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novembre-dicembre - Il Nuovo Carte Bollate

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novembre-dicembre - Il Nuovo Carte Bollate
carteBollate
novembre-dicembre numero 6/2011
il nuovo
Periodico di informazione della II Casa di reclusione di Milano-Bollate
DOSSIER
Stop all’affollamento carceri
giustizia in tilt
Bulli & pupe
paga papà?
Per le vittime
quale risarcimento
di David Gianetti
p.4
Vogliamo pari La rottamazione Condannata
opportunità p.9 della Smuraglia p.10 alla libertà p.14
Essere donna
a Bollate
di Caterina Mista
Detenuti a rischio
disoccupazione
di Habib H’mam
La pena
del fine-pena
di Carla Molteni
sommario
novembre - dicembre numero 6/2011
in copertina: fotografia di federica neeff
una class action contro l’affollamento
Editoriale
Non clemenza ma reinserimento e sicurezza sociale 18
19
Se la giustizia viaggia a due velocità
Ergastolo, l’Italia è molto lontana dall’Europa 20
Procedure più semplici e giustizia più rapida 21
Un autobus che può lasciarti a piedi
p. 3
Se un ragazzo sbaglia la colpa è dei genitori? Il lato oscuro dell’adolescenza
4
5
Lavoro
Disoccupazione nelle carceri sicurezza a rischio 6
Il cuoco, il giardiniere, la sarta e il centralinista 7
L’attività grazie alla quale ho cambiato la mia vita 8
Il libero accesso che piace a Tremonti
10
22
23
24
25
Calcio
Italiani, serbi, albanesi e cileni con maglia giallo-nera 26
La stagione inizia alla grande
27
Libia
Migliai di profughi in fuga: Europa dove sei?
11
Anche in carcere è Id al-adha
Dolce come il cioccolato con un pizzico di sale
Ammalarsi per scommessa
12
13
Una class action contro il sovraffollamento
Detenuto: scarto o risorsa? Sette proposte a costo zero
7
carteBollate
Dove ti porterei
Il fascino di una terra stregata
28
14
In breve
31
15
Una domenica particolare
Il cielo in una stanza approda a San Vittore
Recita che ti passa!
Gigione e le storie tese
32
Dossier
2
Anche in carcere vogliamo pari opportunità Rosina, 72 anni, condannata alla libertà
Il rancio? Una vera pena aggiuntiva
Poesia
31
31
16
17
9
13
28
31
28
editoriale
Un autobus che può
lasciarti a piedi...
L
Il nuovo carteBollate
via C. Belgioioso 120
20157 Milano
Redazione
Sandra Ariota
Edgardo Bertulli
Elena Casula
Ferdinant Deda
Fabio Galli
Romano Gallotta
(impaginazione)
Francesco Garaffoni
David Gianetti
Habib H’mam
Carmelo Impusino
Mohamed Lamaani
Antonio Lasalandra
Enrico Lazzara
Claudia Maddoloni
Paolo Mascari
Rosario Mascari
Caterina Mista
Carla Molteni
Federica Neeff
e centinaia di associazioni, fondazioni, piccole istituzioni a disposizione di chi
vuole essere utile a un detenuto anche fuori di galera costituiscono un mondo variegato e articolato con mille diramazioni, richiami e collegamenti che
è doveroso conoscere meglio; per questo, mentalmente travestita in uno dei
detenuti della redazione di carteBollate, sono andata a fare un giro nei siti indicati da Tuttobollate, corposo e esauriente vademecum realizzato dall’Associazione
(art director)
Contigua e dalla Cooperativa Articolo 3.
Remi N’Diaye
(fotoreporter)
L’universo della solidarietà e supporto al carcere è vasto e articolato, ci tiene a
Silvia Palombi
far sapere cosa si pensa e si dice di lui, è attivo nell’avviare a corsi di formazione
Andrea Pasini
chiunque decida di intraprendere il percorso del volontariato dentro o fuori dal
Susanna Ripamonti
(direttrice responsabile)
carcere, raccoglie articoli in rassegne stampa sul carcere e via dicendo. ComprenFrancesco Rossi
sibilmente tutti sottolineano che è cosa buona e giusta, doverosa e persino saluLuigi Ruocco
tare sostenerne economicamente l’attività e indicano come farlo in modo che più
Stefano Sorrentino
Lella Veglia
chiaro non potrebbe essere.
Forse mi aspettavo qualcosa di diverso, di più accogliente, forse non saSosteneteci con una donazione
pevo nemmeno bene cosa cercavo, sta di fatto che infilatami nei panni
minima annuale di 20 euro e riceverete
scomodi di chi esce di galera e non sa dove sbattere la testa pensavo di
a casa i 6 numeri del giornale.
trovare in apertura di ciascun sito un pulsantone con scritto più o meno
Per farlo potete andare sul nostro sito
“sei un detenuto e hai bisogno di noi? clicca qui”. Romantica? forse.
www.ilnuovocartebollate.org,
Saltabeccando ho avuto la sensazione che c’è un gran parlarsi addosso,
cliccare su donazioni e seguire
un autoincensarsi, ma forse dipende dal fatto che il web troppo scritto
il percorso indicato.
respinge.
Ecco, telegraficamente, le mie impressioni sito per sito:
Oppure fate un bonifico intestato a
Sesta opera san Fedele: bello, quasi elegante, facile da girare e pieno di
“Amici di carteBollate” su
scritti, fin troppo a mio parere.
IT 22 C 03051 01617 000030130049
Il bivacco: più rustico e forse scritto di più, storia e statuto dell’Associabic barcitmmbko
zione e una mostra di manufatti dei detenuti di Opera.
Il girasole: nella stessa via di San Vittore, ha anche news e video, fornisce
indicando il vostro indirizzo.
link di altre associazioni di supporto. Il detenuto in cerca di aiuto può solo
In entrambi i casi mandate una mail
scrivere mail. In home page l’invito a devolvere a loro il 5 x 1000.
a [email protected]
A & I: professionale, molto scritto anche questo.
indicando nome cognome e indirizzo
Il progetto Punto e a capo, indicato in Tuttobollate offre solo telefono e
a cui inviare il giornale.
fax, oltre all’indirizzo e al nome di un responsabile.
Il ciao: acronimo di Centro Informazione Ascolto Orientamento (ma
Ha collaborato a
su Tuttobollate i puntini non ci sono, da google sono usciti ciao a milioni) è di orienquesto numero
Maddalena Capalbi
tamento, ha una gran bella home page della quale è cliccabile solo l’indirizzo mail;
Noureddin Hachimi
sperando si trattasse di un blocco temporaneo ci ho riprovato più volte facendo
Davide Lessi
fiasco regolarmente.
Edoardo Malvenuti
Nino Spera
Incontro e presenza: “promuove il reinserimento lavorativo e sociale di detenuti e
ex-detenuti dei carceri dell’area milanese di San Vittore, Monza, Bollate, Opera e
gruppo carcere
dell’Istituto minorile C. Beccaria” recita l’home page pulita e lineare, grigio chiaro
Mario Cuminetti
onlus
e blu fa un po’ ufficio.
via Tadino 18
Spazio aperto servizi: notizie in home page e un po’ di cronaca, tanti link, dati, co20131 Milano
lori, nomi con mail e numeri di telefono di riferimento.
Comitato editoriale
Bambinisenzasbarre: ricco, graficamente più vivace, quaderni pubblicazioni ricerNicola De Rienzo
che, l’invito a fare il servizio civile con e per loro, neanche qui il pulsante per deteRenato Mele
nuto che ha bisogno di aiuto o mamma detenuta a fine pena in difficoltà.
Franco Moro Visconti
Maria Chiara Setti
Sicuramente quello che ho visto in questo piccolo tour richiede e merita approfondimenti, ho fatto come in una città sconosciuta con poco tempo per conoscerla: un
Registrazione Tribunale
giro turistico su uno di quei pullman colorati scoperti.
di Milano
Se voglio saperne di più devo approfondire e qui, nella galassia della solidarietà,
n. 862 del 13/11/2005
Questo numero del
l’impressione è che non si possa far altro che scendere e farsela a piedi…
Nuovo carteBollate
Silvia Palombi
è stato chiuso
in redazione alle ore 18
dell’ 11/11/2011
[email protected] - www.ilnuovocartebollate.org
Stampato da
Lasergraph srl
carteBollate
3
FORUM – Incontro con Roberta Ghidelli, assistente sociale che si occupa di minori
È
giusto che a pagare per il reato
commesso da un ragazzo sia la
famiglia? A suggerirci la domanda è stata la recente sentenza
della Cassazione su uno dei tanti episodi di bullismo, consumato nell’aprile
del 2002 a Crescenzago, alla periferia
di Milano, da una coppia di ragazzine
quindicenni, arrestate con l’accusa di
aver picchiato e rapinato una 13enne,
colpevole, secondo loro, “di averle guardate troppo a lungo”. La vittima della
violenza se l’era cavata con una prognosi di 15 giorni e il procedimento penale
al Tribunale dei Minorenni si era chiuso
con l’estinzione dei reati ascritti per esito positivo della “messa alla prova” (ex
art.28 DPR 448/88). Il processo civile,
invece, si è concluso solo il 14 settembre
scorso con la condanna per i genitori a
pagare una multa di 50mila euro (per
la precisione, 46.574,53 più 804,66 per
le spese, 2.261,51 per i diritti e 5.122 per
onorari) a titolo di risarcimento: se quei
soldi non saranno versati, le case di famiglia finiranno all’asta. La motivazione è che le due adolescenti non avrebbero “ricevuto un’adeguata educazione
familiare, tanto da non comprendere
fino in fondo la gravità e le conseguenze negative dei propri comportamenti,
neanche di fronte all’autorità”.
Tra i redattori di CarteBollate la sentenza ha subito acceso la discussione:
un po’ perché molti, fuori dal carcere,
hanno figli e nipoti minorenni in balìa
di quartieri difficili e cattive compagnie; un po’ perché, dietro le sbarre,
basta un nulla per rivedere i propri vissuti, quei percorsi affondati in un’infanzia spesso difficile che forse potevano
svolgersi diversamente se solo la famiglia fosse intervenuta in un certo modo
o l’ambiente e le circostanze fossero
stati diversi. D’altra parte, anche tra i
liberi, chi non ha mai commesso un furtarello da ragazzo? Un’invisibile soglia
separa l’inizio di una carriera criminale
da una trasgressione adolescenziale. Il
futuro Vallanzasca che rubava all’edicolante il suo primo pacchetto di figurine non era ancora diverso dal ragazzino
che entrava nella cartoleria di Enrico
– uno dei redattori – a portargli via le
matite. In quel caso, ricorda il collega,
4
carteBollate
«la collaborazione della famiglia – una
famiglia normalissima – è stata fondamentale per la piega che poteva prendere il percorso del ragazzo». Il disagio
di due adolescenti, infine, può anche
non essere sentito come cosa aliena da
un adulto che non ha risolto il disagio
del suo delitto, “ospite infantilizzato” di
un’istituzione totale che anziché sciogliere certi nodi della psiche li rende
ancora più fitti.
Cuori, nervi – e visceri – scoperti, insomma. Tanto che s’è pensato di invitare a un dibattito in redazione Roberta
Ghidelli, assistente sociale alle dipendenze del ministero della Giustizia che
si occupa proprio di minori. «Il mio lavoro – premette – è valutare la capacità del
ragazzo di assumersi la responsabilità
emotiva, etica e morale dei propri atti».
Per questa valutazione la messa alla
prova è fondamentale. Interviene Enrico: «Dovrebbero mettere alla prova i
minori liberi o in comunità e anche gli
adulti in articolo 21 – lui è uno di quelli – che in quella simulazione di esperienza reale non possono sperimentarsi
veramente, tornando in contatto per
esempio con le persone che conoscono.
Ci si sente come un palombaro in un
acquario, non ci si bagna». L’assistente
non è d’accordo: «No, non è vero, a volte
ci si bagna perché si trasgredisce».
Ma torniamo al tema del dibattito, la
responsabilità della famiglia nella devianza del minore. «Per molte famiglie
normali, senza precedenti di reato,
prendersi la colpa non sempre equivale a mettersi in discussione», spiega la
dottoressa Ghidelli. «Il nostro lavoro è
proprio aiutarle a capire che cosa non
ha funzionato e ad andare avanti senza
per questo rimuovere quanto successo.
E comunque senza dimenticare che il
tragitto deviante dei minori non ha mai
un’unica causa». Il risarcimento è contemplato nel procedimento penale per
minorenni? «No, sono previste la mediazione penale e un’attività di riparazione, che non è risarcimento. La parte
lesa può solo essere presente all’udienza, ma non può costituirsi parte civile
presso il Tribunale per i minorenni.
L’orientamento di fondo della giurisprudenza minorile suggerisce per gli
federica neeff
Se un ragazzo sbaglia la colpa
è dei genitori?
operatori un’attitudine comunicativa;
secondo il codice di procedura penale
per i minorenni, il comportamento di
chi delinque è un modo per comunicare
un messaggio di disagio, ma da alcuni
anni il Tribunale ordinario ha ritenuto
di accogliere le richieste di risarcimento a norma del codice civile che prevede per i genitori una colpa in educando,
diversa da quella in vigilando».
In sostanza i genitori possono non aver
trasmesso i valori o non aver capito che
i figli non li avevano interiorizzati? «Secondo me c’è una responsabilità quasi
oggettiva, anche perché l’onere della
prova è altissimo: i genitori dovrebbero
dimostrare il contrario di quanto oggettivamente palesato, cioè che hanno
saputo educare i loro figli». Ma se una
famiglia non ha mezzi come può risarcire? «Il risarcimento chiesto può essere
un quinto dello stipendio o il sequestro
cautelativo dell’appartamento di famiglia». E cosa comporta questa monetizzazione del danno? «Nelle situazioni
che conosco direttamente ha determinato un’interruzione del percorso, la
messa alla prova salta. In caso di violenza, il ragazzo dovrebbe incontrare la
parte lesa per una mediazione penale,
ma una richiesta di risarcimento così
onerosa blocca qualunque possibilità
di contatto e questo è molto negativo
soprattutto per la vittima che spesso
ha bisogno di risposte, vuole sapere il
perché della violenza subita».
Certo, dipende dalla discrezionalità del
magistrato, ma a Milano le richieste risarcitorie non sono una cosa eccezionale. A prescindere da questa sentenza nel
procedimento per minori viene comunque preso in considerazione il diritto
della parte offesa, la vittima. «Purtroppo, nei casi di violenza sessuale – numerosi – spesso mancano figure e servizi in
grado di prendersi carico del minorenne
offeso. Per le vittime è importante cessare dal sentirsi vittime: a questo servono i percorsi di mediazione».
Soprattutto con i minori, due diritti, entrambi legittimi, il recupero del
minore e la riparazione della vittima,
finiscono per entrare in collisione; anche il minore che delinque può essere fragile quanto la sua vittima? «Non
bisogna dimenticare l’incapacità che
molti ragazzi hanno di cogliere la sofferenza negli altri. Vittime, anche questi piccoli “carnefici”, di mancanza di
attenzione e relazione, dell’incapacità
di comunicare i propri sentimenti da
parte di molti genitori e l’ascolto della vittima può aiutarli a capire i sentimenti degli altri, a empatizzare. Inoltre
la mediazione penale e sociale aiuta la
vittima a stare meglio e a uscire dalla sua dimensione di vittima, cosa che
non avviene con la richiesta di risarcimento del Tribunale civile, quando
sono i genitori a dover provare di aver
educato bene i figli».
Ma siamo sicuri che la colpa è sempre
della famiglia? Prende la parola Benedetto Mascari – mezza famiglia finita
in carcere: «In casa alcuni argomenti
come il sesso erano un tabù, è vero,
ma i valori si possono esprimere anche
con gli esempi».
Un delitto sessuale per lui è qualcosa di impensabile, mentre il bullismo,
che «esiste da sempre, in tante situazioni», forse dipende dall’educazione
ricevuta. Ma quanto conta il carattere
del ragazzo? Caterina, mamma napoletana, aggiunge: «Ci sono famiglie di
delinquenti con dei campioni e tante
buone famiglie con figli che tendono
a nascondersi, mostrando una doppia
personalità, a scuola e in casa». «Vero.
Quando la famiglia non consente questa trasgressione il ragazzo la porta
fuori», conferma l’assistente.
E dalla trasgressione si ritorna al danno. Elena: «Il risarcimento può servire
a una riduzione della pena? Con quale criterio si stabilisce il suo valore?».
«Dipende dai casi, ma oltre a quello
economico – il suo valore è determinato dalle tabelle degli assicuratori – c’è
un risarcimento morale. Anche la mediazione può avere un valore strumentale, ma naturalmente è un percorso
più difficile. Con i minori interviene
la figura professionale del mediatore,
un facilitatore che incontra le parti,
senza gli avvocati, e dopo una serie
di colloqui separati, quando queste
sono pronte, le fa incontrare, vincendo imbarazzi, sentimenti di rabbia,
silenzi». Sul risarcimento economico
Franco Garaffoni non ha peli sulla lingua: «Nel civile non può diventare una
forma di impunità per i ricchi?». La risposta non può che essere affermativa:
«Le pene pecuniarie tradizionalmente
sono viste nel codice civile come discriminanti».
A cura di David Gianetti
BULLISMO – La carriera di un bambino irrequieto
Il lato oscuro dell’adolescenza
L
a notizia, uscita in settembre su
quotidiani e telegiornali, che il
tribunale aveva disposto il sequestro della casa dei genitori di
due minorenni, per risarcire una loro
compagna, vittima di atti di bulismo,
ha destato polemiche e riflessioni. Il
dilemma shakespeariano è d’obbligo:
essere o non essere… responsabili di
tutto quello che i propri figli, specie se
minori, fanno?
Ho vissuto sulla mia pelle gli effetti di
un’infanzia e adolescenza passate tra
l’assenza, l’indifferenza, l’incapacità e
l’impossibilità dei miei genitori di fornirmi gli strumenti culturali che mi
avrebbero aiutato a vivere e dunque
ritengo di avere voce in capitolo sui
temi che trattano i comportamenti nocivi degli adolescenti, così come degli
elementi degradanti e devianti che li
conducono ad attuare scelte azzardate e azioni malsane, troppe volte dalle
conseguenze irrimediabili.
Dovete sapere che prima di essere quel
che sono ora (un detenuto da circa 13
anni, immesso in un percorso di reinserimento, ma soprattutto una persona
consapevole) sono stato un bambino irrequieto, poi un bullo e poi ancora… un
criminale.
Mi piace l’idea di prendere d’esempio i
comportamenti istintivi animali, dove
le madri si prendono cura dei loro cuccioli fino alla certezza della loro autonomia, attuando una costante e progressiva interazione fatta di insegnamenti
fondamentali per la loro esistenza.
Ma noi siamo esseri umani, e come tali
ci differenziamo dagli animali proprio
per la nostra capacità evolutiva dovuta
ad un più alto intelletto. Eppure questo
intelletto a molti adolescenti non basta
ad avere buon senso, così come non basta ai genitori per renderli consapevoli
della necessità di educare. Credo che
molti genitori non tengano conto o minimizzino le frustrazioni che possono
affliggere gli adolescenti, con la loro
voglia di esplodere, emergere e distinguersi agli occhi degli stessi coetanei e
della società, e non sanno che i loro figli, apparentemente vivaci, svegli e così
“normali” potrebbero avere una specie
di doppia identità, un conflitto tra l’essere e l’apparire, o peggio ancora, nascondere un vero e proprio lato oscuro che a loro non racconteranno mai,
poiché è troppo personale e di difficile
comprensione e accettazione. Un lato
oscuro condivisibile solo con i propri
coetanei, con gli amici, la compagnia,
o con dei perfetti sconosciuti, magari
incontrati su internet. Un lato oscuro
che contiene quella voglia di fare quelle
esperienze che in un modo o nell’altro si
devono fare o conoscere quasi obbligatoriamente, troppe volte in una sorta di
impulso adolescenziale che può varcare la soglia dei limiti imposti da etiche,
moralità, buon senso, entrando così nei
territori della trasgressione.
Penso che il problema stia proprio in
questo passaggio, nel fatto che molti
genitori non sanno riconoscere i campanelli d’allarme, ma ancor prima, non
sono realmente presenti e capaci di interagire nella crescita dei figli. Non sanno aiutarli a comprendere, prevenire e
limitare i danni di situazioni nocive che
purtroppo esistono nella società, quasi
come una normalità. Una normalità che
magari si preferisce non vedere e accettare, vivendola con distacco e indifferenza, ma che gli adolescenti si trovano
ad affrontare quasi inevitabilmente in
modo attivo o passivo, con il rischio di
non saperla gestire o addirittura di lasciarsi travolgere.
Comprendo che è difficile per un genitore toccare con i propri figli adolescenti
argomenti poco piacevoli, imbarazzanti o complicati, magari del quale si ha
carteBollate
5

Lavoro
TAGLI –
La rottamazione della legge Smuraglia
Disoccupazione nelle carceri
sicurezza sociale a rischio
U
continua da pagina 5

na lettera del ministero annun- vede sgravi contributivi per le cooperacia il taglio dei fondi alla legge tive e le imprese che assumono persone
Smuraglia, che prevede sgravi detenute a cui va ad aggiungersi l’agefiscali e contributivi concessi volazione fiscale nella misura dell’80%.
alle imprese che assumono lavoratori Nel solo 2010, a esempio, hanno trovato
detenuti o che svolgono attività forma- un regolare contratto di lavoro presso
tive nei confronti dei detenuti all’interno cooperative sociali 518 persone recludel carcere. Una doccia fredda che ha se, mentre 348 hanno lavorato presso
spinto Lorenzo Porzano, rappresentante aziende private. Dal 1° luglio, in modo
delle ditte che lavorano in carcere, a in- improvviso e unilaterale, tutto questo
traprendere uno sciopero della fame fin- non può più accadere, poiché è stato deché non avrà risposte
ciso di non concedere più tali
Paghi chi
da Roma. Quello di
agevolazioni. Questo significa
Porzano vuole essere
che migliaia di persone deteha portato
un segnale forte, che
nute rimarranno senza lavoil Paese e
si inserisce sulla scia
ro e che le cooperative sociali
l’Europa
dello sciopero della
che si sono fino a ora occupanel baratro
fame intrapreso a lite del loro reinserimento sovello nazionale per il
ciale andranno in crisi. Una
sovraffollamento delle carceri.
decisione, ci sembra, totalmente in linea
Lo scorso 16 giugno il Dipartimen- e perfettamente coerente con il quadro
to dell’amministrazione penitenziaria di tagli che il governo sta attuando per
(Dap) ha inviato una nota alle coopera- rispettare il Patto di stabilità dell’Unione
tive sociali che impiegano detenuti ed Europea. Il laboratorio politico Alternaex detenuti (Direttive per l’applicazione tiva crede che questa scelta, come le aldella Legge n° 193/2000) comunicando tre che seguiranno, porterà sempre più
che i fondi della legge Smuraglia sareb- il peso di questa crisi sui lavoratori e sul
bero terminati. La legge Smuraglia pre- ceto medio. «Occorre dire con chiarez-
za che noi non vogliamo pagare questo
prezzo sociale perché non siamo noi, ilavoratori, ad avere provocato il disastro»,
dichiara Marino Badiale, segretario di
Alternativa «Paghino i grandi banchieri
e le classi politiche e dirigenti che hanno portato il Paese e l’Europa nel baratro. Non paghiamo perché, in ogni caso,
pagare non serve per andare in un’altra
direzione, cioè dove siano difesi gli interessi delle grandi masse popolari».
Per queste ragioni Alternativa aderisce
all’appello dell’Associazione Antigone
perché questa decisione, dannosa e pericolosa, sia rivista immediatamente:
«Basterebbe – sottolinea nell’appello
Patrizio Gonnella, Presidente nazionale
di Antigone – assegnare alle cooperative i soldi stanziati per la costruzione di
metà di un nuovo padiglione penitenziale per garantire lavoro ai detenuti e più
sicurezza, o reinvestire i circa 5 milioni
di euro della Cassa delle ammende, destinati un anno fa alla realizzazione di
un’agenzia per il reinserimento lavorativo dei detenuti gestita dalla Fondazione
per il rinnovamento dello spirito».
Habib H’mam
tutto quello che si perde tralasciando la
salute, gli affetti, gli studi, gli hobby e
professioni, entrando in uno stile senza
regole. È questo insieme di circostanze che può trasformare il bullismo in
un’anticamera del crimine vero e proprio, il salto di livello è breve.
Credo che i figli vadano aiutati a comprendere e gestire meglio la vita e la
società che li circonda, e questo può
avvenire solamente con maggior intelligenza da parte dei genitori. Credo che
un genitore debba investire più tempo
sui propri figli, costi pure un calo delle
ore lavorative e del bilancio economico
familiare.
Gli adolescenti a caccia di esperienze
devono sapere che quello che all’inizio
può sembrare una sensazione unica, nel
tempo muterà e farà emergere la sua
vera natura nociva, a volte in modo irreversibile. Bisognerebbe spiegare ai figli
che tutte quelle sensazioni adrenaliniche e i divertimenti appaganti, quella
forte volontà di liberarsi dal deprimente
senso di frustrazione dovuto alla voglia
di emergere, del sentirsi partecipe e
del realizzarsi, si possono raggiungere
senza sorpassare i limiti, senza commettere atti sconsiderati e dannosi. Bisogna ricercare, valutare e attuare con
loro delle alternative all’apatia mentale,
alla droga, al bullismo, al disagio, alle
frustrazioni e prendere con loro quelle
giuste e adeguate posizioni, senza che,
se incapaci, impossibilitati o non all’altezza della situazione si abbia paura di
chiedere aiuto alle istituzioni competenti, quali pedagoghi, psicologi, assistenti sociali o insegnanti.
Un genitore non può declinare le responsabilità rispetto agli errori dei figli adolescenti, deve necessariamente
chiedersi dive ha sbagliato suo figlio e
dove ha sbagliato lui. Ovviamente altro
è monetizzare una cattiva educazione.
È mai possibile che il buon senso per
essere o non essere tale molte volte
debba divenire sentenza o legge?
Carmelo Impusino
una visione e un’informazione superficiale, inadeguata se non addirittura
nulla. Si commette l’errore di pensare
che la devianza minorile sia una scelta
volontaria, non tenendo conto che un
adolescente cresce con delle visioni e
informazioni spesso elaborate con eccesso di presunzione, magari influenzato dal leader di turno che sostiene e
spinge l’amico a non esser da meno nel
trasgredire.
Non si può poi non tener conto dell’influenza che droga e alcol hanno sui
comportamenti dei giovani. Sotto gli
effetti dello sballo, un adulto perde il
controllo, figuratevi un adolescente.
Quello che l’intelletto non gli dice se
non in modo superficiale, confuso, quasi non fosse una realtà, è l’inevitabilità
delle conseguenze lente o fulminee che
in quel contesto si possono produrre. E
quando parlo di conseguenze intendo
psicologiche e fisiche, oltre che materiali ed economiche, penso alle convinzioni sbagliate che si fortificano, a
6
carteBollate
IMPRESA-CARCERE – Così si lavora nelle aziende di Bollate
Il cuoco, il giardiniere,
la sarta e il centralinista
Il lavoro
nobilita
l’uomo
ma solo
il 20%
dei detenuti
ne può
usufruire
all’esterno, visto che il lavoro dovrebbe
essere alla base di un recupero del condannato. E vediamo quali sono queste
imprese.
SST srl: azienda ramificata in diversi
settori, occupa circa sessanta reclusi a
rotazione, con turni dalle otto di mat-
foto di Remi N’diaye
U
n antico detto dice: “Il lavoro nobilita l’uomo”, ma questa
opportunità, nelle 206 carceri italiane, è offerta solo al 20
per cento dei 70mila detenuti, generalmente in modo discontinuo e prevalentemente per attività non professionalizzanti. Il lavoro per la pubblica
amministrazione è infatti quello che
occupa la maggior parte dei detenuti:
stando ai dati del ministero della Giustizia sono infatti 12mila le persone
recluse addette alle pulizie, alla cucina, alla contabilità, alla manutenzione
dei fabbricati o alla distribuzione della
spesa di vettovagliamento. Altri 2000
lavorano presso aziende che operano
all’interno delle carceri e circa 500 sono
ammessi al lavoro esterno. Di questi, 75
sono a Bollate.
Nella II° Casa di Reclusione di Milano (Bollate) ci sono anche parecchie
opportunità di lavoro presso aziende
e cooperative che consentono di imparare un mestiere spendibile anche
tino alle ventidue. Tre civili occupano
i turni con il call center, che lavora per
H3G, Ikea, Fastweb, aziende che usufruiscono di tale servizio con i propri
abbonati e clienti. C’è poi il laboratorio
di riparazione della telefonia per Samsung e Alcatel e di premontaggi delle
caldaie Bitron, che occupano circa quaranta reclusi di cui due donne, nove civili, due responsabili.
Cooperativa Estia: responsabile Capato Michelina, si occupa del teatro
all’interno dell’istituto con spettacoli ed
eventi all’esterno e conduce anche un
laboratorio di falegnameria che principalmente fa mobili e suppellettili destinati al mercato interno ed esterno.
Out Sider: responsabile Vito Messana, call center per Telecom 1254; altre
digitalizzazioni, data entry, le multe
del Comune di Milano, occupa venti
reclusi.
Promotop: fabbrica degli appuntamenti, ovvero call center che fissa appuntamenti per agenti di vendita o direttori commerciali. Occupa circa dieci
detenuti; inoltre c’è in prova un servizio
con la Cattolica Assicurazione.
Cooperativa Alice: responsabile Luisa Della Morte, si occupa di sartoria ed è
approdata in questa Casa di Reclusione
dal Carcere di San Vittore nel momento stesso in cui è stato aperto il reparto
femminile, anche loro fanno arredamento sartoriale e sartoria per alcune
aziende leader del settore; nel passato
ha lavorato per Alvaro Martini, Miuccia
carteBollate
7

Lavoro
L’INTERVISTA – La bella storia di
Santo Tucci, il ladro dell’arcobaleno
S
anto Tucci ha 54 anni e 38 li ha
passati in carcere. Un incontro
fortunato ha cambiato il corso
della sua vita e la qualità della sua detenzione: quello con Patrizia
Brancaleone, maestra d’arte del vetro,
e con Alessandra Genola, operatrice
volontaria nel carcere di Voghera. Racconta che restò affascinato dallo splendore di una bellissima spilla di vetro
che Patrizia portava… Fu l’inizio, l’occasione insperata di un lungo percorso
che lo farà diventare maestro dell’arte
vetraria. Oggi all’interno del carcere
insegna e ha creato una cooperativa,
coinvolgendo altri detenuti.
continua da pagina 7

Santo, cosa ti ha permesso di dare
una svolta alla tua vita in carcere?
La cosa più importante è stata il lavoro
e il recupero di me stesso, l’autostima
e l’incontro con gli altri, quindi, diciamo, un percorso interiore. E poi l’intesa
positiva con l’istituzione penitenziaria,
con la magistratura di Sorveglianza e
con i tanti volontari che operano tra le
mura del carcere.
Parlaci dell’importanza del lavoro….
In carcere il tempo della pena e dell’attesa è un tempo sospeso e spesso rischia di diventare un’altra condanna
per chi è qui dentro. Pensare a un
progetto che dia senso alla pena è importante. Lavorare e confrontarsi con
gli altri è, oltre che un’esigenza storicizzata del cammino sociale dell’uomo,
un profondo bisogno di conferma personale, soprattutto oggi, che molti dei
valori tradizionali stanno perdendosi,
lasciandoci smarriti e senza punti di
riferimento. Tutti sappiamo quanto sia
necessario, in un luogo di pena, lavorare per costruire un ponte con il territorio per accorciare le distanze con la società. Ed è proprio in questo impegno
e in questa volontà comune di portare
avanti degli obiettivi e delle idee che
si sono sviluppati che si è confermato
nel tempo il mio lavoro con gli altri.
Questo mi ha permesso di integrarmi
senza difficoltà nel territorio trovando
disponibilità e collaborazione. Decisiva è stata la disponibilità della Provincia di Milano, che mi ha assegnato
Prada e ha creato i vestiti di scena per
le veline di Striscia la notizia.
Cascina Bollate: responsabile Susanna Magistretti, serre per piante e fiori,
vivai con piante che difficilmente si trovano nei vivai più commerciali. Si occupa di allestimento di giardini e terrazzi,
prevalentemente per clienti privati. La
cooperativa esiste da quattro anni, ha sei
lavoranti reclusi e parecchi esterni che
ruotano attorno come volontari o come
collaboratori. Da quest’anno ha creato
un orto all’interno di un reparto producendo ortaggi vari con l’occupazione di
sei/otto detenuti, vendendo tali prodotti
ai gruppi di acquisto solidale (GAS) e
anche a chi vive o lavora nel carcere.
ABC, catering, la sapienza in tavola: responsabile: Silvia Polleri, con
esperienza nel sociale in Africa e alla
clinica Humanitaria. La cooperativa
è nata per volontà non solo dalla titolare ma anche dall’ex direttrice Lucia
Castellano e di un volontario, Franco
Cecconi, che finanziò di tasca propria
l’acquisto di tovaglie, piatti, bicchieri,
posate e prodotti alimentari per cucinare e preparare i primi servizi; nell’arco di breve tempo si è fatta conoscere
lavorando con clienti prestigiosi e dal
2006 si occupa anche delle cucine interne, facendo i pasti per tre reparti su
otto. Il lavoro dei suoi soci è regolamentato dall’articolo 21, beneficio dell’ordinamento penitenziario che aiuta i
reclusi per il loro reinserimento e che
consente l’uscita lavorativa all’esterno.
Abc ha vinto la gara di appalto per gli
anni 2005/8 con il Tribunale di Milano
per l’allestimento delle colazioni di lavoro, incontri e formazioni magistrati.
Annovera tra i suoi clienti quasi tutte
le università milanesi, il NABA (nuova
accademia di belle arti), l’ Archivio di
Stato, la Sovrintendenza Beni Artistici e Culturali, Accademy of European
Law, il Centro Culturale San Fedele, il
Rotary Club, i sindacati, l’Ordine degli
avvocati, enti locali quali Comune di
Milano, Lodi, Bollate, Baranzate, Crema, la Provincia di Milano, la Regione
Lombardia e diversi istituti bancari, il
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carteBollate
foto di Remi N’diaye
L’attività grazie alla quale
ho cambiato la mia vita
Museo Diocesano con cui è stato stipulato un contratto 2010/2012, l’Accademia Italiana della Cucina, IKEA, EXPO
2015, oltre ai molti eventi privati.
Arte e cuoio: lavorazione di pellame
per la confezione di borse, cinture, sandali, souvenir e oggetti artigianali in pelle fatti esclusivamente a mano. I clienti
sono i reclusi stessi e ci lavorano due titolari detenuti con alcuni volontari.
Cooperativa Salto oltre il muro:
responsabile Claudio Villa, si occupa di
cavalli. Ha creato nell’arco di pochi anni
un vero e proprio maneggio con tanto di
stalle e paddock, ci sono dieci cavalli, si
fanno corsi di artiere ai quali partecipano a rotazione una decina di detenuti.
Non si tratta di un’attività retribuita ma
di formazione professionale.
Il passo: lavorazione del vetro, lampade, oggettistica e tutto quello che può
essere fatto con il vetro. A questa attività dedichiamo un articolo nella pagina
accanto, con l’intervista al suo ideatore,
Santo Tucci.
Antonio Lasalandra
uno spazio che mi consente di portare
fuori dal carcere la mia professione. Ho
potuto costituire assieme a dei volontari anche una cooperativa sociale e ho
trasformato il locale in un laboratorio
artistico, dove esercito la mia attività
lavorativa in regime di Art.21 da ormai
tre anni.
Quindi la tua esperienza lavorativa
è stata determinante per il tuo riscatto?
L’esperienza lavorativa all’interno del
carcere è un mezzo importante per crescere e maturare nella consapevolezza
di nuove assunzioni di responsabilità.
E’ ciò che mi permette di intravvedere, attraverso un progetto in movimento, traguardi che stimolano la voglia di
diventarne protagonista attivo del mio
stesso percorso educativo. Il mio è stato sicuramente un lavoro paziente, un
tassello alla volta, che mi ha aiutato
a crescere e mi ha fatto capire come
importante sia il dolore, quello che si
porta dentro da tanto tempo, al quale
non so assegnare un nome giusto, voglio dire che è stata importante l’esperienza del dolore. Le scelte di cambiamento non sono mai facili, soprattutto
in un luogo di pena. L’elemento fondamentale di questo nuovo stile di vita
per me è stato ri-sperimentare e prendere coscienza della propria relazionalità, in altre parole del proprio modo di
esserci, acquistando consapevolezza
dei contenuti rimossi e repressi, al fine
di staccarmi e abbandonare le parti
sofferenti e bloccate e intraprendere
un cammino personale di crescita e
di maturità. Questo ha cambiato profondamente la mia vita dentro e fuori
dal carcere. Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti forse è addirittura
irrappresentabile se non si tocca con
mano. Mi piace quindi significare, con
il mio lavoro, un tragitto diverso, un
cammino, sì, difficile, ma più vicino
alle attese reali. Un progetto che possa
consentire un effettivo reinserimento
sociale.
Quali sono adesso i tuoi progetti?
Resta uno dei miei primi obiettivi l’avvio di una scuola della lavorazione artistica del vetro.
L’idea di creare una cooperativa
dentro il carcere come è nata?
Occorreva dare un corpo giuridico alla
mia attività per poter commercializzare i prodotti e creare lavoro anche per
altri compagni di pena. E’ stata una
scelta coraggiosa, ma sono certo che
anche altri possono farcela, bisogna
che qualcuno incominci a fare il primo passo… basta volerlo. Occorre fare
delle scelte ed essere consapevoli di
cosa veramente si vuole fare della propria vita. Certo, in carcere a causa della scarsità di finanziamenti, di operatori specializzati, di richiesta e offerta
di lavoro, c’è il rischio che ogni sforzo
resti lettera morta e poco importano
i pochi casi ben riusciti a fronte dei
tanti fallimenti. Un detenuto costa alla
società tantissimo, eppure il degrado
e l’inefficacia trattamentale rendono
il più delle volte questa spesa terribil-
mente superflua. Si dovrebbe incominciare a lavorare di più per cambiare la
cultura del lavoro dentro il carcere per
poi pensare a costituire aziende che
occupano più persone.
Da quanti anni svolgi questo lavoro ?
Sono passati vent’anni da quando ho
iniziato, non ho mai smesso perché ormai tutto questo fa parte della mia vita.
Il vetro con il suo splendore mi ha catturato sin da subito. Per me è come una
magia. Adoro il mio lavoro.
Quali sono le tue opere alle quali più
ti senti legato?
Sono tantissime le creazioni che in
tanti anni ho realizzato: tanto per citarne qualcuna, le vetrate della cappella del carcere di Opera, le vetrate
della chiesa di San Rocco a Voghera
e quelle della chiesa di Sant’Arialdo.
Poi c’è Amina una statua in vetro a dimensione umana che è una lampada:
l’opera è stata ispirata dalla storia di
Amina Lawer, la donna nigeriana accusata di adulterio, condannata alla
lapidazione e poi assolta, anche a seguito della mobilitazione dell’opinione
pubblica internazionale, che continua
a simboleggiare le condizioni di maltrattamento e discriminazione cui
sono ancora soggette milioni di donne
in tutto il mondo. Questa opera l’ho donata al Comune di Roma che si era fatto promotore dell’iniziativa contro la
pena di morte (all’epoca il Sindaco era
Walter Veltroni). Attualmente si trova
esposta in Campidoglio.
A.L.
carteBollate
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Lavoro
CORPORAZIONI – Quali ricadute sull’occupazione?
Il libero accesso alle professioni
che piace a Tremonti
M
olti iscritti agli ordini professionali temono di perdere le loro poltrone, l’ansia e
la paura sono determinate
dalle dichiarazioni rilasciate dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti,
il quale ha fatto capire che non si può
frenare il libero accesso alle professioni, come viene imposto dagli organismi
corporativi di categoria, che così facendo difendono i fatturati dei loro iscritti.
Il rafforzamento delle politiche economiche e di bilancio dei 27 Stati membri
nel nuovo “semestre europeo” ha fatto sì che l’Ue invitasse Roma con una
specifica raccomandazione su questo
punto, liberalizzando l’accesso alle professioni e alle attività di servizio, così
l’orientamento del nostro governo è in
qualche modo stimolato.
Le barriere regolatorie vengono considerate da Bruxelles molto negative,
sia per lo sviluppo che per l’occupazione, ostacolando di fatto l’ingresso nel
mercato del lavoro; il nostro Paese ora
non ha più la possibilità di mantenere
certi privilegi, fiscali e previdenziali,
precedentemente concessi dai partiti
ad alcune categorie, benefici che hanno
contribuito all’incremento del deficit e
del debito pubblico.
La speculazione, sotto l’occhio attento
di Bruxelles, ha iniziato ad attaccare i
titoli di Stato italiani, considerando che
la maggior quantità è in possesso delle
principali banche nazionali, il risanamento dei conti pubblici deve necessariamente essere condotto anche attraverso
liberalizzazioni in grado di rilanciare sia
l’occupazione che la crescita.
L’alternativa è forse finire come la Grecia? Auguriamoci di no!
L’emergenza disoccupazione è visibile in
ogni settore, l’Italia secondo dati Eurostat ha un’occupazione pari al 61% nella
fascia tra i 20 ed i 64 anni, siamo quindi
collocati sul fondo della classifica UE,
solo Malta e Ungheria stanno peggio.
Stando ai dati Istat del giugno 2011 c’è
un accenno di ripresa: il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è
calato al 27,8%, segnando un ribasso di
0,4 punti percentuali rispetto a maggio
2011. Il numero complessivo dei disoccupati è sceso a 2 milioni, registrando
un calo rispetto al mese precedente
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carteBollate
Molti
giovani
stanno
scappando
verso
altri
paesi
dello 0,3% (-7 mila unità), con un calo
della componente maschile e un aumento di quella femminile. Su base annua il numero di disoccupati diminuisce del 3,9% (-81 mila unità). Il numero
di donne disoccupate, invece, aumenta
dell’1,7% (+16 mila unità) rispetto al
mese precedente e diminuisce dell’1%
su base annua.
Paesi come Olanda, Danimarca e Svezia
hanno liberalizzato l’accesso alle professioni e al mondo del lavoro così da
ritrovarsi ai primi posti, mentre nel nostro Belpaese la fascia dei giovani nella realtà occupazionale è palesemente
drammatica, per non parlare delle donne o della fascia tra i 54 e 64 anni. La
liberalizzazione delle professioni avrebbe una ricaduta sull’occupazione?
Molti ordini professionali sono palesemente inutili e corporativi: l’Ordine dei
Giornalisti ha un ruolo importante per
il controllo della deontologia dei propri
iscritti, ma tra i suoi iscritti ha parecchie
persone che non esercitano la professione, come politici di mestiere, portaborse, addetti vari in retribuzione a società
quali banche enti pubblici o privati.
Il suo scioglimento, di cui ciclicamente
si parla, certamente non allargherebbe
l’accesso alla professione, già oggi gli organi di informazione si avvalgono di collaboratori sottopagati e il fatto che siano
giornalisti professionisti o giovani alle
prime armi non cambia le retribuzioni e
le possibilità di contrattualizzazione.
Ormai da qualche anno anche il mondo
dell’avvocatura vive una crisi strutturale, tanto che il fatturato da dati ufficiali
è in calo, riconoscendo che ci sono cir-
ca 60.000 avvocati che non si iscrivono
alla cassa forense perché dichiarano un
fatturato annuo inferiore a 9.700 euro,
750 euro mensili contro una soglia di
povertà di 1.000 euro mensili.
Il mercato è fatto di domanda e offerta
e in questo momento l’offerta di lavoro
è in molti casi sovrabbondante rispetto
alla domanda, anche a causa delle politiche occupazionali restrittive, discriminatorie e ingessate che caratterizzano il nostro ordinamento.
Illudersi di poter creare dei posti di lavoro ben retribuiti e senza conseguenze
per la produttività grazie a grida manzoniane è tipico dei politici, immersi nella
loro presunzione fatale di poter dirigere
l’economia e nella concreta ambizione di
accaparrarsi qualche voto in più.
Il libero accesso alle professioni forse
darebbe spazio all’imprenditorialità
professionale dei singoli, in modo particolare dei neolaureati, costretti a stage
mal retribuiti o peggio ancora gratuiti
senza che si prospetti loro un avvenire
professionale certo.Se l’Europa tende a
proseguire su questa strada, non possiamo certo essere noi i soliti ad andare controcorrente. Molti giovani (e non
solo) stanno scappando verso altri Paesi,
anche la vicina Spagna, segnata da una
profonda crisi economica non disdegna
di accoglierli. Riflettiamo, per troppo
tempo siamo rimasti chiusi in noi stessi
difendendo corporazioni ormai obsolete
che continuano, incuranti, a bloccare lo
sviluppo economico di un Paese che si
deve scuotere e che deve con forza uscire da questa pesante crisi.
Francesco Rossi
Esteri
LIBIA – La denuncia di Amnesty International
Migliaia di profughi in fuga:
Europa dove sei?
A
ll’alba del 25 ottobre la sabbia
del deserto libico ha ricoperto
il corpo di Muammar Gheddafi, cinque giorni dopo la sua
morte. La Libia adesso dovrebbe essere
un paese libero, ma la sua storia senza Gheddafi è ancora tutta da scrivere.
Deve fare i conti con il proprio passato e
con gli strascichi di una violenta guerra
civile e la sepoltura del colonnello non
è neppure l’iniziuo di un lungo processo
di riappacificazione. Se la comunità internazionale chiede a gran voce rispetto dei diritti umani e accertamento di
quanto è davvero accaduto nelle ultime
ore di vita del dittatore, i libici percepiscono il clamore che viene dall´estero
come un´ingerenza e mostrano ben
poca riprovazione verso chi ha infierito sul tiranno. Parte dell´accanimento
viene anche dalla voglia di esorcizzare
il timore che l´era di Gheddafi non sia
finita e che ciò che resta della famiglia
possa riorganizzare i gruppi di sbandati. Nei campi prefabbricati alla periferia di Tripoli da settimane vivono i
35mila abitanti di Tawargha, fedeli al
rais fino all’ultimo istante. Sono stati rinchiusi qui col divieto di tornare
alle loro case. Fra loro molte donne e
bambini.”All’inizio ci hanno dato una lista di persone – racconta questa donna
– se le avessimo consegnate ci avrebbero liberato. Noi abbiamo visto la nostra
città distrutta, le nostre case distrutte.
Stiamo soffrendo, vogliamo che i ribelli
rispettino i diritti umani”. Un rapporto
di Human rights watch denuncia abusi
in questo campo.”Ti picchiano finché
non confessi reati che non hai commesso” dice quest’uomo che sostiene di essere stato torturato con le scosse elettriche.Tawargha era la base della gran
parte dell’esercito di Gheddafi, comprese le famigerate brigate del figlio Khamis. Per gli uomini del Cnt fra questi
fedelissimi ci sono persone accusate di
aver commesso gravi crimini durante
l’assedio di Misurata, massacri, saccheggi, stupri. Il futuro di queste persone è ancora tutto da chiarire.
Di Gheddafi resta il suo ultimo messaggio, una registrazione audio trasmessa
dalla televisione siriana ’Arraì (che in
arabo significa : il parere), per bollare
come una «farsa» quanto sta accaden-
do nel Paese nord-africano. «Quello che
sta succedendo in Libia è una farsa che
può avere luogo soltanto grazie alle incursioni aeree della Nato, le cui bombe
però non dureranno all’infinito», aveva
ammonito Gheddafi. «Non rallegratevi», è il monito rivolto alle potenze occidentali, «e non pensate che un regime
possa essere rovesciato, e un altro imposto con l’ausilio degli attacchi aerei e
navali. Il sistema politico libico è un sistema fondato sul potere del popolo ed
è impossibile che sia rimosso».
Il messaggio dell’ex leader della Jamahiriyah (Repubblica) era arrivato mente le milizie del Consiglio Nazionale
Transitorio sferravano l’ultimo attacco,
espugnando la località costiera di asSultan, situata appena una trentina di
chilometri verso Sirte, la città natale di
Gheddafi, verso cui avevano costretto a
ripiegare le residue forze fedeli al vecchio regime. Nel deserto della Cirenaica
sud-orientale gli insorti avevano inoltre
catturato il generale lealista Belqassem
al-Abaaj, già capo dei servizi d’intelligence di Gheddafi per la regione di Cufra.
L’alto ufficiale era stato bloccato insieme
alla sua famiglia a un centinaio di chilometri dall’oasi di Sabha, 600 chilometri
a sud-est di Tripoli. Stavano tentando
di fuggire a bordo di cinque fuoristrada.
Abaaj, ricercato da tempo dal Cnt, era il
comandante delle forze mercenarie nella Libia meridionale: è accusato di ripe-
tute atrocità contro i civili.
Dagli Usa, dove si sono svolti i lavori
dell’annuale sessione ordinaria dell’Assemblea Generale dell’Onu, l’auspicio
del presidente americano, Barack Obama, è che la transizione porti a elezioni
libere in Libia. “Oggi, i libici scrivono un
nuovo capitolo nella vita della loro nazione. Dopo quattro decenni di tenebre
– sono le sue parole – possono camminare per le strade, liberi” ma libertà e
democrazia sono traguardi tutti da costruire in un Paese in cui i diritti umani
continuano ad essere calpestati e anche
l’Europa deve fare la sua parte.
Amnesty International ha criticato duramente l’Unione Europea, responsabile di non aver affrontato l’emergenza dei
rifugiati ai confini libici. «Abbiamo assistito a una pessima risposta alla piaga
dei rifugiati alle porte dell’Europa»,
ha denunciato. «Ciò è particolarmente
eclatante in considerazione del fatto
che alcuni Paesi europei, partecipando
alla missione Nato in Libia, sono stati
parte del conflitto che rappresenta una
delle cause principali dello spostamento non volontario delle persone». Nel
marzo scorso Amnesty, dalle colonne
del Corriere della sera denunciava: “in
fila anche per ore per avere un pezzo
di pane al confine di Ras Ajedir tra la
Libia e la Tunisia”. Da allora non molto
è cambiato per i rifugiati in fuga dalla
guerra civile. Migliaia di persone sono
carteBollate
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
Esteri
continua da pagina 11
stato di totale abbandono. Amnesty
 inaccusa
l’Europa di aver voltato le spalle ai profughi africani e di non essersi
attivata per il reinsediamento a circa
5.000 rifugiati che versano in condizioni drammatiche, lungo il confine libicoegiziano e libico-tunisino e che andrebbero incontro alla persecuzione o alla
guerra se rinviati nei Paesi di origine».
«Pur essendo la protezione dei civili
la ragion d’essere dichiarata dell’intervento della Nato in Libia – si legge in
una nota dell’organizzazione internazionale – gli tati dell’Unione europea
e la Nato non hanno adottato tutte le
misure necessarie per garantire ai civili
in fuga dalla Libia di mettersi in salvo.
Da quando è iniziata la guerra in Libia,
– prosegue Amnesty - molte persone
hanno dovuto affrontare viaggi pericolosi, a volte fatali, attraversando il mar
Mediterraneo verso le coste europee.
Pur avendo ricevuto in questi mesi soltanto il 2 per cento dei richiedenti asilo,
rifugiati e migranti fuggiti dalla Libia,
gli stati dell’Unione europea non hanno
esitato a parlare di un afflusso di massa, causato dall’instabilità nell’Africa
del Nord e hanno continuato a perseguire politiche di controllo delle frontiere a
spese dei diritti umani”.
«C’è un abisso tra la sofferenza dei rifugiati alle porte dell`Europa e la risposta
data dall`Unione europea» ha dichiarato
Nicolas Beger, direttore dell’ufficio di
Amnesty International presso le istituzioni europee. «Un fallimento evidente,
considerato il fatto che alcuni Paesi europei, partecipando alle operazioni della
Nato in Libia, hanno preso parte a quel
conflitto che è stato uno dei principali
motivi dello spostamento non volontario
di quelle persone. I ministri degli Interni
dell’Unione europea devono affrontare
urgentemente la questione».
Australia, Canada e Usa hanno espresso disponibilità a reinsediare alcuni dei
rifugiati. Per quanto riguarda l`Unione
europea, la disponibilità è stata offerta
solo da otto Paesi e riguarda meno di
700 persone» spiega l’organizzazione.
Amnesty International chiede alla comunità internazionale, e in particolare
agli Stati dell`Unione Europea, di condividere le responsabilità della crisi in
corso per reinsediare i rifugiati in fuga
dalla Libia. I paesi disponibili ai reinsediamenti dovrebbero lasciare da parte
le quote annuali per affrontare questa
situazione.
La sezione italiana di Amnesty International, ha preso parte alla marcia per la
pace Perugia-Assisi, sfilando dietro allo
striscione “1500 morti nel Mediterraneo.
Europa dove sei?” per ricordare le persone decedute nel mar Mediterraneo, in
fuga dalla Libia.
Ma la questione non riguarda solo i libici.
Un migliaio di persone – fa sapere Amnesty – tra cui cittadini eritrei, etiopi,
iracheni, ivoriani, palestinesi, somali e
sudanesi, si trova abbandonato al posto
di frontiera egiziano di Saloum. La maggior parte dorme sotto ripari di fortuna
fatti di plastica e coperte; i bambini e
le donne sotto due tendoni. Nel campo
di Choucha, nel deserto della Tunisia,
si trovano circa 3800 rifugiati e richiedenti asilo. Anche questo è un problema
di democrazia, di libertà, di rispetto dei
diritti umani e qui l’Europa non ha titoli
per dare lezioni, ma è direttamente responsabile.
Habib H’mam
PASQUA MUSULMANA – Celebrata come ogni anno la festa del sacrificio
Anche in carcere è Id al-adha
A
nche in carcere la
comunità musulmana ha da poco
celebrato Id aladha, la la festa del sacrificio,
che è una delle più importanti celebrazioni religiose. La
Pasqua musulmana consiste
nel sacrificio di un agnello
come ricorda anche l’episodio del profeta Abramo, che
invece di sacrificare il figlio,
venne graziato da Dio che gli
offrì in sacrificio l’agnello.
La Pasqua, oltre ad essere il
ricordo di questo episodio, è
molto di più, ad esempio il ricongiungimento dei parenti
vicini e lontani, oppure la riappacificazione di due famiglie in litigio, questo
perché è una grande festa religiosa musulmana.
Il popolo musulmano si riunisce in
questa festa come nel Ramadan, quelli
che non hanno niente vengono aiutati
dagli altri fratelli e ai bambini vengono
acquistati nuovi vestiti per un giorno
così importante e sacro. Al sacrificio
dell’agnello segue la preghiera sacra e
in Marocco l’usanza è quella di aspet12
carteBollate
tare il Re, che lo compie per primo.
La Pasqua musulmana ricorre due mesi
e dieci giorni dopo la fine del Ramadan,
come stabilito dal calendario Arabo che
è differente da quello Occidentale.
Dopo il rituale del sacrificio tutti assieme
si festeggia mangiando il tipico piatto
che sono gli spiedini alla griglia, mentre
il resto dell’agnello, che nel frattempo è
rimasto appeso e coperto da un lenzuolo
bianco, sarà tagliato il giorno seguente.
Dopo aver mangiato ci si reca a trovare
i propri parenti e amici, per
augurare una buona Pasqua,
scambiandosi parti di agnello
come da tradizione, mentre
ai bambini vengono donati soldi per dar loro modo di
fare un’ulteriore festa con i
propri coetanei; così avviene
da generazioni fino ai giorni
nostri.
Questo è il senso dello spirito
della Id al-adha musulmana,
festa piena di valori affettivi, che non morirà mai e che
viene vissuta anche dagli
stranieri in Italia, ma senza il
calore che si trova nell’essere vicino ai propri familiari e
amici. Per i carcerati la festa del Sacrificio è una occasione per unirsi attorno ad una tradizione, ma non sempre
per loro è possibile organizzare questo
evento come avviene invece qui a Bollate dove noi abbiamo sempre avuto una
grande collaborazione da parte della
direzione, della polizia penitenziaria
e da tutti gli operatori e volontari, che
con il loro sostegno ci permettono di festeggiare.
Noureddin Hachimi
GRANDI CHEF – Ricette raffinate da cucinare anche in famiglia
Dolce come il cioccolato
con un pizzico di sale
N
on è semplice scrivere di cucina senza farsi prendere da
un insieme di gusti, sapori, ricordi e tutto quanto ti riporta
inevitabilmente a ciò che vorresti fare,
inventare o sperimentare.
Questa volta partiamo dalla Spagna,
da lui, dallo chef per eccellenza, dallo
chef per grazia divina, da Ferran Adrià,
cinquantenne supertifoso di Messi e
compagnia, appassionato di flamenco e
scatenato fan di Quentin Tarantino, già,
di lui si è raccontato molto a volte esagerando, maestro, genio, il Leonardo da
Vinci della gastronomia. A 18 anni andò
a lavare i piatti e pelare patate a Ibiza,
giusto per pagarsi le vacanze e come lui
stesso dice “se non l’avessi fatto oggi non
sarei diventato quello che sono”.
Insomma una superstar internazionale
celebrata ma anche criticata: pensate,
un grande chef che è innamorato del nostro vitello tonnato, pochi lo sanno!
Persino l’università di Harvard lo ha invitato a tenere corsi come “lecturer”, conferenziere ospite, il colosso delle telecomunicazioni Telefonica l’ha ingaggiato
come testimonial, infine a Hollywood
pensano a un film sulla sua vita.
Oggi, dopo aver chiuso il suo mitico “El
Bulli” a un tiro dalla Costa Brava, locale dove per pranzare e cenare c’era una
lunga attesa, ha deciso di dedicarsi alla
cucina meno sofisticata, più pratica,
quella dei comuni mortali, quindi piatti più semplici, in fondo la buona cucina
si fa anche in casa, risparmiando, scegliendo ingredienti semplici e di qualità
nel negozio o nel mercatino di fiducia e
dedicando estro e invenzione negli abbinamenti degli ingredienti.
Un esempio banale, preparate il pane con
cioccolato e olio d’oliva, uno dei dolci più
diffusi in Catalogna, facile: grattugiate
grossolanamente il cioccolato fondente,
mettete il pane casereccio a fette nel forno e preriscaldato a 160 gradi, una volta tostato ricoprite il pane abbrustolito
con i piccoli pezzi di cioccolato, versate
qualche goccia di olio extravergine “per
esempio un Alois Lageder olio d’eccellenza fruttato”, alcune scaglie di sale
marino ed ecco che il dessert di Barcellona è pronto per essere gustato.
Adrià quindi ha deciso di prendere i
E NOI INVECE...
Menù del Ristorante 1 stella via C.Belgioioso, 120 - Bollate Milano
ANTIPASTO:
mozzarella e prosciutto crudo ( mozzarella della casa, prosciutto crudo Olio
extra vergine. origano) Zeppoline fritte (farina, lievito di birra, sale. olio di semi)
Bruschette (pane della casa, pomodorini, olio, aglio, prezzemolo)
PRIMO PIATTO:
Pasta fresca (uova, farina) Tagliatelle alla crema di noci e radicchio. ( radicchio, gheriglio di noci, olio extra vergine, aglio, prezzemolo e pepe)
SECONDO PIATTO:
Arrosto della nonna (arrosto arrotolato, brodo di dado, burro, olio, aromi)
CONTORNO:
Insalatina mista Patate al forno
FRUTTA :
Macedonia della casa con frutta di stagione e yogurt (frutta, yogurt,cannella).
DOLCE:
Profiterol (Bignè, crema al cioccolato con cacao)
CAFFE ‘
Totale costo pranzo Euro 4,50 a persona

N:B Gli ingredienti che non passa la casanza si possono trovare tranquillamente
nel mod. spesa n. 72 Buon appetito !
carteBollate
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DIPENDENZE – Un gioco che diventa ragione di vita
Ammalarsi per scommessa
S
continua da pagina 13

commettere. La scommessa è
una passione, è adrenalina allo
stato puro, è una emozione che
ti prende a livello fisico e psicologico. Decifrare lo scommettitore è complicato. Chi scommette porta dentro
di sé un’alternanza di sensazioni, è un
po’ bambino e adulto nello stesso tempo. Chi non ha scommesso almeno una
volta in vita sua? Non importa su cosa o
chi, l’importante è appropriarsi dell’idea
che un avvenimento sia e si svolga come
noi abbiamo pensato, scommettendo su
quella previsione.
Sì, perché tutti da bambini abbiamo anche se in modo platonico, scommesso su
ogni cosa. Lo scommettitore vero pensa
e ripensa tutto il giorno e anche la notte,
non riposa, deve sempre tenere la propria
mente attiva e pensare alla scommessa
migliore, alla miglior quota per poter
dire: sì ho vinto e sono io il professore.
Tutte le volte che lo scommettitore vince diventa nel suo pensare il migliore di
tutti, si identifica in un vincente che non
può sbagliare. Qualsiasi sia la scommessa, potere esibire il tagliando vincente lo
appaga nel suo ego interiore come non
mai. Scommettere per un giocatore diventa con il tempo un lavoro che occupa
tutta la giornata. Gli scommettitori che
sono appassionati di ippica fino dal mattino diventano frequentatori delle agenzie. Seguono con passione e impegno
ogni corsa e sono a conoscenza di tutti i
risultati dei cavalli in gara nella giornata.
Sullo stesso piano dello scommettitore si
colloca l’allenatore del cavallo. Egli con
molta passione e professionalità convive
con il proprio sogno, nella speranza che
il suo cavallo diventi un campione. È a
tutti gli effetti uno scommettitore pure
lui. Se chi scommette sulla corsa punta
sulla propria competenza, sulla propria
passione e vive l’emozione della vittoria come un’affermazione delle proprie
conoscenze, l’allenatore dall’altra parte
della staccionata corre fisicamente insieme al proprio cavallo, scommette di
conseguenza sul proprio lavoro e vive
sensazioni forse superiori al giocatore,
sentendosi alla fine vincitore pure lui. La
scommessa ippica rappresenta solo una
piccola parte del tempo che il giocatore
dedica alla sua passione, qualsiasi sia lo
sport e ovunque si possa scommettere
egli è presente, la sua natura lo porta a
seguire ogni avvenimento sportivo e su
di esso scommette. La ricerca della vittoria, la ricerca di sentirsi appagato nella
sua capacità di
essere il migliore e poter
guadagnare soldi con le sue previsioni lo rende, a suoi occhi, infallibile,
e di conseguenza egli si sente una persona appagata e sicura di sé. Ma egli perde
di conseguenza ogni senso della realtà,
vive il suo mondo, quello delle scommesse, come unico e perfetto, venendone
assorbito totalmente. È a questo punto
che anche un gioco, iniziato come semplice passatempo o diversivo innocente,
può diventare un’altra cosa: dipendenza.
Questo perfido virus che penetra inesorabilmente nella vita del giocatore rappresenta l’inizio della fine. Dal gioco si
passa velocemente alla malattia e non
sapere di essere ammalato rende il virus
inattaccabile. Tutto cambia, il rapporto
con il denaro, il proprio lavoro, i propri
affetti, le amicizie vengono anche loro
attaccate dalla malattia del giocatore e
in breve tempo quella che era una vita
appagante e piena di successi diventa
una vita allo sbando, senza punti di riferimento se non solo e ancora il gioco, la
scommessa.
Benedetto Mascari.
32 menù più gettonati del suo staff,
tipo “verdure arrosto, tagliatelle alla
carbonara, polenta, gazpacho, uova in
camicia (meglio ricordare che se sono
fresche galleggiano nel pentolino, se affondano sono vecchie, da buttare)” con
qualcosa di più ricercato, “quaglie con
cuscus, arrosto di maiale alla messicana, zuppa di miso con vongole, salsicce
con sugo di pomodoro”, e li ha racchiusi
nel suo libro “Il Pranzo in Famiglia”, in
uscita. Questo fa pensare a un Ferran
Adrià diverso, a portata di mano, quindi
mai visto e assaggiato.
Infine il suo “El Bulli” non è veramente
chiuso, lo sta solo trasformando e chissà, forse lo ritroveremo ancora tra i suoi
rinnovati fornelli, forse per farlo funzionare solo su invito per pochi fortunati e
selezionati buongustai ai quali proporre
magari il suo menù 31 “insalata Waldorf,
zuppa con filini e cozze, crema di melone e menta con pompelmo rosa”.
Ora diamo luce al nostro bel Paese e ai
nostri chef pluristellati ed emergenti.
Dal mese di settembre Andrea Aprea,
partenopeo scuola Heston Blumenthal,
è al Park Hyatt, uno dei più fascinosi
hotel di Milano. Passiamo a Francesco
Passalacqua, ristorante Pane e Acqua:
è un cuoco langarolo che orchestra
lauti pasti aperti da un pane da sballo
e giocati con materie prime della sua
terra. Pensate: nel suo ristorante troverete sedie tutte diverse ai tavoli e, cosa
strana, si possono pure comprare.
Ora provate a cimentarvi con questa ricetta: l’arrosto di maiale alla messicana
(per due persone):
ponete in un recipiente succo d’arancia 50 ml, un pizzico di origano e uno
di cumino, 2 cucchiaini di vino bianco,
60 gr di pasta di achiote (pianta messicana); frullate, poi incidete la spalla,
conditela con sale e pepe, disponetela
in una teglia rivestita di alluminio, irroratela con la marinata e con cipolla
bianca a tocchetti. Marinate per 30 minuti, preriscaldate a 200 gradi il forno e
infornate, dopo aver avvolto la carne in
alluminio, cuocete per 4 ore. Una volta
pronta, servite con tortillas calde.
Un ultimo indirizzo a Marina del Cantone (NA) alla Taverna del Capitano dove
Alfonso Caputo guarda a vista la sua
brigata: un cuoco di razza e pescatore
d’istinto non si limita a utilizzare le fantastiche materie prime del circondario,
ci mette del suo con pasta trafilata e
l’estro del momento, persino la polpa di
riccio che esce dalla caffettiera.
Qualche notizia sui vini, proprio in queste settimane escono le guide dei vini
Gambero Rosso, Duemilavini, l’Espresso, Slow Wine e Veronelli, vi segnalo
questi: Barolo Monfortino riserva 2004
cantina Giacomo Conterno, primitivo
di Manduria 2009 cantina Gianfranco
Fino, Brunello di Montalcino 2006 cantina La Cerbaiola-Salvioni.
Sarà un’annata da ricordare, la produzione è scesa del 5% ma le cantine si
aspettano un prodotto superiore, come
nei tempi migliori.
Vi ricordate dello Chardonnay? Bene,
segnatevi questa etichetta, Gaja & Rey
di Angelo Gaja ha il merito di essere
stato tra i primissimi, se non il primo,
Chardonnay di altissima classe presente sempre nei grandi pranzi italiani.
Francesco Rossi
14
carteBollate
DOSSIER
giustizia in tilt
Costerebbe quasi 5 milioni di euro allo Stato Italiano
Una class action contro
il sovraffollamento
D
ove è finita l’ipotesi di class
action contro lo Stato, che i
Radicali avevano ipotizzato
all’indomani della sentenza
Souleimanovic? Dopo la decisione della
Corte Europea che condannava l’Italia al pagamento di una multa di mille
euro per risarcire un detenuto costretto
a vivere in cella, in uno spazio non regolamentare (inferiore a 7 metri quadrati
a persona) proprio il partito di Marco
Pannella aveva ipotizzato un’azione
di massa per denunciare la situazione
di illegalità delle carceri italiane. Un
anno fa ci avevano provato i detenuti
siciliani, che si erano rivolti alla Corte
europea di Strasburgo denunciando la
situazione nelle carceri e chiedendo un
risarcimento danni per le condizioni
«disumane» in cui sono costretti a vivere. Nel ricorso cinquanta reclusi, assistiti da un avvocato, raccontano la loro
vita fra topi, scarafaggi, celle anguste e
senza riscaldamento. Ma questo stesso
racconto potrebbe essere fatto in molte
patrie galere.
Luigi Tarantino ha condannato il ministero della Giustizia al risarcimento
simbolico di 220 euro nei confronti del
detenuto Slimani Abdelaziz. La motivazione fa riferimento alla non osservanza delle norme imposte dalla Comunità
Europea e della legge che disciplina le
condizioni di detenzione carcerarie e
della Convenzione sui diritti dell’uomo.
Intanto una sentenza Italiana anticipa
la Corte Europea, con l’ordinanza n°
17/10 del giudice di sorveglianza di Lecce. In particolare Slimani lamentava
che lo spazio pro capite a disposizione
per lui e per i suoi due compagni era di
3,39 mq a testa dai quali bisogna togliere la spazio di letti e arredi. In questa
angustia dovevano restare per circa 19
ore al giorno, senza un minimo di privacy e senza nessuna tutela della dignità
personale. La sentenza di Lecce fa inoltre riferimento all’inosservanza della
Carta dei diritti umani dei detenuti,
all’assoluta mancanza d’igiene e alla sovrapposizione di 3 letti a castello fino
ad arrivare a 50 centimetri dal soffitto,
col rischio, per chi vi deve dormire, di
gravi infortuni qualora durante la notte
dovesse cadere.
Di fatto il giudice Tarantino si è attenuto agli standard decisi dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e
di ogni forma di trattamento inumano
e degradante, che stabiliscono che in
cella singola si deve disporre di almeno 7 metri quadri di spazio utile , mentre in cella multipla lo spazio non deve
essere inferiore ai 4 metri quadri per
ogni detenuto. Ovviamente la sentenza
emessa dal giudice Tarantino crea un
precedente per ciò che riguarda i ricorsi da parte dei detenuti, che fino a
oggi avevano come riferimento solo la
sentenza della Corte Europea dei diritti
dell’uomo del 16 luglio 2009 riferita al
detenuto bosniaco Souleimanovic, recarteBollate
15

DOSSIER
VOLONTARIATO – Lavoro socialmente utile per dare un senso alla pena
Detenuto: scarto o risorsa?
L
a differenza tra una condanna
intelligente, costruttiva, con un
concreto senso della pena, del
risarcimento e riscatto sociale, e
una condanna non intelligente, insensata, controproducente quanto inutile,
dal forte sapore della vendetta sociale?
Media e senso comune rivelano una percezione superficiale della realtà penale.
Si sente parlare sempre di certezza della pena, ma mai del suo significato etico
e costituzionale.
Affermazioni fatte in modo irragionevole, adirato, vendicativo, mentre hanno poco ascolto quelle persone senza
potere decisionale che conoscono la
realtà e si adoperano per portarla all’attenzione, nel vano tentativo di migliorare l’esecuzione penale e il sistema
carcerario italiano.
Il vero problema parte dall’alto, da coloro che hanno voce in capitolo e potere decisionale, e hanno fatto del mondo penitenziario la loro professione.
Sono persone che spesso hanno timore a fare cambiamenti, o forse anche
solo a crederli possibili, e così, in nome
della sicurezza, si limitano a perpetuare quei percorsi standard tramandati
da anni e anni di routine, ritenendoli
continua da pagina 15
a Roma. Il ricorso esposto da
 Rebibbia
Slimani risale al giugno 2010 ed è stato
formalmente accolto il 9 giugno 2011.
Ricordiamo che le nostre carceri al
31 agosto contavano 67.104 detenuti a
fronte di una capienza regolamentare
di 45.647 posti, quindi 21.457 detenuti in più. Se si dovessero risarcire tutti i detenuti ristretti in condizioni che
non rispecchiano le normative, come
accaduto nel caso leccese, lo Stato italiano si vedrebbe costretto a sborsare
almeno 4.720.540 euro per detenzioni
inumane. Attualmente nelle carceri
italiane non solo si sconta la pena, ma
si vive una vera e propria tortura, una
degradazione tale che sempre più spesso si trasforma in perdita della voglia di
vivere, che porta molti detenuti e poliziotti a scegliere il suicidio come unica
strada per smettere di soffrire.
I dati ci indicano che a oggi, i suicidi
di detenuti nelle carceri sono 47, senza
contare i tentati suicidi sventati dagli
agenti o dai compagni di cella, uno sterminio che va assolutamente fermato. A
16
carteBollate
immuni dai rischi di fallimento.
Se guardiamo la società e i luoghi dove
necessita una maggiore presenza umana (parchi e luoghi pubblici, ospizi,
mense, dormitori, centri di accoglienza, canili, comunità) noi detenuti possiamo sostenere fermamente che siamo
una risorsa!
Quando il detenuto viene considerato
risorsa vuol dire che ha affrontato un
percorso tale da poter essere introdotto
nei benefici (lavoro esterno, permessi,
semilibertà, affidamento). Questo percorso viene dettato dall’Ordinamento Penitenziario, dalla relazione degli
educatori e dalla sintesi personale che
dichiara il detenuto idoneo o meno alle
alternative. Le persone che ottengono
la possibilità di essere immesse in un
vero e proprio programma lavorativo, lo
fanno direttamente alle dipendenze di
aziende esterne o grazie all’assegnazione di una borsa lavoro a tempo determinato erogata da un Comune.
Uscire a lavorare a tempo pieno impegna in modo non indifferente chi vi
accede e tante volte l’unico giorno non
lavorativo è la domenica, che utilizza
per svolgere faccende domestiche e
personali, oltre a consolidare i rappor-
ti familiari. Questo esclude il fatto che
un detenuto che lavora all’esterno del
carcere possa mettersi a disposizione
per opere di volontariato, vanificando
il senso stesso delle parole: risorsa, volontariato, risarcimento, riscatto.
Non tutti i detenuti una volta arrestati
dovrebbero subito uscire per svolgere
lavori socialmente utili, poiché so bene
che esistono reali problemi legati alla
pericolosità individuale e al pericolo
di fuga. Ma nelle carceri ci sono molte
persone con una pena lieve, con bassa
pericolosità sociale e ancora più esiguo
pericolo di fuga, oppure persone prossime ai benefici, degne di fiducia e volenterose di mettersi in gioco.
La legge prevede la possibilità di svolgere lavori socialmente utili, in alternativa al carcere, ma questa misura è
utilizzata in modo molto limitato. Potrebbe essere invece un reale percorso
rieducativo, che consenta al detenuto
di dare senso alla pena e alla società
di apprezzarlo come risorsa. Il tutto
potrebbe sembrare troppo pericoloso,
oneroso, impegnativo e di difficile gestione, ma anche questo è solo l’ennesimo preconcetto negativo.
Carmelo Impusino
poco è servito il richiamo della massima autorità dello Stato, nonché garante
della Costituzione, Giorgio Napolitano,
che ha definito incivile un popolo che
non agisce immediatamente dove vi è
un’emergenza umanitaria grave come
quella in cui versano oggi le carceri italiane, dichiarando l’urgenza di trovare
al più presto una soluzione per riportare almeno in uno stato di legalità le
carceri, non solo causa di sofferenza
per chi vi è recluso, ma anche di umiliazione collettiva agli occhi del resto
del mondo.
Il risarcimento ottenuto con la sentenza emessa dal giudice Luigi Tarantino
sancisce che la situazione è inaccettabile e sottolinea l’improcrastinabilità di
una riforma della giustizia che ormai è
giunta al collasso.
Le strutture in cui si consumano vicende come quella denunciata sono presenti in tutto il territorio italiano. Aldo
Di Giacomo, segretario regionale del
Sappe Marche (sindacato degli agenti di polizia penitenziaria) denuncia
la situazione riguardante il carcere di
Montacuto, dove i detenuti sono stipati in stanze senza gabinetti, costretti a
dormire nelle sale ricreative e obbligati
a fare i loro bisogni in qualche angolo o
contenitore.
Nella sezione femminile del carcere di
Pesaro e Ancona, fa presente Di Giacomo, le detenute sono spesso sorvegliate
da agenti di sesso maschile per carenza di personale, mettendo in situazioni
umilianti e inconcepibili sia il personale che le detenute.
Le recenti decisioni da parte della Corte Costituzionale tedesca e della Corte
Suprema statunitense contro lo Stato
della California hanno imposto misure
immediate ed estreme per il sovraffollamento.
Nello specifico, alle carceri tedesche è
stato imposto di non accettare detenuti
oltre la soglia legale di capienza delle
strutture, mentre in California è stata
decisa la liberazione di circa 38.000 detenuti.
Fabio Galli
SOVRAFFOLLAMENTO – Basterebbero poche norme per risolvere il problema
Sette proposte a costo zero
A
fronte dell’attuale sovraffollamento carcerario e dell’evidente inefficacia delle misure introdotte con il Piano
carceri, dell’assenza di segnali positivi dalla politica che facciano sperare
nella disponibilità di discutere di amnistia, è forse arrivato il momento di
parlare chiaro.
La condizione carceraria è una vergogna morale e uno spreco, in una società
che da molti anni ha smesso di scommettere sulla capacità costituzionale di
reintegrare il detenuto, ma soprattutto
non è in grado di evitare la recidiva di
chi esce dal carcere. Anche lo sciopero
della fame e della sete di Marco Pannella non ha scalfito l’ostinata inerzia
del governo, mentre sarebbe possibile
intervenire, a costo zero, per affrontare in modo efficace i problemi delle
carceri italiane, con una serie di misure di cui per altro da tempo si parla e
che da sole consentirebbero di ridurre
sensibilmente il numero dei detenuti,
anche senza ricorrere all’amnistia o
all’indulto.
Nello specifico si propone:
1
Limite all’utilizzo della custodia
cautelare.
L’utilizzo della misura della custodia
cautelare deve essere effettuato solo
e soltanto in casi eccezionali, quando
ogni altra misura risulti assolutamente inadeguata. E per reati la cui pena
edittale prevista dal codice penale sia
rilevante.
2
Abrogazione della discussa legge
ex-Cirielli.
La legge ex-Cirielli, diventata famosa
come “legge salva-Previti” ha di fatto
inventato la disciplina del “recidivo reiterato” che in realtà penalizza la stragrande maggioranza dei detenuti condannati per reati sociali, spesso dovuti
alla loro condizione di tossicodipendenti o di immigrati irregolari. Oggi, con
l’applicazione di questa legge, un furto
aggravato, che mediamente era punito
con 9-10 mesi, porta a una condanna di
tre anni e 4 mesi.
3
Modifica della legge Fini-Giovanardi sulle sostanze stupefacenti.
Superamento del carcere per i tossicodipendenti, la dipendenza è un proble-
La condizione
carceraria
è una
vergogna
morale
e uno spreco
ma
soprattutto
non è
in grado
di evitare
la recidiva
di chi esce
dal carcere
ma sanitario e come tale va considerato. Restituire alle comunità, attraverso
un programma stabilito dal SERT, i
detenuti certificati come dipendenti da
alcool e sostanze stupefacenti, evitando il passaggio dalla Magistratura di
sorveglianza e di conseguenza dalla
discrezionalità del magistrato. La depenalizzazione totale dell’uso personale.
La rimozione del limite a due concessioni dell’affidamento terapeutico oggi
in vigore grazie alla ex-Cirielli.
4
Maggiore e più rapida applicazione delle misure alternative.
L’applicazione delle misure alternative
al carcere è l’unico strumento idoneo
a garantire il recupero del detenuto e
a evitare il rischio della recidiva. Se si
considera che circa il 60% dei detenuti definitivi ha una pena o un residuo
pena inferiore a tre anni, l’utilizzo razionale delle misure alternative alla
detenzione consentirebbe di evitare il
carcere e di liberare migliaia di detenuti.
Vanno anche sostenute proposte che
prevedano una sistematica concessione delle misure alternative nell’ultimo
periodo di detenzione per favorire un
rientro – accompagnato – nella società
delle persone a fine pena e garantire
così una maggiore sicurezza sociale.
5
Introduzione della messa alla prova anche per gli adulti.
Estendere l’istituto della sospensione
del procedimento con la messa alla prova dell’imputato adulto può risultare
efficace nel contrasto di fenomeni di
microcriminalità, a esempio per i reati, che oggi sono in aumento, commessi
durante la guida di un mezzo, sotto l’effetto di alcol o droghe. Per questa tipologia di reati, una messa alla prova in
un centro traumatologico, in un ospedale, potrebbe essere più costruttiva
del carcere.
6
Portare da 3 mesi a 4 mesi l’istituto della liberazione anticipata.
Tutti i detenuti che osservano una buona condotta e non infrangono le regole
del regime detentivo hanno attualmente diritto a uno sconto di pena pari a
3 mesi all’anno. Se questo beneficio
previsto dall’articolo 54 O.P fosse ulteriormente incentivato, questo rappresenterebbe un atto di presenza dell’istituzione e di controllo sulla popolazione
dei detenuti.
7
Abolizione delle pene detentive
brevi.
La si chiami depenalizzazione o come si
voglia, oggi non ha senso che un giudice
infligga una pena di 1 anno di carcere,
questo detenuto sarà lasciato in balia di
stesso, steso su una branda, a contatto con delinquenti professionali, senza
nessuna possibilità di trovare il tempo,
da parte delle istituzioni, di lavorare su
di lui e permettergli un’analisi critica di
quanto commesso. Si ottiene il risultato contrario, uscirà un uomo arrabbiato
con tutto e tutti e con qualche nozione
criminale in più.
Francesco Garaffoni
carteBollate
17
DOSSIER
SCIOPERO – Solidarietà dal nostro “inferno paradisiaco”
Non clemenza ma reinserimento
e sicurezza sociale
S
cusate l’evidente ossimoro del titolo, ma nell’istituto di Bollate lo
viviamo un po’ come condizione
generale; ci riteniamo “fortunati”
di esserne ospiti. In altre parole, siamo
fortunati a essere carcerati.
Se sarà pur vero che al peggio non c’è
mai fine, di contro, tra due mali sarà
meglio il minore. Breve premessa per
evidenziare una contraddizione di cui
nostro malgrado “beneficiamo” e che
“viviamo” per essere reclusi in un istituto che si prefigge, e ci riesce, di rispettare il dettato costituzionale in termini
di espiazione delle pene. Nella maggior
parte dei restanti istituti, si fatica a rispettare il minimo “sindacale” per definirli “civili, e conformi ai diritti umani”.
Quindi dal nostro “inferno paradisiaco”
ci siamo trovati in difficoltà ad aderire
all’iniziativa promossa dal Partito Radicale il 14 agosto scorso, “Amnistia per la
Giustizia”.
In qualità di quale “rappresentanza”
aderire?...Essere solidali significa condividere e senza dubbio condividiamo le
idee e la lotta di quel “vecchio” leone che
è Marco Panella e del suo Partito.
Ma in determinate questioni la forma
diviene sostanza e lo sciopero a oltranza che Marco Panella continua portare
avanti ne è massima espressione. La forma pacifica è la sostanza dell’obiettivo
giusto e democratico che si è prefisso di
raggiungere.
A noi detenuti, sia “fortunati” che “sfortunati”, è stato chiesto di attuare lo sciopero della fame e della sete per quella
giornata, il 14 di agosto, per richiamare
l’attenzione su un problema che riguarda noi tutti. Abbiamo aderito?... I dati
arrivati in redazione dicono che tutta la
popolazione di Bollate, o quasi, ha aderito all’unanimità: 1017! ( 117 al 1°reparto,
206 al 2°, 154 al 3°, 100 al 4°, 46 al 5°, 50
al Femminile, 344 al 7°).
La verità è che a prescindere da quale
sia il nostro “inferno”, non riusciamo più
a essere “umanamente” coinvolti… non
siamo più disposti a metterci in gioco, a
rischiare per qualcosa in cui crediamo
veramente… Un ultraottantenne quale
è Marco Panella avrebbe un “esercito”
di oltre 67.000 “scioperanti” per poter
vincere la sua battaglia i cui benefici,
18
carteBollate
paradossalmente, sono diretti proprio a
noi, le persone che gli dovrebbero dimostrare solidarietà…
Su questo giornale abbiamo scritto che
noi detenuti di Bollate in occasione delle
Olimpiadi Estive abbiamo solidarizzato
con i nostri compagni detenuti, che vivono realtà drammatiche, dimostrando
che è possibile una detenzione civile e
umana.Però, veramente, l’argomento
ci mette in imbarazzo, sappiamo che
Bollate è percepita come una specie di
prigione dorata, dove tutti i detenuti
vorrebbero essere trasferiti. In effetti
l’importanza di Bollate, per tutti i detenuti italiani, sta proprio nel fatto che è
la prova concreta che si può fare carcere
non solo in modo più umano, ma anche
in modo più efficace, abbattendo i livelli
di recidiva, cosa che implica un impegno
attivo da parte di tutti noi, che siamo reclusi in questo penitenziario.
Alle istituzioni, più che benedetti “atti
di clemenza” forse dovremmo chiedere
proprio questo, una detenzione che abbia un senso e che dia un futuro a chi
la vive.
Non è frutto di un’illuminazione cerebrale affermare che nessun atto di clemenza nel passato sia stato risolutivo del
problema… il vero problema è la “stoltezza” e la “schizofrenia” nel gestire l’intero sistema Giustizia.
Dirò solo che chi ha responsabilità istituzionali dovrebbe costantemente cercare il raggiungimento di un’effettiva, e
non artificiosa, armonia sociale. Pertanto, la “continua” richiesta di un atto di
clemenza per risolvere il problema del
sovraffollamento carcerario dovrebbe
tranquillamente essere spiegato alla collettività, con la semplice ammissione di
non aver fatto assolutamente niente per
cambiare le cose dopo la concessione
dell’ultimo indulto.
Il momento attuale che si vive in carcere
è la conseguenza di una politica cieca e
menefreghista nei confronti dei detenuti, che è pur vero che sono chiamati alla
espiazione di quanto commesso , ma è
vero anche che l’attuale condizione in
cui vivono non è indirizzata al recupero
del reo, ne alla sicurezza del cittadino.
Ferdinant Deda
Palazzo Marino - Parte la nuova commissione carceri
Nomina del garante e San Vittore le priorità
A
l via a Palazzo Marino i lavori della
nuova sottocommissione Carceri
che si è riunita per la prima volta il 3 novembre scorso e ha eletto presidente
il consigliere Lamberto Bertolè e vicepresidente il consigliere Mirko Mazzali.
“Nel corso della seduta - fanno sapere
Bertolè, Marco Cormio e Mazzali - abbiamo cominciato ad individuare le
nostre priorità di lavoro. Per prima cosa
lavoreremo perché la nostra città si
doti di un Garante dei diritti dei detenuti, come ormai moltissime città italiane hanno fatto. Sarà uno dei primi
impegni della commissione”.
“Si tratta inoltre - aggiungono i consiglieri - di riprendere i rapporti con
l’Osservatorio Carcere e Territorio,
perché il Comune ha il dovere di
riprendere un dialogo con le molte
realtà che da anni lavorano e si impegnano a favore del reinserimento
sociale dei detenuti, di fare regia tra
le molte risorse presenti sul territorio
per rendere più efficace e capillare
l’azione di molti”.
Infine, annunciano “dovremo anche
confrontarci con gli operatori e occuparci delle loro condizioni di vita,
pensiamo agli alloggi e alle loro condizioni di lavoro.
Crediamo che le condizioni del carcere di San Vittore, fra tutte, meritino
una particolare attenzione, perché
da troppo tempo insostenibili”. La
nuova commissione sarà un importante elemento di raccordo per connettere carcere e territorio: un organismo che non sostituisce quelli già
esistenti ma che, si spera, riuscirà a
coordinare le diverse risorse presenti
a Milano che operano sul fronte del
carcere, ma che spesso rischiano di
disperdere gli sforzi.
PROCESSI – Carcere sì, ma solo per i più poveri
Se la giustizia
viaggia a due velocità
E
siste la giustizia in Italia? In ogni
aula di tribunale italiano, alle
spalle della corte esiste una dicitura che riporta testualmente:
“la legge è uguale tutti”. L’applicazione della legge, però, non è conforme a
quanto si legge entrando in tribunale.
Il problema principale deriva proprio
da quelle testuali parole, nel senso
che troppo spesso nel nostro Paese la
giustizia penalizza i deboli e favorisce
i ricchi e i potenti. Perché se un emarginato sociale ruba in un supermercato per fame finisce in carcere, mentre
se un ricco truffa miliardi, in carcere
difficilmente ci finisce e nel caso ci finisca nel giro di poco tempo uscirà ai
domiciliari, mentre l’emarginato ai domiciliari difficilmente ci andrà anche
perché spesso non ha una casa o una
rete familiare che lo sostenga. Questo è
l’esempio più semplice.
Ogni anno in questo Paese vanno in
prescrizione dai 160.000 ai 180.000 processi. Questo problema è dovuto alla
lentezza e all’intasamento della macchina giudiziaria, ma ci sono anche casi
ben noti di imputati che, avendo i mezzi
per farlo, possono avvalersi di avvocati di grosso calibro, abili nello scovare
cavilli processuali che consentono l’allungamento dei processi, così da raggiungere i termini di legge per godere
della prescrizione. In altri termini la
loro strategia difensiva è quella di difendersi dal processo e non nel processo. Dall’altra parte ci sono imputati che
non potendosi avvalere di una difesa
agguerrita spesso non possono neppure
accedere ai successivi gradi di giudizio
e i loro processi non giungeranno mai
alla prescrizione.
Ci sono poi tutti quei cittadini che
aspettano giustizia, che per colpa del
sovraccarico di processi che si accatastano sulle scrivanie dei magistrati,
impedendo agli stessi di svolgere il loro
lavoro in tempi accettabili, rallentando
il corso della giustizia, vedranno vanificate tutte le loro attese.
Se vogliamo analizzare in profondità
il sistema giustizia non possiamo prescindere dall’ importanza della stampa
e dei media in generale.
Telegiornali e trasmissioni pomeridiane travisano la realtà creando un’informazione non veritiera. Un fatto di
attualità che evidenzia la cattiva informazione da parte dei media e dei politici è il caso della mancata estradizione dell’ ex terrorista dei P.A.C Cesare
Battisti. Su questo caso l’informazione
è stata strumentalizzata e indirizzata
esclusivamente a uso politico creando
disinformazione. Quando in Italia c’era
il governo Prodi e ministro di Giusti-
zia Clemente Mastella, il Brasile negò
l’estradizione di Battisti perché la sua
giurisdizione non contempla la possibilità di estradare detenuti con una pena,
l’ergastolo, non contemplata nel proprio ordinamento giudiziario. Il ministro Mastella propose in commissione
Giustizia di cambiare il vecchio codice
Rocco, con quello preparato dalla commissione Pisapia, così da poter commutare la pena dell’ergastolo (fine pena
mai) inflitta dalla giustizia italiana a
Battisti in anni 30. Poi con la caduta del
governo Prodi e successivamente con
l’avvento del nuovo governo Berlusconi,
della proposta di riforma del codice penale non se ne fece più nulla, e tutto il
lavoro fatto dalla commissione Pisapia,
è rimasto accantonato in qualche cassetto del ministero di Giustizia.
Parliamo della vicenda Battisti per rilanciare una riflessione sull’abolizione
dell’ergastolo e più in generale sulla
riforma del codice penale, che risale al
ventennio fascista.
La commissione guidata da Pisapia,
che doveva riformare il vecchio codice
Rocco, ha finito da tempo il suo lavoro,
il dibattito sul nuovo codice due anni fa
era stato messo in calendario alla Camera, ma le perturbazioni della politica
hanno fatto slittare a data da definirsi
il dibattito.
Ci sarebbero tante altre problematiche
da elencare, che determinano il collasso della giustizia in Italia, come la
lungaggine dei processi, l’eccessivo uso
dell’ obbligatorietà dell’azione penale,
ma quello di cui ci sarebbe realmente
bisogno sarebbe la tanto sospirata e invocata, da tutti gli organi competenti,
magistrati, giudici e avvocati, riforma
epocale della giustizia, tanto sponsorizzata dal governo ma mai affrontata
seriamente, una riforma che fino a ora
ha prodotto solo effetti dannosi per il
sistema penale, leggi ad personam per i
colletti bianchi e ingiustizia sociale.
Luigi Ruocco
carteBollate
19
DOSSIER
FINE PENA MAI – I dubbi dei giuristi sulla sua costituzionalità
Ergastolo, l’Italia è
molto lontana dall’Europa
I
n Italia, a differenza degli altri Paesi
europei, si è rimasti molto indietro,
basti pensare che il codice penale
vigente è datato 1930, nonostante
con il passare degli anni vi siano state apportate alcune modifiche, tuttavia
rimane un codice poco all’avanguardia
rispetto alla maggior parte dei Paesi
europei. Nella maggior parte dei Paesi
europei: Norvegia, Portogallo, Spagna,
Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Albania, Polonia e Ungheria l’ergastolo
è stato abolito, compiendo un grande
passo in avanti a livello di civiltà. In altri Paesi europei, pur essendo rimasta
la parola ergastolo, sono state introdotte delle modifiche legislative che hanno
fissato un tetto massimo dopo il quale,
valutando sempre la personalità di ogni
singolo detenuto, si viene scarcerati:
in Irlanda dopo 7 anni; in Olanda dopo
14 anni; in Norvegia, dai 12 ai 21; in
Austria, Germania, Svizzera, Francia
dopo 15 anni; in Grecia dopo 20 anni; in
Belgio dopo 10/14 anni; a Cipro dopo 10
anni; in Danimarca dopo 10/12 anni.
In Italia, esiste un fine pena riportato
sul definitivo che è: 9999 o fine pena
mai. Questo significa che un condannato alla pena dell’ergastolo rimarrà in
balìa dello Stato, non sapendo, anzi rimanendo con il dubbio: chissà se uscirò? C’è da dire che nell’ordinamento
penitenziario italiano esiste una norma
– chiamata libertà condizionale – che
20
carteBollate
C’è
chi sostiene
che
l’ergastolo
sia
in contrasto
con l’art. 27
della
Costituzione
italiana
prevede che i condannati all’ergastolo,
dopo aver espiato almeno 26 anni, possono accedere a tale beneficio, passando attraverso una camera di consiglio,
dove la corte valuterà tutta una serie
di aspetti, la relazione comportamentale del detenuto, la sua partecipazione attiva all’opera di rieducazione, il
risarcimento alla parte lesa eccetera.
Purtroppo, pur essendo prevista tale
norma nell’ordinamento penitenziario,
non vi è alcuna certezza che il detenuto possa accedere a questo beneficio.
Primo perché questa norma non viene
applicata con automatismo, in quanto
dovendo passare dal paletto della camera di consiglio, il detenuto si troverà
dinanzi a una corte che si avvarrà dello strumento della discrezionalità, non
per niente le percentuali degli ergasto-
lani che hanno richiesto tale beneficio
e lo hanno ottenuto sono bassissime.
A tutti quelli che non sono rientrati in
quelle bassissime percentuali, non resta niente altro da fare che ritentarci,
sperando di essere più fortunato la volta successiva.
In Italia esiste poi l’ergastolo ostativo.
Questa variante dell’ergastolo è generalmente utilizzata come deterrente
in relazione alla lotta contro la criminalità organizzata e viene indirizzata
esclusivamente all’ottenimento della
collaborazione del detenuto. L’ergastolo ostativo a differenza dell’ergastolo
“normale” non lascia nessuno spiraglio
di speranza ai condannati. I detenuti
che scontano questa pena sono esclusi
da qualsiasi beneficio, a meno che non
inizino a collaborare con la giustizia.
Questo unico sbocco per i condannati
all’ergastolo ostativo non tiene conto della possibilità che un detenuto di
questi possa essere stato condannato
da innocente e, di conseguenza, non
abbia nulla da dire per discolparsi o per
collaborare. Non tiene neanche conto di
chi non vuole usare il pentimento come
mezzo per uscire dalle fitte maglie della
giustizia italiana.
C’è chi sostiene che l’ergastolo sia in
contrasto con l’art. 27 della Costituzione italiana, che come è noto afferma
che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, ovviamente finalizzata al suo reinserimento sociale. Se
questo obiettivo viene meno perché la
pena non ha un termine, l’ergastolo può
ritenersi incostituzionale? La risposta
dei giuristi a questo quesito è che proprio l’istituto della libertà condizionale
garantisce la costituzionalità dell’ergastolo, ma sono argomenti da prendere
con le molle. In particolare l’ergastolo
ostativo, oltre che violare la Costituzione italiana, viola anche gli art. 3, 6 e 7
della Convenzione europea sui diritti
dell’uomo. L’unica speranza per questi
detenuti è che l’Italia prenda esempio
dagli altri Paesi europei compiendo
quel passo di civiltà che oltre 1500 detenuti e i loro rispettivi familiari e amici aspettano e sognano tutte le notti da
molti anni.
Luigi Ruocco
RIFORME – Le nuove norme per il processo civile
Procedure più semplici e (forse)
giustizia più rapida
P
er quasi 70 anni, il legislatore
ogni volta che ha disciplinato
materie specifiche ha introdotto regole processuali speciali,
sia ai fini di adeguare i meccanismi
processuali alle svariate esigenze delle
controversie, sia per arrivare a una rapida definizione delle cause.
Ma i buoni propositi non hanno fatto
raggiungere l’obbiettivo.
Moltiplicando i riti speciali, si è arrivati
al solo risultato di vedere aumentate le
questioni relative alla loro applicazione.
La litigiosità relativa alle questioni processuali non ha fatto altro che aumentare la durata dei processi ed il moltiplicarsi delle pronunce sul rito anziché nel
merito delle cause.
Questo aumento di norme processuali
speciali, anziché essere lo strumento per ottenere tutela giurisdizionale
delle situazioni giuridiche sostanziali,
ostacolava e talvolta impediva l’effettivo raggiungimento di tale tutela.
A porre rimedio a questo marasma interviene proprio l’ultimissima riforma
della giustizia civile: decreto legislativo del I° settembre 2011 n. 150 che si
applicherà ai procedimenti instaurati
dal giorno successivo l’entrata in vigore del decreto stesso¸ che riconduce 28
procedimenti previsti dalla legislazione speciale per altrettante tipologie di
controversie a tre modelli processuali
base, e precisamente: il rito del lavoro,
il rito sommario di cognizione e il rito
ordinario di cognizione.
Tale decreto è da considerarsi la continuazione del Codice di procedura civile ed è veramente una sconfitta che la
legge delega non abbia permesso che le
nuove norme venissero integrate all’interno del Codice.
Ciascuna delle 28 tipologie di controversie oggetto della riforma, seppure
ricondotta a uno dei tre riti modello,
continua a presentare notevoli elementi
di specialità.
Questa circostanza, essendo imposta
dalla Costituzione (il principio di eguaglianza impone che le situazioni diverse debbano essere trattate in modo differente, così come le regole processuali
si devono adeguare alle varie particolarità di ogni controversia in cui devono
essere applicate), presenta il vantaggio
di consentire un passaggio più morbido
dal vecchio al nuovo regime.
Il decreto infatti si limita a razionalizzare la disciplina esistente e a codificare il
diritto nato dall’applicazione delle norme già vigenti.
Ogni novità legislativa, e dunque anche questa, fornisce sia risposte che
domande, circa le nuove disposizioni,
specialmente in relazione all’ipotesi che
il procedimento sia avviato con l’osservanza di un rito diverso da quello prescritto dalla legge.
A tal proposito, è necessario chiarire
che, salvo per il rito ordinario di cognizione, i riti del lavoro e sommario
di cognizione previsti nel dlgs 150 non
sono esattamente identici a quelli previsti dal Codice di procedura civile: – da
un lato, il rito del lavoro, l’applicabilità
resa possibile dagli art.6 e 13 del Dlgs
150/2011, non coincide con quello che
deve essere seguito in cause di materia
di lavoro : il giudice ha poteri istruttori
officiosi, ma nei limiti stabiliti dal codice civile; molte disposizioni che attribuiscono una più intensa tutela verso
il lavoratore non sono applicabili (ordinanze anticipatorie, efficacia esecutiva
del dispositivo letto in udienza);
– dall’altro lato, il rito sommario di cognizione, come rielaborato dall’articolo
3 del decreto 150/2011, differente di parecchio da quello inserito negli articoli
702 bis e 702 quater del Codice; non è
rimesso come nel Codice alla libera
scelta discrezionale dell’attore, che può
utilizzare tali forme processuali invece
di quelle proprie del rito ordinario di
cognizione, quando la causa, di competenza del Tribunale, debba essere
decisa in composizione monocratica,
ma è imposto dal legislatore (che a
priori ha stabilito che per le cause di
cui agli art.14-30 del decreto n. 150 sia
sufficiente un’istruzione sommaria);
può svolgersi anche in unico grado di
merito, senza la garanzia di un appello
in cui siano ammissibili tutti i mezzi di
prova ritenuti rilevanti.
In buona sostanza dal 7 di ottobre, giorno di entrata in vigore della riforma, i
possibili riti applicativi in sede contenziosa avanti agli organi di giurisdizione
ordinaria sono cinque, i tre riti di cui
alla legge 150/2011 più il processo del
lavoro vero e proprio per le cause disciplinate dagli art. 409 e 442 del Codice
e il procedimento sommario di cognizione, non considerando i procedimenti
esclusi dall’ambito di semplificazione
della legge delega quali Codice civile,
procedure concorsuali, materia di famiglia.
Molti penseranno che la riforma sia
troppo debole, però il decreto 150/2011
è da apprezzare perché non si espone a
possibili questioni di legittimità costituzionale, si limita solo a razionalizzare
una molteplicità di riti speciali.
Questo non farà certo pensare che questa riforma possa essere la soluzione
dei mali della giustizia civile, si tratta
comunque di una riforma a costo zero,
dove bisogna comunque tenere presente che il sistema ha bisogno di misure
per smaltire l’arretrato, definendo le
cause e diminuendo il contenzioso.
Francesco Rossi
carteBollate
21
DIFFERENZE – Noi donne ai margini del Progetto Bollate
Anche in carcere
vogliamo pari opportunità
I
Queste differenze sono accentuate dal
fatto che all’interno del carcere la sezione femminile e quella maschile marciano con un passo decisamente diverso,
anche se in apparenza o sulla carta il
regime detentivo è lo stesso. Partendo
già dalla struttura che è molto più organizzata e continuando con una équipe
medica, psicologica e rieducatrice, è
evidente quanto siano più attrezzati e
seguiti al maschile. Si organizzano con
più facilità eventi, assemblee, spettacoli e corsi.
Si hanno aree appropriate per percorsi individuali o di gruppo (area trattamentale), cose carenti o del tutto inesistenti al femminile.
Sappiamo che la sezione femminile è
marchiata con “la lettera scarlatta”, per
errori fatti da altre che ancora oggi a
distanza di tempo si pagano, renden-
In carcere
come fuori
paghiamo
ancora
per l’errore
fatto dalla
famigerata
Eva...
foto di Remi N’diaye
l mondo al femminile è molto più
fragile e complicato. Può sembrare un luogo comune, ma il carcere
evidenzia ferocemente le differenze
di genere, perché qui non ci sono ruoli
dietro cui mascherarsi e che servono
da schermo. Si è più esposti… Nella sua
complessità la donna ha bisogno di attenzioni, di essere seguita con acume e
preparazione, anche perché non è certo
un caso se le donne recluse sono meno
del 5 per cento della popolazione carceraria e quelle che in galera ci stanno
non si rassegnano e non hanno nessuna
capacità di adattarsi all’ambiente.
La depressione, com’è noto, è principalmente femmina, come lo sono i
mal di testa e gli attacchi di panico. La
mancanza dei propri affetti (figli, nipoti, compagno, genitori, amici) è una
sofferenza spesso insostenibile, che si
trasforma in un malessere fisico che è
una specie di linguaggio del corpo, che
si sostituisce a parole che non trovano
spazio per essere espresse. E queste
patologie a volte possono essere anche
molto gravi e complesse.
Il mondo al maschile invece è più razionale e pragmatico, per quanto questa affermazione possa sembrare uno stereotipo: con questo non si vuole sminuire la
sensibilità maschile, ma che si abbia una
sensibilità “diversa” è un dato di fatto.
22
carteBollate
do così più facili i dinieghi e i dissensi
per eventuali iniziative che potrebbero
aiutare a migliorare la situazione in generale. Insomma, in carcere come fuori
paghiamo ancora per un errore fatto
dalla solita e famigerata Eva…
Questo pregiudica molto la nostra situazione. Uomini con gli stessi reati e
gli stessi periodi di detenzione hanno
molte più probabilità di progredire nel
loro percorso, e di poter dimostrare
eventuali potenzialità nella vita carceraria. La possibilità di girare all’interno
del carcere, avendo “sconsegne” che
consentono di muoversi da un reparto
all’altro e di partecipare a molti eventi
interni non mi risulta che ci sia al femminile (a parte l’articolo 21 interno). Le
donne sono escluse dai lavori più qualificanti: le serre di cascina Bollate, i
fornelli del catering Abc, la compagnia
teatrale e anche dai lavori più remunerati come a esempio quelli del call center,
al quale sono ammesse solo due di noi.
Ma anche nelle piccole cose si notano fastidiose differenze. Un esempio a caso?
Come mai al maschile hanno ripristinato l’uso di indumenti col cappuccio e da
noi no? Sia chiaro, è una piccola cosa
che però, accostata alle differenze più
rilevanti, ci fa dire: perché a loro sì e a
noi no?
Sappiamo che gli uomini sono di gran
numero più di noi e forse è anche per
questo che gli interessi si concentrano
di più verso il maschile, ma questo potrebbe essere anche un vantaggio: siamo in poche e dunque potrebbe essere
più facile portare avanti progetti mirati,
individuali o di gruppo che siano.
Spesso ci sentiamo discriminate e “invidiose” delle differenze tra noi e loro,
ci rassegniamo e cerchiamo di tirare
avanti prendendo quello che c’è, ma
continuiamo a pensare che potremmo
essere più centrali per il famoso “progetto Bollate”, perché se un carcere
come questo vuole offrire una possibilità di recupero e di reinserimento sociale, dobbiamo constatare che noi donne
non abbiamo pari opportunità. Siamo
più emarginate, più recluse rispetto a
loro… Scusate, ma non eravamo noi il
“sesso debole”?
Caterina Mista
LA STORIA – E’ stata scarcerata, ma fuori non ha nessuno
Rosina, 72 anni,
condannata alla libertà
L
’
abbiamo sentita lamentarsi e
imprecare, forse per la prima
volta, dopo 16 anni di reclusione. «Questa non me la dovevano
fare – diceva piangendo la Rosina – e
no, questa non me la dovevano proprio
fare!». Cosa è successo – le abbiamo
chiesto – cosa ti hanno fatto? E lei, disperata, quasi urlando, come se le avessero comminato una pena ulteriore:
«Mi hanno scarcerata!».
Dopo tante amarezze quello avrebbe
dovuto essere un momento di gioia, ma
Rosina, ultrasettantenne, di uscire per
andarsene agli arresti domiciliari proprio non voleva saperne, anche perché
qui in carcere ha un figlio e fuori si sente sola e spaesata. Addirittura quando
andava in permesso, magari per qualche giorno consecutivo, rientrava in
carcere regolarmente prima del previsto perché quello esterno ormai non
era più il suo mondo. E invece venerdi
21 ottobre ha lasciato le mura di questa
casa di reclusione che l’ha tenuta per gli
ultimi anni della sua lunga detenzione.
Proviamo a desciverla: una signora di
72 anni, molto dignitosa e ben curata,
taciturna anche quando la salute non
la reggeva, ultimamente gli acciacchi
si facevano sentire ma mai nessuna di
noi l’ha sentita lamentarsi, Il suo star
bene era quando per un minuto circa
si affacciava alla finestra e poteva vedere suo figlio che lavorava alla serra,
lì i suoi occhi si illuminavano come due
lampioni e il sorriso era caldo, insomma scaldava il cuore. Poi quatta quatta
rientrava nella sua camera e sempre fra
le mani aveva qualcosa: un ricamo o un
paio di ferri, lavori che faceva per i nipoti o per suo figlio.
Quando faceva colloquio con lui, si preparava con cura, con abiti cuciti da lei,
molto eleganti, voleva che suo figlio la
vedesse in forma, senza fargli mai capire che la salute in certi momenti lasciava a desiderare. Noi tutte le portavamo un vero rispetto. Qualche volta,
pensando alla sua età, provavamo a
chiederle: Rosina, ma perché non presenti un’istanza e chiedi la detenzione
domiciliare? La sua risposta era sempre
la stessa: «mi piacerebbe ma mio figlio
rimane qui solo?».
Davanti
alla parola
scarcerata
è scoppiata
in lacrime
e il suo primo
pensiero
è stato:
voglio
parlare,
voglio fare
colloquio
con mio
figlio
Proprio il giorno prima della sua scarcerazione, alla finestra della sezione,
dalla quale si vedono le serre, abbiamo
scambiato due chiacchiere. Diceva che
le avevano fissato la camera di consiglio
per la detenzione domiciliare ma che
aveva rinunciato, la ragione suo figlio,
ma forse anche lo spaesamento che le
dava l’idea di tornare a fare i conti con
il mondo esterno, ora che non era più
giovane e dopo tanti anni di reclusione. Come sempre le ho detto che se era
fuori poteva aiutare di più il figlio, ma
non sentiva ragioni: non aveva mai voluto avere benefici e ne ha rifiutati per
ben tre volte. Da due anni andava in
permesso ma non è mai riuscita a fare
i giorni che chiedeva. La ragione? «Mio
figlio!». Ogni volta che lo diceva, che
lo nominava, il suo viso diventava rag-
giante, era bello vederla! Ultimamente
aveva cambiato anche look: un taglio
di capelli e una tinta di un colore caldo
che la rendevano più giovane, una bella
signora; faceva anche palestra, sì il tapis roulant, e con quanta costanza.
Ecco, la nostra compagna davanti alla
parola «scarcerata» è scoppiata in lacrime e il suo primo pensiero è stato:
voglio parlare, voglio fare colloquio con
mio figlio.
Non so quanto siano riusciti a parlare,
lui commosso per la gioia di vedere la
mamma varcare definitivamente questi cancelli, Rosina disperata perché
lui non poteva seguirla. Ci auguriamo
che fuori trovi un mondo disposto ad
accoglierla e a fare spazio a chi esce dal
carcere.
Carla Molteni
carteBollate
23
COMUNITÀ DI RECUPERO – Corrispondenza dall’ultima frontiera
Il rancio? Una vera
condanna aggiuntiva
T
irano, Sondrio, 500 metri dalla
frontiera Svizzera. Dopo la bella
lettera speditami dalla redazione,
con la vostra attestazione di affetto
e stima, per un attimo mi era balenata
l’idea di tornare alla mia vecchia casa.
Un pensiero nostalgico che ha però subito lasciato spazio alla ragione, riflettendo
sul perché sono stato inviato in questo
posto dove “osano solo le aquile”… Raccolti i miei stracci, ritirati i documenti in
matricola e un po’ di soldi dal mio conto
corrente, espletate le ultime procedure
di imbarco e salutati i ragazzi, mi sono
ritrovato quasi catapultato oltre le sbarre. Sbadato ed euforico, mi ero subito dimenticato il telefonino in matricola; per
fortuna c’era un’anima giovane e gentile
di nome Elisa a seguirmi in questi preparativi, prima di partire per la mia comunità di reduci, alla frontiera. Uscendo,
come manna piovuta dal cielo la ragazza,
compresa la mia necessità impellente,
mi chiede se ho bisogno di telefonare. Mi
mette subito un telefonino in mano e io
provo a fare il numero, impacciato perché non lo usavo da anni. In carcere, per
comunicare, ricorrevo all’alfabeto morse
oppure alla mia vecchia Olivetti 22 e solo
negli ultimi anni avevo iniziato a usare
quell’aggeggio infernale chiamato computer, che fuori dal perimetro della nostra
redazione interagisce con tutto il mondo.
Vista la mia imbranataggine, chiedo alla
ragazza di comporre il numero. Lei mi
riconsegna l’apparecchio mentre sta già
squillando e dall’altro capo della linea
si materializza la voce di mia figlia, che
incredula pensa sia uno scherzo, non riesce a credere che io la chiami da fuori,
con un telefonino. Sempre quell’anima
gentile di Elisa mi trova un numero di
telefono per mettermi in contatto con la
responsabile della comunità, per non arrivare all’improvviso e anche per capire
le modalità di arrivo: erano pur sempre
cinque anni che non oltrepassavo quella
sbarra da solo, senza scorta, in compagnia
di tutte le mie valige e valigette. L’attesa
di qualcuno che mi accompagnasse alla
stazione è stata snervante, interrotta per
una frazione di minuti da una macchina
blu con dentro il nuovo direttore, Massimo Parisi, che si ferma e mi saluta con
cordialità, ricordandosi del mio cogno24
carteBollate
me: «Vede signor Spera che le ho portato
fortuna!». Vedendomi con tutto quel bagaglio avrà pensato che ritornassi a casa
dai miei cari definitivamente, non sapendo che stavo entrando in un nuovo ruolo,
quello di corrispondente di carteBollate
dalla comunità a cui ero destinato.
Il primo argomento su cui si potrebbe
aprire una discussione è il rancio, che
bisogna per forza e per spirito di comunità accettare, diciamo che qui o si mangia o si salta dalla finestra – le finestre
della comunità non hanno le sbarre - di
conseguenza, non resta che mangiare,
mangiare e mangiare, nel mio caso, in
bianco, bianco, bianco, con la sfortuna
che non mangio carne. Non riesco a capire perché in questa comunità si debba
mangiare tutto congelato, quando alcuni
prodotti si potrebbero ricevere direttamente dai contadini, biologici, senza
conservanti, buonissimi. Siamo alle solite: prima viene il business. Del resto, in
Qui
o si mangia
o si salta
dalla finestra
questi ambienti totalizzanti, può essere
il carcere o in questo caso la comunità,
vige questa regola: servirsi dai colossi del
catering per le agevolazioni offerte nei
pagamenti e non certo per la qualità dei
loro piatti preconfezionati. Ma è giusto
che anche in questi paesi non si possa
acquistare direttamente dal produttore,
iniziando un po’ il discorso sull’acquisto a
chilometro zero, così da spendere meno
e mangiare meglio?
In questa sorta di carcere, con tutti i suoi
privilegi ma pur sempre con mura di cinta, si è a contatto con la realtà esterna, a
due passi da una grande chiesa – con le
sue campane moleste – e dalla gente che
passeggia, ma non si può uscire dal recinto delle mura e delle telecamere che
controllano tutti i movimenti per tutto il
perimetro della comunità, in ogni angolo.
In compenso si sente lo sciacquìo di un
fiume e il trenino del Bernina con il suo
fischio incessante, come nelle mitiche
praterie del West.
Voglio condividere le mie prime impressioni da “corrispondente” in questo
spicchio di terra al fronte con tutti voi,
amici, redattori, sportellisti e lettori, che
senza dubbio mi mancate, senza fare
della retorica spicciola, mi mancate per
tutto quello che abbiamo fatto insieme
e per l’affetto che ci lega. Però la prima
battaglia, quella del rancio, incombe e va
portata avanti con intelligenza, con chi
gestisce questa comunità di sofferenti che al suo interno comprende un po’
tutto, dai malati mentali ai sieropositivi
ai profughi dalla Libia, per questo penso di trovarmi nel posto che fa per me,
dove c’è tanto bisogno di volontariato e
di attenzione verso questa fascia sempre
bistrattata.
La nostra giornata tipo? Come tutti i
giorni, la mattina sveglia alle sette e venti per la colazione; subito dopo partenza della prima furgonata per il Sert, per
soddisfare il fabbisogno giornaliero degli
utenti – metadone e pastiglie varie, da ripartire con tutti gli altri – e al ritorno iniziano i turni di pulizie, di piani e docce,
in genere due volte alla settimana, per
poi aspettare che si facciano le 12,30 per
andare tutti in refettorio a mangiare. Da
questo momento tutti i telefoni devono
essere spenti. Finito di mangiare, la maggior parte degli utenti si reca al piano di
sopra, in fila, aspettando la terapia, che
avviene sempre dopo mangiato, anche la
sera. Qualche volta, durante la settimana, si fa il karaoke e tutti o quasi si prodigano a cantare: veramente i risultati non
sempre rispettano le aspettative, però è
uno dei pochi momenti di aggregazione,
insieme al refettorio. E poi la maggior
parte della giornata si passa in stanza o
in sala tv. Questo è quanto, miei lettori.
Il soggiorno è corroborato dalle uscite,
due volte la settimana, per un’ora e mezza, ma solo per chi in genere ha già fatto
due o tre mesi di permanenza, come da
“regola”; ogni tanto un gruppo, scelto
dagli operatori, di solito sempre quelli
che non hanno contatti con le famiglia,
va in gita nei paraggi, fa un’escursione in
montagna o nel parco di Sondrio.
Per ora vi lascio con il mio nuovo motto:
resistere, resistere, resistere. In questo
spicchio di frontiera.
Nino Spera
poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia ✍ poesia
LIBIA
La tua storia è stata,
è finita
ricca di conquiste, piena
combattente feroce
tiranno apprezzato e detestato
amato stimato e venerato.
Padre di mille figli
ricco di donne e amanti
e fedeli combattenti,
per un attimo hai piegato il mondo.
Dominavi il cielo, il mare e il deserto
sei finito nella polvere
colpevole di aver lottato
per la patria,
alcuni piangeranno altri gioiranno
comunque hai vinto lo stesso
rimarrai nella storia.
Antonio Ruggeri
IL MARE
Vago è il ricordo del mio primo mare
scuro tempestoso quasi da odiare
le onde s’infrangevano con fragore
e il timore era del cuore.
Ho visto per la prima volta
il mare di primavera
con la sabbia negli occhi
poi un nuovo cielo.
Vedevo ombre nel tiepido mare,
accarezzavo l’acqua mia amica
si faceva toccare
era lo specchio dove
mi potevo guardare.
Giovanni Rizzuti
DONNA – BAMBINA
Musa
È un gran pittore
che ti dedica un quadro
musiche e canzoni
e qualche mio pensiero vagante
Musa
nome di donna
invisibile come l’anima
frutto di quell’albero
immaginario che vive l’essere.
Non ti vedo ma ci sei.
Giuseppe Bottone
STAGIONE NERA
FUORI DAL MONDO
Cosa posso dirti
figlio mio,
che il mio cielo è grigio
il mio viaggio fu così
drammaticamente peggio,
il destino del risveglio
Giocavo con i sassi
a scuola
nei cortili dei bassi
Arabo poco saggio.
Mancava un po’ di coraggio
un raggio di sole
per illuminare
il passaggio.
Ho visto
figlio mio,
la vecchia signora
rifatta
mandava caramelle
di bombe,
continua l’esodo
per dividere la torta,
ma la nostra speranza
per un futuro migliore
non è mai morta,
e tu figlio mio
sarai protagonista
a dire basta
a subire distruzioni
e poi ricostruzioni.
Non siamo al laboratorio
delle vostre mistificazioni,
non siamo il vostro mercato
creato su misura
per le vostre convenzioni
inaugurando una nuova stagione
nera
colorata di usura
di paura
ignorando
che dentro ognuno
di noi è nata
l’alba e l’aurora.
Jomaà Bassan
VORREI
Vorrei avere mille braccia
per poterti abbracciare
e mille mani per poterti sollevare
Vorrei avere mille cuori
per raggiungerti e dirti
semplicemente
L’INDIFFERENZA
Quando ti guardo ti volti
Quando ti saluto non mi ascolti
Quando ti sorrido sei indifferente
Mi odi io ti amo
Ma…tu non ti accorgi di niente.
Vorrei amarti in ogni posto
in ogni dove.
-mi manchi –
Iris Alicic
incontravo i compagni
gli amici loro…
ero già nel triangolo d’oro
in fondo alla strada
lontano dal mondo
già fuori dalla vita
e un brandello di speranza tra le dita.
Oggi sono escluso da ciò che vale
e vivo recluso con chi sta male,
sulla mia pelle il disegno delle
tante storie e molta poesia,
spesso disperazione
ma… a volte nostalgia.
Daniele Gravagno
AMORE
L’amore è silenzio
e tu
puoi sentire il cuore che grida
grida al silenzio
fantastico silenzio,
ma stanotte tienimi con te
stringimi forte nel sogno!
Davide Sicilia
SIGNORA ILLUSIONE
E non c’incontreremo più
Io, tra pareti di silenzio a ricordare
Tu, vivace infaticabile farfalla
dalla polvere d’oro,
hai colori di sogno da donare
per ammaliare orizzonti d’amore
per cucire languori di luna.
Sorriderai a chi si nutre di speranza
ti specchierai negli occhi
e porgerai cascate di stelle
e serenate inventate.
E l’aria s’ammanterà di coriandoli
tra scenari di commedia
di cui sei tu l’attrice
che improvvisa fantasie di danze
e tramonti di fuoco.
A me non hai più nulla da donare
non hai più nulla da rubare
e non c’incontreremo più
Signora illusione.
Giovanni Fornari
Jasminka Radulovik
carteBollate
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LA SQUADRA – L’unica formazione di detenuti in un campionato della Figc
Italiani, serbi, albanesi e cileni
con la maglia giallo-nera
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carteBollate
foto di Remi N’diaye
U
n anno fa eravamo un’accozzaglia di persone, dopo qualche
mese c’era un gruppo solido
e unito. Davide, il portiere titolare, analizza così l’ultima stagione
della Seconda Casa Reclusione Bollate.
L’unica squadra di detenuti a giocare in
un campionato della Figc. A Milano e in
tutta Italia. La formazione giallonera ha
chiuso il campionato al secondo posto,
mancando per un soffio la promozione
in Seconda categoria. Decisiva la rocambolesca sconfitta ai play-off incassata contro il Villapizzone, solo quinto
in classifica. Quel giorno, il 22 maggio,
gli avversari erano arrivati con la voglia di espugnare il “fortino” di Bollate,
impresa già riuscita due anni prima.
«Sono venuti qui concentrati e ci hanno
fatto il culo», ammette Nino, il capitano che, analizzando i risultati, spiega:
«Delle volte manchiamo nei momenti
decisivi». Parole dure, appassionate, da
vero leader. È sulle sue spalle e su quelle di mister Nazzareno Prenna, il Ciccio Graziani marchigiano, che si poggia
questa squadra. Una vera e propria internazionale del calcio, che non ha nulla da invidiare all’Inter: italiani, serbi,
cileni, un chiassoso capannello di albanesi e un centrale con la stessa postura
e lineamenti di Piquet, il difensore del
grande Barca. «Ma non c’ha Shakira»,
lo beffeggiano i compagni.
Sono ormai nove anni, dal lontano 2003,
che il campo della struttura penitenziaria risuona alle grida di Nazzareno,
per tutti Naza, professore di educazione fisica nelle scuole medie di Limbiate.
Non è facile tenere il gruppo amalgamato. «Qui ciò che conta più di tutto è
mediare, sempre e comunque», spiega
il mister mentre, seduto al bar del penitenziario ripercorre questa straordinaria avventura sportiva. Tra i tavolini
è un continuo andirivieni di poliziotti e
addetti ai lavori: tutte e tutti fanno un
cenno di saluto a Naza. È lui il tramite tra direzione, polizia penitenziaria
e detenuti-calciatori. Ma non è sempre
facile, specie quando ci sono nuovi arrivi: tutti smaniano per scendere in campo. È allora che cominciano i malumori.
Qualcuno avrebbe proposto al mister di
far partecipare ai due-tre allenamenti
settimanali solo la rosa che gioca nel
campionato. Ma il senso della squadra
è un altro: la Seconda Cr Bollate è soprattutto un’evasione di pensiero, fatta
di corsa e sudore, a cui tutti, prima o
dopo, hanno la possibilità di prendere
parte. «Tante volte capita di mettere in
campo giocatori che non lo sono mai
stati – racconta ancora Nazzareno – ma
come faccio a dirgli “tu stai fuori?”. I
cinque minuti non li nego a nessuno».
Chiunque, insomma, ha l’opportunità d’indossare la maglia giallonera
con stampata la scritta CarteBollate,
il periodico della casa di reclusione.
«Per la selezione organizzo ogni anno
un torneo tra reparti». Il trofeo, molto
seguito e sentito all’interno del carcere, è stato l’atto conclusivo dell’ultima
stagione, prima della pausa estiva. Non
sono mancate le premiazioni con tanto
di coppe disposte lungo il muretto che
circonda il campo. Vincitori i giocatoridetenuti del secondo reparto, quello
con la media d’età più bassa dell’intera
struttura penitenziaria. «Oltre che con
gli altri, qui si fanno i conti con gli anni
che passano», spiega Nazzareno. Il tempo che corre è l’immagine di un ragazzo
del Secondo che ti brucia nello scatto. E
allora l’allenatore da mister diventa psicologo: «Sul campo ti rendi conto che
stai invecchiando e che spesso quegli
anni li hai passati qua dentro».
Tecnica e tattica, in una squadra che
può essere decimata da un indulto
(come successo nell’estate 2006, dopo
l’unica promozione dalla Terza categoria), passano in secondo piano. Delle
volte è più importante una spalla a cui
appoggiarsi. Sia essa di un compagno
di maglia o dell’allenatore. Le partite in
trasferta, in particolare, sono un’esperienza forte, spiazzante. Uscire, salire
sulle camionette blindate, vedere un
campo nuovo, può destabilizzare. Specie se tra il pubblico non si vedono i famigliari che aspettavi. «Una volta uno
dei miei ragazzi non ha visto la famiglia
in tribuna e si è innervosito, ho dovuto prenderlo da parte e rassicurarlo»,
spiega il mister Naza. Altra questione
fondamentale nelle uscite è quella dei
permessi: se il campo di Bollate è considerato dalle altre squadre un “fortino” inespugnabile, in trasferta entrano
in gioco i regolamenti carcerari. Non
sempre, infatti, i magistrati autorizzano i detenuti a uscire per la partita. E
questo si ripercuote anche nei risultati.
«Tre anni fa, si era ovviato al problema
permessi, facendo giocare in esterna gli
agenti della polizia penitenziaria», spiega Nazzareno e indica una foto ricordo
Sport
di quella stagione appesa al muro del
bar del carcere. Nell’ultimo campionato
i poliziotti hanno giocato nella Fiamme
Sportive Bollate, squadra iscritta nello
stesso girone della Seconda Cr. Un derby che ha visto, sia all’andata che al ritorno, i detenuti uscire vincitori. E che,
purtroppo, non sarà disputato nella stagione che sta per cominciare: i giocatori
della polizia penitenziaria hanno scelto
di prendersi un anno sabbatico.
Tra i detenuti, invece, l’attesa si fa pressante. «L’entusiasmo non manca, ma
è sempre difficile fare un pronostico
sui risultati», Nazzareno è cauto dopo
i primi allenamenti. La preparazione è
iniziata nell’ultima settimana di agosto. Quest’anno, per la prima volta nella
sua storia, la Seconda Cr Bollate parteciperà alla Coppa Lombardia. Girone
di qualificazione a tre contro Seguro e
Dindelli. Fischio d’inizio l’11 settembre.
Mentre per il campionato, Capitan Nino,
Davide, il bomber Alessandro, Zoran e
tutti gli altri gialloneri dovranno aspettare l’ultimo weekend di settembre.
Davide Lessi
Edoardo Malvenuti
CALCIO – Una vittoria in casa e un pareggio fuori casa
La stagione inizia alla grande
D
opo avere ottenuto una bella
vittoria in casa e un pareggio
fuori casa, con conseguente
passaggio di turno in “Coppa Lombardia”, i presupposti per un
bell’inizio di campionato ci sono tutti.
Il venticinque settembre giochiamo in
casa la prima partita di campionato di
terza categoria contro i ragazzi dell’Ausonia: passiamo in vantaggio nel primo
tempo che finisce sul risultato di 1-0,
ma nel secondo tempo subiamo un rigore e, nel finale, l’Ausonia segna il goal
che sancisce la nostra sconfitta, fissando il risultato finale sul 2-1.
La delusione dei ragazzi è evidente,
visto che nella stagione precedente il
Bollate era stata la squadra che, in casa,
non subiva sconfitte, e questo passo falso di inizio campionato mette il gruppo
un po’ in ansia.
La domenica successiva andiamo a giocare a Sesto San Giovanni contro il San
Giorgio: lì, purtroppo, il vero protagonista dell’incontro si rivela l’arbitro, che
convalida ai nostri avversari due gol,
entrambi segnati in netta posizione di
fuorigioco. E’ così che i nostri ragazzi
iniziano a innervosirsi, con il risultato
che l’arbitro ne espelle tre nel giro di
cinque minuti.
La squadra rimane così con otto giocatori in campo a terminare la partita e
il risultato finale è di 3-1 per i padroni
di casa. Il nove ottobre giochiamo in
casa contro la Limbiatese e la squadra
avversaria è molto ben organizzata in
campo e nel primo quarto d’ora di gioco segna ben due volte. A questo punto
l’arbitro si mette in evidenza espellendo due giocatori avversari per eccessive proteste, ma nonostante il vantaggio
numerico, il Bollate fatica ad imporre il
proprio gioco e, nel finale riesce a malapena a raggiungere il pareggio, fissando
il risultato sul 2-2. I settimana, ci comunicano che la partita contro la Libiatese
ci viene riconosciuta vinta a tavolino,
con la conseguente assegnazione di
tre punti, poiché i giocatori avversari
non sono risultati regolarmente tesserati. Il sedici ottobre giochiamo ancora
a Sesto San Giovanni contro l’Atletico
Dominante: la partita si mette subito
bene per noi, e la squadra segna ben
due gol nei primi dieci minuti di gioco.
Ma, ancora una volta, l’arbitro comincia a fischiare insistentemente a nostro
sfavore e assegna prima un rigore inesistente ai nostri avversari e poi concede loro un goal segnato in netto fuorigioco. Il risultato, alla fine del primo
tempo, è di 2-2. Nella ripresa, ancora
una volta, l’arbitro convalida un goal in
evidente fuorigioco ai nostri avversari.
I nervi dei giocatori saltano e il gioco
viene continuamente interrotto dai reclami verso l’arbitro che, non contento,
nei minuti finali assegna una punizione
dentro l’area del Bollate, con la quale
l’Atletico Dominante fissa il risultato
finale sul 4-2.
Ci ritroviamo, dopo quattro giornate di
campionato, con soli tre punti in classifica, cosa molto strana per il potenziale
dell’organico della nostra squadra. Ma
la speranza è che i ragazzi di Nazareno
sapranno reagire nel modo migliore:
nonostante le decisioni sbagliate dei direttori di gara, l’importante è imparare a
non perdere mai la fiducia in se stessi e
il controllo delle proprie azioni. Questo
è forse il modo migliore per non sprecare tutto il lavoro fatto insieme e per non
tradire la fiducia che il nostro allenatore
ha in noi e nel nostro futuro.
Rosario Mascari
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Dove ti porterei
NEL SANNIO – Qui anche i romani furono sconfitti
Il fascino di una terra stregata
V
i porterò nel Sannio, in Campania, oggi prevalentemente
provincia di Benevento.
Il modo più pratico e veloce
per arrivarci è attraverso la strada più
antica, l’Appia.
Partendo da Napoli o da Caserta ci s’incammina seguendo i cartelli per Benevento. Dalla pianura Calatia, presso
Maddaloni, s’inizia a salire e a intravedere il bel paesaggio collinare; nonostante le devastazioni delle vaste aree
verdi, il paesaggio a un certo punto
diventa rigoglioso. Si passa attraverso
le colline e, all’altezza di Forchia, da
Forche, ci s’imbatte in un cartello dove
c’è scritto: “Qui i romani furono sconfitti nel 321 a.C. dal fiero popolo Sannita nella famosa battaglia delle Forche
Caudine”.
Sarà anche per questo che i Sanniti
ancora oggi sono fieri, orgogliosi e battaglieri, e in particolar modo i Sanniti
Caudini.
I Romani furono anche umiliati e costretti, in segno di sottomissione, a passare sotto un giogo di lance.
I Sanniti erano un popolo in espansione, la cui potenza ai tempi della battaglia era pari a quella di Roma. Mentre i
romani si rafforzavano per via militare,
essi lo facevano associandosi con altre
popolazioni, in modo principalmente
pacifico. I romani però, dopo alcuni decenni di sconfitte, ebbero infine la meglio e poterono così proseguire la loro
espansione.
Alla fine della salita ci si addentra nella
Valle Caudina, che prende il nome dalla città principale dell’epoca, Caudium,
ora Montesarchio. La valle è situata tra
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carteBollate
il massiccio del Taburno e la catena del
Partenio ed era un punto strategico per
controllare tutto il Sannio e la via di
transito che portava fino in Puglia.
Durante il viaggio potrete notare lungo
la strada diversi castelli e torri medievali posti sulla sommità delle colline.
La particolare collocazione consentiva
loro di trasmettersi facilmente segnali
e avvisarsi dei pericoli o di nemici in
avvistamento dalla pianura Calatia al
Sannio, fino alla bassa Irpinia, in provincia di Avellino.
In alcuni paesi il castello è ancora abitato: a San Martino Valle Caudina vivono i
discendenti del casato dei duchi Pignatelli della Leonessa, ma oggi il titolo è
quasi dimenticato e il duca lo chiamano
semplicemente Gianni.
I Sanniti hanno radici anarchiche e battagliere e fecero valere i propri diritti
contro i potenti non solo in epoca romana, ma anche in quella feudale: il Sannio fu spesso centro di scontri e assedi
e, più recentemente, terra di briganti e
“brigantesse”.
Benevento, centro del Sannio, si chiamava in origine Maleventum, ma il
nome fu cambiato nel 268 a.C per celebrare la vittoria romana su Pirro, re
dell’Epiro. La sua fondazione risale a
tempi remoti. Una leggenda narra che
Benevento debba le sue origini all’eroe
greco Diomede, sbarcato in Italia dopo
la distruzione e l’incendio di Troia, e
questa città secondo Procopio di Cesarea avrebbe ospitato anche l’incontro
tra Diomede ed Enea. Una moneta del
IV secolo avvalorerebbe la tesi dell’origine greca. L’importanza della città si
deve anche alla via Traiana che par-
La ricetta
Dolce
come il migliaccio
La gastronomia offre svariati prodotti,
semplici e genuini: formaggi, salumi,
sottolio. Nei boschi ci sono le nocciole e castagne e profumatissimi funghi
porcini unici per il loro colore scuro. Ci
sono diversi agriturismi, dove si possono
gustare i prodotti locali a prezzi modici.
Cucina mediterranea, piatti semplici e
genuini senza troppi fronzoli, si bada più
alla qualità che all’apparenza.
La cucina tradizionale del luogo offre
piatti molto tipici, ve ne segnalo alcuni
molto caratteristici.
Tra i primi piatti: fusilli al ragù o al tegamino, cicatielli (cavatelli), minestra maritata (verdura selvatica cotta con carne
di maiale), lagane e ceci.
Tra i secondi: mignatielli (interiora di
agnello con salumi e aromi, arrotolato
con intestino di agnello), frittulillo (interiora di agnello), la panzera con i piselli o
al sugo (tasca di agnello ripiena di ricotta
e verdura).
I contorni: la parmigiana di melanzane
(versione tipica), verdure selvatiche di
ogni tipo (cicoria, cardilli, tallucci) saltate in padella, lessate con olio e limone
oppure crude. Il vino fa la parte migliore,
è vino per intenditori, dal rosso al bianco
c’è l’imbarazzo della scelta. I rossi come:
l’Aglianico, il Taurasi (secondo solo al
Brunello) e i bianchi: la Falanghina, il
Fiano e il Greco di Tufo (tenuto in riserve particolari anche per le richieste della
regina d’Inghilterra).
I dolci: il migliaccio, le zeppole (bianche
o con uova, con patate o senza), torta di
riso, di ricotta, o di salumi e formaggi.
Ecco la ricetta per il migliaccio:
tiva dall’arco di Traiano fatto costruire dall’imperatore. Subì l’invasione di
Visigoti, Vandali, Goti, Ostrogoti e dai
Longobardi che vi rimasero per 8 secoli, ed è legata a loro la leggenda che ha
riversato su Benevento la fama di “città
delle streghe”. Nel conoscere le donne
sannite potreste notare un luccichio
strano nei loro occhi, un qualcosa di
magico e di enigmatico ereditato dalle
famose streghe.
È errato chiamarle semplicemente streghe, esse si chiamavano janare, un
termine che deriva probabilmente dal
nome dato alle praticanti del culto della
dea Diana (dianare, è mutato nel dialetto in janare).
Le janare si radunavano a Benevento,
dove s’incontrano i due fiumi che attraversano la città, il Sabato e il Calore.
Sotto un noce (la Ripa delle janare),
si facevano i famosi e famigerati sabba.
C’è qualcuno che ricorda l’inizio di un
rituale ancora usato per togliere i ma-
Ingredienti:
125 gr. di semolino di grano duro
1 litro di latte
50 gr. di burro
250 di zucchero
un pizzico di sale
300 gr. di ricotta
6 uova
2 bustine di vanillina
Bucce di limone e di arancia.
Preparazione :
Cuocere il semolino versando in una
casseruola il latte con il burro, 100 gr. di
zucchero e un pizzico di sale, aspettare
che il latte giunga a bollore, poi a fiamma
bassa (o togliendo la pentola dal fuoco)
versare a pioggia il semolino, rimestando di continuo con un cucchiaio di legno,
facendo attenzione che non si formino
grumi, quando ricomincia a bollire e la
densità è consistente, spegnere e lasciarlo raffreddare (si consiglia di prepararlo
molto prima).
In una terrina passare col passaverdura
la ricotta, aggiungere le uova, la vanillina, la buccia grattugiata del limone e
dell’arancia (q.b.), girare con una frusta
(anche elettrica), aggiungere alla fine il
semolino passato col passaverdura e continuare a girare. Versare in una teglia
precedentemente imburrata e infarinata
o semplicemente rivestita con carta da
forno (un trucco per far aderire bene la
carta forno? Bagnatela e strizzatela!).
Si possono tranquillamente aumentare
o diminuire degli ingredienti, come lo
zucchero o gli aromi (secondo i gusti e
problemi…). E’ importante che il composto sia abbastanza fluido e che contenga
almeno gli ingredienti principali. Altrimenti avete fatto un altro dolce!
locchi che recita così: “sott’ a lun’ e sott’
o vient sott’ o noc e Benevient’….”. Si
dice che a questi incontri venissero le
streghe di tutta Europa. Le janare non
erano cattive, ma piuttosto dispettose,
nelle notti di plenilunio potevano volare dopo essersi cosparse di uno speciale
unguento e passavano sotto le porte per
castigare le persone cattive o antipatiche, tirando loro i capelli, i piedi, o nei
casi peggiori, graffiandole. La leggenda
inoltre narra della donna gatto, la regina
delle streghe, il suo nome era Chicchera
(cresta di gallo). Ferita a una zampa con
un coltello, mentre sotto forma di gatto
faceva malefici, fu riconosciuta quando
riprendendo forma umana aveva ancora
il coltello nella coscia.
Camminando per i paesini lungo la
strada, si possono notare delle scope girate sottosopra, appoggiate davanti alle
porte, non sono lì per caso e neppure
sono state messe ad asciugare: servono
a tenere lontane le janare. Le streghe
infatti sono curiose e non resistano alla
tentazione di contarne i fili, ma così facendo giunge l’alba e non riescono più
ad entrare nelle case. L’ultima janare
bruciata a Benevento come allora capitava alle streghe sembra si chiamasse
Matteuccia. Presso l’archivio della Curia Arcivescovile di Benevento furono
ritrovati dei resti di atti processuali che
hanno determinato l’uccisione di più di
200 streghe arse vive, ma furono bruciati prima dell’arrivo dei garibaldini
per evitare una eventuale propaganda
anticlericale. Sono state fatte diverse
ricerche sulle streghe di Benevento,
menzionate da illustri scrittori e rappresentate in famose opere teatrali.
L’uccisione di tante donne ritenute streghe nel Sannio fa sorgere il dubbio che
esse dovevano essere diverse, di solito
capaci di curare e fabbricare medicine
con le erbe, forse poco sottomesse o non
disponibili a facili compromessi, oppure
dimostravano di essere intelligenti e capaci, cosa poco gradita agli uomini del
tempo, e a qualcuno anche di oggi.
C’è qualcuno che dice di vedere ogni
tanto Matteuccia aggirarsi laddove il
Sabato e il Calore si uniscono e formano
dei turbinosi mulinelli, sotto il noce sradicato diverse volte ma sempre stranamente rinato. Le persecuzioni finiscono
nel 1749, ma la fama di Benevento resta.
La gente del posto non parla volentieri
delle sue streghe, anzi solo a sentir dire
“janare” si fanno il segno della croce.
Nel paesaggio non si può non notare il
massiccio del Taburno (alto m. 1.394):
è tra i più alti della Campania, chiamato “la dormiente” per la sua forma che
ricorda una donna distesa. Nella valle e
sui monti vi sono ricche sorgenti d’acqua, ma non si direbbe vista la scarsa
quantità che l’acquedotto fornisce alle
abitazioni, provocando disagi notevoli
nel periodo estivo.
Andando verso la valle Telesina, famosa
per le sue acque termali curative, Terme di Telese, si possono vedere le rare
sorgenti d’acqua effervescente naturale,
che incuriosiscono molti per le caratteristiche bollicine che si formano sul fondo,
sui sassi e su tutta la vegetazione circostante a contatto con l’acqua.
nella pagina
a fianco:
il massiccio
del taburno
e sant’agata
dei goti.
a sinistra:
l’arco trionfale
di traiano.
carteBollate
29

Dove ti porterei
continua da pagina 29
parte, verso la catena del
 Dall’altra
Partenio, ci sono posti rinomati per le
sorgenti di acque oligominerali come
Mafariello, zona molto frequentata dal
turismo locale che spesso fa provviste di
quest’acqua più leggera e meno inquinata. Lo spazio è attrezzato con barbecue,
tavoli, panche e si possono fare lunghe
passeggiate sui sentieri segnalati dalla
Comunità Montana e soste rilassanti
presso la fonte. Gli amanti del trekking
possono percorrere il sentiero Europa,
agevole e molto piacevole, il paesaggio
cambia spesso, da alberi di castagni a
conifere, faggeti, aceri, querce. Passando
da “’O trav ’o fuoc’” (la trave del fuoco)
si sale e si arriva all’Acqua Fredda, nome
dovuto ovviamente alla sorgente di acqua ghiacciata, dove un fantastico pianoro vi premia dalla fatica fatta per arrivarci. Lì potrete vedere cavalli e mucche
allo stato brado, gli allevatori li portano
in primavera per andarseli a riprendere
a fine estate, fragoline, lamponi, more
e fiori di zafferano colorano la pianura
che si estende a perdita d’occhio. Affacciandovi dall’alto, ai limiti della pianura,
potrete ammirare il Vesuvio e il golfo di
Napoli, una visione mozzafiato garantita. Scendendo a valle noterete le selve
di castagneti ben curati, per avere un’ottima raccolta di castagne in autunno.
Purtroppo potreste vedere anche aeree
trascurate lungo il percorso, nonostante
gli impegni per migliorare la situazione.
Pare che l’amministrazione locale stia
30
carteBollate
Sopra: il noce secolare nei pressi
di Benevento.
Sotto: la dormiente del Sannio
al tramonto.
cercando di conferire alle persone che
usufruiscono di sussidi l’incarico per la
manutenzione del verde e la sistemazione delle zone più degradate nel paese e
di tutto il territorio. Iniziativa degna di
lode, che potrebbe dare un’immagine
del Sud che fa da sé, nonostante le poche
risorse, nel piccolo paesello come nelle
grandi città.
Il Sannio moderno presenta grandi
possibilità di sviluppo, legate all’opzione turistica, grazie ad ambienti ancora
incontaminati e con notevoli esempi di
architettura e di arte di diverse epoche
storiche.
Gli stupendi centri storici, come quello
di Sant’Agata de’ Goti o Cerreto Sannita, Cusano Mutri e Morcone. Del passato glorioso testimoniano le mura di
Telesia, il castello di Montesarchio e i
resti di Caudium, le Terme di Telese e
le sorgenti del Grassano, il parco geopaleontologico di Petraroja (dove venne ritrovato “Ciro, il primo dinosauro
scoperto in Italia). Sono tutte risorse di
straordinario pregio e valore.
Alle streghe del Sannio è stato dedicato
famoso liquore, lo “ Strega”, con il primo
sorso ti affascino, col secondo ti strego,
diceva la sua pubblicità. La stessa cosa si
potrebbe dire di questa terra: nonostante la triste realtà di questi posti (disoccupazione, delinquenza e scarsa cura
per l’ambiente) ve ne potreste facilmente innamorare.
Caterina Mista
In breve
FUORI TUTTI
Una domenica particolare
U
na giornata fuori dal carcere, nel parco di villa Burba a
Rho, per far conoscere ai cittadini come si lavora nella
casa di reclusione di Bollate, cosa si produce con tessuti e
materiali riciclati in laboratorio, gli abiti che si confezionano
presso la sartoria Alice, le piante del vivaio di Cascina Bollate e il nostro giornale, carteBollate.
E’ successo domenica 16 ottobre, con una ventina di detenuti che per qualche ora hanno partecipato alla manifestazione Fuori tutti. Sono state esposte opere creative
di ogni genere: dalle collane, alle borse; dalle cinture alle
magliette e tutti quei lavori fatti dalle detenute. Enzina del
laboratorio artigianale dice: «Abbiamo subito accettato con
entusiasmo di partecipare a questa manifestazione perché
crediamo importante far conoscere a tutti i cittadini ciò
che viene creato e prodotto a Bollate. Non solo semplici
manufatti ma opere creative che aiutano ad attraversare in
modo più sereno il periodo di reclusione, aggiungendo a
Fuori tutti la parola “insieme”».
Per Silvana Nini, del laboratorio del feltro «è molto bella l’idea
di questa manifestazione, potrebbe essere organizzata più
volte l’anno, in modo da avere degli appuntamenti fissi. È bello poter incontrare esperienze diverse. Io sono venuta qua
perché invitata da un’amica che lavora nel carcere di Bollate e
mi ha raccontato del bellissimo lavoro fatto con le donne».
Claudia Maddaloni
GRAFFITI
Il cielo in una stanza approda a San Vittore
opo la conclusione positiva del progetto Il cielo in una stanza al terzo
piano del femminile di Bollate, progetto
che ricordiamo essere stato finanziato
da Fondazione Cattolica Assicurazioni,
Fondazione Comunitaria Nord Milano e
con il contributo ed il sostegno tecnico di
Akzo Nobel/Sikkens il progetto ha preso
il “volo” ed è stato proposto anche a San
Vittore.Il lavoro svolto con le donne di
Bollate è stato di grande impatto ed interesse oltre ad aver reso il luogo della
detenzione più accogliente e condiviso
tanto che è stato preso in considerazione
quale metodo da replicare anche in altri
istituti.La direttrice di San Vittore, la dottoressa Manzelli, insieme alla sua equipe
di educatori ha accolto e condiviso il pro-
foto di Remi N’diaye
D
getto proponendolo al gruppo dei ragazzi
più giovani. Nel mese di settembre è stato realizzato uno splendido murale negli
spazi esterni dell’ora d’aria. Certissime
che il progetto possa continuare a esistere e portare in altri istituti la bellezza del
colore e la sua grande forza espressiva
TEATRO
Recita che ti passa!
I
l 30 settembre ha debuttato uno spettacolo teatrale fuoricartellone: poesie e scritti letti e recitati dai partecipanti
al gruppo lettura del primo reparto, composto da detenuti e
volontari. Il giovane regista Massimo Magni, anche lui detenuto, ha saputo coordinare i vari brani: commovente il racconto
di un ergastolano, Antonio Musumeci, che ha parlato del suo
percorso nella vita carceraria, pieno di domande senza risposta. Al traguardo abbraccerà solo morte mentre gli altri dopo
il loro percorso riabbracceranno la libertà: “Respiro, dormo,
bevo, sogno, insomma vivo, ma sarebbe meglio dire che muoio vivendo, dato che, mentre gli altri detenuti vivono per la
libertà, gli ergastolani vivono solo per morire”.
Gli aspiranti attori sono stati magnifici e hanno interpretato
con grande professionalità il loro personaggio, malgrado le
difficoltà linguistiche e la sfida emotiva per chi, per la prima
volta, affrontava un palcoscenico (per quanto familiare come
cogliamo l’occasione per ringraziare tutti
quelli che hanno creduto e sostenuto il
progetto primi fra tutti la cooperativa Articolo Tre. Prossimi passi? Innanzitutto
continuare il progetto a Bollate operando nel secondo piano del femminile e poi
esportare, esportare, esportare!
è quello della sala cinema). Soprattutto i detenuti stranieri
sono riusciti a trasmettere bei sentimenti che hanno emozionato tutti i presenti.
Lo spettacolo ha trattato diverse tematiche come il razzismo,
l’integrazione, le storie di vita dei detenuti, il rispetto e l’importanza del dialogo come un forte canale di comunicazione
fra tutte le diverse componenti sociali.
I detenuti hanno dato una prova della loro volontàdi vivere in
modo umano pur essendo reclusi dietro le sbarre. Hanno dato
vita a un progetto costruttivo, rendendo la detenzione meno
amara e più vitale non solo per se stessi, ma anche per i loro
compagni che hanno partecipato allo spettacolo, seduti dalla
parte del pubblico. Un pubblico che rifletteva bene la composizione della popolazione carceraria, composta da persone
cche provengono da mezzo mondo, diverse per religione, cultura, lingua, storia e mentalità. Differenze che spesso possono
provocare incomprensioni, intolleranza e divisioni, che solo
le arti nobili come la lettura, il teatro, la pittura e la musica
riescono a ricucire.
Mohamed Lamaani
carteBollate
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