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Amore e potere - Il Quaderno di Mauro Scardovelli
Amore e potere Secondo la tradizione cinese, l’uomo si colloca tra cielo e terra. Come dice Raimon Panikkar, è guidato da due forze contrapposte: amore e potere. L’amore spinge l’uomo verso la luce, superando la sua identificazione nel corpo, nei sensi, nella materia, nell’oscurità della mente individuale. L’amore lo stimola ad ampliare la sua visione e ad avventurarsi oltre i limiti angusti della separatività, dell’avidità e dell’egoismo, fino a sentirsi partecipe attivo della grande rete della vita. Lo induce ad allargare la propria empatia, fino ad includervi tutti gli esseri. Come fratelli o amici. Fino a sentire la loro sofferenza come la propria. La sua essenza è spirituale: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, diceva il sommo poeta. Pur nascendo dalla terra, l’uomo aspira a raggiungere il cielo, sentendosi unito a tutto ciò che esiste. L’amore è una forza attrattiva e unitiva. E’ la forza che favorisce la coesione e l’unità dove regna il caos e la dispersione. Unica fonte autentica di vitalità e creatività, promuove gioia, armonia e guarigione in ogni contesto in cui viene praticata. Ma l’uomo ospita anche un’altra forza, di segno opposto: il potere, inteso come potere-dominio. L’uomo medio è attratto dal potere, come le api dal miele. La sua incessante ricerca lo trattiene e lo tira verso le tenebre, verso i bassifondi della coscienza, tenendolo separato, in competizione con gli altri ed alienato da se stesso. L’amore unisce. Il potere divide. Un movimento spirituale, se si lascia contaminare dal potere, si perverte nel suo opposto: si trasforma in setta o in organizzazione gerarchica, in competizione con altre per la conquista del territorio. Dietro la facciata esibita, si nascondono falsità e bassezza. Equanimità e trasparenza lasciano il posto a prevaricazione e segreto. Come l’amore produce gioia dell’essere, così il potere produce male e sofferenza. “Mi sembra che questo sia vero per chi lo subisce, non certo per chi lo pratica!” A livello superficiale appare senz’altro così. Chi più ha, chi dispone di più mezzi, chi può dire agli altri che cosa fare, sembra in una posizione invidiabile. Chi è soggetto al potere altrui, invece, appare in una posizione sfavorevole, svantaggiata o perfino miserabile. Ma questa è esattamente la visione che il poteredominio cerca di mantenere ed alimentare. A quale scopo? Allo scopo di essere oggetto di desiderio e quindi diffondersi sempre di più, in modo sottile e indisturbato. Come un virus, che cerca di colonizzare ogni organismo a disposizione per proliferare. Ma anche come un topo, un gatto o un coccodrillo: il loro istinto li porta a fare tutto il possibile per ricoprire la terra della loro discendenza. I topi in questo sono certamente più bravi, avvantaggiati dalle piccole proporzioni e dalla loro straordinaria adattabilità ad ambienti differenti. Entro certi limiti, gli umani non sono affatto diversi dai loro antenati meno evoluti. E lo stanno dimostrando in modo esemplare in questi ultimi cent’anni, essendo la popolazione più che triplicata, a spese di tutte le altre specie, che pure vantavano un più antico diritto ad abitare su questa terra. Ma nell’uomo è emersa una nuova capacità, non presente nei predecessori neppure più prossimi: la capacità di parlare, raccontare, fare storia, cultura, scienza. Una capacità che ha impresso un moto esponenziale alla spinta evolutiva, non più limitata alle mutazioni genetiche o epigenetiche, sempre piuttosto lente, ma affidato ad elementi assai più immateriali, quali sono le memorie, i pensieri, i sentimenti. Alcuni autori li chiamano sinteticamente “memi”, onde sottolinearne l’aspetto immateriale. Essi si tramettono di generazione in generazione, prolificano e modo analogo qualunque altro diffondono in organismo vivente quando si a si trova in ambiente favorevole. Entrano nella testa delle persone senza che esse ne abbiano il minimo sospetto. Come i membri di ogni specie, cercano di occupare tutto lo spazio possibile, in concorrenza tra loro, ma in netto vantaggio su tutti gli organismi che li ospitano. “Stai dicendo che la ricerca del potere è un meme molto diffuso?” Esattamente. Un po’ come i topi o, ancora meglio, certi batteri o virus che, essendo ancora più piccoli, sono sfuggiti all’osservazione fino a poco più di un secolo fa. Non essendo visibili, i loro effetti venivano attribuiti ad altre cause, spesso assai fantasione e prive di ogni fondamento reale. In tal modo, i rimedi non potevano essere molto efficaci. Quando finalmente furono scoperti grazie al microscopio, si credette di aver compreso l’origine di quasi tutte le malattie e di potercene liberare combattendo direttamente questi intrusi. In parte avevamo ragione. In parte avevamo torto. C’erano ancora molte cose che non vedevamo, troppo piccole per essere oggetto di osservazione. Oggi, che disponiamo di mezzi infinitamente più potenti e sofisticati per osservare qualsiasi oggetto dotato di proprietà materiali, ci troviamo ancora in scacco di fronte ai “memi” che colonizzano la nostra mente individuale e collettiva. E, paradossalmente, uno degli ostacoli più grandi non consiste tanto nella loro immaterialità, ma nel fatto che si rendono percepibili chiaramente solo ad un osservatore che ha svolto uno specifico lavoro per riconoscerli al proprio interno. Infatti, solo riconoscendoli e disidentificandosi da loro, ci si può sottrarre al loro dominio. “In che cosa consiste questo lavoro?” Un problema non può essere risolto con lo stesso tipo di pensiero che lo ha generato. Una mente occupata dai “memi” del potere non può riconoscere e risolvere i problemi che essi continuamente ricreano. L’unica possibilità è frequentare un nuovo tipo di pensiero che non trovi in essi il suo fondamento. “Dal momento che il pensiero è essenzialmente linguaggio, stai dicendo che occorre sviluppare un nuovo tipo di pensiero-linguaggio? Un linguaggio in grado di abituarci a ritagliare dallo sfondo le diverse forme che assume il potere, in modo da vederle chiaramente?” Sì, distinguerle chiaramente nella vita quotidiana, nel nostro rapporto con gli altri e con noi stessi, invece di lasciarci ipnotizzare dalle loro ombre sfuggenti. Questa è la via da percorrere. Naturalmente non possiamo sostenere che i “memi” del potere-dominio siano sfuggiti all’analisi. Anzi, su di essi è stato detto e scritto quasi tutto e il contrario di tutto. Ma raramente queste analisi erano libere dall’influenza perversa dell’oggetto che analizzavano, per il semplice fatto che a guidarle era lo stesso tipo di pensiero-linguaggio che ne è intriso alla radice, e il cui uso inconsapevole non fa che rafforzarli. “Mi fai un esempio concreto?” Ogni volta che ricorriamo ad espressioni come “Io”, “Tu”, “Mio, “Tuo”, o utilizziamo il verbo “Essere”, se siamo inconsapevoli dei presupposti impliciti in queste espressioni, noi stiamo fornendo alimento ai “memi” del potere. Indipendentemente dalle nostre intenzioni, che possono essere le più fraterne ed altruistiche, con il comportamento linguistico comune incrementiamo la nostra e l’altrui ipnosi, che ci fa credere oggetti separati gli uni dagli altri, e per questo stesso motivo, predisposti ad entrare in competizione, in conflitto, in una perpetua ed estenuante lotta per superare ostacoli e problemi. Questa è l’immagine che noi continuamente riproduciamo attraverso un utilizzo non consapevole del linguaggio. “Nello stesso modo in cui attraverso i nostri quotidiani acquisti, stiamo cooperando attivamente a depredare la terra e a distruggere ogni forma vivente!” Sì, credo che, sotto questo aspetto, ci sia molta coerenza nel tipo di società che abbiamo creato: da soli o in gruppo, come dirigenti o dipendenti, parliamo, consumiamo ed agiamo, guidati dalla stessa cornice di presupposti. Chi vede solo incoerenza e frantumazione, cioè la maggior parte degli osservatori, non è focalizzato a cogliere i presupposti più profondi, impliciti nella radice del nostro pensiero. Semplicemente perché è istruito ed allenato a non vederli. Paradossalmente, sono spesso le persone più colte e sofisticate, gli intellettuali, i leader, quelli che soffrono di maggiore cecità selettiva. Essi per emergere, per farsi riconoscere come capibranco, più di altri hanno assiduamente praticato e approfondito proprio il tipo di pensiero-linguaggio, basato sul potre dominio, di cui stiamo discorrendo. Che credono di padroneggiare, mentre ne sono dominati a livello profondo, pagando un grave prezzo in termini di perdita di umiltà, di empatia e di contatto con ciò che è essenziale. Infatti, fatte salve le dovute eccezioni, sovente si esprimono in maniera innecessariamente complicata. O si occupano di aspetti sempre più specifici e marginali, che attirano l’attenzione perché di moda. Mostrando così di non avere a cuore il problema centrale, quello della sofferenza umana. E quindi rinunciando a svolgere la loro funzione in modo socialmente utile. “Quale funzione?” Una funzione irrinunciabile nel cammino verso una democrazia sostanziale: aiutare chi li ascolta, li legge o li segue, - e non ha tempo e mezzi per studiare e informarsi a sufficienza -, a sviluppare consapevolezza sulle questioni essenziali, per consentire scelte che possano favorire il bene comune, anziché la divisione e il potere delle lobby. La preoccupazione fondamentale di intellettuali e leader non sembra quella di farsi capire e far capire, ma di farsi apprezzare da chi può fornire loro i privilegi che massimamente desiderano: visibilità, riconoscimento, pubblicità. “E’ più facile che un cammello passi in una cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli”. Che cosa intendeva Gesù con questa frase? “Il fatto che accumulare denaro corrompe lo spirito!” Solo il denaro? Un uomo della sua intelligenza poteva affermare una simile banalità? La storia, nel periodo del capitalismo antico, ove si diventava schiavi per debiti, non aveva già mostrato il vero volto del denaro? A dove conduce quando gli uomini se ne fanno servi? No, Gesù ha detto una cosa assai meno scontata: qualsiasi forma che utilizziamo per prevalere sugli altri o su noi stessi, è una fonte di peccato, cioè di sofferenza. Non solo il denaro, quindi, ma anche l’intelligenza, la forza, la bellezza, la conoscenza, la cultura, il successo o il riconoscimento in un certo campo. Tutte cose che appaiono desiderabili o addirittura virtuose. L’intelligenza non è forse un bene? E la forza o la bellezza? Il problema non è nelle cose in sé, ma nel modo in cui ci relazioniamo ad esse e le utilizziamo. Questo è il punto: ogni volta che ne traiamo un vantaggio competitivo, o che ce ne serviamo per gonfiare il nostro Ego, stiamo creando un fossato tra noi e gli altri. E peggio ancora, un fossato tra noi e la nostra anima. Non importa se copriamo questo atteggiamento con ogni sorta di giustificazioni e di propaganda, in modo da occultare agli altri la sua natura prevaricatoria. Essa tale rimane, ed è il marchio di fabbrica del potere-dominio. “Ricco” per Gesù è sinonimo di uomo di potere, che il potere pratica sugli altri, qualsiasi ne sia la fonte. Ricco non è solo chi possiede mezzi, proprietà e denaro, escludendo gli altri e tenendo tutto per sé. Ma anche lo scienziato, l’artista, lo specialista, l’intellettuale, l’accademico affermato, che non coltiva l’impegno a rimanere umile. L’impegno a non farsi servire, ma ad essere servitore, rendendo gli altri partecipi del suo sapere o della sua arte. Per condividerne utilità o bellezza. Con leggerezza e generosità. Attento a stimolare curiosità e amore per la conoscenza, e mai sensi di inferiorità o inadeguatezza. Umile non per posizione moralistica, ma perché radicato nella realtà, ben consapevole del debito di gratitudine per chi lo ha preceduto nel suo cammino. E della pochezza della sua impresa rispetto alla vastità dell’ignoranza che permane in lui. Ignoranza che lo accomuna a tutti gli altri esseri umani. “E ritornando al linguaggio…” Il liguaggio è una tecnica. La tecnica, ogni tecnica, dalla più semplice alla più complessa, distingue l’uomo dagli animali, e gli offre la possibilità di accelerare il processo evolutivo. Il linguaggio ha permesso la creazione della cultura, la trasmissione del sapere, la crescita esponenziale delle conoscenze. E’ quindi una tecnica straordinaria, specie-specifica dell’uomo. Ma non contiene in sé alcuna garanzia di un utilizzo guidato dall’amore anziché dal potere. Anzi, le tecniche nascono quasi sempre per accrescere il proprio potere: sulla natura, sugli animali, e quindi, facilmente, sugli altri. Le tecniche di comunicazione, la retorica, le tecniche di persuasione, sono spesso state al servizio delle èlite che avevano interesse a mantenere ed estendere il loro dominio. La storia dell’umanità, resa possibile dal linguaggio, è fatta dai vincitori, dai popoli più aggressivi, non da quelli più pacifici e armoniosi, che sono stati via via sopraffatti e fisicamente eliminati. Gli israeliti erano un popolo tremendamente bellicoso. Abramo, Mosé, Giosué, erano in primo luogo dei condottieri. Le loro strategie sono state studiate dai militari di tutti i tempi, e spesso replicate. E attraverso il linguaggio, hanno fatto credere a se stessi e a molti altri che le loro gesta crudeli, i loro genocidi, erano voluti o ispirati da Dio, dal Verbo, loro guida trascendente a cui erano tenuti ad obbedire. Dio stesso è il loro consulente militare: fornisce loro indicazioni preziose su come far cadere le mura di Gerico, e su altre storiche conquiste, tutte finite con l’uccisione di ogni uomo, donna, bambino, animale, senza alcuna pietà. Al nobile scopo finale, come popolo eletto, di riconquistare la terra di Canan, o Palestina, sulla quale avrebbero dovuto dominare per portare il regno di Dio sulla terra. E’ abbastanza straordinario che un libro grondante di sangue come la Bibbia sia ancora oggi ritenuto la massima fonte di elevazione spirituale. Il presidente americano, George Bush, da molti ritenuto l’uomo più pericoloso del mondo, pare che lo legga ogni giorno per trarne ispirazione. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come lo sono l’incontro-scontro delle tre religioni abramiche presso le mura di Gerusalemme, nel loro eterno conflitto, ciascuna guidata dalle più sante ragioni. Davvero commovente, a partire dalle crociate, l’impegno che vi profondono! “Mi fai qualche esempio specifico di come il linguaggio in sé, per come è costruito, può favorire il potere anziché l’amore?” Essenza del linguaggio è operare distinzioni, isolare determinati oggetti dallo sfondo indifferenziato, e identificarne delle figure socialmente riconoscibili, alle quali attribuire un nome: un suono nella lingua parlata, o un segno nella lingua scritta. Inizialmente l’operazione non è mai neutra, ma guidata da finalità utilitaristiche, per soddisfare determinati bisogni o desideri, più o meno immediati e visibili. Come minimo, va incontro ad un bisogno di economia nella comunicazione. Con il tempo, però, l’operazione finisce per produrre effetti inconsapevoli e controintuitivi. “Quali?” Il pensiero-linguaggio, attraverso il suo crescente utilizzo, con il tempo è venuto a determinare praticamente tutto ciò che siamo in grado di vedere e percepire: le figure prescelte e socialmente riconoscibili. Gli oggetti di cui si può parlare, le forme di relazioni che si possono individuare e descrivere. Tutto il resto, quello che non rientra in queste figure, di oggetti e di relazioni fra oggetti, rimane nello sfondo indifferenziato, al di fuori della nostra consapevolezza. “Quindi è corretto dire che il linguaggio crea la nostra realtà?” Sì, la realtà socialmente condivisa, di cui siamo consapevoli, e di cui possiamo parlare. Tutto il resto non è che sparisca o che non ci influenzi più, ma finisce direttamente società, per specificità, nell’inconscio. sopravvivere cancella nella porzioni Ogni sua più o tipo di identità e meno vaste dell’esperienza totale che facciamo a contatto con il mondo. E questa cancellazione o rimozione alimenta l’inconscio individuale e collettivo. E se dall’esperienza totale vengono rimosse parti essenziali e vitali, questo si traduce in una grave amputazione psichica, che come un’ombra maligna, rende molto contatto con l’autenticità dell’essere difficile il e la gioia che naturalmente consegue. “Puoi approfondire questo concetto?” Felicità è sinonimo di pienezza dell’esperienza. La gioia dell’essere può essere sperimentata solo se siamo totalmente immersi nel qui ed ora, con quello che c’è adesso, così come è. Con tutti i nostri sensi ben aperti. Ma noi non siamo quasi mai in contatto con la realtà dell’adesso, che è in primo luogo la realtà del nostro corpo e delle nostre sensazioni, in relazione a ciò che c’è e che accade nel momento presente. Grazie all’educazione ricevuta, noi non viviamo più nel nostro corpo, ma percepiamo il mondo filtrato dai nostri pensieri: dialogo interno, immagini, convinzioni, pregiudizi, emozioni. Cioè dall’attività incessante della nostra mente. Non della mente profonda, radicata nella corporeità, ma della mente condizionata. Condizionata da che cosa? Dall’utilizzo continuo e inconsapevole delle categorie linguistiche, socialmente condivise, alle quali siamo stati educati. Esse agiscono come filtri selettivi ai quali non possiamo rinunciare, perché sono loro che ci permettono di sentirci parte di una comunità, formarci un’identità, comunicare la nostra esperienza. Che però, ripeto, è un’esperienza linguisticamente orientata e amputata rispetto all’esperienza totale. “Un’esperienza ideologizzata, quindi?” Come dice Panikkar, le idee suonano la musica sulla quale i governi e i popoli danzano. E le idee sono espressioni linguistiche. “Ma nello stesso contesto culturale, specie nella società moderna, fondata sulla comunicazione, le idee presenti sono molte e in concorrenza tra loro. Non si può certo dire che siamo tutti ideologizzati allo stesso modo!” Questo è incontestabile per tutte le idee che hanno a che fare con i contenuti. Esiste un pluralismo ideologico in materia religiosa, politica, economica, filosofica. C’è chi crede in Dio, chi non ci crede. C’è chi è cattolico, mussulmano, agnostico o ateo. C’è chi è liberista e chi è contrario al liberismo o al libero mercato. Qui però non stiamo parlando di contenuti, ma di forme o strutture. Quando utilizziamo il linguaggio, cioè ogni volta comunichiamo, non che ci pensiamo, limitiamo parliamo a o trasmettere contenuti, ma un modo di percepire il mondo che ci accomuna: quello attuato attraverso categorie linguistiche. Nella filosofia occidentale, non solo identifichiamo il pensiero con il linguaggio, ma siamo abituati a credere che la consapevolezza coincida con il pensiero. Cogito, ergo sum, diceva Cartesio. E’ grazie al pensiero che so di esistere. Secondo le filosofie orientali, in particolare nel buddismo Zen, il pensiero non solo non esaurisce la consapevolezza, ma costituisce il principale ostacolo ad una consapevolezza profonda della realtà. Solo una mente capace di farsi silenziosa è in grado di essere presente nel qui ed ora, cioè presente all’unica realtà vera. “Ma nella vita di oggi è indispensabile pensare, progettare. Non si può fare quasi nulla senza aver ben sviluppato queste capacità!” Certamente saper utilizzare il pensiero è una risorsa essenziale: se devi scrivere una lettera, stilare una diagnosi o argomentare una linea di difesa. Ma è soltanto un mezzo, come lo è un computer. Un mezzo utile per certe cose e non per altre. Il problema fondamentale che oggi ci troviamo ad affrontare, dal quale derivano tutti gli altri, può essere riassunto in questi termini: non siano in grado di far tacere la mente, non siamo in grado di spegnere il computer mentale. Quindi ne siamo condizionati e limitati. Non nelle questioni materiali, negli affari, nella tecnologia, nei quali siamo diventati bravissimi. Ma nel settore dal quale maggiormente dipende la nostra propensione alla felicità o all’infelicità: quello della relazione con noi stessi e con gli altri. Un noto economista, Jeremy Rifkin, sostiene che, date le attuali condizioni di conflitto e crescita, la nostra stessa sopravvivenza può essere salvaguardato solo ad una condizione: che riusciamo in tempo a sviluppare sufficiente empatia. Empatia non solo per le persone vicine, ma anche quelle più lontane e per tutti gli esseri, animali e piante. L’empatia, secondo il buddismo, apre la porta alla compassione, ovvero al desiderio di impegnarsi a sciogliere le cause della sofferenza altrui come la propria. Empatia, compassione, amore, sono qualità dell’essere, qualità del cuore, non della mente. Il cuore si apre davvero solo quando la mente tace. Non si tratta infatti di ragionare, in termini kantiani, su ciò che è bene o male fare. Si tratta di imparare o reimparare a sentire. Sono i sentimenti e le passioni che guidano le nostre azioni. Più di cent’anni fa, Freud ha definitivamente scoperchiato la scatola nera della nostra mente, e a differenza di Aristotele, non ha trovato ai posti di comando la ragione e la volontà, come ancora oggi la Chiesa Cattolica continua a sostenere. Ed ha portato alla luce un meccanismo di autoimbroglio degno, questo sì, di un’intelligenza sofisticata come quella umana: la razionalizzazione. Che della ragione è solo la maschera. “In che senso?” Nel senso che in molti casi è solo copertura di impulsi, passioni o sentimenti, che si vogliono tenere nascosti, perché ritenuti poco desiderabili o disdicevoli. E per garantirsi il risultato, essa utilizza i più efficaci metodi della retorica, la tanto vituperata arte della persuasione, scoperta dai sofisti, che di essa fecero una professione, ma praticata in realtà da ogni degno appartenente alla nostra specie, almeno a livello dilettantesco. Insomma, dopo Freud, avremmo dovuto imparare a dffidare di chi, con passione, ci vuol convincere di qualcosa per il nostro bene. “Perché?” Perché di un bene certamente si tratta. Non del nostro, però. Ma del suo. Anche se, a ben guardare, come vedremo, neppure questo è vero. “Mi fai un esempio?” Un maestro, duro e severo, crea un clima di tensione e paura negli allievi. Perché? Perché vincano la pigrizia, dice lui. Affinché si impegnino davvero e si preparino alle difficoltà della vita. Uno scopo nobile, quindi. Peccato che sia falso. La severità non serve a questo, ma a scaricare la rabbia sadica del maestro all’esterno. In tal modo può evitare di accumularla e di scaricarla tutta su di sé. Un marito che risparmia alla sua giovane o inesperta sposa ogni problema con il mondo, facendo tutto al suo posto, afferma di essere spinto dal più tenero amore. In realtà le sta impedendo di crescere e di diventare indipendente, per paura di non averla più a sua totale disposizione. “Ma quindi la ragione non esiste?” La ragione inizia a funzionare pienamente ad un certo livello di evoluzione interiore. Livello che dovrebbe coincidere con la maturità adulta, se vivessimo in una società equilibrata e armoniosa. Dato che viviamo in un contesto di esasperato individualismo, la maturità adulta media non garantisce l’uscita dall’egocentrismo, tipicamente infantile. E’ necessario quindi un passaggio evolutivo ulteriore, che possiamo definire come livello di spiritualità, in cui siamo in grado di trascendere la stretta identificazione con la personalità individuale. Infatti, finché a dominare la personalità è l’Ego, la razionalizzazione prende assai spesso il posto della ragione, almeno nelle questioni importanti, quelle che ci stanno davvero a cuore. Ovviamente, nella stessa persona, in tempi e contesti diversi, il livello evolutivo di funzionamento cambia. In certi casi quindi usa la ragione, in altri la razionalizzazione. E non casualmente siamo scarsamente allenati a percepire la distinzione tra queste due differenti funzioni. Nel momento che sviluppassimo questa capacità, l’Ego individuale e collettivo riceverebbe una brutta batosta! Dato che le èlite si collocano quasi sempre a livello di Ego, e non di spiritualità, anche quando rivestono il ruolo di autorità spirituali, non c’è da stupirsi che siano scarsamente interessate a riforme nell’educazione che aiutino i “sudditi” a smascherare il loro perverso gioco di potere. L’educazione che riceviamo a scuola è, nel migliore dei casi, un’educazione che cerca di promuovere il pensiero e la ragione: le materie al primo posto sono quelle che matematica. sviluppano Ma incontrovertibile, l’intelligenza oggi linguistica sappiamo, che se non in e modo cresce contemporaneamente una conoscenza di sé e del proprio mondo emotivo, tutto quello che possiamo ottenere non è uno sviluppo della ragione che ci guidi nelle scelte importanti, ma della razionalizzazione: cioè della capacità di usare il linguaggio per coprire una falsità. Capacità straordinariamente utile per diventare affaristi, arrivisti, mafiosi, interessati solo al proprio tornaconto. Oppure, dall’altro versante, per sviluppare una personalità succube, dipendente, depressa, destinata a crearsi nella vita ogni sorta di problemi e difficoltà. In una parola, una personalità nevrotica. “Che cosa intendi per nevrotica?” Una personalità incapace di dirigere se stessa senza boicottarsi, in quanto preda di conflitti pervasivi tra subpersonalità. Ogni parte cerca di prendere il sopravvento sulle altre. Manca una leadership in grado di fornire una visione del bene comune. Visione che consenta alle diverse fazioni di rinunciare parzialmente alle loro pretese, in favore di un’azione diretta al benessere generale. “Stai descrivendo la situazione italiana, come la vede Eugenio Scalfari, nel famoso editoriale: ‘Lo specchio si è rotto’.” Sì, anche se non penso sia una prerogativa solo italiana, ma planetaria. “Hai detto che la capacità di mentire accomuna affaristi e persone succubi. Mi sembra piuttosto ingiusto: i primi ne traggono vantaggio, i secondi ne pagano le conseguenze!” E’ vero. Di solito siamo abituati a operare questa distinzione. E’ il linguaggio stesso che ci porta a farlo: ci sono molte parole che possiamo usare sia per indicare un profittatore, sia per indicare una persona vittima. Tendiamo quindi a distinguere due categorie: gli sfruttatori e gli sfruttati. E tendiamo a tenerle ben separata tra loro. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. La rivoluzione comunista si è basata su questa distinzione-separazione. Una delle ragioni del suo fallimento, è stata proprio quella di non vedere il fenomeno dello sfruttamento più in profondità, come ricerca del potere, forza psichica inerente alla natura umana. Insieme all’altra, la ricerca dell’amore. Come gli studi di Reich hanno dimostrato, non solo i ricchi erano autoritari e sfruttatori, ma anche i poveri, nei limiti delle loro possibilità. Non solo capi e imprenditori erano autoritari, ma anche padri operai o contadini nei confronti di mogli e figli. La famiglia, ritenuta dalla Chiesa cattolica la cellula sana della collettività, appena si tolgono i veli dell’ipocrisia, ancora oggi rivela al suo interno, in scala minore, le stesse lotte di potere che troviamo nella società. La famiglia, primo luogo di educazione, è sempre stata la cinghia di trasmissione dell’autoritarismo e della prevaricazione. Che in tal modo assorbiamo da piccoli, e ci portiamo dentro tutta la vita. Avendo così davanti due possibilità poco desiderabili: diventare a nostra volta sfruttatori di altri, o sfruttatori di noi stessi. “Ma i nevrotici sono dei malati, gli sfruttatori sono dei disonesti!” E’ così che di solito pensiamo, in base alle categorie linguistiche dominanti e alle loro comuni associazioni. E’ in questo modo che sin da bambini impariamo a conoscere la realtà: attraverso distinzioni che traggono differenti figure dallo sfondo, e le tengono ben separate. Appena ci occupiamo di comunicazione, ci viene giustamente notizia di insegnato una che differenza un’informazione che fa la è la differenza. Persecutori e vittime non sono la stessa cosa. C’è tra loro una differenza che fa una sostanziale differenza. Quello che non ci viene insegnato, perché non fa parte della nostra cultura dualistica, è che dominatori e dominati condividono qualcosa che li accomuna. C’è in loro un fattore che li connette e li tiene insieme. “Quale fattore?” La violenza, la prepotenza. Il nevrotico non è meno prepotente di un profittatore di professione. Spesso lo è assai di più. Ciò che fa la differenza è solo il contesto in cui la utilizza: un contesto interno, intimo o famigliare, anziché pubblico. Se guardiamo in profondità, in un nevrotico non scopriamo meno violenza, disonestà e prepotenza che in un malavitoso. E a sua volta, se guardiamo in profondità, dentro un malavitoso scopriamo non meno sofferenza e dolore che in un nevrotico. Anzi, spesso, assai di più. Dostoievski, che ha passato dieci anni della sua vita in mezzo a carcerati, delinquenti e persone disperate, afferma che non ne ha conosciuta una che, al di sotto della scorza esterna, non nascondesse intatto un nucleo d’oro di purezza. Contemplare, osservare in profondità, senza giudizio, senza scopo, è la via per diventare consapevoli dei livelli di realtà più profonda, la realtà dell’inter-essere, del tutto è uno. E’ la via del cuore, che ci fa sentire parte integrante della stessa rete della vita, fratelli tra noi, e con gli altri esseri. E’ propria delle antiche tradizioni sapienziali, delle filosofie non duali, che da millenni sostengono una visione del mondo completamente diversa da quella ottenuta attraverso la concezione dualistica, che trova fondamento nella pratica analitica e mentale di separare l’osservatore dall’oggetto osservato, ponendo fine alla risonanza e all’immedesimazione empatica. “Sono due concezioni incompatibili e in conflitto? Se le guardiamo dal punto di vista duale, quello a cui siamo allenati nella nostra cultura, esse appaino senz’altro incompatibili, o quantomeno incommensurabili. E’ la visione che consente alle persone religiose di mantenere la loro fede pur comportandosi, in media, in modo altrettanto poco amorevole di quelle che non professano alcuna fede. Se osserviamo le due concezioni dal punto di vista non duale, esse sono parte della stessa realtà, distinte, non separate. La biologia ha da insegnarci qualcosa in proposito. Il nostro cervello destro funziona in modo olistico, quello sinistro in modo analitico, duale. Se una persona perde l’uso dell’emisfero destro, vede il mondo tutto interconnesso, senza confini. Ma ha qualche difficoltà ad orientarsi ed agire. La natura ci ha dotato di due emisferi come di due differenti occhi per vedere in profondità. E la visione binoculare diventa possibile solo se teniamo aperti entrambi gli occhi e creiamo al nostro interno un’immagine che integra le due differenti fonti di informazione. Spiritualità non è ascendere al cielo abbandonando la terra, ma continuare a stare sulla terra facendosi ispirare dal cielo. Come dice Lino Lepore, filosofo buddista e mio caro amico, in gran parte la storia della filosofia occidentale è la storia della follia umana. Ovvero la storia delle razionalizzazioni con le quali i filosofi hanno cercato di mascherare e abbellire il loro carattere, parlando del mondo e dei massimi sistemi anziché di se stessi. Talvolta riuscendoci così bene da influenzare buona parte dell’umanità. L’educazione di cui oggi abbiamo più bisogno, per sviluppare una personalità sana, integra, onesta, è un’educazione dei sentimenti, un’educazione che non casualmente, ripeto, nella scuola di oggi non si trova neppure all’ultimo posto. E un’educazione dei sentimenti è facilitata in contesti nei quali si pratica il silenzio, l’ascolto, la presenza mentale nel qui ed ora, la calma, l’osservazione senza scopo o contemplazione. Ed è resa impossibile dove dominano le parole, le chiacchiere, il rumore, la fretta, l’eccesso di programmazione e impegni. Tutte cose che coprono la paura di amare e la ricerca del potere. “Cioè nella scuola di oggi!” “… soprattutto nel parlamento!” “… nei luoghi di lavoro…” “… anche in famiglia…” Certamente. Una mente oberata dal proliferare di pensieri e immagini, affollata da desideri e scopi, è come una scimmietta impazzita: non fa che saltare da un ramo all’altro, incapace di soffermarsi e gustare un frutto. Il proliferare di pensieri, tensioni e preoccupazioni, impedisce il contatto con la realtà, con i propri sentimenti e con quelli degli altri. Impedisce il vero ascolto e quindi la comprensione di ciò che sta davvero accadendo. Paradossalmente, nella civiltà della comunicazione, sono aumentati in modo esponenziale le comunicazioni superficiali, innecessarie o irrilevanti, e sono drasticamente diminuite le comunicazioni essenziali e profonde: quelle che riguardano il nostro vero sentire. Più comunichiamo in questo modo, più creiamo un fossato profondo tra noi e gli altri, tra noi e la nostra anima. Lo slogan “Life is now”, che compare nella pubblicità di una nota compagnia telefonica, è un capolavoro di astuzia ed intelligenza manipolativa. Degna delle migliori tradizioni religiose autoritarie. Viene affermata una cosa profondamente vera, non troppo facile da comprendere nella sua vera essenza, allo scopo di diffondere sempre più un comportamento – l’inflazione pervasiva di comunicazione inutile – che produce un risultato esattamente opposto a quello implicitamente dichiarato e suggerito. Chattare per ore al giorno al telefonino ci allontana sin da bambini dalla realtà dell’adesso, così come la sottomissione sin da piccoli ad indiscusse autorità religiose, spegnendo lo spirito critico, e spesso anche collaborando a inibire o pervertire la naturale spinta sessuale e la naturale capacità di amare, ha da sempre ostacolato lo sviluppo di una spiritualità autentica. Propaganda religiosa e pubblicità utilizzano lo stessomeccanismo di persuasione: separazione dei mezzi dal fine; far leva su un fine altamente desiderabile. Mortificare il corpo e i sensi, bruciare sul rogo gli eretici, perseguitare o uccidere gli infedeli, o quantomeno sottometterli, opporsi finché è possibile al progresso della scienza e del libero pensiero, - non solo in nome della fede, ma talvolta anche in nome della “ragione”, ovviamente la loro -, sono solo alcuni dei mezzi storicamente utilizzati dalle religioni autoritarie per mantenere e diffondere il loro potere. Il fine era quello di insegnare agli uomini la via dell’amore. Oggi i sacerdoti della nuova religione dei consumi, dimostrano di essere all’altezza dei predecessori, avendone bene imparato la lezione. “Un’educazione dei sentimenti, quindi diventa impraticabile se si vive di corsa, in un clima frenetico, ove la nostra attenzione si sposta continuamente da una cosa all’altra!” Certamente. Fretta, iperattivismo e superficialità, sono facce della stessa medaglia: tante cose inutili al posto di poche cose essenziali. Aria pulita, acqua e cibo sano, bellezza dell’ambiente naturale, grandi spazi incontaminati ove poter gustare in silenzio la grandiosità delle montagne, il profumo dei fiori, il fresco delle foreste, l’incessante danza della vita animale, sono beni essenziali per la nostra salute psichica, oltre che fisica. Beni che stanno rapidamente scomparendo. Ricordo un documentario girato da un piccolo aereo che sorvolava il territorio africano: era sconvolgente il confronto tra la bellezza delle poche riserve e parchi, ancora ricchi di piante ed animali, e la bruttezza e il degrado prodotto dalle attività umane che li assediavano tutto all’intorno, con il suolo devastato dalla progressiva desertificazione. Processo destinato ad aggravarsi, anche a causa della continua crescita della popolazione. L’Africa, all’inizio del secolo, era autosufficiente dal punto di vista alimentare. La sua popolazione era meno di un quarto di quella attuale. C’era posto per tutti: uomini, piante, animali. Era un continente meraviglioso, da sogno. Oggi le sue foreste stanno rapidamente scomparendo, tagliate per vendere il legname, o bruciate per far posto a nuove coltivazioni. Molte delle quali non producono cibo per gli africani, ma per i polli, i maiali e i bovini allevati nei paesi ricchi o in crescita economica, dove il consumo di carni e latticini continua ad aumentare. Se si sviluppasse più empatia, più capacità di provare compassione, non solo per gli esseri umani che rischiano di morire di fame, ma per tutti gli esseri viventi destinati ad essere totalmente annientati e distrutti, senza uno spazio di sopravvivenza che non sia una prigione o la gabbia di uno zoo, saremmo colti tutti quanti da un tale livello di sofferenza che ci farebbe urlare dal dolore. Grideremmo: basta! Basta con questa infamia! Smettiamola di crescere, moltiplicarci, occupare ogni metro quadrato di spazio con abitazioni, edifici, strade, industrie, miniere, allevamenti, e di esserne pure orgogliosi! Lasciamo che la terra possa riprendere a respirare! Smettiamo di soffocarla con la nostra vorace presenza! Non siamo cavvallette, non siamo formiche. Smettiamola di comportiamoci da animali infestanti, come topi o scarafaggi. Smettiamo di essere il cancro della terra. Abbiamo un cervello e un’intelligenza più grande di quella necessaria a guardare a venti centimetri dal nostro naso. E soprattutto abbiamo un cuore e un’intelligenza emotiva assai maggiore di quella di un rettile o di un cercopiteco. “Un’intelligenza che però va sviluppata!” Sì, attraverso un nuovo tipo di educazione, che veda in questo obiettivo una priorità assoluta. Ne va della nostra salute mentale, come singoli e come collettività, e infine della nostra stessa sopravvivenza. “Hai detto che il cuore si fa spazioso quando la mente tace. Nella vita frenetica di oggi, far tacere la mente è un’impresa quasi impossibile!” Per molte persone questo è assolutamente vero. Sono troppo prese dal vortice. Quando si fermano, stanno in silenzio, portano attenzione al respiro e alle sensazioni del corpo, l’unica cosa che ottengono è un crescente malessere. Per riprendersi, corrono a mangiare, bere un caffè o fumare. Un cervello che gira troppo velocemente, non può essere fermato in un attimo. Occorre calma, pazienza e perseveranza. Cioè proprio le qualità che, come le piante, gli animali selvatici e l’aria pulita, sono oggi più a rischio di estinzione. C’è chi ha portato la meditazione buddista nei carceri e nelle scuole, ottenendo risultati spesso straordinari. L’impresa non è impossibile, ma molto difficile. C’è chi ha introdotto delle tecniche che facilitano il rilassamento passando attraverso lo scarico dell’energia in eccesso, e in tal modo favorendo la naturale propensione alla quiete e allo stato meditativo. C’è chi preferisce proporre una via ispirata al tantra, che non impone lunghe sedute di meditazione, ma brevi momenti durante la giornata di presenza mentale. Le vie possibili sono tante, quanto grande è la creatività umana. “Quale via propone la PNL umanistica?” Essenza della PNL è il modellamento di ciò che funziona meglio, di ciò che è efficace. Ma la domanda è: funziona meglio per chi? Il problema fondamentale è questo. Non c’è una via adatta a tutti, perché ogni persona è diversa e impara in modo differente. Se andiamo a vedere come sono nate varie tecniche e vie, di solito scopriamo un maestro o un un gruppo di maestri che le ha ideate e perfezionate. Un maestro può insegnare una tecnica solo se ne ha tratto profondo beneficio. In tal modo può essere congruo ed efficace. Ma se ha funzionato per lui, anche in modo eccellente, non significa che produrrà risultati per tutti gli allievi, ma solo per quelli che hanno una predisposizione, tipologia o stile di apprendimento, simili a quelli del maestro. Tutti gli altri incontreranno difficoltà più o meno grandi. Il rischio è che esse vengano interpretate come resistenze: pigrizia, incapacità, incostanza. Quello che accade nelle scuole di meditazione accade in tutte le scuole del mondo: alcuni riescono di più perché si trovano nel contesto adatto alla loro tipologia. Ignorare questo fatto significa violare uno dei diritti fondamentali dell’uomo: il principio di eguaglianza. Esso non richiede di trattare tutti allo stesso modo, come talvolta banalmente si pensa. Ma di trattare in modo uguale le situazioni uguali e in modo diverso le situazioni diverse. Le differenze vanno rispettate, non ignorate! Differenti tipologie umane richiedono rispetto per la loro natura, e modi adeguati per sintonizzarsi con esse. Il paradigma dualistico, e il relativo pensiero- linguaggio, nel quale siamo immersi, rischia sempre di favorire la pratica del pensiero dicotomico: l’uguaglianza è una cosa, la differenza è un’altra. Non casualmente, altre culture, come quella cinese o indiana antica, fondate su una visione non duale, hanno creato altri tipi di pensiero-linguaggio, in cui la stessa parola significa contemporaneamente una cosa e il suo opposto. Ad esempio, la parola crisi, in cinese, vuol dire rischio, pericolo e, nello stesso tempo, opportunità. Per noi un problema è un problema e una risorsa una risorsa. Due sono le parole, due i concetti, due le categorie. Certo, anche noi possiamo capire che un problema, guardato da un angolatura diversa, può diventare una risorsa. Ma per il tipo di linguaggio che usiamo, e la forma mentis che ne deriva, la ristrutturazione, il passaggio da una configurazione di significati ad un’altra, non avviene in modo automatico. Occorre ogni volta uno sforzo, un atto di volontà. Appena ci lasciamo andare, tutto torna come prima. E’ come percorrere una strada in salita: la gravità tira verso il basso. Così da noi il pensiero-linguaggio, come forza di gravità mentale, crea un campo nel quale i concetti tendono a polarizzarsi, separarsi, contrapporsi tra loro. Guarda caso, a fondamento di tutto l’edificio della conoscenza sviluppata in occidente, stanno i principi aristotelici di identità e di non contraddizione. Sulla validità dei quali, in teoria e nella vita di tutti i giorni, abbiamo imparato a non nutrire alcun dubbio. Principi che però ci portano sovente ad esclamare affermazioni piuttosto curiose, del tipo: la vita è paradossale! Che significa questa affermazione? Di solito chi la pronuncia intende dire che la vita contraddice ogni logica previsione. Quindi la vita è strana, perché, come i bambini, i terremoti o le malattie, si permette di non confermarsi ai nostri schemi. Chi non ignora la storia della filosofia, sa per quanti secoli molti filosofi, a partire coincidenza possibilità da Parmenide, tra di ragionamento, pensiero conoscere hanno sostenuto la e realtà. E quindi la la realtà attraverso il bypassando l’esperienza, che, basandosi sulla percezione, è sempre illusoria. Fino ad arrivare al capolavoro dell’affermazione hegheliana: se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti. La preferenza accordata alla teoria sui fatti è rispecchiata nella società dalla posizione di privilegio accordata a non pochi intellettuali, che pontificano su situazioni che nel concreto ignorano. Perché conoscere il concreto significa scendere dal piedestallo, perdere i privilegi, e mischiarsi nella banalità del quotidiano, in mezzo alla gente più comune e triviale, con le sue imperfezioni, la sua miseria, la puzza del suo sudore. Come fecero Dostoevski o madre Teresa, e tanti altri meno famosi di loro. “Questo non ha a che fare con il patriarcato e il maschilismo?” Vi è strettamente connesso. Le donne, almeno quando allevano bambini, non possono permettersi troppi voli lontani dalla realtà, che nell’immediato è fatta, in entrata, di poppate e di pappe, e, in uscita, da vocalizzi, pianti e produzioni biologiche di differente consistenza e odore, che un’amica psicoanalista ha elegantemente definito: aspetti primitivi del sé. I bambini, più piccoli sono, più obbligano chi se ne cura, ad una continua presenza ed attenzione nel qui ed ora. Al di là delle battute, è caratteristica del femminile essere più in sensorialmente contatto basato, con e la un terra e privilegio con il maschile potersene più facilmente distaccare. Con il rischio di allontanarsene troppo e coltivare un tipo di pensiero che con la materialità e la concretezza dei sensi ha perso ogni rapporto. E con esso ha perso anche ogni pratica funzione, se non quella di autoriprodursi e garantire ai suoi maestri o adepti una qualche forma di privilegio. Come, ad esempio, essere esentati dai compiti più umili e faticosi, o essere pagati profumatamente per un uso inconsistente e pressoché inutile del linguaggio, che in compenso richiede per ottenerlo un lungo apprendistato. In ogni tempo e luogo, quando la ricerca spirituale è diventata appannaggio del maschile, essa è stata regolarmente accompagnata dalla svalutazione dei sensi e del corpo, e dalla comparsa delle formalità, delle teologie e cosmogonie complicate e inacessibili, del dogmatismo e della gerarchia. Nella quale le donne, o erano escluse, o occupavano l’ultimo gradino. Per motivi profondi ed esoterici, che solo la superiore razionalità maschile poteva comprendere appieno. Ma riprendiamo il filo del discorso. “Eravamo partiti dal chiederci quale via propone la PNL umanistica per favorire l’apertura del cuore.” “E avevamo visto che il concetto di “via” monodica è contraria allo spirito pluralista e antidogmatico della PNL.” Un allievo chiese ad Osho: “Maestro, nel mondo ci sono più di trecento religioni. Non sono troppe?” E il maestro rispose: “Al contrario. Credo che siano troppo poche. Siamo sei miliardi di esseri umani!” Ogni persona una via: una via spirituale specifica, un percorso terapeutico, una modalità di insegnamento, adatti al suo stile di apprendimento, preferenza o tipologia. Questo è l’approccio polifonico, la “meta- via”, che propone la PNL, per valorizzare le differenze individuali, anziché penalizzarle. Trattandole come risorse anziché come problemi. Per questo incoraggiamo le persone a frequentare contesti di apprendimento diversi dai nostri, luoghi dove si fanno pratiche differenti, si usa un differente linguaggio e metodologia. Ad approfondire argomenti e frequentare discipline diverse dalla PNL e dalla psicologia, come l’economia, la politica, la filosofia, la storia, la biologia. A frequentare e praticare la musica, l’arte, la danza, l’attività fisica, il contatto con la natura. A risvegliare la loro naturale curiosità ed interesse in settori e campi diversi, ad esplorare nuovi territori, non per colonizzarli e trarne profitto, ma per ritornare a essere neofiti, principianti, ancora capaci di stupirsi e meravigliarsi. Recuperando la voglia che i bambini hanno abbastanza di piccoli apprendere, ed finché innocenti, rimangono non troppo contaminati dalla cultura competitiva e predatoria in cui viviamo. “E non c’è il rischio di dispersione?” Il rischio è parte integrante dell’esperienza del vivere. Il chiudersi dentro i cancelli di un’unica prospettiva, invece, offre una sola certezza: quella di alimentare i propri pregiudizi e diventare più intolleranti alle idee di altre persone. Ed è difficile sostenere, anche se è stato fatto infinite volte, che sia un buon metodo per imparare ad amare il prossimo e ad avvicinarsi a Dio. Il pluralismo oggi è un dato di fatto, non una scelta. Viviamo a contatto quotidiano con persone e prodotti provenienti da altre culture, lingue, storie, religioni. Anche volendo, non possiamo isolarci, pena la nostra estinzione. Non possiamo dire a cinesi, ucraini, russi, congolesi, ma anche a francesi, inglesi, tedeschi, americani: statevene a casa vostra, tenetevi le vostre merci e i vostri prodotti. Se non altro perché loro farebbero la stessa cosa con noi, e noi, che non siamo autosufficienti, come non lo è più alcun paese, potremmo ancora prendere il sole quando c’è, ma moriremmo di fame, di freddo o di miseria. La sfida di oggi è passare dall’incontro casuale e caotico tra differenti ritmi, trame e melodie di comportamenti e manufatti umani, a qualcosa che assomigli ad una musica polifonica o ad un arazzo, dotato di un qualche senso, non ad un accozzaglia di rumori o a un deposito di immondizia. Per questo occorre sviluppare nuove capacità di modulazione e integrazione. Nuove capacità di comporre le differenze in un progetto unitario. Nuove capacità di dar forma al caotico e all’informale. Che, non casualmente, sono le caratteristiche del processo vitale o neghentropico. “Rispettare”, etimologicamente, significa guardare due volte, guardare e comprendere in profondità. Rispettare davvero la vita, slogan oggi di moda, significa comprendere in primo luogo di che cosa si sta parlando. Ma parlando utilizziamo il linguaggio, e il linguaggio che noi crediamo di adoperare, in gran parte è lui ad utilizzare noi per riprodurre l’implicita filosofia e storia di cui è figlio, e della quale è fedele portatore. Appena parliamo di vita, la nostra mente, formata dal linguaggio, estrapola dallo sfondo la categorie degli oggetti ritenuti chiaramente viventi: in primo luogo gli uomini, e poi, bontà nostra, anche gli animali e le piante. Ma subito dopo è educata, storicamente, ad operare un’altra fondamentale distinzione, tra forme di vita più e meno complesse ed elevate, tra forme superiori e inferiori, creando così una gerarchia al cui vertice sta solo l’essere umano, ben separato da tutti gli altri perché l’unico dotato di anima e sensibilità. Lungi da me sostenere che gli appartenenti alla specie homo sapiens siano faziosi. Non disponiamo di sufficienti prove scientifiche per affermarlo, ma solo di qualche debole indizio, per nulla probante, come il fatto di ritenerci, in gran numero, fatti ad immagine e somiglianza di Dio. Probabilmente anche i babbuini e i cercopitechi, se potessero ragionare linguisticamente, arriverebbero ad affermare una tesi equivalente alla nostra, con l’unica differenza che al vertice metterebbero se stessi. In compenso, noi possiamo vantare una momento coerenza che, tutti davvero ammirevole, d’accordo, dal consideriamo egocentrici solo i nostri bambini, per risparmiare a noi stessi l’umiliazione di scoprirci ben poco diversi da loro. “Non capisco bene dove vuoi arrivare!” Ad una meta molto semplice, e nello stesso tempo ambita: a trovare un rimedio al senso di indegnità e di colpa, che è così diffuso e pervasivo, da esserci sembrato parte intrinseca della nostra più profonda natura, visto che crediamo di averlo ereditato, insieme agli altri geni, dai nostri primissimi progenitori. Essi sì che si macchiarono di una colpa molto grave, disubbedendo a Dio, al Verbo. Il Verbo che aveva creato il cielo e la terra, la luce e le tenebre, dando loro un nome, e che ci aveva fatto a sua immagine e somiglianza. Forse oggi siamo in grado di rileggere la nostra storia in un altro modo: ogni volta che ci allontaniamo da un uso tradizionale del linguaggio, e cerchiamo di sviluppare le nostre potenzialità, diventando davvero umani e comportandoci a nostra volta da creatori, siamo presi dal panico e dal senso di colpa. Il linguaggio, che ci ricrea continuamente a sua immagine e somiglianza, non è disposto impunemente a lasciarci diventare quello che in realtà siamo destinati ad essere, perché essendo a sua volta una nostra creazione, non è frutto di solo amore, ma anche di potere. Come il Dio del vecchio testamento. “Amore e potere, le due forze da cui siamo spinti, si ritrovano all’origine del linguaggio!” Come di ogni altra nostra tecnica, che, da creatura nostra, diventa a sua volta creatore dei suoi creatori noi stessi -, imponendoci un processo inconsapevole di riproduzione, da cui abbiamo difficoltà a liberarci. Noi abbiamo scoperto l’elettricità, inventato il motore a scoppio, la stampa, la televisione. Che dovrebbero essere al nostro servizio, e renderci la vita più facile. Se guardiamo in profondità, siamo diventati noi i servitori delle automobili, dei telefonini e dei computer, dei quali non possiamo più fare a meno. Come non possiamo più fare a meno del linguaggio, essendo penetrato nella nostra neurologia e nel nostro funzionamento mentale. Ecco perché è così difficile far tacere la mente. Significa sottrarsi ad un dominio ormai molto consolidato, quello delle parole attraverso le quali, nominandola, creiamo la nostra realtà. Smettendo di usarle, ci inoltriamo oltre le colonne d’Ercole e siamo presi dal panico. Allora corriamo a bere, mangiare, fumare, riempirci di impegni. Pagando così il nostro tributo di soggezione ad un tiranno interiore, che abbiamo per troppo tempo assecondato, credendolo il nostro miglior alleato: il potere. “Vediamo se ho capito il tuo discorso. Ogni volta che uso una parola, ritaglio una figura da uno sfondo indifferenziato - un tavolo, un ascensore, o anche un sorriso o uno starnuto -, e lo percepisco come se fosse un oggetto o un processo, distinto e separato, dotato di una sua identità e permanenza”. Esattamente. “Quindi, in un certo senso, sono io a creare la realtà che percepisco fuori di me, come se fosse oggettiva. Anzi, come hai detto poco fa, nella maggioranza dei casi, mi limito a riprodurla nel modo in cui il linguaggio, inconsapevolmente, mi spinge a fare”. Sì, continua. “Poi hai aggiunto che, quando davvero mi comporto in modo creativo, e scombino le carte già date, vengo assalito dalla paura, perché il linguaggio, come ogni tecnica, non si presta facilmente ad essere ricreato, ed oppone resistenza. Un po’ come se temesse di perdere il suo dominio su di me. Quindi, funziona come una sorta di organismo vivente. I genitori mettono al mondo dei figli con lo scopo inconscio di prolungare se stessi. Ma questi cominciano ben presto a fare di testa loro e influenzano potentemente la vita dei genitori. Le tecniche, create dall’uomo per servirlo, gli assomigliano al punto che cominciano ad utilizzare l’uomo come loro servitore. Fin qui credo di aver capito. Mi sfugge ancora il discorso sul senso di colpa e sul modo di liberarsene.” Ho parlato a ruota libera, e ho lasciato la mia mente libera, appunto, di scombinare le carte. Ad uno scopo: seminare ad ampie mani il dubbio su ogni nostra certezza che non derivi da esperienze basate sui sensi e sul corpo, ma su esperienze di seconda mano mediate dal linguaggio. Il linguaggio, se non abbiamo consapevolezza del suo potere, diventa una trappola micidiale. Attraverso il linguaggio, dato il suo potere creativo della realtà, ci si può convincere di qualsiasi cosa. Il linguaggio propaganda non è solo quello dei nazisti, dei fascisti o dei comunisti di Stalin, ma anche quello che molte persone riproducono all’interno della loro mente, asservendosi completamente al suo potere. Ricordiamo la sua origine: il linguaggio, come ogni tecnica, non nasce neutra. Essa porta in sé le caratteristiche profonde dei suoi creatori, che, essendo umani, vi immettono sempre una quota di potere, oltre che di amore. La rivoluzione non consiste allora nell’inventare sempre nuove tecniche più efficaci, cosa che siamo bravissimi a fare, ma se possibile, nel liberare quelle già esistenti del virus del potere che è penetrato in loro. “Ad esempio, inserendo nelle tecniche, come si fa in PNL, una sorta di clausola ecologica?” A partire dal linguaggio, che è la matrice di tutte le tecniche umane. Quando, attraverso il linguaggio, diamo forma ad una realtà come il senso di colpa, senza rendercene conto creiamo un oggetto altrettanto pericoloso della dinamite per costruire mine antiuomo. difficilmente Il potrà proliferare contribuire di a simili ordigni, promuovere un rapporto più armonioso e pacifico tra le persone. L’etica autoritaria, che si fonda sulla separatività, sul potere-dominio e lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il linguaggio-propaganda, si è sempre servita di ordigni simili al senso di colpa, noti a tutti con i nomi di “rispettabilità”, “peccato”, “giudizio”, “offesa a Dio”, “bene nazionale”, ecc. “In che modo il senso di colpa è un’invenzione autoritaria, e non invece un concetto che ci aiuta a tenere a bada i nostri più bassi istinti?” La dinamite può essere utilizzata anche per scavare un tunnel in una montagna. In certi casi può apparire una buona cosa. Ma bisogna essere degli irresponsabili a metterla in circolazione senza le dovute precauzioni. Il senso di colpa è un’invenzione autoritaria perché serve a deflagare dentro una mente, non una, ma infinite volte, rendendo debole e succube la persona. Serve a farla sentire indegna, cattiva, incapace, pronta a sottomettersi ad una superiore autorità. Di più, pronta ad acclamarla e ringraziarla come proprio salvatore. L’autorità irrazionale connota come negativi determinati impulsi, come quello sessuale o quello di esplorare e di pensare con la propria testa. Poi promette punizioni in questo o nell’altro mondo (più efficaci, questi ultimi, data la loro inverificabilità). Se la persona crede all’autorità, il gioco è fatto. Anche se non verrà concretamente punito, si punirà da solo al proprio interno, avendo interiorizzato l’autorità come giudice. Instillare il senso di colpa è un’operazione reazionaria ed oppressiva, non compatibile con un’educazione minimamente sana. E tantomeno con una pratica politica rivoluzionaria o una via di elevazione spirituale, nobili scopi, proprio per i quali ne è stato fatto il più ampio uso. Dopo Max Weber, abbiamo imparato ad operare nell’etica una distinzione, questa sì, davvero importante: tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. La prima serve spesso a coprire i peggiori misfatti: io ho agito così per il suo bene, lui è morto, pazienza! Sono moralmente a posto. La seconda guarda ai risultati delle nostre azioni. Se sono dannose, chiede di rimediare. Non a sentirsi in colpa, che non serve a nessuno, ma a riparare il danno, impegnandosi a non produrlo più. Il senso di colpa, invece, è un radicale nevrotico che, lungi dal migliorarci, ci mantiene deboli ed in conflitto con noi stessi, pronti a ricadere nell’errore infinite volte. Macerandoci al nostro interno, ma rimanendo del tutto insensibili al destino concreto dell’eventuale vittima. La quale, oltre al danno subito, dovrà magari sorbirsi il nostro cattivo umore. Il senso di colpa non serve a purificare la propria anima, ma a sottomettersi al potere altrui e ad odiare se stessi. “Come faccio a sapere se una cosa, una persona, una tecnica, ha potere su di me?” A questa domanda c’è una risposta molto semplice: una cosa ha potere su di te quando non ne puoi fare a meno. Prova a liberarti dal senso di colpa. Non ci riesci. Il senso di colpa ha potere su di te, perché l’autorità che te lo ha installato, ti è entrata dentro. Ti domina dall’interno, esercitando la forma di controllo più efficace e sicura che esista. Tu credi di essere libero, perché credi, sentendoti in colpa, di pensare con la tua testa. In realtà stai pensando con la testa di chi questo potere ha esercitato su di te. Appena provi a indagare questo meccanismo, ti senti più in colpa di prima, perché perdi la tua innocenza: ti stai ribellando. E la ribellione, nella cultura dell’etica autoritaria, che hai fatto tua, è la peggiore delle colpe. “Ma anche i miei cattivi impulsi hanno potere su di me!” Nel momento che accetti la definizione di “cattivi impulsi”, che ti viene fornita non dalla natura, ma dall’autorità irrazionale, - politica, religiosa o filosofica, non importa -, essi diventano tali per il semplice fatto che tu inizi a combatterli. Dando inizio ad una danza distruttiva, ad una lotta senza fine. Più cerchi di controllarli, più essi si ribelleranno, trasformandosi in demoni capaci di riempire le tue notti dei peggiori incubi. Così è tipicamente per l’impulso sessuale. Una volta definito pericoloso e soggetto a repressione, esso si distacca dall’amore e dallo spirito, e si perverte in materialità bruta, tingendosi di futilità o sporcandosi di aggressività e prevaricazione. E’ facile dopo giudicarlo cattivo. La regola è semplice: ciò a cui non sei in grado di rinunciare, diventa un bisogno e ha potere su di te. Se non sai rinunciare agli alcolici e al fumo, bottiglie e sigarette hanno potere su di te. Se non sai rinunciare ad ingollarti di cibo, il cibo ha potere su di te. Non sei tu a scegliere. Sono loro che decidono della tua vita. Se non sei in grado di rinunciare alla persona che dici di amare, e lasciarla libera di amarti o no, tu sei soggetto al suo potere. Per questo inizi ad odiarla, nel momento stesso che dici di amarla di più. Amore e dipendenza sono inconciliabili. Se non sai rinunciare ai tuoi sogni, essi ti domineranno trasformandosi nei tuoi peggiori tiranni. “Ma rinunciare non significa arrendersi e abbandonare ogni aspirazione? Quindi vivere nell’apatia, nella rassegnazione?” Non ho detto che occorre “rinunciare”, ma “saper rinunciare”, saper fare a meno. Desidero una casa più bella, ma posso essere felice anche se non riesco ad averla. Voglio diventare un ottimo pianista, ma immagino di poter essere felice anche se non lo divento. Mi fa piacere laurearmi, ma sono soddisfatto di me anche prima. Sono contento di essere in salute, ma una malattia non mi fa perdere il buon umore. Sono contento se una persona è gentile con me, ma non pretendo che lo sia. “Quindi non si tratta di non avere desideri o di reprimerli!” Certo che no. Sogni e desideri, finché rimangono preferenze, sono il sale della vita: sono possibilità che, lasciandoci liberi, ci spingono a muoverci, ad agire, a goderci le cose. L’attaccamento ai desideri, invece, li trasforma in bisogni e in doveri. Poiché pretendono di essere soddisfatti, i bisogni ci dominano e ci rendono schiavi. Come dei buchi neri, risucchiano la nostra attenzione e la nostra energia. Il resto non ci interessa, neppure più lo vediamo. Siamo presi da un amore passionale e usciamo con un amico. Lui potrebbe aver perso un occhio e avere un palo piantato nella schiena, e non ce ne accorgeremmo neppure. Non c’è spazio nella nostra testa che per la persona oggetto del nostro amore. Che amore ovviamente non è, ma solo possessione. Questa è la natura della dipendenza. E si può dipendere da tutto, non solo dall’alcol o dalla droga. Si può dipendere dalla carriera, dal denaro, dal successo, dal riconoscimento, dall’amore di un’altra persona, appunto. Ricordo una cliente che si tormentava per essere stata abbandonata dall’uomo con cui stava. L’aveva lasciata per andare con un’altra donna. Le chiesi se amava ancora quell’uomo, e lei mi rispose, un po’ risentita: “Certo, lo amo tremendamente, non ho altri pensieri che per lui”. Brevemente, le dissi di immaginare questa scena: lui, dopo aver trascorso una notte travolgente di passione con la nuova compagna, al mattino presto esce di casa colmo di felicità, ma lievemente assonnato. E, attraversando la strada, non vede sopraggiungere il camion della spazzatura. Ci finisce sotto e rimane spiaccicato sull’asfalto. Nel viso della donna compare un sorriso, molto lieve e trattenuto, per la verità. In confronto quello della Gioconda sarebbe apparso una volgare sghignazzata. Glielo feci comunque notare, e, fingendomi stupito della sua reazione, le chiesi spiegazioni. E lei se ne uscì con una frase del tipo: “Ecco ciò che si meriterebbe quel bastardo!” Il linguaggio, all’interno di una cultura duale, lo abbiamo visto, tende a focalizzarsi sulle differenze, e a polarizzarle. Il campo semantico della rinuncia, richiama comunemente parole come: perdita, resa, rassegnazione, debolezza, sofferenza. Qualcosa di negativo, da evitare nei limiti del possibile. Come una malattia, o una disgrazia. In questo modo, attraverso una categorizzazione linguistica socialmente condivisa, veniamo a perdere una fetta importante di realtà e di significati, che si collocano in tutt’altra direzione: la rinuncia come forza d’animo e apertura a nuove infinite possibilità. La rinuncia come liberazione dalla tirannia dei bisogni! “Quindi come risorsa!” Quelli che consideriamo problemi, lo sono dal nostro punto di vista. Ma la realtà è molto più vasta di ciò che riesce a vedere il nostro occhio condizionato dal pensiero-linguaggio e dalla cultura di appartenenza. “Mi sembra difficile convincere un povero della fortuna che ha nel rinunciare ad una vita comoda e confortevole! O ad un innamorato a dover rinunciare alla donna che ama!” Il problema non sta nella rinuncia, ma nella libertà o nella costrizione. E’ diverso vivere nella povertà o nella frugalità perché lo si è scelto, come fece S. Francesco, o perché a tale situazione si è condannati da circostanze avverse. Nel secondo caso, non si tratta di rinuncia, ma di impossibilità, impedimento, frustrazione, tutte cose che non favoriscono la felicità. Questo è facile da capire. Meno facile è comprendere che lo stesso vale per la ricchezza o il successo. L’attaccamento al desiderio di avere successo si trasforma spesso in bisogno e coazione, che porta la persona a lavorare ed impegnarsi sempre di più, in una corsa senza fine. D’altra parte, chi si accontenta della sua situazione economica non florida, rinunciando alla pretesa che le cose dovrebbero essere diverse, può vivere una vita assolutamente piena e serena. “Finché si parla di soldi o di successo, sono d’accordo. Ma quando si tratta della salute?” Il discorso non cambia. Paradossalmente, per godere di buona salute psichica, occorre saper rinunciare ad avere una perfetta salute fisica. Altrimenti ogni sintomo, acciacco o malattia, diventa occasione per sviluppare cattivo umore, infelicità, depressione. E per godere di una buona salute fisica, occorre lasciar andare la pretesa di essere sempre soddisfatti e contenti. In caso contrario, ogni emozione negativa diventa oggetto ansiosa, trasformandosi passeggero, in di osservazione da sequestro preoccupata fenomeno emozionale innocuo che e e può prolungarsi nel tempo e danneggiare il corpo. “Ma se arriva una malattia seria o incurabile?” Mia madre era ricoverata in ospedale a Milano per una delicata operazione, nella speranza di rimediare ad un intervento compiuto a Genova da un ortopedico di rara incompetenza. Nella sua stanza c’erano altre due donne: una ragazza giovane, ed una signora di una certa età. Quando andavo a trovarla, mia madre, nonostante il disagio e la sofferenza fisica, era contenta di vedermi e appariva tranquilla e di buon umore. Anche la signora del letto accanto era molto gentile, sorridente, ed emanava un senso di serenità. La ragazza più giovane, invece, era sempre chiusa e ingrugnita. Non rispondeva al saluto e sembrava infastidita dalla presenza di ogni altro essere umano. Tutti i giorni, parenti, amici e il fidanzato, venivano a farle visita, pieni di premure. Ma il suo umore non cambiava minimamente: anzi, ogni volta trovava nuove occasioni per lamentarsi e criticare qualcuno. Mi feci l’idea che stesse soffrendo per una grave malattia, e che reagisse alla sofferenza in questo modo distruttivo. Mentre l’altra donna, più anziana, probabilmente aveva un lieve disturbo e presto sarebbe tornata a casa. Per questo poteva essere sorridente nei miei confronti, e così gentile e premurosa nei confronti di mia madre. Ben presto venni a sapere che la verità era il contrario. La ragazza giovane non aveva nulla di grave, e stava per lasciare l’ospedale perfettamente guarita. La signora più anziana, invece, era ammalata di tumore e aveva davanti solo pochi mesi di vita. Inoltre, era stata abbandonata dal marito, ed era sola al mondo. Nessuno veniva mai a trovarla. Nonostante questo, irradiava un senso di serenità e benevolenza, che era contagioso. Mia madre fu molto aiutata dalla sua presenza. Candy Pert racconta di un uomo giovane paralizzato a letto, senza più l’udito, a causa di un gravissimo incidente. Per respirare aveva bisogno del polmone artificiale. Egli trovava conforto nel guardare gli alberi fuori dalla finestra dell’ospedale. Un giorno perse anche la vista, e fu preso da un terribile scoraggiamento. Poi si ricordò che anni prima aveva praticato meditazione. Iniziò a concentrare la sua attenzione sul respiro, con dedizione e amore. Dopo qualche ora, il suo umore si risollevò. E con il tempo, lentamente, il suo corpo cominciò a guarire. Roberto Ghiozzi, musicoterapeuta che si è formato nella nostra scuola, accompagnando i malati terminali di AIDS negli ultimi mesi di vita, ha assistito più volte ad una loro rinascita spirituale. Rinascita resa possibile dalla sua presenza amorevole ed empatica, e dalla musica cantata, composta o suonata apposta per loro. Vari pazienti lo hanno salutato, prima di lasciare questo mondo, dicendo che i tempi trascorsi insieme erano stati i più belli della loro vita. Non rimandiamo, non aspettiamo gli ultimi giorni della nostra esistenza per scoprire questa profonda verità: la felicità non dipende dalle circostanze materiali, ma dall’apertura del cuore. “E’ questo il significato profondo della rinuncia alle pretese e all’attaccamento ai desideri?” Nel discorso della montagna, Gesù è stato molto esplicito: beati gli ultimi e beati i poveri, perché loro sarà il regno dei cieli. Poveri di che cosa? Poveri di bisogni, e quindi, di pretese, lamentele, accuse. Capaci di essere contenti nel qui ed ora, con il cuore aperto a ricevere le grazie del creato, che sono presenti ovunque, in una foglia, in un insetto, in un raggio di sole, nel sorriso di un anziano che sta per morire. Ogni desiderio a cui ci attacchiamo, diventa un bisogno, che ci limita e ci toglie libertà. Il bisogno di riconoscimento ci spinge a cercarlo nelle altre persone, dalle quali finiamo per dipendere. Il bisogno di eccellere ci spinge a competere, in una gara continua con noi stessi e con gli altri. Non credo che Maslow abbia avuto una buona idea quando, nella sua famosa gerarchia, a messo sotto la stessa etichetta di “bisogni” quelli di sopravvivenza, quelli di relazione e quelli di realizzazione. Da adulto, ad esempio, non ho mai “bisogno” di accettazione, ma solo desiderio, perché dall’accettazione non dipendo come dal cibo. Chiamandoli bisogni, si legittima una forma di ipnosi fin troppo comune, che ci autorizza a sentirci male e a lamentarci se non riceviamo l’affetto, il riconoscimento, l’attenzione che desideriamo. O ad essere insoddisfatti se non raggiungiamo nella vita i risultati che ci proponevamo. E’ vero che Maslow fa una distinzione fondamentale tra bisogni carenziali e bisogni accrescitivi. I primi sono i bisogni infantili ancora presenti in un adulto, come il bisogno di attenzione, e hanno quindi carattere nevrotico. I secondi, invece, sono quelli che ci spingono a migliorarci e a realizzare le nostre potenzialità. Ma questa distinzione, venendo dopo, non toglie il rischio di aver messo nella stessa scatola oggetti così diversi. I bisogni carenziali sono fonte di paura e coazione. Quelli accrescitivi sono fonte di crescita, libertà e gioia. Perché allora chiamarli bisogni? E non piuttosto aspirazioni, tendenze, forze evolutive, spinte interiori, motivazioni, passioni? Da adulti dovremmo essere molto cauti a parlare dei nostri bisogni, come se si trattasse di esigenze reali. I bisogni non sono esigenze da soddisfare, ma di cui liberarsi appena possibile. Più siamo ricchi di intensi bisogni, più siamo separati dal mondo e dagli altri. E più siamo poveri a livello spirituale: tesi, arrabbiati o insoddisfatti. Su questa linea, presente sono tensione e insoddisfazione nel considerati la legittima molla del miglioramento individuale e del progresso collettivo. Mentre non sono che l’anticamera dell’inferno emotivo e relazionale. Quante famiglie si sfasciano perché uno dei partner dedica al lavoro troppa attenzione ed energia? E perché lo fa? “Di solito dice di farlo per mantenere la famiglia, per garantire un buon tenore di vita, per assicurare un futuro ai figli”. Si tratta di una ragione o di una razionalizzazione? Non è difficile da capire. Dietro questi comportanti c’è regolarmente un bisogno: di mostrare il proprio valore. Mostrarlo a chi? Anzitutto a se stessi: io valgo perché ho successo. E’ sensata questa risposta? Nella logica del bisogno è certamente sensata, e così appare a chi la fornisce finché nel bisogno si identifica, e quindi non riesce a vederne la natura tirannica. Crede quindi di agire liberamente per il suo bene, e invece agisce per conto di un “meme”, entrato nella sua mente, che lo domina. “Un meme del potere?” Sì, un vassallo del potere, che fa il gioco del suo padrone: l’Ego. Per capire la natura dell’Ego occorre capire la natura del potere, che per definizione non può sopravvivere se non attraverso la pratica dell’inganno e dell’autoinganno. “Un potere contro di sé!” Contro di sé e contro gli altri, in una logica non duale, non fa differenza. Il potere è contro, l’Ego è contro. Contro che cosa? Contro l’altra forza: l’amore. L’amore ci vuole connessi, in contatto, uniti tra noi, in armonia con l’ambiente. L’Ego ci vuole separati, in competizione, in lotta. “L’Ego quindi produce continua sofferenza?” Eckhart Tolle la chiama corpo di dolore. Più Ego abbiamo, più il nostro corpo di dolore è denso. E nello stesso tempo la nostra consapevolezza è oscurata dalla sua propaganda, che ci spinge ad agire non verso la luce della liberazione, ma verso le tenebre della progressiva schiavitù. “La sofferenza, l’insoddisfazione cronica, la paura sono quindi sintomi di Ego? Anche se ci rendono deboli e inabili? Non si tratta piuttosto di un problema o un disturbo?” L’Ego è il problema! E’ la radice di tutti gli altri problemi e di tutta la sofferenza innecessaria. Separandoci dal qui ed ora, dal tempo e dallo spazio presente, l’Ego ci sconnette dai sensi e dal corpo, e ci consegna all’illusione del pensiero condizionato dal passato e dal futuro. Pensiero che, come abbiamo visto, si nutrono di categorie liguistiche, alle quali attribuisce statuto di realtà. Mentre della realtà offre solo un’immagine impoverita e distorta, utile come mappa in alcune circostanze, ma del tutto fuorviante se confusa con il territorio. Quando del linguaggio non sappiamo più fare a meno, dal linguaggio siamo dominati. Il linguaggio da utile strumento, diventa bisogno, esigenza da soddisfare, coazione a cui obbedire. Un linguaggio non più ispirato dall’amore, ma intriso di “memi” del potere, dei quali si fa portatore. La domanda diventa allora: se non possiamo liberarci del linguaggio, possiamo utilizzarlo come mezzo di liberazione anziché di oppressione? La risposta è senz’altro positiva: possiamo imparare a farlo. In tal modo, da ostacolo, diventa il nostro più prezioso alleato. Questa è la sfida attuale in PNL umanistica, per la quale stiamo mettendo a punto il metamodello 2. Mentre il metamodello 1 ha il compito di liberarci dalle illusioni personali più grossolane - causa effetto, lettura della mente ecc. -, il metamodello 2 ha uno scopo più generale: confrontare e svelare le illusioni collettive - in primo luogo l’illusione di separatività -, assorbite e riprodotte dal pensiero individuale. Che di individuale e personale ha normalmente assai poco. Per generare la nevrosi di un uomo moderno, non bastano le influenze famigliari e scolastiche. Occorre un forte contributo dei modelli di pensiero dominanti nella società. Contributo che, di solito, non bisogna far nulla per ottenere, avendo carattere equanime ed eguaitario: nessuno ne viene privato. Una certezza, almeno questa, sulla quale possiamo fare pieno affidamento. “Come funziona il metamodello 2?” In modo simile al metamodello 1, attraverso confrontazioni e domande. La differenza consiste nella filosofia che sta dietro alle domande, una filosofia non duale al posto di quella duale, nella quale siamo cresciuti ed linguisticamente educati. “Mi fai un esempio concreto?” Una persona dice: soffro molto per la violenza che c’è nella mia famiglia. Se utilizziamo il metamodello 1, cominceremo a porre domande per avere informazioni più specifiche. Violenza è una nominalizzazione. Recuperiamo il verbo: usare violenza, essere violenti. Recuperiamo il soggetto e il complemento. Chi è violento con chi? Che cosa intendi per violento? In quali circostanze si manifesta il comportamento violento? Quando è iniziato? Quando si è aggravato? Chi lo pratica di più? Chi lo subisce? Che cosa impedisce alle vittime di andarsene e sottrarsi alla violenza dei prevaricatori? In che modo la violenza in famiglia ti fa soffrire? In che modo specificamente soffri? In che modo reagisci tu alla violenza? Quali sono i rimedi che hai provato fino ad oggi per ridurre la violenza? ecc. Attraverso l’uso del metamodello, arricchiamo la nostra rappresentazione della realtà. Mentre all’inizio ne avevamo solo una vaga idea, via via l’idea prende forma: saremmo in grado di girare un film con personaggi e attori che riproducono abbastanza fedelmente quello che accade in quella famiglia. Ma il metamodello non si limita a questo: alla fine esso ci conduce a scoprire le convinzioni disfunzionali, i presupposti che rendono possibile il perpetuarsi di quella situazione, mantenendo il cliente passivo e impotente. “Scopo del metamodello è quindi il recupero delle capacità e risorse personali?” Sì. In due parole, aiuta la persona ad uscire dalla posizione di impotenza e di recuperare il potere di compiere libere scelte. “Quindi ha la funzione di ampliare la consapevolezza? Certamente, consapevolezza dei dati di realtà, delle proprie convinzioni e decisioni disfunzionali, nonché dei presupposti impliciti che attraversano tutta la propria mappa. Lo scopo è quello di ottenere i gradi di libertà di cui dispone un individuo sano all’interno della nostra cultura. “Che però, come dicevamo, è oppressiva nei suoi fondamenti!” E quindi una persona sana non è ancora una persona risvegliata alla metamodello 2 realtà profonda. non è guarire Scopo del una persona per renderla adatta ad avere successo all’interno della società malata di cui facciamo parte, consentendole di condurre una vita da cosiddetti sani. No, il suo scopo è di farle aprire gli occhi sulla vera natura della sofferenza, a partire dalla propria. E sui modi in cui inconsciamente tutti contribuiamo ad accrescerla, spargendo i suoi semi nella vita quotidiana, a partire dal rapporto con il nostro corpo, con noi stessi e con i nostri famigliari. La sofferenza personale, quindi, da ostacolo diventa lo strumento più importante della propria liberazione. “Una ristrutturazione piuttosto radicale!” Il metamodello 2 si occupa della radice profonda dei problemi. Se guardiamo in superficie, vediamo un continuo brulicare di problemi diversi: il lavoro, la casa, la famiglia, la scuola, i figli, il denaro, la realzione con gli altri, le malattie ecc. Risolto un problema, se ne affacciano altri due, in un’escalation geometrica. Più ci diamo da fare per risolverli, più ci copriamo di impegni che ci tolgono il tempo per respirare. “E quale è la radice profonda delle difficoltà che incontriamo?” Il progressivo distacco, la separazione dalla realtà. “Questo ha un nome: si chiama psicosi!” Nome che noi, per generosità, riserviamo ai malati di mente conclamati. Comprensibilmente, abbiamo una certa resistenza a riconoscere la nostra comune radice psicotica. D’altra parte, finché è socialmente condivisa, finché riusciamo ad essere produttivi e a far finta di amare, perché preoccuparcene? L’importante non è essere “normali”? Cioè essere come tutti gli altri? La PNL, nata in un contesto di grande fermento e innovazione culturale, la California degli annni settanta, - la nuova ipnosi di Milton Erickson, la mente non confinata nel corpo di Gregory Bateson, la pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick, i seminari all’Easalen Institute, il rapporto tra nuova fisica e spiritualità di Fritjof Capra, la meditazione, i lama e i monaci in esilio dal Tibet -, salvo eccezioni, ha perso lo spirito rivoluzionario del suo esordio. Si è adattata, direi molto bene, ed è diventata uno strumento del business. Il metamodello 1 è spesso utilizzato come strumento competitivo per avere più successo, per prevalere, per definire obiettivi che di ecologico hanno solo il nome. I titoli di practitioner e master si prendono ormai in pochi giorni, basta essere disposti a pagare tanti soldi. Il metamodello 2 si pone lo scopo di riaccendere lo spirito rivoluzionario della prima PNL. Almeno lo spirito che ho percepito io, quando ho cominciato a frequentarla. “Non sono interessato alla terapia per adattare le persone ad una società malata, ma a promuovere la sua trasformazione”, questo aveva detto Grinder, uno dei suoi fondatori. Ma il demone del potere non ha risparmiato la PNL, come dimostra la sua storia. Perché avrebbe dovuto farlo, visto che non ha risparmiato nessuno dei grandi movimenti rivoluzionari, - cristianesimo, illuminismo, marxismo, psicoanalisi in testa -, per citare solo quelli che maggiormante ci hanno influenzato? Avendolo sottovalutato, credendo di possedere la chiave per controllarlo, peccando di orgoglio, ne sono stati regolarmente contaminati. “Ritornando alla sofferenza, mi ha colpito quando hai detto che da ostacolo essa diventa lo strumento più potente della nostra liberazione. Che significa? che dobbiamo essere contenti quando ci ammaliamo, quando abbiamo un incidente, quando le cose ci vanno storte?” Come sai, la PNL è diventata famosa per la rapidità con cui riusciva a risolvere certi problemi, come le fobie o gli effetti attuali di traumi del passato. Un cambio di sottomodalità, un ancoraggio, una dissociazione V/K, ed ecco il miracolo: la fobia è sparita. Un cambio di storia, e la persona è libera dall’emozione negativa. Fine della sofferenza. Pronti a ripartire con una nuova carica vitale. Ma per andare dove, con chi, a che scopo? per soddisfare quali valori, quale identità, quale missione? E’ stato Robert Dilts ha porsi per primo queste domande. Ma indovinate un po’? Grinder lo ha sconfessato pubblicamente, dicendo che quella di Dilts non è più PNL perché si occupa di contenuti. La PNL vera, la sua e solo la sua, è fatta unicamente di forma e struttura. Con valori e ideali non vuol sporcarsi le mani. L’attuale compagna di Grinder, che fa aula con lui, è una manager, a quanto pare di notevole successo, che dichiara di essere stata in gioventù miss america o qualcosa del genere. E racconta storie e metafore quasi sempre intrise di messaggi su come ottenere successo. Nel seminario a cui ho recentemente assistito, di fronte ad una platea di centinaia di persone, molte delle quali master o trainer, Grinder ha aperto le danze in modo da marcare nettamente il territorio: la PNL sono io! Vediamo se voi ci avete capito qualcosa! Tutti sotto esame. Se questa è la rivoluzione promessa, mi richiama molto quella leninista, senza neppure lo scrupolo o il buon gusto di mascherarla dietro qualche ideale. Ma forse è meglio così. I giochi si fanno più chiari. Il mondo si divide in due: quelli che comandano e quelli che obbediscono. Torniamo alla realtà, usciamo dalle psicosi idealiste. “Sei quindi contrario alla rapida risoluzione di un sintomo?” Sono favorevolissimo, purché il sintomo sia visto come tale, e non come una seccatura di cui liberarsi per continuare a comportarsi in modo egocentrico e irrispettoso. Se la cornice generale nella quale si opera è quella di una gara per chi ha più successo, una sfida continua per arrivare prima, non possiamo permetterci di ascoltare i messaggi dei sintomi. Che talvolta o spesso, non sempre, sono messaggi dell’anima. Messaggi che contengono indicazioni preziose sui cambiamenti importanti da attuare per rendere la nostra vita più ricca e piena. In senso relazionale, emotivo e spirituale, non materiale. Altre volte i sintomi sono solo disturbi, incidenti, come una casa che si allaga o un albero che viene colpito da un fulmine. Una tegola che ti cade addosso non contiene un messaggio per te. Puoi crederlo, se vuoi, ma allora, oltre al bernoccolo, in testa hai un problema ben più serio. Il fatto di condividerlo con altre persone non ne cambia la natura. In entrambi i casi, - che i sintomi siano messaggi o siano frutto di incidenti -, se vogliamo seguire la via dell’amore, anziché quella del potere, c’è un atteggiamento di fondo che è opportuno imparare ad adottare nei loro confronti: la loro piena accettazione, così come sono, nel momento presente. “Quindi non dobbiamo far nulla per liberarcene?” Non dobbiamo fa nulla per combattere con loro. Facendo così, entriamo in una fisiologia di allarme e difesa, idonea a scatenare una pronta reazione di attacco o fuga, funzionale a salvarci dai predatori, ma del tutto inadatta a rinforzare il nostro sistema immunitario fisico e mentale. La nostra intelligenza, la nostra creatività viene a ridursi a quella di un rettile, senza disporre dei suoi denti e del suo veleno -, proprio quando abbiamo bisogno di migliorare le nostre prestazioni. Accecati dalla rabbia e dal rancore, molte volte perdiamo di vista l’ovvio, il banale: il bisogno di riposo, di staccare dalla routine, di allontanarci da situazioni tossiche, di frequentare nuovi ambienti, di cambiare abitudini alimentari, di fare attività fisica, di stare in mezzo alla natura, di curare le nostre relazioni. Combattere i sintomi serve ad una sola cosa: a rinforzarli. Prova a combattere con il mal di testa, con l’insonnia o il mal di pancia. O con la tua rabbia o la tua paura. O con le tue ossessioni. Prova a maledire il destino, Dio, la sorte, i tuoi genitori, per un incidente che ti è capitato! “Ma accettare sintomi e disturbi in concreto che significa?” Significa assumere con essi un atteggiamento contemplativo o meditativo: vederli, riconoscerli così come sono adesso, senza pretese che non ci siano nel qui ed ora. Rimanendo disidentificati: io non sono il mio mal di testa, io non sono i problemi del mio lavoro, della Rimanendo mia carriera, tranquilli. compassionevole. Con della mia famiglia. il cuore aperto, L’occhio della rabbia vede solo la superficie dei fenomeni, ingrandendoli e isolandoli dagli altri. La rabbia vuole una soluzione immediata, che spesso non può esistere o non può essere raggiunta in questo modo. L’occhio della compassione vede i fenomeni in profondità. Nella loro impermanenza e connessione con gli altri fenomeni. Nella loro corretta proporzione di spazio e di tempo. La consapevolezza che ne deriva è di per sé risanante: riduce il dolore, contiene la sofferenza della perdita, cura il bruciore della ferita. Ci fa sentire più connessi, meno isolati, più partecipi al dolore degli altri che riconosciamo simile al nostro. Già solo avviare questo processo apre la via della soluzione o della guarigione. Il sistema immunitario si rinforza, la mente diventa più lucida, l’intelligenza più acuta. Le scelte che ne derivano vanno nella giusta direzione. Applicare le tecniche di PNL in tale cornice è assai più produttivo ed ecologico, perché diventano mezzi abili che favoriscono l’evoluzione spirituale della persona, e non solo stratagemmi per liberarla rapidamente da sintomi che il suo Ego considera un ostacolo. “Stai dicendo che il problema non sono gli inconvenienti, i sintomi, gli incidenti, ma il modo in cui li osserviamo. Se li osserviamo dal nostro Ego, suscitano in noi rabbia o irritazione. Non vediamo l’ora di liberarcene come da una spina in un piede. Se li osserviamo con gli occhi del cuore, o dell’anima, non destabilizzano più il nostro umore. Ma suscitano la nostra compassione. Compassione per una gamba che fa male, o per il piccolo io ferito. Non li neghiamo, non li trascuriamo, ma ci prendiamo cura di loro con atteggiamento amorevole.” E in questo modo, stiamo lavorando nello stesso tempo per curare la nostra ferita, evolvere spiritualmente e aiutare gli altri a fare altrettanto. La via è la meta. Se la motivazione che ci spinge ad occuparci di un disturbo è egocentrica, anche la soluzione lo sarà. Al massimo da quel disturbo riusciremo a liberarci. Ma solo da quello, e non si sa per quanto. Se invece l’intento profondo è di curare la nostra anima, allora da subito il sintomo perde la sua posizione di centralità nella nostra attenzione. Lo spazio di consapevolezza si allarga, la nostra intelligenza si fa più ampia e spaziosa, in grado di operare con intento di bene. Che per definizione non può essere solo il nostro, ma è sempre uno scopo che ci accomuna alle persone vicine e agli altri esseri. Quando lavoriamo sulla sofferenza in questo modo, la sofferenza perde la sua valenza esclusivamente individuale e personale, ed acquista una valenza assai più grande: non solo la “mia” sofferenza, la “mia” perdita, il “mio” problema, ma il “nostro” problema, il problema che “ci accomuna”. Un problema personale diventa allora l’occasione per lavorare su un problema universale. Non ci porta a lamentarci, a pretendere da altri la soluzione, ad accusarli se non fanno abbastanza. Non ci conduce a rimproverarci o a svalutarci. Non ci stimola ad isolarci e a rinchiuderci, ma ad aprirci di più. Ad essere più risonanti ed empatici con la sofferenza nel mondo. Che non è solo nostra, ma di tutti gli esseri. Questa è l’essenza della compassione: ascoltare le grida al proprio interno, e nel contempo ascoltare le grida del mondo. La pratica della compassione ricongiunge i fili che si sono spezzati, ricompone le trame dell’arazzo, rimette in ordine le note e i temi della sinfonia della vita a cui apparteniamo. Questo significa onorare la vita nella sua complessità ed armonia, cominciando ad onorare noi stessi dell’attenzione, dell’ascolto e dell’empatia profonda di cui abbiamo bisogno per recuperare integrità, pace e salute. Non possiamo chiedere ad altri di compiere il lavoro che compete a noi. Anche il miglior terapeuta o il maestro più illuminato non può far nulla se noi, abbarbicati al nostro Ego, non siamo disposti ad aprire gli occhi, le orecchie e il cuore. Questo però non deve diventare un alibi per i professionisti dell’aiuto, che devono fare pienamente la loro parte. “Quale, specificamente” In primo luogo liberarsi dai demoni del potere che, nel cammino evolutivo, assumono forme via via più nascoste e sottili. Accomunate dall’orgoglio e dalla persistenza dell’Ego. Anche l’ego, stenterete a crederlo, va a scuola di psicoterapia, counseling, formazione. Ed è un allievo modello: prende appunti, annota ogni cosa con la massima diligenza. Apprende il metamodello, lo slight of mouth e le altre tecniche. E poi studia un piano per mettere le competenze acquisite al suo servizio. Ad esempio cercando di diventare il migliore, il più creativo, colui che ha più successo. E il povero io-governo, con tutti gli impegni che ha a tenere insieme la compagine dei suoi ministri, abbocca molto facilmente. Finché l’Ego, come terapeuti o come clienti, rimane il nostro più fedele consulente, non facciamo passi decisivi nella direzione del risveglio. Paradossalmente occorre diffidare del successo, quando ci riempie di troppa soddisfazione. Di chi è questa soddisfazione? Dell’Ego o dell’anima? “Vediamo se ho intuito bene. Si tratta di una tipica domanda del metamodello 2?” Hai ascoltato con il cuore, sei arrivato al nocciolo della questione. Il tuo ascolto ti rende più facile capire, e rende a me più facile insegnare. Non solo il tuo, ma quello di tutti voi. In questo momento svolgiamo ruoli differenti, ma l’intento ci accomuna: apprendere, sviluppare consapevolezza. Più siamo uniti nell’intento, più la nostra intelligenza si fa intelligenza di gruppo, la nostra mente si fa mente di gruppo, più potente di quella individuale. Stiamo creando profonda, senza uno spazio barriere. di Tutti comunicazione ne traiamo giovamento. Non il nostro Ego, però, che, statene certi, guarda a questo fenomeno con giusta preoccupazione. La sua politica, come organismo che abita all’interno della nostra mente, è di tutt’altra natura. Non vuole che creiamo più unione tra noi, più intimità, ma più separazione, più distanza, più diffidenza. Solo lì può proliferare e diffondersi. “Perché fa così?” E’ nella sua natura, come nella natura di un virus c’è la spinta a introdursi in una cellula, ad occuparla per succhiare la sua energia, altrimenti non può sopravvivere. I virus, sapete, fanno cose strane, e sono molto creativi. Ce n’è uno che, quando infetta un topo, stimola i suoi neuroni a farlo muovere eccessivamente, anche in presenza di un gatto. Un comportamento suicida, direte voi, perché il topo, una volta nelle fauci del gatto, è destinato a morire. Il topo muore, certo, ma non il virus, il quale si trasferisce nel sangue del gatto, che è l’unico ambiente adatto alla sua riproduzione. Una strategia di notevole intelligenza. Se un virus, che è più piccolo di una cellula, può manifestare un comportamento così opportunista, figuriamoci l’Ego, che è frutto collettivo di miliardi di menti umane immaterialità per rende un milione solo più di anni. sicura La sua la sua sopravvivenza, attraverso la trasferibilità e adattabilità agli ambienti umani più diversi. “E tornando alle domande del metamodello 2?” Tu mi parli di un problema che ti fa soffrire: la violenza nella tua famiglia. Anche senza saperne molto, posso chiederti: la sofferenza che dici di provare, è espressione della tua anima o del tuo Ego? “Come faccio a distinguere? Io ho difficoltà!” E’ facile operare tale distinzione. Sono due tipi di sofferenza completamente diversi. Non puoi confondere un ippopotamo con un cercopiteco, a meno che tu non abbia frequentato un lungo apprendistato per sviluppare cecità selettiva e grave agnosia nei confronti degli animali. Purtroppo, però, tu hai ragione. Hai difficoltà a distinguere tra loro due cose così semplici, perché quel corso tu lo hai frequentato, a tempo pieno, a partire dalla tua infanzia. Un corso non diretto a sviluppare agnosia per gli animali, ma per gli stati d’animo fondamentali. Tu non sei alessitimico. Tu sei normale. Sai distinguere la rabbia dalla tristezza, e la tristezza dalla paura. Però non sai riconoscere quale è la loro fonte: l’Ego o l’anima. Su questo sei perfettamente adattato alla nostra cultura: condividi il presupposto fondamentale della nostro modo di percepire il mondo. Più diventi grande, più vai avanti a studiare, più diventi confuso rispetto a tale elementare differenza che fa la differenza. Finisci così per ignorarla, svalutarla o ridicolizzarla. In fondo, credi che sia una cosa troppo banale per meritare la tua attenzione. Se studi psicologia, vieni solo confermato in questa convinzione. I problemi reali sono ben più complessi: inconscio patogeno, impulsi, complesso di Edipo, ansia da castrazione, pulsione di morte… Però è una differenza alla quale da bambino, come qualunque Diversa animale, era la eri tua particolarmente reazione se tua sensibile. madre ti rimproverava mossa dal suo Ego o ispirata dalla sua anima. La rabbia di un’anima compassionevole non ferisce nessuno. Anzi è un mezzo molto potente per risvegliare le coscienze. La gentilezza che proviene dall’Ego, invece, ci lega come un guinzaglio al collo. Anche se proviene da nostra madre. Anzi, a maggiror ragione se viene da nostra madre o da nostro padre. In sintesi, le domande del metamodello 2 sono mezzi abili che aiutano la persona a recuperare consapevolezza rispetto a questa fondamentale distinzione: tra pensieri, convinzioni, emozioni, stati interni, comportamenti, atteggiamenti, parole, che provengono dall’Ego, da una parte; e pensieri, convinzioni, emozioni, stati interni, comportamenti, atteggiamenti, parole, che provengono dall’anima, dall’altra. “Quindi il metamodello 2 si collega strettamente al tema degli inquinanti e delle qualità dell’essere, delle barriere e dei facilitatori?” Esattamente. E’ una tecnica linguistica per rendere operativa, nella vita di tutti i giorni, questa preziosa conoscenza. aggiornamenti, Conoscenza proviene che, dalle con i antiche dovuti tradizioni sapienziali non duali, ed in primo luogo, per la mia personale esperienza, dalla filosofia Buddista. Essa favorisce l’allineamento interno tra i livelli logici, in modo che siano la mission e la nostra vera identità a guidare la nostra vita, al posto dell’Ego e delle subpersonalità.