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novembre-dicembre - Il Nuovo Carte Bollate
carteBollate novembre-dicembre numero 6/2011 il nuovo Periodico di informazione della II Casa di reclusione di Milano-Bollate DOSSIER Stop all’affollamento carceri giustizia in tilt Bulli & pupe paga papà? Per le vittime quale risarcimento di David Gianetti p.4 Vogliamo pari La rottamazione Condannata opportunità p.9 della Smuraglia p.10 alla libertà p.14 Essere donna a Bollate di Caterina Mista Detenuti a rischio disoccupazione di Habib H’mam La pena del fine-pena di Carla Molteni sommario novembre - dicembre numero 6/2011 in copertina: fotografia di federica neeff una class action contro l’affollamento Editoriale Non clemenza ma reinserimento e sicurezza sociale 18 19 Se la giustizia viaggia a due velocità Ergastolo, l’Italia è molto lontana dall’Europa 20 Procedure più semplici e giustizia più rapida 21 Un autobus che può lasciarti a piedi p. 3 Se un ragazzo sbaglia la colpa è dei genitori? Il lato oscuro dell’adolescenza 4 5 Lavoro Disoccupazione nelle carceri sicurezza a rischio 6 Il cuoco, il giardiniere, la sarta e il centralinista 7 L’attività grazie alla quale ho cambiato la mia vita 8 Il libero accesso che piace a Tremonti 10 22 23 24 25 Calcio Italiani, serbi, albanesi e cileni con maglia giallo-nera 26 La stagione inizia alla grande 27 Libia Migliai di profughi in fuga: Europa dove sei? 11 Anche in carcere è Id al-adha Dolce come il cioccolato con un pizzico di sale Ammalarsi per scommessa 12 13 Una class action contro il sovraffollamento Detenuto: scarto o risorsa? Sette proposte a costo zero 7 carteBollate Dove ti porterei Il fascino di una terra stregata 28 14 In breve 31 15 Una domenica particolare Il cielo in una stanza approda a San Vittore Recita che ti passa! Gigione e le storie tese 32 Dossier 2 Anche in carcere vogliamo pari opportunità Rosina, 72 anni, condannata alla libertà Il rancio? Una vera pena aggiuntiva Poesia 31 31 16 17 9 13 28 31 28 editoriale Un autobus che può lasciarti a piedi... L Il nuovo carteBollate via C. Belgioioso 120 20157 Milano Redazione Sandra Ariota Edgardo Bertulli Elena Casula Ferdinant Deda Fabio Galli Romano Gallotta (impaginazione) Francesco Garaffoni David Gianetti Habib H’mam Carmelo Impusino Mohamed Lamaani Antonio Lasalandra Enrico Lazzara Claudia Maddoloni Paolo Mascari Rosario Mascari Caterina Mista Carla Molteni Federica Neeff e centinaia di associazioni, fondazioni, piccole istituzioni a disposizione di chi vuole essere utile a un detenuto anche fuori di galera costituiscono un mondo variegato e articolato con mille diramazioni, richiami e collegamenti che è doveroso conoscere meglio; per questo, mentalmente travestita in uno dei detenuti della redazione di carteBollate, sono andata a fare un giro nei siti indicati da Tuttobollate, corposo e esauriente vademecum realizzato dall’Associazione (art director) Contigua e dalla Cooperativa Articolo 3. Remi N’Diaye (fotoreporter) L’universo della solidarietà e supporto al carcere è vasto e articolato, ci tiene a Silvia Palombi far sapere cosa si pensa e si dice di lui, è attivo nell’avviare a corsi di formazione Andrea Pasini chiunque decida di intraprendere il percorso del volontariato dentro o fuori dal Susanna Ripamonti (direttrice responsabile) carcere, raccoglie articoli in rassegne stampa sul carcere e via dicendo. ComprenFrancesco Rossi sibilmente tutti sottolineano che è cosa buona e giusta, doverosa e persino saluLuigi Ruocco tare sostenerne economicamente l’attività e indicano come farlo in modo che più Stefano Sorrentino Lella Veglia chiaro non potrebbe essere. Forse mi aspettavo qualcosa di diverso, di più accogliente, forse non saSosteneteci con una donazione pevo nemmeno bene cosa cercavo, sta di fatto che infilatami nei panni minima annuale di 20 euro e riceverete scomodi di chi esce di galera e non sa dove sbattere la testa pensavo di a casa i 6 numeri del giornale. trovare in apertura di ciascun sito un pulsantone con scritto più o meno Per farlo potete andare sul nostro sito “sei un detenuto e hai bisogno di noi? clicca qui”. Romantica? forse. www.ilnuovocartebollate.org, Saltabeccando ho avuto la sensazione che c’è un gran parlarsi addosso, cliccare su donazioni e seguire un autoincensarsi, ma forse dipende dal fatto che il web troppo scritto il percorso indicato. respinge. Ecco, telegraficamente, le mie impressioni sito per sito: Oppure fate un bonifico intestato a Sesta opera san Fedele: bello, quasi elegante, facile da girare e pieno di “Amici di carteBollate” su scritti, fin troppo a mio parere. IT 22 C 03051 01617 000030130049 Il bivacco: più rustico e forse scritto di più, storia e statuto dell’Associabic barcitmmbko zione e una mostra di manufatti dei detenuti di Opera. Il girasole: nella stessa via di San Vittore, ha anche news e video, fornisce indicando il vostro indirizzo. link di altre associazioni di supporto. Il detenuto in cerca di aiuto può solo In entrambi i casi mandate una mail scrivere mail. In home page l’invito a devolvere a loro il 5 x 1000. a [email protected] A & I: professionale, molto scritto anche questo. indicando nome cognome e indirizzo Il progetto Punto e a capo, indicato in Tuttobollate offre solo telefono e a cui inviare il giornale. fax, oltre all’indirizzo e al nome di un responsabile. Il ciao: acronimo di Centro Informazione Ascolto Orientamento (ma Ha collaborato a su Tuttobollate i puntini non ci sono, da google sono usciti ciao a milioni) è di orienquesto numero Maddalena Capalbi tamento, ha una gran bella home page della quale è cliccabile solo l’indirizzo mail; Noureddin Hachimi sperando si trattasse di un blocco temporaneo ci ho riprovato più volte facendo Davide Lessi fiasco regolarmente. Edoardo Malvenuti Nino Spera Incontro e presenza: “promuove il reinserimento lavorativo e sociale di detenuti e ex-detenuti dei carceri dell’area milanese di San Vittore, Monza, Bollate, Opera e gruppo carcere dell’Istituto minorile C. Beccaria” recita l’home page pulita e lineare, grigio chiaro Mario Cuminetti onlus e blu fa un po’ ufficio. via Tadino 18 Spazio aperto servizi: notizie in home page e un po’ di cronaca, tanti link, dati, co20131 Milano lori, nomi con mail e numeri di telefono di riferimento. Comitato editoriale Bambinisenzasbarre: ricco, graficamente più vivace, quaderni pubblicazioni ricerNicola De Rienzo che, l’invito a fare il servizio civile con e per loro, neanche qui il pulsante per deteRenato Mele nuto che ha bisogno di aiuto o mamma detenuta a fine pena in difficoltà. Franco Moro Visconti Maria Chiara Setti Sicuramente quello che ho visto in questo piccolo tour richiede e merita approfondimenti, ho fatto come in una città sconosciuta con poco tempo per conoscerla: un Registrazione Tribunale giro turistico su uno di quei pullman colorati scoperti. di Milano Se voglio saperne di più devo approfondire e qui, nella galassia della solidarietà, n. 862 del 13/11/2005 Questo numero del l’impressione è che non si possa far altro che scendere e farsela a piedi… Nuovo carteBollate Silvia Palombi è stato chiuso in redazione alle ore 18 dell’ 11/11/2011 [email protected] - www.ilnuovocartebollate.org Stampato da Lasergraph srl carteBollate 3 FORUM – Incontro con Roberta Ghidelli, assistente sociale che si occupa di minori È giusto che a pagare per il reato commesso da un ragazzo sia la famiglia? A suggerirci la domanda è stata la recente sentenza della Cassazione su uno dei tanti episodi di bullismo, consumato nell’aprile del 2002 a Crescenzago, alla periferia di Milano, da una coppia di ragazzine quindicenni, arrestate con l’accusa di aver picchiato e rapinato una 13enne, colpevole, secondo loro, “di averle guardate troppo a lungo”. La vittima della violenza se l’era cavata con una prognosi di 15 giorni e il procedimento penale al Tribunale dei Minorenni si era chiuso con l’estinzione dei reati ascritti per esito positivo della “messa alla prova” (ex art.28 DPR 448/88). Il processo civile, invece, si è concluso solo il 14 settembre scorso con la condanna per i genitori a pagare una multa di 50mila euro (per la precisione, 46.574,53 più 804,66 per le spese, 2.261,51 per i diritti e 5.122 per onorari) a titolo di risarcimento: se quei soldi non saranno versati, le case di famiglia finiranno all’asta. La motivazione è che le due adolescenti non avrebbero “ricevuto un’adeguata educazione familiare, tanto da non comprendere fino in fondo la gravità e le conseguenze negative dei propri comportamenti, neanche di fronte all’autorità”. Tra i redattori di CarteBollate la sentenza ha subito acceso la discussione: un po’ perché molti, fuori dal carcere, hanno figli e nipoti minorenni in balìa di quartieri difficili e cattive compagnie; un po’ perché, dietro le sbarre, basta un nulla per rivedere i propri vissuti, quei percorsi affondati in un’infanzia spesso difficile che forse potevano svolgersi diversamente se solo la famiglia fosse intervenuta in un certo modo o l’ambiente e le circostanze fossero stati diversi. D’altra parte, anche tra i liberi, chi non ha mai commesso un furtarello da ragazzo? Un’invisibile soglia separa l’inizio di una carriera criminale da una trasgressione adolescenziale. Il futuro Vallanzasca che rubava all’edicolante il suo primo pacchetto di figurine non era ancora diverso dal ragazzino che entrava nella cartoleria di Enrico – uno dei redattori – a portargli via le matite. In quel caso, ricorda il collega, 4 carteBollate «la collaborazione della famiglia – una famiglia normalissima – è stata fondamentale per la piega che poteva prendere il percorso del ragazzo». Il disagio di due adolescenti, infine, può anche non essere sentito come cosa aliena da un adulto che non ha risolto il disagio del suo delitto, “ospite infantilizzato” di un’istituzione totale che anziché sciogliere certi nodi della psiche li rende ancora più fitti. Cuori, nervi – e visceri – scoperti, insomma. Tanto che s’è pensato di invitare a un dibattito in redazione Roberta Ghidelli, assistente sociale alle dipendenze del ministero della Giustizia che si occupa proprio di minori. «Il mio lavoro – premette – è valutare la capacità del ragazzo di assumersi la responsabilità emotiva, etica e morale dei propri atti». Per questa valutazione la messa alla prova è fondamentale. Interviene Enrico: «Dovrebbero mettere alla prova i minori liberi o in comunità e anche gli adulti in articolo 21 – lui è uno di quelli – che in quella simulazione di esperienza reale non possono sperimentarsi veramente, tornando in contatto per esempio con le persone che conoscono. Ci si sente come un palombaro in un acquario, non ci si bagna». L’assistente non è d’accordo: «No, non è vero, a volte ci si bagna perché si trasgredisce». Ma torniamo al tema del dibattito, la responsabilità della famiglia nella devianza del minore. «Per molte famiglie normali, senza precedenti di reato, prendersi la colpa non sempre equivale a mettersi in discussione», spiega la dottoressa Ghidelli. «Il nostro lavoro è proprio aiutarle a capire che cosa non ha funzionato e ad andare avanti senza per questo rimuovere quanto successo. E comunque senza dimenticare che il tragitto deviante dei minori non ha mai un’unica causa». Il risarcimento è contemplato nel procedimento penale per minorenni? «No, sono previste la mediazione penale e un’attività di riparazione, che non è risarcimento. La parte lesa può solo essere presente all’udienza, ma non può costituirsi parte civile presso il Tribunale per i minorenni. L’orientamento di fondo della giurisprudenza minorile suggerisce per gli federica neeff Se un ragazzo sbaglia la colpa è dei genitori? operatori un’attitudine comunicativa; secondo il codice di procedura penale per i minorenni, il comportamento di chi delinque è un modo per comunicare un messaggio di disagio, ma da alcuni anni il Tribunale ordinario ha ritenuto di accogliere le richieste di risarcimento a norma del codice civile che prevede per i genitori una colpa in educando, diversa da quella in vigilando». In sostanza i genitori possono non aver trasmesso i valori o non aver capito che i figli non li avevano interiorizzati? «Secondo me c’è una responsabilità quasi oggettiva, anche perché l’onere della prova è altissimo: i genitori dovrebbero dimostrare il contrario di quanto oggettivamente palesato, cioè che hanno saputo educare i loro figli». Ma se una famiglia non ha mezzi come può risarcire? «Il risarcimento chiesto può essere un quinto dello stipendio o il sequestro cautelativo dell’appartamento di famiglia». E cosa comporta questa monetizzazione del danno? «Nelle situazioni che conosco direttamente ha determinato un’interruzione del percorso, la messa alla prova salta. In caso di violenza, il ragazzo dovrebbe incontrare la parte lesa per una mediazione penale, ma una richiesta di risarcimento così onerosa blocca qualunque possibilità di contatto e questo è molto negativo soprattutto per la vittima che spesso ha bisogno di risposte, vuole sapere il perché della violenza subita». Certo, dipende dalla discrezionalità del magistrato, ma a Milano le richieste risarcitorie non sono una cosa eccezionale. A prescindere da questa sentenza nel procedimento per minori viene comunque preso in considerazione il diritto della parte offesa, la vittima. «Purtroppo, nei casi di violenza sessuale – numerosi – spesso mancano figure e servizi in grado di prendersi carico del minorenne offeso. Per le vittime è importante cessare dal sentirsi vittime: a questo servono i percorsi di mediazione». Soprattutto con i minori, due diritti, entrambi legittimi, il recupero del minore e la riparazione della vittima, finiscono per entrare in collisione; anche il minore che delinque può essere fragile quanto la sua vittima? «Non bisogna dimenticare l’incapacità che molti ragazzi hanno di cogliere la sofferenza negli altri. Vittime, anche questi piccoli “carnefici”, di mancanza di attenzione e relazione, dell’incapacità di comunicare i propri sentimenti da parte di molti genitori e l’ascolto della vittima può aiutarli a capire i sentimenti degli altri, a empatizzare. Inoltre la mediazione penale e sociale aiuta la vittima a stare meglio e a uscire dalla sua dimensione di vittima, cosa che non avviene con la richiesta di risarcimento del Tribunale civile, quando sono i genitori a dover provare di aver educato bene i figli». Ma siamo sicuri che la colpa è sempre della famiglia? Prende la parola Benedetto Mascari – mezza famiglia finita in carcere: «In casa alcuni argomenti come il sesso erano un tabù, è vero, ma i valori si possono esprimere anche con gli esempi». Un delitto sessuale per lui è qualcosa di impensabile, mentre il bullismo, che «esiste da sempre, in tante situazioni», forse dipende dall’educazione ricevuta. Ma quanto conta il carattere del ragazzo? Caterina, mamma napoletana, aggiunge: «Ci sono famiglie di delinquenti con dei campioni e tante buone famiglie con figli che tendono a nascondersi, mostrando una doppia personalità, a scuola e in casa». «Vero. Quando la famiglia non consente questa trasgressione il ragazzo la porta fuori», conferma l’assistente. E dalla trasgressione si ritorna al danno. Elena: «Il risarcimento può servire a una riduzione della pena? Con quale criterio si stabilisce il suo valore?». «Dipende dai casi, ma oltre a quello economico – il suo valore è determinato dalle tabelle degli assicuratori – c’è un risarcimento morale. Anche la mediazione può avere un valore strumentale, ma naturalmente è un percorso più difficile. Con i minori interviene la figura professionale del mediatore, un facilitatore che incontra le parti, senza gli avvocati, e dopo una serie di colloqui separati, quando queste sono pronte, le fa incontrare, vincendo imbarazzi, sentimenti di rabbia, silenzi». Sul risarcimento economico Franco Garaffoni non ha peli sulla lingua: «Nel civile non può diventare una forma di impunità per i ricchi?». La risposta non può che essere affermativa: «Le pene pecuniarie tradizionalmente sono viste nel codice civile come discriminanti». A cura di David Gianetti BULLISMO – La carriera di un bambino irrequieto Il lato oscuro dell’adolescenza L a notizia, uscita in settembre su quotidiani e telegiornali, che il tribunale aveva disposto il sequestro della casa dei genitori di due minorenni, per risarcire una loro compagna, vittima di atti di bulismo, ha destato polemiche e riflessioni. Il dilemma shakespeariano è d’obbligo: essere o non essere… responsabili di tutto quello che i propri figli, specie se minori, fanno? Ho vissuto sulla mia pelle gli effetti di un’infanzia e adolescenza passate tra l’assenza, l’indifferenza, l’incapacità e l’impossibilità dei miei genitori di fornirmi gli strumenti culturali che mi avrebbero aiutato a vivere e dunque ritengo di avere voce in capitolo sui temi che trattano i comportamenti nocivi degli adolescenti, così come degli elementi degradanti e devianti che li conducono ad attuare scelte azzardate e azioni malsane, troppe volte dalle conseguenze irrimediabili. Dovete sapere che prima di essere quel che sono ora (un detenuto da circa 13 anni, immesso in un percorso di reinserimento, ma soprattutto una persona consapevole) sono stato un bambino irrequieto, poi un bullo e poi ancora… un criminale. Mi piace l’idea di prendere d’esempio i comportamenti istintivi animali, dove le madri si prendono cura dei loro cuccioli fino alla certezza della loro autonomia, attuando una costante e progressiva interazione fatta di insegnamenti fondamentali per la loro esistenza. Ma noi siamo esseri umani, e come tali ci differenziamo dagli animali proprio per la nostra capacità evolutiva dovuta ad un più alto intelletto. Eppure questo intelletto a molti adolescenti non basta ad avere buon senso, così come non basta ai genitori per renderli consapevoli della necessità di educare. Credo che molti genitori non tengano conto o minimizzino le frustrazioni che possono affliggere gli adolescenti, con la loro voglia di esplodere, emergere e distinguersi agli occhi degli stessi coetanei e della società, e non sanno che i loro figli, apparentemente vivaci, svegli e così “normali” potrebbero avere una specie di doppia identità, un conflitto tra l’essere e l’apparire, o peggio ancora, nascondere un vero e proprio lato oscuro che a loro non racconteranno mai, poiché è troppo personale e di difficile comprensione e accettazione. Un lato oscuro condivisibile solo con i propri coetanei, con gli amici, la compagnia, o con dei perfetti sconosciuti, magari incontrati su internet. Un lato oscuro che contiene quella voglia di fare quelle esperienze che in un modo o nell’altro si devono fare o conoscere quasi obbligatoriamente, troppe volte in una sorta di impulso adolescenziale che può varcare la soglia dei limiti imposti da etiche, moralità, buon senso, entrando così nei territori della trasgressione. Penso che il problema stia proprio in questo passaggio, nel fatto che molti genitori non sanno riconoscere i campanelli d’allarme, ma ancor prima, non sono realmente presenti e capaci di interagire nella crescita dei figli. Non sanno aiutarli a comprendere, prevenire e limitare i danni di situazioni nocive che purtroppo esistono nella società, quasi come una normalità. Una normalità che magari si preferisce non vedere e accettare, vivendola con distacco e indifferenza, ma che gli adolescenti si trovano ad affrontare quasi inevitabilmente in modo attivo o passivo, con il rischio di non saperla gestire o addirittura di lasciarsi travolgere. Comprendo che è difficile per un genitore toccare con i propri figli adolescenti argomenti poco piacevoli, imbarazzanti o complicati, magari del quale si ha carteBollate 5 Lavoro TAGLI – La rottamazione della legge Smuraglia Disoccupazione nelle carceri sicurezza sociale a rischio U continua da pagina 5 na lettera del ministero annun- vede sgravi contributivi per le cooperacia il taglio dei fondi alla legge tive e le imprese che assumono persone Smuraglia, che prevede sgravi detenute a cui va ad aggiungersi l’agefiscali e contributivi concessi volazione fiscale nella misura dell’80%. alle imprese che assumono lavoratori Nel solo 2010, a esempio, hanno trovato detenuti o che svolgono attività forma- un regolare contratto di lavoro presso tive nei confronti dei detenuti all’interno cooperative sociali 518 persone recludel carcere. Una doccia fredda che ha se, mentre 348 hanno lavorato presso spinto Lorenzo Porzano, rappresentante aziende private. Dal 1° luglio, in modo delle ditte che lavorano in carcere, a in- improvviso e unilaterale, tutto questo traprendere uno sciopero della fame fin- non può più accadere, poiché è stato deché non avrà risposte ciso di non concedere più tali Paghi chi da Roma. Quello di agevolazioni. Questo significa Porzano vuole essere che migliaia di persone deteha portato un segnale forte, che nute rimarranno senza lavoil Paese e si inserisce sulla scia ro e che le cooperative sociali l’Europa dello sciopero della che si sono fino a ora occupanel baratro fame intrapreso a lite del loro reinserimento sovello nazionale per il ciale andranno in crisi. Una sovraffollamento delle carceri. decisione, ci sembra, totalmente in linea Lo scorso 16 giugno il Dipartimen- e perfettamente coerente con il quadro to dell’amministrazione penitenziaria di tagli che il governo sta attuando per (Dap) ha inviato una nota alle coopera- rispettare il Patto di stabilità dell’Unione tive sociali che impiegano detenuti ed Europea. Il laboratorio politico Alternaex detenuti (Direttive per l’applicazione tiva crede che questa scelta, come le aldella Legge n° 193/2000) comunicando tre che seguiranno, porterà sempre più che i fondi della legge Smuraglia sareb- il peso di questa crisi sui lavoratori e sul bero terminati. La legge Smuraglia pre- ceto medio. «Occorre dire con chiarez- za che noi non vogliamo pagare questo prezzo sociale perché non siamo noi, ilavoratori, ad avere provocato il disastro», dichiara Marino Badiale, segretario di Alternativa «Paghino i grandi banchieri e le classi politiche e dirigenti che hanno portato il Paese e l’Europa nel baratro. Non paghiamo perché, in ogni caso, pagare non serve per andare in un’altra direzione, cioè dove siano difesi gli interessi delle grandi masse popolari». Per queste ragioni Alternativa aderisce all’appello dell’Associazione Antigone perché questa decisione, dannosa e pericolosa, sia rivista immediatamente: «Basterebbe – sottolinea nell’appello Patrizio Gonnella, Presidente nazionale di Antigone – assegnare alle cooperative i soldi stanziati per la costruzione di metà di un nuovo padiglione penitenziale per garantire lavoro ai detenuti e più sicurezza, o reinvestire i circa 5 milioni di euro della Cassa delle ammende, destinati un anno fa alla realizzazione di un’agenzia per il reinserimento lavorativo dei detenuti gestita dalla Fondazione per il rinnovamento dello spirito». Habib H’mam tutto quello che si perde tralasciando la salute, gli affetti, gli studi, gli hobby e professioni, entrando in uno stile senza regole. È questo insieme di circostanze che può trasformare il bullismo in un’anticamera del crimine vero e proprio, il salto di livello è breve. Credo che i figli vadano aiutati a comprendere e gestire meglio la vita e la società che li circonda, e questo può avvenire solamente con maggior intelligenza da parte dei genitori. Credo che un genitore debba investire più tempo sui propri figli, costi pure un calo delle ore lavorative e del bilancio economico familiare. Gli adolescenti a caccia di esperienze devono sapere che quello che all’inizio può sembrare una sensazione unica, nel tempo muterà e farà emergere la sua vera natura nociva, a volte in modo irreversibile. Bisognerebbe spiegare ai figli che tutte quelle sensazioni adrenaliniche e i divertimenti appaganti, quella forte volontà di liberarsi dal deprimente senso di frustrazione dovuto alla voglia di emergere, del sentirsi partecipe e del realizzarsi, si possono raggiungere senza sorpassare i limiti, senza commettere atti sconsiderati e dannosi. Bisogna ricercare, valutare e attuare con loro delle alternative all’apatia mentale, alla droga, al bullismo, al disagio, alle frustrazioni e prendere con loro quelle giuste e adeguate posizioni, senza che, se incapaci, impossibilitati o non all’altezza della situazione si abbia paura di chiedere aiuto alle istituzioni competenti, quali pedagoghi, psicologi, assistenti sociali o insegnanti. Un genitore non può declinare le responsabilità rispetto agli errori dei figli adolescenti, deve necessariamente chiedersi dive ha sbagliato suo figlio e dove ha sbagliato lui. Ovviamente altro è monetizzare una cattiva educazione. È mai possibile che il buon senso per essere o non essere tale molte volte debba divenire sentenza o legge? Carmelo Impusino una visione e un’informazione superficiale, inadeguata se non addirittura nulla. Si commette l’errore di pensare che la devianza minorile sia una scelta volontaria, non tenendo conto che un adolescente cresce con delle visioni e informazioni spesso elaborate con eccesso di presunzione, magari influenzato dal leader di turno che sostiene e spinge l’amico a non esser da meno nel trasgredire. Non si può poi non tener conto dell’influenza che droga e alcol hanno sui comportamenti dei giovani. Sotto gli effetti dello sballo, un adulto perde il controllo, figuratevi un adolescente. Quello che l’intelletto non gli dice se non in modo superficiale, confuso, quasi non fosse una realtà, è l’inevitabilità delle conseguenze lente o fulminee che in quel contesto si possono produrre. E quando parlo di conseguenze intendo psicologiche e fisiche, oltre che materiali ed economiche, penso alle convinzioni sbagliate che si fortificano, a 6 carteBollate IMPRESA-CARCERE – Così si lavora nelle aziende di Bollate Il cuoco, il giardiniere, la sarta e il centralinista Il lavoro nobilita l’uomo ma solo il 20% dei detenuti ne può usufruire all’esterno, visto che il lavoro dovrebbe essere alla base di un recupero del condannato. E vediamo quali sono queste imprese. SST srl: azienda ramificata in diversi settori, occupa circa sessanta reclusi a rotazione, con turni dalle otto di mat- foto di Remi N’diaye U n antico detto dice: “Il lavoro nobilita l’uomo”, ma questa opportunità, nelle 206 carceri italiane, è offerta solo al 20 per cento dei 70mila detenuti, generalmente in modo discontinuo e prevalentemente per attività non professionalizzanti. Il lavoro per la pubblica amministrazione è infatti quello che occupa la maggior parte dei detenuti: stando ai dati del ministero della Giustizia sono infatti 12mila le persone recluse addette alle pulizie, alla cucina, alla contabilità, alla manutenzione dei fabbricati o alla distribuzione della spesa di vettovagliamento. Altri 2000 lavorano presso aziende che operano all’interno delle carceri e circa 500 sono ammessi al lavoro esterno. Di questi, 75 sono a Bollate. Nella II° Casa di Reclusione di Milano (Bollate) ci sono anche parecchie opportunità di lavoro presso aziende e cooperative che consentono di imparare un mestiere spendibile anche tino alle ventidue. Tre civili occupano i turni con il call center, che lavora per H3G, Ikea, Fastweb, aziende che usufruiscono di tale servizio con i propri abbonati e clienti. C’è poi il laboratorio di riparazione della telefonia per Samsung e Alcatel e di premontaggi delle caldaie Bitron, che occupano circa quaranta reclusi di cui due donne, nove civili, due responsabili. Cooperativa Estia: responsabile Capato Michelina, si occupa del teatro all’interno dell’istituto con spettacoli ed eventi all’esterno e conduce anche un laboratorio di falegnameria che principalmente fa mobili e suppellettili destinati al mercato interno ed esterno. Out Sider: responsabile Vito Messana, call center per Telecom 1254; altre digitalizzazioni, data entry, le multe del Comune di Milano, occupa venti reclusi. Promotop: fabbrica degli appuntamenti, ovvero call center che fissa appuntamenti per agenti di vendita o direttori commerciali. Occupa circa dieci detenuti; inoltre c’è in prova un servizio con la Cattolica Assicurazione. Cooperativa Alice: responsabile Luisa Della Morte, si occupa di sartoria ed è approdata in questa Casa di Reclusione dal Carcere di San Vittore nel momento stesso in cui è stato aperto il reparto femminile, anche loro fanno arredamento sartoriale e sartoria per alcune aziende leader del settore; nel passato ha lavorato per Alvaro Martini, Miuccia carteBollate 7 Lavoro L’INTERVISTA – La bella storia di Santo Tucci, il ladro dell’arcobaleno S anto Tucci ha 54 anni e 38 li ha passati in carcere. Un incontro fortunato ha cambiato il corso della sua vita e la qualità della sua detenzione: quello con Patrizia Brancaleone, maestra d’arte del vetro, e con Alessandra Genola, operatrice volontaria nel carcere di Voghera. Racconta che restò affascinato dallo splendore di una bellissima spilla di vetro che Patrizia portava… Fu l’inizio, l’occasione insperata di un lungo percorso che lo farà diventare maestro dell’arte vetraria. Oggi all’interno del carcere insegna e ha creato una cooperativa, coinvolgendo altri detenuti. continua da pagina 7 Santo, cosa ti ha permesso di dare una svolta alla tua vita in carcere? La cosa più importante è stata il lavoro e il recupero di me stesso, l’autostima e l’incontro con gli altri, quindi, diciamo, un percorso interiore. E poi l’intesa positiva con l’istituzione penitenziaria, con la magistratura di Sorveglianza e con i tanti volontari che operano tra le mura del carcere. Parlaci dell’importanza del lavoro…. In carcere il tempo della pena e dell’attesa è un tempo sospeso e spesso rischia di diventare un’altra condanna per chi è qui dentro. Pensare a un progetto che dia senso alla pena è importante. Lavorare e confrontarsi con gli altri è, oltre che un’esigenza storicizzata del cammino sociale dell’uomo, un profondo bisogno di conferma personale, soprattutto oggi, che molti dei valori tradizionali stanno perdendosi, lasciandoci smarriti e senza punti di riferimento. Tutti sappiamo quanto sia necessario, in un luogo di pena, lavorare per costruire un ponte con il territorio per accorciare le distanze con la società. Ed è proprio in questo impegno e in questa volontà comune di portare avanti degli obiettivi e delle idee che si sono sviluppati che si è confermato nel tempo il mio lavoro con gli altri. Questo mi ha permesso di integrarmi senza difficoltà nel territorio trovando disponibilità e collaborazione. Decisiva è stata la disponibilità della Provincia di Milano, che mi ha assegnato Prada e ha creato i vestiti di scena per le veline di Striscia la notizia. Cascina Bollate: responsabile Susanna Magistretti, serre per piante e fiori, vivai con piante che difficilmente si trovano nei vivai più commerciali. Si occupa di allestimento di giardini e terrazzi, prevalentemente per clienti privati. La cooperativa esiste da quattro anni, ha sei lavoranti reclusi e parecchi esterni che ruotano attorno come volontari o come collaboratori. Da quest’anno ha creato un orto all’interno di un reparto producendo ortaggi vari con l’occupazione di sei/otto detenuti, vendendo tali prodotti ai gruppi di acquisto solidale (GAS) e anche a chi vive o lavora nel carcere. ABC, catering, la sapienza in tavola: responsabile: Silvia Polleri, con esperienza nel sociale in Africa e alla clinica Humanitaria. La cooperativa è nata per volontà non solo dalla titolare ma anche dall’ex direttrice Lucia Castellano e di un volontario, Franco Cecconi, che finanziò di tasca propria l’acquisto di tovaglie, piatti, bicchieri, posate e prodotti alimentari per cucinare e preparare i primi servizi; nell’arco di breve tempo si è fatta conoscere lavorando con clienti prestigiosi e dal 2006 si occupa anche delle cucine interne, facendo i pasti per tre reparti su otto. Il lavoro dei suoi soci è regolamentato dall’articolo 21, beneficio dell’ordinamento penitenziario che aiuta i reclusi per il loro reinserimento e che consente l’uscita lavorativa all’esterno. Abc ha vinto la gara di appalto per gli anni 2005/8 con il Tribunale di Milano per l’allestimento delle colazioni di lavoro, incontri e formazioni magistrati. Annovera tra i suoi clienti quasi tutte le università milanesi, il NABA (nuova accademia di belle arti), l’ Archivio di Stato, la Sovrintendenza Beni Artistici e Culturali, Accademy of European Law, il Centro Culturale San Fedele, il Rotary Club, i sindacati, l’Ordine degli avvocati, enti locali quali Comune di Milano, Lodi, Bollate, Baranzate, Crema, la Provincia di Milano, la Regione Lombardia e diversi istituti bancari, il 8 carteBollate foto di Remi N’diaye L’attività grazie alla quale ho cambiato la mia vita Museo Diocesano con cui è stato stipulato un contratto 2010/2012, l’Accademia Italiana della Cucina, IKEA, EXPO 2015, oltre ai molti eventi privati. Arte e cuoio: lavorazione di pellame per la confezione di borse, cinture, sandali, souvenir e oggetti artigianali in pelle fatti esclusivamente a mano. I clienti sono i reclusi stessi e ci lavorano due titolari detenuti con alcuni volontari. Cooperativa Salto oltre il muro: responsabile Claudio Villa, si occupa di cavalli. Ha creato nell’arco di pochi anni un vero e proprio maneggio con tanto di stalle e paddock, ci sono dieci cavalli, si fanno corsi di artiere ai quali partecipano a rotazione una decina di detenuti. Non si tratta di un’attività retribuita ma di formazione professionale. Il passo: lavorazione del vetro, lampade, oggettistica e tutto quello che può essere fatto con il vetro. A questa attività dedichiamo un articolo nella pagina accanto, con l’intervista al suo ideatore, Santo Tucci. Antonio Lasalandra uno spazio che mi consente di portare fuori dal carcere la mia professione. Ho potuto costituire assieme a dei volontari anche una cooperativa sociale e ho trasformato il locale in un laboratorio artistico, dove esercito la mia attività lavorativa in regime di Art.21 da ormai tre anni. Quindi la tua esperienza lavorativa è stata determinante per il tuo riscatto? L’esperienza lavorativa all’interno del carcere è un mezzo importante per crescere e maturare nella consapevolezza di nuove assunzioni di responsabilità. E’ ciò che mi permette di intravvedere, attraverso un progetto in movimento, traguardi che stimolano la voglia di diventarne protagonista attivo del mio stesso percorso educativo. Il mio è stato sicuramente un lavoro paziente, un tassello alla volta, che mi ha aiutato a crescere e mi ha fatto capire come importante sia il dolore, quello che si porta dentro da tanto tempo, al quale non so assegnare un nome giusto, voglio dire che è stata importante l’esperienza del dolore. Le scelte di cambiamento non sono mai facili, soprattutto in un luogo di pena. L’elemento fondamentale di questo nuovo stile di vita per me è stato ri-sperimentare e prendere coscienza della propria relazionalità, in altre parole del proprio modo di esserci, acquistando consapevolezza dei contenuti rimossi e repressi, al fine di staccarmi e abbandonare le parti sofferenti e bloccate e intraprendere un cammino personale di crescita e di maturità. Questo ha cambiato profondamente la mia vita dentro e fuori dal carcere. Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti forse è addirittura irrappresentabile se non si tocca con mano. Mi piace quindi significare, con il mio lavoro, un tragitto diverso, un cammino, sì, difficile, ma più vicino alle attese reali. Un progetto che possa consentire un effettivo reinserimento sociale. Quali sono adesso i tuoi progetti? Resta uno dei miei primi obiettivi l’avvio di una scuola della lavorazione artistica del vetro. L’idea di creare una cooperativa dentro il carcere come è nata? Occorreva dare un corpo giuridico alla mia attività per poter commercializzare i prodotti e creare lavoro anche per altri compagni di pena. E’ stata una scelta coraggiosa, ma sono certo che anche altri possono farcela, bisogna che qualcuno incominci a fare il primo passo… basta volerlo. Occorre fare delle scelte ed essere consapevoli di cosa veramente si vuole fare della propria vita. Certo, in carcere a causa della scarsità di finanziamenti, di operatori specializzati, di richiesta e offerta di lavoro, c’è il rischio che ogni sforzo resti lettera morta e poco importano i pochi casi ben riusciti a fronte dei tanti fallimenti. Un detenuto costa alla società tantissimo, eppure il degrado e l’inefficacia trattamentale rendono il più delle volte questa spesa terribil- mente superflua. Si dovrebbe incominciare a lavorare di più per cambiare la cultura del lavoro dentro il carcere per poi pensare a costituire aziende che occupano più persone. Da quanti anni svolgi questo lavoro ? Sono passati vent’anni da quando ho iniziato, non ho mai smesso perché ormai tutto questo fa parte della mia vita. Il vetro con il suo splendore mi ha catturato sin da subito. Per me è come una magia. Adoro il mio lavoro. Quali sono le tue opere alle quali più ti senti legato? Sono tantissime le creazioni che in tanti anni ho realizzato: tanto per citarne qualcuna, le vetrate della cappella del carcere di Opera, le vetrate della chiesa di San Rocco a Voghera e quelle della chiesa di Sant’Arialdo. Poi c’è Amina una statua in vetro a dimensione umana che è una lampada: l’opera è stata ispirata dalla storia di Amina Lawer, la donna nigeriana accusata di adulterio, condannata alla lapidazione e poi assolta, anche a seguito della mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, che continua a simboleggiare le condizioni di maltrattamento e discriminazione cui sono ancora soggette milioni di donne in tutto il mondo. Questa opera l’ho donata al Comune di Roma che si era fatto promotore dell’iniziativa contro la pena di morte (all’epoca il Sindaco era Walter Veltroni). Attualmente si trova esposta in Campidoglio. A.L. carteBollate 9 Lavoro CORPORAZIONI – Quali ricadute sull’occupazione? Il libero accesso alle professioni che piace a Tremonti M olti iscritti agli ordini professionali temono di perdere le loro poltrone, l’ansia e la paura sono determinate dalle dichiarazioni rilasciate dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il quale ha fatto capire che non si può frenare il libero accesso alle professioni, come viene imposto dagli organismi corporativi di categoria, che così facendo difendono i fatturati dei loro iscritti. Il rafforzamento delle politiche economiche e di bilancio dei 27 Stati membri nel nuovo “semestre europeo” ha fatto sì che l’Ue invitasse Roma con una specifica raccomandazione su questo punto, liberalizzando l’accesso alle professioni e alle attività di servizio, così l’orientamento del nostro governo è in qualche modo stimolato. Le barriere regolatorie vengono considerate da Bruxelles molto negative, sia per lo sviluppo che per l’occupazione, ostacolando di fatto l’ingresso nel mercato del lavoro; il nostro Paese ora non ha più la possibilità di mantenere certi privilegi, fiscali e previdenziali, precedentemente concessi dai partiti ad alcune categorie, benefici che hanno contribuito all’incremento del deficit e del debito pubblico. La speculazione, sotto l’occhio attento di Bruxelles, ha iniziato ad attaccare i titoli di Stato italiani, considerando che la maggior quantità è in possesso delle principali banche nazionali, il risanamento dei conti pubblici deve necessariamente essere condotto anche attraverso liberalizzazioni in grado di rilanciare sia l’occupazione che la crescita. L’alternativa è forse finire come la Grecia? Auguriamoci di no! L’emergenza disoccupazione è visibile in ogni settore, l’Italia secondo dati Eurostat ha un’occupazione pari al 61% nella fascia tra i 20 ed i 64 anni, siamo quindi collocati sul fondo della classifica UE, solo Malta e Ungheria stanno peggio. Stando ai dati Istat del giugno 2011 c’è un accenno di ripresa: il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è calato al 27,8%, segnando un ribasso di 0,4 punti percentuali rispetto a maggio 2011. Il numero complessivo dei disoccupati è sceso a 2 milioni, registrando un calo rispetto al mese precedente 10 carteBollate Molti giovani stanno scappando verso altri paesi dello 0,3% (-7 mila unità), con un calo della componente maschile e un aumento di quella femminile. Su base annua il numero di disoccupati diminuisce del 3,9% (-81 mila unità). Il numero di donne disoccupate, invece, aumenta dell’1,7% (+16 mila unità) rispetto al mese precedente e diminuisce dell’1% su base annua. Paesi come Olanda, Danimarca e Svezia hanno liberalizzato l’accesso alle professioni e al mondo del lavoro così da ritrovarsi ai primi posti, mentre nel nostro Belpaese la fascia dei giovani nella realtà occupazionale è palesemente drammatica, per non parlare delle donne o della fascia tra i 54 e 64 anni. La liberalizzazione delle professioni avrebbe una ricaduta sull’occupazione? Molti ordini professionali sono palesemente inutili e corporativi: l’Ordine dei Giornalisti ha un ruolo importante per il controllo della deontologia dei propri iscritti, ma tra i suoi iscritti ha parecchie persone che non esercitano la professione, come politici di mestiere, portaborse, addetti vari in retribuzione a società quali banche enti pubblici o privati. Il suo scioglimento, di cui ciclicamente si parla, certamente non allargherebbe l’accesso alla professione, già oggi gli organi di informazione si avvalgono di collaboratori sottopagati e il fatto che siano giornalisti professionisti o giovani alle prime armi non cambia le retribuzioni e le possibilità di contrattualizzazione. Ormai da qualche anno anche il mondo dell’avvocatura vive una crisi strutturale, tanto che il fatturato da dati ufficiali è in calo, riconoscendo che ci sono cir- ca 60.000 avvocati che non si iscrivono alla cassa forense perché dichiarano un fatturato annuo inferiore a 9.700 euro, 750 euro mensili contro una soglia di povertà di 1.000 euro mensili. Il mercato è fatto di domanda e offerta e in questo momento l’offerta di lavoro è in molti casi sovrabbondante rispetto alla domanda, anche a causa delle politiche occupazionali restrittive, discriminatorie e ingessate che caratterizzano il nostro ordinamento. Illudersi di poter creare dei posti di lavoro ben retribuiti e senza conseguenze per la produttività grazie a grida manzoniane è tipico dei politici, immersi nella loro presunzione fatale di poter dirigere l’economia e nella concreta ambizione di accaparrarsi qualche voto in più. Il libero accesso alle professioni forse darebbe spazio all’imprenditorialità professionale dei singoli, in modo particolare dei neolaureati, costretti a stage mal retribuiti o peggio ancora gratuiti senza che si prospetti loro un avvenire professionale certo.Se l’Europa tende a proseguire su questa strada, non possiamo certo essere noi i soliti ad andare controcorrente. Molti giovani (e non solo) stanno scappando verso altri Paesi, anche la vicina Spagna, segnata da una profonda crisi economica non disdegna di accoglierli. Riflettiamo, per troppo tempo siamo rimasti chiusi in noi stessi difendendo corporazioni ormai obsolete che continuano, incuranti, a bloccare lo sviluppo economico di un Paese che si deve scuotere e che deve con forza uscire da questa pesante crisi. Francesco Rossi Esteri LIBIA – La denuncia di Amnesty International Migliaia di profughi in fuga: Europa dove sei? A ll’alba del 25 ottobre la sabbia del deserto libico ha ricoperto il corpo di Muammar Gheddafi, cinque giorni dopo la sua morte. La Libia adesso dovrebbe essere un paese libero, ma la sua storia senza Gheddafi è ancora tutta da scrivere. Deve fare i conti con il proprio passato e con gli strascichi di una violenta guerra civile e la sepoltura del colonnello non è neppure l’iniziuo di un lungo processo di riappacificazione. Se la comunità internazionale chiede a gran voce rispetto dei diritti umani e accertamento di quanto è davvero accaduto nelle ultime ore di vita del dittatore, i libici percepiscono il clamore che viene dall´estero come un´ingerenza e mostrano ben poca riprovazione verso chi ha infierito sul tiranno. Parte dell´accanimento viene anche dalla voglia di esorcizzare il timore che l´era di Gheddafi non sia finita e che ciò che resta della famiglia possa riorganizzare i gruppi di sbandati. Nei campi prefabbricati alla periferia di Tripoli da settimane vivono i 35mila abitanti di Tawargha, fedeli al rais fino all’ultimo istante. Sono stati rinchiusi qui col divieto di tornare alle loro case. Fra loro molte donne e bambini.”All’inizio ci hanno dato una lista di persone – racconta questa donna – se le avessimo consegnate ci avrebbero liberato. Noi abbiamo visto la nostra città distrutta, le nostre case distrutte. Stiamo soffrendo, vogliamo che i ribelli rispettino i diritti umani”. Un rapporto di Human rights watch denuncia abusi in questo campo.”Ti picchiano finché non confessi reati che non hai commesso” dice quest’uomo che sostiene di essere stato torturato con le scosse elettriche.Tawargha era la base della gran parte dell’esercito di Gheddafi, comprese le famigerate brigate del figlio Khamis. Per gli uomini del Cnt fra questi fedelissimi ci sono persone accusate di aver commesso gravi crimini durante l’assedio di Misurata, massacri, saccheggi, stupri. Il futuro di queste persone è ancora tutto da chiarire. Di Gheddafi resta il suo ultimo messaggio, una registrazione audio trasmessa dalla televisione siriana ’Arraì (che in arabo significa : il parere), per bollare come una «farsa» quanto sta accaden- do nel Paese nord-africano. «Quello che sta succedendo in Libia è una farsa che può avere luogo soltanto grazie alle incursioni aeree della Nato, le cui bombe però non dureranno all’infinito», aveva ammonito Gheddafi. «Non rallegratevi», è il monito rivolto alle potenze occidentali, «e non pensate che un regime possa essere rovesciato, e un altro imposto con l’ausilio degli attacchi aerei e navali. Il sistema politico libico è un sistema fondato sul potere del popolo ed è impossibile che sia rimosso». Il messaggio dell’ex leader della Jamahiriyah (Repubblica) era arrivato mente le milizie del Consiglio Nazionale Transitorio sferravano l’ultimo attacco, espugnando la località costiera di asSultan, situata appena una trentina di chilometri verso Sirte, la città natale di Gheddafi, verso cui avevano costretto a ripiegare le residue forze fedeli al vecchio regime. Nel deserto della Cirenaica sud-orientale gli insorti avevano inoltre catturato il generale lealista Belqassem al-Abaaj, già capo dei servizi d’intelligence di Gheddafi per la regione di Cufra. L’alto ufficiale era stato bloccato insieme alla sua famiglia a un centinaio di chilometri dall’oasi di Sabha, 600 chilometri a sud-est di Tripoli. Stavano tentando di fuggire a bordo di cinque fuoristrada. Abaaj, ricercato da tempo dal Cnt, era il comandante delle forze mercenarie nella Libia meridionale: è accusato di ripe- tute atrocità contro i civili. Dagli Usa, dove si sono svolti i lavori dell’annuale sessione ordinaria dell’Assemblea Generale dell’Onu, l’auspicio del presidente americano, Barack Obama, è che la transizione porti a elezioni libere in Libia. “Oggi, i libici scrivono un nuovo capitolo nella vita della loro nazione. Dopo quattro decenni di tenebre – sono le sue parole – possono camminare per le strade, liberi” ma libertà e democrazia sono traguardi tutti da costruire in un Paese in cui i diritti umani continuano ad essere calpestati e anche l’Europa deve fare la sua parte. Amnesty International ha criticato duramente l’Unione Europea, responsabile di non aver affrontato l’emergenza dei rifugiati ai confini libici. «Abbiamo assistito a una pessima risposta alla piaga dei rifugiati alle porte dell’Europa», ha denunciato. «Ciò è particolarmente eclatante in considerazione del fatto che alcuni Paesi europei, partecipando alla missione Nato in Libia, sono stati parte del conflitto che rappresenta una delle cause principali dello spostamento non volontario delle persone». Nel marzo scorso Amnesty, dalle colonne del Corriere della sera denunciava: “in fila anche per ore per avere un pezzo di pane al confine di Ras Ajedir tra la Libia e la Tunisia”. Da allora non molto è cambiato per i rifugiati in fuga dalla guerra civile. Migliaia di persone sono carteBollate 11 Esteri continua da pagina 11 stato di totale abbandono. Amnesty inaccusa l’Europa di aver voltato le spalle ai profughi africani e di non essersi attivata per il reinsediamento a circa 5.000 rifugiati che versano in condizioni drammatiche, lungo il confine libicoegiziano e libico-tunisino e che andrebbero incontro alla persecuzione o alla guerra se rinviati nei Paesi di origine». «Pur essendo la protezione dei civili la ragion d’essere dichiarata dell’intervento della Nato in Libia – si legge in una nota dell’organizzazione internazionale – gli tati dell’Unione europea e la Nato non hanno adottato tutte le misure necessarie per garantire ai civili in fuga dalla Libia di mettersi in salvo. Da quando è iniziata la guerra in Libia, – prosegue Amnesty - molte persone hanno dovuto affrontare viaggi pericolosi, a volte fatali, attraversando il mar Mediterraneo verso le coste europee. Pur avendo ricevuto in questi mesi soltanto il 2 per cento dei richiedenti asilo, rifugiati e migranti fuggiti dalla Libia, gli stati dell’Unione europea non hanno esitato a parlare di un afflusso di massa, causato dall’instabilità nell’Africa del Nord e hanno continuato a perseguire politiche di controllo delle frontiere a spese dei diritti umani”. «C’è un abisso tra la sofferenza dei rifugiati alle porte dell`Europa e la risposta data dall`Unione europea» ha dichiarato Nicolas Beger, direttore dell’ufficio di Amnesty International presso le istituzioni europee. «Un fallimento evidente, considerato il fatto che alcuni Paesi europei, partecipando alle operazioni della Nato in Libia, hanno preso parte a quel conflitto che è stato uno dei principali motivi dello spostamento non volontario di quelle persone. I ministri degli Interni dell’Unione europea devono affrontare urgentemente la questione». Australia, Canada e Usa hanno espresso disponibilità a reinsediare alcuni dei rifugiati. Per quanto riguarda l`Unione europea, la disponibilità è stata offerta solo da otto Paesi e riguarda meno di 700 persone» spiega l’organizzazione. Amnesty International chiede alla comunità internazionale, e in particolare agli Stati dell`Unione Europea, di condividere le responsabilità della crisi in corso per reinsediare i rifugiati in fuga dalla Libia. I paesi disponibili ai reinsediamenti dovrebbero lasciare da parte le quote annuali per affrontare questa situazione. La sezione italiana di Amnesty International, ha preso parte alla marcia per la pace Perugia-Assisi, sfilando dietro allo striscione “1500 morti nel Mediterraneo. Europa dove sei?” per ricordare le persone decedute nel mar Mediterraneo, in fuga dalla Libia. Ma la questione non riguarda solo i libici. Un migliaio di persone – fa sapere Amnesty – tra cui cittadini eritrei, etiopi, iracheni, ivoriani, palestinesi, somali e sudanesi, si trova abbandonato al posto di frontiera egiziano di Saloum. La maggior parte dorme sotto ripari di fortuna fatti di plastica e coperte; i bambini e le donne sotto due tendoni. Nel campo di Choucha, nel deserto della Tunisia, si trovano circa 3800 rifugiati e richiedenti asilo. Anche questo è un problema di democrazia, di libertà, di rispetto dei diritti umani e qui l’Europa non ha titoli per dare lezioni, ma è direttamente responsabile. Habib H’mam PASQUA MUSULMANA – Celebrata come ogni anno la festa del sacrificio Anche in carcere è Id al-adha A nche in carcere la comunità musulmana ha da poco celebrato Id aladha, la la festa del sacrificio, che è una delle più importanti celebrazioni religiose. La Pasqua musulmana consiste nel sacrificio di un agnello come ricorda anche l’episodio del profeta Abramo, che invece di sacrificare il figlio, venne graziato da Dio che gli offrì in sacrificio l’agnello. La Pasqua, oltre ad essere il ricordo di questo episodio, è molto di più, ad esempio il ricongiungimento dei parenti vicini e lontani, oppure la riappacificazione di due famiglie in litigio, questo perché è una grande festa religiosa musulmana. Il popolo musulmano si riunisce in questa festa come nel Ramadan, quelli che non hanno niente vengono aiutati dagli altri fratelli e ai bambini vengono acquistati nuovi vestiti per un giorno così importante e sacro. Al sacrificio dell’agnello segue la preghiera sacra e in Marocco l’usanza è quella di aspet12 carteBollate tare il Re, che lo compie per primo. La Pasqua musulmana ricorre due mesi e dieci giorni dopo la fine del Ramadan, come stabilito dal calendario Arabo che è differente da quello Occidentale. Dopo il rituale del sacrificio tutti assieme si festeggia mangiando il tipico piatto che sono gli spiedini alla griglia, mentre il resto dell’agnello, che nel frattempo è rimasto appeso e coperto da un lenzuolo bianco, sarà tagliato il giorno seguente. Dopo aver mangiato ci si reca a trovare i propri parenti e amici, per augurare una buona Pasqua, scambiandosi parti di agnello come da tradizione, mentre ai bambini vengono donati soldi per dar loro modo di fare un’ulteriore festa con i propri coetanei; così avviene da generazioni fino ai giorni nostri. Questo è il senso dello spirito della Id al-adha musulmana, festa piena di valori affettivi, che non morirà mai e che viene vissuta anche dagli stranieri in Italia, ma senza il calore che si trova nell’essere vicino ai propri familiari e amici. Per i carcerati la festa del Sacrificio è una occasione per unirsi attorno ad una tradizione, ma non sempre per loro è possibile organizzare questo evento come avviene invece qui a Bollate dove noi abbiamo sempre avuto una grande collaborazione da parte della direzione, della polizia penitenziaria e da tutti gli operatori e volontari, che con il loro sostegno ci permettono di festeggiare. Noureddin Hachimi GRANDI CHEF – Ricette raffinate da cucinare anche in famiglia Dolce come il cioccolato con un pizzico di sale N on è semplice scrivere di cucina senza farsi prendere da un insieme di gusti, sapori, ricordi e tutto quanto ti riporta inevitabilmente a ciò che vorresti fare, inventare o sperimentare. Questa volta partiamo dalla Spagna, da lui, dallo chef per eccellenza, dallo chef per grazia divina, da Ferran Adrià, cinquantenne supertifoso di Messi e compagnia, appassionato di flamenco e scatenato fan di Quentin Tarantino, già, di lui si è raccontato molto a volte esagerando, maestro, genio, il Leonardo da Vinci della gastronomia. A 18 anni andò a lavare i piatti e pelare patate a Ibiza, giusto per pagarsi le vacanze e come lui stesso dice “se non l’avessi fatto oggi non sarei diventato quello che sono”. Insomma una superstar internazionale celebrata ma anche criticata: pensate, un grande chef che è innamorato del nostro vitello tonnato, pochi lo sanno! Persino l’università di Harvard lo ha invitato a tenere corsi come “lecturer”, conferenziere ospite, il colosso delle telecomunicazioni Telefonica l’ha ingaggiato come testimonial, infine a Hollywood pensano a un film sulla sua vita. Oggi, dopo aver chiuso il suo mitico “El Bulli” a un tiro dalla Costa Brava, locale dove per pranzare e cenare c’era una lunga attesa, ha deciso di dedicarsi alla cucina meno sofisticata, più pratica, quella dei comuni mortali, quindi piatti più semplici, in fondo la buona cucina si fa anche in casa, risparmiando, scegliendo ingredienti semplici e di qualità nel negozio o nel mercatino di fiducia e dedicando estro e invenzione negli abbinamenti degli ingredienti. Un esempio banale, preparate il pane con cioccolato e olio d’oliva, uno dei dolci più diffusi in Catalogna, facile: grattugiate grossolanamente il cioccolato fondente, mettete il pane casereccio a fette nel forno e preriscaldato a 160 gradi, una volta tostato ricoprite il pane abbrustolito con i piccoli pezzi di cioccolato, versate qualche goccia di olio extravergine “per esempio un Alois Lageder olio d’eccellenza fruttato”, alcune scaglie di sale marino ed ecco che il dessert di Barcellona è pronto per essere gustato. Adrià quindi ha deciso di prendere i E NOI INVECE... Menù del Ristorante 1 stella via C.Belgioioso, 120 - Bollate Milano ANTIPASTO: mozzarella e prosciutto crudo ( mozzarella della casa, prosciutto crudo Olio extra vergine. origano) Zeppoline fritte (farina, lievito di birra, sale. olio di semi) Bruschette (pane della casa, pomodorini, olio, aglio, prezzemolo) PRIMO PIATTO: Pasta fresca (uova, farina) Tagliatelle alla crema di noci e radicchio. ( radicchio, gheriglio di noci, olio extra vergine, aglio, prezzemolo e pepe) SECONDO PIATTO: Arrosto della nonna (arrosto arrotolato, brodo di dado, burro, olio, aromi) CONTORNO: Insalatina mista Patate al forno FRUTTA : Macedonia della casa con frutta di stagione e yogurt (frutta, yogurt,cannella). DOLCE: Profiterol (Bignè, crema al cioccolato con cacao) CAFFE ‘ Totale costo pranzo Euro 4,50 a persona N:B Gli ingredienti che non passa la casanza si possono trovare tranquillamente nel mod. spesa n. 72 Buon appetito ! carteBollate 13 DIPENDENZE – Un gioco che diventa ragione di vita Ammalarsi per scommessa S continua da pagina 13 commettere. La scommessa è una passione, è adrenalina allo stato puro, è una emozione che ti prende a livello fisico e psicologico. Decifrare lo scommettitore è complicato. Chi scommette porta dentro di sé un’alternanza di sensazioni, è un po’ bambino e adulto nello stesso tempo. Chi non ha scommesso almeno una volta in vita sua? Non importa su cosa o chi, l’importante è appropriarsi dell’idea che un avvenimento sia e si svolga come noi abbiamo pensato, scommettendo su quella previsione. Sì, perché tutti da bambini abbiamo anche se in modo platonico, scommesso su ogni cosa. Lo scommettitore vero pensa e ripensa tutto il giorno e anche la notte, non riposa, deve sempre tenere la propria mente attiva e pensare alla scommessa migliore, alla miglior quota per poter dire: sì ho vinto e sono io il professore. Tutte le volte che lo scommettitore vince diventa nel suo pensare il migliore di tutti, si identifica in un vincente che non può sbagliare. Qualsiasi sia la scommessa, potere esibire il tagliando vincente lo appaga nel suo ego interiore come non mai. Scommettere per un giocatore diventa con il tempo un lavoro che occupa tutta la giornata. Gli scommettitori che sono appassionati di ippica fino dal mattino diventano frequentatori delle agenzie. Seguono con passione e impegno ogni corsa e sono a conoscenza di tutti i risultati dei cavalli in gara nella giornata. Sullo stesso piano dello scommettitore si colloca l’allenatore del cavallo. Egli con molta passione e professionalità convive con il proprio sogno, nella speranza che il suo cavallo diventi un campione. È a tutti gli effetti uno scommettitore pure lui. Se chi scommette sulla corsa punta sulla propria competenza, sulla propria passione e vive l’emozione della vittoria come un’affermazione delle proprie conoscenze, l’allenatore dall’altra parte della staccionata corre fisicamente insieme al proprio cavallo, scommette di conseguenza sul proprio lavoro e vive sensazioni forse superiori al giocatore, sentendosi alla fine vincitore pure lui. La scommessa ippica rappresenta solo una piccola parte del tempo che il giocatore dedica alla sua passione, qualsiasi sia lo sport e ovunque si possa scommettere egli è presente, la sua natura lo porta a seguire ogni avvenimento sportivo e su di esso scommette. La ricerca della vittoria, la ricerca di sentirsi appagato nella sua capacità di essere il migliore e poter guadagnare soldi con le sue previsioni lo rende, a suoi occhi, infallibile, e di conseguenza egli si sente una persona appagata e sicura di sé. Ma egli perde di conseguenza ogni senso della realtà, vive il suo mondo, quello delle scommesse, come unico e perfetto, venendone assorbito totalmente. È a questo punto che anche un gioco, iniziato come semplice passatempo o diversivo innocente, può diventare un’altra cosa: dipendenza. Questo perfido virus che penetra inesorabilmente nella vita del giocatore rappresenta l’inizio della fine. Dal gioco si passa velocemente alla malattia e non sapere di essere ammalato rende il virus inattaccabile. Tutto cambia, il rapporto con il denaro, il proprio lavoro, i propri affetti, le amicizie vengono anche loro attaccate dalla malattia del giocatore e in breve tempo quella che era una vita appagante e piena di successi diventa una vita allo sbando, senza punti di riferimento se non solo e ancora il gioco, la scommessa. Benedetto Mascari. 32 menù più gettonati del suo staff, tipo “verdure arrosto, tagliatelle alla carbonara, polenta, gazpacho, uova in camicia (meglio ricordare che se sono fresche galleggiano nel pentolino, se affondano sono vecchie, da buttare)” con qualcosa di più ricercato, “quaglie con cuscus, arrosto di maiale alla messicana, zuppa di miso con vongole, salsicce con sugo di pomodoro”, e li ha racchiusi nel suo libro “Il Pranzo in Famiglia”, in uscita. Questo fa pensare a un Ferran Adrià diverso, a portata di mano, quindi mai visto e assaggiato. Infine il suo “El Bulli” non è veramente chiuso, lo sta solo trasformando e chissà, forse lo ritroveremo ancora tra i suoi rinnovati fornelli, forse per farlo funzionare solo su invito per pochi fortunati e selezionati buongustai ai quali proporre magari il suo menù 31 “insalata Waldorf, zuppa con filini e cozze, crema di melone e menta con pompelmo rosa”. Ora diamo luce al nostro bel Paese e ai nostri chef pluristellati ed emergenti. Dal mese di settembre Andrea Aprea, partenopeo scuola Heston Blumenthal, è al Park Hyatt, uno dei più fascinosi hotel di Milano. Passiamo a Francesco Passalacqua, ristorante Pane e Acqua: è un cuoco langarolo che orchestra lauti pasti aperti da un pane da sballo e giocati con materie prime della sua terra. Pensate: nel suo ristorante troverete sedie tutte diverse ai tavoli e, cosa strana, si possono pure comprare. Ora provate a cimentarvi con questa ricetta: l’arrosto di maiale alla messicana (per due persone): ponete in un recipiente succo d’arancia 50 ml, un pizzico di origano e uno di cumino, 2 cucchiaini di vino bianco, 60 gr di pasta di achiote (pianta messicana); frullate, poi incidete la spalla, conditela con sale e pepe, disponetela in una teglia rivestita di alluminio, irroratela con la marinata e con cipolla bianca a tocchetti. Marinate per 30 minuti, preriscaldate a 200 gradi il forno e infornate, dopo aver avvolto la carne in alluminio, cuocete per 4 ore. Una volta pronta, servite con tortillas calde. Un ultimo indirizzo a Marina del Cantone (NA) alla Taverna del Capitano dove Alfonso Caputo guarda a vista la sua brigata: un cuoco di razza e pescatore d’istinto non si limita a utilizzare le fantastiche materie prime del circondario, ci mette del suo con pasta trafilata e l’estro del momento, persino la polpa di riccio che esce dalla caffettiera. Qualche notizia sui vini, proprio in queste settimane escono le guide dei vini Gambero Rosso, Duemilavini, l’Espresso, Slow Wine e Veronelli, vi segnalo questi: Barolo Monfortino riserva 2004 cantina Giacomo Conterno, primitivo di Manduria 2009 cantina Gianfranco Fino, Brunello di Montalcino 2006 cantina La Cerbaiola-Salvioni. Sarà un’annata da ricordare, la produzione è scesa del 5% ma le cantine si aspettano un prodotto superiore, come nei tempi migliori. Vi ricordate dello Chardonnay? Bene, segnatevi questa etichetta, Gaja & Rey di Angelo Gaja ha il merito di essere stato tra i primissimi, se non il primo, Chardonnay di altissima classe presente sempre nei grandi pranzi italiani. Francesco Rossi 14 carteBollate DOSSIER giustizia in tilt Costerebbe quasi 5 milioni di euro allo Stato Italiano Una class action contro il sovraffollamento D ove è finita l’ipotesi di class action contro lo Stato, che i Radicali avevano ipotizzato all’indomani della sentenza Souleimanovic? Dopo la decisione della Corte Europea che condannava l’Italia al pagamento di una multa di mille euro per risarcire un detenuto costretto a vivere in cella, in uno spazio non regolamentare (inferiore a 7 metri quadrati a persona) proprio il partito di Marco Pannella aveva ipotizzato un’azione di massa per denunciare la situazione di illegalità delle carceri italiane. Un anno fa ci avevano provato i detenuti siciliani, che si erano rivolti alla Corte europea di Strasburgo denunciando la situazione nelle carceri e chiedendo un risarcimento danni per le condizioni «disumane» in cui sono costretti a vivere. Nel ricorso cinquanta reclusi, assistiti da un avvocato, raccontano la loro vita fra topi, scarafaggi, celle anguste e senza riscaldamento. Ma questo stesso racconto potrebbe essere fatto in molte patrie galere. Luigi Tarantino ha condannato il ministero della Giustizia al risarcimento simbolico di 220 euro nei confronti del detenuto Slimani Abdelaziz. La motivazione fa riferimento alla non osservanza delle norme imposte dalla Comunità Europea e della legge che disciplina le condizioni di detenzione carcerarie e della Convenzione sui diritti dell’uomo. Intanto una sentenza Italiana anticipa la Corte Europea, con l’ordinanza n° 17/10 del giudice di sorveglianza di Lecce. In particolare Slimani lamentava che lo spazio pro capite a disposizione per lui e per i suoi due compagni era di 3,39 mq a testa dai quali bisogna togliere la spazio di letti e arredi. In questa angustia dovevano restare per circa 19 ore al giorno, senza un minimo di privacy e senza nessuna tutela della dignità personale. La sentenza di Lecce fa inoltre riferimento all’inosservanza della Carta dei diritti umani dei detenuti, all’assoluta mancanza d’igiene e alla sovrapposizione di 3 letti a castello fino ad arrivare a 50 centimetri dal soffitto, col rischio, per chi vi deve dormire, di gravi infortuni qualora durante la notte dovesse cadere. Di fatto il giudice Tarantino si è attenuto agli standard decisi dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e di ogni forma di trattamento inumano e degradante, che stabiliscono che in cella singola si deve disporre di almeno 7 metri quadri di spazio utile , mentre in cella multipla lo spazio non deve essere inferiore ai 4 metri quadri per ogni detenuto. Ovviamente la sentenza emessa dal giudice Tarantino crea un precedente per ciò che riguarda i ricorsi da parte dei detenuti, che fino a oggi avevano come riferimento solo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 16 luglio 2009 riferita al detenuto bosniaco Souleimanovic, recarteBollate 15 DOSSIER VOLONTARIATO – Lavoro socialmente utile per dare un senso alla pena Detenuto: scarto o risorsa? L a differenza tra una condanna intelligente, costruttiva, con un concreto senso della pena, del risarcimento e riscatto sociale, e una condanna non intelligente, insensata, controproducente quanto inutile, dal forte sapore della vendetta sociale? Media e senso comune rivelano una percezione superficiale della realtà penale. Si sente parlare sempre di certezza della pena, ma mai del suo significato etico e costituzionale. Affermazioni fatte in modo irragionevole, adirato, vendicativo, mentre hanno poco ascolto quelle persone senza potere decisionale che conoscono la realtà e si adoperano per portarla all’attenzione, nel vano tentativo di migliorare l’esecuzione penale e il sistema carcerario italiano. Il vero problema parte dall’alto, da coloro che hanno voce in capitolo e potere decisionale, e hanno fatto del mondo penitenziario la loro professione. Sono persone che spesso hanno timore a fare cambiamenti, o forse anche solo a crederli possibili, e così, in nome della sicurezza, si limitano a perpetuare quei percorsi standard tramandati da anni e anni di routine, ritenendoli continua da pagina 15 a Roma. Il ricorso esposto da Rebibbia Slimani risale al giugno 2010 ed è stato formalmente accolto il 9 giugno 2011. Ricordiamo che le nostre carceri al 31 agosto contavano 67.104 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 45.647 posti, quindi 21.457 detenuti in più. Se si dovessero risarcire tutti i detenuti ristretti in condizioni che non rispecchiano le normative, come accaduto nel caso leccese, lo Stato italiano si vedrebbe costretto a sborsare almeno 4.720.540 euro per detenzioni inumane. Attualmente nelle carceri italiane non solo si sconta la pena, ma si vive una vera e propria tortura, una degradazione tale che sempre più spesso si trasforma in perdita della voglia di vivere, che porta molti detenuti e poliziotti a scegliere il suicidio come unica strada per smettere di soffrire. I dati ci indicano che a oggi, i suicidi di detenuti nelle carceri sono 47, senza contare i tentati suicidi sventati dagli agenti o dai compagni di cella, uno sterminio che va assolutamente fermato. A 16 carteBollate immuni dai rischi di fallimento. Se guardiamo la società e i luoghi dove necessita una maggiore presenza umana (parchi e luoghi pubblici, ospizi, mense, dormitori, centri di accoglienza, canili, comunità) noi detenuti possiamo sostenere fermamente che siamo una risorsa! Quando il detenuto viene considerato risorsa vuol dire che ha affrontato un percorso tale da poter essere introdotto nei benefici (lavoro esterno, permessi, semilibertà, affidamento). Questo percorso viene dettato dall’Ordinamento Penitenziario, dalla relazione degli educatori e dalla sintesi personale che dichiara il detenuto idoneo o meno alle alternative. Le persone che ottengono la possibilità di essere immesse in un vero e proprio programma lavorativo, lo fanno direttamente alle dipendenze di aziende esterne o grazie all’assegnazione di una borsa lavoro a tempo determinato erogata da un Comune. Uscire a lavorare a tempo pieno impegna in modo non indifferente chi vi accede e tante volte l’unico giorno non lavorativo è la domenica, che utilizza per svolgere faccende domestiche e personali, oltre a consolidare i rappor- ti familiari. Questo esclude il fatto che un detenuto che lavora all’esterno del carcere possa mettersi a disposizione per opere di volontariato, vanificando il senso stesso delle parole: risorsa, volontariato, risarcimento, riscatto. Non tutti i detenuti una volta arrestati dovrebbero subito uscire per svolgere lavori socialmente utili, poiché so bene che esistono reali problemi legati alla pericolosità individuale e al pericolo di fuga. Ma nelle carceri ci sono molte persone con una pena lieve, con bassa pericolosità sociale e ancora più esiguo pericolo di fuga, oppure persone prossime ai benefici, degne di fiducia e volenterose di mettersi in gioco. La legge prevede la possibilità di svolgere lavori socialmente utili, in alternativa al carcere, ma questa misura è utilizzata in modo molto limitato. Potrebbe essere invece un reale percorso rieducativo, che consenta al detenuto di dare senso alla pena e alla società di apprezzarlo come risorsa. Il tutto potrebbe sembrare troppo pericoloso, oneroso, impegnativo e di difficile gestione, ma anche questo è solo l’ennesimo preconcetto negativo. Carmelo Impusino poco è servito il richiamo della massima autorità dello Stato, nonché garante della Costituzione, Giorgio Napolitano, che ha definito incivile un popolo che non agisce immediatamente dove vi è un’emergenza umanitaria grave come quella in cui versano oggi le carceri italiane, dichiarando l’urgenza di trovare al più presto una soluzione per riportare almeno in uno stato di legalità le carceri, non solo causa di sofferenza per chi vi è recluso, ma anche di umiliazione collettiva agli occhi del resto del mondo. Il risarcimento ottenuto con la sentenza emessa dal giudice Luigi Tarantino sancisce che la situazione è inaccettabile e sottolinea l’improcrastinabilità di una riforma della giustizia che ormai è giunta al collasso. Le strutture in cui si consumano vicende come quella denunciata sono presenti in tutto il territorio italiano. Aldo Di Giacomo, segretario regionale del Sappe Marche (sindacato degli agenti di polizia penitenziaria) denuncia la situazione riguardante il carcere di Montacuto, dove i detenuti sono stipati in stanze senza gabinetti, costretti a dormire nelle sale ricreative e obbligati a fare i loro bisogni in qualche angolo o contenitore. Nella sezione femminile del carcere di Pesaro e Ancona, fa presente Di Giacomo, le detenute sono spesso sorvegliate da agenti di sesso maschile per carenza di personale, mettendo in situazioni umilianti e inconcepibili sia il personale che le detenute. Le recenti decisioni da parte della Corte Costituzionale tedesca e della Corte Suprema statunitense contro lo Stato della California hanno imposto misure immediate ed estreme per il sovraffollamento. Nello specifico, alle carceri tedesche è stato imposto di non accettare detenuti oltre la soglia legale di capienza delle strutture, mentre in California è stata decisa la liberazione di circa 38.000 detenuti. Fabio Galli SOVRAFFOLLAMENTO – Basterebbero poche norme per risolvere il problema Sette proposte a costo zero A fronte dell’attuale sovraffollamento carcerario e dell’evidente inefficacia delle misure introdotte con il Piano carceri, dell’assenza di segnali positivi dalla politica che facciano sperare nella disponibilità di discutere di amnistia, è forse arrivato il momento di parlare chiaro. La condizione carceraria è una vergogna morale e uno spreco, in una società che da molti anni ha smesso di scommettere sulla capacità costituzionale di reintegrare il detenuto, ma soprattutto non è in grado di evitare la recidiva di chi esce dal carcere. Anche lo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella non ha scalfito l’ostinata inerzia del governo, mentre sarebbe possibile intervenire, a costo zero, per affrontare in modo efficace i problemi delle carceri italiane, con una serie di misure di cui per altro da tempo si parla e che da sole consentirebbero di ridurre sensibilmente il numero dei detenuti, anche senza ricorrere all’amnistia o all’indulto. Nello specifico si propone: 1 Limite all’utilizzo della custodia cautelare. L’utilizzo della misura della custodia cautelare deve essere effettuato solo e soltanto in casi eccezionali, quando ogni altra misura risulti assolutamente inadeguata. E per reati la cui pena edittale prevista dal codice penale sia rilevante. 2 Abrogazione della discussa legge ex-Cirielli. La legge ex-Cirielli, diventata famosa come “legge salva-Previti” ha di fatto inventato la disciplina del “recidivo reiterato” che in realtà penalizza la stragrande maggioranza dei detenuti condannati per reati sociali, spesso dovuti alla loro condizione di tossicodipendenti o di immigrati irregolari. Oggi, con l’applicazione di questa legge, un furto aggravato, che mediamente era punito con 9-10 mesi, porta a una condanna di tre anni e 4 mesi. 3 Modifica della legge Fini-Giovanardi sulle sostanze stupefacenti. Superamento del carcere per i tossicodipendenti, la dipendenza è un proble- La condizione carceraria è una vergogna morale e uno spreco ma soprattutto non è in grado di evitare la recidiva di chi esce dal carcere ma sanitario e come tale va considerato. Restituire alle comunità, attraverso un programma stabilito dal SERT, i detenuti certificati come dipendenti da alcool e sostanze stupefacenti, evitando il passaggio dalla Magistratura di sorveglianza e di conseguenza dalla discrezionalità del magistrato. La depenalizzazione totale dell’uso personale. La rimozione del limite a due concessioni dell’affidamento terapeutico oggi in vigore grazie alla ex-Cirielli. 4 Maggiore e più rapida applicazione delle misure alternative. L’applicazione delle misure alternative al carcere è l’unico strumento idoneo a garantire il recupero del detenuto e a evitare il rischio della recidiva. Se si considera che circa il 60% dei detenuti definitivi ha una pena o un residuo pena inferiore a tre anni, l’utilizzo razionale delle misure alternative alla detenzione consentirebbe di evitare il carcere e di liberare migliaia di detenuti. Vanno anche sostenute proposte che prevedano una sistematica concessione delle misure alternative nell’ultimo periodo di detenzione per favorire un rientro – accompagnato – nella società delle persone a fine pena e garantire così una maggiore sicurezza sociale. 5 Introduzione della messa alla prova anche per gli adulti. Estendere l’istituto della sospensione del procedimento con la messa alla prova dell’imputato adulto può risultare efficace nel contrasto di fenomeni di microcriminalità, a esempio per i reati, che oggi sono in aumento, commessi durante la guida di un mezzo, sotto l’effetto di alcol o droghe. Per questa tipologia di reati, una messa alla prova in un centro traumatologico, in un ospedale, potrebbe essere più costruttiva del carcere. 6 Portare da 3 mesi a 4 mesi l’istituto della liberazione anticipata. Tutti i detenuti che osservano una buona condotta e non infrangono le regole del regime detentivo hanno attualmente diritto a uno sconto di pena pari a 3 mesi all’anno. Se questo beneficio previsto dall’articolo 54 O.P fosse ulteriormente incentivato, questo rappresenterebbe un atto di presenza dell’istituzione e di controllo sulla popolazione dei detenuti. 7 Abolizione delle pene detentive brevi. La si chiami depenalizzazione o come si voglia, oggi non ha senso che un giudice infligga una pena di 1 anno di carcere, questo detenuto sarà lasciato in balia di stesso, steso su una branda, a contatto con delinquenti professionali, senza nessuna possibilità di trovare il tempo, da parte delle istituzioni, di lavorare su di lui e permettergli un’analisi critica di quanto commesso. Si ottiene il risultato contrario, uscirà un uomo arrabbiato con tutto e tutti e con qualche nozione criminale in più. Francesco Garaffoni carteBollate 17 DOSSIER SCIOPERO – Solidarietà dal nostro “inferno paradisiaco” Non clemenza ma reinserimento e sicurezza sociale S cusate l’evidente ossimoro del titolo, ma nell’istituto di Bollate lo viviamo un po’ come condizione generale; ci riteniamo “fortunati” di esserne ospiti. In altre parole, siamo fortunati a essere carcerati. Se sarà pur vero che al peggio non c’è mai fine, di contro, tra due mali sarà meglio il minore. Breve premessa per evidenziare una contraddizione di cui nostro malgrado “beneficiamo” e che “viviamo” per essere reclusi in un istituto che si prefigge, e ci riesce, di rispettare il dettato costituzionale in termini di espiazione delle pene. Nella maggior parte dei restanti istituti, si fatica a rispettare il minimo “sindacale” per definirli “civili, e conformi ai diritti umani”. Quindi dal nostro “inferno paradisiaco” ci siamo trovati in difficoltà ad aderire all’iniziativa promossa dal Partito Radicale il 14 agosto scorso, “Amnistia per la Giustizia”. In qualità di quale “rappresentanza” aderire?...Essere solidali significa condividere e senza dubbio condividiamo le idee e la lotta di quel “vecchio” leone che è Marco Panella e del suo Partito. Ma in determinate questioni la forma diviene sostanza e lo sciopero a oltranza che Marco Panella continua portare avanti ne è massima espressione. La forma pacifica è la sostanza dell’obiettivo giusto e democratico che si è prefisso di raggiungere. A noi detenuti, sia “fortunati” che “sfortunati”, è stato chiesto di attuare lo sciopero della fame e della sete per quella giornata, il 14 di agosto, per richiamare l’attenzione su un problema che riguarda noi tutti. Abbiamo aderito?... I dati arrivati in redazione dicono che tutta la popolazione di Bollate, o quasi, ha aderito all’unanimità: 1017! ( 117 al 1°reparto, 206 al 2°, 154 al 3°, 100 al 4°, 46 al 5°, 50 al Femminile, 344 al 7°). La verità è che a prescindere da quale sia il nostro “inferno”, non riusciamo più a essere “umanamente” coinvolti… non siamo più disposti a metterci in gioco, a rischiare per qualcosa in cui crediamo veramente… Un ultraottantenne quale è Marco Panella avrebbe un “esercito” di oltre 67.000 “scioperanti” per poter vincere la sua battaglia i cui benefici, 18 carteBollate paradossalmente, sono diretti proprio a noi, le persone che gli dovrebbero dimostrare solidarietà… Su questo giornale abbiamo scritto che noi detenuti di Bollate in occasione delle Olimpiadi Estive abbiamo solidarizzato con i nostri compagni detenuti, che vivono realtà drammatiche, dimostrando che è possibile una detenzione civile e umana.Però, veramente, l’argomento ci mette in imbarazzo, sappiamo che Bollate è percepita come una specie di prigione dorata, dove tutti i detenuti vorrebbero essere trasferiti. In effetti l’importanza di Bollate, per tutti i detenuti italiani, sta proprio nel fatto che è la prova concreta che si può fare carcere non solo in modo più umano, ma anche in modo più efficace, abbattendo i livelli di recidiva, cosa che implica un impegno attivo da parte di tutti noi, che siamo reclusi in questo penitenziario. Alle istituzioni, più che benedetti “atti di clemenza” forse dovremmo chiedere proprio questo, una detenzione che abbia un senso e che dia un futuro a chi la vive. Non è frutto di un’illuminazione cerebrale affermare che nessun atto di clemenza nel passato sia stato risolutivo del problema… il vero problema è la “stoltezza” e la “schizofrenia” nel gestire l’intero sistema Giustizia. Dirò solo che chi ha responsabilità istituzionali dovrebbe costantemente cercare il raggiungimento di un’effettiva, e non artificiosa, armonia sociale. Pertanto, la “continua” richiesta di un atto di clemenza per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario dovrebbe tranquillamente essere spiegato alla collettività, con la semplice ammissione di non aver fatto assolutamente niente per cambiare le cose dopo la concessione dell’ultimo indulto. Il momento attuale che si vive in carcere è la conseguenza di una politica cieca e menefreghista nei confronti dei detenuti, che è pur vero che sono chiamati alla espiazione di quanto commesso , ma è vero anche che l’attuale condizione in cui vivono non è indirizzata al recupero del reo, ne alla sicurezza del cittadino. Ferdinant Deda Palazzo Marino - Parte la nuova commissione carceri Nomina del garante e San Vittore le priorità A l via a Palazzo Marino i lavori della nuova sottocommissione Carceri che si è riunita per la prima volta il 3 novembre scorso e ha eletto presidente il consigliere Lamberto Bertolè e vicepresidente il consigliere Mirko Mazzali. “Nel corso della seduta - fanno sapere Bertolè, Marco Cormio e Mazzali - abbiamo cominciato ad individuare le nostre priorità di lavoro. Per prima cosa lavoreremo perché la nostra città si doti di un Garante dei diritti dei detenuti, come ormai moltissime città italiane hanno fatto. Sarà uno dei primi impegni della commissione”. “Si tratta inoltre - aggiungono i consiglieri - di riprendere i rapporti con l’Osservatorio Carcere e Territorio, perché il Comune ha il dovere di riprendere un dialogo con le molte realtà che da anni lavorano e si impegnano a favore del reinserimento sociale dei detenuti, di fare regia tra le molte risorse presenti sul territorio per rendere più efficace e capillare l’azione di molti”. Infine, annunciano “dovremo anche confrontarci con gli operatori e occuparci delle loro condizioni di vita, pensiamo agli alloggi e alle loro condizioni di lavoro. Crediamo che le condizioni del carcere di San Vittore, fra tutte, meritino una particolare attenzione, perché da troppo tempo insostenibili”. La nuova commissione sarà un importante elemento di raccordo per connettere carcere e territorio: un organismo che non sostituisce quelli già esistenti ma che, si spera, riuscirà a coordinare le diverse risorse presenti a Milano che operano sul fronte del carcere, ma che spesso rischiano di disperdere gli sforzi. PROCESSI – Carcere sì, ma solo per i più poveri Se la giustizia viaggia a due velocità E siste la giustizia in Italia? In ogni aula di tribunale italiano, alle spalle della corte esiste una dicitura che riporta testualmente: “la legge è uguale tutti”. L’applicazione della legge, però, non è conforme a quanto si legge entrando in tribunale. Il problema principale deriva proprio da quelle testuali parole, nel senso che troppo spesso nel nostro Paese la giustizia penalizza i deboli e favorisce i ricchi e i potenti. Perché se un emarginato sociale ruba in un supermercato per fame finisce in carcere, mentre se un ricco truffa miliardi, in carcere difficilmente ci finisce e nel caso ci finisca nel giro di poco tempo uscirà ai domiciliari, mentre l’emarginato ai domiciliari difficilmente ci andrà anche perché spesso non ha una casa o una rete familiare che lo sostenga. Questo è l’esempio più semplice. Ogni anno in questo Paese vanno in prescrizione dai 160.000 ai 180.000 processi. Questo problema è dovuto alla lentezza e all’intasamento della macchina giudiziaria, ma ci sono anche casi ben noti di imputati che, avendo i mezzi per farlo, possono avvalersi di avvocati di grosso calibro, abili nello scovare cavilli processuali che consentono l’allungamento dei processi, così da raggiungere i termini di legge per godere della prescrizione. In altri termini la loro strategia difensiva è quella di difendersi dal processo e non nel processo. Dall’altra parte ci sono imputati che non potendosi avvalere di una difesa agguerrita spesso non possono neppure accedere ai successivi gradi di giudizio e i loro processi non giungeranno mai alla prescrizione. Ci sono poi tutti quei cittadini che aspettano giustizia, che per colpa del sovraccarico di processi che si accatastano sulle scrivanie dei magistrati, impedendo agli stessi di svolgere il loro lavoro in tempi accettabili, rallentando il corso della giustizia, vedranno vanificate tutte le loro attese. Se vogliamo analizzare in profondità il sistema giustizia non possiamo prescindere dall’ importanza della stampa e dei media in generale. Telegiornali e trasmissioni pomeridiane travisano la realtà creando un’informazione non veritiera. Un fatto di attualità che evidenzia la cattiva informazione da parte dei media e dei politici è il caso della mancata estradizione dell’ ex terrorista dei P.A.C Cesare Battisti. Su questo caso l’informazione è stata strumentalizzata e indirizzata esclusivamente a uso politico creando disinformazione. Quando in Italia c’era il governo Prodi e ministro di Giusti- zia Clemente Mastella, il Brasile negò l’estradizione di Battisti perché la sua giurisdizione non contempla la possibilità di estradare detenuti con una pena, l’ergastolo, non contemplata nel proprio ordinamento giudiziario. Il ministro Mastella propose in commissione Giustizia di cambiare il vecchio codice Rocco, con quello preparato dalla commissione Pisapia, così da poter commutare la pena dell’ergastolo (fine pena mai) inflitta dalla giustizia italiana a Battisti in anni 30. Poi con la caduta del governo Prodi e successivamente con l’avvento del nuovo governo Berlusconi, della proposta di riforma del codice penale non se ne fece più nulla, e tutto il lavoro fatto dalla commissione Pisapia, è rimasto accantonato in qualche cassetto del ministero di Giustizia. Parliamo della vicenda Battisti per rilanciare una riflessione sull’abolizione dell’ergastolo e più in generale sulla riforma del codice penale, che risale al ventennio fascista. La commissione guidata da Pisapia, che doveva riformare il vecchio codice Rocco, ha finito da tempo il suo lavoro, il dibattito sul nuovo codice due anni fa era stato messo in calendario alla Camera, ma le perturbazioni della politica hanno fatto slittare a data da definirsi il dibattito. Ci sarebbero tante altre problematiche da elencare, che determinano il collasso della giustizia in Italia, come la lungaggine dei processi, l’eccessivo uso dell’ obbligatorietà dell’azione penale, ma quello di cui ci sarebbe realmente bisogno sarebbe la tanto sospirata e invocata, da tutti gli organi competenti, magistrati, giudici e avvocati, riforma epocale della giustizia, tanto sponsorizzata dal governo ma mai affrontata seriamente, una riforma che fino a ora ha prodotto solo effetti dannosi per il sistema penale, leggi ad personam per i colletti bianchi e ingiustizia sociale. Luigi Ruocco carteBollate 19 DOSSIER FINE PENA MAI – I dubbi dei giuristi sulla sua costituzionalità Ergastolo, l’Italia è molto lontana dall’Europa I n Italia, a differenza degli altri Paesi europei, si è rimasti molto indietro, basti pensare che il codice penale vigente è datato 1930, nonostante con il passare degli anni vi siano state apportate alcune modifiche, tuttavia rimane un codice poco all’avanguardia rispetto alla maggior parte dei Paesi europei. Nella maggior parte dei Paesi europei: Norvegia, Portogallo, Spagna, Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Albania, Polonia e Ungheria l’ergastolo è stato abolito, compiendo un grande passo in avanti a livello di civiltà. In altri Paesi europei, pur essendo rimasta la parola ergastolo, sono state introdotte delle modifiche legislative che hanno fissato un tetto massimo dopo il quale, valutando sempre la personalità di ogni singolo detenuto, si viene scarcerati: in Irlanda dopo 7 anni; in Olanda dopo 14 anni; in Norvegia, dai 12 ai 21; in Austria, Germania, Svizzera, Francia dopo 15 anni; in Grecia dopo 20 anni; in Belgio dopo 10/14 anni; a Cipro dopo 10 anni; in Danimarca dopo 10/12 anni. In Italia, esiste un fine pena riportato sul definitivo che è: 9999 o fine pena mai. Questo significa che un condannato alla pena dell’ergastolo rimarrà in balìa dello Stato, non sapendo, anzi rimanendo con il dubbio: chissà se uscirò? C’è da dire che nell’ordinamento penitenziario italiano esiste una norma – chiamata libertà condizionale – che 20 carteBollate C’è chi sostiene che l’ergastolo sia in contrasto con l’art. 27 della Costituzione italiana prevede che i condannati all’ergastolo, dopo aver espiato almeno 26 anni, possono accedere a tale beneficio, passando attraverso una camera di consiglio, dove la corte valuterà tutta una serie di aspetti, la relazione comportamentale del detenuto, la sua partecipazione attiva all’opera di rieducazione, il risarcimento alla parte lesa eccetera. Purtroppo, pur essendo prevista tale norma nell’ordinamento penitenziario, non vi è alcuna certezza che il detenuto possa accedere a questo beneficio. Primo perché questa norma non viene applicata con automatismo, in quanto dovendo passare dal paletto della camera di consiglio, il detenuto si troverà dinanzi a una corte che si avvarrà dello strumento della discrezionalità, non per niente le percentuali degli ergasto- lani che hanno richiesto tale beneficio e lo hanno ottenuto sono bassissime. A tutti quelli che non sono rientrati in quelle bassissime percentuali, non resta niente altro da fare che ritentarci, sperando di essere più fortunato la volta successiva. In Italia esiste poi l’ergastolo ostativo. Questa variante dell’ergastolo è generalmente utilizzata come deterrente in relazione alla lotta contro la criminalità organizzata e viene indirizzata esclusivamente all’ottenimento della collaborazione del detenuto. L’ergastolo ostativo a differenza dell’ergastolo “normale” non lascia nessuno spiraglio di speranza ai condannati. I detenuti che scontano questa pena sono esclusi da qualsiasi beneficio, a meno che non inizino a collaborare con la giustizia. Questo unico sbocco per i condannati all’ergastolo ostativo non tiene conto della possibilità che un detenuto di questi possa essere stato condannato da innocente e, di conseguenza, non abbia nulla da dire per discolparsi o per collaborare. Non tiene neanche conto di chi non vuole usare il pentimento come mezzo per uscire dalle fitte maglie della giustizia italiana. C’è chi sostiene che l’ergastolo sia in contrasto con l’art. 27 della Costituzione italiana, che come è noto afferma che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, ovviamente finalizzata al suo reinserimento sociale. Se questo obiettivo viene meno perché la pena non ha un termine, l’ergastolo può ritenersi incostituzionale? La risposta dei giuristi a questo quesito è che proprio l’istituto della libertà condizionale garantisce la costituzionalità dell’ergastolo, ma sono argomenti da prendere con le molle. In particolare l’ergastolo ostativo, oltre che violare la Costituzione italiana, viola anche gli art. 3, 6 e 7 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. L’unica speranza per questi detenuti è che l’Italia prenda esempio dagli altri Paesi europei compiendo quel passo di civiltà che oltre 1500 detenuti e i loro rispettivi familiari e amici aspettano e sognano tutte le notti da molti anni. Luigi Ruocco RIFORME – Le nuove norme per il processo civile Procedure più semplici e (forse) giustizia più rapida P er quasi 70 anni, il legislatore ogni volta che ha disciplinato materie specifiche ha introdotto regole processuali speciali, sia ai fini di adeguare i meccanismi processuali alle svariate esigenze delle controversie, sia per arrivare a una rapida definizione delle cause. Ma i buoni propositi non hanno fatto raggiungere l’obbiettivo. Moltiplicando i riti speciali, si è arrivati al solo risultato di vedere aumentate le questioni relative alla loro applicazione. La litigiosità relativa alle questioni processuali non ha fatto altro che aumentare la durata dei processi ed il moltiplicarsi delle pronunce sul rito anziché nel merito delle cause. Questo aumento di norme processuali speciali, anziché essere lo strumento per ottenere tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche sostanziali, ostacolava e talvolta impediva l’effettivo raggiungimento di tale tutela. A porre rimedio a questo marasma interviene proprio l’ultimissima riforma della giustizia civile: decreto legislativo del I° settembre 2011 n. 150 che si applicherà ai procedimenti instaurati dal giorno successivo l’entrata in vigore del decreto stesso¸ che riconduce 28 procedimenti previsti dalla legislazione speciale per altrettante tipologie di controversie a tre modelli processuali base, e precisamente: il rito del lavoro, il rito sommario di cognizione e il rito ordinario di cognizione. Tale decreto è da considerarsi la continuazione del Codice di procedura civile ed è veramente una sconfitta che la legge delega non abbia permesso che le nuove norme venissero integrate all’interno del Codice. Ciascuna delle 28 tipologie di controversie oggetto della riforma, seppure ricondotta a uno dei tre riti modello, continua a presentare notevoli elementi di specialità. Questa circostanza, essendo imposta dalla Costituzione (il principio di eguaglianza impone che le situazioni diverse debbano essere trattate in modo differente, così come le regole processuali si devono adeguare alle varie particolarità di ogni controversia in cui devono essere applicate), presenta il vantaggio di consentire un passaggio più morbido dal vecchio al nuovo regime. Il decreto infatti si limita a razionalizzare la disciplina esistente e a codificare il diritto nato dall’applicazione delle norme già vigenti. Ogni novità legislativa, e dunque anche questa, fornisce sia risposte che domande, circa le nuove disposizioni, specialmente in relazione all’ipotesi che il procedimento sia avviato con l’osservanza di un rito diverso da quello prescritto dalla legge. A tal proposito, è necessario chiarire che, salvo per il rito ordinario di cognizione, i riti del lavoro e sommario di cognizione previsti nel dlgs 150 non sono esattamente identici a quelli previsti dal Codice di procedura civile: – da un lato, il rito del lavoro, l’applicabilità resa possibile dagli art.6 e 13 del Dlgs 150/2011, non coincide con quello che deve essere seguito in cause di materia di lavoro : il giudice ha poteri istruttori officiosi, ma nei limiti stabiliti dal codice civile; molte disposizioni che attribuiscono una più intensa tutela verso il lavoratore non sono applicabili (ordinanze anticipatorie, efficacia esecutiva del dispositivo letto in udienza); – dall’altro lato, il rito sommario di cognizione, come rielaborato dall’articolo 3 del decreto 150/2011, differente di parecchio da quello inserito negli articoli 702 bis e 702 quater del Codice; non è rimesso come nel Codice alla libera scelta discrezionale dell’attore, che può utilizzare tali forme processuali invece di quelle proprie del rito ordinario di cognizione, quando la causa, di competenza del Tribunale, debba essere decisa in composizione monocratica, ma è imposto dal legislatore (che a priori ha stabilito che per le cause di cui agli art.14-30 del decreto n. 150 sia sufficiente un’istruzione sommaria); può svolgersi anche in unico grado di merito, senza la garanzia di un appello in cui siano ammissibili tutti i mezzi di prova ritenuti rilevanti. In buona sostanza dal 7 di ottobre, giorno di entrata in vigore della riforma, i possibili riti applicativi in sede contenziosa avanti agli organi di giurisdizione ordinaria sono cinque, i tre riti di cui alla legge 150/2011 più il processo del lavoro vero e proprio per le cause disciplinate dagli art. 409 e 442 del Codice e il procedimento sommario di cognizione, non considerando i procedimenti esclusi dall’ambito di semplificazione della legge delega quali Codice civile, procedure concorsuali, materia di famiglia. Molti penseranno che la riforma sia troppo debole, però il decreto 150/2011 è da apprezzare perché non si espone a possibili questioni di legittimità costituzionale, si limita solo a razionalizzare una molteplicità di riti speciali. Questo non farà certo pensare che questa riforma possa essere la soluzione dei mali della giustizia civile, si tratta comunque di una riforma a costo zero, dove bisogna comunque tenere presente che il sistema ha bisogno di misure per smaltire l’arretrato, definendo le cause e diminuendo il contenzioso. Francesco Rossi carteBollate 21 DIFFERENZE – Noi donne ai margini del Progetto Bollate Anche in carcere vogliamo pari opportunità I Queste differenze sono accentuate dal fatto che all’interno del carcere la sezione femminile e quella maschile marciano con un passo decisamente diverso, anche se in apparenza o sulla carta il regime detentivo è lo stesso. Partendo già dalla struttura che è molto più organizzata e continuando con una équipe medica, psicologica e rieducatrice, è evidente quanto siano più attrezzati e seguiti al maschile. Si organizzano con più facilità eventi, assemblee, spettacoli e corsi. Si hanno aree appropriate per percorsi individuali o di gruppo (area trattamentale), cose carenti o del tutto inesistenti al femminile. Sappiamo che la sezione femminile è marchiata con “la lettera scarlatta”, per errori fatti da altre che ancora oggi a distanza di tempo si pagano, renden- In carcere come fuori paghiamo ancora per l’errore fatto dalla famigerata Eva... foto di Remi N’diaye l mondo al femminile è molto più fragile e complicato. Può sembrare un luogo comune, ma il carcere evidenzia ferocemente le differenze di genere, perché qui non ci sono ruoli dietro cui mascherarsi e che servono da schermo. Si è più esposti… Nella sua complessità la donna ha bisogno di attenzioni, di essere seguita con acume e preparazione, anche perché non è certo un caso se le donne recluse sono meno del 5 per cento della popolazione carceraria e quelle che in galera ci stanno non si rassegnano e non hanno nessuna capacità di adattarsi all’ambiente. La depressione, com’è noto, è principalmente femmina, come lo sono i mal di testa e gli attacchi di panico. La mancanza dei propri affetti (figli, nipoti, compagno, genitori, amici) è una sofferenza spesso insostenibile, che si trasforma in un malessere fisico che è una specie di linguaggio del corpo, che si sostituisce a parole che non trovano spazio per essere espresse. E queste patologie a volte possono essere anche molto gravi e complesse. Il mondo al maschile invece è più razionale e pragmatico, per quanto questa affermazione possa sembrare uno stereotipo: con questo non si vuole sminuire la sensibilità maschile, ma che si abbia una sensibilità “diversa” è un dato di fatto. 22 carteBollate do così più facili i dinieghi e i dissensi per eventuali iniziative che potrebbero aiutare a migliorare la situazione in generale. Insomma, in carcere come fuori paghiamo ancora per un errore fatto dalla solita e famigerata Eva… Questo pregiudica molto la nostra situazione. Uomini con gli stessi reati e gli stessi periodi di detenzione hanno molte più probabilità di progredire nel loro percorso, e di poter dimostrare eventuali potenzialità nella vita carceraria. La possibilità di girare all’interno del carcere, avendo “sconsegne” che consentono di muoversi da un reparto all’altro e di partecipare a molti eventi interni non mi risulta che ci sia al femminile (a parte l’articolo 21 interno). Le donne sono escluse dai lavori più qualificanti: le serre di cascina Bollate, i fornelli del catering Abc, la compagnia teatrale e anche dai lavori più remunerati come a esempio quelli del call center, al quale sono ammesse solo due di noi. Ma anche nelle piccole cose si notano fastidiose differenze. Un esempio a caso? Come mai al maschile hanno ripristinato l’uso di indumenti col cappuccio e da noi no? Sia chiaro, è una piccola cosa che però, accostata alle differenze più rilevanti, ci fa dire: perché a loro sì e a noi no? Sappiamo che gli uomini sono di gran numero più di noi e forse è anche per questo che gli interessi si concentrano di più verso il maschile, ma questo potrebbe essere anche un vantaggio: siamo in poche e dunque potrebbe essere più facile portare avanti progetti mirati, individuali o di gruppo che siano. Spesso ci sentiamo discriminate e “invidiose” delle differenze tra noi e loro, ci rassegniamo e cerchiamo di tirare avanti prendendo quello che c’è, ma continuiamo a pensare che potremmo essere più centrali per il famoso “progetto Bollate”, perché se un carcere come questo vuole offrire una possibilità di recupero e di reinserimento sociale, dobbiamo constatare che noi donne non abbiamo pari opportunità. Siamo più emarginate, più recluse rispetto a loro… Scusate, ma non eravamo noi il “sesso debole”? Caterina Mista LA STORIA – E’ stata scarcerata, ma fuori non ha nessuno Rosina, 72 anni, condannata alla libertà L ’ abbiamo sentita lamentarsi e imprecare, forse per la prima volta, dopo 16 anni di reclusione. «Questa non me la dovevano fare – diceva piangendo la Rosina – e no, questa non me la dovevano proprio fare!». Cosa è successo – le abbiamo chiesto – cosa ti hanno fatto? E lei, disperata, quasi urlando, come se le avessero comminato una pena ulteriore: «Mi hanno scarcerata!». Dopo tante amarezze quello avrebbe dovuto essere un momento di gioia, ma Rosina, ultrasettantenne, di uscire per andarsene agli arresti domiciliari proprio non voleva saperne, anche perché qui in carcere ha un figlio e fuori si sente sola e spaesata. Addirittura quando andava in permesso, magari per qualche giorno consecutivo, rientrava in carcere regolarmente prima del previsto perché quello esterno ormai non era più il suo mondo. E invece venerdi 21 ottobre ha lasciato le mura di questa casa di reclusione che l’ha tenuta per gli ultimi anni della sua lunga detenzione. Proviamo a desciverla: una signora di 72 anni, molto dignitosa e ben curata, taciturna anche quando la salute non la reggeva, ultimamente gli acciacchi si facevano sentire ma mai nessuna di noi l’ha sentita lamentarsi, Il suo star bene era quando per un minuto circa si affacciava alla finestra e poteva vedere suo figlio che lavorava alla serra, lì i suoi occhi si illuminavano come due lampioni e il sorriso era caldo, insomma scaldava il cuore. Poi quatta quatta rientrava nella sua camera e sempre fra le mani aveva qualcosa: un ricamo o un paio di ferri, lavori che faceva per i nipoti o per suo figlio. Quando faceva colloquio con lui, si preparava con cura, con abiti cuciti da lei, molto eleganti, voleva che suo figlio la vedesse in forma, senza fargli mai capire che la salute in certi momenti lasciava a desiderare. Noi tutte le portavamo un vero rispetto. Qualche volta, pensando alla sua età, provavamo a chiederle: Rosina, ma perché non presenti un’istanza e chiedi la detenzione domiciliare? La sua risposta era sempre la stessa: «mi piacerebbe ma mio figlio rimane qui solo?». Davanti alla parola scarcerata è scoppiata in lacrime e il suo primo pensiero è stato: voglio parlare, voglio fare colloquio con mio figlio Proprio il giorno prima della sua scarcerazione, alla finestra della sezione, dalla quale si vedono le serre, abbiamo scambiato due chiacchiere. Diceva che le avevano fissato la camera di consiglio per la detenzione domiciliare ma che aveva rinunciato, la ragione suo figlio, ma forse anche lo spaesamento che le dava l’idea di tornare a fare i conti con il mondo esterno, ora che non era più giovane e dopo tanti anni di reclusione. Come sempre le ho detto che se era fuori poteva aiutare di più il figlio, ma non sentiva ragioni: non aveva mai voluto avere benefici e ne ha rifiutati per ben tre volte. Da due anni andava in permesso ma non è mai riuscita a fare i giorni che chiedeva. La ragione? «Mio figlio!». Ogni volta che lo diceva, che lo nominava, il suo viso diventava rag- giante, era bello vederla! Ultimamente aveva cambiato anche look: un taglio di capelli e una tinta di un colore caldo che la rendevano più giovane, una bella signora; faceva anche palestra, sì il tapis roulant, e con quanta costanza. Ecco, la nostra compagna davanti alla parola «scarcerata» è scoppiata in lacrime e il suo primo pensiero è stato: voglio parlare, voglio fare colloquio con mio figlio. Non so quanto siano riusciti a parlare, lui commosso per la gioia di vedere la mamma varcare definitivamente questi cancelli, Rosina disperata perché lui non poteva seguirla. Ci auguriamo che fuori trovi un mondo disposto ad accoglierla e a fare spazio a chi esce dal carcere. Carla Molteni carteBollate 23 COMUNITÀ DI RECUPERO – Corrispondenza dall’ultima frontiera Il rancio? Una vera condanna aggiuntiva T irano, Sondrio, 500 metri dalla frontiera Svizzera. Dopo la bella lettera speditami dalla redazione, con la vostra attestazione di affetto e stima, per un attimo mi era balenata l’idea di tornare alla mia vecchia casa. Un pensiero nostalgico che ha però subito lasciato spazio alla ragione, riflettendo sul perché sono stato inviato in questo posto dove “osano solo le aquile”… Raccolti i miei stracci, ritirati i documenti in matricola e un po’ di soldi dal mio conto corrente, espletate le ultime procedure di imbarco e salutati i ragazzi, mi sono ritrovato quasi catapultato oltre le sbarre. Sbadato ed euforico, mi ero subito dimenticato il telefonino in matricola; per fortuna c’era un’anima giovane e gentile di nome Elisa a seguirmi in questi preparativi, prima di partire per la mia comunità di reduci, alla frontiera. Uscendo, come manna piovuta dal cielo la ragazza, compresa la mia necessità impellente, mi chiede se ho bisogno di telefonare. Mi mette subito un telefonino in mano e io provo a fare il numero, impacciato perché non lo usavo da anni. In carcere, per comunicare, ricorrevo all’alfabeto morse oppure alla mia vecchia Olivetti 22 e solo negli ultimi anni avevo iniziato a usare quell’aggeggio infernale chiamato computer, che fuori dal perimetro della nostra redazione interagisce con tutto il mondo. Vista la mia imbranataggine, chiedo alla ragazza di comporre il numero. Lei mi riconsegna l’apparecchio mentre sta già squillando e dall’altro capo della linea si materializza la voce di mia figlia, che incredula pensa sia uno scherzo, non riesce a credere che io la chiami da fuori, con un telefonino. Sempre quell’anima gentile di Elisa mi trova un numero di telefono per mettermi in contatto con la responsabile della comunità, per non arrivare all’improvviso e anche per capire le modalità di arrivo: erano pur sempre cinque anni che non oltrepassavo quella sbarra da solo, senza scorta, in compagnia di tutte le mie valige e valigette. L’attesa di qualcuno che mi accompagnasse alla stazione è stata snervante, interrotta per una frazione di minuti da una macchina blu con dentro il nuovo direttore, Massimo Parisi, che si ferma e mi saluta con cordialità, ricordandosi del mio cogno24 carteBollate me: «Vede signor Spera che le ho portato fortuna!». Vedendomi con tutto quel bagaglio avrà pensato che ritornassi a casa dai miei cari definitivamente, non sapendo che stavo entrando in un nuovo ruolo, quello di corrispondente di carteBollate dalla comunità a cui ero destinato. Il primo argomento su cui si potrebbe aprire una discussione è il rancio, che bisogna per forza e per spirito di comunità accettare, diciamo che qui o si mangia o si salta dalla finestra – le finestre della comunità non hanno le sbarre - di conseguenza, non resta che mangiare, mangiare e mangiare, nel mio caso, in bianco, bianco, bianco, con la sfortuna che non mangio carne. Non riesco a capire perché in questa comunità si debba mangiare tutto congelato, quando alcuni prodotti si potrebbero ricevere direttamente dai contadini, biologici, senza conservanti, buonissimi. Siamo alle solite: prima viene il business. Del resto, in Qui o si mangia o si salta dalla finestra questi ambienti totalizzanti, può essere il carcere o in questo caso la comunità, vige questa regola: servirsi dai colossi del catering per le agevolazioni offerte nei pagamenti e non certo per la qualità dei loro piatti preconfezionati. Ma è giusto che anche in questi paesi non si possa acquistare direttamente dal produttore, iniziando un po’ il discorso sull’acquisto a chilometro zero, così da spendere meno e mangiare meglio? In questa sorta di carcere, con tutti i suoi privilegi ma pur sempre con mura di cinta, si è a contatto con la realtà esterna, a due passi da una grande chiesa – con le sue campane moleste – e dalla gente che passeggia, ma non si può uscire dal recinto delle mura e delle telecamere che controllano tutti i movimenti per tutto il perimetro della comunità, in ogni angolo. In compenso si sente lo sciacquìo di un fiume e il trenino del Bernina con il suo fischio incessante, come nelle mitiche praterie del West. Voglio condividere le mie prime impressioni da “corrispondente” in questo spicchio di terra al fronte con tutti voi, amici, redattori, sportellisti e lettori, che senza dubbio mi mancate, senza fare della retorica spicciola, mi mancate per tutto quello che abbiamo fatto insieme e per l’affetto che ci lega. Però la prima battaglia, quella del rancio, incombe e va portata avanti con intelligenza, con chi gestisce questa comunità di sofferenti che al suo interno comprende un po’ tutto, dai malati mentali ai sieropositivi ai profughi dalla Libia, per questo penso di trovarmi nel posto che fa per me, dove c’è tanto bisogno di volontariato e di attenzione verso questa fascia sempre bistrattata. La nostra giornata tipo? Come tutti i giorni, la mattina sveglia alle sette e venti per la colazione; subito dopo partenza della prima furgonata per il Sert, per soddisfare il fabbisogno giornaliero degli utenti – metadone e pastiglie varie, da ripartire con tutti gli altri – e al ritorno iniziano i turni di pulizie, di piani e docce, in genere due volte alla settimana, per poi aspettare che si facciano le 12,30 per andare tutti in refettorio a mangiare. Da questo momento tutti i telefoni devono essere spenti. Finito di mangiare, la maggior parte degli utenti si reca al piano di sopra, in fila, aspettando la terapia, che avviene sempre dopo mangiato, anche la sera. Qualche volta, durante la settimana, si fa il karaoke e tutti o quasi si prodigano a cantare: veramente i risultati non sempre rispettano le aspettative, però è uno dei pochi momenti di aggregazione, insieme al refettorio. E poi la maggior parte della giornata si passa in stanza o in sala tv. Questo è quanto, miei lettori. Il soggiorno è corroborato dalle uscite, due volte la settimana, per un’ora e mezza, ma solo per chi in genere ha già fatto due o tre mesi di permanenza, come da “regola”; ogni tanto un gruppo, scelto dagli operatori, di solito sempre quelli che non hanno contatti con le famiglia, va in gita nei paraggi, fa un’escursione in montagna o nel parco di Sondrio. Per ora vi lascio con il mio nuovo motto: resistere, resistere, resistere. In questo spicchio di frontiera. Nino Spera poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia LIBIA La tua storia è stata, è finita ricca di conquiste, piena combattente feroce tiranno apprezzato e detestato amato stimato e venerato. Padre di mille figli ricco di donne e amanti e fedeli combattenti, per un attimo hai piegato il mondo. Dominavi il cielo, il mare e il deserto sei finito nella polvere colpevole di aver lottato per la patria, alcuni piangeranno altri gioiranno comunque hai vinto lo stesso rimarrai nella storia. Antonio Ruggeri IL MARE Vago è il ricordo del mio primo mare scuro tempestoso quasi da odiare le onde s’infrangevano con fragore e il timore era del cuore. Ho visto per la prima volta il mare di primavera con la sabbia negli occhi poi un nuovo cielo. Vedevo ombre nel tiepido mare, accarezzavo l’acqua mia amica si faceva toccare era lo specchio dove mi potevo guardare. Giovanni Rizzuti DONNA – BAMBINA Musa È un gran pittore che ti dedica un quadro musiche e canzoni e qualche mio pensiero vagante Musa nome di donna invisibile come l’anima frutto di quell’albero immaginario che vive l’essere. Non ti vedo ma ci sei. Giuseppe Bottone STAGIONE NERA FUORI DAL MONDO Cosa posso dirti figlio mio, che il mio cielo è grigio il mio viaggio fu così drammaticamente peggio, il destino del risveglio Giocavo con i sassi a scuola nei cortili dei bassi Arabo poco saggio. Mancava un po’ di coraggio un raggio di sole per illuminare il passaggio. Ho visto figlio mio, la vecchia signora rifatta mandava caramelle di bombe, continua l’esodo per dividere la torta, ma la nostra speranza per un futuro migliore non è mai morta, e tu figlio mio sarai protagonista a dire basta a subire distruzioni e poi ricostruzioni. Non siamo al laboratorio delle vostre mistificazioni, non siamo il vostro mercato creato su misura per le vostre convenzioni inaugurando una nuova stagione nera colorata di usura di paura ignorando che dentro ognuno di noi è nata l’alba e l’aurora. Jomaà Bassan VORREI Vorrei avere mille braccia per poterti abbracciare e mille mani per poterti sollevare Vorrei avere mille cuori per raggiungerti e dirti semplicemente L’INDIFFERENZA Quando ti guardo ti volti Quando ti saluto non mi ascolti Quando ti sorrido sei indifferente Mi odi io ti amo Ma…tu non ti accorgi di niente. Vorrei amarti in ogni posto in ogni dove. -mi manchi – Iris Alicic incontravo i compagni gli amici loro… ero già nel triangolo d’oro in fondo alla strada lontano dal mondo già fuori dalla vita e un brandello di speranza tra le dita. Oggi sono escluso da ciò che vale e vivo recluso con chi sta male, sulla mia pelle il disegno delle tante storie e molta poesia, spesso disperazione ma… a volte nostalgia. Daniele Gravagno AMORE L’amore è silenzio e tu puoi sentire il cuore che grida grida al silenzio fantastico silenzio, ma stanotte tienimi con te stringimi forte nel sogno! Davide Sicilia SIGNORA ILLUSIONE E non c’incontreremo più Io, tra pareti di silenzio a ricordare Tu, vivace infaticabile farfalla dalla polvere d’oro, hai colori di sogno da donare per ammaliare orizzonti d’amore per cucire languori di luna. Sorriderai a chi si nutre di speranza ti specchierai negli occhi e porgerai cascate di stelle e serenate inventate. E l’aria s’ammanterà di coriandoli tra scenari di commedia di cui sei tu l’attrice che improvvisa fantasie di danze e tramonti di fuoco. A me non hai più nulla da donare non hai più nulla da rubare e non c’incontreremo più Signora illusione. Giovanni Fornari Jasminka Radulovik carteBollate 25 LA SQUADRA – L’unica formazione di detenuti in un campionato della Figc Italiani, serbi, albanesi e cileni con la maglia giallo-nera 26 carteBollate foto di Remi N’diaye U n anno fa eravamo un’accozzaglia di persone, dopo qualche mese c’era un gruppo solido e unito. Davide, il portiere titolare, analizza così l’ultima stagione della Seconda Casa Reclusione Bollate. L’unica squadra di detenuti a giocare in un campionato della Figc. A Milano e in tutta Italia. La formazione giallonera ha chiuso il campionato al secondo posto, mancando per un soffio la promozione in Seconda categoria. Decisiva la rocambolesca sconfitta ai play-off incassata contro il Villapizzone, solo quinto in classifica. Quel giorno, il 22 maggio, gli avversari erano arrivati con la voglia di espugnare il “fortino” di Bollate, impresa già riuscita due anni prima. «Sono venuti qui concentrati e ci hanno fatto il culo», ammette Nino, il capitano che, analizzando i risultati, spiega: «Delle volte manchiamo nei momenti decisivi». Parole dure, appassionate, da vero leader. È sulle sue spalle e su quelle di mister Nazzareno Prenna, il Ciccio Graziani marchigiano, che si poggia questa squadra. Una vera e propria internazionale del calcio, che non ha nulla da invidiare all’Inter: italiani, serbi, cileni, un chiassoso capannello di albanesi e un centrale con la stessa postura e lineamenti di Piquet, il difensore del grande Barca. «Ma non c’ha Shakira», lo beffeggiano i compagni. Sono ormai nove anni, dal lontano 2003, che il campo della struttura penitenziaria risuona alle grida di Nazzareno, per tutti Naza, professore di educazione fisica nelle scuole medie di Limbiate. Non è facile tenere il gruppo amalgamato. «Qui ciò che conta più di tutto è mediare, sempre e comunque», spiega il mister mentre, seduto al bar del penitenziario ripercorre questa straordinaria avventura sportiva. Tra i tavolini è un continuo andirivieni di poliziotti e addetti ai lavori: tutte e tutti fanno un cenno di saluto a Naza. È lui il tramite tra direzione, polizia penitenziaria e detenuti-calciatori. Ma non è sempre facile, specie quando ci sono nuovi arrivi: tutti smaniano per scendere in campo. È allora che cominciano i malumori. Qualcuno avrebbe proposto al mister di far partecipare ai due-tre allenamenti settimanali solo la rosa che gioca nel campionato. Ma il senso della squadra è un altro: la Seconda Cr Bollate è soprattutto un’evasione di pensiero, fatta di corsa e sudore, a cui tutti, prima o dopo, hanno la possibilità di prendere parte. «Tante volte capita di mettere in campo giocatori che non lo sono mai stati – racconta ancora Nazzareno – ma come faccio a dirgli “tu stai fuori?”. I cinque minuti non li nego a nessuno». Chiunque, insomma, ha l’opportunità d’indossare la maglia giallonera con stampata la scritta CarteBollate, il periodico della casa di reclusione. «Per la selezione organizzo ogni anno un torneo tra reparti». Il trofeo, molto seguito e sentito all’interno del carcere, è stato l’atto conclusivo dell’ultima stagione, prima della pausa estiva. Non sono mancate le premiazioni con tanto di coppe disposte lungo il muretto che circonda il campo. Vincitori i giocatoridetenuti del secondo reparto, quello con la media d’età più bassa dell’intera struttura penitenziaria. «Oltre che con gli altri, qui si fanno i conti con gli anni che passano», spiega Nazzareno. Il tempo che corre è l’immagine di un ragazzo del Secondo che ti brucia nello scatto. E allora l’allenatore da mister diventa psicologo: «Sul campo ti rendi conto che stai invecchiando e che spesso quegli anni li hai passati qua dentro». Tecnica e tattica, in una squadra che può essere decimata da un indulto (come successo nell’estate 2006, dopo l’unica promozione dalla Terza categoria), passano in secondo piano. Delle volte è più importante una spalla a cui appoggiarsi. Sia essa di un compagno di maglia o dell’allenatore. Le partite in trasferta, in particolare, sono un’esperienza forte, spiazzante. Uscire, salire sulle camionette blindate, vedere un campo nuovo, può destabilizzare. Specie se tra il pubblico non si vedono i famigliari che aspettavi. «Una volta uno dei miei ragazzi non ha visto la famiglia in tribuna e si è innervosito, ho dovuto prenderlo da parte e rassicurarlo», spiega il mister Naza. Altra questione fondamentale nelle uscite è quella dei permessi: se il campo di Bollate è considerato dalle altre squadre un “fortino” inespugnabile, in trasferta entrano in gioco i regolamenti carcerari. Non sempre, infatti, i magistrati autorizzano i detenuti a uscire per la partita. E questo si ripercuote anche nei risultati. «Tre anni fa, si era ovviato al problema permessi, facendo giocare in esterna gli agenti della polizia penitenziaria», spiega Nazzareno e indica una foto ricordo Sport di quella stagione appesa al muro del bar del carcere. Nell’ultimo campionato i poliziotti hanno giocato nella Fiamme Sportive Bollate, squadra iscritta nello stesso girone della Seconda Cr. Un derby che ha visto, sia all’andata che al ritorno, i detenuti uscire vincitori. E che, purtroppo, non sarà disputato nella stagione che sta per cominciare: i giocatori della polizia penitenziaria hanno scelto di prendersi un anno sabbatico. Tra i detenuti, invece, l’attesa si fa pressante. «L’entusiasmo non manca, ma è sempre difficile fare un pronostico sui risultati», Nazzareno è cauto dopo i primi allenamenti. La preparazione è iniziata nell’ultima settimana di agosto. Quest’anno, per la prima volta nella sua storia, la Seconda Cr Bollate parteciperà alla Coppa Lombardia. Girone di qualificazione a tre contro Seguro e Dindelli. Fischio d’inizio l’11 settembre. Mentre per il campionato, Capitan Nino, Davide, il bomber Alessandro, Zoran e tutti gli altri gialloneri dovranno aspettare l’ultimo weekend di settembre. Davide Lessi Edoardo Malvenuti CALCIO – Una vittoria in casa e un pareggio fuori casa La stagione inizia alla grande D opo avere ottenuto una bella vittoria in casa e un pareggio fuori casa, con conseguente passaggio di turno in “Coppa Lombardia”, i presupposti per un bell’inizio di campionato ci sono tutti. Il venticinque settembre giochiamo in casa la prima partita di campionato di terza categoria contro i ragazzi dell’Ausonia: passiamo in vantaggio nel primo tempo che finisce sul risultato di 1-0, ma nel secondo tempo subiamo un rigore e, nel finale, l’Ausonia segna il goal che sancisce la nostra sconfitta, fissando il risultato finale sul 2-1. La delusione dei ragazzi è evidente, visto che nella stagione precedente il Bollate era stata la squadra che, in casa, non subiva sconfitte, e questo passo falso di inizio campionato mette il gruppo un po’ in ansia. La domenica successiva andiamo a giocare a Sesto San Giovanni contro il San Giorgio: lì, purtroppo, il vero protagonista dell’incontro si rivela l’arbitro, che convalida ai nostri avversari due gol, entrambi segnati in netta posizione di fuorigioco. E’ così che i nostri ragazzi iniziano a innervosirsi, con il risultato che l’arbitro ne espelle tre nel giro di cinque minuti. La squadra rimane così con otto giocatori in campo a terminare la partita e il risultato finale è di 3-1 per i padroni di casa. Il nove ottobre giochiamo in casa contro la Limbiatese e la squadra avversaria è molto ben organizzata in campo e nel primo quarto d’ora di gioco segna ben due volte. A questo punto l’arbitro si mette in evidenza espellendo due giocatori avversari per eccessive proteste, ma nonostante il vantaggio numerico, il Bollate fatica ad imporre il proprio gioco e, nel finale riesce a malapena a raggiungere il pareggio, fissando il risultato sul 2-2. I settimana, ci comunicano che la partita contro la Libiatese ci viene riconosciuta vinta a tavolino, con la conseguente assegnazione di tre punti, poiché i giocatori avversari non sono risultati regolarmente tesserati. Il sedici ottobre giochiamo ancora a Sesto San Giovanni contro l’Atletico Dominante: la partita si mette subito bene per noi, e la squadra segna ben due gol nei primi dieci minuti di gioco. Ma, ancora una volta, l’arbitro comincia a fischiare insistentemente a nostro sfavore e assegna prima un rigore inesistente ai nostri avversari e poi concede loro un goal segnato in netto fuorigioco. Il risultato, alla fine del primo tempo, è di 2-2. Nella ripresa, ancora una volta, l’arbitro convalida un goal in evidente fuorigioco ai nostri avversari. I nervi dei giocatori saltano e il gioco viene continuamente interrotto dai reclami verso l’arbitro che, non contento, nei minuti finali assegna una punizione dentro l’area del Bollate, con la quale l’Atletico Dominante fissa il risultato finale sul 4-2. Ci ritroviamo, dopo quattro giornate di campionato, con soli tre punti in classifica, cosa molto strana per il potenziale dell’organico della nostra squadra. Ma la speranza è che i ragazzi di Nazareno sapranno reagire nel modo migliore: nonostante le decisioni sbagliate dei direttori di gara, l’importante è imparare a non perdere mai la fiducia in se stessi e il controllo delle proprie azioni. Questo è forse il modo migliore per non sprecare tutto il lavoro fatto insieme e per non tradire la fiducia che il nostro allenatore ha in noi e nel nostro futuro. Rosario Mascari carteBollate 27 Dove ti porterei NEL SANNIO – Qui anche i romani furono sconfitti Il fascino di una terra stregata V i porterò nel Sannio, in Campania, oggi prevalentemente provincia di Benevento. Il modo più pratico e veloce per arrivarci è attraverso la strada più antica, l’Appia. Partendo da Napoli o da Caserta ci s’incammina seguendo i cartelli per Benevento. Dalla pianura Calatia, presso Maddaloni, s’inizia a salire e a intravedere il bel paesaggio collinare; nonostante le devastazioni delle vaste aree verdi, il paesaggio a un certo punto diventa rigoglioso. Si passa attraverso le colline e, all’altezza di Forchia, da Forche, ci s’imbatte in un cartello dove c’è scritto: “Qui i romani furono sconfitti nel 321 a.C. dal fiero popolo Sannita nella famosa battaglia delle Forche Caudine”. Sarà anche per questo che i Sanniti ancora oggi sono fieri, orgogliosi e battaglieri, e in particolar modo i Sanniti Caudini. I Romani furono anche umiliati e costretti, in segno di sottomissione, a passare sotto un giogo di lance. I Sanniti erano un popolo in espansione, la cui potenza ai tempi della battaglia era pari a quella di Roma. Mentre i romani si rafforzavano per via militare, essi lo facevano associandosi con altre popolazioni, in modo principalmente pacifico. I romani però, dopo alcuni decenni di sconfitte, ebbero infine la meglio e poterono così proseguire la loro espansione. Alla fine della salita ci si addentra nella Valle Caudina, che prende il nome dalla città principale dell’epoca, Caudium, ora Montesarchio. La valle è situata tra 28 carteBollate il massiccio del Taburno e la catena del Partenio ed era un punto strategico per controllare tutto il Sannio e la via di transito che portava fino in Puglia. Durante il viaggio potrete notare lungo la strada diversi castelli e torri medievali posti sulla sommità delle colline. La particolare collocazione consentiva loro di trasmettersi facilmente segnali e avvisarsi dei pericoli o di nemici in avvistamento dalla pianura Calatia al Sannio, fino alla bassa Irpinia, in provincia di Avellino. In alcuni paesi il castello è ancora abitato: a San Martino Valle Caudina vivono i discendenti del casato dei duchi Pignatelli della Leonessa, ma oggi il titolo è quasi dimenticato e il duca lo chiamano semplicemente Gianni. I Sanniti hanno radici anarchiche e battagliere e fecero valere i propri diritti contro i potenti non solo in epoca romana, ma anche in quella feudale: il Sannio fu spesso centro di scontri e assedi e, più recentemente, terra di briganti e “brigantesse”. Benevento, centro del Sannio, si chiamava in origine Maleventum, ma il nome fu cambiato nel 268 a.C per celebrare la vittoria romana su Pirro, re dell’Epiro. La sua fondazione risale a tempi remoti. Una leggenda narra che Benevento debba le sue origini all’eroe greco Diomede, sbarcato in Italia dopo la distruzione e l’incendio di Troia, e questa città secondo Procopio di Cesarea avrebbe ospitato anche l’incontro tra Diomede ed Enea. Una moneta del IV secolo avvalorerebbe la tesi dell’origine greca. L’importanza della città si deve anche alla via Traiana che par- La ricetta Dolce come il migliaccio La gastronomia offre svariati prodotti, semplici e genuini: formaggi, salumi, sottolio. Nei boschi ci sono le nocciole e castagne e profumatissimi funghi porcini unici per il loro colore scuro. Ci sono diversi agriturismi, dove si possono gustare i prodotti locali a prezzi modici. Cucina mediterranea, piatti semplici e genuini senza troppi fronzoli, si bada più alla qualità che all’apparenza. La cucina tradizionale del luogo offre piatti molto tipici, ve ne segnalo alcuni molto caratteristici. Tra i primi piatti: fusilli al ragù o al tegamino, cicatielli (cavatelli), minestra maritata (verdura selvatica cotta con carne di maiale), lagane e ceci. Tra i secondi: mignatielli (interiora di agnello con salumi e aromi, arrotolato con intestino di agnello), frittulillo (interiora di agnello), la panzera con i piselli o al sugo (tasca di agnello ripiena di ricotta e verdura). I contorni: la parmigiana di melanzane (versione tipica), verdure selvatiche di ogni tipo (cicoria, cardilli, tallucci) saltate in padella, lessate con olio e limone oppure crude. Il vino fa la parte migliore, è vino per intenditori, dal rosso al bianco c’è l’imbarazzo della scelta. I rossi come: l’Aglianico, il Taurasi (secondo solo al Brunello) e i bianchi: la Falanghina, il Fiano e il Greco di Tufo (tenuto in riserve particolari anche per le richieste della regina d’Inghilterra). I dolci: il migliaccio, le zeppole (bianche o con uova, con patate o senza), torta di riso, di ricotta, o di salumi e formaggi. Ecco la ricetta per il migliaccio: tiva dall’arco di Traiano fatto costruire dall’imperatore. Subì l’invasione di Visigoti, Vandali, Goti, Ostrogoti e dai Longobardi che vi rimasero per 8 secoli, ed è legata a loro la leggenda che ha riversato su Benevento la fama di “città delle streghe”. Nel conoscere le donne sannite potreste notare un luccichio strano nei loro occhi, un qualcosa di magico e di enigmatico ereditato dalle famose streghe. È errato chiamarle semplicemente streghe, esse si chiamavano janare, un termine che deriva probabilmente dal nome dato alle praticanti del culto della dea Diana (dianare, è mutato nel dialetto in janare). Le janare si radunavano a Benevento, dove s’incontrano i due fiumi che attraversano la città, il Sabato e il Calore. Sotto un noce (la Ripa delle janare), si facevano i famosi e famigerati sabba. C’è qualcuno che ricorda l’inizio di un rituale ancora usato per togliere i ma- Ingredienti: 125 gr. di semolino di grano duro 1 litro di latte 50 gr. di burro 250 di zucchero un pizzico di sale 300 gr. di ricotta 6 uova 2 bustine di vanillina Bucce di limone e di arancia. Preparazione : Cuocere il semolino versando in una casseruola il latte con il burro, 100 gr. di zucchero e un pizzico di sale, aspettare che il latte giunga a bollore, poi a fiamma bassa (o togliendo la pentola dal fuoco) versare a pioggia il semolino, rimestando di continuo con un cucchiaio di legno, facendo attenzione che non si formino grumi, quando ricomincia a bollire e la densità è consistente, spegnere e lasciarlo raffreddare (si consiglia di prepararlo molto prima). In una terrina passare col passaverdura la ricotta, aggiungere le uova, la vanillina, la buccia grattugiata del limone e dell’arancia (q.b.), girare con una frusta (anche elettrica), aggiungere alla fine il semolino passato col passaverdura e continuare a girare. Versare in una teglia precedentemente imburrata e infarinata o semplicemente rivestita con carta da forno (un trucco per far aderire bene la carta forno? Bagnatela e strizzatela!). Si possono tranquillamente aumentare o diminuire degli ingredienti, come lo zucchero o gli aromi (secondo i gusti e problemi…). E’ importante che il composto sia abbastanza fluido e che contenga almeno gli ingredienti principali. Altrimenti avete fatto un altro dolce! locchi che recita così: “sott’ a lun’ e sott’ o vient sott’ o noc e Benevient’….”. Si dice che a questi incontri venissero le streghe di tutta Europa. Le janare non erano cattive, ma piuttosto dispettose, nelle notti di plenilunio potevano volare dopo essersi cosparse di uno speciale unguento e passavano sotto le porte per castigare le persone cattive o antipatiche, tirando loro i capelli, i piedi, o nei casi peggiori, graffiandole. La leggenda inoltre narra della donna gatto, la regina delle streghe, il suo nome era Chicchera (cresta di gallo). Ferita a una zampa con un coltello, mentre sotto forma di gatto faceva malefici, fu riconosciuta quando riprendendo forma umana aveva ancora il coltello nella coscia. Camminando per i paesini lungo la strada, si possono notare delle scope girate sottosopra, appoggiate davanti alle porte, non sono lì per caso e neppure sono state messe ad asciugare: servono a tenere lontane le janare. Le streghe infatti sono curiose e non resistano alla tentazione di contarne i fili, ma così facendo giunge l’alba e non riescono più ad entrare nelle case. L’ultima janare bruciata a Benevento come allora capitava alle streghe sembra si chiamasse Matteuccia. Presso l’archivio della Curia Arcivescovile di Benevento furono ritrovati dei resti di atti processuali che hanno determinato l’uccisione di più di 200 streghe arse vive, ma furono bruciati prima dell’arrivo dei garibaldini per evitare una eventuale propaganda anticlericale. Sono state fatte diverse ricerche sulle streghe di Benevento, menzionate da illustri scrittori e rappresentate in famose opere teatrali. L’uccisione di tante donne ritenute streghe nel Sannio fa sorgere il dubbio che esse dovevano essere diverse, di solito capaci di curare e fabbricare medicine con le erbe, forse poco sottomesse o non disponibili a facili compromessi, oppure dimostravano di essere intelligenti e capaci, cosa poco gradita agli uomini del tempo, e a qualcuno anche di oggi. C’è qualcuno che dice di vedere ogni tanto Matteuccia aggirarsi laddove il Sabato e il Calore si uniscono e formano dei turbinosi mulinelli, sotto il noce sradicato diverse volte ma sempre stranamente rinato. Le persecuzioni finiscono nel 1749, ma la fama di Benevento resta. La gente del posto non parla volentieri delle sue streghe, anzi solo a sentir dire “janare” si fanno il segno della croce. Nel paesaggio non si può non notare il massiccio del Taburno (alto m. 1.394): è tra i più alti della Campania, chiamato “la dormiente” per la sua forma che ricorda una donna distesa. Nella valle e sui monti vi sono ricche sorgenti d’acqua, ma non si direbbe vista la scarsa quantità che l’acquedotto fornisce alle abitazioni, provocando disagi notevoli nel periodo estivo. Andando verso la valle Telesina, famosa per le sue acque termali curative, Terme di Telese, si possono vedere le rare sorgenti d’acqua effervescente naturale, che incuriosiscono molti per le caratteristiche bollicine che si formano sul fondo, sui sassi e su tutta la vegetazione circostante a contatto con l’acqua. nella pagina a fianco: il massiccio del taburno e sant’agata dei goti. a sinistra: l’arco trionfale di traiano. carteBollate 29 Dove ti porterei continua da pagina 29 parte, verso la catena del Dall’altra Partenio, ci sono posti rinomati per le sorgenti di acque oligominerali come Mafariello, zona molto frequentata dal turismo locale che spesso fa provviste di quest’acqua più leggera e meno inquinata. Lo spazio è attrezzato con barbecue, tavoli, panche e si possono fare lunghe passeggiate sui sentieri segnalati dalla Comunità Montana e soste rilassanti presso la fonte. Gli amanti del trekking possono percorrere il sentiero Europa, agevole e molto piacevole, il paesaggio cambia spesso, da alberi di castagni a conifere, faggeti, aceri, querce. Passando da “’O trav ’o fuoc’” (la trave del fuoco) si sale e si arriva all’Acqua Fredda, nome dovuto ovviamente alla sorgente di acqua ghiacciata, dove un fantastico pianoro vi premia dalla fatica fatta per arrivarci. Lì potrete vedere cavalli e mucche allo stato brado, gli allevatori li portano in primavera per andarseli a riprendere a fine estate, fragoline, lamponi, more e fiori di zafferano colorano la pianura che si estende a perdita d’occhio. Affacciandovi dall’alto, ai limiti della pianura, potrete ammirare il Vesuvio e il golfo di Napoli, una visione mozzafiato garantita. Scendendo a valle noterete le selve di castagneti ben curati, per avere un’ottima raccolta di castagne in autunno. Purtroppo potreste vedere anche aeree trascurate lungo il percorso, nonostante gli impegni per migliorare la situazione. Pare che l’amministrazione locale stia 30 carteBollate Sopra: il noce secolare nei pressi di Benevento. Sotto: la dormiente del Sannio al tramonto. cercando di conferire alle persone che usufruiscono di sussidi l’incarico per la manutenzione del verde e la sistemazione delle zone più degradate nel paese e di tutto il territorio. Iniziativa degna di lode, che potrebbe dare un’immagine del Sud che fa da sé, nonostante le poche risorse, nel piccolo paesello come nelle grandi città. Il Sannio moderno presenta grandi possibilità di sviluppo, legate all’opzione turistica, grazie ad ambienti ancora incontaminati e con notevoli esempi di architettura e di arte di diverse epoche storiche. Gli stupendi centri storici, come quello di Sant’Agata de’ Goti o Cerreto Sannita, Cusano Mutri e Morcone. Del passato glorioso testimoniano le mura di Telesia, il castello di Montesarchio e i resti di Caudium, le Terme di Telese e le sorgenti del Grassano, il parco geopaleontologico di Petraroja (dove venne ritrovato “Ciro, il primo dinosauro scoperto in Italia). Sono tutte risorse di straordinario pregio e valore. Alle streghe del Sannio è stato dedicato famoso liquore, lo “ Strega”, con il primo sorso ti affascino, col secondo ti strego, diceva la sua pubblicità. La stessa cosa si potrebbe dire di questa terra: nonostante la triste realtà di questi posti (disoccupazione, delinquenza e scarsa cura per l’ambiente) ve ne potreste facilmente innamorare. Caterina Mista In breve FUORI TUTTI Una domenica particolare U na giornata fuori dal carcere, nel parco di villa Burba a Rho, per far conoscere ai cittadini come si lavora nella casa di reclusione di Bollate, cosa si produce con tessuti e materiali riciclati in laboratorio, gli abiti che si confezionano presso la sartoria Alice, le piante del vivaio di Cascina Bollate e il nostro giornale, carteBollate. E’ successo domenica 16 ottobre, con una ventina di detenuti che per qualche ora hanno partecipato alla manifestazione Fuori tutti. Sono state esposte opere creative di ogni genere: dalle collane, alle borse; dalle cinture alle magliette e tutti quei lavori fatti dalle detenute. Enzina del laboratorio artigianale dice: «Abbiamo subito accettato con entusiasmo di partecipare a questa manifestazione perché crediamo importante far conoscere a tutti i cittadini ciò che viene creato e prodotto a Bollate. Non solo semplici manufatti ma opere creative che aiutano ad attraversare in modo più sereno il periodo di reclusione, aggiungendo a Fuori tutti la parola “insieme”». Per Silvana Nini, del laboratorio del feltro «è molto bella l’idea di questa manifestazione, potrebbe essere organizzata più volte l’anno, in modo da avere degli appuntamenti fissi. È bello poter incontrare esperienze diverse. Io sono venuta qua perché invitata da un’amica che lavora nel carcere di Bollate e mi ha raccontato del bellissimo lavoro fatto con le donne». Claudia Maddaloni GRAFFITI Il cielo in una stanza approda a San Vittore opo la conclusione positiva del progetto Il cielo in una stanza al terzo piano del femminile di Bollate, progetto che ricordiamo essere stato finanziato da Fondazione Cattolica Assicurazioni, Fondazione Comunitaria Nord Milano e con il contributo ed il sostegno tecnico di Akzo Nobel/Sikkens il progetto ha preso il “volo” ed è stato proposto anche a San Vittore.Il lavoro svolto con le donne di Bollate è stato di grande impatto ed interesse oltre ad aver reso il luogo della detenzione più accogliente e condiviso tanto che è stato preso in considerazione quale metodo da replicare anche in altri istituti.La direttrice di San Vittore, la dottoressa Manzelli, insieme alla sua equipe di educatori ha accolto e condiviso il pro- foto di Remi N’diaye D getto proponendolo al gruppo dei ragazzi più giovani. Nel mese di settembre è stato realizzato uno splendido murale negli spazi esterni dell’ora d’aria. Certissime che il progetto possa continuare a esistere e portare in altri istituti la bellezza del colore e la sua grande forza espressiva TEATRO Recita che ti passa! I l 30 settembre ha debuttato uno spettacolo teatrale fuoricartellone: poesie e scritti letti e recitati dai partecipanti al gruppo lettura del primo reparto, composto da detenuti e volontari. Il giovane regista Massimo Magni, anche lui detenuto, ha saputo coordinare i vari brani: commovente il racconto di un ergastolano, Antonio Musumeci, che ha parlato del suo percorso nella vita carceraria, pieno di domande senza risposta. Al traguardo abbraccerà solo morte mentre gli altri dopo il loro percorso riabbracceranno la libertà: “Respiro, dormo, bevo, sogno, insomma vivo, ma sarebbe meglio dire che muoio vivendo, dato che, mentre gli altri detenuti vivono per la libertà, gli ergastolani vivono solo per morire”. Gli aspiranti attori sono stati magnifici e hanno interpretato con grande professionalità il loro personaggio, malgrado le difficoltà linguistiche e la sfida emotiva per chi, per la prima volta, affrontava un palcoscenico (per quanto familiare come cogliamo l’occasione per ringraziare tutti quelli che hanno creduto e sostenuto il progetto primi fra tutti la cooperativa Articolo Tre. Prossimi passi? Innanzitutto continuare il progetto a Bollate operando nel secondo piano del femminile e poi esportare, esportare, esportare! è quello della sala cinema). Soprattutto i detenuti stranieri sono riusciti a trasmettere bei sentimenti che hanno emozionato tutti i presenti. Lo spettacolo ha trattato diverse tematiche come il razzismo, l’integrazione, le storie di vita dei detenuti, il rispetto e l’importanza del dialogo come un forte canale di comunicazione fra tutte le diverse componenti sociali. I detenuti hanno dato una prova della loro volontàdi vivere in modo umano pur essendo reclusi dietro le sbarre. Hanno dato vita a un progetto costruttivo, rendendo la detenzione meno amara e più vitale non solo per se stessi, ma anche per i loro compagni che hanno partecipato allo spettacolo, seduti dalla parte del pubblico. Un pubblico che rifletteva bene la composizione della popolazione carceraria, composta da persone cche provengono da mezzo mondo, diverse per religione, cultura, lingua, storia e mentalità. Differenze che spesso possono provocare incomprensioni, intolleranza e divisioni, che solo le arti nobili come la lettura, il teatro, la pittura e la musica riescono a ricucire. Mohamed Lamaani carteBollate 31