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Così se parlava una volta in Gomila
Esuli e Rimasti 21 LA VOCE DEL POPOLO SABATO, 14 gennaio 2012 RICORDI di Rudi Decleva Così se parlava una volta in Gomila Premetto che non ho mai fatto uso dei vari Dizionari fiumani, considerandomi un autodidatta per nascita, e siccome recentemente sono emerse osservazioni sul Forum Fiume di parole croate mancanti in alcune citazioni, apro questa trattazione con miei ricordi delle parole dialettali fiumane che mi vengono in questo momento in mente – che segnerò tra virgolette - relative alla “Gomila” vera e propria, dove ho abitato fino ai 18 anni, che – come scrive Giacomo Scotti nel suo recente Libro “Fiume – Cent’anni e più secoli alle spalle” – era così chiamata in antico perché deposito di immondizie ed era delimitata dall’Arco Romano alla Via Roma, che noi chiamavamo “ster”, e finiva con la “Gomiliza”, un’altra piccola area rappresentata principalmente dalla Calle dello Staio Romano (che aveva alle spalle la Via XXX Ottobre), dove i tedeschi avevano costruito una vasca contenente acqua da servire per eventuali incendi. Qui abitava il compianto e famoso Mici Marrè, saltato in aria col vagone in Zabiza. Noi bambini vi giocavamo alle “s’cinke” (biglie) e usavamo mol A cura di Roberto Palisca tissimo delle frasi che non saprei definire se erano croate o di altre origini: “anzakuli s’cietaz” e “passabote”. Una persona che era un poco di buono, era un “g-gnuss” (con la g gutturale) o un “drek”, mentre uno che non aveva voglia di lavorare era un “niscoristi”; se era un po’ tonto gli si diceva “trubilo” e se gli mancava qualche dente era “scherbalo”. Se invece vestiva strambo gli si diceva che era un “zazanich” - secondo il detto “male braghesse, vela vrit” - e ai bodoli, facilmente riconoscibili, gli si faceva il verso “Bodolo flich: braghesse te pindulaju” (ti pendono le braghe) o “capot te La Gomiliza era una piccola parte della Gomila delimitata da queste case e la gorì” (ti brucia il cappotto). Una donna di facili costuCalle dello Staio Romano, che è alle spalle di chi guarda. Nella foto sono visibili, da sinistra la casa di Mici Marrè e la Calle della Nave, che portava in Stra- mi poteva anche essere chiamata “crava”. Al muletto, che comindalarga; a destra la Calle dei Pescatori, che portava in Calle del Volto La strada più importante della Gomila era la Calle del Morer, che da tutti era chiamata Stradalarga ed era – anche in tempi recenti – lastricata con i sassi affioranti come nella foto, che erano un vero pericolo per la deambulazione, soprattutto in discesa e quando pioveva. Qui la Stradalarga è ripresa dal suo termine e cioè Calle dei Pescatori, che iniziava dalla Calle del Volto e terminava in Gomiliza. A destra in alto, la strada iniziava con l’elegante palazzo, oggi ancora in piedi, che ha una facciata sulla Stradalarga e l’entrata da Calle Barbacane. Sulla sinistra, a metà della Stradalarga, c’è la piazzetta dove cresceva e fruttificava il morer - il maestoso gelso - che dava il nome alla Calle ciava darsi arie da grande perché al cinema - quando il protagonista baciava la signorina anche lui gridava “napol”, intendendo dire metà per lui - lo si ridimensionava chiamandolo “pisdrul” oppure “sgnesuliza”. Se era un piangiotto per ogni nonnulla, gli si diceva “pisdina”. Quando attendevamo in ster che passasse il carro della ditta Marincovich, per succhiare in corsa le bottiglie di selz, il “cucer” Matteo ci faceva desistere schioccando la sua “scuria” (frusta) e quando facevamo mancanze ancora più grosse i papà ci davano col “scorbaz”. A scuola il maestro usava talvolta la “siba”. Per pescare si dava fondo alla barca legando lo “scandajo” o la “surga” a un ancorotto, ma anche una “gromazza” andava bene, purchè fosse ben legata. Per le seppie e i calamari si usava la “pus’cia”, mentre la sogliola si chiamava “svoja”, e la “racovizza” era il granchio, che individuava anche i “muli” del Nautico con il loro berretto da comandante. Sempre difficile stabilire se la “zaba” fiumana era la rana o la tartaruga, come la chiamavo io. Al bambino, che si dondolava nella “zanbuiana”, la “cuma” gli diceva “maicomila” e parole dolci infiorendole con “dusso moje” o “zlato moje”. Se era maschio aveva il “missich”. Il pane si comprava da Chiopris o più in generale dal “pek”, mentre la “rakia più prava” di tutte (la grappa) veniva dall’Istria, meglio se era “slivoviza” (di prugne). La si beveva a “sluk” e non saprei dire le questa parola era di etimo croato o tedesco. Per mescolare la polenta le donne usavano il “palentar” di legno (un mestolo di forma rettangolare), e la polenta con patate era la “compirizza”, ma esse dovevano stare molto attente a togliere le “grudize” (grumi), sennò i mariti brontolavano, mentre per mescolare le altre pietanze e la “kassiza” si CIACOLADE usava la “kuhariza” (il mestolo ovale) e per assaggiare il sale nelle pietanze, il “paich” detto anche “caziol”. I “chebari” (maggiolini), che chiamavamo anche “zlatamare”, li legavamo col filo per farli volare e gli facevamo il verso “Maria, Maria, apri le ale e svola via.” Alla lumaca invece bisognava gridare “puz, puz: roghi van” (lumaca lumaca, mostra le corna). Il maiale era anche detto porco “prassaz” e quando lo si cuoceva per fare lo strutto, si mangiavano gli “ozvirchi” (ciccioli). Le “loganighe” si chiamavano anche “clobassizze” e quelle “kranjske” (cragnoline) erano le migliori. La legna si comprava a ”buturize” dal carbonaio; le “blitve” (blede) e la “motoviliza” (valeriana) in Piazza delle Erbe. “Lo “scoropich” lo portavano le “mlecarize”. La “oresgnaza” era il dolce fondamentale del Natale e le “landize” venivano bene anche a cena. “Tiboga” e “bogati” erano parole molto usate come espressione di meraviglia, e c’era chi le usava nel misto “bogati, gallina verde”. Le bestemmie in croato erano molto usate e avevano argomenti oltre ogni immaginazione addebitando al malcapitato anche il latte che aveva succhiato da piccolo. Una brutta risposta, accompagnata da un altrettanto brutto gesto, era “evoti messo”. La prima barzelletta che ci raccontavamo da bambini: un italiano e un croato si incontrano e si salutano dicendo buongiorno nella propria lingua. Sia l’uno che l’altro chiedono il significato della parola pronunciata dall’altro: “Cosa vuol dire?” - “Cia ce rec’?” rispondeva l’altro e la tiritera andava all’infinito. Ad ogni modo, ai croati piaceva tanto pronunciare questa frase italiana: “Non è belo cvelo che è belo. È belo cvelo che piace. Bi rekal talijanaz”. di Alfredo Fucci Quando Fiume era la nuova Gerusalemme Nissuna zità europea xe stada come Fiume aperta e accogliente coi ebrei. Da noi non se saveva cosa era l’antisemitismo. I ebrei non solo era de casa ma i era benvoludi da tutti. Fiume era davvero una nova Gerusalemme, mitica: i canti de la Sinagoga se smisiava con quei de San Vito o quei dei greghi de la ciesa de San Nicola. Dio abitava a Fiume, el Dio de tuti, senza division de “credo”. Per questo dal ponte de fero o al porto, su le navi, rivava ebrei da tute le parti possibili, dall’Italia e dalle terre lontane de la Boemia, de la Galizia, da l’Ungheria e da le Russie, dove improvvisi “progom” li scaziava. Qua i trovava non solo ospitalità ma diritti sancidi e protezion. Fiume zità commercial, era l’ideale per el loro commercio e per le loro attività professionali. Drio tante famiglia fiumane nella genealogia spuntava qualche nome ebreo, e drio tante insegne de negozi era l’attività ingegnosa e instancabile de ebrei diventadi fiumani col cor e con la mente. Per questo quando i tedeschi, travolti da la loro pazzia, i ga brusà la Sinagoga del Pomerio, e mi ero la vizin e vedevo le fiamme riverberarse sul muro de una casa difronte, go sofferto come se i gavessi brusà la mia casa, e giorni dopo me go intrufolà tra le macerie come se va a trovar la tomba de un parente. La mia mama la me dixeva sempre ciaro: Gesù era ebreo e i ebrei xe nostri cugini. I ga riti diversi, storie diverse, ma Dio xe sempre quel de la Bibbia. Compravo i giogattoli da la Bellebrea, come dir che per mi là era una specie de deposito de San Nicolò che gaveva i giogatoli per i fioi boni. La sua immagine la me xe rimasta in tei oci. Go sofferto molto co go savù che la se gaveva mazà per non esser deportada. In casa mia i ebrei era benvoludi, xe sta infatti un “zifut” che ghe gaveva imprestà i soldi a mia nona per aprir botega in Calle del Tempio, come dir squasi in casa de lori, che la Zudecca rivava fin la in Zitavecia. Per cui mi fin da picio savevo che la calle se ciamava cussì perché ne la casa di fronte era un logo de preghiera, una Sinagoga antichissima, fata prima de quela granda del Pomerio. A Fiume zerti ebrei se vedeva diversi nel vestir, ma altri i era precisi e ti li riconossevi a volte solo per el cogneme. Ma noi era diversi de noi altri. Era anca lori veri fiumani. La storia de la zità ga nomi de ebrei eccellenti. Erimo un’isola nel mondo mitteleuropeo. Gente unica i fiumani, che noi fazeva distinzion de religioni. Era come se uno fossi nato coi cavei rossi, inveze che neri o biondi, tuto qua. Quando sotto l’Italia xe scopiade le leggi razziali, nel 1938, xe sta sconzerto in famiglia. I grandi parlava spaventadi de questa follia che canzellava l’uguaglianza fra i fiumani. Era de quei tempi che go leto per la prima volta sul mio zertificato de nascita la strana frase “di razza ariana”, che non capivo, perché de solito se se domandava per i cani e no per i omini de che razza che i xe. La mia mama fazeva el presepio a Nadal e la voleva scrito Betlemme in caratteri ebraici, per cui mio fradel a scola el se fazeva scriver da un compagno quei caratteri strani che se leggeva al contrario. Tutta qua la differenza, come quando la me portava ala ciesa dei greghi, e me ricordo che me dovevo far el segno de la crose al incontrario, per non insospettir el sagrestan, che ne vedeva impizar le candeline da metter nela sabia apposita davanti le icone, che la mama studiava ammirada per la bellezza de quele pitture. De solito entravimo là strada facendo, quando che se andava in pescheria, e ela non la voleva che i se acorgessi che erimo cattolici romani. Insomma romani ma fiumani. Ne la testa de un mulo che studiava el catechismo anca i protestanti era fiumani, ma che in antico gaveva protestà sul porton de una ciesa. Tute differenze che a Fiume non era sentide per niente, specie fra la mularia. Per questo Fiume secondo mi era la nova Gerusalemme: la casa indove che Dio era precsio per tutti e tutti gaveva diritto de pregarlo come che i vol. E benedetta anche la Recina, che non la ne ga diviso dai ebrei che scampava dai progrom. Quel ponte de fero, xe ben se pensa, xe sta anca una passerella che ga portà linfa e lavor a la nostra zità. Pensando a la bruta guera passada, tanto Fiume era aperta ai ebrei che anche chi xe vegnù regnicolo, con funzioni de polizia xe sta imbevudo da la nostra capacità de sentir fradei i ebrei. El famo- so Palatucci vegniva dalla Campania, nol xe nato da noi, ma l’aria de Fiume lo ga coinvolto tanto da farlo diventar el difensor e el salvator dei ebrei. E forsi anche per questo el ga perso la vita a Dachau, e a Israele i lo ga nominà “Giusto fra i giusti”. E mi son convinto che xe sta l’aria de Fiume, casa comune, nova Gerusalemme, indove che l’omo resta fio de Dio senza divisioni. E xe bel ricordarselo anca ogi.