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Emily Dickinson, Poesie
Emily Dickinson Poesie La mia ruota è nel buio! Non vedo neppur uno dei suoi raggi, Eppure so che il suo passo stillante Si volge sempre in giro. Il mio piede è sull'onda! Strada non frequentata Pure tutte le strade Portano a una radura. Alcuni hanno lasciato ormai la spola Nella tomba operosa Altri fanno un lavoro inconsueto. Altri con nuova, solenne andatura, Regalmente oltrepassano il cancello, Respingendo il problema a voi ed a me! (c. 1858) Sono più miti le mattine E più scure diventano le noci E le bacche hanno un viso più rotondo, La rosa non è più nella città. L'acero indossa una sciarpa più gaia, E la campagna una gonna scarlatta. Ed anch'io, per non essere antiquata, Mi metterò un gioiello. (c. 1858) Un sepalo ed un petalo e una spina In un comune mattino d'estate, Un fiasco di rugiada, un'ape o due, Una brezza, Un frullo in mezzo agli alberi Ed io sono una rosa! (c. 1858) Fa' ch'io per te sia l'estate Quando saran fuggiti i giorni estivi! La tua musica quando il fanello Tacerà e il pettirosso! A fiorire per te saprò sfuggire alla tomba Riseminando il mio splendore! E tu coglimi, anemone, Tuo fiore per l'eterno! (c. 1858) Quando conto i semi Sparsi sottoterra Che poi fioriranno Quando penso a tanti Che giacciono là sotto E che saranno accolti in alto E quando credo nel giardino Che i mortali non vedono, Quando colgo i suoi fiori con la fede E ne scanso le api, So allora rinunziare a quest'estate Senza rimpianto. (c. 1858) Io non l'ho detto ancora al mio giardino Per non perdermi d'animo. E non mi sento ancora tanto forte Da rivelarlo all'ape. Non ne farò parola nella strada, Perfino le botteghe stupirebbero ch'io Timida ed ignorante come sono, Abbia l'audacia di morire. Non devono saperlo le colline Dove tanto ho vagato, Né posso dire ai miei boschi diletti Il giorno dell'addio. Né mormorarlo a tavola, Né sventata accennare per la via Che oggi stesso entrerò Nel cuore dell'enigma! (c. 1858) Se la mia barca sprofondò nel mare, Se incontrò le tempeste, Se ad isole incantate Drizzò docili vele, Quale mistico ormeggio Quest'oggi la trattiene, Ora cerca il mio sguardo Vagando sulla baia. (c. 1858) Più dolce appare il successo A chi mai lo conobbe. Apprezza meglio un nèttare La più crudele arsura. Nella schiera vermiglia Che oggi ha conquistato la bandiera Nessuno così bene Saprebbe definire la vittoria Come il soldato sconfitto, morente, Sul cui orecchio deluso Lontani inni trionfali Vanno a infrangersi, chiari e torturanti. (c. 1859) Alla parola "fuga" Mi si accelera il sangue, Un'improvvisa attesa Quasi in volo mi tende! Se apprendo d'ampie carceri Infrante dai soldati, Mi aggrappo alle mie sbarre Come un fanciullo - sempre Per ricadere vinta! (c. 1859) Il vento meridionale li investe, Giungono calabroni, Indugiano esitanti, Bevono e se ne vanno. Vi sostano farfalle Nel serico viaggio. Dolcemente cogliendoli, Ora qui ve li offro! (c. 1859) Vi son cose che volano Uccelli, ore, calabroni: Non è per queste l'elegia. Vi son cose che restano Il dolore ed i monti e l'eterno. Nemmeno queste a me si addicono. Altre sostano e sorgono. Posso spiegare i cieli? Com'è immoto l'enigma! (c. 1859) I miei fiori son per i prigionieri, Occhi velati dalla lunga attesa, Dita cui fu negato cogliere, Pazienti fino al Paradiso. Per questi, se potranno sussurrare Dell'alba e di brughiere, Non hanno altro messaggio, E non ho altra preghiera. (c. 1859) Per un istante d'estasi Noi paghiamo in angoscia Una misura esatta e trepidante, Proporzionata all'estasi. Per un'ora diletta Compensi amari d'anni, Centesimi strappati con dolore, Scrigni pieni di lacrime. (c. 1859) L'acqua è insegnata dalla sete. La terra, dagli oceani traversati. La gioia, dal dolore. La pace, dai racconti di battaglia. L'amore, da un'impronta di memoria. Gli uccelli, dalla neve. (c. 1859) Qualcosa di cambiato nell'aspetto dei monti Una luce splendente che riempie il villaggio Un'aurora più vasta Più profondo il crepuscolo sul prato L'orma di un piede vermiglio Un dito porporino sul pendio Una mosca insolente contro i vetri Un ragno che ritorna al suo lavoro Più maestoso l'incedere del gallo Un'attesa di fiori dappertutto L'ascia che canta stridula nei boschi Odor di felci su vie non battute Queste e altre cose che non posso dire L'aria furtiva che anche voi sapete Ed il mistero di Nicodemo Ha la sua replica annuale! (c. 1859) Perduta quando già ero in salvo! E già sentivo il mondo ritirarsi! Mi accingevo all'assalto dell'eterno, Quando tornò il respiro, E verso l'altra sponda Udii ritrarsi la marea delusa! E sono come un reduce che narri Strani segreti equatoriali Un marinaio che costeggiò rive lontane Od un pallido araldo dalle tremende porte Prima che siano suggellate! Ma un'altra volta, rimanere! Un'altra volta, vedere le cose Che orecchio non udì, Occhio non vide. Un'altra volta, sostare Mentre il tempo furtivo trascorre Lenti e pesanti procedono i secoli Ed i cicli si compiono. (c. 1860) Se più non fossi viva Quando verranno i pettirossi, Date a quello con la cravatta rossa Per ricordo una briciola. Se non potessi ringraziarvi Perché immersa nel sonno, Sappiate che mi sforzo Con le mie labbra di granito! (c. 1860) È poca cosa il pianto, Sono brevi i sospiri: Pure, per fatti di questa misura Uomini e donne muoiono! (c. 1860) Un'orrenda tempesta annientò l'aria Erano poche e livide le nubi Un'ombra, come il manto d'uno spettro, Nascose terra e cielo. Delle forme ghignavano sui tetti E sibilavano nell'aria E scuotevano i pugni, digrignavano i denti, Agitavano chiome convulse. Schiarì il mattino, sorsero gli uccelli, Gli occhi opachi del mostro Lentamente si volsero alla costa d'origine, E fu la pace un Paradiso! (c. 1860) Lento discendi, o Paradiso! Labbra a te non avvezze Timide i tuoi gelsomini delibano, Come vinta d'ebbrezza L'ape che tardi il proprio fiore raggiunse Sussurra intorno al suo talamo, Conta il nèttare, entra, Ed è perduta nei balsami. (c. 1860) Sicuri nelle stanze d'alabastro, Dove l'alba e il meriggio non li sfiorano, Dormono i miti membri della Risurrezione, Sotto travi di raso, con un tetto di pietra. Solenni vanno gli anni, di sopra, in curva schiera, Mondi compiono ellissi, remano firmamenti, Cadono le corone e si arrendono i Dogi, Taciti come bruscoli sopra un disco di neve. (1861) Ella spazza con scope iridescenti E lascia indietro i cirri. Massaia dell'occidente serale, Torna a spazzar lo stagno! Tu vi hai perduto un ordito di porpora, Tu vi hai perduto un filo d'ambra Ed hai cosparso poi tutto l'oriente Di stracci di smeraldo! E quella adopra le scope screziate Ed ancora svolazzano grembiuli Finché le scope piano si dileguino in stelle, E allora mi allontano. (c. 1861) Non può esser l'estate: è già passata È troppo presto per la primavera Bisogna traversare la lunga città bianca Prima che i merli cantino. Non può esser la morte - è troppo rossa E i morti vestono di bianco. E il tramonto mi tronca le domande In una stretta di crisolito. (c. 1861) Mi piace un volto d'agonia Perché so ch'è sincero. L'uomo non può contraffare lo spasimo Né simulare il rantolo. Gli occhi si fanno vitrei ed è la morte. Impossibile fingere Le perle di sudore sulla fronte Infilate dalla sommessa angoscia. (c. 1861) Ho visto un Paradiso come una tenda Avvolgere i teli lucenti, Togliere i pali e sparire Senza rumore d'assi O martellar di chiodi o falegname, Ma solo miglia d'attonito sguardo A indicare la visione che dilegua Nel Nord America. Nessuna traccia o segno della cosa Che ci abbagliava ieri Né anello né prodigio Uomini e fatti inesorabilmente Spariti, come la lontana Navigazione degli uccelli Dà un guizzo di colore, Uno spruzzo di remi, un'allegria, Ed è per sempre inghiottita allo sguardo. (c. 1861) Fra le mie dita tenevo un gioiello Quando mi addormentai. La giornata era calda, era tedioso il vento E dissi: "Durerà". Sgridai al risveglio le dita incolpevoli, La gemma era sparita. Ora solo un ricordo di ametista A me rimane. (c. 1861) O frenetiche notti! Se fossi accanto a te, Queste notti frenetiche sarebbero La nostra estasi! Futili i venti A un cuore in porto: Ha riposto la bussola, Ha riposto la carta. Vogare nell'Eden! Ah, il mare! Se potessi ancorarmi Stanotte in te! (c. 1861) Ora sono perduta, ma un tempo fui trovata E questa sarà ancora la mia estasi: Davanti a me le porte di diaspro Si spalancarono un tempo, improvvise, Sul mio volto stupito e imbarazzato Gli angeli dolcemente posarono lo sguardo Mi sfiorarono con le loro ali Quasi come mi amassero. Ora sono scacciata - e tu lo sai! Quanto mi senta in esilio Anche tu lo saprai quando il volto di Dio Si volgerà così, da te. (c. 1861) V'è un angolo di luce Nei meriggi invernali Che opprime come musica D'austere cattedrali. Una celeste piaga Ci dà, senz'altro segno Che il tramutarsi intimo D'ogni significato. Insegnarla è impossibile Il suggello è l'angoscia, Imperiale afflizione Discesa a noi dall'aria. Quando viene, il paesaggio Ascolta, fino l'ombre Trattengono il respiro. E quando va, somiglia alla distanza Sul volto della morte. (c. 1861) Dove navi di porpora oscillan dolcemente Su mari di giunchiglia, Dei marinai fantastici si aggirano, Poi sul molo è silenzio! (c. 1861) Sentivo un funerale nella mente, E andava gente in lutto, Avanti e indietro, sempre, finché parve Venir meno ogni senso. Poi quando tutti furono seduti, Vi fu un rito che, simile a un tamburo, Risuonava insistente, ed io credetti Mi annebbiasse la mente. Li sentii poi sollevare una bara E traversarmi, scricchiolando, l'anima Con quegli stessi stivali ferrati, Ed allora lo spazio suonò a morto, Come se il cielo una sola campana Fosse, ed un solo orecchio la Creazione, Io e il silenzio una razza forestiera Quaggiù, come in esilio, naufragata. Poi un'asse si spezzò nella ragione, Ed io precipitai sempre più in fondo, Ad ogni tratto urtando contro un mondo. Poi non seppi più nulla. (c. 1861) Come la luce, Delizia senza forma E come l'ape, Melodia senza tempo Come i boschi, Segreto come brezza Che, senza frasi, agita Gli alberi più superbi Come il mattino, Perfetto sul finire, Quando orologi immortali Suonano mezzogiorno! (c. 1861) L'anima sceglie i suoi compagni E poi chiude la porta: La sua divina maggioranza Estranei non sopporta. Impassibile, sente il cocchio che si ferma Presso il suo umile cancello. Impassibile, guarda un re prostrarsi Sul suo tappeto. So che da tutto il mondo Può scegliere uno solo: Chiuder le valve, poi, dell'attenzione Come fossero pietra. (c. 1862) Chi più sofferse la tribolazione Sarà distinto dalle vesti bianche. Indicano le vesti colorate I vincitori di minore grado. Vinsero tutti - ma chi per più volte Riportò la vittoria Ha per vestito la semplice neve, Per ornamento, solo palme. Arrendersi è un'azione sconosciuta In quest'alta regione La sconfitta, un'angoscia superata Che si ricorda appena, come il miglio Che il nostro piede affaticato, a stento Percorse quando il buio divorava la strada, Ma in un sussurro giungemmo alla casa, Dicendo solo una parola: "Salvi"! (c. 1861) Un uccello discese sul sentiero, Senza sapere che io l'osservavo. Spezzò col becco un lombrico E se lo mangiò crudo. Bevve un po' di rugiada Da un opportuno filo d'erba, Poi saltellò di lato verso il muro, Cedendo il passo ad uno scarabeo. Poi volse gli occhi rapido In frettoloso giro, E parvero due chicchi spaventati, Poi mosse il capo di velluto Come fosse in pericolo. Prudente Io gli offersi una briciola: Quello spiegò le penne E volò verso il nido, Più labile dei remi che dividono il mare Troppo argenteo perché vi resti impronta, O come dalle rive meridiane Si gettano farfalle, senza suono, nel volo. (c. 1862) L'erba ha poco da fare Sfera d'umile verde Per allevare farfalle E trastullare api. Muoversi tutto il giorno A melodie di brezza, Tenere in grembo il sole Ed inchinarsi a tutto. Infilare rugiada La notte come perle, E farsi così bella Da offuscare duchesse. Quando muore, svanire In odori divini Come dormienti spezie E amuleti di pino. Ed abitando nei granai sovrani I suoi giorni trascorrere nel sogno. L'erba ha poco da fare Ed io vorrei esser fieno! (c. 1862) Dopo un grande dolore viene un senso solenne, Stanno composti i nervi, come tombe, Il cuore irrigidito chiede se proprio lui Soffrì tanto? Fu ieri o qualche secolo fa? I piedi vanno attorno come automi Per un'arida via Di terra o d'aria o di qualsiasi cosa, Indifferenti ormai: Una pace di quarzo, come un sasso. Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive La ricorda come gli assiderati Rammentano la neve: Prima il freddo, poi lo stupore, infine L'inerzia. (c. 1862) Verrà infine l'estate: Dame con l'ombrellino E signori a passeggio col bastone, Fanciulle con le bambole, Coloriranno il pallido paesaggio Come un festoso mazzolino, Anche se sprofondato in mezzo al marmo Appare ora il villaggio. I lillà che s'intrecciano da anni Si piegheranno sotto un peso viola. Non sdegneranno le api la musica Su cui ronzarono i loro antenati. E le rose di macchia arrossiranno Nella palude, l'aster sopra il colle Riprenderà il suo stile eterno E le genziane avranno i loro merletti, Finché l'estate ripieghi il miracolo Come una donna ripiega la veste O i sacerdoti ripongono i simboli, Compiuto il Sacramento. (c. 1862) Così l'ottenni, Lentamente salendo, Afferrandomi ai rami che sporgevano Fra me e la beatitudine. Come pendeva in alto! Tanto sarebbe valso Scalare ad arte il cielo. Ho detto che l'ottenni E fu tutto. Guarda come la stringo Perché non cada, Ed io resti per sempre miserabile, Resa incapace da un istante di grazia Di riprender quel volto di quieta mendicante Che avevo un'ora fa! (c. 1862) Mi colpiva ogni giorno Sempre era nuovo il lampo Come se in quell'istante si spaccasse la nuvola E sprigionasse il fuoco. Mi bruciava, la notte, Mi torturava in sogno, E di nuovo doleva nel mio sguardo Ad ogni raggio mattutino. Credevo passeggeri gli uragani Tanto più brevi quanto più violenti. Di questo la Natura perse il conto E lo lasciò nel cielo. (c. 1862) Il giorno dopo un lutto Accade di frequente Che ogni altro giorno superi Per assoluta festa Come se la Natura indifferente Accumulasse fiori Per ostentare sempre più la gioia Agli occhi sbigottiti della vittima. Declamano gli uccelli i loro versi Staccando ogni parola Come una martellata. Se sapessero Che sono litanie di piombo Che cadono, qua e là, su una creatura, Cambierebbero questo tripudio In qualche tono da Crocifissione, In qualche nota da Calvario! (c. 1862) Sempre, come una musica, Insiste la memoria. Tamburi dagli spalti immateriali, Flauti del Paradiso! Echi di schiere battezzate, Cadenze troppo grandi, Che soltanto si addicono agli eletti Alla destra di Dio. (c. 1862) Per la Morte - o piuttosto per le cose Che la Morte procura Questa persona ha rinunziato Alle occasioni della Vita. Le cose che la Morte comprerà Sono: lo spazio, una liberazione Dalle circostanze E un nome. In quale modo ai doni della Vita Si confrontino i doni della Morte Non lo sappiamo Ogni valutazione Si ferma qui. (c. 1862) La morte è stata nella casa di fronte Nella giornata d'oggi. Lo capisco dall'aria sbalordita Che han sempre certe case. Andirivieni di vicini. Riparte la carrozza del dottore. Una finestra s'apre come un seme, Improvvisa, meccanica, Qualcuno mette fuori un materasso E accorrono i bambini, Chiedendosi curiosi se è morto proprio lì: Così facevo nella fanciullezza! Il prete entra solenne Come se fosse il padrone di casa E padrone della famiglia in lutto E anche di tutti i ragazzini. Poi viene la modista, e vien quell'uomo Dall'orrendo mestiere A prender le misure della casa. Ed a momenti la nera parata Di nappe e di carrozze sfilerà: Facile come ad un segnale È l'intuizione dell'avvenimento In un paese di campagna. (c. 1862) Viene, l'irrevocabile creatura Raggiunge il caseggiato, poi raggiunge la porta, Sceglie fra tutti un chiavistello, Entra: "Mi conoscete?" È semplice il saluto, com'è certo Il riconoscimento: audace, se nemico, Laconico, se amico. E riveste ogni casa di crespo e di ghiaccioli E un suo abitante reca a Dio. (c. 1862) Quanti fiori decadono nel bosco O periscono dalla collina, Che non ebbero in sorte di conoscere Il loro splendore! E quanti affidano un seme senza nome A una brezza vicina, Ignari del dono scarlatto Che recherà ad altri occhi! (c. 1862) Caddero come neve, Caddero come stelle O petali di rosa, Quando improvviso in giugno Li tocca il vento. Perirono nell'erba che non ne serba segno L'occhio non trova il luogo Ma Dio con il suo libro irrevocabile Richiamerà ogni volto. (c. 1862) Ora è morto. Ritrovalo: sottratto Al suono ed alla vista. "Contento?" Chi è più saggio, Tu o il vento? "Consapevole?" Lo domanderesti A questa terra orizzontale? "Ebbe rimpianti?" Molti lo incontrarono, Ma neanche loro possono Testimoniare: Anch'essi ormai son muti. (c. 1862) È la mia lettera al mondo Che mai non scrisse a me Semplici annunzi che dà la Natura Con tenera maestà. Il suo messaggio è consegnato a mani Per me invisibili. Per amor suo, miei dolci compaesani, Benignamente giudicatemi! (c. 1862) Fu questo un poeta - colui che distilla Un senso sorprendente da ordinari Significati, essenze così immense Da specie familiari Morte alla nostra porta Che stupore ci assale Perché non fummo noi A fermarle per primi. Rivelatore d'immagini, È lui, il Poeta, A condannarci per contrasto Ad una illimitata povertà. Della sua parte ignaro, Tanto che il furto non lo turberebbe, È per se stesso un tesoro Inviolabile al tempo. (c. 1862) Come occhi che videro deserti E più non credono a nulla Che non sia il vuoto e l'ampia solitudine Variata solo dalla notte, Un infinito nulla Fin là dove può spingersi lo sguardo Tale era l'espressione della faccia Che guardavo, ed io tale le apparivo. Io non offersi aiuto: La causa era una sola, L'angoscia un'alleanza Disperata e divina. E nessuna voleva essere assolta E nessuna regnare Senza l'altra: per questo noi periamo, Anche se da regine. (c. 1862) Sposa mi troverà il nascente giorno. Hai tu, aurora, un vessillo per me? A mezzanotte sono ancora una fanciulla, Ma come rapide si compiono le nozze! Allora, o notte, passerò da te Nell'Est, nella vittoria. Mezzanotte. "Buonanotte", Li sento dire. Un brusìo d'angeli nel vestibolo, Ed il Futuro dolcemente sale Alla mia stanza. Io mormoro preghiere Della mia infanzia tra breve remota. Eternità, ti raggiungo, Signore: Maestro, io già conobbi quel volto. (c. 1862) Morendo, udivo ronzare una mosca. Il silenzio d'intorno Assomigliava al silenzio dell'aria Fra successive ondate di tempesta. Gli astanti non avevano più lacrime E trattenevano il respiro Per quell'ultimo assalto, quando il Re Appare nella stanza. Assegnai i miei ricordi, detti via Ogni mia cosa che potessi dare E proprio in quel momento S'interpose una mosca. Con un azzurro, incerto, tremolante ronzìo, Fra me e la luce: E allora le finestre s'empirono di nebbia Ed io non vidi più. (c. 1862) Nessuno sa quanto si estenda La sua disperazione. Come per una strada senza mèta Il viaggiatore avanza Un solo miglio alla volta, Senza saper la distanza, E non si accorge che il sole Scende sul suo cammino, Così non sa valutare il dolore Chi ne è appena all'inizio. La sua ignoranza è l'angelo Che gli fa da pilota. (c. 1862) È solenne, nell'anima Sentirsi maturare E pendere dorati, mentre in alto Si appoggiano le scale del Creatore, E sotto, nel frutteto, Senti cadere un essere. Meraviglioso sentire che il sole Lavora ancora sulla guancia Che credevi finita: ora con uno sguardo Critico ed imparziale Sposta un poco lo stelo, per vederti Meglio nell'intimo. Ma più solenne di tutto è sapere Che si avvicina l'ora del raccolto Anche per te: ogni sole Per certe vite è l'unico. (c. 1862) Se tu venissi in autunno, Io scaccerei l'estate, Un po' con un sorriso ed un po' con dispetto, Come scaccia una mosca la massaia. Se fra un anno potessi rivederti, Farei dei mesi altrettanti gomitoli, Da riporre in cassetti separati, Per timore che i numeri si fondano. Fosse l'attesa soltanto di secoli, Li conterei sulla mano, Sottraendo fin quando le dita mi cadessero Nella Terra di Van Diemen. Fossi certa che dopo questa vita La tua e la mia venissero, Io questa getterei come una buccia E prenderei l'eternità. Ora ignoro l'ampiezza Del tempo che intercorre a separarci, E mi tortura come un'ape fantasma Che non vuole mostrare il pungiglione. (c. 1862) La Bellezza non ha causa: Esiste. Inseguila e sparisce. Non inseguirla e rimane. Sai afferrare le crespe Del prato, quando il vento Vi avvolge le sue dita? Iddio provvederà Perché non ti riesca. (c. 1862) Dona ai vivi le lacrime Che spandi sopra i morti: Uomini e donne si riscalderebbero Ora al tuo focolare, Invece d'essere passive creature Cui l'amore è negato, Finché esse stesse neghino l'amore Con l'etereo disprezzo della morte. (c. 1862) Partiti per Giudizio Nel meriggio possente, Grandi nubi s'inchinano come cerimonieri, È intenta la Creazione, Assoggettata la carne, annullata, Ha inizio l'incorporeo. Due mondi, come folla, si disperdono Lasciando sola l'anima. (c. 1862) Mio per la legge della candida scelta! Mio per sigillo regale! Mio per il segno nella rossa prigione Che le sbarre non celano! Mio qui, nella visione e nel divieto! Mio per l'abrogazione della tomba. Confermato, intestato, Delirante contratto! Mio mentre sfuggono le epoche! (c. 1862) Oggi mi sento triste per i morti. Hanno ore così liete I vecchi dietro agli steccati. È la stagione del fieno, Ed i grossi, abbronzati conoscenti Si scambiano parole in mezzo alla fatica E ridono - un razza casalinga Che rallegra perfino gli steccati. E sembra duro giacere lontano Dal rumore dei campi, Dai carri affaccendati, dai fragranti Covoni - e il canto di chi falcia Insinua un'ansia, quasi nostalgia, Pei contadini con le loro spose, Allontanati dal lavoro dei campi, Da tutta l'esistenza dei vicini. Mi chiedo se la tomba Non abbia troppa solitudine Quando uomini e ragazzi con i carri ed il giugno Vanno nei campi a fare il fieno! (c. 1862) Il cuore prima chiede gioia, Poi assenza di dolore, Poi gli scialbi anodini Che attenuano il soffrire, Poi chiede il sonno, e infine Se a tanto consentisse Il suo tremendo Giudice, Libertà di morire. (c. 1862) Tutto imparammo dell'amore Alfabeto, parole, Un capitolo, il libro possente Poi la rivelazione terminò. Ma negli occhi dell'altro Ciascuno contemplava un'ignoranza Divina, ancora più che nell'infanzia: L'uno all'altro, fanciulli, Tentammo di spiegare Quanto era per entrambi incomprensibile. Ahi, com'è vasta la saggezza E molteplice il vero! (c. 1862) A me piace vederlo quando lecca le miglia E inghiottisce le valli E si ferma a nutrirsi alle cisterne, Poi, prodigioso, gira Attorno ad un massiccio di montagne, Getta occhiate sprezzanti Nelle capanne ai lati delle strade, E si scava una tana Della misura dei suoi fianchi, e striscia Dentro, sempre lagnandosi In orrida cadenza sibilante, E si butta in discesa Nitrendo come fosse Boanerges, E puntuale poi come una stella Si ferma, docile ed onnipotente, Proprio alla porta della scuderia. (c. 1862) Tiene il ragno un gomitolo d'argento Con due mani invisibili E in una danza dolce e solitaria Sdipana il filo di perla. Di nulla in nulla avanza Col suo lavoro immateriale. Ricopre i nostri arazzi con i suoi Nella metà del tempo. Gli basta un'ora ad innalzare estreme Teorie di luce. Pende poi dalla cima di una scopa, Dimenticando ogni sua sottigliezza. (c. 1862) Di vicinanza ai suoi perduti beni L'anima sa speciali istanti Quando l'oscurità sembra uno strappo, La chiarezza la regola. Forme che seppellimmo ora si aggirano In casa, familiari. Non offuscato dal sepolcro Il compagno di giochi (adesso polvere) Torna con la giacchetta che indossava E lo ha coperto a lungo sottoterra Dacché, un antico mattino, giocammo, Fanciulli, separati ora da un mondo. La tomba rende il suo furto, Il tempo la sua preda. Lucenti apparizioni Con l'ala ci salutano Come se noi fossimo i morti, Ed essi rimanessero ad attenderci Portando essi per noi Il lutto. (c. 1862) Ti vedo meglio al buio, Non mi occorre altra luce: L'amore è per me un prisma Che supera il violetto. Ti vedo meglio per gli anni Che s'inarcano in mezzo. Al minatore basta la sua lampada Per annullare la miniera. E ti vedo ancor meglio nella tomba: Le sue brevi pareti Si rischiarano, rosse, per la luce Che così in alto sollevai per te. A cosa serve il giorno Per chi nella sua tenebra Ha un sole così eccelso Che mai sembra scostarsi Dal meridiano? (c. 1862) Molto inoltrato era il nostro viaggio: I nostri piedi erano quasi giunti A quella strana svolta sul cammino dell'essere Che ha nome Eternità. Il nostro passo si fece a un tratto timido Ed i piedi avanzarono esitanti. Davanti a noi eran città, ma nel mezzo La foresta dei morti. Senza speranza di tornare indietro Avevamo alle spalle una via sigillata, Davanti il bianco vessillo dell'eterno E Dio ad ogni porta. (c. 1862) Rimane oziosa l'anima Che ha ricevuto un colpo micidiale: Lo spazio della vita le si stende davanti Senza nulla da fare. E vi chiede lavoro Fosse soltanto di appuntare spilli O di fare il più misero rammendo da bambini Per aiutare le sue mani vuote. (c. 1862) Era tardi per l'uomo, Ma ancora presto per Dio, Il creato impotente ad aiutarci, Ma la preghiera ci restava al fianco. Com'è perfetto il cielo Quando non si può avere questa terra: Come appare ospitale allora il volto Del nostro antico vicino, di Dio! (c. 1862) Fu molto lunga la separazione, Ma venne l'ora dell'incontro: Davanti al trono di Dio giudicante, Per la seconda e per l'ultima volta Questi amanti incorporei s'incontrarono, Un cielo nello sguardo, Cielo dei cieli a ognuno il privilegio Di contemplar gli occhi dell'altro. Spazio di vita non era fissato Per loro, erano adorni come i nuovi Bimbi non ancor nati, ma avevano esperienza Ed ora rinascevano all'eterno. Vi furono mai nozze come queste? Un paradiso li ospitava E cherubini e serafini furono I rispettosi invitati. (c. 1862) Tu mi lasciasti, mio Re, due retaggi: Un retaggio d'amore Che appagherebbe anche il Padre Celeste Se a Lui venisse offerto, E mi lasciasti regni di dolore, Capaci come il mare, Fra l'eterno ed il tempo, La tua presenza e me. (c.1862) C'è un vuoto nel dolore: Non si può ricordare Quando iniziò, se giorno Ne fu mai libero. Esso è il proprio futuro E i suoi infiniti regni Contengono il passato, Illuminato a scorgere Nuove età di dolore. (c. 1862) Un uccello è di tutti gli esseri Il più somigliante all'aurora Che a un fil di brezza su vasti Paradisi fluttua. Si slancia e trepida e vola Emulando le nubi alla dolce Andatura lucente. Non sono Diversi gli uccelli, Ma in più tutta un'onda di musica Il loro cammino accompagna Quasi diffonda melodia l'aurora Nella sua estasi. (c. 1862) Io vivo nella Possibilità, Una casa più bella della prosa, Di finestre più adorna E più superba nelle sue porte. Ha stanze simili a cedri Impenetrabili allo sguardo E per tetto la volta Perenne del cielo. L'allietano visite dolcissime. E la mia vita è questa: Allargare le mie esili mani Per accogliervi il Paradiso. (c. 1862) Sento nella mia stanza Un compagno invisibile. La sua presenza non è confermata Da gesto o da parola, Né occorre fargli posto: È miglior cortesia L'ospitale intuizione Della sua compagnia. La presenza è la sola Libertà che si prende. Né io né lui tradiamo Il patto di silenzio. Annoiarmi di lui Sarebbe strano, come Se la monotonia Conoscessero gli atomi del vasto Mondo spaziale. Non so se in altre case Entri, se si trattenga O no, ma per istinto Io conosco il suo nome, ed è "Immortalità". (c. 1863) Ogni vita converge a qualche centro, Dichiarato o taciuto. Esiste in ogni cuore umano Una mèta Ch'esso forse osa appena riconoscere, Troppo bella Per rischiare l'audacia Di credervi. Cautamente adorata come un fragile cielo, Raggiungerla Sarebbe impresa disperata come Toccar la veste dell'arcobaleno. Ma più sicura quanto più distante Per chi persevera: E come alto alla lenta pazienza Dei santi è il cielo! Non l'otterrà forse la breve prova Della vita, ma poi L'eternità rende ancora possibile L'ardente slancio. (c. 1863) Come se il mare separandosi Svelasse un altro mare, Questo un altro, ed i tre Solo il presagio fossero D'un infinito di mari Non visitati da riva Il mare stesso al mare fosse riva Questo è l'eternità. (c. 1863) L'incertezza è più ostile della morte. La morte, anche se vasta, È soltanto la morte e non può crescere. All'incertezza invece non v'è limite, Perisce per risorgere E morire di nuovo, È l'unione del Nulla Con l'Immortalità. (c. 1863) Non potevo fermarmi per la Morte. Essa, benigna, si fermò per me. Il cocchio conteneva noi due sole E l'Immortalità. Era lento (la Morte non ha fretta) E dovetti riporre Il mio lavoro ed anche i miei trastulli Per quella visita. Passammo oltre la scuola, dove bimbi facevano La ricreazione, in cerchio, Ed oltre i campi d'attonito grano E oltre il sole al tramonto, O piuttosto fu il sole che passò oltre di noi, Venne la guazza, tremolante e fredda, Ché la mia gonna era garza sottile E la mia mantellina solo tulle. Sostammo ad una casa che sembrava Un rigonfio del suolo: Il suo tetto si distingueva appena, Per cornicione aveva poche zolle. Sono passati secoli, ma ognuno È più breve del giorno In cui capii che vòlte eran le teste Dei cavalli verso l'eternità. (c. 1863) Se meritassi, in me stessa, la fama, Ogni altro applauso sarebbe Superfluo, come incenso Senza necessità. Se non la meritassi, anche se fosse Altissimo per gli altri il nome mio, Sarebbe un pregio spregevole, Un futile diadema. (c. 1863) Due abissi: dietro a me l'Eternità, Sotto il mio sguardo l'Immortalità, Ed io al loro confine La Morte l'ultimo grigiore orientale Consumato dall'alba Innanzi che cominci l'Occidente. Dopo v'è un regno, dicono, Eterno ed immutabile, Il cui Re da nessuno trasse origine, È egli stesso la propria dinastia Senza data, e se stesso diversifica In duplicato divino. Davanti a me il miracolo si estende, Miracolo alle spalle e mi circonda, Ed il mare s'inarca, Con mezzanotte a nord E mezzanotte a sud, Mentre in cielo trascorre l'uragano. (c. 1863) Abbiamo prima sete - è l'atto di natura E dopo, quando stiamo per morire, Chiediamo supplichevoli un po' d'acqua A dita che ci passano vicine. Ed è figura d'un bisogno più alto La cui risposta adeguata Sono le grandi acque occidentali Chiamate Eternità. (c. 1863) Molte volte pensai giunta la pace Quando la pace era tanto lontana: Così i naufraghi credono di vedere la terra Nel centro del mare, E indeboliti lottano, soltanto per scoprire, Come me disperati, Quante rive fittizie Vengano prima del porto. (c. 1863) Da un vuoto all'altro, In un cammino senza senso, Muovevo passi meccanici, Per fermarmi, perire, O andare avanti, A tutto indifferente Se giungessi alla fine, Se di là da ogni fine L'indefinito si aprisse Chiusi gli occhi e a tentoni Procedetti ugualmente: Era meno penoso essere cieca. (c. 1863) Il presagio è quell'ombra che si allunga sul prato, Indice di tramonti, Ad avvertire l'erba sbigottita Che su lei presto scenderà la notte. (c. 1863) È gioia solitaria, Eppure eleva l'anima Con stupendi richiami, Remoto sopra il vento Il canto d'un uccello, Delizia senza causa, Incessante e invisibile, Un'essenza dei cieli. (c. 1863) Chi conosce giganti, con uomini minori È timido, incompleto. La grandezza è sorgente di disagio Tra inadeguata compagnia. Un essere più piccolo non sarebbe turbato. Il moscerino estivo Salpa e non sa che la sua sola vela Non empie tutto il cielo. (c. 1863) Quest'è la vista dalla mia finestra: Un mare su uno stelo. Se uccelli e contadini lo giudicano un pino, Per loro può bastare. Non ha "porto" né "linea", ma ghiandaie Vi sostano nella celeste rotta E di là giunge meglio lo scoiattolo Alla penisola vertiginosa. Il suo bacino: la terra è al disotto, Dall'altro lato il sole. Il suo commercio, se commercio esiste, È di spezie, lo sento dai profumi. Della sua voce, se lo invade il vento, Cosa dirò? Come potrebbe un muto Definire il divino? Definizione della melodia È che non ha definizione. Suggerisce alla fede, suggerisce alla vista, E quando questa ormai non sarà più, Io penserò di avere già incontrato Quell'Immortalità. Era il pino alla mia finestra un membro Del regale Infinito? L'intuizione è una visita di Dio E per tale dev'essere venerata. (c. 1863) Il tempo sembra così vasto Che, non vi fosse l'eterno, Temo che questa sfera Illuderebbe il mio finito essere, Escludendo Colui che i rudimenti Dello spazio ci dà per prepararci All'ampiezza stupenda Dei suoi diametri. (c. 1863) Questo nonnulla fu amato dall'ape, Desiderato da farfalle, Da una celeste, disperata distanza Ebbe l'approvazione degli uccelli, Ed abbellì di se stesso il meriggio E fu l'estate per un gruppo d'esseri Per cui la sua esistenza era la sola Prova che avessero di un Universo. (c. 1863) Questa polvere quieta fu signori e fu dame E giovani e fanciulle, Fu riso, arte e sospiro E bei vestiti e riccioli. E questo inerte luogo fu la dimora estiva Dove api e fiori Il loro ciclo orientale compirono, Poi anch'essi ebbero fine. (c. 1864) Il vento cominciò a cullare l'erba Con voce sorda e minacciosa. Lanciò una sfida alla terra Ed una sfida al cielo. Le foglie si staccarono dagli alberi E tutte si dispersero. La polvere, curvata come mani, Buttò via la strada. I carri si affrettarono per via, E sopravvenne lento il tuono. Il lampo ora mostrava un becco giallo, Ora un artiglio livido. Tutti gli uccelli sprangarono il nido E gli armenti fuggirono alle stalle. Cadde una goccia di pioggia gigante, Poi, come si fossero disgiunte Le mani che reggevano le dighe, Le acque straziarono il cielo, E tuttavia scansarono la casa di mio padre, Svellendo solo un albero. (c. 1864) Tutto quello ch'io so È un messaggio ogni giorno Dall'Immortalità. Tutto quello ch'io vedo È il presente e il domani, Forse l'Eternità. Ed il solo che incontro È Dio, la sola strada L'esistenza. Di là Da questa, se altre cose Vi saranno o visioni più mirabili, Ve lo dirò. (c. 1864) Sempre mio! Non più assenza! Èra di luce sorta in questo giorno! Infallibile come la vicenda Delle stagioni e del sole! La grazia è antica, ma nuovi gli eletti. Molto antico è l'oriente, e tuttavia Nel suo programma purpureo Ogni aurora è la prima. (c. 1864) Io canto per riempire l'attesa: Annodarmi la cuffia, Richiudere la porta di casa E non altro ho da fare, Finché risuoni vicino il suo passo, E insieme camminiamo verso il giorno, L'uno all'altro narrando di come cantammo Per scacciare la tenebra. (c. 1864) Da un'asse all'altra avanzavo Così lenta, prudente. Sentivo le stelle sul capo, E sotto i piedi il mare. Questo solo sapevo: che un altro Passo sarebbe stato irrevocabile. Ed avevo quell'andatura incerta Che chiamano esperienza. (c. 1864) Immensità d'argento Con funi di sabbia A trattenerla perché non cancelli Una pista che chiamano la terra. (c. 1864) Quando ho veduto il sole emergere Dalla meravigliosa sua dimora, Lasciando il giorno ad ogni soglia E ad ogni luogo il suo lavoro, Senza uno strascico di fama O un'aggiunta di suono, A me la terra è sembrata un tamburo Seguito da ragazzi. (c. 1864) Fortunato il sepolcro, Che conquista ogni preda, Sicuro del successo, anche se in ultimo: Unico pretendente non deluso. (c. 1864) E questa d'ogni mia speranza È la silenziosa fine. Sorse tra bei colori il mio mattino Precoce ed arida la fine. Mai fiore su uno stelo Si schiuse più gioioso, Né verme più accanito Una radice tanto coraggiosa Ha mai consunto. (c. 1864) È un nobile pensiero, Da levarsi il cappello Come all'incontro con un gran signore Sul nostro itinerario quotidiano, Che per noi esista una dimora immortale, Anche se le piramidi si sgretolano E i regni, a somiglianza del frutteto, Dileguano in un rosso turbinìo. (c. 1864) Sempre d'un bene perduto Mi oppresse il desiderio. Nel più antico ricordo Mi fu tolto qualcosa che ignoravo, Troppo bimba perché altri sospettassero In me celato il lutto. Tuttavia Io mi aggiravo come chi lamenta Nell'esilio un dominio ove regnò. Oggi più vecchia, più saggia per gli anni E più debole per la mia saggezza Sono ancora sommessamente in cerca Delle mie regge evanescenti, Ed ogni tanto il dito del sospetto Mi passa sulla fronte: Ch'io stia cercando dalla parte opposta Solo il regno dei cieli. (c. 1864) Morirono a metà dell'estate, Un tempo pieno e perfetto: Era l'estate chiusa su se stessa Nel suo colmo splendore. Quando l'ultime spighe maturavano Per essere falciate, Essi, attraverso la nebbia del sepolcro, Approdarono nella perfezione. (c. 1864) Tutto ho dimenticato perché un solo Nella memoria trionfi. E tutto ho abbandonato per un nuovo Compagno, uno straniero. Ogni pregio di casta e di fortuna Trascurai a possedere Un'ignota dolcezza E chi può la misuri! Svanì la casa, s'annebbiarono i volti, Poco divario ebbe per me la natura: Splendesse il sole o la tempesta infuriasse, Di nulla mi curavo. Lasciai cadere il mio destino, timida Pietruzza nel tuo mare più audace. E tu chiedimi, amore, se ho rimpianti Mettimi alla prova! (c. 1864) È un'angoscia più intensa della gioia, È il dolore della Risurrezione, Quando le schiere dal rapito volto Di là dal nostro dubbio nuovamente s'incontrino. È l'estasi violenta che scuoterà la tomba, Quando il sudario allenterà la stretta E creature vestite di miracolo Saliranno a due a due. (c. 1865) Una sottile creatura tra l'erba Talvolta striscia. Forse la conoscete - ad ogni modo La comparsa è improvvisa. L'erba si scosta come sotto un pettine Un guizzo variegato Poi si richiude ai vostri piedi E s'apre più lontano. Ama terre palustri, Un suolo troppo fresco per il grano Ma nell'infanzia, a piedi nudi, Io spesso nel meriggio Ho oltrepassato, credevo, una frusta Che si snodava al sole. Se mi chinavo a prenderla, Si torceva e spariva. Molti conosco nel mondo Della Natura: conoscono me E per loro ho uno slancio Di simpatia, Ma se incontro quell'essere, Da sola o in compagnia, Mi vien sempre l'affanno, E un gelo nella schiena. (c. 1865) Come stanno silenti le campane Nelle torri, finché, gonfie di cielo, Balzino con i piedi argentei In melodia frenetica! (c. 1865) Salgo col mio fardello il colle della vita. Se lo trovo scosceso, Se lo scoraggiamento mi trattiene E se l'ultimo passo è già più vecchio Della speranza che lo suggerì Pure non cada biasimo sul cuore Che propose e sul cuore che accettò L'esilio come patria. (c. 1865) Esseri come loro sono morti: per questo Moriamo con maggior rassegnazione. Ma vissero: per noi questo è certezza Dell'Immortalità. (c. 1865) La primavera ritorna sul mondo. Guardo l'aprile, che non ha colori Per me, finché tu venga, Come prima del giungere dell'ape Restano inerti i fiori, Destati all'esistenza da un ronzio. (c. 1865) Apri il cancello, Morte! Entra lo stanco gregge Di cui più non risuona il belato E ha termine l'errante cammino. Tua la notte più quieta, Tuo il più sicuro ovile. Troppo vicina ormai per la ricerca, Troppo dolce tu sei per la parola. (c. 1865) Nessuna vita è sferica Tranne le più ristrette. Queste son presto colme, Si svelano e hanno termine. Le grandi crescono lente, Dal ramo tardi pendono: Sono lunghe le estati Delle Esperidi. (c. 1866) Il Paradiso dipende da noi. Chiunque voglia Vive nell'Eden, nonostante Adamo E la cacciata. (c. 1866) È basso il cielo, misere le nubi, Ed un fiocco di neve vagabondo È incerto se passare Dal fienile o dal solco delle ruote. L'esile vento tutto il giorno geme Per la maniera in cui l'hanno trattato. Come noi la Natura si fa a volte sorprendere Senza diadema. (c. 1866) Il movimento in una casa All'indomani di una morte È solenne fra tutte le faccende Che si compiono al mondo. Ora si spazza il cuore, Si ripone l'affetto Che non ci serve ormai Fino all'eternità. (c. 1866) Cantava il grillo, Il sole tramontò E gli operai finirono, uno ad uno, La fatica del giorno. L'erba corta s'intrise di rugiada E il crepuscolo, come uno straniero Con il cappello in mano, cortese ed inesperto, Sostò indeciso se restare o andare. Venne una vastità, come un amico, Una saggezza senza volto o nome, Una pace di sfere in armonia: Così fu notte. (c. 1866) Mi preparo per loro E cerco il buio finché non sia pronta. Il lavoro è solenne, Con una sola e sufficiente dolcezza: Che una rinunzia come questa mia Procuri loro un cibo Più puro, se riesco Se non riesco, avrò avuto lo slancio Del desiderio. (c. 1867) Dopo cento anni Nessuno più conosce il luogo. Immota l'agonia che vi si svolse Come la pace. Trionfarono le ortiche, e gli stranieri Vennero a decifrare L'ortografia remota Di questi antichi morti Il vento dell'estate Riconosce la via: Poiché l'istinto raccoglie la chiave Sfuggita alla memoria. (c. 1869) Alcuni giorni restano isolati Dagli altri, in un sommesso spicco: Il giorno in cui per noi giunse un compagno O fu costretto a morire. (c. 1870) Grandi vie di silenzio conducevano A paesi di calma. Non vi erano notizie né discordie Né universo né leggi. Gli orologi dicevano il mattino E campane lontane chiamavano la notte, Ma il tempo qui non aveva più base, Era svanita ogni misura. (c. 1870) Non conosciamo mai la nostra altezza Finché non siamo chiamati ad alzarci. E se siamo fedeli al nostro compito Arriva al cielo la nostra statura. L'eroismo che allora recitiamo Sarebbe quotidiano, se noi stessi Non c'incurvassimo di cubiti Per la paura di essere dei re. (c. 1870) Sopravvissi, non so come, alla notte, Entrai nel giorno. Per esser salvi, basta essere salvi, Senz'altra formula. Da allora prendo il mio posto tra i vivi Come chi, commutata la sua pena, È candidato alla grazia dell'alba Ma la sua vera dimora è tra i morti. (c. 1871) È una curiosa creatura il passato Ed a guardarlo in viso Si può approdare all'estasi O alla disperazione. Se qualcuno l'incontra disarmato, Presto, gli grido, fuggi! Quelle sue munizioni arrugginite Possono ancora uccidere! (c. 1871) Il mare disse "Vieni" al ruscello. Disse il ruscello: "Lasciami crescere!" E il mare: "Allora tu saresti un mare Ed io voglio un ruscello. Vieni ora!" (c. 1872) La sua intima ora Lo spirito non svela. Che pànico avverrebbe nella via Se qualche volto tradisse Il peso sotterraneo, Le cantine dell'anima. Lode a Dio, che la cosa più esplosiva che fece Ha il permesso di starsene in silenzio! (c. 1872) Sembrava pioggia finché non svoltava, Ed allora capivo che era vento: Umido nel passaggio come un'onda, Ma s'impennava secco come sabbia. E quando poi si fu spinto lontano, Verso qualche pianura più remota, Venne un galoppo come schiere armate, E questa era la pioggia. Riempiva i pozzi, allietava gli stagni, Trillava per la via, Tolse lo zipolo ai monti Liberando i torrenti, Allagò i campi, rigonfiò le acque Spostando tutti i centri Poi si alzò come Elia Nel vortice di nubi. (c. 1872) Ciò che temevo venne, Ma meno spaventoso, Perché il lungo timore L'aveva quasi abbellito. Ci si abitua all'angoscia, Alla disperazione. Peggio saper che viene Che saperla presente. Chi indossa la sua pena Il mattino che è nuova Soffre più che a portarla Un'intera esistenza. (c. 1873) Nessuno resta defraudato dal Cielo. Anche se il Cielo sembra un ladro, rende In qualche dolce modo, occultamente, Secondo che decide il suo volere. (c. 1874) Quella breve, potente sensazione Che ognuno crea una sola volta, L'attenzione solenne Che quasi conferisce un'importanza, È il lustro della morte. O ignota risonanza Che nessun mendicante accetterebbe Se potesse evitarla! (c. 1874) La sua dimora nello stagno Il ranocchio abbandona. Sopra un pezzo di legno Sale a fare un discorso. Lo ascoltano due mondi Senza contare me. L'oratore di aprile Quest'oggi è rauco. Ha mezzi guanti ai piedi, Visto che non ha mani. La sua eloquenza è tutta bolle d'aria Come la gloria umana. Se applaudisci ti accorgi Con dispiacere Che Demostene già si è dileguato Nelle acque verdi. (c. 1876) Il vuoto di lunghi anni di distanza Può un attimo colmare, Poiché l'assenza del mago non rompe L'incantesimo. Ceneri di mill'anni, Scoperte dalla mano Che le nutriva quand'erano fuoco, Arderanno di nuovo, e intenderanno. (c. 1876) Marzo: mese di attesa. Le cose che ignoriamo E le persone del nostro presagio Sono in cammino. Ci sforziamo di fingere fermezza Come si deve, ma la gioia solenne Ci tradisce, così come tradisce Il giovinetto appena fidanzato. (c. 1877) L'acqua fa molti letti Per chi non vuol dormire. La terribile camera sta aperta E le sue tende oscillano, Ed è orrendo il riposo Nelle stanze ondeggianti, Il cui spazio non violano orologi Né mai vi giunge il sussurro dell'alba. (c. 1877) Non accostarti troppo alla dimora di una rosa: Se una brezza le preda O rugiada le inonda Cadono con timore le sue mura. E non voler legare la farfalla O scalare le sbarre dell'estasi. Garanzia della gioia È il suo rischio perenne. (c. 1878) Questi giorni febbrili condurli alla foresta Dove le fresche acque strisciano intorno al muschio E l'ombra sola devasta il silenzio: Pare talvolta che questo sia tutto. (c. 1878) Non sappiamo di andare quando andiamo. Noi scherziamo nel chiudere la porta. Dietro, il Destino mette il catenaccio E non entriamo più. (c. 1881) Quella vita che fu tenuta a freno Troppo stretta e si libera, Correrà poi per sempre, con un cauto Sguardo indietro e paura delle briglie. Il cavallo che fiuta l'erba viva E a cui sorride il pascolo Sarà ripreso solo a fucilate, Se si potrà riprenderlo. (c. 1881) Il vento venne come un suono di bùccina: Vibrò nell'erba Ed un brivido verde nell'arsura Passò così sinistro Che noi sprangammo ogni finestra e porta Fuggendo quello spettro di smeraldo. L'elettrico serpente del Giudizio Guizzò allo stesso istante. Strana folla di alberi affannati E di steccati in fuga E fiumi in cui correvano le case Videro allora i vivi. Dalla torre, impazzita la campana Turbinava per un veloce annunzio. Quante mai cose possono venire E quante andare Senza che il mondo finisca! (c. 1883) Tutti coloro che perdiamo qualcosa ci tolgono. Resta ancora uno spicchio sottile Che come luna, qualche torbida notte, Obbedirà al richiamo delle maree. (c. 1883) È un errore di calcolo: "Vien poi l'Eternità" Diciamo, come fosse una stazione. Mentre è tanto vicina Che mi accompagna nella passeggiata E condivide la mia casa Ed amico non ho più pertinace Di questa Eternità. (non databile) L'irraggiungibilità Di chi ha compiuto la morte È per me più maestosa D'ogni maestà della terra. L'anima scrive "Non in casa" Sopra la carne E si avvia col suo dolce passo etereo Dove non è speranza di toccarla. (non databile) Ha una sua solitudine lo spazio, Solitudine il mare E solitudine la morte - eppure Tutte queste son folla In confronto a quel punto più profondo, Segretezza polare, Che è un'anima al cospetto di se stessa: Infinità finita. (non databile) Stamani ed anche nel meriggio Era così vicina Che quasi la toccavo. Stanotte giace Di là da ogni vicinanza Di là dagli alberi, dal campanile E di là da ogni nostra congettura. (non databile) Annegare non è così penoso Come quel tentativo di riemergere. Dicono che tre volte chi sprofonda Torna a vedere il cielo, Poi discende per sempre All'odiata dimora Dove da lui dilegua la speranza Perché Dio se lo prende. Ed il volto cordiale del Creatore, Per quanto bello a vedersi, È schivato, bisogna riconoscerlo, Come un'avversità. (non databile) Bevvi una sola sorsata di vita. Vi dirò quanto la pagai: Precisamente un'esistenza. È questo il prezzo sul mercato, dicono. Mi pesaron, granello per granello E bilanciarono fibra con fibra. Poi mi porsero il prezzo del mio essere: Un solo sorso di cielo. (non databile) È l'immortalità forse un veleno Che gli uomini ne sono così oppressi? (non databile) Finì due volte prima della fine La mia vita; rimane da vedere Se a me riveli l'Immortalità Ancora un terzo evento Immenso e disperato a concepire Come i due che in passato mi toccarono. Separazione è quanto noi sappiamo del cielo Ed è quanto ci occorre dell'inferno. (non databile) Quanto lontano sono andati i morti Dapprima non vediamo, E ci sembra possibile un ritorno Durante lunghi anni appassionati. E poi abbiamo il sospetto, o la certezza, Di averli già seguiti, Da tale intimità siamo legati All'amato ricordo. (non databile) La folla dentro il cuore Nessuna polizia potrà disperdere. La sommossa vi è lecita Come la pace. Non l'accerta la vista Né l'attesta alcun suono: Cresce, però, come un ciclone Nel suo clima natìo. (non databile) Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un'ape Un trifoglio ed un'ape E il sogno. Il sogno può bastare Se le api sono poche. (non databile) Dove ogni uccello osa andare E api giocano senza timore, Ogni straniero, prima di varcare la soglia, Deve da sé allontanare le lacrime. (non databile) Non è più lontano l'Elisio Della contigua stanza Se in quella attende l'amato Felicità o condanna. Quale fortezza l'anima possiede Perché così sopporti Un passo che vicino risuona, L'aprirsi di una porta! (c. 1882)