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Bozza mese di Gennaio Agenda 2012
Ogni posto è una miniera. Basta lasciarsi andare. Darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l’amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità davanti al quale ci si potrebbe fermare senza più bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scovare. (Tiziano Terzani da “Un indovino mi disse”) Cava a cielo aperto per cementificio - Valsugana (Ph U.S.) Minatore al lavoro Ricostruzione (Ph U.S.) ponte ecc (Ph. ) 39 Gennaio 2012 L’uomo e la roccia (pietre e minerali) Miniere e minerali in Italia Solfuri e ossidi ferrosi negli skarn di Rio Marina, dovuti a metamorfismo di contatto. Miniera a cielo aperto, Isola d’Elba (Ph M.M.) 40 L’Italia non è certo un paese ricco di grandi giacimenti minerari. Se si escludono i giacimenti di mercurio del Monte Amiata, tra i più importanti al mondo, peraltro ormai non più sfruttati, il nostro paese non può certo competere con i colossi dell’estrazione mineraria. Tuttavia, se invece si fa riferimento alla eterogeneità di situazioni, si può ben dire che il territorio italiano, e il territorio alpino in particolare, presentano una quantità davvero ragguardevole di motivi di estremo interesse. La presenza di una grandissima varietà di rocce, la situazione geologica particolarmente complessa, in corrispondenza di una grande sutura di contatto tra zolle continentali, l’esistenza di alte montagne, di vulcani, di antichi bacini di accumulo di evaporiti e altri contesti peculiari rende il nostro territorio un crogiolo di varietà mineralogiche, tanto che da tempo immemorabile attira l’attenzione degli studiosi a livello internazionale. Basti pensare che delle circa 4.000 diverse specie mineralogiche conosciute, solo 200 delle quali comuni, in Italia ne sono segnalate oltre 1000, il che è moltissimo se si con- sidera la limitata estensione territoriale. Alcune specie sono addirittura esclusive dell’Italia, cioè esistono solo da noi e in nessun’altra parte del globo, altre sono state scoperte in Italia e prendono il nome dalle località nelle quali furono descritte la prima volta, come ad esempio Bavenite, Canavesite, Fassaite, Piemontite, Vesuvianite, Vigezzite, o il nome dei loro scopritori, come Scacchite, Artinite ecc.. La gran parte di queste specie mineralogiche non presenta interesse estrattivo ed economico, tuttavia ha notevole interesse scientifico e potrebbe in futuro anche trovare applicazioni in campo tecnologico. Non a caso la storia della ricerca mineralogica italiana ha origini antiche, nascendo con gli Etruschi e con i Romani, che estraevano ferro, rame e metalli preziosi in molte regioni, e continuando con illustri scienziati che diedero fondamentali contributi alla conoscenza delle scienze della terra, tra i quali annoveriamo anche Quintino Sella, fondatore del CAI Tra le regioni più ricche e interessanti, procedendo da nord a sud, citiamo tutte le regioni alpine, specialmente nel settore occidentale, oltre a Liguria, Marche, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia e Sardegna, regione della quale si parla specificamente in un’altra parte di questa Agenda. Lungo sarebbe l’elenco dei “gioielli” mineralogici italiani, ricercatissimi dai collezionisti di tutto il mondo, quindi ci limitiamo a citare gli esempi più famosi: i quarzi del ghiacciaio del Museo minerario elbano, ubicato in parte all'interno di una vecchia miniera, Isola d’Elba (Ph M.M.) Cave di pomice, Isole Eolie-Lipari (Ph M.M.) 41 42 Miage, già ricercati nel Medioevo, quando i “cristallieri” li portavano ai mastri vetrai veneziani; l’oro delle miniere della Valle d’Aosta, con masserelle e pepite del peso di centinaia di grammi; le vesuvianiti, gli epidoti e i granati di Bellecombe (Aosta) e delle valli d’Ala e Antrona; i rarissimi minerali a livello mondiale della Val Vigezzo e della Val Formazza, come cafarsite, armenite, vigezzite, fersmite, roggianite, synchisite, xenotimo, talvolta accompagnate a cristalli di berillo nella varietà smeraldo; i quarzi ametista, le scheeliti e le dolomiti di Traversella nel Canavese; i grandi ortoclasi e le oltre cento specie diverse segnalate nelle sole cave di Baveno sul lago Maggiore; i favolosi granati nella varietà verde detta demantoide della Val Malenco, i più belli del mondo per la specie; le titaniti e gli zirconi della Valle Aurina; le piriti e le ematiti di Massa Marittima e dell’Isola d’Elba; ancora le gigantesche piriti di Gavorrano (Grosseto) e i trasparenti gessi di Niccioleta; i piccoli ma purissimi quarzi e i rari solfosali contenuti nei marmi di Carrara e nelle Alpi Apuane; gli zolfi del Montefeltro e della Sicilia (questi ultimi sono i più grossi cristalli esistenti al mondo); i minerali delle rocce vulcaniche della Toscana meridionale, del Lazio e del Vesuvio, per terminare con le rarissime e spettacolari fosgeniti, ormai introvabili per la chiusura delle miniere di piombo di Monteponi, e altri minerali di argento e rame della Sardegna. Un cenno particolare riguarda i minerali alpini. A volte non si tratta di cristallizzazioni di grosse dimensioni, tuttavia per la purezza e la bellezza di certe specie, oltre che per la grande varietà morfologica e cromatica, sono ricercatissimi e spesso oggetto di collezioni tematiche. La ricerca in ambiente di alta montagna è particolarmente difficile, avara e faticosa, ma avvincente. I luoghi migliori dove cercare sono le morene glaciali e gli sfasciumi ai piedi delle cime, oltre alle discariche delle vecchie miniere. Tra i minerali tipicamente alpini, citiamo albite, adularia, titanite, brookite, anatasio, rutilo, zircone, zeoliti, oltre a quarzi con forme inconsuete (“avvitati” su se stessi, a “scettro”, “fantasma”, policromi ecc.). Per concludere questa breve rassegna sui minerali alpini e italiani in genere, va detto che la ricerca mineralogica è bellissima e appassionante, ma che tuttavia richiede buona preparazione tecnico-scientifica e anche buona esperienza di montagna, ad evitare situazioni pericolose per sé e per gli altri. Va ricordato inoltre che l’ingresso in miniere o cave anche abbandonate è molto rischioso e di norma severamente vietato, e che se ci si vuole dedicare a questa bellissima attività occorre, preventivamente informarsi su eventuali divieti o limitazioni locali esistenti e richiedere in anticipo i permessi necessari, ad evitare severe sanzioni e anche procedimenti penali nei casi più gravi. A differenza della raccolta dei fossili, vietata su tutti il territorio nazionale, la ricerca e la raccolta dei minerali è generalmente consentita, salvo limitazioni o totali proibizioni nelle aree protette, parchi nazionali e regionali, e per questo occorre sempre informarsi prima di programmare un’uscita. In tutte le regioni esistono gruppi di amatori ai quali consigliamo di rivolgersi per compiere in tutta sicurezza le prime visite guidate. L’attrezzatura richiesta comprende una mazzetta di almeno un kg di peso, un paio di scalpelli, guantoni per proteggere le mani, occhiali protettivi contro le schegge, robuste pedule, una lente a 8 ingrandimenti, scatoline e carta per imballare i campioni raccolti, oltre all’abbigliamento adatto alla quota e alla stagione. Non bisogna pretendere di trovar con facilità campioni con cristalli di grandi dimensioni, mentre è abbastanza frequente rinvenire cristallizzazioni di pochissimi millimetri che però all’osservazione con la lente o meglio ancora con il microscopio binoculare a 12 o 24 ingrandimenti appaiono ancor più belli e spettacolari dei campioni macroscopici. Il pregio di un esemplare è molto maggiore se i cristalli sono ancora ben impiantati sulla loro “roccia madre”, mentre se sono staccati da essa il pregio del campione diminuisce moltissimo. Esiste una folta schiera di collezionisti specializzati nella ricerca dei “micro mounts”, cioè delle “microscopiche montagne”. Il personale ritrovamento dei primi campioni, sempre operando nel rigoroso rispetto dell’ambiente, è una soddisfazione che resta indelebilmente nel ricordo di ogni collezionista, a prescindere dal valore o dall’importanza del minerale. Marco Majrani (CAI Milano) a fianco: Cava di marmo sopra Seravezza,, Alpi Apuane (Ph. M.M.) Vallone di Fantiscritti. Attrezzi dei cavatori, Alpi Apuane (Ph M.M.) 43 Museo ??? (Ph M.M.) Donne in miniera Il lavoro delle donne nelle miniere della Sardegna. Le cernitrici Murales a Montevecchio (Ph U.S.) 44 Miniera di Montevecchio Cantieri di Ponente (Ph R.M.) L’attività mineraria in Sardegna ha origini antichissime. Grazie alla ricchezza di minerali di cui dispone, l’isola viene sfruttata già in epoche remote, ma dalla metà dell’ottocento lo sfruttamento dei bacini metalliferi della regione si fa intensivo. In quegl’anni infatti nascono le prime società minerarie, sorgono le prime miniere organizzate, composte da impianti per l’estrazione e la lavorazione del minerale e da insediamenti abitativi a ”bocca di miniera”. All’interno delle gallerie lavorano esclusivamente gli uomini, mentre in superficie lavorano le donne. Nei piazzali esterni alle gallerie, le donne hanno il gravoso compito di fare la cernita dei minerali estratti. Il lavoro delle cernitrici consiste nel separare, manualmente, il minerale ricco dalle pietre sterili che vengono scartate. Sotto il sole d’estate, sotto la pioggia d’inverno, in mezzo alla polvere e ai detriti, le cernitici svolgevano il loro duro compito, per otto, dieci ore al giorno, scalze, malvestite e mal pagate. Il minerale, estratto dagli uomini nelle viscere della terra, arrivava in superficie prima all’interno di ceste, poi con l’avanzata della meccanizzazione, all’interno di vagoncini. Veniva scaricato su delle griglie dove iniziava la prima grossolana scelta. Le pietre sterili venivano scartate e trasportate in spalla alla discarica, invece il minerale ricco di metalli, sempre con l’utilizzo di pesanti bardelle veniva trasportato su un altro settore del piazzale per essere frantumato, a mano con grossi e pesanti martelli. Una volta frantumato, veniva insaccato e caricato sui carri che lo trasportavano fino al porto, per il successivo imbarco per il continente. Ogni sacco prima di essere caricato sul carro veniva pesato e se il suo peso era inferiore agli 80 kg, il sorvegliante impartiva severe punizioni alle lavoratrici. Punizioni che potevano arrivare fino all’allontanamento dal luogo di lavoro, con la conseguente perdita della paga giornaliera. Le condizioni di lavoro erano estremamente faticose, una donna in miniera non aveva diritto a nessun tipo di tutela né ad alcuna assistenza. Pagate “alla giornata”, non godevano di ferie o di malattia; lavoravano a cottimo, in turni massacranti, esposte a vessazioni e soprusi da parte dei sorveglianti. Abbruttite dalla fatica e dallo sfruttamento, spesso dimenticavano persino di essere donne. A ricordarglielo frequentemente, purtroppo, erano le sgradite attenzioni dei sorveglianti che con la minaccia del licenziamento, approfittavano di loro, umiliando ulteriormente queste sfortunate lavoratrici. Il lavoro delle cernitrici non si concludeva con la fine del turno in miniera, infatti nel percorrere il sentiero che le conduceva alle loro case, raccoglievano la legna per il focolare, qualche frutto o qualche verdura per la cena. Venivano dai paesi vicini, a piedi, tutte assieme per difendersi e farsi coraggio le une con le altre. Partivano la mattina presto che era buio e rientravano che il sole era nuovamente calato; le più fortunate avevano alloggio nelle baracche costruite attorno alla miniera. Dormitori costruiti dalla società mineraria. Proprio all’interno di una di queste baracche, il 4 maggio del 1871, undici donne persero la vita, travolte dal crollo di un serbatoio d’acqua industriale, costruito sopra il loro misero rifugio. Molte di loro erano poco più che bambine. Non avevano nessun contatto di lavoro con la società mineraria e le loro famiglie non ricevettero alcun risarcimento. Per queste povere vittime, un monumento alla memoria e una piazza a loro intitolata… solo qualche anno fa… al centro di Montevecchio, uno dei tanti paesi minerari della Sardegna sud occidentale, dove dalla metà del’800 fino al 1941, centinaia di donne hanno lavorato, ammalandosi nello svolgere la loro mansione. A Montevecchio, una delle più grandi e importanti miniere di piombo, zinco e argento d’Europa, nel 1941, con la Seconda Guerra Mondiale alle porte e la sempre maggiore richiesta di minerale per alimentare l’industria bellica, scompare il lavoro delle cernitici; ingoiato da frantoi meccanici, da nastri trasportatori e da moderni metodi di separazione dei metalli, basati su reazioni chimiche. Il progresso mette fine allo sfruttamento delle donne in miniera….E impedisce loro di poter ancora contribuire, seppur in maniera misera e con immani sacrifici, all’economia del loro bilancio familiare. Per le donne in miniera non c’è più posto. E’ la fine di un epoca. Roberta Melis (CAI Nuoro) Montevecchio: Monumento alle donne cadute incidentalmente (Ph U.S.) 45 Miniera di Montevecchio Cantieri di Ponente (Ph R.M.) Miniere: da luoghi fatica e lavoro a luoghi di cultura Interno di una miniera -Predoi (TAA) - Ph U.S.) 46 Entrata alla Miniera Predoi TAA - (Ph U.S.) Col S. Lucia (Belluno) vagoncino di miniera (Ph G.B.) Nell’arco alpino sono numerosi gli esempi di miniere abbandonate nei secoli scorsi, per motivi vari quali l’esaurimento della materia prima estratta, la poca rendita, la mancanza di personale disponibile a lavorare alle condizioni richieste da luoghi spesso bui, poco areati, nelle profondità della terra, magari lontano dalla famiglia e con turni a rotazione. Molte di queste sono oggi recuperate come luoghi turistici, visitabili a piedi, con l’accompagnamento di personale specializzato e opportunamente preparato. Non solo: oltre alle classiche offerte di visita alle gallerie, alle camere di estrazione, ai ruderi degli stabilimenti di lavorazione e magari anche ai dormitori, alle cucine, ecc…spesso si affianca la valorizzazione culturale: è possibile assistere a numerosi concerti, spettacoli con letture nel cuore della montagna, dibattiti ed incontri, convegni nelle aree di accoglienza esterne. Le miniere abbandonate sono diventate così luoghi in cui la cultura non si identifica con beni di pregio che interessano solamente una cerchia privilegiata di persone, ma nell’insieme di architettura, tradizioni, storia, dialetti, lingua, musica, natura, religione e enogastronomia e quant’altro faccia parte integrante del territorio interessato. Una cultura accessibile a tutti: una cultura viva, che si respira, una cultura in movimento, in trasformazione. Spesso non ci si ferma alla sola miniera, ma questa è inclusa in una rete ecomuseale che è espressione concreta dei principi della sostenibilità, della responsabilità e della partecipazione congiunta di soggetti pubblici, del comparto produttivo privato e dei cittadini. Il concetto di patrimonio assume un significato simile a quello di territorio, e include la storia delle persone e delle cose, gli elementi della cultura tradizionale che sono ancora presenti, il visibile e il nascosto, il materiale e l’immateriale, la memoria ed il futuro, in una trama culturale che unisce i vari settori di un luogo. Le azioni svolte dagli Ecomusei comprendono la conservazione e valorizzazione del patrimonio locale, la realizzazione di prodotti turistico-culturali, la ricerca e la formazione di operatori locali, l’animazione della comunità stessa, la comunicazione con il territorio circostante, l’attivazione di reti locali, nazionali e internazionali. Gli Ecomusei rappresentano pertanto una concreta possibilità di facilitare la permanenza della popolazione nei piccoli centri delle vallate, di dare nuove prospettive di lavoro, anche qualificato, di aprire ambienti di pregio ad una frequentazione turistica. Serena Maccari (CAI Pinasca) La miniera come luogo didattico - Predoi TAA - (Ph U.S.) 47 Il minatore All’ inizio, quando si scende in miniera, si ha soprattutto paura del buio. Non si vede niente là dentro. Si sente un pericolo E ci si domanda da dove arriverà. A me, la prima volta, ha ricordato la guerra, la paura che avevo al primo attacco. Poi, con il tempo ci si abitua. Si va avanti. Qualche volta si prende qualche rischio E la paura se ne va. Anche quando capita un incidente Non si teme più di tanto Perché si sa che è la galleria B1 che è crollata. Sfortuna, solo sfortuna. E si ritorna ……… (da “Alba Nova - poesie” di G. Mollo e A. Orlando - Palladio Editrice - Salerno ‘89 48 GENNAIO 201 2 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì 쐡 쐠 49 쐟 쐞 쐡 GENNAIO 2012 50 1. I primi utensili dell’uomo (selce, ossidiana, ecc.) L’uomo si differenzia dalle altre specie viventi per la sua capacità di manipolare la materia prima disponibile in natura. L’uomo preistorico ha utilizzato pietra, legno, argilla, ossa, pelle, conchiglie nella produzione di manufatti. I primi utensili in pietra costruiti dall’uomo hanno un’età di due milioni di anni. La tecnica utilizzata per la lavorazione della pietra è la scheggiatura. Successivamente, a partire dal Neolitico, oltre alla scheggiatura entra in uso la levigatura. I tipi di rocce utilizzate per la scheggiatura spazia da quelle di origine vulcanica quali lava, ignimbrite ed ossidiana, a quelle sedimentarie quali selce, chert (molto simile alla selce ma dal colore più chiaro e meno ricca in contenuto di silice), diaspro, calChopper Ricostruzione di neandertaliano nell’atto di scheggiare la selce; il modello è esposto nel Neandertal Museum di Mettmann in Germania (da Archeo, n.7, 1999). vando un margine tagliente più o meno sinuoso attraverso uno o più distacchi effettuato su uno o su entrambi i lati. Per produrre un chopper sono necessari una decina di colpi di un percussore sulla pietra da lavorare. La lavorazione della pietra implica una fratturazione intenzionale mediante percussione con un oggetto solido. Questo manufatto è detto percussore; esso può essere di pietra, di legno duro, d’osso o di corno animale. La percussione può essere: percussione diretta, realizzata colpendo direttamente il nucleo Bifacciale leolitico inferiore e medio, l’ultima il Paleolitico superiore. Successivamente nel Neolitico l’uomo compì grandi passi e le principali innovazioni riguardano principalmente il campo agricolo. L’aratro fece la sua comparsa nel 6° millennio a.C. ed è un invenManufatto litico 10 cm Staufer-Allison coll. Chase Co. cedonio, opale, quarzo ecc, alle rocce metamorfiche quali la quarzite). In Europa è stata sfruttata più frequentemente la selce, che si trova in varie formazioni calcaree sotto forma di noduli di diverse dimensioni e forme, distribuiti in banchi, o sotto forma di straterelli lenticolari. I primi utensili erano semplici ciottoli scheggiati, non rifiniti, sia su una sola faccia “chopper”, sia su entrambe “chopping-tool”. Questo strumento si ottiene da ciottoli o blocchi spigolosi rica- con un percussore; percussione indiretta, realizzata interponendo tra il percussore e il nucleo uno scalpello (di osso o di corno); percussione su incudine, realizzata battendo un blocco di pietra o un nucleo su una pietra fissa a terra usata come incudine. Successivamente si riconobbero tre grandi categorie di industrie litiche: le industrie bifacciali, le industrie della scheggia e le industrie della pietra scheggiata in lame. Le prime due caratterizzano il Pa- zione che si può attribuire alle culture della Mesopotamia (parte dell’attuale Iraq, compreso tra il Tigri e l’Eufrate) e dal quale si diffuse in Egitto. L’aratura fu fondamentale per l’agricoltura, dato che le zolle di terreno devono essere smosse per portare gli strati ricchi di Sali minerali in superficie e favorire la penetrazione dell’acqua e dell’aria. Già alla fine del Mesolitico l’uomo aveva scoperto le proprietà dell’argilla che, impastata con acqua ed essiccata al sole, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 D L M M G V S D L M M G V S D Percussione indiretta Percussione su incudine Arago (Francia) hacherreau Isernia La Pineta: ciotoli scheggiati Isernia La Pineta: manufatti in selce conservava la forma con cui era stata plasmata. Nel Neolitico l’essiccatura fu fatta col calore del sole o la cottura nel forno. I vasi così ottenuti divenivano più resistenti ed impermeabili. Col passare del tempo i vasi furono anche decorati. La ruota si diffuse nel 4 millennio a.C. e fu usata per la prima volta in Mesopotamia. All’inizio la ruota era pesante e il suo perno si spezzava facilmente, ma nel 2° millennio si utilizzò la ruota a raggi, più leggera e ma- GENNAIO 2012 Percussione diretta Notarchirico (Potenza): bifacciale 1 51 DOMENICA S. Maria Madre di Dio 52 . 1 - 365 7,38 - 16,49 neggevole, dalla quale derivarono anche il carro ed il tornio. Il carro facilitò le comunicazioni via terra, che rimanevano comunque difficoltose per l’assenza di vere e proprie strade. Le vie d’acqua furono le preferite e il mezzo che rese possibile viaggiarci attraverso fu la barca. Le prime barche ritrovate risalgono al 7500 a.C. ed erano rudimentali e senza vela; solo dopo, infatti, essa fu aggiunta. Claudia Palandri (CAI Ferrara) 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 L M M G V S D L M M G V S D L M GENNAIO 2012 52 2 LUNEDÌ SS. Nome del Signore 1 . 2 - 364 7,38 - 16,50 3 MARTEDÌ S. Genoveffa 1 . 3 - 363 7,38 - 16,51 4 MERCOLEDÌ S. Ermete e S. Tito 1 . 4 - 362 7,38 - 16,52 2. Le pietre da costruzione Nell’antichità, ma anche in tempi relativamente recenti, le popolazioni tendevano ad utilizzare i materiali locali per la costruzione delle proprie abitazioni. Il trasporto della pietra era ovviamente un’operazione molto faticosa e impegnativa, soprattutto quando il luogo dove edificare si trovava in zone impervie, lontano dal mare e dai fiumi, cioè in luoghi distanti dalle naturali vie di trasporto dei materiali pesanti. Questo limite appare particolarmente evidente nei luoghi di alta montagna, dove spesso le case, le chiese e tutte le strutture create dall’uomo appaiono ancor oggi come “emanazioni” stesse del substrato roccioso, quasi mimetizzate con esso. E così in Valmalenco troviamo le malghe costruite con le lastre di serpentino, in Val d’Ossola con le lastre di gneiss dette “beole”, nell’Appennino ligure con i tetti di ardesia e nelle Dolomiti con le pareti di dolomia o calcare. Se ciò appare evidente in montagna, nelle località costiere o situate lungo fiumi navigabili, invece, riscontriamo spesso anche in tempi antichissimi l’utilizzo di materiali da costruzione provenienti da zone lontane o addirittura situate oltremare. E’ questo il caso ad esempio dei templi di Roma, a volte edificati con marmo di Carrara o addirittura con pietre ornamentali provenienti dall’Egitto o dalla Grecia, anche se più frequentemente, come nel caso ad esempio del Colosseo, costruiti con blocchi di travertino che venivano estratti da cave situate nei dintorni di Tivoli, quindi a poca distanza dalla capitale dell’impero. A partire dal XV secolo, la fabbrica del Duomo di Milano si serviva dei materiali marmorei provenienti dalle cave di Candoglia, in Val d’Ossola: i materiali però arrivavano al capoluogo grazie al trasporto sul Lago Maggiore e quindi sul Ticino e sui canali navigabili fatti realizzare su progetti di Leonardo da Vinci. Nei tempi antichi come ancor oggi un buon compromesso viene ottenuto realizzando le parti “portanti” della costruzione con materiali magari più poveri ma più facilmente reperibili in loco, e le parti di rivestimento con materiali invece più pregiati, che venivano lavorati e tagliati nei luoghi di estrazione e trasportati a destinazione in lastre o piccoli blocchi. Tra le pietre di origine alpina più pregiate e utilizzate citiamo i graniti rosa di Baveno, i bianchi di Montorfano, le sieniti del Biellese, gli gneiss ossolani, il marmo Botticino, i porfidi della Val di Cembra, il calcare rosso ammonitico di Verona, le dolomie e i calcari delle Alpi orientali, le trachiti dei Colli Euganei. Marco Majrani (CAI Milano) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 D L M M G V S D L M M G V S D 6 VENERDÌ S. Amelia 1 . 5 - 361 7,38 - 16,53 Epifania del Signore 1 . 6 - 360 7,38 - 16,54 La voragine della cava di marmo nel vallone di Fantiscritti, Alpi Apuane (Ph. M.M.) 7 SABATO S. Luciano e S. Raimondo 8 DOMENICA Battesimo del Signore 1 . 7 - 359 7,38 - 16,55 53 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 L M M G V S D L M M G V S D L GENNAIO 2012 5 GIOVEDÌ M GENNAIO 2012 54 9 LUNEDÌ S. Giuliano martire 2 . 9 - 357 7,37 - 16,57 10 MARTEDÌ S. Aldo eremita 2 . 10 - 356 7,37 - 16,58 11 MERCOLEDÌ S. Igino Papa 2 . 11 - 355 7,37 - 16,59 3. Miniere Attualmente l’estrazione mineraria in Italia è ridotta ai minimi termini. La consistenza e l’estensione dei giacimenti non è tale da giustificarne la coltivazione in termini economicamente convenienti. Per questo motivo, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, quasi la totalità delle miniere nazionali hanno chiuso i battenti. L’eterogeneità delle situazioni geologiche presenti sul nostro territorio, tuttavia, consentirono in passato di creare numerosi distretti minerari di notevole importanza e tali da poter soddisfare buona parte del fabbisogno locale. Le miniere italiane, come nel resto del mondo, sono di due tipi: in galleria o a “cielo aperto”. Le prime, di gran lunga le più diffuse nella nostra Penisola, sono di gestione e di impostazione più complessa, anche se consentono di limitare il volume dei materiali di scarto, le seconde sono invece più convenienti e facili da coltivare ed espongono i minatori a rischi assai minori. Le principali miniere a cielo aperto erano quelle di pirite ed ematite dell’Isola d’Elba e della Toscana meridionale, e quelle di amianto di Balangero in Piemonte, mentre la citazione delle principali miniere con svi- Binari in galleria Montevecchio Ponente (Ph R.M.) luppo in profonde gallerie è assai più lunga e complessa. Partiamo dalle Alpi dove troviamo i giacimenti auriferi della Valle d’Aosta (soprattutto in Val d’Ayas) e di Pestarena in Valle Anzasca; le miniere piombo-zincifere e di tungsteno di Brosso e Traversella nel Canavese; le miniere di piombo delle valli bergamasche; i piccoli giacimenti uraniferi della Val Rendena, delle Orobie e del Cunese (Peveragno, Lurisia e Roburent); le miniere piombo-zincifere del Tarvisiano; nella Penisola erano importanti i giacimenti di zolfo del Montefeltro; di mercurio del Monte Amiata (tra i più importanti del mondo); gli zolfi siciliani; il carbone del Sulcis e sempre in Sardegna i giacimenti piombo-zinco-argentiferi di Monteponi e Montevecchio. Tutte queste miniere ormai mantengono un interesse solo per i collezionisti di minerali, essendo ormai chiuse da parecchi anni. Marco Majrani (CAI Milano) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 D L M M G V S D L M M G V S D S. Moodesto 2 . 12 - 354 7,37 - 17,00 13 VENERDÌ S. Ilario 2 . 13 - 353 7,36- 17,01 14 SABATO S. Felice 15 DOMENICA S. Mauro 2 . 14 - 352 7,36 - 17,02 55 2 . 15 - 351 7,36 - 17,03 Galleria - Montevecchio Ponente (Ph M.M.) 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 L M M G V S D L M M G V S D L GENNAIO 2012 12 GIOVEDÌ M GENNAIO 2012 56 16 LUNEDÌ S. Marcello Papa 3 . 16 - 350 7,35 - 17,04 17 MARTEDÌ S. Antonio abate 3 . 17 - 349 7,35 - 17,06 18 MERCOLEDÌ S. Liberata e S. Prisca 3 . 18 - 348 7,34 - 17,07 4. La calcara e la calce La calcàra (o calchera) era una rustica fornace dove si cocevano i sassi calcarei per produrre la calce. Essa aveva una forma a “nuraghe”, ovvero a tino in parte interrato, con una piccola apertura in alto. Sul lato anteriore si trovava la porta. Il suo profilo era circolare e l’altezza variabile fra i 3 e i 5 metri, con un diametro massimo di 3 metri, e risultava più stretta alle due estremità. La struttura di sostegno era costituita da grossi massi squadrati grossolanamente, e doveva resistere ad alte temperature, oscillanti intorno ai 1000°C. La parte sotterranea interessava la calcàra per una profondità di circa un metro ed era formata da un anello di sassi resistenti al calore, i quali costituivano il fornello. Sopra il fornello si poggiava quindi, con grande perizia, la volta, composta da sassi calcarei. La volta aveva doppia funzione di servire da forno per legna di cottura e da sostegno per i sassi da cuocere, che venivano caricati sopra. Ad ogni cotta la volta doveva essere rifatta. Un volta murata la porta, la calcàra conservava due aperture: una maggiore, detta bocàra, dalla quale si introducevano fascine e legna da ardere, ed una minore collocate in posizione inferiore alla bocàra, che serviva da respiro al fornello della calcàra. La calcàra si costruiva preferibilmente nei pressi di un pendio, per facilitare il caricamento dei massi dall’alto, e nelle vicinanze di un bosco, magari di una carbonaia, per procacciare in rapidità il combustibile; inoltre essa doveva trovarsi non molto distante da corsi d’acqua. Una volta preparato il tutto, massi e legname in sufficiente quantità, si accendeva il fuoco. Doveva essere un fuoco molto vivace, ottenuto bruciando tronchi di faggio o di abete finemente tagliati, e doveva durare ininterrottamente fino a otto giorni circa (in media 4-5 giorni in base al tipo di calcare). La temperatura tra gli 800 e 1000°C e l’operazione di mantenimento del fuoco erano seguite da almeno quattro addetti e sorvegliate da una persona di grande esperienza, il forniciaio. Per controllare lo stato di cottura si prendeva uno dei sassi e lo si buttava nell’acqua fredda per verificarne la tumultuosa (e pericolosa) reazione. Oppure si tendeva di forare un sasso utilizzando un apposito punteruolo di ferro; se si riusciva a penetralo la calce era pronta. Infine la calce veniva estratta dal forno mediante un lavoro delicatissimo e pericolosissimo. I sassi erano dunque trasformati in bianca calce, detta appunto calce viva. Questa veniva gettata in un’apposita fossa scavata sul terreno e irrorata d’acqua che provocava una vivace reazione chimica. Si otteneva così la calce idrata o calce spenta, pronta per essere utilizzata nella preparazione di malte per intonaci e per l’edilizia. Ugo Scortegagna (CAI Mirano) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 D L M M G V S D L M M G V S D S. Mario e S. Canuto 3 . 19 - 347 7,34 - 17,08 20 VENERDÌ S. Sebastiano e S. Fabiano 3 . 20 - 346 7,33 - 17,09 Calchera recuperata Feltrino (Ph A.B.) 21 SABATO S. Agnese 22 DOMENICA S. Vincenzo e S. Anastasio 3 . 21 - 345 7,32 - 17,10 3 . 22 - 344 7,32 - 17,12 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 L M M G V S D L M M G V S D L M GENNAIO 2012 19 GIOVEDÌ 57 GENNAIO 2012 58 23 LUNEDÌ S. Emerenziana 4 . 23 - 343 7,31 - 17,13 24 MARTEDÌ S. Francesco di Sales 4 . 24 - 342 7,30 - 17,14 25 MERCOLEDÌ Conversione di S. Paolo 4 . 25 - 341 7,30 - 17,15 5. La lavorazione dei metalli La preistoria dell’umanità è passata attraverso diverse epoche, che vengono tradizionalmente chiamate età della pietra, del rame, del bronzo, del ferro. I metalli si trovano raramente allo stato puro, o , come si dice in mineralogia, allo stato nativo: è il caso per esempio dell’oro, che è detto metallo nobile proprio perché si combina difficilmente con altri elementi. Anche l’argento e il rame si trovano spesso quasi puri, mentre il ferro nativo è molto raro. Piccoli oggetti di ferro, ricavato da qualche peraltro rara meteorite, erano già presenti nell’età del bronzo, ma la vera e propria età del ferro ebbe inizio solo quando si imparò a estrarlo dai suoi minerali più comuni, come magnetite ed ematite. Il bronzo è una lega di rame e stagno, molto più dura e resistente dei due metalli da cui prende origine. La vera e propria arte della metallurgia ebbe inizio quando l’uomo imparò a estrarre i metalli dai loro minerali principali, soprattutto ossidi e solfuri. Per farlo è necessaria una forte fonte di calore; non è sufficiente quindi la temperatura di un semplice fuoco di legna all’aria aperta, ma è indispensabile che il calore della combustione sia in qualche modo “concentrato” e non si possa disperdere facilmente. Quindi ci voleva un forno, al cui interno era posto il minerale sminuzzato; al di sotto il fuoco, abbondantemente ventilato e alimentato da una gran quantità di legna (il carbone verrà scoperto solo in tempi più recenti). Il prodotto fuso veniva quindi convogliato in alcuni stampi scavati nella pietra, e poi rifinito con un paziente lavoro di martellatura e affilatura. Uno degli oggetti più interessanti per l’archeologia è l’ascia di rame rinvenuta accanto al famoso Ötzi , l’uomo trovato congelato sul ghiacciaio del Similaun e risalente al 3200 avanti Cristo. Nei suoi ca- pelli è stato riscontrato un alto tenore di arsenico, un sottoprodotto comune nei minerali di rame, il che fa pensare che svolgesse anche l’attività di fonditore o fabbro. Alberto Majrani (CAI Milano) Chiavi dalle miniere di Ferro di Cibiana di Cadore (Ph U.S.) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 D L M M G V S D L M M G V S D S. Tito e S. Timoteo 4 . 26 - 340 7,29 - 17,17 27 VENERDÌ S. Angela Merici 4 . 27 - 339 7,28 - 17,18 Capodanno celtic (Ph M.M.) 28 SABATO S. Tommaso d’Aquino 29 DOMENICA S. Costanzo 4 . 28 - 338 7,27 - 17,19 59 4 . 29 - 337 7,26 - 17,20 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 L M M G V S D L M M G V S D L GENNAIO 2012 26 GIOVEDÌ M GENNAIO 2012 60 30 LUNEDÌ S. Martina 5 . 30 - 336 7,25 - 17,22 31 MARTEDÌ S. Giovanni Bosco 5 . 31 - 335 7,24 - 17,23 6. Non solo cave: le maestranze apuane della lavorazione della pietra Nel territorio apuano la vocazione lavorativa principale è l’escavazione del marmo. Oggi, grazie alle innovazioni tecniche, pur rimanendo un lavoro difficile e pericoloso, l’attività di cava si avvale di strumentazioni precise e macchinari efficaci, che permettono di estrarre grandi quantità di marmo e trasportarlo su ruota fino al laboratorio o all’imbarco più vicino. Ma fino agli inizi del secolo scorso... Prima di tutto l’escavazione era realizzata mediante l’uso di cunei di legno, o più raramente, quando il blocco era di notevoli dimensioni, con l’esplosivo. Il blocco prescelto, ancora inglobato nella montagna, era delimitato dai “tecchiaioli”, operai legati ad una corda, che infiggevano cunei di legno in nicchie scavate con lo scalpello (sciubbia) e che bagnati progressivamente si gonfiavano e permettevano il distacco del marmo. A questo punto il blocco si trovava in pros- simità del piazzale di cava, ma non c’erano strade che permettessero di spostarlo. Gli stessi cavatori arrivavano in cava percorrendo difficili sentieri per raggiungere il luogo dell’escavazione prima dell’alba. Per portare il masso a valle quindi, occorreva costruirsi una “via”. Queste “vie”, chiamate “vie di lizza” dovevano reggere il peso del o dei blocchi ed essere sufficientemente sicure per le persone che accompagnavano il prezioso materiale a valle. Solitamente era scelto un percorso lungo la massima pendenza del versante. Il tracciato era liberato da eventuali ingombri di piante e reso pianeggiante con una lastricata sul fondo. Una massicciata laterale rendeva stabile il percorso. Tutta l’opera era realizzata con la tecnica della muratura a secco e con il materiale che si trovava sul luogo. L’operazione si svolgeva nel se- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 D L M M G V S D L M M G V S D GENNAIO 2012 61 guente modo: veniva decisa una squadra di cavatori, chiamata la “squadra di lizza” e scelto un “capolizza”. Con il legname delle piante del luogo (solitamente castagno) veniva costruita una slitta, la “lizza” appunto. Su questa era assicurato il carico di marmo, “la carica”. La lizza, era manovrata dalla squadra che la calava lentamente lungo la via di lizza. Lungo il tracciato, ad intervalli regolari, erano realizzati, sempre con lo scalpello, fori circolari o quadrati nei massi di maggiori dimensioni e chiamati “piri”. Dentro ai fori venivano messe fascine di legno (solitamente faggio e castagno) che rappresentavano una sorta di “anima”: attorno a questa erano avvolte le corde di canapa, i “canapi”, che reggevano la carica e il suo attrito ne permetteva la frenatura Il capolizza era di fronte alla carica e decideva il percorso migliore da seguire. Sotto alla lizza venivano messi e spostati progressiva- mente i “parati”, pali di legno (ancora faggio o castagno) unti con grasso o insaponati che rendevano più agevole lo scorrimento della lizza. Uno o due cavatori quindi, facevano avanti e indietro vicino alla carica per passarsi i parati che rimanevano indietro e ne controllavano il grado d’usura e l’entità d’insaponatura o ingrassatura e procedevano all’eventuale sostituzione. Il capolizza controllava lo stato della via e la traiettoria della carica. Altri membri della squadra, stavano a monte e manovravano la carica: la lizza era calata con i canapi, che erano arrotolati con un numero di spire variabile attorno ai piri. Aumentando o diminuendo il numero delle spire, si calava più o meno velocemente o si fermava in caso di problema o pericolo la carica. I diversi ordini erano dati ai vari membri della squadra mediante grida e fischi convenzionali. Ovviamente i membri della squadra erano scelti in funzione della prestanza fisica e nel caso del capolizza, dell’esperienza. Ciononostante si sono verificati numerosi incidenti spesso mortali, dovuti proprio al cedimento della via di lizza. Erica Carlotti (CAI Massa) Foto selezionate da Erica Carlotti 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 L M M G V S D L M M G V S D L M