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Per incapacità di intendere e volere

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Per incapacità di intendere e volere
Luigi Colaianni
«Per incapacità
di intendere e volere»
Il consenso informato
della psichiatria
Prefazione di Guido Giarelli
Postilla da un servizio di salute mentale
di Massimo Cirri
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 a/b
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2676–2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: settembre 2009
Indice
9
Prefazione
di Guido Giarelli
13
Introduzione
17
Capitolo I
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
1.1. Un processo storico, 17 – 1.2. La cornice giuridica, 28 –
1.3. Il codice deontologico medico, 39
45
Capitolo II
Informazione e consenso in psichiatria
2.1. Le criticità nella relazione tra psichiatria e partecipazione degli utenti al trattamento, 52 – 2.1.1. Il consenso al trattamento, 52 –
2.1.2. Diritto alla scelta del trattamento, 63 – 2.1.3. Terapie farmacologiche, 65 – 2.1.4. Trattamenti fisici e chirurgici sul Sistema
nervoso centrale, 73 – 2.1.5. Trattamenti in strutture residenziali di
riabilitazione psichiatrica, 75 – 2.1.6. La coercizione, 79 – 2.2. Le
criticità della psichiatria tra senso scientifico e senso comune, 82
85
Capitolo III
Le strategie per il cambiamento
3.1. Le fallacie epistemologiche della psichiatria, 85 – 3.2. Lo
scarto di paradigma, 95 – 3.2.1. Il realismo concettuale, 97 – 3.2.2.
Il paradigma narrativistico, 98 – 3.2.3. Un processo narrativo dagli
effetti pragmatici, 102 – 3.2.4. Il disegno della ricerca, 106
7
8
Indice
113
Conclusioni
118
Un po’ a lato del consenso informato
Postilla da un servizio di salute mentale
di Massimo Cirri
125
Appendice
Linking Mind and Brain in the Study of Mental Illnesses: A
Project for a Scientific Psychopathology, di Nancy C. Andreasen, 125 – I diritti dei pazienti in Europa, OMS, 152 –
The protection of persons with mental illness and the improvement of mental health care, ONU, 169
191
Bibliografia
197
Gli autori
Capitolo I
Inquadramento storico e giuridico
del consenso informato
1.1. Un processo storico
L’attività medica e più in generale degli operatori sanitari è
sempre più orientata al rispetto del cittadino nel suo ruolo di
malato e dei suoi diritti quali:
– il diritto all’informazione, al fine di essere messo in grado di esprimere il consenso in modo consapevole;
– il respect — costrutto che tiene insieme elementi poco
definiti (in quanto generati da valori morali che possono
essere “relativi” ai contesti culturali) come l’umanizzazione della cura, e elementi più definiti come la personalizzazione e l’attenzione alle appartenenze culturali diverse da quelle dell’operatore sanitario, con conseguenti
diverse narrazioni e diversi «contesti significanti della
malattia» (Kleinman 1978);
– l’accessibilità dei trattamenti;
– la continuità delle cure.
Da dove nasce tale orientamento? Nasce nel contesto della
giurisdizione professionale medica (Abbott 1988), così come
oggi è collocata nelle diverse matrici organizzative? In virtù di
17
18
Capitolo I
quale processo storico, culturale e scientifico è stato generato il
discorso dell’informazione per il consenso? Come avviene lo
slittamento dal privilegio ippocratico — per cui si è affermato
nel senso comune il diritto del medico di non far partecipe il
malato delle sue condizioni di salute e del tipo di terapia che egli intenda intraprendere, principio che per molto tempo è stato
presente nelle regole della professione medica — al principio
prima della compliance (conformità, compiacenza), poi dell’adherence (come adesione al trattamento e aderenza alle sue
modalità) e quindi della concordance (Foster e Hudson 1998;
Crawford, Brown, Adolphs, Bissell, Plant, Sahota, Carter 2004;
Cheung e Chui 2003; Cushing e Metcalf 2007), concetto che
implica una partnership tra medico e paziente?
Nel Medio Evo Henry de Mondeville (Pilcher 1895), chirurgo inglese, diede voce alla tradizione ippocratica, sostenendo
che nulla dovesse essere rivelato al paziente al quale però era
sempre dovuta una promessa di guarigione: i pazienti erano
sempre tenuti alla stretta osservanza delle disposizioni del medico. Alla fine del Settecento, a opera di Benjamin Rush, compare il riconoscimento della opportunità di dare al paziente informazioni circa il suo stato di salute e sulla terapia in atto, ciò
non per gli aspetti che riguardano la asimmetria informativa tra
medico e paziente, ma per ragioni “terapeutiche” (Rush è considerato il padre della psichiatria americana) in virtù della convinzione che la consapevolezza del malato potesse determinare
un beneficio terapeutico. L’operato e le decisioni del medico
comunque rimanevano indiscutibili. Siamo in presenza di quella
che verrà chiamata therapeutic alliance. In seguito Thomas
Percival (Howard 1975) pubblicò Medical Ethics (1849)2, lavoro che costituì il fondamento del primo codice di deontologia
medica della American Medical Association (1847). Nel testo,
nell’ambito del diritto del medico a praticare la “benevolent deception” (l’inganno caritatevole nei casi di prognosi infausta),
2
http://books.google.com/books?id=yVUEAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=medi
cal+ethics+thomas+percival&as_brr=1#PPA6,M1
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
19
era menzionato il diritto del malato alla informazione. Ma solo
nelle edizioni del 1957 e del 1980 del proprio codice deontologico l’American Medical Association offrì alla considerazione
l’informed consent. Nella giurisprudenza statunitense (paese di
common law) il concetto di “consent” compare nel 1914 con il
caso “Schloendorf”, nella sentenza in cui il giudice Benjamin
Cardozo affermò che
Every human being of adult years and sound mind has the right to
determine what shall be done with his own body; and a surgeon who
performs an operation without his patient’s consent commits a battery
for which he is liable in damages (Gutheil 1995).
La dottrina del consenso all’atto medico si affermò dopo la
seconda guerra mondiale, per cui in quasi tutti i paesi occidentali venne inserito nell’ordinamento legale il principio che nessun
essere umano può essere sottoposto contro la sua volontà a cure
o sperimentazioni mediche. Come si giunge a tale produzione
discorsiva? Cosa segna tale cambiamento nella deontologia della medicina biologica a livello planetario? Per comprendere ci si
atterrà ancora ai testi:
Questo malato idiota doveva essere eliminato con l’eutanasia su richiesta del padre ed era stato trasferito a questo scopo dall’istituto di
Winnental a questo istituto il 7 marzo 1944. Siccome mi ero rifiutato
di procedere all’eutanasia, che su domanda del padre mi era stata ordinata dal Ministero degli Interni, il 3 maggio 1944 il malato fu trasferito a Eichberg nella Renania. Il paziente doveva essere consegnato
personalmente al direttore di quell’istituto, che era stato informato dal
ministero e era d’accordo. Il 15 maggio 1944 il padre inoltrò un reclamo al Dr. Stähle, chiedendo la ragione per cui il provvedimento di
eutanasia non fosse ancora eseguito e se esistessero ancora impedimenti a riguardo (von Platen 2000, 51).
Il giovane «idiota» si chiamava Frank Heinz e chi parla è il
Dr. Götz, direttore dell’istituto di Schussenried, uno dei pochi
medici che tentarono di sottrarsi individualmente a quanto il testo ci indica essere considerato come diritto esigibile nel senso
20
Capitolo I
comune dell’allora Germania nazista e previsto con specifiche
procedure disciplinate dallo stato. Come sappiamo, la pratica
della eliminazione delle persone3 non adatte in ragione della loro difformità da quanto veniva indicato come ideale per la nazione, ideale da raggiungere attraverso la scienza a cui era richiesto di fornire le giustificazioni “oggettive” per distinguere
gli “anormali”4 (Foucault 2000) dai normali, e quella della sperimentazione biomedica su di loro si estesero fino a comprendere non solo i “malati” giudicati irrecuperabili e che avrebbero
potuto “contaminare” la popolazione geneticamente purificata,
ma anche persone di etnie, culture e visioni politiche diverse, attraverso la generazione del costrutto di “razza”5:
Secondo Kranz [il Prof. Dr. H.W. Kranz era stato direttore dell’ufficio
per la politica razziale del partito nazionalsocialista nel Gau Assia–
Nassau e dell’Istituto di eugenetica dell’Università di Gießen] le insidie per la discendenza non derivano solo dalle così dette malattie ereditarie, bensì anche da ciò che egli aveva definito come ‘stirpi antisociali’6. Si tratta di un concetto scientificamente insostenibile, fondato
sulla presunta ereditarietà delle psicopatologie (von Platen, ivi).
3
Sarebbe più corretto filologicamente impiegare il termine “pezzi” (stücke) come
erano indicate le persone negli istituti di eliminazione e nei campi di sterminio.
4
Vedi anche Foucault M. 1976, «L’esame» in Sorvegliare e punire, Torino: Einaudi, p. 202.
5
Nicola Pende, medico endocrinologo italiano, fondatore e primo rettore
dell’Università di Bari (allora denominata Università Adriatica), tra i firmatari del “Manifesto sulla razza” del 1938, affermava a proposito, ben prima di quell’anno, alla voce
“stirpe” del Dizionario della Dottrina fascista di Montemaggiori: «Migliorare le qualità
innate di ogni stirpe col mezzo naturale della selezione, con un’antropotecnica statale,
che miri, così come fa la zootecnica per gli animali, a selezionare e allevare senza inquinamenti le varietà della pianta uomo mercè una educazione fisica e mentale del popolo, la quale tenga conto dell’esigenza e capacità etniche, e sia meno uniformatrice e
livellatrice, più selettiva, più differenziale per i vari tipi di gente italica» (Bonifica umana razionale, 1933). Per Pende le secrezioni ormonali sono le «vere fibre dell’anima»,
ovvero il nesso fondamentale fra la morfologia degli individui e la loro psicologia, il loro «carattere». E poiché gli ormoni delle ghiandole endocrine influiscono «sulla costituzione e sulla forma armonica» del corpo e dell’anima, non stupisce che il principio guida della politica debba essere individuato nella biologia. Così biotipologia e ortogenesi
sono le parole d’ordine dell’eugenetica pendiana: compito della biotipologia è identificare, misurare, classificare le singole individualità psicofisiche (i “biotipi”, appunto) per
consentirne l’ utilizzo razionale e efficiente.
6
W. Kranz 1939, Die Gemeinshaftsunfähigen, Gießen.
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
21
Kranz sosteneva che l’«eliminazione totale» dei soggetti
“antisociali” fosse l’unica possibilità di combattere il pericolo
che rappresentavano per la società, per cui la politica razziale si
poneva un problema molto più cruciale della sterilizzazione dei
portatori di malattie ereditarie:
Noi dobbiamo valutare il singolo in base al posto che occupa nella società, al modo in cui è integrato e al contributo che è in grado di apportare. Da questa valutazione si ricava un dato fondamentale e cioè
che i criminali non sono l’unico pericolo economico e biologico per
l’integrità dal popolo, ma esiste un numero assai più elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerare veri e
propri parassiti, scorie dell’umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati, che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo (W. Franz 1939, Die Gemeinshaftsunfähigen, Gießen, in von Platen, ivi).
La storia evidenzia come costrutti di mero senso comune,
quali quelli di “stirpe” e di “razza”, ed enunciazioni prive di
fondamento scientifico come quella dell’origine genetica di fenomeni considerati retoricamente “malattie”, ovvero con certa
eziopatogenesi (nel caso ereditaria), possano pervadere il senso
scientifico che non è immune, di per sé, da tale pericolo, tanto
da generare effetti pragmatici quali quelli che culminarono nella
shoà; ma ancor prima, la pervasione nel senso comune dell’idea
di “pericolosità sociale” correlata a caratteri somatici, etnici (le
«stirpi antisociali») o diagnostici di chi di volta in volta veniva
definito come diverso e deviante aveva permeato tutte le relazioni sociali, fino a diffondere la delazione e la denuncia della
vittima designata da parte della gente comune nei confronti di
conoscenti, amici, vicini di casa. Il processo è quello della tipizzazione dell’identità, per cui «la categorizzazione iniziale della
situazione e del ruolo attribuito alle persone induce all’uso di
uno Schema di Tipizzazione della Personalità adeguato e coerente all’impressione preliminare. Lo schema attivato in modo
implicito o esplicito dall’osservatore orienta intenzionalmente e
selettivamente l’interpretazione delle informazioni in base al
principio della coerenza attesa» (Salvini 1998, 77). La categoriz-
22
Capitolo I
zazione dell’Altro è sempre realizzata all’interno di un contesto
sociale e quindi di un universo discorsivo finito e ha l’effetto di:
– semplificare l’informazione, riducendo la numerosità dei
dati;
– orientare selettivamente l’attenzione solo verso alcune etichette linguistiche (Becker 1963; Lemert 1967), tra cui quelle che retoricamente hanno pervaso lo spazio discorsivo;
– direzionare la successiva raccolta di dati, selezionandoli
in modo da renderli coerenti ai precedenti;
– utilizzare l’esperienza dell’osservatore in modo funzionale e coerente alle sue intenzioni;
– inserire elementi eterogenei in referenze note in modo da
mantenere la coerenza narrativa;
– amplificare l’informazione fruibile, al fine di supplire alla
mancanza di informazione e all’incertezza.
Ciò avviene comunemente nella vita quotidiana e quindi
nel senso comune, per cui comportamenti, espressioni di sentimenti e giudizi non vengono correlati a un contesto interattivo in quanto situazionali, ma sono assunti come conseguenza
dell’attribuzione di disposizioni psicologiche individuali (tratti
psicologici), e/o di aspetti somatici, sessuali ed etnici del soggetto e quindi considerati come disposizionali (Becker 1997
[1963 ed. or.]; Lemert 1967; Goffman 1968 e 1983). Nella
specifica situazione storica che è stata presentata, cosa ha giocato in modo determinante a favore della riduzione degli aspetti di soggettività, generalmente attribuiti al costrutto di
“persona”, alla mera oggettivazione, per dirla con Goffman alla mortificazione, assunta a prassi generale dalla medicina nello stato nazionalsocialista? Alice von Platen individua tre elementi, di cui uno in particolare appare significativo e interessante per il nostro ragionamento:
Alla burocratizzazione del pensiero socio–sanitario e alla crescente rilevanza del fanatismo razziale si aggiunse inoltre l’orientamento prevalentemente biologico di alcuni influenti psichiatri (von Platen, op. cit. 21).
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
23
La medicina, che in quegli anni si costituiva come biomedicina fondata su un paradigma di realismo monista7 — era nella
sua massima espansione il modello del macchinismo e la descrizione dei processi in chiave energetica e di relazione causa–
effetto — aveva permesso di generare il modello della “teoria
dei germi” (Pasteur 1857) e i quattro postulati di Henle–Koch8
(1882) e quindi della diagnosi fondata sulla ricerca di legami
empirico–fattuali tra una causa biologicamente descrivibile, i
sintomi (soggettivi) e i segni (oggettivi) rilevabili. Il costrutto di
“malattia” rappresenta così la configurazione retorica dell’oggetto di studio (e di intervento) generato dalla medicina biologica che pone definitivamente il soma e le sue anomalie nella sua
propria giurisdizione.
Tale passaggio ha costituito la svolta che ha attestato la medicina quale prassi operativa — finalizzata alla guarigione e
quindi al cessare degli effetti (malattia) prodotti dall’azione di
un ente–noxa causale su un ente–corpo biologicamente descrivibile — scientificamente fondata su scienze nomotetiche quali
la chimica, la fisica, e su scienze quali la biologia, la fisiologia,
7
I paradigmi sono qui considerati come modalità di conoscenza che generano il
proprio oggetto di studio. Pertanto i paradigmi che si fondano sul realismo ontologico–
monista presuppongono che tra gli enti considerati esistano relazioni empirico–fattuali
di causa effetto che devono essere rilevate tramite l’osservazione e la correttezza della
misurazione. Il realismo ipotetico si riconduce al realismo critico di Popper; in virtù di
questo è possibile affermare che la realtà sia di per sé inconoscibile e che, pertanto, le
ipotesi formulate in virtù di una teoria costituiscano approssimazioni che non possono
essere mai verificate (sono assunte come provvisoriamente valide, fino a prova contraria), e devono esser sottoposte a falsificazione tramite il confronto con elementi empirici
(Federspil 1980). I paradigmi discorsivi che si fondano sul realismo concettuale assumono che la realtà sia generata dall’atto conoscitivo e che l’oggetto della conoscenza sia
prodotto dalle configurazioni linguistiche che lo definiscono.
8
Secondo i postulati di Henle–Koch perché un microorganismo sia riconosciuto
come agente di una malattia infettiva: 1) esso deve essere presente in tutti i casi di quella malattia; 2) non deve essere presente in caso di altre malattie, né in individui sani; 3)
deve essere isolato dai tessuti in coltura pura; 4) deve essere capace di riprodurre la malattia attraverso infezione sperimentale. Tali postulati sono stati modificati per emendare
ciò che viene ritenuto il punto debole del modello proposto, ovvero il fatto che ogni malattia venga associata a un singolo agente e viceversa e che non si tenga conto di altri
fattori in aggiunta al singolo “agente”. I postulati di Evans (1975; 1978), in tal senso, si
focalizzano sull’ipotesi di dare rilievo anche ad aspetti cofattoriali di tipo biologico o
ambientale, anche con strumenti statistici, senza tuttavia far venire meno la necessità di
evidenziare il rapporto di causalità in virtù di elementi empirico–fattuali.
24
Capitolo I
la patologia, l’anatomia patologica, scienze che impiegano criteri di scientificità nella definizione dell’oggetto empirico di
studio quali:
– l’oggettività delle osservazioni;
– la necessità di una definizione operativa dei concetti
scientifici;
– la falsificabilità delle ipotesi;
– la formalizzazione della conoscenza in un linguaggio matematico (Federspil 1980).
Come si approfondirà più avanti, allorché la neonata psichiatria mutua il modello medico, come descritto, dalla medicina
somatica per spiegare il comportamento e l’azione umana in
virtù del corpo, urta contro lo scoglio dell’errore epistemologico, e soprattutto — in virtù della riduzione di ciò che il senso
comune chiama “pensiero” a evento meramente biologico e
quindi riducibile a pura biologia — porta con sé il suo peccato
originale che — tra l’altro — la espone a essere pervasa dal mero senso comune (Turchi e Perno 2002) e a derive autoritarie.
Pensiero precursore di tale posizionamento della psichiatria e
ancora presente nel fondo della cultura delle scienze del comportamento umano è quello di Cesare Lombroso (1876; 1893):
la riduzione dei repertori comportamentali “devianti” alla fisiognomica fonda uno stile di pensiero che potrebbe definirsi “materialista”, poi ereditato dalla psichiatria kraepeliniana9. Per esemplificare il processo argomentativo attraverso cui vengono
generate correlazioni tra aspetti morfologici individuati come
specifici (ma si potrebbe scrivere di qualunque aspetto sostantivo enunciato come causa) e azione umana è utile citare un importante collaboratore “involontario” di Lombroso, Giuseppe
Vilella (Motta di Santa Lucia 1803 — Pavia 1872), pluripregiudicato per incendio e furto e sospettato di brigantaggio. Nello
9
Emil Kraepelin (1856–1926) negli anni venti formulò la convinzione scientifica
secondo cui il comportamento deviante è sempre una forma di malattia mentale, sostituendo alla fisiognomica la psicopatologia.
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
25
studio autoptico del suo cadavere Lombroso afferma di avere
scoperto la cosiddetta “fossetta occipitale mediana”. Tale anomalia della struttura cranica sarebbe stata la causa dei comportamenti devianti di ciò che egli statuisce come “tipo criminale”.
La modalità di costruzione logica dell’inferenza è quella della
affermazione di rapporti di causa–effetto per cui le tavole di verità delle affermazioni inferenziali ci indicano che se la premessa è falsa e la conseguenza è vera, la proposizione è considerata
vera. In proposito G. Bateson entra nel merito di tale fallacia
argomentativa e scrive:
La spiegazione consiste dunque nel costruire una tautologia, assicurando il più possibile la validità dei suoi legami, così che essa vi sembri di per sé evidente […] Nel Malade imaginaire c’è una coda in latino maccheronico nel quale viene rappresentato sulla scena l’esame orale medioevale di un candidato dottore. Gli esaminatori chiedono
all’esaminando perché l’oppio faccia dormire e quello risponde trionfante: “Perché, sapienti dottori, esso contiene un principio dormitivo”.
[…] Dopo aver enunciato come fatto generale che l’oppio contiene un
principio dormitivo è sempre possibile usare questo tipo di locuzione
per un grandissimo numero di altri fenomeni (Bateson 1984, 118–19).
L’affermazione, così enunciata, risulta non falsificabile, a
meno che la conseguenza non sia falsa; per esempio, è possibile
affermare che P “sente le voci” perché è schizofrenico. Secondo
il medesimo modello inferenziale Lombroso condusse molti altri studi dai titoli quali La ruga del cretino e l’anomalia del
cuoio capelluto, L’origine del bacio, Perché i preti si vestono
da donne, Studi sui segni professionali dei facchini, Il cuscino
posteriore delle ottentotte, Sulla gobba dei cammelli, Sulla
gobba dei zebù e nel 1896 un lavoro su Dante epilettico.
Non è un caso che trattamenti invasivi e scientificamente
non fondati (ancora oggi vengono proposti trattamenti ex adiuvantibus10 [Barbetta 2003] come l’elettroshock) siano stati con10
In medicina si parla di criterio ex adiuvantibus per indicare una diagnosi supportata da un tempo di remissione della patologia in seguito a un dato trattamento. Classico
esempio è quello delle intolleranze alimentari: eliminare dalla dieta la supposta causa
dell’intolleranza permette di fare una diagnosi ex adiuvantibus. Questa potrà poi essere
confermata se la reintroduzione dell’alimento coincide con un ritorno della sintomatolo-
26
Capitolo I
cepiti e realizzati in quella compagine storica in cui psichiatria,
medicina biologica e regimi autoritari si posizionarono in una
prospettiva di “oggettivismo” scientifico: la psicochirurgia nel
Portogallo di Salazàr, la piretoterapia malarica, il coma insulinico e l’ergoterapia nella Germania nazista, l’elettroshock11
nell’Italia fascista.
Su questi aspetti ci si soffermerà più avanti. Qui preme evidenziare che l’errore epistemologico prescinde dalle “buone intenzioni” dei protagonisti, come molti medici durante il regime
nazista dichiararono di aver voluto realizzare con le loro condotte, tanto che al processo di Norimberga il 19 Luglio del 1947
il Dr. Karl Bandt poteva dire:
La vicenda, così come il mio operato di medico, resta incomprensibile
per l’individuo che si limiti a considerarla isolatamente. Il senso va
cercato più in profondità: qui è in gioco la società. Se mi assumo un
impegno verso la società, ne sarò responsabile per il suo bene (von
Platen, ibidem 21).
Furono il processo e la sentenza di Norimberga, il così detto
“Codice di Norimberga” (1946–United State vs Karl Brandt),
che nel dispositivo della sentenza condannò i medici nazisti, autori delle sperimentazioni nei campi di sterminio tedeschi, a introdurre internazionalmente il principio del diritto del malato algia (ex nocentibus). Ciò avviene in presenza di una mera sindrome, ovvero quando non
è conosciuta l’eziopatogenesi e quindi non è possibile formulare prognosi.
11
Ugo Cerletti scriveva nel 1948: «Lo dissi già fin dalla prima volta che io presentavo l’E.S., che mi auguravo che questo metodo aggressivo, violento, venisse al
più presto abbandonato per metodi meno drastici, e sto lavorando attivamente in questo senso: sarò il primo a rallegrarmi quando l’E.S. non verrà più applicato». E ancora, in occasione del Primo Congresso Internazionale di Psichiatria a Parigi, nel 1950:
«Questo non impedisce che malgrado tutte queste difficoltà, noi lavoriamo continuamente nella speranza di potervi dire un giorno: Signori, l’Elettroshock non si fa più.
Noi abbiamo trovato le sostanze che si producono nel cervello a seguito dell’accesso
epilettico e noi possiamo impiegarle nel trattamento di differenti malattie così semplicemente come si fa con altre sostanze farmacologiche (cors. del r.)». L’ipotesi formulata sulle teorie sviluppate da Ladislas J. Meduna, secondo il quale la schizofrenia e
l’epilessia erano disturbi antagonisti e che «le sostanze che si producono nel cervello a
seguito dell’accesso epilettico» possono essere impiegate «nel trattamento di differenti
malattie» è meramente affermata, ma non sottoposta a falsificazione. Nel frattempo
viene praticato il trattamento elettroconvulsivo in virtù di una sua affermata efficacia.
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
27
la autodeterminazione12 (formalizzato poi nel Congresso Medico Mondiale di Helsinki — 1964 e in quello di Tokyo — 1975),
ripreso ormai da tutti i codici di deontologia medica e di bio–
etica. Nella sentenza i giudici dichiararono esplicitamente che
tutti coloro che partecipano a sperimentazioni mediche devono
potere esprimere il loro consenso volontario, principio poi fatto
proprio dalla dichiarazione di Ginevra del 1948 sui Diritti
dell’Uomo.
Quindi la radice del cambiamento culturale affonda non nella scienza in quanto tale, ma nella relazione tra potere, dominio,
sistemi disciplinari e soggetto, dopo un conflitto epocale che
mise alla prova ogni aspettativa illuministica circa la ragione e
la razionalità da una parte, e la violenza e il potere nella sua microfisica disciplinare dall’altra, come Foucault esplicita efficacemente:
Ciò che c’è di più pericoloso nella violenza, è la razionalità. Certo, la
violenza è terribile in se stessa. Ma la violenza trova un ancoraggio
profondo nella forma di razionalità che noi utilizziamo. È stato detto
che se noi vivessimo in un mondo dominato dalla ragione, non ci sarebbe più violenza. Ma ciò è assolutamente errato. Tra violenza e razionalità non c’è incompatibilità. Non intendo fare un processo alla ragione, ma determinare la natura di questa razionalità che è così compatibile con la violenza (Foucault 1994).
Le considerazioni fin qui svolte sottraggono il diritto all’informazione per il consenso all’ambito meramente terapeutico e
professionale, per collocarlo in quello normativo e quindi suscettibile di negoziazione tra soggetti diversi. Per cui, prima ancora dell’alleanza terapeutica, si pone il diritto all’espres–sione
del consenso alle cure in virtù dell’informazione ricevuta e
quindi all’autodeterminazione del cittadino–paziente. La partita,
tuttavia, appare sempre aperta nel rapporto tra razionalità, potere e violenza, anche se oggi apparentemente vengono date per
12
«Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale […] [la
persona] deve avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi della situazione in cui è coinvolta, tali da metterla in condizione di prendere una decisione cosciente e illuminata».
28
Capitolo I
scontate e acquisite configurazioni che, in quanto meramente
discorsive, possono sempre essere modificate e pervadere come
tali il senso comune.
Ciò che veniva considerato un affidamento cieco e fiducioso
del proprio corpo e delle proprie aspettative di guarigione al
medico si è trasformato in un accordo da ricercare e a cui giungere tra professionals e cittadini–utenti nel merito del processo
diagnostico e di cura, con la dettagliata informazione delle strategie terapeutiche ritenute necessarie per correggere le anomalie
o eliminare i fattori patologici, con la spiegazione della scelta
terapeutica, con l’anticipazione dei rischi possibili e con la informazione circa le possibili alternative terapeutiche. Il così detto “rapporto di fiducia” che, per meglio essere aderenti al processo che si genera nel rapporto tra saperi esperti e saperi esperienziali, qui si identifica con la legittimazione di ruolo interattiva, va conquistato sul campo e non dato per acquisito (come
invece avviene per la legittimazione di status).
Ciò comporta certamente alcune criticità: da una parte viene
ridotto il potere del medico e la asimmetria della relazione; dall’altra si costituisce una forma di aggravio dei costi di gestione,
in virtù del dovere dare personalmente (è un compito medico)
informazioni, dovere accertarsi che esse siano state comprese,
dare tempo al paziente di valutare e raccogliere in un momento
successivo il suo eventuale consenso. Ciò avviene nel vivo della
pratica medica che sempre più riceve le pressioni del managerialismo organizzativo. Tale iter potrebbe sembrare a latere della attività sanitaria vera e propria; è invece parte integrante
dell’atto medico, profilandosi anche aspetti legali e conseguenze perseguibili in virtù della ridotta diligenza o perizia nel suo
svolgimento. Pertanto è utile delineare la cornice giuridica entro
cui il tema trattato si inscrive.
1.2. La cornice giuridica
Nel nostro paese il principio che fonda gli aspetti giuridici
dell’informazione per il consenso nella diagnosi e nella cura è
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
29
sancito dall’art. 32 della Costituzione che afferma il diritto soggettivo alla salute; in virtù di esso, nessuno può essere sottoposto a trattamento medico contro la propria volontà tranne che
nei casi regolamentati dalla legge; in ogni modo, la legge non
può andare oltre i limiti imposti dal rispetto della dignità umana. Il medesimo principio è chiaramente riaffermato negli art.
33 e 34 della legge n. 833/78. La giurisprudenza fa riferimento
all’art. 50 del Codice penale concernente gli atti medici, che afferma la non punibilità delle lesioni fisiche provocate con il
consenso della persona che può liberamente acconsentire. Tale
articolo, nella sua formulazione, costituisce una sorta di eccezione alla norma riguardante gli atti di disponibilità del proprio
corpo che ai sensi dell’art. 5 del Codice civile, e degli art. 589 e
570 del Codice penale, non possono essere ritenuti pienamente
liberi. Pertanto l’art. 50 c.p. fonda giuridicamente l’atto medico,
e questo è particolarmente rilevante per quanto riguarda l’espianto e la donazione di organi.
Secondo la legge italiana vi sono cinque fattispecie giuridiche per cui una persona può essere sottoposta a un trattamento
medico contro o senza la propria volontà:
– in caso di rischio immediato per la vita della persona,
quando non vi sia la possibilità di spiegare la situazione o
quando il paziente sia in grado di comprenderla. In questo caso un rifiuto al trattamento è considerato non efficace (r.d. 19/10/30, n. 1390). Si ritiene presunto il consenso in quanto si reputa che il dissenso sia dovuto a impossibilità di dare l’informazione o di comprendere l’informazione ricevuta. Perché sia lecito, il trattamento deve
essere proporzionale al rischio e improcrastinabile da un
punto di vista clinico. Non ricorrendo almeno uno di tali
criteri, il medico che non rispetti la volontà del malato è
perseguibile per lesioni procurate;
– nel caso delle vaccinazioni obbligatorie (l. 1/3/1963, n.
292);
– nel caso di malattie epidemiche sessualmente trasmissibili, tubercolosi e lebbra (l. 26/7/1956, n. 897);
30
Capitolo I
– nel caso di tossicodipendenza (l. n. 126, 26/6/1990); tuttavia in seguito al referendum popolare del 1993 sono
state abolite le sanzioni penali per le persone consumatrici di sostanze tossico psicoattive illegali che si rifiutino di
sottomettersi ad un trattamento terapeutico;
– nel caso di disturbi mentali (art. 33, l. 13/5/1978, n. 180);
– nel caso in cui il paziente abbia espresso esplicitamente la
volontà di non essere informato.
Per quanto concerne quest’ultima fattispecie, nella norma,
poi raccolta dalla L. 833/78, il legislatore afferma il principio
che la persona con diagnosi psichiatrica non può essere sottoposta a trattamento contro la propria volontà, ma altresì ammette
la possibilità, sotto particolari garanzie di legge e come evento
straordinario13, di trattamenti sanitari obbligatori (TSO). È rilevante menzionare che la ratio della legge pone al centro
l’interesse terapeutico del paziente, senza menzionare configurazioni discorsive quali quella del costrutto della “pericolosità”
della persona con diagnosi psichiatrica14. In particolare non si
distingue tra trattamento terapeutico e contenimento in una
struttura di ricovero, per cui la persona può essere forzatamente
ospedalizzata solo e in quanto in quel contesto potrà ricevere le
13
Legge 180/78, art. 2 «[...] la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può
prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi
non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che
consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere».
14
Da un punto di vista scientifico, il costrutto della “pericolosità sociale” viene esaminato dalla ricerca condotta per il CNR dalla Unità Operativa della Amministrazione
Provinciale di Arezzo, di cui erano responsabili Agostino Pirella e Vieri Marzi, «Ipotesi
di pericolosità. Ricoveri coatti nella provincia di Arezzo, 1976–1981» che esamina
quindici ricoveri coatti avvenuti nel 1976 (prima della Legge 180/78) e quattro nel
1981. La ricerca, condotta con metodi standard e non standard, evidenzia come coazione e pericolosità siano una coppia la cui relazione è sostenuta solo dalle pratiche discorsive degli operatori psichiatrici e non da evidenze oggettivabili: «I risultati dell’indagine
sottolineano l’arbitrarietà e l’inutilità dei provvedimenti contro la volontà dei pazienti;
inoltre essi si sono rivelati persecutori e gravemente lesivi della salute e del decorso
stesso della malattia. Una serie di indicatori sono stati individuati e studiati; essi dimostrano che il ricovero coatto è funzione dell’apparato sanitario e sociale e non ha rapporto alcuno con una presunta gravità o irriducibilità dello stato di sofferenza» (p. XIII).
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
31
cure più appropriate. Pertanto non è prevista una custodia senza
trattamento medico, questione che trovò negli Stati Uniti risposta nel 1966 nel caso Rouse vs Cameron. La Corte di Appello
del District of Columbia deliberò che, in assenza di progetto di
trattamento, l’ospedalizzazione forzata rappresentava un attentato alla libertà dell’individuo ed era incostituzionale. In seguito
nel 1977 la Corte Federale dell’Alabama, in Wyatt vs Stickney,
indicò i prerequisiti che potevano rendere possibile in via di
principio un’ospedalizzazione forzata, ovvero la presenza nel
contesto ospedaliero di personale adeguato; la disponibilità di
spazi adeguati; la disponibilità di piani dietetici adeguati; specifici piani di cura individuali.
Se il Diritto indica la tutela dei principi rappresentati dall’inviolabilità corporea, dalla libertà individuale e dal divieto di
compiere atti di disponibilità del proprio corpo, l’origine del
consenso informato nella norma scritta presenta ulteriori aspetti
d’interesse. Una prima analisi induce a evidenziare che il principio, del quale si è occupata la Consulta Nazionale di Bioetica
con un pronunciamento ufficiale nell’anno 1994, compare formalmente sulla scena del diritto italiano a seguito del Decreto
del Ministero della Sanità del 15/1/1991 inerente le trasfusioni
ematiche. Il disposto di legge infatti considera «le trasfusioni di
sangue ed emoderivati […] non esenti da rischi e dunque necessitanti di Consenso informato del ricevente». Si richiede pertanto esplicitamente l’acquisizione del consenso informato ai fini
dell’attuazione di una pratica medica; assume non indifferente
rilievo che tale necessità sia avvertita dalla norma non perché la
pratica medica in questione presenti “rischi certi”, bensì perché
non può dirsi che essa ne sia “esente”. Da ciò in dottrina è stato
positivamente dedotto che la fascia di atti o interventi medici
eseguiti sulla persona umana, tali da non richiedere preventiva
acquisizione di consenso informato, sia veramente ristretta, in
«quanto esenti da rischi», ponendosi semmai in discussione
quantità e qualità dell’informazione commisurata al rischio.
Con la bio–etica, come accennato, negli anni settanta si è
sviluppata la dottrina del consenso informato, intesa a affermare
che il consenso deve accompagnarsi a una piena informazione,
32
Capitolo I
tale che il paziente sia messo in grado di decidere in virtù della
conoscenza dei fatti e in autonomia, mirando così a promuovere
il diritto del paziente a decidere “a pari livello” con il medico,
intervenendo così nel vivo dell’asimmetria informativa e relazionale. Il medico è tenuto trasmettere al paziente tutte le informazioni di cui egli dispone, senza falsare o nascondere alcunché, nella maniera più chiara e comprensibile, e a prospettare diverse opzioni terapeutiche comprese quelle che egli consiglia e la ragione per cui le offre. A questo punto la sua opera si
ferma in quanto la decisione sul che fare spetta sempre al paziente. Si tratta di una prescrizione “radicale” di consenso informato a cui spesso è imputato di essere eccessivamente consumeristica: il medico non è un provider che deve persuadere il
paziente ad acquistare i suoi servizi e lasciare che egli o ella
scelga. Se però si coglie l’aspetto–cardine della prescrizione,
ovvero l’idea che il paziente sia soggetto e quindi pieno attore
della propria azione, allora è possibile intendere quanto il Cardinale C.M. Martini scrive:
Il paziente sa benissimo di essere lui, non altri, il vero responsabile
della propria salute fisica e mentale. Se si affida a un terzo è solo perché da solo non potrebbe risolvere il problema della malattia che lo ha
assalito. Ma anche dopo questo ricorso e affidamento a terzi, egli
mantiene inalterato il potere di amministrazione del proprio organismo; e ciò comprende ovviamente anche il diritto di accettare o di rifiutare ciò che gli viene proposto, a seguito di un suo personale giudizio globale, concernente i suoi interessi personali, familiari e professionali (Martini 1986, 17).
L’informazione per il consenso non consiste nella mera trasmissione di informazioni; tutto quanto venga detto, ma anche
agito tramite azioni comunicative e anche il medesimo sembiante dei soggetti coinvolti — ogni segno che venga introdotto nello spazio interattivo — svolge una sua efficacia nel costituire e
nell’elicitare i repertori discorsivi che andranno a occupare il
contesto comunicativo e potranno promuovere o inibire la partecipazione. Il vettore relazionale riguarda tutti i soggetti, non è
monodirezionale (dal medico al paziente), si svolge nel tempo e
può essere rappresentata da una spirale (teoria semiotico–
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
33
costruzionista della comunicazione) piuttosto che da una mera
circolarità ridondante (teoria cibernetica dell’informazione). Ciò
comporta che il paziente venga a costituirsi come utente esperto, e lo diviene quanto più verrà data possibilità al suo sapere
ingenuo (Giddens 1994) di essere messo in campo nella cura
(Department of Health UK 2001; Coulter, Parsons e Askham
2008).
Pertanto, per quanto di competenza della giurisprudenza,
questa annovera come attività negligente da parte del medico
non aver espresso una informazione in maniera chiara, e soprattutto comprensibile dal paziente; per cui può avvenire che questi possa disporre di competenze linguistiche insufficienti, ma
non per questo debba essere tenuto all’oscuro delle sue condizioni di salute e del programma terapeutico che il medico intenda intraprendere. Non è giuridicamente lecita la scriminante
dell’aver fornito un’informazione incompleta al fine di non favorire l’insorgere di “angosce” e “paure” nel paziente, sentimenti che si giudica poter compromettere l’accettazione della
terapia, anche se tale comportamento venga posto in essere al
fine di far accettare al paziente un trattamento ritenuto indilazionabile. Non sono ritenute efficaci le generiche dichiarazioni,
anche scritte, ancora oggi nella consuetudine di molti ospedali,
di acconsentire a qualsiasi trattamento medico e chirurgico che i
sanitari dell’ospedale ritengano di dover praticare: l’informazione deve essere personalizzata, corretta, esaustiva e ben compresa e costituisce la base su cui si fonda la validità del consenso, atto indispensabile perché un medico possa iniziare la sua
attività terapeutica, sia essa di natura clinica, sia farmacologica,
sia chirurgica. L’informazione è dunque un atto medico diligente che il paziente valuterà e su cui formerà il suo convincimento, formulando quindi il consenso (o negandolo) in ogni fase del
trattamento. Perciò il termine, entrato nel vocabolario giuridico,
di “consenso informato” è fuorviante in quanto fa apparire
l’obbligo come un atto unico ed unitario, sia formalmente che
temporalmente, e di mera trasmissione dell’informazione in un
tempo puntuale. Questa, piuttosto che trasmessa, è generata
nell’interazione (Good 1999) in virtù del contesto significante
34
Capitolo I
della malattia (Kleinman 1978) in cui i modelli esplicativi della
malattia appaiono come la risultante dell’overlapping tra le teorie di senso comune del settore popolare, le teorie del settore
professionale (la bio–medicina) e quelle del settore tradizionale
(curatori e guaritori locali).
Trattandosi quindi di un processo che si svolge lungo tutto
l’arco dell’atto medico, le fasi della configurazione degli elementi informativi e quella del consenso devono essere concettualmente disgiunte perché il paziente, ricevute le informazioni
di volta in volta, deve avere la possibilità di elaborarle, valutare
la proposta terapeutica e poi di esprimere il consenso, che darà
giuridicamente via libera all’azione del medico. Il consenso è il
conferimento al medico del potere di agire con mezzi terapeutici, farmacologici, chirurgici sul proprio corpo (o sulla propria
“psiche”) ed è giuridicamente valido se espresso da persona capace, pienamente consapevole e informata del significato
dell’atto che il terapeuta andrà a compiere. La dichiarazione
della volontà del paziente assume un ruolo centrale nella valutazione della liceità dell’intervento curativo e assume forma
giuridica nella formulazione del consenso. La formalizzazione
del consenso nella dottrina italiana è inquadrata come “atto giuridico” in senso stretto (piuttosto che come “negozio giuridico”
con la sua dimensione contrattuale)15, e quindi è relata alla volontà del cittadino ed è collegata strettamente alla libera volontà
del paziente. Nel negozio giuridico, la capacità di esprimere
correttamente una dichiarazione di volontà è definita da elemen15
Gli atti giuridici si distinguono, quanto alla produzione di effetti, in: meri atti (o
atti giuridici in senso stretto), se per la norma rileva la volontà del comportamento (la
cosiddetta suitas), ma non quella degli effetti giuridici che ne derivano, i quali sono invece stabiliti dalla norma stessa; atti negoziali (o negozi giuridici), se per la norma rileva tanto la volontà del comportamento quanto quella degli effetti giuridici (intenzionalità), sicché l’atto produce gli effetti voluti dal suo autore, al quale la norma ha attribuito
un potere giuridico. L’atto giuridico in senso stretto è un fatto giuridico consistente in
un comportamento umano volontario. Per gli atti giuridici, quindi, a differenza degli altri fatti giuridici, è rilevante l’imputazione a un soggetto di diritto, che può essere la persona fisica che ha voluto il loro accadimento o la persona giuridica per la quale detta
persona fisica ha agito in qualità di organo. Al pari degli altri fatti giuridici, gli atti costituiscono le fattispecie delle norme. Sono esempi di atto giuridico: la promessa, il testamento, la sentenza, il contratto, l’atto amministrativo.
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
35
ti “certi” quali la capacità/incapacità legale, la incapacità di fatto e la rilevanza della capacità di intendere e di volere dell’interdetto o del minorenne. L’atto di consenso a intervenire sul
proprio corpo esplicita invece l’esigenza di svincolare il consenziente dalle rigide regole della capacità giuridica d’agire in
senso stretto, e tiene conto della capacità d’intendere volere, accordabile anche all’infra diciottenne. Ciò comporta che, poiché
l’esercizio di un diritto non può mai configurarsi come comportamento illecito, il consenso escluderebbe l’antigiuridicità penale e ogni responsabilità civile. Dato che per gli atti giuridici si
considerano come sufficienti i requisiti di capacità e di volontà
che abbiano forza minore che per i negozi giuridici, ne deriva
che, ai fini della validità del consenso a un trattamento terapeutico, opererebbero criteri di minore rigidità. D’altra parte, nella
manifestazione del consenso a un atto terapeutico il peso e la
consistenza dell’elemento volitivo superano il livello previsto
anche per gli atti negoziali, e pertanto vi sono orientamenti che
collocano il consenso informato nella cornice di tali atti: è ben
altro il grado di idoneità richiesto allorché si anticipino gli effetti di un comportamento che potrebbe essere lesivo di interessi
altrui dalla completezza necessaria per formulare una scelta rispetto al consenso circa un intervento medico sulla propria persona. Ciò nonostante, le recenti evoluzioni del diritto — sia a
livello nazionale, sia internazionali — pongono fortemente l’accento sul considerare il consenso non un atto contrattuale, bensì
un atto giuridico unilaterale16.
Quanto evidenziato implica quanto può prospettarsi in tema
di capacità del paziente a prestare il proprio consenso. È fondamentale che, secondo tali premesse, il medico rispetti il dissenso del malato anche quando si ritenga che questi non abbia
raggiunto la pienezza delle sue possibilità intellettive e volitive.
Occorrerà inoltre che tale consenso si basi sulla esatta informazione circa la situazione sanitaria in ogni suo aspetto. Il paziente
16
Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, Raccomandazioni in merito all’applicazione di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale, (art. 33–34–35 Legge 23 Dicembre 1978, n. 833), 29 aprile 2009.
36
Capitolo I
potrà decidere senza ignorare la natura, la severità, la prognosi e
i possibili esiti che l’atto terapeutico prospetta per la sua malattia. Spetta al medico prendere l’iniziativa nell’informare il paziente indipendentemente da una sua esplicita richiesta. Egli ha
il dovere di correggere un’eventuale errata rappresentazione
della realtà di interesse medico e deve curare che la determinazione di volontà del paziente si formi sempre in assenza di dubbi e immune da vizi. Solo attraverso la perfetta, per quanto possibile, conoscenza della situazione da parte del paziente è possibile giustificare un abbassamento del livello dei requisiti richiesti per attribuire validità al consenso. Emergono pertanto i tratti
di una linea interpretativa in cui l’atto medico è valutato come
una lesione, scriminabile solo col consenso del paziente. È in
forza di queste condizioni che il medico, in quanto soggetto che
pone in essere un comportamento invasivo, sarà ritenuto responsabile di illustrare al paziente la situazione in ogni suo aspetto, specificando le ragioni che a suo parere rendono utile o
indispensabile l’atto terapeutico. Si evidenziano a questo punto
alcune criticità circa:
– la valutazione del grado di consapevolezza del paziente e
di conoscenza approfondita della situazione clinica, che
indica giuridicamente la capacità a prestare il proprio
consenso;
– il trasferire sul medico la totale responsabilità della capacità del paziente a prestare consenso può tradursi in una
remora verso l’attività terapeutica, specie se chirurgica.
Nonostante i dubbi e le diversità dottrinali, informazione e
consenso, nella loro forma attuale, sono diritti che trovano estensione nella giurisprudenza nelle sentenze e nelle interpretazioni che di detti atti hanno fatto le corti italiane. Informazione
e consenso, che un tempo non erano considerati di primaria importanza se non nella chirurgia, oggi sono in evidenza anche
nella medicina ambulatoriale. La spersonalizzazione del rapporto tradizionale medico–paziente, conseguenza della medicina di
équipes, non esime chi di dovere dall’assicurare al paziente i di-
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
37
ritti riconosciuti per legge. Ciò è stato confermato dalla sentenza che ha riguardato una équipe di oculisti in servizio presso
una clinica universitaria per cui il Giudice non ha accettato,
considerandolo «una mera formalità burocratica», un consenso
firmato dal paziente all’atto del ricovero che così riportava: «Il
sottoscritto autorizza l’esecuzione di tutte le indagini diagnostiche, delle tecniche di anestesia e degli interventi chirurgici ritenuti necessari dai sanitari». Il consenso — riporta la sentenza —
«implicito nei trattamenti di normale impegno, necessario esplicitamente nei trattamenti più complessi, impegnativi o pericolosi, legittima l’opera del medico». Il medico, con parole appropriate al grado di cultura del malato nella illustrazione del trattamento, mira a rimuovere nel suo interesse eventuali incertezze
e perplessità al fine di ottenere il consenso che renderà possibile
la effettuazione della prestazione. A tale proposito è utile ricordare che al secondo comma dell’art. 1176 del c.c. (diligenza
nell’adempimento) si legge: «Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura della attività esercitata». La diligenza pertanto va esercitata non solo nella attività
diagnostico–terapeutica, ma pretesa anche nelle fasi preliminari
che riguardano informazione e consenso.
Connesso con il dovere di informazione è il diritto del malato di decidere in piena libertà se farsi curare, il diritto cioè di
prestare o meno il proprio consenso, diritto che ha fondamento
nel dettato costituzionale. In definitiva, secondo il diritto corrente, perché il paziente possa prendere una decisione meditata
per acconsentire al trattamento, egli deve essere adeguatamente
informato circa i rischi e le probabilità di successo, essendo
l’unico in condizione di decidere e valutare il rapporto tra danno
possibile e vantaggio sperato. Il dovere di informazione non ricorre solo nei casi in cui l’intervento si palesi necessario e urgente, e il paziente non si trovi in grado di poter esprimere una
cosciente volontà, favorevole o contraria. Spetta al medico rendere possibile questa valutazione.
Contro la volontà del paziente è lecito agire solo se si interviene per salvarne la vita o la sua integrità fisica. Il concetto che
38
Capitolo I
ha guidato il legislatore porta a considerare che il bene della vita vada garantito prioritariamente rispetto al diritto di autodeterminazione. Sia l’art. 32 della costituzione che «tutela la salute oltre che come fondamentale diritto di un individuo anche
nell’interesse della collettività», sia l’art. 5 del c.c. che limita gli
atti di disposizione del proprio corpo, si pongono come limiti
del diritto di ciascuno affermando un dovere di autotutela della
propria integrità fisica. Infine, il consenso si riferisce sempre e
soltanto a quei trattamenti concordati con il medico. Se nel corso di un intervento chirurgico si rendesse necessaria una variazione di indirizzo, anche a seguito di situazioni nuove e imprevedibili, specie se portatrice di conseguenze, a meno che non si
tratti di una urgenza che possa mettere in serio pericolo il paziente, il chirurgo dovrebbe interrompere l’intervento, informare il paziente appena possibile e intervenire in un secondo tempo.
Nel caso ci si trovi in presenza di minorenni la legge non
prevede precisi limiti di età: ciò che conta è la capacita sostanziale di intendere e volere e non la capacità legale. È la competenza ad agire del paziente, non la capacità giuridica, che rende
valido il consenso, aspetto che anche il codice civile rappresenta, imponendo (in apparente contrasto con il diritto che si acquisisce con la maggiore età) di sentire il minorenne ai fini del riconoscimento (art. 250 c.c.) e per decisioni influenti sulla sua
vita (art. 316 c.c.). Si può affermare che, soprattutto in casi di
interventi di una certa entità e gravità, un giovane che abbia più
di quattordici anni e buone capacità intellettive abbia il diritto di
essere informato per prestare il suo consenso, anche se incombe
su chi esercita la patria potestà il decidere circa gli interventi
diagnostici e terapeutici del figlio minorenne. La capacità di esprimere un consenso valido, in tal caso, è considerata imperfetta e incompleta; pertanto si parla piuttosto che di consenso, di
assenso/dissenso, qualora lo si reputi “idoneo all’assunzione di
responsabilità” tenendo “conto” della sua volontà. Viene quindi
confermato che l’informazione deve essere data anche al minorenne, purché maggiore di anni quattordici affinché egli possa
esprimere il suo parere, ed il suo assenso o dissenso, a un trattamento sanitario o psicoterapico.
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
39
Così come per i giovanissimi (quindi non in quanto minorenni in senso giuridico), anche per le persone disabili e incapaci di formulare attualmente un valido consenso la legge prescrive che altri possano provvedere per loro. Per i familiari il problema non si pone. Una criticità si presenta quando la richiesta
di prestazione venga da un terzo. Ci si riferisce all’istituto del
mandato per cui, anche nella ristrettezza dei limiti di operabilità
(ci si trova di fronte a un diritto inalienabile), chi assume il
mandato ha facoltà di stipulare e quindi accettare o meno quanto proposto dal medico. Se cioè il paziente è impossibilitato, un
parente o anche un terzo potrà decidere per lui/lei l’affidamento
alle cure di un sanitario il quale, unico, sarà responsabile dei
metodi di cura che pone in essere. La informazione deve essere
offerta in maniera tale da non viziare la decisione conseguente
del paziente e deve essere tanto più dettagliata e precisa quanto
maggiori siano i rischi e gli effetti collaterali dell’intervento.
Nel caso di donazione di organi e tessuti (in Italia è ammesso il
prelievo di organi o tessuti da viventi solo per il rene e il midollo
osseo) il medico dovrà generare la massima completezza informativa con i donatori, tanto più che si tratterà di effettuare un intervento per loro non terapeutico e dal quale potrà conseguire solo
una mutilazione anche se temporanea (midollo). Sul medesimo
piano si colloca l’avvertimento al paziente, per ottenere il consenso
all’atto medico, circa l’esistenza di terapie alternative a quelle che
il medico propone. Un limite netto al dovere della informazione si
ha quando, per la gravità del caso e per l’imminente pericolo di vita del paziente, ci si trovi nella necessità di intervenire senza perdite di tempo. Quanto più urgente sarà la necessità di intervenire,
tanto minore sarà l’impegno richiesto al medico nella ricerca del
consenso rigorosamente e formalmente valido.
1.3. Il codice deontologico medico
Il consenso non è solo obbligo giuridico. Esso è prescritto
dal codice deontologico medico. In merito alla informazione al
cittadino l’art. 30 del Codice deontologico recita:
40
Capitolo I
Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla
diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative
diagnostico–terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte
operate; il medico, nell’informarlo, dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle
proposte diagnostico–terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta.
Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione del cittadino in tema di prevenzione. Le informazioni riguardanti prognosi
gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza
alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie
non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata.
Art. 31 — Informazione a terzi
L’informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente
espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto dall’art. 9 allorché
sia in grave pericolo la salute o la vita di altri. In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione
dei dati sensibili.
Art. 32 — Acquisizione del consenso
Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica
senza l’acquisizione del consenso informato del paziente.
Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei
casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà
della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo
di cui all’art. 30.
Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano
comportare grave rischio per l’incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione
sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non
ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 34.
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
41
Art. 33 — Consenso del legale rappresentante
Allorché si tratti di minore, di interdetto o di inabilitato, il consenso
agli interventi diagnostici e terapeutici, nonché al trattamento dei dati
sensibili, deve essere espresso dal rappresentante legale. In caso di
opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto
ad informare l’autorità giudiziaria.
Art. 34 — Autonomia del cittadino
Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e
dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente
espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può
non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso.
Il medico ha l’obbligo di dare informazioni al minore e di tenere conto
della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione, fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante; analogamente deve comportarsi di fronte a un maggiorenne infermo di mente.
Art. 35 — Assistenza d’urgenza
Allorché sussistano condizioni di urgenza e in caso di pericolo per la
vita di una persona, che non possa esprimere, al momento, volontà
contraria, il medico deve prestare l’assistenza e le cure indispensabili.
In ambito psichiatrico e psicoterapeutico si ritiene cruciale l’instaurazione della alleanza terapeutica, aspetto bene evidenziato dall’articolo 30 del Nuovo Codice di Deontologia
Medica dove si legge «al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte terapeutiche». Sempre in ambito psichiatrico, pur risultando sancito chiaramente l’obbligo di informazione, la letteratura propone sempre una attenta valutazione delle condizioni psicologiche del paziente perché si ritiene
che una informazione mal portata potrebbe procurare un ulteriore nocumento alla sua salute. Nei Paesi nordamericani si è
istituita per i casi in questione la figura del crisis councelor,
una figura “terza” rappresentata da un professionista, psicologo o psichiatra, che nella necessità possa e sappia fornire al
42
Capitolo I
malato o alla sua famiglia un supporto valido sotto il profilo
psicologico.
Ai fini di questa trattazione è importante rilevare come il
nuovo codice deontologico abbia abolito il capitolo dei trattamenti sanitari obbligatori, proprio per significare che, fino a
prova contraria, il malato, anche quello psichiatrico, sia considerato capace di intendere e di volere, meritevole di quegli spazi di libertà individuale di cui gode ogni soggetto con diagnosi
non psichiatrica. Solo nell’art. 78 riguardante la “Tutela della
salute collettiva”, viene menzionato in termini meramente normativi il TSO: «Il medico deve svolgere i compiti assegnatigli
dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempestività la informativa alle
autorità sanitarie e ad altre autorità nei modi, nei tempi e con le
procedure stabilite dalla legge, ivi compresa, quando prevista, la
tutela dell’anonimato».
In definitiva, il consenso (o il dissenso) si ritiene valido
quando presenti le seguenti caratteristiche, in mancanza delle
quali l’espressione della volontà viene ritenuta viziata, ovvero
quando sia:
– personale: deve essere dato in forma esplicita dal
paziente/avente diritto, maggiore di età (salvo quanto
scritto circa i minorenni maggiori di quattordici anni),
ritenuto capace di intendere e volere e mai può essere
presunto; trattandosi di un diritto che attiene
all’integrità psico–fisica dell’individuo, non può essere
fornito da altre persone (salvo per quanto previsto dalla
Legge) per le quali si pone solo una possibilità di informazione sulle condizioni di salute del paziente se il
medesimo acconsente, ai fini della Legge sul trattamento dei dati personali sensibili;
– richiesto: dal medico curante;
– esplicito e manifesto: deve essere espresso con chiarezza;
– preventivo: prestato prima dell’atto sanitario, compresa la
diagnosi;
– specifico: relativamente al trattamento cui si riferisce;
Inquadramento storico e giuridico del consenso informato
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– consapevole: basato su una preventiva e esaustiva informazione;
– gratuito: non è considerato valido il consenso prestato
a titolo oneroso o quale contropartita di favori o vantaggi;
– diretto: deve essere espresso senza l’intervento di intermediari, in quanto attiene alla sfera del rapporto medico–
paziente;
– libero: non viziato da errore, dolo o violenza, intendendosi per errore un consenso derivante da un’informativa
travisata da parte del paziente e per dolo l’estorsione del
consenso con artifici e raggiri;
– revocabile: è revocabile in ogni momento (salvo per
quanto previsto dalla Legge nei casi di necessità o di persona giudicata in quel frangente non capace di intendere e
volere);
– recettizio: gli effetti dell’atto si producono o iniziano a
prodursi nel momento in cui sia pervenuto alla conoscenza del destinatario. Diversamente, tale atto è privo di effetti;
– attuale: deve essere richiesto per ogni singolo trattamento
o per cicli di trattamento.
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