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Dal latino all`italiano ai dialetti
Dal latino all’italiano ai dialetti Di: Paolo D’Achille Premessa Nozioni preliminari Si definisce grammatica storica la ricostruzione, attraverso il confronto tra fasi diverse della stessa lingua (o di lingue l’una derivata dall’altra), delle regole che spiegano le avvenute trasformazioni. In italiano la grammatica storica ha per oggetto di studio i fenomeni che hanno determinato il passaggio dal latino all’italiano o, più precisamente, l’evoluzione linguistica dal latino al fiorentino trecentesco, che costituisce la base dell’italiano letterario. Vanno però considerati, almeno in una certa misura, anche gli sviluppi posteriori, che hanno portato la lingua letteraria di ieri a diventare l’italiano parlato di oggi. L’italiano è una delle lingue romanze o neolatine: appartiene cioè, insieme a varie altre lingue europee, alla famiglia linguistica costituita dagli idiomi derivati da un’unica lingua madre, il latino, attraverso un lungo e complesso processo evolutivo. Le lingue romanze presentano tra loro alcuni elementi comuni, ma anche tante caratteristiche peculiari, che le rendono l’una diversa dall’altra, ognuna con una sua specifica fisionomia: alcune, come l’italiano, sono rimaste più vicine alla lingua di partenza; altre, come il francese, se ne sono allontanate più sensibilmente. Il passaggio dal latino alle lingue romanze comportò la frammentazione dell’unità latina, ma il sistema linguistico del latino classico aveva già da tempo subìto trasformazioni, dissolvendosi in quello che viene definito come latino volgare. Il latino volgare Definizione Quando si parla di latino volgare, si fa riferimento al vulgus, il volgo, il popolo: in effetti proprio dalle classi popolari, in età imperiale, partì la spinta decisiva per il mutamento linguistico che portò alla nascita delle lingue romanze. C’è però chi preferisce adottare la definizione più ampia di latino parlato, come varietà parlata in ogni strato sociale lungo l’intero arco della latinità. È stato, infatti, notato che alcuni fenomeni propri del latino volgare hanno precedenti già nel latino arcaico, affiorando per esempio nelle commedie di Plauto, e, respinti dalle scritture nell’età classica, sono riemersi solo in una fase tarda. Le stesse lettere di Cicerone sono scritte in una lingua (sermo familiaris) abbastanza diversa da quella usata dallo stesso autore per le orazioni o le opere filosofiche e retoriche. Non c’è dubbio del resto che il latino classico, così come è documentato dai grandi autori dell’età cesariana e augustea, rappresenti per vari aspetti una lingua stilizzata, lontana dall’uso parlato contemporaneo, specie da quello delle classi popolari. Si trattava pur sempre, però, di due registri di una stessa lingua, non di due sistemi radicalmente distinti, quali risultano essere il latino classico e il latino volgare, che presentano differenze sostanziali sul piano della fonetica, della morfologia, della sintassi e del lessico. C’è anche, pertanto, chi preferisce parlare di latino tardo, collocando la separazione tra i due sistemi nell’età del basso impero (anche dopo le profonde trasformazioni sociali seguite alla diffusione del cristianesimo). Poiché però i fenomeni innovativi non avvennero tutti simultaneamente (alcuni, come si è detto, risalgono già al periodo arcaico, altri all’età classica), il termine di latino volgare appare preferibile. Il latino volgare non era uniforme su tutto il territorio dell’impero, ma presentava notevoli differenze da zona e zona, soprattutto dal punto di vista lessicale. Tali differenze si sarebbero poi accentuate nel passaggio alle nuove lingue romanze. Fonti del latino volgare Il latino volgare che fu alla base delle nuove lingue romanze era essenzialmente parlato. Come è possibile dunque ricostruirne la fisionomia, visto che le lingue del passato ci hanno lasciato solo documenti scritti? Il primo criterio è la comparazione degli esiti neolatini: se due o più lingue o dialetti romanzi presentano forme affini, non documentate nel latino classico, possiamo ricostruire con buona approssimazione la forma del latino volgare che le ha determinate, ripercorrendone a ritroso le evoluzioni fonetiche. Abbiamo anche parole, forme e costrutti del latino volgare effettivamente documentati in una serie di fonti, le più importanti delle quali sono: le iscrizioni non ufficiali, che presentano non di rado elementi propri del parlato; particolare importanza rivestono numerosi graffiti conservatisi a Pompei, databili immediatamente prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; le testimonianze dei grammatici, che, per difendere la lingua della tradizione scritta, non di rado segnalano come “errori” forme proprie del parlato, molte delle quali si sarebbero comunque imposte. Molto famosa è la cosiddetta Appendix Probi, una lista di parole e forme “sbagliate” riportate a fianco di quelle corrette, trascritta probabilmente a Roma verso il sec. III d.C. alla fine di un codice contenente le opere del grammatico Probo (sec. I d.C.); la documentazione letteraria di autori più sensibili alle forme del parlato, come Petronio nel Satyricon, o rivolti a un pubblico non di letterati, come molti autori cristiani, interessati non a rispettare le prescrizioni dei grammatici, ma a farsi capire dal popolo; le carte notarili tardolatine e altomedievali, che contengono molti volgarismi (più tardi, però, in documenti del genere assumono una veste latina termini volgari). Caratteristiche del latino volgare Dal punto di vista fonetico, il latino volgare presenta rispetto al latino classico profonde differenze sia nel vocalismo (perdita della durata delle vocali; passaggio da un sistema accentuale di natura melodica a uno intensivo), sia nel consonantismo (caduta delle consonanti finali), che determinarono, in morfologia, il collasso del sistema flessivo e lo sviluppo di tecniche di tipo analitico, isolante (come l’uso delle preposizioni invece dei casi); le trasformazioni sul piano fonetico e morfologico comportarono poi, sul piano sintattico, una riduzione nella libertà dell’ordine delle parole nella frase. La collocazione del latino volgare nella dimensione prevalentemente parlata spiega l’abbandono (o la semplificazione) di molte strutture sintattiche proprio del latino classico e la riduzione del patrimonio lessicale, all’interno del quale si registrano anche sviluppi particolari, specie nel significato delle parole. Le lingue romanze Dal latino alle lingue romanze Ricostruiamo ora brevemente il processo di genesi delle lingue romanze. L’azione di conquista dei Romani, che da una piccola zona del Lazio arrivarono a espandersi in buona parte dell’Europa, nell’Africa settentrionale e nell’Asia occidentale, fu accompagnata dalla diffusione del latino, adottato da gran parte delle popolazioni assoggettate, attraverso un’attenta politica linguistica (che faceva perno sulla scuola, sulla pubblica amministrazione, sulla colonizzazione dei nuovi territori da parte di masse di immigrati). La progressiva, ma definitiva scomparsa delle lingue originarie non avvenne in tutte le terre conquistate dai Romani: in alcune zone, dove la penetrazione latina era stata meno massiccia, esse resistettero (è il caso del basco), mentre in Grecia e nelle parti orientali dell’impero già ellenizzate, il greco, grazie al suo prestigio culturale, non venne mai insidiato dal latino. In ogni caso, nel momento del suo massimo splendore, l’impero romano godeva al suo interno di una notevole unità linguistica. Naturalmente anche il latino presentava differenze da zona a zona, specie nel lessico o nelle abitudini di pronuncia, dovute sia alle tracce, più o meno consistenti, lasciate dalle lingue sottoposte, sia alla varia provenienza dei colonizzatori latini, sia, infine, alla diversa epoca di romanizzazione. L’atto di nascita delle lingue romanze Il passaggio dal latino volgare ai nuovi “volgari” non fu, naturalmente, immediato, né tanto meno fu avvertito dai parlanti. Gran parte della popolazione, del resto, era analfabeta e anche i pochi che sapevano leggere e scrivere in latino per molto tempo non ebbero la consapevolezza che la lingua che usavano nello scritto e quella da loro parlata fossero due sistemi radicalmente diversi, anche perché molti elementi volgari penetravano nelle scritture. Solo all’epoca di Carlo Magno (sec. VIII), con la riforma carolina, che riuscì a imporre all’uso scritto un maggiore rispetto per le regole grammaticali proprie del latino classico, si prese finalmente coscienza dell’avvenuta trasformazione linguistica. Dal sec. VIII in poi (e a volte, come nel caso del rumeno, con un plurisecolare ritardo) comincia la documentazione scritta delle lingue romanze; solo più tardi i nuovi volgari vennero adottati anche per l’uso letterario. La classificazione delle lingue romanze Le principali lingue romanze, da Ovest a Est (senza fare riferimento alla loro espansione in epoca moderna, quando, in seguito al colonialismo, portoghese, spagnolo e francese si diffusero anche in altri continenti), sono le seguenti: il portoghese, parlato in Portogallo; lo spagnolo o castigliano, parlato in gran parte della Spagna; il catalano, parlato in Catalogna; il francese, parlato in gran parte della Francia; il franco-provenzale, parlato in Valle d’Aosta e nelle zone alpine tra Francia e Italia; il provenzale, parlato in Provenza e in altre zone della Francia meridionale (oggi è ridotto a una varietà dialettale, ma nel Medioevo godette di ampio prestigio letterario, grazie soprattutto alla lirica trobadorica); l’italiano, suddiviso in due grandi varietà, parlato nella nostra penisola; il sardo, composto da due varietà parlate in Sardegna; il retoromanzo, in cui, secondo alcuni studiosi, si possono includere tre varietà, parlate nel Cantone svizzero dei Grigioni (romancio), nelle valli dolomitiche (ladino) e nel Friuli (friulano); il dalmatico o vegliotto, che era parlato, fino alla fine dell’Ottocento, lungo le coste della Dalmazia; il rumeno, parlato nelle attuali repubbliche di Romania e di Moldavia e diffuso, in altre tre varietà, in diverse altre zone della penisola balcanica. Ciascuna delle lingue romanze è costituita da più varietà locali; anzi, il sardo e il retoromanzo sono costituiti solo da varietà dialettali, nessuna delle quali ha prevalso sulle altre. Solo attraverso un lungo processo di standardizzazione, culminato alle soglie dell’era moderna, alcune varietà locali si vennero configurando come lingue: ciò avvenne, nel caso dello spagnolo, del francese e del portoghese, in concomitanza con la formazione degli stati monarchici nazionali, che adottarono e imposero la lingua della capitale, già notevolmente differenziatasi da quella medievale (il francese è qualcosa di ben diverso dall’antica lingua d’oïl). Il caso dell’italiano si presenta invece particolare: il dialetto fiorentino del Trecento fu il fondamento della lingua nazionale grazie al prestigio della sua letteratura, non in seguito a un predominio politico che la città toscana, nel policentrismo italiano, ebbe solo in momenti brevissimi; la diffusione della lingua nazionale avvenne, per secoli, prevalentemente sul piano dello scritto; non si ebbe una forte cesura tra la lingua medievale e quella moderna. Sostrato, superstrato e adstrato Per spiegare come mai dal latino si originarono lingue diverse, possiamo fare riferimento a tre fattori importantissimi. Il primo fattore è costituito dalla pressione esercitata sul latino dalle diverse lingue a cui questo si era sovrapposto (iberico, celtico, venetico, etrusco, osco, dacico, ecc.), che determinò i cosiddetti fenomeni di sostràto, attivi soprattutto sul piano fonetico. Tenuti a freno fino al collasso dell’impero, gli elementi locali acquistarono poi nuovo vigore e contribuirono a determinare differenziazioni fra gruppi linguistici diversi. Secondariamente, va citato l’influsso delle lingue parlate dai conquistatori, germanici (vandali, visigoti, franchi, longobardi, ecc.) o slavi, cui si devono i cosiddetti fenomeni di superstràto, evidenti soprattutto sul piano lessicale. I nuovi dominatori, stabilitisi in zone diverse della Romània, finirono ben presto con l’accettare il latino parlato dalle popolazioni sottomesse, arricchito però da elementi tratti dalle loro lingue. Il terzo fattore è il contatto con le lingue di altre popolazioni (greci, arabi, ecc.), che ha causato fenomeni di adstràto, dovuti a situazioni di bilinguismo; anche qui si tratta prevalentemente di elementi lessicali accolti grazie al peso politico o al prestigio che questi popoli ebbero in determinati àmbiti culturali. La linguistica storica ha messo l’accento soprattutto sul sostrato, utilizzato anche per la classificazione del dialetti italiani. Fonetica Premessa Prima di trattare dei principali mutamenti fonetici avvenuti nel passaggio dal latino all’italiano, si fornirà una breve descrizione del sistema fonetico e fonologico dell’italiano contemporaneo, completata da alcune sommarie osservazioni sulla struttura sillabica e sulla posizione dell’accento. È opportuno premettere che la fonetica studia e classifica i foni, cioè i suoni, sulla cui concreta produzione si fonda ogni lingua, mentre la fonologia, prescindendo dalle concrete realizzazioni dei foni, studia i suoni nel loro configurarsi come sistema, per individuare i fonemi, cioè le più piccole unità distintive di una lingua. Fonetica e fonologia dell’italiano contemporaneo Premessa Il sistema fonologico dell’italiano è costituito da 7 vocali, 2 semiconsonanti (il cui statuto fonologico è peraltro assai discusso) e 21 consonanti. Inoltre, in posizione intervocalica (cioè compresa tra due vocali) ben 15 consonanti possono essere tanto brevi (dette anche tenui o scempie, se si considera l’aspetto grafico) quanto lunghe (dette pure intense o forti o, nella grafia, doppie), 1 è sempre breve e 5 sono sempre lunghe. Nel complesso quindi, i fonemi italiani sono 45. Avvertiamo che per rappresentare foni e fonemi adottiamo qui l’alfabeto fonetico internazionale stabilito dall’IPA (International Phonetic Association), che è il più diffuso negli studi linguistici. La lettera o il simbolo compresi tra barrette oblique rappresentano il fonema (per es. /a/ indica in astratto la vocale centrale); il simbolo o la lettera compresi tra parentesi quadre il fono (per es. [a] è una realizzazione concreta della /a/); la lettera o le lettere tra parentesi angolate indicano il grafema (per es. <h> è la lettera acca, che in italiano non corrisponde ad alcun fonema, ma ha per lo più valore ortografico). Secondo i criteri di trascrizione IPA, la lunghezza si indica con i due punti dopo il simbolo (/k:/) o, se il fonema è rappresentato da due simboli, con la ripetizione del primo (/ddz/). L’accento tonico, infine, è reso con un apice simile all’apostrofo (') posto prima della sillaba contenente la vocale accentata. Le vocali Le vocali italiane in posizione tònica (cioè accentate) i sono 7 e si dispongono secondo quello che è stato descritto come triangolo vocalico, che è il seguente: Abbiamo dunque: una vocale centrale, prodotta con l’apertura massima della cavità orale e la lingua in posizione abbassata: la /a/; tre vocali anteriori o palatali, così dette perché la parte più alta della lingua le articola venendo in avanti, verso il palato duro: la /e/ (aperta), la /e/ (chiusa) e la /i/; tre vocali posteriori o velari, così dette perché la parte più alta della lingua le articola andando indietro, verso il velo palatino: la /ò/ (aperta), la /o/ (chiusa) e la /u/. Queste vocali vengono dette anche labiali, perché richiedono anche una protrusione (cioè un arrotondamento e una spinta in avanti) delle labbra. Se si considera l’altezza della lingua, le vocali si distinguono in alte (la /i/ e la /u/), medio-alte (la /e/ e la /o/), medio-basse (la /e/ e la /Є/), bassa (la /a/). La differenza nel grado di apertura tra medio-alte (chiuse) e medio-basse (aperte), che può variare o addirittura mancare in alcune varietà regionali di italiano, normalmente non viene registrata nello scritto, ma, ove occorre, è resa nell’ortografia normale (e, per comodità, anche qui di seguito, negli esempi), con l’accento grafico acuto (per le chiuse: é, ó) o grave (per le aperte: è, ò). Il valore fonologico di tale opposizione è provato dalla presenza, nell’italiano standard di base fiorentina, di coppie minime come è /e/ (verbo) ed e /e/ (congiunzione); vénti /'venti/ (numerale) e vènti /'vEnti/ (pl. di vento); ho /ò/ (verbo) e o /o/ (congiunzione); bòtte /'bótte/ (‘busse’, pl. di botta) e bótte /'botte/ (recipiente per il vino). In posizione àtona (cioè non accentate) le vocali si riducono a 5, perché l’opposizione tra medio-alte e medio-basse viene neutralizzata in fonemi che (a prescindere dalle varie pronunce regionali o da altre particolarità) sono indicati come chiusi (/e/ e /o/). Le semiconsonanti L’italiano ha due semiconsonanti, la /j/ (jod), palatale o anteriore, e la /w/ (wau), velare o posteriore, che si articolano rispettivamente come la /i/ e come la /u/, ma hanno, in genere, una durata più breve e non possono essere accentate. Questi due foni, insieme a una vocale appartenente alla stessa sillaba, costituiscono i dittonghi, che sono detti ascendenti quando la vocale segue (viene, luogo), e discendenti quando la vocale precede (mai, lui, causa). In questo caso la /j/ e la /w/ vengono indicate piuttosto come semivocali. Semiconsonanti e semivocali entrano anche nei trittonghi, che sono però piuttosto rari (buoi, sciacquiamo). La distinzione di /j/ e /w/ da a /i/ e /u/ è di importanza fondamentale dal punto di vista storico-linguistico. Tuttavia, la grafia attuale non distingue le semiconsonanti dalle vocali corrispondenti, usando gli stessi grafemi <i> e <u> (iena come ira, uomo come uva). In passato però (e sistematicamente dal Seicento all’inizio del Novecento) la jod è stata resa con <j> (bujo, jeri). La wau non ha mai invece avuto un segno distintivo; anzi, per influsso della grafia del latino classico, il grafema <u> (o, specie al maiuscolo, <v>) è stato usato indifferentemente per la vocale, per la semiconsonante e per la consonante fricativa labiodentale sonora /v/. Le consonanti I 21 fonemi consonantici italiani vengono tradizionalmente classificati sulla base di tre diversi elementi: 1. il modo di articolazione, cioè il tipo di ostacolo che incontra l’aria che esce dalla cavità orale; 2. il luogo di articolazione, ovvero il settore della cavità orale dove si localizza l’ostacolo; 3. la caratteristica del fono di essere sordo o sonoro, orale o nasale. Relativamente al modo di articolazione, se si ha una chiusura (ostruzione) completa del canale parliamo di consonanti occlusive (dette anche esplosive, con riferimento all’impressione uditiva, o momentanee); se vi è un semplice restringimento, che non interrompe del tutto il flusso dell’aria, di costrittive (o continue); si parla di affricate (o semiocclusive) per indicare le consonanti che si producono prima con un’occlusione e poi con un restringimento, dunque in due momenti distinti, pur se strettamente legati. Con riferimento al luogo di articolazione, invece, possiamo suddividere le consonanti italiane in bilabiali (se l’ostruzione avviene con la chiusura delle labbra), labiodentali (ostruzione con denti superiori e labbro inferiore), dentali (ostruzione ottenuta con la punta della lingua che poggia sui denti superiori), alveolari (la lingua tocca gli alveoli dei denti superiori), palatali (la lingua si solleva sul palato duro), velari (la lingua tocca il velo palatino). In italiano le consonanti si possono disporre secondo il seguente schema, che considera a sé anche le nasali: Ci soffermiamo ora solo sulle consonanti che vengono trascritte con simboli particolari o che presentano particolarità sul piano dei grafemi. La /k/ (occlusiva velare sorda) è resa con <c> davanti ad /a/, alle vocali velari e ad altra consonante (casa, così, cupola, crema) , con <ch> davanti alle vocali palatali e a /j/ (chi, che, chiesa),con <q> spesso davanti a /w/ (quadro, questo, ma cuore). La /g/ (occlusiva velare sonora) è resa con <g> davanti ad /a/, alle vocali velari, ad altra consonante e a /w/ (gatto, godere, gufo, grasso, guardare), con <gh> davanti alle vocali palatali e a /j/ (ghiro, ghepardo, ghianda). La /tò/ e la /dZ/, le affricate palatali sorda e sonora, sono rese graficamente con <c> e <g> davanti alle vocali palatali (cento, cena, cima, gelo, gentile, giro), con <ci> e <gi> davanti ad /a/ e alle vocali velari (pancia , ciò, lancio, ciurma, già, gioco, agio, giù). e la , le affricate alveolari sorda e sonora, sono rese in italiano con l’unico grafema La <z> (zaino /'dzajno/, zucca /'tsuk:a/); in posizione intervocalica il fono, nella pronuncia standard, è sempre intenso, anche se graficamente sia può avere sia la doppia <zz> che la scempia <z> (mezzo /'m ddzo/, pizza /'pittsa/, azoto /a'ddzòto/). I due fonemi nell’italiano contemporaneo tendono a confondersi, ma hanno matrici diverse e dunque, in grammatica storica, vanno tenuti ben distinti. , nasale palatale, è resa sempre con <gn> (gnomo, giugno); la , laterale palatale, con La <gl> davanti a /i/ (gli, figli) e con <gli> davanti a tutte le altre vocali (famiglia, moglie, aglio); la , fricativa palatale, con <sc> davanti alle vocali palatali (scemo, scimmia), <sci> davanti ad /a/ e alle vocali velari (sciarpa, sciocco, asciugare). Queste tre consonanti sono sempre lunghe. La /z/, fricativa palatale sonora, è resa graficamente con <s> (non si distingue quindi dalla sorda: entrambe vengono definite anche come sibilanti) e si può trovare al posto di questa solo prima di un’altra consonante sonora (sdentato, sbronza) o in posizione intervocalica (rosa /'ròza/), dove la pronuncia della <s> varia da zona a zona. Nell’italiano standard di base toscana esistono poche coppie minime, come fuso /'fuso/ (arnese per filare) e fuso /'fuzo/ (participio passato di fondere), considerate sufficienti per considerare /z/ un fonema distinto da /s/. Per quanto riguarda i foni nasali, la /n/, dentale, pronunciata sempre come tale in posizione iniziale e intervocalica, viene per es. realizzata come velare (allòfono reso nell’IPA con [ ]) prima delle velari (angolo /'a golo/) e come palatale ([ ] scempia) prima delle palatali (angelo /'a gelo/). Anche prima delle fricative labiodentali, in corrispondenza della <n> della grafia si ha un fono intermedio reso nell’IPA con [ ] (anfora , invidiare ). Cenni sulla struttura sillabica La struttura della sillaba prevede un attacco e una rima. L’attacco è formato da una semiconsonante o da una consonante (uo-vo, ca-ne), o anche da più di una consonante o semiconsonante (fuo-co, stra-no), ma non tutte le combinazioni sono possibili. L’attacco può anche mancare (a-mo). La rima può a sua volta ramificarsi in un nucleo (costituito in italiano unicamente da una vocale) e una coda, costituita da una semivocale o da una sola consonante (for-no, cau-sa, ven-to). Se la sillaba non ha la coda (cioè se la vocale è in posizione finale di sillaba) si dice che è aperta (o libera), se invece ha la coda (cioè se in posizione finale c’è una semivocale o una consonante), si dice che è chiusa (o implicata). Non tutte le consonanti italiane possono trovarsi nella coda e quindi chiudere la sillaba. Nei gruppi consonantici /tr/, /gr/, /pr/, ecc. (muta cum liquida), la prima consonante non chiude la sillaba, ma costituisce l’attacco della sillaba seguente (ma-gro, a-pro). L’italiano di base fiorentina non ammette con molta facilità lo iato, cioè la vicinanza di due vocali appartenenti a sillabe diverse (ma-e-stà, in-vi-o) e tende spesso a eliminarlo. Nell’italiano tradizionale è, inoltre, sempre aperta la sillaba finale di parola: le parole, nella stragrande maggioranza, finiscono in vocale; più categoricamente, finisce in vocale la parola che si trova alla fine della frase, prima di pausa. L’accento Mentre nel latino classico l’accento era di natura melodica, l’accento italiano è di natura intensiva e si realizza con l’aumento della forza espiratoria durante la pronuncia della vocale, che è il nucleo di una determinata sillaba. L’italiano ha un accento mobile, la cui posizione cioè, nelle parole composte da più di una sillaba, può variare e, in linea di massima, non è predicabile; la sua diversa posizione serve anche a distinguere parole (o forme) altrimenti identiche (àncora/ancóra). L’accento italiano può cadere sull’ultima sillaba (nelle parole ossìtone o tronche, le sole dove l’accento tonico deve essere sempre segnato graficamente: partirò, venerdì, generò, carità), sulla penultima (nelle parole parossìtone o piane, che sono la maggioranza: venùta, matìta, piantàre, rimòrso, paése), sulla terzultima (nelle parole proparossìtone o sdrucciole, che presentano, di norma, la penultima sillaba aperta: àngolo, sàbato, lìbero, ma anche màndorla). Le parole formate da più di tre sillabe (e soprattutto le parole composte, come cassapanca, ecc.), spesso, oltre all’accento tonico primario, portano un accento secondario sulla prima (o sulla seconda) sillaba. Una vocale atona è detta protònica se si trova prima della sillaba accentata, postònica se è dopo l’accento tonico (spesso è la vocale finale di parola), intertònica se in posizione intermedia tra la sillaba dove cade l’accento secondario e la tonica. Vengono trattate come protoniche le vocali accentate delle parole che, nelle frasi, tendono a perdere il proprio accento, appoggiandosi alla parola seguente (si parla allora di protonia sintattica: molto bèllo; era véro). Si dicono clìtici le parole (articoli e pronomi come lo, mi, gli, ecc.) che non sono mai accentate perché si appoggiano alla parola seguente (pròclisi: ti dico) o a quella precedente (ènclisi), a cui si saldano anche nella grafia con univerbazione (èccolo). Morfologia flessiva Premessa La flessione La morfologia è il livello dell’analisi linguistica dedicato allo studio delle forme delle parole e alle modificazioni che possono presentare per assumere funzioni e valori diversi. L’elemento minimo dell’analisi morfologica è il morfema, definito come la più piccola unità linguistica dotata di significato. Sulla base dell’analisi morfologica, le lingue del mondo sono state suddivise in due grandi categorie: le lingue analitiche (o isolanti), in cui ogni significato è rappresentato da unico elemento (chiamato morfo), che costituisce da solo una parola autonoma, non cambia mai forma e non può essere legato a un altro elemento; le lingue sintetiche, che tendono ad unire in una sola parola più morfemi non automi, ma legati tra loro e portatori di significati diversi; possiamo così normalmente distinguere tra il morfema lessicale (o radice), che reca il significato della parola, e i morfemi grammaticali, portatori dell’informazione morfologica. Alle lingue sintetiche appartengono le lingue flessive, in cui normalmente una parola è costituita, oltre che dalla radice lessicale, da una parte, chiamata desinenza, che porta una o più indicazioni di carattere morfologico (genere, numero, eventualmente caso per nomi, aggettivi e pronomi; tempo, modo, aspetto, diatesi, persona per i verbi, ecc.), e che ha anche la funzione di segnalare i rapporti tra le varie parole all’interno di una frase. L’analogia Nella morfologia, le spinte analogiche, dettate dall’esigenza di avere il più possibile paradigmi regolari, contrastano spesso con successo le leggi fonetiche. In molti casi, soprattutto nei verbi, abbiamo due (o più) forme concorrenti, l’una rappresentante il normale esito fonetico delle basi latine, l’altra uno sviluppo morfologico italiano; non di rado una delle due forme si è specializzata come tipica del linguaggio poetico, l’altra ha prevalso nei testi in prosa: pensiamo ad alternanze come veggio (con /dd / < dj, con /j/ sviluppatosi dalla di V d o), veggo (con /g:/ per analogia con altri verbi uscenti in tale consonante) e vedo (per analogia con le altre forme del verbo vedere < V d RE). Il nome e l’aggettivo Il sistema latino Il sistema morfologico del latino classico raggruppava i nomi in cinque declinazioni (o classi) diverse, talvolta ulteriormente articolate, e gli aggettivi in due classi; distingueva tre generi (maschile, femminile e neutro) e due numeri (singolare e plurale). A seconda della funzione sintattica del nome, aveva inoltre un sistema di casi: il nominativo (per esprimere il soggetto), il genitivo (il complemento di specificazione), il dativo (il complemento di termine), l’accusativo (il complemento oggetto, ma anche il soggetto delle frasi dipendenti costruite con l’infinito), il vocativo (il complemento di vocazione), l’ablativo (il complemento di causa, quello di mezzo, quello di tempo determinato, ecc.), il locativo, proprio solo di alcuni nomi (il complemento di stato in luogo). Il latino disponeva anche delle preposizioni, che reggendo determinati casi (accusativo o ablativo), esprimevano altri complementi, come IN(+ ablativo: stato in luogo; + accusativo: moto a luogo), AD(+ accusativo: moto a luogo), A(B)(+ ablativo: moto da luogo o agente); E(X)(+ ablativo: moto da luogo o materia, ecc.), CUM(+ ablativo: modo, compagnia, ecc.). Non sempre a ogni caso corrispondeva un’unica desinenza: così nella prima declinazione, rosae poteva essere sia genitivo singolare, sia dativo singolare, sia nominativo plurale; il vocativo, inoltre, si distingueva dal nominativo solo nei nomi maschili e femminili della seconda declinazione; nei nomi neutri anche la forma dell’accusativo era sempre la stessa del nominativo; il dativo e l’ablativo spesso (e sempre nei plurali) coincidevano. Insomma, non sempre i valori dei morfemi desinenziali erano riconoscibili. Questi elementi di debolezza sfociarono in un vero e proprio collasso, quando foneticamente si perse la durata vocalica e caddero le consonanti finali, in particolare la -M e in parte la -S, che distinguevano spesso i casi. Il sistema dei casi finì col perdersi quasi del tutto: ciò non avvenne di colpo, ma attraverso un processo graduale (nelle fasi più antiche di molte lingue romanze, come tuttora nel rumeno, si mantenne infatti un sistema bicasuale, che prevedeva una forma per il soggetto e l’oggetto e una per i casi obliqui). La perdita del sistema dei casi ebbe varie conseguenze, tra cui in particolare: 1. la maggiore rigidità nell’ordine delle parole; 2. lo sviluppo degli articoli, sconosciuti al latino classico; 3. l’uso delle preposizioni per (quasi) tutti i complementi diversi dall’oggetto. Le declinazioni e il sistema dei casi dal latino all’italiano Il latino, come si è accennato, aveva cinque declinazioni nominali: la prima (nomi uscenti al genitivo in -AE e al nominativo in -A, maschili e soprattutto femminili: ROSA, CASA, NAUTA); la seconda (nomi col genitivo in – (e il nominativo n - S, maschili e, meno spesso, femminili: OCULUS, LAURUS; in R (maschili: AGER; in - M neutri: FOLIUM); la terza (nomi con genitivo in - S e varie uscite al nominativo, maschili, femminili e neutri: HOMO, CANIS, MONS, VIRTUS, MARE, TEMPUS); la quarta (nomi con genitivo in - S e nominativo in - S femminili: MANUS; in - neutri: CORNU); la quinta (nomi con genitivo in e nominativo in - S femminili: GLACIES, DIES, ambigenere). Nel latino volgare il loro numero si riduce: i nomi della quarta confluiscono nella seconda (e in genere passano al maschile: DOMUS, da cui duomo); quelli della quinta per lo più nella prima (RABIES > *RABIA, da cui rabbia). Relitti della quinta declinazione si hanno nell’antica forma die < DIEM (maschile e femminile), poi ridottasi a dì e, nei dialetti centromeridionali e siciliani, in nomi terminanti in latino in TIES, come bellez(z)e, fortezze. Nomi come specie e superficie sono invece stati recuperati per via dotta. Anche la quarta declinazione ha lasciato alcune tracce nell’italiano antico e nei dialetti. Il caso che di norma costituisce la base della parola italiana al singolare è l’accusativo: la derivazione da questo caso si vede soprattutto nei nomi derivati dai nomi latini della terza declinazione, che per lo più terminano in -e, derivante dalla forma dell’accusativo maschile e femminile in -EM (FLOREM > fiore) o dai neutri in -E (MARE > mare), ulteriormente sviluppati nel latino volgare (animale > *ANIMALE < animal; cuore > *CORE < cor); la derivazione dall’accusativo è ancora più evidente nei nomi che presentavano al nominativo un tema ridotto rispetto a quello del genitivo singolare e di tutti gli altri casi (escluso il vocativo ma compreso l’accusativo, tranne che per i neutri), dove si aveva una sillaba in più. Così monte deriva da MONTEM, accusativo, e non da MONS, nominativo; rondine da HIRUNDINEM e non da HIRUNDO; magione da MANSIONEM e non da MANSIO; virtù da VIRTUTEM e non da VIRTUS (in questo caso ce ne accorgiamo dall’accento). Possiamo quindi schematizzare il passaggio dal latino all’italiano in questo modo: Nomi latini in -AM (I e V declinazione) Nomi italiani in -a (tutti femminili) Nomi latini in -UM (II e IV declinazione) Nomi italiano in -o (tutti maschili tranne mano) Nomi latini in -E, -EM (III declinazione) Nomi italiani in -e (maschili e femminili) Abbiamo, per la verità, un certo numero di parole (per lo più riferite ad esseri umani, che più spesso e più facilmente potevano svolgere la funzione di soggetto) che derivano dal nominativo latino: come uomo (da HOMO e non da HOMINEM), re (da REX e non da REGEM), moglie (da MULIER e non da MULIEREM, da cui deriva invece la forma antica e dialettale mogliera), prete (da PRESBYTER), la forma fiorentina Trìnita (da TRÌNITAS, mentre da TRINITÀTEM si ha Trinità(de)), e qualche altra. Gli altri casi latini hanno lasciato in italiano solo poche tracce, come in lunedì (< LUNAE DIEM). Il genere Nella trafila dal latino all’italiano, c’è da notare subito la perdita del genere neutro, che riguarda peraltro non solo i nomi e gli aggettivi, ma anche i pronomi e le forme nominali del verbo. Il neutro è del resto scomparso nell’intero mondo romanzo, a eccezione del rumeno, lasciando nelle altre lingue neolatine solo tracce (soprattutto nei dialetti italiani mediani e meridionali, che hanno sviluppato, negli articoli e nei dimostrativi, il “neutro di materia” per nomi-massa e altri sostantivi non pluralizzabili). I nomi neutri latini sono prevalentemente confluiti nei maschili. Il più importante relitto del neutro in italiano si rileva in alcuni nomi maschili che hanno il singolare in -o e il plurale in -a, che ha assunto il genere femminile. Abbiamo così: il braccio/le braccia (dal neutro lat. BRACHIUM, pl. BRACHIA); il ciglio/le ciglia (dal neutro lat. CILIUM, pl. CILIA); il paio/le paia (dal neutro lat. PARIUM, pl. PARIA), ecc. Questi nomi (molti dei quali relativi a parti del corpo umano che costituiscono insiemi di due) rappresentano una piccola classe nel sistema nominale italiano che sopravvive ancora oggi (anche se in vari casi si sono poi sviluppati anche i “normali” plurali maschili in -i, a volte con accezioni particolari: braccia/bracci, corna/corni, lenzuola/lenzuoli). Nell’italiano antico (come pure in molti dialetti centromeridionali) la classe era molto più estesa (e comprendeva anche nomi che in latino non erano neutri ma maschili): troviamo così plurali come anella, castella, demonia, peccata, ecc. poi regolarizzati (e alcuni nomi svilupparono in Toscana anche plurali in -e, come bracce, castelle, poi usciti dall’uso). La lingua antica (e gli stessi dialetti) conoscono anche un altro relitto del neutro plurale latino: il plurale in -ora, che da alcuni neutri della terza declinazione latina (TEMPUS/TEMPORA, CORPUS/CORPORA), dove -OR- era in realtà la parte finale del tema, si estese, interpretato come morfema di plurale, ad altri nomi (fìcora, pràtora, luògora). Anche questi plurali sono di genere femminile. Spesso, però, plurali neutri in -a sono stati reinterpretati come femminili singolari: è il caso di foglia < FOLIA (pl. di FOLIUM > foglio), meraviglia (< M RABIL A), pecora (pl. di PECUS), pera < P RA (pl. di P RUM,) e in genere i nomi dei frutti, che hanno poi sviluppato il regolare plurale in -e. Gli altri nomi conservano, in linea di massima, il genere che avevano in latino: passano dal femminile al maschile quasi tutti i nomi in -o provenienti dalla seconda e dalla quarta declinazione, tranne mano (ago < ACUM; pero < P RUM, e tutti i nomi degli alberi da frutto), e, tra i nomi derivati dalla III, fiore (< FLOREM). Spesso il mutamento di genere è legato a un metaplasmo, cioè a un passaggio da una classe a un’altra: è il caso di ARBOREM (femminile) > albero, GLANDEM (maschile) > ghianda. In altri casi il metaplasmo ha favorito il mantenimento del genere originario, come per N RUS > *N RUS > nuora. Si sono però avuti anche metaplasmi indipendenti dal genere, come SOR(I)CEM > sorcio e i numerosi scambi, nell’italiano antico, tra femminili in -a e in -e (ala/ale,che spiega il plurale ali). Il numero Il complesso sistema desinenziale latino si è andato progressivamente riducendo a una singola opposizione flessiva: quella tra singolare e plurale. Mentre per il singolare, come si è visto, si parte di solito dall’accusativo, più dibattuto è il problema del plurale. Per i nomi femminili derivati dalla prima declinazione, che terminano in -e,c’è chi pensa al nominativo, che ha la stessa desinenza (case < CASAE), chi all’accusativo (case < CASAS), visto che la -s può palatalizzare la vocale precedente, come dimostrano grafie del tipo operes, TABULES, attestate in epigrafi e in carte tardolatine. Per i nomi maschili derivati dalla seconda declinazione, che terminano in -i,non si può partire dall’accusativo, in -os, e prevale l’idea che derivino dal nominativo, che ha la stessa desinenza (muri < MURI); alcuni studiosi pensano invece ad un’analogia con i nomi derivati dalla terza declinazione. La desinenza di questi ultimi in -es, tanto al nominativo quanto all’accusativo, ebbe come esito -i per la palatalizzazione della vocale provocata da -s (MONTES > monti). Nell’italiano antico si hanno però nomi femminili derivati da nomi della terza declinazione che terminano in -e (il tipo le parte): alcuni li spiegano con l’analogia con i plurali dei nomi derivati dalla prima; altri pensano che la -e sia stato l’esito originario e che la -i sia dovuta all’attrazione dei maschili derivati dalla seconda, estesasi poi, tramite gli aggettivi, anche ai femminili. La -i caratterizza comunque, prevalentemente i maschili, tanto che terminano in -i anche molti nomi (dotti) maschili uscenti al singolare in -a (papa/papi). La -i del plurale ha spesso determinato variazioni fonetiche, palatalizzando la consonante velare finale del tema (amico/amici; mago/magi, poi specializzatosi semanticamente rispetto a maghi; volsco/volsci) o assorbendo lo /j/ e bloccandone gli esiti (notaio/notari, danaio/danari opposizioni poi peraltro regolarizzate). Già l’italiano antico aveva un certo numero di nomi invariabili al plurale: alcuni monosillabi (come i citati re e dì), alcuni nomi in -e (l’ambigenere die), il femminile mano (che però nella lingua letteraria assunse presto al plurale la -i dei maschili), tutti i nomi ossitoni, divenuti tali in seguito ad apocope (virtù <- virtude < VIRTUTEM; maestà <- maestade < MAIESTATEM). La classe degli invariabili si è poi sviluppata nel corso dei secoli con l’inserimento nel lessico italiano di prestiti ossitoni o uscenti in consonante (caffè, elisir, film, sport, computer), di nomi (per lo più dotti) uscenti in -e (specie, stele) o in -i già al singolare (brindisi, crisi),di nuovi maschili in -a (boia, sosia, puma) e femminili in -o (dinamo, biro), di “accorciamenti” (bici, mitra, moto). L’aggettivo Le due classi degli aggettivi qualificativi latini vengono sostanzialmente mantenute in italiano (ovviamente, anche qui si perdono i casi e il genere neutro): la prima classe è in -o/-a (pl. -i/e) e la seconda in -e (pl. -i). Anche per gli aggettivi il singolare muove dall’accusativo: B NUM/-AM > buono/-a; N GRUM/-AM > nero/-a; ASP(E)RUM/-AM > aspro/-a; F RTEM > forte; FL BILEM > fievole. Come nel nome, anche nell’aggettivo non mancano metaplasmi (TRISTEM > tristo ‘cattivo’). La comparazione In latino i gradi di comparazione dell’aggettivo (comparativo di maggioranza; superlativo) erano espressi con morfemi legati (NOBILIS/-E ‘nobile’; NOBILIOR/-IUS ‘più nobile’; NOBILISSIMUS/-A/-UM ‘molto nobile’ o ‘il più nobile’). Questa possibilità si è persa nel mondo romanzo, che per il comparativo ha generalizzato la forma MAGIS, utilizzata in latino in casi particolari (portoghese mais, spagnolo más, rumeno mai) o la ha sostituita con PLUS (francese plus, italiano più) e per il superlativo ha premesso all’aggettivo vari avverbi (in italiano molto, tanto, assai, ecc.). L’italiano ha però recuperato per via dotta per il superlativo assoluto (non per quello relativo, espresso con l'articolo determinativo premesso al comparativo: il più buono) il suffisso - SS MUM/-AM > -issimo/-a (l’esito popolare sarebbe stato *-essemo/-a) e, in casi particolari, - RRI MUM/-A > -èrrimo/-a (acerrimo, asperrima). Come in altre lingue romanze, si sono conservati in italiano alcuni comparativi organici latini: MAIOREM > maggiore; MINOREM > minore; MELIOREM > migliore; PEIOREM > peggiore, a cui possiamo aggiungere gli avverbi MELIUS > meglio e PEIUS > peggio. I corrispondenti superlativi massimo, minimo, ottimo, pessimo, sono invece forme dotte. L’alterazione L’italiano ha mantenuto e anzi sviluppato una tecnica analitica per quello che riguarda gli alterati: tanto gli aggettivi quanto soprattutto i nomi, con l’aggiunta di determinati suffissi (-ino/-a, -etto/-a, -uccio/a o -uzzo/-a, -one/-a, -otto/-a, -accio/-a, -astro/-a, ecc.),assumono sfumature diminutive, vezzeggiative, accrescitive o peggiorative, che non di rado, come era già avvenuto nel latino volgare, si sono lessicalizzate, hanno cioè assunto significati specifici, distinti da quelli delle basi. L'articolo Il latino classico non conosceva l’articolo. Funzioni analoghe a quelle del nostro articolo indeterminativo potevano però essere svolte (come dimostrano anche esempi di autori classici sensibili alla lingua parlata) dal numerale UNUS/-A/-UM. Proprio dall’accusativo di questa forma (UNUM/-AM) derivano gli articoli indeterminativi uno (spesso apocopato in un) e una (davanti a vocale normalmente eliso in un’), che l’italiano ha solo al singolare (al plurale si usano, con funzioni analoghe, gli indefiniti alcuni/-e, certi/-e o, più spesso, il partitivo deidegli/delle). Per quanto riguarda l’articolo determinativo, la sua introduzione nel latino volgare e poi nelle lingue romanze avvenne probabilmente anche per suggestione del greco: nei primi secoli dell’era cristiana, infatti, nella traduzione in latino dei vangeli gli articoli presenti nel testo greco furono resi con le forme del pronome dimostrativo ILLE (letteralmente ‘quello’), a cui fu assegnato così un nuovo valore. Per molto tempo ancora, per la verità, le funzioni di ILLE come articolo determinativo non sono ancora ben distinte da quelle dell’aggettivo dimostrativo, tanto che è stato definito come articoloide. In italiano gli articoli determinativi si sono sviluppati in seguito a un’aferesi, secondo la seguente trafila: per il maschile singolare ( L)L M > lo; per i femminili ( L)L M > la e ( L)LAE (o ( L)L S) > le. Nel caso del maschile plurale, la forma originaria è li (< ( L)L ), ben diffusa in italiano antico e poi palatalizzata in gli o ridotta a i (sono le forme che usiamo tuttora, in distribuzione complementare). Nel maschile singolare, oltre alla forma lo si ha, come è noto, la forma il, che è stata variamente spiegata. Dal punto di vista fonetico, si è ipotizzata, muovendo da LL M, una trafila che prevede non un’aferesi (come in lo), ma un’apocope: L(L M) > el > il (con chiusura della /e/, trattata come protonica). Ad altri studiosi, però, è parso più probabile che il si sia sviluppato con l’aggiunta di una /i/ d’appoggio alla /l/ a cui si era ridotto lo per apocope in particolari contesti fonosintattici, cioè dopo una parola uscente in vocale (spesso infatti, specie dopo i monosillabi, troviamo grafie come chel, sel, el, da intendere come che-l, se-l, e-l). La forma più antica attestata a Firenze è inoltre il; el si è diffuso più tardi, probabilmente per influsso di altri dialetti toscani. Notiamo ancora che el è anche l’articolo dei dialetti settentrionali (e c’è chi pensa a un loro influsso sui dialetti toscani), mentre i dialetti centromeridionali conoscevano originariamente solo lo e lu (< *( L)L , con allungamento della finale dopo l’apocope di -M; nelle aree dialettali dove la prima forma era riservata al “neutro di materia” questa si usava per il maschile), da cui sono derivate forme come ’o, gliu, ecc.; il romanesco er deriva invece dal toscano el. Infine, bisogna ricordare che gli articoli sardi si sono sviluppati dal determinativo IPSE/IPSA (sa domu ‘la casa’, ecc.). Oggi lo e il (come gli e i) sono in distribuzione complementare: come è noto, lo si usa davanti a nomi inizianti per vocale (la -o allora si elide, al pari della -a di la e, anticamente, anche della -e di le: l’armi), per /s/ + consonante o per gruppi consonantici non formati da occlusiva + /r/, per / /, / /, /ts/ e /dz/, il in tutti gli altri casi. Anticamente, però, l’uso era diversamente regolato: oltre alla possibilità, rimasta viva a lungo anche nella lingua letteraria, di porre il prima di /ts/ e /dz/ (il zappator cortese, il zucchero), nei testi antichi troviamo lo al posto di il se l’articolo era all’inizio di frase (Lo dolce viso) o se era preceduto da parola terminante in consonante (rimirar lo passo, Dante): in sostanza l’uso di il richiedeva prima dell’articolo una parola terminante in vocale. Un relitto di quest’uso resta anche nell’italiano contemporaneo, in espressioni cristallizzate come per lo più, per lo meno. Gli articoli (o piuttosto, se partiamo dal latino, le forme LL M, LL M, LL e LLAE), uniti alle preposizioni a, di, da, in, con, per (lat. AD, D , D + AB, N, C M, P R) formano le preposizioni articolate, secondo le seguenti trafile: A(D) +( )LL M > allo (o, con apocope vocalica, al); D + ( )LL M > della; D( ) + A(D) + ( )LL S > dalle; ( )N + LL > nelli (da cui poi negli o nei); C (M) + ( )LL M > collo -> col; P (R) + ( )LL > pei (forma oggi rara). Nei testi antichi le preposizioni articolate potevano presentare la /l/ scempia (alo, dala, nele, ecc.), che corrispondeva all’originaria pronuncia fiorentina della /l/ come breve davanti a parola iniziante per vocale accentata o per consonante (al’opera, ala fine). Le stesse grafie, ma con separazione “analitica” della preposizione dall’articolo (a lo, da la, ecc.), non più corrispondenti alla pronuncia, sopravvissero a lungo nella lingua letteraria, specie poetica. Prima di nel, nello, ecc. sono documentate, in antichi testi toscani, anche le forme non aferetiche innel (o in nel, anche in del), ecc., poi uscite dall’uso. Sono ormai molto antiquate anche preposizioni articolate come collo, colla, pel, pelle, ecc.(con lo, con la, per il, per le, ecc.). I pronomi I pronomi personali Nella morfologia di alcuni pronomi personali, l’italiano mantiene l’opposizione latina tra una forma per il soggetto e una tonica per i complementi. Abbiamo così: I persona sing.: io (< EGO), me (< M , accusativo/ablativo); II persona sing.: tu (< TU), te (< T , accusativo/ablativo). Come in latino, non c’è distinzione tra soggetto e complemento nella I persona pl. noi (< N ) e nella II persona pl. voi (<V ). Più complesso il quadro relativo alle forme di III persona singolare e plurale. Al maschile singolare come forma soggetto abbiamo egli (<- elli < LL < LL per influsso del relativo QU ); come forma complemento lui (< L L M, forma originariamente dativale, sostituitasi al classico LL per analogia col relativo C ). Al femminile singolare le forme corrispondenti sono ella (< LL M e lei (< LL M .Per entrambi i generi, come forme di soggetto (o di complemento, ma non oggetto) si hanno anche esso ed essa (< PS M, PS M , solo molto tardivamente riservate (specie quella maschile) ad animali e cose. Il pronome egli si è spesso ridotto a ei e poi a e’ o a gli, forme a lungo diffuse nell’uso letterario (specie la prima) o ancora vitali (specie le ultime due) nei dialetti toscani. Anche ella si è ridotto spesso a la, forma vitale anch’essa nell’uso dialettale (toscano ma anche settentrionale) e presente oggi solo in espressioni cristallizzate col valore di ‘la cosa’ (se la va la va). L’uso di lui, lei e loro con funzione di soggetto fortemente in rilievo si sviluppò a Firenze già nel corso del Trecento, ma la lunga censura a cui fu sottoposto dalla tradizione grammaticale ne ritardò per secoli l’uso nelle scritture letterarie. Come predicato nominale, erano usate anticamente le forme desso/-a/-i/-e (< DIPS M, con aferesi della vocale iniziale), rimaste poi a lungo nella lingua poetica. Al plurale l’italiano antico aveva le forme elli (da cui, come per il singolare, egli, gli, ei, e’) ed elle, poi sostituite con essi ed esse, utilizzabili anche come complemento (ma non più per l’oggetto diretto). La forma oggettiva loro, probabilmente di importazione francese o settentrionale, deriva dalla forma di genitivo PSor M. L’esigenza di differenziare la forma maschile plurale da quella del singolare portò, prima che alla diffusione di essi, allo sviluppo della forma églino, ottenuta con l’aggiunta della desinenza no, delle III persone plurali dei verbi (amano, leggevano, andarono), su cui fu modellato il femminile élleno. Le forme furono molto diffuse nello scritto tra il Quattrocento e l’Ottocento, per poi sparire. La forma complemento di III persona con valore riflessivo è sé (< S , accusativo/ablativo). Sono passate all’italiano anche le forme latine MECUM, TECUM, SECUM ‘con me, con te, con sé’ > meco, teco, seco, diffuse anche nell’uso popolare toscano almeno fino all’Ottocento. Nei pronomi personali l’italiano, accanto alle forme forti, piene, toniche, ha sviluppato anche forme deboli, ridotte, atone, che si appoggiano al verbo: sono i cosiddetti clitici, che possono essere usati solo per il complemento oggetto e di termine. Abbiamo così: I persona sing. mi (< M , con chiusura in protonia, come le altre sotto citate); II persona sing. ti (< T ); I persona pl. ci (< *(H C)CE < HIC ‘qui’, originariamente avverbio di luogo); II persona pl. vi (< B , con aferesi della vocale iniziale e chiusura in protonia dell’originario ve o, secondo altri, come aferesi da ivi; secondo altri studiosi ancora vi costituirebbe un altro esito di V S, assieme a vo, forma anticamente attestata). Alle III persone abbiamo: al maschile singolare gli (< ( LL , attraverso li, ben documentato nei testi antichi) e lo (< ( L L M); al femminile singolare le (< *( LLAE) e la (< ( L)L M); al plurale le forme oggettive sono regolarmente li (maschile) e le (femminile), mentre a gli (< ( L)L S) si è affiancato loro. La forma clitica del riflessivo è si (< SE). Anticamente, come nell’articolo, lo poteva avere anche l’alternativa il (il veggo ‘lo vedo’) e, preceduto da altro monosillabo, si poteva ridurre alla semplice laterale(tel dico ‘te lo dico’; nol posso ‘non lo posso’). Il femminile le rappresenta uno sviluppo più recente, nato dall’esigenza di differenziare questo genere dal maschile; anche per il femminile anticamente si usava li ( L)L era infatti ambigenere in latino). Oltre alla forma li, come oggetto plurale troviamo anche, anticamente, i e gli (le stesse forme dell'articolo), che però, nonostante l’uso poetico, non hanno attecchito. L'uso di loro, bisillabo (e quasi sempre posto dopo il verbo),al posto di gli come plurale ha creato uno squilibrio nel sistema dei clitici – la forma ridotta lor (anche lo in alcuni dialetti medievali toscani e mediani) non si è infatti diffusa – che spiega la ripresa anche nello scritto di gli (rimasto del resto sempre vivo, specie in combinazione con altri clitici). La forma si ha assunto anche il valore di soggetto impersonale (si vede, si dice) o quello detto “passivante” (i libri si vendono), differenziandosi per più aspetti dal riflessivo. Questo nuovo si costituisce anzi una delle forme pronominali più significative dell’italiano. Anticamente come impersonale si usava anche omo, corrispondente al francese on (< HOMO). L’italiano presenta altri tre pronomi clitici. Il primo è ne (< ND ), che, oltre all’originario valore avverbiale di moto da luogo (ne vengo, andarsene) ha sviluppato vari altri valori di complementi indiretti di III persona (singolare e plurale) introdotti dalla preposizione di (argomento: ne parliamo; partitivo: ne ho conosciuti tanti, ecc.). Già incontrati come clitici di I e II persona plurale, ci e vi hanno inoltre anch’essi come primo significato quello di avverbi di luogo (ci resto ‘resto qui’; vi abitano ‘abitano lì’), da cui poi il ci ha sviluppato il valore di complemento indiretto di III persona (ci riesco ‘riesco in questa cosa’; ci esco ‘esco con lui o con lei’). L’italiano antico usava ne anche come clitico di I persona pl.(uso sopravvissuto a lungo nella lingua poetica e in espressioni come Dio ne liberi! ‘Dio ci liberi!’); secondo alcuni si tratta di uno sviluppo semantico di ne (< INDE), secondo altri deriva da NOS, al pari della forma antica no. Per quanto riguarda i pronomi allocutivi, l’italiano antico usava il voi anche come pronome di cortesia singolare. Il tu, unica forma usata in latino, è rimasto vivo nel Medioevo in vari dialetti dell’Italia centrale (tra cui il romanesco); il lei (come soggetto anche Ella, per lo più con iniziale maiuscola) e, al plurale, loro (oggi desueto), si è diffuso invece a partire dal Cinquecento, con riferimento a forme femminili come Vostra Signoria, Vostra Eccellenza, ecc. Pronomi e aggettivi possessivi I possessivi italiani recuperano regolarmente quelli latini. Le uniche particolarità riguardano alcuni sviluppi fonetici differenziati a seconda delle persone: M UM/-AM/-AS > mio/-a/-e, T UM/-AM/-AS > tuo/-a/-e, S UM/-AM/-AS > suo/-a/-e (con chiusura in iato). I maschili plurali presentano il dittongo, normale in miei < ME(I), difficile da spiegare in tuoi e suoi, che presupporrebbero forme non attestate *T I e *S I. Le forme delle persone plurali sono nostro/-a/-i/-e <N STRUM/-AM/-I/-AS, vostro/-a/-i/-e <*V STRUM/-AM/-I/-AS (invece del classico VESTRUM) e loro < LL R M. L’italiano ha generalizzato SUUM anche nelle condizioni in cui il latino adoperava EIUS. Inoltre, in italiano antico (come tuttora nell’uso popolare) suo poteva riferirsi anche a una III persona plurale (loro sembra infatti un’introduzione più recente). L’italiano antico aveva inoltre le forme possessive enclitiche, -mo, -to e, -so, usate prevalentemente con i nomi di parentela, come tuttora nei dialetti meridionali (mógliama ‘mia moglie’, ecc.). Pronomi e aggettivi dimostrativi Delle forme latine di dimostrativi e determinativi scompaiono dall’uso già nel latino volgare DEM e, certo anche per la loro brevità, S e H C, che restano solo, al neutro, in pronomi composti come il già segnalato desso (< D PSUM) e ciò (<( C)C H C) e nella congiunzione però (<P R H C, che, prima di sviluppare l’odierno valore avversativo, significava appunto ‘perciò’, ‘per questo’). Nel sistema tripartito dei dimostrativi latini, già nel latino volgare HIC ‘questo’ è sostituito da ISTE, a cui nel significato di ‘codesto’ subentra IPSUM, mentre per ‘quello’ si mantiene ILLE. Ma nel toscano, e poi nell’italiano, come si è visto, ILLE dà vita ad articoli e pronomi personali (e anche IPSUM dà vita al pronome personale - e aggettivo - esso), cosicché, con funzione di dimostrativi, ISTE e ILLE furono rafforzati con l’avverbio * CC M (formato da CC(E) e H N(C), accusativo di HIC: ‘ecco questo’), ad essi premesso: abbiamo dunque questo (< *( C)C (M) ST M) e quello (< *( C)C (M) LL M). Anticamente è attestata anche la forma aggettivale esto/-a, derivata direttamente da ST M/M. Con valore pronominale, al maschile singolare troviamo anche forme terminanti in -i: questi e quegli o quei (da quelli); questa -i si spiega, come quella di egli, con l’influsso del relativo QU . La forma cotesto o codesto (con sonorizzazione della /t/) è formata non da PS M, ma da ( C)C (M) T (BI) [O T ] ST M ‘eccoti questo’, indica persona o cosa vicina a chi ascolta ed è viva solo in Toscana, oltre che nell’uso burocratico e, con valore anaforico, nella lingua letteraria e nella saggistica. Da ST( M) PS M deriva, invece, il pronome e aggettivo indefinito stesso (anticamente anche istesso, senza aferesi), mentre medesimo (anticamente anche sincopato in medesmo)deriva da * MET PSIM M, forma di superlativo contratto (< P(SIS)SIM M), rafforzato dal suffisso -met ‘proprio’, posto però in posizione iniziale. Altre forme di pronomi dimostrativi derivati dal latino sono costui (<- coestui < *( C)C (M) STU ), colui (<*( C)C (M) LL ), costei (<*( C)C (M) ST ), colei (<*( C)C (M) LL ), costoro (<*( C)C (M) ST RUM e coloro (< *( C)C (M) LL RUM , forma originariamente destinate ai complementi (si parte, infatti, da forme pronominali oblique), ma poi estese anche ai soggetti. I pronomi relativi Anche nei pronomi relativi l’italiano ha mantenuto tracce del sistema casuale latino, distinguendo una forma che per il soggetto e il complemento oggetto (e, ab antiquo, anche per il complemento di tempo e in genere i complementi non introdotti da preposizione) e una forma cui (per lo più preceduta da preposizione) per gli altri complementi. Questa seconda forma deriva direttamente dal dativo latino C ; il che non muove invece dal nominativo QU , QUAE, QU D (che presentava anche la distinzione di genere, in italiano perduta), ma, probabilmente, dal neutro del pronome interrogativo QU D, che è considerato anche alla base del che interrogativo e del che congiunzione (al posto delle forme latine QU D e QU A). C’è anche chi postula, per il relativo, la base QU M (accusativo maschile). Certo tutte queste forme, etimologicamente collegate già in latino, si andarono confondendo nel latino volgare. L’italiano utilizza anche come relativi gli interrogativi latini QUALEM, QUALES > quale, quali e QU S > chi. Introducono frasi relative (e interrogative) pure l’avverbio di luogo dove (< D( ) B ) ‘in cui’ (nell’uso letterario anche ove), e onde < ND , che oggi sopravvive solo come congiunzione con valore finale (onde evitare spiacevoli incidenti), ma che originariamente ha valore di avverbio di luogo (‘da dove’; anche donde) o di pronome, col significato di ‘di cui’, ‘da cui’. Pronomi e aggettivi indefiniti L’aggettivo qualche non deriva direttamente dalla combinazione QUAL(EM) QUE(M), ma dall’italiano qual che (sia); anche il pronome ‘neutro’ qualcosa è una neoformazione italiana. Il latino ALIUS non sopravvive nel mondo romanzo e ALTER, che in latino significava ‘l’altro’ tra due, lo sostituisce in tutti i casi: da qui muovono, con sincope, le forme altro/-a (< ALT(E)RUM/-AM) e altri (anche pronome maschile singolare, da *ALT(E)R , anch’esso, come egli, questi, ecc., analogico a QU ). Dalla forma dativale ALT(E)R , rifatta su CU deriva altrui, usato anticamente con valore di complemento oggetto (mena dritto altrui, Dante),di termine (parlare altrui), di specificazione (il dantesco lo pane altrui ‘pane di altri’), ecc. L’italiano tutto deriva dal lat. classico T T M; ma l’italiano è l’unica lingua romanza che ha continuatori anche dell’indefinito OMNIS: dall’accusativo MN M è infatti derivato ogni. L’esito di MN M sarebbe onne, anticamente attestato; davanti a parola iniziante per vocale, però, la /e/ finale tendeva a ridursi a /j/ e a dileguare palatalizzando la nasale precedente (onne anno -> ogn’anno). Da qui lo sviluppo della forma ogne, in cui poi la /e/ è stata trattata come protonica. In altri dialetti italiani si ha ogna, tratto dal neutro plurale MN A. Il numerale N M ha dato vita al pronome indefinito (l’) uno, usato anche al plurale, e, in combinazione con altre forme (latine o già italiane), a molti altri pronomi, tra cui: ognuno < MN (M) N M; alcuno < *AL(I)C N M < ALIQUIS UNUS; qualcuno <- qualche uno; i negativi nessuno <N (C) PS(E) N M ‘nemmeno uno’ (originariamente d’uso solo poetico), niuno < N (C) N M (per secoli la forma normale in prosa) e veruno < V R(E) N M ‘in verità uno’, poi ‘nessuno’; cadauno, catuno <KATÀ (greco) N M; ciascuno, ciascheduno < francese chascun <KATÀ QU SQUE N M; KATÀ QU SQUE (ET) N M . Il suffisso latino -CUNQUE, confusosi nel latino volgare con UNQUAM ‘mai’, ha formato invece qualunque, chiunque (e anche le congiunzioni quantunque e comunque). Il negativo NULLUS si è conservato popolarmente solo in nulla (< N LLAM (REM)), mentre niente (anticamente anche neente) è stato spiegato o dal latino medievale N C NTEM ‘neppure un ente, una cosa’ o piuttosto da NEC GENTEM, con gente privato del suo significato originario, ma con valore generico, impersonale. L’italiano antico aveva anche il pronome covelle ‘alcunché’ e ‘niente’ < QUOD VELLES. I numerali Segnaliamo solo alcuni derivati dei cardinali. Il primo, uno/-a < UNUM/-AM > oltre al nuovo valore di articolo indeterminativo, conserva quello di numerale ed è il solo che mantiene anche modernamente la distinzione di genere (anticamente anche nei composti: novantuna). Dal latino D , D AE (accusativo D AS) sono derivate varie forme: oltre a due (dove la /u/ si spiega con la chiusura iato), nel Trecento si hanno anche dui, duo, dua, le ultime due vitali ancora nel Quattrocento accanto a duoi e nel Cinquecento accanto a doi e du’. Nei primi secoli si ha una certa tendenza a usare duo per i maschili, due per i femminili (in corrispondenza dunque delle forme latine) e dua per i nomi plurali in -a, poi duo verrà riservato alla poesia; dua e duoi sono rimasti a lungo vitali nel parlato. Tra gli esiti fonetici degli altri numeri, ricordiamo che dugento (< D CENTI, con sonorizzazione dell’intervocalica e -o per influsso di cento) è la forma propria dell’antico fiorentino, mentre duecento è un’innovazione posteriore. Il verbo Aspetti generali Nell’àmbito della morfologia verbale, nel passaggio dal latino classico al latino volgare e poi all’italiano si registra l’abbandono di una serie di tratti flessivi, con una conseguente semplificazione del sistema, tendente a ridurre la ricchezza desinenziale sostituendo a singole forme legate, morfologicamente complesse, strutture analitiche perifrastiche, costituite da forme verbali distinte. Le principali tendenze di carattere generale sono: 1. l’eliminazione dei verbi irregolari, alcuni dei quali si perdono del tutto o quasi (FERRE, sostituito da portare), altri vengono regolarizzati negli infiniti e in altre forme dei paradigmi (ESSE, che diventa all’infinito *ESSERE, il suo composto POSSE, trasformato in *POTERE); 2. la perdita della diatesi passiva; il latino formava i tempi semplici del passivo (presente, imperfetto, futuro) con morfemi desinenziali, mentre per i tempi composti (perfetto, piuccheperfetto, futuro anteriore) ricorreva alla perifrasi participio passato + forme dei tempi semplici del verbo ESSE; in italiano (come nelle altre lingue romanze) si ha sempre la perifrasi: AMATUR viene sostituito da è amato/-a; a sua volta il valore di AMATUS/-A/-UM est è assunto da è stato/-a (o fu) amato/-a; 3. la perdita dei verbi deponenti e semideponenti latini (verbi che avevano forma passiva ma significato attivo), che vengono regolarizzati in tutti i tempi e i modi appunto come attivi: M N RI ‘minacciare’ > *M N RE > menare ‘condurre’; MORI > *MORIRE > morire; 4. la riduzione del numero di tempi e di modi verbali e lo sviluppo di forme perifrastiche: si perde, per es., il futuro, sostituito da una perifrasi con infinito e forme del presente del verbo HABERE; spariscono senza lasciare tracce l’imperativo futuro e molte delle forme infinitive (l’infinito e il participio futuro, il supino, gran parte delle forme del gerundio, il gerundivo, recuperato solo per via dotta). In questo campo, però, si registrano anche incrementi. Così, in corrispondenza del perfetto latino all’indicativo si hanno tre tempi, che hanno valore aspettuale diverso: passato remoto, passato prossimo e trapassato remoto (che in italiano antico compariva, al pari degli altri due, anche nelle frasi principali). Passato prossimo e trapassato remoto sono perifrastici, al pari del trapassato prossimo (che sostituisce il piuccheperfetto latino), del futuro anteriore, e del passato e trapassato degli altri modi. Tutti questi tempi presentano le forme dell’ausiliare (avere o essere, a seconda dei casi) e il participio passato (ho visto, fu nato, avevi comprato, avrete mangiato, che siano arrivati, ecc.). Nasce inoltre un nuovo modo: il condizionale, anch’esso, nel fiorentino e poi nell’italiano, formato da una perifrasi con infinito e forme (ridotte) del perfetto di HABERE. Il latino presentava spesso, nei paradigmi verbali, un’allomorfia tematica: la vocale del tema era, infatti, spesso soggetta a cambiamenti (per la cosiddetta apofonia: troviamo ora le lunghe ora le brevi, ora una e, ora una o), nelle forme del perfetto e del supino. Molti di tali mutamenti si sono mantenuti in italiano o, per meglio dire, hanno contribuito a determinare la varietà di esiti delle diverse forme verbali: per es. nel verbo venire abbiamo vèngo, vièni e vénni.Differenze nel grado di apertura della vocale tematica dipendono anche dalla distinzione tra le forme verbali rizotoniche (accentate sulla radice, cioè sul morfema lessicale) e le forme rizoatone (accentate sulla desinenza, cioè sul morfema flessivo). La forza delle spinte analogiche, del resto, non si limita alla coniugazione di uno stesso verbo, ma si estende anche, per altri aspetti, a verbi di classi diverse. Le classi verbali e le forme dell’infinito Il latino aveva quattro coniugazioni: 1) 2) 3) 4) la la la la I ha l’infinito in - RE (AMARE); II in - RE (VID RE); III in - RE (LEG RE); IV in - RE (AUD RE). In italiano si riducono a tre, perché la II e la III si fondono in un’unica coniugazione, in -ere, con la /e/ ora accentata, ora atona (con qualche spostamento rispetto al latino classico: MOV RE > muòvere) e modellata per il resto sul paradigma della II latina; queste classi verbali restano solo come fossili, per i verbi di diretta derivazione latina; invece la prima (in -are) e in parte la terza (in -ire), che sono poi quelle che presentano paradigmi più regolari, sono produttive, servono cioè per formare nuovi verbi (arrossare e arrossire, toscaneggiare, scurire, ecc.); vengono inoltre inseriti nella prima i verbi germanici uscenti in -on (*wardôn > guardare), nella terza quelli terminanti in -jan (warnjan > guarnire). Nel passaggio dal latino all’italiano vanno inoltre segnalati numerosi metaplasmi: i verbi col presente in -I(O) della III coniugazione latina sono passati per lo più alla terza italiana (FUG RE > fuggire, ma SAP RE > sapere), in cui sono entrati anche vari verbi della II latina (FLOR RE > fiorire). Alcune sincopi hanno spostato verbi dalla III latina alla prima (FAC RE > fare) o alla terza (DIC RE > dire). Vediamo ora brevemente i principali tempi e modi, segnalando subito che i dittonghi -IEpropri di molte forme verbali della IV latina si sono ridotti ora a -i- (AUDIEBAT > udiva, ecc.), ora a -e- (DORMENDO > dormendo). Il presente indicativo La I persona, come in latino, termina in -o in tutte e tre le coniugazioni(io canto, io leggo, io parto). I verbi latini appartenenti alla II classe, uscente in - O, e alla IV (e alcuni della III), in O, hanno però sviluppato una /j/ che è stata assorbita o ha modificato la consonante finale del tema (VIDEO > veggio, *MORIO > muoio, e anche, per analogia, *VOLEO > voglio, ma FUGIO > fuggo e SENTIO > sento). La II persona termina in -i (tu canti, tu leggi, tu parti). In latino la II persona usciva in -S e tale consonante (caduta senza tracce nei verbi della IV: VENIS > vieni) sembra aver palatalizzato la vocale tematica delle prime due classi: si giustificano così VIDES > vedi e AMAS > ame, forma attestata in italiano antico e poi sostituita da ami per analogia con i tipi vedi e vieni. La III persona presenta, regolarmente, la terminazione in -a nella prima coniugazione (ama < AMAT), in -e nella seconda e nella terza (vede < VIDET; parte > PARTIT). Molto importante storicamente è la forma della I persona plurale, che presenta per tutte le coniugazioni la desinenza -iamo. Dal lat. -AM S, -EM S e -IM S si sono avute regolarmente amo, -emo e -imo, rimaste vive nei dialetti. La forma -iamemuo è tipica del fiorentino a partire dalla seconda metà del Duecento e costituisce pertanto uno dei tratti che meglio esemplificano la fiorentinità dell’italiano; sembra modellata, attraverso una sorta di reazione a catena di processi analogici, sulla desinenza derivata da quella dei congiuntivi latini della II (- AMUS) e della IV (- AMUS), che si estese anche alla I (dove il latino aveva -EMUS) e passò agli indicativi. La II persona plurale, invece, ha mantenuto la distinzione latina fra le tre forme: -ate < -AT S nella prima (voi amate); -ete < - T S nella seconda (voi vedete); -ite < - T S nella terza (voi venite). Più complessa la ricostruzione della forma di III persona plurale in -no, cheè stata variamente spiegata. C’è chi, partendo dalla terminazione latina in -NT (di -ANT, -ENT, - NT, -(I) NT), pensa a una riduzione a -n e alla successiva aggiunta di una -o d’appoggio (AMAN(T) > amano). C’è invece chi ipotizza una caduta di entrambe le consonanti, cosicché, per evitare che la III plurale fosse identica alla III (o alla I) singolare (come è effettivamente avvenuto in molti dialetti italiani), in Toscana fu aggiunta al plurale la terminazione in -no, tratta dalla forma dell’ausiliare essere: sono. Questo -no è extrametrico (tanto che abbiamo presenti con accento sulla quartultima sillaba: capitano), soggetto al rafforzamento sintattico dopo basi monosillabiche (danno, stanno) e ha determinato assimilazioni della vocale precedente nei verbi della seconda (VIDENT > vede(n) > vedono). Nei verbi in -ire si è estesa (e generalizzata ai verbi di nuova formazione) la terminazione isco, derivata dall’infisso -sc- che il latino usava con valore incoativo (per indicare cioè un’azione che iniziava): FINIO > finisco; tale terminazione, oltre che nelle tre persone del singolare, si ha anche nella III plurale. Molti verbi (specie quelli di uso più frequente) hanno al presente varie forme ridotte: so, sai e sanno (rispetto a sappiamo e sapete), fo (accanto a faccio), fai, fa, fate e fanno (ma facciamo), vo (accanto a vado), vai, va, vanno (ma qui andiamo e andate, al pari dell’infinito andare,partono proprio da un’altra base),ecc. La desinenza in -i della II persona, invece, ha prodotto alcune allomorfie nei temi uscenti in velare (io vinco/tu vinci). Per quanto riguarda gli ausiliari, molte forme di avere derivano da forme ridottesi già nel latino volgare: HABEO > *AO > ho; HABES > *AES > hai; HABET > *AET > *AT > ha; HABEMUS > avemo (poi abbiamo); HABETIS > avete; HABENT > *AENT > *ANT > ha o han (poi hanno). Per le forme di essere possiamo ricostruire la trafila seguente: S M > són -> sóno (con una -o di appoggio, analogica alla terminazione della I persona degli altri verbi); *S S (sostituito al classico S, con s- analogica sulla I persona) > sei (ma è stato recentemente dimostrato che la i fu introdotta posteriormente sull’originario sè, interpretato come se’); est > è; *S TIS (invece del classico ESTIS) > siete; S NT > són -> sóno (per analogia con la I persona). La forma siamo si è invece sostituita a un più antico semo derivato dal presente congiuntivo S MUS. Nei testi toscani antichi troviamo anche le forme di II e III pl. sete ed ènno (analogica sulla III singolare), mentre èi ‘sei’ o anche ‘è’ compare in testi non toscani. Per analogia con il presente, le terminazioni in -i della II persona singolare e in -no della III plurale furono estese a molti altri tempi e modi. L’imperfetto indicativo Questo tempo continua il corrispondente tempo latino, le cui desinenze -BAM/-BAS/-BAT/BAM S/-BAT S/-BANT, aggiunte alla vocale tematica (-A-, -E- e -I- < -IE-) hanno dato origine, secondo la normale evoluzione fonetica, alle forme italiane. La forma di I persona singolare terminava normalmente in -a: io amava, io aveva, io sentiva. Tale desinenza, viva tuttora in molti dialetti italiani, era la stessa della III singolare (egli amava, egli aveva, egli sentiva) e così, per distinguere meglio le due persone, nel fiorentino, già alla fine del Trecento, fu estesa alla I persona la terminazione in -o del presente (io amavo, io avevo, io leggevo). La tradizione grammaticale italiana, basata sui modelli letterari trecenteschi, impose la forma in -a alle scritture almeno fino all’Ottocento. Solo dopo la scelta manzoniana per l’uso fiorentino contemporaneo la forma in -o si è generalizzata, soppiantando definitivamente la forma in -a. In tutte le forme della seconda e della terza coniugazione, -eva , -iva, ecc.si ridussero nel fiorentino trecentesco a -ea, -ia, ecc.; la sincope della /v/, dovuta probabilmente a una dissimilazione in imperfetti come beveva, aveva, ecc. si estese all’intero paradigma (bevea, avea, credea, sentia, rimaste vive a lungo nella lingua letteraria); poi però il modello della prima coniugazione, dove la riduzione non si era avuta (per evitare la sequenza di due /a/), influì sulle altre due classi verbali, che ripristinarono la /v/. Mentre il verbo avere si presenta all’imperfetto del tutto regolare, il verbo essere nelle tre persone singolari e nella III plurale continua le forme latine ( RAM, RAS, RAT, RANT), con le già rilevate particolarità fonetiche (assenza di dittongamento) e morfologiche (sostituzione di o invece di -a alla I persona, terminazione in -i alla II, in -no alla III plurale), nelle prime due persone del plurale si è avuto, per analogia con gli altri imperfetti, l’inserimento di -va-: ERAMUS > eravamo; ERATIS > eravate. Il passato remoto Si tratta del tempo morfologicamente più complesso dell’indicativo. In latino il perfetto aggiungeva al tema del presente una /w/ (AMA-T/AMA-V-IT) o ne modificava la vocale (FACIO/FECI; V NIT/V NIT) o anche la consonante (M TTO/M SI). In italiano distinguiamo anzitutto tra i verbi che presentano nella I persona singolare e nella III singolare e plurale, come si verifica sempre nelle altre persone, forme rizoatone (non accentate sulla radice) e quelle che invece hanno forme rizotoniche (accentate sulla radice), detti perfetti forti. Nel primo caso, proprio dei verbi regolari derivati dalla I e dalla IV coniugazione latina, possiamo ricostruire le seguenti trafile: AMA(V) > amai e AUD (V) > udii (la caduta di /v/, che si aveva già nella IV coniugazione del latino classico in AUDII si è estesa per analogia alla I coniugazione); AMA(VI)STI > amasti e AUDI(VI)STI > udisti (con sincope di /vi/ e ritrazione dell’accento); AMAV(I)T > AMAU(T) > amò e AUTIV(I)T > AUDIU(T) > udìo -> udì (per analogia con la forma precedente); AMA(VI)M S > amammo e AUDI(VI)M S > udimmo (probabilmemte con allungamento compensativo di /m/); AMA(VI)ST S > amaste e AUDI(VI)ST S > udiste (con sincope di /vi/ e ritrazione dell’accento); AMA(VE)R NT > amàrono e AUDI(VE)R NT > udìrono (con accento sulla terzultima attestato già nel latino parlato, sincope di /ve/ e aggiunta della solita terminazione in -no). Le forme originarie della III persona plurale erano amaro e udiro, del resto sopravvissute a lungo nella lingua letteraria, specie poetica; l’aggiunta della terminazione in -no del presente determinò anche la caduta della vocale precedente (amarno e amorno, da amorono, con dissimilazione vocalica, udirno, frequenti a Firenze specie fra Quattro e Cinquecento). Su questo schema si sono modellate, abbandonando le basi latine, non solo le forme di II persona singolare e plurale e di I persona plurale di tutti gli altri i verbi (che quindi presentano, in queste persone, lo stesso tema del presente) ma anche alcuni verbi in -ere (per es. battere: battei, battesti, batteo -> batté, battemmo, batteste, batterono). Nel caso dei perfetti forti, spesso le forme italiane mantengono, alla I e alle III persone, le variazioni tematiche proprie del latino (ma la di - R NT si abbrevia, con ritrazione dell’accento). Abbiamo così per esempio feci, fece e fecero (< F C , F C T, FEC R NT); dissi, disse e dissero (< D X , D X T, DIX R NT), ecc.; vidi, vide e videro (< V D , V D I, V DER NT); diedi, diede, diedero (< D D , D D T, D D R NT; abbiamo però anche detti, dette e dettero, per analogia con stetti), ecc. Il futuro e il condizionale Le forme di futuro del latino classico non ebbero continuazioni nel mondo romanzo. Per spiegare il fenomeno sono state invocate soprattutto cause d’ordine fonetico e morfologico: le forme in -BO/-BIS ecc. della I e della II coniugazione, in seguito all’esito B > /V/, avrebbero potuto confondersi con quelle del perfetto o dell’imperfetto; quelle in -AM/-ES della III e della IV non si distinguevano a sufficienza dalle forme del presente indicativo o congiuntivo. In ogni caso, il futuro italiano, come quello di molte altre lingue romanze, ha origine perifrastica: è costituito dall’infinito (apocopato della /e/) seguito dalle forme, ridotte, del presente di HABERE (STARE HABEO lett. ‘ho da stare’ > STARE *AO > starò), che sono diventate morfemi legati al verbo (-ò, -ai, -à, -emo, -ete, -anno): da un paradigma originariamente analitico sono dunque derivate forme flesse. Dal punto di vista fonetico, nella prima coniugazione la /a/ dell’infinito è passata a /e/: amerò, canterai, ecc.; nella seconda e terza la vocale tematica (/e/ o la /i/) dell’infinito è talvolta caduta, determinando anche assimilazioni consonantiche (avrò, morrà, rimarrai, verrete, ecc.). Il futuro di essere (sarò, sarai, ecc.), infine, è molto probabilmente modellato su quello di stare; la forma antica e letteraria fia ‘sarà’ deriva da F ET, futuro di F O ‘diventare’. Il condizionale è un modo sconosciuto al latino e costituisce dunque un’innovazione romanza. Il condizionale del toscano, e poi dell’italiano, è perifrastico ed è costituito dall’infinito seguito dalle forme ridotte del perfetto di HABERE (STARE HABUI lett. ‘ebbi a stare’ > STARE *HEBUI > STARE EI > starei), che hanno formato le desinenze -ei, -esti, -ebbe, emmo, -este, -ebbero. È evidente la somiglianza con il futuro (col quale il condizionale condivide alcune particolarità fonomorfologiche: amerei, avresti, verrebbe, saremmo,ecc.); del resto il condizionale sembra caratterizzarsi anzitutto come futuro del passato. La lingua poetica conosce, almeno fino all’Ottocento, anche un’altra forma di condizionale: quella in -ia (saria ‘sarei, sarebbe’, potrieno ‘potrebbero’, ecc.). Questo condizionale è derivato dall’infinito seguito dalle forme ridotte dell’imperfetto di HABERE. Possiamo ricostruirne l’esito: DARE HABEBAM lett. ‘avevo da dare’ > DARE *EA > darea (attestato in Guittone d’Arezzo) > daria (per chiusura in iato o, più probabilmente, per influsso del vocalismo dei poeti siciliani, che peraltro avevano probabilmente mutuato questa forma dal provenzale). In siciliano, come in altri dialetti del Meridione, è diffuso anche un altro tipo di condizionale, formato dal piuccheperfetto indicativo latino: CANTA(VE)RAM > cantàra, F (E)RAT > fora, che ha lasciato anch’esso qualche traccia nell’uso letterario, specie antico. Il congiuntivo presente e imperfetto Il congiuntivo presente italiano continua le forme latine: cadute le consonanti finali, al singolare manca la distinzione di persona: abbiamo così la desinenza in -a (< -EAM, -AM, IAM) per la seconda e la terza coniugazione (la II persona singolare era originariamente in -e per l’azione palatalizzante di -s), mentre la prima ha la desinenza in -i, sviluppatasi da un originario -e (< -ET: AMET> ame -> ami) per analogia sulla II persona (dove la -i si spiega ancora come palatalizzazione da -s). Le desinenze -EAM, -IAM hanno determinato, come nel presente indicativo, lo sviluppo di /j/ palatalizzante con conseguente varietà di forme etimologiche o analogiche: VIDEAT > veggia, vegga o veda; VALEAT > vaglia o valga, ecc. Nella II e III persona plurale sono state generalizzate a tutte le coniugazioni e anche al verbo essere le desinenze -iamo (< -EAM S, -IAM S), poi estesa anche all’indicativo, e -iate (<-EAT S, -IAT S): amiamo, amiate, siamo, siate, ecc. Nel verbo essere anche le forme del latino classico SIM, SIS, SIT, SINT furono sostituite da quelle, analogiche, *SIAM, *SIAS, *SIAT, *SIANT, da cui sia, sie (poi uniformatosi alle altre persone singolari), sia, sian(o). Al posto del congiuntivo imperfetto latino (AMAREM, VIDEREM, LEGEREM, AUDIREM): l’italiano ha utilizzato le forme del piuccheperfetto latino (-ISSEM, -ISSES, ecc.), applicate però non ai temi del perfetto, ma a quelli del presente (da FECISSET non *fecesse ma facesse) e dunque, nella I coniugazione, con sincope di -VI- e ritrazione d’accento: AMA(VI)SSET > amasse. Troviamo la -i non solo alla II persona, ma anche alla I, per analogia sulla II o anche sulla I del passato remoto, sulle cui terminazioni si sono modellate pure la II (che è anzi formalmente identica) e la III persona plurale. Nel verbo essere si è avuta la sincope della i: F (I)SSEM> fossi, ecc. La forma fusse, propria di molti dialetti, ma documentata anticamente pure in Toscana, è stata spiegata per analogia con fu. L’imperativo Le forme italiane derivano dalle corrispondenti latine: AMA > ama; AM TE > amate; V D TE > vedete (e, per analogia, leggete < *LEG TE < LEG TE); AUDI > odi; AUD TE > udite. V D > vedi e LEG > leggi si spiegano per analogia con odi e con il presente indicativo. Si sono conservati gli imperativi irregolari latini D C > di’ e F C > fa’; su questi (e sui regolari sta’ < STA e da’ < DA) sembra essersi modellato va’ (< VADE). Nel caso di di’ l’apostrofo serve solo a distinguere l’imperativo di dire da dì ‘giorno’ e dalla preposizione di; le grafie fa’, sta’, da’ e va’ , invece,si possono giustificare anche come riduzione del dittongo nelle forme fai stai, dai e vai: si tratta di un’estensione all’imperativo della II persona dell’indicativo, avvenuta a Firenze in epoca piuttosto recente e accolta nell’italiano moderno. Diverso è il caso dell’imperativo negativo di II persona, che in latino era formato con NE + congiuntivo perfetto o con NOLI + infinito: in italiano (e questa costituisce una particolarità della nostra lingua) si costruisce con non + infinito (non fare), forma documentata già in testi tardolatini. Il participio presente e il gerundio Il participio presente latino ha perso in italiano la propria funzione verbale (recuperata nella lingua letteraria e tuttora possibile in registri molto formali) e ha valore aggettivale, spesso sostantivato. Come i nomi e gli aggettivi, deriva al singolare dalla forma dell’accusativo: AMANTEM/-ES > amante/-i, POTENTEM/-ES > potente/-i; OBOENDIENTEM/-ES> ubbidiente/-i. Del gerundio, che in latino costituiva la “declinazione” dell’infinito, si è conservata la forma del dativo e ablativo in -o (AMANDO ‘con l’amare’ > amando; LEGENDO ‘col leggere’ > leggendo; DORMIENDO > dormendo), con nuovi valori sintattici. Il participio passato Si tratta di una forma verbale che in italiano è molto importante perché, come si è accennato, si utilizza, insieme agli ausiliari, nei tempi composti e nella forma passiva: si spiega anche per questo come l’italiano abbia provvisto di participio passato anche molti verbi latini che ne erano privi (anche perché in latino questo participio aveva solo valore passivo). In combinazione con l’ausiliare essere (o nell’uso assoluto), il participio passato presenta l’accordo di genere e di numero col soggetto (le sue desinenze sono -o/-a/-i/-e); col verbo avere, in determinati casi, si accorda all’oggetto. Dal punto di vista morfologico, questo participio ha caratteristiche simili a quelle del passato remoto, perché presenta sia forme rizotoniche sia forme rizoatone. Queste ultime, proprie dei verbi regolari, si ottengono con l’aggiunta al tema del presente delle desinenze -ato, -ito e -uto (derivate dalle corrispondenti forme latine: AM TUM > amato; AUD TUM> udito; F T TUM > fottuto); l’ultima desinenza ha preso il posto del latino - TUM nei verbi della II coniugazione che avevano il perfetto in -UI (HAB TUM > *HABUT M > avuto; DEB TUM > *DEB TUM > dovuto) e poi si è estesa a molti verbi in -ere (veduto, cresciuto, ecc.) e anche in -ire (venuto, ant. feruto). Queste stesse desinenze hanno formato anche participi non esistenti in latino, come stato, voluto, potuto, saputo, ant. (es)suto (participio di essere, poi sostituito da stato). Le forme rizotoniche muovono invece dai participi latini in -TUM (FACTUM > fatto; LECTUM > letto; D CTUM > detto; SCRIPTUM > scritto, ecc.) e da quelle latine in -SUM (M SSUM > messo; PREHENSUM > preso, ecc.), ulteriormente estese (mosso, parso, perso accanto a perduto). Tra gli altri participi sono da ricordare almeno nato (< NATUM), morto (< MORTUUM, con dileguo di /w/), vinto (< VICTUM, dove la /n/ si spiega per analogia col resto del paradigma vinco, vincere). Le numerose forme sincopate in -sto derivano da -S TUM, con sincope vocalica (QUAES(I)TUM > chiesto; POS(I)TUM > posto), o sono analogiche (visto, rimasto, ma anticamente c’è anche rimaso). Anche altri participi latini in - CTUM e in - TUM si presentano sincopati (COL(LEC)TUM > colto; POR(REC)TUM > porto; VOL(U)TUM > vòlto). I participi in -uto erano anticamente più estesi, come nei dialetti meridionali. L’antico toscano sviluppò inoltre, nella prima coniugazione, alcune forme accorciate di participio passato probabilmente analogiche sulle forme rizotoniche, come trovo ‘trovato’, cerco ‘cercato’, ecc.; alcuni di essi sono tuttora usati, col solo valore aggettivale: tócco ‘toccato, sciocco’, guasto, desto. Preposizioni e avverbi L’italiano ha sviluppato l’uso delle preposizioni al posto del sistema dei casi del latino classico. Delle preposizioni del latino classico sono state conservate D> a, D > de -> di; C M > con; N > en -> in; P R > per; S PRA > sopra; C NTRA > contra -> contro; NTRA > tra; NFRA > fra; S BTUS > sotto; AP D > ant. e lett. appo ‘presso’, ecc. Non hanno, invece, continuatori E(X) ‘da’, OB e PROPTER ‘a causa di’, PRO ‘in favore di’, SUB ‘sotto’, ecc. Molte altre preposizioni italiane si sono inoltre formate combinando una o più preposizioni latine: è il caso di da (< D B e forse anche D D, quando indica il moto a luogo: vieni da me), dopo (< D P ST), davanti (< D B NTE), dinanzi (D N *ANTEIS), dietro (< D R TR ), ecc. Altre derivano, con particolari slittamenti semantici, da avverbi, aggettivi o nomi latini, come fuori (< F R S), presso (<PRESSE ‘strettamente’), vicino (<VICINUM ‘dello stesso villaggio’), senza (<(AB)SENTIA ‘in mancanza’), ecc. Altre preposizioni ancora derivano da locuzioni italiane formate da preposizione + nome (accanto da a + canto, ecc.). Per quanto riguarda gli avverbi, segnaliamo anzitutto quelli di luogo: da (IL)L C e (IL)L C derivano lì e là, e anche colì e colà, composti con *(EC)C (M), come pure costì e costà, propri solo dell’uso toscano. Altri composti avverbiali con *(EC)C (M) sono qui <*(EC)C (M) (H) C, qua <*(EC)C (M) (H) C, quivi <*(EC)C (M) B , così <*ECC (M) S C. Da *ECC M si è avuto anche ecco, considerato anch’esso avverbio, ma che ha la particolarità di combinarsi anche con pronomi clitici (èccomi, èccola). All’esito di S RS M > suso -> su (anche preposizione) corrisponde quello dell’opposto DE RS M > gioso -> giuso -> giù. Molti avverbi di tempo latini si continuanoin italiano: SEMPER > sempre; IAM > già, H R > ieri, sul cui vocalismo finale si sono modellati oggi < H D e domani <DE MANE, in origine ‘di mattina’; anticamente era conservato CRAS > crai (con vocalizzazione di -S), rimasto vivo in molte aree dialettali; valore avverbiale hanno assunto anche l’ablativo H R > ora e le locuzioni HANC H R M > ancora e AD ( L)L (M) H R M > allora. Da MAGIS ‘più’ deriva mai. Degli avverbi derivati da aggettivi, le desinenze avverbiali latine -e e -iter non hanno in genere avuto continuatori (pure ‘puramente’ è diventato congiunzione); come del resto già avveniva spesso nel latino classico, un valore avverbiale si è sviluppato dal neutro (MULTUM > molto; PAUCUM > poco; TANTUM > tanto; SOLUM > solo, ecc.). Molti avverbi sono stati formati poi con aggettivi femminili seguiti da mente, ablativo di MENS (LAETA MENTE ‘con mente lieta’, con riferimento a esseri animati), che come si è detto, finì col grammaticalizzarsi, combinandosi con tutti gli altri aggettivi (solamente, lungamente) e perdendo il riferimento a esseri umani. Nell’italiano antico e nella lingua letteraria almeno fino al Cinquecento, la forma non era del tutto grammaticalizzata: a due aggettivi coordinati poteva legarsi un solo mente: villana ed aspramente (Novellino). Interiezioni e ideòfoni Queste due parti del discorso sono un po’ ai margini del linguaggio. Si tratta di elementi grammaticali che hanno per lo più valore olofrastico, possono cioè avere il significato di un’intera frase e che non derivano dal latino. Hanno matrice latina l’affermazione sì <S C ‘così’, propria dell’intera area italiana, e la negazione no <N N. Gli ideòfoni, che imitano rumori, sono pure onomatopee (din); le interiezioni hanno piuttosto origine espressiva (ahi!) o derivano da altre parti del discorso usate con valore esclamativo (bene!, già!). Molte interiezioni figurano già nei testi antichi; tipiche del linguaggio letterario sono deh!, gnaffe! (<- mia fè ‘in fede mia’, voce fiorentina), ohibò! Sintassi Aspetti della frase semplice L’ordine delle parole Il latino classico, grazie alla sua ricchezza morfologica, poteva disporre le parole all’interno della frase con grande libertà: le desinenze permettevano, infatti, di ricostruire facilmente i rapporti sintattici, stabilendo quale elemento svolgesse la funzione di soggetto e quale di complemento. Se, limitandoci a esaminare i rapporti tra il verbo, il soggetto e il complemento oggetto, prendiamo una frase significante “Mario vide Claudio”, la sua espressione in latino poteva essere, a seconda dei contesti e senza sostanziali differenze di significato, una delle seguenti. MARIUS VIDIT CLAUDIUM MARIUS CLAUDIUM VIDIT CLAUDIUM VIDIT MARIUS CLAUDIUM MARIUS VIDIT VIDIT CLAUDIUM MARIUS VIDIT MARIUS CLAUDIUM. Di solito, il verbo era posto alla fine della frase. Nel latino volgare, con il collasso dei casi, la posizione delle parole acquistò, invece, un ruolo essenziale per stabilire i legami sintattici: il soggetto andò a occupare la posizione prima del verbo per distinguersi chiaramente dal complemento oggetto, posto dopo il verbo, secondo il modello detto SVO (Soggetto-Verbo-Oggetto), comune a gran parte delle lingue romanze, compreso l’italiano. Nella frase italiana (o meglio nel nucleo della frase, costituito dal verbo e dagli argomenti che ne completano il significato, come il soggetto e i complementi direttamente legati al verbo) l’ordine SVO è tuttora quello più frequente (è detto infatti ordine normale o non marcato). Il soggetto viene solitamente premesso al verbo (anche nel caso di verbi intransitivi o con oggetto non espresso). Analizza gli esempi seguenti. Pietro guarda Maria negli occhi. Il capitano diede l’ordine ai soldati. Giovanni è partito. Francesco va a Roma tutti i giorni. Rispetto alle altre lingue, però, l’italiano ha mantenuto (o forse piuttosto ha recuperato) una maggiore libertà nell’ordine delle parole, dipendente dalla funzione che i diversi elementi svolgono all’interno del discorso: l’italiano tende a costruire “da sinistra”, ponendo ad apertura di frase gli elementi “tematici” (presenti già nel contesto precedente o dati dal contesto situazionale) e poi quelli “rematici”, portatori di informazioni nuove. Così, la frase semplice italiana può essere aperta anche dal verbo a cui è posposto il soggetto oppure da un complemento indiretto, se questi costituiscono il punto di partenza dell’informazione. Analizza gli esempi seguenti. È arrivato Giovanni. A Francesco nessuno ha detto nulla. Di politica non mi interesso. In italiano antico, e poi a lungo nell’uso letterario, anche il complemento oggetto può essere anteposto al verbo, almeno nei casi in cui non c’è il rischio di ambiguità semantica. Analizza gli esempi seguenti. Abele uccise Caino. I denari restituì la donna ai creditori. Tale costrutto è ancora possibile nello scritto, per esempio nella prosa burocratica: Tale avviso riceveranno tutti i condomini. Ma nell’italiano contemporaneo, specie parlato, l’oggetto può occupare quella posizione solo se costituisce un elemento nuovo, focalizzato anche dall’intonazione: La carne ha mangiato il gatto (e non il riso preparato per lui). Altrimenti, l’oggetto diretto anteposto, se ha valore “tematico”, viene normalmente ripreso da un pronome clitico (è il fenomeno della dislocazione a sinistra) ed è possibile anche anticipare con un clitico il complemento in posizione postverbale (dislocazione a destra). Analizza gli esempi seguenti. La carne l’ha mangiata il gatto. L’ha mangiata il gatto, la carne. Anche in italiano antico le dislocazioni sono documentate. Una dislocazione a sinistra è presente, sia pure in una subordinata, nel primo documento datato dell’area italiana, il Placito capuano del 960: Sao co kelle terre […] le possette parte Sancti Benedicti (‘So che quelle terre … le possedette la parte di S. Benedetto). La ripresa clitica non era, però, obbligatoria anche se l’oggetto aveva valore di tema, come nell’esempio seguente: La terra tengono li cristiani (Il Milione). L’italiano scritto tradizionale ha poi seguito spesso (soprattutto dal Boccaccio in poi) il latino nella disposizione delle parole, collocando il verbo alla fine della frase (anche l’ausiliare dopo il participio o il modale dopo l’infinito). Analizza gli esempi seguenti. Tito […] ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva (Decameron). Messere, io lavato l’hoe [= l’ho] (Novellino). con quegli piaceri che aver poteano (Decameron). L’espressione del pronome soggetto (e dell’oggetto) Il latino non premetteva al verbo i pronomi personali soggetti, se non in particolari contesti sintattici o con specifici valori stilistici, anche perché la ricca flessione verbale già da sola distingueva le varie persone. In molte lingue e dialetti romanzi, come il francese e i dialetti settentrionali italiani, l’espressione del soggetto è, invece, diventata obbligatoria. L’italiano presenta la stessa caratteristica del latino classico, ma la “cancellazione” del pronome soggetto sembra costituire uno sviluppo interno della nostra lingua e non un caso di diretta conservazione dal latino: nei testi toscani antichi il pronome soggetto tendeva infatti all’obbligatorietà, propria anche del fiorentino moderno (che ha sviluppato anche l’uso dei pronomi soggetti clitici). Analizza l’esempio. Voi sapete bene che voi foste figliuolo del cotale padre (Novellino). Anticamente, inoltre, il soggetto era necessariamente espresso nella frase interrogativa, dove andava a porsi dopo il verbo (e, nelle forme composte e nelle perifrasi, dopo l’ausiliare o il modale). Osserva l’esempio proposto. Dunque hai tu patito disagio di denari? o perché non me ne richiedevi tu? (Decameron) Nell’italiano contemporaneo, invece, la frase interrogativa si riconosce anche solo dalla diversa intonazione rispetto alla frase affermativa (e, nello scritto, dal punto interrogativo, il cui uso si sviluppò e si diffuse soltanto con la stampa). Particolarmente complessa è inoltre la storia dei pronomi di III persona: le forme oblique lui, lei e loro, originariamente riservate ai complementi, già nel corso del Trecento si andarono diffondendo (soprattutto in certe posizioni sintattiche e con valori particolari di tema o di rema) anche come soggetti, a spese di egli, ella, ecc.; furono però a lungo evitate nelle scritture in seguito alle indicazioni dei grammatici, che volevano che si mantenesse l’uso dei grandi trecentisti. Una svolta decisiva si ebbe anche in questo caso col Manzoni, che adottò queste forme nel testo definitivo dei Promessi Sposi. Da segnalare, infine, che – come avveniva in latino – in italiano antico era possibile omettere l’oggetto pronominale, riprendente quello della principale, in frasi coordinate o in risposte a frasi interrogative: ciascuno prese un poco di terra e si mise in bocca (oggi si direbbe ‘se la mise’) (G. Villani); or non avesti la torta? Messer sì: ebbi (‘la ebbi’) (Novellino). Anche il lo anaforico di un aggettivo anticamente non veniva di solito espresso: Chi vuol esser lieto, sia (oggi si direbbe ‘lo sia’) (Lorenzo il Magnifico). La posizione dei clitici Presentano notevoli particolarità sintattiche, anche in prospettiva storica, i pronomi atoni. Nell’italiano moderno essi seguono obbligatoriamente il verbo (enclitici) solo nelle forme infinite e nell’imperativo, dove si saldano anche graficamente al verbo (andarsene, presala per mano, vedendoti, fammi un piacere, ditelo; nell’imperativo negativo accanto a non farlo! si può avere non lo fare! e la stessa cosa avviene con i verbi modali: ti voglio dare e voglio darti), altrimenti lo precedono (proclitici). Anticamente la situazione era differente e, in particolare, vigeva la legge Tobler-Mussafia (così detta dagli studiosi, A. Tobler e A. Mussafia, che per primi la individuarono, rispettivamente nel francese antico e nell’italiano antico), secondo la quale i pronomi clitici non possono trovarsi ad apertura di frase (non Ti prego ma Priegoti; non Si narra, ma Narrasi), né dopo le congiunzioni e e ma (e dissegli ‘e gli disse’, ma videlo ‘ma lo vide’), né all’inizio di una principale preceduta da una subordinata (s’io non rivenisse, dara’li [‘li darai’] per l’anima mia, Il Novellino). In realtà la legge Tobler-Mussafia non veniva applicata rigidamente neppure in italiano antico (specie dopo e, ma e la subordinata) e le eccezioni, anche nello scritto, divennero sempre più abbondanti. Tuttavia i testi letterari, per ossequio alla tradizione, continuarono ad applicarla e anzi la estesero anche ad altri contesti (si tratta della cosiddetta “enclisi libera”). Resta come relitto nell’italiano contemporaneo nell’uso burocratico (leggasi, così dicasi) e scientifico (come volevasi dimostrare)e, per motivi “economici”, anche in quello commerciale (affittasi, vendesi, cercasi).Nel linguaggio poetico si è invece sviluppato, a partire dal sec. XVII, il cosiddetto imperativo tragico, che prevede anche con questo verbo il pronome in posizione proclitico: Mi parla! ‘parlami’. Un mutamento si è avuto anche nella posizione dei clitici tra loro combinati. Nel fiorentino duecentesco il complemento oggetto precedeva il complemento indiretto (lo mi) e tale ordine è seguito anche da Dante. Poi si sviluppò l’ordine opposto (me lo: si noti che in questa combinazione la /i/ passa a /e/), documentato, accanto all’altro, nel Boccaccio e destinato col tempo a prevalere. Altre particolarità Se ci riferiamo ad altre strutture sintattiche più specifiche, troviamo ancora differenze tra italiano antico e italiano moderno. Per quanto riguarda gli articoli determinativi, in italiano antico non si usavano, di norma, prima dei possessivi anteposti al nome (dove sono poi diventati quasi sempre obbligatori: mio nome invece che il mio nome), dopo tutto (tutta notte invece di tutta la notte), davanti a nomi astratti (libertà va cercando, Dante), a volte anche davanti a quale relativo (il cammino […] per qual io vado, Dante) mentre si usava la preposizione articolata invece del semplice di per il complemento di materia (la corona dell’oro e non d’oro). Per quello che riguarda l’accordo sintattico, infine, in italiano antico è spesso ammesso un verbo al singolare con un successivo soggetto plurale (fu fatto beffe di loro); anche il participio passato resta spesso invariabile se retto dall’ausiliare essere (altra di lei non è rimaso speme, Petrarca) o usato assolutamente (veduto la grazia di lei), mentre se è retto dall’ausiliare avere si accorda con il complemento oggetto più spesso che non nell’uso moderno. Aspetti di sintassi del periodo Coordinazione e subordinazione Le frasi possono congiungersi tra loro in periodi più complessi mediante rapporti di coordinazione o di subordinazione: nel primo caso si parla di paratassi e nel periodo vengono accostate due o più frasi tra loro sintatticamente indipendenti, per lo più legate con congiunzioni coordinanti (come in italiano e, ma, poi, ecc.). Il secondo caso prende il nome di ipotassi e il periodo è costituito da una frase indipendente (la reggente o principale) e una o più frasi subordinate (o secondarie o dipendenti), legate alla principale grazie a congiunzioni subordinanti, che danno alla frase valori diversi (temporale, causale, finale, ipotetico, concessivo, ecc., come in italiano quando, mentre, perché, poiché, se, sebbene, ecc.) o in altro modo; le subordinate possono essere esplicite o implicite a seconda che il loro verbo sia di modo finito o infinito (in questo caso la subordinata può essere introdotta da preposizioni come a, di, per). Il latino classico faceva largo ricorso all’ipotassi e amava anzi periodi architettonicamente molto complessi, dove spesso le frasi subordinate, anteposte e posposte alla principale, reggevano a loro volta altre frasi subordinate. Naturalmente nel latino volgare strutture del genere non potevano essere contemplate: come avviene, in generale, nella lingua parlata, nel latino volgare la coordinazione è largamente preferita alla subordinazione, struttura che è più funzionale alla lingua scritta. Gran parte delle complesse strutture subordinative latine andarono perdute e le frasi subordinate vennero in ogni caso preferibilmente posposte alla principale. La sintassi del periodo propria del latino volgare (e delle lingue da questo derivate) subì insomma un processo di semplificazione, come risulta anche nei primi testi prosastici in volgare, fino al Duecento. Man mano che le lingue romanze si costituirono come lingue scritte recuperarono varie strutture di subordinazione. L’italiano, in particolare, proprio perché ha avuto per secoli un uso prevalentemente scritto, ha adottato ampiamente l’ipotassi e anche per questo riguardo la lingua della nostra tradizione letteraria si è allontanata dal parlato più che non quella di altre lingue, come il francese. Perdita dell’infinitiva e di varie congiunzioni latine Tra le frasi subordinate del latino, particolarmente frequente è la costruzione infinitiva (accusativo + infinito), usata per introdurre, dopo verbi come DICERE, NARRARE, VIDERE, SENTIRE, ecc. una subordinata con valore dichiarativo. Con certi verbi e in certi contesti, però, il latino classico poteva optare per una subordinata con il verbo all’indicativo, introdotta da QUOD o da QUIA. Questo costrutto è l’unico che sopravvive nel latino volgare e passa alle lingue romanze, compreso l’italiano, dove frasi del genere sono introdotte da che, la cui origine etimologica è peraltro discussa: c’è chi pensa a una diretta derivazione da QU (A), chi lo fa risalire a QU (D), come il pronome relativo, ipotizzando che la congiunzione, il relativo e l’interrogativo, già etimologicamente legati tra loro, si siano sovrapposti e confusi nel latino volgare. A una frase latina come DICO TE BONUM ESSE corrisponde in italiano dico che tu sei buono. Il costrutto con l’infinito (introdotto da di)è possibile in italiano solo con identità di soggetto (dico di essere buono; diversa è la struttura sintattica di frasi come ti chiedo di andare);con soggetto diverso (dico te essere buono)è attestato nei testi scritti, almeno a partire dal Trecento, ma oggi risulta molto arcaico. Nei testi antichi a volte si ha a volte l’ellissi del che, possibile in italiano moderno solo se il verbo della subordinata è al congiuntivo (credo sia ormai arrivato), a volte la sua ripetizione dopo un inciso. La frase relativa La frase subordinata più frequente, in ogni lingua, è la relativa, legata a un singolo elemento, nominale o pronominale, della reggente. Dei pronomi relativi latini passati all’italiano abbiamo già trattato in morfologia. Possiamo aggiungere che in italiano antico, la forma che poteva trovarsi al posto di cui, sia dopopreposizione (di che, in che), sia sostituendo l’intero gruppo preposizione + cui, per esempio con valore temporale (dove del resto è ammesso anche dall’italiano moderno), partitivo, o locativo: Era già l’ora che volge al desio… (Dante); Sono fratelli carnali, che l’uno ha nome Baia e l’altro Manga (Il Milione); Questa vita terrena è quasi un prato, / che ’l serpente tra’ fiori e l’erba giace (Petrarca) Questo avveniva soprattutto quando l’elemento della principale a cui è legata la relativa era preceduto dalla stessa preposizione che doveva precedere cui. Il che invece di preposizione + cui (o il quale) viene definito “polivalente” e può essere anche seguito da un pronome clitico: che ne, che ci, che gli,perfino che lo (o la, li, le) per il complemento oggetto, come in: Ombre […], / ch’amor di nostra vita dipartille (Dante). Questo tipo di relativa si ritrova, dopo la codificazione grammaticale, solo in scritture popolari, ma oggi è in espansione, soprattutto nel parlato spontaneo e informale. Si tratta di un’altra tendenza analitica contrapposta alla struttura flessiva (che/cui), che ha precedenti già nel latino tardo. In italiano antico, ma solo alla fine del Trecento e soprattutto nel Quattrocento, era possibile anche l’ellissi del che relativo, che poi non ha attecchito: quello ardire ebbe lui[‘che ebbe lui’] (Sacchetti). La paraipotassi In italiano antico i confini tra coordinazione e subordinazione erano più sfumati. In particolare, se una subordinata, esplicita o implicita, precedeva la principale (posizione che era, se non poco frequente, certo poco naturale), questa poteva essere introdotta da e o da sì. Si parla allora di paraipotassi, un costrutto molto diffuso nella poesia e nella poesia antica (dal Duecento al Quattrocento). Ecco qualche esempio: E quando ei pensato alquanto di lei, ed io ritornai a la mia debilitata vita (Dante). S’io dissi il falso, e tu falsasti il conio (Dante). Quando egli sarà tornato, sì saremo a llui (lettera senese). Anche i rapporti coordinativi tra le frasi dipendenti in italiano antico erano più liberi: in particolare a un gerundio poteva essere coordinato un verbo di modo finito e un infinito a una precedente subordinata esplicita. Si tratta, in generale, di costrutti popolareggianti, che anche per questo furono poi abbandonati. Lessico Premessa Il lessico è considerato il livello della sono i suoi legami con la realtà socioeconomiche, la crescita culturale relazioni con altri popoli sono elementi non nella morfologia o nella sintassi. lingua più esposto al mutamento, perché più forti extralinguistica: il cambiamento nelle condizioni e il progresso scientifico e tecnico, i contatti e le che hanno riflessi più evidenti sul piano lessicale che In realtà, le parole che costituiscono il cosiddetto lessico fondamentale, quelle che tutti i parlanti di una lingua conoscono perché rispondono ai bisogni più naturali e immediati, hanno normalmente una lunga durata nella storia di una lingua. Anche in italiano, gran parte del lessico fondamentale è documentato già al momento della costituzione della tradizione scritta, cioè al Duecento o al Trecento e in molti casi si tratta di parole che vivevano da secoli nel parlato, senza alcuna soluzione di continuità rispetto al latino volgare. Le introduzioni lessicali posteriori sono state consistenti soprattutto in determinati settori (scienza, tecnica, ecc.). Il mutamento linguistico riguarda il lessico non solo perché nuove parole entrano nell’uso (i cosiddetti neologismi) e viceversa vecchie parole ne escono (diventando arcaismi), ma anche perché molte parole già esistenti assumono nuovi significati, perdendo talvolta quelli originari (neologismi semantici). Le voci derivanti dal latino Introduzione Il nucleo del lessico italiano è costituito dal cosiddetto fondo latino, cioè dalle parole popolari, di tradizione diretta o ininterrotta, che dal latino sono passate nella nostra lingua, spesso rimanendovi stabilmente fino a oggi. Non tutte le voci di tradizione diretta esistevano già nel latino classico; in molti casi si tratta di parole formate nel latino volgare; altre voci del latino classico svilupparono nel latino volgare un significato diverso. Dalle parole popolari vanno tenuti distinti i latinismi, le parole dotte, che dal latino classico non sono passate al latino volgare e poi all’italiano (e dunque non sono rimaste sempre vive nell’uso parlato), ma sono state recuperate nel lessico italiano, anzitutto nella lingua scritta, in momenti diversi (dal Duecento a oggi) e sono state per lo più adattate, almeno in parte, al nuovo sistema fonetico e morfologico. Moltissime voci dotte si sono poi diffuse anche nel parlato e le usiamo tuttora continuamente, mentre alcune voci originariamente popolari o sono uscite definitivamente dall’uso oppure risultano oggi arcaiche o letterarie (pensiamo a PUS > uopo). Il lessico del latino volgare Il lessico del latino volgare presenta rispetto a quello del latino classico un’indubbia riduzione quantitativa, come del resto avviene normalmente nel parlato rispetto allo scritto. Il parlato spontaneo, infatti, non ha bisogno di ricorrere a sinonimi e non tocca, o tocca di rado, molti temi che vengono affrontati normalmente nello scritto; i termini astratti si solito non compaiono, perché quando si parla ci si riferisce piuttosto a cose concrete; al posto dei termini denotativi dello scritto formale, che indicano i fatti con almeno apparente oggettività, nel parlato si usano spesso parole connotative, che rivelano l’atteggiamento del parlante (favorevole o sfavorevole, di simpatia o antipatia) nei confronti delle persone o delle cose di cui si parla. Nel parlato, inoltre, compaiono termini più espressivi di quelli propri dello scritto: frequente, tra l’altro, è il ricorso agli alterati (diminutivi, accrescitivi, ecc.), che assumono diversi valori. Caratteristiche del genere si individuano anche nel lessico del latino volgare rispetto a quello del latino classico. Il latino volgare riduce drasticamente la ricchezza sinonimica del latino classico: tra parole dotate dello stesso significato (o di significati simili), in genere una sola riesce a sopravvivere e passa all’italiano: per es. tra VIR e HOMO, tra AGER e CAMPUS, tra CRUOR e SANGUEN prevalgono le ultime, da cui derivano uomo, campo e sangue; l’aggettivo PULCHRUM (qui e in altri casi si dà la forma dell’accusativo maschile) viene sostituito da BELLUM > bello, che originariamente era diminutivo di BONUM ‘buono’ e quindi più o meno equivalente al nostro ‘carino’. Prevalgono le parole più lunghe, dotate di maggiore consistenza: per esempio città deriva da CIVITATEM, accusativo di CIVITAS ‘città’ (intesa come complesso dei suoi abitanti), che prevale su URBS ‘città’ (in senso fisico: mura, strade, palazzi, ecc.); RES cede il posto a CAUSA > cosa. Tra i sinonimi tendono a scomparire anche quelli che presentano paradigmi irregolari: il verbo FERRE, per esempio, viene sostituito da PORTARE. Molte voci cadono perché, anche in seguito alle trasformazioni fonetiche, collidono formalmente con voci dotate di altro significato: la sparizione del sostantivo BELLUM ‘guerra’, sostituito da una voce di origine germanica, è messa in relazione al ricordato sviluppo dell’aggettivo BELLUM. Altre voci, scherzose o espressive, sostituiscono termini denotativi: a CAPUT > capo si affianca TESTA, propriamente ‘vaso di coccio’, secondo un trapasso metaforico rimasto vitale nei dialetti italiani (dove si hanno anche coccia e capoccia, che “incrocia” capo e coccia). La ricerca dell’espressività, insieme alla necessità di adoperare parole dotate di una maggiore corposità fonica, spiega perché si intensifichi l’uso dei diminutivi: il posto di AURIS è preso da AURICULA > orecchia (originariamente il significato era di ‘orecchiuccia’), quello di AGNUS da AGNELLUS > agnello (propriamente ‘agnellino’); in Toscana FRATER ‘fratello’ cede il posto a FRATELLUS ‘fratellino’ e FILIUS ‘figlio’ a *FILIOLUS ‘figlioletto’. Anche tra i verbi, sono spesso preferiti i derivati che esprimono, grazie a specifici suffissi aggiunti al tema del supino, valori iterativi o frequentativi (per indicare la ripetizione dell’azione) e che hanno il vantaggio di avere paradigmi più regolari: così CANERE cede a CANTARE, SALIRE a SALTARE (originariamente ‘saltellare’). Pure i verbi prefissati prevalgono non di rado sui verbi semplici e, come si è detto, vengono spesso “rianalizzati” (RÈNOVAT > rinnòva). Altri termini latini non si continuano nel latino volgare, dove vengono sostituiti da parole che, originariamente di significato diverso, ma appartenenti allo stesso àmbito concettuale e spesso dotate di maggiore espressività, hanno preso il loro posto in seguito a uno slittamento semantico: così FLERE ‘piangere’ cede a PLANGERE ‘battersi il petto in segno di lutto’, EDERE ‘mangiare’ a MANDUCARE ‘masticare’, EXERCITUM ‘esercito’ (poi recuperato per via dotta) a HOSTEM ‘nemico’, da cui è derivato l’ant. oste. Spostamenti semantici si hanno anche, per metonimia, in nomi indicanti parti del corpo: BUCCA ‘guancia’ sostituisce OS ‘bocca’; COXA ‘anca’ passa a significare ‘coscia’. Differenze areali nel lessico del latino volgare Il lessico del latino volgare presenta rispetto a quello del latino classico un’indubbia riduzione quantitativa, come del resto avviene normalmente nel parlato rispetto allo scritto. Naturalmente, la perdita di una voce può non avvenire sull’intero territorio romanzo: ci sono parole del latino classico continuate in una sola lingua neolatina o anche in un singola area dialettale. Se molte perdite sono state comuni, le sostituzioni sono spesso diverse: PULCHRUM ha ceduto a BELLUM in area italo-romanza e galloromanza (it. bello; franc. beau; prov. bel), ma nelle lingue ibero-romanze e nel rumeno il suo sostituto è stato FORMOSUM (sp. e port. hermoso; rum. frumos). Le diverse aree della Romania per esprimere gli stessi concetti effettuarono anche scelte diverse tra sinonimi (o quasi sinonimi) latini, oppure sostituirono voci latine con parole dialettali proprie del sostrato prelatino o con voci nuove, per effetto del superstrato o dell’adstrato. Dal punto di vista lessicale, infatti, il latino volgare era assai più differenziato che non sul piano morfologico. Possiamo verificare queste differenze anche nel territorio italo-romanzo. Se noi prendiamo un concetto come ‘cieco, privo di vista’ (oggi diremmo “non vedente”), vediamo che i dialetti toscani e mediani, così come i dialetti corsi e quelli della Sardegna settentrionale, hanno continuato il lat. CAECUS (cieco, ciecu, ciegu), mentre quelli altomeridionali e meridionali estremi (Sicilia esclusa) hanno continuato il lat. CAECATUS ‘accecato’ (cecato), tratto dal participio passato di CAECARE ‘accecare’; invece i dialetti settentrionali e quelli siciliani usano termini derivati dal lat. ORBUS, che letteralmente significava ‘privo di qualcosa’ (orbo, orbu, orp, orvu). In altre zone più ristrette si hanno ancora scelte diverse: i dialetti franco-provenzali della Valle d’Aosta hanno avuglio, che come il franc. aveugle, deriva dalla locuzione latina AB OCULIS ‘senza occhi’; alcuni dialetti piemontesi e provenzali usano borgn, derivato da una voce celtica o ligure; un’altra voce prelatina, di origine mediterranea, è alla base del sardo zurpu, mentre un dialetto calabrese usa sgravò, voce greca. Anche per il concetto di ‘lavorare’, le differenziazioni sono notevoli. Il verbo lat. LABORARE è continuato in Toscana (lavorare), in Corsica e nei dialetti “mediani di transizione” (lavorà) e in gran parte dell’area settentrionale, compreso Veneto e Friuli (lavorà, laurà, laurè, lavurèr); i dialetti mediani, altomeridionali e meridionali estremi (Sicilia esclusa) continuano invece il lat. FATIGARI ‘stancarsi’ (fatigà, faticà, faticari); in Piemonte, Valle d’Aosta, Sardegna, Sicilia ed estremo Sud della Calabria si hanno voci derivate dal verbo del latino popolare TRAPALIARE ‘tormentare’, derivato dal TRAPALIUN, uno srumento di tortura (travajé, traballai, travagghiari); infine, in alcuni dialetti del Salento si usa poiemume, dal greco polemèin ‘lottare’. Le scelte lessicali sono diverse, ma l’idea che il lavoro sia faticoso appare abbastanza generalizzata. Le parole nuove del latino volgare Il latino volgare presenta anche incrementi lessicali e, sfruttando ampiamente i meccanismi di derivazione già propri del latino classico, grazie a prefissi e, soprattutto, a suffissi (alcuni dei quali molto produttivi, come –IARE), forma nuove parole. Particolarmente notevoli, anche per i significati che hanno poi sviluppato, i nuovi verbi derivati da nomi, aggettivi e participi di altri verbi: da PASSUM ‘passo’ abbiamo passare ‘muovere un passo’, quindi ‘passare, attraversare’; da MONTEM ‘monte’, MONTARE ‘salire sul monte’, quindi ‘salire’; da ALTUM ‘alto’, ALTIARE ‘mettere in alto’, ‘alzare’; da CAPTUM ‘preso’, CAPTIARE ‘cacciare’. Inoltre, molti aggettivi e participi cambiano di categoria e divengono sostantivi, attraverso un procedimento di ellissi: strada deriva da (VIAM) STRATAM ‘strada lastricata’; mattino da MATUTINUM (TEMPUS). Mutamenti semantici Nel latino volgare avvengono anche molti spostamenti di significato. In alcuni casi essi si spiegano nel quadro della nuova economia “rurale” che si diffonde: l’abitazione non è più detta DOMUS – termine che sopravvive, col significato originario, nel sardo domu, e da cui deriva l’italiano duomo, col valore prima di ‘casa del vescovo’ (< DOMUS EPISCOPI, anche qui in seguito a un’ellissi) poi di ‘cattedrale’ – ma CASA ‘capanna’; EQUUS è sostituito da CABALLUS, che indicava originariamente solo il cavallo da tiro, e IGNIS da FOCUS (>fuòco), che indicava il focolare domestico; la MACHINA è identificata con la macina del mulino; il verbo MINARI ‘minacciare’ passa a MENARE ‘condurre’, dall’azione del portare il bestiame ai campi minacciandolo (da qui anche il valore di menare ‘picchiare’ in alcuni dialetti, tra cui il romanesco). Notevole è anche la trasformazione semantica prodotta dal cristianesimo, che già aveva introdotto in latino grecismi con nuovi significati, come ANGELUM > angelo (il senso originario della parola greca era ‘messaggero’) e MARTYREM > martire (propriamente ‘testimone’). Molto significativa, per esempio, è l’evoluzione di PARABULA, che da ‘similitudine’, attraverso i vangeli, passò a significare ‘parola’, scalzando VERBUM (le parabole di Gesù sono le parole per eccellenza) e formò il verbo PARABULARE ‘raccontare parabole’ e poi in generale ‘parlare’, al posto del classico LOQUI. Anche l’evoluzione CAPTIVUS ‘prigioniero’> cattivo si spiega con l’uso della parola in ambito cristiano (<CAPTIVUS DIABOLI ‘prigioniero del diavolo’). Il mutamento semantico comportò a volte allargamenti di significato (come nel caso, già citato, di CAUSA > cosa o di PARENTES ‘genitori’ > parenti), a volte restringimenti e specializzazioni, come per MULIER ‘donna’> moglie (la parola latina corrispondente era UXOR); non di rado si hanno passaggi a significati contigui, come per MITTERE ‘mandare’ > mettere; IUNGERE ‘unire’> giungere ‘ricongiungersi’ e quindi ‘arrivare’; PARERE ‘ubbidire’> parere ‘farsi vedere (non appena chiamati)’, quindi ‘apparire’ e poi ‘sembrare’; MAGIS ‘più’, ‘piuttosto’ > ma. I latinismi Premessa Oltre alle voci di tradizione diretta, molti altri termini di origine latina sono stati introdotti per via dotta, dal Medioevo a oggi, nel lessico italiano, che non poteva certo accontentarsi delle relativamente poche parole pervenute per via popolare. A molte parole pervenute per via popolare sono legati aggettivi relazionali di coniazione dotta e la diversa trafila spiega differenze fonetiche come mese e mensile, fiore e floreale, lido e litoraneo, ecc. Grazie al grande prestigio culturale del latino (che continuò per secoli a essere usato come lingua della chiesa, del diritto, delle scienze), il lessico latino ha costituito (assieme al greco) un serbatoio prezioso per il lessico italiano (così come, del resto, per tutte le lingue di cultura dell’Europa). I latinismi si sono perfettamente integrati nel sistema dell’italiano, anche perché hanno per lo più assunto veste fonomorfologica italiana. Ciò non si è verificato solo per i latinismi d’uso specialistico (voci del linguaggio medico o giuridico) e per quelli entrati tramite un’altra lingua straniera, che peraltro sono spesso, almeno dal punto semantico, coniazioni moderne (interim, ultimatum, referendum, solarium, ecc.). Gli allotropi Non di rado, da una stessa base latina sono derivate due (o anche più) parole italiane chiamate allotropi. Quando gli allotropi sono rappresentati da una voce popolare e da una dotta, la prima si riconosce perché è quella che si è più allontanata dalla base sia dal punto di vista formale (perché è stata soggetta alla normale evoluzione fonetica), sia nel significato (perché in genere ha avuto slittamenti semantici più accentuati); il latinismo, sebbene abbia subìto anch’esso, di solito, un adattamento alle strutture fonomorfologiche dell’italiano, resta più fedele alla base latina anche sul piano formale, oltre che nel significato. In molti casi, però, proprio i latinismi sono le parole della coppia oggi più diffuse e usate. Tra i numerosi allòtropi, citiamo alcuni esempi tra i più noti e comuni: abbiamo già citato gli sviluppi popolari da CAUSAM > cosa e MACHINA > macina; ma queste voci hanno gli allotropi dotti causa e macchina; dal lat. V TIUM si è avuto per via popolare vezzo e per trafila dotta vizio, come da D SCUM desco e disco, da F RIAM foia e furia, da ANGUSTIA angustia e angoscia, da C RCULUM cerchio e circolo, da AREAM aia e area, da PLÀTEAM piazza e platèa (in questo caso, come dimostra la diversa posizione dell’accento, si tratta di una ripresadel termine greco già mutuato dal latino). Le altre componenti lessicali Premessa Il lessico italiano si è arricchito, nel corso dei secoli, anche di parole tratte da altre lingue con cui la nostra è venuta in contatto per vicende politiche, economiche o culturali. Le voci straniere entrate in una lingua vengono dette forestierismi o prestiti. I germanismi Non sono prestiti in senso stretto, perché spesso entrati prima che i volgari italiani si costituissero come tali, i germanismi, le voci tratte dalle lingue delle varie popolazioni germaniche che invasero la nostra penisola dopo il crollo dell’impero romano. Mentre il lessico delle popolazioni che abitavano l’Italia prima della conquista romana ha lasciato nell’italiano poche tracce, limitate quasi esclusivamente alla toponomastica o agli elementi già assorbiti dal latino, l’apporto germanico è stato abbastanza consistente. I germanismi sono relativi anche a settori fondamentali del lessico; tra i nomi ricordiamo quelli che si riferiscono a parti del corpo umano (guancia, milza, anca, schiena, stinco), a cibi (brodo, zuppa) e oggetti di ambito domestico (roba, sapone, stalla, zolla, banco, balcone, fiasco, tappo, albergo, nastro, palla), anche a concetti generali (guerra, ricco) o astratti (astio); tra gli aggettivi spiccano quelli relativi ai colori (bianco, biondo, bruno, grigio); tra i verbi ricordiamo almeno guardare, rubare, recare, scherzare, guarnire. Spesso le voci germaniche hanno una forte connotazione espressiva (si pensi a zazzera, grinfia, arraffare, russare). Alcuni germanismi entrarono già nel latino imperiale; altri furono portati dai Goti; altri ancora dai Longobardi, il cui potere in Italia durò più a lungo; altri ancora, infine, risalgono all’epoca della conquista dei Franchi e quindi quasi a ridosso dei primi documenti in volgare. Molto dibattuta è l’attribuzione delle voci di origine germanica a ognuna di queste fasi, basata sull’estensione reale del termine e sulle sue caratteristiche fonetiche. Sebbene spesso riconoscibili anche dal punto di vista fonetico, per la presenza di foni o di sequenze di foni rari o sconosciuti al latino, almeno in certe posizioni (come il nesso labiovelare sonoro /gw/ all’inizio di parola, con cui venne adattato il w- germanico), i germanismi si sono integrati nel sistema fonomorfologico locale. I prestiti I grecismi (a parte quelli già entrati anticamente attraverso il latino e le relativamente rare parole importate dai Bizantini nel periodo medievale, come scala, catasto) sono stati introdotti prevalentemente in epoca moderna e per via dotta (e sono spesso propri del linguaggio scientifico internazionale). Gli arabismi si sono, invece, diffusi nel Medioevo anche attraverso il parlato: l’arabo ha dato infatti all’italiano numerose parole, tra cui voci relative a prodotti importati dall’Oriente (arancio, albicocca, carciofo, melanzana)o comunque all’ambiente commerciale (dogana, tariffa, ragazzo, facchino)e termini propri di àmbiti scientifici come la matematica (zero, cifra, algebra) o l’astronomia (zenit, nadir), dove gli arabi eccellevano. Al grande prestigio delle letterature d’oc e d’oïl e in genere della civiltà francese deve la notevole presenza di gallicismi (cioè di voci di origine francese o provenzale) nella lingua (e nella letteratura) medievale (dama, omaggio, mangiare, giardino, tovaglia); il francese ha poi continuato a dare all’italiano termini anche in epoca successiva, specie nel Settecento. L’influsso dello spagnolo è stato forte soprattutto nel Cinquecento. Molto limitati, nelle epoche posteriori a quella altomedievale, sono i prestiti dal tedesco e dalle altre lingue germaniche, a parte l’inglese, il cui influsso si concentra peraltro nell’età contemporanea, in particolare nel secondo Novecento. Spagnolo, francese, inglese e portoghese hanno fatto spesso anche da tramite per l’introduzione in italiano di voci di altre lingue europee e, soprattutto, esotiche. L’italiano ha sfruttato inoltre il prestito interno, arricchendo il suo lessico anche con voci tratte dagli altri dialetti parlati nella nostra penisola, che già dal Medioevo, e poi soprattutto dall’Unità in poi, hanno affiancato (e a volte sostituito) le voci toscane. Si parla in questo caso di dialett(al)ismi, che possiamo documentare con esempi come scoglio, che è di origine ligure, pizza, voce meridionale, giocattolo, parola veneziana che ha preso il posto del toscano balocco, ecc. Fino al secolo scorso, i forestierismi e i dialettalismi sono stati quasi sempre adattati al sistema fonomorfologico (e grafico) dell’italiano e dunque non sono riconoscibili formalmente (come i prestiti più recenti). Per le voci provenienti dalle altre lingue neolatine e dagli altri dialetti italiani, la prova della loro origine è data dalla diversa trafila fonetica rispetto alle basi latine: è un meridionalismo piccione <PIPIONEM; sono gallicismi le parole medievali uscenti in -aggio (selvaggio, messaggio, omaggio) dal latino –ACTICUM, che in toscano avrebbe dato -atico o -adego (poi -aggio è diventato un suffisso per formare nuove parole). Derivati e composti italiani Oltre ad assumere termini da altre lingue, il lessico italiano si è arricchito, fin dai primi secoli, con le cosiddette neoformazioni, cioè con parole nuove ricavate da voci già esistenti in italiano attraverso vari procedimenti, tra cui i più importanti sono la derivazione, che consiste nel formare parole nuove da parole esistenti con l’aggiunta di elementi a sinistra (prefissi) o a destra (suffissi) della parola che fa da base (è il caso di incapace, formato con in- + capace, di lavoratore, da lavorare + -tore) e la composizione, che si realizza accostando due parole già esistenti, che di solito vengono univerbate (cassapanca, gentiluomo, agrodolce, portafoglio).