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Trapianto di fegato

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Trapianto di fegato
Trapianto di Fegato
Liver transplant
M. Rossi, G. Mennini, Q. Lai, S. Ginanni Corradini, F.M. Drudi, P.B. Berloco
* Dipartimento di Chirurgia e Trapiantologia “P. Stefanini”, “Università La Sapienza” – Roma,
Italy
** Dipartimento di Clinica Medica, Divisione di Gastroenterologia, “Università La Sapienza” –
Roma, Italy
*** Dipartimento di Radiologia “Università La Sapienza” – Roma, Italy
****Dipartimento di Scienze Anestesiologiche, Medicina Critica e Terapia del Dolore, “Università
La Sapienza” – Roma, Italy
This work was supported by the Interuniversity Organ Transplantation Consortium, Rome, Italy
Director Prof. R. Cortesini.
Indirizzo per corrispondenza:
Tel.: +39064450297; Fax: +39064463667
E-mail : [email protected] (Prof. Massimo Rossi)
Sommario
Il trapianto di fegato (OLT), cioè la sostituzione del fegato nativo, malato, con un fegato normale,
intero o con una parte di esso ottenuto da un donatore cadavere (deceased donor) o vivente (living
donor), si è trasformato da una procedura considerata, fin negli anni ’80, sperimentale, ad una
indicazione terapeutica elettiva per la cura di molte patologie epatiche acute o croniche altrimenti
incurabili.
Il primo trapianto di fegato nell’uomo è stato effettuato nel 1963 dal Prof. T.E. Starzl presso
l’Università del Colorado (USA). Nel 1982 il Prof. R. Cortesini portò a termine con successo,
presso il Policlinico Umberto I, Università “ La Sapienza” di Roma, il primo OLT effettuato in
Italia.
In questo lavoro riportiamo le indicazioni al trapianto, la selezione dei donatori ed allocazione dei
graft secondo le nostre procedure, la tecnica chirurgica, la terapia immunosoppressiva, le
complicanze ed i risultati di questa tecnica presso il nostro centro.
Parole chiave: Trapianto di Fegato; Donatore Vivente; Terapia Immunosoppressiva;
Epatocarcinoma
Abstract
Orthotopic liver transplant (OLT) involves the substitution of a diseased native liver with a normal
liver (or part of one) taken from a deceased or living donor. Considered an experimental procedure
through the 1980s, OLT is now regarded as the treatment of choice for a number of otherwise
irreversible forms of acute and chronic liver disease.
The first human liver transplant was performed in the United States in 1963 by Prof. T. E. Starzl of
the University of Colorado. The first OLT to be performed in Italy was done in 1982 by Prof. R.
Cortesini. The procedure was successfully performed at the Policlinico Umberto I of the University
of Rome (La Sapienza).
The paper reports the indications for liver transplantation, donor selection and organ allocation in
our experience, surgical technique, immunosoppression, complications and results of liver
transplantation in our centre.
Key words: Liver transplantation; Piggy-back; Living donor; Splitliver; Recipient outcome;
Immunosoppression; Hepatocellular carcinoma
Introduzione
Il trapianto di fegato (OLT), cioè la sostituzione del fegato nativo, malato, con un fegato normale,
intero o con una parte di esso ottenuto da un donatore cadavere (deceased donor) o vivente (living
donor), si è trasformato da una procedura considerata, fin negli anni ’80, sperimentale, ad una
indicazione terapeutica elettiva per la cura di molte patologie epatiche acute o croniche altrimenti
incurabili.
Il primo trapianto di fegato nell’uomo è stato effettuato nel 1963 dal Prof. T.E. Starzl presso
l’Università del Colorado (USA) (1).
Tra il 1963 ed il 1967 vennero effettuati in tutto il mondo altri nove trapianti di fegato, con risultati
non soddisfacenti. Nel 1967 Starzl portò a termine il primo trapianto seguito da una sopravvivenza
del ricevente superiore ad un anno (2). Presso l’Università del Colorado, tra il 1968 ed il 1983,
vennero effettuati 170 trapianti ortotopici di fegato con un tasso di sopravvivenza del 30% ad un
anno dall’intervento. La terapia immunosoppressiva utilizzata si basava sull’impiego
dell’azatioprina, dei corticosteroidi e delle globulina antitimociti.
Nello stesso arco di tempo 138 OLT vennero effettuati a Cambridge (UK), con simili deludenti
risultati (3). Tuttavia a seguito dell’introduzione nella pratica clinica, all’inizio degli anni ’80 della
ciclosporina, nuovo farmaco immunosoppressore, i tassi di sopravvivenza mostrarono un rapido e
significativo incremento (4).
Nel 1982 il Prof. R. Cortesini portò a termine con successo, presso il Policlinico Umberto I,
Università “ La Sapienza” di Roma, il primo OLT effettuato in Italia.
Nel 1988 Raia, in Brasile eseguiva il primo trapianto di fegato da donatore vivente (LDLT) (5). Il
secondo caso riportato venne effettuato da Strong in Australia nel 1989 (6). Nel 1990 Nagasue in
Giappone e Broelsch negli USA avviarono i programmi di trapianto di fegato da donatore vivente
nei loro rispettivi paesi (7). Il primo trapianto di fegato da vivente in Italia venne effettuato nel 1997
dal Prof. D.F. D’Amico a Padova.
Oggi il trapianto di fegato, dopo più di quaranta anni dai suoi primi pionieristici passi, ha raggiunto
risultati tali da essere considerato il trattamento di elezione in molti pazienti affetti da epatopatie
acute o croniche del fegato.
In Europa, secondo i dati forniti dall’ELTR (European Liver Transplant Registry), dal 1968 al
dicembre 2005 sono stati effettuati 68.776 OLT in 61.718 riceventi, con 137 Centri attivi in 23
diversi paesi. Nel solo anno 2005 sono stati effettuati 4736 trapianti di fegato.
Indicazioni al trapianto di fegato
Il trapianto di fegato trova la sua indicazione nel trattamento delle epatopatie dell’adulto e del
bambino, acute o croniche non suscettibili di terapia medica o chirurgica alternativa. Le più comuni
indicazioni all’OLT sono le cirrosi virali, alcoliche, da causa sconosciuta, le malattie colestatiche,
metaboliche, l’insufficienza epatica acuta, la patologia tumorale ed altre patologie meno frequenti.
1) Cause di insufficienza epatica cronica
Cirrosi epatica
Le cause di cirrosi epatica che possono determinare lo sviluppo di una malattia epatica allo stadio
terminale (end-stage liver disease) sono molteplici. Le più comuni sono secondarie ad una infezione
cronica da HCV o HBV, oppure ad una epatite su base autoimmunitaria.
• HCV. Oggi la cirrosi epatica HCV-relata è diventata l’indicazione più comune per l’OLT
(8). Circa 3.9 milioni di Americani presentano una infezione cronica da HCV (9). E’ stimato
che circa il 20% di questi pazienti svilupperà una cirrosi epatica entro 20 anni
dall’insorgenza della infezione cronica (10). L’abuso alcolico sembra accelerare tale
processo (11). Mentre la sopravvivenza a 10 anni nei pazienti con una cirrosi ben
compensata si aggira attorno all’80%, la comparsa di complicanze riduce drasticamente
questo valore, con una sopravvivenza a 5 anni inferiore al 50% (12). Inoltre i pazienti con
cirrosi presentano un rischio di sviluppare un epatocarcinoma (HCC) che si aggira tra l’1 ed
il 4% ogni anno (13). La terapia antivirale non è raccomandata nei pazienti con una cirrosi e
con evidenza di insufficienza epatica (15). In questi pazienti il trapianto rappresenta l’unica
prospettiva terapeutica. Tuttavia il persistere della viremia post-trapianto è un evento
pressoché universale (16). Il rischio di evoluzione del graft trapiantato verso la cirrosi è
aumentato da vari fattori, come una elevata viremia, la recidiva precoce (< 1 anno
dall’OLT), l’età del donatore > 50 anni, la scarsa qualità dell’organo, il ritrapianto ed è
oggetto di discussione l’uso del trapianto da donatore vivente. I tassi di mortalità dei
pazienti HCV-positivi sottoposti ad OLT hanno mostrato nelle ultime decadi un progressivo
decremento: la causa rimane sconosciuta (17). L’evoluzione di trials di maggiore durata per
analizzare la storia naturale della malattia dopo trapianto e l’introduzione di nuovi protocolli
farmacologici antivirali postoperatori per il trattamento dell’epatite C persistente dopo
trapianto rappresentano oggi la strada da percorrere.
• HBV: la storia naturale dei pazienti con epatite cronica HBV-relata è variabile. Alcuni
pazienti sviluppano cirrosi, insufficienza epatica o HCC. La prognosi dei pazienti è
strettamente correlata con la severità del danno istologico e con la presenza di virus in fase
di replicazione. Il 30-40% dei pazienti con una epatopatia cronica HBV-relata con infezione
in fase attiva rispondono positivamente alla terapia con interferon (18). Tale terapia non è
raccomandata nei pazienti affetti da cirrosi epatica a causa dell’elevato rischio di effetti
avversi (19). Inoltre l’interferone ha dimostrato minore utilità nella cura delle recidive virali
post-trapianto (20). I primi risultati per i pazienti HBV-positivi furono dunque estremamente
scoraggianti, proprio a causa dell’alto tasso di recidiva virale, con la comparsa di epatiti
croniche secondarie a rapida evoluzione. La dimostrazione che la somministrazione di
immunoglobuline contro l’epatite B (HBIG) potesse ridurre sia l’incidenza che la gravità
delle recidive virali modificò notevolmente tali risultati, così che oggi i tassi di
sopravvivenza a medio e lungo termine di questi pazienti sono ottimi come dimostrato dai
dati dell’ European Liver Transplant Registry (ELTR) (76% a 5 anni e 65% a 10 anni). Gli
elevati costi delle immunoglobuline hanno spinto verso lo sviluppo di nuovi farmaci come la
lamivudina o l’adefovir, che hanno offerto nuove prospettive sia nella terapia pre-trapianto
(viremia < 105 copie/mL al momento dell’intervento chirurgico), che in quella successiva al
trapianto (21).
• HDV: il virus “difettivo” delta può determinare l’insorgenza di epatite unicamente in
presenza di una concomitante o di una pregressa infezione da HBV. In Europa dal 1968 al
2004, non più dell’8% di tutti i casi di cirrosi epatica virus-relata era dovuta alla presenza di
tale virus.
• Epatite autoimmune: questa patologia, la cui causa è sconosciuta colpisce principalmente le
donne e consiste in una progressiva infiammazione e fibrosi del fegato, fino all’evoluzione
cirrotica. La terapia con corticosteroidi può consentire la remissione clinica dalla malattia
fino all’80% dei pazienti, prolungando la sopravvivenza a breve e a lungo termine. Tuttavia
alcuni pazienti sviluppano ipertensione portale ed insufficienza epatica: in tali casi il
trapianto di fegato rappresenta l’unica terapia applicabile. I risultati dopo trapianto sono
comunque eccellenti (22).
Cirrosi alcoolica
La cirrosi secondaria ad abuso alcolico rappresenta oggi la seconda causa di OLT sia in Europa che
negli USA (17). Si è calcolato che ogni anno muoiono negli Stati Uniti per patologia epatica da
abuso alcolico circa 12.000 persone (23). L’astinenza rappresenta l’unica terapia efficace per molti
pazienti, ed anche in quelli nei quali già si è sviluppata cirrosi epatica, essa provoca un significativo
aumento dei tassi di sopravvivenza. Le controversie riguardanti la cirrosi alcoolica come
indicazione al trapianto di fegato sono rivolte alla durata dell’astinenza pre-trapianto ed al rischio di
ricaduta nella dipendenza alcolica. Molti Centri trapianto considerano come essenziale per
l’inserimento in lista del paziente un suo periodo di astinenza pari almeno a 6 mesi. Allo stesso
tempo la prevenzione delle ricadute deve rappresentare un approccio multidisciplinare, tramite
l’aiuto di specialisti psichiatri e psicologici.
Malattia colestatica
Varie patologie su base colestatica sono state correlate all’insorgenza di insufficienza epatica
cronica. Tra queste ricordiamo la cirrosi biliare primitiva (CBP), quella secondaria (CBS) ed i
disordini colestatici dell’età pediatrica ed infantile.
• CBP: la cirrosi biliare primitiva è una rara patologia coinvolgente prevalentemente le donne
tra la quarta e la settima decade d’età. Le cause del suo sviluppo sono tuttora sconosciute. La
terapia con acido ursodeossicolico (UDCA) ha determinato in questi pazienti una riduzione
della sintomatologia ed una dilazione del momento del trapianto (24): tuttavia quest’ultimo
rappresenta l’unica terapia curativa per questa patologia (25). I risultati dopo trapianto di
fegato di questi pazienti, quando confrontati con la prognosi stimata tramite il modello della
Mayo Clinic (26), mettono in evidenza come il trapianto incrementi drammaticamente le
sopravvivenze.
• CBS: la cirrosi biliare secondaria costituisce un disordine di causa multifattoriale
coinvolgente sia le vie biliari intraepatiche che quelle extraepatiche, e determinante una loro
progressiva infiammazione e stenotizzazione. Le cause riconosciute di tale malattia sono
molteplici, e tra esse bisogna ricordare le stenosi post-chirurgiche, le calcolosi delle vie
biliari, l’atresia delle vie biliari, la fibrosi cistica.
• La colangite sclerosante primitiva insorge comunemente in giovani uomini, il 70-75% dei
quali affetto da una malattia infiammatoria intestinale (più comunemente una rettocolite
ulcerosa) (27). L’uso dell’acido ursodesossicolico ha determinato un miglioramento clinico
senza però modifiche a carico dei tassi di sopravvivenza. Nei pazienti affetti da CBS
sintomatici l’evoluzione verso l’insufficienza epatica avviene in circa 10 anni (28). In questi
casi il trapianto rappresenta l’unica terapia efficace (sopravvivenza a tre anni di più del
70%) (29,30).
• Malattie colestatiche dell’età pediatrica ed infantile: sotto tale dizione vengono annoverate
varie condizioni patologiche, comprendenti, tra le altre, l’atresia biliare extraepatica (31), la
malattia di Alagille (32), la malattia di Caroli (33), la fibrosi congenita delle vie biliari, la
cisti coledocica, la malattia di Byler (colestasi familiare intraepatica), il deficit di alfa-1
antitripsina (34). L’atresia congenita delle vie biliari rappresenta l’indicazione più frequente
al trapianto di fegato, è una patologia di origine sconosciuta, che determina la fibrosi delle
vie biliari intra- ed extra-epatiche. La prognosi è infausta e non esiste attualmente alcuna
terapia medica. Solitamente la morte insorge entro 1 o 2 anni dalla nascita (35). Tuttavia, se
la diagnosi viene posta rapidamente, è possibile ricorrere alla portoenterostomia sec. Kasai:
tale procedura chirurgica, se effettuata entro 3 mesi dalla nascita, fornisce eccellenti risultati
in termini di sopravvivenza (36). Quando però tale procedura fallisce o quando la diagnosi
viene posta solo dopo i tre mesi di vita, il trapianto di fegato rappresenta l’unica altra
opzione terapeutica (37). Inoltre molti pazienti sottoposti alla procedura sec. Kasai
sviluppano negli anni un quadro cirrotico: tuttavia i vantaggi di poter sottoporre a trapianto
un individuo di 5-10 anni piuttosto che un neonato sono evidenti (38).
Malattie metaboliche
Molte patologie possono determinare, negli anni, l’insorgenza di una cirrosi epatica: tra queste le
più comuni sono rappresentate dall’emocromatosi ereditaria, dalla malattia di Wilson e dal difetto di
alfa-1 antitripsina.
• Emocromatosi ereditaria: questa patologia a trasmissione autosomica recessiva presenta
un’incidenza nella razza caucasica di 1:200-1:300, ed è causata dal progressivo accumulo
del ferro nei tessuti per un difetto di assorbimento intestinale (39). Tale patologia determina
a lungo termine l’insorgenza di cirrosi epatica, HCC, cardiomiopatia dilatativa, diabete
mellito, artrite ed ipogonadismo (41). La terapia medica consiste in ripetuti salassi o nella
somministrazione di farmaci alchilanti. Il trapianto di fegato rappresenta il trattamento
terapeutico dei pazienti che sono andati incontro ad una patologia epatica in fase terminale
(42): tuttavia i risultati sono significativamente peggiori di quelli per altre patologie (43). La
cardiomiopatia, l’alta incidenza di infezioni post-operatorie e gli elevati livelli di ferro
sembrano concorrere a tale condizione (44).
• Malattia di Wilson: è questa una malattia autosomica recessiva, legata ad un alterato
metabolismo del rame (40), che può determinare sia una patologia epatica acuta che cronica.
Altre complicanze sono i disturbi neurologici, l’anemia emolitica ed il coinvolgimento
renale. La terapia con penicillamina o trientene permette di ottenere in molti pazienti con
patologia cronica dei risultati eccellenti (45). Tuttavia in alcuni casi il trapianto rappresenta
l’unica scelta terapeutica applicabile, soprattutto nei casi che si manifestano con uno
scompenso acuto (46). Il trapianto solitamente cura l’anomalia genetica che causa
l’accumulo di rame nell’organismo determinando una risoluzione completa dei disturbi
metabolici, non necessitando più della terapia chelante (47).
• Difetto di alfa-1 antitripsina: rappresenta la principale indicazione al trapianto di fegato per
patologia ereditaria in età pediatrica (34). Questo disordine, autosomico codominante,
determina l’insorgenza di ittero e di cirrosi epatica entro 10 anni dalla nascita nel 25% dei
pazienti, ed in un altro 25% entro la seconda decade (48). Il trapianto di fegato rappresenta
attualmente l’unica opzione terapeutica potenzialmente curativa, dato che, dopo il trapianto,
viene espresso il fenotipo dell’alfa-1 antitripsina del donatore. I risultati del trapianto sono
eccellenti (49).
• Altre patologie: numerose altre patologie su base metabolica possono necessitare di un
trapianto di fegato. Tra queste ricordiamo la fibrosi cistica, la malattia di Crigler-Najjar di
tipo I, la protoporfiria, l’iperossaluria primaria, la tirosinemia, le glicogenosi,
l’ipercolesterolemia omozigote e la polineuropatia amiloidotica familiare.
Cirrosi criptogenetica
La cirrosi criptogenetica rappresenta ancora oggi una quota significativa di tutte le cause di cirrosi
epatica: fino all’8% dei casi di cirrosi risultano essere dovuti a cause sconosciute. Recenti studi
condotti in Europa e negli USA hanno dimostrato che un’elevata percentuale di pazienti affetti da
cirrosi criptogenetica sia in realtà affetta da una NASH (non-alcoholic steato-hepatitis) (50,51). Tale
patologia che rappresenta una variante della NAFLD (non-alcoholic fatty liver disease), patologia
spesso definita anche con il termine di “steatosi epatica”, insorge comunemente in pazienti obesi,
ipertesi, affetti da DM di tipo II e da dislipidemia. Lo stile di vita occidentale sembra rappresentare,
nel suo insieme, la causa principale di tale patologia, ed un suo futuro incremento sembra oggi
inevitabile.
2) Insufficienza epatica acuta
L’insufficienza epatica acuta o acute liver failure (ALF) viene definita dall’insorgenza di
encefalopatia epatica, alterazioni gravi della coagulazione ed ittero in assenza di precedenti segni di
epatopatia (52). Questa definizione consente di differenziare tale condizione patologica
dall’insufficienza epatica acuta insorta per scompenso da malattia cronica (acute-on-chronic liver
failure, ACLF).
Le varie cause di questa grave patologia includono le infezioni virali da HAV, HBV, HDV, HEV,
l’intossicazione da paracetamolo o da altri farmaci (sindrome di Reye nei bambini a seguito di
assunzione di acido acetilsalicilico), l’avvelenamento da ingestione di epatotossine (Amanita
Phalloides), l’insorgenza della forma acuta del morbo di Wilson, le forme acute post-traumatiche o
post-operatorie (da lesione o legatura dei vasi dell’ilo epatico) (54). Spesso la causa di insufficienza
epatica acuta non viene scoperta (causa criptogenetica) (55).
I pazienti affetti da ALF presentano un progressivo deterioramento della funzione epatica con suo
scompenso che varia dalle 2 settimane ai 6 mesi dopo la comparsa dei primi sintomi.
In alcuni casi la patologia va incontro a risoluzione spontanea, senza lasciare sequele nel tempo: i
bambini sotto i 10 anni o gli individui più anziani dei 40 anni tuttavia difficilmente vanno incontro
a risoluzione spontanea (57,58).
Attualmente non esiste, nei casi gravi, una terapia specifica per l’ALF. La gestione dei pazienti in
reparti di Terapia Intensiva ed il ricorso a strategie terapeutiche come il fegato artificiale (ad es.
MARS) (53) rappresentano spesso presidi di supporto che fungono da terapia-ponte in attesa del
reperimento di un organo in urgenza per il trapianto. Quest’ultimo quindi rappresenta spesso l’unica
terapia applicabile. I risultati del trapianto per ALF sono stati in passato poco incoraggianti,
soprattutto a causa di due diversi fattori (60): da un lato i pazienti giungevano all’intervento con un
quadro neurologico avanzato (edema cerebrale) e multisistemico compromesso (sindrome epatorenale, MOF) (61), dall’altro, a causa della rapidità con la quale bisogna effettuare il trapianto,
spesso gli organi utilizzati erano marginali o addirittura non compatibili per quanto riguarda il
gruppo sanguigno AB0.
3) Patologia tumorale
• HCC: il carcinoma epatocellulare rappresenta il quinto tumore maligno in tutto il mondo ed
il primo per quanto riguarda il fegato (62,63). I fattori di rischio che concorrono al suo
sviluppo sono molteplici e comprendono prevalentemente la cirrosi epatica e tutte le cause
ad essa correlate (abuso alcolico, HCV, HBV, cirrosi criptogenetica, emocromatosi, CBP o
CBS) (64). Il ruolo del trapianto di fegato per HCC ha subito numerose evoluzioni nelle
ultime due decadi, passando dalla prima epoca, nella quale i risultati erano decisamente
sconfortanti (elevato tasso di recidive, sopravvivenze ad 1 e 5 anni non superiori al 25 ed al
18%) (65), ad oggi, quando il trapianto viene a ragione considerato, in pazienti ben
selezionati, il gold-standard terapeutico (66,67). Nel 1996 Mazzaferro et al hanno presentato
un lavoro che ha modificato profondamente le indicazioni al trapianto di fegato per HCC
(68), ottenendo risultati sovrapponibili a quelli dei trapianti per patologia non tumorale
(75% a 4 anni) e con un tasso di recidiva inferiore al 10%. I Criteri di Milano (CM) da loro
proposti (singola lesione di diametro non superiore a 5 cm o due o tre lesioni ciascuna non
superiore a 3 cm di diametro, in assenza di invasione vascolare macroscopica e di malattia
tumorale a distanza), rappresentano oggi i criteri di riferimento di molti Centri
trapiantologici di tutto il mondo. Tuttavia molte problematiche rimangono ancora aperte
riguardo il trattamento dell’HCC: l’adozione di criteri molto rigidi ha portato all’esclusione
di un significativo numero di pazienti da una soluzione terapeutica potenzialmente curativa.
L’estensione dei criteri di selezione per tumori di grosse dimensioni è attualmente in una
fase di revisione critica (69,70). L’utilizzo dei Criteri dell’University College of San
Francisco (UCSF) (un nodulo con dimetro < 6.5 cm o tre o meno noduli con lesione più
grande ≤ 4,5 cm con diametro tumorale totale ≤ 8cm) ha fornito tassi di sopravvivenza a 5
anni del 50% (71).
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Colangiocarcinoma: i colangiocarcinomi intraepatici e quelli delle vie biliari extraepatiche
(come il tumore di Klatskin) rappresentano un tipo di neoplasia particolarmente aggressiva,
che spesso, al momento della diagnosi, ha già determinato la comparsa di metastasi.
Attualmente, in un epoca di scarsezza di donatori, la domanda riguardo l’utilizzo del
trapianto di fegato per il trattamento di questo tipo di tumori non ha ancora avuto una
risposta soddisfacente. Poche serie sono state descritte in Letteratura, e tutte hanno mostrato
alti tassi di recidiva e deludenti risultati in termini di sopravvivenza a lungo termine, (7274). Un’esperienza della Mayo Clinic, consistente di 28 casi estremamente selezionati (2%
dei pazienti), trattati con OLT e chemoterapica adiuvante, hanno fornito buoni risultati (75).
Tuttavia la necessità di ricorrere a criteri estremamente stretti determina l’esclusione da
questo approccio terapeutico della quasi interezza dei pazienti portatori di
colangiocarcinoma.
Metastasi: il trattamento con il trapianto di fegato di metastasi da neoplasia colorettale o non
colorettale non resecabili ha fornito risultati scoraggianti, con alti tassi di recidive a carico
dell’organo o a distanza. Attualmente l’unica indicazione al trapianto per metastasi è
rappresentata dal raro caso di metastatizzazione epatica da neoplasia neuroendocrina (76).
Tumori benigni: a volte neoplasie benigne come l’adenoma epatico, l’adenomatosi,
l’emangioma, l’iperplasia nodulare focale e l’iperplasia nodulare rigenerativa hanno
richiesto il ricorso al trapianto di fegato. Solo nei casi in cui il tumore determini un quadro
sintomatologico grave (dolore, compressione) o sia di dimensioni tali da limitare la funzione
dell’organo, allora il trapianto di fegato è considerato una terapia applicabile. Poiché la
patologia di base è benigna, i risultati sono solitamente eccellenti.
Altri tumori: alcuni rari pazienti portatori di neoplasie come l’epatoblastoma,
l’angiosarcoma, il carcinosarcoma, l’emangioendotelioma epitelioide o le metastasi da
tumore carcinoide sono stati sottoposti a trapianto di fegato, con la priorità di mantenere una
sopravvivenza a 5 anni del 50% (77).
4) Altre patologie
Alcune patologie rare possono rappresentare l’indicazione per il trapianto di fegato: tra queste
ricordiamo la sindrome di Budd-Chiari, malattia determinante la trombosi delle vene sovraepatiche,
la malattia policistica epatica (Fig. 1), malattia genetica spesso correlata con la malattia policistica
renale e con l’insufficienza renale cronica e le malattie parassitarie (schistosomiasi, echinococcosi
alveolare, idatidosi cistica).
Nel valutare un paziente in previsione di un eventuale trapianto di fegato, bisogna prioritariamente
considerare il suo effettivo bisogno di essere sottoposto a tale procedura. La storia naturale delle
patologie epatiche deve essere accuratamente confrontata con la sopravvivenza attesa dopo
trapianto (78). Esistono vari modelli predittivi che vengono utilizzati a tale fine.
Il Mayo Clinic prognostic model for primary biliary cirrhosis viene utilizzato ad esempio nella
valutazione dei pazienti affetti da cirrosi biliare primitiva (76); il suo limite sta nel fatto che può
essere applicato unicamente a questo tipo di pazienti.
Il Child-Turcotte-Pugh (CTP) classification (79), che venne creato per stratificare il rischio legato
alla chirurgia degli shunt porto-cavali nei pazienti con cirrosi e sanguinamento da varici esofagee,
ha ricevuto grande favore negli anni precedenti come modo semplice per determinare la prognosi
dei pazienti con cirrosi. Esso si basa sull’assegnazione di un punteggio in base a 5 variabili: ascite,
encefalopatia, INR, bilirubina sierica ed albumina sierica, ed alla suddivisione dei pazienti in tre
classi (A, B, C). Nonostante i suoi limiti (ad esempio soggettività di parametri come l’ascite e
l’encefalopatia) questo modello è stato ampiamente utilizzato nella pratica clinica. Più di un terzo
dei pazienti in classe C (punteggio di 10 o più) in attesa di trapianto va incontro a morte entro 1
anno. I pazienti in classe B (punteggio tra 7 e 9) hanno l’80% di probabilità d sopravvivere a 5 anni
senza trapianto, quelli in classe A (score di 5 o 6) hanno la probabilità di sopravvivere a 5 anni pari
al 90%.
Il Model for End-stage Liver Disease (MELD) (80) score viene attualmente considerato il test
ideale per quantizzare la mortalità dei pazienti cirrotici in lista di attesa per un trapianto. Venne
sviluppato inizialmente per predire la sopravvivenza a breve termine in pazienti affetti da patologia
cronica epatica sottoposti a posizionamento di TIPS. Tuttavia il MELD è stato recentemente
convalidato retrospettivamente, mostrando di essere utile nello stratificare tale popolazione e nel
predire il tasso di mortalità di quest’ultima a tre mesi, indipendentemente dalle complicazioni
dell’ipertensione portale (sanguinamento da varici esofagee, peritonite batterica spontanea,
encefalopatia portosistemica). Usando il modello MELD i pazienti vengono suddivisi in una scala
continua di valori da 6 a 40, che corrisponde ad una stima di sopravvivenza a 3 mesi che varia
rispettivamente dal 90% al 7%.
Dal 27 febbraio 2002 il MELD viene utilizzato dalla United Network of Organ Sharing (UNOS)
americana come criterio per l’allocazione degli organi in pazienti affetti da cirrosi epatica in attesa
di trapianto di fegato. Il calcolo del MELD si ottiene tramite la formula:
R = (0,957 x loge [creatinina sierica mg/dL] + 0,378 x loge [bilirubina totale mg/dL] + 1,120 x loge
[International Normalized Ratio] + 0,643) x 10
Un modello simile, il PELD, è stato sviluppato per pazienti pediatrici: oltre alla bilirubina nel siero
ed all’INR, questo modello considera come altre variabili l’albumina sierica, l’età inferiore ad 1
anno ed il difetto di crescita (< 2 SD rispetto alla media per l’età). Il calcolo automatico di MELD e
PELD si può ottenere visitando il sito internet
http://www.unos.org/resources/meldpeldcalculator.asp.
Lo sviluppo di complicanze come l’ascite, il sanguinamento da varici esofagee, l’encefalopatia
epatica, la peritonite batterica spontanea o la sindrome epato-renale hanno anch’esse un impatto
significativo sulla prognosi di un paziente cirrotico.
La sopravvivenza a 5 anni di pazienti che hanno sviluppato una qualsiasi di queste complicanze
corrisponde solo al 20%-50% di quella dei pazienti con cirrosi compensata. Ad esempio meno della
metà dei pazienti che sviluppano una peritonite batterica spontanea sopravvive più di 1 anno dalla
comparsa della complicanza, mentre la sopravvivenza media dei pazienti che vanno incontro
all’insorgenza di una sindrome epato-renale di tipo I (a rapida evoluzione) non supera le due
settimane.
La storia naturale della patologia di base deve essere comparata con il tasso di sopravvivenza atteso
dopo trapianto. I tassi di sopravvivenza ad 1, 3 e 5 anni negli stati Uniti sono attualmente pari
all’88%, all’80% ed al 75%, rispettivamente (http://www.optn.org/latestdata/step2.asp).
Attualmente quindi solo i pazienti con un MELD score di 15 o maggiore ad esso ed un CTP score di
7 o maggiore ad esso possono aspettarsi di ricevere un effettivo e significativo beneficio in termini
di sopravvivenza dopo trapianto (concetto del “transplant benefit”) (81-83).
Presso il Centro Trapianti dell’Azienda Policlinico Umberto I i criteri per l’inserimento in lista per
trapianto di fegato da donatore cadavere non in urgenza sono i seguenti:
• Cirrosi epatica con compromissione della funzionalità epatica evidenziabile con un MELD
score ≥ 10 oppure o con un MELD < 10, in presenza di complicanze tali da ridurre la qualità
di vita e/o l’aspettativa di vita, da valutare caso per caso.
• Cirrosi colestatiche con grave peggioramento della qualità della vita (prurito intrattabile), o
comparsa di indici prognostici di rapida progressione di malattia (un punteggio di almeno 6
nello score prognostico abbreviato della Mayo Clinic per la CBP).
• HCC, se nodulo unico < 5 cm o noduli multipli ≤ 3 di numero e con diametro massimo per
ogni nodulo fino a 3 cm, senza evidenza di invasione vascolare e di metastasi extraepatiche.
Tali criteri possono essere raggiunti con “downstaging” ottenuto con
chemioembolizzazione, alcoolizzazione, termoablazione o con resezione chirurgica.
•
Per quanto riguarda la cirrosi epatica di etiologia virale, i pazienti HBsAg + sono inseriti in
lista anche se HBV DNA positivi. Vengono sospesi dalla lista attiva fino a che non
raggiungono valori di HBV DNA sierico < 100.000 copie/ml (PCR) spontaneamente o con
terapia antivirale. I pazienti HCV-RNA positivi sono immessi in lista di trapianto senza
preclusioni.
Le indicazioni al trapianto in urgenza sono le seguenti:
• Insufficienza epatica acuta, definita dall’insorgenza di encefalopatia epatica entro 26
settimane dalla comparsa dei primi sintomi della malattia in assenza di precedenti segni di
epatopatia.
• Primary Non Function di un fegato trapiantato ≤ 10 giorni dal precedente trapianto.
• Epatectomia per trauma con perdita totale della funzione dell’organo.
• Trombosi dell’arteria epatica ≤ 15 giorni dal precedente trapianto.
• Insufficienza acuta su morbo di Wilson.
Controindicazioni
Le controindicazioni al trapianto di fegato possono essere divise in assolute e relative.
Controindicazioni assolute:
• AIDS conclamato
• HIV positività (per i trapianti in urgenza)
• Età > 70 anni
• BMI > 35 kg/m2
• Infezioni non epatobiliari in fase attiva
• Tossicodipendenza attiva (o astensione inferiore ad almeno 6 mesi)
• Abuso alcolico attivo (o astensione inferiore ad almeno 6 mesi)
• Patologie psichiatriche gravi
• Neoplasie extraepatiche
• Metastasi da tumore primitivo occulto
• Decerebrazione documentata
Controindicazioni relative:
• Età tra 60 e 70 anni
• HIV + (solo in trias controllati secondo le linee guida ministeriali)
• Trombosi del sistema venoso portale
• Rischio cardiologico e/o anestesiologico
• Paziente con scarsa compliance (fattori logistici, ambiente familiare, disposizione
psicologica, affidabilità)
In particolare meritano un maggior approfondimento i concetti di età, di obesità e di positività per
l’HIV.
• Età: non esiste uno specifico limite di età per il trapianto di fegato. Tuttavia i pazienti più
anziani presentano delle sopravvivenze a lungo termine inferiori rispetto a quelle dei
pazienti più giovani (84,85). L’età del ricevente rappresenta un fattore di rischio specifico ed
una variabile continua nella valutazione del rischio predittivo di mortalità post-trapianto. Di
conseguenza presso il nostro Centro, nella selezione dei riceventi per trapianto di fegato,
l’età superiore ai 60 anni non deve essere associata alla presenza di altri fattori di comorbidità come le patologie cardiache, respiratorie e renali.
• Obesità: è questo il più comune problema nei pazienti che vengono presi in considerazione
per trapianto di fegato, soprattutto nelle donne e nei pazienti con cirrosi criptogenetica.
L’obesità ha un impatto negativo sia sulla sopravvivenza a breve che a lungo termine, con
•
una riduzione significativa in particolare nei pazienti affetti da obesità patologica (BMI > 35
kg/m2) (86).
Positività per l’HIV: le prime esperienze di trapianto di fegato nei pazienti HIV positivi
furono scoraggianti, soprattutto a causa della comparsa di complicanze di natura infettiva
(87). Tuttavia, dopo lo sviluppo di nuove terapie antiretrovirali (highly active antiretroviral
therapy – HAART), le sopravvivenze sono migliorate significativamente. Inoltre, un elevato
numero di pazienti con infezione da HIV ben controllata, muore per infezione da HCV: di
conseguenza, sempre un maggior numero di questi pazienti potrebbe necessitare del
trapianto (88). Risultati recenti mostrano sopravvivenze a breve termine post-trapianto
analoghe nei pazienti HIV positivi e negativi. Molti pazienti presentano anche dopo
trapianto valori non quantificabili di HIV RNA, tuttavia sono state descritte numerose gravi
interazioni tra i farmaci antiretrovirali e quelli immunosoppressori (89). Inoltre in molti
pazienti si è sviluppata una severa recidiva virale da HCV. In conclusione quindi il trapianto
di fegato nei pazienti HIV positivi richiede un team ben coordinato, multidisciplinare, con
esperienza sia riguardo i trapianti sia riguardo la gestione dell’HIV (90).
Selezione dei donatori ed allocazione dei grafts
La scarsità di organi ed il progressivo allungamento delle liste di attesa, con l’elevato rischio di
andare incontro al decesso del paziente in attesa di un organo per il trapianto, hanno spinto i Centri
Trapiantologici ad allargare i criteri di selezione dei donatori d’organo. Attualmente l’utilizzo di
“extended criteria donors” (ECD) (91-93), ed una più corretta allocazione degli organi, ricorrendo
all’utilizzo del MELD score, hanno consentito di raggiungere ottimi risultati (94).
Presso il nostro Centro la valutazione degli organi dei donatori viene effettuata suddividendo questi
ultimi in standard e non standard.
Alcune caratteristiche peculiari possono rendere “non standard” un donatore, anche se ovviamente
con un differente grado di significatività:
• Età > 60 anni
• Alcoolismo accertato in anamnesi
• Positività dell’HbcAb (anti-core), indipendentemente dalla contemporanea presenza di altri
anticorpi diretti verso gli antigeni dell’HBV
• Instabilità emodinamica e/o ipotensione grave (PA < 60 mmHg) per almeno 2 ore nelle
ultime 12 ore
• Presenza di elevati dosaggi di amine vasoattive per più di 6 ore nelle ultime 12 ore
• Natriemia > 160 mEq/L stabilmente per più di 12 ore
• Attività protrombinica < 40%
• Presenza si marcata steatosi all’imaging (ETG, TC etc.)
• Tempo di intubazione oro-tracheale > 10 giorni
Per quanto riguarda la posizione di un paziente all’interno della lista d’attesa non in urgenza e
l’assegnazione di un graft, i parametri che verranno presi in considerazione sono i seguenti:
• MELD score, che evidenzierà la gravità della patologia (qualora un paziente con HCC in
stadio T2 possegga un punteggio MELD inferiore a 22, verrà comunque assegnato a
quest’ultimo tale punteggio per non penalizzare troppo i pazienti con patologia tumorale ed
epatopatia cronica compensata)
• Caratteristiche del donatore: dati antropometrici (altezza, peso), donatore standard
(assegnato al paziente con MELD score più alto), donatore non standard (assegnato caso per
caso, e mai a pazienti con MELD ≤ 15, a meno che non presentino eccezioni che rendano
opportuno eseguire il trapianto in quel dato momento), donatore HCV positivo (assegnato
solo a pazienti HCV positivi), donatore anti-core positivo (assegnato a pazienti HbsAg e/o
anti HBc positivi, o a riceventi particolarmente urgenti)
•
•
Compatibilità del gruppo sanguigno AB0
Tempo intercorso dall’immissione in lista.
Tecnica chirurgica
La tecnica chirurgica del trapianto di fegato è ormai da tempo standardizzata e prevede,
generalmente, due varianti principali: la tecnica cosiddetta “convenzionale”, nella quale viene
asportato il tratto infraepatico della vena cava inferiore del ricevente ed impiegato un particolare bypass per la circolazione extracorporea, e la tecnica cosiddetta “piggy-back” nella quale il fegato
nativo viene separato dalla vena cava inferiore durante l’epatectomia e l’anastomosi cavale
confezionata sulla cuffia delle vene sovraepatiche o mediante una anastomosi latero-laterale tra la
vena cava del donatore e del ricevente.
Quella convenzionale ha rappresentato a lungo la tecnica standard nell’esecuzione del trapianto e
deve essere tuttora ritenuta come metodica di riferimento in particolare per i centri con minore
esperienza. La tecnica “piggy-back” permette secondo alcune esperienze di abbreviare i tempi
operatori, di diminuire la morbilità operatoria e di risparmiare sul costo dei materiali (circuito
circolazione extracorporea); le difficoltà nell’eseguire questa tecnica possono incontrarsi in caso di
fegati voluminosi, per la presenza di un lobo caudato che abbraccia circolarmente la vena cava
inferiore, o in alcuni casi in cui il paziente sia portatore di TIPS.
Preparazione del Paziente e Incisione
Il Paziente viene posto sul letto operatorio in posizione supina con le braccia allargate a 90°. La
preparazione anestesiologica comprende il posizionamento di una via venosa centrale, di un catetere
arterioso per il monitoraggio continuo dei parametri gas-analitici, di un catetere di Swan-Ganz per il
controllo della pressione venosa centrale a livello atriale e di un numero variabile di accessi venosi
periferici; si posiziona inoltre un catetere vescicale.
Il campo operatorio che viene preparato comprende il torace, l’addome in tutta la sua superficie, le
due ascelle e gli inguini. Prima della incisione addominale, qualora indicato, vengono preparati i
due accessi vascolari per l’uso del by-pass venoso, generalmente utilizzando i vasi di sinistra. Viene
eseguita un incisione inguinale sinistra con identificazione e preparazione della vena safena interna,
che viene repertata su fettuccia in prossimità della sua confluenza nella vena femorale.
Tramite un’incisione longitudinale sulla faccia volare del braccio sinistro si identifica e prepara la
vena ascellare di sinistra.
L’intervento ha inizio con un’incisione cutanea sottocostale bilaterale prolungata lungo la linea
mediana fino al processo xifoideo. Attualmente, in situazioni clinico-chirurgiche favorevoli si
possono utilizzare incisioni chirurgiche più limitate che diminuiscono il trauma della parete.
Fondamentale, soprattutto nel cirrotico, è l’emostasi del circolo venoso sottocutaneo, il piano
muscolare viene inciso con l’elettrobisturi assieme al peritoneo.
Epatectomia
Una volta completata l’incisione si procede con la sezione e legatura del legamento rotondo e
sezione del legamento falciforme. Prima dell’inizio dell’epatectomia si può posizionare il retrattore
addominale.
Si procede quindi all’isolamento degli elementi del peduncolo epatico, iniziando la dissezione
lateralmente con l’identificazione della via biliare principale (VBP). L’approccio chirurgico del
legamento epatoduodenale può risultare tecnicamente molto impegnativo, in alcuni casi il
riconoscimento ed isolamento delle strutture è reso assai complesso dalla presenza di pacchetti
linfonodali e da un ricco plesso di circoli venosi e linfatici collaterali, nonché di aderenze
espressioni di precedenti interventi chirurgici.
La VBP viene preparata e sezionata, tra legature. Si identifica e prepara l’arteria epatica propria e i
suoi rami di biforcazione, che vengono legati e sezionati il più distalmente possibile. L’arteria
epatica viene quindi isolata fino all’emergenza dell’arteria gastroduodenale e preparata per la
successiva anastomosi. La vena porta viene scheletrizzata, sezionando il tessuto connettivo e
linfatico residuo del peduncolo epatico.
Previa sezione dei legamenti triangolari e coronari di destra e di sinistra e completa mobilizzazione
del fegato si procede ad isolamento della vena cava inferiore infraepatica; questo passaggio viene
eseguito con modalità differenti a seconda che si applichi la tecnica “convenzionale”, con crossclampaggio cavale totale ed impiego del by-pass veno-venoso per la circolazione extracorporea
oppure la tecnica “piggy-back” con conservazione della vena cava inferiore.
Tecnica convenzionale
Il tratto infraepatico della vena cava inferiore viene isolato nel suo decorso retroperitoneale e
mobilizzato lateralmente e posteriormente; durante la mobilizzazione del lato destro è importante
riconoscere la vena surrenalica destra che può essere legata e sezionata.
Una volta completata la mobilizzazione della vena cava inferiore, si procede con l’incannulamento
della vena safena ed ascellare di sinistra, precedentemente preparate ed isolate. Viene clampata,
sezionata ed incannulata la vena porta con inizio della circolazione extracorporea. Il by-pass venovenoso ha lo scopo di evitare gli squilibri emodinamici che deriverebbero dal clampaggio cavale e
portale totale, con conseguente alterazione della portata cardiaca e danni conseguenti alla
congestione venosa splancnica.
Il circuito del by-pass è costituito da tre cannule in continuità con altrettanti tubi; le cannule
femorale e portale confluiscono tramite un raccordo a “y” in un unico tubo, che viene applicato alla
parte frontale della “campana” della pompa, mentre lateralmente alla campana verrà inserito il tubo
della cannula ascellare. Il sangue del distretto splancnico e cavale inferiore, viene immesso nel
circuito dalle cannule femorale e portale e viene convogliato dalla pompa nel distretto cavale
superiore attraverso la cannula ascellare. Il circuito viene preparato sterilmente prima del termine
dell’epatectomia, riempiendo i tubi e la campana con soluzione fisiologica sterile; è fondamentale
verificare l’assenza di bolle di aria all’interno del circuito stesso, prima che esso entri in funzione
per evitare fenomeni embolici. Al tubo ascellare viene applicato un flussimetro che permette al
perfusionista di regolare la velocità della pompa durante l’intervento.
Una volta attivato il circuito e verificato il suo funzionamento, la vena cava inferiore viene clampata
al di sopra e al disotto del fegato che viene asportato. La cuffia della vena cava nativa viene
preparata e si confeziona l’anastomosi tra la vena cava del ricevente e la vena cava sovraepatica del
donatore con una sutura continua in materiale non riassorbibile (Fig. 2). Si procede confezionando
l’anastomosi tra la vena cava sottoepatica del donatore e la vena cava soprarenale del ricevente con
una sutura continua in materiale non riassorbibile.
Tecnica piggy-back
In questa tecnica la vena cava inferiore viene separata dalla faccia posteriore del fegato, legando e
sezionando i vasi venosi retroepatici, gli osti dei quali vengono trafissi con punti di polene 4/0 o
5/0. Si seziona il legamento venoso rendendo il fegato completamente libero ed in continuità
esclusivamente con le vene sovraepatiche.
Il clamp vascolare viene posizionato tangenzialmente alla vena cava inferiore, non interrompendo
completamente il ritorno venoso al cuore, e comprendente un tratto il più lungo possibile delle vene
sovraepatiche. Viene preparata la cuffia delle sovraepatiche sezionando lo sperone di tessuto che
separa l’ostio comune di vena sopraepatica sinistra e mediana dall’ostio della vena sopraepatica
destra, creando un unico ostio. L’anastomosi cavale viene eseguita tra la vena cava sovraepatica del
donatore e lo sbocco cavale delle vene sovraepatiche del ricevente, mentre la vena cava sottoepatica
del donatore viene suturata. Talora, tuttavia, la vena sovraepatica desta può trovarsi su un piano
molto più caudale rispetto alle vene sovraepatiche media e sinistra, rendendo impossibile
comprendere le 3 vene nel clamp e permettendo di eseguire l’anastomosi solamente con il tronco
comune delle vene media e sinistra e suturando la vena di destra.
Nella tecnica piggy-back, durante il confezionamento dell’anastomosi cavale, la vena porta viene
clampata e sezionata, con conseguente temporanea congestione splancnica.
Piggy-back latero-laterale
Esiste una variante della tecnica del piggy-back, introdotta da Belghiti, che prevede l’esecuzione di
un’anastomosi latero-laterale tra la vena cava retroepatica del donatore e la vena cava del ricevente.
La tecnica chirurgica prevede ugualmente l’epatectomia con conservazione della vena cava
retroepatica del ricevente, mentre le tre vene sovraepatiche non vengono preparate e clampate per
l’anastomosi ma vengono suturate con sopraggitti in polipropilene o con suturatrice meccanica
vascolare. Si procede quindi ad un clampaggio cavale tangenziale longitudinale sul ricevente,
preservando un buon flusso cavale, e si confeziona un anastomosi latero-laterale tra le due vene
cave sfruttando quasi tutta la lunghezza della vena cava del donatore. I due estremi cavali superiore
ed inferiore del donatore vengono suturati durante la chirurgia di banco.
Rispetto alla tecnica classica, la tecnica piggy-back presenta vari vantaggi:
Il mantenimento del flusso cavale, con buona stabilità emodinamica e la possibilità di
evitare l’uso del by-pass venoso;
Il mantenimento dell’integrità della regione retrocavale e surrenalica destra;
L’esecuzione di un'unica anastomosi cavale, con più breve fase anepatica e minore
ischemia calda.
L’anastomosi portale termino-terminale viene confezionata con una sutura continua di prolene 5/0 o
6/0, lasciando un “growth factor” al momento di annodare la sutura onde evitare una stenosi
anastomotica.
Prima della rivascolarizzazione il fegato viene per fuso con una soluzione di albumina al 20%,
attraverso un catetere inserito nella vena porta. Al termine si procede alla riperfusione vascolare
dell’organo trapiantato rimuovendo le clamps cavali e portale. Alla riperfusione dell’organo, è
solitamente necessario procedere all’emostasi di eventuali punti di sanguinamento a livello delle
anastomosi, dei vasi sezionati al momento del prelievo dell’organo, dal letto della colecisti.
L’anastomosi arteriosa può essere eseguita a vari livelli in base alle preferenze dell’operatore o alle
caratteristiche del vaso, in genere tra il tronco celiaco del donatore e l’arteria epatica comune del
ricevente a livello dell’emergenza dell’arteria gastroduodenale per poter sfruttare un lume più
ampio; a seconda del diametro del vaso l’anastomosi arteriosa può essere confezionata con sutura
continua o a punti staccati in monofilamento 6/0 o 7/0.
In alcune circostanze, l’arteria epatica del ricevente può non essere idonea per un’anastomosi
diretta. Le condizioni che più spesso ne precludono l’utilizzo sono il calibro del vaso troppo
piccolo, per la presenza di una voluminosa arteria epatica destra accessoria ad origine dall’arteria
mesenterica superiore, o per una alterazione strutturale della parete del vaso causata da una
embolizzazione intra-arteriosa praticata prima del trapianto in presenza di un epatocarcinoma. In
questi casi si può ovviare eseguendo una anastomosi arteriosa con l’arteria splenica del ricevente,
che viene isolata e preparata per un tratto di circa 2 cm dal tripode celiaco e su cui viene
anastomizzata o direttamente o lateralmente l’arteria epatica del donatore (Fig. 3). Altra possibilità
è l’interposizione tra l’arteria epatica del donatore e l’aorta del ricevente di un segmento di arteria
iliaca detto “jump graft”, prelevato dal donatore; l’arteria iliaca viene anastomizzata terminolateralmente sull’aorta sottorenale del ricevente e termino-terminalmente al suo capo distale con
l’arteria epatica del graft.
L’intervento viene completato con un’anastomosi coledoco-coledocica termino-terminale con punti
staccati PDS 6/0. A protezione dell’anastomosi biliare viene posizionato in molti centri un tubo a T
di Kehr che viene fatto uscire dalla parete del coledoco circa 1 o 2 cm al di sotto dell’anastomosi; il
tubo di Kher verrà rimosso dopo circa 3 mesi dal trapianto (Fig. 4).
In caso di carente vascolarizzazione dei monconi coledocici, o in caso di trapianti eseguiti per
patologie come la colangite sclerosante o la cirrosi biliare secondaria, viene eseguita un’anastomosi
bilio-digestiva con ansa alla Roux.
Un’emostasi accurata, il posizionamento di drenaggi tubolari in sede sottodiaframmatica,
sottoepatica e nello scavo pelvico e l’esteriorizzazione del capo distale del tubo di Kehr completano
l’intervento (Fig. 5).
TRAPIANTO DI FEGATO DA DONATORE VIVENTE
Il primo trapianto di fegato da donatore vivente è stato eseguito da Raia in Brasile nel 1987, ma il
ricevente non superò l’immediato periodo post-operatorio, mentre il primo trapianto da vivente di
fegato coronato da successo è stato effettuato da Strong in Australia nel 1989. A più di 10 anni
dall’introduzione di questa metodica trapiantologica, il trapianto di fegato da donatore vivente è
diventata una procedura ben codificata e ben supportata dai risultati clinici.
Attualmente i risultati di questa esperienza in termini di sopravvivenza dell’organo e del paziente
trapiantato sono sovrapponibili ed in alcune casistiche, specie nel trapianto pediatrico, migliori di
quelli raggiunti con il trapianto di fegato da donatore cadavere (sopravvivenza ad un anno del
paziente trapiantato dall’82% all’88% nelle differenti esperienze).
I vantaggi rappresentati dall’utilizzazione di un donatore vivente includono la possibilità di
selezionare un donatore ideale nel quale la ripresa funzionale dell’organo trapiantato è immediata
ed ottimale, la possibilità di stabilire il “timing” esatto del trapianto permettendo una ottimale
preparazione del ricevente al trapianto, diminuire la mortalità in lista di attesa.
Tuttavia il prelievo di fegato da donatore vivente rappresenta una procedura particolarmente
impegnativa per il chirurgo e per la struttura sanitaria ed il rischio di morbilità, ma soprattutto di
mortalità nel donatore rappresenta una realtà. La capacità rigenerativa propria del fegato è il
presupposto fisiologico su cui si fonda ogni intervento di resezione epatica da donatore vivente.
L’obiettivo principale della valutazione del donatore vivente è quello di determinarne l’idoneità
clinica e psicologica alla donazione. La prima fase tecnica è quella di determinare la quantità di
parenchima necessaria per supportare le necessità metaboliche del paziente. L’indice ritenuto più
affidabile per valutare il volume ideale del graft da prelevare è il rapporto tra il peso del graft e il
peso corporeo del ricevente GRBW (graft/recipient’s body weight ratio), che deve essere uguale o
superiore a 0,8.
Nella nostra esperienza la valutazione radiologica dell’anatomia vascolare e biliare del fegato e
della volumetria epatica è stata effettuata mediante angio TC multistrato con ricostruzione su
software dedicato (MEVIS). Un progetto di ricerca per lo sviluppo di software di ricostruzione
tridimensionale epatica ha visto interessati il Dipartimento di Chirurgia di Kyoto University
Hospital ed il centro per le ricerche MeVis, in Germania. Tale software fu sviluppato sin dal 1994
dal Mevis in collaborazione con vari ospedali universitari tedeschi. Attualmente presso il nostro
Centro Trapianto, in collaborazione con l’Istituto di Radiologia, si utilizza questo sistema di
ricostruzione vascolare. La completa valutazione “computer-assisted” consta di due parti. La prima
corrisponde all’analisi dei dati dell’immagine fornita, ed essa a sua volta è costituita da varie fasi,
cioè la segmentazione del fegato, la segmentazione e l’analisi strutturale della vena porta e delle
vene epatiche, il calcolo dei territori di drenaggio e di supplenza e la volumetria del fegato e dei
territori designati. La seconda parte invece si basa sulla pianificazione dell’intervento e sull’analisi
del rischio, che ha come fasi la definizione delle linee di sezione sia proposte automaticamente che
modificate manualmente, l’analisi del rischio con il calcolo del parenchima epatico, la volumetria
dei territori a rischio, la visualizzazione 3D correlata con le slices in 2D della TC ed infine la
presentazione delle opzioni intraoperatorie, come la superficie di transezione. Grazie alla possibilità
di esplorare le varie strategie di resezione e di calcolare l’analisi del rischio, può essere scelta la
strategia chirurgica migliore, e può essere preparata un’immagine appropriata per l’uso durante
l’intervento. Sulla base di questi studi, negli 8 casi della nostra esperienza, il paziente trapiantato
con fegato prelevato da donatore vivente ha sempre ricevuto una massa epatica adeguata alle sue
esigenze, con un GRBW tra 0,8 ed 1. In genere un limite di 0,8 è considerato il valore minimo per
una buona possibilità di successo dell’intervento di trapianto. Il donatore vivente deve sempre
conservare una quota di parenchima epatico residuo superiore al 30% del suo volume epatico
standard, limite di sicurezza al di sopra del quale ci si dovrebbe sempre mantenere.
Da ciò ne deriva che nella maggior parte delle procedure di trapianto di fegato da donatore vivente
tra adulti, il graft che viene prelevato è rappresentato dall’emifegato destro, costituito dai segmenti
V, VI, VII, VIII.
Prelievo dell’Emifegato destro: V-VIII segmento
Il prelievo inizia con una incisione sottocostale bilaterale, poco estesa a sinistra ed estensione sulla
linea mediana fino all’apofisi xifoidea. Aperto il peritoneo si seziona tra legature il legamento
rotondo, si seziona il legamento falciforme con il bisturi elettrico progredendo superiormente fino
alla parete anteriore della vena cava sovraepatica. Si posiziona il retrattore addominale.
Si procede evidenziando a sinistra il tronco comune della vena sovraepatica mediana e sinistra e a
destra il rilievo dello sbocco della vena sopraepatica destra nella cava. Si mobilizza il lobo destro
sezionando il legamento triangolare e coronario di destra. Per prevenire nel periodo post-operatorio
la rotazione dell’emifegato sinistro, con conseguenti problemi di deflusso venoso, è consigliabile
non mobilizzare il lobo sinistro.
Si procede con la colangiografia intraoperatoria e colecistectomia. Si isola e cannula il dotto cistico
con esecuzione dell’esame radiologico per un’attenta valutazione dell’anatomia biliare.
Si prosegue con lo studio ecografico intraoperatorio, soprattutto per definire il decorso e i rapporti
della vena sopraepatica mediana e destra, il loro sbocco nella cava, la presenza e l’importanza in
termini dimensionali di vene sopraepatiche accessorie che drenano il lobo destro, il piano di
transezione parenchimale ed in particolare per identificare le vene di drenaggio dei segmenti V e
VIII nella vena sopraepatica mediana.
Si completa la mobilizzazione del lobo destro dal piano cavale retroepatico, sezionando tra legature
le vene sovraepatiche accessorie provenienti dal lobo destro e dalla porzione destra del lobo caudato
presenti sulla parete destra ed anteriore della vena cava. Le vene accessorie presenti lungo il
margine sinistro e drenanti la porzione sinistra del lobo caudato vanno lasciate integre.
La mobilizzazione sul piano cavale procede in senso craniale sino ad incontrare sul versante destro
il legamento epato-cavale, che viene isolato, sezionato tra Kelly e completando con sopraggitto le
superfici sezionate. A questo punto si rende accessibile la vena sovraepatica destra che può essere
isolata e circondata con fettuccia (Fig. 6).
Si procede di seguito all’isolamento delle strutture ilari (Fig. 7). Una volta aperto il foglietto
peritoneale alla porta hepatis si procede per via smussa alla identificazione anatomica degli
elementi. Si identifica il ramo destro dell’arteria epatica che nella maggior parte dei casi decorre
dietro la via biliare principale. Il vaso viene isolato fino ad identificare la biforcazione arteriosa ed
in particolare la presenza di eventuali rami arteriosi diretti al IV segmento, che devono essere
salvaguardati. In circa il 30% dei casi il flusso arterioso del IV segmento deriva da rami originanti
dall’arteria epatica destra.
Si procede quindi con l’isolamento, con un approccio laterale, della vena porta, della sua
biforcazione e del ramo portale destro che viene liberato circonferenzialmente all’origine dopo aver
escluso l’eventuale presenza di rami diretti al IV segmento.
L’isolamento della via biliare deve procedere con molta cautela per non danneggiarne la
vascolarizzazione. Il punto di sezione del dotto epatico destro deve avvenire a 2-3 mm dalla
biforcazione, così da lasciare un moncone facilmente suturabile, senza causare un restringimento
della via biliare del donatore. Quando sono presenti più dotti confluenti in prossimità del carrefour
non si deve sezionare la via biliare cercando di ottenere un singolo orifizio comune a tutti i dotti
poiché ciò andrebbe a danno della via biliare del donatore, ma vanno sezionati separatamente anche
se ciò comporta una ricostruzione più impegnativa sul ricevente.
FASE PARENCHIMALE
Prima di iniziare questa fase si può clampare per breve tempo (1-2 min) il ramo arterioso e portale
di destra, evidenziando così sulla superficie epatica la linea di demarcazione ischemica tra
emifegato destro e sinistro.
La tecnica standardizzata per la transezione parenchimale prevede l’utilizzo del dissettore ad
ultrasuoni (CUSA) e del bisturi a radiofrequenza (Tissuelink) o della pinza bipolare con irrigazione
di fisiologica sull’estremità. Tutta la fase di transezione parenchimale procede con il graft
normalmente perfuso. La transezione inizia sul margine anteriore del fegato e procede cranialmente
e in direzione dell’ilo simultaneamente. Tutti i vasi e dotti biliari di calibro superiore ai 2 mm
vengono suturati su entrambi i lati e sezionati.
Le strutture vascolari venose, che in particolare drenano i segmenti V ed VIII, e che si aggettano
nella vena sovraepatica mediana, devono essere repertate per una successiva ricostruzione con graft
venoso sul ricevente quando hanno un calibro superiore ai 5 mm.
La fase della transezione epatica richiede circa 2 ore di lavoro molto meticoloso, riuscendo così ad
ottenere delle trance di sezione esangui, con perdite ematiche inferiori ai 500 mL e con una ottima
biliostasi. Il graft destro rimane ancorato solo ai peduncoli vascolari (Fig. 8). Prima di clampare i
vasi e rimuovere il graft, al donatore viene somministrata eparina a basse dosi (40 U/Kg). I vasi di
destra vengono sezionati solo se vi è assoluta certezza di adeguata perfusione dell’emifegato
sinistro.
Il clampaggio avviene con questa sequenza.
1. Clampaggio del ramo destro dell’arteria epatica con pinze bull-dog delicate e sua
sezione. Deve rimanere un moncone sufficiente per la sutura senza compromettere
l’anatomia della biforcazione.
2. Clampaggio del ramo portale destro posizionando il clamp non troppo vicino alla
biforcazione con il rischio di alterare il flusso portale a sinistra. Sezione del ramo
portale destro.
3. Clampaggio e sezione di eventuali vene sopraepatiche accessorie mantenute per la
ricostruzione.
4. Clampaggio tangenziale sulla vena cava con una piccola Satinsky della vena
sovraepatica destra e sua sezione, lasciando almeno 2 mm di parete vascolare al di
sopra del clamp per la successiva sutura.
5. Il graft viene quindi rimosso dal campo operatorio e perfuso sul banco solo
attraverso la via portale con soluzione di perfusione a 4 °C.
E’ consigliabile non eseguire la perfusione attraverso il ramo arterioso destro per evitare anche il
minimo danno intimale. Terminata la perfusione il graft viene pesato per calcolare l’esatto GRBW.
Vengono quindi suturati i monconi vascolari sul donatore. Si inizia con la vena sopraepatica destra
con monofilamento 5/0 e con eventuali sovraepatiche accessorie. Sutura del ramo portale destro con
monofilamento 5/0 o 6/0. Legatura del moncone arterioso destro. Sutura del moncone biliare. Dopo
il definitivo controllo dell’emostasi la trancia epatica viene trattata con colla di fibrina. Si
posizionano due drenaggi tubulari, uno nel forame di Wislow, l’altro in loggia epatica destra. Il
legamento falciforme viene ricostruito ed il legamento rotondo viene ancorato alla parete
addominale per impedire la rotazione dell’emifegato sinistro residuo. L’intervento si conclude con
la chiusura a strati della parete addominale.
INTERVENTO SUL RICEVENTE
Uno dei vantaggi principali del trapianto da donatore vivente è quello di trapiantare un graft con
ischemia fredda limitata (inferiore a 1-2 ore) poiché gli interventi sono condotti in contemporanea.
La tecnica chirurgica prevede essenzialmente l’epatectomia con il mantenimento della vena cava
inferiore, e l’impianto del graft in modo ortotopico. Il by-pass veno-venoso è utilizzato molto
raramente. Nella preparazione delle strutture ilari l’arteria e la vena porta vanno mantenute molto
lunghe con le diramazioni intraepatiche di I ordine. I vasi dei graft infatti sono sempre molto corti e
spesso con disparità di calibro e nella fase ricostruttiva si deve disporre delle maggiori possibilità
tecniche. La via biliare viene identificata ed isolata anch’essa fino alla biforcazione avendo cura di
mantenerne intatta la vascolarizzazione assiale. I dotti epatici destro e sinistro vengono sezionati tra
legature nella porzione più distale. L’arteria epatica e la vena porta vengono sezionate ugualmente
nella porzione più distale dei rami destro e sinistro. L’epatectomia viene conclusa clampando il
tronco comune delle sovraepatiche mediana e sinistra e posizionando una Satinsky tangenzialmente
alla vena cava, attorno allo sbocco della vena sovraepatica destra. Il fegato viene asportato e si
sutura il tronco comune in monofilamento 5/0.
Il moncone della vena sovraepatica viene misurato e, se la dimensione è inferiore a quella della
sovraepatica destra del graft si esegue una plastica della cuffia sovraepatica del ricevente con una
incisione sulla vena cava. Questa plastica di allargamento facilita lo scarico venoso e migliora
l’ancoraggio del graft all’asse cavale.
Si estrae il graft dal contenitore sterile e lo si posiziona nella loggia epatica. Si confeziona
l’anastomosi tra l’ostio della vena sovraepatica del ricevente e la sovraepatica del graft con una
sutura continua in monofilamento 5/0.
Se sono presenti delle vene sovraepatiche accessorie inferiori di calibro superiore o uguale a 5 mm,
si procede alla loro anastomosi sulla parete cavale. E’ da considerare la ricostruzione dei rami
venosi dei segmenti V e VIII, quando il loro calibro è superiore o uguale a 5 mm e il GRWR sia
borderline. In questa ipotesi la congestione e la sofferenza parenchimale da ostacolato outflow
venoso può portare ad un insufficienza epatica simile a quella che si osserva nella sindrome dello
small for size graft. La loro anastomosi diretta sulla cava risulta pressoché impossibile per la
eccessiva distanza tra la trancia di sezione da cui affiorano tali vene e la parete cavale. Pertanto si
rende necessario l’uso di graft venosi interposti.
L’anastomosi portale si esegue secondo la tecnica tradizionale in modo termino-terminale con
monofilamento 5/0. La modalità ricostruttiva viene scelta in base al diametro, alla lunghezza della
vena porta del ricevente e alle eventuali anomalie presenti sul graft.
Completata l’anastomosi portale si è pronti alla riperfusione del graft, con il declampaggio prima
dell’anastomosi sovraepatico-cavale e quindi di quella portale. La riperfusione parenchimale per
breve tempo avviene quindi a ritroso, evitando l’improvviso afflusso portale che altrimenti
avverrebbe declampando prima la vena porta.
L’anastomosi arteriosa si esegue in modo termino-terminale tra il ramo destro dell’arteria epatica
del graft e l’arteria epatica propria del ricevente con punti staccati in monofilamento 7/0.
La ricostruzione biliare può avvenire secondo la tecnica tradizionale eseguendo un’anastomosi
termino-terminale “dotto a dotto”, previa verifica di una buona vascolarizzazione della via biliare
del ricevente e del dotto biliare destro del graft. Valida alternativa è rappresentata da una
anastomosi bilio-digestiva termino-laterale tra il dotto biliare del graft e un’ansa digiunale alla
Roux. In entrambi le metodiche, per ridurre le complicanze è sempre buona norma proteggere
l’anastomosi con il posizionamento di un piccolo drenaggio biliare interno-esterno (Fig. 9).
Si completa l’emostasi applicando sulla trancia di sezione colla di fibrina. Si posizionano dei
drenaggi tubolari e si procede alla chiusura per strati della ferita chirurgica.
SPLIT-LIVER
Per split-liver si intende la divisione del fegato in due parti funzionalmente autonome e trapiantabili
in due riceventi diversi. La procedura di divisione (splitting) può essere effettuata al banco dopo
aver prelevato il fegato dal cadavere (ex situ split-liver) oppure direttamente sul donatore a cuore
battente con fegato vascolarizzato (in situ split-liver),
Sul piano anatomo-chirurgico esistono due tipi di procedure di splitting finalizzate ad obbiettivi
diversi. La prima, finalizzata al trapianto pediatrico, prevede l’esecuzione di una segmentectomia
laterale sinistra in modo da ottenere un graft destro (segmenti I, IV, V, VI, VII, VIII) per un
ricevente adulto ed un graft sinistro (segmenti II, III) per un ricevente pediatrico. La seconda
procedura, finalizzata al trapianto di fegato per due riceventi adulti, prevede l’esecuzione di una
epatectomia destra, ottenendo così un graft destro (segmenti V, VI, VII, VIII) ed un graft sinistro
(segmenti I, II, III, IV).
Lo split adulto/pediatrico rappresenta ad oggi una tecnica ben standardizzata, con risultati
convincenti e che ha permesso una significativa diminuzione della lista di attesa pediatrica.
La metodica dello split adulto/adulto è invece ancora in una fase di sviluppo e di implementazione
clinica.
Tecnica Chirurgica
Si procede con la tecnica dello split in presenza di un donatore cadavere giovane, con emodinamica
stabile e con normalità degli esami di funzionalità epatica.
Si inizia il prelievo con un’incisione giugolo-pubica, sezione dello sterno ed apertura del pericardio,
apertura del peritoneo e della cavità addominale. Sezione del legamento rotondo e del legamento
falciforme. Si valutano le caratteristiche del fegato controllandone il colore, la consistenza, i
margini, le dimensioni dell’organo in toto e del segmento laterale sinistro. Si esplorano
accuratamente gli altri organi addominali, al fine di escludere motivi che controindichino il prelievo
degli organi e la procedura dello split in situ.
Si isola e reperta l’aorta sottorenale prima della sua biforcazione per la successiva cannulazione e
perfusione, ugualmente si prepara la vena cava inferiore per il deflusso venoso dopo il clampaggio.
Si isola e prepara l’aorta sottodiaframmatica per il successivo clampaggio. A questo punto la
preparazione degli accessi vascolari per la perfusione è completata ed in caso di instabilità
emodinamica del donatore, si può procedere a perfusione rapida e prelievo del fegato in toto.
Si continua con l’isolamento dell’arteria epatica propria sino alla biforcazione e si isola il ramo
arterioso di sinistra. Si controlla la presenza di eventuali anomalie arteriose, specialmente la
presenza di un arteria epatica sinistra proveniente dall’arteria gastrica sinistra che va isolata e
risparmiata. Si isola il dotto biliare di sinistra avendo molta cura di non danneggiarne la
vascolarizzazione, il dotto biliare può essere sezionato con lama fredda sia in questa fase che
successivamente.
Un passaggio chiave della tecnica dello split è l’isolamento del legamento rotondo in tutta la sua
lunghezza fino al recesso di Rex ed al ramo sinistro della vena porta. Tale isolamento avviene lungo
il margine destro del legamento stesso. Si liberano con accurata dissezione le branche di destra del
recesso di Rex, che vengono suturate con punti trafissi in monofilamento 5/0 su entrambi i lati. Si
procede in questo modo fino ad arrivare al ramo sinistro della vena porta, che viene isolato e
repertato.
Sulla faccia inferiore del fegato si libera dal basso verso l’alto il legamento venoso di Aranzio,
permettendo così di liberare ulteriormente il ramo sinistro della porta e permettendo inoltre, dopo la
sua sezione, di accedere alla vena sovraepatica sinistra che viene così isolata e repertata.
Viene iniziata la fase di transezione del parenchima epatico, incidendo inizialmente la glissoniana
con il bisturi elettrico, seguendo come linea di sezione il legamento falciforme sulla faccia anteriore
del fegato e il legamento di Aranzio sulla faccia inferiore.
La transezione del parenchima epatico può essere eseguita con:
• Pinze di Kelly
• Bisturi a ultrasuoni
• Harmonic scalpel
• Pinza bipolare
Si inizia dal margine anteriore del fegato procedendo con sutura con punti trasfissi di ogni piccolo
elemento vascolare o biliare arrivando sul piano della placca ilare con sezione del ramo biliare di
sinistra. A questo punto può essere utile spostare il loop della vena sovraepatica sinistra in avanti
lungo il decorso del dotto di Aranzio e si ha l’esatta direzione da seguire per completare la trancia
parenchimale. A completamento della transezione si ottengono due graft epatici separati a livello
parenchimale ma ancora uniti dagli elementi vascolari.
Si può quindi procedere con l’incannulamento dell’aorta, il clampaggio e l’inizio della perfusione in
situ di tutti gli organi addominali ed il prelievo in blocco di pancreas-duodeno-fegato.
La sezione degli elementi vascolari avverrà o sul cadavere “in situ” o in corso di chirurgia di banco,
con sezione della vena sovraepatica sinistra alla sua inserzione sulla vena cava, sezione del ramo
sinistro della vena porta subito dopo la biforcazione, l’arteria epatica sinistra nella maggior parte
delle esperienze viene lasciata in continuità con il tronco celiaco, sezionando il ramo destro
dell’arteria epatica all’origine. Sul banco i due graft ottenuti vengono nuovamente perfusi attraverso
il ramo portale e impacchettati sterilmente separatamente.
Complicanze precoci e tardive del trapianto di fegato
Il trapianto di fegato è gravato da numerosi tipi di complicanze, dovute sia alle difficoltà tecniche
legate all’atto chirurgico, sia alla terapia immunosoppressiva alla quale viene sottoposto il paziente,
sia all’insorgenza di rigetti acuti o cronici, sia infine al ricomparire della patologia di base (tumori,
virus) per i quali è stato effettuato il trapianto di fegato.
Possiamo distinguere due gruppi di complicanze, quelle epatiche e quelle non epatiche.
Le complicanze epatiche comprendono:
• Rigetto acuto (109) o cronico (110)
• Trombosi dell’arteria epatica (111,112) (Fig. 10) e della vena porta (113,114)
• Complicanza biliare anastomotica e non anastomotica (stenosi, fistole) (115)
• Recidiva di malattia iniziale (virale, CBP e CBS, alcool, cirrosi autoimmunitaria, sindrome
di Budd-Chiari, tumore primitivo epatico)
• Infezione virale de novo
• Necrosi massiva emorragica
• PNF (Primary-Non-Function) (116-118), patologia multifattoriale legata alla non ripresa
funzionale dell’organo trapiantato che provoca la morte o necessita di ritrapianto del
paziente entro 10 giorni dal trapianto
• PDF (Primary-Disfunction) (116-118), patologia multifattoriale simile alla PNF, ma che
porta al decesso del ricevente o che necessita di ritrapianto oltre 11 giorni dall’OLT.
Le complicanze non epatiche comprendono:
• Morte intraoperatoria (emorragie massive, squilibrio emodinamico, aritmie)
• Infezioni extraepatiche (101): batterica, virale, fungina, parassitaria (102-105)
• Complicanze gastrointestinali (108): emorragia gastrointestinale, pancreatite, perforazione
intestinale
• Complicanze cardiocircolatorie: infarto del miocardio, aritmie
•
•
•
•
•
•
•
Complicanze cerebrovascolari (99,100): emorragia intracranica, strocke ischemico, edema
cerebrale, encefalite
Tumori: tumore de novo epatico o extraepatico, tumore trasmesso dal donatore, malattia
linfoproliferativa
Complicanze urinarie (106,107): insufficienza renale (acuta e cronica), infezione del tratto
urinario
Complicanze respiratorie (95): embolia polmonare (96), ARDS (Acute Respiratory Distress
Syndrome) (97), polmonite (98)
Complicanze sociali: non compliance nei confronti della terapia immunosoppressiva,
difficoltà di adattamento psicosociale, suicidio
Depressione del midollo osseo
MOF (Multi Organ Failure)
Terapia immunosoppressiva
La terapia immunosoppressiva ha rappresentato per anni il limite principale per l’evoluzione e per
l’applicazione routinaria del trapianto di fegato. Le prime terapie anti-rigetto per trapianto di fegato,
erano basate sull’utilizzo di azatioprina, corticosteroidi e globuline antitimociti. Tuttavia i risultati
furono deludenti, con un elevato tasso di rigetti. L’introduzione della ciclosporina nel 1980 (4)
determinò una netta riduzione di questi ultimi dal 15%, evidenziato in varie serie, al 2-5% (119).
La ciclosporina ed il tacrolimus (FK 506), introdotto nella pratica clinica negli anni ’90 (120-122),
sono inibitori della calcineurina, una serin-treonin-fosfatasi coinvolta nell’attivazione di vari fattori
di trascrizione. Nei linfociti T attivati l’inibizione della calcineurina provoca l’arresto della
trascrizione di varie citochine, tra le quali la IL-2, il cui compito è fondamentale nell’attivazione dei
processi di risposta immunitaria. Il tacrolimus è 10-100 volte più potente della cilosporina A
nell’inibire la risposta immunitaria. Le dosi da somministrare dei farmaci vengono stabilite in
funzione delle loro concentrazioni ematiche, che vanno valutate ad intervalli di tempo regolari.
Entrambi i farmaci sono metabolizzati a livello epatico dal sistema del citocromo P450 IIIA; è
possibile quindi che si generino interazioni con altri farmaci che ne aumentano (eritromicina,
fluconazolo, verapamil, cimetidina) o ne riducono (fenobarbital, fenitoina, carbamazepina) le
concentrazioni ematiche. Gli effetti collaterali di questi farmaci sono molteplici: la nefrotossicità è
dovuta sia ad un danno dose-dipendente del tubulo renale che ad una azione vasospasmizzante a
carico dell’arteria renale. Altri effetti collaterali sono l’ipertensione arteriosa, l’intolleranza
glucidica, i danni neurologici (tremore) e, per la ciclosporina, l’iperplasia gengivale e l’irsutismo
(123).
La rapamicina (124,125) è strutturalmente simile al tacrolimus e presenta i medesimi bersagli,
agendo però in una fase più tardiva dell’attivazione linfocitaria rispetto all’FK 506. Può determinare
mielosoppressione, quindi la sua azione va monitorata nel tempo valutando la conta dei globuli
bianchi. Inoltre la rapamicina interferisce con il metabolismo lipidico, determinando comunemente
la comparsa di un quadro dislipidemico (126-128).
Il Micofenolato mofetile (MMF) (129) agisce inibendo la proliferazione dei linfociti T attivati,
tramite l’inibizione del metabolismo purinico. Il principale effetto collaterale di questo farmaco è
gastrointestinale (diarrea) (130).
L’azatioprina è un derivato della mercaptopurina e funziona come un analogo strutturale ed un
antimetabolita. Poiché tale farmaco viene metabolizzato tramite l’azione dell’enzima
xantinaossidasi, bersaglio molecolare dell’allopurinolo, farmaco utilizzato per la gotta, la
combinazione di tali farmaci può provocare una grave tossicità da azatioprina, con l’insorgenza di
una severa mielosoppressione.
Le immunoglobuline rivolte contro i linfociti (ALG), contro i timociti (ATG) e gli anticorpi
monoclonali anti-linfociti T (OKT3, basiliximab zenapax) sono utilizzati in vari centri sia
nell’induzione dell’immunosoppressione che nel trattamento dei rigetti acuti post-trapianto
resistenti all’uso di boli di cortisonici (131,132).
I corticosteroidi rappresentano la prima classe di agenti ormonali di cui è stata descritta l’azione
linfocitolitica (133). Il meccanismo d’azione di questi farmaci va ad interagire con i sistemi
immunologici a vari livelli: essi determinano una riduzione del numero e delle dimensioni delle
cellule linfoidi, inibiscono la produzione di mediatori dell’infiammazione come il PAF, i leucotrieni
e le prostaglandine, inibiscono la chemiotassi di monociti e neutrofili, causano linfopenia e
neutropenia, non per azione citotossica diretta, quanto per alterazione della diffusione di queste
popolazioni cellulari. Vengono comunemente utilizzati nella terapia immunosoppressiva combinata,
oltre che nel trattamento degli episodi di rigetto acuto, dove vengono somministrati in bolo
endovenoso.
I glucocorticoidi provocano numerosi effetti collaterali, soprattutto quando usati cronicamente;
intolleranza glucidica, ipertensione arteriosa, osteoporosi, riduzione delle masse muscolari, aumento
ponderale con obesità centrale, facies lunaris, strie rubrae, psicosi, cataratta, glaucoma, fino
all’insorgenza di una sindrome di Cushing iatrogenica (134,135).
Va ricordato infine che tutti i farmaci immunosoppressori presentano come effetti collaterali
estremamente gravi l’insorgenza di infezioni di qualunque natura (batteri, virus, funghi) ed un
rischio aumentato di andare incontro a neoplasie, sia di natura ematologia (linfomi) che non.
Presso il nostro Centro la terapia immunosoppressiva nel trapianto di fegato prevede l’utilizzo di un
calcineurinico (ciclosporina o FK 506) combinato con il MMF e gli steroidi, che vengono
progressivamente scalati fino alla sospensione del loro uso entro il primo anno dal trapianto. L’uso
di altri farmaci come il sirolimus e l’azatioprina è legato alla presenza di tossicità soprattutto rivolta
verso i calcineurinici e viene valutato da caso a caso.
Risultati
In base ai dati forniti dall’ELTR, si può affermare che il trapianto di fegato ha ormai raggiunto una
validità terapeutica ben evidente. Se i pazienti trapiantati prima del 1985 presentavano una
sopravvivenza ad 1 anno del 34% e a 5 anni del 21%, oggi tali valori sono superiori rispettivamente
all’85% ed al 70%.
Pochi studi esistono sulle sopravvivenze a lungo termine dopo trapianto di fegato (136); Busuttil et
al hanno recentemente presentato un’ampia serie di 3200 OLT effettuati presso la University of
California di Los Angeles tra il 1984 ed il 2001 (137): i dati da loro forniti hanno evidenziato come,
anche a lungo termine, il trapianto di fegato fornisca risultati ottimali, con tassi di sopravvivenza ad
1, 5, 10 e 15 anni rispettivamente pari all’81%, 72%, 68% e 64%.
Suddividendo la popolazione dei pazienti retrospettivamente studiati in due ere, la seconda (19922001), ha fornito risultati ancora più incoraggianti (83%, 75% e 71% ad 1, 5 e 10 anni,
rispettivamente), evidenziando come negli ultimi anni la tecnica del trapianto di fegato abbia subito
netti miglioramenti. Valutando i pazienti in base all’età ed alla patologia di base sono emerse alcune
differenze significative.
• I pazienti pediatrici hanno presentato migliori sopravvivenze rispetto alle altre categorie di
pazienti (86%, 82% e 79% di sopravvivenza ad 1, 5 e 10 anni nei pazienti con età tra 1 e 18
anni rispetto a 77%, 65% e 58% nei pazienti con età superiore ai 55 anni).
• La sopravvivenza nei pazienti non urgenti è stata nettamente superiore a quella dei pazienti
operati in urgenza.
• L’atresia biliare presenta le migliori sopravvivenze tra le patologie pediatriche (82%, 79% e
78% ad 1, 5 e 10 anni).
• Negli adulti la cirrosi biliare primitiva, la colangite sclerosante e la cirrosi post-alcoolca
presentano i migliori risultati (82%, 77% e 68%; 85%, 76% e 70%; 84%, 77% e 70% ad 1, 5
e 10 anni, rispettivamente).
•
•
•
Le sopravvivenze per la cirrosi HBV-relata sono state inferiori rispetto a quelle per le
patologie colestatiche, ma superiori rispetto a quelle per cirrosi HCV-relata, che sono state
pari a 81%, 68% e 62% ad 1, 5 e 10 anni.
Come si può intuire il trapianto di fegato per patologia neoplastica presenta i peggiori outcomes (68%, 43% e 36% ad 1, 5 e 8 anni, rispettivamente).
Per quanto riguarda l’HCC, l’introduzione dei CM (Criteri di Milano) (68) in vari Centri
Trapiantologici ha fornito risultati sovrapponibili a quelli per patologia non tumorale
(sopravvivenza ad 1 e 5 anni rispettivamente dell’85% e del 70% circa), con tassi di recidiva
inferiori al 15%. Tuttavia alcuni Centri hanno provato ad allargare questi criteri: Gondolesi
et al (69) hanno descritto una serie di 36 LDLT, dei quali il 33% è stato effettuato su
pazienti con HCC che superavano i CM, con dei risultati ottimali sia per quanto riguarda la
sopravvivenza libera da malattia (82% ad 1 anno e 74% a 2 anni), sia per quanto concerne la
sopravvivenza globale (75% ad 1 anno e 60% a 2 anni). L’utilizzo dei criteri dell’UCSF ha
determinato una sopravvivenza a 5 anni del 50% (71).
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Didascalie
Fig. 1. Malattia policistica del fegato. Foto intraoperatoria prima dell’epatectomia. Esperienza
personale.
Fig. 2. Anastomosi cavale superiore, sutura in continua della parete posteriore. Esperienza
personale.
Fig. 3. Anastomosi arteriosa, patch aortico del donatore anastomizzato con l’arteria splenica.
Esperienza personale.
Fig. 4. Anastomosi portale, arteriosa e biliare completate. Esperienza personale.
Fig. 5. Fegato trapiantato dopo la riperfusione, particolare della biopsia post-riperfusione e
splenomegalia. Esperienza personale.
Fig. 6. Trapianto di fegato da donatore vivente. Preparazione della vena cava retroepatica.
Esperienza personale.
Fig. 7. Trapianto di fegato da donatore vivente, epatectomia destra. Isolamento delle strutture ilari.
Esperienza personale.
Fig. 8. Trapianto di fegato da donatore vivente, epatectomia destra. Sezione del parenchima
completata. Esperienza personale.
Fig. 9. Trapianto di fegato da donatore vivente al termine della procedura. Esperienza personale.
Fig. 10. Dissecazione dell’arteria epatica. Anastomosi arteriosa eseguita sull’aorta sopraceliaca.
Esperienza personale.
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