Introduzione Parlare di cibo è l`occasione per raccontare la storia
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Introduzione Parlare di cibo è l`occasione per raccontare la storia
Introduzione Parlare di cibo è l’occasione per raccontare la storia del territorio e dei suoi prodotti, dei gesti che si compiono per trasformare la materia in esperienza, ma anche per scoprire le ritualità e le motivazioni simboliche che accompagnano la tradizione gastronomica. L’alimentazione, nel passato, racchiudeva non solo i principi della sopravvivenza, la sintesi di un faticoso lavoro o il piacere della degustazione, ma era pure l’espressione di trame calendariali, metafore propiziatorie, ritualità tra il magico e il liturgico. Fare solo un elenco di ricette, per quanto antiche o desuete, sarebbe riduttivo e rientrerebbe solo in parte nello spirito di questa ricerca. A nostro avviso, solo attraverso la riscoperta dell’orditura storicoantropologica che ha generato un particolare tipo di cibo, la ricetta acquisisce motivazione e ritrova il legame armonico con il territorio d’origine. La mia generazione ha vissuto un radicale e travolgente cambiamento degli stili di vita: in mezzo secolo sono state ridotte e talvolta consumate le risorse che abbiamo ereditato; è stato in qualche caso impoverito il futuro con le monocolture e, nel nome della globalizzazione, ci siamo privati di una parte del patrimonio di percezioni ed emozioni correlate ai luoghi e alle stagioni. Tradizioni antichissime sono state sacrificate all’efficienza produttiva. Nella nostra ricerca, lentamente, sono riemersi tanti tasselli di un mosaico complesso come parti di una grande composizione. Cascina Convento - Calvatone particolare dell’aratura Affresco sec. XVII Centro di Documentazione dell’Ecomuseo Casa e bottega La ricostruzione di uno spaccato di una casa popolare, ricca di oggetti, di uso quotidiano, ci permette di riscoprire l’organizzazione, la vita e il pensiero della famiglia. La casa era anche intesa come bottega o laboratorio per numerose attività. Fausto Scalvini - Memorie invernali, acquerello 19 Jacques Le Goff I riti, il tempo, il riso Ed. Laterza, Bari 2001 Gianni Bosio Il trattore di Acquanegra Piccola grande storia di una comunità contadina Fausto Scalvini - L’acqua Genius Loci, tecnica mista 20 Un piatto dopo l’altro, un profumo, un sapore o una ritualità dopo l’altra, sono state ricostruite storie e stili di vita, motivazioni, gesti e creatività di una cucina semplice e poliedrica, aspetto intrinseco della cultura del territorio. Tracce sedimentate nei secoli che non è stato semplice riportare alla luce e, soprattutto, interpretare coadiuvati dall’esperienza e dalle conoscenze acquisite con la costruzione dei “Percorsi tematici” realizzati nel Centro di Documentazione dell’Ecomuseo delle Valli Oglio Chiese che individuano e sintetizzano gli aspetti salienti del patrimonio culturale locale. Un lavoro di rivisitazione dal quale sono affiorati il desiderio e la necessità non solo di ampliare la ricerca, ma di esplorare in molte direzioni seguendo la rete delle relazioni che restituiscono una memoria storica articolata nella quale la nostra possibilità d’interpretazione e di coinvolgimento è resa frammentaria dall’aver in parte dimenticato la gerarchia dei valori di un tempo, alcune forme di sacralità, espressioni e tradizioni linguistiche e convenzioni sociali che ritmavano diversamente la vita dei singoli e delle comunità. Ricordare è un’operazione importante, un legame vitale che permette di comprendere meglio il presente, di progettare il futuro e di costruire una visione di ampio respiro. Uno sforzo che non deve limitarsi a raccontare l’accaduto in forme narrative e descrittive, ma che ci obbliga talvolta ad intraprendere un viaggio contaminante tra dati storici e vissuti personali, a interpretare di volta in volta attraverso gli strumenti della storia, dell’antropologia o della creatività. Appare urgente recuperare la conoscenza d’insegnamenti e forme di condivisione - insieme ai profumi, ai sapori e ai prodotti - per comprendere quella “pedagogia del gusto” che ha indirizzato i comportamenti, ha consolidato i riti, ha generato i miti di quella “architettura popolare” di cui parla Gianni Bosio ne Un trattore ad Acquanegra. La letteratura di un popolo a gloria di una nazione ha delle manchevolezze: «l’architettura popolare: cioè la casa - la favolistica - il mobile - il racconto popolare e la fabulazione - le ricette di cucina - la medicina popolare ecc.; per arrivare alle forme di rapporto sociale, cioè all’economia naturale, familiare, al contratto agrario, alle forme della organizzazione e al momento della crisi agraria e della rivoluzione capitalistica delle campagne che a volte travolge tal altra asfissia lentamente la civiltà contadina». Il Centro di Documentazione e gli stessi obiettivi dell’Ecomuseo si pongono come ponte tra noi, i vissuti, la memoria e le nostre identità future. Nella pianura in cui viviamo, summa di secoli di lavoro, la protagonista è da sempre l’acqua, genius loci, fonte fluida di sussistenza, elemento forte della religiosità e ispirazione di scelte progettuali, economiche e pedagogiche. Il fiume è stato via di comunicazione e tramite commerciale tra il Mediterraneo, la Pianura, le Alpi e il Nord Europa. Attraverso il fiu- me, questa parte di pianura è diventata l’ambiente ideale per la naturalizzazione di numerose varietà di piante e vegetali provenienti da tutto il mondo. Il sistema orticolo, diffuso e documentato sin dal Seicento tra l’Oglio e il Chiese, ha storicamente ampliato la gamma dei prodotti coltivati e oggi il territorio si presenta come un vero giardino botanico. I suoi prodotti sono esportati in tutto il mondo. Un lavoro plurisecolare che ha coinvolto le comunità insediate lungo i fiumi e lentamente, ma progressivamente, ha trasformato un habitat difficile, anche se potenzialmente ricco di risorse, attraverso una millenaria espansione “orizzontale” che ha modellato il tessuto agrario e urbano e ha disegnato una complessa rete idrografica. La pianura è diventata un universo conosciuto, dove lo spazio e il tempo sono stati ritmati dall’uomo e dalla storia; un progetto che ha trovato il suo complesso equilibrio fra le esigenze umane e la libertà del fiume e degli ultimi lembi naturali e ha generato una forma di convivenza armonica tra il raziocinio e l’immaginario che da millenni caratterizza gli uomini delle terre basse. Ogni centro abitato, a margine del terrazzamento, non solo riassume e nasconde antiche motivazioni, ma interpreta ancora lo spirito dei costruttori rimandando talvolta a elementi spirituali e miti primigeni. La cultura popolare attingeva un tempo a ritmi antichi, legati in particolare al mito del drago che riassumeva gli elementi del creato: l’acqua, l’aria, il fuoco, l’albero o la terra proiettati in un’unica entità e visione divina. La tradizione era importante ed era intesa come integrazione, cosmogonia, fede, mentre il fantastico e il magico erano necessari per superare gli ostacoli della vita; una libertà del pensiero proiettata alla scoperta dell’anima delle cose, una cultura orale tramandata davanti al focolare o durante l’attesa comunitaria durante le grandi feste, oppure nei filòs tenuti lungo le vie, nei cortili o nelle stalle. Gli spunti immaginifici che caratterizzano l’Ecomuseo sono nati in particolare dalla trama del fiume, dai campi contraddistinti dalle piante e dalle cascine chiuse come castelli, ma senza spalti o torrioni di difesa, nate solo per proteggere il lavoro, i raccolti, le intimità, i piccoli segreti della vita o semplicemente le numerose storie di sopravvivenza di uomini e animali. Sono ancora oggi un susseguirsi di presenze silenziose che contrassegnano il territorio e il calendario delle stagioni, unitamente a quello liturgico e folklorico. Un paesaggio uniforme e contemporaneamente variegato da molteplici coltivazioni, in sintonia con le pregnanti atmosfere umide che avviluppavano gli abitanti, le case dei borghi dai muri sbrecciati e grigi come la nebbia. Una malia intima che s’incarna nell’uomo delle terre basse, in stretta sintonia con il lento fluire del fiume e la quotidianità del cibo che scandisce il tempo e la vita. Ancora Gianni Bosio afferma: I cibi che ne venivano erano senza Una perfetta geometria divide il territorio in scansioni agronomiche C. Kappler Demoni e mostri alla fine del medioevo Ed. Sansoni, Firenze 1980 L’inverno nel vivaio 21 Gianni Bosio Il trattore di Acquanegra Piccola grande storia di una comunità contadina Ed. De Donato, Bari 1981 “Conoscere per capire sapere per non dimenticare ricordare per progredire” Gli Ecomusei in Lombardia 2008 22 mito, non erano cioè distaccati dalla matrice, ma il prolungamento. Essi formavano il tipico della cucina acquanegrese che era, rispetto alle possibilità quotidiane, il mito rispetto alla realtà… “ un’occasione per infiniti, ristretti, poveri, non costosi, gonfianti cibi... come il ciclo della polenta, quello del latte, della farina gialla e bianca, del maiale, delle minestre, della frutta, delle verdure, del pane, delle castagne, delle uova: cicli storie. La storia di Acquanegra potrebbe modularsi sul “ciclo dei cibi “. Ciclo, inteso come sequenza calendariale, dimensione storica, e non astrazione. Porzioni di “eternità” che appartengono sia ai singoli, sia alla comunità. La cucina, quella vera della quotidianità, consisteva in piatti semplici scanditi dalla ciclicità della disponibilità dei prodotti. «L’astrazione della cucina sono le ricette, i manuali di gastronomia» diceva ancora Bosio. E invece assistiamo in questi anni proprio ad una vera proliferazione di ricettari e trasmissioni televisive in cui il protagonista, miscelatore di ingredienti, è un personaggio-tramite che, attingendo ovunque, sveste di ogni significato il patrimonio culturale territoriale, ricco di gesti e di umanità. Mi rammento mia madre e la sua disponibilità, giorno dopo giorno al servizio della famiglia, o meglio al servizio della vita e degli altri. Il cibo era il fabulare gratuito più spontaneo, regalato a tutti noi, ma anche a sconosciuti ospiti. Era il suo modo di invecchiare e di congedarsi, ma anche un mezzo per esprimere valori culturali essenziali tramandati di generazione in generazione. Era un modo di interpretare la realtà attraverso la quotidianità e la semplicità dei gesti. Per lei il cibo era l’ingrediente creativo, la tavolozza dei sapori e dei profumi alla base della comunicazione, trama “spirituale” di un mondo in contrasto con il “mordi e fuggi” del nostro tempo e con l’inevitabile pianificazione del gusto. Durante la mia infanzia, il piacere diventava godimento quando si rispettava il tempo dell’attesa per la maturazione di un frutto, di un profumo o di un sapore in sintonia con la sua territorialità. Un piacere che si moltiplicava quando era condiviso, suffragato da una motivazione, da una festa, da un rito. Penso che questi valori possano continuare ad essere il segreto anche della cucina contemporanea e che un piatto possa esprimere, ancora in modo semplice, l’essenzialità dei profumi e delle percezioni stagionali, preferibilmente se farcito di sensibilità e di tanto amore per le proprie origini. È tra i compiti dell’Ecomuseo riscoprire una memoria che sia tramite con la realtà, cucire strappi e lacerazioni, rinsaldare fratture tra le generazioni, tra le comunità locali e regionali. Valorizzare il proprio patrimonio culturale non è una forma nostalgica, ma un metodo filologico per ripristinare una prassi storica, rigenerare una “cultura ufficiale” spesso narcisista con evidenti principi di retorica. Nel passato le comunità erano aperte, in simbiosi con il proprio territorio, traghettate verso mete lontane e contemporaneamente chiuse a difesa delle “risorse” territoriali conquistate con tanta fatica. Così oggi il territorio dell’Ecomuseo esprime un vasto patrimonio storico e naturalistico, una trama infinita di leggende, storie e progetti da narrare. La tavola rimane il mezzo più immediato per porsi in sintonia con i luoghi, e il racconto ha bisogno della presenza dell’altro, di uno spazio di amicizia che lo possa ospitare, di uno scorrere del tempo fuori dalle convenzioni dove poter sostare e trovare comprensione e condivisione. La tavola diventa lo spazio ideale per fare riemergere ricordi, memorie e gesti rituali di affetto racchiusi nel cibo, che rimandano a racconti carichi d’immagini che si animano. Ultimamente, con la globalizzazione, ci siamo accorti di non essere soli e che i confini sono sempre più sfuocati. La massiccia immissione sul mercato di prodotti provenienti da tutte le parti del mondo sembra azzerare il tempo e lo spazio e le tradizioni gastronomiche diventano sempre più fragili e preziose. Oggi abbiamo la necessità di fissare questo patrimonio, di raccontare le peculiarità di una storia fatta di molteplici e variegati sapori e profumi, ma anche di tanta antica sapienza che ci aiuti ad immaginare una comune appartenenza. Per tutti noi che abitiamo lo stesso pianeta, la tavola può divenire una possibilità di condivisione e di amicizia. Tramandare la cultura della memoria e le scansioni temporali come canovaccio della cultura popolare, sulle quali ricamare il patrimonio dei gesti rituali, è un processo pedagogico gioioso, utile non solo a ripristinare una corretta abitudine alimentare, ma anche a riconquistare il senso dell’incanto e dello stupore. Un’operazione che si sta attuando attraverso la professionalità e la passione degli operatori del settore, ambasciatori della nostra terra, che hanno recuperato un patrimonio gastronomico facendo conoscere la nostra tradizione in tutto il mondo. Se apprezziamo il piacere e il gusto di un piatto, quel luogo rimarrà parte di noi e la memoria sarà utile a scoprire nuove giovinezze. “Patrimonio, territorio e popolazione è la visione culturale dell’Ecomuseo”. H. De Varine Tortelli di zucca Fausto Scalvini Presidente Associazione Ecologica Museo Oglio Chiese Ente gestore dell’Ecomuseo 23 IL FABULATORE RACCONTA Una finestra aperta sul mondo tra immaginazione e realtà Il fabulatore era un personaggio importante nella trasmissione orale della cultura per le sue naturali capacità di memorizzare e comunicare storie, leggende, tradizioni, esperienze, proverbi, giochi e comportamenti, ma anche vissuti personali. I racconti, reali o fantasiosi, tramandati dai fabulatori erano l’espressione di un sapere e di una creatività semplici ma efficaci. I rigori della stagione invernale obbligavano la comunità a riunirsi negli unici luoghi caldi ed il fabulatore aveva un ruolo importante all’interno del gruppo: animava la serata davanti al camino, oppure, alla luce di una lucerna, nella stalla o nell’osteria. Spesso la storia si dipanava svogliatamente, poi la fantasia si dilatava attraverso una complicità sempre più stretta tra narratore e ascoltatori e l’abilità si manifestava seguendo curiose pantomime regolate dalle strategie della narrazione popolare. Attraverso le tecniche della curiosità, del fantastico, dell’inedito e dell’imprevisto, egli attirava l’attenzione ed instaurava una tensione narrativa trascinante. Faceva leva sulle memorie e sulle emozioni, spesso chiudeva con inedite soluzioni sconcertando ancora una volta gli ascoltatori. Ogni gruppo aveva il suo narratore, spesso una persona anziana o ricca di esperienze, che aveva viaggiato e conosciuto ambienti diversi. A lui era demandato il compito di trasmettere alle nuove generazioni non solo ricordi di famiglia, ma anche il patrimonio culturale della comunità; con la sua piccola o grande storia da raccontare e da condividere con ironia, contribuiva ad esorcizzare la paura e la fatica della vita. 24