissimulate. ↵
67 )
Il libro di Efron, Gesture and Environment,
pubblicato la prima volta nel 1941, ed esaurito
da tempo, è nuovamente in commercio sotto il
titolo Gesture, Race, and Culture, The Hague,
Mouton Press, 197 2. ↵
68)
Nelle famiglie immigrate da culture dove è
frequente l'uso di gesti illustrativi spesso si
insegna ai bambini a non gesticolare con le mani
quando parlano: se gesticolano troppo fanno
riconoscere le loro origini, mentre parlando
senza muovere le mani potranno somigliare agli
americani di ceppo anglosassone, di più antico
insediamento. ↵
69)
Questo gesto ha un significato del tutto
diverso, osceno, in alcuni paesi mediterranei. I
gesti emblematici non sono universali, ma il loro
significato varia da una cultura all'altra. ↵
7 0)
Per un'analisi dei gesti di automanipolazione,
si veda Paul Ekman, Wallace V. Friesen,
Nonverbal Behavior and Psychopathology, in
The Psychology of Depression: Contemporary
Theory and Research, edited by R. J. Friedman,
M. N. Katz, Washington, D. C, J. Winston, 197 4.
↵
7 1)
Da un'unica ricerca risulta che le persone
generalmente pensano che agitarsi molto sulla
sedia o cambiar posizione sia segno di
menzogna. In realtà, tuttavia, la postura risulta
non correlata con la sincerità o falsità. Si veda in
proposito Robert E. Kraut, Donald Poe,
«Behavioral Roots of Person Perception: The
Deception Judgments of Custom Inspectors and
Laymen», in Journal of Personality and Social
Psychology, 39 (1980), pp. 7 84-98. ↵
7 2)
Per conoscere di prima mano le
argomentazioni di un esponente attuale di
questa posizione, si veda George Mandler, Mind
and Body: Psychology of Emotion and Stress,
New York, W. W. Norton & Co., 1984. ↵
7 3)
Paul Ekman, Robert W. Levenson, Wallace V.
Friesen, «Autonomic Nervous System Activity
Distinguishes between Emotions», in Science,
221 (1983), pp. 1208-10. ↵
7 4)
La descrizione dell'impedimento dei sistemi
volontari e involontari a seguito di lesioni
diverse è ripresa dalla letteratura clinica. Si
veda, per esempio, K. Tschiassny, «Eight
Syndromes of Facial Paralysis and Their
Significance in Locating the Lesion», in Annals of
Otology, Rhinology and Laryngology, 62
(1953), pp. 67 7 -91. La descrizione delle
maggiori o minori difficoltà di questi pazienti nel
sostenere una finzione è una mia estrapolazione.
↵
7 5)
Per una rassegna di tutti i dati scientifici
disponibili, si veda Paul Ekman, Darwin and
Facial Expression: A Century of Research in
Review, New York, Academic Press, 197 3. Per
un discorso meno tecnico, corredato da
fotografie che illustrano mimiche universali in
una popolazione preletterata, isolata, della
Nuova Guinea, si veda Ekman, Face of Man:
Expressions of Universal Emotions in a New
Guinea Village, New York, Garland STMP Press,
1980. ↵
7 6)
Ekman, Face of Man, pp. 133-6. ↵
77)
The Facial Action Coding System, elaborato
da Paul Ekman e Wallace V. Friesen (Palo Alto,
Consulting Psychologists Press, 197 8), è un
corso programmato, completo di manuale,
fotografie e filmati illustrativi e programma
computerizzato, che insegna a descrivere e
misurare qualunque espressione. ↵
7 8)
Per garantire la riservatezza ho usato
fotografie che raffiguravano me, anziché i
soggetti studiati. ↵
7 9)
E. A. Haggarcl, K. S. Isaacs, Micromomentary
Facial Expressions, in Methods of Research in
Psychotherapy, edited by L. A. Gottschalk and
A. H. Auerbach, New York, Appleton Century
Crofts, 1966. ↵
80)
Unmasking the Face, curato da Paul Ekman e
Wallace V. Friesen, Palo Alto, Consulting
Psychologists Press, 1984, fornisce al lettore le
illustrazioni e le istruzioni per acquisire questa
competenza. ↵
81)
Friesen ed io abbiamo messo a punto un test
delle azioni mimiche eseguite su richiesta
(Requested Facial Action Test), che esamina fino
a che punto un individuo è capace di muovere
deliberatamente ciascun muscolo facciale e di
assumere la mimica delle varie emozioni. Per i
risultati ottenuti con i bambini, si veda Paul
Ekman, Gowen Roper e Joseph C. Hager,
«Deliberate Facial Movement», in Child
Development, 51 (1980), pp. 886-91. ↵
82)
Ho discusso questa idea con vari studiosi del
sistema nervoso che si sono occupati del viso o
delle emozioni, i quali ritengono che si tratti di
un concetto ragionevole e plausibile. Comunque,
non è stato ancora sottoposto a verifica
sperimentale e va considerato un'ipotesi di
lavoro. ↵
83)
La nostra disapprovazione della menzogna è
così forte che l'uso che io faccio di questo
termine a proposito di persone rispettabili
sembra sbagliato. Come ho spiegato nel Cap. II,
nella mia accezione del termine manca
qualunque connotazione peggiorativa e, come
spiegherò nell'ultimo capitolo, sono convinto
che alcune menzogne siano moralmente
difendibili. ↵
84)
Rubrica di William Safire, «Undetermined»,
in San Francisco Chronicle, 28 giugno 1983. ↵
85)
Anwar Sadat, in San Francisco Examiner, 11
ottobre 1981. ↵
86)
Ezer Weizman, The Battle for Peace, New
York, Bantam, 1981, p. 165. ↵
87 )
Margaret Mead, Soviet Attitudes toward
Authority, New York, McGraw-Hill, 1951, pp.
65-66, citato da Erving Goffman, Strategic
Interaction, Philadelphia, University of
Pennsylvania Press, 1969, p. 21. ↵
88)
Harold Sackeim, Ruben C. Gur, Marcel C.
Saucy, «Emotions Are Expressed More Intensely
on the Left Side of the Face», in Science, 202
(197 8), p. 434. ↵
89)
Paul Ekman, «Asymmetry in Facial
Expression», con la replica di Sackeim, in
Science, 209 (1980), pp. 833-836. ↵
90)
Paul Ekman, Joseph C. Hager, Wallace V.
Friesen, «The Symmetry of Emotional and
Deliberate
Facial
Actions»,
in
Psychophysiology, 18/2 (1981), pp. 101-106. ↵
91)
Joseph C. Hager, Paul Ekman, «The
Asymmetry of Facial Actions Is Inconsistent
with Models of Hemispheric Specialization», in
Psychophysiology, 49 (5) (1980), pp. 11251134. ↵
92)
Sono grato a Ronald van Gelder per il suo
aiuto in questa ricerca inedita. ↵
93)
Paul Ekman, Joseph C. Hager, «Long Distance
Transmission of Facial Affect Signals», in
Ethology and Sociobiology, 1 (197 9), pp. 7 7 82. ↵
94)
Paul Ekman, Wallace V. Friesen, Sonia Ancoli,
«Facial Signs of Emotional Experience», in
Journal of Personality and Social Psychology,
39 (1980), pp. 1125-34. ↵
95)
Il disprezzo può essere mostrato anche da
una versione unilaterale di questa espressione:
un solo angolo della bocca si stringe e si solleva
leggermente. ↵
96)
Le nostre ricerche hanno trovato che pochi
individui ottengono risultati superiori al caso
quando giudicano la sincerità o falsità di una
persona. La maggior parte dei soggetti pensa di
giudicare esattamente, anche se non è vero.
Esistono pochi individui eccezionali capaci di
individuare con molta esattezza la menzogna.
Non so se queste persone hanno un dono
naturale o acquistano tale capacità attraverso
circostanze particolari. Le mie ricerche non si
sono occupate del problema specifico, ma da
quanto ho potuto vedere sembra che questa
competenza non derivi dalla normale
formazione professionale degli operatori della
salute mentale. ↵
97 )
David M.
Hayano,
«Communicative
Competence among Poker Players», in journal of
Communication, 30 (1980), p. 117 . ↵
98)
David M.
Hayano,
«Communicative
Competence among Poker Players», in Journal
of Communication, 30 (1980), p. 115. ↵
99)
William Shakespeare, Otello, Atto V, Scena
II. ↵
100)
Richard J. Heuer Jr, Cognitive Factors in
Deception and Counterdeception. In Strategic
Military Deception, edited by Donald C. Daniel
and Katherine L. Herbig, New York, Pergamon
Press, 1982, p. 5. ↵
101)
Si ricordi che esistono altri indizi di falso in
cui non entrano in gioco le emozioni, come i
lapsus verbali e gestuali, le tirate oratorie
incontrollate. ↵
102)
Ross
Mullaney, The Third Way: The
interview, ciclostilato inedito, 197 9. ↵
103)
Arthur
Schopenhauer, Our Relation to
Others, in The Works of Schopenhauer, edited by
Will Durant, Garden City, N. J., Garden City
Publishing Company, 1933. ↵
104)
Per una descrizione completa dell'uso di
questa tecnica negli interrogatori di polizia con il
poligrafo, si veda il libro di Lykken, Tremor in
the Blood, New York, McGraw-Hill, 1981. ↵
105)
Scientific Validity of Poligraph Testing: A
Research Review and Evaluation. A Technical
Memorandum, Washington D. C, U. S. Congress,
Office of Technology Assessment, OTA-TM-H-15,
novembre 1983. ↵
106)
Richard O. Arther, «How Many Robbers,
Burglars, Sex Criminals is Your Department
Hiring This Year? (Hopefully, Just 10% of Those
Employed!)», in Journal of Polygraph Studies, 6
(197 2). ↵
107 )
David
T.
Lykken,
«Polygraphic
Interrogation», in Nature, 23 febbraio 1984, pp.
681-84. ↵
108)
Leonard Saxe, comunicazione personale. ↵
109)
Gli studiosi che hanno fatto ricerca scientifica
sul poligrafo come rivelatore della menzogna si
contano sulla punta delle dita. ↵
110)
La maggior parte dei miei dati sull'uso del
poligrafo proviene da Scientific Validity of
Polygraph Testing: A Research Review and
Evaluation.
Technical
Memorandum,
Washington D. C, U. S. Congress, Office of
Technology
Assessment,
OTA-TM-H-15,
novembre 1983. Essenzialmente lo stesso
rapporto comparirà sotto il titolo «The Validity
of Polygraph Testing», un articolo di Leonard
Saxe, Denise Dougherty e Theodore Cross,
pubblicato sul numero di gennaio 1984 di
American Psychologist. ↵
111)
David C. Raskin, «The Truth about Lie
Detectors», in The Wharton Magazine, autunno
1980, p. 29. ↵
112)
Rapporto OTA, p. 31. ↵
113)
Benjamin Kleinmuntz e Julian J. Szucko, «On
the Fallibility of Lie Detection», in Lato and
Society Review, 17 (1982), p. 91. ↵
114)
Dalla deposizione di Richard K. Willard, viceprocuratore generale presso il Dipartimento di
giustizia, resa alla Sottocommissione per la
legislazione e la sicurezza nazionale della
Commissione parlamentare sulle Operazioni del
Governo della Camera dei Rappresentanti, 19
ottobre 1983, ciclostilato, p. 22. ↵
115)
Il poligrafo attualmente è usato dai seguenti
Enti federali: Comando investigativo-criminale
dell'Esercito; Comando dei servizi di sicurezza e
controspionaggio
dell'Esercito;
Servizio
investigativo della Marina; Ufficio investigazioni
speciali
dell'Aeronautica;
Divisione
investigativa-criminale del Corpo dei Marines;
National Security Agency (NSA); Servizio
segreto; FBI; Servizio ispettivo postale; Alcohol
Tobacco and Firearms Administration; Drug
Enforcement Administration (DEA); Central
Intelligence Agency (CIA); U.S. Marshalls;
Servizio doganale; Dipartimento del lavoro. ↵
116)
Rapporto dell'OTA, p. 29. ↵
117 )
L'OTA è stato creato nel 197 2 come braccio
analitico del Congresso. ↵
118)
Mi sono basato abbondantemente sul
rapporto dell'OTA per la stesura di questo
capitolo. Sono grato a quattro persone che
hanno letto la prima stesura formulando molti
utili suggerimenti e critiche: Leonard Saxe
(assistente di psicologia all'Università di Boston)
e Denise Dougherty (analista dell'OTA), autori
del rapporto in questione, David T. Lykken
dell'Università del Minnesota e David C. Raskin
dell'Università dello Utah. Denise Dougherty ha
inoltre risposto pazientemente alle mie molte
domande, mentre cercavo di orientarmi fra
tante contraddizioni e problemi. ↵
119)
Marcia Garwood e Norman Ansley, The
Accuracy and Utility of Polygraph Testing,
Dipartimento della difesa, 1983, pagine non
numerate. ↵
120)
Anche certi tipi di processi di pensiero
(concentrarsi
sul
problema,
ricerca
d'informazione, forse la stessa perplessità)
possono produrre alterazioni nell'attività del
sistema nervoso autonomo. Benché in genere
per spiegare l'efficacia del poligrafo nella
rivelazione delle menzogne si insista
sull'attivazione emotiva, sia Raskin che Lykken
sono convinti che i processi di elaborazione
mentale siano almeno altrettanto importanti nel
dar luogo a risposte neurovegetative durante
l'esame con il poligrafo. ↵
121)
David C. Raskin, The Scientific Basis of
Polygraph Techniques and Their Uses in the
Judicial Process, in Reconstructing the Past:
The Role of Psychologists in Criminal Trials,
edited by A. Trankell, Stockholm, Norstedt &
Soners, 1982, p. 325. ↵
122)
David T. Lykken, Tremar in the Blood, New
York, McGraw-Hill, 1981, p. 118. ↵
123)
Benché il ragionamento di Lykken su questo
punto appaia plausibile e mi trovi d'accordo,
Raskin fa notare che i dati in proposito non sono
solidi. In due ricerche si sono introdotti a bella
posta degli errori in sede di pre-test, in modo da
far sapere ai soggetti che la procedura non è
infallibile, ma non si sono avute riduzioni
significative nella capacità di evidenziare la
menzogna durante l'esame vero e proprio che
seguiva. Peraltro, i due lavori citati da Lykken
sono giudicati discutibili da altri. Questo è uno
dei tanti problemi che richiederebbero un
approfondimento delle ricerche. ↵
124)
Raskin afferma che un esaminatore esperto
dovrebbe riuscire a nascondere al sospettato
quale domanda è più importante per l'esito
dell'esame, se quella rilevante o la domanda di
controllo. A me, come ad altri che criticano la
tecnica delle domande di controllo, non sembra
plausibile che la cosa possa sempre riuscire,
specialmente con soggetti intelligenti. ↵
125)
Nella pratica, le domande sia rilevanti che di
controllo sono numerose, ma questo non cambia
la sostanza della mia analisi. ↵
126)
David T. Lykken, comunicazione personale.
↵
127 )
Lykken, Tremor in the Blood, p. 251. ↵
128)
Raskin, Scientific Basis, p. 341. ↵
129)
Pur esistendo migliaia di articoli sul
poligrafo, pochi riguardano lavori di ricerca.
L'OTA ha passato al vaglio 3.200 titoli fra articoli
e libri, dei quali solo 320 riferivano ricerche. La
maggior parte di queste, tuttavia, non
soddisfaceva requisiti minimi di scientificità. A
giudizio dell'OTA, esiste appena una trentina di
lavori corretti sull'esattezza del poligrafo nella
rivelazione delle menzogne. ↵
130)
Rapporto OTA, p. 50. ↵
131)
Raskin, Scientific Basis, p. 330. ↵
132)
Prima di conoscere la mia analisi dell'esame
con il poligrafo, Raskin mi ha detto che a suo
avviso quella che tradisce il bugiardo non è
tanto l'apprensione o la gioia di farla franca,
quanto la risposta a una sfida. Ciò non dimostra
la validità del mio ragionamento, ma è un altro
argomento a favore della mia conclusione che i
delitti simulati non consentono di ottenere un
ventaglio di emozioni sostanzialmente analogo a
quello che abbiamo in casi reali, quando la posta
in gioco è alta sia per l'innocente che per il
colpevole. ↵
133)
Avital Ginton, Netzer Daie, Eitan Elaad,
Gershon Ben-Shakhar, «A Method for Evaluating
the Use of the Polygraph in a Real-Life
Situation», in journal of Applied Psychology, 67
(1982), p. 132. ↵
134)
Rapporto OTA, p. 132. ↵
135)
Questi dati sembrano confermare quanto
affermano gli specialisti del poligrafo, che cioè la
minaccia di essere sottoposti all'esame produce
effettivamente la confessione di alcuni colpevoli.
Peraltro, il rifiuto di accettare l'esame non può
davvero essere prova certa di colpevolezza. ↵
136)
Ginton e coll., Method for Evaluating, p. 136.
↵
137 )
Jack Anderson, in San Francisco Chronicle,
21 maggio 1984. ↵
138)
Ho utilizzato il giudizio dell'OTA su quali delle
ricerche sul campo e quali di quelle di
laboratorio, condotte col metodo delle domande
di controllo, rispondano a requisiti minimi di
scientificità. Lykken mi ha detto che a suo parere
TOTA ha ammesso ricerche sul campo in cui i
campioni sono scelti in maniera selettiva,
cosicché le stime circa le ricerche sul campo
sarebbero errate per eccesso. L'OTA non include
nel sommario conclusivo nessuno dei lavori
condotti col metodo della conoscenza colpevole;
io ne ho invece tenuto conto, in modo che il
lettore possa confrontarne i risultati con quelli
della prova con le domande di controllo. Ho
incluso nei miei dati complessivi tutte le
ricerche elencate nella Tab. 7 del rapporto OTA,
eccettuato l'esperimento di Timm, dove non
partecipavano soggetti innocenti. Del lavoro di
Holmes ho utilizzato solo i dati del primo test e
del lavoro di Bradley e Janisse solo quelli relativi
alla risposta cutaneo-galvanica. Cfr. H. W. Timm,
«Analyzing Deception from Respiration
Patterns», in journal of Political Science and
Administration, 10 (1982), pp. 47 -51; K. D.
Balloun, D. S. Holmes, «Effects of Repeated
Examinations on the Ability to Detect Guilt with
a Polygraphic Examination: A Laboratory
Experiment with a Real Crime», in Journal of
Applied Psychology, 64 (197 9), pp. 316-22; M.
T. Bradley, M. P. Janisse, «Accuracy
Demonstrations, Threat, and the Detection of
Deception: Cardiovascular, Electrodermal, and
Pupillary Measures», in Psychophysiology, 18
(1981), pp. 307 -14. ↵
139)
Rapporto OTA, p. 102. ↵
140)
Dichiarazione di David C. Raskin all'udienza
del 10 settembre 197 8 della Sottocommissione
senatoriale sulla Costituzione (p. 14). ↵
141)
Mancando in proposito ricerche adeguate,
non c'è modo di sapere quale potrebbe essere la
precisione nell'uno e nell'altro caso, ma è poco
probabile che arrivi al 90%. ↵
142)
Ginton e coll., A Method for Evaluating. Cfr.
anche John A. Podlesny e David C. Raskin,
«Effectiveness of Techniques and Physiological
Measures in the Detection of Deception», in
Psychophysiology, 15 (197 8), pp. 344-59, e
Frank S. Horvath, «Verbal and Nonverbal Clues
to Truth and Deception During Polygraph
Examinations», in Journal of Police Science and
Administration, 1 (197 3), pp. 138-52. ↵
143)
David C. Raskin, John C. Kircher, Accuracy of
Diagnosing Truth and Deception from
Behavioral Observation and Polygraph
Recordings, manoscritto in preparazione. ↵
144)
Randall Rothenberg, «Bagging the Big Shot»,
in San Francisco Chronicle, 3 gennaio 1983, pp.
12-15. ↵
145)
Ibidem. ↵
146)
Agness Hankiss, «Games Con Men Play: The
Semiosis of Deceptive Interaction», in Journal of
Communication, 3 (1980), pp. 104-12. ↵
147 )
Donald C. Daniel, Katherine L. Herbig,
Propositions on Military Deception, in Strategic
Military Deception, edited by Daniel and Herbig,
New York, Pergamon Press, 1982, p. 17 . ↵
148)
Devo questo esempio all'appassionante
narrazione di John Phelan nel Cap. 6 del suo
libro Scandali, Scamps and Scoundrels, New
York, Random House, 1982, p. 114. Ho riferito
qui solo parte della storia. Chiunque sia
interessato al problema della menzogna e della
sua rivelazione nelle indagini penali dovrebbe
leggere questo capitolo per imparare qualcosa
su altri trabocchetti in cui si può cadere negli
interrogatori e nei tentativi di accertare la
verità. ↵
149)
Le mie conoscenze in tema di interrogatori le
debbo a Rossiter C. Mullaney, agente dell'FBI dal
1948 al 197 1 e in seguito coordinatore dei
programmi d'investigazione presso l'Accademia
di polizia regionale del Texas (Centro-Nord) fino
al 1981. Si veda il suo articolo, «Wanted!
Performance Standards for Interrogation and
Interview», in The Police Chief, giugno 197 7 , pp.
7 7 -80. ↵
150)
Alexander J. Groth, «On the Intelligence
Aspects of Personal Diplomacy», in Orbis, 7
(1964), p. 848. ↵
151)
Robert Jervis, The Logic of Images in
International Relations, Princeton, N. J.,
Princeton University Press, 197 0, pp. 67 -7 8. ↵
152)
Henry Kissinger, Years of Upheaval, Boston,
Little, Brown & Co., 1982, pp. 214, 485. ↵
153)
Citato da Jervis, The Logic, pp. 69-7 0. ↵
154)
Michael I. Handel, «Intelligence and
Deception», in journal of Strategic Studies, 5
(1982), pp. 123-53. ↵
155)
Barton Whaley, «Covert Rearmament in
Germany,
1919-1939:
Deception
and
Mismanagement»,
in Journal of Strategic
Studies, 5 (1982), pp. 26-27 . ↵
156)
Kandel, Intelligence, p. 129. ↵
157 )
Devo al libro di Telford Taylor, Munich, New
York, Vintage, 1980, i dati relativi a
Chamberlain e Hitler. Sono grato all'autore per
aver controllato l'esattezza della mia
interpretazione e l'uso che ho fatto del suo
materiale. ↵
158)
Questa frase è analizzata
Intelligence Aspects. ↵
da
Groth,
159)
Citato da Groth, Intelligence Aspects. ↵
160)
Telford Taylor, Munich, New York, Vintage,
1980, p. 7 52, ↵
161)
Ivi, p. 821. ↵
162)
Tutti i resoconti dei testimoni dell'epoca
concordano su questo giudizio, salvo
un'eccezione. Nel rapporto di Joseph Kennedy a
Washington sull'incontro con Chamberlain si
legge: «Chamberlain ne uscì con un'intensa
antipatia per Hitler [...] è crudele, prepotente, ha
uno sguardo duro e [...] sarebbe totalmente
sfrenato in tutti i suoi scopi e metodi» (Taylor,
Munich, p. 7 52). ↵
163)
Groth ha notato questo problema, anche se
non spiega come o perché entrerebbe in gioco:
«Le impressioni personali tenderanno ad essere
erronee soprattutto in proporzione alla distanza
politica, ideologica, sociale e culturale fra i
partecipanti» (On the Intelligence Aspects of
Personal Diplomacy, p. 848). ↵
164)
Telford Taylor, Munich, New York, Vintage,
1980, p. 629. ↵
165)
Sono grato a Graham Allison per aver
verificato l'esattezza della mia interpretazione
del colloquio fra Kennedy e Gromyko. Il mio
resoconto è stato inoltre controllato da una
persona che faceva parte dell'amministrazione
Kennedy e all'epoca era a stretto contatto con
tutti i protagonisti dell'episodio. ↵
166)
Graham T. Allison, Essence of Decisioni
Explaining the Cuban Missile Crisis, Boston,
Little, Brown & Co., 197 1, p. 193. ↵
167 )
Arthur M. Schlesinger Jr, A Thousand Days:
John F. Kennedy in the White House, New York,
Fawcet Premier Books, 1965, p. 7 34. ↵
168)
Theodore C. Sorensen, Kennedy, New York,
Harper & Row, 1965, p. 67 3. ↵
169)
Robert E. Kennedy, Thirteen Days: A Memoir
of the Cuban Missile Crisis, New York, W. W.
Norton, 197 1, p. 5. ↵
17 0)
Roger Hilsman, To Move a Nation, Garden
City, N. Y., Doubleday & Co., 1967 , p. 98. ↵
17 1)
David Detzer, The Brink, New York, Thomas
Crowell, 197 9. ↵
17 2)
Sorensen, Kennedy, p. 690. ↵
17 3)
Su questo punto i vari resoconti sono in
disaccordo. Mentre Sorensen riferisce che
Kennedy non aveva dubbi sulla necessità di
ingannare Gromyko, Elie Abel (The Missile
Crisis, New York, Bantam Books, 1966, p. 63)
scrive che subito dopo Kennedy chiese a Rusk e
Thompson se avesse commesso un errore non
rivelando a Gromyko la verità. ↵
17 4)
Detzer, Brink, p. 142. ↵
17 5)
Robert E. Kennedy, Thirteen Days, p. 18. ↵
17 6)
Elie Abel, The Missile Crisis, Bantam Books,
New York, 1966, p. 63. ↵
17 7 )
Sorensen, Kennedy, p. 690. ↵
17 8)
Abel, Missile Crisis, p. 63. ↵
17 9)
Detzer, Brinnk, p. 143. ↵
180)
Kennedy, Thirteen Days, p. 20. ↵
181)
Detzer, Brink, p. 143. ↵
182)
Ivi, p. 144. ↵
183)
Allison, Essence, p. 135. ↵
184)
Allison, Essence, p. 134. ↵
185)
Daniel e Herbig, Propositions, p. 13. ↵
186)
Herbert Goldhainer, citato da Daniel e
Herbig, cit. ↵
187 )
Barton Whaley, citato da Daniel e Herbig, cit.
↵
188)
Maureen O'Sullivan, Measuring the Ability to
Recognize Facial Expressions of Emotion, in
Emotion in the Human Face, edited by Paul
Ekman, New York, Cambridge University Press,
1982. ↵
189)
Groth, Intelligence Aspects, p. 847 . ↵
190)
Jervis, Logic, p. 33. ↵
191)
Winston Churchill, The Hinge of Fate, Boston,
Houghton Mifflin, 1950, pp. 481, 493; citato da
Groth, Intelligence Aspects, p. 841. ↵
192)
Lewis Broad, The War that Churchill Waged,
London, Hutchinson & Co., 1960, p. 356; citato
da Groth, Intelligence Aspects, p. 846. ↵
193)
Broad, The War, p. 358; citato da Groth,
Intelligence Aspects, p. 846. ↵
194)
Milovan Gilas, Conversations with Stalin,
New York, Harcourt, Brace, Jovanovich, 1962,
p. 7 3; citato da Groth, Intelligence Aspects, p.
846. ↵
195)
Benché nessuno sia disposto ad ammettere di
essere al lavoro su questo problema, ho avuto
uno scambio di lettere con persone che
lavoravano per il Dipartimento della difesa e
alcune conversazioni telefoniche con la CIA, da
cui risulta che c'è chi studia l'uso degli indizi di
menzogna nel controspionaggio e in diplomazia.
L'unica ricerca non coperta dal segreto militare
che ho avuto modo di vedere in questo campo,
finanziata dal Pentagono, era piuttosto
disastrosa e non rispondeva ai normali requisiti
scientifici. ↵
196)
Per gli argomenti contro l'esplicita
falsificazione, si veda Sisela Bok, Lying: Moral
Choice in Public and Private Life, New York,
Pantheon, 197 8. Per un'argomentazione a favore
della semplice dissimulazione nella vita privata,
non in quella pubblica, si veda Bok, Secrets, New
York, Pantheon, 1982. Per la posizione opposta,
che difende le virtù della menzogna, si veda
Robert L. Walk ed Arthur Henley, The Right to
Lie: A Psychological Guide to the Uses of Deceit
in Everyday Life, New York, Peter H. Wyden,
197 0. ↵
197 )
Sigmund Freud, Frammento dell'analisi di un
caso d'isteria, in Collected Papers, vol. 3, New
York, Basic Books, 1959, p. 94. ↵
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