Tracce per un`indagine su nesso di causalità e chance nell`ambito
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Tracce per un`indagine su nesso di causalità e chance nell`ambito
Tracce per un’indagine su nesso di causalità e chance nell’ambito della responsabilità civile di Francesco Tallaro 1. La concezione ontologica della chance. Le interferenze con la ricostruzione del nesso di causalità. E’ noto che laddove si parla di danno da perdita di chance, per chance si intende una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene della vita. La chance non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione (Cass. Civ., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 7943; nella giurisprudenza amministrativa, particolarmente significativa è Cons. St., Sez. VI, 14 settembre 2006, n. 5323). La concezione della chance accolta dal pensiero dominante è, dunque, di tipo ontologico. Si tratta di un’entità patrimoniale che, pur essendo riconnessa al bene della vita cui un soggetto aspira (la guarigione da una malattia, la promozione a mansioni lavorative più soddisfacenti, l’esito vittorioso di un giudizio, la stipula di un cantratto di lavoro), da questo si distingue. Nondimeno, il concetto di chance ha una pluralità di interferenze con la ricostruzione dogmatica del nesso di causalità. In primo luogo, l’elaborazione penalistica, soprattutto con riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, ha alcune volte ritenuto sussistente il vincolo causale tra l’omissione della condotta doverosa e l’evento lesivo sol che tale condotta omissiva abbia comportato un aumento del rischio di lesione del bene protetto, o una sua mancata diminuzione, o, ancora, un abbattimento delle chances di salvezza del medesimo bene (riferisce di tale tendenza, per criticarla, Cass. Pen., Sez. Un., 10 luglio 2002 – 11 settembre 2002, n. 30328, imp. Franzese). Dunque, la chance è stata utilizzata quale paradigma – superato, invero - per verificare l’esistenza del nesso di causalità tra il fatto illecito e l’evento dannoso. In secondo luogo, il ricorso al concetto di chance appare spesso essere funzionale all’intento di sfuggire all’impervia prova del nesso causale tra la condotta (contrattualmente o aquilianamente) illecita ed il danno lamentato, rifugiandosi verso lidi più tranquilli. Esemplificando, laddove non si possa dare la soddisfacente dimostrazione che il giudizio d’appello avrebbe sovvertito l’esito negativo della sentenza di primo grado, sicché la tardiva proposizione dell’impugnazione ha privato il litigante della vittoria, apparirà più semplice allegare (e conseguentemente tentare di provare) che l’errore del procuratore abbia vanificato le possibilità di vittoria. Ancora, il risarcimento del danno da chance perdita può essere utilizzato, come vedremo appresso, al fine di far emergere e valorizzare l’efficacia delle concause naturali alla verificazione dell’evento. Ed allora, come è stato acutamente osservato, la perdita di chance è sintagma ellittico che designa, da un lato, il tasso di incertezza connesso ai riscontrati bassi margini di probabilità di successo dell'accertamento del nesso di causalità tra comportamento illecito ed evento lesivo e, dall'altro, un'autonoma e specifica voce di danno. L'uno è riferito alla causalità e l'altro al pregiudizio. Sotto le mentite spoglie della chance si è trasformata la probabilità in danno: le incertezze emerse sul piano dell'accertamento del nesso di causalità si sono tradotte, recuperandole, in un diverso "tipo di pregiudizio". Si è verificato uno scivolamento dal piano della causalità a quello del danno (così T.A.R. Genova, Sez. II, 14 aprile 2010, n. 1653, con la soggiunta che il sindacato del giudice deve essere in proposito molto attento per evitare tale scivolamento). In dottrina (CASTRONOVO, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale, in Europa dir. priv., 2008, 322) si è sottolineato che il danno da chance perduta non è altro che un suggestivo modo per giustificare il risarcimento di un danno meramente patrimoniale «specificamente connotato dall'essere non certo ma soltanto in un certo grado probabile», di modo che quando l'interesse violato non abbia natura patrimoniale esso si configura come il mancato conseguimento di un risultato utile la cui derivazione causale da condotte commissive od omissive non è certa. Alla stregua di quanto sino ad ora illustrato, appare di interesse occuparsi del nesso di causalità, verificando in quale misura l’elaborazione sul danno da perdita di chance su di esso incida. Il presente lavoro, tuttavia, che non ha alcuna pretesa di esaustività, intende solo indicare alcune tracce per un’indagine, affidata alla sensibilità di ogni interprete, sul nesso di causalità e la chance. 2. I plurimi nessi di causalità Il tema della causalità è estremamente complesso. Pagina 2 di 19 In una pregiata pronunzia della Suprema Corte si possono apprezzare le seguenti considerazioni. “Vero è che la natura stessa della fattispecie del nesso di causa si presenta, come già questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass. 7997/2005) di per sé come un vero e proprio ossimoro fin dal momento in cui se ne predicano semplici quanto insopprimibili esigenze gnoseologiche. L'incipit di ogni indagine in tema di nesso causale, difatti, ne propone ad ogni passo "l'accertamento", ogni scritto sul tema della causalità anela "all'accertamento del nesso causale", muovendo così, del tutto inconsapevolmente, su di un terreno già assai scivoloso, se lo stesso sintagma "accertamento del nesso causale" cela una prima, latente insidia lessicale, dacché ogni "accertamento" postula e tende ad una operazione logico-deduttiva o logico-induttiva che conduca ad una conclusione, appunto, "certa"; mentre un'indagine, per quanto rigorosa, funzionale a predicarne l'esistenza sul piano del diritto, si arresta, sovente, quantomeno in sede civile, sulle soglie del giudizio probabilistico (sia pur connotato da un diverso livello di intensità, dalla "quasi certezza" alla "seria ed apprezzabile possibilità"). La questione del nesso causale in seno al sottosistema della responsabilità civile è, dunque, ancora ben lungi dal potersi ritenere avviata a soddisfacente soluzione” (Cass. Civ., Sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619). Pur nella consapevolezza della complessità della tematica, è indubitabile che, in tema di responsabilità civile, contrattuale o aquiliana, sia rilevante per il diritto una pluralità di nessi causali. Il paradigma della responsabilità civile, cioè l’art. 2043 c.c., prevede che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona agli altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Al fine di verificare se può esserci spazio per un risarcimento del danno, dunque, è necessario accertare se sussistono tre elementi: il primo è “il fatto doloso o colposo” quindi il comportamento illecito; il secondo elemento è costituito dal danno ingiusto che è il danno evento ossia la lesione provocata; ed infine proprio il danno da risarcire, che è il danno conseguenza. I tre elementi evidenziati devono essere uniti da un duplice nesso di causalità: - il primo tra fatto doloso o colposo e il danno-evento, che viene chiamato nesso di causalità materiale; - il secondo tra il danno evento e il danno conseguenza, cioè il danno risarcibile, detto nesso di causalità giuridica, che poi porta alla liquidazione e cioè alla determinazione del quantum da risarcire. Pagina 3 di 19 L’art. 1218 c.c., che dal canto suo disciplina la responsabilità da inadempimento delle obbligazioni, stabilisce che “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno”. In questa norma, almeno apparentemente, gli elementi da individuare al fine di risarcire un danno, non sono più tre come nell’art. 2043 c.c. ma due soltanto: da un lato abbiamo la non esatta esecuzione della prestazione, e cioè l’inadempimento, che è il fatto lesivo; dall’altro lato vi è il danno da risarcire, che è il danno conseguenza. In realtà, però, solo apparentemente gli elementi considerati dall’art. 1218 c.c. sono due; ed infatti, non può esservi il danno conseguenza se prima non vi sia una lesione, ossia il danno evento, il quale è legato al danno conseguenza da un nesso di causalità. Pur cambiando la norma di riferimento, quindi, non cambia il fatto che ci siano due nessi di causalità da tenere in considerazione. La Suprema Corte ha chiarito che occorre operare una netta distinzione: “da un lato sta il nesso, che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat); dall'altro, sta il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat)” (Cass. Civ., Sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619). Un paradigma normativo della distinzione è, in effetti, ravvisabile nei due commi dell’art. 1227 c.c. Il primo comma (“Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”), lascia chiaramente intendere che il legislatore ha preso in esame l'ipotesi in cui il fatto del creditore/danneggiato interviene a spezzare il legame, a monte, tra comportamento del soggetto agente ed evento, escludendo così la totale imputabilità del fatto all'agente, e limitando di conseguenza la responsabilità di quest'ultimo. Il comma secondo, al contrario (“Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”), chiarisce in che modo il fatto del creditore possa influire, a valle, sul diverso rapporto evento-danno, e cioè rendendo non più risarcibili talune delle conseguenze immediate e dirette dell'evento, nonostante sia già stata accertata la piena responsabilità del danneggiante, e sia già stato determinato il risarcimento attraverso il filtro dell'art. 1223 c.c. Ciò chiarito in termini di pluralità di nessi eziologici, la chance, intesa come autonoma entità patrimoniale, sembra rientrare nella categoria concettuale del danno conseguenza: la Pagina 4 di 19 vanificazione della possibilità di ottenere un determinato bene della vita costituisce la conseguenza pregiudizievole della lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Così, a titolo d’esempio, l’illegittima esclusione di un concorrente da una gara d’appalto lede l’interesse legittimo alla partecipazione alla gara (danno evento); da ciò scaturisce la conseguenza pregiudizievole (danno conseguenza) della vanificazione delle possibilità di ottenere la stipula del contratto d’appalto. Dunque, la chance (recte: la sua perdita) rappresenta l’elemento terminale della seconda delle processioni causali supra individuate, e cioè la causalità giuridica. Nondimeno, in alcuni esempi la perdita di chance appare più correttamente identificabile come danno evento, o quanto meno sintetizzare in un’espressione ellittica entrambe le categorie di danno. Così, in caso di omissione di cure doverose, incidente sulla chance di guarigione, il bene della vita leso non è la salute – atteso che non è in discussione se l’omissione abbia provocato il mancato superamento della malattia -, ma appunto la possibilità di migliorare la salute. Ma a ben vedere, non è dato scorgere un pregiudizio risarcibile diverso dalla perdita stessa delle chance di guarigione. L’istituto del danno da perdita di chance, per molti versi problematico, manifesta quindi difficoltà ricostruttive anche sotto il versante della sua posizione nelle processioni causali che connotano l’illecito civile. 3. Il versante soggettivo dell’illecito: la causalità nella colpa. Sebbene la chance sia concetto estraneo all’indagine dell’elemento soggettivo, sia ugualmente brevemente consentito di fare riferimento a tale versante dell’illecito. Ciò al fine di disvelare che l’estrema complessità del fenomeno risarcitorio prevede spesso anche la presenza di un terzo nesso di causalità (oltre quello materiale e quello giuridico), che deve congiungere la colpa (ove l’illecito sia imputato a tale titolo) e l’evento. Ed infatti, laddove l’illecito non sia doloso, il giudizio di disvalore sulla condotta tenuta dall’agente deriva da una violazione, da parte sua, delle regole generali di diligenza, prudenza, perizia; ovvero a causa della sua inosservanza di specifiche leggi, regolamenti, ordini o discipline. La responsabilità per colpa, quindi, si fonda sulla violazione di una regola cautelare. Tuttavia, occorre anche che la regola violata fosse diretta ad evitare quel tipo di evento che poi si è verificato: si parla, in proposito, di “concretizzazione del rischio” o “realizzazione del rischio” che richiede una verifica ex post sul rapporto tra evento concreto e norma Pagina 5 di 19 cautelare (Cass. Pen., Sez. IV, 17 maggio 2006 – 6 febbraio 2007, n. 4675, P.G. in proc. Bartalini e altri). Ricapitolando, perché vi sia colpa non è sufficiente una violazione di regole cautelari, in quanto è necessario che il danno che ne è scaturito sia la concretizzazione delle regole violate e del rischio che quelle regole cautelari volevano evitare; dunque, è necessario dimostrare il nesso di causalità tra la colpa e il danno, la c.d. causalità della colpa (Cass. Pen., Sez. IV, 23 aprile 2009- 22 settembre 2009, n. 36857, P.G. in proc. Cingolani). Quindi, per esemplificare, se un medico, nell’esecuzione della sua prestazione, abbia omesso di rispettare le regole di conservazione di un farmaco da somministrare ad un paziente nel corso di un intervento chirurgico, tale comportamento rappresenta certamente una violazione di una regola cautelare. Tuttavia, si immagini che nell’esecuzione dell’intervento chirurgico venga recisa l’arteria aorta e il paziente muoia. In tale caso è evidente come non vi sia alcun nesso di causalità tra quella specifica violazione di una regola cautelare e l’evento mortale. Dovrà, piuttosto, verificarsi che la recisione dell’arteria non si sia verificata in violazione di una diversa regola cautelare, volta ad evitare proprio un simile evento. La Cassazione penale ha sintetizzato tutto quanto espresso fino ad ora in varie massime, tra cui la seguente: “in tema di delitti colposi, ai fini dell’elemento soggettivo, per poter formalizzare l’addebito colposo non è sufficiente verificare la violazione della regola cautelare, ma è necessario accertare che tale regola fosse diretta ad evitare proprio il tipo di evento verificatosi, altrimenti si avrebbe una responsabilità oggettiva giustificata dal mero "versari in re illicita". Ne consegue che occorre verificare la c.d. concretizzazione del rischio, realizzazione del rischio che si pone sul versante oggettivo della colpevolezza, come la prevedibilità dell’evento dannoso si pone più specificatamente sul versante soggettivo e la relativa valutazione deve prendere in considerazione l’evento in concreto verificatosi, per accertare se questa conseguenza dell’agire rientrava tra gli eventi che la regola cautelare osservata mirava a prevenire” (Cass. Pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, sentenza Porto Marghera). 4. La causalità materiale. E’ noto che il sistema civilistico difetta di una specifica regolamentazione del nesso di causalità, onde gli strumenti normativi forniti all’interprete per verificare se vi sia connessione eziologica tra un fatto ed un evento (nesso di causalità materiale) sono forniti dal legislatore penale. Quest’ultimo, è pacifico oggi in dottrina ed in giurisprudenza, ha privilegiato, tra i molteplici orientamenti ricostruttivi del fenomeno causale, la teoria dell’equivalenza delle Pagina 6 di 19 condizioni, o della condicio sine qua non: deve intendersi per causa qualsiasi antecedente che ha prodotto un determinato evento. Depone in tal senso, ed in maniera inequivocabile, l’art. 42, comma I, c.p.: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento”. In altri termini, è causa ogni condizione necessaria, ossia ogni fatto la cui presenza è stata indispensabile per il verificarsi dell’evento. Per accertare l’esistenza del nesso condizionalistico, occorre utilizzare il procedimento di eliminazione mentale (la cosiddetta formula della condicio sine qua non): è causa di un evento ogni fatto che se eliminato, cioè non considerato, fa venire meno l’evento. Quindi, sono causa di un evento tutti quegli antecedenti storici senza i quali l’evento non si sarebbe verificato. Vi è, pero, che “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento” (art. 42, comma II, c.p.). Nella letteralità, la norma è di sconcertante banalità: è evidente che se il fatto B sia da solo idoneo a determinare l’evento C, allora il fatto A non può essere considerato antecedente eziologico dello stesso. In realtà, con espressione poco felice, il legislatore intende dire che vale ad interrompere il nesso causale quel fatto anomalo, imprevisto, che fa assumere alla processione causale una traiettoria prima sconosciuta, e non prevedibile. In tal senso ha chiarito il concetto la Suprema Corte: “Ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento (articolo 41, comma secondo, cod. pen.), il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento non si riferisce solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, giacché, allora, la disposizione sarebbe pressoché inutile, in quanto all'esclusione del rapporto causale si perverrebbe comunque sulla base del principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause di cui all'articolo 41, comma primo, cod. pen. La norma, invece, si applica anche nel caso di un processo non completamente avulso dall'antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta” (Cass. Pen., Sez. IV, 26 ottobre 2005-13 gennaio 2006, n. 1214, imp. Boscherini). 5. Il giudizio ipotetico controfattuale. Come già accennato, il metodo da adoperare ai fini della verifica del ruolo di antecedente necessario di un fatto rispetto ad un evento, postula il ricorso alla eliminazione mentale Pagina 7 di 19 del fatto su cui verte l’esame, onde controllare se l’evento dannoso sarebbe ugualmente insorto. E’ il noto giudizio contro fattuale (su cui, molto ampiamente Cass. Pen., Sez. Un., 10 luglio 2002 – 11 settembre 2002, n. 30328, imp. Franzese), articolato sul condizionale congiuntivo "se ... allora ..." (nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale "doppia formula", nel senso che: a) la condotta umana è condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana non è condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento si sarebbe egualmente verificato. Ciò osservato, è tuttavia evidente che, in tanto può affermarsi che, operata l'eliminazione mentale dell'antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, "già da prima", che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento. Perché ciò sia possibile, quindi per spiegare l’evento hic et nunc verificatosi, occorre fare ricorso all'esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero alla sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto "leggi scientifiche" esplicative dei fenomeni. Quindi, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – detta "legge di copertura" -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi "del tipo" di quello verificatosi in concreto. Occorre però osservare che il sapere scientifico è costituito sia dalle c.d. leggi universali, per cui ad un determinato fatto accede sempre un certo determinato evento, sia dalle c.d. leggi statistiche, le quali invece si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa. Tali ultime leggi (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di "alto grado di credibilità razionale" o "probabilità logica", quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili. Pagina 8 di 19 Peraltro, per accertare l'esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, spesso il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell'accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di "assunzioni tacite" e presupporre come presenti determinate "condizioni iniziali", non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, fermi restando gli ulteriori elementi, mantiene validità l'impiego della legge stessa. Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide assicura che il giudizio controfattuale, che potrebbe essere insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, rimanga ancorato a parametri oggettivi. 6. Giudizio ipotetico controfattuale e misura della probabilità. Date le caratteristiche del giudizio ipotetico controfattuale, occorre interrogarsi sulla misura della probabilità affinché possa essere ritenuta, sotto l’egida di una legge statistica, un nesso causale tra un determinato evento o comportamento e il danno. Nella giurisprudenza penale, che maggiormente si è interrogata sul tema, in particolare con riferimento al reato di omicidio colposo derivante da malpractice medica, è stato affermato che, specie quando sia in gioco la vita umana, è sufficiente che vi sia una qualche probabilità che l’intervento curativo omesso possa evitare l’evento lesivo affinché si possa affermare la sussistenza del nesso causale tra l’omissione e l’evento (Cass. Pen., Sez. IV, 7 gennaio 1983-12 maggio 1983, n. 4320, imp. Melis). Leggendo l’orientamento sotto la peculiare lente dell’indagine su cui il presente scritto si incentra, può rilevarsi come una simile giurisprudenza equipari la perdita o la diminuzione della chance, quale che fosse la sua entità, di ottenere il bene della vita ambito (nella specie: la guarigione), alla perdita del bene della vita stesso. Il concetto di chance, pur non espressamente invocato, viene perciò coniugato sotto il profilo eziologico. In altre occasioni, si è domandato un livello di probabilità connotato dalla serietà e dalla apprezzabilità (Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile 1987-2 aprile 1987, n. 8290, imp. Ziliotto; Cass. Pen., Sez. IV, 7 marzo 1989-12 maggio 1989, imp. Prinzivalli; Cass. Pen., Sez. IV, 23 gennaio 1990-5 giugno 1990, n. 8148, imp. Pasolini), salvo che tale requisito è stato alle volte riscontrato nel 20% di probabilità di sopravvivenza (Cass. Pen., Sez. IV, 12 luglio 1991-17 gennaio 1992, n. 371, imp. Silvestri e altri). Al contrario, alcune pronunce pretendono l’alta probabilità statistica (Cass. Pen., Sez. 4, 5 ottobre 1999-20 marzo 2000, n. 3567, imp. Hariolf). Pagina 9 di 19 Come noto, la soluzione alla questione è stata, in campo penalistico, trovata al di fuori del campo strettamente statistico: “Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso della legge statistica, la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale e probabilità logica. L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio” (Cass. Pen., Sez. Un., 10 luglio 2002 Ud. – 11 settembre 2002, n. 30328, imp. Franzese). I ragionamenti statistico-probabilistici, quindi, debbono cedere il passo al criterio della probabilità logica, alla stregua del quale il dato statistico (secondo cui ad esempio un certo errore al 90% è causa di un determinato evento) è solo un punto di partenza, ovvero un dato da calare nella realtà processuale concreta per verificare se lo stesso regga l'alea processuale, e quindi se ha corroborato, o al contrario frustrato, gli elementi processuali che sulla base di un giudizio controfattuale dimostrino o meno l’esistenza di ragioni causalmente alternative che possono spiegare, diversamente dall'errore, la verificazione dell’evento. Se così è, il concetto di chance, strettamente legato al dato statistico, non può che rimanere estraneo all’indagine sul nesso di causalità. 7. La causalità nel sistema civile L’elaborazione penalistica sul nesso di causalità trova applicazione anche nel giudizio civile, seppure con alcuni correttivi (Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, nn. 576-585). Infatti, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che no”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti. Peraltro, criteri enucleati sul versante oggettivo della responsabilità con riferimento al nesso di causalità materiale, si applicano, sul versante soggettivo dell’illecito, anche al fine di verificare l’esistenza del nesso di causalità tra colpa ed evento. Pagina 10 di 19 Nonostante la soglia probatoria della sussistenza del nesso causale sia, nell’ordinamento processuale civile, più bassa di quella prevista nell’ambito del giudizio penale, la multiforme complessità della realtà fare sì che ci siano molte ipotesi in cui non sia possibile raggiungere il livello dimostrativo richiesto del più probabile che no. In tale contesto, il risarcimento del danno da perdita di chance si inserisce come tecnica di tutela sussidiaria. Si immagini il caso – già ipotizzato - del procuratore che abbia lasciato decorrere i termini per il deposito dell’atto di impugnazione avverso una sentenza. In tale fattispecie l’alea del giudizio rende alquanto improbabile che il cliente dell’avvocato infedele possa dare dimostrazione che l’errore abbia vanificato, anche secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza, l’esito vittorioso del giudizio. Stessa considerazione può essere fatta con riferimento al candidato ad un concorso pubblico cui sia stato impedire di prendere parte alle prove concorsuali. In tali ipotesi, il soggetto danneggiato dal comportamento illecito potrò invece allegare e tentare di dare dimostrazione di aver perduto la chance di ottenere il bene della vita ambito. La causalità da perdita di chance, quindi, si attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un risultato, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come "bene", come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello al conseguimento del bene della vita (Cass. Civ., Sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619: nella specie, si trattava di errore medico). Ciò comporta che, “quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell'esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all'esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla” (Cass. Civ., Sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961). Pagina 11 di 19 Peraltro, la giurisprudenza da ultimo delineata ritiene di dover superare la tesi (manifestatasi a partire da Cass. Civ., Sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400) secondo cui esito positivo probabile e possibilità di tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie diverse ed accedere ad un risultato per cui probabilità di esito favorevole dell'intervento medico e la sua sola possibilità non siano che gradazioni di una stessa affermazione di pregiudizio, risentito a causa dell'omissione colposa del comportamento dovuto (in passato, nella giurisprudenza laburistica, già Cass. Civ., Sez. Lav., 21 febbraio 2007, n. 4003). Così, può essere lo stesso giudice, che non ritenga provato che la condotta illecita abbia, secondo il criterio del più probabile che no, provocato la perdita del bene della vita, a dare ingresso d’ufficio al ristoro del danno da vanificazione della possibilità di ottenere il vantaggio perseguito. E’ chiaro che non ogni chance, anche la più insignificante, possa essere risarcita (da ultimo T.A.R. Roma , Sez. I, 2 agosto 2011, n. 6907). Altrimenti, si amplierebbe eccessivamente l’area della risarcibilità, con evidenti diseconomie. Occorre, dunque, evitare che diventino ristorabili anche mere possibilità statisticamente non significative (Cons. Stato, Sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686). Non a caso, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, soprattutto in tema di appalti pubblici, è nel senso che la chance, per essere risarcibile, deve seria ed apprezzabile, dove tale limite viene spesso fissato in misura pari o superiore al 50% delle possibilità di ottenere il bene della vita ambito (T.A.R. Napoli , Sez. VIII, 5 maggio 2011, n. 2483; T.A.R. Palermo, Sez.1, 3 marzo 2009, n. 436; T.A.R. Roma, Sez. III, 9 dicembre 2008, n. 11093; Cons. Stato, Sez. IV, 4 luglio 2008, n. 3340; T.A.R. Firenze, Sez. II, 21 febbraio 2008, n. 174; T.A.R. Genova, Sez. II, 11 aprile 2008, n. 549; T.A.R. Napoli, Sez. I, 2 aprile 2008, n. 1807; T.A.R. Genova, Sez. II, 13 marzo 2007, n. 483; T.A.R. Napoli, Sez. I, 2 luglio 2007, n. 6400; T.A.R. Venezia, Sez. III, 9 maggio 2007, n. 1457; contra Cons. Stato, Sez. VI, 15 giugno 2009, n. 3829, che contesta questo criterio troppo "matematico", affermando che la chance è ristorabile ogni qualvolta la possibilità di vittoria sia seria, anche se non necessariamente uguale o superiore al 50%; così anche T.A.R. Roma , Sez. I, 2 agosto 2011, n. 6907 ). Una simile impostazione, tuttavia, non appare del tutto corretta. Ed infatti, postulata la necessità di evitare che sia risarcibile anche la perdita di chance irrilevanti, nondimeno, superata la soglia di apprezzabilit,à la perdita di chance dovrebbe comunque essere risarcibile. La misura della probabilità di concretizzazione dell’occasione favorevole, infatti, dovrebbe rilevare solo ai fini della quantificazione del danno (così Tribunale Piacenza, 24 maggio 2011, n. 448, in www.altalex.it). Pagina 12 di 19 8. Le concause L’art. 41 c.p. esclude che il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, valga ad escludere il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Nondimeno, la presenza di concause produce effetti. Preliminarmente, occorre sottolineare che possono venire in rilevo diverse tipologie di concause:. In primo luogo, esse possono risiedere nella condotta di soggetti ulteriori rispetto all’autore della condotta presa in considerazione. Nel sistema di responsabilità aquiliana, l’articolo 2055 c.c. sancisce che “se il fatto dannoso è imputabile a più persone tutte sono obbligate al risarcimento del danno salva la possibilità di regresso”. Il principio sancito dalla summenzionata si applica anche all’ipotesi di responsabilità contrattuale. Infatti, “quando un medesimo danno è provocato da più soggetti per inadempimenti di contratti diversi, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido non tanto sulla base dell’estensione della responsabilità contrattuale della norma dell’articolo 2055 del codice civile dettata per la responsabilità extracontrattuale, quanto perché si è in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se ha un unico evento dannoso imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio, è sufficiente in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento dannoso che le azioni od omissioni di ciascuno abbiamo concorso in modo efficiente a produrlo” (Cass. Civ., Sez. III, 30 aprile 2010, n. 7618). Cambiano quindi i presupposti, cambia la ricostruzione teorica della responsabilità, ma le conseguenze sono le medesime. Tra le concause si può ricondurre anche il comportamento del danneggiato: tale ipotesi è disciplinata dall’art. 1227 c.c.:“ se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno il risarcimento è diminuito a secondo della gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate “. Le concause possono anche essere naturali, e cioè risiedere in eventi non controllabili e non controllati dall’uomo. Secondo la giurisprudenza tradizionale, “in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno, indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta Pagina 13 di 19 sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo il criterio di normalità; in tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile” (Cass. Civ., Sez. II, 28 marzo 2007, n. 7577; ugualmente, più di recente, Cass. Civ., Sez. III, 4 gennaio 2010, n. 4). Alla luce della pronuncia riportata, si può avfermare che le concause naturali non devono essere prese in considerazione nella determinazione, ai fini giuridici, della radice causale di un evento, anche perché il nostro sistema di risarcimento del danno è un sistema risarcitorio e non sanzionatorio, e dunque non è necessario tenere in considerazione il grado della colpa e limitare il risarcimento del danno alla sua intensità. Tuttavia, di recente (Cass. Civ., Sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975; Tribunale Terni, 2 luglio 2010, in Resp. civ. e prev., 2011, 4, 895) è tornato alla ribalta – in particolare in tema di responsabilità medica – l’orientamento (già presente in Cass. civ., 13 marzo 1950, n. 657; Cass. civ., 6 dicembre 1951, n. 2732; Cass. civ., 18 ottobre 1955, n. 3256; Cass. civ., 25 ottobre 1974, n. 3133) secondo il quale, in caso di incertezza circa l’incidenza (esclusiva o concausale) di uno stato patologico pregresso della vittima sulla determinazione dell’evento dannoso, il giudice del merito possa procedere, eventualmente anche in via equitativa, ad identificare la parte di danno rapportabile alla patologia preesistente, proporzionalmente ridimensionando l’esposizione risarcitoria del debitore. Quindi, “deve ritenersi legittimo il ricorso alla applicazione della norma di cui all'art. 1226 c.c., ogni qualvolta si sia in presenza di uguale necessità, rispondendo l'interpretazione estensiva della citata norma, di per sé corretta, anche a ragioni di giustizia sostanziale, che impediscono di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso (cfr. Cass. 6 dicembre 1951, n. 2732, nonché Cass. 18 ottobre 1955, n. 3256 e Cass. 13 marzo 1950, n. 657). In particolare qualora la produzione dell'evento dannoso risalga, come a sua causa, alla concomitanza di una azione dell'uomo e di fattori naturali (i quali ultimi non siano legati alla prima da un nesso di dipendenza causale) non si può accogliere la soluzione della irrilevanza di tali fattori”. A parte il ricordato principio di equità, l’orientamento è giustificato da “ragioni logico giuridiche le quali consentono di procedere a una valutazione della diversa efficienza delle varie concause e di escludere che l'autore della condotta umana debba necessariamente sopportare nella loro integralità le conseguenze dell'evento dannoso”. Pagina 14 di 19 La pronuncia, in effetti, si è posta in netto contrasto con l’orientamento da sempre seguito dalla Suprema Corte, per il quale una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile: Inoltre, questa impostazione porta con sé dischiude le porte ad un nuovo modello della causalità materiale civile che risulta opinabile oltre che arbitrario, in quanto è del tutto privo di riferimenti normativi e lascia eccessiva discrezionalità del giudice. Per tale ragione, essa è stato motivatamente contestata e disattesa da recentissima giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991), la quale, nondimeno, ha valorizzato la presenza di concause naturale quale strumento di selezione dei pregiudizi risarcibili, ricollocando la questione nell’ambito dello studio della causalità materiale, di cui occorre, quindi, ragionare prima di illustrare i più recenti orientamenti interpretativi. 9. Causalità giuridica La funzione della causalità giuridica è quella di selezionare tra le possibili conseguenze di un fatto quelle per cui il colpevole dovrà rispondere. Le norme di riferimento a tal fine sono costituite dagli artt. 1223 e 1225 c.c. A mente dell'art. 1223 c.c., cui rinvia anche per la responsabilità extracontrattuale l’art. 2056 c.c., in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il soggetto inadempiente è obbligato a risarcire i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta non esattamente adempiente e, in particolare, a risarcire il creditore per la perdita subita e per il mancato guadagno (cc.dd. danno emergente e lucro cessante). In tema di responsabilità extracontrattuale, conseguentemente, l’agente danneggiante è chiamato a dare ristoro a tutti i pregiudizi che conseguano immediatamente e direttamente all’illecito. L'art. 1223 c.c., dunque, individua la tipologia di danni oggetto di risarcimento e il criterio di imputazione causale degli stessi al debitore inadempiente, stabilendo un nesso di causalità giuridica di collegamento tra la condotta inadempiente ed i danni. Secondo l’orientamento consolidato dalla giurisprudenza di legittimità: “l’ambito del danno risarcibile nell’inadempimento contrattuale circoscritto dal criterio della così detta regolarità causale. Nel senso che, sono risarcibili i danni diretti ed immediati e inoltre, anche quelli mediati ed indiretti che rientrano nella serie delle conseguenze normali del fatto in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza” (Cass. Civ., Sez. Lav., 6 marzo 1997, n. 2009). Pagina 15 di 19 Peraltro, tra i danni che rientrano nella serie delle ordinarie conseguenze dell’illecito vi sono anche i danni da rimbalzo, e che cioè si producono in capo ai soggetti terzi che, però, abbiano un forte vincolo con il danneggiato. Così, in tema di responsabilità medica, poiché il contratto tra paziente e medico ha effetti protettivi anche nei confronti dei terzi, i danni che in capo a questi si producono sono imputabili al sanitario. E’ il caso del contratto con la gestante: “Gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali. Ne consegue che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del concepito e del di lui padre, i quali in caso di inadempimento, sono perciò legittimati ad agire per il risarcimento del danno” (Cass. Civ., Sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741). Vi è poi l'art. 1225 c.c., il quale stabilisce – con portata limitata alla responsabilità contrattuale - che, salvo il caso d'inadempimento doloso, il debitore inadempiente non sia chiamato a rispondere dei danni che non siano prevedibili al momento in cui è sorta l'obbligazione. In tal senso, l'art. 1225 c.c. limita il risarcimento dei danni a quelli normalmente conseguenti al mancato adempimento della prestazione oggetto dell'obbligazione. La norma può essere sottoposto ad una duplice lettura. Da un lato può ritenersi che il criterio della prevedibilità serva a selezionare i pregiudizi risarcibili che siano causalmente riconducibili all’evento lesivo e, più a monte, al fatto illecito. In senso contrario, può affermarsi che la norma de qua operi sul piano dell’elemento soggettivo. Su questa seconda impostazione può cedersi la parola alla Corte di Cassazione: “Questo Collegio ritiene che possa non illegittimamente ipotizzarsi come il concetto di prevedibilità resti comunque estraneo, in parte qua, alla struttura oggettiva dell'illecito (perché, in caso di inadempimento doloso, il debitore risarcirà sì i danni imprevedibili, ma che siano pur sempre conseguenza diretta ed immediata dell'inadempimento, di talché la "diretta immediatezza" della realizzazione del danno non è destinata ad incidere sulla sua prevedibilità). Di talché (…), il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre - su di un piano strettamente oggettivo - tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come generatore di un damnum iniuria datum), e un evento (dannoso). Pagina 16 di 19 Nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto "oggettivata", da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto di prevedibilità/previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell'illecito, momento di analisi collocato in un ideale posterius rispetto alla ricostruzione della fattispecie). Solo il positivo accertamento del nesso di causalità materiale così rettamente inteso consente, allora, la traslazione, logicamente e cronologicamente conseguente sul piano dimostrativo, verso la dimensione dell'illecito costituito dal suo elemento soggettivo, e cioè verso l'analisi della sussistenza o meno della colpa dell'agente (o, se del caso, del dolo), co-elemento di fattispecie la cui impredicabilità nella singola vicenda, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe escludere l'esistenza dell'illecito secondo criteri (storicamente "elastici") della prevedibilità ed evitabilità del fatto. Criteri questi che restano iscritti nell'orbita dell'elemento soggettivo del fatto dannoso e postulano il positivo oggettivo accertamento del preesistente nesso causale, elemento strutturale del torto al quale non è consentito di collegare alcuna inferenza fondata sulla dicotomia colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di valutazione della colpa” ” (Cass. Civ., Sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619). 10. Causalità giuridica e concause naturali. La distinzione tra nesso di causalità materiale e nesso di causalità giuridica è stato, come già accennato, valorizzato al fine di dare rilievo alle concause naturali. Ed infatti, in una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha affermato che, qualora la produzione di un evento dannoso, possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta dell’agente e di un fattore naturale (nella specie, si trattava dell’errore medico e della pregressa situazione patologica del danneggiato), il giudice, accertata, sul piano della causalità materiale (correttamente intesa come relazione tra la condotta e l'evento di danno,giusta disposto dell'art. 1221 c.c., comma 1), l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento in applicazione della regola di cui all'art. 41 c.p. (a mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione e l'omissione e l'evento), così ascrivendo l'evento di danno interamente all'autore della condotta illecita, può poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (correttamente intesa come relazione tra l'evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all'esito prodottesi) onde ascrivere all'autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento Pagina 17 di 19 di danno bensì determinate dal fortuito, come tale inteso,nello specifico caso deciso, la pregressa situazione patologica del danneggiato non eziologicamente riconducibile, a sua volta, a negligenza, imprudenza, imperizia del sanitario (Cass. Civ., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991). La Corte di Cassazione provvede, così, anche ad elencare il ventaglio delle possibili ipotesi, e delle possibili conseguenze in termini risarcitori, che nell’ambito sanitario si possa verificare in caso di efficacia congiunta del fatto illecito e di pregresse patologie: 1) il danneggiato, affetto da una patologia pregressa ed irreversibile dagli effetti già invalidanti, subisce un'ulteriore vulnus alle sue condizioni di salute: in questa ipotesi il danno risarcibile sarà determinato considerando sia la differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo l'intervento medico e lo stato patologico pregresso, sia la situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo imputabile (commissivo od omissivo), ferme restando le valutazioni del singolo caso sul piano di eventuali ripercussioni esistenziali e/o economiche sulla vita del danneggiato; 2) il danneggiato, affetto da patologie prive di effetti invalidanti, subisce una menomazione della sua salute con conseguenze invalidanti: in questa ipotesi, il giudice di merito dovrà determinarsi nel senso dell'irrilevanza dello stato patologico pregresso, salva rigorosa dimostrazione che gli effetti invalidanti si sarebbero comunque verificati a prescindere dalla concausa imputabile; 3) il danneggiato, già affetto da uno stato di invalidità potenzialmente non idoneo (di per sé e nell'immediatezza) a produrre esiti mortali, decede in conseguenza dell'intervento medico (commissivo od omissivo): in tal caso lo stato di invalidità pregresso non potrà rilevare quanto ai danni risarcibili iure proprio ai congiunti, mentre potrebbe condurre ad una riduzione del quantum dei pregiudizi risarcibili iure successionis, sempre che il danneggiante fornisca la prova che la conseguenza dannosa dell'evento (nella specie, la morte) sia stata cagionata anche dal pregresso stato di invalidità; 4) il danneggiato, già in condizioni invalidanti idonee a condurlo alla morte a prescindere da eventuali condotte di terzi, decede a seguito dell'intervento (commissivo od omissivo): la risarcibilità iure proprio del danno - patrimoniale e non patrimoniale - riconosciuto ai congiunti potrà subire un ridimensionamento in considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere, sia sul piano affettivo che economico, del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto. Pagina 18 di 19 Nello stesso senso, con una motivazione più stringata e però più rilevante ai nostri fini per l’espresso riferimento alla chance, si era posta una pronunzia di qualche tempo prima (Cass. Civ., Sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961), la quale ha ritenuto che si debba optare, “nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all'apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente”. Pagina 19 di 19