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L`ITALIANO E I DIALETTI: ALCUNE INTERFERENZE LINGUISTICHE

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L`ITALIANO E I DIALETTI: ALCUNE INTERFERENZE LINGUISTICHE
L’ITALIANO E I DIALETTI: ALCUNE
INTERFERENZE LINGUISTICHE
Roxana DIACONESCU
Universitatea „Tibiscus”, Timişoara
Il rapporto tra i dialetti e la lingua italiana è molto complesso. Bisogna prima
di tutto ricordare che i dialetti italiani non sono, come in molti altri paesi, delle
varietà della lingua nazionale, bensì sono sistemi linguistici autonomi, apparsi
molto prima che si formasse la lingua nazionale. I dialetti si sono formati in modo
assai diverso, a seconda delle diverse occupazioni subite. Anche dopo essersi
formati, i dialetti hanno continuato a svilupparsi in direzioni diverse. Anche la
lingua parlata oggi su tutto il territorio, ossia l’italiano, era una volta un dialetto il
quale, grazie al prestigio letterario, è riuscito a imporsi sugli altri dialetti, fino a
diventare la lingua nazionale.
Una volta fatta l’Unità d’Italia si è posto il problema dell’unificazione
linguistica: solo il 2.5% italiani conosceva l’italiano e nel 1951, 65% degli italiani
usava il dialetto in ogni circostanza. Uno dei principali mezzi di diffusione
dell’italiano è stato senza dubbio la scuola, nell’ambito della quale però ci sono
stati atteggiamenti contradditori nei confronti dei dialetti. Da un lato i manzoniani
volevano sradicare „la malerba dialettale” e imporre un modello linguistico unitario
– il fiorentino – dall’altra parte linguisti come De Sanctis cercavano di salvare i
dialetti considerando che questi potessero solo arricchire il patrimonio linguistico
italiano (De Mauro 2008: 89). Anche se la scuola cercò di seguire il primo
atteggiamento, la realtà era diversa e più difficile da manipolare. Prima di tutto
perché nel 1861 più della metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo
dell’istruzione, percentuali che non sarebbero migliorate di molto nel corso dei
prossimi anni. In secondo luogo, gli insegnanti stessi non sapevano parlare un
italiano puro, privo di inflessioni dialettali e comunque, la lingua insegnata ai
bambini era abbastanza sterile perché non si poteva praticare oltre le classi. In
queste situazioni, l’italiano non solo non poteva farsi strada con facilità, ma doveva
anche subire influenze fonetiche e morfologiche da parte dei dialetti.
Anche oggi l’italiano standard è una lingua astratta, appartenente ai libri di
grammatica. Nel loro parlato, gli italiani sono influenzati dal dialetto della loro
regione, prendendo in prestito vari modi di dire e soprattutto le pronunce. Ma se
l’italiano è influenzato dai dialetti delle vari regioni, è abbastanza ovvio che anche
il contrario debba accadere: oggi, più che nel passato, sono i dialetti a subire varie
influenze. Oggi c’è un maggior numero di italofoni rispetto ai dialettofoni, e di
quest’ultimi alcuni parlano il dialetto, altri solamente lo capiscono. Capita spesso
che certe parole dialettali cadano in disuso, diventando arcaiche. Il fenomeno è
incontrato soprattutto nelle città, più aperte alle innovazioni: così succede con àmia
e barba, parole che in veneto significano „zia” e „zio”, ma che sono state sostituite
dai loro equivalenti italiani. In abruzzese la parola dialettale tâtë („padre”) è stata
sostituita con tatà e alla fine con papà.
In Veneto, una frase come Dammi una forchetta potrebbe diventare, in un
italiano dialettalizzato Dami una forcheta, cioè le consonanti doppie sarebbero
ridotte. La stessa frase, nel dialetto italianizzato, diventerebbe Dame na forcheta,
invece di Dame un pirón dove „piron” è la parola dialettale per „forchetta”, parola
ormai diventata arcaica.
Molti linguisti temono infatti che i dialetti stiano scomparendo:
„Ancora qualche decennio fa, il dialetto del mio paese non aveva i nomi per
indicare due stagioni, la primavera e l’autunno. La primavera era la stasòun bóna,
‘la stagione buona’, l’autunno era la rinfrischèda, ‘la rinfrescata’, o anche pr’e’
frèsch per il ‘fresco’. Oggi che si può dire, che si dice primavera o autónn, il
dialetto, paradossalmente, è un po’ più povero” (Bellosi - Ricci 2003: p. 13).
„…sono defunte innumerevoli locuzioni e tanta terminologia concreta. Oggi
la parola generica – fiore o albero o pianta o erba – ha sostituito centinaia di
denominazioni che cinquant’anni fa erano ben vive sulla bocca dei miei nonni
contadini. […] Il loro dialetto non solo era ricco, ma se ne sentivano padroni e
signori. Il parlante aveva come la sensazione di reinventarlo, di ricrearselo, ogni
volta” (Beccaria 2006: 80).
Tuttavia esistono italiani che usano sia il dialetto sia l’italiano, a seconda del
contesto linguistico in cui si trovano: l’italiano è usato in situazioni formali, mentre
con il dialetto si stabilisce una maggiore intimità. Eppure può capitare che il
parlante cambi registro durante la conversazione, cominciando in dialetto e finendo
in italiano, oppure può ricorrere a espressioni dialettali per creare certi effetti
stilistici, o semplicemente perché non è in grado di controllare il registro in cui ha
cominciato a parlare.
Molte della parole dialettali che sono entrate nell’uso comune della lingua
italiana sono parole concrete, legate ai luoghi di provenienza. Capita spesso che i
termini dialettali si opacizzino, perdendo il senso originario e assumendo un senso
nuovo:
– abbaino, ligure, significava „piccolo giovane abate” ma oggi significa
„lastra di ardesia per coprire i tetti”;
– bocciare di origine piemontese, significa oggi „respingere agli esami”,
significava inizialmente „urtare con violenza nel gioco delle bocce”;
– ciao, dal veneto, inizialmente significava „schiavo”, nato con la camicia,
dove la camicia rappresentava la membrana amniotica che a volte copre il corpo
del neonato e che nella concezione popolare porterebbe fortuna al bambino.
Altre parole dialettali non sono entrate nell’italiano comune, ma conoscono
una larga diffusione regionale:
– al Nord: trapunta (invece di „imbottita”);
– in Toscana: granata („scopa”), cencio („straccio”), acquaio („lavandino”),
punto („niente”), camiciola („maglia”);
– in Lazio: menare („battere”);
– nel Sud: imparare („insegnare”),
– a Napoli: salire („portare su”), scendere („portare giù”), entrare („portare
dentro”), tenere („essere”).
Nel campo della fonetica, l’italiano ha subito e subisce ancora le influenze
dei dialetti: si può capire da dove viene il parlante da come parla. Secondo Bruno
Migliorini (apud Beccaria 2008: 211), basta che un italiano pronunci la frase Luigi
parla bene per saper di dove è: se dice béne è settentrionale, se la g diventa sg, cioè
Luisgi allora è toscano, se raddoppia le consonanti è del Sud: Luiggi parla bbene;
– a Nord si hanno le vocali turbate: piöva („pioggia”), lüna, fök („fuoco”);
caduta delle doppie: tera, belo; vocali aperte: pésca sia per il frutto che per l’azione
di pescare, bótte sia con il senso di „colpi” che per il recipiente dove si mette il
vino;
– a Napoli si pronuncia il dittongo con accento sulla prima vocale (búono), si
palatalizza s davanti alle consonanti occlusive non dentali: k, g, p, b prima di f e v;
s diventa z dopo l, n, r: penzo, polzo, falzo, salza, non zo;
– a Roma incontriamo la pronuncia intensa di b e g palatali intervocaliche
(subbito, oribbile, raggione) o il raddoppiamento fonosintattico: a ccasa, ho ffame,
a Rroma;
– gorgia toscana: aspirazioni di p, t, k in posizione intervocalica: Bevo una
coca cola con la cannuccia diventa Bevo una ‘ola ‘ola ‘on la ‘annuccia;
– nell’area meridionale, nd, mb diventano nn, mm: monno („mondo”),
colomma („colomba”), nt diventa nd: monde („monte”), mp diventa mb: cambo
(„campo”), nc diventa ng: angora („ancora”).
Per quanto riguarda la sintassi, notiamo le seguenti differenze:
– Campania: la preposizione a prima del nome o del pronome: Ho visto a lui,
ringraziamo a Dio;
– Centro-Sud : assai invece di tanto, il telefono bussa (e non squilla);
– Sicilia: collocazione del verbo alla fine e uso del passato remoto invece del
passato prossimo: Solo adesso mangiasti?
– Piemonte: ho solo più due euro invece di non ho che due euro;
– Roma: ci davanti all’ausiliare avere: c’ho sete, so’ per sono, l’interiezione
ahò, il te come soggetto, mo invece di adesso, stare + infinito invece di stare +
gerundio: sto a mangià, l’uso di meglio e peggio come aggettivi: le peggio cose.
Specifiche sono anche espressioni come Non ce ne po’ fregà de meno! oppure
Ammazza oh!
Nel rapporto tra lingua e area geografica si possono avere situazioni di
geosinonimia, cioè parole diverse ma dello stesso significato, limitate però come
uso a una certa regione:
– in ambito scolastico per dire „saltare la scuola” possiamo incontrare
espressioni come: marinare la scuola (Piemonte), conigliare (Genova, Emilia)
giumpare (Liguria), bruciare (Veneto), fare manca (Venezia), fare salato
(Lombardia , Emilia), bigiare (Milano), fare forca (Toscana);
– l’animale che al Nord viene chiamato asino, al centro si chiamerà somaro,
in Toscana ciuco, Lazio: ciuccio e Sicilia: seccu;
– nel campo della frutta: anguria (settentrionale), cocomero (toscano e
centrale, Meridione), mellone (Sicilia), zucca pateca (Liguria).
Altre volte però si incontrano i geoomonimi, cioè parole simili come forma
ma con significati diversi a seconda della regione:
– tovaglia al Sud si usa con il senso di „asciugamano”, mentre
l’asciugamano a Genova viene chiamato macramè;
– al Nord, braciola è la fetta di carne con osso e bistecca, senza osso, mentre
al centro bistecca è proprio la carne con osso;
– il cappuccino è quasi dappertutto caffè con schiuma di latte, mentre a
Trieste il cappuccino si riferisce al caffè con qualche goccia di latte (chiamato nel
resto della penisola caffè macchiato), mentre per il normale cappuccino, sempre a
Trieste, si dice caffellatte.
I dialetti sono riusciti a influenzare anche il linguaggio dei giovani,
svolgendo una funzione non tanto di necessità, quanto una funzione ludica,
scherzosa, e per dare una maggiore espressività. Quasi un quarto delle parole
giovanili proviene dal dialetto. Così, in Veneto ci si saluta con Ciao beo! oppure
Àreo (letteralmente „eccolo!”) e in Friuli si possono incontrare espressioni come go
a tor, un misto tra il forestierismo inglese go („andare”) e il friulano atôr („in
giro”). A Milano si incontra pirla, „sciocco” (originariamente „membro virile”), a
Roma burino („rozzo”), arrapare („eccitare”), pischella („ragazza”).
La situazione linguistica in Italia è cambiata moltissimo nell’ultimo secolo.
Oggi il 50% della popolazione usa sia il dialetto che l’italiano, 6-7% solo il dialetto
e ben 40% solo italiano. Secondo alcune inchieste svolte sul sito Yahoo! Answers1,
gli italiani non sono indifferenti al fatto che i dialetti siano usati sempre di meno.
Alcuni non scelgono mai di parlare in dialetto, considerando che ormai esiste solo
la lingua nazionale, altri al contrario, si arrabbiano quando la loro lingua viene
banalizzata col termine dialetto.
Tuttavia nessuno può negare le proprie origini ed infatti, anche a chi non
vuole avere a che fare col dialetto, può capitare che gli scappi qualche parola
dialettale. In più, l’accento si fa sentire anche nei più colti, segno distintivo
dell’appartenenza a una regione oppure a un’altra.
NOTA
1
http://it.answers.yahoo.com/. Yahoo! Answers, nella sua traduzione “Yahoo! Domande” è una
comunità online nella quale i partecipanti inviano e rispondono a domande su una vasta
gamma di argomenti. La sezione usata per le inchieste è stata la sezione “Lingue”.
BIBLIOGRAFIA
Beccaria, Gian Luigi, Italiano antico e nuovo, Milano, Garzanti, 2006. (Beccaria
2006)
Beccaria, Gian Luigi, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Milano,
Garzanti, 2008. (Beccaria 2008)
Bellosi, G., Ricci, M. (a cura di), Lei capisce il dialetto? Raffaello Baldini fra
poesia e teatro, Ravenna, Longo Angelo, 2003. (Bellosi – Ricci 2003)
De Mauro, Tullio, Storia linguistica dell’Italia Unita, Bari, Laterza, 2008. (De
Mauro 2008)
Marcato, Carla, Dialetto, dialetti, italiano, Bologna, Il Mulino, 2002.
Materazzi, Melfino, La parola letteraria, Torino, Loescher, 2008.
Pîrvu, Elena, I verbi ausiliari in italiano, Bucureşti, Editura Didactică şi
Pedagogică, R.A., 2000.
Serianni, Luca, Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento, Bologna, Il
Mulino, 1990.
Trifone, Pietro, Malalingua. L’italiano scorretto da Dante ad oggi, Il Mulino, Il
Mulino, 2007.
ABSTRACT
Many linguists are afraid that dialects will continue to become Italianized
until they disappear, but not before leaving a profound influence on the Italian
language, at all levels. The Italians themselves admit that they speak a little bit in
dialect and that they do not know it as well as their parents and grand-parents, but
they also express their regret at the slow disappearance of some part of their
identity.
Key words: the Italian language, dialect, linguistic situation
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