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ossidano gli ardegni che si adattano agli animali onde tirare la
Le controversie tra l'Università di San Vito e l'ex feudatario
ossidano gli ardegni che si adattano agli animali onde tirare la macina sono vecchi inservibili e quindi inutili.
Testimoni: dottor fisico Giovambattista Del Verme — Valentino Ruggiero
Giuseppe Giovanni Carella sindaco» 9 .
I molini erano stati ceduti al barone Ottavio Serra con atto notarile dell'Il
dicembre 1636 per la somma di 400 ducati. L'Università di San Vito era stata
costretta a cederli perché era debitrice di quella somma verso il barone.
Altra controversia da risolvere era quella relativa dell'utilizzo da parte dell'ex barone dell'acque delle fogge per innaffiare il suo giardino.
Raffaele Conserva, Giudice di pace di Martina, insieme ai due testimoni
Giambattista del Verme e Valentino Ruggiero si recavano «nelle foggie pubbliche site fuori l'abbitato, onde far eseguire il Capo IX della Decisione della Suprema Commissione Feudale del 26 maggio 1809 tra la Comune di S. Vito e
l'ex barone del luogo.
Quivi in un largo vi sono due grandi foggie del Pubblico, in una si son veduti i segni e le vestigia di un canale. Che da quella portava l'acqua nel vicino
giardino dell'ex barone. E come la mancanza del canale compariva di fresco,
così siamo stati assicurati di essersi tolto ieri otto agosto dell'andante dal muratore Michele Lo Re, detto Cuzzo, di questa Comune. Fatto lo stesso chiamare sul luogo dell'accesso, ha confessato che l'aggente dell'ex barone Sig. Giuseppe Magno sin da sabato prossimo scorso li aveva ordinato di levare quel canale. Egli non avendo avuto tempo di farlo lo praticò ieri, e ne ha trasportato altrove le pietre che lo componevano.
A questo modo vedendo che da se l'ex barone aveva cominciato ad eseguire la citata decisione pria del nostro accesso sul luogo, ci siamo limitati ad ordinare a voce a questo Signor Sindaco Giuseppe Giovanni Carella di far mantenere le foggie colle sue adiacenze come si trovano, cioè senza canale, e senz'altro comodo di deviare da quelle le acque nel giardino ex baronale. Contemporaneamente s'è ancora ordinato a Michele Marangillo giardiniero del vicino
orto ex baronale di non ardire da oggi innanzi di eriggere il tolto canale, né deviare le acque da quelle foggie e conserve pubbliche nell'orto medesimo o in
altro luogo» 10 .
Altra controversia riguardava il possesso del locale dove era sistemata la
torre dell'orologio dell'Università, della quale si era occupata la Suprema Commissione Feudale nel Capo 8° delle Decisioni del 26 maggio 1809.
Stando a quanto scrive lo storico locale Franklin Nardellill, l'orologio sareb-
Ibidem, ff 16 r. ss.
10 Ibidem, ff 18 r.- 18 v.
F. NARDELLI, Storia di San Vito degli Schiavoni, Tip. E. Vergine, San Vito dei Normanni s.d., pp. 78-79.
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be stato impiantato nel 1648 ed era stato costruito da un meccanico del luogo. Sarebbe stato sistemato su una torretta con merli nella nuova piazza, di fronte alla
chiesa di S. Maria della Pietà ed era attaccata per due lati alla terrazza del Palazzo Baronale. Era stata costruita a proprie spese dall'Università, ma per manovrare
le corde dei contrappesi, l'incaricato del Comune doveva accedere da una bottega
di proprietà del Barone, a cui l'Università pagava un fitto annuo di 15 carlini.
Della questione si dovette occupare il giudice Conserva, che fece redigere il
seguente processo verbale:
«L'anno 1809 il giorno nove Agosto per esecuzione del Capo 8° della Decisione della Suprema Commissione Feudale del 26 maggio corrente anno 1809
nelle contestazioni tra questa Comune di S. Vito da una parte e l'ex barone della medesima dall'altra, noi Raffaele Conserva giudice di Pace del Circondario
di Martina, Distretto di Mesagne. Provincia di Terra d'Otranto, incaricato dal
Sig. Sotto Intendente del Distretto medesimo, assistito dal nostro Cancelliere di
questa istessa Comune quivi abbiamo fatto chiamare il Sig. Sindaco Giuseppe
Giovanni Carella, l'aggente ex baronale Sig. Giuseppe Magno additarci il luogo ov'era la Torre dell'orologio pubblico, onde reintegrare il primo a nome della Comune nel possesso di quello. Il Sindaco è venuto; l'aggente ha fatto rispondere ch'era incomodato di salute, ed in conseguenza non potea partire di
casa. Ha mandato la chiave di una bottega ove dice ch'era sita la Torre dell'orologio. Il luogo indicato si è convenuto dal Sindaco. Ma per accerto migliore
della verità si sono prese sul luogo le momentanee indagini da persone oneste,
e dabbene del Paese. Sacerdote secolare Sig. Domenico Chionna Cantore e Vicario Curato, Sacerdote secolare Sig. Vito Ruggiero primo Decano, Sacerdote
secolare Giacinto Epifani, Sig. Francesco Albanese dottore in medicina e Sig.
Valentino Ruggiero di condizione civile, proprietario, tutti cittadini e domiciliati in questa Comune di S. Vito: questi hanno assicurato che la bottega enunciata, cioè quella attaccata ne' fianchi dell'altra ove oggi si tiene Corpo di Guardia de' Legionari, ed alla bottega affidata di presente al Mastro sarto Lorenzo
Errico di S. Vito, era il locale della Torre, con sopra l'orologio del pubblico, di
una e giusta e comoda altezza ed aveva l'entrata dell'anzidetta bottega che tiene in fitto il sarto Errico, come tutt'ora si vede la porta nel muro chiusa da fabbrico. All'epoca memorabile per le calamità del Regno 179nove fu la Torre da
rivoltosi aperta nella prospettiva riguardante la Piazza per servirsi del vuoto interno. In tal guisa si mantenne per qualche tempo: l'ex Barone profittando delle circostanze critiche de' tempi, la fé demolire sino al piano de' tetti delle luci
delle di lui botteghe accanto; fece ancora riattare il solo muro della Prospettiva,
ove era stata fatta la violenta apertura e la redusse a bottega come ora si vede
appropriandosi così del luogo e dei muri laterali appartenenti al Comune. E la
macchina dell'orologio l'aggente del Signor Principe Dentice fé trasportare ancora nella casa ex baronale.
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Accertati a questo modo del vero locale ov'era sita la torre abbiamo immerso nel vero, reale e corporale possesso il Sindaco Sig. Carella, consegnandoli la
chiave della bottega mandata dall'aggente Sig. Magno e contemporaneamente
ordinato di avvalersi del suo diritto rifacendo la torre, situare l'orologio ed aprire il primario libero e solito accesso in quella giusta il prescritto nel Corpo 8°
della citata Decisione. Locché terminato, abbiamo steso il presente atto da noi,
dal Cancelliere, dai testimoni, ecc.» 12 .
Per la questione della Torre dell'orologio il Giudice Conserva aveva chiesto
un elenco di muratori «probi e onesti». Lorenzo De Leonardis, aggiunto della
Giustizia del Circondario di S. Vito, presentava questo elenco: Giuseppe Garofalo, Michele Ancora, Michele Lo Re, Giuseppe Errico, Liberato Bruno, Giuseppe Lo Re, Michele Morgese, Emanuele Bruno. Tra questi venivano scelti
Michele Morgese di anni 37 di Martina, Giuseppe Errico di anni 32 di S. Vito
e Michele Ancora di anni 30 di S. Vito, i quali giurarono e attestarono quello
che i testimoni avevano affermato relativamente alla torre dell'orologio.
Questa la sentenza pronunziata dal giudice Conserva.
«Sindaco Giuseppe Giovanni Carella attore. Giuseppe Magno comparente a
mezzo del notaio Vito Antonio Ruggiero.
L'ex Barone chiede una somma dovuta per la demolizione dell'antica torre ed
il pagamento di 15 carlini annui per il passaggio.
Il Giudice Conserva, vista la Decisione della Commissione Suprema Feudale,
vista la dichiarazione dei testimoni, letta la perizia dei muratori che fissano l'altezza in 60 palmi circa senza deturpazione del Palazzo baronale decide
Che il Comune paghi per i molini 400 ducati di capitale e corrisponda le annualità alla ragione del 5%, secondo le decisioni a norma del Capo VI;
che la torre non abbi più dei 60 palmi e abbi il solito primiero accesso contenuto nel Capo VIII, cioè dall'interno della bottega dell'ex Barone che attualmente è in fitto al maestro sarto Lorenzo Errico.
La richiesta dei carlini e del rimborso delle spese non ha motivo di esserci.
Che il Barone adempisca a tutti i Capi della Decisione della Commissione Suprema Feudale» 13 .
Il 30 agosto 1809 il patrocinatore del principe Dentice N.H. Mattia d'Errico
impugnava le decisioni del Giudice Conserva per i seguenti motivi:
«I. Non aveva pubblicata la sentenza originale;
II. La descrizione dei Molini non era conforme alla descrizione della Commissione;
III. Nullità per la Torre dell'orologio;
ASB Scritture delle Università e Feudi, cit. ff. 19 r-22 r.
13 Ibidem.
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IV. Nullità per la questione delle acque».
Il 15 ottobre 1809 il patrocinatore del Comune Francesco De Angelis presentava nota di opposizione alle nullità dichiarate dall'ex Barone. Carlo Mannarini presentava in nome del Principe una successiva nota al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura, D. Domenico Acclavia. Altra nota veniva presentata al Procuratore di Lecce.
Si aveva così il 18 ottobre 1809 la sentenza definitiva in questi termini:
«Poiché l'ex Barone si duole che la Decisione non è stata pubblicata per intero,
si decide:
restituire gli animali trovati ai Molini e le provviste per gli animali;
resti in pieno dominio del Barone la bottega in fondo alla nuova torre.
Il Giudice esecutore si accerti della giusta esecuzione della sentenza della Corte» 14
A dare esecuzione alla sentenza veniva inviato a San Vito il giudice di Pace
di Lecce Pasquale Bernardini, il quale in data 15 gennaio 1810 fissava la sua dimora presso il Convento dei frati francescani. Intanto il giorno successivo inviava ai Giudici di pace dei Circondari di Manduria, Oria ed Erchie una richiesta di nominativi di periti di macchine di molini. Solo il giudice di Erchie era in
grado di segnalare i nominativi.
Queste le decisioni del Giudice Bernardini: «1°. Il Sindaco si obbliga alla
restituzione degli animali e delle provviste;
2°. Di procedere all'apprezzo degli attrezzi;
3°. Procedere alla liquidazione delle migliorie;
4°. Indennizzare il Principe dell'uso fatto delle mule dal giorno della consegna»
Per la torre dell'orologio viene fissata l'altezza decisa dai periti, la bottega
restava di proprietà del Principe Gerardo Dentice, che poteva riscuotere il diritto di passaggio di 15 carlini annui.
Comunque, si arrivava il 20 gennaio 1810 ad una conciliazione tra le parti
con relativo verbale.
Nel Convento dei frati francescani dinanzi al giudice erano presenti il Sindaco Carella con l'avvocato del Comune Giuseppe De Leonardis e l'avv. Orlando Quarta patrocinatore del Principe.
Le parti accettavano quanto era stato decretato, veniva consentito al Principe
di ripristinare il canale per portare l'acqua al suo giardino. Dall'altra parte il
Principe si impegnava in periodo di siccità di somministrare l'acqua ai cittadini
dalla prima foggia nella località denominata Paludi. Il Sindaco riuniva il Decurionato che accettava tutto, ma chiedeva che i sanvitesi potessero servirsi sempre delle acque della prima foggia delle Paludi, richiesta che veniva accettata.
.
14
Ibidem.
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Successivamente in data 10 giugno 1810 il Giudice deliberava che la prestazione di due galline o due carlini doveva essere pagata da tutti coloro che
avevano ricevuto dal principe case in maritaggio.
Dalle attestazioni del Catasto Onciario al 20 marzo 1808 risultavano 83 case date in maritaggio. Agli atti venivano allegati le copie degli atti notarili, a cominciare da quello del notaio Orazio Aliano di Ostuni con cui il Principe Lucio
Palagano cedeva una casa in via Aere a Ferdinando Albanese. Alla fine anche
quella che poteva sembrare una istituzione benefica, il maritaggio, diventava un
mezzo per poi imporre prestazioni in denaro o in natura. Tra le clausole, vi era
quella che prevedeva che se la beneficiaria fosse morta senza aver avuto figli o
con figli in età inferiore ai 18 anni compiuti, la casa doveva essere devoluta ai
principi o alla principessa o ai loro successori 15 .
Sembrava che tutto dovesse essere risolto, invece da alcune lettere di lagnanza inviate dal Sindaco di San Vito per tutto il 1811 e 1812, si ha notizia che
tali decisioni ancora non erano state eseguite.
D'altronde «le leggi eversive del feudalesimo ebbero chiaramente carattere
moderato, e misero in evidenza i limiti del riformismo napoleonico: si volevano liberare i comuni e i contadini dalla soggezione giuridica ai baroni, ma non
c'era alcun proposito di ridistribuire le terre a spese della nobiltà. Anche le altre riforme concernenti la proprietà fondiaria mirarono ad incoraggiare il mercato terriero e ad accrescere la produttività della terra, non ad aumentare il numero delle piccole proprietà a spese delle grandi» 16 .
Anche la vendita dei beni ecclesiastici, decretata il 2 luglio 1806 e attuata
negli anni successivi, ebbe come scopo principale il risanamento del debito
pubblico.
A San Vito, dopo la Restaurazione, la situazione finanziaria dei Dentice non
era migliorata. La costruzione della nuova masseria S. Michele che aveva portato al dimensionamento della masseria di Aieni non aveva dato grossi risultati
dal punto di vista della produttività. Era necessario un intervento molto costoso di disboscamento e di bonifica, ma soprattutto il feudatario aveva bisogno di
denaro liquido. Fu così che nel marzo 1839 il Principe Francesco Dentice pensò di percorrere la via dell'enfiteusi.
Francesco Dentice era nato il 6 ottobre 1800, quindi all'epoca delle controversie con il Comune era ancora un ragazzino. Lo storico della famiglia di lui
scrive: «fu giovane studioso e colto e volle intraprendere la carriera diplomatica: il 10 settembre 1820 fu nominato Regio Segretario di Legazione presso la
15
p.8.
16
A. CHIONNA, I maritaggi a San Vito nel 1777-78-79, in "Il Punto" XXXVI (2006) n. 3,
AA. Vv., Storia d'Italia. Dal primo Settecento all'Unità, Einaudi, Torino 1973, p. 227.
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corte dell'Aja in Olanda. Ritiratosi in patria l'anno 1843, fu nominato maggiordomo di settimana della regia Corte» 17 .
Quali i motivi di questo rientro? Stando a quanto scrive Luigi Dentice, «cominciavano già ad accentuarsi quei movimenti politici che condussero alle Costituzione del 1848 ed a tante altre vicende. Francesco si dedicò alla vita politica, sperando che, dopo la Costituzione, le cose del regno sarebbero cambiate in
meglio. Si approssimavano le elezioni politiche ed egli, benché Pari del regno,
rinunziò per divenire rappresentante del popolo nel nuovo Parlamento napoletano» 18 . Difatti fu eletto deputato nel collegio di Brindisi e nella prima riunione della Camera fu eletto questore. Dopo circa un anno il parlamento fu sciolto e alle nuove elezioni fu eletto deputato nello stesso collegio.
Personalmente sono convinto che le cose stessero diversamente. Mi sembra
più probabile che la decisione di Francesco Dentice di entrare in politica avesse lo scopo di tutelare meglio i suoi interessi nella veste di rappresentante del
popolo. La decisione di dare in enfiteusi o di vendere parte della sua proprietà,
soprattutto quella scarsamente produttiva, fu un'operazione di carattere speculativo e commerciale, anche se Luigi Dentice sostiene che «egli aveva vagheggiato nella sua mente l'idea di far sorgere case e raggruppare famiglie in due
sue tenute tra loro confinanti, S. Michele e Aieni» 19 .
Un uomo come Francesco Dentice, che aveva saputo dal padre i pericoli che
la feudalità aveva corso nel 1806 e negli anni successivi, e che per la sua posizione politica aveva sentore di quello che stava per accadere in Italia, pensò di
liberarsi di parte delle sue terre, soprattutto quelle improduttive, cercando di ricavare anche del denaro liquido e creando anche tutta una serie di imposizioni
di decime e di diritti feudali. In fondo con quella operazione Francesco Dentice aveva creato per il futuro una nuova fonte di reddito.
Tanto è vero che nell'Archivio di Stato di Brindisi esiste un atto rogato dal
notaio Donato Carbotti 20 il 18 maggio 1859 riguardante la vendita della riscossione delle decime spettanti al conte Antonio Dentice da parte di Rocco Argentieri e del figlio Giuseppe Rocco a Oronzo e Pasquale Suma. La durata dell'affitto di tale incarico era di quattro anni e i due dovevano sborsare 1.200 ducati
all'anno. Le decime riguardavano la raccolta dei cereali, delle olive, del lino,
dell'uva (mosto). Naturalmente erano previste delle clausole con cui il conte si
17 L. DENTICE DI FRASSO,
La storia della Casa Dentice compilata da Luigi Dentice di Fras-
so per i suoi figli, Tipografia del Senato, Roma 1934-XII, p. 128.
18 Ibidem, p. 129.
19 Ibidem.
20 ASB Fondo Notarile di San Vito dei Normanni, notaio Donato Carbotti, vol. 21 (a.
1859), ff. 279 r- 295 r. Cfr. V. MASIELLO, Cultura delle riforme e problematiche dell'arretratezza. La Puglia meridionale di fine Settecento nell'inchiesta di C.M. Galanti, in All'alba del
terzo millennio, cit., pp. 367-390.
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garantiva perché i due pagassero il prezzo stabilito. Tra l'altro, il deposito dei
prodotti doveva avvenire nel magazzino del conte, che veniva dato gratis (meno
male!), mentre per due botti per depositare il mosto dovevano pagare il fitto; le
olive dovevano essere molite nel trappeto dei Dentice. Le chiavi del magazzino
erano due, una veniva data ai Suma e l'altra a d. Innocenzo Magli, coadiutore
dell'agente del conte. Inoltre, a garanzia del regolare pagamento, venivano ipotecate alcune proprietà che i due possedevano nel territorio di Ceglíe Messapica.
Alla morte del Principe Francesco Dentice gli successe quale erede universale il figlio Ernesto, al quale, alla sua morte successero i figli principe Luigi,
conti Alfredo, Francesco, Carlo, marchesa Marianna, contessa Widmann e contessine Luisa e Teresa, i quali, in esecuzione del testamento olografo del 21 febbraio 1883, procedettero alla divisione dei beni. La divisione avvenuta per atto
del notaio Greco il 1° febbraio 1899 attribuì al conte Carlo tutti i canoni enfiteutici sui terreni e sulle rendite fondiarie sui fabbricati della masseria S. Michele con una rendita di £. 6.771,97, così ripartita: £.4.940,47 sui terreni e £.
1.831,50 sui fabbricati. Inoltre gli veniva assegnata anche parte dei canoni enfiteutici sui terreni e sui fabbricati di Aieni con una rendita complessiva di £.
4.097,48 21 .
Sono cifre che parlano chiaro. Il fatto stesso che l'operazione "enfiteusi"
delle due masserie durò dal 1839 al 1862 con un continuo passaggio dei terreni da un contadino all'altro, perché parecchi di essi, dopo qualche anno, costretti dai debiti, dovevano lasciare nelle mani del Principe il terreno perdendo
il denaro versato e le loro fatiche per bonificare il terreno, lascia intendere che
non si trattò di un'operazione a vantaggio di contadini 22 .
In conclusione il ritorno dei Borboni vanificò quanto si era cercato di realizzare con l'abolizione della feudalità. Ma nemmeno l'arrivo dei "piemontesi" significò l'abolizione di tutta la serie di vessazioni a cui i sanvitesi erano sottoposti.
Soprusi che continueranno anche in pieno Novecento, quando i Dentice
mettevano le catene sulla via che portava verso il mare ed i sanvitesi per poter
accedere alla spiaggia dovevano munirsi di permesso scritto.
Dovranno passare ancora parecchi anni, quando per varie vicende parte della proprietà dei Dentice con la riforma fondiaria passerà ai contadini, altra sarà
divisa tra gli eredi e sarà venduta. Più che le leggi, è stata l'estinzione naturale
a porre fine ad un retaggio del passato. Nella piazza principale della città, a testimonianza di secoli di angherie e di soprusi, resta ancora il castello, segno della presenza di un signore che spadroneggiava, comprava e vendeva il suo feudo, e di paesani costretti a piegare la schiena.
Memorandum per l'enfiteusi di S. Michele e Aieni (Ms. concesso gentilmente dall'amm.
Fadda al Sindaco di S. Michele Salentino dr. A. Torroni).
22 A. CHIONNA-V. PALMISANO, S. Michele Salentino, cit., p. 94.
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