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«Un organismo scientificamente e praticamente perfetto»
A R G O M E N T I «Un organismo
scientificamente e
praticamente perfetto»
L’ospedale moderno e l’infermiera nel discorso
medico del primo Novecento
Olivia Fiorilli
Al principio del XX secolo, in Italia, i medici erano impegnati in una battaglia per
consolidare la propria presa sul corpo – malato, ma anche sano – e per edificare barriere
certe intorno a un sapere medico in via di ufficializzazione. Questa battaglia aveva molteplici fronti e due obiettivi principali: da una parte, consolidare il monopolio terapeutico della medicina ufficiale, dall’altra, estendere l’ambito di pertinenza di quest’ultima1.
Nel primo caso il principale terreno di contesa era la regolazione dell’esercizio della
medicina e il controllo sul «mercato della salute». Nel secondo caso si trattava invece di
contrattare con lo stato e la società il riconoscimento della medicina come sapere fondamentale per l’amministrazione e la gestione razionale e ordinata del corpo sociale, e
dei medici come unici tecnici2 adibiti all’amministrazione dei processi vitali della popolazione, nuova posta in gioco del potere3. Gli obiettivi di questa battaglia erano dunque
tanto il rafforzamento della presa sul corpo individuale – dal quale «ciarlatani», «mammane» e «praticoni» dovevano essere allontanati – quanto la conquista del corpo sociale.
Nel contesto appena delineato, l’ospedale era un’istituzione fondamentale per il
raggiungimento di entrambi gli scopi. Esso rappresentava il luogo in cui la medicina
A. Lonni, I professionisti della salute. Monopolio professionale e nascita dell’ordine dei medici XIX e XX
secolo, Milano, Angeli, 1994; T. Detti, Salute, società e stato nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1993; D. Vicarelli, Donne di medicina, il percorso professionale delle donne medico in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008;
Ead., Alle radici della politica sanitaria in Italia: società e salute da Crispi al fascismo, Bologna, Il Mulino,
1997; P. Frascani, I medici dall’Unità al fascismo, in Storia d’Italia, I professionisti, Annali 10, a cura di M.
Malatesta, Torino, Einaudi, 1996.
2
G. Panseri, Il medico: un intellettuale scientifico nell’Ottocento, in Storia d’Italia, Intellettuali e potere, Annali 4, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981.
3
Il rimando è ovviamente al concetto di biopolitica per come è stato inizialmente sviluppato da M.
Foucault nei due testi chiave Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998 [Paris, 1997] e La volontà
di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2010 [Paris, 1976]. La categoria di biopolitica ha
fatto molta fatica a entrare nella storiografia italiana. Si veda E. Betta (a cura di), Biopolitica e biopotere,
«Contemporanea», 2009, 3.
1
Contemporanea / a. XVIII, n. 2, aprile-giugno 2015
221
222
doveva manifestare i propri progressi4 e dove i medici potevano garantirsi formazione clinica e prestigio da spendere sul mercato della salute. Per servire questo
fine, però, l’ospedale doveva essere letteralmente «conquistato» dalla medicina e dai
suoi cultori. Esso infatti era ancora al principio del secolo, come si vedrà, un’entità
ibrida, non pienamente medicalizzata. Al suo interno i medici avevano un ruolo di
crescente importanza, ma non dominante. Questo percorso di conquista dello spazio
ospedaliero era inscindibilmente legato alla formulazione di un progetto utopico
di «ospedale moderno», che i sanitari avevano iniziato a delineare sin dagli ultimi
decenni del XIX secolo. Il vecchio «ospedale ricovero», rifugio caritatevole di una
povera umanità che tra le sue mura andava ad aspettare la morte – sostenevano i
medici – doveva finalmente lasciare il posto a una moderna «fabbrica della salute»,
dove «l’organismo umano colpito da avaria» potesse essere «restaurato e rimesso in
efficienza»5, una macchina per guarire atta a restituire alla collettività il «capitale
umano» sottrattogli dalla malattia dopo averlo opportunamente curato e «sanitarizzato». L’ospedale doveva dunque diventare il ganglio fondamentale di un sistema6 di
ottimizzazione delle risorse biologiche della nazione7. Perché la «fabbrica della salute» potesse sorgere, sostenevano ancora i sanitari, lo spazio ospedaliero e la sua organizzazione dovevano essere radicalmente trasformati. La riforma dell’assistenza
infermieristica era, non a caso, «un punto di passaggio obbligato della costruzione
dell’ordine clinico»8. Solo la creazione di un’assistenza «moderna», «gradino – sia
pure l’ultimo – della ben connessa scala al cui vertice splende il fulgore della scienza
medica»9, avrebbe infatti potuto valorizzare i «progressi della medicina» e dei suoi
cultori, permettendo l’avvento dell’«ospedale moderno» vagheggiato dai medici e il
pieno successo di questi ultimi.
È nell’ambito di una riflessione sulla riforma dell’assistenza in vista della razionalizzazione dell’ospedale che i medici arrivarono a concepire la figura dell’«infermiera
moderna», donna di «civile condizione», ordinata, pulita, efficiente, disciplinata,
Per un’archeologia del rapporto tra ospedale e nascita della medicina moderna il rimando canonico è
a M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Torino, Einaudi, 1998 [Paris,
1963].
5
L’organizzazione ospitaliera, «Il Policlinico», 16 dicembre 1929, p. 1851.
6
M. Diani, Antinomie e ambiguità nel controllo sociale: la medicalizzazione dello spazio urbano, «Storia
urbana», 13, 1980.
7
Come scriveva il direttore del Santa Maria Nuova di Firenze nel 1922, «i vantaggi che l’assistenza
ospitaliera sola può dare debbono ancora essere estesi, divenire più pronti e sicuri, recando alla vita sociale
quei benefici che derivano da perfetta organizzazione dei servizi sanitari, alla produzione quell’incremento
che solo possono dare classi di lavoratori sani, forti, atti a produrre col minimo di perdite il miglior
rendimento», L. Baldassarri, La funzione degli ospedali nei tempi moderni, «Ospedale maggiore», 1922, 1,
p. 30.
8
P. Frascani, Ospedale e società in età liberale, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 210.
9
E. Ronzani, V. Ascoli, Relazione di minoranza della commissione per la riforma dell’assistenza
infermieristica, p. 2, Archivio centrale dello stato [d’ora in poi: Acs], ministero degli Interni, Direzione
generale di sanità (1910-20), b. 601.
4
esperta di igiene e formata in apposite scuole. Nel primo dopoguerra questa figura,
ispirata al modello della «lady nurse» britannica «stile Nightingale»10, arrivò a incarnare per i medici lo strumento chiave della modernizzazione dell’ospedale. Ingrediente immancabile di ogni programma di riforma ospedaliera, negli anni seguenti il
conflitto l’infermiera moderna divenne immagine del processo di «razionalizzazione»
che doveva rivoluzionare l’ospedale antico trasformandolo nell’«organismo scientificamente e praticamente perfetto»11 che essi sognavano.
In questo articolo si analizzerà il rapporto tra l’utopia dell’ospedale modello e il
progetto di «modernizzazione dell’assistenza» nei discorsi dei medici ospedalieri
nell’arco del primo trentennio del Novecento. Nelle pagine che seguono, si delineeranno in primo luogo i tratti fondamentali dell’utopia dell’ospedale moderno, così
come essa venne concepita dai sanitari, e il ruolo strutturale che vi doveva rivestire
il servizio infermieristico; in seconda battuta si seguirà il processo che, nel periodo
considerato, ha portato i medici a concepire una ben precisa idea di «razionalizzazione dell’assistenza», centrata sulla figura ideale dell’infermiera moderna. Se nel
corpo dell’infermiera i medici arrivarono a mappare il nuovo ordine clinico che vagheggiavano, questa figura può rappresentare una lente importante, ma certo non
l’unica possibile, attraverso cui guardare all’utopia dell’ospedale moderno. Tale utopia, sebbene non pienamente realizzata, ha contribuito a costruire la cornice di senso
dentro la quale potevano essere inquadrate le trasformazioni concrete che stavano
modificando lo spazio ospedaliero in quel periodo. Queste ultime sono state finora
l’oggetto principale della storiografia dedicata all’istituzione ospedaliera in Italia12.
I testi di Florence Nightingale avevano iniziato a circolare in italiano già nella seconda metà del XIX
secolo. Nel 1860 Sabilla Novello aveva tradotto Notes on nursing con il titolo Cenni sull’assistenza degli
ammalati: quello che è assistenza, quello che non lo è (Firenze, Goodban, 1860). Nel 1912 Adelaide Colombo
aveva tradotto il libro della Matron del London Hospital, Eva Luckes, epigona di Nightingale, con il titolo
La donna come infermiera. Tra le biografie della «signora della lampada» uscite in Italia, si annovera quella
di Laura Orvieto, Sono la tua serva e tu sei il mio signore: così visse Fiorenza Nightingale, che – pubblicato
per la prima volta nel 1920 – ebbe numerose ristampe. Nel 1913 Bice Cammeo aveva tradotto con il titolo
Florence Nightingale fondatrice delle scuole infermiere, profilo la biografia scritta da Sarah Tooley. Sul
rapporto tra Florence Nightingale e alcune riformatrici dell’assistenza italiane o operanti in Italia si veda
L. Mc Donald (ed.), Florence Nightingale, Extending Nursing. Collected Works of Florence Nightingale,
Waterloo, WLU Press, 2009, pp. 480 ss.
11
La scuola infermiere nell’ospedale Ciceri, «Ospedale maggiore», 1915, 6, p. 425.
12
Si veda a titolo di esempio P. Frascani, Ospedale e società in età liberale, cit.; Id., Ospedali, malati e medici
dal Risorgimento all’età giolittiana, in Storia d’Italia. Malattia e medicina, Annali 7, a cura di F. Della
Peruta, Torino, Einaudi, 1984. La lunga tradizione di studi del Centro italiano di storia ospedaliera (Ciso)
ha inoltre prodotto numerosi contributi, tra i quali: Atti del Primo Congresso italiano di storia ospitaliera:
Reggio Emilia, 14-17 giugno 1956, Reggio Emilia, Ciso, 1957; Atti del primo congresso europeo di storia
ospitaliera, 6-12 giugno 1960, Reggio Emilia, Ciso, 1962; Atti del secondo congresso italiano di storia
ospitaliera: Torino, St. Vincent, 7-9 giugno 1961, Reggio Emilia, Ciso, 1962. C’è poi un filone di storiografia
concentrato su singole istituzioni ospedalieri che ha alle spalle una lunga genealogia. Per un esempio più
recente si veda E. Ghidetti, E. Diana (a cura di), Settecento anni di storia. San Giovanni di Dio: un ospedale
da non dimenticare, Firenze, Edizioni Polistampa, 2012.
10
223
Minore attenzione13 hanno invece incontrato le idee, i progetti, i sogni e le fantasie che
hanno investito e dato significato – e a loro modo trasformato – lo spazio ospedaliero
al principio del Novecento. In questo articolo, al contrario, si lasceranno sullo sfondo
le concrete trasformazioni che stavano attraversando l’ospedale in quel periodo per
concentrarsi proprio sui discorsi e sulle idee dei medici, categoria professionale
cruciale all’interno dell’universo ospedaliero14. Guardare all’utopia dell’ospedale
modello delineata nei discorsi dei medici anche attraverso il prisma dell’assistenza
infermieristica, e in particolare della figura dell’«infermiera moderna», offrirà inoltre una prospettiva poco esplorata dalla storiografia italiana dedicata alla sanità e
alla medicina15. Se quest’ultima si è in generale ben poco interrogata sui motivi che
hanno spinto i medici ospedalieri ad invocare la femminilizzazione dell’assistenza
infermieristica, ancor meno essa ha analizzato il ruolo di questa richiesta all’interno
del discorso sull’ospedale «modello». Nelle prossime pagine si tenterà invece di mostrare che l’auspicata femminilizzazione dell’assistenza, lungi dall’essere puramente
accessoria rispetto al progetto di razionalizzazione dell’ospedale, doveva rivestire
una funzione strutturale nell’economia della «fabbrica della salute», e merita dunque
di essere studiata con maggior attenzione.
224
Parziali eccezioni a questa affermazione sono, ciascuno a suo modo, i lavori già citati di P. Frascani
e quelli di C. Pancino, Questione ospedaliera e igiene nella seconda metà dell’ottocento, in M.L. Betri, E.
Bressan (a cura di), Gli ospedali in area padana tra Settecento e Novecento, Milano, Angeli, 1992 e A. Scotti,
Malati e strutture ospedaliere dall’età dei lumi all’unità, in F. Della Peruta (a cura di), Malattia e medicina,
cit., dedicati questi ultimi al XIX secolo.
14
Ovviamente quella dei medici non era l’unica categoria all’interno dell’istituzione ospedaliera né la
sola a influire sulle sue trasformazioni. Queste erano anche determinate dall’interazione tra diversi attori
sociali presenti sulla (o intorno alla) scena ospedaliera e i loro rispettivi discorsi: in primis il personale
infermieristico che lavorava negli ospedali e le «infermiere moderne» che aspiravano a lavorarvi, o le suore.
Ma anche i riformatori e le riformatrici sociali o il movimento femminile, impegnato nella rigenerazione
della società e delle sue istituzioni. In questo saggio però si approfondirà solamente il discorso dei medici
sull’ospedale e sulla modernizzazione dell’assistenza. Per i processi di ridefinizione del ruolo del personale
di assistenza e i discorsi da questo prodotti si rimanda alla bibliografia che verrà fornita nel corso del testo.
Sui discorsi dei vari attori sociali interessati alla questione della riforma dell’assistenza mi permetto di
rimandare a O. Fiorilli, La costruzione dell’infermiera moderna: genere, biopolitica e immaginario nel primo
trentennio del Novecento, Tesi di dottorato, Università di Roma la Sapienza, a.a. 2013-2014.
15
Nella letteratura internazionale invece si contano alcune eccezioni, la più notevole delle quali è il lavoro
di A. Bashford, Purity and Pollution. Gender, Embodiment and Victorian Medicine, New York, Saint Martin
Press, 1998, che analizza il modo in cui le presunte doti della femminilità borghese di cui la «lady nurse»
modello Nightingale doveva essere il prototipo vennero messe a frutto nel processo di sanitarizzazione e
«modernizzazione dell’ospedale». La divisione sessuale del lavoro all’interno dello spazio ospedaliero è
invece stata attivamente studiata dalla sociologia: ne sono esempi E. Riska, C. Wegar (eds), Gender, Work
and Medicine. Women and the Medical Division of Labour, London, Sage, 1993; S. Porter, Women in a
Women’s Job: The Gendered Experience of Nurses, «Sociology of health and illness», 14, 2008; K. Davies, The
Body and Doing Gender: The Relations between Doctor and Nurses in Hospital Work, «Sociology of health and
illness», 7, 2003. Tuttavia questo tipo di letteratura si è soffermata più sulle dinamiche di genere all’interno
del campo di forze che compone l’ospedale che sul ruolo attribuito alla femminilizzazione dell’assistenza
nella costruzione dell’ospedale stesso. D’altra parte il caso italiano è in questo senso emblematico perché,
a differenza di altri contesti, come ad esempio quello anglosassone, l’assistenza infermieristica non era una
«professione femminile» al principio del secolo.
13
Prima di procedere all’analisi di alcuni dei testi nei quali prese corpo il discorso dei
medici sull’ospedale moderno e sull’assistenza infermieristica, sarà bene tratteggiare
rapidamente un quadro della situazione degli ospedali in Italia a inizio Novecento, su
cui tale discorso si innestava.
L’ospedale si trasforma
Al principio del XX secolo il nosocomio che i medici avrebbero voluto trasformare
in una moderna «fabbrica della salute» era un’istituzione in transizione16. L’«ospedale
antico», «rifugio» ultimo di un’umanità povera e derelitta, denigrato dai riformatori
sin dagli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento17, stava attraversando alcune importantissime trasformazioni18. Sebbene al termine del XIX secolo esso fosse ancora per
molti versi un’istituzione la cui fisionomia non si distingueva nettamente da quella
delle Opere Pie, che costituivano l’universo della carità organizzata, alcuni chiari segnali di cambiamento erano visibili: il vecchio ospedale ricovero stava diventando un
luogo «produttivo», mentre lo spazio ospedaliero si stava «medicalizzando».
A cavallo tra i due secoli il numero delle persone che usufruivano dell’istituzione
aveva iniziato a crescere considerevolmente, a dimostrazione della nuova fiducia
che la popolazione sembrava riporre nelle sue potenzialità terapeutiche19. Il flusso di
È qui necessario chiarire che la medicalizzazione dell’ospedale nel contesto europeo e la sua trasformazione
in un’istituzione medica è un processo di lungo periodo e per nulla drastico (per un’affascinante analisi
della storia dell’ospedale attraverso i secoli, con una particolare enfasi sull’esperienza delle persone
ospedalizzate, si veda G. Risse, Mending Bodies, Saving Souls: A History of Hospitals, New York, Oxford
University Press, 1999). L’inizio di questo processo viene tradizionalmente individuato alla fine del XVIII
secolo, ma diversi studi hanno complicato anche la centralità di questo snodo temporale, sia anticipando
l’inizio del suddetto processo (qualcuno si è spinto persino a individuare negli ospedali bizantini gli
antenati dell’ospedale moderno medicalizzato: cfr. T. Miller, The Birth of the Hospital in the Byzantine
Empire, Baltimora, John Hopkins University Press, 1997), sia, al contrario, sottolineandone la lentezza e
l’incompiutezza almeno per tutto l’arco del XIX secolo (O. Faure, Genèse de l’hopital moderne, les hospices
civiles de Lyon de 1802 à 1845, Lyon, Éditions du C.N.R.S. et de Presses Universitaires de Lyon, 1981).
Importanti storici della sanità in Italia come Giorgio Cosmacini e Paolo Frascani sono tuttavia concordi
nell’individuare al principio del XX secolo un momento di passaggio di questo processo di lungo periodo.
17
Su questo punto si veda C. Pancino, Questione ospedaliera e igiene nella seconda metà dell’ottocento, in
M.L. Betri, E. Bressan (a cura di), Gli ospedali in area padana, cit.
18
Nel 1885 il ministero degli Interni aveva censito 1.209 ospedali tra generici e specializzati, riservati
a malati acuti o cronici: cfr. M. Vaglini, C. Gennai, Storia delle istituzioni sanitarie in Italia dalla fine
del ’700 ai giorni nostri, Pisa, Primula, 2002. Nei primi decenni del Novecento il numero degli ospedali
crebbe, anche se la rilevazione esatta del loro numero è falsata dal cambiamento dei criteri statistici che
rende difficile comparare i dati di fine Ottocento con quelli degli anni Trenta. Su questo punto si veda
F. Savorgnan, Statistica degli ospedali e degli istituti pubblici e privati di assistenza sanitaria ospitaliera
nell’anno 1932-XI, Roma, Istituto tipografico dello stato, 1932.
19
Tra 1885 e 1902 il numero di malati annuale per ospedale era aumentato del 50%, passando da più di
345 mila a più di 503 mila: P. Frascani, Ospedale e società, cit., p. 169. Si consideri che nel XIX secolo, e
ancora per molti versi al principio del XX, nell’immaginario collettivo l’ospedale era un luogo piuttosto
spaventoso, dove si andava per morire. Si veda L. Clerici, Oltre i confini del realismo: la rappresentazione
dell’ospedale nella narrativa italiana ottocentesca, in M.L. Betri, E. Bressan (a cura di), Gli ospedali in area
padana, cit.
16
225
226
ammissioni non era più composto esclusivamente da poveri: con l’inizio del secolo
negli ospedali entrarono anche i dozzinanti, ossia i degenti a pagamento, che sarebbero aumentati esponenzialmente nel dopoguerra, anche per supplire alle enormi
difficoltà economiche incontrate dagli stabilimenti ospedalieri in quel periodo20. Le
trasformazioni dell’ospedale erano anche frutto dei mutamenti che si stavano verificando ormai da tempo nel campo della scienza e della pratica medica, nonché
degli sviluppi tecnologici che a cavallo del secolo stavano profondamente modificando quest’ultima. L’avvento della batteriologia, la diffusione di metodi di asepsi e
antisepsi, lo sviluppo degli anestetici – che favorivano i successi della chirurgia –, la
progressiva sostituzione della farmacologia galenica con farmaci sintetizzati chimicamente, la nascita di nuove tecniche diagnostiche come la radiologia e l’espansione
della medicina di laboratorio – che valorizzavano la rilevazione dei sintomi «oggettivamente misurabili» –, lo sviluppo di nuovi strumenti che permettevano allo sguardo
di penetrare nelle profondità del corpo: si tratta di alcune delle trasformazioni che dal
secolo precedente avevano iniziato a sconvolgere la scienza e la pratica medica21 e
che ovviamente influivano sui discorsi dei sanitari che saranno analizzati più avanti.
Tali trasformazioni, mano a mano che trovavano concreta realizzazione, non influivano solamente sul rapporto tra paziente e medico e sullo status di quest’ultimo,
ma anche sull’organizzazione dello spazio ospedaliero, sulle sue necessità e sulle sue
possibilità, nonché sulla distribuzione dei compiti al suo interno22. La batteriologia, ad
esempio, conferiva un nuovo valore scientifico alle pratiche di pulizia e di riproduzione dell’istituzione; diverse tecniche diagnostiche e modalità di somministrazione
dei medicamenti aprivano la strada alla possibilità di cambiare la pratica terapeutica
e il ruolo del medico; nuovi orientamenti della medicina favorivano lo sviluppo di
laboratori nei grandi ospedali; nuove esigenze di osservazione del corpo malato rendevano più pressante la necessità di istruire il personale di assistenza e di disciplinare
il comportamento dei ricoverati. Non a caso i nuovi regolamenti sanitari approvati a
partire dagli ultimi decenni del XIX secolo tendevano a organizzare lo spazio ospedaliero in modo più preciso – regolando la disposizione dei reparti, dei letti, dei pazienti
L’aumento era anche dovuto alle difficoltà finanziarie degli ospedali in questo periodo. Su questi temi si
veda D. Preti, La questione ospedaliera nell’Italia fascista, in F. Della Peruta (a cura di), Malattia e medicina,
cit.
21
G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, dalla peste nera ai nostri giorni, RomaBari, Laterza, 2010; Id., La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Roma-Bari, Laterza, 2003; Id., Medicina,
ideologie, filosofie nel pensiero dei clinici tra Ottocento e Novecento, in Storia d’Italia. Intellettuali e potere,
cit.; M. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale. Dall’età romantica alla medicina moderna, vol. 3,
Roma-Bari, Laterza, 1998; V.A. Sironi, Le officine della salute, storia del farmaco e della sua industria in
Italia dall’Unità al Mercato Unico Europeo (1861-1992), Roma-Bari, Laterza, 1992.
22
Diverse storiche del nursing, ad esempio, hanno insistito sul nesso fra trasformazione della medicina
ed emergenza del «modern nursing». Si veda P. D’Antonio, American Nursing: A History of Knowledge,
Authority and the Meaning of Work, Baltimora, John Hopkins University Press, 2010; C. Helmstadter, J.
Godden, Nursing before Nightingale 1815-1899, London, Ashgate, 2010.
20
che li dovevano occupare – e a scandirne i ritmi con precisione, nonché a disciplinare
in modo più severo il comportamento dei ricoverati. Inoltre, sin dall’ultimo decennio
del XIX secolo, lo stato aveva iniziato a legiferare per conferire all’ospedale il ruolo che
siamo oggi abituati ad attribuirgli. Tuttavia la sovraiscrizione della funzione terapeutico-assistenziale sull’impalcatura caritatevole dell’istituzione nosocomiale attraverso
l’obbligo di ricovero per i malati poveri, imposto dalla legge crispina del 189023, a cui
avrebbero fatto seguito nel dopoguerra la trasformazione del suo statuto giuridico e
l’aumento del controllo statale e provinciale, non bastò a modificare radicalmente né
la natura «ibrida» né l’organizzazione dell’«ospedale ricovero»24.
Non a caso molte delle caratteristiche del nosocomio ottocentesco sopravvivevano
ancora alla soglia del nuovo secolo. In primo luogo, sebbene si stesse avviando a
diventare un’istituzione medicalizzata e «produttiva», l’ospedale aveva ancora un
aspetto tutt’altro che rispondente a quello razionale, ordinato e funzionale della
«macchina per guarire» sognata dai medici. Le sale erano abbastanza liberamente
attraversate da parenti e conoscenti dei ricoverati, ma anche da dame visitatrici e
rappresentanti di associazioni filantropiche. I pazienti godevano di una discreta libertà di movimento nel perimetro ospedaliero, anche se la loro possibilità di spostarsi
autonomamente era teoricamente limitata dai regolamenti ospedalieri. Il ruolo dei
medici era precario – basti pensare che nella maggior parte dei casi non erano stipendiati dall’ospedale, ma ricevevano solo un’indennità25 – e la divisione del lavoro
tra le figure che popolavano gli ospedali era ancora piuttosto incerta.
Questo è evidente se prendiamo il caso delle mansioni che ben presto sarebbero
divenute di pertinenza esclusiva del personale infermieristico. Ancora ben oltre il termine del XIX secolo le stesse funzioni – ad esempio la somministrazione di medicamenti – potevano essere svolte in diversi ospedali da giovani medici in formazione26,
La legge crispina del 1890 obbligava i nosocomi a ricoverare d’urgenza i malati poveri a seguito di
un’ordinanza di sindaco o prefetto a spese del comune di appartenenza del paziente (domicilio di soccorso).
24
Con il decreto 2.841 del 1923, poi confermato dal testo unico delle leggi sanitarie del 1934, gli Istituti
pubblici di beneficienza si trasformavano in Istituti pubblici di assistenza e beneficienza (Ipab): cfr. S.
Franco, Legislazione e politica sanitaria del fascismo, Roma, Apes, 2001. Per un quadro diacronico della
situazione istituzionale degli ospedali si vedano E. Bressan, Le istituzioni assistenziali fra antico regime e
società contemporanea, in M.L. Betri, E. Bressan (a cura di), Cura e intervento sociale nel Cremonese tra
Otto e Novecento, cent’anni dell’Istituto ospedaliero di Sospiro (1897-1997), Roma, Angeli, 2001; P. Cavalieri,
Assetto istituzionale degli ospedali e orientamenti giurisprudenziali in materia dal 1890 all’avvento del
fascismo, in M.L. Betri, E. Bressan (a cura di), Gli ospedali in area padana, cit.; F. Della Peruta, Salute
pubblica e legislazione sanitaria dall’Unità a Crispi, «Studi storici», 1980, 4; Id., Società e classi popolari
nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 2008; M. Soresina, I medici tra Stato e società, cit., p. 160. Per le
trasformazioni introdotte nello status degli ospedali durante il fascismo si veda D. Preti, La modernizzazione
corporativa (1922-1940). Economia, salute pubblica, istituzioni e professioni sanitarie, Milano, Angeli, 1987.
25
Dopo la Grande guerra una parziale soluzione a questo problema fu trovata attraverso la partecipazione
dei medici agli utili prodotti dal crescente numero di dozzinanti: G. Cosmacini, Storia della medicina e
della sanità in Italia, cit., p. 414. I medici cominceranno a essere regolarmente stipendiati dagli ospedali
solo nel 1938.
26
Ad esempio, nel 1918, la Commissione per la riforma dell’assistenza rilevava che nell’Ospedale
Mauriziano Umberto I di Torino «non si sente il bisogno di elevare il livello del personale perché certe
23
227
228
da suore, oppure da infermieri o infermiere. Questi ultimi, negli ospedali più piccoli,
potevano a propria volta dover svolgere compiti che nei nosocomi più grandi erano
affidati al personale ausiliario: non a caso tra le richieste della Federazione italiana
degli infermieri e delle infermiere di ospedale e di manicomio27, ma anche tra quelle
dei medici e delle filantrope impegnate nella riforma dell’assistenza infermieristica,
c’era quella di distinguere nettamente personale di assistenza diretto e ausiliario. In
generale, però, negli ospedali più grandi il personale ausiliario – che spesso si distingueva da quello di assistenza diretta solo per la minore anzianità di servizio – svolgeva i lavori di pulizia e di trasporto della biancheria e delle masserizie28.
Quella che invece veniva definita «assistenza diretta» era più comunemente divisa tra suore, infermieri e infermiere. Le prime, presenti in moltissimi ospedali del
Regno29, supervisionavano il buon andamento dei servizi e svolgevano il ruolo di
caposala, seguivano il medico nella visita e guidavano la distribuzione di vitto e medicamenti, ma spesso le regole degli ordini a cui appartenevano vietavano loro di
assistere gli uomini e di svolgere alcune mansioni legate all’assistenza delle donne.
Inoltre, la dipendenza delle suore dai rispettivi ordini diminuiva il controllo sul loro
operato da parte dei sanitari, come questi lamentavano spesso30. I compiti più strettamente legati all’assistenza diretta venivano invece per lo più svolti da infermieri e infermiere laici31, rispettivamente impiegati al principio del secolo nei reparti maschili
mansioni sono svolte da allievi del 5 e 6 anno». Cfr. Ospedale Mauriziano Umberto I, Torino, 30 agosto 1918,
Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità (1910-20), b. 598.
27
Sulla Federazione si veda N. Ramacciati, Infermieri nello Spedale grande di Perugia: contesti generali
e profili generali dall’Unità d’Italia al fascismo, Perugia, Morlacchi, 2003; V. Dimonte, Da servente a
infermiere: una storia dell’assistenza infermieristica ospedaliera in Italia, Torino, Cespi, 2007.
28
Queste informazioni si possono dedurre dai dati raccolti dalla Commissione istituita nel 1918 dal
governo per studiare la riforma dell’assistenza infermieristica (ci si tornerà più avanti). In particolare si
veda il Questionario relativo al personale di assistenza immediata ed ausiliaria negli ospedali comuni, pp.
17-18, Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità (1910-20), b. 601. Tali dati si riferivano a 39
ospedali del Regno di medie, grandi e piccole dimensioni, scelti come campione per l’indagine per via della
loro rappresentatività: il periodo di tempo coperto dal questionario era il biennio 1915-1917.
29
Secondo i dati raccolti dal ministero degli Interni in un’inchiesta del 1902, nei 1.241 istituti di assistenza
attivi a quella data – dei quali 429 avevano personale interamente laico, 696 misto e 112 interamente
religioso – lavoravano 4.243 suore: cfr. A. Celli, La donna infermiera in Italia, Roma, Tipografia nazionale
di G. Bertero E.C., 1908, pp. 3-4. Sul lavoro delle suore negli ospedali si veda G. Rocca, La religiosa
ospedaliera tra Otto e Novecento, in M.L. Betri, E. Bressan (a cura di), Gli ospedali di area padana, cit., p.
562 e A. Bassani, Le dorate di Vicenza e l’assistenza ospedaliera nel Veneto, in S. Bartoloni (a cura di), Per
le strade del mondo, cit.
30
Riassunto degli argomenti relativi alle riforme pel riordinamento dell’assistenza immediata agli infermi
trattati nei Congressi dell’Associazione Nazionale fra i Medici Ospedalieri e dei Direttori Sanitari degli
Ospedali, p. 12, Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità (1910-20), b. 601.
31
Secondo la già citata inchiesta ministeriale nel 1902 negli ospedali del Regno lavorano 8.380 infermieri e
infermiere, 4.613 uomini e 3.767 donne. Il personale religioso era composto da 70 religiosi e 4.243 suore: cfr.
A. Celli, La donna infermiera, cit. È estremamente difficile seguire l’evoluzione del numero di infermieri e
infermiere negli anni seguenti. Nel 1970, lavorando sulle statistiche del periodo, Ornello Vitali ha dedotto
che il numero complessivo di infermieri laici nel 1921 era di 27.264, ma non è dato sapere quanti di
costoro fossero donne. Inoltre in questa cifra erano probabilmente comprese tanto infermiere professionali
e femminili32. Questo personale era reclutato per lo più tra una popolazione composta
di contadini, domestiche, sarte33, in genere scarsamente istruita34 ma anche poco formata, dal momento che le apposite scuole erano presenti solo in pochi ospedali. Fin
dal principio del secolo queste caratteristiche entrarono a far parte dell’elenco dei
«difetti» che i medici ascrivevano a infermieri e infermiere del Regno.
Nel prossimo paragrafo si inizierà a tratteggiare quella che si è più sopra definita come
l’utopia dell’«ospedale moderno». A partire dal principio del Novecento tale utopia, che
i medici avevano iniziato ad abbozzare già nel secolo precedente, prese forma sulle pagine di riviste mediche quali «Il Policlinico», in particolare sulla sua «sezione pratica»35,
e «Ospedale maggiore»36, su pubblicazioni specializzate, ma anche nei convegni delle
organizzazioni dei medici ospedalieri. Tali organizzazioni – in particolare l’Associazione dei medici ospedalieri italiani e l’Associazione dei direttori sanitari – erano nate
al principio del Novecento, eredi di una ricca tradizione di associazionismo medico
iniziata nel secolo precedente37. Dopo la Grande guerra il dibattito medico sulla riforma dell’ospedale si fece sempre più serrato, mentre l’utopia dell’ospedale moderno
raggiunse una forma definita. La guerra, infatti, se da una parte innescò un processo
di crisi finanziaria degli ospedali favorendo l’intensificazione del dibattito sulla loro
trasformazione, dall’altra rappresentò un enorme laboratorio di sperimentazione di
processi di razionalizzazione che toccarono anche l’ambito sanitario.
229
Sognando un «organismo scientificamente e praticamente perfetto»
Nel 1910 il futuro direttore dell’«Ospedale maggiore», Enrico Ronzani38, uno dei più
noti interpreti della scienza dell’igiene e della tecnica ospedaliera nei primi decenni
del XX secolo, scriveva nel suo noto manuale che l’ospedale doveva cessare di esdiplomate quanto infermieri/e generici/che. Cfr. O. Vitali, Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce
della ricostruzione della popolazione attiva, Roma, s.n., 1970, p. 105.
32
Il personale femminile doveva generalmente essere nubile e vivere dentro l’ospedale, mentre quello
maschile aveva più frequentemente la possibilità di vivere fuori dal nosocomio. Cfr. Questionario relativo
al personale di assistenza immediata, cit.
33
U. Baccarani, Infermieri e infermiere, cit., p. 26.
34
Nei primi decenni del XX secolo in molti ospedali per essere assunti come infermieri era sufficiente
saper leggere e scrivere. In altri il requisito richiesto era quello di aver completato la scuola dell’obbligo.
35
D’ora in poi solo «Il Policlinico». Supplemento de «Il Policlinico: periodico di medicina, chirurgia e
igiene», iniziò le pubblicazioni nel 1900.
36
La rivista nacque nel 1906 con il nome di «Ospedale maggiore. Rivista scientifico-pratica dell’Ospedale
maggiore di Milano ed istituti sanitari annessi». La seconda serie della rivista, iniziata nel 1913, era
maggiormente focalizzata su tematiche legate all’igiene e alla tecnica ospedaliera. Si veda E. Ronzani, Lo
sviluppo dell’igiene e della tecnica ospedaliera in Italia, «Ospedale maggiore», 1926, 11, pp. 297-298.
37
L’Associazione dei medici ospedalieri italiani vide la luce nel 1906 a Milano; l’Associazione dei direttori
sanitari nacque nel 1910. Sull’associazionismo medico si veda M. Soresina, I medici tra stato e società, cit.;
Id., Associazionismo e ruolo dei medici nel primo trentennio dello stato unitario, «Società e storia», 27, 1985;
A. Cherubini, Medicina e lotte sociali (1900-1920), Roma, Il Pensiero Scientifico, 1980.
38
Su Ronzani si veda G. Cosmacini, Biografia della Ca’ Granda, uomini e idee dell’Ospedale Maggiore di
Milano, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 186 ss.
230
sere un semplice «ricovero caritatevole» per trasformarsi in un’istituzione che «per le
condizioni dell’edificio, dell’arredamento e dell’assistenza miri nel tempo stesso alla
guarigione del malato e alla tutela della pubblica salute»39. L’ospedale «moderno»,
destinato a prendere il posto del vecchio ospedale ricovero, doveva essere un organismo complesso e integrato, che non solo attraverso la sua struttura, ma anche e soprattutto attraverso la sua organizzazione interna servisse l’obiettivo di restituire alla
salute e alla produttività gli individui malati. Per questa ragione esso doveva essere
«concepito, formato, organizzato a questo unico scopo»40 e rispondere esclusivamente
a una logica medica, di cui i sanitari non potevano che essere i soli legittimi interpreti.
Le immagini che più frequentemente condensavano l’idea dell’ospedale moderno sognato dai medici erano quelle dell’officina e della casa. Il tropo dell’«officina
della salute» – particolarmente diffuso soprattutto nel primo dopoguerra, in un momento in cui la salute pubblica parlava il linguaggio del management e dell’economia41 – esprimeva con forza il desiderio di un ospedale razionalizzato e produttivo.
Negli stessi anni in cui, nei discorsi dei medici, questo tropo condensava le aspirazioni
a un management scientifico dell’ospedale che ne garantisse l’efficienza, il taylorismo
si diffondeva anche in Italia42: era probabilmente anche delle sue suggestioni che si
nutriva il discorso medico. Ma la rappresentazione dell’ospedale moderno come una
casa funzionale era pure molto frequente nei discorsi dei medici43. Il tropo della do-
E. Ronzani, Del governo tecnico sanitario degli ospedali, Padova, Fratelli Drucker, 1910. Per un altro
esempio di manuale di igiene ospedaliera si veda E. Ligorio, Manuale di igiene e tecnica ospedaliera,
Torino, Unione Tipografico-editrice, 1922.
40
T. De Hyeronimis, La funzione moderna degli ospedali, «Ospedale maggiore», 1923, 3, p. 97. De Hyeronimis era il direttore dei regi ospedali di Lucca e membro dell’Associazione dei direttori sanitari.
41
Ne danno un esempio particolarmente significativo le relazioni della direzione generale di sanità al
consiglio superiore di sanità. In quella dedicata all’anno 1923 il direttore generale Alberto Lutrario spiegava
che «se a ciascuna cifra assegniamo il valore relativo, e spingiamo lo sguardo oltre i confini del capitale
umano risparmiato, fino nel demanio delle infermità evitate, delle giornate di malattia risparmiate, delle
giornate di lavoro guadagnate, noi arriviamo ad un limite insospettato di valore economico. Il che dimostra
che lo sforzo igienico non è soltanto fonte di benessere fisico per la popolazione, ma fonte perspicua di
ricchezza, che rende ad alto tasso e a breve scadenza, il capitale impiegato per realizzarlo», Relazione del
Direttore generale di sanità pubblica dott. Alberto Lutrario al Consiglio superiore di sanità nella sezione
ordinaria del luglio 1923 – ministero degli Interni, Direzione generale della sanità pubblica, Roma, Sper,
1924, p. 19. Su questo punto si veda F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati
Boringhieri, 2006.
42
C. Accornero, Il Taylorismo e gli sviluppi dell’igiene industriale, in Il contributo Italiano alla storia del
pensiero, tecnica, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, 2013; G. Sapelli, Organizzazione,
lavoro e innovazione industriale nell’Italia fra le due guerre, Torino, Rosenberg & Sellier, 1978; D. Bigazzi,
Modelli e pratiche organizzative nell’industrializzazione italiana, in Storia d’Italia. L’industria, Annali 15,
a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto, Torino, Einaudi, 1999.
43
Scrive ad esempio Valerio Luigioni su «Ospedale maggiore»: «Ai giorni nostri invece consigliate e
volute dalle nuove conoscenze scientifiche le ragioni igieniche hanno preso il sopravvento nell’erezione
e nell’ordinamento dei moderni nosocomi, i cui ambienti in ogni particolarità di costruzione debbono
rappresentare la casa igienica per eccellenza»: cfr. V. Luigioni, Il vecchio edificio dell’Ospedale Maggiore di
Milano in rapporto con le odierne esigenze di igiene ospedaliera, «Ospedale maggiore», 1913, 12, p. 814. Su
questo punto cfr. anche A. Bashford, Purity and Pollution, cit.
39
mesticità non deve essere immaginato come antitetico rispetto a quello della fabbrica.
La casa cui pensavano i sanitari era lo spazio che in quegli stessi anni il movimento
igienista – con tutte le sue variegate compagini – stava tentando di «sanitarizzare» attraverso la pianificazione urbana e la diffusione dell’igiene, dell’economia domestica,
della «puericultura scientifica»44. Il paradigma della razionalizzazione dava pertanto
forma sia all’immagine della casa, sia a quella della fabbrica: non a caso, nei decenni
seguenti il conflitto, si diffondeva in Italia l’eco dei progetti nordamericani di applicazione dello scientific management e della logica taylorista anche allo spazio e al lavoro
domestico45. Il discorso medico sull’ospedale moderno insomma, a partire dal primo
dopoguerra, traeva linfa da un milieu culturale nel quale il sogno di razionalità, efficienza e funzionalità investiva campi differenti, da quello dell’organizzazione della
fabbrica a quello della casa e più in generale dell’architettura, passando per quello
della pianificazione urbana46.
Ma come doveva essere organizzata questa casa/fabbrica della salute per funzionare
in modo appropriato? All’interno dell’ospedale moderno che i medici vagheggiavano,
i ruoli e le funzioni dovevano essere attentamente distribuiti47, in modo da garantire
«l’ingranaggio» delle diverse «forze» e la loro «cosciente cooperazione»48. Naturalmente,
però, queste diverse «forze» dovevano essere inserite in una ben precisa gerarchia, che
avesse al vertice i sanitari. Perché l’ospedale moderno potesse ottemperare alla sua
funzione di officina della salute, esso doveva essere guidato da un direttore medico
dotato di piena autorità: questa la rivendicazione dei medici ospedalieri sin dal 1874.
La piena autorità dei sanitari sull’intera organizzazione della «macchina per guarire» avrebbe dovuto garantire che ogni funzione dell’ospedale moderno fosse gover Si vedano tra gli altri C. Pogliano, L’utopia igienista (1870-1920), in F. Della Peruta (a cura di), Malattia
e medicina, cit.; C. Giovannini, Risanare la città. L’utopia igienista di fine ottocento, Milano, Angeli, 1996;
G. Bonetta, Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Angeli,
1990; C. Pancino (a cura di), Politica e salute: dalla polizia medica all’igiene, Bologna, Clueb, 2003.
45
C. Grossi, La casalinga e la massaia rurale moderne: il modello dell’efficientismo domestico americano
nell’Italia degli anni Trenta, in D. Rossini (a cura di), Donne e immagini di donne tra Belle Epoque e
fascismo, Roma, Biblink, 2008. Sul tema del rapporto tra fabbrica e casa in contesto britannico si veda
V. Long, Industrial Homes, Domestic Factories: The Convergence of Public and Private Space in Interwar
Britain, «Journal of British Studies», 50, 2011.
46
Oltre ai testi citati nelle note precedenti si rimanda a G. Zucconi, La città contesa, dagli ingegneri
sanitari agli urbanisti (1885-1942), Milano, Jaca Book, 1989. Sull’influsso razionalista nell’architettura del
periodo si veda S. Danesi, L. Patetta, Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, Venezia,
La Biennale di Venezia, 1976. Vice versa, come ha sostenuto recentemente Wallerstin, la riflessione
sulla razionalizzazione dell’istituzione ospedaliera moderna ha avuto un ruolo cruciale nello sviluppo
dell’architettura moderna. S. Wallerstin, Biopolitics and the Emergence of Modern Architecture, New York,
Princeton Architectural Press, 2009.
47
Si veda a titolo di esempio la Relazione della sottocommissione tecnica per l’ordinamento interno del
nuovo ospedale, 1918, p. 15, dedicata all’ospedale di Pammentone di Genova, Acs, ministero degli Interni,
Direzione generale di sanità (1910-20), b. 601.
48
G. Sabatini, L’infermiera a lato del medico nella psicologia dei popoli latini: conferenza tenuta alla
riunione internazionale delle infermiere convocata in Roma nei giorni 25-28 settembre 1928, Roma, Luzzatti,
1928, p. 4. Su Sabatini (1889-1952) si veda G. Barenghi,Giuseppe Sabatini, «Minerva medica», 43, 1952.
44
231
232
nata secondo la razionalità medica e i dettami della medicina e dell’igiene, dei quali
i sanitari erano gli unici legittimi depositari. In questo senso ogni servizio, compresi
quelli apparentemente legati alla mera riproduzione dello spazio ospedaliero, ad
esempio la pulizia, dovevano essere pienamente medicalizzati, ossia problematizzati
in termini medici, e pensati come dispositivi terapeutici. Con l’affermazione della batteriologia, infatti, i medici potevano proclamarsi unici depositari del sapere – ormai
non più profano ma «pienamente scientifico» – necessario a trasformare le più umili
pratiche di pulizia nei riti tecno-scientifici necessari a rendere quello ospedaliero uno
spazio di produzione di vita e guarigione e non un luogo potenzialmente mortifero e
contaminante. Ed era naturalmente dai medici che il personale di assistenza doveva
essere istruito e guidato nella realizzazione di questi rituali opachi al senso comune.
Perché l’ospedale moderno cessasse di essere un’istituzione potenzialmente mortifera e diventasse una macchina per la produzione di corpi sani, esso doveva funzionare secondo una minuziosa organizzazione interna. Questa doveva rispondere
a due requisiti fondamentali: la regolarità dei flussi e la distribuzione ordinata e funzionale dei corpi.
Come ha già notato Blandine Karret Krieger in riferimento al caso francese, la
questione del governo dei flussi – di aria, luce, acqua, ma anche di persone e oggetti – all’interno dello spazio nosocomiale era alla base del sogno della perfetta «machine à guérir» che emergeva dalla Rivoluzione francese49. Anche i medici italiani
erano fin dal XIX secolo accesi sostenitori dell’importanza di trasformare quel luogo
di ristagno, contagio e caos che era stato l’ospedale «antico» in uno spazio che consentisse la razionale circolazione di luce, acqua, aria, persone, materiali50. Ad «edifici ed
ambienti vetusti, ristretti, scarsi di luce ed aria» bisognava sostituire «infermerie ampie, areate, salubri sotto ogni riguardo»51. Ma a regolare la circolazione dei flussi non
doveva essere solamente l’architettura ospedaliera. Né solamente la pur fondamentale organizzazione degli spazi e degli arredi. Il personale di assistenza doveva garantire il buon governo di questi flussi. Ce ne dà un buon esempio il già citato manuale
di Enrico Ronzani. Secondo il futuro direttore dell’Ospedale maggiore di Milano, il
personale di assistenza e sorveglianza doveva «regolare il riscaldamento e la ventilazione degli ambienti»52, governare il flusso di materiali dirigendo «la distribuzione
dei cibi alle varie sale e il ritiro di quelli respinti; il rifornimento della biancheria alle
singole infermerie, il ritiro e la consegna degli indumenti e degli oggetti»53. Inoltre
tale personale doveva regolare i flussi di persone, gestendo «il movimento delle visite
49
B. Barret Krieger, L’hôpital comme équipement, in M. Foucault (dir.), Les Machines à guérir, aux origines
de l’hôpital moderne, Paris, Dossier et documents, Institut de l’environnement, 1976.
50
Si veda P. Frascani, Ospedali e società, cit., pp. 119 ss. e C. Pancino, Questione ospedaliera e igiene, cit.
51
L. Baldassarri, La funzione degli ospedali nei tempi moderni, «Ospedale maggiore», 1922, 1, p. 29.
52
E. Ronzani, Del governo tecnico sanitario degli ospedali, cit., p. 97.
53
Ibidem, p. 81.
e quello dei malati», regolando l’uscita dei malati dall’ospedale, controllando «il movimento interno dei servizi» e verificando «se tutto il personale è al proprio posto»54.
La razionale distribuzione dei corpi nello spazio era, come si può intuire dalle
parole di Ronzani, un altro tratto fondamentale dell’utopia dell’ospedale moderno
delineata dai medici ospedalieri. Come si diceva, una corretta amministrazione e regolazione dello spazio ospedaliero avrebbe dovuto garantire la distribuzione funzionale dei malati, oltre che l’attenta sorveglianza della loro circolazione: sin dal termine
dell’Ottocento le nuove forme di organizzazione ospedaliera avevano iniziato a privilegiare la divisione funzionale non solo delle istituzioni, ma anche dei singoli reparti.
Il sogno dell’ospedale moderno si sarebbe pienamente realizzato solo nel momento
in cui anche all’interno dell’ospedale e dei reparti stessi tutti i corpi – tanto quelli dei
malati quanto quelli del personale e dei visitatori – fossero stati costantemente reperibili e avessero occupato gli spazi assegnati loro in ogni dato momento. Se i malati
dovevano restare confinati nei rispettivi letti, o muoversi solamente lungo traiettorie
ben definite e controllate, il personale subalterno doveva essere costantemente a disposizione e facilmente individuabile in ogni istante. I visitatori, poi, dovevano poter
essere monitorati e controllati. Questo il desiderio che appare in controluce, a partire
dai primi decenni del XX secolo, nei testi dei medici che valutavano l’andamento dei
singoli ospedali o descriveva i tratti dell’istituzione ideale. Rendersi irrintracciabili,
come si può immaginare, era il peggior crimine che si potesse commettere contro
l’ospedale moderno vagheggiato dai medici:
I ricoverati non osservavano l’orario: anche prima che i Medici avessero l’ordinaria visita
mattutina, a loro talento si alzavano dal letto e si allontanavano dalle Infermerie; di modo che
i sanitari, volendo curarli o visitarli, per rintracciarli erano costretti a mandare in giro qualche
infermiere. [...] L’orario non era osservato scrupolosamente neanche dal personale di assistenza: non c’era controllo al momento di prendere servizio. Il pubblico entrava in Ospedale a
tutte le ore, anche di notte [...]55.
Le lamentele del direttore sanitario degli Ospedali di Verona, Salvator Angelo Carboni, ci permettono di cogliere in controluce i tratti ideali di un servizio ospedaliero
efficiente: ordine, regolarità, puntualità. La precisa scansione degli orari doveva garantire il corretto e rapido svolgimento dei servizi ospedalieri, dominare il caos in
luoghi affollati e costituire un elemento dell’ingranaggio terapeutico dell’ospedale,
fungendo da strumento di regolarizzazione e stabilizzazione dei corpi disordinati dei
malati. Ma essa doveva anche contribuire alla costruzione di un sistema di tracciabilità costante dei corpi nel tempo e nello spazio. Tale tracciabilità doveva essere un
Ibidem, pp. 80-81.
S.A. Carboni, Le condizioni degli ospedali di Verona e la direzione generale sanitaria, Verona, Stabilimento
tipografico Bettinelli, p. 10, Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità (1910-20), b. 602.
54
55
233
234
momento della costruzione di un sistema di monitoraggio continuo dei corpi, come
si può intuire dalle parole di Carboni.
L’osservazione costante e allo stesso tempo profonda dei corpi malati era un elemento fondamentale dell’utopia dell’ospedale moderno delineata dai medici e una
delle chiavi di volta dell’ingranaggio terapeutico della «macchina per guarire». Come
abbiamo già rilevato, le trasformazioni avvenute nei paradigmi e nelle pratiche mediche a partire dal XIX secolo avevano determinato un’inedita centralità della misurazione «oggettiva» nelle pratiche diagnostiche. «È passato il tempo in cui il medico
si limitava a tastare il polso, a guardare la lingua, a dare una palpatina al ventre, cercando di indovinare da pochi rilievi incerti lo stato degli organi interni»56, affermava
orgoglioso il dottor Giovanni Pugliesi in uno dei suoi diffusissimi manuali di assistenza. L’ospedale moderno e attrezzato, dotato degli appositi laboratori ma anche
di un personale ausiliario qualificato e in grado di supportare e potenziare l’attività
dei sanitari, doveva facilitare il dispiegamento dello sguardo medico nelle profondità
del corpo malato. Ma per mettere in campo un’efficace pratica terapeutica, i medici
dovevano poter anche esercitare un’osservazione costante dei malati. L’ospedale doveva pertanto trasformarsi nel dispositivo atto a produrre una sorveglianza continua
del corpo infermo e del decorso della malattia. Ancora una volta, non era solo la
struttura del nosocomio a dover permettere il perseguimento di questo obiettivo. Il
personale di assistenza, con la sua presenza costante, doveva consentire il potenziamento prostetico dello sguardo che si posava sui malati: l’infermiere/a doveva essere
la «lunga mano veggente del medico»57. Nella guerra contro la malattia di cui l’ospedale costituiva il campo di battaglia, il personale di assistenza doveva incarnare la
«vigile scolta»58 al servizio dei sanitari. Esso doveva rappresentare lo «strumento» per
garantire una più salda presa del medico sulla malattia e sul corpo malato. D’altronde
dei medici il personale di assistenza non doveva potenziare solo l’occhio, ma anche
la mano. Esso doveva porgere, materialmente e simbolicamente, il corpo malato al
medico, perché questi potesse recargli il «conforto» del suo sapere59.
L’ultima funzione che l’ospedale moderno doveva assolvere secondo i medici
ospedalieri era quella di disciplinare ed educare i corpi che lo attraversavano. L’intento disciplinante dell’ospedale si doveva accostare, o meglio fondere, a quello terapeutico, essendo la necessità di riordinare il corpo malato inestricabilmente legata
a quella di guarirlo. La fascinazione che i medici italiani provavano per l’idea che
l’ospedale potesse diventare un’istituzione non solo terapeutica, ma anche discipli-
G. Pugliesi, Manuale per l’assistenza in famiglia. Guida per ben assistere i nostri cari infermi, Città di
Castello, Unione Arti Grafiche, 1912, p. 52.
57
Relazione introduttiva della commissione per la riforma dell’assistenza infermiera del presidente Bartolini,
Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità (1910-20), b. 598 bis.
58
Ibidem.
59
G. Pugliesi, La infermiera in famiglia, cit., p. 50.
56
nare ed educativa, è testimoniata dalle numerose proposte di introdurre il lavoro dei
degenti nei nosocomi «come fattore disciplinare e curativo»60 o di dotare gli ospedali
di biblioteche e altri strumenti educativi61. D’altronde l’ospedale – almeno quello che
i medici sognavano – ben si prestava a essere un’istituzione disciplinare62 grazie alle
stesse regole che ne dovevano garantire il corretto funzionamento. L’ordine e la pulizia che vi dovevano regnare sovrane, i ritmi regolari e «astratti» – simili a quelli
della fabbrica63 – che ne dovevano scandire la vita, le regole ferree che dovevano
governare il comportamento di tutti gli attori che lo attraversavano, le pratiche di
distribuzione e organizzazione dei corpi: si trattava di fattori che avrebbero potuto
produrre una forma di dréssage dei ricoverati, i quali entrando nell’istituzione, dovevano spogliarsi tanto di autonomia e libertà di movimento quanto dei vestiti e dei
tratti più riconoscibili della propria individualità64.
D’altronde l’ospedale moderno, secondo i medici ospedalieri, non doveva solo
esercitare una generica azione disciplinante nei confronti dei ricoverati. Esso doveva produrre un «disciplinamento igienico» dei loro corpi. L’idea che l’ospedale dovesse diventare non solo una «macchina per guarire» ma anche una «macchina per
educare»65 aveva già un certo seguito tra i sanitari italiani al principio del novecento.
Nel 1912 il congresso dell’Associazione dei medici ospedalieri aveva approvato un
ordine del giorno che riconosceva tra le funzioni «più importanti degli istituti ospedalieri» quella di «educare ed istruire igienicamente il pubblico»66. Al termine della
Grande guerra, poi, mentre medicina sociale e preventiva guadagnavano seguito e
consenso inediti in uno scenario caratterizzato dalle preoccupazioni per la «bonifica»
del «capitale umano» della nazione, la funzione educativa dell’ospedale in campo
igienico diventava un elemento di senso comune tra i medici. L’ospedale doveva
E. Ronzani, Il lavoro dei malati negli ospedali. I feriti al lavoro nei padiglioni dell’Ospedale Maggiore,
«Ospedale Maggiore», 1917, 9, p. 47. Sulla tradizione dell’ergoterapia in campo psichiatrico in Italia si veda
V. Fiorino, Le officine della follia, il frenocomio di Volterra (1888-1978), Pisa, ETS, 2011.
61
Cfr. Riassunto degli argomenti relativi alle riforme pel riordinamento dell’assistenza, cit.
62
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2002 [Paris, 1975].
63
Sul rapporto tra tempo e disciplina di fabbrica e sul concetto di tempo astratto come opposto a quello
«task oriented», si veda E. Thompson, Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, Milano, Et.
A, 2011.
64
Le divise erano infatti spesso esplicitamente pensate come strumenti atti a «meglio sorvegliare la disciplina degli infermi». Cfr. A. Carboni, Le condizioni degli ospedali di Verona, cit., p. 25.
65
Scriveva nel 1911 Enrico Ronzani nella prima edizione del suo fortunato manuale per il personale
di assistenza: «Ho creduto opportuno scrivere questo libro che ha la pretesa, oltre che di insegnare ad
assistere il malato, di formare anche la coscienza igienica dell’infermiere, il quale, se bene istruito anche
nella parte che riguarda l’igiene della persona e la profilassi delle malattie infettive, può notevolmente
contribuire, con l’azione e con l’esempio, a diffondere nel popolo, col quale è continuamente a contatto,
quelle norme d’igiene di cui ancora tanto abbisogna, trasformando così l’ospedale da semplice luogo di
cura in luogo anche di educazione professionale». Cfr. E. Ronzani, L’assisenza ai malati e la difesa per chi li
assiste. Manuale ad uso delle infermiere professionali, Milano, Società Anonima Tip. Cardinal Ferrari, 1924
(dalla prefazione dell’autore alla prima edizione, giugno 1911).
66
Riassunto degli argomenti relativi alle riforme pel riordinamento dell’assistenza, cit., p. 33.
60
235
236
diventare uno dei gangli di un sistema biopolitico di ottimizzazione della salute pubblica: per questo esso doveva non solo curare le malattie, ma anche contribuire a prevenirle attraverso la diffusione di quella «coscienza igienica» che molti individuavano
come la chiave di volta della medicina sociale. L’ospedale si poteva prestare bene
a questo fine perché, come spiegava il direttore sanitario del Santa Maria Nuova di
Firenze, Luigi Baldassarri, la degenza garantiva ai ricoverati la possibilità di vedere
messi in pratica molti dei «consigli suggeriti» e di stare a stretto contatto con un personale di assistenza che avrebbe potuto costituire un modello per questi ultimi67. Grazie
all’esempio offerto dal personale di assistenza – il quale avrebbe dovuto recitare in
ogni istante il copione scritto dalle meticolose norme dell’asepsi e dell’antisepsi – i
ricoverati avrebbero potuto apprendere i comportamenti e le attitudini corporee necessari a condurre una vita sana e produttiva68.
Come si è osservato, molti dei tratti dell’ospedale modello che sarebbe dovuto
sorgere sotto la sapiente guida dei medici, facevano in ultima istanza capo all’organizzazione dell’assistenza infermieristica. Creare un personale adatto ad assolvere i
delicati compiti previsti per lui era pertanto una conditio sine qua non per la nascita
di un ospedale moderno che finalmente potesse permettere alla medicina di rifulgere
incontrastata. Come vedremo, individuare l’«elemento umano» dal quale forgiare un
personale infermiere all’altezza delle aspettative, pronto per un’«elegante ed armonica fusione»69 con l’opera medica, divenne nel corso dei primi decenni del XX secolo
una missione perseguita dai sanitari con impegno e caparbietà.
In cerca dell’infermiera moderna
Sin dagli ultimi decenni del XIX secolo, in diversi ospedali del Regno, i medici
avevano tentato di istituire scuole per la formazione del personale di assistenza70. Al
principio del secolo questi ritenevano che impartire al personale una migliore formazione sarebbe stato sufficiente per garantire un servizio di assistenza al passo con la
necessità dell’ospedale moderno che abbiamo appena esaminato. Tuttavia, come si
è accennato, all’inizio degli anni Dieci cominciò a farsi strada tra i medici l’idea che
L. Baldassarri, Propaganda igienica negli ospedali, «Ospedale Maggiore», agosto 1919, pp. 158-159.
Su questo punto mi permetto di rimandare a O. Fiorilli, Insegnare a vivere e bonificare la società: assistenza
infermieristica e discorso igienista nel primo dopoguerra, in S. Aru, V. Deplano (a cura di), Discorsi d’Italia.
Potere e rappresentazioni dall’Unità a oggi, Verona, Ombre Corte, 2013.
69
G. Ascoli, Assistenza infermiera. Giornata dell’infermiera, «Ospedale maggiore», 1921, 1, p. 175. Sul
triestino Giulio Ascoli (1870-1916), fondatore della scuola per infermiere dell’ospedale di Trieste, si veda
la voce corrispondente sul Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. 4, 1962.
70
La prima scuola di questo tipo era stata istituita nel 1885 a Torino da Carlo Calliano. Nel 1902, notava
Baccarani nel suo Infermieri e infermiere (cit., p. 77), le scuole erano salite a 25. Sull’organizzazione di
queste scuole nei primi decenni del XX secolo, cfr. Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità
(1910-20), bb. 598 e 601.
67
68
per migliorare tale servizio fosse necessario affidarlo alle donne71. Ne rendono conto i
dibattiti che si tennero su questo argomento durante i convegni dei medici ospedalieri
e dei direttori sanitari, ma anche gli articoli pubblicati su numerose riviste mediche72.
Ma come si era diffusa questa idea tra i sanitari italiani?
L’assistenza infermieristica, come ha acutamente notato Pierre-Yves Saunier, è uno
dei campi del «dominio sociale» che tra Otto e Novecento è stato più profondamente
segnato dalla circolazione di idee, modelli, pratiche attraverso i confini nazionali73. E
l’Italia non fa eccezione. L’idea che le donne fossero più «adatte» a svolgere il servizio
di assistenza e potessero anche essere impiegate nei reparti maschili – come avveniva
nel contesto anglo-americano o in quello tedesco – era arrivata ai medici italiani grazie a viaggi di studio74, ricerche comparative sui diversi sistemi ospedalieri75, articoli
pubblicati sulle riviste mediche76. Nonché grazie all’impegno del movimento femminile, che la aveva sostenuta con fermezza sin dal principio del secolo77. Al termine
Prima del principio del Novecento l’idea che le donne potessero svolgere servizio di assistenza anche per
gli uomini era stata spesso malamente accolta dai medici italiani. Si veda M. Conforti, Snervando la fibra
marziale, in V. Gazzaniga (a cura di), A un piede fu ferito, medicina e chirurgia risorgimentale, Bologna,
Clueb, 2011.
72
Cfr. Riassunto degli argomenti relativi alle riforme pel riordinamento dell’assistenza, cit. Nel corso del
1913 un dibattito sull’ipotesi di usare le scuole per levatrici per formare il personale di assistenza femminile
si sviluppò su riviste quali «Il Policlinico», «Pensiero sanitario», «Pensiero medico» e «Critica medica».
Ne dà conto un articolo intitolato L’unificazione delle scuole per infermieri e delle scuole per levatrici, «Il
Policlinico», 5 ottobre 1913, p. 1464.
73
P.Y. Saunier, Les régimes circulatoires du domaine social 1800-1940: projets et ingénierie de la convergence
et de la difference, «Genèses», 2008, 2. Su questo punto si veda anche E. Diebolt, N. Fouché, Devenir infirmière
en France, une histoire Atlantique (1854-1938), Paris, Publibook, 2011.
74
Si veda il racconto di Giulio Banfi, tra i fondatori nel 1912 della scuola convitto per infermiere Victor
De Marchi a Milano, che aveva studiato l’organizzazione del servizio di assistenza in Gran Bretagna:
Relazione sulla scuola Infermiere Professionali Victor de Marchi in Milano, in aggiunta al questionario
inviato a Roma dalla Direzione Generale della Sanità Pubblica, Acs, ministero degli Interni, Direzione
generale di sanità (1910-20), b. 604. Per uno sguardo sulla tradizione dei viaggi di studio dei medici cfr. L.
Munster, Gli ospedali d’Italia nel 1859, cit.
75
Per un esempio di studio comparativo si veda U. Baccarani, Infermieri e infermiere, cit.
76
Un esempio precoce è l’articolo pubblicato da Doctor Cajus su Le scuole d’infermiere in America, «Il
Policlinico», 19 aprile 1903.
77
Non è questa la sede per ricostruire l’impegno a favore della riforma dell’assistenza di moltissime
filantrope vicine al movimento femminile, in particolare al Consiglio nazionale delle donne italiane (Cndi)
e all’Unione Femminile (nei cui ranghi militava Anna Celli, figura di spicco nella storia dell’assistenza
infermieristica in Italia). Ci si limiterà a ricordare che sin dal principio del Novecento molte emancipazioniste
si impegnarono nella promozione dell’assistenza come campo aperto alle «donne nuove» desiderose di
dedicarsi alla rigenerazione del corpo sociale. Nel dopoguerra, in particolare, il Cndi si propose alle autorità
come interlocutore competente nel processo di regolarizzazione della professione infermiera, interagendo
con la Commissione per la riforma dell’assistenza istituita nel 1918. Acs, Ministero degli Interni, Direzione
generale di sanità (1910-20), b. 601. Inoltre, nel 1920, il Cndi organizzò un convegno sull’assistenza al quale
invitò numerosi medici: cfr. Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, Atti del convegno per uno scambio
di idee sulle questioni relative all’assistenza agli infermi, promosso dal Cndi sezione di Firenze, Firenze,
Stabilimenti grafici Vallecchi, 1920. Su varie iniziative proposte da filantrope e riformatrici sociali nel
campo dell’assistenza infermieristica si veda S. Bartoloni, La asistencia a los enfermos en Italia: religiosas
y laicas en la pràctica de la enfermerìa, in C. Gonzàles, F. Martìnez Lopez (ed.), La transformacion de la
enfermerìa. Nuevas miradas para la historia, Granada, Editorial Comares, 2010.
71
237
238
della Prima guerra mondiale, poi, grazie alla visibilità garantita alle migliaia di volontarie che avevano assistito malati e feriti78 e alla familiarità che aveva ormai assunto
l’immagine di una giovane infermiera «di civile condizione» intenta a prendersi cura
di un corpo maschile, l’idea che le donne potessero e anzi dovessero soppiantare gli
uomini nelle corsie ospedaliere non sembrava più suscitare le resistenze che aveva
incontrato prima del conflitto. La convinzione che le donne fossero per loro «natura»
più adatte degli uomini a svolgere il lavoro di assistenza stava anzi entrando nel senso
comune79, mentre molto minore preoccupazione destava lo spettro del disordine sessuale legato all’intimità corporea tra uomini e donne e la paura degli «inconvenienti
che sogliono accadere ove esistono attruppamenti e promiscuità di sesso»80. Al termine della Grande guerra le idee che già circolavano nella comunità medica non incontravano più resistenze, al punto che l’allora direttore del S. Maria Nuova di Firenze
poteva affermare sulle pagine di «Ospedale maggiore»: «Non è da prendere in esame,
ma è ormai da attuare a gradi la sostituzione degli infermieri con infermiere»81.
Ma quali erano le ragioni del successo di questa idea tra i medici italiani? Il già
citato memoriale del direttore sanitario degli Ospedali di Verona ci può aiutare a
chiarirle. Gli «Infermieri maschi», sosteneva Carboni, «di per se stessi sono la negazione assoluta di una buona assistenza» perché «[l’uomo] per natura, per istinto [...]
raramente arriverà ad acquistare quelle qualità fatte di un complesso di gentilezze,
di premure, di amorevolezza, di previdenze sulle quali è basata l’assistenza agli infermi». Ma più ancora che amorevolezza e gentilezza, caratteristiche ritenute «tipiche
delle donne», gli uomini mancavano «dell’ordine, della pulizia, della puntualità, del
silenzio, della corretta gentilezza dei modi, indispensabile per il buon andamento
delle Infermerie» che invece le donne erano «naturalmente» portate ad esprimere:
«Per quanto le Infermiere abbiano una preparazione intellettuale deficiente, tengono
S. Bartoloni, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia, Marsilio, 2003; Ead., Da una
guerra all’altra. Le infermiere della Croce Rossa fra il 1911 e il 1945, in L. Goglia, R. Moro, L. Nuti (a cura
di), Guerra e pace nell’Italia del Novecento. Politica estera, cultura politica e correnti dell’opinione pubblica,
Bologna, Il Mulino, 2006; Ead. Donne al fronte. Le infermiere volontarie nella Grande Guerra, Roma,
Jouvenance, 1998; P. Scaletti, G. Variola (a cura di), Le crocerossine nella Grande guerra. Aristocratiche e
borghesi nei diari e negli ospedali militari. Una via per l’emancipazione femminile, Udine, Gaspari, 2008;
B. Montesi, «Se non viene presto la chiamata schiato!». Infermiere in zona di guerra nel primo conflitto
mondiale, in P. Gabrielli (a cura di), In viaggio per una «causa», Roma, Carocci, 2010.
79
Sintomo piuttosto evidente di questa transizione è il fatto che le edizioni dei più diffusi manuali di
formazione per il personale di assistenza, in particolare quello di Giovanni Pugliesi e quello di Enrico
Ronzani, uscite durante o dopo la guerra, iniziarono a rivolgersi soprattutto, se non esclusivamente, alle
donne. Si veda G. Pugliesi, Il manuale dell’infermiere, Venezia Soc. Weimat, 1916 (V edizione) e E. Ronzani,
L’assistenza ai malati e la difesa di chi li assiste, cit. Sui manuali per infermiere si veda S. Bartoloni, C.
Gonzàles Canaleio, Percorsi di formazione per «l’infermiera moderna»: Italia e Spagna 1870-1920,
«Medicina&storia», 21-22, 2011.
80
Notizie e rilievi sugli ospedali di Catania, Relazione del medico provinciale di Catania, 30 gennaio 1919,
p. 9, Acs, ministero degli Interni, Direzione generale di sanità (1910-20), b. 602.
81
L. Baldassarri, Brevi considerazioni sul movimento ospitali ero dell’ultimo quadriennio e sull’andamento
presente e futuro, «Ospedale Maggiore», 1918, 5, p. 58.
78
le corsie molto più pulite, più ordinate, più silenziose di quanto non lo siano quelle
affidate agli Infermieri»82, sentenziava Carboni. Ordine, pulizia, accuratezza: erano
queste le doti che i medici ritenevano «tipicamente femminili» almeno quanto amorevolezza, premura e attitudine al lavoro di cura. Ora, tali «doti» erano proprio quelle
che meglio rispondevano alle necessità dell’ospedale moderno così come lo abbiamo
delineato sinora. Per potersi trasformare nella «macchina per guarire» vagheggiata
dai medici ospedalieri, infatti, l’ospedale aveva bisogno, come abbiamo visto, di un
personale che facesse in modo che tutti gli ingranaggi del «delicato organismo» funzionassero ordinatamente, prevedesse le necessità della macchina e dei suoi manovratori – i medici –, potenziasse le facoltà di questi ultimi e ne facilitasse l’azione,
che rispondesse ai bisogni di ricoverati e sanitari. Per questo le donne, date le loro
presunte qualità innate, erano agli occhi dei medici le migliori candidate a rivestire il
ruolo assistenziale nell’ospedale moderno.
L’«ospedale moderno» aveva inoltre bisogno di un personale adatto a educare i
malati e che potesse esercitare su di essi una benigna autorevolezza. Perché ogni cosa
funzionasse era necessario che i ricoverati fossero indotti a mantenere un contegno
ordinato e disciplinato. Non stupisce allora che dopo la guerra, quando ormai l’idea
che l’assistenza infermieristica dovesse essere una professione femminile non incontrava più significative resistenze, i medici si convincessero che l’infermiera ideale
dovesse essere non semplicemente una donna, bensì una donna di «civile condizione». «Reclutat(e) in classe di istruzione ed educazione superiore»83, caratterizzate
da un ethos – ancor più che da una condizione socio-economica84 – borghese, queste
donne, «colte educate e pulite», sarebbero divenute le figure «nuovissime della carità
civile»85, adatte a rinnovare le forme dell’assistenza ospedaliera. Nei repertori della
femminilità borghese, infatti, si potevano trovare tutti gli elementi che dovevano caratterizzare l’idealtipo dell’infermiera moderna.
Se, come abbiamo visto, pulizia e ordine erano ritenute qualità «tipiche» delle
donne in generale, esse erano ancora più strettamente associate alle donne di «civile
condizione». E non solo perché queste caratteristiche risuonavano potentemente con
l’ideale della purezza femminile86, centrale nell’orizzonte simbolico della femminilità
A. Carboni, Le condizioni degli ospedali di Verona, cit., p. 40. Le citazioni precedenti provengono dallo
stesso testo.
83
Per l’assistenza ospedaliera. Sulla necessità di una legge statale che coordini l’assistenza ospedaliera, «Il
Policlinico», 19 aprile 1920, p. 172.
84
Il riferimento esplicito alla condizione di classe delle infermiere modello compariva tuttavia di tanto
in tanto. Si veda ad esempio L. Baldassarri, Medicina sociale. La questione ospitaliera considerazioni e
proposte di riforme, «Il Policlinico», 19 maggio 1924, p. 663; Dott. Girolamo, Ausiliari e Impedimenti nostri,
estratto dal Bollettino della Camera Sanitaria del marzo 1910.
85
G. Ferreri, L’Italia da redimere, Milano-Torino-Roma, Fratelli Bocca, 1916. Su Ferreri si veda la voce
corrispondente del Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. 46.
86
Cfr. A. Bashford, Purity and Pollution, cit. Questa risonanza tra i repertori della purezza femminile era
possibile anche perché le nozioni di ordine e pulizia che si erano sviluppate nei movimenti igienisti del
82
239
240
borghese. Il nesso tra quest’ultima e le nozioni di ordine e pulizia contava anche nella
propria genealogia il coinvolgimento delle donne delle borghesie europee e nordamericane nelle crociate igieniste del XIX secolo in veste tanto di filantrope quanto
di «angeli del focolare»87. Inoltre previdenza, misura, controllo, precisione, qualità
chiave della classe media in generale88, applicate allo spazio materiale e simbolico
della domesticità, erano la quintessenza della femminilità borghese. Pertanto signorine di «civile condizione», in veste di «donne di casa della famiglia ospedaliera»89,
non potevano che essere le figure più adatte a rendere l’ospedale quello spazio pulito,
ordinato, funzionale, efficiente che i medici sognavano, a governarne l’organizzazione e regolarne i flussi, a far sì che tutti gli ingranaggi della «macchina per guarire»
funzionassero senza intoppi.
D’altra parte, proprio in qualità di «donne di casa» nella «famiglia ospedaliera», le
infermiere «nuove» potevano ben occupare la posizione di «educatrici» e «moralizzatrici». L’associazione tra femminilità borghese e funzione moralizzante – frutto di un
assemblaggio complesso tra il processo di riorganizzazione della famiglia e dei ruoli
di genere a partire dal XVIII secolo e la costruzione della «missione educativa» della
«Donna» nel lungo Ottocento90 – poteva essere facilmente valorizzata nei discorsi dei
medici che sognavano che l’ospedale assumesse la funzione di strumento di disciplinamento igienico – e non solo – del pubblico. Donne di «civile condizione» non
potevano che essere le migliori candidate ad esercitare sui ricoverati una «benefica
influenza»91. Grazie alla loro «educazione di famiglia, sociale e di scuola», esse erano
percepite come le più adatte a diffondere «i precetti di una coscienza igienica»92. Que-
XIX secolo rimasero profondamente impregnate di connotati morali (oltre che razziali e di genere) ben
oltre l’avvento del paradigma batteriologico. Si veda A. Bashford, C. Hooker (eds.), Contagion. Historical
and Cultural Studies, London, Routledge, 2002. Sulle implicazioni morali delle crociate igieniste si veda
tra gli altri G. Vigarello, Lo sporco e il pulito. L’igiene del corpo dal Medioevo a oggi, Venezia, Marsilio,
1987 [Paris, 1985].
87
U. Frevert, The Civilizing Tendency of Hygiene: Working-Class Women under Medical Control in Imperial
Germany, in J.C. Fout (ed.), German Women in the Nineteenth Century: A Social History, New York, Holmes
& Meier, 1984; N. Tomes, The Gospel of the Germs, Men, Women and the Microbes in American Life,
Cambridge, Harvard University Press, 1999; R. Apple, Perfect Motherhood, Science and Childrearing in
America, New York, Rutgers University Press, 2006.
88
F. Socrate, Aurea mediocritas: appunti per una storia dell’autorappresentazione dell’impiegato moderno,
«Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1989, 2.
89
G. Ascoli, Assistenza infermiera, «Ospedale Maggiore», 1920, 10, p. 30.
90
La letteratura su queste questioni è sterminata. Ci limiteremo a citare G. Duby, M. Perrot, Storia delle
donne in Occidente. L’Ottocento, a cura di G. Fraisse, M. Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1996; M. De Giorgio,
Le italiane dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993; M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità,
Roma-Bari, Laterza, 1997; S. Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile
nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1991.
91
Atti del convegno per uno scambio d’idee, Relazione del dott. Giulio Banfi, cit., p. 2.
92
Ibidem, Relazione di Giuseppe Bastianelli, p. 21. Al contrario, notava nel 1922 il dottor Ernesto Skulteki – direttore dell’ospedale civile di Sampierdarena a Genova – «[...] se poi l’ospedale deve, come si
vorrebbe, essere luogo di educazione morale ed igienica per i ricoverati meno evoluti, come potremo noi
sperare tutto questo da un personale di assistenza che avrebbe ancora tanto bisogno di essere educato
ste donne dovevano – ed erano qualificate per – assumere il ruolo di «madri» per i
ricoverati non solo dispensando amorevoli cure ed esercitando una solerte sorveglianza, ma anche adempiendo alla «funzione educativa» prevista per il personale
di assistenza nell’ospedale ideale. Peraltro, dato che le figure – e i ruoli – della scena
ospedaliera non potevano funzionare né praticamente né simbolicamente in modo
indipendente, l’attribuzione di funzioni materne al personale di assistenza contribuiva a produrre come effetto discorsivo l’infantilizzazione dei malati. Essa era funzionale alla costruzione di questi ultimi come soggetti privi di autonomia e libertà
di movimento, operazione «necessaria» al buon funzionamento della macchina per
guarire, che come abbiamo visto presupponeva un controllo costante sui ricoverati.
Infine donne di «civile condizione» sembravano ai sanitari le più adatte ad assolvere il ruolo di facilitatrici dell’operato del medico e di promotrici del suo successo e
della sua autorità. Esse apparivano le migliori candidate ad assumere la funzione di
potenziatrici delle sue facoltà. Questa idea poggiava sulla tradizionale attribuzione alle
donne del ruolo di dispensatrici di conforto, appagamento e aiuto necessari al pieno
dispiegamento del successo maschile nell’economia del modello famigliare borghese.
In questo senso oltre che donne di casa e madri, nella «famiglia ospedaliera» – così
come questa antica nozione veniva risignificata nei discorsi dei sanitari – le infermiere moderne potevano andare ad occupare la posizione simbolica di mogli, devote
compagne, pronte ad assumere la funzione di facilitatrici del successo degli uomini di
casa: i medici. L’immaginario legato alla complementarietà gerarchica dei ruoli nella
famiglia poteva inoltre servire il sogno di una perfetta, razionale e «naturale» divisione
del lavoro e di una spontanea organizzazione della gerarchia ospedaliera. All’interno
di questa economia discorsiva che rappresentava implicitamente infermiera e medico
come una «coppia», la prima doveva rappresentare per il secondo la «compagna di lavoro e di lotta, [...] la traduttrice e spesso la realizzatrice e la potenziatrice del suo sforzo
di lavoro e di pensiero, pur restandogli culturalmente e gerarchicamente inferiore»,
per usare le parole del clinico genovese Giuseppe Sabatini93.
«Addomesticando» lo spazio ospedaliero, trasformandone le gerarchie e la trama
affettiva e relazionale a immagine di quelle che caratterizzavano l’ideale della domesticità borghese, le «infermiere moderne», così come venivano immaginate dai
sanitari, avrebbero dunque reso l’ospedale quella fabbrica razionalizzata e scientificamente organizzata di corpi sani e disciplinati che i medici invocavano. Il paradosso
è solo apparente, e non solo perché – come abbiamo visto – casa e fabbrica non erano
egli stesso? Ed è per questo che diciamo amichevolmente agli uomini volenterosi che aspirano a fare
l’infermiere: “Disertate questa professione che non è fatta per noi” [...]»: cfr. I nuovi orizzonti dell’assistenza
sanitaria, «Bollettino mensile dell’associazione nazionale tra infermiere», 1922, 4, p. 5.
93
G. Sabatini, L’infermiera al fianco del medico nella psicologia dei popoli latini, cit., p. 5. Su questo punto
si rimanda a E. Gamarnikow, Sexual Division of Labour: The Case of Nursing, in A. Kuhn, A. Wolpe (eds.),
Feminism and Materialism, London, Routledge, 1978.
241
242
considerati opposte nella misura in cui lo stesso sogno di razionalizzazione animava
nel dopoguerra i discorsi sulla riorganizzazione di entrambe. Le infermiere di «civile
condizione» offrivano ai medici un modello di «modernizzazione» che rispondeva perfettamente al bisogno di efficienza, ordine, produttività dell’ospedale-officina proprio
perché alla femminilità borghese erano associate tutte le caratteristiche che abbiamo
prima elencato. Per di più tale modello sembrava poter risolvere nel sogno della complementarietà il rischio di competizione intrinseco nella qualificazione del personale
di assistenza (maschile). In questo senso esso sembrava poter garantire e preservare
«naturalmente» anche l’unità di comando nella macchina per guarire che ne avrebbe
garantito l’efficienza. La nozione di differenza sessuale – intesa come significante
della differenza tout court – sembrava infatti poter in qualche modo neutralizzare la
perturbante somiglianza tra personale medico e infermiere che una migliore formazione del secondo recava con sé e quindi organizzare naturalmente l’ospedale come
uno spazio gerarchico governato dalla razionalità medica e dai suoi unici legittimi
cultori, i sanitari. Naturalmente, però, questo modello poteva funzionare a patto appunto di tenere a bada ogni rischio di competizione. Non a caso i medici ospedalieri
si batterono sempre risolutamente contro un elemento fondamentale del cosiddetto
«modello Nightingale»: l’autonomia delle infermiere e del loro specifico sapere, incarnata nella figura della «matron», direttrice della scuola convitto e responsabile del
personale infermiere e della sua educazione94. Il rifiuto dei medici nei confronti di
tale figura portò addirittura a una spaccatura in seno alla Commissione ministeriale
istituita nel dopoguerra per discutere la riforma dell’assistenza: i rappresentanti dei
medici ospedalieri, Alfredo Lusignoli ed Enrico Ronzani95, produssero una relazione
di minoranza che si discostava da quella di maggioranza proprio su questo punto96.
D’altra parte la legge del 1925, che per la prima volta regolamentava le scuole convitto per infermiere, aperte solamente alle donne, e il successivo regolamento del
1929, vennero incontro alle necessità dei medici sottoponendo l’autorità della direttrice della scuola a quella del direttore medico. Inoltre i medici non smisero mai di
ripetere alle donne candidate al ruolo di «infermiere moderne» che «l’infermiera aiuta
Su questo punto si rimanda a C. Sironi, L’infermiere in Italia: storia di una professione, Roma, Carocci,
2012; I. Pascucci, C. Tavormina, La professione infermieristica in Italia: un viaggio tra storia e società dal 1800
a oggi, Milano, McGraw-Hill, 2012; G. Fiumi, Infermieri e ospedale, storia della professione infermieristica
tra ’800 e ’900, Verona, Nettuno, 1993. Per una prospettiva internazionale sul tema dell’ambivalenza
del mondo medico in rapporto alla professionalizzazione dell’assistenza cfr. B. Lusk, J. Robertsion, Us
Organized Medicine’s Perspective of Nursing. Review of the Journal of the American Medical Association
1883-1935, in S. Mc Gann, B. Mortimer (eds.), New Directions in Nursing History: International Perspectives,
London, Routledge, 2005.
95
Vittorio Ascoli, direttore delle cliniche di Roma, preferì ritirarsi dalla Commissione. Gli altri commissari
erano Alberto Lutrario, direttore generale di sanità, Alberto Pironti, direttore generale dell’assistenza civile,
Melchiorre Zagarese, ispettore generale del ministero dell’Agricoltura, Giuseppe Brezzi, direttore generale
della Croce rossa italiana, Francesco Della Valle, generale medico.
96
Cfr. E. Ronzani, A. Lusignoli, Relazione di minoranza della commissione, cit.
94
il medico ma non lo sostituisce, cura ma non guarisce, comanda al malato obbedendo
al medico»97.
La femminilità messa a lavoro
Solo i progressi della scienza e la sempre più complessa organizzazione sociale potranno
modificare il secolare stato di cose; ed allora l’infermiera preparata, tecnica, moderna finirà col
sostituire tutto il personale di vecchio stampo, come la corsia agile, semplice, liscia, luminosa
sostituisce le vecchie artistiche sale dai dipinti preziosi, dai polverosi stucchi o dalle finestre
alte fra gli intercolunni98.
Nelle parole che il dottor Giuseppe Sabatini rivolgeva al Congresso internazionale
di infermiere riunitosi a Milano nel 1928 l’infermiera «tecnica e moderna» e la corsia
«agile, semplice, liscia, luminosa» si confondevano e sovrapponevano in un sogno
di progresso ed efficienza. Il brano della relazione di Sabatini esemplifica egregiamente la relazione tra il sogno dell’ospedale-fabbrica della salute e la figura dell’infermiera moderna che regnava nei discorsi dei medici alla fine del decennio seguente
la Grande guerra. Ingrediente immancabile dei programmi di riforma dell’ospedale
formulati dai medici, l’infermiera moderna era uno degli strumenti essenziali per la
trasformazione del vecchio ricovero per poveri moribondi nell’officina della salute
vagheggiata dai medici.
Se, come abbiamo visto, l’ospedale doveva diventare un «organismo scientificamente e praticamente perfetto», nel quale tutti gli ingranaggi funzionassero ordinatamente e in modo efficiente sotto il rigoroso controllo della scienza medica e dei
suoi cultori al fine di assemblare corpi sani, disciplinati e produttivi, una radicale
«modernizzazione» dell’assistenza era non solo utile ma necessaria. L’infermiera
moderna – così come i medici la avevano definita – era ormai ritenuta la chiave di
volta di questo processo. Proprio in quanto portatrice delle caratteristiche associate
alla femminilità borghese – non solo l’attitudine alla cura, ma soprattutto la pulizia,
l’ordine, la puntualità, la previdenza, la capacità di educare e esercitare un’influenza
«positiva» – essa era la figura che si immaginava potesse meglio rispondere alle necessità di razionalizzazione e modernizzazione dell’ospedale, così come era sognato
dai medici. Intorno a questa figura lo spazio ospedaliero poteva essere riorganizzato simbolicamente ad immagine della famiglia nucleare borghese. La trama sessuata che questa riorganizzazione avrebbe introdotto nel nosocomio modello, lungi
dall’essere un elemento puramente accessorio, o ossimorico rispetto al «divenire fab-
97
G. Ferrero, La donna italiana come infermiera (scuola samaritana), Comitato di organizzazione civile
di Ancona, Recanati, Simboli, 1915.
98
G. Sabatini, L’infermiera al lato del medico, cit., p. 5.
243
brica» dell’ospedale, aveva una funzione ben precisa all’interno di questo processo.
Organizzando «naturalmente» i ruoli, le funzioni, la divisione del lavoro, le gerarchie
all’interno dello spazio ospedaliero, essa era concepita come uno dei dispositivi che
dovevano garantire l’efficace funzionamento dell’ospedale moderno così come esso
era immaginato dai medici. Nell’utopia concepita da questi ultimi, dunque, la femminilità era messa al lavoro nell’opera di costruzione della perfetta «macchina per
guarire».
244
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