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Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo

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Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo
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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA PENALE
AGGIORNATO AL 31 DICEMBRE 2011
a cura di Cristina Cilla
Corte di Cassazione, sezioni unite, sent. 15 novembre - 22 dicembre 2011, n. 28340: l’ordine
professionale non può negare l’iscrizione all’albo degli avvocati comunitari stabiliti al legale
italiano che si abilita in Spagna e poi torna a lavorare in Italia.
Condizione essenziale per l’assunzione del titolo di avvocato, nonché per l’esercizio della relativa
professione è l’iscrizione all’albo professionale, disciplinata dagli artt. 17 e ss. del Reggio DecretoLegge 27.11.1933, n. 1578, c.d. Legge Professionale Forense.
Presupposti essenziali per l’iscrizione sono la laurea in giurisprudenza, lo svolgimento della pratica
professionale e il superamento di un esame statale teorico-pratico di abilitazione.
La ragione per cui la legge professionale subordina l’esercizio dell’attività professionale
all’iscrizione all’albo (istituito presso ogni tribunale) risiede nell’esigenza di tutela della collettività
insita nell’attività forense, così come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass.,
SS.UU., 19.07.1974, n. 2177). Di contro, la mancata iscrizione all’albo non dà diritto al pagamento
della prestazione professionale, donde nessuna azione può essere esercitata dal non iscritto per il
recupero delle somme relative alle prestazioni effettuate.
Il provvedimento di iscrizione, deliberato dal Consiglio dell’Ordine, viene depositato e pubblicato
nella relativa segreteria: da tale momento si ha la formale iscrizione, che è atto amministrativo di
accertamento, costitutivo dello status di professionista, da cui decorrono tutti gli effetti collegati
all’attività professionale, sia in ordine ai diritti dell’avvocato, sia in ordine all’opera dallo stesso
prestata.
Contro il rifiuto di iscrizione all’albo da parte del Consiglio dell’Ordine è ammesso ricorso al
Consiglio Nazionale Forense. Avverso le decisioni di quest’ultimo è possibile proporre ricorso alle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 56 della legge professionale forense.
La pronuncia in commento si segnala per il fatto di essersi occupata di un caso abbastanza
ricorrente nella prassi odierna, in cui i neolaureati italiani, per evitare di sostenere il complesso
esame di Stato previsto in Italia per il conseguimento dell’abilitazione forense, si recano in Spagna
per conseguire il predetto titolo professionale.
La Spagna, difatti, è l’unico paese dell’Unione Europea in cui l’accesso alla professione di avvocato
non è subordinata né allo svolgimento di un periodo di pratica, né al superamento di un esame di
abilitazione. Di conseguenza il neolaureato che intende esercitare la professione di avvocato dovrà
soltanto iscriversi ad un collegio degli avvocati spagnolo previo pagamento della relativa tassa di
iscrizione.
Nei sei mesi successivi all’iscrizione saranno comunicati al neolaureato gli esami integrativi da
sostenere ai fini dell'omologazione della laurea. Superati tali esami si diventa 'abogado' e ci si può
iscrivere ad un albo spagnolo; con il certificato d'iscrizione all'albo spagnolo ci si può iscrivere in
Italia ad un albo speciale, dimostrando soltanto di essere iscritto come avvocato esercente nel foro
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spagnolo e di aver esercitato effettivamente la professione per un periodo non inferiore a tre mesi.
Da tale momento si può esercitare la professione in Italia col titolo di abogado, appoggiandosi però
per tre anni ad un avvocato regolarmente iscritto all'albo italiano. Trascorsi tre anni, infine, è
possibile richiedere l'iscrizione all'albo ordinario degli avvocati.
Dal 31 ottobre del 2011, però, la normativa di accesso alla professione di avvocato in Spagna è
cambiata, avendo la ley spagnola n. 34/2006 ed il successivo real decreto n. 775/2011 subordinato
il conseguimento del titolo di abogado alla frequenza di un Master en Abogacia y Practica Juridica
ed al superamento di una prova attitudinale consistente in un test a crocette e nella soluzione di un
caso pratico tra quelli studiati durante il master.
Ad ogni modo, tale sopravvenuta modifica normativa non rileva ai fini che qui interessano,
essendosi la Suprema Corte pronunciata, nella vigenza della normativa pregressa, su un’istanza di
rifiuto di iscrizione alla Sezione speciale dell’Albo professionale riservata agli Avvocati comunitari
stabiliti.
Più in dettaglio, la vicenda da cui muove la sentenza in parola riguarda il caso di un avvocato
italiano che presentò al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo domanda di iscrizione
nella sopramenzionata Sezione speciale, ai sensi della direttiva 98/5/Ce (denominata “Avvocati
senza frontiere”) e del d.lgs. 96/2001. A sostegno della domanda documentò di essere iscritto da
diversi anni nel Registro generale del Collegio degli Abogados di Barcellona, indicò il proprio
domicilio professionale in Italia in Palermo presso lo studio di un collega ed attestò l’intenzione di
svolgere in Italia l’attività professionale d’intesa con l’avvocato predetto, nonché il relativo assenso.
Sia il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati cui il legale aveva presentato istanza, sia il Consiglio
Nazionale Forense rigettarono l’istanza, sulla base però di diversi presupposti.
Il primo, sul presupposto che la direttiva 98/5/Ce si applicasse ai soli cittadini comunitari di
nazionalità diversa da quella dello Stato membro al quale si chiede l’abilitazione all’esercizio della
professione.
Il secondo, sul rilievo per cui l’istante non avesse dimostrato il conseguimento, in Spagna, di un
particolare titolo abilitante, né di una specifica esperienza professionale.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione non condividono nessuna delle due predette
impostazioni ed, invece, accolgono l’istanza del ricorrente sulla base del seguente impianto
argomentativo.
La normativa comunitaria regolamenta, tra i vari profili, anche il reciproco riconoscimento fra i
Paesi membri dei relativi diplomi, certificati e titoli professionali, al fine di garantire il diritto alla
libera circolazione dei servizi nell’ambito dell’Unione Europea ed alla libertà di stabilimento
e, in particolare, con riguardo al caso di specie, il diritto di ogni cittadino europeo di esercitare la
propria attività in qualsiasi Stato dell’Unione.
Donde, il soggetto munito di titolo professionale di un Paese membro dell’Unione Europea,
equivalente a quello di avvocato, che voglia esercitare stabilmente la professione forense in Italia,
può scegliere, secondo la ricostruzione della Suprema Corte, tra due percorsi alternativi.
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Seguendo una prima opzione, avvalendosi della normativa in tema di riconoscimento delle
qualifiche professionali, oggi disciplinata dalla direttiva 05/36/CE, attuata dal d.lgs. 2007/206 (che
ha abrogato la previgente direttiva 89/48/CE, attuata dal d.lgs. 115/1992), può chiedere al Ministero
della Giustizia italiano l’immediato riconoscimento del titolo di avvocato con iscrizione al relativo
Albo. Il Ministero della Giustizia, previo parere di apposita conferenza di servizi, stabilisce, con
decreto, quali prove debba sostenere al fine di compensare le diversità degli studi e della
formazione rispetto alla legge italiana (c.d.“prova attitudinale”).
Optando per una seconda strada, invece, può avvalersi del procedimento di
“stabilimento/integrazione” previsto dalla direttiva 98/5/CE, attuata dal d.lgs. 96/2001 ed
esplicitamente non abrogata dalla direttiva 05/36/CE. In virtù di tale normativa, il soggetto munito
di equivalente titolo professionale di altro Paese membro può chiedere l’iscrizione prodromica
nella Sezione speciale dell’Albo italiano del foro nel quale intende eleggere domicilio professionale
in Italia, utilizzando il proprio titolo d’origine (ad es., quello, spagnolo, di “abogado”). In questo
modo diventa “avvocato stabilito”. L’avvocato stabilito che per almeno tre anni abbia esercitato in
Italia in modo effettivo e regolare la professione (d’intesa con un legale iscritto nell’Albo italiano),
può chiedere di essere “integrato” con il titolo di avvocato italiano, nonché di essere iscritto
all’Albo ordinario, dimostrando al Consiglio dell’Ordine l’effettività dell’attività svolta in Italia
come professionista comunitario stabilito. L’avvocato integrato acquista il diritto di utilizzare il
titolo di avvocato italiano.
I vantaggi di tale secondo procedimento, rispetto al primo, sono l’esonero dalla “prova attitudinale”,
nonché la subordinazione dell’iscrizione alla sola documentazione dell’iscrizione presso la
corrispondente Autorità di altro Stato membro.
In ogni caso, l’avvocato, stabilito o integrato, è tenuto all’osservanza delle norme legislative,
professionali e deontologiche che disciplinano la professione di avvocato.
Alla luce della disciplina testé illustrata, le Sezioni Unite reputano illegittimo il rifiuto opposto dal
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo alla domanda di iscrizione nella Sezione speciale
del locale Albo riservata agli Avvocati comunitari stabiliti, avendo il legale compiutamente
dimostrato l’iscrizione nel Registro Generale del Collegio degli Abogados di Barcellona. Pertanto, è
da accogliersi l’istanza del legale di iscrizione alla predetta Sezione speciale dell’Albo degli
Avvocati.
Peraltro, l’illegittimità del suddetto rifiuto opposto trova conferma in alcune recenti pronunzie della
Corte di Giustizia (sentenza del 29.1.2009, causa C-311/ 06″ Cavallera; sentenza del 22. 12. 2010,
causa C-118/09 Koller), ancorché aventi ad oggetto il diverso meccanismo di immediato
riconoscimento del titolo professionale acquisito in altro Stato comunitario e, quindi, l’iscrizione,
per diretta traslatio, all’Albo Ordinario degli Avvocati ovvero l’ammissione alla prova
compensative ad essa finalizzata.
Dai citati arresti si coglie, quindi, l’illegittimità di ogni ostacolo frapposto, al di fuori delle
previsioni della normativa comunitaria, al riconoscimento, nello Stato di appartenenza, del titolo
professionale ottenuto dal soggetto interessato in altro Stato membro in base all’omologazione della
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laurea in giurisprudenza conseguita in detto Stato. Ciò anche laddove nello Stato di appartenenza
l’accesso all’esercizio della professione sia subordinato, a differenza che nell’altro Stato membro
omologante, ad una prova abilitativa e ad un tirocinio teorico-pratico.
La ratio di tale decisione viene ravvisata della Suprema Corte nel fatto che l’interesse pubblico al
corretto svolgimento dell’attività professionale è idoneamente tutelabile, nel caso di riconoscimento
immediato della qualifica professionale, attraverso la “prova attitudinale”, nel procedimento di
“stabilimento/integrazione”, attraverso il triennio di esercizio della professione con il titolo di
origine (d’intesa con professionista abilitato) e la verifica dell’attività correlativamente espletata.
Corte di Cassazione, sez. V pen., 19 settembre - 15 dicembre - 2011, n. 2074: dire alla moglie, in
sede di separazione, “ti ammazzo”, se suscita timore, integra il reato di minaccia.
Il delitto di minaccia, di cui all’art. 612 c.p., prevede, come condotta incriminata, “la minaccia ad
altri di un danno ingiusto”.
Alla stessa stregua del reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p, esso ha natura sussidiaria e
generica rispetto ad altre previsioni di reato, nelle quali costituisce elemento costitutivo o
circostanza aggravante (es. violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario,
rapina, estorsione, ecc.)
Come si evince agevolmente dalla collocazione sistematica della norma de qua, il bene giuridico
tutelato è la tranquillità individuale in sé, quale situazione prodromica alla tutela della libertà
morale: si vuole evitare, quindi, che la prospettazione di un male futuro (minaccia c.d. fine) finisca,
prima, per alterare a livello psico-emotivo la naturale condizione di vita del soggetto passivo, poi,
per pregiudicare la specifica libertà di autodeterminazione (così, in dottrina, Fiandaca e Musco).
Quanto alla nozione di minaccia essa, per risalente e consolidato orientamento ermeneutico,
consiste in un mezzo di coartazione della volontà del soggetto passivo, mediante la prospettazione
di un male ingiusto e futuro, quale alternativa per la mancata sottomissione alla volontà del
soggetto minacciante.
Inoltre, la minaccia:
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deve essere idonea a produrre l’effetto di coartazione sulla psiche del soggetto passivo,
ancorché l’effetto preso di mira, poi, non si realizzi. Donde, la natura di reato di pericolo
della fattispecie in parola.
Certamente è esclusa l’idoneità della condotta laddove essa non possa oggettivamente
arrecare il male minacciato. Qualche autore (Fiandaca, Musco) esclude altresì che la
minaccia presupponga la presenza del soggetto passivo, bastando la conoscenza della stessa
da parte della vittima;
deve avere ad oggetto un danno ingiusto, inteso come lesione o messa in pericolo di un
interesse giuridicamente protetto attraverso un comportamento considerato obiettivamente
illecito dall’ordinamento (contra ius). Anche l’uso di uno strumento giuridico lecito può
diventare illecito allorquando venga utilizzato per raggiungere un risultato diverso da quello
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tipico (ad es., la minaccia di una lite o la presentazione di un’istanza di fallimento per
finalità non inerenti alla controversia civile), così come anche la presentazione di una
denuncia per un reato effettivamente commesso allo scopo di realizzare vantaggi non dovuti
integra l’ingiustizia del danno richiesta dalla fattispecie;
può prendere di mira anche una persona diversa dal soggetto passivo, purché ad esso legata
da vincoli (es. familiari) che la rendano idonea ad incidere sulla sua sfera psichica.
può assumere diverse forme (esplicita o implicita, diretta o indiretta, reale o simbolica,
determinata o generica, realizzata mediante parole, gesti, atteggiamenti fisici), trattandosi di
un reato con condotta a forma libera.
deve essere accertata sulla base di un metro di valutazione di carattere medio, ex ante ed in
concreto, tenendo conto di tutte le circostanze oggettive (tempo, luogo, forma, qualità del
soggetto minacciante, capacità a delinquere dello stesso, ecc.) e soggettive (condizioni
psicologiche e fisiche del soggetto passivo, sua capacità di resistenza, conoscenza delle
stesse da parte del soggetto attivo, ecc.).
Inoltre, trattasi di un reato c.d. comune, in quanto può essere commesso da chiunque; la
consumazione si ha nel momento e nel luogo della percezione della minaccia.
Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è richiesto il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di
minacciare un danno ingiusto con la consapevolezza della sua ingiustizia.
La sanzione prevista dall’ordinamento è la multa e la punibilità è subordinata alla querela della
persona offesa, salvo che venga riscontrata una delle due circostanze aggravanti previste dal
secondo comma dell’art. 612 c.p., la cui ricorrenza dà luogo alla punibilità d’ufficio.
La sentenza in commento investe la portata applicativa della nozione di minaccia e la struttura del
reato de quo come reato di pericolo.
Difatti, con la sentenza n. 2074/2011 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna, inflitta sia
in primo che in secondo grado, al marito di una donna, alla pena di euro 700 di multa, al
risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della stessa (costituitasi parte civile), in
quanto ritenuto responsabile dei reati, uniti dal vincolo della continuazione, di lesioni, ingiuria,
minaccia. Quest’ultimo reato è stato considerato integrato dall’aver egli detto alla moglie “ti
ammazzo”, nel corso di un litigio accaduto durante il periodo di separazione.
La Corte di Cassazione non ha condiviso le argomentazioni prospettate dalla difesa del ricorrente,
secondo cui la suddetta espressione non avrebbe ingenerato nella donna il timore del verificarsi del
male prospettato, in ragione della sua condotta immediatamente successiva (difatti, solo dopo dieci
giorni l’accaduto, la donna ha denunciato il fatto ai carabinieri e, nelle more, ha continuato a vivere
con l'imputato); inoltre, non sarebbe stata correttamente valutata l'attendibilità della persona offesa,
avendo il giudice riconosciuto credibilità alla donna, senza tener conto né della sua posizione di
parte civile (quindi, soggetto interessato ad un determinato esito del processo), né della pendenza tra
le parti di un procedimento di separazione.
In particolare, la Cassazione ritiene, conformemente alla sua giurisprudenza, che la sua rilevanza
penale ex art. 612 c.p. dell’espressione "ti ammazzo" sia determinata dalla configurazione della
minaccia come reato di pericolo. Difatti, motiva la Corte: “per la sua integrazione non è richiesto
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che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato possa incutere timore nel
destinatario, menomandone potenzialmente, secondo un criterio di medianità riecheggiante le
reazioni della donna e dell'uomo comune, la sfera di libertà morale. Pertanto, razionalmente
riconosciuta alla prospettazione di morte violenta un carica potenzialmente paralizzante della
libertà morale della donna, nessun rilievo può avere la concreta sussistenza di questa
limitazione”.
Con riguardo, poi, alla credibilità riconosciuta alla donna, la censura formulata dal ricorrente si
pone in ingiustificato contrasto con il consolidato e condivisibile orientamento interpretativo,
secondo cui questa fonte conoscitiva non presenta una affidabilità ridotta, bisognevole di ulteriori
riscontri. Difatti, conclude la Corte, “la testimonianza della persona offesa, al pari di tutte le
testimonianze, deve essere sottoposta al generale controllo sulle capacità percettive e
mnemoniche del dichiarante, nonché sulla corrispondenza al vero della sua rievocazione dei
fatti, desunta dalla linearità logica della sua esposizione e dall'assenza di risultanze processuali
incompatibili, caratterizzate da pari o prevalente spessore di credibilità. Le dichiarazioni della
persona offesa, costituita parte civile, sono ugualmente valutabili e utilizzabili ai fini della tesi di
accusa, poiché, a differenza di quanto previsto nel processo civile, circa l'incapacità a deporre del
teste che abbia la veste di parte, il processo penale risponde all'interesse pubblicistico di accertare
la responsabilità dell'imputato, e non può essere condizionato dall'interesse individuale rispetto
ai profili privatistici, connessi al risarcimento del danno provocato dal reato, nonché da
inconcepibili limiti al libero convincimento del giudice”.
Corte di Cassazione, sez. II pen., 29 settembre - 15 dicembre - 2011, n. 46591: il reato di evasione
fiscale si perfeziona soltanto al momento della falsa dichiarazione di redditi; donde, è
penalmente irrilevante l’accertamento delle irregolarità fiscali durante il relativo periodo di
imposta.
Con la pronuncia in esame la Suprema Corte torna ad occuparsi dei reati fiscali, conformandosi
all’orientamento condiviso dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione è il sequestro preventivo disposto dal Tribunale di
Genova sui beni e sul denaro di Flavio Briatore, finalizzato alla confisca per equivalente di cui agli
artt. 640-bis e 322-ter c.p., per aver questi posto in essere, in violazione dell’art. 640, commi 1 e 2,
c.p., artifizi e raggiri al fine di truffare lo Stato; tanto con l’ingiusto profitto di evadere, in misura
corrispondente all’importo del sequestro (circa 1.500.000 euro), l’i.v.a. sul carburante impiegato per
un’imbarcazione da diporto, denominata “Force Blue”.
Avverso tale provvedimento la difesa propone ricorso per Cassazione, deducendo con il motivo
principale, successivamente accolto dalla Cassazione e ritenuto assorbente, l’erronea applicazione
della legge penale in relazione all’impiego dell’art. 640 c.p. in materia di evasione dell’i.v.a.
La Cassazione condivide le argomentazioni della difesa, allineandosi al recente orientamento
espresso in subiecta materia dalle Sezioni Unite con la sentenza del 28 ottobre 2010, n. 1235.
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Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno prima di tutto rilevato che il d.lgs. n. 74/2000,
riformando la materia dei reati tributari, ha abbandonato il modello del “reato prodromico”
caratterizzante il previgente sistema normativo di cui alla L. n. 516/1982, che anticipava la soglia di
punibilità alla fase preparatoria dell’evasione d’imposta, concentrando il disvalore penale sul
momento dell’effettiva offesa degli interessi dell’erario.
Optando per un modello diverso da quello della legislazione previgente, il legislatore del 2000 ha
invece incentrato la reazione punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che realizza il
presupposto oggettivo e definitivo dell’evasione, segnando al contempo il momento di
rilevanza penale della fattispecie di evasione. In via speculare, è stata negata autonoma
rilevanza alle violazioni realizzatesi “a monte” della suddetta dichiarazione, non ancora
produttive di danno effettivo e reale per l’erario.
In tal senso si erano altresì espresse in precedenza sia la Corte Costituzionale con la sentenza del 27
febbraio 2002, n. 49, sia le stesse Sezioni Unite, con la sentenza del 25 ottobre 2000, n. 27. Queste
ultime, in particolare, avevano precisato che: “in tema di reati fiscali, in seguito all'introduzione
della nuova ipotesi criminosa di dichiarazione fraudolenta ad opera dell'art. 2 D.L.vo 10 marzo
2000, n. 74 ed all'abolitio criminis disposta dal successivo art. 25, le condotte di utilizzazione di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, già punite dall'art. 4, lett. d), D.L. 10 luglio
1982, n. 429 convertito in L. 7 agosto 1982, n. 516 in quanto meramente prodromiche o strumentali
rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali
relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto non sono più, di per sè, penalmente rilevanti,
non potendo in alcun modo essere ricondotte nella previsione della più recente disposizione
incriminatrice che individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica
della fattispecie ed il momento in cui si verifica la lesione dell'interesse erariale all'integrale
riscossione delle imposte; tuttavia, qualora i dati delle fatture o degli altri documenti per
operazioni inesistenti siano stati recepiti dal contribuente nella dichiarazione annuale dei redditi,
della quale costituiscono il supporto fraudolento per la mendace indicazione di componenti
negativi in misura diversa da quella effettiva, tale condotta - già sanzionata dall'art. 4, lett. f), D.L.
10 luglio 1982, n. 429 convertito in L. 7 agosto 1982, n. 516 - rimane interamente compresa nella
nuova ipotesi criminosa e conserva, pertanto, rilievo penale, con l'ulteriore conseguenza che, in
applicazione della disciplina sulla successione di leggi penali nel tempo di cui al terzo comma
dell'art. 2 c.p., il trattamento sanzionatorio per i fatti anteriormente commessi deve essere
individuato in quello più favorevole al reo”.
A suffragare l’irrilevanza penale delle condotte antecedenti alla dichiarazione annuale dei redditi,
neppure quando inequivocabilmente dirette ad evadere le imposte, la Suprema Corte richiama l’art.
6 del d. lgs. n. 74/2000, che esclude la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di
dichiarazione di tipo commissivo (artt. 2, 3, 4 d.lgs. cit.). Sennonché, la non punibilità delle
irregolarità fiscali compiute nel corso periodo d’imposta (c.d. “preparatorie”), nemmeno a
titolo di delitto tentato ex art. 56 c.p., si spiega in ragione dell’intenzione del legislatore di
stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del
relativo periodo d’imposta.
Pertanto, la ratio legis e la scelta di politica criminale nella stessa insita non possono che condurre a
rilevare la sussistenza di un rapporto di specialità tra la fattispecie penale tributaria, di natura
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speciale, e quella comune di truffa aggravata ai danni dello Stato, di natura generale. Donde,
non può recuperarsi l’illiceità penale della condotta preparatoria utilizzando un’ipotesi delittuosa
comune contro il patrimonio, quale la truffa aggravata ai danni dello Stato, nemmeno nella forma
del tentativo.
In favore dell’esclusione del concorso di reati fiscali e truffa aggravata ai danni dello Stato,
nonché dell’esclusività del sistema penale fiscale milita altresì la disciplina del condono fiscale,
quale risultante dall’art. 8, commi 6 lett. c) e 12, della legge n. 289/2002 (legge finanziaria 2003). A
tenore di tale normativa, il perfezionamento della procedura di condono fiscale comporta
l'esclusione ad ogni effetto della punibilità per i reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5 e 10 del d.
lgs. 2000, n. 74; la conoscenza dell'intervenuta integrazione dei redditi e degli imponibili attuata
mediante il condono fiscale non genera alcun obbligo o facoltà di denuncia ai sensi dell'articolo 331
c.p.p., né costituisce notizia di reato.
Peraltro, escludendo il concorso di reati nel caso di specie si giungerebbe a conseguenze
contraddittorie rispetto alle premesse di fondo testé enunciate.
In primo luogo, la non punibilità dei soli reati fiscali a fronte della residuale responsabilità per truffa
ai danni dello Stato cui sarebbe esposto il contribuente avrebbe l’effetto di disincentivare, anziché
auspicare, il perseguimento delle finalità della riforma legislativa in subiecta materia.
In secondo luogo, ammettendo una residuale responsabilità ex art. 640-bis c.p., sarebbe un nonsenso la previsione normativa secondo cui l’integrazione dei redditi non costituirebbe una notitia
criminis.
In terzo luogo, poiché l’art. 7 della Convenzione relativa agli interessi finanziari dell’Unione
Europea del 1995 sancisce il principio del “ne bis in idem” in ambito europeo, ne discende che la
tutela degli interessi finanziari comunitari deve essere attuata mediante un sistema sanzionatorio che
sia esaustivo degli interventi repressivi, sia in ambito nazionale, che nella dimensione comunitaria.
Sulla base delle superiori argomentazioni, pertanto, la Suprema Corte conclude, in conformità
all’indirizzo giurisprudenziale da ultimo affermatosi (in tal senso, cfr. anche Cass., sez. III,
14.11.2011, n. 41450), per la specialità delle previsioni penali tributarie in materia di frode
fiscale rispetto a quelle di truffa. Ciò in quanto esse disciplinano condotte tipiche e si riferiscono
ad un determinato settore di intervento della repressione penale, esaurendo la connessa pretesa
punitiva dello Stato e dell’Unione Europea.
Di conseguenza, qualsiasi condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all’interno del
quadro sanzionatorio delineato dalla normativa di cui al d.lgs. n. 74/2000. Le fattispecie in
concreto non sussumibili nell’ambito di tale normativa sono penalmente irrilevanti, non
potendosi applicare le norme del codice penale, nemmeno quelle relative al delitto tentato.
Donde, il sistema sanzionatorio in materia fiscale può dirsi chiuso ed autosufficiente, esaurendosi al
suo interno tutte le sanzioni penali e gli strumenti processuali necessari a reprimere le condotte
lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali.
Applicando tali principi al caso oggetto della pronuncia in esame, la Corte sostiene che
l’imputazione elevata a carico del Briatore sia strutturata secondo un criterio di tutela “anticipata”
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dell’interesse dell’erario, ravvisandosi la condotta delittuosa nell’aver creato un’apparenza idonea a
creare l’inganno circa la sussistenza dei presupposti (destinazione esclusivamente commerciale e
proprietà extracomunitaria del natante) per l’esenzione dal pagamento dell’i.v.a.; pertanto, tale
condotta, “certamente lesiva dell’interesse degli interessi fiscali dello Stato e delle Comunità
Europee, è però estranea alle fattispecie tipiche del sistema penale tributario”.
Di conseguenza, la Corte di Cassazione annulla senza rinvio il provvedimento impugnato,
disponendo la restituzione al ricorrente dello yacth “Force Blue” e delle somme di denaro
sequestrat.
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