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SOCIOLOGIA, CIBO, ALIMENTAZIONE: ALCUNI APPUNTI
SOCIOLOGIA, CIBO, ALIMENTAZIONE: ALCUNI APPUNTI A cura di Simone Tosi 1: Alimentazione e società: alcuni temi. ............................................................ 2 1.1 L’analisi del cibo nelle scienze sociali .......................................................... 2 1.2 Cibo, rito, rituale ................................................................................................... 7 1.3 Cibo e commensalismo ................................................................................... 10 1.4 cibo: differenziazione e riproduzione dei ruoli sociali ...................... 14 1.5 Gusti e preferenze ............................................................................................. 15 2: 2.1 2.2 2.3 2.4 Il mangiatore contemporaneo ..........................................................18 Stabilità e cambiamento ................................................................................. 18 Cibo e modernizzazione ................................................................................. 20 Mangiare fuori casa .......................................................................................... 24 Cibo in viaggio: colonialismo e migrazioni ............................................. 26 1: ALIMENTAZIONE E SOCIETÀ: ALCUNI TEMI. 1.1 L’ANALISI DEL CIBO NELLE SCIENZE SOCIALI Gli studiosi di scienze sociali hanno iniziato solo in tempi relativamente recenti ad occuparsi dei fenomeni sociali legati alle pratiche alimentari. Nella produzione sociologica e antropologica classica sono rari gli autori che hanno studiato in modo “diretto” questo tema; le incursioni delle scienze sociali nell’ambito alimentare-culinario sono state subordinate a un ordine di argomenti ritenuti più “a buon diritto” propri della sociologia e dell’antropologia, quali i gruppi sociali, la commensalità, il rito, il sacrificio, ecc. Le ragioni più evidenti di questo snobismo nei confronti dell’alimentazione sono probabilmente due: 1) l’importanza del cibo e delle pratiche alimentari era tale e così quotidianamente sotto gli occhi di tutti che lo studio di questi fenomeni e pratiche non appariva necessario; 2) il cibo apparteneva alla sfera domestica ed era quindi collegato in particolare al ruolo della donna; ciò relegava il tema ad uno status inferiore rispetto a quello dello studio delle attività della sfera pubblica, da sempre considerate dominio maschile, quali l’economia e la politica, che furono infatti abbondantemente studiate (Mennell, Murcott, van Otterloo 1992). Non si può dunque parlare, per il passato, di una vera e propria produzione sociologica e antropologica sui temi dell’alimentazione. Il tema era affrontato in modo per così dire “strumentale”, per la rilevanza che poteva avere in funzione di altri temi o campi di ricerca. Parlando di quelli che definisce i “padri fondatori dell’antropologia” Fischler sostiene che “il loro interesse centrale verte in realtà soprattutto sulla religione: più della cucina li intriga e li coinvolge il sacrificio. Questi precursori si interessano soprattutto agli aspetti rituali e sovrannaturali del consumo” (1990, 8). E’ con l’apporto metodologico e ideale della nuova storia che il cibo diventa a pieno titolo oggetto di indagine delle scienze sociali; esso acquista autonomia in un processo di rivalutazione della quotidianità rispetto all’ “événementiel”, e si arricchisce anche di una prospettiva dinamica, attenta allo sviluppo diacronico degli oggetti in esame. A partire dagli anni ‘70, per ragioni analoghe e con analoghe motivazioni, il cibo e le pratiche alimentari conquistano uno spazio consistente anche in antropologia e in sociologia: ad esempio nelle nuove sociologie della vita quotidiana (che d’altra parte condividono con la nuova storia molti atteggiamenti teorici e metodologici). In termini generali si possono individuare tre impostazioni teoriche nello studio sociale del fenomeno cibo1. La prima è il funzionalismo. Grazie agli studiosi funzionalisti il cibo fa la sua comparsa da protagonista sulla scena della “grande sociologia”. Il cibo e le pratiche alimentari vengono assunti come elementi fortemente esplicativi: utilizzandoli per illustrare i processi sociali fondamentali e per raccordare - secondo la tipica prospettiva funzionalista - aspetti della società apparentemente scollegati. Già Radcliffe-Brown (1922) sottolineava la funzione del cibo come catalizzatore della socializzazione degli individui all’interno di un sistema sociale. Ma è con i lavori di Audrey Richards che viene attribuito un ruolo di primaria importanza al cibo. Richards sostiene - in un periodo di incontestato dominio delle impostazioni di tipo freudiano - che più ancora della sessualità è l’alimentazione ad avere il peso maggiore nella determinazione della natura e delle forme di società (1932, 1937, 1939). Abbastanza presto le posizioni funzionaliste - o almeno le loro varianti più rigide - vengono sottoposte a critiche più o meno radicali. Come per altri campi di ricerca, una critica severa riguarda il rischio che - attraverso il concetto di funzione - venga introdotto il ricorso a spiegazioni extrasociali. Tentando di definire, in maniera estremamente sintetica, quello che definisce paradigma funzionalistico-adattivo, Fischler sostiene che in questo tipo di paradigma “ogni tratto della cultura alimentare adempie a una funzione molto specifica; l’unico modo di fare apparire questa funzione è legare il tratto in questione a un fenomeno di ordine extra-culturale o materiale, ad esempio biologico o fisico. In altri termini, per comprendere, dobbiamo ricorrere a spiegazioni ‘naturali’, spiegazioni ispirate alle scienze cosiddette ‘esatte’” (1990, 29). Un esempio, proposto ancora da Fischler, è l’interpretazione fornita a proposito della proibizione ebraica e musulmana di mangiare carne di maiale. Secondo l’impostazione funzionalista tale tabù è legato al fatto che nelle aree geografiche in cui queste culture si sono sviluppate, la carne di maiale poco cotta è spesso veicolo di infezioni e malattie parassitarie quale la trichinosi. Questa interpretazione è stata accantonata, data la sua incapacità di rispondere a due obiezioni: 1) come mai altri animali, veicolo di trichinosi tanto quanto il maiale, continuano ad essere consumati in quelle stesse regioni dalle quali il maiale è bandito? 2) se cuocendo la carne di maiale prima di consumarla si evita il rischio di malattie ad essa connesse perché invece di un tabù che ne vieta completamente il consumo non è sorta una prescrizione che imponesse di consumare quanta carne di maiale si desiderasse purché ben cotta? La seconda scuola che prendiamo in considerazione, lo strutturalismo, rappresenta in qualche modo un’inversione rispetto al funzionalismo. Se questo, come si è visto, dimostrava una tendenza ad interpretare i fatti 1 Per un’analisi più dettagliata che passi in rassegna le diverse scuole della sociologia del cibo si rimanda ai testi di Goody (1982), Fischler (1990) e Mennell, Murcott, van Otterloo (1992). sociali attraverso elementi di ordine naturale-biologico, una caratteristica comune individuabile negli approcci di tipo strutturalista è l’enfasi sull’origine culturale e sul carattere socialmente controllato dei gusti alimentari. All’interno dell’impostazione strutturalista si deve distinguere però tra l’approccio di Mary Douglas e quello di Lévy-Strauss. Per Lévy-Strauss (1958, 1964, 1968) il cibo e la cucina costituiscono un campo interessante in due sensi: 1) la cucina permette di raggiungere una comprensione della cultura e della società che la pratica; in questo senso la cucina costituisce un linguaggio nel quale la società trasferisce le proprie credenze, istituzioni e strutture; 2) inoltre la cucina rivela le strutture fondamentali del pensiero umano, collocandosi così lo studio della cucina nell’ambito del tentativo di Lévy-Strauss di rivelare quell’affinità (quasi identità) che esisterebbe tra strutture profonde della mente umana e strutture della società. Mary Douglas (1972, 1984, 1985a, 1985b) condivide l’intento di LévyStrauss di identificare i meccanismi che determinano le scelte e i gusti, ma non si aspetta che tali meccanismi siano universali, bensì che varino da una cultura all’altra. In relazione con questo punto di vista, Douglas (1975 e 1985b) ha sviluppato un tipo di analisi che tiene conto non soltanto dei cibi singolarmente presi ma di intere “sequenze di cibi”, cercando di mettere in relazione i cibi e i piatti che compongono i diversi pasti nell’arco della giornata. Gli esiti possibili dell’approccio strutturalista sono esemplificati dalla interpretazione che Mary Douglas dà del tabù ebraico relativo alla carne di maiale: sostenendo che tale divieto è da collegarsi ad una anomalia tassonomica. La cultura ebraica opera infatti una classificazione delle specie animali atta a collocare ciascuna di esse all’interno di una delle tre categorie fondamentali poste dalla Genesi, cioè terra acqua e cielo; gli animali che non si collocano chiaramente in nessuna delle tre categorie sono considerati impuri. All’interno di ciascuna delle tre sfere la classificazione si articola in maniera capillare. Nel caso del maiale l’impurità deriva dal fatto che si tratta di un animale con zampa unghiata e unghia fessa, ma che a differenza della maggior parte degli animali che presentano queste caratteristiche non rumina. La terza scuola che occorre considerare è quella “developmentalista”. I sociologi e gli antropologi che possiamo attribuire a questa scuola condividono una comune attenzione per il processo dinamico al quale le abitudini e le pratiche sono continuamente sottoposte. Relativamente all’argomento alimentare, gli autori che hanno dato i contributi più significativi sono Jack Goody e Marvin Harris (in realtà l’attribuzione di entrambi ad una stessa “scuola” potrebbe essere contestabile: l’approccio adattivo del secondo potrebbe assimilarlo da diversi punti di vista alla tradizione funzionalista). Per Harris (1985) le diete riscontrabili nelle diverse culture e nelle diverse parti del mondo sono il frutto di aggiustamenti progressivi negli alimenti consumati dagli individui sulla base di scelte di ottimizzazione in termini di costi-benefici; una volta che le scelte alimentari hanno raggiunto l’ottimo per quell’ambiente e in quell’istante, esse si stabilizzano e si perpetuano attraverso l’attribuzione ai vari alimenti di significati simbolici e attraverso l’interiorizzazione di preferenze e ripugnanze. Secondo Harris il tabù del maiale deriva dai cambiamenti climatici e dalla diminuzione delle foreste che, nella regione mediorientale, hanno fatto diventare l’allevamento e il consumo della carne di questo animale anti-economico rispetto ad altri animali. Goody (1982) sostiene che la ricerca sociale in campo alimentare non possa essere esaurita nella descrizione delle strutture che informano le pratiche culinarie; in questo modo si perderebbe infatti la dimensione diacronica del fenomeno alimentare. Le pratiche alimentari devono quindi essere analizzate all’interno di uno schema dinamico che tenga conto e che possa spiegare il cambiamento, oltre che le strutture, di tali pratiche. Goody sottolinea inoltre come il cammino sociale del cibo non sia rettilineo ed uniforme ma subisca accelerazioni e rallentamenti in funzione di diversi fattori quali l’industrializzazione, il colonialismo, le migrazioni, ecc. Ho scelto di non presentare l’argomento, a differenza di quanto avviene di solito nelle introduzioni alla sociologia del cibo, attraverso le principali scuole di pensiero che se ne sono occupate. In questo capitolo intendo piuttosto rendere conto di una serie di parole chiave che possano dare l’idea delle diverse linee di ricerca che sono state sviluppate nello studio del fenomeno cibo. Tale panoramica costituisce una prima selezione che ha lo scopo di chiarire le aree di indagine maggiormente collegate all’argomento specifico dei capitoli successivi: cibo/identità culturale ed etnica, cibo/immigrazione, cibo/relazioni interculturali e interetniche. Se è vero che questa scelta comporta alcuni svantaggi per quanto riguarda le possibilità di comparazione tra le diverse impostazioni, e inoltre mette in secondo piano le tappe dello sviluppo diacronico del dibattito, d’altra parte l’opportunità di operare fin d’ora una scelta che sia funzionale allo sviluppo del discorso nei capitoli successivi è evidente. Naturalmente la condizione è che le parole chiave si organizzino attorno ad un tema unificante che sia nello stesso tempo rappresentativo della sociologia e dell’antropologia del cibo, e significativo per lo specifico oggetto di questa ricerca. Al di là delle differenze di cui si è detto è possibile individuare un aspetto fondamentale comune a tutti gli studi sociologici sul cibo: il legame tra il cibo e l’identità. Tale legame si struttura lungo due dimensioni. Una prima dimensione è quella presente nell’esperienza culturale, quando vengono messi in relazione certi tipi di alimenti con alcune determinate caratteristiche delle persone che li mangiano. E’ l’idea, pressoché universalmente diffusa, secondo la quale “si è ciò che si mangia”. Tale idea istituisce una relazione essenziale (spesso in forma magica, oppure ritualizzata) tra cibo e identità: per dirla con le parole di Fischler, su questa relazione “sembra fondarsi il tentativo, costante nella maggior parte delle culture, di padroneggiare il corpo e, attraverso di esso, lo spirito, l’intera persona e dunque l’identità” (1990, 51). Yosef Yerushalmi cita il caso di Don Lope de Vera, nobile di famiglia ‘vecchio-cristiana’ che, nel XVII secolo, fu bruciato vivo come giudaizzante poiché si scoprì che la balia che lo aveva allattato era una ‘cristiana nuova’, cioè recentemente convertita al cristianesimo e con degli avi di religione ebraica. Il suo latte doveva quindi avere infuso un po’ di ebraismo nello sfortunato nobile (1994, 237-238). La seconda dimensione del rapporto cibo-identità è quella che fa riferimento all’identità in quanto inerente al senso di appartenenza e di solidarietà nei confronti di individui che si sentono parte dello stesso gruppo, e implica contemporaneamente un’idea di opposizione e di alterità rispetto ad altri individui che a tale gruppo non appartengono. Igor de Garine (1979) riferisce di due popolazioni del Camerun settentrionale e del Ciad, i Massa e i Tupuri, che, pur vivendo nello stesso ambiente, disponendo delle medesime tecnologie, conoscendosi reciprocamente e sposandosi spesso fra di loro, fanno un uso alimentare diverso delle risorse di cui dispongono, rinunciando in molti casi a soluzioni di ottimizzazione nutrizionale. Secondo de Garine le differenze riscontrabili nelle rispettive diete hanno la funzione di mantenere distinte le identità culturali delle due popolazioni in un ambiente che favorirebbe l’uniformazione e la fusione dei due gruppi. Il legame tra cibo e identità non deve essere considerato una caratteristica esclusiva delle società tradizionali. In maniera più o meno consapevole tale legame esiste anche nelle società moderne e in quelle post-industriali. Per il primo aspetto della relazione l’esempio tipico per le nostre società è la sua definizione attraverso la dietologia, le cui implicazioni rituali, ma anche magiche, sono una citazione perfino abusata. Per il secondo aspetto potrebbe trattarsi di quella che Moulin definisce la “cucina dell’odio” (1975, 61), una modalità di relazione che - eventualmente in forme attenuate - è ricorrente anche nelle nostre società: si pensi a quante volte gli appartenenti ad una determinata cultura vengano definiti in base alla loro alimentazione; gli italiani sono Macaroni, i tedeschi sono Mangia-patate per gli italiani; più localmente i vicentini sono Magna-gatti e , ci dice Moulin, “gli abitanti di Bruxelles sono correntemente chiamati kiekefretters (mangiatori di pollo)” (ibidem). Storicamente troviamo casi di “cucina dell’odio” dalle implicazioni ben più pesanti. Un esempio riguarda l’origine di due piatti iberici: lo spagnolo cocido madrileno e il portoghese porco com ameijoas a alentejana (maiale alle vongole alla moda di Alentejo). Entrambi questi piatti derivano da un piatto ebraico (ancora oggi cucinato dalle comunità ebraiche in nord Africa) chiamato adafina, nel quale “all’epoca dell’Inquisizione le tradizionali uova sode furono sostituite con carne di maiale e lardo, o con carne di maiale e vongole, ingredienti cioè severamente vietati agli ebrei e ai musulmani. Era un modo (...) di verificare se si riceveva a casa propria un cristiano autentico di ‘pura razza’ o qualche marrano o moresco non del tutto convertito” (Moulin 1975, 62). Entro questa cornice generale fornita dal rapporto cibo-identità, le parole chiave possono essere organizzate in due gruppi: quelle che riguardano in generale le relazioni tra cibo e processi sociali o istituzioni sociali (cibo e rito, cibo e commensalità, cibo e differenziazione sociale), che saranno oggetto di questo stesso capitolo, e quelle che riguardano il cibo o il mangiatore moderno - o le relazioni tra pratiche alimentari e processi di formazione o strutture delle società moderne/industriali che saranno trattate nel secondo capitolo. In entrambi i casi occorre scontare una certa eterogeneità di riferimenti, che è nella natura degli studi in questo campo. All’interno di quella che definiamo genericamente sociologia del cibo esiste una certa variabilità per ciò che riguarda gli elementi presi in considerazione: tali elementi possono essere il cibo in senso stretto (Kuper 1977), le modalità di produzione del cibo (Braudel 1967) o quelle di consumo (Corbeau 1992), ecc. Riferimenti del discorso possono quindi essere di volta in volta il cibo, le relazioni tra i mangiatori, i luoghi in cui il cibo viene consumato, quelli in cui viene venduto ecc. I temi che vengono trattati in questo capitolo esprimono le linee più generali - e anche quelle più “classiche” - del dibattito delle scienze sociali su cibo e cucina. L’alimentazione e le pratiche ad essa collegate vengono messe in relazione con alcuni tipi di processi e istituzioni sociali (rito/rituale, commensalismo, differenziazione e riproduzione dei ruoli sociali, gusti). E’ un campo di indagine che ha avuto nell’antropologia i primi sviluppi di ricerca e che, di conseguenza, presenta un’abbondante mole di materiali relativi alle società tradizionali, secondo l’impostazione dell’antropologia dell’inizio del secolo. Tuttavia, come vedremo, i temi identificati in questo primo capitolo sono rilevanti anche per l’analisi del cibo e delle pratiche alimentari nelle società industriali e post-industriali. 1.2 CIBO, RITO, RITUALE L’elemento che ha agito da molla nel determinare l’interesse delle scienze sociali verso le pratiche connesse al cibo e all’alimentazione è stato l’aspetto rituale di tali pratiche. Ad una analisi esplicita degli aspetti rituali di alcune pratiche sociali è dedicata l’opera più nota di van Gennep (1909). Nel periodo a cavallo tra l’ ‘800 e il ‘900, alcuni studiosi si resero conto che i caratteri rituali che erano stati fino ad allora descritti relativamente alle popolazioni considerate “primitive”, “erano distribuiti in un’ampia varietà di società umane ed erano riscontrabili, seppure in una maniera più diluita, anche nelle loro stesse culture, nell’Europa del diciannovesimo secolo.” (Goody 1982, 12). La permanenza di queste caratteristiche, considerate “primitive”, divenne il primo dato da spiegare, e per molti antropologi del periodo il carattere razionale della spiegazione - una spiegazione che “giustificasse” tale tipo di pratiche - poteva convergere con le “razionalizzazioni” operate dalle popolazioni oggetto di studio. In questo senso possono essere lette molte parti dell’opera di James Frazer ( 1887, 1890) quando sostiene che “in alcuni miti sembra che l’effettiva discendenza dal totem abbia subito un processo di razionalizzazione (...). Due clan dell’Australia occidentale, che prendono il nome da una piccola specie di opossum e da un piccolo pesce ritengono di chiamarsi così perché si cibavano principalmente di questi animali” (1887, 31-32). Un tipo di pratica connessa al cibo che ben si presta ad essere studiata nelle sue caratteristiche rituali è quella relativa alla macellazione e alla spartizione della carne, come ambito in cui l’aspetto rituale raggiunge un notevole livello di visibilità, ed è quindi più facilmente analizzabile e comprensibile. Fischler (1990) si sofferma lungamente su questo genere di pratiche ritualizzate distinguendo tra i riti direttamente rivolti a “trattare” la carne rendendola innocua, pura e commestibile, e quelli - immediatamente conseguenti - dedicati alla distribuzione della carne tra i membri del gruppo. A proposito del primo tipo di rito la letteratura antropologica ed etnologica risulta particolarmente ricca. Fischler riporta numerosi esempi tratti dalla ricerca sulle società primitive che dimostrano la varietà e la complessità dei riti collegati all’uccisione di un animale per scopi alimentari. Esempi tratti da ricerche condotte su società culturalmente distanti dimostrano, innanzitutto, che esiste una notevole omogeneità nel rapportarsi e nel trattare l’arma o lo strumento con il quale l’animale viene ucciso; tale strumento viene infatti molto spesso gettato, distrutto, in qualche modo reputato colpevole dell’uccisione. Questo tipo di pratica ha come scopo quello di sgravare l’uomo che ha scagliato la freccia o che ha sferrato il colpo dalla responsabilità dell’uccisione e da possibili vendette divine che tale atto potrebbe scatenare. Più in generale si può parlare di una tendenza ad assolvere l’individuo dalle responsabilità legate all’uccisione attraverso pratiche rituali e attraverso rappresentazioni che liberino l’uomo dalla colpa dell’uccisione e dalle possibili conseguenze ad essa connesse; i greci, ad esempio, nelle loro rappresentazioni artistiche, non ritraevano mai il momento in cui l’arma era calata sull’animale (Fischler 1990, 106 e seguenti). Per ciò che riguarda il secondo tipo di pratica ritualizzata esiste molto materiale etnologico-antropologico che descrive le complesse procedure rituali finalizzate alla spartizione e alla condivisione del cibo (Fischler tratta l’argomento con particolare riguardo alla spartizione rituale della carne), per la cui trattazione rimandiamo alle pagine sul commensalismo. L’esempio della macellazione suggerisce la centralità culturale che le pratiche alimentari possono avere, ed il loro carattere “globale”. Sono queste le caratteristiche che l’analisi dei rapporti tra cibo e rito illumina, e che possono agevolmente essere rilevate anche nelle nostre società: a condizione naturalmente che si adotti una nozione di rito rigorosa e precisa, e che non leghi a priori la nozione a forme di ritualità che appartengono a società “primitive” o tradizionali. Assumiamo a tal fine la definizione data da Jean Cazeneuve nella prima parte del suo “Sociologie du rite” (1971), e le implicazioni in essa contenute. Innanzitutto Cazeneuve fornisce una prima definizione di rito inteso come “un atto che può essere individuale o collettivo ma che, sempre, anche quando è sufficientemente elastico da comportare un margine d’improvvisazione, resta fedele a determinate regole che, precisamente, costituiscono ciò che vi è di rituale.” (1971, 13). Già da questa definizione emerge un primo tratto caratterizzante il rito, e cioè la ripetitività dell’atto. Partendo da questo tratto, il carattere rituale delle pratiche alimentari implica di collocare in uno schema interpretativo ampio quelli che risultano essere due aspetti fondamentali della pratica alimentare stessa: la sua staticità, la sua attitudine a rimanere relativamente invariante nel tempo, e “l’attaccamento affettivo” alle proprie abitudini alimentari, riscontrabile anche nel mangiatore moderno (Fischler 1990, Moulin 1975). La seconda caratterizzazione che Cazeneuve offre attiene alla valutazione di utilità del rito stesso. Spesso si utilizza il termine rito (soprattutto da parte delle società occidentali contemporanee) per intendere una pratica “che non è indispensabile, che non ha un’utilità positiva osservabile e che si compie per abitudine, per adeguarsi a una tradizione.” (Cazeneuve 1971, 17). Ma a questo punto bisognerebbe precisare il concetto di utilità, il che, come ci avverte Cazeneuve, non è semplice. Innanzitutto occorre tenere presente che persino “il rito nevrotico è forse utile per il soggetto che lo compie dando qualche sollievo ai suoi conflitti inconsci” (idem). Ma il punto fondamentale non è tanto se il rito sia o non sia utile, ma piuttosto se esso sia concepito come efficace. E ciò porta a interrogarsi sul “senso” delle pratiche, e quindi a collocarle nel complesso dell’esperienza dei soggetti in questione. Il carattere rituale delle pratiche alimentari è dunque da inserire all’interno di un sistema di riferimento ampio che prenda in considerazione diversi aspetti della società in esame, rendendo così possibile la comprensione anche di quei riti, di quelle abitudini, che spesso possono apparire incomprensibili e ingiustificabili se vengono osservate da un unico punto di vista. Corbeau (1992) esprime questo concetto parlando dei comportamenti legati al cibo come di una filière di comportamenti, intendendo sottolineare con ciò la globalità dell’atto culinario: “Apprendere la sociabilità a partire dalle pratiche alimentari permette di osservare una molteplicità di rituali. Il carattere privilegiato di questo terreno si afferma con maggior forza se si considera il ‘mangiare’ come un fenomeno sociale totale che inizia con la decisione di produrre il tale tipo di alimento piuttosto che tale altro, per arrivare fino all’immaginario legato alla digestione, alle impressioni trasmesse con la commensalità e ai discorsi che la presiedono. Lo studio della totalità dei comportamenti alimentari si ricongiunge allora alla nozione di ‘trafila’” (Corbeau 1992, 101). 1.3 CIBO E COMMENSALISMO L’importanza delle pratiche di convivialità, quando si parla di cibo in una prospettiva sociale, è un argomento ampiamente riconosciuto e discusso nella letteratura sociologica e antropologica. Già la sociologia classica ha diffusamente studiato questo tema, e ne ha sottolineato l’importanza. La relativa facilità con cui il cibo, in relazione alle pratiche di commensalismo, ha trovato posto nelle scienze sociali è legata alla sua prossimità con i temi propri degli studi sulla comunità, sui fondamenti della solidarietà e del legame sociale fioriti nel diciannovesimo secolo (Nisbet 1966). Fondamentali in questo senso sono le teorie di Comte, Fustel de Coulanges, Le Play, Durkheim, Spencer, Simmel, Tönnies. Molti di questi studi analizzano le pratiche di commensalismo per le loro relazioni funzionali con le istituzioni, i processi sociali fondamentali e il ruolo dei gruppi elementari. In questo senso possono essere lette ad esempio le analisi condotte da Durkheim e Spencer sui rapporti tra pratiche alimentari e, rispettivamente, i sistemi di lignaggio e i processi di differenziazione sociale, su cui si ritornerà nel prossimo paragrafo. Occorre definire e precisare cosa si intende con il termine commensalità, in quanto ad esso è connessa una varietà di significati tale da rendere ambiguo l’uso stesso del termine. Anzitutto occorre registrare la varietà culturale delle pratiche di commensalismo. Al lettore europeo di oggi il concetto di commensalità probabilmente suggerisce un tipo di pratica che in realtà è un tipo specifico di commensalità: il fatto che a tutti coloro che siedono allo stesso tavolo vengono serviti gli stessi cibi. Ma la letteratura storica ci insegna che questo non è affatto l’unico modello (n‚ il più diffuso) di pratica commensale. “Almeno fino all’inizio del Seicento - scrive Flandrin - non si pensava che le persone sedute alla stessa tavola dovessero mangiare gli stessi cibi n‚ bere le stesse bevande. Olivier de Serre, per esempio, consigliava al suo gentiluomo di campagna di fornirsi di vino di qualità inferiore per gli ospiti di bassa condizione, che avrebbe potuto accogliere alla sua tavola, per risparmiare il vino buono e conservarlo per sé e i suoi ospiti di riguardo. Ancora in pieno Seicento, i trattati di buona educazione - come pure i libri di cucina, i manuali di taglio ed altre opere relative all’alimentazione - erano piene di raccomandazioni sui cibi o sui bocconi da presentare al padrone di casa e ai grandi personaggi che onoravano la tavola della loro presenza.” (1987, 209). Si possono dunque distinguere vari tipi di pratiche di commensalismo, che cambiano da una società all’altra e nel corso del tempo. Gli invitati a un banchetto possono sedere tutti allo stesso tavolo e mangiare gli stessi cibi, come accade normalmente nell’Europa dal Seicento in poi; oppure, come nella descrizione di Flandrin, alle persone che siedono allo stesso tavolo possono essere serviti cibi diversi in funzione della loro posizione nella scala sociale; o ancora, come è ampiamente documentato dalla letteratura antropologica, possono essere allestiti diversi tavoli (o spazi con funzioni equivalenti) ai quali vengono serviti diversi cibi, nell’ambito della stessa cerimonia-pasto (de Garine 1979, 1992). Al di là delle sue specifiche forme storiche, gli approcci funzionalisti ed evolutivi sottolineano però la diffusione universale del commensalismo, e la presenza di alcuni tratti ricorrenti. Questo ci porta di nuovo a problemi di definizione. Una indicazione viene dalla biologia per cui la caratteristica peculiare che distingue il commensalismo da altre forme di rapporti tra individui determinati dal cibo (parassitismo, predazione, ecc.), è che nel commensalismo entrambi i soggetti che partecipano al rapporto traggono dei vantaggi dal rapporto stesso. Se dal terreno della biologia passiamo a quello delle scienze sociali, questa stessa caratteristica mantiene tutta la sua rilevanza. Per potere assumere questa definizione è dunque necessario verificare che il tipo di relazione in esame comporti uno scambio, e non sia, come appare spesso dalla letteratura etnografica una transazione unilaterale2. Questo tipo di approccio ci costringe ad inquadrare le pratiche collegate al cibo ed i significati ad esso attribuiti, all’interno di un sistema di credenze e di abitudini più ampio, che comprenda i diversi aspetti della società in cui il pasto ha luogo. In questa prospettiva, il fattore che appare particolarmente interessante nell’analisi sociologica del commensalismo è il sistema di norme, riti e tabù che strutturano le pratiche ad esso connesse. E’ il sistema di credenze che fa sì che il pasto possa essere condiviso con certe persone, secondo certe regole di comportamento e certe modalità, con altre persone secondo certe altre modalità, o che non possa affatto essere condiviso con altre persone ancora. L’aspetto ora sottolineato e da considerarsi strettamente collegato a quelle che possiamo definire come le funzioni e i significati sottesi alla pratica in sé. Al di là dell’interesse che rivestono i diversi modelli di commensalismo, ha assunto infatti particolare importanza il dibattito che si è sviluppato a proposito della funzione e dell’origine delle pratiche commensali. Il fatto su cui sembra esserci un particolare accordo tra gli studiosi che si sono 2 Per una panoramica sulle tipologie di scambi cfr. Mauss (1923). occupati della pratica di condividere in qualche modo il cibo, è l’importanza sociale e la diffusione pressochè universale di tale pratica. Arnold van Gennep sottolinea come alla base dei riti sociali della maggior parte delle civiltà da lui studiate ci siano spesso delle pratiche che comportano lo scambio o il consumo di cibi: “La commensalità o rito del mangiare e di bere insieme (...) è chiaramente un rito di aggregazione, di unione propriamente materiale che si è denominato come un sacramento di comunione.” (van Gennep 1909, 25). A sottolineare l’universalità del commensalismo, van den Berghe perviene a partire da una prospettiva evoluzionista. Egli ha ricercato l’origine della pratica del commensalismo conducendo un’analisi comparata tra le abitudini sociali umane e quelle di altri animali. Il dato che appare immediatamente importante è che la pratica di condividere il cibo è comune alla maggior parte degli animali carnivori. In particolare van den Berghe osserva come alcune specie, quali gli scimpanzé e i cànidi si servano degli scambi di cibo per creare e mantenere dei legami sociali che vanno oltre i naturali vincoli di sangue. I cànidi, ad esempio, hanno elaborato un sistema che permette, agli individui incaricati di cacciare, di distribuire il cibo, rigurgitandolo, non soltanto tra i figli o tra quanti sono ad essi vincolati da legami di parentela, ma anche agli adulti lasciati di guardia ai piccoli. Negli scimpanzé le somiglianze con i comportamenti umani a proposito di condivisione del cibo sono ancora più accentuate e si estendono alle modalità dello scambio: “i gesti ritualizzati usati dagli scimpanzé per chiedere il cibo (estendere le braccia verso il possessore del cibo con le mani leggermente a forma di coppa e le palme rivolte verso l’alto) sono identici a quelli riscontrati negli esseri umani.” (van den Berghe 1984, 389). Secondo l’analisi di van den Berghe il fatto che la pratica di condividere il cibo sia comune alla maggior parte degli animali carnivori dimostra quanto le radici di questo comportamento umano siano antiche e profonde e può servire a spiegarne la centralità ed universalità: “Non solo il cibo è il dono per eccellenza, ma è anche il dono che non può essere rifiutato senza offendere.” (van den Berghe 1984, 390). La condivisione del cibo sembra svolgere una funzione di pacificazione, di tranquillizzazione, o - in termini più generali - di socializzazione: “consumando insieme un pasto si sancisce un rapporto di equivalenza tra i commensali, la tavola stabilisce legami di ‘parentela di pappa’ (a clanship of porridge scrivono in modo scherzoso L. e R. Makarius nel 1960), che completano e rafforzano in modo definitivo, i legami di sangue. Il cibo consumato insieme è il simbolo della pace, tant’è vero che un pasto fraterno riunisce i clan che si riconciliano.” (Moulin 1975, 8). Anche se è spesso difficile percepire un proprio comportamento come appartenente a una dimensione rituale, o attribuirgli un significato simbolico, bisogna riconoscere che le “società industriali” (come anche quelle “post-moderne”, o quelle “post-industriali”) sono ricche di pratiche ritualizzate e cariche di valori simbolici, magari meno consapevoli, e che spesso tali pratiche passano attraverso il cibo, realizzando anche principi di commensalismo. Si pensi all’uso che viene fatto e ai significati che vengono attribuiti alle bevande alcoliche (Moulin 1975; Fischler 1990; Corbeau 1992), o all’importanza che ricoprono alcuni piatti tradizionali in determinate occasioni di festa (il pranzo domenicale, o quello natalizio o pasquale, o i pasti delle ricorrenze familiari) (Douglas 1984; Moulin 1975), o ancora alle numerosissime varianti della pratica sempre più diffusa di pranzare o cenare fuori casa (Finkelstein 1989). I comportamenti e le pratiche collegate al pasto - o come sostiene Corbeau (1992), relativamente alle abitudini in uso nel nostro tipo di società, soprattutto i “riti di aperitivo” - svolgono un importante funzione di strutturazione all’interno del gruppo che vi partecipa; le modalità con cui la tavola viene apparecchiata, i criteri con cui i commensali scelgono i posti intorno alla tavola imbandita, le modalità di conversazione, etc., “creano la prossimità e la distanza: si sta seduti insieme ma in un modo che conforta la distanza e la gerarchia.” (Maffesoli 1985, 7). Il pasto diventa dunque un atto sociale fondamentale nella misura in cui ai commensali viene data la possibilità di sperimentare, di fare una specie di “prova generale” di quelli che sono i rapporti sociali all’interno del gruppo, o più in generale, all’interno della società a cui appartengono; l’accettazione delle regole imposte durante il pasto implica l’accettazione dei rapporti sociali e della gerarchia sociale tra i commensali anche quando il pasto sarà terminato. Come nella Grecia classica, quando per i banchetti a base di carne “l’animale sacrificato (...) veniva poi fatto a pezzi e mangiato nel corso di un banchetto rituale in cui ciascuno riceveva una parte di carne conforme al suo statuto nella Città. (...) La parte di carne che il cittadino riceve durante il banchetto sacrificale è letteralmente l’incarnazione del suo statuto politico e sociale.” (Fischler 1992, 112). Con riferimento alle società moderne possiamo anche esemplificare i cambiamenti storici dei modelli, in particolare i loro cambiamenti legati al passaggio a forme “avanzate”. Corbeau ha sottolineato il fatto che nella società industriale avanzata ci sia stato una rapida trasformazione di quelle pratiche di commensalismo che erano state a lungo considerate un esempio di pratiche estremamente stabili e resistenti al cambiamento. Il senso di appartenenza al gruppo, in particolare a quello familiare, “si afferma attraverso qualche rituale di commensalità che non suppone più necessariamente la riunione intorno alla tavola.” (Corbeau 1985, 111). Corbeau parla di una pratica di “nomadismo alimentare” osservabile su due distinti livelli. Un primo livello è quello relativo all’abitudine, in crescente diffusione, di consumare i pasti al di fuori della propria abitazione e del proprio gruppo familiare, in relazione a mutamenti negli orari di lavoro e a una diversa gestione del tempo libero; il secondo livello è invece riferito allo spazio privato, in cui il pasto non viene più necessariamente consumato in sala da pranzo o in cucina, n‚ alla presenza di tutti i membri della famiglia, ma piuttosto davanti alla televisione, magari in tempi diversi secondo le diverse necessità dei familiari. 1.4 CIBO: DIFFERENZIAZIONE E RIPRODUZIONE DEI RUOLI SOCIALI Un altro interessante settore nell’indagine sul cibo in prospettiva sociologica è quello che riguarda le relazioni tra ruoli sociali in generale e ruoli assunti in rapporto all’attività di produzione, preparazione e consumo di cibo nell’uomo. Questo tema è stato trattato in modo particolare da alcuni illustri esponenti della sociologia classica, caratterizzati, come si è già avuto modo di dire, da un’impostazione di tipo funzionalista. E’ il caso, ad esempio, di Durkheim che in relazione ai sistemi di lignaggio si sofferma su una lettura dei cibi e delle pratiche alimentari nell’ambito delle interdizioni totemiche e delle classificazioni di sacro e profano; nell’ambito della descrizione di cerimonie iniziatiche degli Aunta australiani, denominate Intichiuma, scrive: “dopo che i riti descritti sono stati compiuti sulla roccia sacra, i giovani vanno a caccia del canguro e riportano la loro selvaggina al campo degli uomini. Qui gli anziani (...) mangiano un po’ di carne dell’animale e ungono col grasso il corpo di quelli che hanno preso parte all’Intichiuma. Il resto è suddiviso fra gli uomini raccolti” (1912, 436-437) . Anche Spencer (1896) si dimostra interessato al cibo in rapporto alla disuguaglianza sociale; egli sottolinea soprattutto come le pratiche alimentari siano determinanti nel costruire e riprodurre alcune norme sociali fondamentali presso le società prese in considerazione, soprattutto le norme atte a definire un ordinamento gerarchico all’interno del gruppo come la strutturazione per età o la strutturazione sessuale. Si è già detto sopra come le pratiche di commensalità (relative quindi al consumo dei cibi) siano importanti nel definire e ribadire ad ogni pasto le “posizioni sociali” dei commensali. Ma il discorso diventa ancora più evidente se estendiamo l’analisi alle pratiche di produzione e preparazione del cibo. Poiché, come si è detto, il cibo è utilizzato per creare e mantenere delle relazioni sociali, esso gioca un ruolo particolarmente importante nei gruppi primari della famiglia e dei legami domestici. La cucina appare come luogo e come attività prevalentemente femminile3: intorno al focolare, cuore della casa e luogo di produzione culinaria, la madre trasmette alle figlie femmine le tecniche riguardanti la preparazione dei cibi, riproducendo il modello di strutturazione dei ruoli familiari a cui è 3 Nel numerodi Current Sociology curato da Stephen Mennell, Anne Murcott e Anneke H. van Otterloo i capitoli 11, 12 e 13 trattano il tema dell’alimentazione in relazione alla distinzione tra i sessi. stata a sua volta educata. Anche attraverso la distribuzione dei cibi e l’imposizione di modelli alimentari distinti per sesso ed età vengono riprodotte le strutture familiari e sociali. Alle donne e ai bambini in età pre lavorativa vengono riservati cibi considerati di seconda scelta e spesso carenti dal punto di vista nutritivo. Di fronte al fatto che non ci sono spiegazioni plausibili in termini di minori energie spese dalle donne poiché, come scrive Mary Douglas, “il loro livello di lavoro fisico spesso eccede di molto quello degli uomini. (...) Le enormi energie spese sono supportate da una dieta che sembra essere di gran lunga distante dai valori nutrizionali previsti da qualsiasi tabella ufficiale” - si sono spesso avanzate ipotesi che definissero il problema in termini di “scelte alimentari” o di “preferenze.” (Douglas 1984, 498). Ma da più parti è stato sottolineato come spesso quelle che definiamo e che vengono percepite dall’individuo come scelte alimentari non sono in realtà definibili come tali, in quanto si tratta di comportamenti in un certo senso “obbligati”, comunque entro una varietà piuttosto limitata di opzioni determinate da modelli culturali potenti quanto inavvertibili. Si pensi a questo proposito a come un modello culturale estetico che impone alla donna di essere snella, interferisca nella definizione dei “gusti alimentari femminili”, estromettendo dalle cose “preferibili” tutti quegli alimenti che non permettono di rimanere conformi al modello (Mennell, Murcott, van Otterloo 1992) 1.5 GUSTI E PREFERENZE Abbiamo così chiamato in causa un concetto assai controverso, cioè quello relativo alla definizione di “gusto”. Di fronte alla grande variabilità di diete osservabili nelle diverse società umane si è fatto spesso riferimento proprio al concetto di gusto per cercare di rendere conto di tali differenze: “Davanti alle diverse tradizioni alimentari presenti nel loro immenso impero, i Romani fecero spallucce e continuarono a mangiare le loro salsine di pesce putrido. De gustibus non est disputandum, commentarono” (Harris 1985, 4). Ma lo stesso Harris ci fa presente che l’appellarsi ai gusti non costituisce in sé una spiegazione. Nell’analizzare la variabilità dei gusti all’interno di una società, Bourdieu sottolinea come spesso quelli che vengono definiti come gusti, e che dovrebbero quindi presupporre una libertà di scelta tra diverse opzioni, sono in realtà non-scelte, imposizioni determinate dall’ambiente, dalla condizione sociale, economica o culturale, ecc. (Bourdieu 1979). La stessa osservazione può valere per l’analisi delle differenze tra società. Ma nel confronto inter-culturale ciò che è in discussione quando si analizzano le differenze di gusti è la spiegazione complessiva delle specificità culturali. Per questo la spiegazione dei gusti è un buon indicatore delle caratteristiche delle diverse scuole di sociologia o antropologia del cibo. La letteratura etnologica abbonda di esempi di cibi considerati eccellenti in alcune società e aborriti in altre. Fischler (1990) presenta a titolo dimostrativo il seguente prospetto nel quale, limitatamente al consumo di alcune specie animali, si sottolineano la diversità riscontrabile in differenti culture, per ciò che riguarda la commestibilità o meno delle diverse specie. Numerosi altri esempi sono presentati da Harris (1985). Benché piuttosto atipica, ci limitiamo a citare in questa sede l’analisi che l’antropologo americano conduce a proposito della diversa considerazione riservata al latte come alimento da diverse culture quali quelle statunitense, brasiliana e cinese: se per la maggior parte degli Statunitensi il latte costituisce l’alimento perfetto, quello cioè considerato nutriente e assolutamente non nocivo, in Brasile tale cibo è tenuto in scarsa considerazione, ed i Cinesi dice Harris - “al pari degli altri popoli dell’Est e Sudest asiatico, non solo sono avversi all’uso alimentare del latte, bensì lo detestano proprio; e all’idea di trangugiare un bel bicchierone freddo di simile porcheria reagiscono all’incirca come reagirebbe un occidentale all’idea di trangugiare un bel bicchierone freddo di saliva di vacca” (Harris 1985, 128). Insetti Cane Cavallo Coniglio Lumaca Rana Commestibile America latina, Asia, Africa, ecc. Corea, Cina, Oceania, ecc. Francia, Belgio, Giappone, ecc. Francia, Italia, ecc. Francia, Italia, ecc. Francia, Asia, ecc. Non commestibile Europa occidentale, Nord America, ecc. Europa, Nord America, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc. Europa, Nord America, ecc. Fischler (1990), 9, tavola 1 Di fronte a questa grande variabilità di gusti, antropologi e sociologi hanno cercato di dare una spiegazione delle differenze riscontrate. Le interpretazioni e le teorie che ne sono risultate sono le più disparate e costituiscono, come ho detto, un utile riferimento per individuare le caratteristiche di quelle che abbiamo definito più sopra come “scuole” di antropologia e sociologia del cibo. Claude Fischler fornisce un’interpretazione dell’origine del rifiuto alimentare (che lui chiama disgusto) che tiene conto tanto della componente biologica che di quella cognitiva. La dimensione biologica del disgusto può essere messa in relazione con il comportamento onnivoro dell’uomo: il disgusto deriverebbe, secondo questa interpretazione, dal rifiuto di tutto ciò che appare nuovo e sconosciuto alimentarmente4. La dimensione “ideale- 4 Per una trattazione di questo aspetto si rinvia a Fischler 1980, 1988, 1990. cognitiva” del disgusto, che è quella che qui interessa maggiormente5, identifica i rifiuti alimentari che implicano una forte componente affettiva, che si fondano cioè “sull’idea che il soggetto si fa del cibo, di quello che è, di dove viene” (Fischler 1990, 58); sempre all’interno della dimensione ideale-cognitiva rientrano, per Fischler, i rifiuti alimentari derivanti dalla definizione di un cibo come inappropriato (carta, sassi, ecc.). Concentrando l’attenzione sugli aspetti ideale-cognitivi del disgusto, quindi sottolineando la connessione dei gusti con la rilevanza affettiva e le nozioni che definiscono la maggiore o minore appropriatezza che si riconosce ad un cibo entro un determinato modello, resta da spiegare come queste nozioni e questi modelli operano, come si trasmettono e come vengono assimilati e interiorizzati dagli individui. Un fatto che appare ampiamente confermato, da esperimenti e osservazioni di psicologi e sociologi che se ne sono occupati, è che i gusti si formano e si costituiscono prevalentemente nei primissimi anni di vita dell’individuo; secondo Fischler (1990) il meccanismo con cui determinati gusti prendono forma è un meccanismo essenzialmente imitativo del comportamento degli adulti più prossimi affettivamente, ma anche spazialmente6. In generale, dunque, “i fattori più importanti nella trasmissione e nella genesi dei gusti alimentari sono rappresentati dalla famiglia e dall’educazione.” (Fischler 1990, 77). Interessanti sono poi gli esempi di influenza dei gusti degli adulti da parte dei bambini, come è stato osservato nel caso dei gruppi migranti e delle minoranze culturali, ma questo aspetto sarà approfondito nei prossimi capitoli. 5 Secondo Fischler, che si rifà alle ricerche di Rozin, occorre distinguere tra due principali categorie di rifiuto alimentare. La prima categoria è determinata da fattori che possiamo definire di tipo biologico; ne fanno parte 1) il distaste, cioè “un tipo di rifiuto puramente sensoriale, prodotto dall’esperienza di uno stimolo sensoriale - olfattivo, gustativo o altroche è percepito come sgradevole dal soggetto”; 2) i rifiuti che derivano dalla percezione del pericolo, ad esempio il rifiuto che il soggetto prova nei confronti dei funghi che sa o sospetta velenosi. La seconda categoria, alla quale si è già accennato, comprende le avversioni che coinvolgono una dimensione che Fischler definisce ideale: 1) un primo tipo di rifiuto che appartiene a questa categoria è quello che in inglese si riassume nel termine disgust; in questo caso si tratta di un rifiuto cognitivo (e non più sensoriale). 2) Un secondo tipo di rifiuto è dato dagli oggetti che sono definiti impropri (inappropriate) dato che non sono classificati come cibi. 6 Esistono numerosi esperimenti che risultano interessanti in tal senso. Cfr. Fischler 1990, pag. 75 e seguenti. 2: IL MANGIATORE CONTEMPORANEO In aggiunta al gruppo di temi “generali” trattati nel primo capitolo, altri temi rilevanti nascono dall’applicazione dell’analisi alle società moderne: in gran parte come diretta conseguenza dell’elaborazione in contesti moderni dei problemi relativi al legame tra cibo e identità, in entrambe le dimensioni che abbiamo precedentemente individuato. Per i temi trattati in questo capitolo, il dibattito sociologico sull’alimentazione non può essere disgiunto da quello più generale sulla “natura” delle società industriali avanzate e sul senso del passaggio a forme di società “post-industriali”. Lo studio delle pratiche alimentari nelle società post-industriali implica innanzitutto la necessità di fare luce su alcuni nodi concettuali: 1) occorre definire il rapporto - al quale si è già accennato nel primo capitolo come uno degli elementi di interesse del sistema cibo - tra le caratteristiche di stabilità che caratterizzano il sistema cibo e gli elementi di cambiamento che si possono osservare nelle pratiche alimentari, e di cui non è facile cogliere la reale discontinuità; 2) vanno ricercate le possibili relazioni tra gli elementi di cambiamento delle pratiche alimentari e le tendenze strutturali di mutamento in atto nella società o in specifici settori di pratiche sociali. Due aspetti della pratica alimentare nelle società post-industriali meritano una trattazione a sé, per la relazione che hanno con l’oggetto di questa tesi: il primo è la pratica del mangiare fuori casa; il secondo è l’influenza che il colonialismo e le migrazioni hanno avuto sulle recenti tendenze del sistema cibo. Entrambi questi temi, che qui accenno soltanto, verranno approfonditi nei capitoli successivi. 2.1 STABILITÀ E CAMBIAMENTO Si è già avuto modo di dire nel primo capitolo, discutendo degli aspetti rituali del cibo e soprattutto dei gusti e delle preferenze in materia alimentare, quanto le abitudini alimentari tendano ad essere stabili nel tempo e resistenti ai cambiamenti. Le preferenze alimentari riscontrabili nei membri di un certo gruppo sembrano essere molto più statiche di quelle espresse in altri settori di pratiche (come l’abbigliamento, la musica, ecc.); e a livello di una società questa stabilità sembra coinvolgere l’intero sistema del cibo, comprese le pratiche e le istituzioni che attorno ad esso si organizzano. “In campo alimentare l’uomo è particolarmente conservatore.” (Moulin 1985, 18). Questa constatazione sembra ampiamente condivisa dalla maggior parte degli studiosi delle pratiche alimentari. Il primo elemento che viene chiamato in causa a spiegare questo fatto è che, contrariamente a quanto avviene per le nostre opinioni politiche o artistiche, che si formano e si strutturano gradualmente, attraverso un processo in certa misura cosciente, i gusti in campo alimentare si formano prevalentemente nei primissimi anni della nostra vita. Non sono quindi vagliati criticamente e coscientemente ed è per questo che vengono generalmente considerati innati, naturali, istintivi (come si è detto nel paragrafo sulle preferenze). Moulin sottolinea in modo particolare come “mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare” (Moulin 1975, 12). In un’indagine condotta presso alcuni studenti dell’Institut d’Enseignement supérieur di Namur è risultato che il 60 per cento degli intervistati ritiene che ci sia almeno un piatto nel repertorio culinario della propria madre che non ha eguale altrove per originalità e sapore. Per spiegare la stabilità delle abitudini alimentari si è spesso cercato di fare riferimento a determinismi biologici o ambientali, o di spiegarli come tratti culturali collegati a una precisa “funzione epistemologicamente ‘solida’, cioè in realtà ‘esatta’, nel senso in cui si parla di ‘scienze esatte’ in opposizione alle altre, quelle umane. Quando, in via eccezionale, non ci si riusciva, se ne concludeva che si era in presenza di un comportamento ‘controproducente’, di un’aberrazione evolutiva, che ci si affrettava a cercare di correggere senza chiedersi altro.” (Fischler 1990, 7). Invece anche per il cibo è con riferimento ai generali problemi teorici e metodologici posti dalle teorie del cambiamento sociale che può essere affrontato correttamente il problema dei rapporti tra stabilità e cambiamento. Due esempi possono servire a illustrare le due possibilità. La prima è la grande resistenza al cambiamento, evidente nella stabilità delle abitudini alimentari, nell’attaccamento degli individui ai propri cibi e alle pratiche ad essi connessi. Un esempio abbastanza recente e che ben si presta ad un’analisi dettagliata (anche se qui ci limiteremo ad accennarlo) è quello che riguarda i fallimenti ottenuti alla fine dell’ottocento dai riformatori della New England Kitchen, che vollero tentare di “migliorare” le abitudini alimentari della classe operaia americana, alla luce delle recenti scoperte della nascente scienza nutrizionale. Il loro tentativo fallì poiché non tennero conto del valore culturale, simbolico ed affettivo che avevano le diete dei sottogruppi (in gran parte etnici) che formavano la classe operaia americana; “all’alimentazione ‘scientifica’ proposta ognuno di essi opponeva la propria grammatica e le sue personali competenze culinarie.” (Fischler 1990, 119). Di fatto gli usi alimentari della classe operaia americana non cambiarono affatto, o quasi7. Altri esempi del genere potrebbero essere presi dai 7 Per una trattazione maggiormente approfondita in merito all’esperienza statunitense di trattamento dell’immigrazione italiana dal punto di vista alimentare si veda Levenstein 1985. numerosi tentativi fatti, anche recentemente, in diversi paesi del Terzo Mondo, e conclusisi in gran parte in modo altrettanto fallimentare. Tuttavia non si può negare il fatto che, in genere, le famiglie italiane non mangiano allo stesso modo, n‚ gli stessi cibi, che mangiavano nel XVIII secolo, e neppure negli anni ‘50 di questo secolo. Il cibo, per quanto resistente al cambiamento, non è immutabile. Molte analisi dimostrano che negli ultimi trent’anni si è assistito a una grossa serie di cambiamenti anche nelle pratiche alimentari. Ad esempio nelle pratiche relative al pasto: dove le novità, come vedremo, sono in rapporto con cambiamenti relativi anche all’alimentazione. Un tentativo di analizzare il problema nelle società industriali avanzate è stato condotto da Herpin (1988). Partendo dall’osservazione delle caratteristiche che identificano il pasto come “fatto sociale”8, Herpin ritiene che tale istituzione stia subendo un processo di “destrutturazione”, di destabilizzazione, e che tale processo possa assumere diverse forme: 1) la “de-concentrazione”: l’assunzione di cibi non avviene più in due o tre momenti della giornata ma, in quantità minori, nel corso di numerosi spuntini; 2) la “de-impiantazione” : gli orari in cui si consumano i pasti non sono più contenuti in una precisa fascia ma variano ampiamente; 3) la “de-sincronizzazione”: anche all’interno dello stesso gruppo (famiglia o gruppo di lavoro) gli orari del pasto non coincidono più, facendo perdere al pasto una delle sue funzioni tradizionali quale quella di incontro e di scambio; 4) la “de-localizzazione”: il pasto non viene più consumato in una stanza precisa ma sempre più spesso “dove capita” (nella propria camera da letto, sul posto di lavoro, in macchina, ecc.); 5) la “de-ritualizzazione”: il pasto quotidiano infra-settimanale diviene sempre meno sottoposto a regole; al contrario si rinforzano le norme e i rituali osservati durante il pasto domenicale o nelle occasioni particolari (compleanni, anniversari, ecc.). 2.2 CIBO E MODERNIZZAZIONE I due esempi suggeriscono i principali elementi, o assi teorici, rilevanti per lo studio del cambiamento delle abitudini e delle pratiche alimentari: (a) la discontinuità vs. il carattere graduale/evolutivo del cambiamento; e (b) la “durata” del processo/periodo - breve vs. lungo - cui il cambiamento viene riferito. Queste coppie concettuali - che hanno valenze generali - possono 8 Tali caratteristiche sono secondo Herpin: il momento che il pasto occupa all’interno della giornata; il luogo ove si consuma; il menù; le altre attività che si svolgono simultaneamente; il tipo di relazione che si svolge tra i commensali. inoltre essere applicate (come nelle teorie del cambiamento in generale) alla formazione e alle evoluzioni delle società moderne, dando luogo a due principali tipi di problemi: (a) la relazione tra cambiamenti relativi al cibo e i principali processi costitutivi delle società moderne; (b) i rapporti tra cambiamenti relativi al cibo e le “fasi” di sviluppo delle società moderne e industriali: con particolare riferimento ai processi recenti o in corso che identificano il passaggio a forme “avanzate”, “postindustriali” ecc. Entro questo schema, i contributi forniti dalla letteratura fanno riferimento a tre principali processi o tipi di “fattori”. 1. Il primo tipo di contributi collega le trasformazioni relative all’alimentazione al processo di industrializzazione, in particolare alle sue componenti tecnologiche, accentuando quindi nella spiegazione gli elementi considerati “di rottura” e la rapidità del cambiamento rispetto alle caratteristiche osservabili nelle società precedenti. In questo senso è l’analisi di Jack Goody, che ha individuato nell’industrializzazione una “molla” che è stata capace di imprimere un potente impulso al cambiamento delle abitudini e delle pratiche alimentari. Egli distingue diversi elementi che nell’ambito dell’industrializzazione hanno influenzato le abitudini in campo alimentare: il primo è l’evoluzione delle tecniche di conservazione, verificatasi con l’espansione tecnologica industriale; i miglioramenti nella tecnica di conservazione dei cibi hanno sempre avuto una grande importanza per le società che li ottenevano: Goody passa in rassegna le varie tappe dello sviluppo delle tecniche di conservazione, a partire da quelle più antiche della salatura e dell’essiccazione, fino ad arrivare alle tecniche più moderne di inscatolamento e congelamento. Il secondo elemento che Goody considera è la diffusione e il perfezionamento della meccanizzazione; lo sviluppo di settori come quello dell’inscatolamento, al di là della loro teorica attuabilità, diventarono possibili grazie agli sviluppi della meccanizzazione che accompagnarono il processo di industrializzazione; fu cosi possibile applicare le tecniche di inscatolamento su vasta scala e su una gamma crescente di alimenti (Goody 1982, 157 e seguenti; v. anche Fischler 1990, 151). L’evoluzione delle tecniche di conservazione, accompagnata dalla meccanizzazione, è stata dunque per Goody l’elemento fondamentale per spiegare le abitudini alimentari del “mangiatore moderno”; ma anche l’evoluzione dei mezzi di trasporto e la costituzione di una rete sempre più capillare di comunicazione tra i principali centri viene considerata da Goody un importante fattore di cambiamento delle abitudini alimentari. 2. Un altro tipo di contributi mette in relazione le trasformazioni nel sistema del cibo con i processi culturali, di lunga durata, che in senso proprio identificano la modernizzazione. A questo tipo di contributi può essere attribuito il lavoro di Norbert Elias (1969, 1980) sul processo di civilizzazione. Piuttosto che le relazioni di rottura col passato, Elias ha tentato di individuare una tendenza profonda, di lungo periodo, che sia in grado di spiegare la genesi dei gusti osservabili nell’Europa Occidentale moderna, gusti che toccano anche il sistema del cibo. Egli critica i tentativi di fornire una spiegazione di tipo funzionale9, e propone invece una spiegazione che assuma come chiave interpretativa ciò che definisce uno “spostamento in avanti della soglia del pudore e della ripugnanza” (Elias 1969, 10). Questa tendenza è chiaramente visibile in cucina e in sala da pranzo (ma lo è altrettanto chiaramente in altre stanze, come ad esempio nella camera da letto)10. Elias cita una abbondante quantità di documenti che mostrano come l’evolversi delle abitudini alimentari o legate al consumo di cibi vadano nel senso di una progressiva individualizzazione e privatizzazione delle pratiche, e a questo possono collegarsi mutamenti decisivi intervenuti nelle pratiche relative al cibo. Scompare l’abitudine di attingere tutti con le mani da uno stesso piatto posto al centro della tavola; si fa largo l’uso della forchetta individuale; proliferano le piccole regole che tendono alla “non-contaminazione”, come quella per cui non è più opportuno servirsi della propria forchetta per versarsi il cibo dal piatto di portata, ecc. (Elias 1969, capitolo IV). Il processo di civilizzazione è evidentemente un processo che coinvolge meccanismi di tipo “profondo”, oltre che di lunga durata, come si vede dall’analisi che Elias propone sulle relazioni tra quelle che definisce eterocostrizioni, imposte dall’esterno, e le autocostrizioni. L’individuo viene dunque, fin dalla prima infanzia, indirizzato verso certi comportamenti e certe pratiche; il controllo delle sue pulsioni più istintive diventa “fin da piccolo, a tal punto un’abitudine da provocare nel suo intimo la creazione di una sorta di relais degli standard sociali, un automatico autocontrollo degli istinti volta per volta adeguato agli schemi e modelli di ciascuna società, cosicché egli è soltanto parzialmente consapevole di reprimere pulsioni e tendenze” (Elias 1980, 314). 3. Infine un tipo di contributi mette l’accento sulle trasformazioni che sono piuttosto in rapporto con le logiche organizzative del capitalismo moderno o delle società industriali, colte nelle loro diverse fasi storiche. Un elemento che da questo punto di vista è risultato particolarmente potente nel determinare cambiamenti in abitudini che sembravano immutabili è stata la “rivoluzione” dei sistemi e dei circuiti di vendita dei prodotti. A grandi linee si possono descrivere i cambiamenti intervenuti nelle modalità di 9 Si veda a tale proposito Elias 1980, nota 1 a pag. 298-300. 10 Per una trattazione storica che tenga conto di diversi ambiti, staccandosi da quello strettamente legato all’alimentazione risulta particolarmente interessante l’opera di Ariès e Duby. commercializzazione dei cibi individuando una tendenza alla massificazione e alla delocalizzazione dei prodotti: grandi aree geografiche e culturali sono state adibite alla produzione di una limitata gamma di beni alimentari (quando non addirittura ad una monocoltura), senza che ciò si riversasse sui consumi; mentre alla specializzazione produttiva si è affiancata una omogeneizzazione e una standardizzazione dei consumi (all’interno, però, di una maggiore varietà di prodotti disponibili). Fischler dedica un’attenzione particolare all’analisi degli effetti di questi cambiamenti sul mangiatore moderno e sulle sue abitudini. Egli, cercando di analizzare contemporaneamente i diversi ambiti in cui l’alimentazione ha subito il cambiamento imposto dall’industrializzazione, sviluppa le sue argomentazioni partendo proprio dal presupposto che ci si trovi di fronte a un fenomeno che genera due tendenze distinte e apparentemente opposte: la prima tendenza è quella che porta verso una progressiva omogeneizzazione e standardizzazione dei consumi alimentari, nel senso che i mercati alimentari di tutto il mondo sembrano offrire prodotti sempre più simili e meno differenziati “geograficamente”; la seconda tendenza indica una sempre maggiore diversificazione dei prodotti consumati. La diffusione dei cibi nei grandi circuiti di commercializzazione, che è risultata dunque strettamente connessa ai progressi nelle tecniche di conservazione e dei mezzi di trasporto, è descritto da Fischler come un importante veicolo di cambiamento: “E’ sugli scaffali dei supermercati, e in particolare negli espositori refrigerati, che si sono visti comparire a ranghi serrati i nuovi prodotti destinati a diventare fondamentali nella nostra alimentazione. E’ qui che hanno proliferato prima gli yogurt (ancora venduti in farmacia nell’anteguerra), poi i formaggi freschi e i dessert a base di latte, i gelati e i surgelati. E’ sempre negli espositori dei supermercati che si sono visti imporsi progressivamente il ketchup e i corn-flakes, l’ananas in scatola e il succo d’arancia nel cartone, il caffè istantaneo e le bottiglie di plastica” (Fischler 1990, 151). Come conseguenza (soprattutto della prima tendenza) Fischler nota che “i sapori forti, le specificità fondate su tradizioni locali, regionali, di territorio tendono a diluirsi a vantaggio di un minimo comune denominatore” (Fischler 1990, 150). La grande distribuzione introduce dunque una sorta di “sincretismo culinario generalizzato”; le particolarità culinarie locali non vengono annientate, disintegrate, ma contemporaneamente a quella che si può considerare in un certo senso la distruzione di tali particolarità si assiste all’integrazione in un sistema più ampio delle particolarità stesse, alla loro diffusione su scala mondiale. Non si tratterà più delle “versioni originali” delle ricette, quanto piuttosto di versioni omogeneizzate o edulcorate. “Mentre dunque smussa le differenze e le specificità locali, l’industria agroalimentare spedisce nei cinque continenti delle specialità regionali ed esotiche, adattate o standardizzate.” (Fischler 1990, 152). Fischler cita alcuni esempi che vale la pena menzionare di specialità regionali che hanno ottenuto ampi consensi, con versioni “universalizzate”, al di fuori della loro area (geografica e culturale) d’origine: la mussaka greca, commercializzata in Francia dalla Findus per conto della Nestlè, o il müsli svizzero sempre più diffuso nelle diete inglesi e francesi. 2.3 MANGIARE FUORI CASA Un dato importante con il quale le pratiche alimentari moderne possono essere messe in relazione, in una prospettiva di lungo periodo, è l’emergere di una sfera pubblica come elemento caratterizzante delle società moderne. E’ con la modernità che si verifica una distinzione vera e propria tra una sfera pubblica e una sfera privata che risultavano fino a questo periodo confuse l’una nell’altra (Ariès 1986). In questa prospettiva deve essere inquadrato il ristorante in senso moderno; Mennell, Murcott, e van Otterloo ne forniscono una panoramica e un’abbondante bibliografia di carattere storico-sociologico, con una particolare attenzione alle diverse “funzioni” che questo tipo di locale ha svolto nei diversi periodi storici (1992, 81-87). Da questa analisi si vede come, con la progressiva privatizzazione della società in un senso, si sviluppa nell’altro una domanda di occasioni di incontro, di contatto e di scambio sociale; il ristorante appare offrire una facile occasione per praticare questi contatti. Alcuni osservatori contemporanei sono però pessimisti rispetto al fatto che i ristoranti possano essere un effettiva occasione di relazione. Lo studio di Joanne Finkelstein (1989) è particolarmente significativo da questo punto di vista. Nella sua analisi il pessimismo nei riguardi del ristorante riflette le preoccupazioni che molti osservatori esprimono sui destini della sfera pubblica in generale nelle nostre società. Ma il lavoro ha anche un interesse metodologico in quanto esemplifica e illustra, per un aspetto del sistema del cibo, i rapporti con i molteplici fattori che costituiscono il passaggio a forme “avanzate” di società moderne. Finkelstein fornisce una serie di dati che indicano come negli anni ‘70 e ‘80 si sia verificata una vera e propria esplosione per quanto riguarda le attività dei ristoranti. La spesa presso ristoranti, taverne e tavole calde si è, in questo periodo, più che raddoppiata in tutti i paesi occidentali e, secondo certe previsioni, verso la fine del secolo consumeremo due pasti su tre fuori casa. Numerose sono le spiegazioni del dilagare di questo fenomeno. Una prima, e più ovvia, spiegazione viene spesso offerta in termini di “economia e di cambiamento dei modelli di famiglia” (Finkelstein 1989, 9); secondo questa spiegazione il fatto che i membri della famiglia, maschi e femmine, passino una parte sempre crescente della giornata lontano da casa fa sì che siano sempre più richiesti i servizi dei ristoranti. Ma questa interpretazione sarebbe esauriente se le massime concentrazioni di affluenza ai ristoranti si verificassero durante la settimana lavorativa; al contrario, il fatto che la maggior parte dei ristoranti lavora soprattutto nei week-end mette in crisi questa spiegazione. Anche l’interpretazione che vuole che al ristorante ci si vada per il piacere fisiologico che deriva dal consumare cibo di qualità superiore, che non si consuma abitualmente a casa, non convince la Finkelstein che sottolinea come la fatica della digestione conseguente a un pasto al ristorante, unita al fatto che spesso al ristorante ci si va per consumare “robaccia”, rendano anche questa spiegazione insoddisfacente. La spiegazione della fioritura di ristoranti osservabile nel nostro tipo di società è da ricercarsi, secondo Finkelstein, nella particolare concezione e organizzazione della sfera pubblica che di queste società è caratteristica. La distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, tipica, come si è detto, delle società industriali occidentali, e la sempre più evidente prevalenza della prima sulla seconda, fanno sì che sia sempre più sentita la necessità di un momento di scambio sociale al di fuori della dimensione privata. Una facile occasione per agire in questo senso è data proprio dai ristoranti che, con le loro regole standardizzate e prevedibili, permettono di manifestare la propria condizione sociale in un rassicurante teatro. In questa prospettiva sono da leggersi, sempre secondo Finkelstein, alcune tendenze della pratica alimentare contemporanea, come ad esempio il fatto che si moltiplichi il numero di pasti (comprendendo spuntini, merende, aperitivi, ecc.) per aumentare le occasioni di incontro sociale (Finkelstein 1989, 68)11. Ma Finkelstein sostiene, con particolare riferimento all’uso del ristorante osservabile nelle società post-industriali, che “gli stili di interazione incoraggiati dal ristorante creano una società incivile. L’artificio del ristorante fa del pranzare fuori un esercizio di buone maniere disciplinato da usanze che ci collocano in una cornice di azioni prefigurate. Pranzare fuori ci consente di agire a imitazione degli altri, secondo nuove immagini, in risposta alle mode, fuori dalle solite abitudini, senza bisogno di riflessione e autoconsapevolezza” (Finkelstein 1989, 13). Anche per Felice Liperi (1990) il ristorante incomincia, a partire dagli anni ‘70, a perdere la sua dimensione di luogo di incontro e punto di riferimento “consapevole”, per trasformarsi in semplice luogo di consumo; questa situazione di non-partecipazione alla sfera pubblica in maniera attiva e critica, ma piuttosto di fruizione passiva, è secondo Liperi un dato che va oltre la realtà dei ristoranti, per essere esteso ai luoghi di ritrovo in genere. 11 A proposito dei riti di aperitivo si veda anche Corbeau 1992 2.4 CIBO IN VIAGGIO: COLONIALISMO E MIGRAZIONI Un altro aspetto che identifica le pratiche alimentari nelle società complesse rispetto a quelle delle società tradizionali è la compresenza di diverse concezioni del cibo, abitudini alimentari, “gusti” e tradizioni culinarie, e la relazione che si instaura tra gli elementi che costituiscono questa diversità. Questo argomento è stato studiato sotto diversi punti di vista e secondo diverse impostazioni: Mennell, Murcott, e van Otterloo (1992) nel presentare una panoramica generale sull’argomento hanno sottolineato quelle che ritengono essere le due principali cause che hanno favorito il contatto tra differenti cucine, e cioè il colonialismo e le massicce migrazioni, soprattutto nel secondo dopo guerra. Goody (1982, 1989) affronta l’argomento dimostrandosi interessato a quello che definisce il processo di “mondializzazione della cucina”, osservabile in due distinte, anche se collegate, manifestazioni: da una parte si verifica una sempre maggiore reperibilità di cibi stranieri, dall’altra nasce un tipo di cucina che Goody definisce “internazionale”, nel senso che non è specificamente riferibile a questa o a quella cultura. L’accelerazione del cambiamento per quanto riguarda molte pratiche culturali, e l’avvicinamento progressivo tra luoghi e culture (almeno in termini di collegamenti e comunicazioni) che si è verificato negli ultimi decenni hanno messo in luce in maniera sempre più evidente la nuova “mobilità” del cibo. Suzanne Cervera nota come l’intersecarsi dei legami che si formano tra luoghi e tra culture sia spesso chiaramente individuabile attraverso l’osservazione dei cambiamenti alimentari. In ogni epoca e nella storia di ogni civiltà si osservano “infiltrazioni” da parte dei popoli e delle culture confinanti e tali infiltrazioni hanno spesso avuto come avamposti gli ingredienti e le ricette12. Significativo a tale proposito è un episodio citato da Cervera: durante un discorso di fronte ai senatori romani, Catone mostrò un fico fresco “per dimostrare l’imminenza e la prossimità della minaccia cartaginese” (Cervera 1995, 107). Questo esempio rivela anche un’altra caratteristica con la quale il “cibo in viaggio” ha sempre dovuto fare i conti, e cioè il carattere di diffidenza con cui ad esso si è sempre guardato. La diffidenza verso i piatti di altre culture e di altri gruppi, talvolta persino il più aperto disprezzo, sono stati spiegati in termini bio-psicologici da Rozin (1976) nella formulazione di quello che ha definito il “dilemma dell’onnivoro”, o in termini di difesa e arroccamento identitario secondo altre impostazioni (de Garine 1979,1992; Beaulieu 1994; Scaraffia 1995). Abbiamo visto numerosi esempi dell’importanza che il cibo può assumere 12 Massimo Montanari (1993) percorre la storia dell’alimentazione in Europa con grande attenzione ai processi di “infiltrazione alimentare” e alle ragioni che sottostanno ai cambiamenti osservabili nelle diete dei diversi gruppi nelle diverse arre geografiche e culturali. come elemento di distinzione dell’identità, e dell’uso “oppositivo” che su questa base poteva svolgere: “La presenza del lardo e del maiale nell’alimentazione dei cristiani aiutava anche, soprattutto nelle regioni di frontiera, a distinguersi dagli ebrei e dai musulmani. In Spagna ce ne si serviva per smascherare i falsi convertiti. Nei paesi limitrofi all’Impero ottomano, come la Polonia, il maiale da latte aveva addirittura rimpiazzato il tradizionale agnello pasquale, dato che il montone era visto come la carne dei Turchi” (Scaraffia 1995, 31). Un altro settore di studi collegati alla diffusione di cucine straniere in seguito a fenomeni storico-sociali come il colonialismo e le migrazioni è sviluppato da autori come Freedman (1973), Calvo (1982) e van den Berghe (1984), che hanno approfondito in particolare il tema della cucina e dell’alimentazione dei gruppi immigrati in relazione ad altre pratiche culturali quali l’abbigliamento, la musica, ecc. Un interrogativo centrale di tutti questi studi riguarda il rapporto tra le pratiche alimentari e i diversi livelli di integrazione, di chiusura/apertura rispetto alla cultura ospitante o alle altre culture con cui si trovano a convivere. Altri interrogativi che scaturiscono dallo studio dei contatti tra pratiche alimentari diverse riguardano il tipo di società che tali contatti potrebbero favorire. Il problema è stato posto in particolare a proposito del significato della crescente diffusione della cucina straniera nelle società postindustriali. “L’occidentalizzazione del mondo da una parte, la banalizzazione dell’esotismo culinario dall’altra danno dunque ragione a quanti vedono nell’emergere del famoso ‘villaggio globale’ la morte dei particolarismi?”, si chiede Sophie Bessis (1995, 12). Le risposte a questo tipo di domande sono le più disparate. La scarsità di ricerche empiriche sull’argomento e i residui di ideologicità che il dibattito suscita non rendono chiarezza in merito. Si avrà modo di ritornare su questi interrogativi nei prossimi capitoli, nei quali essi assumeranno un’importanza centrale.