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libretto: il cibo - Cooperativa Ruah

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libretto: il cibo - Cooperativa Ruah
Tra racconto e incontro
Cibo, cultura, identità
Le storie
Scuola di italiano – Comunità Immigrati Ruah
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Introduzione
La parola CIBO scritta in grande al centro della lavagna.
“ Che cosa vi viene in mente?”
Qualcuno timidamente accenna al piatto tipico del suo
paese. Poi si fa strada il ricordo e con esso la nostalgia.
Le distanze si accorciano, si materializzano immagini di
luoghi lontani: il mercato di Dakar così simile a quello di
Ouagadougou, la Notte di Natale in Bolivia e le
tradizioni della Settimana Santa a Santo Domingo,
l'ospitalità e la convivialità che solo da noi sembrano
essere dimenticate, ma che accomunano invece altre
culture, l'India, il Marocco, il Senegal.
Abbiamo scelto il cibo come argomento trasversale della
nostra scuola di italiano, perché parlare di cibo rende più
facile parlare di noi e quello che maggiormente ci
interessava era arrivare al racconto, come scambio di
vissuti ma anche confronto tra culture.
Molte di queste storie non sono state scritte dai
protagonisti, ma ci sono state raccontate e sono poi state
trascritte e rielaborate con l'aiuto degli insegnanti.
Abbiamo cercato, come ben scrive Elke nel presentare qui
i racconti dei suoi studenti, di non tradire lo spirito e le
emozioni di chi a volte con molta fatica, ma anche con
molto entusiasmo ci ha trasmesso uno spaccato di sé e
del proprio paese.
I testi non sono e non avrebbero potuto essere omogenei,
alcuni sono molto ricchi e completi, altri semplici frasi o
acrostici di poche parole, alcuni racconti personali altri a
più voci.
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I nostri “autori” appartengono tutti a gruppi di livello
medio basso, vale a dire persone arrivate da poco in Italia
e quindi con una conoscenza ancora molto limitata della
nostra lingua.
Sono persone provenienti da tutto il mondo, parecchi
dalla Bolivia, ma anche dal Marocco e dall'Africa
occidentale, dall'India e dal Sud America, con livelli di
partenza e con una cultura di base molto disparata, si va
dall'analfabetismo al possesso di una laurea, quasi tutti
con mille difficoltà personali di sopravvivenza ed
integrazione nel nostro paese che a volte hanno reso
discontinua la frequenza ai nostri corsi.
Per stimolare il racconto e per arricchire le nostre
conoscenze ci siamo serviti di informazioni storico
geografiche, ma anche di racconti, leggende e proverbi,
alcuni dei quali abbiamo ritenuto utile riportare qui.
Questo opuscolo non è il resoconto di tutti i nostri
percorsi didattici, né la raccolta di tutto quello che è stato
raccontato sul tema del cibo, ma semplicemente la
documentazione di alcuni frammenti del lavoro svolto,
quelli che siamo riusciti a rendere maggiormente fruibili,
per testimoniare l'enorme ricchezza di conoscenze, di
esperienze e di vita che la presenza degli immigrati ci
regala se abbiamo la curiosità e la pazienza di volerli
ascoltare.
Le volontarie e i volontari
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PARTE PRIMA
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Cibo e nostalgia
Il cibo è anche profumo, il profumo evoca ricordi,
luoghi, situazioni e soprattutto le persone lontane che
questi luoghi e situazioni abitano. Le parole per
esprimere i sentimenti e le emozioni del ricordo escono
a fatica in una lingua ancora estranea.
Il cibo ci riporta a un modo di stare assieme in
famiglia o con gli amici.
Il cibo richiede cura, attenzione, amore. Il cibo richiede
lentezza.
Ce ne parlano Ajoub, Rachid, Neza, Mohamed
(Marocco), Aminou (Senegal), Larissa (Bolivia),
Sukveer (India).
Anna
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Il profumo del cibo
“Quando io passo in via Suardi davanti al ristorante
marocchino, sento il buon profumo di tajine marocchino
e penso al mio paese: il Marocco”.
“Io mi ricordo il profumo della zuppa di frutti di mare
che prepara la mia mamma nell'ultimo giorno di tutti i
mesi”.
Il cibo è famiglia
“Ho nostalgia della famiglia”. “ Mi mancano le mie
sorelle”. “Ho nostalgia di mia mamma”. “ Mi manca il
clima del mio paese, inteso come atmosfera, modo di
vivere”.
“ Mi mancano gli amici, le chiacchierate con gli amici”.
“Una cosa molto diversa è il modo di stare assieme delle
persone. In Marocco quando si mangia non si parla.
Solo alla fine del pasto, mentre si beve il tè, tutte le
persone della famiglia parlano tra loro. Il padre e la
madre, persone che hanno autorità in famiglia, chiedono
delle cose ai figli (della scuola per esempio) e poi
consigliano e indicano le cose giuste da fare. E' molto
importante questo momento”.
Il cibo è accoglienza
“In India siamo ospitali. Mia mamma invitava sempre le
persone a prendere il tè o a mangiare qualcosa con noi.
Anche persone che non si conoscono. In Italia, questo
non succede. Io sono sola, il modo di vivere è diverso,
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non è possibile stare assieme come da noi o in Marocco e
in Senegal.”
Il sapore del cibo
“C'è qualcosa che rende diverso il sapore di un cibo se è
consumato qui in Italia. Sarà la materia prima, sarà la
mancanza di tutti gli ingredienti, sarà l'aria? O
semplicemente è che nel ricordo il cibo di casa nostra,
mangiato là con la nostra gente, assume un sapore
ineguagliabile.”
“Ho nostalgia dei sapori, per esempio della carne della
Bolivia. Qui la carne è “chiara”, non sa di niente. Le
prime volte pensavo: “ non sono capace di cucinarla”. Poi
ho capito che il problema non sono io, il problema è la
carne italiana.”
La cura del cibo
“É diverso il mio cibo in Italia, mi manca il tajine del
Marocco, qui lo preparo, ma non è uguale. Anche il te’
marocchino alla menta non si prepara bene in Italia”.
“Cosa manca in Italia? Il tempo. In Italia manca il tempo,
tutti corrono”
Il mio Pique
“La verità è che non mi piace cucinare, non so perché.
Magari non sono nata con quell’istinto oppure non ho
messo interesse per imparare. Adesso che ancora sono
giovane, non ho problemi, però, prima o poi, dovrò
imparare per forza.
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In casa mia, là in Bolivia, cucinava solo la mia mamma;
anche se non era un gran cuoca, lo faceva con amore per
le sue principesse, per lei, noi figlie, siamo le sue
principesse.
Quando sono arrivata qua in Italia, ho imparato un po’,
però sinceramente non lo faccio bene. Ormai mangio di
tutto, per me è più facile cucinare una pastasciutta, che la
faccio in pochi minuti, piuttosto che fare un cibo del mio
paese, che ci si mette più tempo. Quando parlo con mia
mamma lei mi dà delle ricette per fare le sue zuppe, i
sughi, però, anche se ci provo, non riesco a farli bene
come lei.
Come mi mancano quei cibi, i profumi e i sapori! Non ero
abituata a mangiare, tutti i giorni cibi molto saporiti della
cucina del mio paese, però mi dava piacere mangiare
qualcosa di buono, in occasione di qualche compleanno,
di una festa, a Natale o a Capodanno.
Natale mi dà tanta gioia, era il giorno in cui noi
potevamo mangiare bene e stare tutti insieme. Nella mia
casa, si cucinava il pique o il picante de pollo, anche se
non era esattamente il cibo che si mangia in Bolivia a
Natale. Nel mio paese a Natale si mangia la picana e per
capodanno il lechon. Ma per noi, in qualsiasi occasione
speciale, era solo pique o picante. A mezzanotte, tutti
eravamo in casa aspettando di finire di mangiare per
poter parlare e aspettare l’alba per fare colazione con i
deliziosi buñuelos o con l’api. Questi sono ricordi che
magari mai potrò rivivere con mia mamma, perché le sue
principesse sono diventate grandi e ognuna con la sua
famiglia vive in posti diversi.
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Se devo parlare del mio paese, penso che si mangia e si
beve troppo, ci sono tanti tipi di cibi, se comincio a
parlarne non la finirei più. In ogni regione si mangia
diversamente, però i boliviani quasi tutti mangiano il
chicharon di maiale il fine settimana, sempre
accompagnato dalla chicha oppure dalla birra, perché
molti pensano che se uno beve una bevanda analcolica
come la coca cola, per esempio, gli può dare
un’indigestione. Boh, non so dire perché.
Non bisogna dimenticarsi del carnevale, quando a
Cochabamba si mangia il famoso puchero (riso, ceci, pere,
pesche, peperoncino) e si gioca con l’acqua, tirandosi
palloncini pieni di acqua.
Nel mio paese si mangia troppo, c’è un proverbio che
dice“la buona vita e la poca vergogna”: vuol dire che è
importante mangiare bene, senza pensare alle
conseguenze.
Adesso vorrei soltanto stare a casa mia, perché mi manca
tutto; anche se qua è bello, mi manca la mia famiglia.”
Patricia Camacho (Bolivia)
Davanti al camino
“Sul cibo della Moldavia ho poche cose da dire, perché,
secondo me, non è molto diverso da quello italiano.
Ciò che mi manca di più sono quelle domeniche, quando
ci incontravamo a casa dei miei genitori, dopo una
settimana durante la quale, a volte, non riuscivamo
neanche a parlarci, così vivevo ogni giorno della
settimana per quel giorno.
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La mattina della domenica andavamo a casa dei miei
genitori per fare la colazione con “l’uovo all’africana”.
Era una “ricetta” inventata da mio papà per le sue
bambine. Anche se non era niente di speciale, solo un
uovo bollito 2-3 minuti, però faceva il suo effetto, perché
aveva questo nome così strano.
Quelle domeniche, per tutta la giornata cucinava mio
papà, che era un ottimo cuoco, anche se cucinava di rado.
Il cibo preferito era “la polenta” preparata secondo la
ricetta tradizionale con il pesce, con la panna e il
formaggio di pecora.
Era una gioia, d’inverno, quando fuori faceva molto
freddo, mangiare tutti insieme davanti al camino, sentire
che eravamo una famiglia, anche se non molto numerosa,
e sentire i racconti della vita dei miei genitori con il
sottofondo del rumore della legna che bruciava.
D’estate si cucinava alla griglia e si mangiava nel
giardino al sole, accompagnati dal canto degli uccelli.
E’ difficile esprimere quanto piacere provi quando ti
trovi seduta a tavola con la tua famiglia parlando delle
cose già realizzate e dei progetti per il futuro.
Sono molto riconoscente alla mia famiglia per quelle
giornate indimenticabili fra tradizione e ricordi, nelle
quali mi sono sentita davvero molto amata nonostante
tutti i miei difetti e un po’ di pregi. Oggi, purtroppo,
qualcuno di quelle persone care non c’è più.”
Ana Dolghier (Moldavia)
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Caldo de bolas
“Da quattro anni non ho messo piedi nella mia terra,
l’Ecuador, e mi manca da morire.
Mi manca la mia famiglia, mi manca tutto, ogni cosa,
ogni gesto. Ho tanta nostalgia; la domenica ci riunivamo
tutti a casa dei miei genitori e facevamo festa.
Mi manca tutto, pure il cibo perché è diverso da quello
che normalmente si mangia qua.
Il piatto tipico della mia città si chiama caldo de bolas.
Questo piatto si prepara con il brodo di carne e un po’ di
verdura, la banana e con tante altre cose, ed è proprio
buonissimo!”
Mariana (Ecuador)
“Picante di lingua di mucca”: delizia boliviana
“Nel mio paese ci sono tanti piatti tipici di buon sapore e
gusto, per esempio quando ero piccolo mia madre faceva
sempre deliziosi piatti che mi piacevano, mi piacciono e
mi piaceranno per sempre.
Uno si chiama “Picante di lingua di mucca”, che lei
sempre cucinava
tutte le domeniche mattina per
mangiare al ritorno di chiesa.
Insieme con tutti i miei fratelli e i genitori mangiavamo
intorno al tavolo. Come mi manca quel bel momento di
tanta felicità e pace che non potrà mai tornare, perché c’è
una grande ragione: i miei genitori sono morti, io mi
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trovo in Italia, i miei fratelli si trovano in altri paesi
americani e europei.
Questa è la cruda e difficile situazione della mia vita; nel
mio sentimento spirituale c’è una candelina anche piccola
però con luce brillante che illumina la mia speranza, che
un giorno torni quel bel momento di gioia e io possa
tornare nella mia regione Santa Cruz – Bolivia a rivedere
la mia casa dove sono cresciuto, per mangiare questo
piatto preferito con qualcuno vicino a me, che sostituirà
la mia famiglia scomparsa per la volontà de Dio”.
“Questo piatto si fa con la seguente ricetta”.
Ingredienti per fare il pranzo per sei persone:
- Una lingua di mucca di un chilo e ½ più o meno,
- Acqua sufficiente per fare cuocere la lingua,
- ½ bicchiere d’olio d’ oliva,
- Due bicchieri di cipolla bianca in bastoncini fini,
- Due pomodori sbucciati e tagliati,
- Un cucchiaio di locoto schiacciato,
- Quattro cucchiai di prezzemolo tagliato fine,
- ½ cucchiaio di peperoncino rosso in polvere,
- Un cucchiaio di origano,
- ½ cucchiaio di cumino macinato,
- Un bicchiere di piselli verdi fini,
- Quattro bicchieri di acque calda,
- ½ cucchiaio di sale,
- Sei patate intere, sbucciate e pulite.
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Preparazione:
Prima di mettere a cuocere la lingua, schiacciarla per
farla diventare morbida e pulirla delicatamente.
Mettere a fuoco forte una pentola con acqua, quando è
bollente aggiungere la lingua e lasciare cuocere per
due ore più o meno.
In una seconda pentola mettere l’olio, quando è caldo,
incorporare le cipolle, i pomodori, aggiungere tutte le
spezie, i piselli e alla fine il sale; mescolare bene e
lasciare cuocere per circa un’ora.
Dopo, mettere la lingua cotta e tagliata in pezzi,
mescolare tutto e lasciare bollire un po’; dopo che la
lingua abbia preso il sapore della salsa aggiungere le
patate cotte.
“Si apparecchia il tavolo, si mangia con riso bianco e un
bicchiere di vino rosso di accompagnamento.
Buon appetito…!”
Daniel Rosales Leon (Bolivia)
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Racconti
Dall’Africa Occidentale sub sahariana
Io so bene che la semplice scrittura non può
riprodurre il tono della voce, l’espressività dello
sguardo e della mimica, la gestualità e la vivacità dei
narratori, ma ho cercato di trascrivere le storie dei
miei studenti con la speranza di non tradire troppo lo
spirito dei loro racconti. Il racconto nella tradizione
africana non è solo orale, è sopratutto “teatrale”.
Si “parla” con tutto il corpo.
Elke
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L’uomo che ha pane per nutrirsi
Non capisce il rigore delle carestie
Un uomo che ha la pancia piena
Non accenderà il fuoco per gli altri
Il pesce che nell’acqua non trova il cibo
Si sposta nella speranza di sfamarsi.
Proverbi africani
Tra le virtù fondamentali dei popoli africani l’ospitalità, in
senegalese teranga, è sicuramente la più famosa.
Ospitalità in realtà esprime anche accoglienza, attenzione,
rispetto, gentilezza, allegria e il piacere di ricevere un ospite
nella propria casa.
I pasti sono momenti molto importanti di condivisione,
rafforzano la coesione del gruppo e la solidarietà: si mangia
insieme.
Agli ospiti sono riservati i piatti migliori, l’ospite è coccolato e
per lui vengono cucinati i piatti migliori. Soprattutto se sono
stranieri.
In realtà l’alimentazione nella area subsahariana, soprattutto
nelle zone rurali e nei quartieri più poveri delle città, è meno
varia e ricca di quanto non possa sembrare a prima vista.
Mentre la costa è (ancora) ricca di pesci, lontano dal mare si
preparano piatti semplici a base di cassava (manioca) di
miglio o di fonio.
In alcune famiglie non è sempre possibile servire due pasti al
giorno e, quindi, ci si concentra su quello di mezzogiorno. La
sera ci si arrangia come si può.
A volte si prepara solo il fufu o, come viene chiamato in
Burkina Faso, il tò.
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Il sapore del Tò
“Quando vivevo ancora in Africa, alla sera preparavo il
tò, che è un po’ come qui in Italia la polenta.
Al pomeriggio, che caldo, avevo già macinato la farina
di miglio o di fonio nel mortaio. Un lavoro molto
faticoso, che va fatto solo dalle donne.
Prendevo una grande pentola, mettevo la farina,
aggiungevo latte e un po’ di sale, e giravo tutto per un
bel po’. Mettevo la pentola sul fuoco e lasciavo cuocere il
tò finché era pronto, mescolando continuamente la
pappa con un bastone di legno.
Alla sera spesso mangiavamo solo il tò: è bello stare tutti
insieme , raccontarci che cosa era successo durante il
giorno che sta per finire e pensare che cosa si farà il
giorno seguente. Si parlava dei salari, dei prezzi della
carne e delle verdure; se era una buona cosa emigrare; si
parlava della vicina, che era rimasta con i suoi figli da
sola nel paese. Nel mio paese si viveva anche la vita
degli altri. Mio marito ed io facevamo piani per il futuro:
per migliorare la nostra vita. Volevamo andare in Italia
ed eccomi qui.
Il cibo italiano mi piace, ma il cibo che cucinavo in
Burkina Faso, come il tò che si fa nel mio paese, che
buon sapore! E’ più buono della pizza e della pasta.
Per me il tò è anche ricordare. E se ti ricordi vedi davanti
ai tuoi occhi il tuo paese, i tuoi genitori, ti ricordi quando
eri piccola, il mercato e le tue amiche, che sono rimaste
nel paese e adesso non le vedi più.”
Zenabo (Burkina Faso)
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Quante uova? Chi lo sa!
“A 13 anni, quando vivevo ancora nel mio paese, non
lontano da Ouagadougou, tutte le mattine prendevo la
bicicletta e andavo a lavorare nel paese vicino. Facevo il
sarto.
Nella pausa, andavo al mercato e mi compravo croua
croua. La mia maestra ha detto che sono una specie di
taralli. Lei voleva dire che i taralli sono una specie di
croua croua.
I croua croua si preparano al mercato. Si fa una pasta di
arachide, forse si mette anche un po’ di sale, dopo la
venditrice fa dalla pasta tanti anelli, li fa cadere pian
piano nell’olio di arachide bollente finché sono belli
croccanti.
A volte al mercato compravo anche boussan touba, le
orecchie dei bissa: così vanno chiamato le gallette dalla
gente Mossi, per scherzo. Io sono un Bissa.
Boussan touba viene fatto con purè di fagioli, una
manciata di cipolle, carote tritate e uova, uno o due? E
chi lo sa! Si aggiunge semi di néré, sale e pepe. Poi si
formano delle polpette. Dopo la polpetta va schiacciato
come un CD e fatto friggere nell’olio bollente. Se hai un
po’ di soldi ti compri coca cola o sprite, se hai pochi soldi
bevi jus di bissap o jus d’ananas o jus di tamarindo. Per
chi non parla francese come me, jus vuol dire bibita.”
Timbila (Burkina Faso)
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Si mette il sale nel ceeb-ou-dien?
“Sono arrivata a Bergamo l’estate dell’anno scorso. Abito
con mio fratello. Lui fa il muratore a Milano e torna a
casa sempre tardi. Sono io che cucino. Me lo ha insegnato
la mia mamma. Noi, gente di Wolof, mangiamo tanto
pesce, perché viviamo vicino al mare. Anche qui
mangiamo tanto pesce, lo compro al supermercato. Le
spese le faccio con mio fratello.
Quando abbiamo gente spesso cucino ceeb-ou-dien: devo
comprare riso, 2 branzini, un piccolo pesce affumicato,
zucchine, perché i gombo qui non si trovano, carote, un
cavolo, cipolle; l’aglio, il prezzemolo e il sale li ho già in
casa. Nel negozio in via Quarenghi, dove si vendono
prodotti africani, compro olio di arachide e il pepe rosso.
Là compro anche il cassava. Il cassava è come una patata
enorme. Anche la farina di mais compro in questo
negozio.
Come preparo il ceeb-ou-dien? Mia mamma mi ha
insegnato che prima devo pulire bene, bene il pesce e
tagliarlo in grandi pezzi. Metto in bagno il pesce
affumicato. Taglio a pezzettini le zucchine, le sei carote, il
cavolo e il cassava. Faccio friggere nell’olio la cipolla
tritata fine e uno spicco d’aglio, appoggio sopra il pesce,
lo lascio dorare, unisco al pesce una mezza scatola o
tutta la scatola di salsa di pomodori, butto dentro le
verdure fatti a pezzi. Tutto deve cuocere a fuoco molto
basso, ogni tanto aggiungo un po’ d’acqua e alla fine
metto anche il prezzemolo e il pepe rosso.
In un’altra pentola faccio bollire il riso, perché il ceeb-oudien va servito con il riso.
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“E il sale, Jaineba?” Jaineba ride: ma certamente ho
messo anche il sale. No? Senza sale...?”
Jaineba ( Senegal)
La zuppa della mamma di Joy
Maestra: Conosci la soup ogbono, Joy?
Joy: Io? No.
M: E una zuppa fatta con i noccioli di ogbono.
J: Ma io non so cosa siano le ogbono. Come sono?
M: Sono come i noccioli del mango. L’albero cresce in
Nigeria.
J: Ah, sì?
M: Sì.
J: E come lo sai?
M: L’ho letto in internet. Il nocciolo va schiacciato per la
minestra. Le ogbono si possono anche mangiare come le
noccioline americane.
J: Si? Sono salate?
M: Questo non lo so. Sai cosa è bitterleaf?
J: Si, certo, lo so, mia mamma faceva sempre una
minestra con questa verdura, bitterleaf è come spinaci,
ma bitter, cioè amaro. Sono le foglie di yam.
M: E la mamma metteva nella zuppa anche noci
schiacciate, cioè ogbono?
J: Nooooooooooo! (Joy ride con gusto, allarga le braccia e i
suoi occhi fanno scintille), la mia mamma mette sempre le
patate dolci e la pasta di arachide nella zuppa di
bitterleaf.
Joy (Nigeria)
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Fufu Foufou Foofoo
Attièkè Aloko Tò
Nell’Africa occidentale, il cibo di base, cioè il cereale e
dei tuberi cucinati generalmente solo con l’ acqua, ha
tanti nomi.
Se senti il suono del mortaio, anche tu farai il fufu. Adu
è come Aviane e niente di nuovo viene dall’Europa.
Proverbio dal Ghana Occidentale
“Quello che voi in Italia chiamate polenta, da noi nella
lingua Bissa si chiama Tò.
Zenabo cucina il tò con latte, io no, io cucino tò con
l’acqua. Se io prendo la farina di mais, di fonio o di
miglio o anche il riso il piatto si chiama sempre tò.
Qualcuno dice che non è così, ma non capisce niente. Per
preparare il tò per tutti: marito, figli, nonni e zie, ci vuole
molto tempo. In Africa usavo il mortaio per battere i
semi. Tutti qui pensano che tutti noi in Africa cuciniamo
nel cortile, in grandi pentoloni davanti a tutto il mondo.
Io in un villaggio non sono mai stata”.
Fatimata( Burkina Faso)
“Quello che Fatimata chiama tò, noi in Ghana
chiamiamo foutou. Il foutou lo facciamo con cassava o
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farina di grano. Le salse le fai con le verdure che hai
nell’orto o che trovi nei campi. Chi non ha l’orto va al
mercato”.
Frank (Ghana)
“Quello che Frank chiama foutou, noi in Costa d’Avorio
chiamiamo aloko.
L’aloko si prepara con farina o con la fecola di plantain.
A volte si fa l’aloko con la farina di manioca e con i
plantain. I plantain sono banane da cuocere. Per il purè
prendi quelli maturi con la buccia marrone, per friggere
le banane prendi quelli con la buccia verde”.
Diaby (Costa d’Avorio)
“Quello che Diaby chiama aloko, io chiamo attièkè. Noi
in Costa d’Avorio parliamo tante lingue. Quando noi
donne africane cuciniamo, cantiamo e ridiamo. Siamo
ritornate dal mercato, dove abbiamo comprato tutto per
il pranzo, abbiamo incontrato tanti amici, abbiamo
chiacchierato e a lungo contrattato con i commercianti,
abbiamo sentito le novità del quartiere. Arrivate a casa
accendiamo il fuoco, con il gas, perché io non abitavo
nella brousse, mettiamo la pentola con l’acqua e la
semola di mais e giriamo, giriamo finché l’attièkè è
pronta, dalla pappa facciamo palle grandi come arance.
Noi mangiamo questo cibo spesso con pollo. Da noi i
polli, sai come li chiamiano? – li chiamiamo poulet
bicyclette - hanno un buon sapore, non sono grassi e
bianchi come qui, perché corrono qua e là e mangiano
quello che trovano in giro. Un pollo grasso non ha un
buon sapore e se un cibo non ha un buon sapore, non è
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buono per la tua salute. Tutti mangiano con le mani dalla
stessa ciotola. Con la mano destra. Che buono! - “Il ferait
damner un saint” (farebbe dannare anche un santo)”.
Fatoumata (Costa d’Avorio)
“Quello che Fatoumata chiama attièkè e Diaby alloko,
noi in Senegal lo chiamiamo foufou . Io vengo da Dakar,
la capitale di Senegal. Io compro la farina per il foufou
già pronta. Con la farina insaccata ci vogliono solo 10
minuti per cucinare il foufou. A volte prendo la farina di
mais, a volte di fonio. Il fonio ha più sapore e fa molto
bene ai bambini. Se dai da mangiare ai bambini il fonio
non hanno mai mal di pancia. Qui non trovi il fonio. A
Dakar, ai mercati trovi adesso farina e molta verdura che
viene dall’Europa. Cosi dice mia sorella che vive là.
Io preferisco imparare a leggere e a scrivere ed imparare
l’italiano che preparare per ore ed ore il togg, vuol dire il
cibo. Adesso ho finalmente un lavoro. Se non sai scrivere
e leggere ci vuole ancora più fortuna per trovare un
lavoro. Se non sai leggere ti imbrogliano al mercato. Se
non sai leggere ti dicono: poverina. I miei figli sono bravi
a scuola, parlano bene l’italiano. Loro amano la pizza e le
merendine.
Ma alla fine di Ramadan, alla festa Koritè, cucino anche
io molti piatti e faccio una torta che si chiama lakh. Noi
in Africa mangiamo pochi dolci e la cioccolata non ci
piace molto. Alla festa del Tabaski, che ricorda il
sacrificio di Abramo, ed è la festa del perdono, si deve
fare pace con tutti, ogni famiglia fa sgozzare un montone
o un capretto.
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Allora preparo cabri con gombo, con zucchini - volevo
dire - e patate dolci.
Si taglia la carne, il montone o il capretto a pezzi, una
parte della carne la metti nel freezer, si tagliano anche
gli zucchini, le patate dolci, le carote, fagiolini, le
cipolle, tante cipolle e l’aglio. Tutto va preparato come
uno stufato. Il nostro cibo ha più sapore che il cibo
italiano, perché noi usiamo molto peperoncino e altre
spezie come il nokoss e l’olio di palma.
Per le feste invitiamo sempre gli amici che vivono qui da
soli. Le loro famiglie sono ancora in Senegal”.
Ada (Senegal)
Narra la leggenda…la nascita dell’universo da un seme
di fonio (Mali).
Amma, il dio supremo del popolo dei Dogon, un bel giorno, molto tempo fa,
si accorse che attorno di lui c’era il nulla. Dove guardava non c’era niente,
assolutamente niente. Non c’era inizio né fine, non c’era spazio, né tempo,
non c’era chiaro né scuro, non faceva caldo né freddo. Non c’era bellezza né
allegria, né danze.
Nella sua mano tenne un chicco di fonio, piccolo, piccolo, piccolissimo.
Amma pensò fra sé e sé:” in questo seme di fonio c’è l’intero universo,
l’uovo cosmico”, di punto in bianco fece esplodere il granello, e voilà:
l’universo!
Così Amma creò il sole, la luna, le stelle piccole e grandi, la terra e il cielo.
C’erano fiumi argentini, verdi colline, gigantesche rocce, sabbia e alberi e
fiori. Il fonio si cullava nel vento. I pesci guizzavano nell’acqua, gli uccelli
volavano sopra le savane, i leoni cacciavano gli antilopi, gli ippopotami
sguazzavano nel pantano, le scimmie si facevano dispetti, erano veri
scansafatiche.
L’alba e il tramonto si davano il cambio. Le nubi passavano, la pioggia
cadeva, il fonio si moltiplicava.
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Amma costruì anche un granaio, vicino al fiume, ma non seppe quale era la
ragione di tutto ciò. Sapeva che aveva dimenticato qualcosa. Si sentiva
molto solo in mezzo a tanta bellezza, nessuno lo ringraziava per la sua
creazione, né il cielo, né gli animali. Così andrò al fiume per pensare
meglio. Contemplò a lungo la corsa dell’acqua , le orme del serpente, il
rosso morire del sole. Ahimè, la solitudine! In questa notte si unì con la
terra. Nacquero due gemelli, un maschio e una femmina, che presentavano
l’acqua e la luce.
Il dio supremo, il dio dei cieli, donava ai gemelli anche il potere delle parole.
Poi Amma, non ancora soddisfatto, creò un uomo e una donna dall’argilla.
Dalla loro unione nacquero quattro copie di gemelli, che diventarono gli
antenati dei Dogon.
Ancora oggi Amma brilla tutte le notte in cielo. Ma la stella del fonio è
invisibile per gli uomini.
Il fonio è un “survival food”. Il cereale ha un’altissima percentuale di proteine. Durante una
carestia causata da siccità, il fonio è sempre disponibile, perché cresce velocemente, matura in
sei/otto settimane. Ha bisogno di poca acqua. Cresce anche sui suoli aridi e sabbiosi, che sono
considerati troppo infertili per il miglio, il sorgo e il mais. La coltivazione del fonio in Africa
occidentale è molto importante per ridurre l’importazione di cibo.
Il fonio è tra i più antichi e nutrienti cereali del pianeta. Gli agricoltori dell’Africa occidentale
coltivano il fonio da 5000 anni, per preparare l’alimento base. Dà l’impressione d’un erba
selvatica. I campi di questa pianta si trovano in tutta l’area sub sahariana, dal Senegal al
Tschad.
La produzione del cereale è sempre stata difficile perché i suoi semi sono estremamente
piccoli, poco più grandi di un granello di sabbia. Un chilo di fonio contiene 1.000.000 semi,
ogni seme pesa 0.005 grammi, un seme misura 1 mm.
Il minuscolo oggetto rende la pilatura dei preziosi semi molto laboriosa e faticosa. Un lavoro
che è sempre stato realizzato dalle donne. Il grano bianco si ottiene tramite la pilatura e diversi
lavaggi per eliminare l’impurità, un’abilità molto complessa, che solo le donne esperte sanno
fare. Per sgranare e lavare un chilo di fonio si lavora 2 ore . Oggi grazie all’ invenzione di una
macchina sgranatrice appositamente per il fonio si possono ridurre i tempi della produzione. La
macchina produce dai 20 ai 30 chili in due ore. Le macchine sono leggere e possono essere
portate da villaggio a villaggio.
Oggi la “cash economy” ha raggiunto anche le aree rurali d’Africa . Le donne contribuiscono al
budget familiare lavorando fuori casa e di conseguenza hanno meno tempo di preparare il cibo.
Oggi esistono progetti della Unione Europea per aumentare il valore del fonio e per sviluppare
piccole imprese gestite da donne.
Il fonio è utilizzato per il couscous, il djouka, il fufu, il popcorn, le patatine e, mescolato con
altri cereali, per fare il pane. Si produce anche la birra. La paglia serve per nutrire le mucche, le
capre,le pecore e gli asini. La paglia mista con argilla è utilizzata per costruire case e muri e
per produrre calore per cucinare. Dalla cenere si ricava il potassio. Data l’ importanza di
questo cereale, l’oggetto più piccolo nella esperienza del popolo dei Dogon, ancora oggi il
fonio è offerto agli dei (Amma) durante il culto per gli antenati. E fa parte del bride-price
(prezzo della sposa).
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IL BAOBAB
Il baobab è l’albero simbolo delle savane. Nei villaggi africani questo bizzarro albero è
il centro della vita sociale: sotto la sua ombra si tengono i mercati, le riunioni degli
anziani, le danze, sotto il talking tree giocano i bambini, chiacchierano uomini e donne.
Una volta era anche un riferimento per i viaggiatori. Ancora oggi si crede che
quest’albero abbia poteri magici: allontana la malasorte e toccarlo rende immuni
contro le disgrazie. Secondo la tradizione però non avrebbe poteri nei confronti di
bianchi e musulmani.
Gli europei e gli americani che hanno letto “Il piccolo Principe” conoscono il baobab.
La sua vita è lunghissima, la maggior parte vive 500 anni, ma esistono esemplari che
hanno 5000 anni. Vuol dire che qualche albero è vecchio come le piramidi. La sacralità
di questa pianta per la popolazione africana è tale che solo gli iniziati e i saggi hanno il
permesso di arrampicarvisi per raccogliere frutti e foglie. Nessun albero può essere
abbattuto dall’uomo. Non si deve mai vendere il terreno dove cresce un baobab, porta
sfortuna. Il baobab è un miracolo nel mondo delle piante. Un tronco riesce contenere
fino a 120.000 litri d’acqua e resiste alle dure condizioni di siccità. Gli alberi sono
impollinati da pipistrelli. I frutti hanno un aspetto originale come l’albero stesso, e
sono tondi o ovali. I fiori sono bianchi o rosa, ma hanno un cattivo odore.
In alcune parti d’Africa si crede che poeti e musicisti siano posseduti dal diavolo. Per
non inquinare il suolo, i loro corpi vanno sepolti nella corteccia del baobab fuori del
villaggio.
Gli Africani dicono: il baobab è la nostra farmacia. Nella pianta si trova tutta la
medicina per guarire. Le mamme per nutrire i bambini mescolano la polpa del frutto
con il latte, per proteggerli da una pancia gonfia, della febbre e della dissenteria. La
medicina va venduta al mercato. Si curano anemia, diarrea, influenza, asma e si dice
anche i tumori. Dai semi si estrae un olio, che può essere utilizzato nell’alimentazione
umana e nella cosmesi. L’olio allevia il dolore delle scottature. Dai semi si fanno
anche le caramelle. Dai semi arrostiti si fa un delizioso caffè. Se i semi vanno
fermentati sono la base per una birra.
Foglie e germogli vanno mangiati come verdure. In Nigeria si fa la kuka soup. Le
foglie, macerate e poi compresse, servono a fare lavaggi alle orecchie e agli occhi dei
bambini malati. Le foglie sono anche utilizzate nella medicina tradizionale, nelle
malattie delle vie urinarie, per i morsi d’insetti, come vermifugo e, come già detto, per
combattere le infiammazioni. La frutta dell’albero si chiama anche “pain de signe”, il
pane delle scimmie, perché penzola come una coda di scimmia dai rami quasi nudi.
La polpa del frutto trova impiego come vermifugo, analgesico e nel trattamento di
vaiolo e morbillo. Con la polpa del frutto sospesa in acqua si può preparare una bibita,
che sa di limone, oppure può essere seccata e arrostita per fare un sostituto del caffè.
La polpa, liberata dalla buccia e dei semi, va utilizzata nelle polpette. Oggi si sa che la
polpa del frutto è ricca di vitamine, calcio, ferro, potassio, magnesio, zinco. Dalla
corteccia si fanno vestiti, cappelli, colla e corde. La cenere si usa come concime nei
campi. Per gli uomini africani il baobab è un regalo di Dio che ha un valore
inestimabile.
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Per gli Africani il baobab è Albero della Vita, Albero
Magico, Albero Farmacista, Albero Sacro
Quando il baobab mette le foglie?
È una questione di speranza.
Una saggezza africana dice che l’acqua ottenuta mettendo a
mollo i semi del baobab, mescolando per molto tempo, salva
dagli attacchi dei coccodrilli.
Un’altra saggezza dice che chi beve la tisana della corteccia del
baobab diventa grande, forte e potente.
Mai strappare senza arte e senza necessità un frutto dal
baobab. Ti mangiano i leoni.
Narrano le leggende…
Un giorno, parecchio tempo fa, un gruppo di folletti scontrosi e
bisbetici che viveva nella savana decise di vendicarsi degli uomini,
colpevoli di disturbare la loro quiete con musiche e litigi assordanti.
Idearono un dispetto molto particolare: approfittando del buio della
notte, si intrufolarono furtivamente nei villaggi, con la magia
addormentarono gli abitanti, curiosarono nelle case, mangiarono il tò
che era avanzato, poi buttarono tutto all’aria e sradicarono tutte le
piante che trovarono nei paraggi. Non le gettarono nel fiume, ma le
capovolsero a testa in giù. Così facendo diedero vita ai baobab, alberi
bizzarri e originali, che sembrano piantati al contrario, con le radici
al cielo. Gli uomini continuarono con i loro litigi, la loro musica e le
loro risate.
Un giorno, parecchio tempo fa, il baobab era un albero come tutti gli
altri, ma voleva essere diverso e così chiese agli dei di dargli più
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spazio per crescere. “Va bene”, disse il Consiglio degli dei, e l’albero
si prese un bel posto nella savana. Dopo un po’ l’albero aveva un
altro desiderio. Adesso voleva un tronco più imponente per
differenziarsi dagli altri alberi. Anche questo desiderio venne
esaudito. Non si accontentò dell’enorme tronco e del bel posto nella
savana. I suoi desideri divennero sempre più grandi. Adesso voleva
una tenera corteccia e portare frutti di velluto e voleva vivere mille
anni. Gli dei sbuffarono, ma ancora una volta le richieste vennero
ascoltate. Ma i suoi desideri non avevano fine: ora addirittura voleva
fiori d’oro, che brillassero al sole, così gli altri alberi morivano
d’invidia, soprattutto la bellissima palma. Gli dei ne avevano
abbastanza, erano veramente stufi, e senza contare fino a tre,
strapparono il baobab e lo piantarono con la testa in giù. Ecco! Da
questo momento in poi il baobab tace e non ha più nessun desiderio.
Fino ad oggi possiamo contemplare il baobab, come stende le sue
buffe radici verso il cielo.
La Kuka Soup è molto buona ed è facile da preparare.
Prendi due o tre ciotole di foglie di baobab (kuka) e due
ciotole di gombo seccato, un po’ di pigmento fresco,
quattro pomodori, un pesce fresco o seccato, sei
cucchiaini di olio di palma, un litro d’acqua e un dado.
Prima si lava e pulisce il pesce, se fresco aggiungere
sale e pepe. Tagliare i pomodori a pezzi, versare tutto in
una grande pentola con l’acqua e il dado, mettere anche
l’olio e lasciare bollire tutto quindici minuti; alla fine
aggiungere le kuka foglie e il gombo seccato, mescolare
e fare cuocere tutto altri dieci minuti.
Intanto si fa bollire il riso separatamente. Quando tutto
è pronto ci mettiamo a tavola e mangiamo la zuppa e il
riso finché è ancora calda.
Cecilia(Nigeria)
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IL CUSCUS
Narra la leggenda…
... Un giorno, lontano, lontano, una giovane donna, mentre faceva il
bagno nel mare, scoprì un topolino che stava mangiando la sabbia; la
donna non si spaventò alla sua vista, si avvicinò e la bestiola sparì
subito, ma essa, incuriosita di ciò che il topo stava mangiando così
avidamente, si chinò verso terra e, con suo grande stupore, scoprì che
il piccolo roditore non mangiava sabbia, ma una sostanza di colore
giallo che assomigliava alla sabbia. Nessuno fino ad allora ci aveva
pensato, ma quei granelli gialli, che formavano le spiagge del suo
villaggio, erano niente meno che una semola di grano che era
approdata con il mare da una vecchia nave sprofondata negli abissi.
Dal giorno di questa meravigliosa scoperta, la popolazione del
villaggio poté vivere nell'abbondanza e nutrirsi bene, ma anche altre
tribù, diverse per la lingua e le usanze, conobbero questo alimento e
lo utilizzarono. Ecco perché esistono molti modi per cucinarlo, viene
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usato al posto del pane ed insaporito con il piatto principale che può
essere di verdure cotte e legumi (per i vegetariani), di pesce o di
spezzatino di carne al sugo.
Uno scherzo divertente, a proposito di cuscus…
Un uomo ne invitò un altro a mangiare il cuscus a casa sua. Quando
furono seduti a tavola, l'ospite notò che mancava l'acqua e chiese al
padrone di casa se poteva andarla a prendere, ma questi rispose che se
lui fosse andato a prendere l'acqua, l’altro avrebbe potuto mangiargli
tutto il cuscus.
Gli propose allora di battere le mani fino a che non fosse arrivato, così
non avrebbe potuto mangiare.
L'ospite, però, con una mano si batté la nuca e con l'altra si mangiò
tutto il cuscus il più velocemente possibile.
Quando il padrone di casa arrivò vide il piatto vuoto e gli chiese
come avesse fatto a mangiare il cuscus ed a battere le mani
contemporaneamente; l'ospite gli rispose che, quando lo avesse
scoperto, lo avrebbe invitato a casa sua a mangiare il cuscus.
Il cibo e le mani
“Perchè il cuscus venga buono, bisogna avere la pentola
giusta. E' una pentola particolare fatta di due parti: sotto
si mette la carne con le verdure e il sugo e sopra c'è una
pentola bucata dove si mette il cuscus che così cuoce a
vapore prendendo un buon sapore
Ci sono due modi di mangiarlo.
Nel modo tradizionale, si mangia senza posate. Il cuscus
viene messo in un grande piatto rotondo, in mezzo la
semola e attorno la carne e le verdure, e tutti mangiano a
turno dallo stesso piatto. Si prende il cuscus con le mani e
si fanno delle palline per raccogliere tutti gli ingredienti e
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i sapori. E' un gesto molto particolare, non facile e, non
tutti, anche in Marocco, sono capaci di mangiare così.
Oggi, soprattutto in alcune zone del Marocco, il cuscus si
mangia invece con le posate.
Anche in altri paesi, alcuni cibi si mangiano meglio
direttamente con le mani. Per esempio, il riso, in India,
ma anche in Senegal e, in Italia, la carne, quando è vicina
all'osso, come il pollo o le costine.
Per noi musulmani è molto importante la pulizia.
Quando mangiamo, le nostre mani devono essere pulite,
è un precetto religioso. L'Islam insegna l'importanza
della pulizia della persona e dei vestiti.
Prima di mangiare qualsiasi cibo dobbiamo lavarci, così
come prima della preghiera, è un segno di rispetto,
perché quando preghiamo siamo davanti a Dio.
In Italia, invece, non sempre le persone danno
importanza a queste cose.
Nei negozi, dove si vendono cose da mangiare, non c'è
sempre un bagno dove lavare le mani. Mi è capitato, per
esempio, di comperare un pezzo di pizza in un negozio e
di essere in difficoltà perché non c'era la possibilità di
lavarmi prima di mangiarla. Al mio paese, invece, dove
si vende il cibo e si mangia, ci si può sempre lavare.
Le nostre mani compiono azioni importanti riferite al
cibo:
con le mani si mangia, si impasta, si mescola ,si
raccolgono i frutti, si sbucciano la frutta, si lavano i cibi,
si sala, si spezza il pane, si pulisce il pesce, si schiaccia ,
si offre ...”.
Fatima,Ajoub e Rachid (Marocco)
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Il cuscus con la farina di mais
Il cuscus è semola di grano duro, ma si può ottenere
anche con la farina di mais.
Ingredienti:
un mazzetto di prezzemolo legato,
1kg di farina di mais,
sette verdure: 4 carote, 4 pomodori, 4 cipolle, ¼ zucca
gialla, 2 zucchine, 1 cavolfiore, 2 melanzane,
1kg carne di manzo,
olio, sale, pepe, zenzero, zafferano.
Esecuzione:
Mettere la carne a cuocere per alcuni minuti con olio,
sale, pepe, zafferano, zenzero, 2 cipolle, i pomodori.
Aggiungere acqua e, quando bolle, mettere le carote e il
cavolfiore.
Separatamente, preparare il cuscus di mais bagnando la
farina con un poco di acqua e olio. Far passare la
pastella attraverso un setaccio. Mettere il cuscus nella
pentola con fori (barma) da posizionare sopra la pentola
con la carne.
Cuocere a vapore per dieci minuti,poi togliere la barma,
versare il cuscus sul piano di lavoro e con le mani
bagnate sbriciolare i grumi. Lasciare riposare, rimettere
il cuscus nella barma sopra la pentola della carne.
Ripetere l'operazione tre volte e, la seconda volta,
aggiungere alla carne le zucchine, la zucca, le
melanzane e il prezzemolo.
Quando il cuscus è cotto, aggiungere olio e versare su
un piatto grande il cuscus con la carne, le verdure e il
sugo.
Kadija (Marocco)
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Acrostico di cibo
L'idea nasce per caso. Pensavo di non aderire all'iniziativa
vista la situazione linguistica dei miei studenti. Alcuni di loro
sono da poco nel nostro paese, altri di madrelingua cinese con
grosse difficoltà d'apprendimento.
Durante una lezione si è parlato del cibo, termine non
conosciuto dagli studenti. Con l'aiuto dei diversi vocabolari
siamo riusciti a comprendere il significato e visto l'interesse
che l'argomento destava abbiamo deciso di approfondire
parlando della distribuzione e della composizione dei pasti nella
giornata nei paesi d'appartenenza. L'elenco è stato molto
difficoltoso, ma alla fine siamo riusciti a riportare tutti quelli
della prima colazione,pasto che maggiormente si differenzia
dalle nostre abitudini.
Ritenendo questa informazione interessante abbiamo deciso di
comunicarla attraverso il lavoro che presentiamo.
L'idea dell' acrostico è servita per arricchire in modo divertente
il patrimonio linguistico degli studenti.
Giuditta
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Il cibo
delle feste
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La festa di Tauxarit
“Ogni anno, noi, come tutti i musulmani in Senegal,
festeggiamo la fine dell’anno musulmano.
Questa festa si chiama Taruxarit, che è il nome di quel
mese, in wolof, la lingua locale, e, per l’occasione, si
cucina quello che si chiama cere bassesalte.
Al mattino, le donne vanno al mercato per comprare
verdure da unire a quanto già preparato il giorno prima,
trasformando i grani del miglio suna in farina.
Gli uomini devono preoccuparsi di recuperare la carne e
il cibo previsto per la notte.
Quando le donne sono tornate dal mercato, preparano
velocemente il pranzo come tutti i giorni (ceeb-ou-dien,
maffe). Alle 14,30 cominciano la preparazione del cibo
della sera; in questa occasione la cena si mangia prima
rispetto alle altre serate.
Si cucina prima una salsa di carne con pomodoro, piselli,
patatine e altre verdure. Dopo, si preparano al vapore la
farina del miglio oppure del mais.
Poi le donne prendono della salsa e una fettina di burro
che mettono nel cere (farina del miglio già pronta ) e con
il cucchiaio girano il tutto per 15 minuti.
Il nostro cere bassesalte è pronto! Buon appetito,
possiamo mangiare!
È tradizione portare una parte di questo cibo ai vicini,
soprattutto ai poveri.
Dopo la cena, giovani e bambini fanno dei giri nelle case
per il Tadiabone ricevendo soldi, miglio, riso e anche il
resto del cere. La festa dura fino a mezzanotte.”
Bravo Massire (Senegal)
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La Festa di Aide Soghir
“Alla fine del Ramadan, noi mussulmani festeggiamo
per un giorno intero, mangiamo tutti insieme il riso con il
latte o il burro, il pane, il cous cous con verdure o pollo.
Ci sono anche tanti tipi di dolce, torte con crema, si beve
il tè e il caffè latte.
Le donne cucinano e gli uomini discutono.
Da noi, c’è un’altra festa, si chiama Aide Kabire, durante
la quale si taglia la testa all’agnello”.
Naym (Marocco)
Menu della festa della fine del digiuno “ID AL-FITR”
in Maghreb
Mulukhia (zuppa vegetale alla contadina)
Tajin T’Faia (pollo alle mandorle)
Salata baladi (insalata mista)
Pilaf Mahammer (riso saltato)
Beshkito (biscottini)
Tè alla menta o Karkadè
Menu della festa del sacrificio “ID AL –ADHA” in
Medio Oriente
Kharuf Mahshi (montone ripieno)
Khobs (pane arabo)
Salata Khodar Meshakel (insalata mista tritata)
Ataif (frittelle con lo sciroppo)
Qahwa (caffè arabo)
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La festa per il Matrimonio
“In Marocco vengono fatte molte feste, tra le più belle è la
festa tradizionale del matrimonio che si fa all'aperto e
dura un giorno. Si fa in una piazza di fronte alla casa o
sul terrazzo della casa.
Una volta, nelle zone abitate dai berberi, la festa durava
anche sette giorni, ma adesso sono cambiate le abitudini:
la preparazione dura tanti giorni, ma la festa è un giorno
solo.
Per questa occasione, si riuniscono tutte le persone e gli
amici della famiglia per aiutare nella preparazione.
Le famiglie più ricche chiedono a qualcuno di preparare
tutto, ma le famiglie popolari fanno loro: tutta la famiglia
dà una mano, aiuta a preparare.
La preparazione del mangiare, la preparazione della sala
e di tutto è una cosa bella, che mi piace tanto.
Quando la festa si fa in una piazza grande, ci sono delle
tende, delle grandi tende con dentro dei divani e dei
tavoli, una grande tenda libera per ballare e per il gruppo
musicale.
Un'altra usanza è quella che la moglie e il marito, ad un
certo punto, si cambiano i vestiti, come in un defilè di
moda. Ogni zona ha il suo costume e ad ogni vestito
corrisponde una musica, per esempio il vestito di una
zona del sud e la musica della zona del sud.
Il cibo che si prepara per i matrimoni cambia da zona a
zona. Ovunque, però, dopo la cena, si mangiano i dolci;
adesso, alla fine, si mangia anche una torta, anche se
questa non è un cibo tradizionale del Marocco, ma è
un'usanza europea.
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Il dolce tradizionale dei matrimoni marocchini è invece
un dolce fatto da datteri senza nocciolo, dentro i datteri ci
sono delle mandorle e sopra dello zucchero colorato per
decorazione. Questo dolce viene messo in un grande
piatto, la moglie prende un dattero e lo offre al marito e il
marito lo offre alla moglie. Il significato è che per la
prima volta il marito e la moglie stanno assieme e
dividono il cibo.
La festa del matrimonio è un momento importante per
tutta la famiglia.”
Ayoub (Marocco)
La picana della notte di Natale
“La Bolivia è un Paese multiculturale e multietnico, è un
misto di varie culture europee e native.
Da oltre 500 anni sono arrivati in Bolivia gli europei,
imponendo ai popoli sudamericani le loro diverse
culture. Hanno “scoperto”, (ma esisteva già!), questo
nuovo mondo che oggi si chiama America.
In America del Sud c’è la Bolivia, il mio paese, che è stato
colonizzato dagli spagnoli.
Nell’anno 1492 Cristoforo Colombo ha “scoperto” le
Americhe ed ha portato la religione cattolica, che si è
diffusa nel nostro paese, ma che, a secondo delle zone
della Bolivia, si esprime con dei riti e dei culti differenti;
per esempio, la nascita di Gesù viene festeggiata in modi
differenti.
Il nostro paese ha tre aree geografiche: la zona Andina, la
zona della valle e quella dell’altopiano.
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In tutte le zone esistono tradizioni molto belle a Natale;
una consuetudine è mangiare un piatto tipico dal nome
picana. È un piatto ricco di molti sapori e aromi che
contiene anche una grande varietà di carni; infatti, la
preparazione della picana è abbastanza complicata,
perché unisce vari alimenti e condimenti.
Per preparare il brodo, si può usare sia la carne di bue,
che quella d’agnello o di pollo. Per condire, si mette il
peperoncino non piccante, il comino intero, l’aglio, la
cipolla, l’uva passa, le carote tagliate a pezzettini, il
peperone dolce, la patata, i pomodori…
A Natale, la gente del mio Paese si raccoglie
spiritualmente in preghiera, perché l’umano e il divino
possano entrare in relazione. In questa particolare
occasione, è usanza che le persone singole, le famiglie o le
stesse comunità si chiedano perdono a vicenda per i torti
fatti e subiti prima di riunirsi per consumare il pranzo
della mezzanotte. Però non tutte le famiglie sfruttano tale
opportunità, perché la gente è diversa come in tutto il
mondo.
Nella mia terra esistono tre classi sociali.
La classe dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, sono
queste delle persone che da sempre occupano cariche
nella politica e, grazie a questo, sono molto ricche, ma il
buon Dio non ha dato loro la qualità di essere generose e
altruiste; sono, infatti, una classe a parte, che non si
mescola con gli altri.
Il secondo gruppo è formato dalla classe media ed è
rappresentato, in buona parte, da professionisti che sono
più sensibili alle tradizioni popolari, come quella di
consumare il piatto tipico picana durante le feste di
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Natale. Di questo gruppo sociale, anche a Bergamo, c’è
una buona rappresentanza che mantiene anche qui le
tradizioni della nostra amata terra boliviana.
Il terzo gruppo è rappresentato dai poveri e dagli
indigenti che, anche a Natale, si preoccupano solo, come
ogni giorno, di come procurarsi il cibo per sopravvivere.
Questa è la mia terra! Anche se non tutti a Natale
consumano la picana, questo piatto non sarà mai
superato da nessun un altro nella nostra cucina
tradizionale.”
Josefina (Bolivia)
La Settimana Santa
“Nella Repubblica Dominicana si celebra la Semana
Mayor che cade dopo 40 giorni di Quaresima. Si celebra
in due forme: una veramente cristiana, come si celebrava
nel passato dai cristiani praticanti, e nell’altra, come la
festeggia ora la maggior parte delle persone, in pratica
come giorni di riposo e come un’occasione per fare tre
giorni di vacanza.
Nel mio Paese l’85% delle persone appartengono alla
religione cattolica, anche se non siamo praticanti.
Per i cattolici praticanti è una settimana di raccoglimento,
di preghiera, di meditazione e di servizi religiosi: si fanno
ritiri spirituali e processioni nelle strade, si celebrano
attività spirituali durante tutta la settimana dalla
Domenica delle Palme fino alla mezzanotte del Sabato
Santo.
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Le attività si concentrano dal pomeriggio del Giovedì
Santo sino alla sera del sabato, quando si celebra la
“messa del gallo” a mezzanotte, per dare inizio alla
domenica della gloria della Resurrezione.
Nel passato, anche solo trent’anni fa, a Santo Domingo,
capitale della Repubblica Dominicana, generalmente tutti
i cattolici osservavano con devozione e riverenza la
Settimana Santa, poiché quasi tutta la società era cattolica
e la gente, cittadini e contadini, aveva la stessa tradizione
religiosa (era una cultura sociale).
I bar e gli altri centri notturni di divertimento chiudevano
le porte dal giovedì santo fino alla mezzanotte del sabato.
La radio trasmetteva per tre giorni solo musica
strumentale, classica, che la gente chiamava “musica dei
morti” perché era senza voce e anche senza allegria. E,
davvero, era musica funebre perché esprimeva il lutto
per la morte di Gesù. In televisione, in questi tre giorni,
proiettavano solo film religiosi: la Passione di Cristo, i
Dieci Comandamenti, David, Sansone e Dalila, San
Francesco di Assisi, Santa Teresa del Bambin Gesù.
Il Venerdì Santo, tutta la gente digiunava fino al pranzo,
si alzava dal letto senza parlare, e, sempre in silenzio, si
preparava e andava in chiesa, al ritiro o alla processione.
A mezzogiorno, tornava a casa per il pranzo; che era
diverso dal solito, perché era senza carne.
Invece della carne, che nella nostra cucina accompagna
sempre il riso bianco, in questa occasione il riso si serve
con contorno di legumi (guandules) e dell’insalata,
oppure si mangia baccalà guisado (in umido) con patate,
spaghetti, melanzane, il pesce con il cocco…
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Sebbene il piatto tradizionale dominicano sia riso,
habichuela (fagioli rossi) e carne, durante la quaresima, si
sostituisce la carne con altri alimenti, l’habichuela con le
guandules (legumi tipici locali), perché in questi giorni si
cucina in modo speciale.
Attualmente, anche durante la settimana santa, alla radio
si sente musica allegra, la televisione trasmette
programmi vari, mentre le scuole chiudono, come nel
passato, fino al lunedì santo. Per la maggior parte dei
dominicani, come ho già detto, è soprattutto un periodo
di vacanza, non è più sentito, come nel passato, come un
momento di raccoglimento e di preghiera.
Con la habichuela si prepara un delizioso dolce
(habichuela con dulce)
Habichuela con dulce
Ingredienti per una famiglia di 5 persone:
2 chili di habichuela (fagioli rossi), 1 chilo di zucchero, 2 litri di latte
evaporato, 1 litro di latte di cocco (preparato,secondo la tradizione, in
casa), 2 litri di latte di mucca, una scatoletta di uva passa, 5 pezzetti di
cannella, 8 chiodi di garofano, ½ chilo di patate dolci, un po’ di radice di
zenzero, una presa di sale fine, un sacchetto di biscottini (galeticas).
In una pentola a pressione, si mette a bollire la
habichuela, per un’ora. Dopo si fa raffreddare, si macina
e si mette in un’altra pentola grande con cannella,
biscotti dolci, zenzero, le patate dolci e il latte di cocco.
Dopo 20 minuti di bollitura, si mette il latte di mucca e
il latte evaporato ed anche l’uva passa.
Quando diventa spessa e di colore rosso si spegne, si
lascia raffreddare e poi si versa nei bicchieri. Sopra
ogni bicchiere si mette un biscotto dolce che poi si
consuma insieme.
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che è il nostro piatto più tradizionale: è consumato dai
cattolici praticanti e non praticanti ed è gustato con lo
stesso entusiasmo. Viene cucinato in ogni famiglia in una
pentola grande o in una latta grande.
Questo dolce si gusta con tutti gli amici e si usa far visita
agli amici alla domenica mangiandone un po’ insieme. Se
si mantiene in frigorifero, anzi è migliore se è molto
freddo, e, se congelato, diventa un delizioso gelato.”
Griselda (Santo Domingo)
São João
“Una delle feste più sentite nell'intero Brasile è quella di
San Giovanni Battista: un po' ovunque il 23 giugno sera ci
si raduna per pregare, poi per accendere la fogueira de
São João, vale a dire un falò di legna, vicino al quale si
danza (tipicamente la quadriglia, magari in costume
caipira, vale a dire con le coppie di ballerini in costume
da contadino e contadina, per ricordare le antiche feste
nelle aie...) e ovviamente si mangia (dolcetti e salatini) e
si beve, e quasi immancabili sono anche i fuochi
d'artificio e i petardi.
Certo nella Bahia con i fuochi in riva al mare fa un altro
effetto, ma anche dove sto io non è male. Certo il mare è a
2000 km, e il Rio delle Amazzoni a 500: a Manaus, in
Amazzonia, fanno la processione fluviale. Magari un
giorno potrò andare!
La festa di San Giovanni (São João) è una celebrazione
tradizionale brasiliana che cade nel mese di giugno; nello
stesso mese, si festeggiano tre santi cattolici importanti:
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sono João (24 di giugno), Pietro (29 di giugno) e Antonio
(13 di giugno).
Questi santi sono molto popolari in
Brasile, anche se sono festeggiati anche in altri paesi.
Per tradizione queste feste hanno preso il nome di junina
(joanina inizialmente, da San João), perché hanno avuto
origine dai paesi cattolici europei in omaggio a João, che
è commemorato normalmente in giugno. La tradizione è
stata portata in Brasile dal Portogallo, ed è stata fatta
propria anche dalla gente aborigena e nera. La festa più
tradizionale è quella di San João, che è tipica nella
regione del nordest del Brasile.
Nel nord est, regione povera d’acqua, si festeggia
annualmente anche S. Pietro e si ringraziano i due santi
per le piogge cadute nei campi. L’inizio dell’estate è il
momento opportuno per raccolta del mais, un alimento
molto importante della tradizione culinaria brasiliana,
come il canjica e il pamonha, il milho, l’amendoin, etc.
Attualmente, i festegjos (festeggiamenti) sono presenti in
nord ovest, come, ad esempio, Caruaru in Pernambuco,
Campina Grande nel Paraíba, Maceió in Alagoas e Bahia.
Durante questa festa, come ho detto,
si balla
tradizionalmente la quadrilha, un ballo che si fa in
omaggio ai santi junini, cioè Santo Antonio, San João e
San Pedro, per ringraziamento dei buoni raccolti.
Altra tradizione importante sono i grandes fogueiras, dei
grandi falò, che si fanno nel mese di giugno. Per i
cattolici, il fogueira è il simbolo più grande della
commemorazione e della purificazione. Questo rito
ricorda la vicenda di S. Elisabetta e della Madonna. Per
informare Maria della nascita di S. João Batista e così
49
avere un aiuto dopo il parto, Isabel ha acceso un fuoco
(fogueira) su un braciere.
Un'altra tradizione afferma che questi fogueiras fanno
parte di un rito più antico, preesistente al cattolicesimo,
per celebrare il solstizio di giugno.
Anche in Portogallo era tradizione accendere il fogueira
per i santi popolari. Un tempo, nelle feste di juninas era
una consuetudine fare volare anche gli aerostati; ora è
proibito per legge per il rischio d’incendio.
Le tradizioni popolari di juninas possono essere divise in
due tipi: quella della regione di nord est e quella del
caipira del Brasile, cioè di São Paulo, di Paraná (nord),
del Minas Gerais (tutta nella parte del sud) e di Goiás.
Nel Brasile nord-orientale ancora esiste la tradizione di
gruppi di festeiros, che organizzano la festa; tutti sono
invitati a partecipare e i festeiros sono i benvenuti in tutte
le case. Durante il periodo della festa, nelle case la tavola
è imbandita con bevande e alimenti tipici (la satiated) da
offrire ai gruppi. La tradizione dei festeiros è un modo
per integrarsi e stare insieme fra la gente della città.
Ultimamente, nelle città i vari gruppi di festerios sono
coordinati da un'unica congregazione. Il tutto si fa
sempre rispettando la tradizione, con molta abbondanza
di cibi, balli e di animazione. Nella città di São Paulo, per
esempio, è rimasta la tradizione di realizzare delle
quermesses e dei balli di gruppo intorno ai fogueiras.
Una tradizione molto antica è la presenza dei petardi che
i bambini usano per giocare nella notte di São João.
Insomma, la festa di São João, nel mio paese, è proprio
una bella festa!”
Leonardo (Brasile)
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La Vigilia di Natale in Ucraina
“L’Ucraina è un bellissimo paese molto ricco di
tradizioni. La due feste principali sono la Vigilia di
Natale o Svjatvečer (la notte santa) e la Pasqua.
Vorrei descrivere brevemente come festeggiamo la
Vigilia di Natale. Innanzitutto a causa del calendario
ortodosso questa festa solitamente cade o il 6 o il 7 di
gennaio. In occasione della Vigilia di Natale tutta la
famiglia si riunisce per la cena. La tavola viene
apparecchiata riccamente e di solito si aggiunge un
coperto in più rispetto al numero di commensali perché,
secondo tradizione, quella sera ritornano dall’aldilà gli
spiriti dei parenti morti che partecipano con il resto della
famiglia all’attesa della nascita di Gesù bambino. Sulla
tavola spesso ci sono delle candele.
La cena comincia quando in cielo si accende la prima
stella.
Il menù prevede dodici portate perché tutti e dodici i
mesi dell’anno siano ricchi. Tutti i piatti sono senza
carne. Il piatto più importante si chiama kuttja ed è un
tipo particolare di kaša, una sorta di semolino insomma.
Gli ingredienti principali sono farina di grano e noci
tostate che vengono cotti insieme. Poi il composto viene
deposto in un apposito piatto detto makitra. La kuttja si
serve allungata con latte o acqua bollente.
Un altro piatto importante sono i vareniki, ovvero i
ravioli di magro. I vareniki sono farciti con svariati
ingredienti: cavolfiore, pesce e funghi, per esempio.
Tra le altre portate non manca mai un piatto a base di
patate e uno base di pesce.
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Per dolce di solito si mangia l’izvar, una specie di
marmellata molto liquida ricavata facendo bollire la
frutta secca nell’acqua.
Dopo la cena i resti delle portate vengono lasciati sul
tavolo per tutta la notte. È considerato peccato lavare i
piatti la sera della Vigilia di Natale, perché bisogna
lasciare la kuttja e le altre portate a disposizione degli
antenati che potrebbero sopraggiungere nel cuore della
notte.
Non ci si deve dimenticare inoltre di dare da mangiare
agli animali, perché si racconta che quella notte a volte
sia possibile capire il loro linguaggio e ascoltare i loro
discorsi”.
Oleg (Ucraina)
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Testimonianze
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Borschtsch
“Vivo da 4 anni in Italia, faccio la badante, sono ucraina.
Ho 45 anni, sono sposata, ho una figlia che studia
ingegneria e un figlio che ha appena finito il militare ed è
in cerca di lavoro. Ho studiato lettere, a Kiew ho
insegnato alla scuola elementare, perché non ho trovato
un altro lavoro dopo la laurea. Quando ho un po’ di
tempo, scrivo poesie.
Quando mi chiedono perché sono venuta in Italia,
rispondo con un una sorriso amaro: lamentarsi non è
dignitoso! Ho trovato il mio lavoro come badante tramite
un’amica, così ho dovuto imparare in fretta, con
disciplina la lingua italiana, quando sono venuta la prima
volta a scuola, ho portato a Elke, la mia insegnante, un
ciclamino, perché in Ucraina si usa così il primo giorno di
scuola.
Quest’anno ho preso la patente, forse un giorno mi
comprerò una macchina.
Una volta all’anno torno a casa, mio marito mi dice: “In
Italia fai brutte cose!” Io taccio e continuo a fare la badante.
Per anni, il mondo ha considerato l’Ucraina
semplicemente una parte della Russia, gli ucraini invece
sono orgogliosi della loro identità!
L’Ucraina ha un suolo molto fertile, grandi fiumi la
percorrono, tanti popoli hanno attraversato il nostro
paese e poi se ne sono andati, altri sono rimasti; è per
questo che nell’Ucraina vivono quasi 100 etnie.
Una volta l’Ucraina era il granaio della Russia. A seguito
della politica staliniana di pianificazione per
l’industrializzazione, l’agricoltura venne sacrificata, i
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nostri contadini cercarono di resistere, ma ci fu una
terribile repressione: il governo ricorse alla deportazione
di massa di famiglie e di interi villaggi e i nostri cereali
vennero requisiti. I soldi vennero investiti nella grande
industria pesante. I vecchi si ricordano ancora la terribile
carestia del 1932, quando morirono di fame più di 5
milioni di esseri umani.
Il mio paese ha subito un’altra grande tragedia: tutti,
anche in Italia ricordano Chernobyl . Correva l’anno
1986. Noi abbiamo avuto la notizia del disastro dalle
radio dei paesi dell’ ovest: il cibo che veniva dalle nostre
splendide campagne, non era più un cibo sano, era
radioattivo.
Dal 1991 l’Ucraina è uno stato indipendente.
La fine dell’URSS, una sorpresa per tutti noi, ha cambiato
le nostre vite e i nostri sogni. Molte famiglie si stanno
disgregando, gli uomini annegano i loro problemi
nell’alcool o cercano fortuna all’estero, mentre gli anziani
che rimangono, non sognano più, per loro è troppo tardi
per dare una svolta alla loro vita, spesso cercano
anch’essi una via d’uscita nell’alcool.
Le donne ucraine, che rimangono a casa, hanno difficoltà
di sbarcare il lunario, così molte donne emigrano e spesso
mantengono con il loro lavoro tutta la famiglia.
In Ucraina, soprattutto da dove vengo io, mangiamo
quello che dà il nostro suolo. Abitualmente, mangiamo
patate, cavoli e prodotti di cereali ; la carne di maiale e di
pollo non si trova tutti i giorni sulle nostre tavole. La
carne di manzo è cara, nel mio paese, lo stipendio medio
è di 80€ .
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I nostri piatti più tipici sono Borschtsch, Soljanka (zuppa
di pollo), Warenyky e Mlinzi (omlette con ripieno salato
o dolce). Beviamo poco anche il caffè, perché è caro.
Come dessert mangiamo soprattutto frutta cotta : l’uswar
è un dolce di frutta secca con miele.
La domenica, però prepariamo le torte, in estate con la
frutta, in inverno con le nocciole.
I biscotti di solito si fanno per Natale.
Tante famiglie, che vivono nelle campagne, ancora oggi
fanno i loro succhi per l’uso familiare con la frutta che
cresce nei loro orti e nei loro giardini. Anche i liquori
sono fatti in casa.
Come gia detto il borschtsch è un tipico piatto
dell’Ucrania. Il nome viene dall’antico russo burjak
(barbabietola) e ogni famiglia ha la sua ricetta .
Ecco la mia ricetta del borschtsch
Si taglia 1 kg di maiale salato a dadini; in una pentola,
si fa rosolare una cipolla finemente affettata e una
radice di sedano sbucciata e tagliata a strisce in olio di
seme o di grasso di maiale.
Poi si aggiunge la carne. Quando la carne è dorata, si
versano cinque litri d’acqua, le barbabietole (5 o 6)
sbucciate e tagliate, una mezza di testa di cavolo
finemente tagliata.
Si fa bollire tutto per un’ora. Poi, si aggiunge la
salsiccia, più o meno 200gr, la scatola di pomodori e
una tazza di segale sminuzzato con il sale, il pepe e
l’aceto. Dopo altri 30 minuti, alla fine della cottura, si
versa la panna acida.
Si può cucinare il borschtsch anche senza la carne.
Dipende dal portafoglio!
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I Warenyky sono una specie di ravioloni. Possono essere
ripieni di patate, krauti, ricotta, carne, semi di pavavero,
funghi o frutta.
Sono diventati famosi in tutto il mondo grazie alla
novella di Nikolaj Gogol “La notte prima di Natale”
come il simbolo di pigrizia e intemperanza. Nella novella
si racconta che, per magia, i warenyky saltarono fuori
dalla pentola, si tuffarono nella smetana (panna acida) e
volarono nella bocca.
Noi Ucraini amiamo il lardo, il “salo”. Il nostro lardo non
ha componenti di carne, ma ha unicamente uno strato
bianco di grasso. Condito con aromi si gusta con la
vodka. Il salo si trova sempre nella cucina ucraina,
nonostante che, anche noi, stiamo attenti alle calorie. I
cosacchi, il popolo orginario dell’Asia,
dal
‘500
preparavano i piatti con il lardo, per differenziasi dai
musulmani.
Sulle nostre tavole, spesso, ci sono gli insaccati che sono
più grassi di quelli italiani; si mangiano alla sera con il
pane.
Come in tutti paesi europei, la nostra gioventù preferisce
sempre di più il fast food: hot dogs, hamburger e doener,
ma mangiano volentieri anche panini imbottiti e i pirogge
(ravioloni saltati in padella). D’altra parte, da noi nei fast
food si trovano anche i piatti tradizionali come il
borschtsch e i warenyky.
Gli Ucraini celebrano il Natale secondo il calendario e i
riti ortodossi il 7 gennaio, ma è la Pashka (la Pasqua) la
festa religiosa più sentita dal popolo e viene celebrata
secondo la religione ortodossa con la messa di
57
mezzanotte. Per i non credenti è la festa della fine
dell’inverno, che da noi sono veramente lunghi.
Rimanere a Natale e a Pasqua in Italia, lontano dai nostri
cari è doloroso. Le mie amiche ed io cerchiamo sempre
di creare un’atmosfera che somigli un po’ quella che
viviamo nella nostra patria. Chi tra noi è credente chiede
il permesso alle “nonne”(così chiamiamo le signore
presso le quali siamo a servizio, perché spesso sono
anziane) e va a messa.
Facciamo venire dolci e insaccati dalla Ucraina. Ci
incontriamo in una casa e ci raccontiamo le fiabe
natalizie, cantiamo le nostre canzoni nostalgiche,
mangiamo il cibo che abbiamo comprato nel nostro
paese, brindiamo con il nostro liquore ed io leggo le mie
poesie. Stare insieme attenua il dispiacere di non essere
con i nostri cari.”
Natalija (Ucraina)
Gastronomia marocchina
“La gastronomia è una cosa molto importante nella
storia, nella tradizione e nel presente dei popoli, perché ci
sono cibi che si consumano quotidianamente, fanno parte
delle nostre abitudini nutrizionali, alcuni, in particolare,
sono presenti in tutte le feste.
Ci sono alcuni piatti che più degli altri caratterizzano
ogni paese, fanno parte della tradizione e, insieme ad
altre cose, vengono considerati patrimonio nazionale,
quasi un simbolo della bandiera! La pizza, la pasta, il
gelato e un buon caffè, richiamano, per esempio, l’Italia.
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Nel mio paese, il Marocco, si producono alimenti simili a
quelli coltivati negli altri paesi del Mediterraneo, così
alcuni piatti si assomigliano, nella nostra cucina si usa
moltissimo olio di oliva prodotto da quasi tutti i paesi del
Mediterraneo.
In Marocco ci sono cibi molto importanti, che con il
tempo, attraverso il turismo e l’emigrazione, hanno
ottenuto una fama internazionale. Uno di questo è il
tagin che si prepara in una pentola artigianale di
terracotta, è fatto a base di carne che può essere di mucca,
manzo o pollo e in alcune città anche di pesce; si
aggiungono tanti tipi di verdure, olive, piselli e molte
spezie che danno un sapore particolare, si cucina a fuoco
lento per circa due ore.
Un altro piatto divenuto molto famoso è il coucous: si
utilizza la farina di granoturco fino a lavorarla in
piccolissimi grani che si allargano nel momento della
cottura ( un tempo, le donne preparavano il grano in
casa, ora il coucous si lavora anche nelle fabbriche.)
Anche per questo piatto ci vuole una pentola speciale,
infatti nella parte inferiore della pentola si cucina il sugo
di carne con almeno 7 tipi di verdure compresi i ceci ed il
passato di pomodoro, nella parte superiore, che è una
vaporiera, si cucina il grano del couscous.
Questo piatto si consuma il venerdì che il nostro giorno
Santo dedicato alla preghiera.
Nella nostra cultura araba mussulmana, ci sono anche
molti altri piatti che si cucinano in occasioni di feste
religiose, come la harira che è una zuppa di legumi e
carne e si accompagna ai datteri e alle uova sode; il
masciui che è come la grigliata italiana, il saffa riso
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bollito con miele; e le msaman che sono crèpes lavorate a
mano dalle donne del Marocco.
Tutti questi piatti sono indispensabili sulla tavola di tutte
le famiglie nell’occasione del mese Sacro del Ramadan
accompagnati da una grande varietà di dolci fatti in casa
che caratterizzano la pasticceria nel mio paese.
Il Ramadan è un periodo di meditazione e di
purificazione del corpo e dell’anima che fa riflettere il
ricco sui poveri, privi di tante necessità e fortune, al fine
di stimolare la solidarietà con chi ha meno. Il Ramadan
può durare 29 o 30 giorni a seconda dell’anno lunare e
progressivamente viene a cadere ogni mese dell’anno con
l’intervallo di 11 giorni; ad esempio, lo scorso anno è
iniziato il 3 settembre, il prossimo anno inizierà il 14
settembre.
Alla fine del Ramadan c’è la festa chiamata Aïd Asghir.
Dopo due mesi, c’è un’altra festa importante quella
dell’Aïd Kebir (la festa del sacrificio) che commemora la
vicenda di Abramo che, per mettere a prova la sua fede,
era stato chiamato da Dio perché sacrificasse il figlio
Isacco. Dio, ricompensando la sua grande fede, inviò, al
posto del figlio, l’agnello sacrificale.
Nella tradizione mussulmana, tutte le famiglie, che
hanno la possibilità economica di farlo, uccidono un
agnello nella casa e ne consumano 1/3, un altro terzo
viene donato ai poveri e l’ultimo terzo per festeggiare
con amici e parenti. La festa di Aid Kebir è un’occasione
per dimostrare la solidarietà con i poveri e per migliorare
i rapporti con il prossimo.
Nei nostri pranzi si beve il thè alla menta, che è in
Marocco la bibita della nostra tradizione; nel mio paese è
60
molto popolare, più conosciuta della
Coca Cola
occidentale. Si prepara in una teiera, è bevuta da tutti e
sostituisce anche le bibite alcoliche dei paesi occidentali,
considerate illecite nella nostra religione.”
Bahsine Youness (Marocco)
Cibo e cucina in Bolivia
“In Bolivia c’è un proverbio: nunca nos arrepentiremos de
haber comido poco, vuole dire non ci pentiremo mai di
avere mangiato poco. Significa che, se mangio tutto quello
che ho in un giorno, non avrò più da mangiare il giorno
dopo.
Da noi, in cucina, stanno solo le donne, il pranzo è il
pasto più importante, è il momento in cui si sta tutti
insieme. Non c’è un primo, un secondo come qui, il
piatto è unico, quindi il pasto è più veloce. C’è da dire
che qui in Italia c’è più varietà e quantità di cibo.
Uno dei piatti più comuni è il chicharron, il maiale
arrostito con diverse varietà di mais o con le patate. In
Bolivia, ci sono diverse varietà di mais: rosso, giallo
grigio, nero… Anche da noi si fa la polenta, ma la si
lascia un po’ morbida, spesso la si dà anche agli animali;
però, qui a Bergamo, mi sono abituata a mangiare la
polenta e mi piace. Ho imparato a bere anche il vino, da
noi non si beve spesso, perché è troppo caro.
Anche l’olio d’oliva in Bolivia è troppo costoso, lo si dà
agli ammalati come se fosse una medicina; per cucinare si
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usa l’olio di girasole; certo l’olio di oliva è più salutare e
dà un altro sapore ai cibi.
Frutta e verdura, invece, da noi hanno un altro sapore,
sono più gustose, forse perché sono più genuine.
Uno dei piatti che si preparano più spesso per un pranzo
di festa è la picanta de pollo. Gli ingredienti principali
sono pollo, riso e patate. Riso e patate accompagnano il
pollo: il riso è bollito, le patate si fanno passare nelle
arachidi tritate e si cuociono in olio bollente.”
Alfredo,Victoria, Cinthia (Bolivia)
Il chicharon de cerdo
2 kg. di costine di maiale con tanta carne, 1 libra di mais bianco già
cotto, 5 cipolle piccole, 2 cucchiai di locoto (peperoncino), 2
cucchiai di pepe nero, 2 cucchiai di cumino, 4 spicchi d’aglio, sale e
olio a volontà.
Mischiare e frullare insieme cipolle, peperoncino, pepe,
cumino, aglio, sale ed olio fino ad ottenere una salsa
spessa. Lavare e tagliare le costine a metà e condirle con
la salsa. Lasciare riposare almeno quindici minuti
perché prendano sapore. Mettere le costine in un
padella abbastanza fonda e farle cuocere, incoperchiate
per circa un’ora, mescolando ogni tanto.
Quando le costine sono pronte, servire insieme con il
mais caldo.
Doris Ivelisse (Bolivia)
I prodotti e i piatti regionali in Bolivia
“Per capire il cibo boliviano si deve sapere, per prima
cosa, che il nostro paese è multiculturale e plurilingue,
62
per questo ci sono tante diversità anche nei piatti che si
portano a tavola.
Ci sono tre regioni geografiche.
La prima è l’altopiano, con altitudine di 3.500 metri: La
Paz è la capitale più alta del mondo. E’ una terra aspra,
spesso fa freddo, produce molte varietà di patate: ocas,
quinua, kañawi, chuño (le patate essiccate)…, che hanno
il sapore particolare di questa terra. Si mangia carne
d’agnello, di lama, d’alpaca; nel lago Titicaca, ci sono
diverse varietà di pesci e anche le rane. La gente di
questa regione parla l’aymara, è di una razza molto forte,
è orgogliosa di essere la gente più antica del continente
americano. Tiawanaco e La porta del sole sono
patrimonio dell’umanità. Spesso le pietanze sono
cucinate secondo ricette millenarie come le zuppe, chairo
e lawas ( ma ce ne sono per tutti i gusti), la carne alla
pietra vulcanica, e le ricette a base di mais…
I piatti più comuni sono i seguenti.
A La Paz anticucho (fette sottili di cuore di manzo cotte
alla brace, con contorno di patate e arachidi frullae con
peperoncino), api (mais viola tritato, cotto con un po’
d’acqua e buccia d’arancio), chairo (brodo di chuño
tritato e mais), chorkecàn (carne secca di lama o manzo
cotto con peperoncino e contorno di patate e chuño),
lagua de chuño (brodo spesso di farina di chuño
aromatizzata con menta), phiri (quinua con formaggio
fondente e patate), plato placeño (pannocchia di mais,
fave con la buccia, formaggio di pecora e patate lessate),
trucca, che è la trota del Titicaca.
A Oruroi intendente (varietà di carni di manzo, agnello,
pollo e pesce), pejerey (salsiccia alla brace con contorno di
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riso, patate e verdure fresche), rostro asado (testa
d'agnello cotta al forno sotto terra), charque orureño
(carne di lama cotta in padella, con mais, uova sode,
pezzetti di formaggio e patate).
A Potosì saltañas ( sembra un calzone con dentro un
pasticcio di carne, con abbondante brodo), K’alapurka
(laguadi, mais e altri cereali), tetitas do monja
(marzapane).
La seconda regione è occupata dalle valli; tutto l’anno
c’è un clima costante di circa 15° anche se, in alcuni
punti, si arriva ai 2500 metri. E’ la zona più fertile, vi si
trovano tutti i prodotti della terra, dei fiumi e dei laghi:
cane, pesce, verdura, il locoto (piccolo peperone
piccante) e frutti. E’ dunque anche la regione più
importante per la cucina boliviana, che nasce dall’unione
tra la cucina spagnola con quella indigena. Gli abitanti,
infatti, discendono dagli Incas e parlano il quechua.
I piatti tipici sono i seguenti.
A Cochabamba conejo lambreado (coniglio unto nel pane
grattato e fritto, con contorno di cipolle cotte, chuño e
patate bianche), chanka de conejo (coniglio cotto in brodo
con menta, cipolle verdi, fave, patate bianche in salsa di
peperoncino), fidius uchu (brodo piccante e denso con
spaghetti e carne di mucca, chuño e patate), humintas
(tamales di pannocchia tritata con carne e patate), k’allu
(insalata di cipolle tagliate a pezzetti, pomodori e locoto),
Kawi (petto di mucca in brodo o fritto), papawaihu
(patate cotte con la buccia), ranga (brodo bianco con
trippa di mucca con patate bianche). La bibita
tradizionale è la chincha fatta con il mais fermentato.
64
A Chuquisaca chorizos chuquisaqueños (salsicciotto fritto
con il pane inzuppato nell’olio, insalata di lattuga,
pomodoro, cipolle e locoto), fritanga (costine di maiale
cotte, peperoncino, cipolle verdi, patate bianche), Jolka
(rene di mucca cotto in salsa densa di picante e patate
bianche). Le bibite tradizionali sono Ajanjo ( si beve a
carnevale), cerveza, mistalas (liquore di frutta macerata
in alcol).
A Tarija cangrejos darios (granchi dei fiumi Tomatitas,
Guadalquivir e San Jacinto, fritti in olio con il mais),
doraditos (piccoli pesci di fiume fritti con mais), saice
(pasticcio di carne di mucca con patate e lattuga fresca),
sabalo de villa montes (pesca del fiume Pileomajo fritto o
alla brace). La bibita tradizionale è il vino crèollo.
La terza regione è occupata dalla foresta pluviale
amazzonica: è il polmone della terra! L’altitudine è di 500
metri, è una zona molto calda e umida, dove vivono
anche molti animali allo stato selvaggio. La terra produce
una grande varietà di prodotti tropicali, di frutta esotica
(ci sono banane di tanti tipi), canna da zucchero, inoltre ci
sono molti importanti allevamenti di bestiame; piatti
tipici sono la carne e il pesce alla griglia, che sono serviti
insieme al riso e alla frutta. La gente di questa regione
parla il guaranì.
Le ricette tipiche sono le seguenti.
A Santa Cruz cuñapà (pane d’almidòn con dentro il
formaggio), locro (brodo di gallina con riso e banane
fritte), majan (riso in brodo con pezzetti di carne bovina
secca e banane fritte), masaco (banana verde macinata
con carne bovina o suina), pacù (pescato di fiume fritto),
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zonzo (yuca macinata con abbondante formaggio
amalgamato, messo allo spiedo e cotto alla brace).
A Beni charojà (brodo denso di farina di banane con
yuca), jochi pintao (carne di cinghiale cotta in padella nel
suo grasso), mamona (grigliata di carne di vitello).
A Pando caldo da pata (brodo di tartaruga), palometa
frita (piraña di fiume fritto in padella), pescado de rio
(frittura dei tanti tipi di pesci di fiume), carne de monte
(carne di caccia come il cervo, i maiali selvatici…).”
Doris Ivelisse, Marcelo (Bolivia)
La Pachamanca
“Sono peruviana di Lima e vivo a Bergamo da quasi sei
anni. Mio padre è originario di Trujillo, capitale del
dipartimento di La Libertad, che è la città peruviana più
importante al nord di Lima, anche grazie ai suoi
eccezionali monumenti delle antiche culture Moche e
Chimu.
Mia madre è di Lima, capitale del Perù, chiamata anche
Città Dei Re, fondata dallo spagnolo Francisco Pizarro il
18 gennaio 1535. E’ ubicata al centro della costa del Perù
a 154 m. sopra il livello del mare ed è il maggior centro
industriale e commerciale del Perù.
I miei genitori sono persone semplici e educate, cresciuti
in luoghi molto distanti e con usanze differenti. Hanno
cresciuto sei figli e ci hanno insegnato ad apprezzare e
rispettare gli altri.
Essendo, infatti, una famiglia formata da un padre che
viene dalla sierra (montagna) e da una madre originaria
della costa, noi figli abbiamo vissuto molti momenti di
66
grande felicità, scoprendo dell’uno e dell’altra le
tradizioni migliori.
Proporre come esempio il cibo è uno dei modi migliori di
far conoscere la mia famiglia peruviana.
Ricordo un giorno – ero ancora bambina – che i miei
genitori discutevano sul menu per il compleanno della
nonna, dal momento che c'è differenza tra quello che si
mangia in montagna e sulla costa.
Sulla sierra si mangia capretto, agnello, maiale, coniglio,
pesce di lago o di fiume, patate, mais, verdura e frutta
portata dalla costa. Sulla costa, invece, si mangia molto
pesce di mare, pollo, vitello, manzo, tacchino, verdura,
cereali e frutta.
Alla fine decisero di preparare come portata principale la
pachamanca, un piatto tipico della sierra, a cui mia
madre decise di aggiungere il pollo, una carne che si
consuma poco sulla sierra. Mio padre non era molto
d’accordo, ma accettò, dicendo che valeva la pena di
provare.
E devo dire che aveva ragione mia madre, perché la
pachamanca con il pollo è buonissima.
Questo piatto bisogna cucinarlo in giardino, perché non
si cuoce in pentola, ma in una fossa di circa un metro di
profondità, rivestita di pietre che vengono messe sulle
braci del carbone.
Almeno tre ore prima della cottura, si deve condire la
carne di agnello, vitello, maiale e pollo con sale, pepe,
cumino escabeche (peperoncino giallo dolce) e huacatay
(è una specie di prezzemolo) tritato, che è quello che dà
al piatto il colore, aroma e sapore di base.
67
Alla carne si aggiungono le patate di almeno tre qualità
diverse e poi le camote (patate piuttosto dolci), le
pannocchie di granoturco e, da ultimo, le fave non
sbucciate.
Si copre il tutto con foglie di granoturco e poi con altre
pietre roventi. Si lascia tutto coperto a cuocere per circa
un’ora. Si rimuovono, quindi, con la massima
attenzione le pietre e le foglie (si sprigiona un
profumino che fa venire l’acquolina in bocca!), si estrae
il tutto dalla buca e di serve ben caldo.
Questo piatto, il preferito di mio padre montanaro,
preparato da mia madre rivierasca, fu un grande successo.
Poiché quasi tutti gli invitati erano di Lima e non
l’avevano mai assaggiato prima, continuavano a
domandare chi lo avesse cucinato e a chiedere la ricetta.
Fu così che questo piatto divenne una specialità di mia
madre, che ancora adesso lo prepara nel giardino di
casa.”
Milli(Perù)
68
PARTE SECONDA
69
70
Il cibo come elemento
di identità culturale
nel processo migratorio
di Riccardo Pravettoni
Migrare implica non solo uno spostamento territoriale, un
cambiamento fisico dei luoghi e delle persone con le quali si
sono instaurati solidi legami, ma anche passare da una cultura,
la propria, ad un'altra. Nel lento processo di scambio
interculturale che la migrazione presuppone, passaggio
destabilizzante ed incerto, il cibo con il suo potere evocativo di
luoghi, persone e momenti particolari, contribuisce in maniera
determinante ad affermare l'identità dell'individuo e del
gruppo etnico a cui appartiene, a lenire il dolore
dell'abbandono degli affetti. Allo stesso tempo il pasto, in
quanto rappresenta un momento d'incontro il cui centro è
legato ad un'esperienza sensoriale immediatamente percepibile
e che non ha bisogno di mediazione per essere compresa, può
agire da tramite tra le culture, favorendo l'interazione tra
individui diversi. Ma se il cibo favorisce il contatto tra le
culture, esso non ne esce indenne e subisce cambiamenti
correlati ai tempi e ai modi dell'incontro in una
contaminazione spesso multiforme e arricchente.
71
Prefazione
Da una proposta a lavorare sul tema del cibo alla curiosità per
le storie degli altri.
E’ il percorso che abbiamo fatto in circa tre mesi di lavoro
durante le ore di lezione a scuola e nelle nostre case prima di
approdare alla stesura del testo che presentiamo.
Dal dovere “scolastico” di eseguire un compito assegnato al
piacere di raccontarsi e di ascoltare. Raccontare e ascoltare un
mondo di uomini e donne in movimento in territori fisici e
mentali lontani e nel contempo contigui.
Il dovere ci ha portato alla lettura di un testo della docente
dell’Università di Pavia, Agnese Visconti, “Il ruolo delle
società umane per le trasmigrazioni delle piante da un
continente all’altro”; questo testo ci ha insegnato le ragioni
dell’andare per il mondo delle piante e quindi dei cibi.
Il piacere ci ha portati a ricordare, a leggere, a raccontare e a
scrivere le nostre storie personali nei percorsi spaziali e mentali
delle nostre vite.
Rosaria
72
Le patate in Polonia
“Mi chiamo Malgorzata Dojwa. Sono nata in Polonia nel
1968 in una bella città, Czestochowa dove si trova il
santuario della famosa Madonna Nera. Dopo la scuola
superiore sono andata a Varsavia per studiare
all’Università. Sono laureata in pedagogia. Dopo la
laurea sono ritornata nella mia città natale, dove ho
trovato lavoro come insegnante di lingua polacca nella
scuola elementare.
Sono sposata da 17 anni. Mio marito si chiama Wojtek , è
ingegnere elettronico. Abbiamo un figlio di 15 anni, si
chiama Michal, è un ragazzo molto bravo.
Da 2001 la mia vita è cambiata. Wojtek ha avuto una
buona offerta di lavoro in Italia e abbiamo deciso di
accettarla e di andare a vivere nelle vicinanze di
Bergamo. Lui é partito subito, io e Woitek l’abbiamo
raggiunto nel 2002.
Abbiamo affittato una casa in una bella zona a Zogno, in
Val Brembana.
Quando mio marito ha tempo libero, facciamo delle belle
gite per conoscere le bellezze dell’Italia.
Frequento da qualche mese un corso d’italiano e ho
deciso con entusiasmo di partecipare a un lavoro che
coinvolge tutta la scuola sul tema del cibo come parte
della storia personale e del popolo di cui fa parte ogni
persona.
Io ho scelto di parlare delle patate.
Come narra un’ antica leggenda polacca, le patate sono
state portate in Polonia nel XVII secolo dal re Jan III
Sobieski. Dopo la vittoria sui Turchi a Vienna, lo zar
73
Leopoldo ricompensò il suo alleato Jan III con un fiore
della patata, in quel tempo poco conosciuta, ma molto
preziosa.
Il re regalò la pianta alla moglie Maria che non la trovò
molto bella. Il re che sapeva quale frutto avrebbe
prodotto, rideva e prendeva in giro la moglie. La regina
piantò il fiore in giardino. Lo guardava sempre senza
entusiasmo. Ma dopo sei mesi vide i grossi tuberi che si
potevano mangiare. La regina preparò una grande festa
cucinando i tuberi. Da allora le patate sono molto usate in
Polonia quasi ogni giorno, come in Italia si usa la pasta.
Come in tutta la Polonia, la patate sono usate in casa mia
quasi ogni giorno. Spesso si mangiano bollite, con la
carne o il pesce e la verdura. Con la carne al sugo si
mangiano le patate in purè . Quando prepariamo della
carne, del pesce, o delle verdure alla griglia, le
accompagniamo sempre con delle ottime patate cotte al
cortoccio, con la buccia. Poi le mangiamo con il cucchiaio
dopo averle condite con burro e sale.
Si fanno anche tanti primi piatti con le patate, tipo
gnocchi semplici o con ripieno con carne, funghi o
verdura. Tutti ottimi!
A me piace molto anche un piatto che prepara mia
madre; si chiama in polacco placki ziemniaczane , in
italiano”focaccine di pasta di patate”.
Ci sono tante ricette per cucinare le patate. Presento
quelle che mi piacciono di più. Probabilmente si
preparano tutte anche in Italia.”
Malgorzata (Polonia)
74
Placki ziemniaczane
Składniki:
- 800 gr ziemniaków
- 1-2 jajka
- 3-4 łyŜki mąki
- sól
- pieprz
- olej
Sposób
przyrządzania:
Ziemniaki umyć, obrać.
Zetrzeć na tarce (małe lub
duŜe otwory, jak lubimy).
Wymieszać
z
mąką,
jajkiem, solą i pieprzem.
Rozgrzać
patelnię
z
olejem. Placuszki smaŜyć
z obu stron. Aby pozbyć
się nadmiaru tłuszczu,
odkładać na papierowy
ręcznik. Potem na talerz.
MoŜna do ciasta dodać
łyŜkę śmietany, placki
będą bardziej puszyste.
Focaccine di pasta di patate
Ingredienti:
- Patate: 800 gr
- Uova: 1-2
- Farina bianca: 3-4 cucchiai
- Prezzemolo
- Sale e pepe, olio d'oliva
Preparazione
Grattugiare le patate crude
sbucciate in un colapasta,
per far perdere un po'
dell'acqua che emettono,
aggiungere il sale, il pepe, le
uova,
la
farina,
il
prezzemolo tritato (se si
vuole) e versare il composto
a
cucchiaiate
nell'olio
bollente, rigirando le focacce
appena si colorano da una
parte. Porle su di una carta
assorbente per far perdere
l'unto in eccesso e servirle
subito,
accompagnandole
con
cetrioli
o
cavoli,
barbabietole,
o
ancora
meglio con funghi trifolati
legati con un po' di panna.
75
Kopytk
Składniki:
- 1.25 kg ziemniaków
- 2 szklanki mąki
- 2 jajka
- sól.
Sposób
przyrządzania:
Ugotuj ziemniaki. Miękkie
odcedź, odparuj, trzymając
odkryte na małym ogniu
przez
1-2
minuty.
Przepuść je przez praskę
lub maszynkę prosto do
miski
i
postaw
w
przewiewnym
miejscu,
Ŝeby
ostygły.
Zanim zaczniesz zagniatać
ciasto, ziemniaki muszą
być całkowicie zimne. W
przeciwnym razie ciasto
stanie się kleiste i rzadkie..
PrzełóŜ
więc
zimne
ziemniaki na posypaną
mąką stolnicę, zrób w nich
niewielkie wgłębienie, wbij
jajka , 2/3 mąki, kilka razy
zamieszaj łyŜką, a potem
jak najszybciej zagnieć
dłonią. Nawet jeśli ciasto
wyda ci się nie dość ścisłe,
nie
dosypuj
mąki.
Gnocchi
Ingredienti
-1.25 kg patate
-2 bicchieri di farina
-2 uova
-sale
Preparazione
Far bollire le patate.
Quando sono cotte e
morbide scolarle, rimetterle
nella pentola e farle
evaporare per 1-2 minuti a
fuoco basso. Passarle nello
schiacciapatate
in
una
insalatiera
e
lasciarle
raffreddare.
Se le patate non sono
fredde, la pasta non diventa
facile da lavorare. Dopo
avere
infarinato
la
spianatoia, versare le patate
schiacciate, aggiungere i
due terzi della farina e le 2
uova intere. Cominciare
subito ad impastare con le
mani. Anche se l’ impasto
sembra troppo morbido e
appiccicoso non aggiungere
altra farina e lavorare con
76
śeby ciasto nie zaczęło się
rozłazić, wszystko od tego
momentu musi przebiegać
sprawnie i szybko. Posyp
mąką stolnicę, odkrawaj po
kawałku ciasta i tocz
wałeczki o średnicy około
1.5 cm, turlając je oburącz i
często podsypując mąką.
Uformowane
wałeczki
spłaszcz otwartą dłonią i,
przytrzymując go palcami
lewej ręki, skośnie pokrój
na kopytka.. Jeśli woda juŜ
się zagotowała, wrzuć do
niej kopytka. Posól wodę,
zwiększ płomień i mieszaj
kopytka drewnianą Jak
tylko woda znowu zawrze,
przerwij
mieszanie
i
zmniejsz
gaz.
Gotuj
kopytka 2 minuty od
chwili, gdy wypłyną, po
czym wyjmuj je łyŜką
cedzakową na durszlak
Uzupełnij wodę i sól w
duŜym garnku i ugotuj
resztę kopytek.
rapidità. Prendere delle
porzioni di pasta, lavorarle
con le mani infarinate fino a
formare
dei
rotolini
cilindrici del diametro di
un dito. Tagliare degli
“gnocchi” della grandezza
circa di 1.5 cm e mantenerli
infarinati. Nel frattempo
portare
a
bollore
dell’abbondante
acqua
salata.
Versare
gli
“gnocchi”
nell’
acqua
bollente pochi alla volta,
mescolare con un cucchiaio
di legno. Quando gli
gnocchi
salgono
in
superficie lasciali cuocere
per 2 minuti, scolarli con
una schiumarola e condirli
a piacere.
77
Il frumento in Marocco
“Mi chiamo Hind, ho 28 anni, vengo dal Marocco, sono
qui in Italia da cinque anni per motivi familiari. Sono
sposata e ho un bambino di quattro anni che va alla
scuola materna del quartiere dove abitiamo.
Sono nata a Rabat, la capitale del Marocco, dove ho
vissuto la maggior parte della mia vita: infanzia, studi e
tre anni di vita professionale. A Rabat ho lavorato per tre
anni in uno studio tecnico usando il CAD come
disegnatrice del Genio Civile. E poi sono partita per
Bergamo.
Ogni anno, da quando sono in Italia, ritorno al mio paese
per rivedere la mia famiglia d’origine e mantenere le
relazioni con le persone che conosco e quindi con le
nostre tradizioni. Però anche stando in Italia riesco a
vivere in un piccolo ambiente marocchino perché ogni
fine settimana mio marito, mio figlio ed io ci incontriamo
con i nostri parenti che vivono qui e con gli amici
marocchini per stare semplicemente in compagnia o per
festeggiare insieme le nostre ricorrenze e le nostre
celebrazioni.
Durante i cinque anni di permanenza a Bergamo e man
mano che ho imparato l’italiano mi sono accorta che
spesso ci sono delle idee e delle informazioni non sempre
corrette sul Marocco. Per esempio la gente pensa che noi
marocchini mangiamo solo cuscus. E’ vero che il cuscus é
il piatto del Marocco più famoso nel mondo, ma é anche
vero che la tavola marocchina é ricca di molti altri piatti.
Nella cucina marocchina ci sono tanti sapori e tanti
profumi, abbinamenti di prodotti che la donna che
78
prepara accosta secondo un'arte personale. Ci sono molte
spezie e erbe aromatiche. I segreti delle spezie si
trasmettono di generazione in generazione. Qualche
volta si accostano sapori dolci e sapori salati.
Si usano verdure fresche in primavera e in estate, oltre
alla frutta, agli agrumi, alle olive e ai legumi secchi, in
particolar modo le lenticchie, preparate in zuppa o come
accompagnamento. In inverno mangiamo carne,
selvaggina e pollame. Per non dimenticare le uova, che
occupano un posto importante nella cucina popolare di
Marrakech.
Il frumento costituisce l’elemento più usato nella cucina
marocchina perché é sempre presente in tutti i pasti; si
usa generalmente per la panificazione, la preparazione
del cuscus, la produzione di pasta, di biscotti, di dolci e
tanti altri piatti.
Nella mia famiglia ho avuto l’occasione di seguire
diverse fasi della preparazione del frumento. Ricordo che
quando ero piccola mio padre andava ogni anno in
campagna per ritirare grandi sacchi di grano coltivato e
raccolto dai suoi cugini. Una volta a casa mio padre
metteva il grano in un locale adatto alla sua
conservazione. Questo locale esiste ancora oggi e si trova
nella parte più alta della casa dove ancora abita la mia
famiglia d’origine.
Dopo la conservazione il grano viene consumato, ma,
prima deve essere preparato. Le fasi della preparazione
sono tante e iniziano con la pulizia del frumento seguita
dal lavaggio e dalla macinazione. Il frumento viene
macinato secondo l’uso al quale é destinato; i mulini ci
sono proprio per fare questo lavoro.
79
La maggior parte del frumento viene utilizzata per la
panificazione perché in Marocco quasi tutte le famiglie
preparano il pane in casa e lo fanno cuocere nei forni a
legna perché il pane ha un significato molto importante
nella nostra tradizione.
Anche oggi esistono forni tradizionali a legna; sono
pubblici, ce ne sono uno o due per quartiere e le donne,
pagando una piccola somma di denaro, possono portare
a cuocere il pane che mangerà tutta la famiglia.
Sulla tavola marocchina il pane é sempre presente, da
solo oppure in compagnia di spiedini di montone, di
pollo o di carne macinata marinata nelle spezie.
Accompagna inoltre la salade marocaine che é un
insieme di verdure crude e cotte, spesso servite in tanti
piattini diversi.
Il pane si mangia anche con delle olive molto saporite,
conservate in succo di limone e sale, oppure con le
lenticchie in umido, col cavolfiore alle spezie piccanti,
con i pomodori conditi con abbondante cipolla. Insomma
il pane accompagna proprio tutto ciò che si mette sulla
tavola!
Nelle occasioni più importanti come, per esempio, un
matrimonio o la nascita di un figlio, la panificazione si fa
con delle regole precise, cioè in gruppi di donne e con un
tipo speciale di contenitori, sempre a mano e con qualche
differenza dal pane quotidiano sia nella forma che negli
ingredienti. La stessa regola vale anche per la
preparazione dei dolci.
Negli ultimi anni sono comparse, soprattutto nelle città
marocchine, delle ditte che si occupano della
preparazione di tutto quello che serve per le feste, come
80
le decorazioni o la preparazione di piatti dolci o salati.
Però tante famiglie preferiscono rispettare le tradizioni e
preparano tutto in casa con l’aiuto dei loro parenti.
In Marocco si coltivano le olive; soprattutto tra Meknes e
Fes ci sono sterminati oliveti che producono una grande
quantità di olive che noi marocchini prepariamo in
decine di modi appetitosi. Attualmente l’olivo costituisce
la principale specie da frutto coltivata in Marocco con
una superficie di 590.000 ettari (oltre il 50% della
superficie arboricola nazionale). La sua coltivazione é
molto importante dal punto di vista economico. Infatti
l’attività agricola di questo settore a livello nazionale dà
55.000 posti di lavoro permanenti e garantisce la
fornitura dei frantoi industriali e tradizionali
(rispettivamente 350 e 16.000) che danno un olio ottimo.
In Marocco ci sono inoltre una sessantina di industrie per
la conservazione delle olive.
Le olive possono essere usate anche per fare un pane
molto gustoso di cui scrivo la ricetta.”
Hind (Marocco)
Pain aux olives
Ingrédients:
225 gr de farine, 12 gr de
levure du boulanger, 150
ml d’eau, 2 c.à soupe (30
ml) huile d’olive, 1 pincée
de sel, 115 gr d’olives
noires, dénoyautées
Préparation :
Pane alle olive
Ingredienti:
225 gr di farina, 12 gr di
lievito del fornaio, 150 ml
d’acqua, due cucchiai (30 ml)
d’olio d’oliva, un pizzico di
sale, 115 gr di olive nere
snocciolate.
Preparazione: Sciogliere il
81
Délayer la levure coupée
en petits morceaux avec
l’eau
à
température
ambiante. Ajouter d’un
seul coup la farine.
Mélanger
avec
une
fourchette. Avec les mains,
pétrir la pâte sans ajouter
de farine pendant 10 min.
Couper les olives en deux
et incorporer à la pâte.
Continuer à pétrir la pâte
pendant 5 min. Ajouter
une bonne cuillère à thé de
sel, pétrir encore. Ajouter
enfin les 2 cuillères à soupe
d’huile
d’olive.
Pétrir
encore 5 min.
Mettre la pâte en boule
dans le récipient, recouvrir
d’un torchon et laisser
gonfler pendant 50 min.
Abaisser la pâte à environ
1 cm d’épaisseur et la
rouler de manière à former
une baguette. Déposer sur
une plaque farinée.
Recouvrir d’un torchon et
laisser reposer encore 40
min. Préchauffer le four à
210°C pendant 10 min.
lievito tagliato a pezzetti in
acqua
a
temperatura
ambiente.
Aggiungere,
tutta in una volta, la farina.
Mescolare
con
una
forchetta. Impastare con le
mani per 10 minuti, senza
aggiungere altra farina.
Tagliare le olive in due e
incorporarle all’impasto.
Continuare a impastare
per 5 minuti. Aggiungere
un cucchiaio di sale e
impastare
ancora.
Aggiungere
infine
2
cucchiai da minestra di
olio d’oliva e impastare
ancora per 5 minuti.
Formare una palla con
l’impasto, ricoprire con un
panno e lasciar lievitare
per circa 50 minuti.
Ridurre l’impasto a uno
spessore
di
1
cm..e
arrotolarlo dandogli la
forma di una baguette.
Metterla su una teglia
infarinata, ricoprirla con
uno panno e lasciar
riposare ancora per 40
minuti. Preriscaldare il
82
A l’aide d’une lame très
affûtée, entailler le pain
sur le dessus.
Saupoudrer le pain de
farine et enfourner à mihauteur, à 210°C pendant
25 min. Éteindre le four et
laisser au chaud encore 5
min.
forno portandolo a 210° C.
Con l’aiuto di un coltello
ben affilato fare dei tagli in
superficie. Infarinare il
pane, infornarlo a 210°C e
lasciarlo per circa 25
minuti. Spegnere il forno e
lasciare il pane al caldo
ancora per 5 minuti.
“Ecco un’altra ricetta di pane; é molto semplice e si può
preparare facilmente. Le donne marocchine lo fanno
comunemente nella loro famiglia durante la settimana.”
Pain blanc
Pane bianco
Ingredienti
500 g di farina
2 pacchetti di lievito del
panettiere
2 cucchiaini di sale
60 cl d’acqua tiepida (circa 3
bicchieri)
75 g di semola di grano
duro
Preparazione
Préparation
Pétrir le tout, avec un peu Impastare il tutto con un
d’huile sur le bout des po’ d’olio d’oliva sulla
doits, jusqu’à obtenir une punta delle dita fino ad
Ingrédients
500 g de farine
2 sachets de levure du
boulanger
2 cuillères à café de sel
60 cl d’eau tiède (environ 3
verres)
75 g de semoule de blé dur
83
boule bien homogène et
qui ne colle plus.
Recouvrir d’un torchon et
laisser reposer 20 minutes
environ.
Pétrir à nouveau, avec un
peu d’huile pendant une
dizaine de minutes.
Laisser
reposer
une
nouvelle fois durant 10
minutes.
Aplatir la pâte et percer à
l’aide d’une fourchette,
puis
saupoudrer
de
semoule.
Faire cuire pendant une
demi heure à 220° C.
ottenere
una
palla
omogenea e che non sia più
collosa. Ricoprire con un
panno e lasciar riposare per
20 minuti circa.
Impastare ancora con un
po’ d’olio per circa dieci
minuti.
Lasciar riposare di nuovo
per dieci minuti.
Appiattire
l’impasto
e
punzecchiarlo con l’aiuto di
una forchetta.
Far cuocere per circa
mezz’ora a 220°C
84
Il caffè in Brasile
“Da sempre a casa mia, la mattina, mia madre fa un
thermos di caffè e lo lascia sul tavolo con tante altre cose;
succo d’arancia, pane, biscotti, cuscus e frutta. Anche a
mezzogiorno, dopo il pranzo, si beve il caffè e la stessa
cosa verso le tre del pomeriggio insieme agli amici che ci
vengono a trovare. Il caffè è sempre in un thermos di due
litri, sempre caldo, sempre pronto. Un tempo era sempre
molto zuccherato, oggi no perché mia madre è diabetica e
anche perché i gusti della gente sono cambiati.
A casa mia anche durante la cena il caffè non può
mancare e mia madre lo prepara sempre per
accompagnare qualche biscotto con cui ceniamo, perché
da noi la cena non è per niente un pasto importante e
praticamente facciamo solo uno spuntino.
L’abitudine del caffè coinvolge tutta la famiglia e tutti
quelli che arrivano a trovarci; a loro viene sempre offerta
una tazza di caffè e poi un bicchiere d’acqua fresca.
Questa abitudine é del Nord Est del Brasile da dove io
vengo, esattamente dallo stato di Paraiba dove sono
vissuta fino a un anno fa prima di venire in Italia a
raggiungere il mio fidanzato. Credo, però, che anche in
tutti gli altri stati del Brasile sia la stessa cosa: è
un’abitudine nazionale.
In tutto il Nord Est del Brasile il caffè é coltivato in
grandi fattorie chiamate engenho, delle vere e proprie
istituzioni agricole molto importanti per l’economia del
paese che a partire dal 1830 ha cominciato a coltivarlo
fino a diventare il più grande produttore mondiale.
85
Io non ho mai visitato di persona una fattoria del caffè
ma guardo sempre alla televisione delle trasmissioni o
delle telenovelas che ne parlano; tutto sembra bellissimo
e si vedono delle storie che fanno sognare.
Il caffè é stato così importante nella storia brasiliana che a
Santos, nello stato di San Paolo, gli é stato dedicato un
museo.
La costruzione del palazzo del museo del caffé é iniziata
1920 e completata il 7 settembre 1922. In realtà il
quell’epoca si trattava della Borsa Ufficiale del caffè, non
del museo in quanto Santos era la più grande piazza del
mondo per la quotazione internazionale del caffè. Il 25
settembre 1998, dopo dieci anni di chiusura totale e
quattordici mesi di restauro il palazzo è stato
nuovamente inaugurato come Museo del caffè.
All’interno, oggi, oltre a vari spazi espositivi ci sono una
libreria, una biblioteca, un archivio storico, i cumuli dei
diversi tipi di caffè e il centro di lavorazione e
preparazione dello stesso.
Noi in Brasile possiamo fare col caffè tanti tipi di dolci e
di bevande. Ne scrivo alcuni usando magari anche il
portoghese per far vedere come tante parole scritte sono
simili a quelle italiane.”
Rosangela (Brasile)
86
Dolce di caffé n° 1 - Bolo de café n° 1
Ingredienti
2 tazze e mezza di farina di grano 00, 1/2 bustina di
lievito, 1/2 cucchiaino di bicarbonato di sodio, 1/4 di
cucchiaino di cannella in polvere, 1/4 di cucchiaino di
chiodi di garofano in polvere, 1/3 di tazza di burro, 1
tazza di zucchero, 1/3 di tazza di miele, 2 uova, 1
cucchiaino di bucce di arancia grattugiate, 1/2 tazza di
caffè freddo, 1/2 tazza di noccioline tritate.
Preparazione
Unire la farina con il lievito, il bicarbonato, la cannella e i
chiodi di garofano. In una terrina sbattere il burro con lo
zucchero. Aggiungere le uova intere e mentre si mescola
tutto aggiungere il miele e le bucce di arancia. Sbattere
molto bene. Unire il caffè, la farina e alla fine le
noccioline. Quando l'impasto avrà una densità uniforme,
versarlo su una teglia (preferibilmente stretta ed alta)
imburrata ed infarinata. Mettere nel forno preriscaldato
(180°) per 90 minuti circa. Quando il dolce sarà freddo,
avvolgerlo nella carta argentata per un giorno. Nel
momento di servire, aggiungere un cucchiaio di panna
montata accanto ad ogni fetta.
87
Dolce di caffé n° 2
Bolo de café n° 2
Ingredientes
Ingredienti
2 ovos, 250 gr. de farinha,
200 gr. de açucar, 1
chávena de azeite, 1
chávena de café forte, 1
pitada de canela, 1 colher
de sopa de mel.
2 uova, 250 gr. di farina,
200 gr. di zucchero, 1 tazza
di caffè forte, 1 pizzico di
cannella, 1 cucchiaio di
miele liquido.
Preparação
Numa tigela misturam-se
todos os ingredientes e
bate-se tudo muito bem
com a batedeira até se
formaram bolhas, por fim
mete-se o preparado numa
forma que vai a cozer em
forno moderado.
Preparazione
Metter tutti gli ingredienti
in una ciotola e frullare
tutto con uno sbattitore
elettrico fino a quando si
formano
delle
bolle.
Mettere poi il tutto in una
forma e infornare a forno
moderato.
88
Bevanda di caffè con limone Bebida de cafè com limão
Ingredientes
Ingredienti
150 ml de conhaque, 1
casca de limão, 1 casca de
laranja, 3 cravos-da-India, 2
pedaços de canela em pau,
8 e ½ colheres (sopa) de
açucar, 300 ml de café.
150 ml di cognac, una
buccia di limone e una di
arancia, 3 chiodi di
garofano, 2 pezzi di
cannella. 8 cucchiai e
mezzo di zucchero, 300 ml
di caffè.
Preparação
Coloque
150
ml
de
conhaque a ferver com as
cascas de 1 limão e de 1
laranja, sem a parte branca,
3
cravos-da-India,
2
pedaços de canela em pau
e os colheres de açucar.
Flame e despeje, em
seguida, 300 ml de café
bem quente para apagar a
chama. Distribua em 4
chávensa e sirve a seguir.
Preparazione
Metter il cognac a bollire
con le bucce di limone e
arancia, senza la parte
bianca,
3
chiodi
di
garofano, i 2 pezzi di
cannella e i cucchiai di
zucchero. Preparare poi 300
ml di caffè, aggiungerlo,
molto caldo al resto e
portare tutto a bollitura.
Distribuire poi in 4 tazze e
servire.
89
Il tè in Pakistan
“Mi chiamo AAmir e ho 17 anni. Vengo dal Pakistan,
dalla città di Gujrat che si trova nello stato del Punjab
situato ad ovest del Paese, al confine con l'India.
Gujirat é conosciuta perché la maggior parte degli
emigrati pakistani in Europa sono di questa provincia.
Sono in Italia da due anni, da quando cioè ho raggiunto
mio padre che lavora a Bergamo da tanti anni, insieme a
mia madre, a mia sorella a ai miei due fratelli.
Abitiamo tutti a Ghisalba, ma io vado a scuola a Bergamo
per studiare l’italiano. A Gujirat ero studente della scuola
media superiore, qui in Italia penso di lavorare dopo
avere imparato bene l’italiano.
Tutti dicono che in Pakistan si beve tanto tè. E’ proprio
vero! Anche a casa mia lo beviamo tante volte al giorno e
lo prepariamo con l’acqua, il latte, il cacao, lo zucchero e
il sale. Il sale però non é importante, qualcuno lo mette e
qualcuno no. Anche l’acqua qualcuno la mette e
qualcuno no.
Nel mio paese tutti bevono il tè, nessuno beve il caffè, ma
io, in Italia qualche volta lo faccio anche se non mi piace
molto.
Da noi il tè si beve tre volte al giorno; a colazione,
quando si fa la merenda e dopo cena. I miei genitori e i
miei fratelli lo bevono tre volte al giorno, io solo due,
raramente tre. Con il tè, a colazione, mangiamo i biscotti,
le brioches o il pane con la verdura e le uova.
La nostra bevanda è così importante che la offriamo
sempre anche ai nostri amici e parenti quando vengono a
casa nostra a trovarci.
90
E’ difficile raccontare in italiano quanti tipi di tè esistono
da noi e quali cibi vengono serviti insieme. Posso dire
che, in generale, dopo ogni pasto si sorseggia il Qehwa o
kehwa, di solito servito in piccoli bicchieri, cha ha il
sapore di tè al gelsomino. Il kehwa è usato soprattutto a
Peshawar, la capitale delle North West Frontier Province,
per questa ragione è anche conosciuto come Peshawari
Chai (Te di Peshawar).
Ho detto prima che a colazione si mangia il pane col tè; il
pane é molto importante da noi e ce n’é di tanti tipi.
Spesso é cotto nel tandoor, un forno tradizionale in
pietra. Il Chapati o Roti è il più diffuso pane casalingo
fatto con farina integrale di grano. È sottile e non
lievitato. Si preparano anche il Naan, molto meno sottile
del chapati, lievitato e fatto con farina bianca e il roghni
naan - Naan fatto con semi di sesamo unti con un po' di
olio.”
Chapati
Per preparare il chapati per 4 persone ci vogliono 240
grammi di farina integrale di frumento, acqua tiepida,
burro e sale.
Bisogna versare sulla spianatoia la farina e un pizzico
di sale, fare la cosiddetta fontana e porre al centro poca
acqua tiepida. Con la punta delle dita si devono
mescolare delicatamente gli ingredienti, impastarli
rapidamente fino ad ottenere un composto omogeneo.
Si deve poi aggiungere un poco di acqua tiepida,
impastare ancora per qualche minuto e quindi
avvolgere il tutto in un panno pulito e lasciarlo riposare
per 30 minuti nel frigorifero. Trascorso il tempo
91
stabilito si deve lavorare nuovamente il composto,
modellandolo a forma di "bastone" e tagliarlo in tanti
dischi sottili che dovranno essere appiattiti subito con
le mani. In una padella di 15 cm di diametro si deve far
sciogliere una noce di burro e far cuocere il primo disco
di pasta. Quando il chapati sarà dorato da una parte la
si deve voltare e far cuocere dall'altra parte. Per dare
ogni volta un sapore diverso si possono aggiungere
all'impasto un poco di curry o di paprika o qualsiasi
spezia o erbetta.
“Mia madre prepara il chapati tutti i giorni usando per la
cottura il fornello a gas e una padella antiaderente di
misura non tanto grande. In pratica noi non compriamo
quasi mai il pane a Ghisalba. Col tè che beviamo nel
pomeriggio, a merenda , si possono mangiare dei dolci;
uno è buonissimo e piace sia ai grandi che ai bambini.
Si chiama Gajaar Ka Halva (in italiano dolce di carote).”
Per 4 persone servono questi ingredienti:
- 500 gr di carote
- 60 gr di burro
- 300 gr di zucchero
- 1/2 cucchiaino di semi di cardamomo in polvere
- 1/2 bicchiere di acqua calda
- 1 bicchiere di panna liquida
- 4 cucchiai di latte in polvere
- acqua, sale fino, pistacchi sgusciati quanto basta.
La preparazione é facile; bisogna raschiare le carote,
lavarle, grattugiarle e metterle in un tegame con il
92
burro. Si deve lasciar cuocere a fiamma bassa e col
coperchio per 10 minuti. Nel frattempo bisogna fare
sciogliere in una scodella lo zucchero nell'acqua. Dopo
avere lasciato riposare il tutto per un quarto d'ora
bisogna unire lo sciroppo di zucchero alle carote,quindi
la panna e il latte in polvere.
Dopo si deve mescolare delicatamente fino a quando si
ottiene un composto asciutto che si deve mettere su un
piatto per dolci.
Al momento di servire, decorare il dolce che ormai é
diventato freddo, con i pistacchi scottati in acqua salata
e tritati a pezzettini.
.
“Il tè della sera é preceduto da un pasto nel quale ci
incontriamo tutti noi della famiglia. I piatti che si
possono mangiare sono tanti come il pilaw, a base di riso
fritto e montone con spezie; il murgh tikka o spiedini di
pollo, il shish-kabab, spiedino d'agnello, il tikka-kabab,
con carne di manzo fritta e soprattutto il pesce palla
bollito o cucinato alla griglia. In tutti questi piatti molto
amati in tutte le zone del Pakistan, fanno parte della
cucina Moghul e sono arricchiti da una grande varietà di
spezie.
Moghul é, in pratica, la dinastia dei Mongoli di cui fu
iniziatore Babur discendente di Tamerlano e di Gengis
Khan.
Anche qui voglio dare una ricetta che a me piace molto e
che si può preparare anche in Italia perché si trovano
tutti gli ingredienti. Certo é meglio prepararla d’estate
93
quando si possono tenere le finestre aperte o si può
cucinare in un posto all’aperto perché si fa molto fumo.”
Murgh tikka - spiedini di pollo
Ingredienti per quattro persone: 8 spiedini
- 1 pollo di circa 1 kg, pronto da cucinare, tagliato in 12
pezzi
- 1 spicchio d'aglio
- 1 grossa cipolla
- 1 cucchiaino di chili ' in polvere
- 1 pezzetto di radice fresca di zenzero
- 250 gr di latte cagliato
- 3 cucchiaini di succo di limone
- olio di semi di mais e sale quanto basta
- peperoncino
Lavare, asciugare e porre in una grande terrina i pezzi
di pollo, quindi coprirli con il latte cagliato.
Aggiungere un po' di sale. Tagliare a fettine sottili la
cipolla, tritare grossolanamente l'aglio e lo zenzero e
mettere tutto sul pollo, aggiungendo anche un bel po’
di chili; poi bagnare con il succo di limone. Lasciare in
infusione per otto-dieci ore; quindi togliere i pezzi di
pollo e infilarli sugli spiedini(unti d'olio). Mettere gli
spiedini sulla brace a rosolare, rivoltandoli
continuamente. Servirli caldissimi.
Aamir (Pakistan)
94
Il riso in Costa d’Avorio
“Mi chiamo Fanta, ho 27 anni e vengo dalla Costa
d’Avorio, esattamente da Touba, una piccola città
dell’ovest, vicina alla Guinea. Touba si trova tra le città di
Odienné e Man, nella regione di Worodougou, a 680 km
a Nord Ovest di Abidjan, abitata prevalentemente dal
popolo Mahou.
Sono in Italia da sei mesi con mio marito, mia cognata e i
miei nipoti di dodici e dieci anni.
Abito a Sant’Omobono Terme.
Sono contenta di essere qui perché l’Italia é un bel paese.
Mi piacerebbe molto lavorare e parlare bene l’Italiano.
Per questo mi sono iscritta al corso d’Italiano a Bergamo
e ci vado in pullman il martedì e il giovedì mattina dalle
9,30 alle 11,30.
Mi piace raccontare del mio paese, anche delle nostre
abitudini alimentari. Voglio parlare soprattutto del riso
perché mi piace molto. Il riso é molto importante
nell’alimentazione degli ivoriani. E’ coltivato in Costa
d’Avorio ma é anche importato dai paesi asiatici (Cina,
Tailandia) perché la produzione ivoriana da sola non
basta.
Il riso é proprio importante per gli Ivoriani, tanto é vero
che nel sud ovest del paese, a Grabo, nel mese di gennaio
c’é una festa chiamata della raccolta del riso.
Il riso é cucinato in tanti modi perché ogni regione ha le
sue ricette. E’ sempre accompagnato da verdure, pesce o
carne a seconda dei gusti.
In generale la nostra cucina é una delle più variate
dell’Africa occidentale e gli ivoriani sono dei buongustai.
95
Oltre al riso abbiamo anche dei piatti fatti con la
manioca, la banana (platano), l’igname e le patate, tutti
accompagnati da salse e tutti piatti unici.
A proposito di igname ricordo che ci sono molte feste in
tutto il paese che sottolineano quanto é importante ;
queste feste simbolizzano la fine del raccolto abbondante,
a febbraio nell’ovest del paese, a giugno nel nord e
soprattutto a Dopropo e Gbain, in agosto a Sikensi.
Nell’est ci sono addirittura quattro feste in quattro
periodi diversi, tutte per celebrare le diverse qualità di
igname.
Come dicevo il riso non si mangia mai da solo perciò i
suoi modi di preparazione sono infiniti. Ne descrivo tre
che conosco, due sono piatti salati e uno dolce.”
Riz gras a la viande de boeuf
Ingrédients
- 700 gr de viande de bœuf
- 2 bols de riz
- 25 cl d’huile d’arachide
- 1 oignon, 3 tomates
- 2 cuillerées à café de
concentré de tomate
- 1 piment
- Sel
Préparation
Lavez la viande et coupezla en morceaux pas trop
gros.
Epluchez les oignons et
coupez-les
en
fines
Ingredienti
- 700 gr. di carne bovina
- due ciotole di riso
- 25 cl d’olio di arachidi
- 1 cipolla e 3 pomodori
due
cucchiaini
di
concentrato di pomodoro
- 1 peperoncino
- sale
Preparazione
Lavare la carne e tagliarla a
pezzetti.
Sbucciare le cipolle e
affettarle sottili sottili.
Lavare
e
pepare
i
96
lamelles.
Lavez et épépinez les
tomates puis hachez-les
grossièrement.
Faites revenir les oignons
dans l’huile sans les faire
dorer.
Ajoutez la viande et faitesla dorer légèrement puis
insérer les tomates et le
concentrée
de
tomate.
Laissez
cuire
quelques
minutes.
Versez 2 litres d’eau et
laissez bouillir. Salez et
pimentez. Laissez cuire la
viande pendant une heure
(ou plus) à feu moyen.
Entre-temps, laver le riz
dans plusieurs eaux pour
enlever
le
maximum
d’amidon
égouttez-le.
Lorsque la viande est cuite,
retirez le piment et réservez
une louche de bouillon que
vous garderez au chaud.
Augmenter le feu sous la
casserole.
Lorsque
la
préparation boue à gros
bouillons, jetez-y le riz et
remuez.
pomodori e poi farli a
pezzi.
Fare rinvenire le cipolle
nell’olio senza farle dorare.
Aggiungere la carne e farla
dorare
leggermente,
aggiungere i pomodori e il
concentrato di pomodoro.
Far cuocere per qualche
minuto.
Versare 2 litri d’acqua e far
bollire.
Salare e pepare quindi far
cuocere per un’ora (o più)a
fuoco medio.
Nel frattempo, lavare il
riso in modo da togliere la
maggior quantità possibile
di amido e scolarlo.
Quando la carne é cotta,
togliere il peperoncino e un
mestolo di brodo da
conservare al caldo.
Alzare il fuoco sotto la
casseruola.
Quando il brodo bolle
decisamente, buttare il riso
e rimestarlo.
Continuare la cottura per 5
minuti poi abbassare il
fuoco e coprire con un
97
Continuer la cuisson à gros
bouillon 5 minutes. Puis
baissez le feu et fermer la
casserole
avec
son
couvercle.
Laissez cuire encore 20 mn.
Au bout de ce laps de
temps, le riz dans être bien
cuit avec des grains bien
détachés.
Servez le riz et la viande
ensemble. Arrosez avec le
bouillon mis de côté.
coperchio.
Lasciar cuocere ancora per
20 minuti alla fine dei quali
il riso dovrà essere ben
cotto ma con i grani ben
separati.
Servire il riso e la carne
insieme, bagnando col
brodo
in
precedenza
conservato .
Riz aux crevettes - Riso ai gamberetti
Ingrédients
- 2 grosse boules de
soumbara
- 5 poissons fumés (magne)
- 2 oignons
- 10 crevettes sèches
- 10 gombos, 10 aubergines
- 10 tomates fraîches
- 2 morceaux d`ail
- 1/4 d`huile
- le cube d`assaisonnement
- 5 piments (facultatifs)
- 1 kg de riz
Ingredienti
- 2 grosse palline di
soumbara
- 5 pesci affumicati
- 2 cipolle
- 10 gamberetti secchi
- 10 gombo, 10 melanzane
- 10 pomodori freschi
- 2 spicchi d’aglio
- ¼ di litro d’olio
- un dado
- 5 peperoncini
(facoltativi)
98
Préparation
Mettre de l`eau dans un
récipient et le poser sur le
feu y ajouter du sel+ les
gombos+ les aubergines et
couvrir
le
tout.
Ajouter le riz après bouillon.
Retirer le tout après cuisson.
Renverser l`huile dans une
casserole et la poser sur le
feu; ensuite découper les
oignons en lamelle, les
tomates en dés, l`ail en
rondelle; ajouter le tout sur
feu
et
laisser
dorer.
Entre temps concasser les
poissons secs, piler les
crevettes séchées, piler aussi
le
soumbara.
Ajouter
le
tout
aux
ingrédients
et
bien
mélanger; y mettre un verre
d`eau
+
le
cube
d`assaisonnement
et
attendre que le tout cuisse.
Renverser le riz dans un
large récipient et ajouter le
bouillon, puis mélanger le
tout jusqu`à obtenir une pâte
homogène
- 1 Kg di riso
Preparazione
Metter l’acqua in un
recipiente e metterlo sul
fuoco aggiungendo del
sale, i gombo e le
melanzane, poi coprire il
tutto. Quando l’acqua
bolle aggiungere il riso e
farlo cuocere.
Intanto mettere l’olio in
una casseruola e metterla
sul fuoco; tagliare le
cipolle e l’aglio a fettine
sottilissime, i pomodori a
dadini e metterle in
padella a dorare.
Nel frattempo tagliare i
pesci secchi e schiacciare i
gamberetti e il soumbara.
Mettere tutto insieme,
mescolare
bene,
aggiungendo
un
po’
d’acqua e un dado e
aspettare la cottura.
Metter il riso in un largo
recipiente e, dopo avere
aggiunto
il
resto,
mescolare fino ad ottenere
un impasto omogeneo.
99
“Alcuni prodotti di cui si parla in questa ricetta non
esistono in Italia come il gombo e il soumbara.
Il gombo é una pianta alimentare coltivata in tutte le
regioni tropicali e subtropicali del mondo e, in
particolare, nella valle del fiume Senegal e in tutta
l'Africa dell'Ovest.
Il frutto assomiglia ad un peperoncino verde allungato o
anche ad una zucchina con la punta.
La sua particolarità è la vischiosità e la grande quantità di
semini bianchi che non piacciono a tutti.
Il gombo é molto delicato e si conserva solo 2 o 3 giorni in
frigorifero.
Può essere acquistato fresco, intero, oppure secco, in
polvere o in rondelle.
La tradizione dice che è rinfrescante e lassativo.
Il soumbara è un condimento a base di semi di néré. I
semi vengono prima fatti fermentare e poi abbrustolire,
poi vengono pestati e passati al setaccio. La pasta che si
ottiene viene lavorata e divisa in piccole palline. Si tratta
di un preparato ricco di proteine, nutriente ed energetico.
Il néré è un albero che può raggiungere i 20 metri di
altezza, cresce in terreni sabbiosi, ha una chioma a
ombrello e produce un frutto che è un baccello lungo,
piatto e un poco arcuato. Quest’albero rischia di
estinguersi perché la gente lo usa come legna da bruciare
per cucinare e perché gli agricoltori in cerca di spazio per
le loro coltivazioni continuano a tagliarlo.
La tradizione popolare dice che il soumbara fa molto
bene a quelli che soffrono di ipertensione.
Per ultimo racconto come si prepara un dolce di riso: il
riso alla cannella.”
100
Bisogna far cuocere, solo per 5 minuti, 300 gr. di riso
prima lavato molto bene, in mezzo litro d’acqua
bollente. La qualità deve essere quella con i chicchi
allungati. Dopo avere scolato il riso metterlo a cuocere
per altri 12 minuti in 1 litro di latte portato ad
ebollizione. Aggiungere poi 75 gr. di zucchero e un
cucchiaio colmo di cannella.
Mettere tutto su un grande piatto fondo facendo una
montagna e metterci sopra, per decorare, della frutta
candita.
Fanta (Costa d’Avorio)
101
Il riso in India
“Mi chiamo Rajvinder, ho 25 anni e vengo dall’India.
Sono in Italia dal mese di novembre del 2004, più di due
anni ormai. Il mio desiderio é quello di riuscire ad andare
all’università in Italia, ma, per il momento, sto studiando
l’italiano senza il quale non posso fare nessun tipo di
studi. Anzi, devo impararlo proprio bene per riuscire ad
affrontare gli studi universitari in italiano.
Mi piace moltissimo leggere, qualsiasi cosa. Mi piacciono
molto i libri e mi piace imparare tutto.
In India abitavo nella città di Hisar , regione di Hariana,
nello stato del Punjab, mentre i miei nonni materni
abitavano in campagna. Quando ero piccola mi piaceva
andare in campagna dai miei nonni materni. In realtà
nella casa di campagna c’era solo mio nonno, vedovo
perché mia nonna é morta presto, quando mia madre era
piccola.
Nella casa dei miei nonni c’era anche una vigna che uno
dei domestici proteggeva per tutta la giornata, con una
pistola, dagli uccellini che volevano mangiare l’uva. Solo
noi bambini potevamo mangiarla. Siccome vivevo in città
a me piaceva molto andare in campagna. Avevo tanta
curiosità e molta felicità nel vedere tutto quello che si
coltivava. Però i miei nonni paterni non volevano che io e
mio fratello andassimo in campagna perché avevano
paura che le zanzare potessero pungerci.
Il più bel ricordo della campagna é di quando avevo
dodici anni, ero all’ottava classe e sono andata con mia
madre nella sua casa di ragazza. Non posso dimenticare
il viaggio e i giorni di gran caldo. Sembrava che la terra
102
stesse bruciando tutte le cose. Ricordo che una sera tardi
sono uscita dalla mia camera e ho visto una bellissima
scena di tramonto. Il sole stava calando piano piano
vicino al fiume, era grande e rosso e molto vicino a me. Io
ho parlato col sole quel giorno pensando a quante cose
Dio ha fatto e intanto arrivava anche la luna. Purtroppo il
dialogo si é interrotto perché la mamma mi ha chiamato
per la cena.
La vita in India é piena di leggende e di usanze legate ai
prodotti della campagna, al riso in particolare.
Il riso significa felicità e quando é mischiato col Tilak , il
segno rosso sulla fronte fatto col dito anulare, vuol dire
che tutto andrà bene e che il cuore é in pace.
Il riso è sempre il primo cibo offerto da una sposa al
marito, per assicurare alla coppia tanti figli ed è il primo
cibo solido che i bimbi mangiano quando vengono
svezzati.
Le antiche Scritture hindù parlano molto del riso. Per
esempio dicono come deve essere preparato quando é
un’offerta rituale o quando é usato come balsamo
curativo o come cibo privilegiato di alcune divinità. Il
riso è presente anche nella più semplice Puja. Nella
religione induista la Puja (dal sanscrito reverenza) è un
termine che genericamente indica un atto di adorazione
verso una Divinità; l’adorazione può esprimersi con
un'offerta di cibo, un culto, una cerimonia o un rito.
Il riso è anche un potente simbolo di augurio e di
fertilità; nell' India meridionale ci si riferisce spesso al
riso chiamandolo Anna Lakshmi. Anna significa cibo e
Lakshmi è la dea della prosperità. Dhanya Lakshmi, é
spesso rappresentata con le spighe di riso tra le
103
mani. L'offerta più pregiata per il dio Ganesh è un dolce
di cocco ricoperto con pasta di riso. In Rajasthan, quando
una sposa entra per la prima volta nella nuova casa trova
un recipiente colmo di riso sullo stipite della porta come
augurio di felicità e prosperità. Il riso si usa anche fuori
dall’alimentazione. Nelle campagne indiane il riso
stracotto è utilizzato come colla e l'acqua in cui si
sciacqua il riso prima di cuocerlo si usa per inamidare i
saris – i vestiti tradizionali delle donne indiane - più
eleganti. Con la farina di riso si disegnano i
bellissimi Rangolis che gli insetti mangiano piano piano,
in un ciclo naturale col quale vogliamo mostrare
attenzione anche per le creature più indifese della natura.
Quella dei rangolis é un'arte tradizionale che ha,
probabilmente, origine nello stato del Maharashtra; le
donne decorano i muri e lo spiazzo davanti alla casa o
davanti ai templi facendo dei complicati disegni rituali
con farina di riso e polveri colorate o di pietra bianca.
Ogni regione indiana ha la sua tecnica e ogni famiglia
ha le sue tradizioni che si tramandano di madre in figlia
con straordinari risultati di precisione e bellezza. Le
donne fanno a gara per fare disegni sempre nuovi e
sempre più complicati per fare piacere agli Dei che
amano la bellezza e la pulizia. Nel Tamil Nadu c’é una
leggenda sui rangolis che dice che durante il mese di
Maarkhasi (nel calendario occidentale tra dicembre e
gennaio) la dea Andal chiese al dio Thrumal di sposarla.
Il dio disse di sì e da allora tutte le ragazze che non sono
sposate pregano, nel mese di maarkhasi, il dio Thrumal
per avere lo sposo dei loro sogni. Mentre pregano fanno i
bellissimi disegni rangolis.
104
Oggi il nostro riso é in pericolo. Da qualche anno, infatti,
il nostro paese é oggetto di un’epidemia di biopirateria,
compreso il tentativo delle grandi imprese agricole
internazionali di brevettare il nostro riso basmati. Per
questo l’associazione degli esportatori di riso dell’India
ha formalmente chiesto al governo di proibire i campi
sperimentali di riso OGM e i contadini hanno bruciato
molti di questi campi per paura delle contaminazioni.
Insomma il riso é profondamente dentro la nostra
cultura.
Nella nostra alimentazione il riso é indispensabile.
Siccome l’India é un paese molto grande ci sono tanti tipi
di riso e quindi tanti modi di cucinarlo. Bastano pochi
chilometri perché il cibo, la lingua e la cultura cambino.
Nel sud dell’India il riso é cucinato con la carne ma,
soprattutto col pesce, nel nord dell’India dove io abito é
cucinato con le verdure, la carne, la frutta secca, lo
zucchero e il sale e qualche volta anche lo yogurth.
Ora scrivo alcune ricette che si preparano in tante
famiglie indiane.”
Hyderabadi birmani vegetariano
Ingredienti
½ tazza di riso basmati, lavato ed immerso in acqua per
30 minuti, 200 gr di patate sbucciate e affettate, 200 gr di
carote sbucciate ed affettate, 50 gr di anacardi, 50 gr di
mandorle sbucciate, 25 gr di uvetta, 25 gr di ciliegie
glassate, 100 gr di cipolle affettate finemente, 4
peperoncini verdi fatti a pezzettini, 1 cucchiaino di pasta
di zenzero e aglio, ½ cucchiaino di polvere di curcuma, 1
105
cucchiaino di polvere di peperoncino rosso, 1 tazza di
yogurt, 1 cucchiaino di zafferano, 2 cucchiai di latte, 1/3
di tazza di foglie di menta tritate, 1/3 di foglie di
coriandolo tritate, 6 cardamomi verdi, 2 cardamomi neri,
6 chiodi di garofano, 1 bastoncino di cannella diviso in 4
parti, 3 foglie di alloro, un pizzico di macis (polvere di
noce moscata), acqua di rose se piace, 120 gr. di burro,
sale a piacere, un po’ di pasta di frumento per sigillare i
bordi della padella.
Preparazione
Mettere il riso lasciato a bagno in una pentola e
aggiungere 3 tazze d'acqua. Aggiungere 3 cardamomi
verdi e 1 nero, 3 chiodi di garofano, 2 pezzi di cannella e
1 foglia d'alloro. Portare il riso a bollore e cuocere fino a
quando é cotto. Scolare e mettere da parte. Sbattere lo
yogurt in una ciotola e dividerlo in due parti uguali.
Sciogliere lo zafferano nel latte tiepido ed aggiungere una
parte del preparato di yogurt. Scaldare il burro
chiarificato in una padella, aggiungere i cardamomi verdi
e neri rimanenti, i chiodi di garofano, la cannella, le foglie
d'alloro, il macis e far saltare tutto a fuoco medio fino a
quando inizia scoppiettare. Aggiungere le cipolle, saltarle
fino a doratura, aggiungere i peperoncini verdi, lo
zenzero, l'aglio e far saltare per un minuto. Quindi
aggiungere la curcuma, mescolare, aggiungere la verdura
sminuzzata e mescolare per un minuto. Ora aggiungere
la parte rimanente dello yogurt semplice, mescolare,
aggiungere 2/3 di tazza d'acqua, portare ad ebollizione
quindi far bollire fino a che la verdura é cotta. Una volta
che la verdura è cotta aggiungere la frutta secca e le
106
noccioline.
Nella padella con la verdura cotta, versare un po' di
preparato di zafferano e yogurt, la menta e il coriandolo.
Quindi cospargere con metà del riso e di nuovo versare
il preparato di zafferano e yogurt rimanente, coprire il
tutto con il riso rimanente. Mettere un panno umido
sopra, coprire con un coperchio e sigillare i bordi con
della
pasta
di
farina
di
frumento.
Mettere la padella sigillata in forno per 15-20 minuti.
Estrarre dal forno e servire caldo.
Riso Korma
Ingredienti
Per il riso: 1 ½ tazze di riso, 2 foglie di alloro, 2 bastoncini
di cannella, 2 cardamomi, 2 chiodi di garofano, 2 prese di
polvere di curcuma, 2 cucchiai di burro chiarificato.
Per il Korma: 2 tazze di germogli di moong (una qualità
di fagioli), 2 pomodori scottati e tritati, 2 cipolle
grattugiate, 1 cucchiaino di polvere di semi di coriandolo
e cumino, 1 cucchiaino di polvere di peperoncino, ½
cucchiaino di zucchero, 1 tazza di latte, 3 cucchiai di
panna fresca, 3 cucchiai di burro chiarificato, sale a
piacere.
Pasta ottenuta tritando questi ingredienti per il korma: 3
spicchi d'aglio, 1 cucchiaino di pasta di zenzero, 2
cardamomi, 1 cucchiaio di anacardi, 1 cucchiaio di semi
di cumino.
Per la cottura: 1 cucchiaio di burro chiarificato.
107
Preparazione
Per il riso: Scaldare il burro chiarificato e friggere le foglie
di alloro, la cannella, i cardamomi e i chiodi di garofano
per ½ minuto. Aggiungere il riso, la polvere di curcuma,
il sale e 4 o 5 tazze d’acqua e cuocere.
Per il Korma: Scaldare il burro chiarificato in una padella
e cuocere le cipolle fino a che diventino rosa chiaro.
Aggiungere la polvere di semi di coriandolo e cumino, la
pasta di zenzero e aglio e la polvere di peperoncino e
cuocere per 1 minuto. Ora aggiungere a
questo preparato i pomodori e cuocere per altri 5 minuti.
Aggiungere i germogli di moong, ¼ tazza di acqua, lo
zucchero e il sale e cuocere per qualche minuto. In
un'altra padella miscelare il latte, la panna e la pasta
macinata di cardamomi, anacardi e semi di papavero e
aggiungere questo preparato al korma e cuocere per
qualche minuto. Come procedere: Mettere 1 cucchiaio di
burro chiarificato sul fondo di una ciotola da forno e
formare piani alternati di riso e korma iniziando e
finendo
con il riso.
Coprire ed informare per 30 minuti a 230 gradi.
Appena prima di servire, girare il composto a testa in giù
su di un piatto da portata e servire caldo.
Rajvinder (India)
108
La banana in Bolivia
“Mi chiamo Larissa, vengo dalla Bolivia, da La Paz per
essere più precisa, ho 19 anni.
Sono in Italia da appena de 9 mesi ,ma mi sono resa conto
che cominciano a mancarmi i mie sapori e il mio cibo
quando ho deciso di parlare della banana nello studio dei
cibi che sto facendo nel mio corso d’italiano.
Cercando
informazioni
sull’uso
della
banana
nell’alimentazione del mio paese ho cominciato a leggere
vari materiali e ho scoperto tante cose che non conoscevo.
Plinio, per esempio, parla della banana nel suo libro XII :
“La musa che cammina nel paradiso è dietro l’albero dal
quale mangiano i saggi”. E’ per questo che una qualità di
banana si chiama frutto dei saggi.
Le leggende su questo frutto sono tante e molto
interessanti.
Una é la storia del frutto del paradiso in cui si dice che da
un albero è spuntato il serpente che tentò Eva con
l’offerta del mitico pomo; in realtà il frutto che Eva e
Adamo mangiarono fu la banana, non la mela .
Ma tutte queste storie non hanno molta importanza,
piuttosto, se devo parlare veramente della storia di
questo frutto, posso dire che le banane vengono dall'Asia
sud-orientale dall’epoca preistorica. Ancora oggi si
trovano molte specie di banane selvatiche in Nuova
Guinea, Malesia, Indonesia e Filippine.
Recenti prove archeologiche e paleo ambientali nelle
paludi del Kuk, nella Western Highlands, province della
Papua Nuova Guinea, fanno pensare che la coltivazione
della banana risalga ad almeno il 5000 a.C. e forse anche
109
all'8000 a. C.. Ciò farebbe degli altopiani della Nuova
Guinea il luogo in cui il banano fu dimenticato. È
probabile che altre specie di banani selvatici siano stati
addomesticati successivamente in altre zone dell'Asia
sud-orientale.
La banana è citata, per la prima volta nella storia scritta,
in testi buddisti del 600 a. C.. Alessandro Magno scoprì il
sapore della banana nelle valli dell'India nel 327 a.C.. La
coltivazione organizzata di banane è stata accertata in
Cina almeno dal 200 d.C.. Nel 650, i conquistatori islamici
portarono la banana fino in Palestina. I mercanti arabi
diffusero successivamente le banane in quasi tutta
l'Africa.
Nel 1502, i coloni Portoghesi iniziarono le prime
piantagioni di banane nei Carabi e in America Centrale.
Provenendo da un paese dove le banane sono così
importanti per l’alimentazione della sua popolazione e
per lo sviluppo dell’ esportazione, ci sarebbe molto da
dire ma, in realtà, é difficile parlare di una cosa che é cosi
comune nella tua vita.
Mi sono sorpresa quando ho saputo che le banane
provengono dell’ India quando per tutta la mia vita ho
creduto che fossero originarie dell’America, ma forse è
meglio cominciare a parlare delle mie esperienze e di
quello che io ricordo di questo frutto.
La banana é sempre presente nei miei ricordi. Le mangio
da sempre, da quando sono piccola; mio padre mi diceva
sempre che una banana può sostituire un bel pranzo
visto che questo frutto ha molte vitamine, sali minerali e
anche proteine. Più delle banane più comuni, quelle che
si mangiano di solito, a me piacciono quelle da cucinare.
110
Nel mio paese si chiamano platanos e si mangiano fritte
nell’ olio o bollite.
A me piacciono quando sono mature perché cosi hanno
un sapore più dolce. Fritte sono buonissime: io le mangio
con le uova e le patatine fritte e, a volte, anche con il
formaggio.
Quando vivevo nel mio paese le mangiavo sempre a
merenda o cena. E’da quando mi ricordo che le mangio
così.
Un'altra cosa che mi viene in mente della mia infanzia é
quando andavo in campagna con i miei a trovare mio
nonno a Tipuani , un paesino che si trova a nove ore di
viaggio da La Paz. Nove ore sembrano una grande
distanza, ma, in realtà, Tipuani non é così lontana. Il
fatto é che le strade per arrivarci sono molto brutte e
pericolose e bisogna andare piano. In tutta la zona
intorno si coltivano il platano e le banane in quantità
sorprendenti. Allora quello che mi colpiva di più era
vedere ai bordi delle strade i camion colmi di banane
ancore non mature in modo da non andare a male nel
viaggio e arrivare in città pronte per essere mangiate.
Nei mercati della città tutto veniva messo per terra e
quando andavi a comprare potevi proprio vedere il
camion arrivare e scaricare sulla strada la frutta da
vendere alla gente.
La strada era sempre piena di banane e di altri tipi frutta,
e quando noi compravamo le banane la signora che ce le
vendeva le toglieva proprio dei rami ai quali erano
ancora attaccate. E’ difficile spiegare tutto questo perché
la maniera di vendere le banane qui in Italia é molto
diversa rispetto alla Bolivia.
111
Provo a fare una piccola descrizione di questo frutto che
tanto mi piace. Il banano è una pianta con l’aspetto di
albero (tecnicamente però è un’erba) del genere musa
della famiglia delle musacee, con un falso tronco e un
rizoma sotterraneo. I sui gambi diventano alti da quattro
a otto metri, con foglie grandi e ovali lunghe da uno a sei
metri.
La parola banana deriva dall’ arabo banan che significa
dito.
La sua forma é oblunga, ha la porzione esterna
(pericarpo) costituita da una buccia che all’inizio é verde
e che poi quando il frutto é proprio maturo diventa
gialla. La porzione interna è la polpa commestibile,
carnosa, di colore biancastro e di gusto dolce e aromatico.
Io su questo tema posso aggiungere alcuni piatti tipici
fatti con la banana o meglio quali piatti sono abituata a
mangiare.
La ricetta che vi do adesso è un tipo di piatto che si
mangia di solito per colazione o merenda , si chiama
masaco de platano.
Come boliviana vi consiglio di fare questo piatto, anche
se io essendo giovane non lo so ancora preparare bene.
Sono sicura però che i risultati saranno ottimi come il
sapore. Questa ricetta non viene dalla mia città ma da
un’altra regione del mio paese, Santa Cruz de la Sierra
dove le banane sono prodotte in maggiore quantità;
infatti le banane crescono solo in alcune province di La
Paz e in piccole quantità a causa dell’ altitudine e del
clima.”
112
Masaco de platano
Ingredientes
6 ú 8 plátanos no muy
verdes
½ kilo de carne seca
(charque) o chicharrón
de
cerdo
3 cucharadas de aceite o
manteca caliente sal al
gusto
Preparazione:
Pele los plátanos y
córtelos en rodajitas;
fríalos en aceite o
manteca de cerdo asta
quando tengan . Por
separado, corte la carne
en trocitos y fríala.Una
vez frita lleve al tacú y
muélala; agregue los
plátanos fritos y la
manteca. Agregue sal
sólo si es necesario.
Muela hasta que todo
esté
bien
mezclado.
Sírvase caliente.
Masaco di banana
Ingredienti:
6 banane (quelle da cucinare)
mature
½ chilo di carne secca
(charke) o
3 cucchiaini d’olio o strutto di
maiale caldo
sale a piacere.
Preparazione:
Sbucciare le banane e tagliarle
a rotelle, friggerle nell’ olio o
nello strutto.
A parte tagliare la carne a
pezzetti, friggerla e metterla
successivamente nel tacù (é
contenitore di legno dotato di
un pestello che serve per
schiacciare quello che il tacù
contiene)aggiungendo
le
banane, il burro e del sale, se
necessario.
Schiacciare tutto col pestello
fino a formare un impasto
morbido che si deve servire
caldo.
113
“Charque é carne disidratata: la carne si copre di sale e
si lascia al sole. E’ un metodo per conservare la carne per
periodi prolungati.
Io amo molto anche una bevanda molto rinfrescante,
buonissima quando fa caldo che magari si usa anche in
Italia. I bambini, da noi, ne sono molto golosi. Eccola.”
Bebida de platano
Bevanda di banana
Ingredientes:
1 platano
½ tasa de yogurt
1taza de leche
Azùcar (lo suficiente)
Ingredienti:
1 banana
½ tazza di yogurt
1 tazza di latte
Zucchero (a gusto)
Preparacion:
pelar el platano y picar a
pedasos
pequenos,
introducirlo junto a todo
los ingredientes dentro de
la licuadora y licuar por 5
minutos .
Servir y disfrutar al
instante.
Preparazione :
sbucciare la banane e
tagliarle a pezzetti, metterle
insieme
agli
altri
ingredienti nel frullatore e
frullare per 5 minuti.
Servire e gustare all’istante.
“Mi auguro che vi sia piaciuto saperne un pochino di più
delle banane e di come queste sono entrate nella mia vita
alimentare.”
Larissa (Bolivia)
114
Il pane e le lumache in Sardegna
“Mi chiamo Rosaria e sono l’insegnante d’italiano di una
variegatissima classe più o meno di terzo livello della
scuola d’italiano della Ruah. E’ il quarto anno che faccio
questa attività tra un viavai continuo di volti e di lingue
che nascondono o esibiscono storie di donne e uomini in
viaggio da tutto il mondo.
Anche io vengo da una storia di viaggio, un viaggio
interno all’Italia quando questa era fatta da tante Italie,
spesso molto diverse l’una dall’altra. Sono nata a
Cagliari, vissuta per qualche anno a Palermo, quindi a
Bergamo dove vivo stabilmente ormai da moltissimi
anni.
Tutte le estati della mia vita dai quattro ai diciassette
anni, tornavo con la mia famiglia in Sardegna, a
Ghilarza, per le vacanze.
I miei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza sono legati
a campagne assolate, a mari di una bellezza
indescrivibile, a pianti interminabili quando la nave si
staccava dal molo di Olbia o di Porto Torres per
riportarmi a Palermo o a Bergamo.
La mia nonna materna, Michelina, era il punto di
riferimento a Ghilarza; a casa sua si dormiva e si
mangiava, non solo la mia famiglia ma anche cugini e
cugine che si alternavano durante l’estate, oltre a due zii,
fratelli di mia madre, che vi abitavano stabilmente.
Non sono mai stata una mangiona, ma, stranamente,
molti ricordi sono legati al cibo, a due alimenti in
particolare: uno da acquolina in bocca ancora oggi, il
pane, e uno non piacevole, le lumache.
115
Il pane era un rito settimanale; cominciava la notte e
terminava al mattino. Noi bambini ne vedevamo solo la
fase finale quando restavano da cuocere solo alcune
focacce particolari, adagiate su foglie di cavolo, su pane
cum berdas (pane coi ciccioli). Il profumo che si spandeva
per tutta la casa ci assicurava, oltre a un felice risveglio,
che il meglio era già stata fatto.
Entravamo
nel
locale
adiacente
alla
cucina,
appositamente costruito per il pane, con un forno a legna
basso e rovente all’interno. Nonna Michelina stava
seduta su uno scrannetto, con una pala di legno in
continuo movimento per evitare che qualcosa bruciasse.
Intorno una serie di canestri (cherrigus) già pieni di pani
di tutti i tipi, coperti con bianchi teli di cotone. In un
cherrigu erano pronti sos coccois, i coccoetti, piccoli pani
di pasta di grano duro per noi bambini. Bastava sollevare
il telo per vedere meravigliose sculture di pane: uccellini,
gallinelle, fiori, omini e donnine. Bisognava aspettare che
il pane si freddasse prima di mangiarlo, ma, al momento
giusto, dispiaceva staccare ali, foglie, becchi, braccia,
gambe.
Solo da adulta ho scoperto che dalla parola pane deriva
la parola compagno, dal latino cum/me/panis, cioè che
divide il pane con me e mi é sembrato bello pensare a
mia sorella, a mio fratello e ai miei vari cugini come
compagni d’infanzia anziché come parenti.
E, ancora da adulta, ho trovato in un libro una serie di
proverbi sul grano e sul pane che mi hanno ricordato
quelli in sardo che ascoltavo dai vecchi della famiglia e
dai vicini di casa.”
116
Il grano e il pane
Su trigu e su pane
Acqua e vento annata di
frumento
Aba e ventu annada de trigu
Acqua e sole grano in
quantità
Aba e sole trigu a muntone
Annata di asfodelo annata Annada de iscraleu annada
di grano
de trigu
Quando l’aratro non affonda Cando s’arau non pundat
il grano non mette radice
su trigu no afundat
Chi ha il pane non muore
di fame
Chie at chivarzu in domo
sua non morit de famene
Chi non ara non miete
Chie no arat non messat
Chi ha il pane nel sacco né Chie jughet pane in sacu
s’inganna né é matto
ne faddidu ne macu
Chi dà il pane a cane altrui Chie zat pane a cane
perde tutto
anzenu perdet to
Soldi in cassa e grano in
cassapanca
Dinari in cassia e trigu in
lussia
Non mi meraviglia il gambo Non m’ispantat sa canna
ma la spiga alta
si non s’ispiga manna
117
Pane ben cotto fa fare un
buon rutto
Pane bene cottu faghet
bonu rutu
Pane e formaggio e bicchiere
colmo di vino
Pane e casu binu raso
Pane e formaggio sabbia é calce Pane e casu rena e
cracchina
Pane lievitato cassapanca
piena
Pane pesau cassia
prena
Salute e grano
Salude e trigu
Il raccolto costa fatica
Su laore costat suore
Proverbi sardi
“Quanto al non piacevole ricordo delle lumache ripiene
penso a quando comparivano in tavola a fine estate, con
le prime piogge di settembre.
Allora la scuola cominciava il primo di ottobre e quindi
nonna Michelina faceva in tempo a prepararle prima
della nostra partenza per il continente. Ce n’erano di una
qualità speciale chiamata in sardo monzittas, suorine.
L’aspetto delle lumachine era, appunto, quello di piccole
suore, quando certi ordini religiosi usavano ancora
portare una specie di cuffietta nera.
Sas monzittas si mangiavano cotte in umido, con aglio e
prezzemolo e si tiravano fuori dal guscio col risucchio e
con l’aiuto di un ago. Non ho mai osato mangiarle né
118
allora né da adulta, nemmeno cucinate nel modo di una
specialissima ricetta solo in apparenza appetitosa,
secondo me.
La propongo per i veri amanti della buona tavola, non
per gli schizzinosi come me.”
Lumache ripiene
Se le lumache sono grandi si
tolgono dal guscio, con un
ago, dopo averle sbollentate.
Successivamente si tritano e
si mischiano alle uova, al
formaggio grattugiato, alle
erbe tritate e a un pizzico di
sale. Con questo impasto si
riempiono i gusci sistemati
su una teglia unta d’olio e si
ricoprono con pomodori
tagliati a pezzi e olio d’oliva.
Si lasciano in forno per
mezz’ora.
Pitzigrogos prenos
Si sos pitzigrogos sunt
mannos si faent buddire e
che ogant dae sa corza,
cun su azzudu de unu
agu.
Appustis si molent e si
ameschiant a oso, casu
tretegau, erbas segadas a
fine e una pitzigada de
sale. Cun custu impastu si
prenent sas corzas issoro
assetiadas in sa lama,
unta de ozu e amuntadas
de tamatta segada a
cantos.
Si lassant in su forru po
mes’ora.
Rosaria (Italia)
119
Appendice: “Il ruolo delle società umane per le trasmigrazioni
delle piante da un continente all’altro”
La storia delle trasmigrazioni delle piante da un luogo all’altro della terra è
antica di millenni. E’ noto infatti che nel mondo vegetale le aree di maggior
ricchezza genetica, capaci cioè di produrre molte varietà di piante, sono un
numero limitato.
E’ stato il genetista russo Nikolai Vavilov ad individuare, all’inizio del
nostro secolo, queste aree e le piante originarie di ognuna di esse. Da queste
poche aree le piante si sono diffuse in tutto il mondo e si sono modificate,
grazie soprattutto all’intervento umano. Di questa lunga storia prenderemo
in considerazione solo alcuni aspetti: quelli che ci paiono poter offrire spunti
in grado di aiutarci a ricostruire i nessi tra interventi nei confronti delle
piante alimentari da parte di alcuni gruppi della società occidentale,
consapevoli obiettivi economici e politici di questi gruppi, e loro conoscenze
scientifiche.
Tralasceremo pertanto di considerare tutte le trasmigrazioni che hanno
avuto luogo in epoca remota, in età classica e nel Medioevo e ci
concentreremo invece sulle trasmigrazioni in epoca moderna e
contemporanea. E’ infatti solo a partire dal Cinquecento che la
trasmigrazione delle piante si fa più intenzionale, più razionale e più
sperimentale; essa diventa fondamentale per l’economia, addirittura per la
sopravvivenza di alcuni Stati europei.
Alla trasmigrazione moderna si accompagnano inoltre, diversamente che in
precedenza, descrizioni e relazioni da parte di botanici e naturalisti, che
hanno lasciato in questo modo materiale più abbondante per il lavoro dello
storico. Inoltre, con la scoperta dell’America, che segna appunto l’inizio
dell’età moderna, si apre improvvisamente una nuova grande ricchezza e
varietà vegetale, che determina grandi mutamenti nell’economia europea e
mondiale: da questi mutamenti vale la pena di prendere le mosse.Possiamo
suddividere il periodo che prenderemo in esame in quattro parti: dal
Cinquecento all’inizio del Seicento; dal Seicento al Settecento, che
potremmo definire lil periodo delle piante e degli schiavi; dall’età
dell’Illuminismo all’Ottocento, caratterizzato dal nesso definitivamente
intenzionale tra piante e scienza; il Novecento, nel corso del quale assume
importanza sempre maggiore il ruolo del denaro come mezzo per la ricerca
tecnologico-scientifica.
120
a) Dal Cinquecento all’inizio del Seicento. Durante quest’epoca le
trasmigrazioni cominciano a essere caratterizzate da una modalità
sperimentale e intenzionale, anche se per un vero e proprio intervento
scientifico e razionale occorrerà aspettare i secoli successivi. Nel
Cinquecento e nel Seicento la conoscenza delle piante è infatti ancora
limitata. Esse vengono ancora studiate esclusivamente per le loro
caratteristiche curative: il botanico, colui che studia le piante, è sempre un
medico, e se non lo è, è comunque uno studioso al servizio di un medico.
Conoscenza limitata dunque, ma non inesistente.
Un esempio: la descrizione scientifica della banana da parte del naturalista
veneto Prospero Alpino. Egli vide la banana in Egitto nel corso del viaggio
scientifico da lui compiuto tra il 1580 e il 1584. Originaria dell’India, essa
era a quel tempo già passata ai Caraibi e in America del Sud, dopo essere
trasmigrata dall’Africa e dalle Canarie. Nel Nuovo Continente essa si
adattò talmente bene che per molto tempo gli scienziati la credettero
indigena.
Nel corso di questo primo periodo parecchie altre piante, oltre alla banana,
furono portate dagli europei in America. Infatti, appena arrivati in America,
gli europei cominciarono a trasformare il più possibile il Nuovo mondo in
una copia del Vecchio. Furono trasferiti fin da subito: grano, piselli, meloni,
cipolle, insalata, viti, olivi e semi di frutta. Ognuna di queste piante trovò la
zona adatta, e tutte insieme si estesero dagli umidi bassipiani delle coste
atlantiche fino agli altipiani asciutti andini.
In particolare, per quanto riguarda il frumento si può dire che, clima
permettendo, gli spagnoli riuscirono a coltivarlo in quasi tutte le zone
colonizzate dei loro possedimenti americani: a Rio de la Plata, a Nuova
Grenada, in Cile, sugli altipiani dell’America Centrale. Già all’inizio del
Seicento i coloni spagnoli erano in grado di disporre quasi ovunque di pane
di grano.
La vite fu coltivata a partire dalla metà del Cinquecento in Perù, e poi
anche in Cile. Sempre in Cile e Perù (nelle valli costiere) l’ulivo venne
piantato a partire, pare, dal 1560 (a questo anno, almeno, risale la prima
testimonianza). Possiamo così dire che nel Seicento tutte le più importanti
piante commestibili del Vecchio mondo erano coltivate in entrambe le
Americhe.
Tragitto inverso fu invece quello compiuto dal mais che venne portato in
Spagna da Cristoforo Colombo al ritorno, pare, già dal suo primo viaggio.
Comune a tutti e quattro i popoli più antichi dell’America (atzechi,
121
chibchas, maya, incas) la coltura del mais risaliva a epoche remotissime,
come dimostra il ritrovamento, avvenuto in Perù, di semi di mais
fossilizzato.
Il mais non si diffuse subito in Europa. Gli europei lo portarono invece in
Asia. Fu Magellano a trasferirvelo, nel 1520. Esso ebbe un ruolo importante
in Asia: contribuì all’incremento demografico avvenuto in Cina tra Cinque
e Seicento. Grazie al mais fu possibile coltivare gli altipiani situati al di
sopra del delta dello Yang Tse, altipiani non irrigabili e pertanto inadatti
alla coltura del riso.
Una considerazione a parte merita lo zucchero di canna. Originario
dell’India, esso era stato introdotto in Siria e in Egitto tra il X e l’XI secolo,
poi in Sicilia. Nel Quattrocento il principe portoghese Enrico il Navigatore
lo aveva fatto portare dalla Sicilia a Madeira, che in breve era diventata
un’isola dello zucchero. Tra il Quattro e il Cinquecento esso era passato alle
Canarie, alle Isole di Capoverde e alle Azzorre.
Queste isole, compresa la Sicilia, furono tutte quante devastate dalla coltura
della canna: intere foreste vennero distrutte per far posto alle piantagioni e
per fornire il combustibile necessario al funzionamento dei mulini per
frantumare la canna. Lo zucchero passò allora dove c’era abbondanza di
foreste: nel Nuovo Mondo, a S. Domingo e sulla costa nord del Brasile.
l trasferimento dello zucchero a Santo Domingo e sulla costa settentrionale
del Brasile (ricordo che l’adattamento della pianta fu facile, mentre in
Europa essa non avrebbe potuto crescere per via del clima troppo freddo) ci
introduce al secondo periodo che considereremo qui.
b) Dal Seicento all’inzio del Settecento. Il periodo delle piante e degli
schiavi. Allo zucchero e alla sua coltivazione oltreoceano si collega infatti la
tratta degli schiavi dalle coste occidentali dell’Africa alle Antille e al
Brasile. Ricordo che lo scopo era quello di impiegare la manodopera africana
per sostituire nelle piantagioni di canna la popolazione indigena, che era
stata decimata sotto i colpi delle spade, dei fucili e delle malattie portate
dagli Europei a partire dal Cinquecento.
Fu la carenza di forza lavoro locale a determinare l’arrivo di masse di
africani in America. Lo zucchero e la tratta degli schiavi diventarono
interdipendenti prima nei Caraibi e poi in Brasile. Furono soprattutto i
portoghesi ad approfittare della vantaggiosa combinazione fra la tratta degli
schiavi e la coltivazione dello zucchero di canna. Poi nel commercio
entrarono gli olandesi, che invasero e occuparono il nord del Brasile.
122
Infine arrivarono gli inglesi e i francesi che acquistarono parecchie isole dei
Caraibi, estendendo così la coltivazione della canna e facendo inoltre salire
la richiesta di schiavi. Il rilievo economico dello zucchero coltivato nelle
piantagioni americane stava infatti notevolmente aumentando. A questo
riguardo è opportuno tener presente che in Europa, proprio a partire dal
Seicento, la produzione di miele era fortemente diminuita a causa dei
diboscamenti, e della conseguente riduzione del numero degli alveari e delle
api.
Lo zucchero veniva dunque a sostituire un alimento che si stava facendo
raro, e rispetto al quale aveva anche il vantaggio di consentire la
conservazione della frutta e di rendere possibile la manifattura di
marmellate. A dimostrare l’importanza assunta dalla canna da zucchero a
partire dalla seconda metà del Seicento ricordiamo che gli olandesi cedettero
New York all’Inghilterra (1664) in cambio di campi di zucchero nel
Suriname, mentre nel 1763 la Francia abbandonò il Canada agli inglesi in
cambio della Guadalupa, atta alla coltivazione dello zucchero.
Aggiungo ancora che dal punto di vista della storia economica lo zucchero
costituisce un esempio interessante dei rapporti di produzione tra centro
europeo e periferia tropicale. Mentre infatti la coltivazione e la
frantumazione, affidate rispettivamente alla manodopera importata
dall’Africa e ai macchinari importati dall’Europa, avevano luogo in
America, la raffinazione e il controllo commerciale erano in mani
esclusivamente europee.
Anche la storia del mais si lega a quella della tratta degli schiavi. Esso fu
infatti introdotto nel Seicento in Africa dai portoghesi con lo scopo di poter
disporre a basso prezzo del cibo necessario al mantenimento degli schiavi
durante il traversata oceanica. Così mentre gli schiavi venivano trasferiti
dall’Africa all’America per coltivare lo zucchero originario dell’Asia, il mais
originario dell’America veniva trasferito in Africa per consentire il
commercio dello zucchero in Europa.
Il mais fu accettato rapidamente in Africa perchè cresceva in fretta e la sua
coltivazione non richiedeva né l’aratro, né l’animale da lavoro. Era
sufficiente l’uomo con la zappa. Esso aveva inoltre una resa energetica pari
a 3 volte quella del frumento (13 quintali per ettaro, contro i 4 del grano,
parlo di allora, cioè prima dell’invenzione dei concimi chimici e delle
tecniche di ibridazione, alle quali accenneremo più avanti)
Anche la banana, trasferita in America del Sud fin dal Cinquecento, come si
è detto più sopra, fu utilizzata a partire dal Seicento come cibo per gli
123
schiavi che lavoravano nelle piantagioni di zucchero delle Antille e delle
coste tropicali adiacenti.
Come si vede, ogni trasferimento è collegato agli altri. A questo riguardo
vorrei far notare come sia insita nella monocoltura stessa (è il caso della
piantagione di canna da zucchero in America per l’esportazione in Europa,
o della piantagione di mais in Africa per nutrire gli schiavi destinati
all’America), la necessità di trasferimenti di altre monoculture (per esempio,
la banana per nutrire gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di canna).
Le Antille e il Brasile furono forse le prime società nella storia del mondo ad
essere dipendenti, per la loro sopravvivenza, dal trasferimento di cibo. Come
vedremo, anche in seguito la monocoltura, spesso frutto di un trasferimento,
porta come conseguenza altri trasferimenti e altre monocolture.
c) Da metà Settecento a fine Ottocento. Assistiamo a una grande
novità. Nel trasferimento delle piante si introduce la scienza. La pratica non
basta più. Occorrono ricerche sperimentali razionalmente programmate per
poter effettuare nuovi trasferimenti.
I primi segnali in questo senso arrivano dalla Francia. Il nuovo spirito può
essere sintetizzato dalle convinzioni dello scienziato René-Antoine
Ferchault de Réaumur. A suo parere l’obiettivo del naturalista deve essere
quello di individuare gli organismi utili, di ricercare quindi i loro analoghi e
di vedere se tra questi ve ne sia alcuno da cui poter trarre gli stessi
vantaggi.
Un nuovo ruolo per il botanico, dunque. Che si stacca dalla sua tradizionale
posizione, strettamente legata (come si è detto prima) alla medicina, e viene
trascinato verso la sfera dell’economia e del potere politico fino al punto da
assumere una funzione molto lontana da quella di partenza.
Le due nazioni in cui l’intesa tra botanica e potere politico ed economico si
concretizza in maniera più palese e nello stesso tempo più efficace sono la
Francia e l’Inghilterra dove già a partire dalla seconda metà del 600 i
naturalisti, e più in generale gli scienziati, si sono costruiti, con la
fondazione della Royal Society di Londra (1660) e dell’Académie des
Sciences di Parigi (1666), gli strumenti in grado di consentire loro di
indagare sulla natura e sulle sue leggi.
In un primo tempo è la Francia di Luigi XIV e di Colbert ad offrire agli
scienziati il terreno più adatto per soddisfare le loro esigenze intellettuali.
All’Académie des Sciences, che dipende strettamente dalla corona si
affianca l’Orto Botanico - Jardin des Plantes - che intorno ai primi decenni
del Settecento incomincia a perdere il suo carattere strettamente medico e si
124
trasforma in un centro per lo studio delle piante con una visione più ampia
e generale: all’interno di esso vengono infatti avviati studi sulle diverse
specie, sui tipi di terreni e di climi più adatti allo loro coltura e sulle norme
necessarie per tentare il loro trasferimento e la loro naturalizzazione, sia in
patria, sia nei possedimenti d’oltremare.
Già dagli anni Venti vi si compiono, per iniziativa congiunta del sapere
scientifico e del potere politico, una serie di esperimenti sul caffè (ricordo
che il caffè è originario dell’Etiopia). Tali esperimenti portano come risultato
all’invio, avvenuto nel 1723, nelle colonie della Martinica e della
Guadalupa di alcune decine di piantine dalle quali discenderà poi buona
parte dei milioni di alberi che dai territori francesi d’oltreoceano
riforniranno, nel corso di tutto il periodo che va dalla metà del Settecento
alla metà dell’Ottocento, l’Europa illuminata della sua bevanda più
rappresentativa.
E proprio mentre nelle colonie del Nuovo mondo le piantagioni di caffè
saranno causa dei più brutali sconvolgimenti per le società e le economie
locali e alimenteranno inoltre sempre più prepotentemente il commercio
degli schiavi, in Europa le botteghe di caffè diventeranno rapidamente la
sede privilegiata delle discussioni, dei dibattiti e delle riunioni degli uomini
colti e democratici. A questo riguardo ricordo che la pianta diede il nome
anche al periodico riformatore, intitolato appunto “il Caffè”, fondato nella
Milano illuminata dell’imperatrice Maria Teresa da Pietro Verri nel 1764.
Aggiungo ancora che l’altra bevanda di origine americana tipica del salotto
settecentesco fu il cacao. Anch’esso, come il caffè, fa parte delle piante che
non si riuscì a naturalizzare in Europa. Si riuscì però a portarlo in Africa
occidentale (che oggi è il maggior produttore). Sia in Africa che in America
esso fu coltivato nelle grandi piantagioni dagli schiavi. Il cacao fu utilizzato
dagli Europei mescolato ad acqua e latte come bevanda (il cioccolatte) fino
alla seconda metà dell’Ottocento, quando le tecnologie per la preparazione
degli alimenti consentirono di consumarlo anche in forma di cibo solido.
Tornando al caffè vorrei aggiungere che esso non trasmigrò solo in America.
Fu portato in Asia dagli olandesi, che lo introdussero a Giava e in Shri
Lanka. Poi fu la volta degli inglesi che a partire dagli anni Trenta dell’800
deportarono molti lavoratori Tamil dall’India meridionale a Ceylon, con lo
scopo di utilizzarli nelle piantagioni di caffè. Questa deportazione fu
all’origine di una serie di gravi sconvolgimenti sociali, le cui ripercussioni
si sono allungate fino a oggi.
125
Ma torniamo al Settecento e alla Francia, ossia al nesso tra scienza e
trasferimento delle piante. Un momento importante è costituito dagli
esperimenti compiuti a partire dagli anni Quaranta direttamente nei
possedimenti francesi dell’Oceano Indiano. Gli scienziati attori sono: Pierre
Poivre e Philibert Commerson. Lo scopo è quello di trasferire le spezie
dall’estremo oriente alle isole mascarene.
Il progetto viene ufficialmente avviato nel 1748 a Ile de France (oggi
Mauritius) presso il giardino coloniale appositamente creato. Che in pochi
anni diventa il centro di raccolta, selezione e distribuzione delle spezie
orientali, e più in particolare dei chiodo di garofano e della noce moscata.
Queste piante verranno, dopo gli esperimenti compiuti nel giardino,
introdotte nelle colonie francesi di Madascar e a Bourbon (oggi La
Reunion).
Tali esperimenti, così incoraggianti dal punto di vista economico e
scientifico, si interrompono però quasi subito e non trovano alcun seguito. Il
governo francese, che li ha patrocinati, si rende infatti conto di non avere
interesse a proseguirli. Gli investimenti in ricerche sulle piante, richiedono,
per essere remunerativi, il possesso di dominii coloniali sufficientemente
estesi da poter garantire, attraverso le applicazioni delle conoscenze
acquisite, un profitto sicuro.
Non è il caso della Francia, che, anzi, sconfitta nella Guerra dei Sette Anni
(1754-63), assiste proprio in quegli anni al crollo del suo impero coloniale.
La scienza francese è costretta a cambiare direzione e, come vedremo più
avanti, a rivolgere altrove i suoi interessi.
Tocca così all’Inghilterra, che esce vittoriosa dalla Guerra dei Sette Anni e
che da ora in avanti dominerà incontrastata sugli oceani di tutti i
continenti, assumere il ruolo di guida nel campo della ricerca naturalistica.
Indubbiamente indicativa della mutata situazione è la nascita nel 1764 dei
due giardini botanici inglesi alle isole caraibiche di Saint Vincent e Saint
Thomas. Ma ulteriore e più chiaro segnale del cambiamento in corso sono i
risultati ottenuti a seguito del primo viaggio intorno al mondo compiuto da
James Cook tra il 1768 e il 1771.
A bordo con lui è il naturalista Joseph Banks, che al suo ritorno mette a
disposizione del governo inglese le numerose osservazioni compiute nel
corso del viaggio, proponendo una serie di fortunate iniziative economiche,
tra cui l’allevamento delle pecore merinos in Australia.
E’ sua inoltre la proposta di introdurre l’albero del pane da Tahiti alle
colonie inglesi d’America con lo scopo di utilizzarlo come alimento base per
126
gli schiavi neri trasferiti dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di
zucchero delle Antille britanniche. Un primo invio di piantine, trasportate
sul vascello Bounty, non giungerà però a destinazione; pare anzi che esse
siano state la causa dell’ammutinamento dell’equipaggio: per i marinai della
nave infatti l’acquascarseggiava e veniva severamente razionata allo scopo
di consentire la sopravvivenza del prezioso carico vegetale conservato nella
stiva.
Il progetto di gran lunga più vantaggioso tra tutti quelli ideati da Banks è
però quello relativo alla trasformazione dei Giardini Reali di Kew, fondati
vicino a Londra dalla principessa Augusta attorno a metà Settecento, da
giardini di piacere a centro di ricerca scientifico-botanica.
Lo scopo è quello di avere a disposizione una struttura adatta allo studio e
alla coltivazione delle piante vive secondo le nuove metodologie scientifiche
messe a punto, come si è visto, dai naturalisti francesi: un centro, in altri
termini, in grado di coordinare, sulla base di schemi razionali e
programmati, tutti gli esperimenti diretti ad accertare la possibilità di
trasferire piante ritenute utili da un continente all’altro dell’impero.
Gli esperimenti compiuti a Kew furono numerosissimi. Essi esulano
perlopiù dal campo alimentare, per entrare piuttosto in quello della
produzione manifatturiera (tessile e non) o in quello dell’apparato militare.
Un caso tuttavia ci interessa direttamente: le conoscenze scientifiche
raggiunte attraverso gli studi effettuati a Kew sono infatti all’origine del
trasferimento del tè dalla Cina all’India.
Tale trasferimento fu effettuato dietro iniziativa della Compagnia delle Indie
Orientali che si rivolse al botanico Robert Fortune. Fortune non era un
naturalista istituzionale, e però derivava le sue conoscenze dal patrimonio
scientifico costruito a Kew, sulla base del quale era riuscito a scoprire che la
differenza tra tè nero e tè verde non è dovuta, come aveva decretato più di
un secolo prima il botanico svedese Carlo Linneo, ad appartenenza a specie
distinte, ma a diverso trattamento cui vengono sottoposte le foglie della
stessa specie L’incarico affidato a Fortune dalla Compagnia di trasferire il tè
dalla Cina all’India venne portato a termine con successo nel 1851 con
l’arrivo in India attraverso il porto di Hong Kong, divenuto proprio allora
britannico, di 2.000 piantine e di 17.000 semi di tè, corredati delle
necessarie informazioni relative al loro habitat e inoltre accompagnati da
alcuni uomini esperti nella loro coltivazione.
I risultati economici dell’operazione non si fecero attendere: nel giro di
qualche anno il tè cinese fu sostituito sulle tavole europee da quello
127
proveniente dalle grandi piantagioni di Darjeeling, Assam e Ceylon. Senza
la base scientifica fornita dagli esperimenti effettuati dai botanici il
trasferimento non sarebbe potuto avvenire.
La Francia, che, come si è visto, era stata costretta a rinunciare alla ricerca
finalizzata al trasferimento di piante da un continente all’altro, non
rinunciò tuttavia ad applicare i risultati della ricerca scientifica per
incrementare la produzione alimentare all’interno dei propri confini.
Un esempio di tale applicazione ci è fornito dall’attività svolta da AntoineAugustin Parmentier negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento con lo
scopo di avviare e di diffondere sul suolo francese la coltivazione della
patata. Ricordo che la patata era giunta in Spagna all’inizio del
Cinquecento, ma si era diffusa in Europa soltanto come curiosità, e non
come pianta alimentare. Anzi in un primo tempo essa era andata incontro a
paure e pregiudizi. Le condizioni ancora per tutto il Seicento non erano
favorevoli alla sua diffusione.
Ma la situazione muta nel Settecento, in concomitanza con il forte
incremento demografico, che caratterizzò tutta l’Europa di allora, e la
conseguente necessità di aumentare le rese della produzione agricola. La
patata rispondeva perfettamente alla situazione: aveva una resa di più di 30
quintali per ettaro all’anno contro i 4 del grano.
Ma il vantaggio in termini di rendimento non avrebbe potuto da solo
determinare la diffusione della patata. Per tale diffusione fu necessario
infatti un apparato scientifico in grado di selezionare le piante, di
identificare il clima adatto, e di individuare i suoli più convenienti.
E infine un robusto apparato statale, sufficientemente solido da poter
imporre l’introduzione della nuova pianta nella dieta. Parmentier cominciò
la sua serie di analisi chimiche nel 1771 e, dopo vari esperimenti, scoprì
l’identità dell’amido estratto dalle patate e dal grano. Egli riuscì inoltre a
determinare le condizioni climatiche e del suolo più adatte alle patate,
scoprendo che le patate crescono nelle situazioni non adatte al grano, e che
pertanto esse si integrano con questo, ma non lo sostituiscono.
Dopo vari anni, raccogliendo i fili delle sue ricerche e dei suoi esperimenti,
pubblicò un trattato sulla patata contente la descrizione delle diverse
varietà, le istruzioni sulla piantagione e la coltivazione, consigli su
preparazione, cottura e condimento, ricette per fare il pane con la fecola
invece che con la farina.
Dalla Francia la patata passò all’Irlanda, dove divenne la maggior fonte di
sostentamento per le masse contadine, tanto da determinare nel periodo che
128
va dalla fine del Settecento alla prima metà dell’Ottocento un aumento
vertiginoso della popolazione, che passò da circa 5 a 8 milioni di anime.
Nel corso di questo periodo era ripetutamente avvenuto che il raccolto di
patate andasse distrutto. E però si era trattato di episodi circoscritti. Episodi
che divennero più frequenti a partire da 1840, sfociarono nel 1845 nella
perdita totale dei raccolti. Le piantine di patate furono attaccate
improvvisamente e tutte quante sterminate. Al posto delle foglie e dei fiori
non rimasero che steli appassiti e nerastri.
Il problema investì ben presto l’intera isola, tanto che nessuna delle varie
qualità di tubero utilizzate in Irlanda restò indenne. La causa di tale
catastrofe fu individuata in un fungo di origine americana, noto oggi con il
nome di peronospora della patata (Phytophthora infestans). Le condizioni
delle popolazioni rurali divennero spaventose. A questo riguardo occorre
tenere presente che i contratti agrari erano strutturati in modo da
costringere il contadino a mangiare patate e a pagare il fitto ai proprietari
con altri generi alimentari.
Di fronte alla carestia il governo inglese inviò in Irlanda una Commissione
d’inchiesta, incaricata di fare il punto sulla situazione. Ma il muro eretto
dai proprietari terrieri rese impossibile l’attuazione di un programma di
intervento. Nel 1846 la violenta invasione di Phytophtora si ripeté: la
distruzione del raccolto fu totale, al pari dell’angoscia e della desolazione che
ad essa seguirono.
Dopo che per due anni consecutivi il raccolto era andato completamente
distrutto, la situazione degenerò e assunse la dimensione di una vera e
propria carestia, una catastrofe energetica di immensa portata, forse la più
grave della storia europea. Si verificarono sommosse, disordini e tumulti, ai
quali seguirono leggi speciali e repressioni.
Il bilancio finale fu la morte per fame e per malattia di più di un milione di
individui e un’emigrazione in massa verso l’America che è stata calcolata
per gli anni tra il 1847 e il 1854 di oltre un milione e mezzo di persone,
molte delle quali perirono per stenti durante la traversata.
A seguito di questa catastrofe gli studiosi delle piante, e più in particolare i
fitopatologi hanno dedicato nel corso dei decenni a cavallo tra 800 e 900
moltissima attenzione alla malattia della patata e sono riusciti a mettere a
punto varietà molto resistenti. Il problema tuttavia ancora oggi non è del
tutto risolto.
L’altra pianta che si estese nell’Europa del Settecento è il mais che a partire
dalla fine del secolo, e nel giro di pochi decenni, si affermò come coltura
129
fondamentale nelle campagne dell’Europa centro-meridionale, determinando
soprattutto negli Stati balcanici, il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura
e contribuendo inoltre al forte aumento della popolazione in Polonia,
Ungheria e Stati danubiani.
Intorno alla metà dell’800 esso era diventato per i contadini delle zone più
povere la base esclusiva dell’alimentazione, mentre il frumento veniva
destinato alla vendita. Queste comunità di contadini poveri iniziarono
allora a venir colpite dalla pellagra, nota anche come mal della rosa, una
malattia mortale dovuta a carenza di vitamina PP (Pellagra Preventing).
La presenza nel mais di tale vitamina in forma legata richiede, come
sappiamo oggi, la necessità di particolari accorgimenti nelle modalità di
assunzione del cereale, accorgimenti che, pur noti alle società
precolombiane, non erano stati adottati dalle popolazioni europee dell’epoca.
Nell’Italia settentrionale, e più in particolare in Veneto e in Lombardia,
dove il mais era stato introdotto a partire dalla fine del Seicento e dove era
rapidamente diventato l’unica fonte di sussistenza per la massa dei
braccianti e dei coloni, impoveriti dal processo di privatizzazione della terra,
la pellagra si diffuse nelle campagne nel corso del 700 e raggiunse la
massima diffusione a metà dell’Ottocento: più di 40.000 malati furono
contati nel censimento del 1858.
Il nuovo Stato nazionale, appena costituito, non seppe intervenire in alcun
modo. Fu così necessario aspettare che la dieta dei contadini si arricchisse
(anni Venti e Trenta del Novecento) perché la malattia regredisse e infine
scomparisse dal nostro paese. Occorre però tener presente che tale malattia
colpisce ancora molte zone del mondo.
d) Da fine Ottocento a oggi. E’ l’epoca che si caratterizza per una
massiccia prevalenza dell’intreccio di scienza e denaro. Il centro della nostra
storia si sposta dall’Europa agli Stati Uniti. La pianta più interessata è
ancora una volta il mais.
Negli Stati Uniti il mais comincia ad essere coltivato a partire dagli ultimi
decenni dell’Ottocento, quando le innovazioni tecniche consentono la
costruzione di aratri sufficientemente robusti e nello stesso tempo
maneggevoli da riuscire a estirpare la prateria e sostituirla con grandi
piantagioni in parte di frumento e in parte di mais. E’ a cominciare da allora
che gli Stati Uniti si sono avviati verso la strada che li ha portati a diventare
i primi produttori di mais del mondo. Ma la meccanizzazione
dell’agricoltura non è che l’inizio di un nuovo cammino.
130
Qualche decennio più tardi vengono sperimentate le prime tecniche di
ibridazione, che consentono di selezionare, attraverso l’incrocio tra
individui recanti ciascuno determinati caratteri ritenuti interessanti, nuovi
individui all’interno dei quali tali caratteri si assommano secondo gli
obiettivi ricercati. Senza le tecniche di ibridazione la coltura del mais non si
sarebbe sviluppata in maniera così estesa negli Stati Uniti.
Apro una parentesi e ricordo che gli Stati Uniti sono oggi il primo
produttore mondiale: con più di 150 milioni di tonnellate su un totale
mondiale di 500 milioni; vorrei sottolineare inoltre che oggi il mais è diffuso
in tutte le zone della terra a clima caldo e temperato: dall’equatore fino al
50° parallelo, dal livello del mare fino a 3000 metri di altitudine, sotto le
piogge o in condizioni semiaride, e con cicli di crescita che variano da 3 a 13
mesi. La produzione globale di mais è all’incirca di 500 milioni di tonnellate
all’anno con una resa per ettaro che varia da circa 80 quintali per ettaro (nei
paesi industrializzati) ai 20 quintali per ettaro dei paesi in via di sviluppo.
Più della metà del mais prodotto è utilizzato direttamente come cibo per gli
uomini (in particolare in Africa e in America del Sud). Il resto viene
destinato agli animali e, in misura molto inferiore, all’industria, sia
alimentare che non, per la produzione di zucchero, sciroppi, bevande,
chewing-gum, colle, ecc.
Ma torniamo agli ibridi, che hanno reso possibili i dati appena elencati. La
storia scientifica delle ibridazioni comincia a metà Ottocento con le ricerche
di Charles Darwin, ricerche che egli descrisse in maniera molto
particolareggiata all’amico Asa Gray, un naturalista americano. Fu un
allievo di Gray, William Beal, professore all’Università del Michigan, a
proseguire il lavoro (siamo alla fine degli anni 70). Ma i risultati dei suoi
studi non furono del tutto soddisfacenti.
Il passo successivo fu compiuto da Georg Shull, che era ricercatore in un
laboratorio vicino a New York: I risultati delle sue lunghe ricerche, positive
sul piano scientifico, si rivelarono però inadatti ad essere applicati sul
campo: la produzione di ibridi era ancora troppo costosa.
Fu quindi la volta di Donald Jones, della stazione sperimentale agricola del
Connecticut, che negli anni 20 del Novecento riuscì finalmente a mettere a
punto, grazie alle conoscenze acquisite a seguito della formulazione da parte
di Mendel delle leggi sull’ereditarietà dei caratteri, un metodo utilizzabile e
vantaggioso per gli agricoltori.
Gli esperimenti sull’ibridazione di Jones sfociarono nella effettiva
realizzazione del mais ibrido coltivabile con notevole vantaggio dal punto di
131
vista della resa. Attraverso una selezione sempre più accurata, consentita da
investimenti in denaro sempre più cospicui, fu possibile produrre varietà di
mais ad altissima resa e adatte inoltre alle zone climatiche più disparate.
Si incorporarono poi speciali caratteristiche, come la resistenza alle malattie
e la tolleranza alla siccità; e si svilupparono piante in grado non solo di
produrre due o tre pannocchie invece di una, ma nelle quali (piante) le
pannocchie si trovavano sistemate sul fusto in modo uniforme allo scopo di
agevolare la raccolta meccanizzata. Il prodotto naturale fu così trasformato
in un artefatto risultante dall’applicazione delle leggi sull’ibridazione e
sulla selezione a fini di profitto L’affermazione sul campo del mais ibrido è
iniziata nel 1935 (anno in cui solo l’1% del mais prodotto negli Stati Uniti
era ibrido). Oggi tutto il mais prodotto negli Stati Uniti e nei paesi
industrializzati è ibrido. Anche in America latina il mais ibrido sta
gradualmente prevalendo su quello originario, con grande incremento nella
resa. E però con il rischio di aprire il problema del l’impoverimento dal
punto di vista della biodiversità.
Una accelerazione e una estensione nella selezione dei caratteri vantaggiosi
sono state rese possibili negli ultimi decenni con lo sviluppo, soprattutto
negli Stati Uniti, del settore della biologia molecolare. Infatti, mentre gli
ibridi possono essere ottenuti soltanto all’interno della stessa specie e dopo
lunghi e ripetuti tentativi che si prolungano per anni e anni, con le tecniche
molecolari è diventato possibile trasferire in tempi brevi materiale genetico
addirittura da una specie all’altra. Anche fra specie lontane, perfino tra
animali e piante.
La biologia molecolare rende virtualmente possibile il trasferimento di
piante di mais (o anche di altre specie) in ogni zona della Terra: è sufficiente
infatti corredare una data specie vegetale, dei geni prelevati da un’altra
specie vegetale o anche animale, geni in grado di rendere la prima specie
resistente al gelo, o alla siccità, o alla mancanza di luce, o a un tipo di suolo
piuttosto che a un altro, ecc...
La biologia molecolare, meglio nota con il termine di bio-tecnologie o
ingegneria genetica, è diventata un affare, un business, di grande
importanza dal punto di vista dei profitti. E’ molto difficile valutare le
future conseguenze della ricerca transgenica dal punto di vista tecnicoscientifico-biologico.Tanto più per chi non è esperto. Dunque non ne
parlerò. Non è qui la sede.
E però, prima di concludere, vorrei accennare almeno a una questione: al di
làdelle problematiche tecnico-scientifiche riservate agli esperti, esistono
132
aspetti sui quali ognuno di noi può provare a riflettere e a farsi un’opinione.
A tale proposito desidero accennare ad alcuni punti che suscitano parecchi
interrogativi.
In primo luogo ricordo, a maggior chiarimento, che le ricerche nel campo
della ibridazione, delle quali ho parlato più sopra, erano state effettuate
all’interno di istituzioni pubbliche (laboratori, centri, università, ecc.),
sostenute e finanziate dalla collettività. Tali ricerche erano di conseguenza
collegate con i bisogni e con le richieste della collettività, che veniva inoltre
informata dei risultati scientifici man mano raggiunti.
Le indagini e gli esperimenti nel campo delle biotecnologie agricole e
sanitarie sono invece nelle mani di pochissimi privati: le multinazionali, 15
in tutto, delle quali 13 americane, che investono migliaia di dollari in
ricerche orientate alla produzione di organismi geneticamente modificati
con lo scopo di incrementare i loro profitti.
Tali aziende non hanno alcun obbligo di pubblicare e di diffondere i risultati
delle loro ricerche. Esse hanno pertanto hanno rescisso ogni legame con la
collettività e con le sue esigenze. Ma non solo: grazie al loro potere
economico, esse riescono ad assicurarsi l’appoggio del potere politico che
rischia così di trasformarsi (quando non si trasforma) in porta-parola dei
loro privati interessi commerciali.
In questo modo lo sviluppo delle biotecnolgie, che pure potrebbe contribuire
al benessere collettivo, potrebbe rischiare di orientarsi verso un
rafforzamento del potere industriale, concorrendo così ad aumentare il
divario tra Nord e Sud del mondo.
Aggiungo ancora che le multinazionali impegnate nella biotecnologia,
possono, allo scopo di tutelare le loro invenzioni, brevettarle, trasformando
così la pianta (un bene di tutti, secondo le parole delle Nazioni Unite) in
una merce di loro esclusiva proprietà e costringere di conseguenza gli
agricoltori a dover dipendere dalla singola multinazionale che detiene il
brevetto, per procurasi ogni anno la semente Come è stato detto dallo
studioso di storia dell’agricoltura americano Jack R. Kloppenburg, il seme
passa così dall’essere prodotto e mezzo di produzione, all’essere solamente
prodotto: l’agricoltore, in altre parole, viene privato del mezzo di produzione
in quanto deve comprare il seme dalla multinazionale che ne detiene la
proprietà e gli resta solo il prodotto (il raccolto).
Mi fermerei qui per ora e inviterei a riflettere su come lo sviluppo delle
biotecnologie sollevi importanti questioni di ordine economico e politico, e
faccia emergere con chiarezza il conflitto tra libertà del potere economico da
133
un lato e controllo da parte del potere politico dall'altro, soprattutto per
quanto riguarda gli interessi privati nel campo dell’alimentazione mondiale
e della salute, due campi che dovrebbero restare nel dominio del potere
pubblico.
E la preponderanza, che può realizzarsi in alcuni casi, degli interessi privati
rispetto al controllo politico potrebbe essere la base di partenza per avviare
la comprensione delle dinamiche che sottostanno a determinate scelte
scientifiche piuttosto che ad altre.
Agnese Visconti – Università di Pavia
134
INDICE
Introduzione
pag. 3
Parte Prima
Cibo e nostalgia
Racconti dall’Africa occidentale sub sahariana
Fufu Foufou Foofoo Attièkè Aloko Tò
Il Baobab
Il Cuscus
Acrostico di cibo
Il cibo delle feste
Testimonianze
pag. 5
Parte seconda
Prefazione
Il tè in Pachistan
La banana in Bolivia
Il riso in Costa d’Avorio
Il frumento in Marocco
Le patate in Polonia
Il riso in India
Il caffè in Brasile
Il pane e lumache in Sardegna
pag. 69
Appendice: “Il ruolo delle società umane per le trasmigrazioni delle
piante da un continente all’altro “
135
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